Azerbaijan Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/azerbaijan/ geopolitica etc Tue, 10 Oct 2023 07:38:16 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Il crogiolo caucasico tra i confini fittizi dei vincitori https://ogzero.org/il-crogiolo-caucasico-tra-i-confini-fittizi-dei-vincitori/ Mon, 09 Oct 2023 23:43:29 +0000 https://ogzero.org/?p=11677 Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – […]

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Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – soprattutto dall’esterno – si sono fatti prevalere contrasti etnici a condivisione di territorio tradizionalmente abitato da famiglie eterogenee, condizionate da invasioni e dominazioni variabili e costanti. E quando soffiano i venti nazionalisti si scompaginano le comunità per creare stati usati per soffocarle, ognuno secondo la propria tradizione verso il vicino; in questo caso è sintomatico come i paesi islamici più lontani come l’Algeria definiscano gli armeni cristiani colonizzatori, mentre l’Iran sciita come il popolo azero appoggi Erevan per mere questioni di metri di confine da salvaguardare, mentre il miglior alleato dei “fratelli altaici” azeri è il vicino sunnita Erdoğan, interessato alla creazione di un unico territorio ottomano senza interruzioni di confini.
Ciò che rende ancora più impellente l’abbandono della terra avita da parte della ex maggioranza armena fuggita dall’Artsakh è la ferocia autoritaria del regime dinastico ex sovietico… mentre perdurano i bombardamenti turchi sui curdi e i sionisti passano per vittime, pur essendo Nethanyauh dalla parte dei carnefici, come gli Aliyev o il despota Erdoğan; tutti in qualche modo collegati e con interessi intrecciati, tra le vittime dei contenziosi decennali mancano solo i saharawi. 


La secolare replica del genocidio armeno

L’attuale violenza (massacri, deportazioni…) subita dagli armeni rievoca fatalmente il genocidio del 1915.
C’ è ancora spazio per una qualsivoglia “soluzione politica” che garantisca minimamente i diritti della popolazione armena del Nagorno-Karabach?
Meglio non raccontarsi balle. Ormai – a meno di imprevedibili eventi di portata planetaria – la questione è chiusa definitivamente. Anzi, potrebbe anche andare peggio.
Non si può infatti escludere che dopo l’Artsakh venga invasa anche la stessa Armenia, in particolare il corridoio per congiungere l’esclave azera di Karki al confine con l’Iran (e la Turchia).

Vediamo intanto di riepilogare la tragica catena degli ultimi tre anni.
I bombardamenti azeri del 19 settembre avevano riportato nella cronaca un conflitto forzatamente dimenticato, tuttavia l’attacco di Baku contro il Nagorno-Karabach e quanto poi avvenuto ai danni del popolo armeno non calava inspiegabilmente dal cielo. Come già si era ipotizzato in agosto.
Era perlomeno probabile.
Il Nagorno Karabakh era una repubblica autoproclamata (ribattezzata con l’antico nome di Artsaj) abitata in prevalenza da armeni, ma posta forzatamente all’interno dei confini dell’Azerbaijan. E che già prima del 1991 si batteva per la propria indipendenza.

Pulizia etnica alternata

Nel conflitto del 1988-1994 la vittoria era andata agli armeni con la conseguente espulsione di migliaia di azeri.

Nella Seconda guerra del Nagorno-Karabach (autunno 2020) le parti si invertirono e per oltre 40 giorni l’esercito azero si scatenò sulla popolazione civile compiendo ogni genere di efferatezze. Qualificabili come una brutale pulizia etnica.
Al punto che molti armeni in fuga riesumarono i loro cari dalle tombe e fuggirono con le bare fissate al portapacchi delle auto dopo aver incendiato la propria casa.

L’evanescente interposizione russa

In realtà solo un terzo della provincia indipendentista era passato sotto il controllo di Baku, ma erano chiare le intenzioni di completare l’opera quanto prima. Nonostante la poco convinta opera di interposizione dei soldati di Mosca, soprattutto dopo che l’Armenia aveva accettato di partecipare a esercitazioni congiunte con truppe Nato (direi un autogol di Erevan).
Ovviamente anche all’odierna (definitiva?) sconfitta degli Armeni (anche per essere stati isolati e privati di mezzi di sussistenza da circa nove mesi) di fronte alle preponderanti forze azere, date le premesse, era fatalmente scontata.

Neottomanesimo via Baku

Smantellata l’amministrazione armena della enclave ribelle, Baku ha dichiarato di volere «integrarla totalmente nella società e nello Stato azeri».

Quanto alle voci di una possibile concessione di “autonomia”, la cosa appare piuttosto fantasiosa. Se nell’Azerbaigian non gode di alcun riconoscimento la consistente “minoranza” Talish (una popolazione di lingua iraniana che supera il milione di persone) cosa potrebbe toccare ai circa 120.000 armeni del Nagorno-Karabach? Peraltro ormai fuggiti nella quasi totalità e poco propensi a rientrare nonostante le rassicurazioni del governo di Baku.

La coltre di gas

Dal canto suo l’Unione Europea si guarda bene dall’intervenire pensando ai consistenti accordi con l’Azerbaijan in materia di gas.

Solidarietà al popolo armeno è stata espressa vigorosamente dal Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (Knk).

Nel comunicato ha denunciato «la tragedia umana che avviene sotto gli occhi del mondo nell’Artsakh (Alto Karabach) dove un centinaio di migliaia di Armeni sono costretti all’esilio». E il Knk ricordava anche le immagini terribili del 2020 con «i soldati azeri che tagliavano nasi e orecchie ai civili e vandalizzavano i monasteri».

Ovvio il parallelismo con quanto avviene “nelle zone curde occupate dalla Turchia” (il principale alleato dell’Azerbaigian).
Ma esiste anche un altro timore, ossia che “se cade l’Artsaj, cade anche l’Armenia”.

Una lingua di terra turca a unire Caspio e Mediterraneo

Già nel 2020 l’Azerbaijan aveva occupato territori ufficialmente dell’Armenia nella regione di Syunik. Una lingua di terra che si frappone alla dichiarata intenzione di Turchia e Azerbaijan di unire il Mediterraneo con il Caspio via terra. Ricordo che Turchia e Azerbaigian sono già confinanti grazie all’enclave azera di Najicheván che – toh, coincidenza! – Erdogan ha appena visitato per la prima volta.

Forse paradossalmente (visto che gli azeri sono in maggioranza sciiti come gli iraniani) l’unico paese con cui l’Armenia mantiene stabili e diretti rapporti commerciali (nel 2020 forse s’aspettava anche sostegno militare, ma invano) è l’Iran. La perdita della regione di Syunik le sarebbe quindi fatale.

L’analogo trattamento turco destinato ai curdi

Per il Knk comunque non ci sono dubbi «Si tratta di pulizia etnica orchestrata dall’Azerbaigian e dalla Turchia., motivata dall’ambizione geopolitica pan-turca che intende riunire queste due nazioni (…). Dopo 108 anni il popolo armeno si ritrova di nuovo vittima di massacri e deportazioni orchestrati dalle forze statali animate da odio razzista verso la cultura e il popolo armeno. Di conseguenza la pulizia etnica attualmente in corso nell’Artsakh deve essere considerata come la continuazione del genocidio armeno del 1915 perpetrato dai Giovani Turchi».
E conclude paragonando le attuali sofferenze degli armeni a quelle analogamente patite dai curdi a Shengal, Afrin e Serêkaniyê: «Nomi e vittime di questi massacri possono cambiare, ma le motivazioni rimangono identiche».

Diretto interventismo turco nell’area curdo-armena

Risalendo all’ottobre 2020 già allora appariva evidente come il conflitto tra Armenia e Azerbaijan fosse propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia.
Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si andava sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti (sunniti) provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri (sciiti) contro gli armeni cristiani.
Un destino, quello della cittadina al confine turco-armeno di Kars, analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanli nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste.

Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe stato quindi di che stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars».

D’altra parte era quasi scontato che Erdogan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto, mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

Niente di nuovo

2009

Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.
Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale “Hurriyet” ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993. Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdoğan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.
Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Anche per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista, quasi un progressista, comunque non un seguace di Erdoğan) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan, chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

1988

Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica Repubblica d’Armenia.
E il 20 febbraio 1988 – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno/azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Agdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armeni. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. È il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.
Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno-Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

1991

In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno stato indipendente sarà approvata con il 99% dei voti.
A questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).
Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.
A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.
Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – discretamente e solo a livello logistico – la Grecia.
Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex Urss (russi e ucraini).

Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.
Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti. Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14% del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (cessate il fuoco del 12 maggio) prendevano il via sotto la supervisione di Mosca.

Il fallimento del Gruppo di Minsk

1994

Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato Osce) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.
Tuttavia – almeno col senno di poi – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

Qualche considerazione in merito alle efficaci operazioni propagandistiche (soprattutto da parte di Baku e Ankara) rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato. Forse perché – tutto sommato – già allora conveniva schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale, Armenia.
Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il Nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974. Per non parlare della continua evocazione di una – non documentata – partecipazione di militanti del Pkk ai combattimenti (a fianco degli armeni ovviamente).

Nel frattempo (gli affari sono affari) la Francia non smetteva di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non era e non è l’unico paese a farlo naturalmente (vedi l’Italia che dovrebbe fornire anche minisommergibili). Ma la cosa appariva stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Per esempio, all’epoca, nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.
Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku colpivano direttamente la popolazione di Stepanakert.

E già allora in qualche modo il conflitto tra Armenia e Azerbaijan appariva propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne era addirittura la “vetrina”). Intravedendo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

Due parole poi sul ruolo assunto da Teheran

Anche se poteva apparire incongrua, da più parti si formulava l’ipotesi di un Iran deciso a schierarsi con l’Armenia nel conflitto con l’Azerbaijan.
Incongrua soprattutto pensando che in entrambi i paesi, Iran e Azerbaijan, è prevalente la fede sciita.

Ma poi (come forse era lecito aspettarsi) alcuni autorevoli esponenti politici iraniani erano intervenuti dichiarando che «l’Iran non sceglie l’Armenia a sfavore dell’Azerbaijan».

Il giornalista Raman Ghavami si diceva convinto che «sia probabile che dovremo assistere a una significativa collaborazione tra l’Iran, la Turchia, l’Azerbaijan (e presumibilmente anche la Russia a questo punto, N.d.A.) sia sull’Armenia, sia su altre questioni che interessano la regione».

Si sarebbe andato infatti configurando un nuovo livello di sostanziale collaborazione nelle relazioni tra Azerbaijan e Iran. Addirittura Teheran avrebbe (notizia non confermata) richiesto all’Armenia di “restituire” (nientemeno ?!?) il Nagorno-Karabakh a Baku.

Per Raman Ghavami in realtà l’Iran «da sempre preferisce rapportarsi con gli azeri sciiti piuttosto che con gli Armeni». Come avveniva già molto prima dell’insediarsi del regime degli ayatollah.

Nuovo intreccio dei destini armeni e curdi

A tale riguardo riporta l’esempio della provincia dell’Azerbaijan occidentale (posta entro i confini iraniani) che in passato era abitata prevalentemente da curdi e armeni.
Ma tale demografia venne scientificamente modificata, nel corso del Ventesimo secolo, dai vari governi persiani che vi trasferirono popolazioni azere. Sia per allontanarvi i curdi, sia per arginare gli effetti collaterali del contenzioso turco-armeno entro i confini persiani.
Molti armeni e curdi vennero – di fatto – costretti a lasciare le loro case.
Inoltre, in tale maniera, si creava una artificiosa separazione tra le popolazioni curde di Iraq, Turchia e Siria e quelle in Iran. Cambiando anche la denominazione geografica. Da Aturpatakan a quella di Azerbaijan occidentale.

Altro elemento di tensione tra Erevan e Teheran – sempre secondo Raman Ghavami – deriverebbe dal ruolo della chiesa armena nell’incremento di conversioni al cristianesimo da parte di una fetta di popolazione iraniana.

Legami finanziari Teheran-Baku

Da sottolineare poi l’importanza vitale, per un paese come l’Iran sottoposto a sanzioni, dei legami finanziari con l’Azerbaijan. Ricordava sempre Raman Ghavami come, non a caso, la succursale della Melli Bank a Baku è seconda per dimensioni soltanto a quella della sede centrale di Teheran.
Un altro elemento rivelatore sarebbe il modo in cui, rispettivamente, Baku ed Erevan hanno reagito alla cosiddetta “Campagna di massima pressione” sull’Iran in materia di sanzioni: mentre gli scambi commerciali tra Armenia e Iran si riducevano del 30%, quelli con l’Azerbaijan si intensificavano.
Ad alimentare la tensione poi, il riconoscimento da parte dell’Armenia di Gerusalemme come capitale di Israele. Una avventata presa di posizione di cui Erevan potrebbe in seguito essersi pentita. Vedi il successivo contenzioso (e ritiro dell’ambasciatore) a causa della vendita da parte di Israele di droni kamikaze IAI HAROP all’Azerbaijan.

Ulteriore complicazione (ma anche questa era forse prevedibile) la notizia che erano già in atto scontri armati tra i mercenari di Ankara inviati in Azerbaijan (presumibilmente jihadisti, sicuramente sunniti) e gli azeri sciiti.

Insomma, il solito groviglio mediorientale.

La spartizione di Astana: Russia e Turchia e gli oleodotti dell’Artzakh

Nel novembre 2020 si concretizzava poi un vero capolavoro di cinico realismo: gli accordi con cui Russia e Turchia si spartivano il Nagorno-Karabakh garantendosi il controllo della vasta rete di oleodotti che attraversano (o attraverseranno) il territorio storicamente conteso tra Armenia e Azerbaijan. Paese, quest’ultimo che fornisce alla Turchia un quinto delle sue importazioni di gas naturale (oltre a ingenti quantità di barili di petrolio dal Mar Caspio) direttamente all’hub di Ceyhan.
E qualche briciola non di poco conto andava anche al Belpaese (se abbiamo interpretato correttamente le dichiarazioni di Di Maio).
Ricapitoliamo. Il 10 novembre 2020 l’Armenia (il paese sconfitto) e l’Azerbaijan (il vincitore) firmavano un “accordo di pace” sotto la tutela ufficiale di Mosca e ufficiosa di Ankara.

Mentre le colonne dei profughi dal Nagorno-Karabakh) si allungavano per abbandonare il paese invaso dagli “alleati” (ascari?) di Ankara (l’esercito azero e le milizie mercenarie jihadiste qui inviate dai territori già invasi della Siria), iniziava il dispiegamento lungo la linea di contatto dei duemila – inizialmente – soldati russi (presumibilmente integrati con truppe turche, sul modello delle “pattuglie-miste” nel Nord della Siria). Durata prevista della loro presenza, cinque anni rinnovabili.

Un risultato niente male per Erdogan che vedeva ratificata la sua alleanza strategica con Baku. Così come venivano confermate le conquiste azere (almeno trecento insediamenti tra cui Susi, strategicamente rilevante). Non meno rilevante, l’acquisizione da parte dell’Azerbaijan di un collegamento diretto con Nachichevan (la sua enclave) e quindi con la Turchia.

Ovviamente gli armeni non l’avevano presa bene. A farne le spese il primo ministro Nikol Pashinyan (un leader “di plastica” secondo alcuni commentatori, messo su dall’Occidente un paio di anni prima per allontanare l’Armenia dal suo alleato tradizionale russo) di cui la piazza ha richiesto le immediate dimissioni.
Gli eventi sono noti: il palazzo del governo letteralmente preso d’assalto, il parlamento occupato e il presidente Ararat Mirzanyan che quasi rischiava di essere linciato dalla folla inferocita. I manifestanti erano anche andati a cercare direttamente a casa sua il primo ministro (presumibilmente non per una pacata conversazione), ma senza trovarlo (buon per lui, naturalmente).

L’interesse italico

a sei zampe…

Si diceva delle vaghe (o svagate?) dichiarazioni di Di Maio («Monitoreremo con attenzione gli sviluppi nelle aree dove si registra un particolare attivismo turco, vigilando affinché siano tutelati il rispetto del diritto internazionale, gli interessi italiani anche economici e con l’obiettivo di scongiurare qualsiasi escalation»). E chi vuol intendere...intenda.

Del resto, con buona pace della piccola Armenia, la cooperazione con l’Azerbaijan è da tempo consolidata. L’Italia – oltre che il maggior destinatario delle esportazioni petrolifere – risulta essere uno dei principali partner commerciali di Baku con un interscambio annuale – si calcola – di sei miliardi di euro. Sarebbero almeno tremila le imprese italiane che hanno investito nella repubblica caucasica. Risaltano in particolare Eni e Unicredit con interessi stimati in seicento milioni di dollari.

… e Leonardo-Finmeccanica

Cooperazione quindi ben consolidata, si diceva. Ma non solo in campo energetico. Magari indirettamente, anche militare. Risale, per dirne una, al 2012 la vendita di una decina di elicotteri Augusta Westland (società controllata da Leonardo-Finmeccanica), ufficialmente per uso civile (ma vengono in mente gli elicotteri venduti alla Turchia negli anni Novanta, su cui poi venivano applicate le mitragliere vendute separatamente). Nel 2017 l’amministratore delegato di Leonardo firmava a Baku – sotto lo sguardo del ministro Calenda – un accordo con la Socar (società statale petrolifera azera) per incrementare la sicurezza e l’efficienza delle infrastrutture energetiche grazie appunto alle tecnologie italiche.

Con un diretto riferimento al gasdotto di 4000 chilometri che la Socar stava realizzando per far giungere in Puglia e quindi in Europa (vedi la questione del Tap), dopo aver attraversato la Georgia, la Turchia, la Grecia e l’Albania, i previsti 20 miliardi di metri cubi (annuali) di gas di provenienza dall’Azerbaijan. Particolarmente rilevante e significativo il ruolo assunto da alcune aziende italiane (Snam S.p.A. di San Donato Milanese, Saipem, Eni, Maire Tecnimont…). Appare evidente come in tale contesto l’Armenia sia ormai fuori gioco, estromessa, marginalizzata (nonostante – a titolo di parziale consolazione – qualche ipocrita piagnisteo sul genocidio subito da parte della Turchia).

L’onnipresente invasività israeliana

Tornando alla breve, ma comunque devastante, guerra intercorsa nel 2020 tra Erevan e Baku, andrebbe poi approfondito il ruolo assuntovi da Israele.
Se la Turchia sembra aver fornito a Baku – oltre ai mercenari jihadisti – aerei e droni, cosa avrà fornito Israele? In qualche modo deve aver comunque contribuito visto che durante i festeggiamenti per la schiacciante vittoria, i manifestanti azeri inalberavano e sventolavano, oltre al vessillo nazionale e alle bandiere turche, numerosi drappi con la Stella di David.

Risalgono invece ai primi di ottobre (2023) le rivelazioni dell’intelligence francese sul fatto che i comandi militari azeri avrebbero ringraziato sentitamente Israele per il sostegno nel recente attacco al Nagorno-Karabach. Sia a livello espressamente militare (armamenti vari, soprattutto droni della Israel Aerospace Industries, della Rafael Advanced Defense Systems e della Israel Militari Industries), sia di intelligence (Mossad e Aman’s Unit 8200).
Sempre da fonti dell’Esagono risulta che nel corso del conflitto di settembre una quindicina di aerei cargo azeri sono atterrati nell’area militare di Ouda (Negev). Circa un centinaio di altri aerei cargo azeri erano ugualmente qui atterrati nel corso degli ultimi sei-sette anni. Presumibilmente non per rifornirsi di pompelmi. Inoltre Israele avrebbe fornito anche sostegno nel campo della Cyber Warfare (tramite l’Nso Group).
A ulteriore conferma dello stretto rapporto con Baku, il ministro israeliano della difesa si è recato recentemente nella capitale azera per verificare di persona l’efficacia del sostegno israeliano all’Azerbaijan.

Un bel caos geopolitico comunque

Proxy war disequilibrata

E arriviamo al febbraio di quest’anno, quando mentre a Erevan si ricordavano le vittime del pogrom del 1988, in Iran gli armeni manifestavano a sostegno della repubblica dell’Artsakh. Niente di strano.
Anche all’epoca dell’attacco dell’Azerbaijan ai territori armeni della Repubblica dell’Artsakh (con il sostegno di Ankara) nel 2020, c’era chi si aspettava un maggiore sostegno all’Armenia da parte dell’Iran, in linea con una certa tradizione. Dal canto suo Israele non mancava di mostrare sostegno (fornendo droni presumibilmente) alle richieste azere, ovviamente in chiave antiraniana. Misteri della geopolitica. Anche se poi sappiamo che le cose andarono diversamente, resta il fatto che comunque in Iran gli armeni costituiscono una minoranza tutto sommato tutelata, garantita (sicuramente più di altre, vedi curdi obeluci) e anche la causa dell’Artsakh gode ancora di qualche simpatia.

Commemorazioni dei massacri passati, in preparazione di quelli presenti

O almeno così sembrava leggendo la notizia del raduno di solidarietà con la popolazione armena della Repubblica dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) che si era tenuto presso il monastero di Sourp Amenaprguitch (Santo Salvatore) di Ispahan nella mattinata del 24 febbraio 2023 (nonostante, ci dicono, le condizioni atmosferiche inclementi). Oltre alle comunità armene di Nor Jugha (Nuova Djulfa, un quartiere di Ispahan fondato dagli armeni di Djulfa nel Diciassettesimo secolo) e di Shahinshahr, erano presenti molti armeni provenienti da ogni parte dell’Iran.
Numerosi gli interventi e i messaggi arrivati a sostegno alla causa della popolazione armena della Repubblica (de facto, anche se non riconosciuta in ambito onusiano) dell’Artsakh.

Quasi contemporaneamente, due giorni dopo, in Armenia venivano commemorate le vittime del massacro di Sumgaït (quartiere industriale a nord di Baku). Il presidente armeno Vahagn Khatchatourian con il primo ministro Nikol Pašinyan, il presidente del parlamento Alen Simonyan e altre figure istituzionali si sono recati al memoriale di Tsitsernakaberd a Erevan deponendo una corona e mazzi di fiori.
Il memoriale ricorda le persone uccise nei pogrom avvenuti (con la probabile complicità delle autorità azere) nel febbraio 1988 a Sumgaït, Kirovabad e Baku. Il massacro (in qualche modo un preludio alla guerra del 1992 in quanto legato alla questione del Nagorno Karabakh) sarebbe stato innescato da rifugiati azeri provenienti dalle città armene. Almeno ufficialmente. In realtà i responsabili andrebbero identificati tra i circa duemila limitčiki (operai immigrati delle fabbriche chimiche) a cui le autorità avevano distribuito alcolici in sovrabbondanza.
Se le fonti ufficiali azere parlarono soltanto di trentadue vittime, per gli armeni queste furono centinaia. Addirittura millecinquecento secondo il partito armeno Dashnak (oltre a centinaia di stupri).
Inoltre i militari inviati per fermare i disordini impiegarono ben due giorni per percorrere i circa trenta chilometri che separano Baku da Sumgaït. Vennero arrestate centinaia di persone, ma i processi si conclusero senza sostanziali condanne.

Guerra annunciata, forza di pace distratta

Tutti defilati… tranne i curdi

Nel marzo 2023, pressata da più parti affinché intervenisse, finalmente Mosca aveva parlato tramite il ministero della Difesa, accusando Baku di aver violato gli accordi sul Nagorno-Karabakh del 2020. Meglio tardi che mai, anche se la Federazione Russa appariva sempre più incerta (o disinteressata?) al destino dell’Armenia, praticamente abbandonata a se stessa (quasi da tutti sia chiaro, non solo dalla Russia; con la nobile eccezione dei curdi).
Eppure i segnali della possibilità di un ennesimo conflitto (guerra a relativamente “bassa intensità”) non erano mancati. Il 5 marzo si era registrato un altro scontro armato nel corridoio di Lachin (per gli azeri, di Zangezur) tra Stepanakert e Goris, bloccato ormai da tre mesi da presunti “manifestanti ecologisti” azeri. La sparatoria era avvenuta tra la polizia armena e i militari azeri che avevano arbitrariamente fermato un veicolo e – nonostante fosse costata la vita di cinque persone – era passata quasi inosservata.
Invano Nikol Pašinyan, primo ministro di Erevan, aveva richiesto, rivolto anche al tribunale internazionale dell’Onu, l’istituzione di una missione internazionale di indagine sulla situazione in cui veniva a trovarsi l’unica via di collegamento tra l’Armenia e la repubblica del Nagorno-Karabakh, ormai ridotta alla condizione di enclave sotto assedio, con oltre 120.000 persone di etnia armena sprovviste di cibo e medicinali. In base all’accordo trilaterale del 9 novembre 2020 (e riconfermato per ben due volte nel 2021 e ancora nell’ottobre 2022), alla Russia spettava il compito di controllare e assicurare i trasporti nel “corridoio” con una sua forza di pace.

Estrattivismo abusivo e pretestuoso ecologismo

Il pretesto avanzato dai sedicenti “ecologisti” azeri che da mesi bloccavano il passaggio sarebbe quello di poter controllare le miniere (private, non statali) di Gyzylbulag (oro) e di Demirl (rame e molibdeno) dove gli armeni avrebbero compiuto “estrazioni illegali”.
Dopo le ripetute accuse di “mancata osservanza dell’impegno di controllo”, fino a quel momento da parte di Mosca erano giunte soltanto rassicurazioni verbali (dicembre 2022). Ma anche la dichiarazione che «le forze di pace possono agire soltanto quando entrambe le parti sono d’accordo».

«Gli azeri continuano ad avanzare pretese massimaliste, senza concedere alcuna forma di compromesso», aveva denunciato Vagram Balayan, presidente della commissione affari esteri dell’assemblea nazionale del Nagorno-Karabakh. Sostanzialmente in quanto Baku “non intende riconoscere l’esistenza del Nagorno-Karabakh e del popolo dell’Artsakh”. Ossia, detta fuori dai denti, “vogliono soltanto farci scomparire dalla storia” (come sembra confermato dagli ultimi eventi). Costringendo gli armeni a scegliere tra un’evacuazione “volontaria” e la deportazione.

Fine annunciata

E intanto con il mese di agosto il tragico epilogo si profilava all’orizzonte.
Con gli Armeni del Nagorno-Karabakh ormai presi per fame, in un articolo di quei giorni mi ero chiesto se «si può già parlare di genocidio o dobbiamo aspettare qualche migliaio di morti per inedia?».
Domanda retorica ovviamente.

A un certo punto l’evidente, colpevole, latitanza della Russia (storicamente “protettrice “ della piccola Armenia) sulla questione del Nagorno-Karabakh sembrava aver lasciato campo aperto all’intervento pacificatore – o perlomeno a un tentativo di mediazione – di Unione Europea e Stati Uniti.
Ma l’irrisolta questione del Corridoio di Lachin (unico corridoio tra Armenia e Nagorno-Karabakh) conduceva fatalmente al nulla di fatto. E intanto per gli armeni del Nagorno-Karabakh la situazione continuava a peggiorare.
Chi in quei giorni aveva avuto la possibilità di percorrere le strade di Stepanakert parlava di lunghe file di persone che – dopo ore di attesa – ottenevano letteralmente un tozzo di pane. Per non parlare di quanti crollavano – sempre letteralmente – a terra a causa della fame. Almeno 120.000 persone colpite dall’isolamento totale e dalla conseguente crisi umanitaria (sia a livello sanitario che alimentare).
Senza dimenticare che – ovviamente – l’Azerbaigian da tempo aveva provveduto a interrompere il rifornimento di gas. Difficoltoso, in netto calo, anche quelli di energia elettrica e di acqua. A rischio le riserve idriche con tutte le prevedibili conseguenze.
Quanto all’alimentazione ormai si era ridotti alle ultime scorte di pane e angurie. Il peggioramento si era andato accentuando da quando veniva impedito (con posti di blocco installati illegalmente dall’Azerbaigian) l’accesso anche alla Croce Rossa e alle truppe russe di interposizione che comunque finora avevano rifornito di cibo – oltre che di medicinali – la popolazione armena.

Silenzio tombale e pennivendoli distratti

Bloccato da mesi alla frontiera anche un convoglio di aiuti umanitari (oltre una ventina di camion) inviato da Erevan.
In pratica, un grande campo di concentramento.
Al punto che un cittadino armeno gravemente ammalato, mentre veniva trasportato dalla Croce Rossa in un ospedale dell’Armenia (e quindi sotto protezione umanitaria internazionale), veniva sequestrato, privato del passaporto, sottoposto a interrogatorio e spedito a Baku dove – pare – sarebbe stato anche processato per eventi risalenti al primo conflitto scoppiato in Nagorno-Karabakh negli anni Novanta.

E ogni appello rivolto alle autorità e organizzazioni internazionali (Unione Europea, Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Russia, Gruppo di Minsk…) era destinato a restare inascoltato.
Con un preciso riferimento al blocco del Corridoio di Lachin operato dall’Azerbaijan, un ex esponente della Corte Penale Internazionale, l’avvocato argentino Luis Moreno Ocampo, aveva espressamente evocato un possibile genocidio.
Ma la sua appariva la classica “voce che grida nel deserto”. Quello dell’informazione almeno.

Poi la conferma dei peggiori timori con il tragico epilogo avviato il 19 di settembre.


Il giorno dopo la Guerra lampo dei fratelli turcofoni avevamo sentito Simone Zoppellaro, la cui analisi consentiva di comprendere nei dettagli cause e conseguenze delal dissoluzione dell’indipendenza dell’Artzakh

“Cala un sipario plumbeo sull’Artsakh”.

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Stabilizzare Eurasia passando da Erevan https://ogzero.org/tenere-fuori-dal-gioco-washington-e-stabilizzare-l-eurasia/ Sun, 27 Jun 2021 10:00:23 +0000 https://ogzero.org/?p=4050 Sembra che ci sia ancora qualche sparuto paese al mondo in cui la dittatura delle società che realizzano i sondaggi elettorali non spadroneggi: tra questi c’è sicuramente l’Armenia. Nelle settimane precedenti alle elezioni legislative anticipate del 20 giugno, resesi non più procrastinabili dopo la disfatta nella guerra nel Nagorno Karabakh, il premier Nikol Pashinyan era […]

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Sembra che ci sia ancora qualche sparuto paese al mondo in cui la dittatura delle società che realizzano i sondaggi elettorali non spadroneggi: tra questi c’è sicuramente l’Armenia.

Nelle settimane precedenti alle elezioni legislative anticipate del 20 giugno, resesi non più procrastinabili dopo la disfatta nella guerra nel Nagorno Karabakh, il premier Nikol Pashinyan era infatti dato perdente da tutte le rilevazioni delle principali società demoscopiche. Il partner della prestigiosa Gallup International in Armenia – la società Mpg – prevedeva una corsa sul filo di lana di Pashinyan con il suo avversario, l’ex presidente del paese e capo del Blocco Armeno, Robert Kocharian è l’agenzia Ria Novosti, che aveva condotto una rilevazione solo 6 giorni prima del voto, aveva perfino stimato per Kocharyan il 32% delle preferenze contro il 24% di Pashinyan. Inaspettatamente invece il Contratto Civile guidato proprio dal primo ministro Nikol Pashinyan ha fatto saltare il banco ed è decollato al 53,92% dei voti espressi, detronizzando il suo rivale che pur chiamando alla rivalsa contro il disprezzato nemico azero, si è fermato al 21,04%. La terza forza a entrare in parlamento è stata quella guidata dall’ex capo del servizio di sicurezza nazionale del paese Artur Vanetsyan che pur non avendo superato lo sbarramento del 7% (come altri 22 partiti che avevano partecipato alla campagna elettorale) dato che per legge il numero di partiti rappresentati non può essere meno di tre, con il suo 5,2% farà parte lo stesso del consesso legislativo.

Robert Kocharian, lo sconfitto leader del Blocco armeno

Il Blocco armeno ha denunciato brogli ma non è stato preso sul serio neppure dai suoi sostenitori e nessuno è sceso in piazza a protestare a Erevan come invece era successo massicciamente dopo la cocente sconfitta militare dello scorso autunno.

Sviluppi internazionali dopo la sorpresa elettorale

Cosa dunque è successo nelle settimane precedenti al voto da rendere inefficaci le interviste delle società di sondaggio?

Ipotesi sull’incidenza dell’armistizio sul voto

Le elezioni erano in primo luogo un plebiscito sull’armistizio che ha fatto perdere all’Armenia tre quarti del territorio conteso con l’Azerbaijan. La maggioranza degli elettori da questo punto di vista non ha probabilmente cambiato opinione e continua a considerare ancora oggi una “capitolazione” l’accordo di pace firmato sotto l’egida di Mosca, tuttavia è cambiata con il raffreddarsi delle emozioni del momento, la sua percezione della dinamica politica in corso.

«Le elezioni si sono concluse inaspettatamente per molti in Russia, ma questa sorpresa è stata dovuta a sondaggi dubbi o alle valutazioni di alcuni esperti che si sono schierati piuttosto con una delle forze politiche e non hanno fornito un’analisi obiettiva della situazione», ha affermato il ricercatore presso l’Istituto di studi postsovietici e interregionali (Riac) Alexander Gushchin. «Le elezioni hanno dimostrato che la vecchia élite e i suoi leader non sono stati in grado di consolidare attorno a sé la quota principale dell’opinione pubblica armena nemmeno sull’onda dell’insoddisfazione per la sconfitta militare nella seconda guerra del Karabakh. La scia di pubblica negatività verso l’“ex” si è rivelata troppo grande, mentre l’elettorato di Pashinyan è stato mobilitato al massimo» ha osservato ancora Gushchin.

«Le elezioni in Armenia hanno confermato il sostegno alla formula per la futura pace nella regione, elaborata con la mediazione di Mosca lo scorso novembre», sostiene inoltre Andrej Fedorov, direttore del Centro russo per la ricerca politica, su “Kommersant” del 22 giugno 2021. «Se il corso verso la normalizzazione continuerà, per la Russia significherà la possibilità di neutralizzare ai suoi confini meridionali un focolaio di instabilità a lungo termine potenzialmente pericoloso. Allo stesso tempo, il percorso per ridurre il confronto tra Armenia e Azerbaijan dovrebbe facilitare il compito di coinvolgere Baku nei processi di integrazione in Eurasia». Pertanto secondo Fedorov «dopo le elezioni in Armenia, nella nuova fase, la crescente influenza della Russia può essere determinata sia dal mantenimento della pace sia da un ruolo più attivo nella costruzione di nuove relazioni tra le parti coinvolte nel conflitto del Karabakh».

L’emotività dei sondaggi seppellita dalla Realpolitik nelle urne

Ciò che non è risultato credibile – soprattutto ai cittadini armeni che vivono nelle campagne e proverbialmente più saggi e moderati di quelli urbani – è che si possa rimettere in discussione l’accordo raggiunto con il cessate il fuoco o persino riprendere la guerra. Il fatto che Pashinyan, nato e divenuto celebre come attivista dei diritti umani filoccidentale e sostenitore delle esigenze degli strati del lavoro intellettuale, abbia potuto attecchire nell’Armenia profonda e perfino trasformarsi in un politico che guarda a Mosca come ciambella di salvataggio anche nel futuro, è interessante per capire come opinione pubblica e leader possano cambiare pelle rapidamente nel mondo attuale, ma ciò ancora non spiega lo iato tra i polls virtuali che lo davano al 20% e il più del 50% di voti veri ottenuti nei seggi. In realtà – come ha sottolineato Gevorg Mirzayan, professore di Scienze politiche all’Università di Mosca – la maggior parte degli oppositori di Pashinyan è rimasta a casa, e sarebbero loro in maggioranza a formare l’esercito costituito da 1,2 milioni di elettori armeni che non si sono presentati al voto, a cui di fatto va aggiunto quel 17% che ha votato per liste che non avevano alcuna possibilità di entrare in parlamento: due modi di protestare contro la scarsa concretezza di Kocharian piuttosto che un sostegno al premier uscente.

Strategia russa di stabilizzazione e controllo

Questo quadro darebbe qualche chance a Putin di giocare il ruolo di facilitatore del coinvolgimento di Baku nei processi di integrazione in Eurasia e in misura minore di stabilizzazione dei difficili rapporti con la Turchia.

Il fattore più importante del voto, è che la “sacralizzazione” del problema del Karabakh e l’idea di vendetta nazionale non sono già più in cima ai pensieri di ampi strati della società armena, che hanno già altre priorità, in primo luogo la ripresa economica.

Tenere fuori dal gioco Washington

Ad aprile era stata annunciata la costruzione congiunta di una centrale nucleare russo-armena, ulteriore segnale dell’abbraccio economico-energetico russo

Inoltre, la maggioranza degli armeni si è dimostrata più realista del re, comprendendo che nelle condizioni attuali nel Caucaso meridionale e intorno al Artsakh, i partiti “bellicisti” armeni, anche se avessero vinto le elezioni, difficilmente sarebbero stati in grado di capovolgere la situazione a loro favore.

Mosca ha effettivamente tirato un sospiro di sollievo dal voto a Erevan perché garantisce la road-map tripartita definita in autunno e soprattutto la presenza di proprie truppe nella regione per anni. Non è un caso che il giorno dopo il voto senza attendere la conferenza stampa dell’opposizione, il Cremlino ha annunciato il suo «sostegno alla scelta del popolo armeno». Del resto Mosca non solo ha visto quanto Pashinyan nei suoi confronti abbia abbandonato i modi del bizzoso destriero e ora vada al passo come un ubbidiente pony, ma si sia dimostrato negli ultimi mesi un politico accorto. Infatti mentre la diaspora di Parigi e New York si batteva il petto per il Karabakh perduto e l’orgoglio nazionale infranto ma restava a osservare da lontano le vicende patrie, il popolo armeno dimostrava nell’urna più voglia di “normalità” e “pace”, se non proprio con gli invisi azeri almeno con gli altri popoli della regione, russi compresi.

Pashinyan allineato e coperto con il Cremlino

È interessante notare che nel suo primo discorso alla nazione dopo le elezioni, Nikol Pashinyan, da parte sua ha fatto un bel po’ più che un gesto dimostrativo nei confronti della leadership russa. «Esprimo la mia gratitudine alla Federazione Russa, al presidente russo Vladimir Putin e al primo ministro Mikhail Mishustin per il sostegno che hanno fornito all’Armenia e al popolo armeno in questa situazione», ha affermato Pashinyan in Tv. «L’Armenia dovrà approfondire seriamente la cooperazione militare e strategica con la Russia – ha aggiunto il leader armeno – a fronte della politica aggressiva dell’Azerbaijan», ha perfino aggiunto.

Su scala regionale il ruolo di Erevan del resto visto lo stato in cui versa la sua economia e il suo esercito, si riduce a cercare di contrastare l’alleanza sempre più stretta tra Ankara e Baku brandendo come può l’arma del genocidio turco.

Strategia turca di stabilizzazione e controllo

Le cose dalla parte della barricata turcofona si stanno muovendo rapidissimamente. Mentre in Armenia si chiudeva la campagna elettorale, il 15 giugno, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan giungeva a Şuşa, città simbolo della vittoria militare azera di qualche mese fa, dove con Ilham Aliyev, ha firmato una dichiarazione di Alleanza che d’ora in poi per i contraenti si chiamerà “Storica Dichiarazione di Şuşa”. Dietro ai titoli pomposi, a Şuşa si sono fatti comunque dei concreti passi avanti per quanto riguarda la cooperazione bilaterale nel campo della sicurezza, accordandosi perché l’Azerbaijan crei un «modello ridotto dell’esercito turco». Ankara e Baku conducono regolarmente e già da tempo esercitazioni militari congiunte e operazioni antiterrorismo ma per ora Baku non ha dato alcun segno di voler aderire alla Nato, segno che Ankara potrebbe desiderare avere nelle proprie disponibilità un arsenale e delle truppe autonome e fuori dal controllo Usa.

Allargamento di Astana?

In questa occasione il leader turco ha voluto anche mostrare la sua versione dialogante, diventata la sua postura dominante dell’ultimo periodo: ha chiesto ad Aliyev la normalizzazione delle relazioni con Erevan e ha proposto un format di cooperazione a sei nel Caucaso meridionale, che veda la partecipazione di Turchia, Russia, Azerbaijan, Armenia, Georgia e Iran. L’aver aggiunto nel menù anche l’Iran è un gesto di non poco conto che al Cremlino hanno preso in seria considerazione non solo in vista dei nuovi passi americani di apertura nei confronti del paese islamico ma soprattutto del realismo e del gradualismo con cui la Turchia voglia sviluppare la sua politica egemonica nella regione.

Qualche ora prima, del resto, Erdoğan aveva incontrato il presidente Usa Biden e si era dimostrato anche in questo caso assai disponibile e quasi remissivo malgrado lo “sgambettino stellestrisce” del riconoscimento ufficiale dell’“Olocausto armeno”. Il presidente turco ha promesso a Biden di restare “alleato sincero della Nato” ma non ha ceduto di un palmo né sulla questione del suo ruolo in Siria e Libia né sull’acquisto di sistemi missilistici antiaerei russi S-400.

Biden era venuto in Europa anche per verificare lo stato delle relazioni con Georgia e Ucraina in vista di una loro futura adesione alla Nato ma anche su questo terreno, dovrà tenere conto delle mosse bilaterali degli attori regionali.

Fatale attrazione caucasica per Erdoğan

Recentemente il primo ministro di Tblisi, Irakli Garibashvili, ha visitato Ankara proponendosi ai turchi come potenziale secondo alleato regionale, malgrado la Georgia sia un paese cristiano: una eventualità che sembra piacere ad Erdoğan proprio in vista dell’ingresso del paese ex sovietico nella Alleanza atlantica.

Tenere fuori dal gioco Washington

Ma la Georgia è attiva anche in direzione di un altro paese chiave della zona e cioè l’Ucraina anch’essa predestinata a diventare membro della Nato nonché dell’Unione europea. Tblisi è più avanti nel processo di adesione ma grazie al “fattore Donbass” che potrebbe tornare a essere dirimente in Europa in qualsiasi momento, Kiev potrebbe superarla al fotofinish, malgrado la Georgia abbia anch’essa in Abkhazia e Ossezia del Sud dei contenziosi aperti con la Russia e proprio la comune avversione a essa è il mastice che tiene insieme i due paesi ex sovietici.

Siamo a un passaggio fondamentale. L’ascendente di Ankara cerca di emarginare la declinante Mosca nella regione senza però per il momento farsela nemica come invece è nelle corde di Ucraina e Georgia: tenere fuori dal gioco Washington è nel loro comune interesse.

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Il trailer del kolossal hollywoodiano “America is back” https://ogzero.org/america-is-back-la-regia-del-road-movie-di-biden/ Sun, 20 Jun 2021 01:34:58 +0000 https://ogzero.org/?p=3925 «America is back» in Europe, but… Biden torna a proporre la politica multipolare americana, che mira a presentare gli Stati Uniti come riferimento di un’ampia alleanza in cui si distribuiscono patenti di democrazia a tutti, tollerando in parte anche il regime putiniano (o comunque mostrando di voler aprire un dialogo), purché si adotti un profilo […]

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«America is back» in Europe, but… Biden torna a proporre la politica multipolare americana, che mira a presentare gli Stati Uniti come riferimento di un’ampia alleanza in cui si distribuiscono patenti di democrazia a tutti, tollerando in parte anche il regime putiniano (o comunque mostrando di voler aprire un dialogo), purché si adotti un profilo intransigente verso Pechino o si rendano meno stretti legami e partnership con l’unico rivale riconosciuto. Infatti la regia raffinata ha dapprima restituito una riunione di famiglia nella verde Cornovaglia, dove il vecchio patriarca è venuto in Europa a cercare location adatte per una ridistribuzione dei ruoli all’interno del consesso europeo, lanciando segnali distensivi di collaborazione che superassero l’isolazionismo dell’amministrazione precedente – di cui si sono frettolosamente cancellati gli sgarbi –, ma sancendo la globalizzazione e lo spostamento dal marcato eurocentrismo, già abbandonato da Obama, all’asse indopacifico.

America is back

Ripulitura preventiva delle deiezioni trumpiane

E di nuovo la trama del film lascia trasparire il messaggio anticinese dell’intreccio.

Il Convitato di Pietra

E allora scomponendo il film del viaggio di formazione della presidenza Biden nei suoi duetti, cominceremmo con quello non ancora avvenuto tra Xi Jinping e Biden – ma di cui c’è già stata una prolessi nei titoli di coda, immaginandolo nella cornice del G20 italiano, in scena esattamente vent’anni dopo quello tragico genovese. Ci pare che cominciare l’analisi dei fotogrammi del road-movie europeo di Biden dal fuoricampo in cui è rimasto collocato per tutto il tempo il co-protagonista principale sia l’ottica attraverso cui assistere almeno a una sequenza della pellicola. Quella che consideriamo centrale e che ci sforziamo di inquadrare come nel film Dark Passage con Humphrey Bogart (regia di Delmer Davies per un titolo perfetto nel 1947 come per sottotitolare l’attuale film di Biden), in cui Vincent non viene inquadrato se non con particolari degli occhi e invece la cinecamera coincide con il suo sguardo, cercando di restituire l’ottica della soggettiva fuori scena di Xi Jinping, il controcampo del Convitato.

Don Giovanni 1979, di Joseph Losey

Per quanto sommessa, accennata e rimasta impigliata nel resto della trama, fatta invece di spettacolari palcoscenici e forti illuminazioni (quasi a voler spostare l’attenzione su episodi collaterali, come avviene spesso nei road-movie); la mano tesa del Convitato di pietra ha preso il fuoriscena come nel finale del Don Giovanni, relegando l’annuncio di un percorso delle merci alternativo a quello promosso dalla Bri, la nuova Via della seta, al rango del catalogo di Leporello: una smargiassata fin dall’allitterazione del nome Build Back Better World.

Il messaggio principale del film, sempre sottotraccia, è che vanno ridimensionati innanzitutto i rapporti commerciali con i cinesi, ma fingendo che si tratti di una guerra morale alle violazioni dei diritti civili.

E parlando di questa sequenza con Sabrina Moles (@moles_sabrina), il film si è trasformato in un viaggio interstellare, con al centro la nuova piattaforma spaziale cinese, che ha costretto Biden a un aggiornamento dell’articolo 5 dell’accordo Nato, estendendolo al dominio spaziale:

“La pantomima globalizzata della Guerra morale alla Cina”.

Il servo di due padroni

Di tutta la pantomima messa in scena nel viaggio di formazione del mondo di Biden infatti, riconsiderando il tourbillon dei messaggi mediatici, una volta conclusa la kermesse e lasciate decantare le dichiarazioni, spenti i riflettori, a posteriori nel consuntivo non si annoverano risultati apparentemente tangibili, ma è stata come una proiezione di slide della sceneggiatura da recitare nei prossimi anni della serie-tv che potrebbe intitolarsi The Great Game. The Revenge, la cui regia è affidata a Biden, con Blinken aiutoregista nelle sequenze del ritiro da Kabul, quindi al di là di ogni simulacro simbolico – che non avrà mai lo stesso impatto dell’ultimo elicottero che il 1° maggio 1975 lasciava l’ambasciata americana in Vietnam, anche se si tratta proprio di quel remake – offerto in pasto alle telecamere i nodi del film vero ruotano ancora attorno a Donbass e Crimea – come ci racconterà Yurii Colombo alla fine di questo articolo – e di conseguenza alle ex repubbliche sovietiche, che ritroviamo nel discorso di Baku, pronunciato da Erdoğan guarda caso proprio il giorno dopo il ritorno nell’alveo della Nato, con il compito speciale di andarsi a immolare in Afghanistan, come già avvenne quando la Turchia dovette pagare l’ingresso nella Nato dissanguandosi nella Guerra di Corea.

M.A.S.H., 1970, regia di Robert Altman

Stavolta il presidente turco di buon grado allunga i suoi tentacoli anche verso il Khorasan con la benevolenza degli Usa, che gli delegano così controllo militare, sfruttamento e ricostruzione di un’area fondamentale per il passaggio di merci tra XInjiang uyguro, Karakum turkmeno, Pamir tajiko, HinduKush multitribale, Karakorum e pianure indo-pakistane… monti e pianure persiane. Nomi evocativi di pellicole in costumi di mercanti: l’autentica antica Via della seta – il copyright – da contrapporre alla Belt Road Initiative per conto americano.

D’altronde nel duetto realmente interpretato con Putin si è giunti a una comunità di intenti («un dialogo bilaterale sulla “stabilità strategica”») su quel territorio che ha visto i due imperialismi rimanere impantanati nella Campagna d’Afghanistan.  Come riporta l’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della Luiss: «Nella conferenza stampa tenuta da Biden, a seguito dell’incontro che è durato circa 3 ore, il presidente ha affermato di aver discusso dell’interesse condiviso di Stati Uniti e Russia nel prevenire «una recrudescenza del terrorismo in Afghanistan»; [anche se ci sono prove del “Times” di aiuti economici e in armi elargiti da Mosca ai Talebani, ai quali erano anche state promesse taglie dal Cremlino per ogni soldato statunitense ucciso]. Un giornalista gli ha quindi chiesto se avesse fatto qualche domanda a Putin al riguardo. «No, è stato lui a chiedere dell’Afghanistan. Ha detto che spera che saremo in grado di mantenere un po’ di pace e sicurezza, e io ho detto: “questo dipende molto da voi”».

Dunque si direbbe che entrambe le potenze appaltino a Erdoğan il vuoto lasciato dal ritiro, ma poi gli affari azeri hanno inebriato il presidente turco spingendolo a parlare di imminente unità d’intenti tra 6 nazioni, tra queste le tre che hanno animato i protocolli di Astana e che si inserivano nella assenza trumpiana per spartirsi l’area (Russia, Turchia, Iran). Il colpo di scena turco di Baku allarga il novero a Georgia, Azerbaijan e… Armenia (!), dichiarando nella composizione dell’accordo quanto sia centrale proprio l’area caucasica, un’area che Putin non si può permettere sia sotto il controllo occidentale. E in questo caso l’ottica adottata nelle proiezioni della trama del film imbastita a Bruxelles, a cui hanno assistito Biden e Erdoğan alterna quello del documentario in stile Settimana Incom, con la promozione delle prodezze dei droni Bayraktar in Caucaso; mentre l’altro stile retorico utile per inquadrare lo sforzo richiesto alla Turchia in territorio libico non è più quello del materiale mediatico per l’arruolamento nelle Private military and security companies, quanto la brochure patinata delle imprese edili per la ricostruzione con l’imprimatur di Biden.

Illuminante risulta cercare di adottare lo sguardo di Ankara sull’incontro di Bruxelles, il primo tra Biden e Erdoğan, usando la lucida ironia di Murat Cinar (@muratcinar):
“Finto multilateralismo al servizio di reali democrature affaristiche”.

Il Terzo Uomo

Dunque in qualche modo Erdoğan dimostra ambiguità anche genuflettendosi a Bruxelles il giorno prima da Biden e quello successivo intraprendendo anche lui un road-movie interno all’Azerbaijan per controllare appalti e rilanciare l’alleanza di Astana allargata a un’area limitrofa e complementare a quella che coinvolge l’Afghanistan… e che è fondamentale per la politica di Putin, di cui il presidente turco rimane alleato. 

Proprio del terzo incontro del Gran Tour bideniano rimane da parlare, dopo la presenza inquietante del Convitato ingombrante Xi e l’infido Erdoğan, la scena madre e l’epilogo del viaggio di formazione vedeva la compresenza nell’inquadratura del “Killer dagli occhi di ghiaccio e senz’anima”, come lo stesso Biden aveva definito Putin

America is back

L’occhio che uccide, 1960, di Powell e Pressburger

Il consumato stratega aveva organizzato la sfida non tanto come nel torneo di The Quick and the Dead (Sam Raimi, 1995), piuttosto spingendo sull’atmosfera da spy story, per evocare i giornalisti uccisi e i dissidenti avvelenati, senza con questo appendere il Cremlino al cappio dei diritti umani e quindi cambiando registro narrativo l’incontro non ha risolto i veri nodi che rappresentano il dissidio tra Russia e Stati Uniti, ma si è trasformato in una partita a scacchi in stallo… riguardo al possibile  scacco di uno dei due contendenti possiamo seguire lo sguardo moscovita di Yurii Colombo (@matrioska2021):

“Le relazioni insolubili”.

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La guerra cambia https://ogzero.org/la-guerra-cambia-o-no/ Wed, 14 Apr 2021 07:14:44 +0000 https://ogzero.org/?p=3072 Blinken annuncia per il September/Eleven 2021 la fine del conflitto più lungo nella storia degli Usa. Con il ritiro degli ultimi 2000 boots on the ground dall’Afghanistan si concludono vent’anni di guerra che sono costati più di 100.000 morti civili e qualche migliaio di combattenti solo nel conflitto afgano. Dove sono stati utilizzati massicciamente quei […]

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Blinken annuncia per il September/Eleven 2021 la fine del conflitto più lungo nella storia degli Usa. Con il ritiro degli ultimi 2000 boots on the ground dall’Afghanistan si concludono vent’anni di guerra che sono costati più di 100.000 morti civili e qualche migliaio di combattenti solo nel conflitto afgano. Dove sono stati utilizzati massicciamente quei militari professionali appartenenti ad agenzie che forniscono servizi, anche e soprattutto bellici (ma pure logistici) in ogni situazione di conflitto: i “contractor”, quei prezzolati che seguono regole di ingaggio specificate nei contratti – spiegati con precisione da Stefano Ruzza nel video inserito nell’articolo – stipulati anche con governi, che non si possono permettere le “spese” di una guerra o di apparire come invasori. “La guerra cambia” è il titolo di questo splendido contributo di Eric Salerno, che descrive il mondo di questi militari di professione a partire da una sua intervista di sessant’anni fa a un soldato di ventura tedesco, impegnato nell’operazione coloniale contro il Congo di Lumumba… e così si insuffla il dubbio che la trasformazione della forma in cui si presenta la “Guerra” sia reale. Il discorso poi si dipana in giro per tutto il mondo e in ogni guerra più o meno dichiarata, mentre in parallelo scorrono racconti e figure inquietanti del passato, come il racconto dell’incontro vecchio di 50 anni di Roman Gary con un ex agente dell’Oas impazzito nella sua tana a Gibuti. E allora il dubbio su quanto sia cambiata la guerra diventa certezza in questa carrellata degna di Ermanno Olmi e del suo Il mestiere delle armi… che non cambia mai a dispetto di quanto sia cangiante l’idea di guerra.


Mercenari, legionari, contractors e… droni

La verità sulla morte di Lumumba

«I am a mercenary coming from the Congo. I want to tell you how Lumumba was killed». Così Gerd Arnim Katz – il suo nome dichiarato – si presentò alla redazione di “Paese Sera” una mattina del febbraio 1961. Ascoltai la sua storia (in parte vera in parte fantasia) e il quotidiano romano di sinistra uscì con un titolo a piena prima pagina sulla morte del leader africano, trucidato per ordine della Cia. Katz era una pedina minore in un campo di battaglia vasto come sta tornando a essere l’Africa di oggi.

"Paese Sera" - 23 e 24 febbraio 1961

Intervista a Gerd Arnim Katz, testimone dell’assassinio di Patrice Lumumba nella sede di “Paese Sera”

Non era certo un Mike Hoare, il più celebre dei mercenari del Novecento, che nel 1964 ebbe da Moise Ciombe, presidente dell’autoproclamato stato di Katanga, una provincia del Congo, l’incarico di reprimere la rivolta dei Simba, un esercito popolare di liberazione di ispirazione maoista che era riuscito a conquistare l’importante città di Stanleyville, prendendo in ostaggio oltre 1500 cittadini europei. E tanto meno poteva, quel mercenario approdato al quotidiano romano, essere paragonato a Rolf Steiner, ex legionario, ex capo dei mercenari in Biafra, ingaggiato come consulente militare dai ribelli cristiani Anya Nya impegnati con l’aiuto del Mossad israeliano nella guerra secessionista nel Sudan meridionale e finito in carcere dopo un lungo processo a Khartoum.

Legionari resi folli dall’inaccettabile fine dell’impero coloniale…

Katz fu, però, il primo di non pochi soldati di ventura che incontrai nei miei giri per l’Africa e altrove dove oggi, nel continente nero come nel resto del mondo, la guerra sta assumendo nuove forme e impiega nuovi-vecchi attori. I mercenari si chiamano contractors (suona meglio) ma spesso sono quelli di sempre; i drone operators si chiamano piloti anche se stanno seduti per ore davanti a uno schermo ben distante dal campo di battaglia. I fanti del prossimo futuro sono robot sofisticati come quelli di cui leggevo da bambino nei racconti di fantascienza di Isaac Asimov o Ray Bradbury. La guerra cambia. «In meglio!», asserisce chi ha investito nella nuova faccia del military-industrial complex, come lindustria degli armamenti o, diciamo, della guerra fu definita dal generale poi presidente degli Usa Eisenhower. «In peggio!», sostengono coloro che trovano difficile pensare a un robot o a un pilota della nuova generazione e tanto meno all’amministratore delegato di una società, che offre manodopera armata come se fossero colf, badanti o operatori del sesso, trascinato sul banco degli imputati per crimini di guerra.

Il mercato del lavoro a disposizione del quale si era messo quel Katz con cui parlai sessanta anni fa era ben diverso da ciò che offre il mondo d’oggi. All’epoca molti sbandati o pregiudicati come lui trovavano spazio nella vecchia Legione straniera francese, una specie di esercito parallelo a quello ufficiale di Parigi, formalmente sottoposto alle medesime regole di comportamento ma, come si vide nelle sue avventure in Vietnam o in Algeria, molto più elastico, per usare un eufemismo, nel trattamento del nemico.

Imaginez le drapeau tricolore sortant de ce nulle part. Un autre traîne sans vie au-dessus dune tour de guet que je reconnais immédiatement: cest celle des postes isolés en territoire viet. Une cabane de pierres entassées et autour Eh bien, oui: des sacs de sable contre les balles et une mitrailleuse qui pointe

Vous ne me croyez pas. Tant mieux. Je garderai mieux pour moi cette pierre qui brille de tous les éclats dune belle et pure folie Un homme vit là-dedans depuis six ans: lex capitaine Machonnard. Je dix ex: privé de son grade pour son action dans lOas. Devenu fou: cest ainsi quon appelle ceux qui ne peuvent se faire à la réalité. Un an dinternement. Un Homme pur qui le temps sest arrêté et ne se remettra plus jamais en marche : vous comprendrez dans un istant

Le capitaine sort une bouteille de champagne de sa serviette.

– Pour célébrer la victoire de Dien Bien Phu

[…]

Car, vous lignorez peut-être, mais Machonnard vous le dira : lIndochine et lAlgerie sont toujours françaises, le général Salan est président de la République, dans tout lAfrique  française les enfants noirs continuent à apprendre en chœur les premières lignes dIsaac et Malet : «Nos ancêtres les Gaulois avaient de longues moustaches blondes…»

(Roman Gary, Les Trésors de la mer Rouge, Gallimard-Folio, Paris, 1971)

… e i crimini incarnati in una figura di mercenario

Rolf Steiner

Ritratto di un mercenario realizzato da Eric Salerno il 21 agosto 1971 per “Il Messaggero”

Le nuove compagnie di ventura

Oggi la legislazione a livello internazionale distingue tra i mercenaries – tutti fuorilegge – e i contractors, ossia dipendenti delle numerose società private o semigovernative che operano saltellando da un conflitto a un altro. Certamente l’esempio più clamoroso risale ai momenti più caldi delle guerre in Iraq e in Afghanistan quando gli Usa impiegarono oltre 260.000 di questi contractors, in gran parte ex militari o ex agenti di polizia. Spesso erano più dei militari stelle e strisce schierati nei due fronti. I loro compiti andavano dalla costruzione delle basi e dei campi rifugiati al servizio mensa e al mantenimento delle armi; dalla sicurezza degli impianti a quella dei diplomatici. E anche all’interrogatorio dei detenuti non sempre condotto con il rispetto delle convenzioni internazionali sul trattamento riservato ai prigionieri di guerra.

I due fronti, afgano e iracheno, sono ancora vitali per l’industria militare (anche come testing ground per armi e sistemi) e ai contractors Usa si sono aggiunti molti altri. La famosa – o infame – Blackwater fondata nel 1997 da Erik Prince, un ex Navy Seal con un grande patrimonio di famiglia fu costretta a cambiare nome nel 2011 dopo numerosi scandali che coinvolgevano loro operativi e almeno un processo. L’incidente più clamoroso risale al 16 settembre 2007 quando a Baghdad 17 iracheni, di cui almeno 14 civili, rimasero uccisi dal fuoco dai contractors della compagnia militare privata: la Blackwater ora si chiama Academi. Ed è sempre la prima per importanza di un lungo elenco.

Erik Prince

Forze militari in affitto: Erik Prince, fondatore della Blackwater-Academi

Dall’altro lato di quella che era la cortina di ferro negli anni della contrapposizione Usa-Urss, gli fa concorrenza la misteriosa Wagner Group, una organizzazione paramilitare che secondo alcuni farebbe capo al ministero della difesa di Mosca. Formalmente, per quanto si riesce a capire, è di proprietà di un uomo d’affari (Yevgeny Prigozhin) con legami con il presidente russo Putin. Seppure a distanza (relativa) quelli di Academi e di Wagner si scontrano-sfiorano nel vasto, complicato, scacchiere della guerra in Siria la cui popolazione, peraltro, è diventata un grande serbatoio di reclutamento di mercenari. Il gruppo privato russo li usa sia nei conflitti indiretti non solo in Siria ma anche nella guerra in Donbass in Ucraina e in Libia. E secondo molte fonti anche in Sudan, Repubblica centroafricana, Zimbabwe, Angola, Madagascar, Guinea, Guinea Bissau, Mozambique e forse nella Repubblica democratica del Congo.

Sudan 1971

Mercenari già allora russi nel conflitto sudanese 1971 in un articolo di Eric Salerno per “il Messaggero” del 21 giugno 1971

Un altro esercito di mercenari (soprattutto ma non solo siriani) è quello creato dalla Turchia nel quadro dei suoi progetti egemonici. Almeno quattromila sono in Libia e altri furono utilizzati da Ankara a sostegno dell’Azerbaijan nel conflitto con gli armeni sul Nagorno-Karabakh. Questi i grandi attori ma non gli unici. Gli Emirati si sono serviti di mercenari provenienti dalla Colombia (addestrati dagli Usa) e da alcuni stati africani per la loro guerra a fianco dell’Arabia saudita in Yemen. Rifugiati afghani furono utilizzati dall’Iran in Siria a fianco di Assad. Lo stesso Gheddafi reclutava mercenari nei paesi africani a sud della Libia.

Mercenari subsahariani di Gheddafi

Gheddafi reclutava mercenari nelle zone dell’Africa subsahariana.

Milizie private, dunque, milizie al servizio di stati che cercano di nascondere il loro coinvolgimento ufficiale nei conflitti oppure ridurre-nascondere l’impatto economico o in termini di costo umano delle imprese volute dai rispettivi governi. Ma a parte queste considerazioni che riguardano la legalità dei contractors rispetto alle convenzioni internazionali viene da chiedersi cosa faranno questi mercenari quando non serviranno più ai loro committenti. Dove andranno a lavorare? Per chi?

Nuovi prodotti bellici e nuova carne da cannone

Quando l’industria della guerra riuscirà a sfornare i suoi nuovi prodotti quei mercenari sfruttati e mandati al macello non serviranno più. Nei campi di battaglia attuali si sperimentano gli eserciti del futuro. Stati Uniti, Russia e Israele sono all’avanguardia nello sviluppo di Sistemi d’Arma Autonomi Letali (Laws) che consentiranno di togliere gli esseri umani dai campi di battaglia. Recentemente uno dei responsabili del ministero della difesa di Londra si è detto convinto che nel giro di pochi anni il grosso delle forze armate del suo paese sarà rappresentato da robot-fanti in grado di uccidere in base all’input della loro intelligenza artificiale. Si parla di un’autonomia – con tutto quello che implica anche dal punto di vista legale – superiore a quella dei droni-suicida già operativi come l’Harop israeliano usato dall’Azerbaijan ripreso mentre distruggeva una batteria anti-missile russo in Armenia.

Harop Drone

Il drone suicida di fabbricazione israeliana Harop è utilizzato in ogni scenario di guerra

E qui vale la pena tornare ai contractors, a quanto possono essere considerati responsabili delle loro azioni e del controllo sui mezzi autonomi. Oggi mantenere in azione per 24 ore una pattuglia di droni armati Predator e Reaper delle forze armate americane richiede la “presenza” di 350 esseri umani molti dei quali dipendenti delle società militari private. La legislazione introdotta per
regolamentare il comportamento dei contractors Usa viene considerata da molti esperti di diritto internazionale insufficiente.

Negli altri stati che si servono di personale civile (non necessariamente cittadini di quei paesi) per operazioni militari la questione è ancora più complessa e controversa. E ci mette di fronte al futuro, quello in cui si vorrebbe affidare a un algoritmo il compito di cercare, identificare e uccidere il bersaglio giusto (umano o non) in un campo di battaglia complesso alla presenza di civili non combattenti. «Non bisogna dare retta a coloro che garantiscono che queste armi saranno intelligenti», il commento preoccupato di Noel Sharkey, presidente del Comitato internazionale per il controllo delle armi robotiche. Altri come lui sottolineano come queste nuove tecnologie sono tutte soggette a hacking e dunque possono sfuggire al controllo del committente. Un tentativo di studiare il fenomeno e creare una serie di regole d’uso è stato compiuto dal Sipri (2020). «Vi sono imperativi legali, etici e operazioni per il controllo umano dell’uso della forza e, dunque, sui sistemi di armamenti autonomi», si legge nelle conclusioni di Limits on Autonomy in Weapon Systems. Identifying Practical Elements of Human Control.

Tutto questo per quanto riguarda il mondo, diciamo, delle Nazioni disposte ad assumersi le proprie responsabilità in tempo di guerra. Pochi, finora, hanno voluto addentrarsi nel reame sempre più fluido dei conflitti per procura e degli eserciti di mercenari. Per non parlare del mondo parallelo della criminalità organizzata che oggi ancora più di ieri attinge al vasto mercato libero delle armi siano convenzionali che del futuro. Droni di fabbricazione israeliana sono stati segnalati sia nelle mani della polizia messicana che a disposizione dei grandi cartelli dei narcotrafficanti (trasporto di cocaina e altro). E le stesse organizzazioni si fronteggiano spesso grazie ai servizi di società private (molte di quelle israeliane formati da ex delle forze armate e dei servizi segreti sono sotto inchiesta a Tel Aviv) capeggiate da esperti nel mondo della cibernetica e dell’Intelligenza artificiale.

Paramilitari in Mexico

 

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L’influenza russa si estingue nelle case incendiate a Karvachar? https://ogzero.org/il-vincolo-di-un-solco-inciso-tra-armenia-e-russia-negli-accordi-del-nagorno/ Sat, 28 Nov 2020 16:30:54 +0000 http://ogzero.org/?p=1862 Fantasie occidentali su Astana, droni reali su Stepanakert Tutta la grande stampa italiana ha sostenuto la tesi secondo cui l’accordo di pace nel Nagorno-Karabach sarebbe stato l’ulteriore capitolo di una alleanza tra Putin ed Erdoğan. Una chiave di lettura tutta ideologica – l’unità dei dittatori contro le democrazie – costruita sulla presunta unità d’intenti dei […]

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Fantasie occidentali su Astana, droni reali su Stepanakert

Tutta la grande stampa italiana ha sostenuto la tesi secondo cui l’accordo di pace nel Nagorno-Karabach sarebbe stato l’ulteriore capitolo di una alleanza tra Putin ed Erdoğan. Una chiave di lettura tutta ideologica – l’unità dei dittatori contro le democrazie – costruita sulla presunta unità d’intenti dei due capi di stato in Medio Oriente. La guerra iniziata nell’enclave a maggioranza etnica armena ha avuto due inoppugnabili vincitori (Turchia e Azerbaigian) e due sconfitti (Armenia e Russia), su questo però non si può non concordare. Gli accordi di pace firmati in fretta e furia la notte del 9 novembre mentre era in corso una vera e propria rotta dell’esercito armeno che stava rischiando di perdere persino Stepanakert, la capitale dell’Artsakh, rappresenta una vera e propria débâcle per il governo di Nikol Pashinyan.

Il vincolo di un solco inciso tra Armenia e Russia

Il giudizio che abbiamo dato a caldo sulle colonne de “il manifesto” l’11 novembre 2020 resta sostanzialmente corretto: «L’accordo è un boccone amaro per l’Armenia che deve dire addio all’idea di giungere a una unificazione con la regione contesa. Il documento siglato dai tre governi afferma che le parti in conflitto rimangono nelle posizioni raggiunte e ciò significa che buona parte del territorio del Nagorno-Karabakh torna in mano azera e pone le truppe di Baku a pochissimi chilometri da Stepanakert, la quale sarà ora collegata all’Armenia solo da un corridoio che attraversa la zona di Lachin. Lo status di Stepanakert non viene definito – come avrebbe voluto Mosca – e questo darà la possibilità successivamente all’Azerbaigian di rivendicarla». La Russia, avendo collocato i suoi caschi blu tra i contendenti piange con un occhio solo perché potrà dire la sua sulla sistemazione definitiva della regione ma segna un suo ulteriore arretramento geostrategico.

Per molti ordini di motivi. Il primo perché malgrado l’Armenia faccia parte pienamente del sistema di difesa euroasiatico (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, Csto) capeggiato dalla Federazione, Putin non è intervenuto a sostegno di Erevan neppure quando negli ultimi giorni del conflitto – prima attraverso il ministro degli esteri Zohrab Mnatsakanyane poi direttamente dal premier armeno – era stato espressamente richiesto, sottolineando più di una volta la propria neutralità nel conflitto (mentre Erdoğan sosteneva non solo formalmente il “fratello azero” fornendo combattenti foreign fighters siriani e soprattutto quei droni che hanno avuto, come più in là vedremo, un ruolo importante nel conflitto).

Il vincolo di un solco

I caschi blu russi prendono posizione

… poi la ferita suppurerà nell’equidistanza

Per restare nel gioco e avere un ruolo centrale nella trattativa di pace, Mosca ha dovuto pagare un prezzo politico fondamentale: il futuro definitivo allontanamento dell’Armenia in un “fronte Europeo” della Federazione dove Bielorussia e Moldavia finiranno – a medio termine – per pencolare inevitabilmente verso la Nato. È evidente quanto il “ruggito” di Putin a sostegno di Lukashenko in agosto sia stato seguito dall’equidistanza nel conflitto nel Nagorno-Karabach, il cui motivo principale della tiepidezza russa non può essere ricercato nell’antipatia personale di Pashinyan – che pure c’è – o nella doppiezza con cui Erevan ha condotto negli ultimi due anni la sua politica estera. Per riequilibrare l’evidente crescente peso turco nella regione che permette ora di collegare Ankara direttamente al Karabach, Mosca ha mostrato per ora solo di voler far rientrare dalla finestra i mediatori francesi e americani, lasciati fuori formalmente dall’armistizio del 9 novembre.

Nell’intervista concessa a “Rossia1” dopo l’armistizio, il presidente russo ha voluto togliersi un sassolino dalle scarpe: «Il 19-20 ottobre, ho avuto una serie di conversazioni telefoniche sia con il presidente Aliyev che con il primo ministro Pashinyan, dopo che le forze armate azere avevano ripreso il controllo di una parte insignificante, la parte meridionale del Karabach. Nel complesso, ero riuscito a convincere il presidente Aliyev che fosse possibile fermare le ostilità, ma una condizione obbligatoria da parte sua era il ritorno dei profughi, anche nella città di Shushi. Inaspettatamente… il primo ministro Pashinyan mi ha detto direttamente che lo vedeva come una minaccia per gli interessi dell’Armenia e del Karabach. Anche adesso non mi è molto chiaro quale sarebbe stata questa minaccia, tenendo presente che il ritorno dei civili sarebbe stato supposto mantenendo il controllo da parte armena su quella parte del territorio del Karabakh, Shushi compreso, e tenendo presente la presenza dei nostri caschi blu».

Una dichiarazione che può essere letta come un modo per indebolire il premier armeno, ora contestato dall’opposizione interna come “capitolatore”, ma di cui non vanno dimenticate le valenze interne russe. Non solo perché nella Federazione russa vivono 2 milioni di armeni (ma anche 2 milioni di azeri) ma perché le simpatie dei russi “autoctoni” erano tutti per l’“alleato cristiano”. Se Putin non ha alcun interesse ora a far saltare Pashinyan, non ha neppure interesse che in Armenia si possa battere il tamburo propagandistico del tradimento russo.

Il vincolo di un solco

Armeni bruciano le case prima di lasciare il Nagorno

Forniture sbilanciate: pessima propaganda per l’industria bellica russa

Il destino del primo ministro armeno resta legato alla posizione che assumeranno i militari (anche se l’insperato appello del senato francese al riconoscimento di Artsakh del 26 novembre 2020 gli ha fatto riprendere un po’ di vigore). L’esercito che sembrava sostenere il primo ministro in carica appare ora diviso. Qualcuno nello stato maggiore sta iniziando a pensare che debba essere salvato l’essenziale a fronte delle proteste che si levano a livello popolare, e Pashinyan debba essere sacrificato sull’altare della riconciliazione nazionale. Si tratta dell’opinione, per esempio, espressa dall’ex ministro della difesa dell’Armenia. Secondo il militare «non è stato l’esercito a perdere la guerra e la responsabilità dovrà essere assunta in solido dall’attuale leadership politica». Del resto la discussione sull’impreparazione militare nella disfatta armena continuerà a tenere banco ancora per parecchio. Subito dopo il cessate il fuoco è stato per primo a Stepanakert il presidente Arayik Aratyunyan a sollevare la questione dell’arretratezza delle armi a disposizione dei suoi combattenti. Una denuncia di sbieco nei confronti degli alleati russi che avrebbero lasciato in condizioni di degrado l’esercito di un paese alleato. Ma non solo. Si tratta di un tema delicato che tocca – come già nella guerra in Georgia del 2008, mitigata però dal facile successo – l’eventuale inefficienza delle armi russe, ovvero un eventuale spot negativo per il mercato dell’industria bellica della Federazione e per i suoi volumi di esportazione.

Collaudo per guerre di droni

I siti specialistici si sono concentrati sul ruolo inedito avuto dai droni nel conflitto azero-armeno ma che ha interessanti ricadute politico-militari visto che l’aggressività turca non è destinata certo a ripiegare nei prossimi mesi e anni.

Dopo la guerra nel Karabach, molti esperti hanno iniziato a sostenere che sarebbe in corso una rivoluzione nelle questioni tattico-militari, che sta per cambiare persino le strategie degli eserciti – non solo dei paesi in via di sviluppo, ma anche di quelli più potenti. Stiamo parlando dell’uso massiccio di veicoli aerei senza pilota da parte dell’Azerbaigian nel recente conflitto, sulla base degli sviluppi tecnici e strategici turchi. La teoria secondo cui i droni cambieranno radicalmente l’arte della guerra ha incontrato, a dire il vero anche molte perplessità. Secondo queste scuole i droni in Karabach non hanno mostrato nulla di nuovo: l’esercito turco e azero avrebbero semplicemente approfittato della debolezza del sistema di difesa aerea armeno e hanno mostrato al mondo un modo convincente di come si sconfigge un esercito debole ma l’uso massiccio di droni non funzionerebbe contro un esercito “strutturato”.

Ordigni di diversa fabbricazione (e di varia efficacia)

Le ostilità sono iniziate con vari tipi di attacchi di droni. Sono stati usati da parte azera, in primo luogo, i turchi Bayraktar TB2, detti anche hunter-killer, che montano missili e bombe ad alta precisione e droni Harop kamikaze di fabbricazione israeliana, antiradiazioni contro la difesa aerea armena.

Il vincolo di un solco inciso

I droni forniti dai turchi a Baku

Nei primissimi giorni del conflitto, l’esercito del Karabach ha perso dozzine di installazioni di difesa aerea, perlopiù obsolete, ereditate dall’Armenia dopo il crollo dell’Urss. Gli assalti alle sue difese antiaeree sono poi proseguiti: in ottobre e novembre sono stati colpiti diversi elementi dei sistemi missilistici antiaerei a lungo raggio S-300 (ampiamente superato visto che ora è in fase di progettazione nei laboratori russi l’S-500) e un lanciatore del più moderno complesso Tor-M2KM, sempre di fabbricazione russa. Dopo aver messo fuorigioco le difese antiaeree, i droni azeri sono passati al campo terrestre distruggendo sistematicamente carri armati, autoblindo, artiglieria e camion che trasportavano munizioni avversari. Seguiti da una serie di attacchi diretti alle postazioni della fanteria armena e ai depositi di munizioni. La diseguaglianza delle forze in campo – già nota prima del conflitto – è apparsa evidentissima. A seguito delle pesanti perdite di armeni a causa di attacchi aerei, il fronte nel sud del Karabach è stato sfondato in più punti, e in seguito (all’inizio di novembre) la fanteria azera, avanzando attraverso il terreno montuoso, che l’Armenia considerava la sua “fortezza naturale”, ha raggiunto le aree vitali della repubblica non riconosciuta, cioè le città di Shushi e Stepanakert. A questo punto, come risulta dai discorsi dei leader della difesa armena pubblicati al termine del conflitto, a causa degli attacchi dei droni, il loro esercito aveva perso quasi tutta l’artiglieria.

Tuttavia però negli ultimi giorni di guerra, gli attacchi aerei sono diventati più radi. Ciò potrebbe essere attribuito alla nebbia e alle nuvole basse ma secondo i giornalisti israeliani, che citano l’intelligence del loro paese, l’uso dei droni avrebbe potuto essere ostacolato da forniture urgenti di guerra elettronica russa. Questa sarebbe giunta sì in largo ritardo ma avrebbe evitato alla ritirata armena di assumere i caratteri della rotta (Sergej Lavrov aveva più volte dichiarato negli ultimi giorni di conflitto di “non guardare con piacere” a un trionfo militare turco-azero). Arayik Aratyunyan ha dichiarato da parte sua che «recentemente eravamo stati in grado di risolvere il problema dei droni, ma l’ultimo giorno il nemico è riuscito di nuovo a usarli e a sferrare attacchi pesanti».

Valutazioni a consuntivo per sviluppi del sistema industrial-militare

Così, la guerra transcaucasica è diventata la prima in cui i compiti principali, di solito risolti con l’aviazione “tradizionale”, sono stati realizzati dai droni. Molti esperti ritengono che questa non sia solo la sostituzione di un tipo di velivolo con un altro, ma una svolta decisiva, una vera rivoluzione negli scontri militari.

Il vincolo di un solco inciso

Caratteristiche dei droni kamikaze israeliani

Secondo il giornale moscovita “Kommersant”: «Il vantaggio principale dei droni, soprattutto di classe piccola e media, sarebbe il basso costo di funzionamento. I droni d’attacco di piccola e media portata sono piattaforme per l’utilizzo di armi ad alta precisione e strumenti di sorveglianza e ricognizione abbastanza avanzati. Sono in grado di colpire la maggior parte dei bersagli sul campo di battaglia e dietro le linee nemiche, pur rimanendo velivoli molto semplici rispetto ai moderni aerei e elicotteri con equipaggio». I progressi della tecnologia hanno reso possibile la produzione di missili e bombe di piccole dimensioni e massa, che, nonostante le dimensioni e il prezzo, possono colpire i bersagli più tipici sul campo di battaglia.

Il secondo vantaggio dei droni è che non c’è un pilota a bordo e sono controllati da operatori che sono a decine, centinaia e persino migliaia di chilometri dal fronte. Ciò consente di renderli economici anche sotto il profilo del “capitale umano”: se il pilota non può essere ucciso o catturato durante la missione, questa può essere molto più rischiosa. Il terzo vantaggio è la possibilità di svolgere missioni di molte ore. I droni a turbogetto che volano a velocità molto basse (meno di 200 km/h) – spiegano gli esperti – sono estremamente economici in termini di consumo di carburante.

Il last but not least tra i vantaggi dei droni è che sono stati originariamente concepiti come una parte importante della rete informativa sul campo di battaglia. I droni sono una piattaforma per vari sensori che studiano la situazione e identificano i bersagli. Condividono queste informazioni in tempo reale con gli operatori, che, a loro volta, le condividono anche in tempo reale con l’intera rete di controllo del combattimento. Inoltre, è possibile insegnare facilmente ai droni a interagire tra loro. Entrambe le opzioni sono state mostrate nel video del Ministero della Difesa azero del Karabach. Non è un caso che durante la guerra il Canada ha vietato la fornitura di stazioni elettroniche ottiche alla Turchia, di solito risolti con l’aviazione “tradizionale” ma che in questo caso sono state eseguite da droni.

Adattabilità a guerre con caratteristiche diverse

Gli aerei senza pilota presentano comunque anche evidenti svantaggi rispetto alle piattaforme con equipaggio. Il carico utile dei droni di piccole e medie dimensioni è limitato a causa dei motori di potenza relativamente bassa. In parole povere, i sistemi con equipaggio sono in grado di lanciare simultaneamente molti più bombe o proiettili sul nemico rispetto ai droni. E questo può essere importante in una “guerra ad alta intensità” – un conflitto tra potenze militari avanzate.

Per 38 anni, da quando furono usati per al prima volta dall’aviazione israeliana, i droni si sono trasformati da uno strumento di nicchia per operazioni speciali in parte integrante della ricognizione e della designazione del bersaglio. Fino a pochi anni fa, infatti, i droni d’assalto venivano usati (principalmente dagli americani) per effettuare attacchi mirati contro “bersagli leggeri”: leader politici o “terroristi”, petroliere dello Stato Islamico…

Come ha dimostrato l’esperienza della guerra in Karabach, i droni di altri produttori possono essere rapidamente inclusi in questo sistema: in particolare, i droni kamikaze di fabbricazione israeliana e gli aerei d’attacco Su-25 di progettazione sovietica fanno parte integrante dell’arsenale azero ma guarda caso non di quello armeno.

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La Siberia tra il Dragone e il Sultano https://ogzero.org/la-luna-di-miele-turco-russa-e-finita/ Sat, 14 Nov 2020 19:09:43 +0000 http://ogzero.org/?p=1765 La luna di miele turco-russa è finita La linea di faglia apertasi nel Nagorno-Karabakh ha dimostrato, se ce ne era ancora bisogno, che la luna di miele tra Turchia e Russia è ormai archiviata malgrado proprio sull’enclave a etnia armena Putin sia stato costretto – con gli accordi del 9 novembre – a un nuovo […]

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La luna di miele turco-russa è finita

La linea di faglia apertasi nel Nagorno-Karabakh ha dimostrato, se ce ne era ancora bisogno, che la luna di miele tra Turchia e Russia è ormai archiviata malgrado proprio sull’enclave a etnia armena Putin sia stato costretto – con gli accordi del 9 novembre – a un nuovo compromesso tattico per impedire il completo collasso del fronte. L’intraprendenza di quello che alcuni osservatori già chiamano “imperialismo ottomano” è sotto gli occhi di tutti e a Oriente i danni maggiori di tale intraprendenza li potrebbe subire proprio la Federazione. Non a caso sulla Moscova hanno da tempo iniziato a ricalibrare la politica nei confronti di Ankara: Sergej Lavrov, il ministro degli esteri russo, ha recentemente sostenuto di non aver mai considerato la Turchia “un alleato” ma solo un “partner”.  Il massiccio bombardamento russo a Idlib contro la guerriglia filoturca in Siria della fine di ottobre 2020, da questo punto di vista, è probabilmente stato un parlare a moglie perché suocera intenda. Ma la Transcaucasia è solo la punta dell’iceberg di uno scontro ben più ampio che parte dalla Crimea e si estende fino all’estremo Oriente russo ai confini con la Cina.

L’intelligence turca a caccia di spie

Il 16 ottobre scorso nell’incontro tra Volodomyr  Zelenskij e Recep Erdoğan non solo quest’ultimo ha dato il suo via libera alla cosiddetta “piattaforma di Crimea” promossa dal governo di Kiev (un’offensiva diplomatica volta al recupero della penisola annessa dalla Russia nel 2014, a cui guarda caso aderisce anche l’Azerbaijan) ma ha anche siglato degli accordi di collaborazione commerciali con l’Ucraina nel settore degli armamenti. La settimana successiva poi esplodeva una vera e propria spy-story tra Turchia e Russia. L’intelligence turca annunciava di aver arrestato il vicedirettore delegato di Bosphorus Gaz Emel Oztürk e altri quattro suoi collaboratori, che da tempo, secondo l’accusa, passavano informazioni riservate a un agente di Gazprom. Il gigante russo dell’energia avrebbe ottenute notizie sui volumi di acquisti di gas non russo della Turchia e dati sui giacimenti scoperti dalla Turchia nel Mar Nero quest’estate.

La guerra del gas

Al momento Putin fornisce a Erdoğan – via Turkish Stream – 7,75 miliardi di metri cubi all’anno di gas ma è chiaro che “l’indipendenza energetica” anelata da Erdoğan – se divenisse realtà – potrebbe rappresentare un duro colpo ai volumi di esportazioni russe, già in forse in Europa dopo che il progetto di North Stream 2 è entrato in stand-by in seguito al “caso Navalny”. Per tutta risposta la Duma russa ha fatto baluginare il blocco del turismo russo verso la Turchia, un business da qualche miliardo di dollari annuo. Più che punzecchiature tra i due eterni rivali con possibili conseguenze geopolitiche più vaste. La leva di un nuovo fondamentalismo islamico, di un califfato sui generis in cui la Turchia diventi la “protettrice di tutti i sunniti nel mondo”, potrebbe produrre una divisione insanabile tra i due stati. Si tratta di suggestioni – quelle dell’“imperialismo ottomano” – che vengono confermate negli ambienti diplomatici dei paesi balcanici anch’essi preoccupati dell’incipiente aggressività turca: «Indubbiamente, se analizziamo ciò che leggiamo e vediamo oggi, diventa chiaro che in alcuni circoli islamici radicali e organizzazioni religiose vaga l’idea che l’Europa dovrebbe essere un califfato islamico. Ciò che sta accadendo oggi in Francia, in Svezia, in altri stati dell’Europa occidentale, mi sembra che dovrebbe destare grande preoccupazione tra questi stati. Non mi occupo di attività di spionaggio in particolare, ma di tanto in tanto leggo in note analitiche che i servizi speciali turchi sono molto attivi», ha sostenuto l’ex ambasciatore serbo a Mosca, Slavenko Terzič.

Il Caucaso e il “laicismo irresponsabile dell’Occidente”

Il riflesso dello scontro con la Francia sulla questione dei limiti del laicismo si è subito sentito a Mosca dove la preservazione degli equilibri, faticosamente costruiti dal regime di Putin, in una federazione multiconfessionale, sono considerati intangibili. Le manifestazioni antifrancesi guidate prima di tutto dai migranti azeri nella capitale russa sono state sì stroncate con durezza dalla polizia sul nascere, ma Putin ha voluto al contempo anche denunciare il “laicismo irresponsabile dell’Occidente”. Il terrorista che ha ucciso a Parigi l’insegnante francese faceva parte della diaspora cecena, e quindi formalmente antirussa, ma la reazione del presidente della Repubblica cecena Rusman Kadyrov, scagliatosi con forza contro Macron nei giorni successivi all’attentato, dimostra quanto gli umori dei musulmani del Caucaso restino antioccidentali: non è un caso che nel Caucaso russo furono migliaia i reclutati dall’Isis per la guerra in Siria. Del resto, non si soffia sulla “guerra di civiltà” solo da una parte: anche il primo ministro armeno Nikol Pashinyan aveva invitato gli stati europei a sostenere l’Armenia cristiana nel Nagorno-Karabakh in funzione antiturca, anche se sia Macron sia Trump hanno preferito fare orecchie da mercante.

Lo sguardo russo verso lo Xinjiang

Dmitry Ruschin, Professore Associato del Dipartimento di Teoria e Storia delle Relazioni Internazionali all’Università di San Pietroburgo sostiene che “l’internazionalismo sunnita” di Ankara è veramente su scala globale: «Erdoğan sta perfino interessandosi della regione autonoma uigura dello Xinjiang dove Xi ha più di un problema. È del tutto possibile che in questo modo voglia diventare un unificatore dei popoli turchi e un leader islamico su scala globale. Curiosamente, lo scontro della Turchia con la Cina significa supporto automatico per Ankara da Washington perlomeno in quel contesto». E a medio termine ciò potrebbe condurre a un confronto diretto tra Russia e Turchia.

Siberia: la protesta anticentralista

In questo quadro la Siberia può diventare uno dei teatri più importanti. Dallo scorso luglio Khabarovsk, la più grande città dell’Estremo oriente russo, a un paio di centinaia di chilometri da Vladivostok, “porta bianca” ai mercati orientali, sono in corso delle manifestazioni di massa dopo che Sergej Furgal il governatore della provincia, outsider e antiPutin, è stato arrestato con l’accusa di essere il mandante di alcuni omicidi risalenti a un’epoca in cui non aveva ancora in carico l’amministrazione. Il protrarsi e le dimensioni del movimento di protesta segnala però in maniera evidente che le sventure del governatore sono state solo la miccia dietro cui covano a livello di massa spinte anticentraliste (oblastničestvo) nei confronti di Mosca se non apertamente secessioniste. “The Diplomat” ha riassunto così la situazione: «Sin dai tempi della Russia imperiale, i suoi paesi e città sono stati visti come una semplice estensione della nazione europea, una frontiera asiatica da colonizzare e domare. Come parte dell’Unione Sovietica, le deportazioni di massa verso est e il suo status di destinazione per i prigionieri dei GULag hanno rafforzato questa nozione. Ma ora, come dimostrano i manifestanti a Khabarovsk, l’estremo Oriente russo potrebbe formare la propria identità».

proteste pro-Furgal in Siberia

Un punto importante della contesa è che, mentre la Russia orientale detiene gran parte delle risorse naturali del paese – inclusi petrolio, gas e metalli preziosi – i proventi della loro estrazione sono ampiamente usati per rimpolpare i forzieri di Mosca piuttosto che arricchire le comunità locali.

E la terra va ai cinesi

Che la Cina sicuramente sia interessata a sfruttare a suo vantaggio la situazione che sta montando nell’estremo Oriente russo non è un segreto. In questa zona della Siberia gli investimenti del Dragone sono massicci e alla fine del 2018, proprio a Khabarovsk, un’azienda russa ha annunciato l’intenzione di affittare ben 100.000 ettari di terreno paludoso coltivabile a soia e affittarlo a imprese cinesi. Alexander Bortnikov, il presidente del Fsb, ha più volte segnalato l’attivismo di servizi di molti paesi in tutta la Siberia. E se il nome della Cina non è stato fatto ufficialmente, la presenza discreta di informatori cinesi nelle zona è stata più volte confermata da più parti.

Dietro la provocazione, la mano dei turchi

Chi invece sicuramente opera in quell’area è l’intelligence turca. Questa può fare affidamento su un vasto retroterra di gruppi fondamentalisti islamici nel Centro Asia allo sbando dopo il crollo dell’Isis. L’Fsb (Federal’naja služba bezopasnosti – Agenzia federale per la sicurezza interna) nell’ultimo anno ha contato ben 22 tentativi di organizzare azioni terroristiche e diversive in Siberia. Si tratta per lo più di incidenti provocati da foreign-fighters di ritorno ai confini del Tagikistan e del Kazakhstan collegati a contingenti più folti del fondamentalismo islamico afgano. Ma alcune di queste avrebbero segni e obiettivi diversi e rimanderebbero a un inedito protagonismo turco. In particolare parliamo di una fallita provocazione organizzata proprio a Khabarovsk questa estate nel momento più caldo delle dimostrazioni di strada, il cui mandante sarebbe da ricercarsi proprio ad Ankara. Secondo quanto riportato da Semyon Pegov – un reporter russo di guerra che da molti anni gravita tra il Medio Oriente e la Siberia – quest’estate l’organizzazione terroristica siriana Hayat Tahrir Al-Sham, supervisionata dai servizi speciali turchi, aveva reclutato due residenti di Khabarovsk, guarda caso di origine uzbeka e di fede musulmana, per organizzare il lancio di bottiglie molotov contro la manifestazione a sostegno di Furgal, al fine di far ricadere poi la responsabilità sul governo russo e rendere ancora più incandescente di quanto non sia la situazione nella provincia. Un’azione diversiva fallita in seguito all’arresto dei due provocatori prezzolati da parte della polizia russa, ma che dimostrerebbe quanto la Turchia intenda sfruttare le contraddizioni interne russe.

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Astana agli sgoccioli. Chi ha più filo da filare tra Mosca e Ankara? https://ogzero.org/astana-agli-sgoccioli-chi-ha-piu-filo-da-filare-tra-mosca-e-ankara/ Thu, 22 Oct 2020 08:38:32 +0000 http://ogzero.org/?p=1563 Traiettorie diverse di attraversamento transcaucasico-mediorientale L’alleanza tra Vladimir Putin e Recep Erdoğan è sempre stata a tempo e i due contraenti non ne hanno fatto mai mistero. Isolati e osservati con diffidenza da buona parte della comunità internazionale, strategicamente concorrenti e avversari in Medio Oriente, hanno fatto di necessità virtù per cinque anni ma ora […]

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Traiettorie diverse di attraversamento transcaucasico-mediorientale

L’alleanza tra Vladimir Putin e Recep Erdoğan è sempre stata a tempo e i due contraenti non ne hanno fatto mai mistero. Isolati e osservati con diffidenza da buona parte della comunità internazionale, strategicamente concorrenti e avversari in Medio Oriente, hanno fatto di necessità virtù per cinque anni ma ora la politica di appeasement tra i due paesi seguita alle scuse del presidente turco per l’abbattimento del Su-24 russo sui cieli siriani nel 2015, potrebbe essere agli sgoccioli.

Il ritorno di fiamma della guerra in Nagorno-Karabach lo dimostra con evidenza. Non a caso in una recente intervista il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha voluto sottolineare di considerare la Turchia «non un alleato ma un interlocutore stretto».

Mosca e Ankara sono le due principali potenze regionali nell’area che va dal mar Nero al Medio Oriente, passa per la Transcaucasia e lambisce la Persia. Con due traiettorie però assai diverse.

Ascolta “La Russia è solo una potenza regionale” su Spreaker.

 

Confrontando le parabole di Turchia e Russia

L’economia turca a partire dall’inizio del nuovo millennio è cresciuta costantemente, triplicando il proprio Pil. Un decollo economico accompagnato da un potente incremento demografico che ha fatto passare la sua popolazione complessiva da 67 a 83 milioni (a cui va aggiunta la diaspora). Il “neoimperialismo ottomano”, in questo quadro, è il prodotto di una crisi di crescita del paese a cui ormai vanno stretti i confini definiti nel primo Dopoguerra.

La Russia invece, dopo il boom del primo decennio del XXI secolo basato essenzialmente sugli alti prezzi degli idrocarburi sul mercato mondiale e la stabilizzazione sociale interna, vede da molti anni la propria economia stagnare. Dal 2018 la sua popolazione è tornata a contrarsi malgrado milioni di ucraini e centroasiatici abbiano acquisito il passaporto della Federazione: la Banca Mondiale stima che se non ci sarà una svolta, la Russia passerà dagli attuali 145 milioni di abitanti a 131 nel 2050. Dopo la facile vittoria nella guerra con la Georgia del 2008 – che aveva mostrato però dei limiti soprattutto logistico-satellitari – dagli anni Dieci in poi il declino dell’egemonia strategico-militare di Putin sul vicino estero ex sovietico è continuata con la perdita definitiva dell’Ucraina (compensata solo in parte dall’annessione della Crimea) e ora esiste il rischio concreto – a seguito dello sviluppo del movimento di opposizione in Bielorussia – di perdere un altro alleato fondamentale proprio laddove la Nato, grazie all’integrazione di Polonia e paesi baltici, è più aggressiva.

La partnership economica tra le due potenze locali (turismo, abbigliamento, prodotti alimentari e soprattutto forniture di gas russo attraverso Turkish Stream) ha reso più fluide anche le relazioni diplomatiche. La luna di miele tra i due paesi ha raggiunto il suo zenit nel periodo che va dall’acquisto da parte turca del sistema difensivo antiaereo russo S-400 (preferito ai Patriot americani con gran dispetto di Washington) e il sostegno convinto di Erdoğan a Nicolas Maduro nella crisi venezuelana del 2019 e suggellato dagli accordi di Astana per la sistemazione della matassa siriana. Dopo di allora però, lentamente ma inesorabilmente, il corso delle relazioni turco-russe è andato via via peggiorando e la guerra nel Nagorno-Karabach, qualunque sarà il suo esito, marcherà il passaggio in una fase che potremmo definire “postAstana”, foriera di nuove tempeste e procelle nella regione.

In quali intrecci si sta azzoppando Astana?

Le prime avvisaglie che si stava entrando in una fase nuova emerse a inizio 2020 quando ci fu più di una scaramuccia tra Siria e Turchia che vide coinvolto il contingente russo. Qualche mese dopo i due paesi si trovavano a confrontarsi ancora su fronti avversi in Libia. La Turchia sostiene da sempre il governo libico riconosciuto dalle Nazioni Unite, guidato da Fayez al-Serraj, che sta lottando da più di un anno per resistere a un assalto alla capitale Tripoli da parte del comandante ribelle Khalifa Haftar. Quest’ultimo è sostenuto, anche se non formalmente, dalla Russia grazie alla penetrazione dei suoi gruppi di foreign fighters organizzati nell’ormai celebre agenzia dei “wagneriani”, già presente in vari teatri, non ultimi quelli africani. Un modo per la Russia, quello dell’uso di compagnie di ventura, per giocare un ruolo di ago della bilancia in diverse crisi senza esporsi direttamente e soprattutto dai costi economici relativi.

Sia la Russia che la Turchia hanno investito molto in Libia: la Federazione in termini di reputazione, influenza e potenziali accordi petroliferi e la Turchia con interessi commerciali ed energetici ancora più ampi, ma hanno evitato in ogni modo di confrontarsi direttamente. «Quella libica potrebbe essere la loro più grande divergenza, ma ce ne sono altre. Sono a disagio per il ruolo crescente dell’Iran nella regione, che Putin generalmente sostiene fintanto che infastidisce gli Stati Uniti. I turchi odiano il regime di al-Sisi in Egitto che Putin giudica invece positivamente. E sono da sempre ai ferri corti anche con gli israeliani, con i quali Putin ha un solido rapporto di partnership», sostiene Jonathan Schanzer della Foundation for Defense of Democracies, un think tank con sede a Washington.

Presenze strategiche dei due contendenti sullo scacchiere internazionale

Ma nel complesso la partnership rischia di crollare a causa dell’inconciliabilità delle ambizioni geopolitiche. Schanzer, a tale proposito, segnala la grandiosa visione ottomana delineata da uno dei massimi consiglieri di Erdoğan, il generale in pensione Adnan Tanrıverdi, che interpreta la Turchia emergente come una superpotenza islamica con capacità di esercitare autorità e influenza su 61 paesi musulmani con Istanbul a capitale di un inedito califfato.

Putin ha forse obiettivi meno ambiziosi – più tattico che stratega è abituato a misurare ogni passo di politica estera – ma non meno importanti per gli equilibri internazionali. A fronte dell’ulteriore sgretolamento dell’influenza nell’area ex sovietica, Mosca è interessata a inserire dei cunei di propria presenza su scala globale che le permettano di restare al centro di quanto si va definendo nei diversi scacchieri. Un approccio parzialmente diverso da quello del tradizionale contenimento sviluppato dal Cremlino fino a qualche anno fa e che poggiava in gran parte sul suo ruolo di potenza nucleare. La ripresa della guerra in Nagorno-Karabach non sta facendo che accelerare, da questo punto di vista, delle tendenze già in atto.

Un Anschluss turco-azero?

Ma se le scaramucce tra Armenia e Azerbaigian del luglio potevano lasciare presagire che lo scontro ruotasse intorno ai gasdotti azeri Baku-Tbilisi-Ceyhan e quello nel Caucaso meridionale ovvero sulle rotte del reperimento di risorse energetiche alternative a quelle russe nella regione, la guerra iniziata il 27 settembre 2020 dall’alleanza turco-azera ha ben altri obiettivi, in primo luogo di ridefinizione complessiva degli equilibri nella regione. Evidentemente, Erdoğan intende saggiare la reazione russa e dei paesi Nato a fronte di un chiaro tentativo espansionista: in questo senso l’alleanza turco-azera basata sulla teoria “un popolo, due stati” sta realizzando seppur in trentaduesimi, la stessa politica che la Germania negli anni Trenta del XX secolo portò avanti con l’Anschluss e l’occupazione della Cecoslovacchia. Da questo punto di vista Erdoğan ha ricevuto segnali positivi riuscendo a mettere sotto scacco l’Europa con il ricatto dell’ondata migratoria dalla Siria e paralizzando una Russia già alle prese con la crisi in Bielorussia e la querelle di Navalny. Malgrado Francia, Usa e Russia abbiano chiesto con due dichiarazioni comuni il cessate il fuoco, malgrado siano arrivati segnali di inquietudine da parte di molti altri stati, la macchina bellica turco-azera non si è fermata.

Valore “locale” del conflitto caucasico

Allo stesso tempo non va però dimenticato che l’offensiva in Nagorno-Karabach ha obiettivi tutti interni al quadro transcaucasico. Sin dall’inizio del conflitto, malgrado l’Armenia sia parte integrante del Trattato di sicurezza collettiva (l’alleanza militare guidata dalla Russia dopo la fine del Patto di Varsavia), a differenza che in Bielorussia, la Federazione non ha minacciato interventi a fianco di Erevan se non nel caso estremo di aggressione diretta dentro i confini armeni. Una postura che non è certo piaciuta a Nikol Pashinyan, il premier armeno asceso al potere dopo la Rivoluzione di Velluto del 2018. Pashynian è un ex difensore dei diritti civili che guarda per sua formazione e cultura a Occidente. Tuttavia in nome della Realpolitik e delle forniture di idrocarburi a prezzi low-cost è restato legato finora a Mosca, ma l’evidente neutralità assunta dalla Russia nel conflitto nel Nagorno-Karabach potrebbe fargli riconsiderare – a medio termine – il legame con Mosca, ripiegando su una posizione di neutralità. Non è un caso che tutti i suoi sforzi per giungere al cessate il fuoco nelle prime settimane del conflitto abbiano cercato di far leva sui timori della UE (e di Merkel in particolare) per la crescente aggressività turca, anche se Berlino in realtà ha le mani legate perché – piaccia o no – la Turchia resta un membro imprescindibile della Nato.

In questo quadro proprio l’Alleanza Atlantica sta accelerando il suo programma di allargamento a Est. Due settimane dopo l’inizio del conflitto, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha invitato apertamente la Georgia ad aderire al sistema difensivo occidentale: «Siamo concentrati sulla regione del Mar Nero, stiamo sviluppando le nostre capacità marittime, la difesa costiera della Georgia e stiamo conducendo visite di navi Nato nei porti georgiani. Nei nostri negoziati sottolineiamo l’importanza strategica della regione del Mar Nero sia per la Georgia che per gli stati della Nato e siamo pronti ad accoglierla nell’alleanza», ha affermato il segretario generale. Un quadro fosco per la Russia soprattutto in caso di sgancio della Bielorussia e dell’Armenia.

Si tratta ora di capire se il punto di caduta dello scontro nel Nagorno-Karabakh, escludendo la catastrofe di un confronto diretto tra Russia e Turchia, sarà una vittoria completa azera o se, come continuano ad affermare gli esperti di strategia russi, Ilham Aliyev si accontenterà di sedersi al tavolo della trattativa dopo essersi ripreso i corridoi che collegano il Nagorno-Karabakh all’Armenia. In entrambi i casi, Mosca ne uscirà indebolita e dovrà ripensare seriamente ai suoi rapporti con Ankara. A settembre Erdoğan ha annunciato di aver trovato giacimenti di gas nel Mar Nero che dovrebbero garantire entro il 2023 l’autonomia energetica al suo paese. A quel punto allora, i buoni rapporti con Putin, potrebbero per lui essere solo un intralcio.

I timori dell’Occidente per l’attivismo turco

L’Azerbaijan ha fatto intendere che non vuole iniziare alcuna trattativa per risolvere la contesa sull’enclave etnico armeno, senza che vi partecipi direttamente la Turchia. Una posizione che manderebbe in soffitta definitivamente il format del “gruppo di Minsk” a cui partecipano, oltre ai paesi coinvolti nel conflitto, la Francia, gli Usa e la Russia. Un Diktat a cui è seguito l’inevitabile stop di Erevan mentre il segretario di stato Mike Pompeo esortava Erdoğan «a evitare di interferire nel conflitto». La presa di posizione dell’Eliseo, seppur non ufficiale, è stata particolarmente dura. «Il presidente francese ha già espresso preoccupazione per il ruolo della Turchia nel conflitto in Nagorno-Karabach. È motivo di preoccupazione che Erdoğan stia moltiplicando le sue avventure, non tenendo conto della necessità di garantire una sicurezza comune», si legge in un comunicato fatto circolare dalla diplomazia francese nella giornata del 18 ottobre. Macron teme che Erdoğan voglia tastare il polso alla Comunità europea per capire fino a che punto possa spingersi nella propria impunità.

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Strategie turche in preparazione del conflitto caucasico… https://ogzero.org/strategie-turche-in-preparazione-del-conflitto-caucasico/ Wed, 07 Oct 2020 15:31:57 +0000 http://ogzero.org/?p=1439 … e considerazioni sull’esasperazione dei nazionalismi in Azerbaijan, Armenia, Artsakhi Abbiamo ricevuto un articolo da Gianni Sartori a proposito del coinvolgimento turco nelle nuove operazioni militari in Nagorno Karabach, e poi Murat Cinar ha animato una puntata del suo Caffè turco su Radio Blackout e prima avevamo sentito anche Teresa Di Mauro, corrispondente per l’“Atlante […]

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… e considerazioni sull’esasperazione dei nazionalismi in Azerbaijan, Armenia, Artsakhi

Abbiamo ricevuto un articolo da Gianni Sartori a proposito del coinvolgimento turco nelle nuove operazioni militari in Nagorno Karabach, e poi Murat Cinar ha animato una puntata del suo Caffè turco su Radio Blackout e prima avevamo sentito anche Teresa Di Mauro, corrispondente per l’“Atlante delle Guerre” e conoscitrice della realtà armena e di alcune zone di Artsakhi: alterniamo i loro contributi in questo spazio embrionale – destinato ad arricchirsi con altri interventi, utili a raccontare tutti i variegati punti di vista e gli intrecci di interessi.

Nessun confine separa le persecuzioni di armeni e curdi

 

Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si va sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri contro gli armeni.

Ascolta “2020-10-15_Murat-Cinar_zampa turca sulla spalla azera” su Spreaker.

Snodi curdi al margine della logica militare turco-azera

Kars subisce un destino analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanlı nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste. Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe quindi da stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars».

D’altra parte era quasi scontato che Erdoğan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto, mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

Non certo impropriamente era stato definito “un autentico genocidio politico” in Bakur (territori curdi sotto amministrazione-occupazione turca). In riferimento alla destituzione – dopo le elezioni del 2019 – dei legittimi rappresentanti politici eletti nelle liste dell’Hdp (Partito Democratico dei Popoli) e l’arresto di centinaia di militanti dell’opposizione ed esponenti di associazioni curde.

Ma oggi la faccenda si va caricando di ulteriori e peggiori implicazioni.

La città di Kars (in Bakur) è destinata a diventare un centro di smistamento per jihadisti e mercenari di Ankara? Tutt’altro che casuale – per esempio – la repentina imposizione da parte del Ministero dell’Interno del governo Akp-Mhp di Turker Öksüz come fiduciario (governatore, prefetto, podestà…?) alla città curda di Kars. Dopo che i sindaci regolarmente eletti (Ayhan Bilgen e Şevîn Alaca, esponenti dell’Hdp) erano stati preventivamente arrestati insieme a una quindicina di altri esponenti politici nell’ambito delle “indagini di Kobane” (ossia per le proteste del 2014). Cinque membri del consiglio comunale e due membri dell’assemblea generale provinciale venivano sospesi dal servizio o costretti alle dimissioni.

L’arresto del co-sindaco Ayhan Bilgen e di altri esponenti dell’Hdp risaliva al 25 settembre. Le sue dimissioni da sindaco (praticamente un’autosospensione proprio per evitare l’imposizione di un governatore turco) a cinque giorni dopo. Ma – in contrasto con la stessa legislazione turca – questo suo gesto non era stato tenuto in considerazione e la nomina – illegittima – del governatore seguiva il suo corso.

Giustamente si era parlato di una “confisca dei diritti democratici”. Allo scopo, molto presumibilmente, di controllare totalmente questa cittadina ai confini con l’Armenia.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_episodio di luglio” su Spreaker.

Niente di strano e niente di nuovo

Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoğlu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.

Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale “Hurriyet” ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993.

Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdoğan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.

Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_narrativa del conflitto” su Spreaker.

L’esplosione al declino dell’Urss

Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica repubblica d’Armenia.

E il 20 febbraio – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno-azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Ağdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armene. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. È il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.

Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno-Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno stato indipendente sarà approvata con il 99 per cento dei voti.

E a questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).

Guerra dichiarata (1991-1994)

Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.

A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.

Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – ma discretamente e solo a livello logistico – dalla Grecia.

Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex Urss (russi e ucraini).

Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.

Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti.

Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14 per cento del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (il cessate il fuoco è del 12 maggio) prendono il via sotto la supervisione di Mosca.

Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato Osce) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.

Tuttavia – vien da dire – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_situazione incancrenita” su Spreaker.

Per i media occidentali rimane impigliata la definizione “separatisti”

Qualche considerazione in merito alle operazioni propagandistiche in atto (soprattutto da parte di Baku e Ankara) e rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato, pare. Forse perché – tutto sommato – conviene schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola Armenia, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale.

Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il Nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974 (e direi illegalmente, così a naso). Per non parlare della continua evocazione di una – al momento inesistente – partecipazione di militanti del Pkk ai combattimenti (a fianco degli armeni, ovviamente).

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_Nazionalismo dal basso o usato dal potere per compattare” su Spreaker.
Magari! verrebbe da dire. Ma temo che con tutti i problemi che al momento li affliggono (aggrediti come sono da ogni parte, soprattutto dalla Turchia e dai suoi ascari) molto difficilmente i partigiani curdi avranno la possibilità di prendere parte alla resistenza dei loro fratelli armeni. Anche se – presumo – ne sarebbero lieti e fieri.

In fondo di fronte avrebbero l’ennesima versione dei massacratori ottomani, dei responsabili del genocidio degli armeni (poi reiterato) e dei tentativi di genocidio nei confronti di greci, curdi (yazidi in particolare), alaviti, assiro-caldei.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_Dalla rivoluzione di Velluto ai proclami bellicisti di Pashinyan” su Spreaker.

Il business delle armi oltrepassa ogni schieramento: corsi e ricorsi storici

Nel frattempo (gli affari sono affari) pare che la Francia – come Israele (droni Elbit) e l’Italia (M-346 di Leonardo) – non abbia smesso di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non è l’unico paese a farlo naturalmente. Ma la cosa appare stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Anche recentemente nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.

Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku stanno colpendo direttamente la popolazione di Stepanakert.

Una cosa comunque va detta. In qualche modo l’attuale conflitto tra Armenia e Azerbaijan appare propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne è addirittura la “vetrina”). Mi auguro di sbagliarmi, ma intravedo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

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