autodeterminazione Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/autodeterminazione/ geopolitica etc Tue, 13 Sep 2022 17:31:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Popoli oppressi vs cinismo tattico: quale soluzione? https://ogzero.org/il-diritto-dei-popoli-all-autodeterminazione-le-lotte-comuni/ Fri, 26 Feb 2021 12:26:50 +0000 https://ogzero.org/?p=2482 Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano […]

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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano – al di là delle istanze religiose o nazionaliste – per la propria identità, con la volontà di liberare dal controllo dall’esterno di un territorio e delle genti che lo abitano.


Una premessa. Personalmente considero l’indipendentismo come uno degli aspetti assunti dalle lotte per i diritti e per l’autodeterminazione dei popoli. E l’indipendenza uno sbocco possibile, non un destino necessario.

Alla richiesta di analizzare la possibilità di un rapporto organico, stabile e strutturale tra anarchismo e indipendentismo di sinistra, ho sempre risposto con una buona dose di scetticismo.
Tuttavia, dato che le circostanze e le scelte mi avevano portato a solidarizzare con irlandesi, baschi, corsi, curdi e altri (in quanto vittime di una forma di oppressione, una delle tante che devastano questa “valle di lacrime”), senza mai rinnegare i miei trascorsi giovanili inequivocabilmente libertari, ho cercato di vivere dentro questa contraddizione. Per quanto mi è stato possibile, in base al principio della makhnovsina: «Con gli oppressi contro gli oppressori, sempre».
Che poi ci sia anche riuscito, questo è un altro paio di maniche.

L’apparato statale è indispensabile?

In una fase precedente, evidentemente in preda all’ecumenismo, mi ero spinto oltre, scrivendo che «lottare per il superamento della forma-stato a favore dell’autorganizzazione totale delle classi subalterne deriva da una concezione del mondo non dissimile da quella di chi teorizza il superamento dello stato-nazione per l’autorganizzazione della comunità popolare» 1). E mi salvavo l’anima aggiungendo un indispensabile “Forse”. Del resto le “nazioni senza stato” che hanno saputo sopravvivere, conservare tradizioni e linguaggi, combattere l’oppressione e lo sfruttamento e talvolta anche difendere la propria terra dal degrado, non dimostrano, magari senza volerlo, che l’apparato statale non è poi così indispensabile?
Penso quindi che tra libertari e indipendentisti di sinistra (“nazionalisti”? “nazionalitari”? “abertzale”?) ci si possa comunque sopportare, si possa convivere. E talvolta, di fronte al comune nemico del momento, solidarizzare, lottare insieme 2).

Lotte comuni e condivisione

La Storia infatti ha registrato lotte comuni contro capitalismo, fascismo e imperialismo, contro il nucleare e in difesa dell’ambiente, dei diritti umani e dei prigionieri…. Oltre naturalmente alla condivisione di repressione, galera, esilio. Non sono poi mancate reciproche contaminazioni, biografie familiari e personali che si sovrappongono, osmosi tra gruppi libertari e indipendentisti di sinistra.

[…]

Popoli manovrati

Ma negli ultimi anni lo scenario sembra essersi ulteriormente complicato. Non tanto per la possibilità, comunque scarse, di coniugare in maniera duratura le istanze libertarie con quelle indipendentiste. E nemmeno perché questi “nazionalisti” siano cambiati in peggio. Da parte mia mantengo un profondo rispetto per tutti quei militanti baschi, catalani, irlandesi o curdi (da Bobby Sands al Txiki) che hanno perso la vita cercando di coniugare liberazione nazionale e sociale.

Quello che è cambiato, sicuramente in peggio, è l’accresciuta capacità del sistema tecno-industriale-militare dominante (il “caro”, vecchio imperialismo, fase suprema eccetera eccetera) di strumentalizzare i movimenti di liberazione. Anche questo un “effetto collaterale” della globalizzazione? L’autodeterminazione rischia davvero di ridursi, come avvertiva il sociologo catalano Manuel Castells, a una variabile che si usa o si getta a seconda del caso?
Una questione che ovviamente non riguarda soltanto gli anarchici, ma tutta quella sinistra antagonista, non omologata e non addomesticata che ancora si confronta con il diritto dei popoli all’autodeterminazione.
Certo, per i colonizzatori il divide et impera non è una novità. Viene praticato con successo almeno dai tempi di Giulio Cesare.
Le milizie curde alleate della Turchia che (come ha riconosciuto il Parlamento curdo in esilio) parteciparono al massacro degli armeni durante il genocidio del 1915 possono aver fornito un protocollo per l’utilizzo da parte della Francia, e in seguito degli Usa, di alcune minoranze indocinesi contro la resistenza vietnamita. In Irlanda del Nord era il proletariato protestante, maggiormente garantito, a condurre la “guerra sporca” (omicidi settari, spesso indiscriminati) contro gli abitanti dei ghetti cattolici. Da sottolineare che entrambi, indigeni irlandesi e coloni scozzesi, erano di origine celtica (non germanica, come gli inglesi, angli e sassoni). Un elemento in più per sottolineare l’artificiosità e la strumentalità, a tutto vantaggio dell’imperialismo di Londra, della divisione in due comunità reciprocamente ostili.
Putin ha potuto “pacificare” la Cecenia con il ferro e con il fuoco, utilizzando anche bande di ex guerriglieri indipendentisti divenuti collaborazionisti. Sul piano religioso, sciiti e sunniti, a fasi alterne, vengono strumentalizzati in Medio Oriente. Lo stesso avviene con le popolazioni minorizzate – curdi, beluci, turcomanni – alimentando e armando le loro aspirazioni a una maggiore autonomia o all’indipendenza.

Contraddizioni e guerre tra poveri

Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e al-Da’wa, notoriamente filoiraniani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente gli Usa avrebbero utilizzato in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad al-Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?
Anche le “guerre tra poveri” che hanno insanguinato il subcontinente indiano danno l’impressione di essere state in parte manovrate. Nel 2007 alcuni gravi attentati compiuti in occasione di feste nazionali e anniversari dell’India, vennero inizialmente attribuiti ai gruppi islamici. Successivamente emerse la pista dei separatisti del nord-est (bodo, naga…). Nel secolo scorso lo scontro era stato particolarmente duro nell’Assam, dove la maggioranza della popolazione è induista. Dal 1989 al 1996 la guerriglia dei bodo (in maggioranza cristiani) avrebbe causato la morte di migliaia di persone. Nel dicembre 1996 un attentato al Brahamaputra Express, mentre attraversava l’Assam, provocò più di trecento morti. Ancora prima delle rivendicazioni, l’atto terroristico venne attribuito ai bodo che due giorni prima avevano fatto saltare un ponte ferroviario.

Strategia della tensione mascherata da lotta per l’autodeterminazione?

Molto probabilmente in alto loco qualcuno pensa che è “sempre meglio che si ammazzino tra di loro”, purché il controllo del territorio e delle risorse rimanga saldamente nelle mani di chi detiene il potere. Si tratti di un esercito di occupazione, di una multinazionale o di criminalità organizzata come nei pogrom di Ponticelli. E naturalmente anche l’oppresso, il diseredato di turno ci metterà “del suo”.
Un caso limite, a mio avviso, quello dei karen, in perenne fuga tra Birmania e Thailandia e che da qualche tempo verrebbero sostenuti da gruppi neofascisti europei.
Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale e di quelli autonomistici non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Non a caso Manuel Castells ha parlato di «indipendenze a geometria variabile», denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese «a seconda di chi, del come e del quando». Ricordava che osseti e abkhazi si erano ribellati contro la Georgia nello stesso periodo in cui i ceceni si sollevavano contro la Russia. Inizialmente gli Usa appoggiarono l’insurrezione cecena, ma tollerarono facilmente la repressione da parte della Georgia. Analogamente nel caso del Kosovo (dove è stata poi costruita un’immensa base statunitense) si è invocato il diritto all’autodeterminazione, mentre per il Tibet non si va oltre qualche protesta simbolica. Quanto agli uiguri, sembra quasi che non esistano come popolo.

Il cinismo tattico caso per caso

«Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione – ha scritto il sociologo catalano – sono frutto di un cinismo tattico» e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno «strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente». Gli esempi si sprecano. Pensiamo al diverso trattamento riservato ai curdi in Iraq, già praticamente autonomi (e alleati degli Usa a cui hanno consentito di installare alcune basi militari), mentre quelli della Turchia continuavano a essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, grande alleato degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. Nel 2010, dopo una serie di impiccagioni di militanti curdi che l’opinione pubblica mondiale aveva completamente ignorato, i curdi dell’Iran (Partito per una vita libera in Kurdistan, Pjak, considerato il ramo iraniano del Pkk attivo in Turchia) sembravano essersi rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva rivelato “Le Monde”, ma poi la situazione sembra essere cambiata).
Nel caso di Timor Est, la popolazione subì per anni un vero e proprio genocidio nell’indifferenza dell’opinione pubblica. Tra le poche eccezioni, negli anni Settanta, Noam Chomski e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip). Solo di fronte al rischio concreto di una dissoluzione dell’Indonesia intervennero le forze internazionali, ripescando l’ex guerrigliero Gusmão, leader del Frente revolucionària de Timor-Leste independente (Fretilin) per farne il presidente. Pare che inizialmente non ne fosse particolarmente entusiasta, dato che aspirava a ritirarsi dalla vita politica e darsi all’agricoltura. Paradossale che per garantire l’indipendenza di Timor Est venissero impiegati anche soldati inglesi provenienti dalle caserme di Belfast.
E a proposito di Belfast, due situazioni molto simili come l’Irlanda del Nord e il Paese basco negli ultimi anni sembravano aver imboccato strade antitetiche. Soluzione politica, abbandono della lotta armata da parte di Ira, Inla e delle principali milizie lealiste, liberazione dei prigionieri politici e cogestione del governo locale a Belfast e Derry.

Repressione, ancora casi di tortura, tregue effimere, illegalizzazione di partiti (Herri Batasuna, Batasuna, Bildu, Sortu…), associazioni ( Jarrai, Haika, Segi, Gestoras pro Amnistia, Askatasuna…) e giornali (“Egin”, “Egunkaria”) a Bilbo, Donosti e Gasteiz. Solo nel 2012, con la definitiva rinuncia alle armi di Eta e la possibilità per la “sinistra abertzale” di partecipare alle elezioni (con Sortu), si è riaperta la possibilità di una soluzione politica del conflitto. Ma al momento Arnaldo Otegi e altri esponenti indipendentisti rimangono ancora in galera (come se durante le trattative Blair avesse fatto arrestare Gerry Adams) e per i prigionieri politici baschi, in particolare per gli etarras, la situazione rimane molto difficile 3).
La mia ipotesi è che negli anni Novanta il «grande laboratorio a cielo aperto per la controinsurrezione» dell’Irlanda del Nord dovesse chiudere in vista della partecipazione britannica alle guerre in Afghanistan-Iraq e del ruolo fondamentale assunto da Londra. Meno convincente la tesi della conversione di Blair al cattolicesimo, anche se non si può mai dire. Quanto agli Usa, Clinton avrebbe agito per conservare il voto dei cittadini statunitensi di origine irlandese che solitamente votano per i Democratici.

L’ombra dei poteri globali

È ipotizzabile che in Irlanda del Nord la stessa Cia abbia dato una mano per togliere di mezzo qualche capo delle milizie lealiste (filobritanniche) che non aveva compreso la nuova situazione. Ipotesi formulata anche dal compianto Stefano Chiarini. Al contrario, già negli anni Novanta Washington inviava agenti della Cia nel Paese basco per coadiuvare l’apparato repressivo.
Il problema di “quale autodeterminazione” si pone soprattutto nel caso di stati nati dalla colonizzazione, dato che le loro frontiere sono state stabilite in base a trattati europei con cui si decideva arbitrariamente il destino delle popolazioni. I poteri globali reali (economici, militari, tecnologici) stabiliscono caso per caso, di volta in volta, se appoggiare una lotta di liberazione, legittimarne la repressione o anche inventarne una di sana pianta. Al limite della farsa l’episodio che ha visto un gruppo di aspiranti golpisti (quasi tutti membri di una loggia massonica) arruolare mercenari per sobillare la rivolta secessionista nel Cabinda, regione angolana ricca di petrolio. Episodio da segnalare per l’uso spregiudicato di due onlus (Freedom for Cabinda e Freedom for Cabinda Confederation) create appositamente per ricevere donazioni.

Alcuni casi esemplari, storici, di separatismo a puro uso e consumo di qualche potenza coloniale (come il Katanga di Tshombe nell’ex Congo belga) potrebbero tornare di attualità. Per esempio in Bolivia con Santa Cruz, capoluogo di una regione ricca, abitata prevalentemente da discendenti dei colonizzatori, che ha spinto per l’indipendenza. Chissà? Forse Evo Morales (il presidente boliviano esponente del Ma, Movimento al socialismo) ha rischiato davvero di finire come Lumumba, il presidente progressista del Congo, assassinato nel 1961 dagli sgherri di Tshombe al servizio dell’imperialismo belga.
E forse non è un caso che nel 2008, dopo anni di impegno a fianco dei popoli oppressi, la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip), riconosciuta dall’Onu e dall’Unesco, abbia definitivamente sospeso le sue attività. Fondata da Lelio Basso, la Lidlip è stata per trent’anni portavoce delle minoranze, delle popolazioni perseguitate, dei movimenti di liberazione dal colonialismo.

 

NOTE

1) Gianni Sartori, Catalogna – Storia di una nazione senza stato, ed. Scantabauchi, 2007.
2) Ovviamente mi riferisco all’indipendenza come sbocco di una lotta di liberazione, dall’oppressione coloniale classica, “da manuale”. Come nel caso di Algeria, Guinea Bissau, Mozambico, Angola, Irlanda… o dal “colonialismo interno” come potrebbe essere per i Paesi baschi, il Tibet e la Cecenia. A mio avviso si può legittimamente parlare di movimenti di liberazione quando la lotta è anche contro il sistema economico responsabile dell’oppressione (capitalismo, neoliberismo, capitalismo di stato…). Escludendo, per quanto mi riguarda, dall’interessante dibattito partiti come l’Adsav bretone, la Lega Nord o alcuni indipendentisti fiamminghi nostalgici del nazismo.
3) Ma l’auspicata soluzione politica del conflitto è tornata nuovamente al palo dopo la retata del 1° ottobre 2013 contro 18 esponenti di Herrira (tra cui il portavoce Benat Zarrabeitia). Il giudice Eloy Velasco ha accusato l’associazione basca per i diritti umani dei prigionieri politici di essere “un tentacolo di Eta” in quanto avrebbe organizzato manifestazioni di “esaltazione” dei prigionieri baschi.

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Un muro di sabbia che divide gli uomini https://ogzero.org/normalizzazione-del-conflitto-muro-di-sabbia-che-divide-gli-uomini/ Tue, 23 Feb 2021 15:08:05 +0000 https://ogzero.org/?p=2449 In occasione della ricorrenza della nascita – il 27 febbraio 1976 – della Repubblica Democratica Araba dei Saharawi proclamata formalmente dal Fronte del Polisario, riconosciuta da 76 stati, principalmente africani e sudamericani, dall’Unione Africana ma non dall’Onu, pubblichiamo un contributo di Alice Pistolesi sulla situazione dentro e fuori dai campi profughi dell’area. Lo stesso Fronte […]

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In occasione della ricorrenza della nascita – il 27 febbraio 1976 – della Repubblica Democratica Araba dei Saharawi proclamata formalmente dal Fronte del Polisario, riconosciuta da 76 stati, principalmente africani e sudamericani, dall’Unione Africana ma non dall’Onu, pubblichiamo un contributo di Alice Pistolesi sulla situazione dentro e fuori dai campi profughi dell’area. Lo stesso Fronte è riconosciuto solo da alcuni paesi come rappresentante dei separatisti e nessuno stato ha riconosciuto finora formalmente l’annessione del Sahara Occidentale da parte del Marocco. Il muro di sabbia divide la popolazione profuga nel deserto da quella che abita nel Sahara Occidentale, dove tra la normalizzazione del conflitto, repressione ed emergenza sanitaria con aiuti umanitari in ritardo le condizioni di vita sono inconciliabili con il concetto di vita stesso. La rivendicazione saharawi evidenzia una religiosità non riconducibile ad alcuna ortodossia: questa è una caratteristica che accomuna un po’ tutte le comunità che rivendicano una sorta di autodeterminazione e hanno provato a costruirsela.

In attesa della decolonizzazione che non arriverà mai

La linea tratteggiata su una mappa geografica assume più significati: il territorio è conteso, il riconoscimento dello stato non è avvenuto e, altamente probabile, chi lo abita vive quotidiane violazioni di diritti. Uno su tutti, quello all’autodeterminazione.

È questo il caso del Sahara Occidentale, occupato dall’esercito marocchino nel 1975 e considerato dalle stesse Nazioni Unite come l’ultima colonia africana esistente, inserita nella lista dei 17 territori non autonomi in attesa di decolonizzazione.

Nel territorio è attiva dal 1991, anno del cessate il fuoco tra l’esercito marocchino e il Fronte Polisario (la forza armata saharawi), la missione Onu Minurso con il compito di vigilare sulla tregua e di organizzare il referendum che avrebbe dovuto portare il popolo saharawi a decidere del proprio destino, ma che non si è mai svolto.

La popolazione saharawi è quindi tuttora divisa tra chi in quel 1975 lasciò le proprie case cercando rifugio nel deserto algerino e da lì non si è più mosso, è cresciuto, ha composto famiglia, è invecchiato, è morto. E chi invece non ha mai lasciato il Sahara Occidentale e vive sotto occupazione.

Riprendere a combattere

La vita in entrambe le aree è peggiorata con la ripresa delle armi, scaturita il 13 novembre 2020 in seguito alla violazione del cessate il fuoco da parte dell’esercito marocchino. Violazione arrivata dopo che, per 21 giorni, i saharawi avevano occupato il valico di Guerguerat, all’interno dell’area cuscinetto che insiste sul muro di 2700 chilometri fatto costruire a partire dal 1980 dal Marocco e che divide la popolazione profuga nel deserto da quella che abita nel Sahara Occidentale.

Con la ripresa del conflitto è cresciuta di giorno in giorno la repressione esercitata dalle forze marocchine contro la popolazione civile saharawi e nelle carceri. Chi vive nel Sahara Occidentale fa ogni giorno i conti con le costanti violazioni dei diritti umani, testimoniate da numerose organizzazioni internazionali. La stampa estera non può entrare e ogni forma di giornalismo “di strada” è perseguito, così come la stessa cultura saharawi. Nel Sahara Occidentale non ci sono università e ospedali specializzati e il tasso di disoccupazione è altissimo.

Proteste in sostegno dell’attivista Sultana Khaya, dopo l’aggressione a Bojdour

Alcuni casi di repressione

Il giornalista Mohamed Lamin Haddi si trova in carcere in Marocco da 10 anni, con ancora 15 da scontare. Si trova in isolamento, non riceve visite da un anno, può parlare a telefono con la sua famiglia solo pochi minuti a settimana. Ha un’ulcera ma non riceve cure mediche. Dal 13 gennaio 2021 Haddi è in sciopero della fame per protestare contro le condizioni di detenzione. La protesta è iniziata, riferisce “Équipe Média”, agenzia di stampa saharawi che opera in clandestinità, dopo essere stato più volte attaccato nella sua cella da alcuni funzionari.

La Corte di Cassazione marocchina ha confermato il 25 novembre 2020 le pene contro Haddi e altri 22 attivisti saharawi per i fatti avvenuti nel campo di Gdeim Iziz, nella periferia di El Aaiún (la capitale del Sahara Occidentale) nel 2010, quando vennero uccisi 2 manifestanti e 11 agenti marocchini. Nel campo di Gdeim Izik, si erano stabiliti circa 25.000 saharawi per rivendicare diritti sociali. Le condanne confermate dall’ultimo grado di giudizio vanno dai 20 anni di carcere all’ergastolo e sono state imposte, secondo una dichiarazione congiunta di Human Right Watch e Amnesty International «in processi viziati da accuse di tortura» e basati sulle loro confessioni alla polizia, senza altre prove.

L’attivista saharawi Sultana Khaya è stata gravemente ferita il 15 febbraio sotto la sua casa a Bojdour, dove stava scontando da 87 giorni gli arresti domiciliari. Secondo quanto riferiscono fonti vicine alla famiglia, è stata aggredita da agenti di polizia che hanno lanciato pietre contro di lei e sua sorella, ferendole la bocca e rompendole alcuni denti. Nel 2007, durante una manifestazione, un’aggressione della polizia marocchina le era costata un occhio. Dopo l’ultimo atto di violenza decine di persone sono scese in strada in difesa della loro connazionale e per chiedere il rispetto dei diritti umani.

Proteste in sostegno dell’attivista Sultana Khaya, dopo l’aggressione a Bojdour

Costanti anche i rapimenti. A El Aaiún il giovane attivista Ghali Bouhala è stato rapito il 12 febbraio dalle forze di polizia: non se n’è avuta notizia fino a quando non è comparso davanti al Tribunale di primo grado di El Aaiún, accusato di traffico di droga.

Modalità simili anche nei confronti dell’attivista Mohamed Nafaa Boutasoufra. Rapiti il 15 febbraio anche due minori saharawi nella città di Laayoune dalla polizia in borghese.

Da sempre, ma ancor più con la ripresa della guerra, popolano le strade del Sahara Occidentale decine di poliziotti in borghese che controllano i gruppi che si formano nelle strade. Dal 13 novembre sono state molte le manifestazioni di sostegno al Polisario nelle varie città: la polizia si infiltra tra la gente, filmandola, per poi intervenire nei giorni successivi. Le manifestazioni, nei territori, si organizzano prima con il passaparola, poi tramite messaggi.

Vivere da attivisti

Le vite degli attivisti sono simili tra loro. Per essere considerato tale basta davvero poco: cantare canzoni della cultura saharawi, esporre bandiere, vestire il darrâa, l’abito tradizionale.

La paura è una costante. Tutti coloro che si impegnano per la causa sanno che presto o tardi il rapimento, la reclusione, l’aggressione potrebbe capitare a loro e a qualcuno della propria famiglia. Difficile dire quanti siano adesso i prigionieri saharawi nelle carceri marocchine. Prima della guerra le associazioni vicine ai saharawi ne contavano 39. Il 20 novembre 2021 “Équipe Média” individuava 25 nuovi arresti a El Aaiún e diversi casi di maltrattamenti. Nella primavera 2020 era stata lanciata una campagna per la liberazione dei detenuti saharawi avvalorata dal rischio contagio da Covid-19 e sostenuta anche da numerosi parlamentari europei, da diverse ong e da Michelle Bachelet, Alto Commissario Onu per i diritti umani. L’appello è però rimasto inascoltato.

Il Fronte Polisario ha sottolineato che l’attuale ritorno delle azioni militari nel Sahara Occidentale sta provocando «un drammatico aumento della repressione e delle violazioni dei diritti fondamentali dei civili saharawi nel Sahara Occidentale». A dirlo anche organizzazioni internazionali come Human Rights Watch e Amnesty International, che hanno ripetutamente denunciato l’escalation di repressione nei territori saharawi occupati.

Covid-19 e aiuti internazionali in ritardo

Nei campi profughi nel deserto algerino la vita è stata complicata dal combinato disposto tra Covid-19 e guerra. La pandemia ha fatto sì che gli aiuti internazionali, fondamentali per la popolazione che abita in un deserto in cui le condizioni climatiche non permettono in nessun caso l’autosostentamento, sono stati a lungo bloccati. Solo a titolo di esempio, l”associazione spagnola Hurria ha denunciato che i 15.000 chili di aiuti raccolti nel comune spagnolo di Andoain all’inizio del 2020 sono arrivati nei campi nel gennaio 2021.

Campo profughi nel deserto algerino (foto di Camilla Caparrini)

Il terremoto Trump e i suoi lasciti

A complicare la vita dei civili saharawi c’è poi l’accordo che l’ex presidente Usa Donald Trump ha concluso con il Marocco sul riconoscimento della presunta sovranità sul Sahara Occidentale, in cambio di una normalizzazione delle relazioni con Israele.

A questo si somma poi l’apertura di un consolato americano a Dakhla, il grande porto del Sahara Occidentale. Al momento Biden non si è espresso sulla questione ma osservatori rilevano che il percorso del neopresidente non si discosterà troppo da quello del predecessore, come richiesto da buona parte della comunità internazionale e, il 24 gennaio, dal presidente dell’Unione Africana (e del Sud Africa) Cyril Ramaphosa.

Normalizzare la guerra, il vero rischio

A latere di tutto questo c’è la guerra con scontri più o meno quotidiani che da due mesi si susseguono lungo il muro, area altamente militarizzata e costellata da milioni di mine antiuomo. Se nei primi giorni della ripresa del conflitto l’attenzione si era levata su una zona del mondo spesso dimenticata, adesso c’è il rischio che alla normalità del vivere da esuli nei campi profughi in uno dei territori più inospitali del mondo, dell’insicurezza e della repressione dell’abitare sotto un’occupazione, si vada ad aggiungere una nuova normalità: quella di un’ennesima guerra inutile, dannosa e che si poteva decisamente evitare.

Campo profughi nel deserto algerino (foto di Camilla Caparrini)

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Terre (r)esistenti https://ogzero.org/studium/terre-resistenti/ Sun, 07 Feb 2021 16:18:16 +0000 http://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=2340 L'articolo Terre (r)esistenti proviene da OGzero.

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Terre (r)esistenti

L’ambizione all’autonomia e all’indipendenza del popolo saharawi, di quello curdo e di quello palestinese li accomuna nell’impronta laica e progressista e nella persistenza dell’occupazione da parte di soggetti coloniali emanazione dei vecchi imperi ottocenteschi.
La Francia protegge e collabora con il regno marocchino per approvvigionarsi dei fosfati della regione dei saharawi; Israele occupa i territori della vecchia colonia britannica sottraendo le terre ai palestinesi; i curdi sono passati dall’oppressione ottomana al controllo da parte di quattro potenze locali. Tutte queste sono terre (r)esistenti.
Questi tre popoli hanno adottato nel tempo strategie diverse che contemplano anche la lotta armata, ma parzialmente diversi sono i modelli di convivenza che vorrebbero sviluppare, pur partendo da strutture comunitarie abbastanza assimilabili.
Il confederalismo democratico curdo appare come il più avanzato per superare il concetto di stato-nazione; l’attenzione alla democrazia partecipativa del Polisario si ispira a una sorta di socialismo reale fondato anche sulle rimesse della diaspora; la sovrastruttura oligarchica palestinese è infitta nel gioco dell’occupante al punto da rendere ancora più lontana la soluzione del problema.
In tutti e tre i casi è comunque vivace il confronto su una nuova idea di comunità e in tutti e tre i casi le loro disgrazie discendono da trattati disattesi, vulnus del diritto internazionale, che ha prodotto campi profughi per intere esistenze.

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Avanzamento

Saharawi. E da dove arriva questo conflitto

A ridosso del rinnovo della missione Onu Minurso, da sempre bloccata dal veto francese nel suo intento di organizzare il referendum i giovani saharawi avevano cominciato a mobilitarsi per richiedere un cambiamento sfociando a fine novembre in un blocco dell’unica strada che consente il passaggio di merci e uomini tra Maghreb e il Sahel occidentale. È stato l’intervento dell’esercito marocchino che ha imposto la riapertura della via di comunicazione a riaccendere gli scontri armati.

Qualche settimana dopo l’amministrazione Trump usa il contenzioso sul territorio del Sahara occidentale per comprare l’adesione del Marocco agli Abraham Accords e infatti il re Mohammed VI ha riconosciuto Israele, ma questa è un’altra storia che è raccontata dalla serie di documentari di Tullio Togni che trovate qui di seguito.


La ricchezza che impedisce la libertà

Giacimenti di fosfati, uranio, petrolio, e la costa di questa terra tra le più pescose del mondo fanno gola da sempre: la lotta per la libertà di questa terra si è scontrata negli ultimi decenni con i trafficanti di morte (armamenti, cacciatori di risorse…) di paesi europei come l’Italia e la Francia e ora il popolo saharawi si ribella al destino e rifiuta di essere semplice merce di scambio tra le potenze internazionali.


Scongelato un conflitto postcoloniale

Le interviste a El Ajun, Sahara occidentale, a pochi chilometri dal confine con il Marocco costano l’espulsione a Tullio Togni e ai suoi compagni seguiti e fermati dai servizi marocchini. L’attività giornalistica non embedded è un reato gravissimo nel territorio riconosciuto dagli Usa di Trump.
Il dibattito politico è intenso nella democrazia partecipativa della repubblica araba Saharawi, complessa realtà riconosciuta dall’Onu e del tutto simile a una qualunque agglomerazione comunitaria di altre società, locate in territori più ospitali. Qui potete ascoltare interviste a persone che animano queste realtà di servizi gratuiti.

La libertà nelle parole degli anziani che ricordano la loro terra, le loro case e le loro capre: un concetto di ricchezza diverso e perduto per finire sudditi di un regno alieno, perdendo le radici, i sepolcri dei propri cari. Da stabili, autonomi, indipendenti improvvisamente si diventa sottomessi da un invasore che arriva con l’intenzione di commettere un genocidio. E si diventa hijos de las nubes, figli delle nuvole, oppressi.
Gli anni di cessate il fuoco hanno solo congelato una situazione favorevole al Marocco e poi è bastato un presidente suprematista a Washington per far pendere la bilancia in bilico da 28 anni. Ma già prima i giovani saharawi erano spazientiti dalla complicità dell’Onu, e il Fronte Polisario deve seguire le indicazioni del suo popolo, in maggioranza fatto da giovani, colti e preparati, senza prospettive e proiettati verso la piena indipendenza, da conseguire anche con la Guerra, perché un altro proverbio recita: «Non si gioca con la pace».

A partire dall’intervento di Trump che riconosce la sovranità marocchina sul territorio delimitato dal suo stesso muro, costruito da Israele, a cui si aggiunge il dato che vede rapporti commerciali e militari tra il regno alawida e lo stato di apartheid di Tel Aviv, si è ragionato con Tullio Togni riguardo a potenziali comunanze – evidenziando anche le eventuali differenze – tra lotte di autonomia e indipendenza che combattono da più di 40 anni per raggiungere affrancamento da colonialismo e occupazione: saharawi, curdi e palestinesi hanno molti tratti che assimilano le loro vicende.

Rifugiati Saharawi Unhcr


Trump e Biden per la Palestina pari son

Nei suoi anni di mandato presidenziale, Trump ha ascoltato e assecondato tutti i sogni della destra israeliana, ignorando del tutto il diritto internazionale, tagliando gli aiuti all’Autorità nazionale palestinese e all’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati e infine ha affermato, come Israele, che non vanno più considerati tali. Ha proposto il cosiddetto “accordo del secolo”, che ignora praticamente ogni rivendicazione dei palestinesi. Esso prevede per loro uno stato frammentato, su modello dei bantustan sudafricani, ossia la formalizzazione dell’attuale situazione sul terreno, e quindi della colonizzazione israeliana dei territori palestinesi occupati.
Ma la propensione a votare Biden da parte della comunità ebraica americana non significa di per sé un allontanamento da Israele, anche se la spudorata identificazione di Netanyahu con Trump ha alienato almeno in parte le simpatie nei confronti dell’attuale governo israeliano. Nonostante le note differenze tra i due candidati alla Casa Bianca, sulla questione del conflitto israelo-palestinese c’è un sostanziale accordo. Le differenze sono più di metodo che di merito. Su pressione della lobby israeliana, dal programma elettorale del partito democratico è stata tolta la definizione di Israele come “potenza occupante”. Inoltre il candidato democratico ha dichiarato che manterrà l’ambasciata americana a Gerusalemme occupata e appoggerà l’accordo di Abramo promosso da Trump tra Israele e alcuni paesi arabi. Pur affermando di essere a favore della soluzione a due stati (ormai di fatto impraticabile), ha dichiarato che si opporrà in tutti i modi a ogni risoluzione dell’Onu che condanni le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele.



Antiche strade che decidono il destino

Quaranta anni fa la colonizzazione ebraica in Palestina, a macchia di leopardo e apparentemente senza coordinamento, appariva ancora un fenomeno destinato a soccombere presto.

Architetti e strateghi militari, gli stessi pianificatori urbanistici della Gerusalemme moderna dopo la guerra del 1967 e degli insediamenti in Cisgiordania, studiarono a fondo la storia della vasta rete stradale, non soltanto regionale, degli antichi romani, che a loro volta avevano avuto come insegnanti egizi, etruschi, greci. I nuovi conquistatori (all’inizio circondati da paesi nemici) avevano bisogno di vie capaci di consentire uno spostamento rapido di truppe e mezzi militari, spesso da un fronte all’altro. Dal Sinai al Golan o viceversa. Nei territori occupati la rete, oltre a garantire il rapido schieramento di soldati e polizia, ha il compito di facilitare il movimento dei coloni e ridurre al massimo il contatto tra loro e la popolazione palestinese. Le strade, ormai autostrade, sono così diventate strumento di occupazione e di strisciante annessione



Tuareg, i curdi dell’Africa

Il cammino intrapreso dal Pkk (fino ad approdare – nel 1998 – al Confederalismo democratico) era iniziato nei primi anni Novanta (quindi prima della cattura di Öcalan) in coincidenza con la caduta del socialismo reale. Una nuova strategia che rifletteva – tra l’altro – i cambiamenti demografici avvenuti nella società curda. Dei tredici milioni di abitanti di Istanbul, ricorda la giornalista «sei milioni sono curdi» e altri quattro milioni sarebbero i curdi emigrati in Europa. Al punto che ormai, secondo Debbie Bookchin «la maggior parte dei curdi non vive in Kurdistan». Ne consegue pertanto che «la lotta principale non è più nazionale, ma sociale». In qualche modo “più attraente” anche per tutti quei soggetti oppressi e sfruttati, umiliati e offesi che – senza esser curdi – subiscono comunque il tallone di ferro dell’imperialismo e dei vari regimi.
Purtroppo le circostanze sfavorevoli non consentirono un incontro di persona tra Bookchin, già anziano e con problemi di salute, e Öcalan in carcere, spesso sottoposto a lunghi periodi di isolamento. Per cui i loro contatti si limitarono a uno scambio epistolare.
Non abbiamo a che fare soltanto con una o più organizzazioni (Ypg, Jpg, Pkk…), ma anche – soprattutto – con un popolo. Un popolo che – come altre comunità minoritarie o minorizzate (in quanto separate da artificiosi confini statali) presenti in quei territori – rischia periodicamente, se non il vero e proprio genocidio, quantomeno l’etnocidio o l’assimilazione (forzata e non). Non solo quindi i popoli presi in considerazione direttamente in questo studium ma anche le comunità limitrofe subiscono la stessa sorte, in particolare gli azawad stanziali dall’Atlante alla Tripolitania e dal Lago Chad alle dune del Ouagadou.

Il mare di Astana: il Mediterraneo


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]]> Antiche strade che decidono il destino https://ogzero.org/le-vie-del-controllo/ Sun, 17 Jan 2021 12:06:04 +0000 http://ogzero.org/?p=2238 Alto è sicurezza. Alto è potere. Alto domina il paesaggio e come mi illustrava nel 1980 con una nota di orgoglio il portavoce dell’insediamento israeliano tra Gerusalemme e Hebron nella Cisgiordania occupata: «da qui si vede tutto: il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro». Quaranta anni fa la colonizzazione ebraica in Palestina, a […]

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Alto è sicurezza. Alto è potere. Alto domina il paesaggio e come mi illustrava nel 1980 con una nota di orgoglio il portavoce dell’insediamento israeliano tra Gerusalemme e Hebron nella Cisgiordania occupata: «da qui si vede tutto: il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro». Quaranta anni fa la colonizzazione ebraica in Palestina, a macchia di leopardo e apparentemente senza coordinamento, appariva ancora un fenomeno destinato a soccombere presto. L’Egitto di Sadat aveva firmato la pace con Israele e, si diceva, prima o poi la leadership israeliana e quella palestinese avrebbero trovato una via d’uscita dal conflitto. Due popoli si contendevano la stessa terra. Si trattava di mettersi d’accordo soltanto su un compromesso. Ma quale?

Camp David, nel 1978: Begin, Carter e Sadat

Di chi è la terra?

«Là in fondo verso il mare – insisteva il colono (termine che fa pensare a un agricoltore ma nella realtà dei territori occupati è quasi sempre tutt’altra cosa) – ci sono Ashkelon e Ashdod, due nostre antiche città. E poi… si giri. Da quest’altro lato c’è la discesa verso il mar Morto. Vede quel tracciato? È un’antica strada romana». Invece di polemizzare lanciai una provocazione. «Credo di comprendere quello che sente. Sono romano e quella strada l’hanno costruito i miei antenati. Questa terra era nostra…».

Essere ebrei dentro e fuori da Israele

L’archeologia, molto spesso al servizio dell’occupazione, conferma la vasta presenza delle comunità israelitiche nell’antichità relegando in secondo piano o addirittura nascondendo il passato delle altre popolazioni che abitavano questa terra. Quello che Bibbia e Storia non confermano è la pretesa che Israele sia “la patria storica del popolo ebraico”. A respingere questa teoria alla base del sionismo religioso è tornato recentemente uno degli uomini politici israeliani più noti e battaglieri. Avraham Burg, figlio di uno dei fondatori dello stato e del Partito nazional-religioso, ha militato a lungo nel partito laburista, è stato presidente della knesset, il parlamento israeliano, e anche presidente dell’Agenzia Ebraica, l’organizzazione israeliana che sostiene l’ebraicità di Israele e opera in stretto collegamento con le comunità ebraiche in tutto il mondo. «Il patriarca Abramo scoprì Dio al di fuori delle frontiere della Terra d’Israele, le tribù divennero un popolo al di fuori della Terra d’Israele, la Torà fu data fuori dalla Terra d’Israele, e il Talmud di Babilonia, che è molto più importante del Talmud di Gerusalemme, fu scritto fuori della Terra d’Israele. E aggiunge: “Gli ultimi duemila anni, che hanno formato il giudaismo di questa generazione, si svolsero fuori d’Israele. L’attuale popolo ebraico non è nato in Israele”».

Quando la religione costruisce le “vie” dell’occupazione

È una polemica che riguarda il mondo ebraico ma anche chi vuole comprendere origine e strategia della destra israeliana e dei suoi alleati e il furto strisciante delle terre palestinesi. Se una lettura di comodo della religione è – qui come per altri credenti – uno strumento di lotta, pianificazione urbanistica e territoriale sono le armi con le quali va avanti, in modo sistematico, l’occupazione. I vasti quartieri costruiti negli anni immediatamente successivi alla presa di Gerusalemme Est dopo la guerra del 1967 e buona parte degli insediamenti in Cisgiordania sono usciti dalle penne di architetti e strateghi militari. Per loro era essenziale un modello capace di garantire la difesa della nuova popolazione dagli attacchi dall’esterno. Questi stessi pianificatori studiarono a fondo la storia della vasta rete stradale, non soltanto regionale, degli antichi romani, che a loro volta avevano avuto come insegnanti egizi, etruschi, greci. I nuovi conquistatori (all’inizio circondati da paesi nemici) avevano bisogno di vie capaci di consentire uno spostamento rapido di truppe e mezzi militari, spesso da un fronte all’altro. Dal Sinai al Golan o viceversa. Nei territori occupati la rete, oltre a garantire il rapido schieramento di soldati e polizia, ha il compito di facilitare il movimento dei coloni e ridurre al massimo il contatto tra loro e la popolazione palestinese.

Vie di confine e di occupazione (foto di Eric Salerno)

La scuola romana: strategie di colonizzazione

I resti ancora visibili di quella via romana minore indicati dal colono ebraico sul costone dal quale si dominano mare e deserto risalgono ai primi decenni del secondo secolo d.C.. Giulio Cesare, nel 46 a.C. cominciò la presa dell’Africa e la costruzione di intere città lungo la costa meridionale del Mediterraneo. Meno di cento anni dopo la via Nerva, dal nome dell’imperatore che l’aveva ordinata, fu completata da Traiano. Collegava gli insediamenti romani d’Occidente con Alessandria d’Egitto e con la rete viaria che li legava alla Palestina, sul mare, e ai monti e ai deserti all’interno dell’Arabia. Poco meno di duemila anni dopo, i genieri israeliani, hanno seguito gli insegnamenti della scuola romana nel tracciare, a partire dal 1967, la prima grande arteria voluta dal progetto politico dei laburisti per il futuro dei Territori. La Via Allon scorre da Nord a Sud lungo le montagne di Samaria e Giudea. Il suo nome si rifaceva a Yigal Allon, politico e militare israeliano. Il suo scopo era chiaro. Metteva in conto l’eventuale restituzione alla Giordania di parte dei territori occupati salvo Gerusalemme e un vasto corridoio di terra lungo le rive del fiume Giordano per garantire a Israele una minima profondità strategica rispetto ai paesi con cui era formalmente in guerra. Mentre la piattaforma del Likud, il partito di centro di cui oggi Netanyahu è il leader e l’esponente più noto, ha sempre rivendicato per lo stato d’Israele tutto il territorio tra il Mediterraneo e il Giordano, i laburisti apparivano disposti a negoziare anche se ritenevano che per la difesa del paese era necessario annettere almeno una parte, non densamente popolata, della Cisgiordania. Il piano Allon gettò le basi per la situazione attuale in quanto stabiliva la creazione in quel “corridoio” di insediamenti agricoli e residenziali. Dal 1967 al 1977 i governi laburisti, spronati da Shimon Peres – premio Nobel con Rabin e Arafat per gli accordi di Oslo – ne autorizzarono ben ventuno accanto agli avamposti militari, tutti in alto, come Masada. L’antica fortezza che domina il mar Morto e fu scelta, curiosamente, come simbolo della eroica resistenza ebraica antica ai romani: secondo la storia tramandata, i suoi difensori, ribelli contro l’occupazione, si uccisero per non finire in mano ai conquistatori.

La scuola romana: la rete viaria in tempo tra pace e guerra

Israele-Palestina, un pezzo di ciò che i cristiani conoscono come Terra Santa, è intrisa di richiami religiosi e altri legati alle conquiste antiche e meno. In Marco 8:27 si legge: «Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: “Chi dice la gente che io sia?”». La “via” era un antico tracciato romano poche centinaia di chilometri a nord di Masada. Collegava la Galilea con Damasco, il centro amministrativo di Roma, passando dalle alture del Golan, terra siriana che gli israeliani hanno annesso e colonizzato. Coltivazioni, colonie agricole, tanto filo spinato, campi ancora minati e scavi archeologici per dimostrare che gli ebrei abitavano l’altopiano strategico millenni fa. La linea di confine, disegnata da Gran Bretagna e Francia nel 1924, per definire Libano, Israele-Palestina e Siria, segue un tracciato di una delle più importanti arterie della rete stradale romana che tra Mediterraneo e fiume Giordano raggiungeva una lunghezza di mille chilometri. Nel 1983, sottolineando come quella rete fu probabilmente il più importante progetto dell’amministrazione imperiale romana, Israel Roll, uno dei maggiori archeologi israeliani, pubblicò un sommario delle ricerche fatte dagli studiosi a partire dall’Ottocento. «Come per molti imperi – sottolineava – le preoccupazioni maggiori di Roma riguardavano l’amministrazione della provincia nei periodi di calma, e l’organizzazione e trasporto di unità militari alle aree chiave nei momenti di guerra e ribellione». Israele ha imparato la lezione.

“Alto” è potere, sicurezza, controllo

In cima a un’altura sul Golan che si affaccia sulla linea d’armistizio e alcune cittadine siriane, accanto a una postazione della forza di pace dell’Onu e a un bar-ristorante per turisti e pellegrini, gli israeliani hanno piantato un palo con le distanze delle città vicine e più distanti. È là per indicare insieme paura e aggressività anche se, come confermano gli stessi generali israeliani, pochi pensano più a scontri ravvicinati: carri armati e forze di terra sono stati ridotti a favore di droni e missili. E questo, in qualche modo, dovrebbe ridurre anche la giustificazione israeliana per l’occupazione del territorio palestinese come cuscinetto difensivo contro il mondo arabo.

“Alto” è controllo (foto di Eric Salerno)

L’autostrada per l’annessione: il progetto di dominio

Le strade, ormai autostrade, sono così diventate strumento di occupazione e di strisciante annessione della Cisgiordania. Yehuda Shaul, come quasi tutti gli israeliani, ha fatto il servizio militare. È oggi è uno dei leader del movimento per la pace. «Tutti sono convinti che l’annessione della West Bank sia stata congelata con la firma degli accordi di normalizzazione con gli Emirati arabi uniti ma in realtà Israele continua ad accelerare i lavori sull’autostrada per lannessione attraverso lo sviluppo di infrastrutture che consentiranno di raddoppiare il numero dei coloni e di solidificare per sempre il nostro controllo sul popolo palestinese». Pochi giorni dopo la presentazione della sua denuncia, è arrivata da B’Tselem, l’ong ebraica per i diritti umani un’altra denuncia: «Non c’è metro quadrato tra il fiume Giordano e il Mediterraneo in cui un palestinese e un ebreo siano uguali». E per la prima volta l’organizzazione parla apertamente di apartheid. L’accusa è stata subito definita antisemitismo puro. Il nuovo piano urbanistico e stradario per la Cisgiordania occupata, però, sembra confermare l’imposizione e le paure dei pacifisti israeliani. Per almeno due motivi. Da una parte le autostrade in costruzione o già funzionanti creano corridoi e spazi separati per le due popolazioni. Dall’altra, la rete nuova sarà collegata a quella israeliana, sempre più vasta, per consentire un legame diretto tra le comunità all’interno della “linea verde” – i confini finora riconosciuti di Israele –- e quelli dei coloni nei territori occupati.

La conquista dell’Arabia e di quella parte del Vicino Oriente – da Gaza al Libano e nell’interno fino ad Aqaba, sul mar Rosso, e Petra nel deserto della Giordania – non fu formalmente festeggiata da Roma se non dopo il completamento della via Traiana Nova negli anni 120. Soltanto da allora cominciarono ad apparire monete con l’effige di Traiano su un lato, e sull’altro un cammello. Israele non ha ancora completato il suo progetto di dominio su tutto il territorio dal mar Mediterraneo al fiume Giordano.

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La sfida dei curdi è una sfida per l’umanità https://ogzero.org/la-sfida-anarchica-del-rojava/ Mon, 14 Dec 2020 22:17:21 +0000 http://ogzero.org/?p=2071 Prendiamola larga. Riguardo all’annoso dilemma se sia nato prima l’uovo o la gallina, dopo accurate ricerche storico-paleontologiche, propendo decisamente per l’uovo. L’uovo, naturalmente, di qualche piccolo dinosauro ricoperto di piume e penne che – gradualmente o con un improvviso “salto evolutivo” – produsse quello da cui nacque l’antenato ancestrale della gallina. Ovviamente si può dissentire. […]

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Prendiamola larga. Riguardo all’annoso dilemma se sia nato prima l’uovo o la gallina, dopo accurate ricerche storico-paleontologiche, propendo decisamente per l’uovo. L’uovo, naturalmente, di qualche piccolo dinosauro ricoperto di piume e penne che – gradualmente o con un improvviso “salto evolutivo” – produsse quello da cui nacque l’antenato ancestrale della gallina. Ovviamente si può dissentire.

Parimenti, sull’altra sofferta questione se sia nato prima il capitalismo o lo sfruttamento, le gerarchie sociali… propendo – come mi pare sostenga anche Öcalan – per assegnare la primogenitura alla gerarchia, al potere.

Ma – così come le galline disseminano di uova il pollaio e le immediate vicinanze – così il capitalismo ha diffuso a pioggia l’oppressione nelle sue svariate e molteplici forme.

Esiste tuttavia qualche differenza sostanziale. Personalmente (in quanto vegetariano, ma non solo) non appenderei mai una gallina al lampione.

10-100-1000… Rojava?

Il Rojava, un enigma sospeso tra mille buone ragioni e qualche “effetto collaterale” magari indesiderato.

Tra la guerra e l’autogestione, la resistenza e l’ecologia, il rifiuto delle gerarchie e la necessità dell’autodifesa, la rivoluzione delle donne e le milizie in armi…

Un “groviglio” non indifferente.

Per capirci qualcosa di più, abbiamo consultato la mappa realizzata da Norma Santi e Salvo Vaccaro. Un paziente lavoro di documentazione dell’avventuroso, audace esperimento sociale intrapreso dai curdi e dagli altri popoli presenti nella regione considerata, il Rojava. Un testo che analizza – criticamente – soprattutto il versante libertario, la componente “anarchica” (in senso lato).

In La sfida anarchica nel Rojava (pubblicato da “La Biblioteca Franco Serantini”), risulta particolarmente stimolante e chiarificatore  – oltre a quelli di Salvo Vaccaro, Norma Santi e Debbie Bookchin – l’intervento di Raul Zibechi. Essenziale, direi.

Acutamente, risolve una – solo apparente – contraddizione. Ossia, il fatto che tali accadimenti («…il popolo in armi, il ruolo di spicco delle donne, l’autogoverno…») sembrano attendere, per manifestarsi adeguatamente, i tempi duri, le condizioni difficili, se non addirittura disperate («…durante una guerra, in una situazione estremamente critica per la sopravvivenza»). Come avvenne del resto in Ucraina nel 1921 e in Catalunya nel 1936.

Dopo una breve ricostruzione storica delle essenziali vicende (accordi segreti Sykes-Picot del 1916, Dichiarazione Balfour, Trattato di Sèvres del 1920, Trattato di Losanna del 1923, Trattato di Residenza Forzata imposto dalla Turchia nel 1930, le numerose – una trentina – rivolte tra il 1920 e il 1940, l’insurrezione di Dersim nel 1938, la repressione turca degli anni Ottanta e Novanta…), lo scrittore uruguayano spiega come proprio dalla sostanziale evaporazione delle strutture  statali nel Nord della Siria (2011) sgorgasse sia la necessità che la possibilità di formare le Unità di Protezione del Popolo (Ypg) e le Unità di Difesa delle Donne (Ypj), le milizie che l’anno dopo avrebbero liberato Kobane e altre città consentendo al Pyd (Partito dell’Unione Democratica) e al Knc (Consiglio Nazionale Curdo) di amministrare in base ai principi del Confederalismo democratico (ossia del municipalismo libertario). E in seguito – nel gennaio 2013 – ai cantoni di Jazira, Efrin e Kobane di proclamare la loro autonomia. Tra le macerie della guerra civile, i curdi avevano cercato e individuato la «loro strada attraverso l’autogoverno». Un esempio di possibile convivenza pacifica tra curdi, arabi, aramaici, armeni, turcomanni, ceceni…

Zibechi sembra poi voler polemizzare – se pur garbatamente – con l’inveterata abitudine di attribuire sempre e comunque «l’adozione del Confederalismo democratico alla prigionia di Abdullah Öcalan e all’influenza del pensatore  e militante statunitense Murray Bookchin». In fin dei conti, sostiene, «si tratta di una visione colonialista». Invece «la popolazione curda, come gli indigeni latinoamericani, si costituisce attorno a comunità contadine che determinano la loro  identità e la loro cultura». E la proposta del Confederalismo democratico sarebbe quindi «ancorata al recupero delle tradizioni della Mesopotamia». Quelle che altrove definisce «tradizioni libertarie del popolo curdo».

E proprio il nuovo orientamento del Pkk, precedente alla carcerazione di Apo, costituì un elemento che doveva scatenare la «reazione furibonda  degli Stati Uniti e dei loro alleati che decisero di definirlo terrorista e di perseguire il suo dirigente Abdullah Öcalan». I fatti successivi sono tristemente noti. Espulso dalla Siria, poi anche dalla Russia, dopo un breve soggiorno in Italia (pare che in un primo momento D’Alema avesse garantito a Bertinotti l’asilo politico per il leader curdo perseguitato), Öcalan venne catturato – in un’operazione attribuita alla Cia e al Mossad – mentre dall’ambasciata greca in Kenya si recava in Sudafrica (su invito di Nelson Mandela).

Per Zibechi il Pkk costituirebbe un serio problema per l’imperialismo in quanto «ora possiede una proposta  per tutti i popoli del Medio Oriente». Esprimendo le note “quattro critiche”  allo stato-nazione (in sintesi: qualsiasi stato si fonda sul dominio di una classe, presuppone il dominio di un gruppo etnico o religioso sopra gli altri, tutti gli stati si appoggiano sul patriarcato, lo stato ha necessità di una economia produttivistica che porta alla distruzione della madre Terra).

Per cui «non si può farla finita con il capitalismo senza eliminare lo stato e non possiamo liberarci dello stato senza liberarci del patriarcato».

Di passaggio l’autore rimprovera ai partiti della sinistra turca, anche a quelli della sinistra rivoluzionaria, l’evidente inadeguatezza di fronte alla questione curda. A tale riguardo andrebbe evidenziato come invece, proprio le esperienze di resistenza e autogoverno dei curdi sia in Rojava che – per quanto umanamente possibile – in Bakur, abbiano risvegliato – “ringiovanito” – la sinistra turca, rimasta parzialmente “tetanizzata” dopo il golpe del 1980*.

Contributi statunitensi

Tra i vari contributi, numerosi  – prevalenti direi – quelli di autori statunitensi (Debbie Bookchin, Paul Z. Simons, Janeth Biehl, Marcel Cartier*, David Graeber, il sito itsgoingdown).

Non è detto (pensando alla storia della sinistra d’oltreoceano) che siano sempre i più indicati per comprendere tali dinamiche.

È possibile infatti che La Commune, Kronstadt, la Maknovicina, le collettivizzazioni in Catalunya e Aragona del 1936-1937… (fonte di ispirazione, se non addirittura propedeutiche, per quella analoga del Rojava) siano esperienze riconducibili alla tormentata, secolare storia delle classi subalterne europee**. Per qualche autore, niente di più e niente di meno che la «prosecuzione con altri mezzi» delle jacqueries del 1300, delle guerre contadine e delle insorgenze ereticali. Non certo al «turbinio di cattivo acido, al mandarino, di amore libero e della famiglia Manson» che – come doveva ammettere il compianto Paul Z. Simon – contraddistinse le “comuni” nordamericane.

Murray Bookchin: ripensare l’etica, la natura e la società 

Senza fare però di ogni erba un fascio e sottolineando che comunque ci sono nordamericani e nordamericani.

Significativo e importante conoscere – attraverso la testimonianza della figlia – l’origine del rapporto tra il pensatore anarchico – statunitense, ma di origine russa – Murray Bookchin (che molti di noi ricordano, basco in testa, a Venezia nel 1984) e Öcalan.

Racconta la giornalista Debbie Bookchin, esponente dell’Institute for Social Ecology, di quando Murray le rivelò – in modo casuale e disinvolto – che «apparentemente i curdi hanno letto il mio lavoro e stanno cercando di mettere in pratica le mie idee». Un corpo di idee che il filosofo e storico aveva denominato «ecologia sociale». In quei giorni (aprile 2004) Bookchin padre aveva ricevuto una lettera da un intermediario (un traduttore tedesco, Reimar Heider) che scriveva a nome del militante curdo imprigionato a Imrali.

Comprensibile un certo iniziale stupore, visto e considerato che fino ad allora nulla dell’ideologia del fondatore del Pkk «sembrava in alcun modo assomigliare a quella di mio padre». Invece, come spiegò Heider, «Öcalan stava leggendo le traduzioni turche dei libri di mio padre in carcere e si considerava un suo bravo studente»***. Libri che Öcalan aveva potuto ottenere in carcere in quanto necessari alla preparazione di una strategia legale per la propria difesa durante il processo per tradimento. Individuando nella formazione e sviluppo dello stato-nazione (a partire dalle prime espressioni conosciute in Mesopotamia, in contemporanea con la nascita dell’agricoltura, dell’allevamento, della schiavitù, dell’oppressione delle donne…) le origini storiche del conflitto turco-curdo ed elaborando una soluzione democratica per ristabilire un rapporto di reciproco rispetto e di convivenza. Non solo tra curdi e turchi, ma fra tutti i popoli del Medio Oriente.

Il cammino intrapreso dal Pkk (fino ad approdare – nel 1998 – al Confederalismo democratico) era iniziato nei primi anni Novanta (quindi prima della cattura di Öcalan) in coincidenza con la caduta del socialismo reale. Una nuova strategia che rifletteva – tra l’altro – i cambiamenti demografici avvenuti nella società curda. Dei tredici milioni di abitanti di Istanbul, ricorda la giornalista «sei milioni sono curdi» e altri quattro milioni sarebbero i curdi emigrati in Europa. Al punto che ormai, secondo Debbie Bookchin «la maggior parte dei curdi non vive in Kurdistan». Ne consegue pertanto che «la lotta principale non  è più nazionale, ma sociale».

In qualche modo “più attraente” anche per tutti quei soggetti oppressi e sfruttati, umiliati e offesi che – senza esser curdi – subiscono comunque il tallone di ferro dell’imperialismo e dei vari regimi.

Purtroppo le circostanze sfavorevoli non consentirono un incontro di persona tra i due. Bookchin era già anziano e con problemi di salute, Öcalan in carcere, spesso sottoposto a lunghi periodi di isolamento. Per cui i loro contatti si limitarono a uno scambio epistolare. Nell’ultima lettera aveva scritto: «La mia speranza è che il popolo curdo possa un giorno essere in grado di creare una società libera e razionale che permetta al loro splendore ancora una volta di prosperare. Hanno la fortuna di avere un leader del talento di Öcalan per guidarli».

Alla morte di Bookchin (30 luglio 2006), il Pkk lo volle ricordare con una dichiarazione – presumibilmente dettata dallo stesso Öcalan – di due pagine in cui lo definiva «uno dei più grandi scienziati sociali del ventesimo secolo».

E aggiungeva: «Ci ha introdotti al pensiero dell’ecologia sociale, e per questo verrà ricordato con gratitudine dall’umanità. […]  Ci impegniamo a far vivere Bookchin nella nostra lotta. Metteremo questa promessa in pratica come la prima società che stabilisce un tangibile Confederalismo democratico».

Altrettanto meritevoli di attenzione altri contributi internazionali e internazionalisti: latino-americani (l’uruguayano Raul Zibechi, già nominato), turchi (l’intervista a Devrimci Anarsiste Faaliyet) italiani (Norma Santi, Salvo Vaccaro, Eleonora Corace), curdi (Dilar Dirik, Hawzhin Azeer – citata in “Rivoluzionari o pedine dell’Impero?”), tedeschi e – presumibilmente – francesi (G.D. & T.L.).

Per la rivoluzione, non per il martirio e nemmeno per farsi pubblicità

Esaurienti e significative le interviste a chi materialmente “si è sporcato le mani”, i militanti integrati nelle Ypg, Ypj e Irpgf.

In Non per il martirio (a cura di CrimethInc), oltre a spiegare le diverse motivazioni che possono aver spinto giovani turchi, europei, statunitensi a combattere con i curdi, non si lesina qualche critica a certi atteggiamenti e comportamenti. Per esempio di quelli che «provano un enorme piacere a mostrare i loro volti, posano con le armi in pugno e gongolano dei loro successi». Spiegando che – purtroppo – non sono mancati i casi di volontari che «hanno usato il conflitto nel Rojava come veicolo per farsi pubblicità, che fa un po’ parte della logica dell’età del selfie e dei social media». Questo ha permesso ad alcuni di loro (comunque una «piccola percentuale dei combattenti internazionali, in nessun modo rappresentativi delle motivazioni e delle azioni della maggior parte») di «guadagnare piccole fortune scrivendo libri e usando la rivoluzione per i loro guadagni personali». E questa, lo dicono fuori dai denti «è la peggior forma di avventurismo e di opportunismo».

Anche per rispetto a tutti gli internazionalisti morti combattendo contro il califfato (Daesh) o contro l’esercito turco. Tra cui molte compagne: Barbara Kistler, Andrea Wolf, Ivana Hoffman, Ayse Deniz Karacagil, Anna Campbell, Alina Sanchez…

E nel  suo “Poscritto” Norma Santi ricorda in particolare i compagni anarchici caduti: Michael Israel, Robert Grodt, Haukur Hilarsson, Anna Montgomery Campbell (già ricordata), Sehid Sevger Ara Makhno, Lorenzo Orsetti.

Senza dimenticare altri cinque anarchici (Alper Sapan, Evrim Deniz Erol, Caner Delissu, Serat Devrim, Medali Barutcu) uccisi nella strage jihadista di Suruc (20 luglio 2015) costato la vita a 33 giovani turchi e curdi (membri della Federazione delle Associazioni dei Giovani Socialisti) che intendevano portare aiuti ai civili evacuati da Kobane.

Un libro da consultare – si diceva – da studiare. Non solamente, pare ovvio, dagli anarchici o aspiranti tali. Uno spaccato a 360 gradi (o quasi) della complessa situazione (il famoso “groviglio”) del Rojava (ma nel libro si parla anche del Bakur – i territori curdi sotto amministrazione-occupazione turca – e dei monti Qandil).

Qualche ulteriore osservazione senza intenti polemici

Tra le righe de La sfida anarchica nel Rojava si coglie una preoccupazione ricorrente (e comunque legittima per chi se la vuol porre). Ossia quanto siano veramente “rivoluzionari” i compagni curdi. Quanto realmente “anticapitalisti”. E anche quanto realmente “libertari”, se non proprio anarchici.

Preoccupazione legittima – si diceva – ma forse talvolta eccessiva. Dato che non abbiamo a che fare soltanto con una o più organizzazioni (Ypg, Jpg, Pkk…), ma anche – soprattutto – con un popolo. Un popolo che – come altre comunità minoritarie o minorizzate (in quanto separate da artificiosi confini statali) presenti in quei territori – rischia periodicamente, se non il vero e proprio genocidio, quantomeno l’etnocidio o l’assimilazione (forzata e non).

Quindi direi che – forse – non è il caso di cercare, sempre e comunque, il pelino nell’uovo (ancora!).

Ritengo che per i curdi rimanga prioritario il fatto di resistere, sopravvivere. Sia agli eserciti statali che alle milizie parastatali, così come alle squadre della morte… talvolta anche ad altri curdi, più o meno collaborazionisti (vedi, talvolta, il Pdk).

Viceversa, andrebbe apprezzato – e molto – il fatto che in un contesto come quello mediorientale – e di questi tempi poi – qualcuno (se non un intero popolo, almeno una sua componente significativa)  si autorganizzi mettendo radicalmente in discussione le gerarchie consolidate (di stato, di classe, di genere… perfino l’antropocentrismo talvolta).

 

  • * a parziale conferma di quanto sostenuto – la minor adeguatezza degli statunitensi nel comprendere i processi rivoluzionari – e non solo quelli –  riporto quanto scrive Cartier. Senza nemmeno – almeno apparentemente – un filo di ironia: «Sembra il paradosso dei paradossi. Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali sono impegnati in una guerra spietata e implacabile contro il governo siriano di Damasco, proprio questi cosiddetti difensori della democrazia e della libertà che sostengono una delle più spregevoli organizzazioni terroristiche e reazionarie mai viste nella storia recente…». Dove appare alquanto disdicevole (e lo è ovviamente) la copertura data – almeno in una certa fase – a Daesh dagli Usa. Mentre appare – o almeno così sembra, potrebbe sembrare – assai meno disdicevole l’attacco imperialista alla Siria (fermo restando il giudizio negativo su Assad). Messa giù così – senza contestualizzare – si potrebbe anche pensare (è una domanda la mia) che in fondo gli Usa non sbagliano nel sentirsi autorizzati, legittimati a intervenire militarmente contro chi non corrisponde ai loro parametri o si frappone ai loro intenti predatori… o no?
  • ** Per quanto siano state esperienze finora sostanzialmente fallimentari,  rimangono – a mio avviso – non solo valide, ma generalizzabili e applicabili ovunque in futuro dovessero crearsene le condizioni. Con maggior fortuna ci si augura.
  • *** Oltre che da Bookchin, Öcalan sarebbe stato influenzato dal pensiero di Braudel, Wallerstein, Mies, Foucault. Presumibilmente anche dal Comandante Marcos, a sua volta influenzato dal situazionismo di Guy Debord che – lo ricordava la figlia – fu tra coloro (cita anche Herbert Marcuse, Daniel Cohn-Bendit, Huey Newton…) che ebbero con Bookchin uno scambio proficuo di idee e di reciproche contaminazioni.

Abbiamo proposto qui un articolo dal taglio insolito per OGzero: solitamente non pubblichiamo recensioni di libri ma Gianni Sartori in questo caso ha intessuto un legame tra i saggi citati e i temi che ci sono più cari (resistenza, autogoverno, rifiuto delle gerarchie e del patriarcato…) rendendo il “groviglio” mediorientale un paradigma rintracciabile in molte delle vicende che su questo sito cerchiamo di narrare. Inoltre si tratta di portare l’attenzione su un dibattito che riguarda l’atteggiamento rivoluzionario di esperimenti sociali alternativi al modello capitalistico a livello globale – quindi geopolitico – tanto nell’attuale situazione, quanto a livello diacronico.

La foto in copertina è di Kamal Chomani e raffigura un gruppo di curdi che tentano di passare il confine sui monti tra Iraq e Iran.

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Saharawi. E da dove arriva questo conflitto? https://ogzero.org/il-conflitto-in-stallo-da-50-anni-i-muri-nellultima-colonia-africana/ Sun, 22 Nov 2020 17:43:38 +0000 http://ogzero.org/?p=1808 Venerdì 13 novembre 2020 le agenzie di stampa mondiali hanno riportato notizie su un conflitto tra il Regno del Marocco e una organizzazione chiamata Polisario. Scontri a fuoco, in un’area chiamata Ghergarat. Come al solito i lanci di agenzia riportano un fatto d’attualità che sembra uscito dal nulla. Invece la storia del conflitto del Sahara […]

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Venerdì 13 novembre 2020 le agenzie di stampa mondiali hanno riportato notizie su un conflitto tra il Regno del Marocco e una organizzazione chiamata Polisario. Scontri a fuoco, in un’area chiamata Ghergarat. Come al solito i lanci di agenzia riportano un fatto d’attualità che sembra uscito dal nulla. Invece la storia del conflitto del Sahara Occidentale è vecchia di 50 anni e riguarda l’ultima colonia africana.

Karim Matref ha ripercorso tutte le tappe che hanno condotto a questa situazione in un articolo comparso in “La Bottega del Barbieri“. Ne abbiamo ripreso i brani che analizzano gli aspetti più collegati alla contingenza attuale con il progetto di approfondire ulteriormente gli sviluppi [ringraziamo Karim e Daniele per la disponibilità]. Intanto alcuni podcast ottenuti registrando l’intervento di Karim su Radio Blackout giovedì 26 novembre 2020 approfondiscono taluni aspetti accennati nell’articolo, allargando l’analisi geopolitica dell’influenza sulla regione dell’incancrenito dissidio sul Sahara occidentale.

Ascolta “50 anni di muri di sabbia: gli antefatti della resistenza” su Spreaker.

L’ultima colonia africana

Ghergarat è una piccola località di frontiera, che si trova sul confine tra i territori sotto controllo del Fronte Polisario e la Mauritania. La divisione del territorio del Sahara Occidentale dopo il cessate il fuoco del 1991, ha lasciato i territori sotto controllo del Marocco e quindi anche il Marocco, senza nessun collegamento terrestre con la Mauritania. Per riaprire le rotte commerciali verso la Mauritania, e da lì verso altri paesi subsahariani, il Marocco ha tenuto aperto un corridoio di circa 11 chilometri e ha stabilito un posto di frontiera. Facendo del paesino di Ghergarat, di fatto, una specie di enclave marocchina in territorio controllato dal Polisario.

Nonostante questa anomalia, non contemplata negli accordi di pace, la situazione è rimasta stabile in tutti gli anni in cui si sperava in una risoluzione pacifica della controversia. Anche perché quella apertura era una boccata d’ossigeno per tutti.
Poi negli ultimi anni, l’Onu e la comunità internazionale si sono quasi del tutto dimenticati della questione Saharawi. I profughi scappati dai territori occupati verso il Sud dell’Algeria sono rimasti a marcire per 40 anni in campi profughi piantati in mezzo a una delle zone più aride e più calde del deserto del Sahara. Mentre quelli rimasti sotto il controllo del Marocco vivono in una situazione ultra-militarizzata, dove vengono repressi violentemente a ogni segno di dissenso verso la monarchia.

Muro marocchino nel Sahara Occidentale

Recinzioni successive per annessione di territorio

Ascolta “Il mondo oltre il varco di Ghergarat” su Spreaker.

Verso la fine dell’estate scorsa, dei manifestanti civili, sostenuti dall’Organizzazione del Fronte Polisario, hanno cominciato a organizzare delle proteste davanti al valico di Ghergarat, proteste sporadiche che a partire dal 20 ottobre si è trasformato in un blocco permanente, impedendo il traffico da e verso Marocco e Mauritania, con centinaia di Tir bloccati da una parte e dall’altra del confine. In seguito si è scatenata una guerra diplomatica a livello dell’Onu, dell’Unione africana e della Lega araba. Accompagnata da una guerra mediatica. Il Marocco accusando il Polisario (e l’Algeria) di terrorismo, il Polisario accusando il Marocco di violazione degli accordi di cessate il fuoco con l’apertura del passaggio abusivo.

Nella notte del 12 novembre, l’esercito marocchino ha aperto varie brecce nel muro di separazione e ha effettuato operazioni militari in territorio Polisario, riaprendo così con la forza militare la strada e il valico per la Mauritania. A queste operazioni il Fronte Polisario ha dichiarato di aver risposto “in modo adeguato”, annunciando varie operazioni con armi pesanti su postazioni occupate. Non si hanno per ora notizie affidabili sui numeri di feriti e eventuali morti.

Perché adesso e perché Ghergarat?

Perché adesso…?

I fattori che hanno portato agli scontri di questi giorni sono molti. Da alcuni mesi, si era notata una attività intensa della diplomazia marocchina, che approfittando della debolezza del governo algerino, principale sponsor del Polisario a livello internazionale, messo a dura prova dalle proteste popolari per la democrazia, ha cercato di far crescere il consenso internazionale intorno al suo progetto di annessione. Il Fronte Polisario invece è rimasto vigile. In risposta all’attivismo della diplomazia della monarchia, ha attivato delle proteste di civili nei territori occupati. Una di queste è il blocco del valico di Ghergarat.

Il fatto è che la situazione. sia per i Saharawi profughi in territorio algerino che per quelli costretti a vivere sotto occupazione marocchina, è diventata insopportabile. Sono passati 39 anni dagli accordi di cessate il fuoco e non si riesce a fare un passo avanti. I bambini nati in esilio all’inizio del conflitto, ormai hanno più di 40 anni e sia loro che i loro figli non hanno conosciuto altro che i campi di tende e prefabbricati, costruiti in mezzo al deserto. La misura è colma. E anche per evitare il pericolo di rivolte interne, il Polisario è costretto a dare segni di attività.

… perché Ghergarat?

Il piccolo villaggio di Ghergarat è una località minuscola che si trova a 5 chilometri dall’Oceano Atlantico, a 11 chilometri dal muro di sicurezza marocchino e in prossimità della frontiera con la Mauritania. Ed è questa sua posizione che lo rende importantissimo. Per il Marocco, il valico di Ghergarat è l’unica porta stradale verso la Mauritania e l’Africa Subsahariana. La sua apertura ha permesso la riapertura delle rotte commerciali tra il Regno e il resto del Continente. Per il Fronte Polisario che ha vari accessi sia verso l’Algeria sia verso la Mauritania, il valico del Ghergarat è importante solo perché è l’unico punto debole sul quale può agire per fare pressione sul Marocco.

Blocco del valico di Gergharat

Saharawi bloccano il valico di Ghergarat dal 30 ottobre 2020

Il contesto regionale

Questa riaccensione di un conflitto che sembrava da tempo assopito, arriva in un momento di profonda crisi per tutta la Subregione del Nord Africa. Il caos in Libia e in Mali creano tensioni che in ogni momento possono portare la zona, in modo particolare la Tunisia e l’Algeria, a entrare a pieno piede nel conflitto armato.

Una Algeria debole…

L’Algeria, che è un attore importante in questo conflitto, anche lei vive difficoltà economiche dovute al crollo dei prezzi del petrolio e del gas, e attraversa un lungo periodo di turbolenza politica.

Le dimissioni del vecchio presidente Bouteflika e l’elezione contestata del nuovo presidente, Abdelmadjid Tebboune, dovevano calmare la piazza algerina. Invece il popolo non è soddisfatto e chiede un cambiamento radicale del sistema politico e continua a protestare. È solo grazie alla crisi del Covid 19, se il governo ha avuto una tregua. Ma la protesta continua sui mezzi di comunicazione e la popolazione è decisa a tornare in piazza appena la situazione sanitaria lo permetterà.

Ascolta “Lo stallo ad Algeri e la resistenza del movimento Hirak: un sistema da sovvertire” su Spreaker.
Questa debolezza si nota con la poca convinzione con cui il regime ha organizzato l’ultimo referendum per le riforme costituzionali. La consultazione doveva essere una specie di plebiscito per il governo del neoeletto presidente Tebboune.
Ma la sua organizzazione è stata un fiasco totale. Nemmeno la macchina della falsificazione, di solito molto efficace, ha funzionato molto bene questa volta. Il regime ha dovuto dichiarare una partecipazione di circa 30% (nell’arte della decriptazione dei codici del regime, questo si traduce in meno del 10%). Questo vuol dire che nemmeno il regime stesso è compatto.

La caduta del clan di Abdelaziz Bouteflika ha creato degli sconvolgimenti importanti, tutti i dignitari del sistema prima del 2019 sono in carcere per corruzione. Ma questo non è segno di lotta alla corruzione stessa. Ma segno di guerra interna senza esclusione di colpi. Il presidente Tebboune è malato. Ricoverato in Germania. Voci di corridoio parlano di Covid 19. Altre lasciano capire che potrebbe essere un avvelenamento. Comunicati ufficiali chiari sulla questione non ce ne sono. L’unica istituzione stabile nel paese rimane l’Esercito Nazionale Popolare (Anp). Anche se il nuovo Capo di Stato Maggiore, il Generale Said Changriha non ha la smania del protagonismo come il suo predecessore, Gaid Salah, rimane comunque l’unica autorità incontestata nel paese. E il coinvolgimento del paese in uno scontro (anche se non diretto) porterebbe a rafforzare il posto dell’esercito e a annullare lo sforzo della protesta popolare che chiama da anni a uno Stato Civile, non controllato dai militari.

… e un Marocco malato

Anche la Monarchia Marocchina sta passando momenti difficili. Il Re Mohammed VI anche lui è malato. Probabilmente molto gravemente, viste le tensioni che questa situazione ha creato. È da tempo assente dalla gestione del paese. Sua moglie, Salma, è scomparsa dalla scena pubblica dopo aver chiesto il divorzio. Non si sa se si è nascosta per paura per la propria vita o se è stata “nascosta” per evitare scandali.

Il figlio, Hassan III, è ancora troppo giovane per regnare in caso di dipartita precoce dell’attuale monarca, e quindi ci sono tensioni interne al palazzo. Il fratello del Re, Rachid, è d’accordo con le sorelle a ereditare il trono. Alcuni organi di stampa hanno dato eco persino a una voce che parla di complotto sventato che aveva per obiettivo quello di eliminare il giovane principe. Fake news totale? verità parziale? difficile stabilire la linea tra il vero e il falso in un contesto in cui è tutto segreto di stato. Ma non c’è mai fumo senza almeno un fuocherello. E le tensioni interne al Palazzo quando sono forti si sentono.

Mentre la famiglia reale litiga per il potere, il paese è in gravi difficoltà economiche, il carovita strangola le famiglie e un’orda di affaristi affamati sta saccheggiando il paese. La crisi del Covid ha messo alla luce del giorno la grave situazione della sanità pubblica, e le restrizioni alla circolazione mettono in difficoltà ampie fette della società, soprattutto quelle più fragili.

Se non scoppiano disordini ovunque è, anche qui, merito della crisi sanitaria e dello stato di emergenza imposto ovunque.

Niente di meglio di una crisi con la già odiata popolazione Saharawi e con l’Algeria, il nemico di sempre, per far dimenticare i guai interni.

Ma questa crisi potrebbe anche essere una porta d’uscita

Adesso che la Costituzione è stata cambiata, niente impedisce all’esercito algerino di entrare nelle terre sotto controllo della Rasd per «difendere i limiti designati negli accordi di cessate il fuoco del 1991». Un ingresso dell’esercito algerino in territorio saharawi darebbe finalmente alla monarchia marocchina ragione sul fatto che il nemico algerino (e non i predatori interni) è la causa di tutta l’infelicità del popolo.

Tamburi di guerra vogliono dire limitazione delle libertà, chiusura della poca libertà di espressione presente nei due paesi, più soldi e mezzi per l’esercito, le forze dell’ordine… Militarizzazione dello spazio pubblico. Una manna in tempi di vacche magre.

Ma questa piccola escalation degli ultimi giorni, da un’altra parte,  potrebbe non essere poi così negativa. Anzi, potrebbe essere una opportunità.

Rifugiati Saharawi Unhcr

45 anni di esilio in tenda in mezzo al deserto

La situazione è bloccata in questo stato di non guerra e non pace da ormai 50 anni. La vita dei Saharawi è un inferno ovunque. Ma il conflitto del Sahara Occidentale avvelena la vita di tutto il Nord Africa e anche buona parte del continente. Le rotte tradizionali di scambio tra popoli sono interrotte da decenni. Il confine tra Algeria e Marocco è chiuso da quasi 60 anni, la circolazione tra Marocco e Mauritania è molto difficile.

In epoca coloniale, era possibile viaggiare in treno da Marrakech fino al Mar Rosso. Oggi è impensabile.

Ascolta “Un conflitto che avvelena l’intera regione, un deserto dotato di risorse alternative” su Spreaker.
Le relazioni diplomatiche, già non facili, sono complicate da questo scontro.  Spesso gli stati sono costretti a scegliere una posizione per o contro, in una questione che non tutti riescono a capire. Questa costrizione porta per esempio i lavori delle organizzazioni dell’Unione Africana e della Lega Araba a essere profondamente disturbate dalla tensione che genera il conflitto Marocco/Algeria. E questo impedisce qualsiasi piano di sviluppo integrato tra i paesi del Maghreb e tra questi e i loro vicini del Sahel. Anche gli incontri delle società civili africane, come è stato il caso nei Forum Sociali di Dakar e Tunisi, sono disturbate dagli scontri delle organizzazioni inviate dai Servizi segreti del Fronte Polisario e del Marocco, per creare zizzania e impedire un dibattito sereno sulla questione.

Nonostante i pericoli di escalation, questa mossa da qualsiasi parte venga potrebbe anche essere un passo verso un ulteriore sviluppo e la possibilità, se c’è volontà e buon senso da tutte le parti, di uscire da un fastidioso stato di muro contro muro che dura da più di mezzo secolo e che ha veramente logorato tutti.

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Trump o Biden? Per i palestinesi pari sono https://ogzero.org/trump-o-biden-per-i-palestinesi-pari-sono/ Fri, 06 Nov 2020 18:21:05 +0000 http://ogzero.org/?p=1674 Mentre il mondo è in trepida attesa che il bizzarro sistema elettorale statunitense consenta di sapere chi sarà l’uomo più potente del pianeta nei prossimi quattro anni, c’è chi sa già di non potersi aspettare niente di buono, comunque vada: i palestinesi. Non che non ci siano novità rilevanti. Per esempio, queste elezioni segnano il […]

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Mentre il mondo è in trepida attesa che il bizzarro sistema elettorale statunitense consenta di sapere chi sarà l’uomo più potente del pianeta nei prossimi quattro anni, c’è chi sa già di non potersi aspettare niente di buono, comunque vada: i palestinesi.

Non che non ci siano novità rilevanti. Per esempio, queste elezioni segnano il divorzio forse definitivo tra gli ebrei israeliani e quelli americani. Mentre nei sondaggi più del 63 per cento dei primi si augura la vittoria di Trump, Biden ha ottenuto l’appoggio di oltre il 70 per cento dei secondi. Solo tra gli ebrei ortodossi (circa il 10 per cento della comunità ebraica nordamericana) c’è una netta maggioranza a favore di Trump. Questa differenza di posizioni si era già manifestata in precedenza, per esempio nel caso di Obama, esecrato in Israele ed entusiasticamente votato dagli ebrei statunitensi. Tuttavia questa volta la polarizzazione esasperata indotta da Trump e le politiche sempre più razziste e annessioniste di Netanyahu sostenute dal presidente suprematista sembrano aver scavato un solco difficile da rimarginare, come sostiene Sylvain Cypel nel suo L’État d’Israël contre les juifs (Paris, La Découverte, 2020, pp. 237-262).

Trump: antisemita e filoisraeliano

È vero che l’elettorato ebraico è sempre stato più propenso a votare democratico, ma in questo caso evidentemente chi vive negli Stati Uniti è particolarmente preoccupato per le cattive frequentazioni, il razzismo più o meno esplicito e le tendenze autocratiche dell’inquilino della Casa Bianca. Durante incontri con organizzazioni ebraiche l’attuale presidente ha più volte accusato gli ebrei americani di essere sleali nei suoi confronti, dato tutto quello che ha fatto per Israele, e affermato che Israele «è il vostro paese» e che «Netanyahu è il vostro primo ministro». Si tratta di affermazioni che molti considerano antisemite. Infatti implicano che in realtà gli ebrei non sono a tutti gli effetti cittadini statunitensi, che il loro posto, il loro paese, è altrove. Ed è nota la vicinanza di Trump a gruppi suprematisti bianchi, il cui antisemitismo si è manifestato anche in episodi sanguinosi, come nel caso dell’attacco terroristico dell’ottobre 2018 contro una sinagoga conservatrice (che, a dispetto del nome, è una corrente religiosa ebraica non dogmatica) a Pittsburgh, costato la vita a 11 persone. La partecipazione di Trump alle esequie venne accompagnata da manifestazioni ostili, anche da parte della comunità ebraica locale, con slogan come le parole hanno un significato e costruiamo ponti e non muri, in riferimento all’ambiguità del presidente rispetto alle violenze dell’estrema destra e alle sue politiche contro l’immigrazione.

Trump ha fatto di tutto per ingraziarsi Israele e i suoi sostenitori. Da subito si è circondato di finanziatori di colonie, come il genero e consigliere per il Medio Oriente Jared Kushner e l’ambasciatore in Israele David Friedman, in precedenza suo avvocato. Ha nominato Mike Pompeo, un cristiano-sionista, segretario di stato. Uno dei suoi principali finanziatori è il miliardario Sheldon Adelson, altro benefattore delle colonie. Non si può dire che Trump abbia deluso la destra israeliana.

Accolti e ispirati tutti i più reconditi sogni sionisti

Nei quattro anni al potere, ignorando totalmente il diritto internazionale e l’Onu, ha riconosciuto la sovranità israeliana sulle Alture del Golan occupate, ha spostato l’ambasciata degli Usa a Gerusalemme, ha tagliato gli aiuti all’Autorità nazionale palestinese e all’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati infine ha affermato, come Israele, che non vanno più considerati tali. Ha proposto il cosiddetto “accordo del secolo”, che ignora praticamente ogni rivendicazione dei palestinesi. Esso prevede per loro uno stato frammentato, su modello dei bantustan sudafricani, ossia la formalizzazione dell’attuale situazione sul terreno, e quindi della colonizzazione israeliana dei territori palestinesi occupati. Ha spinto Emirati arabi uniti, Bahrein e Sudan a firmare accordi “di Abramo” per normalizzare le relazioni con Israele, rompendo il fronte solidale con i palestinesi. Negli ultimi giorni della campagna elettorale la sua amministrazione ha preso due iniziative clamorose.  Prima il segretario di Stato Mike Pompeo ha proposto di inserire nella lista delle organizzazioni antisemite alcune importanti ong per i diritti umani critiche con Israele, tra cui Amnesty International, Human Rights Watch e Oxfam. Poi l’amministrazione americana ha firmato un accordo che annulla il veto ai finanziamenti provenienti da Washington alle istituzioni scientifiche che si trovano nelle colonie, in particolare all’università di Ariel, già lautamente foraggiata da Adelson. Trattandosi di un accordo internazionale, la prossima amministrazione statunitense non potrà annullarlo unilateralmente. Oltre agli ovvi vantaggi economici, si tratta di un riconoscimento di fatto delle colonie israeliane, illegali in base al diritto internazionale.

Sette evangeliche, coloni e millenarismo cristiano-sionista

La predilezione di Trump per Israele non deriva solo dalla vicinanza con le posizioni nazionaliste e razziste che dominano ormai da anni il paese. Una parte consistente, e determinante per numero e attivismo, dell’elettorato dell’attuale presidente è rappresentato dalle sette evangeliche cristiano-sioniste. Non a caso due pastori di queste congregazioni hanno partecipato all’inaugurazione dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme. Si tratta di decine di milioni di fedeli, con posizioni molto conservatrici. Nell’ultimo numero de “L’Espresso” un articolo su di loro li descrive come tradizionalisti e antiabortisti, ma tace sulla loro allucinata visione escatologica che li porta a sostenere ciecamente Israele: il ritorno di tutto il popolo ebraico nella Terra promessagli da dio porterà alla fine del mondo e al giudizio universale. A quel punto gli ebrei che non si convertiranno alla vera fede verranno condannati alle pene dell’inferno. Il sionismo cristiano, risalente al cristianesimo apocalittico medievale, ha preceduto anche in epoca contemporanea il sionismo ebraico. Questa teologia millenarista corrisponde significativamente (tranne che per l’esito finale) con quella dei coloni israeliani più estremisti, come per esempio i nazional-religiosi di cui fa un quadro Renzo Guolo in Terra e redenzione. Il fondamentalismo nazional-religioso in Israele (Milano, Guerini e associati, 2005). Per loro la riconquista di tutta la terra dei padri (che, a seconda delle interpretazioni, può includere buona parte del Medio Oriente, e sicuramente tutta la Giordania) porterà alla comparsa del messia e alla liberazione dell’umanità. Sia per i nazional-religiosi che per i cristiano-sionisti un passo fondamentale è rappresentato dalla ricostruzione del Terzo Tempio sul luogo dove ora si trova la Spianata delle Moschee. Di questa teologia apocalittica, estremamente radicale e pericolosa, non si parla praticamente mai nelle cronache dal Medio Oriente, oppure viene considerata alla stregua di un’innocua bizzarria. Eppure vari deputati della Knesset e ministri dei governi Netanyahu fanno parte di questo movimento strettamente legato ai coloni più estremisti. Il rapporto tra le due correnti religiose è talmente stretto e il favore di cui godono i cristiano-sionisti presso il governo israeliano è tale che, nonostante il blocco determinato dalla seconda ondata del Covid-19, a una sessantina di cristiano sionisti è stato consentito di entrare in Israele per aiutare i coloni israeliani nella vendemmia.

Differenze apparenti, prassi consolidate

Ma la propensione a votare Biden da parte della comunità ebraica americana non significa di per sé un allontanamento da Israele, anche se la spudorata identificazione di Netanyahu con Trump ha alienato almeno in parte le simpatie nei confronti dell’attuale governo israeliano. Nonostante le note differenze tra i due candidati alla Casa Bianca, sulla questione del conflitto israelo-palestinese c’è un sostanziale accordo. Le differenze sono più di metodo che di merito. C’è da supporre che, se eletto, Biden sarà un presidente più felpato e non si muoverà con la delicatezza di un elefante in una cristalleria come il suo predecessore. Il candidato democratico è stato il vicepresidente di Obama, che ha più volte manifestato insofferenza, anche a livello personale, nei confronti delle intemperanze e della sfrontatezza di Netanyahu. L’accordo sul nucleare iraniano e il tentativo fallito di congelare la colonizzazione della Cisgiordania hanno messo i due politici in palese conflitto. Ma a fine mandato lo stesso Obama ha firmato un accordo per la concessione di aiuti militari a Israele: 10 miliardi di dollari in 10 anni, una cifra senza precedenti nella storia della politica estera statunitense.

Biden e Harris; un amore condizionato per Israele

La campagna per le primarie democratiche e poi per le presidenziali ha dimostrato la condiscendenza di Biden nei confronti di Israele. Su pressione della lobby israeliana, dal programma elettorale del partito democratico è stata tolta la definizione di Israele come “potenza occupante”. Inoltre il candidato democratico ha dichiarato che manterrà l’ambasciata americana a Gerusalemme occupata e appoggerà l’accordo di Abramo promosso da Trump tra Israele e alcuni paesi arabi. Pur affermando di essere a favore della soluzione a due stati (ormai di fatto impraticabile), ha dichiarato che si opporrà in tutti i modi a ogni risoluzione dell’Onu che condanni le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele. Quanto alla sostanza di quanto avviene sul terreno, se sarà eletto riprenderà l’estenuante manfrina dei “negoziati di pace”, che non sono altro che la foglia di fico diplomatica che ha finora consentito a Israele di continuare con la colonizzazione e l’occupazione. Inoltre pare che abbia un ottimo rapporto personale con Netanyahu. Infine Tony Blinken, consigliere di Biden, ha garantito l’impegno del futuro presidente per contrastare il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (Bds) contro Israele.

Per parte sua, Kamala Harris, candidata alla vice-presidenza, è ancora più filoisraeliana di Biden. Ha affermato che gli aiuti militari a Israele non saranno subordinati alle decisioni politiche del suo governo, garantendo implicitamente che non ci saranno reazioni significative nel caso in cui Israele annetta parte dei territori occupati. Harris ha partecipato a vari incontri con le organizzazioni della lobby filoisraeliana. Suo marito, l’avvocato ebreo Douglas Emhoff, durante un comizio in Florida ha affermato che per la moglie «Israele non è un gioco politico. Il suo futuro come stato ebreo e democratico sicuro non è negoziabile. Ve lo posso assicurare».

C’è infine da aggiungere che, oltre alle rispettive convinzioni personali, Biden e Harris devono adeguare la propria posizione agli interessi dei principali finanziatori della loro campagna elettorale, tra cui ci sono alcuni potenti gruppi e personaggi che appoggiano attivamente Israele.

Comunque Israele non sta perdendo tempo. La coordinatrice umanitaria dell’Onu per i territori palestinesi occupati ha denunciato che martedì scorso, proprio durante il voto Usa, forze israeliane hanno distrutto il villaggio palestinese Khirbet Humsa, lasciando senza casa 73 persone, tra cui 41 minori, nel pieno dell’autunno e con l’incombere dell’epidemia di Covid-19.

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Strategie turche in preparazione del conflitto caucasico… https://ogzero.org/strategie-turche-in-preparazione-del-conflitto-caucasico/ Wed, 07 Oct 2020 15:31:57 +0000 http://ogzero.org/?p=1439 … e considerazioni sull’esasperazione dei nazionalismi in Azerbaijan, Armenia, Artsakhi Abbiamo ricevuto un articolo da Gianni Sartori a proposito del coinvolgimento turco nelle nuove operazioni militari in Nagorno Karabach, e poi Murat Cinar ha animato una puntata del suo Caffè turco su Radio Blackout e prima avevamo sentito anche Teresa Di Mauro, corrispondente per l’“Atlante […]

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… e considerazioni sull’esasperazione dei nazionalismi in Azerbaijan, Armenia, Artsakhi

Abbiamo ricevuto un articolo da Gianni Sartori a proposito del coinvolgimento turco nelle nuove operazioni militari in Nagorno Karabach, e poi Murat Cinar ha animato una puntata del suo Caffè turco su Radio Blackout e prima avevamo sentito anche Teresa Di Mauro, corrispondente per l’“Atlante delle Guerre” e conoscitrice della realtà armena e di alcune zone di Artsakhi: alterniamo i loro contributi in questo spazio embrionale – destinato ad arricchirsi con altri interventi, utili a raccontare tutti i variegati punti di vista e gli intrecci di interessi.

Nessun confine separa le persecuzioni di armeni e curdi

 

Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si va sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri contro gli armeni.

Ascolta “2020-10-15_Murat-Cinar_zampa turca sulla spalla azera” su Spreaker.

Snodi curdi al margine della logica militare turco-azera

Kars subisce un destino analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanlı nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste. Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe quindi da stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars».

D’altra parte era quasi scontato che Erdoğan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto, mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

Non certo impropriamente era stato definito “un autentico genocidio politico” in Bakur (territori curdi sotto amministrazione-occupazione turca). In riferimento alla destituzione – dopo le elezioni del 2019 – dei legittimi rappresentanti politici eletti nelle liste dell’Hdp (Partito Democratico dei Popoli) e l’arresto di centinaia di militanti dell’opposizione ed esponenti di associazioni curde.

Ma oggi la faccenda si va caricando di ulteriori e peggiori implicazioni.

La città di Kars (in Bakur) è destinata a diventare un centro di smistamento per jihadisti e mercenari di Ankara? Tutt’altro che casuale – per esempio – la repentina imposizione da parte del Ministero dell’Interno del governo Akp-Mhp di Turker Öksüz come fiduciario (governatore, prefetto, podestà…?) alla città curda di Kars. Dopo che i sindaci regolarmente eletti (Ayhan Bilgen e Şevîn Alaca, esponenti dell’Hdp) erano stati preventivamente arrestati insieme a una quindicina di altri esponenti politici nell’ambito delle “indagini di Kobane” (ossia per le proteste del 2014). Cinque membri del consiglio comunale e due membri dell’assemblea generale provinciale venivano sospesi dal servizio o costretti alle dimissioni.

L’arresto del co-sindaco Ayhan Bilgen e di altri esponenti dell’Hdp risaliva al 25 settembre. Le sue dimissioni da sindaco (praticamente un’autosospensione proprio per evitare l’imposizione di un governatore turco) a cinque giorni dopo. Ma – in contrasto con la stessa legislazione turca – questo suo gesto non era stato tenuto in considerazione e la nomina – illegittima – del governatore seguiva il suo corso.

Giustamente si era parlato di una “confisca dei diritti democratici”. Allo scopo, molto presumibilmente, di controllare totalmente questa cittadina ai confini con l’Armenia.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_episodio di luglio” su Spreaker.

Niente di strano e niente di nuovo

Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoğlu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.

Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale “Hurriyet” ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993.

Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdoğan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.

Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_narrativa del conflitto” su Spreaker.

L’esplosione al declino dell’Urss

Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica repubblica d’Armenia.

E il 20 febbraio – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno-azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Ağdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armene. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. È il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.

Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno-Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno stato indipendente sarà approvata con il 99 per cento dei voti.

E a questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).

Guerra dichiarata (1991-1994)

Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.

A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.

Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – ma discretamente e solo a livello logistico – dalla Grecia.

Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex Urss (russi e ucraini).

Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.

Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti.

Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14 per cento del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (il cessate il fuoco è del 12 maggio) prendono il via sotto la supervisione di Mosca.

Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato Osce) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.

Tuttavia – vien da dire – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_situazione incancrenita” su Spreaker.

Per i media occidentali rimane impigliata la definizione “separatisti”

Qualche considerazione in merito alle operazioni propagandistiche in atto (soprattutto da parte di Baku e Ankara) e rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato, pare. Forse perché – tutto sommato – conviene schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola Armenia, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale.

Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il Nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974 (e direi illegalmente, così a naso). Per non parlare della continua evocazione di una – al momento inesistente – partecipazione di militanti del Pkk ai combattimenti (a fianco degli armeni, ovviamente).

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_Nazionalismo dal basso o usato dal potere per compattare” su Spreaker.
Magari! verrebbe da dire. Ma temo che con tutti i problemi che al momento li affliggono (aggrediti come sono da ogni parte, soprattutto dalla Turchia e dai suoi ascari) molto difficilmente i partigiani curdi avranno la possibilità di prendere parte alla resistenza dei loro fratelli armeni. Anche se – presumo – ne sarebbero lieti e fieri.

In fondo di fronte avrebbero l’ennesima versione dei massacratori ottomani, dei responsabili del genocidio degli armeni (poi reiterato) e dei tentativi di genocidio nei confronti di greci, curdi (yazidi in particolare), alaviti, assiro-caldei.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_Dalla rivoluzione di Velluto ai proclami bellicisti di Pashinyan” su Spreaker.

Il business delle armi oltrepassa ogni schieramento: corsi e ricorsi storici

Nel frattempo (gli affari sono affari) pare che la Francia – come Israele (droni Elbit) e l’Italia (M-346 di Leonardo) – non abbia smesso di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non è l’unico paese a farlo naturalmente. Ma la cosa appare stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Anche recentemente nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.

Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku stanno colpendo direttamente la popolazione di Stepanakert.

Una cosa comunque va detta. In qualche modo l’attuale conflitto tra Armenia e Azerbaijan appare propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne è addirittura la “vetrina”). Mi auguro di sbagliarmi, ma intravedo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

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Tuareg, i curdi dell’Africa? https://ogzero.org/il-deserto-diventa-pantano-in-libia/ Fri, 02 Oct 2020 11:28:43 +0000 http://ogzero.org/?p=1333 L'indipendenza e autodeterminazione dei popoli del Fezzan e della Nigeria passa attraverso la collaborazione tra tuareg e tebu, ma anche contro il neocolonialismo occidentale, soprattutto francese, che mira a controllare oro, uranio, petrolio, acqua e vuole imporre la sua presenza militare attraverso missioni Onu con il pretesto di combattere il jihadismo, con cui brevemente e riconoscendo l'errore il popolo azawad si era alleato nel 2013

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Se non proprio malevola, almeno superficiale.

Così almeno mi era apparsa la semplificazione mediatica con cui si proiettava lo spettro jihadista sull’ultima – per ora – ribellione tuareg. Arrivando a sostenere che certe etnie del Mali non potevano essere altro che “vittime o complici dell’islamismo più feroce”.

Tertium non datur.

In realtà – credo – la questione è più complessa. Si doveva, almeno, precisare quale fosse – e quale sostanzialmente sia – la condizione in cui versano i tuareg. Quella di una “nazione senza stato” che vive, si sposta e – se del caso – combatte ben oltre i ristretti confini del Mali. Per inciso. Appare evidente l’analogia con la nazione curda, ugualmente frantumata da vari confini statali, più o meno artificiosi, a seguito dei ben noti processi di “decolonizzazione controllata” del secolo scorso.

Invece si è cercato di interpretare la diffusione, il dilagare dell’islamismo radicale come effetto collaterale del “rientro” (in realtà una dispersione) delle “milizie nomadi” (in parte costituite da combattenti tuareg) già “alleate del beduino Gheddafi”. Senza interrogarsi in merito alle ragioni che avevano spinto molti tuareg, legati o meno al Mnla (Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad) in Libia.

Indipendenza e autodeterminazione azawad

Alla fine del Novecento le lotte per l’indipendenza (o almeno per l’autonomia, il decentramento) e gli scontri armati tra le milizie tuareg e gli eserciti di Mali e Niger risultarono deleteri soprattutto per le popolazioni civili, oggetto di repressione e brutali massacri.

Come per esempio nel 1990 a Tchin Tabaraden in Niger.

E forse non è un caso che anche attualmente nel Niger permangano gruppi armati che lottano per l’autodeterminazione. Tra questi il Mnj (Mouvement des Nigériens pour la justice).

Oltre alla liberazione dei prigionieri politici tuareg e alla possibilità di svolgere liberamente attività politica, il Mnj esige dal governo di Niamey la fine dello sfruttamento coloniale dei territori abitati dai tuareg (vedi le miniere di uranio, devastanti per la salute della gente, in mano alle multinazionali straniere come la francese Areva).

Altra organizzazione armata in parte ancora operativa (o almeno nel primo decennio del XXI secolo) il Front des forces de redressement. Avrebbe (meglio il condizionale in attesa di conferme) invece deposto definitivamente le armi il Front patriotique nigérien.

La svolta islamista: faida interna e non conversione religiosa

Comunque, tornando alla caduta di Gheddafi, all’epoca buona parte dei tuareg prese la via del ritorno. Talvolta portandosi appresso una discreta quantità di armamenti sofisticati. Salvo poi – magari incautamente – venderle a gruppi jihadisti ben riforniti di petrodollari. Peggio ancora. Qualche ex esponente del Mnla (vedi Iyad Ag Ghali) si era avvicinato da tempo alle milizie jihadiste, anche in contrapposizione con gli ex compagni di lotta.

Più che una conversione religiosa, la vedrei come il risultato di personalismi, concorrenze e faide interne.

Risaliva al 6 aprile 2012 la dichiarazione unilaterale di indipendenza dell’Azawad che di fatto aveva temporaneamente spaccato il Mali in due. Ma dopo nemmeno venti giorni – forse per inesperienza, stupidità o sotto minaccia come nei matrimoni forzati – alcuni referenti del Mnla presenti sul campo firmavano un accordo-capestro con Ansar al-Din, gruppo islamista finanziato da al-Qaeda nel Maghreb islamico. Con la velleitaria creazione di un Consiglio transitorio dello Stato Islamico dell’Azawad formato da 40 membri, 20 del Mnla e 20 di Ansar al-Din.

Risvolto grave, l’applicazione della sharia e la costituzione della polizia islamica (hisba).

A sua parziale giustificazione Bilal Ag Sherif, segretario del Mnla e firmatario dell’accordo, sosteneva di aver agito per evitare una guerra interna tra tuareg e convincere i fratelli integrati in Ansar al-Din ad abbandonarne i ranghi.

Un accordo che era lecito definire una “mostruosità” e appunto come tale veniva sconfessato dal coordinamento dei responsabili del Mnla.

Il portavoce del Mnla Habaye Ag Mohamed riteneva «inconciliabile con la linea politica del Mnla l’atteggiamento fondamentalista e in particolare il jihadismo salafita portato avanti da Ansar al-Din».

Bilal Ag Sherif, firmatario del documento, veniva richiamato all’ordine e costretto a rompere tale accordo.

Per Nina Valet Intalou, esponente dell’Ufficio esecutivo del Mnla, bisognava «rigettare categoricamente questo accordo, perché cercare di evitare una guerra fratricida non significa accettare il diktat imposto da gruppi oscurantisti».

Il documento, spiegava: «era stato firmato pensando che i nostri fratelli tuareg schierati con Ansar al-Din avrebbero lasciato questa organizzazione terroristica. Avremmo potuto accettare uno Stato islamico democratico, pensando che noi siamo già musulmani. Ma il documento proposto da Iyad Ag Ghali è veramente contrario agli obiettivi del Mnla e alla nostra cultura. Quello che lui vorrebbe è uno stato talebano».

Ovviamente nel 2012 il confronto veniva spontaneo con i talebani. Oggi probabilmente si evocherebbe lo spettro dell’Isis.

Donne e giovani protestano contro i fondamentalisti

A conferma dell’estraneità tra il movimento per l’autodeterminazione tuareg e l’integralismo islamista, già il 5 e il 6 giugno 2012 centinaia di donne e di giovani della città di Kidal scendevano in strada per protestare contro i fondamentalisti. Successivamente, nella notte tra il 7 e l’8 giugno, si registravano scontri armati tra i militanti di Mnla e quelli di Ansar al-Din.

Purtroppo la storia della lotta tuareg per l’autodeterminazione (sia indipendentista che autonomista) è da sempre attraversata da scissioni e conflitti interni.

Lo stesso leader di Ansar al-Din, Iyad Ag Ghali, in precedenza si era distinto come promotore delle rivolte degli anni Novanta del secolo scorso.

Ma, almeno fino al 2012, le istanze dell’islamismo radicale non avevano – pare – trovato spazio significativo all’interno del movimento tuareg, da sempre sostanzialmente laico.

Successivamente, nel giro di qualche mese, il Nord del Mali finiva quasi completamente in mani jihadiste (oltre ad Ansar al-Din, erano entrati in azione anche il Mujao (Movimento unicità e jihad nell’Africa dell’Ovest) e direttamente Aqmi, Al-Qaïda au Maghreb islamique). Ma con la riunione internazionale di Bamako del 19 ottobre 2012 si avviava quel «progetto di intervento militare credibile» richiesto nella settimana precedente alla Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest (Cedao) e all’Unione Africana. La Francia riusciva a coinvolgere i 15 paesi membri del Consiglio di Sicurezza e porre la questione sotto il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite (in quanto la situazione del paese africano costituiva «una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale»). Il resto è cosa nota. Prima l’intervento diretto dell’esercito francese (aviazione, forze speciali…) per riprendere il controllo di Gao, Timbuctù, Kidal, Tessalit… con l’Operazione Serval (dal nome di un felino africano) dal gennaio 2013 alla metà del 2014.

Operativi da gennaio anche alcune centinaia di soldati africani (provenienti da Niger, Benin, Nigeria e Togo) della Missione internazionale di sostegno al Mali (Misma).

Barkhane e Takouba ma la guerra non si ferma

Poi – dopo la costituzione della missione onusiana Minisma (Mission Multidimensionelle Intégrée des Nations Unies pour la Stabilisation au Mali) e una serie di operazioni dai nomi più o meno pittoreschi (Dragon, Constrictor, Centaure, Epervier…) dall’agosto 2014 l’intervento contro le bande salafite assumeva la veste di un dispositivo regionale: l’operazione Barkhane (dal nome di una duna “migrante” nel deserto) a cui partecipavano Mauritania, Burkina Faso, Ciad, Mali e Niger (comunque sottoposti alla direzione dell’Esagono).

Ma la guerra non si è fermata. Nemmeno dopo migliaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati. Un tragico bilancio a cui si deve aggiungere la denuncia di sistematiche violazioni dei diritti umani. Opera soprattutto di soldati africani nei confronti di civili arabi e tuareg (sbrigativamente – e comodamente – identificati come salafiti). Nel frattempo ha visto la luce anche Takouba (“spada di legno” – quella dell’Onore – in tamashek, la lingua dei tuareg), denominazione per le forze speciali europee che dovrebbero sostenere le truppe maliane nella lotta contro il terrorismo jihadista.

Stando alle dichiarazioni della ministra della Difesa francese Florence Parly, Takouba era già stata preannunciata da Macron in occasione dell’incontro di Pau, quello indetto proprio per tacitare le voci sul dissenso africano all’intervento francese.

Quanto al governo di Bamako, va riconosciuto che fin dal 2012 – in prossimità dei territori occupati dalle milizie jihadiste – venivano allestiti alcuni campi di addestramento.

Tuttavia – vuoi per mancanza di mezzi, vuoi per imperizia – risultavano alquanto scadenti. Con i volontari alloggiati in strutture provvisorie, senza armi e addirittura scarsamente riforniti di generi alimentari (letteralmente “alla fame” secondo alcuni visitatori, nemmeno in grado di compiere l’addestramento). Com’era prevedibile, molti disertarono per raggiungere Ansar al-Din e il Mujao, Organizzazioni ben finanziate, in grado di garantire «assistenza economica alle famiglie di ogni combattente vivo o morto e un’abitazione fino al momento in cui i figli saranno in grado di sposarsi».

Un copione che si va ripetendo su larga scala anche in questi giorni.

Contraddizioni in seno ai popoli

Un bel casino, certamente. Senza dimenticare che oltre ai durevoli, tenaci contenziosi tra popolazioni indigene e governi statali ne permangono altri – non meno devastanti – tra le popolazioni stesse.

Troppo spesso strumentalizzati dai governi (e anche in questo Gheddafi aveva fatto scuola) in nome del sempre attuale “divide et impera”.

Come quello tra tuareg e tebu (il “Popolo delle Rocce”) chiamati ikaraden dai tuareg.

Un breve riepilogo

Nei suoi 40 anni di permanenza al potere Gheddafi aveva abilmente alimentato le reciproche ostilità tra le tribù arabe e alcune “minoranze” (in realtà popolazioni minorizzate in quanto separate dai confini statali, come i curdi o anche i baschi) presenti nel Sud della Libia: tebu e tuareg. Utilizzando gli scontri interetnici per controllare, discriminare, emarginare e reprimere. E i tuareg – in particolare nelle zone di frontiera – per far pressione su Algeria, Niger e Mali.

Dopo il 2011, con la caduta del regime, esplodevano le istanze di maggior autonomia politica da parte dei tebu per il controllo delle zone petrolifere e aurifere e delle vie di comunicazione. In particolare dei check-point utilizzati per sfruttare proficuamente i vari traffici legali e illegali (armi, medicinali, derrate alimentari, droga, alcolici e anche esseri umani).

Mentre la Libia sprofondava nel conflitto, in questo decennio i Tebu si sono imposti – talvolta anche violentemente – alle altre tribù (sia arabe che tuareg, se pur in diversa misura e in maniera differenziata) per trarre benefico dalla nuova situazione generatasi con la caduta ingloriosa del Colonnello. Nei territori meridionali della Libia – lì dove coabitano le varie etnie – sono presenti in grande quantità non solo l’ambita risorsa petrolifera, ma anche minerali rari e perfino l’acqua (per la presenza di vaste falde freatiche). Acqua di cui usufruiscono le popolazioni (il 90 per cento dei libici) che vivono nel Nord del paese.

Tuareg e tebu: scontri etnici tra apolidi

Non si deve comunque generalizzare. Occorre valutare la complessità delle relazioni che si vanno instaurando di volta in volta, di luogo in luogo. Relazioni, si diceva, varie e variabili (differenziate, variegate…), sia politicamente che economicamente.

Per esempio nel contenzioso per il controllo delle risorse tra tebu e tuareg nel Fezzan (nel Sudovest del paese) per un certo periodo sembrava prevalere l’aspetto militare, lo scontro armato.

In passato, in quanto minoranze non arabe, sia tebu che tuareg avevano subito evidenti discriminazioni (entrambi manipolati in funzione della politica “panafricana” di Gheddafi), ma in diversa misura.

Così, mentre migliaia sia di tuareg sia di tebu si ritrovavano sostanzialmente nella medesima condizione di apolidi, per i primi esisteva la possibilità di integrarsi vantaggiosamente nel sistema della sicurezza interna. Godendo quindi della possibilità di armarsi adeguatamente e di facilitazioni in campo economico (permessi di lavoro, accesso all’amministrazione…).

Gheddafi il garante dei tuareg

Del resto Gheddafi si presentava talvolta come un “garante”, un “sostegno”, un protettore anche dei tuareg del Mali e del Niger. Perfino nei confronti dei loro governi dai quali effettivamente subivano discriminazioni e repressione.

Questo può spiegare la posizione assunta nel 2011 dai tuareg libici (a cui si aggregarono molti altri provenienti da Mali e Niger) che si schierarono con il regime.

Una scelta che in seguito avrebbero pagato duramente.

Ad aggravare ulteriormente il conflitto tra le due etnie, la chiusura nel 2014 della frontiera tra Libia e Algeria fino ad allora vantaggiosamente controllata dai tuareg. Di colpo questi si scoprivano privati di una preziosa fonte di reddito in quanto flussi commerciali, traffici e contrabbando venivano dirottati sulla frontiera con il Niger, tradizionalmente controllata dai Tebu. L’altra frontiera del Sud della Libia, quella con il Ciad, dal 2013 è interessata da un imponente traffico di oro estratto, spesso artigianalmente, dalle miniere del Fezzan. Anche questo un traffico gestito principalmente dai tebu.

La scelta infelice di una parte dei tuareg (ormai in difficoltà anche sul piano sanitario) di allearsi militarmente con elementi integralisti forniva ai tebu l’occasione per tacciarli di “terrorismo” (assimilandoli ai salafiti) e di presentarsi all’opinione pubblica internazionale come garanti della lotta al medesimo nel Sud della Libia. Così per esempio vennero interpretati gli scontri sanguinosi – con decine di vittime – del settembre 2014 a Ubari (storicamente feudo tuareg del Fezzan, ma con una forte presenza tebu) tra milizie tebu e tuareg. Scontri scoppiati inizialmente non certo per questioni ideologiche o religiose, ma semplicemente per il controllo dei check-point e di una stazione di servizio (oltre che, beninteso, dei cospicui giacimenti petroliferi della zona).

Il paradosso della riconciliazione

Per la cronaca. In un primo momento i tuareg ebbero la meglio, ma successivamente, nel 2019, persero nuovamente il controllo dei giacimenti, stavolta per mano dell’Esercito nazionale libico (Anl).

In questa circostanza le milizie tuareg e tebu si “riconciliarono” e costituirono un fronte comune per combattere contro l’esercito del generale Haftar.

Ennesimo paradosso del conflitto libico (talvolta, benevolmente, definito un ginepraio, ma più spesso un “autentico pantano”)?

Forse non proprio se pensiamo all’accordo di pace faticosamente conseguito e sottoscritto dalle due comunità nel 2015 a Doha.

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Tribalismi e nazionalismi a confronto nel Kurdistan iracheno https://ogzero.org/tribalismi-curdo-iracheni-a-confronto-excerpta/ Fri, 19 Jun 2020 16:50:20 +0000 http://ogzero.org/?p=272 La frammentazione in varie etnie, clan tribali e gruppi linguistici curdi in Iraq ha portato alla nascita di una miriade di partiti politici; le tribù erano per lo più suddivise tra Kdp e Puk che si erano aggiudicati le posizioni di potere e ad alto livello all’interno del partito e del governo; l’organizzazione in forma […]

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La frammentazione in varie etnie, clan tribali e gruppi linguistici curdi in Iraq ha portato alla nascita di una miriade di partiti politici; le tribù erano per lo più suddivise tra Kdp e Puk che si erano aggiudicati le posizioni di potere e ad alto livello all’interno del partito e del governo; l’organizzazione in forma di partito era funzionale alla gestione delle questioni sociali e tribali e proprio per questo i due partiti sono sempre stati più forti degli organi giurisdizionali del paese. Talvolta i capitribù che avevano rifiutato il completo appoggio a un partito politico ne hanno pagato le estreme conseguenze: i partiti hanno sempre usato la retorica nazionalista per accusare qualche rivale di tradimento e giustificarne così l’esecuzione.

I partiti curdi hanno impugnato le armi nella lotta politica in diverse fasi della loro storia, ma i governi iracheni hanno sempre operato con pugno di ferro e repressione. Tra genocidi, collaborazionismo con i vari governi e rivolte si è dipanata la storia della società curda irachena – quest’ultima divisa, controllata e strumentalizzata – che ha forgiato il nazionalismo e le politiche fino ai giorni nostri nel paese.

L’immagine è di Kamal Chomani. L’argomento è approfondito nella sua versione estesa e completa di mappa relativa ai gruppi linguistici e confederazioni tribali in Rivalità e sangue tra etnie curde nella politica irachena in questo sito.

 

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Rivalità e sangue tra etnie curde nella politica irachena https://ogzero.org/etnie-curde-in-iraq/ Sun, 29 Mar 2020 15:13:26 +0000 http://ogzero.org/?p=42 Totalitarismo, democrazia e federalismo  In seguito alla Prima guerra mondiale, il colonialismo britannico istituì lo stato dell’Iraq, riunendo – anche con la forza – tutte le componenti della regione. Da allora il popolo curdo iracheno, stanziato principalmente nella parte settentrionale del paese, nei governatorati di Dahuk, Erbil, Kirkuk e Sulaymaniyya, e tra Mosul, Salah-al-Din, Diyala e Baghdad, lotta per salvaguardare […]

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Totalitarismo, democrazia e federalismo 

In seguito alla Prima guerra mondiale, il colonialismo britannico istituì lo stato dell’Iraq, riunendo – anche con la forza – tutte le componenti della regione. Da allora il popolo curdo iracheno, stanziato principalmente nella parte settentrionale del paese, nei governatorati di Dahuk, Erbil, Kirkuk e Sulaymaniyya, e tra Mosul, Salah-al-Din, Diyala e Baghdad, lotta per salvaguardare i propri diritti politici e culturali. Negli anni Venti fu stroncato il primo tentativo guidato dallo sceicco Mahmoud Hafid di istituire uno stato curdo a Sulaymaniyya e da allora il movimento di liberazione curdo continua a opporre una strenua resistenza contro i governi iracheni susseguitisi nel tempo.

I partiti curdi in Iraq hanno impugnato le armi nella lotta politica in diverse fasi della loro storia, ma i governi iracheni hanno sempre operato con pugno di ferro e repressione. Le atrocità da loro perpetrate raggiunsero un picco nel 1988 quando il dittatore Saddam Hussein utilizzò le armi chimiche e promosse la campagna Anfal (cioè un genocidio che approfondiremo più avanti) dalla metà alla fine degli anni Ottanta. I giorni migliori per i curdi iracheni furono quelli annoverati dal resto della popolazione irachena come i peggiori, quando cioè la coalizione guidata dagli Stati Uniti invase il paese nel 2003.

Sebbene negli anni successivi la violenza dilagasse a più livelli, per la prima volta l’Iraq sceglieva la strada della democrazia con l’elezione nel 2005 di un nuovo parlamento seguito dalla stesura della prima Costituzione democratica della storia del paese che riguardava tutte le genti irachene, compresa la nazione curda.

Oltre alla nascita della democrazia, un altro passo importante fu il riconoscimento della regione curda come regione federale irachena anche se la leadership curda non riuscì a praticare politiche utili al popolo iracheno e al Kurdistan. Questo processo portò anche alla costituzione di una élite politica totalitaria e corrotta non così dissimile dagli oppressori curdi del passato. Nel settembre 2017, in seguito alla sconfitta dello Stato Islamico in Iraq e Siria, il presidente curdo Barzani impose prematuramente un referendum ai curdi che portò a un ulteriore deterioramento dei rapporti con Baghdad, distruggendo il sogno indipendentista. 

Tribalismi e nazionalismi a confronto 

Con l’Accordo Sykes-Picot il 16 maggio 1916 l’Iraq finì sotto il mandato britannico; fino all’indipendenza dell’Iraq nell’ottobre 1932, il popolo guidato dal re del Kurdistan – lo sceicco Mahmud Hafid – ingaggiò una guerra sanguinosa contro il governo inglese lottando per la propria indipendenza, ma senza successo, nonostante una strenua resistenza politica e armata. Nel marzo 1931, il leader curdo Mahmud Hafid inviò una dura lettera al capo della Lega delle Nazioni a Parigi, in cui denunciava chiaramente l’annessione del Kurdistan meridionale allo stato iracheno come Regione curda dell’Iraq del Nord.

Quando nel 1932 l’Iraq divenne una nazione indipendente i curdi non ebbero altra scelta – dato il fallimento delle ulteriori rivolte – che accettare la nuova situazione. Mullah Mustafa Barzani, fondò il Partito democratico del Kurdistan (Kdp) nel 1946 ispirandosi al Partito democratico del Kurdistan iraniano (Kdpi). Il Movimento di liberazione curdo si rafforzò durante la monarchia, ampiamente influenzato dal Partito comunista (1934) e dallo stesso Kdp, che aveva controllato la politica curda fino ad allora, e i suoi attivisti riuscirono a mobilitare i contadini per ottenere maggiori diritti democratici. La monarchia fu rovesciata dal colpo di stato di Abd al-Karim Qasim nel 1958 e il popolo curdo lo sostenne; allora Mustafa Barzani tornò dalla Russia, paese che ospitava numerosi profughi dopo il collasso nel 1946 di quella Repubblica di Mahabad in Iran, di cui si è fatto cenno nell’Introduzione di questo libro. Sebbene in un primo tempo i rapporti tra i curdi e Qasim fossero buoni, dopo tre anni scoppiò la rivoluzione. Molti storici attribuiscono a entrambe le parti la colpa del deterioramento dei rapporti a scapito di una collaborazione per il bene dell’Iraq. 

Con il dipanarsi della storia che ha forgiato il nazionalismo e le politiche fino ai giorni nostri la società curda è stata divisa in vari clan e tribù, controllati e strumentalizzati con facilità dai nemici dei curdi chiamati a difenderli dalle tribù rivali, aiuto spesso offerto dai regimi iracheni stessi.

Una delle ragioni principali della fine della luna di miele tra Mullah Mustafa Barzani e Abd al-Karim Qasim fu una questione tribale: quest’ultimo aveva rapporti distesi con le tribù Hark e Zibâri che si opponevano al clan Barzani, così Mullah Mustafa Barzani pensò che Qasim volesse usare i suoi rivali per ridurre il suo potere nel Nord. L’ex presidente iracheno e segretario generale del Puk Jalal Talabani, coprotagonista in quei giorni, scrive nelle sue memorie pubblicate nel 2017 che «il crollo delle relazioni tra Barzani e Qasim cominciò quando Ahmed Agha Zibâri (leader di quella tribù) che era un violento, aveva ucciso molti dei Barzani iniquamente» e aggiunge: «Mullah Mustafa Barzani aveva mandato alcuni della sua cerchia per ucciderlo». In seguito Qasim cercò di trascinare in giudizio gli assassini e Barzani respinse quella soluzione; in risposta Qasim armò la tribù Zibâri. Questa mossa fu considerata da Barzani ostile alla sua tribù e al suo potere in Iraq, in particolare nel Nord. 

Da allora le rivalità e il sangue versato tra tribù e clan curdi hanno certo agevolato i regimi iracheni nell’intento di rintuzzare le rivoluzioni curde. E allo stesso tempo alcune tribù e clan, insieme ai loro leader, sono stati la colonna vertebrale delle rivoluzioni contro i regimi iracheni.

Prima di stabilire un nuovo stato-nazione in Iraq, i curdi accumularono potere attraverso gli emiri locali affiliati all’Impero Ottomano, mantenendo il controllo delle amministrazioni locali, battendo moneta e predicando in qualità di emiri curdi e non come sultani ottomani. Il nuovo stato iracheno insomma non riuscì a portare i curdi totalmente sotto il suo controllo, così come non riuscì a creare un’identità nazionale in grado di raccogliere tutte le componenti regionali oltre al comune sciovinismo nazionalista arabo. Infatti nel Congresso fondativo del Partito baathista del 1947, lo statuto chiaramente affermava: «Il partito nazionalista crede che il nazionalismo sia una inconfutabile verità». E fu così che in Iraq nacque il nazionalismo curdo, in opposizione a quello arabo.

La spartizione del potere 

Dal 1932 al 1946 proliferarono svariati partiti nonché figure-chiave politiche che guidarono la rinascita nazionalista e intellettuale, come Ibrahim Ahmed, Rafiq Hilmi e Ala al-Din Sajadi. 

Tutto ciò lasciò un segno politico e intellettuale sulla popolazione, nonostante la nascita del Kdp di Mustafa Barzani avesse messo tutti gli altri partiti un po’ in ombra. Sebbene l’attuale leader, Masoud Barzani, figlio di Mullah Mustafa, abbia portato i curdi al referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno tenutosi il 25 settembre 2017, il Kdp richiedeva in realtà l’autonomia all’interno dei confini nazionali iracheni fin dall’inizio del 1992, quando il parlamento curdo si batteva per la costituzione di una Federazione della regione curda dell’Iraq (Kri). Allo stesso tempo, il Kdp non si è mai pronunciato sul diritto all’autodeterminazione fino al 2010, al contrario dell’Unione patriottica del Kurdistan iracheno (Puk) guidata da Jalal Talabani che insisteva su questo punto fin dal 1975.

Si noti come il Kdp sia diventato un movimento popolare che riuniva le più importanti tribù e capitribù, così come gli intellettuali curdi e gli studiosi islamici e, a differenza di altri partiti, riuscì nell’intento di costruire relazioni paradiplomatiche con più di una nazione. Oltre al forte legame con lo scià iraniano, ebbe rapporti con gli Stati Uniti, Israele e la Russia. Quando il legame con la Repubblica irachena si deteriorò il Kdp guidò l’Aylul (la Rivoluzione di Settembre). Nonostante la guerra la rivolta curda si espandeva sempre più: il leader del Kdp Mustafa Barzani era in contrasto con l’Ufficio politico guidato da Ibrahim Ahmed e da Jalal Talabani, e questo portò a una scissione nel 1964, quando Talabani fece ritorno a Baghdad. L’ala fedele all’Ufficio politico accusò Mullah Mustafa Barzani di essere “tribale e conservatore”, mentre i politici curdi dell’epoca erano impregnati di marxismo. Il Kdp fallì, persino la retorica nazionalista curda non era così efficace perché il suo leader non capiva la reale portata intellettuale e ideologica dell’opposizione al regime iracheno. Mentre la rivoluzione curda si rafforzava, lo stato iracheno si indeboliva a causa di due consecutivi colpi di stato dei baathisti nel 1963 e 1968, che li portarono al potere.

Voltafaccia baathisti e iraniani

I baathisti al potere avevano bisogno di rafforzare la loro presa; annunciarono così in prima battuta riforme economiche radicali in Iraq, nazionalizzarono il settore petrolifero e abbracciarono la causa dei diritti del popolo curdo. Tale apertura portò a un’intesa storica l’11 marzo 1970 tra il governo iracheno e il movimento rivoluzionario curdo di Aylul in cui per la prima volta l’identità curda veniva riconosciuta come partner politico in Iraq. I curdi guadagnarono il diritto all’autonomia e si istituirono delle amministrazioni locali curde nei governatorati di Erbil, Sulaymaniyya e Dahuk, mentre Kirkuk rimase una questione in sospeso. 

Una volta che i baathisti si stabilirono al potere, però, iniziarono a fare un passo indietro rispetto agli accordi presi, avvicinandosi al regime dello scià di Persia per trovare un compromesso su alcune zone dello Shat al-Arab in cambio della sospensione del sostegno iraniano alla rivoluzione curda. Nel frattempo, anche gli Stati Uniti non avevano mantenuto la promessa di sostenere il popolo curdo e la più grande rivoluzione curda era fallita per un complotto a livello regionale. Anche se Mullah Mustafa aveva un cospicuo esercito di peshmerga e godeva del sostegno di gran parte della società, era preoccupato delle mosse dello scià di Persia: fermò quindi la rivoluzione e non permise che altri la rinfocolassero e vietò agli altri leader curdi di proseguirla. 

Il governo iracheno di allora, agli inizi degli anni Settanta, complottò contro la rivoluzione curda dopo pochi anni di pace e prosperità nella regione del Kurdistan e in Iraq. Nel 1973 i rapporti curdo-iracheni stavano prendendo un’altra strada quando il regime baathista annunciò un fronte comune con il Partito comunista, più che altro per avversione nei confronti del Kdp. Quindi nel 1974 riprese la guerra tra il governo iracheno e i rivoluzionari curdi e questi ultimi capitolarono nel momento in cui l’Iraq strinse un’intesa con lo scià di Persia, il 6 marzo 1975, nota come gli Accordi di Algeri, con il supporto dell’Occidente, dell’Oriente e degli Stati Uniti. A Baghdad erano ormai rimasti pochi partiti minori senza una base forte all’interno della società curda; erano piuttosto considerati utili al regime iracheno per distruggere il movimento rivoluzionario curdo. 

In seguito alla fine della Rivoluzione di Mullah Mustafa, apparvero sulla scena molti partiti politici e movimenti armati curdi in opposizione al governo. Fino al 1975, il Kdp e Mullah Mustafa Barzani avevano controllato il panorama politico curdo, eppure in quel periodo riuscirono a emergere alcuni importanti partiti e leader che lui riuscì però sempre a marginalizzare rendendo il partito praticamente privo di opposizione. 

Quando Barzani intraprese una campagna militare contro Qasim la maggioranza delle tribù lo sostenne, così raccolse l’appoggio dei clan Balakayati e Pizhdar (utili perché più vicini all’Iran), ma all’interno della Rivoluzione, i capi delle tribù e dei clan erano in disaccordo sul potere e capitò che venissero eliminati attraverso veri e propri eccidi, come nel caso di Hamad Aghay Mergasori e dei suoi figli: i peshmerga più coraggiosi della Rivoluzione Aylul degli anni Sessanta furono uccisi da Barzani, timoroso che volessero prendere il controllo del partito.

I vari regimi iracheni cominciarono ad arruolare tribù e clan in funzione controrivoluzionaria, iniziando da quelli che avevano buone relazioni con Baghdad, in particolare nella zona di Dahuk. All’interno delle tribù e dei clan c’erano sempre state divisioni tra chi aveva sostenuto la rivoluzione e chi l’aveva avversata.

Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta il regime di Saddam Hussein reclutò molte fragili tribù e clan curdi che controllava fomentando controversie tra di loro in modo che ricorressero all’appoggio del governo. Uno dei motivi per cui così tanti clan e tribù curdi si univano facilmente alle truppe irachene derivava dal fatto che il regime aveva drenato tutte le loro risorse per vivere. Il regime di Saddam aveva distrutto i villaggi e deportato i capitribù in riserve dove migliaia di persone non avevano lavoro. Saddam adottò questa raffinata strategia con l’intento innanzitutto di diminuire la forza dell’opposizione curda e in secondo luogo per fare sì che queste genti rimanessero leali al suo governo evitando di unirsi agli insorti.

Fine dello spirito di Aylul: la fenice curda risorge divisa

L’era successiva al Mullah Mustafa Barzani aprì le porte alla società curda e ai politici di diverse provenienze e ideologie. Nonostante la divisione dei partiti armati abbia portato a una lotta interna fratricida detta birakuji (“guerra civile”), tale diversità portò varie correnti nella politica e nel Movimento di liberazione curdo, dal maoismo all’islamismo.

Il più potente partito fondato da un gruppo di rivoluzionari curdi dentro e fuori dal paese dopo la Rivoluzione Aylul, avversario di Barzani, fu l’Unione patriottica del Kurdistan (Puk), guidato a Damasco dal futuro presidente iracheno Jalal Talabani. Una coalizione di marxisti-leninisti, maoisti e nazionalisti si riunirono con l’impegno preciso di combattere il regime baathista in Iraq e di sfidare l’arretratezza del tribalismo curdo, creando una società curda, socialista e democratica. Il nome specificava l’obiettivo “del diritto all’autodeterminazione del Kurdistan”, un’eredità del Movimento di liberazione curdo, che non intendeva chiedere solo l’autonomia per quella regione. Il Puk modificò anche la retorica del partito poiché si rivolse alla classe lavoratrice ispirandosi allo slogan marxista che invitava i lavoratori e gli oppressi a unirsi. La leadership di partito era giovane e proveniva da vari strati della società, anche con un alto grado di istruzione. Talabani era un leader pragmatico capace di tenere insieme i rivoluzionari più conservatori e i progressisti. Il Puk aveva principalmente tre anime: il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Kzp), un gruppo marxista-leninista attivo fin dagli inizi degli anni Settanta; la Linea generale, l’ala che riuniva alcuni capitribù e i conservatori; e il Movimento socialista del Kurdistan. 

Ispirato al maoismo, il Puk era il partito ideologico per tutti, nonché una forza armata notevole, ma adeguò la sua ideologia nel tempo, assecondando le varie potenze internazionali, e da antimperialista e antisionista alla fine degli anni Ottanta si avvicinò alle forze statunitensi.

In seguito alla nascita del Puk (anti-Kdp e anti-Barzani, considerati entrambi “traditori e conservatori”), il Kdp – i cui seguaci erano stati espulsi in Iran e i cui leader, come Barzani, erano rifugiati negli Stati Uniti o in Europa – si riorganizzò nella speranza di costituire un’opposizione. Alcuni membri annunciarono in un incontro tenutosi a Berlino una leadership pro tempore di Serkrdayeti Kati o Qiyada Muwaqata durante la diaspora. 

Presto iniziarono i contrasti tra la leadership pro tempore e il Puk, come proseguimento della rivalità tra il fronte di Talabani/Ahmed e quello di Mullah Mustafa Barzani, un conflitto noto in curdo come Jalali-Mullahi, e presente ancora oggi. Fino al fallimento della Rivoluzione Aylul, la politica interna curda e le rivalità non furono mai violente e con il partito più forte, il Kdp, che deteneva il controllo della politica curda e del Movimento di liberazione curdo, sarebbe stato facile spegnere ogni dissenso. Comunque sia Kdp che Puk, come anche altri partiti, istituirono una propria forza armata e la politica interna curda si trasformò in una cruenta guerra civile costellata persino da massacri. Molti partiti curdi si frammentarono a causa delle interferenze da parte dei governi regionali e di quello centrale iracheno. Il primo scontro armato tra il Puk e il Kdp accadde nel 1978 a Hakkâridove alcuni leader del Puk persero la vita. Molti membri di questo partito furono uccisi durante gli scontri e nonostante il Kdp godesse del sostegno iraniano e il Puk di quello del regime di Hafiz al-Assad, il Puk non fu capace di trarne profitto a causa di questioni di confine. La forza del Puk infatti era concentrata sulle aree di confine con l’Iran a Sulaymaniyya e a nordest di Erbil, cosa che aveva reso difficile far giungere le armi dalla Siria. In quel periodo il Puk subì una spaccatura che si rivelò un vero disastro per il partito, anche se questo non bastò a indebolirlo. All’inizio degli anni Ottanta il Puk considerava impossibile una negoziazione con il regime per risolvere la questione curda in Iraq, ma in seguito ammorbidì la propria posizione e accettò di trattare un accordo in cambio dell’autonomia nella Kri. Il regime di Saddam si era indebolito a causa della guerra Iran-Iraq e, auspicando una tregua, invocò la pace con i curdi. I negoziati partirono ma furono di poco conto. La guerra tra il Puk e il regime iracheno questa volta risultò più sanguinaria: dopo un anno dall’interruzione dei negoziati, l’Iran era sempre più addentro alla questione curda ed era riuscito a portare tutti i partiti sotto l’ombrello del Fronte del Kurdistan (7 maggio 1988). Il Puk era il partito più potente tra gli otto del Fronte. 

Le tribù curde si erano suddivise tra Kdp e Puk ed erano state distribuite posizioni di potere e ad alto livello all’interno del partito e del governo; l’organizzazione in forma di partito era funzionale alla gestione delle questioni sociali e tribali e proprio per questo i due partiti sono sempre stati più forti degli organi giurisdizionali.

Talvolta i capitribù che avevano rifiutato il completo appoggio a un partito politico ne hanno pagato le estreme conseguenze: i partiti hanno sempre usato la retorica nazionalista per accusare qualche rivale di tradimento e giustificarne così l’esecuzione. Durante la guerra civile nel 1996 Masoud Barzani (del Kdp) accusò Hussein Agha Surchi, leader della tribù Surchi, di collaborare con Saddam e con il Puk; questa accusa emerse quando Barzani temette il rafforzamento del rivale. Alla fine, nel 1996, un manipolo del Kdp attaccò la sua casa uccidendo lui e parecchi suoi uomini. Questo spinse gli altri superstiti leader tribali e centinaia di Surchi a sostenere il Puk nella lotta contro il Kdp.

Il bottino del ladro di Baghdad: l’operazione Anfal di Saddam

Alla fine degli anni Settanta, i gruppi rivoluzionari curdi si erano riorganizzati. Il Puk, il Partito socialdemocratico, il Partito comunista, e diversi gruppi minori si unirono nella resistenza contro il regime iracheno che in risposta deportò popolazioni dalle montagne, distruggendo quasi 4000 villaggi che fornivano appoggio logistico, cibo, intelligence e braccia per la rivoluzione. Interruppe i collegamenti e bombardò le strade che portavano ai villaggi nella speranza di ostacolare la lotta armata. Durante la guerra Iran-Iraq il Kdp si avvicinò al regime iraniano, mossa che portò al coinvolgimento curdo nel conflitto. Nel 1983, il Kdp aiutò l’esercito iraniano a guadagnare terreno nella parte settentrionale dell’Iraq a Haji Omaran, dove l’Iraq aveva contrattaccato in modo disumano massacrando oltre 4000 persone della tribù Barzani, gente innocente che viveva nei campi di concentramento (fonti ufficiali curde parlano di 8000 vittime), deportata lì dai villaggi al tempo della resistenza e della rivolta, nella speranza di sterminarli. Questo massacro segnò l’inizio di una serie di stermini noto come Anfal (il bottino). Sebbene il Partito baath iracheno non fosse di matrice islamica, egli utilizzò il nome di un versetto del Corano noto come Anfal per giustificare i suoi crimini e il clima di terrore e per ingannare il mondo arabo e musulmano facendo credere che i curdi sostenessero gli sciiti iraniani. 

Nello sforzo sistematico di annientare la resistenza curda alla metà e alla fine degli anni Ottanta, il regime iracheno sotto la guida diretta di Ali Hassan al-Majid, noto come Ali il ‘Chimico’ in Kurdistan, dal 1987 al 1989 utilizzò tutti i mezzi possibili per terrorizzare e distruggere la resistenza curda e massacrò oltre 50 000 (fonti curde ufficiali dicono addirittura 182 000) uomini, donne e bambini innocenti, a Garmiyan. Vale la pena ricordare che i partiti curdi avrebbero dovuto evitare ogni coinvolgimento diretto con le forze iraniane perché sapevano per esperienza cosa Saddam sarebbe stato capace di fare, cioè massacrare anche i civili. Saddam Hussein avrebbe giustificato l’ostilità curda come un atto di lesa maestà. I partiti curdi avevano già sperimentato l’ostilità del regime, almeno avrebbero dovuto imparare la lezione o quantomeno tenere segreta la collaborazione. 

I crimini iracheni raggiunsero l’apice quando il 16 marzo 1988 fu attaccata la città di Halabja sul confine Iran-Iraq nella provincia di Sulaymaniyya. L’Iran avanzava sulla città con l’aiuto dei peshmerga curdi, per tutta risposta il regime iracheno commise il crimine più barbaro e orrido della storia dell’Iraq quando Ali Hassan al-Majid, d’accordo con Saddam Hussein, ordinò l’utilizzo di armi chimiche per avvelenare la gente di Halabja. In una sola ora 5000 uomini, donne e bambini innocenti morirono soffocati, lasciati soli nella città rasa al suolo; la maggior parte della popolazione dovette fuggire altrove nel paese o trovare rifugio in Iran, dove si dispersero molti bambini, alcuni dei quali, dopo essere stati adottati da famiglie iraniane, tornarono nella regione del Kurdistan. L’impatto dei gas velenosi sull’ambiente di Halabja è ancora presente oggi. 

Dopo la campagna Anfal, i rivoluzionari curdi vissero tempi bui perché la maggior parte dei villaggi fu distrutta e gran parte dei peshmerga furono uccisi o feriti; la guerra Iran-Iraq era finita dando al regime iracheno l’opportunità di affrontare i curdi in modo molto più efficace che se si fosse trattato di uno scontro esclusivamente tra i curdi e il raìs di Baghdad. 

Bagatelle per un genocidio: collaborazionismo Jash

I colpevoli dei bombardamenti chimici della campagna Anfal e di Halabja furono condotti davanti alle corti internazionali quando nel 2003 cadde il regime iracheno: alcuni criminali vennero protetti dal Kdp e dal Puk, altri scapparono all’estero. Gli eventi di Halabja e l’operazione Anfal sono stati riconosciuti come atti di genocidio dal Parlamento iracheno e dall’Alta Corte Penale irachena nel 2007. Il governo non aveva risarcito le vittime, né aveva porto le sue scuse ufficialmente. Nel frattempo i curdi avviarono una campagna internazionale per vedere riconosciuti i crimini del regime precedente come atti di genocidio che potenzialmente potevano incontrare la condanna di paesi come la Svezia, il Regno Unito, la Norvegia, la Corea del Sud e il Canada. Nel 2007 l’Alta Corte Penale ordinò indagini su 423 curdi e arabi iracheni ex baathisti sospettati di coinvolgimento nel genocidio dell’Anfal

Uno degli aspetti più tristi di questa campagna furono i baathisti curdi noti come la milizia Jash, traditori e mustashar (consulenti) collaborazionisti dell’esercito iracheno durante il genocidio. I capitribù curdi che collaboravano con le truppe irachene erano considerati traditori agli occhi dei rivoluzionari. Nonostante tutto, quando alla fine degli anni Ottanta si costituì il Fronte del Kurdistan, venne emanata un’amnistia per i leader e i membri della Jash nella speranza che appoggiassero l’insurrezione pianificata. Quando nel 1991 partì la rivolta, molti dei capi della Jash – cui era già stata concessa un’amnistia – voltarono le spalle al regime di Saddam Hussein, combattendo l’esercito iracheno e sostenendo i peshmerga, rivelandosi uno dei motivi del suo successo. Per quanto questa fosse una mossa vincente per i rivoltosi, presto i capi Jash ottennero nuove cariche e privilegi nei partiti curdi, soprattutto nel Kdp.

L’Alta Corte Penale processò i principali imputati dell’Anfal, Ali Hassan al-Majid fu impiccato nel gennaio 2010. L’ex comandante iracheno Sultan Hashim, uno dei principali comandanti della campagna che aveva persino dato il nome Anfal a sua figlia, fu condannato ma non giustiziato perché difeso dai sunniti: è in prigione, ma l’ex portavoce parlamentare iracheno Salim al-Juburi, che è un sunnita, ha provato a farlo rilasciare per anni, senza per ora riuscirci. 

Nel 2010, l’Alta Corte Penale emise dei mandati di cattura per 258 curdi membri del Partito baath per il loro coinvolgimento nell’infame campagna negli anni Ottanta, ma nessuno è stato ancora arrestato, a causa del sostegno tribale di cui Kdp e Puk possono beneficiare.

Alcuni dei capitribù collaborazionisti durante il genocidio erano rimasti a Baghdad fino al 2003. Alla caduta del regime si sono uniti al Kdp o al Puk. La lotta per il potere spinse i due partiti ad accogliere chiunque.

Per quanto i capitribù stessero perdendo poco per volta il loro potere dato che la nuova generazione e i nuovi movimenti civili e democratici cercavano di superare le politiche tribali, alle elezioni il Kdp e il Puk decisero di presentare figure tribali, in modo che le tribù si sarebbero schierate a sostegno dei loro candidati. Il Kdp ha ottenuto un largo successo nella tornata elettorale del 2013 a Dahuk, dove il partito elesse molte figure tribali perché i clan locali li sostennero.

Guerra e pace dopo Anfal…

Alcuni rivoluzionari curdi però non si scoraggiarono e proseguirono la loro attività: in quei giorni il Puk appariva come il partito più potente. Talabani era all’estero a fare proseliti per la causa curda in seguito al genocidio di Halabja e Nawshirwan Mustafa, all’epoca segretario dell’ala marxista e numero due del partito, riuscì a riorganizzare le forze peshmerga. Talabani fu molto efficace durante la sua permanenza negli Stati Uniti, soprattutto nell’incontro con gli ufficiali americani a Washington, fautori del peggioramento dei rapporti tra Usa e Iraq, durante il quale si stabilì un collegamento iniziale tra Puk e Stati Uniti. Kosrat Rasul, segretario generale del Puk giocò un ruolo fondamentale nella riorganizzazione dei peshmerga nella zona di Erbil. Inoltre il Kdp era meno presente nelle zone di confine e cercava anch’esso di riorganizzarsi attraverso il suo decimo Congresso in Iran in cui erano presenti oltre 300 membri del partito. 

… e di nuovo guerra: la rivolta che unisce. Kurdayetî

Il fallimento del Partito baath iracheno nella guerra Iran-Iraq spinse il regime a dichiarare una nuova guerra contro un vicino solo due anni più tardi: il Kuwait. Il paese fu invaso durante un’operazione di due giorni nell’agosto 1990 che portò a cambiamenti radicali nelle dinamiche della politica irachena: molte furono le sommosse nelle città del Sud a maggioranza sciita. E anche nella Kri, nel Nord dell’Iraq la popolazione iniziò a sollevarsi. Dapprima le sommosse erano architettate dal fronte curdo, in particolare dal Puk, sotto la guida di Nawshirwan Mustafa.

La rivolta scoppiò nel marzo 1991 nella città di Ranya per poi espandersi a Sulaymaniyya, Erbil, Dahuk e Kirkuk, fu uno dei maggiori successi del movimento Kurdayetî, e mostrò aspetti nascosti nel nazionalismo curdo quando il suo successo decretò l’inizio della sua fine: si trattava infatti di un movimento di liberazione e non di libertà, liberazione della terra e non libertà dell’uomo. Inoltre, il Kurdayetî era un movimento di lotta e resistenza, non prevedeva modalità alternative e fallì nel tentativo di portare un modello di vita e di governo diversi rispetto a quelli esistenti. Il Puk aveva promesso di «ricostruire e guidare la società curda secondo linee moderne e democratiche», ma aveva fallito. Inoltre, il Kdp non era mai andato oltre la sua struttura tribale. 

I curdi riuscirono a liberare quasi tutti i loro territori, ma presto furono cacciati da Kirkuk e si verificarono scontri feroci tra i pershmerga e l’esercito iracheno. Il 31 marzo 1991, l’esodo curdo verso i confini iraniani e turchi portò nelle zone limitrofe centinaia di migliaia di curdi terrorizzati dalla possibilità che il regime utilizzasse armi chimiche. Le vite di centinaia di migliaia di curdi erano in pericolo mortale, le strade bloccate, intere famiglie alla fame non avevano più acqua potabile e medicine e i neonati morivano di stenti, il freddo e la pioggia mettevano in pericolo la vita degli anziani nelle zone di montagna, molti perdevano la vita tornando verso i villaggi sui terreni minati e ci si poteva imbattere in cadaveri lungo le strade ai confini iraniani o turchi o in bambini sperduti di cui nessuno poteva prendersi cura. 

La rivolta curda del 5 marzo e l’esodo di massa, noto come Korraw, riunì il popolo e i partiti già furiosi per il sanguinoso antagonismo seguito al fallimento della Rivoluzione Aylul. 

Risoluzione Onu 688. La No-fly Zone

Per la prima volta, le Nazioni Unite presero una decisione importante in favore dei curdi iracheni: la Risoluzione 688 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Grazie alla comunità internazionale che reagì all’esodo di massa fornendo una No-fly Zone per proteggere i profughi dall’ostilità del regime iracheno istigata dagli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia (quest’ultima si ritirò nel 1998) assicurarono il controllo curdo su tre province: Dahuk, Erbil e Sulaymaniyya. La Risoluzione 688 fu adottata su richiesta di Francia, Iran e Turchia per mettere fine alla repressione nel Kurdistan iracheno e la No-fly Zone diventò operativa perché Saddam Hussein non si attenne mai alle indicazioni dell’Onu. 

La Risoluzione fu una delle più importanti a influenzare il futuro dei curdi in Iraq e portò alla No-fly Zone, anche se nel programma non se ne faceva menzione esplicita: «Si condanna la repressione della popolazione civile curda in molte zone dell’Iraq, comprese molte aree popolate recentemente dai curdi, con conseguente minaccia della pace e della sicurezza internazionale nella regione» e «si richiede al Segretario generale di perseguire sforzi umanitari in Iraq per agire prontamente – in caso si ritenga appropriato, con una ulteriore missione nella regione – sulla questione che riguarda la popolazione civile irachena, in particolare quella curda, che subisce repressione in tutte le sue forme da parte delle autorità irachene»; e inoltre: «Si richiede all’Iraq, come contributo per rimuovere la minaccia alla pace internazionale e alla sicurezza della regione, di porre fine immediatamente alla repressione, e allo stesso tempo si auspica una ripresa del dialogo per assicurare che i diritti umani e politici dei cittadini iracheni siano rispettati».

Nuove speranze per il nuovo Kurdistan 

Dopo la Risoluzione dell’Onu e l’istituzione della No-fly Zone, il nazionalismo e la politica curda entrarono in una fase in cui le speranze per un nuovo Kurdistan e una nuova società arrivarono al culmine. Dato che i curdi per la prima volta godevano di una parentesi di pace gli intellettuali iniziarono a tenere seminari e convegni in cui si discuteva di democrazia e la società civile si organizzò. Celebrazioni e festeggiamenti si tenevano ovunque così come discussioni e dibattiti sul futuro della Regione del Kurdistan. I media curdi iniziarono a spuntare come funghi; si tenevano marce e dimostrazioni a sostegno dei partiti politici, e si organizzavano scioperi e proteste. Gruppi di lavoratori, contadini, studenti e intellettuali iniziarono a strutturare la società civile, dando vita a comuni in cui si risolvevano questioni sociali, politiche ed economiche, comprese quelle relative alla sicurezza. Fondi della comunità internazionale giungevano nella regione, migliaia di persone deportate alla fine degli anni Settanta e a metà degli Ottanta ritornarono nelle proprie terre d’origine. Migliaia di villaggi furono ricostruiti e la gente tornò a coltivare nelle zone in cui era proibito da anni. Molta gente che si era rifugiata in Iran dopo il fallimento della Rivoluzione Aylul tornò nella Kri. Insegnanti volontari aprirono scuole e per la prima volta quasi tutti gli istituti tornarono a insegnare ai bambini in lingua curda. Riaprì l’università di Salahaddin. Grazie a un movimento senza precedenti furono fondate le università di Sulaymaniyya e Dahuk. Poco dopo il successo della Rivolta, nella Regione del Kurdistan per la prima volta si tennero delle elezioni e – anche se con qualche limite – queste portarono alla fondazione del primo parlamento e governo del Kurdistan. Questi momenti pieni di speranza vennero presto scippati dal Kdp e dal Puk quando iniziarono a fare razzia dei progetti del vecchio regime, come accadde per la diga di Bekhme, il grande progetto per l’energia idrica, in costruzione quando l’amministrazione irachena si ritirò dalla Regione. Purtroppo molta gente comune si unì al saccheggio. Il Kdp e il Puk fermarono la ricostruzione, l’attrezzatura elettrica e industriale fu inviata in Iran e Turchia, svenduta a prezzi scontati, e questo permise loro di mantenere il controllo dell’energia. 

1992, le prime elezioni libere per il parlamento curdo 

Nonostante i suoi limiti e gli oppositori dei valori della rivoluzione da parte dei due principali partiti all’inizio degli anni Novanta, alcune storiche conquiste diedero inizio a un nuovo corso storico. Per la prima volta dopo decenni di guerra, il popolo curdo stabilì il primo governo autonomo e un parlamento. Dopo aver superato alcune sfide, i partiti confluiti nel Fronte del Kurdistan iracheno (Ikf) raggiunsero un accordo sulla data delle elezioni del parlamento che si tennero il 19 maggio 1992, giorno in cui le coalizioni e le varie liste elettorali gareggiarono per superare la soglia del 7 per cento ed entrare nel parlamento curdo. Si trattava comunque della prima esperienza democratica dopo anni di oppressione e repressione: era prevedibile che si verificassero dei brogli. Le elezioni erano comunque una novità, non solo per l’Iraq, ma per molti paesi della regione. La prima esperienza di democrazia in una società postbellica tra conflitti e rivolte costituiva una vittoria in sé.

Il Puk era il favorito perché era il partito più forte con una milizia efficiente e una base sociale organizzata, ma fu il Kdp a vincere le elezioni. Le frodi elettorali riguardavano entrambi i partiti. A parte il Kdp (45,3% e 51 seggi) e il Puk (43,8% e 49 seggi), nessuno degli altri partiti politici riuscì a superare lo sbarramento, anche se si era previsto che fosse alla portata del Movimento islamico curdo (Kim, noto come Bizutnewe, 5,1%) e del Partito socialista curdo (2,6%); il Partito comunista del Kurdistan (2,2%) e il Partito popolare democratico del Kurdistan (1,0%) completarono la débâcle democratica.

Il Puk contestò i risultati accusando il Kdp di aver manipolato i voti, reato che ovviamente avevano commesso entrambi. Alla fine i due partiti si misero d’accordo per dividersi i seggi e le cariche parlamentari equamente. Stranamente il primo parlamento e il primo governo curdi erano composti solo da dirigenti del Kdp e del Puk e soprattutto da coloro che non avevano esperienza di governo perché avevano passato la loro esistenza a combattere contro il regime sulle montagne. Il portavoce parlamentare fu assegnato al Kdp e il primo ministro al Puk. 

Jawhar Namiq Salim, il Segretario dell’Ufficio politico del Kdp, fu eletto il 4 giugno 1992 portavoce del Parlamento curdo e Fuad Masum, membro del Consiglio direttivo del Puk, divenne primo ministro del Kurdistan. Dopo un anno, il Puk rimpiazzò Fuad Masum con Kosrat Rasul Ali; Fuad Masum è stato presidente dell’Iraq fino all’ottobre 2018 e Kosrat Rasul Ali è l’ex vicepresidente della Regione del Kurdistan facente funzione di segretario generale del Puk. Il Puk si attivò per rinsaldare ulteriormente la sua forza militare mentre Rasul era un capo peshmerga senza esperienza di governo.

Guerra civile sanguinosa: tutti contro tutti e una mano lava l’altra 

La prima decisione del Parlamento curdo che improntò al peggio la politica curda fu quella che incoraggiò la Turchia a combattere il Partito curdo dei lavoratori (Pkk) nell’ottobre 1993. Il Pkk aveva incominciato ad aprire sedi in molte città curde, soprattutto a Erbil. Possedeva mezzi di comunicazione molto efficaci e una classe dirigente cresciuta nell’ideologia di Öcalan, a differenza di quelle del Kdp e del Puk che non seguivano un’ideologia specifica. I giovani curdi seguaci del Pkk avevano fatto sì che Kdp e Puk temessero un aumento di consenso per il movimento di Öcalan. D’altro canto, la guerra tra Pkk e Turchia era al culmine e quest’ultima era a caccia dei membri del Pkk in tutto il mondo. Il neonato governo regionale del Kurdistan (Krg) era molto vulnerabile ed economicamente, militarmente e politicamente debole; la Turchia e l’Iran trassero ulteriore vantaggio dai due partiti principali perché temevano che la fondazione della Kri potesse fungere da ispirazione per i fratelli curdi in cerca di autonomia che abitavano nei loro territori. La fondazione della Kri e il ritiro dell’amministrazione curda da Erbil, Dahuk e Sulaymaniyya aprì le porte all’interferenza turca e iraniana nella politica curda e spostò l’attenzione dai campi di battaglia alla lotta contro i gruppi dell’opposizione in Iran e Turchia, al contrario di quanto accadeva durante il regime di Saddam Hussein, il quale stava sostenendo i partiti di opposizione curdo-iraniani, non il Pkk, perché tra quest’ultimo e il regime di Hafiz al-Assad correva buon sangue finché, come visto, il leader del Pkk non fu messo alla porta dal regime di Damasco. 

Vale la pena menzionare che con l’istituzione della Federazione per la regione curda dell’Iraq si sperava di attirare il consenso dei curdi presenti in altre regioni, e così i curdi iraniani furono obbligati a deporre le armi e stabilirsi in campi residenziali all’interno della Kri. A partire dal 1991 fino a oggi, centinaia di membri e dirigenti dell’opposizione curdo-iraniana sono stati assassinati all’interno della Kri dal regime iraniano, come ricordato nell’Introduzione. 

I partiti curdi iraniani furono estremamente influenzati dai cambiamenti nelle dinamiche e nella politica della regione. Durante la guerra Iran-Iraq (1982-1988), i partiti curdi beneficiarono dell’ostilità tra i due paesi, avvantaggiandosi della guerra per costruire solidi legami con l’ex regime baathista in Iraq. Non solo, ma operarono liberamente sulle zone di confine stabilendo lì le proprie basi. Partiti e leadership avevano anche sedi e campi militari all’interno delle città irachene. Quando la guerra finì la situazione si aggravò per i partiti curdo-iraniani a causa dell’allentarsi del sostegno iracheno. Nel frattempo, l’avvicinamento promosso dalla Kri dei curdi iracheni divenne una minaccia incombente sui curdi d’Iran. 

Il Kdpi e altre forze politiche curde si ritirarono, forse è più preciso dire che furono forzate a farlo, dalle montagne sul confine Iran-Iraq (principalmente nelle zone ora sotto il controllo del Pkk) per poi essere ricollocate in vari campi di residenza a Erbil e Sulaymaniyya. Accettarono di deporre le armi perché l’Iran minacciò il Governo regionale del Kurdistan iracheno di prendere provvedimenti contro i due partiti nella Kri. Per fare pressione sia sui curdi iracheni sia sui partiti curdi iraniani, l’Iran condusse una campagna repressiva per eliminare gli attivisti politici e i quadri di partito. I partiti curdi iraniani non ebbero scelta e deposero le armi. Sebbene non tutti fossero d’accordo i membri di questi partiti lo fecero e si rifugiarono nei campi di residenza nel Kurdistan iracheno, e chiamarono questa ritirata kempnišîniî, che letteralmente significa “residenza nei campi”.

Era l’inizio della fine della lotta armata che portò al distacco dalla lotta organizzata in Iran e allo sviluppo ideologico. Da allora, i partiti curdi iraniani furono spazzati via dalla lotta armata, da quella diplomatica, organizzata e ideologica contro la repubblica islamica dell’Iran. Il periodo dei kempnišîniî iniziò nel 1993 e continua ancora oggi, ed è considerato dai curdi di quell’area il peggiore nella storia della zona iraniana del Kurdistan, come vedremo nell’ultima parte del volume. Inoltre, il Puk stava tentando di guadagnarsi l’aiuto di Teheran che lo portò a sostenere l’attacco iraniano agli insediamenti del Kdpi a Koya il 29 luglio 1996. Si trattava dell’inizio del cambiamento delle alleanze regionali per il Kdp e il Puk, che si stava sempre più avvicinando all’Iran, mentre il Kdp propendeva per Iraq e Turchia. Le strategie geopolitiche di Sulaymaniyya portarono il Puk all’interno del blocco iraniano e quelle di Erbil e Dahuk avvicinarono il Kdp alla Turchia. Come allora l’Iran è tornato a colpire il 7 settembre 2018 il Kdpi a Koya, uccidendo 15 esponenti, così perseguendo lo stesso scopo di eliminazione fisica, ma stavolta Turchia e Iran non sono contrapposti. 

Man mano che il legame si indeboliva, progressivamente i partiti curdi iraniani dipendevano sempre più dai curdi iracheni, fino a seguire gli interessi di questi ultimi: il Partito per la libertà del Kurdistan (Pak), fondato nel 1991 e guidato da Hussein Yazdanpana, pareva più un’unità affiliata a Masoud Barzani piuttosto che un partito che combatteva per i diritti dei curdi in Iran. 

Il Kdp e il Puk subivano la pressione dell’Iran per forzare i partiti di opposizione curdo-iraniani a deporre le armi, e in seguito furono incoraggiati dalla Turchia a combattere il Pkk. Data la sua forza e l’esistenza di alcune sedi nella Kri, e i dirigenti che lavoravano all’interno della Federazione (essendo quindi cittadini della Regione del Kurdistan iracheno), il Pkk rifiutò di cedere alle richieste delle due fazioni irachene. All’inizio Talabani aveva giocato un ruolo fondamentale per avviare i primi contatti tra il Pkk e il primo ministro turco Turgut Özal che fu il primo a riconoscere pubblicamente l’esistenza dei curdi dopo la fondazione della repubblica turca – come detto nella parte del volume dedicata ai curdi di Turchia. 

Talabani era in buoni rapporti con Öcalan, che allora viveva a Damasco, e aveva convinto Özal a intavolare negoziati di pace con i curdi. Per la prima volta nella storia della guerra tra Turchia e Pkk, quest’ultimo annunciò un cessate il fuoco alcuni giorni prima della morte di Özal. Talabani aveva detto a Öcalan che il primo ministro turco era davvero intenzionato a risolvere la questione curda, anche se non era riuscito a convincere lo stato, l’esercito e persino il partito di proseguire nel processo di pace. 

La Turchia sostenne la coalizione guidata dagli Stati Uniti per utilizzare la base di İncirlik per colpire l’Iraq, nella speranza che i curdi iracheni non stabilissero un governo proprio, temendo una divisione dell’Iraq o il desiderio di autonomia dei curdi turchi. Intanto Ankara teneva d’occhio Mosul, visto che la considerava parte dell’Impero Ottomano. Allo stesso modo l’Iran era interessato all’Iraq e a qualsiasi forza in grado di indebolire il potere del suo storico nemico, inoltre Teheran riteneva che i curdi iracheni non dovevano spingersi oltre il governo locale, ai fini del mantenimento dell’integrità dello stato iracheno e dei suoi confini, aspetto così importante per un paese sciita che ha a sua volta una minoranza curda. 

Il neonato Governo regionale del Kurdistan iracheno non riuscì ad aprire a tutti e la sua vulnerabilità diede una mano ai partiti a consolidare ancora di più il loro potere. La lotta per il potere tra i partiti curdi stava portando la Regione del Kurdistan verso un futuro oscuro. Ogni partito aveva la sua forza militare, e tentava di consolidare il potere attraverso il finanziamento della propria milizia con mezzi illegali, o ricevendo fondi regionali, cioè dalla Turchia, dall’Iran e dai paesi sunniti del Golfo. Il tentativo non riuscito della Krg di formare un esercito peshmerga unico, rafforzò le milizie che divennero più forti della polizia regionale.

Sebbene il segretario del Puk, il generale Jalal Talabani, avesse annunciato molte volte che i conflitti interni curdi sarebbero finiti e non ci sarebbero più state lotte fratricide, il 20 dicembre 1993, iniziò un’altra fase della guerra civile curda tra il Puk e il Movimento islamico curdo (Kim). Il Puk si considerava il partito legittimo per governare la Kri grazie alla sua potente forza militare e al fatto che aveva organizzato la rivolta che portò alla liberazione della Kri. Comunque, la lotta interna tra Puk e Kim indebolì il primo mentre il secondo fu obbligato ad allearsi con il Kdp in previsione di conflitti futuri. Poiché il Kim era molto più piccolo del Puk questa volta la guerra civile non si estese a tutta la Kri. 

Il Primo Maggio 1994 scoppiò la prima ondata di guerra civile curda con uno scontro tra Kdp e Puk; questi due partiti storicamente si erano sempre combattuti e avevano lottato anche prima del 1991 per il controllo del Movimento di liberazione curdo: ideologicamente lontani, il più profondo motivo di disaccordo successivo al 1991 fu il controllo delle risorse, in special modo le entrate del passaggio di frontiera di Ibrahim Khalil con la Turchia. Il Kdp aveva scelto Dahuk come roccaforte per molte ragioni, e dato che la famiglia di Barzani era di dialetto bahdinai, essi trovarono supporto proprio qui; il presidio del Puk era invece, per altrettante buone ragioni, Sulaymaniyya, dove si parlava il dialetto sorani, la lingua di Talabani. Nella storia moderna questa divisione appartiene ai giorni del conflitto tra l’ala di Talabani e Ibrahim Ahmad nell’Ufficio politico del Kdp e quella di Mullah Mustafa Barzani nella Rivoluzione Aylul. 

Questa lotta interna fu sanguinosa, morirono molte persone e molti furono i feriti, migliaia gli sfollati. La prima fase si compì il 29 agosto 1994 ma la faccenda non finì lì perché la questione non era ideologica ma piuttosto un tentativo di egemonizzare la società curda, il suo popolo e la sua economia. 

Delirio egemonico, divisione amministrativa e controllo straniero

La scissione del 1996: scontro tra clan

Nel dicembre 1994 riprese lo scontro Puk/Kdp e raggiunse il suo picco il 31 agosto 1996 quando il Kdp ricorse a Saddam per riprendersi Erbil dopo che il Puk l’aveva cacciato dalla città; il Puk era ormai vicino alla vittoria ed era subentrato al Kdp pochi giorni prima e allora Barzani stipulò un accordo segreto con il regime iracheno. Fu l’inizio di una nuova epoca storica nella politica curda e fino a oggi la Kri non è riuscita ancora a guarire dalle ferite di quei giorni. Da allora il Kdp si considera l’unico potere presente nella Kri.

Il 31 agosto 1996 si verificò infatti la prima vera scissione nella storia dei curdi, secondo una suddivisione che seguiva quella dei paesi della regione, e dopo quella data qualsiasi evento della politica curda che in passato si sarebbe cercato di evitare divenne la normalità; formare un’alleanza con il regime baathista che aveva commesso le atrocità del genocidio solo otto anni prima può essere considerato l’atto più vergognoso della storia curda. 

L’agosto 1996 cambiò le dinamiche politiche e gli equilibri della Kri; il Kdp spinse il Puk in Iran e questi dopo 40 giorni ritornò, ma senza riuscire a riprendersi Erbil a causa di pressioni esterne. La capitale della Kri, Erbil, passò sotto il controllo del Kdp e Sulaymaniyya cadde sotto l’ala del Puk. La Kri era così divisa amministrativamente in due: il governo Krg-Sulaymaniyya e quello Krg – Erbil e Dahuk. 

Gli scontri tra Kdp e Puk si fermarono, e ripresero quelli tra Puk e Kim a Halabja nell’aprile 1997 finché l’Iran trovò un accordo tra le parti, il Kim si unì al Puk nel governo di Sulaymaniyya e venne cacciato da quello di Erbil. 

Nonostante l’interruzione delle ostilità, non era stato raggiunto un vero accordo. Il Puk e il Pkk si organizzarono insieme per attaccare il Kdp nell’ottobre 1997 e questa volta, insieme, erano abbastanza forti da sconfiggerlo, mentre il Kdp sfruttò l’alleanza dei suoi nemici per invitare la Turchia ad attaccarli: il Kdp, aiutato dall’esercito, dall’aviazione e dai carri armati turchi riuscì a sconfiggere il Puk. 

Arrivano gli yankee 

Nel settembre 1998 il Congresso degli Stati Uniti varò l’Atto di liberazione dell’Iraq che dichiara «dovrebbe essere compito degli Stati Uniti cercare di rimuovere il regime di Saddam Hussein dal potere in Iraq e rimpiazzarlo con un governo democratico» e «autorizza il presidente, dopo la ratifica dei comitati preposti, a fornire alle organizzazioni dell’opposizione democratica irachena: 1) assistenza radiofonica e televisiva; 2) il dipartimento della Difesa (Dod) volto a garantire attrezzature e servizi e un’educazione e un addestramento militare (Imet); e 3) assistenza sanitaria, con particolare attenzione ai bisogni delle persone che siano confluite nei territori sotto il controllo del regime di Saddam Hussein. Inoltre proibisce il sostegno a qualsiasi gruppo o organizzazione che sia impegnata in una collaborazione militare con il regime e autorizza stanziamenti». 

L’Atto di liberazione dell’Iraq spinse gli Stati Uniti a cercare gli attori della politica locale, e i più importanti erano i curdi (per via delle zone da loro liberate dalle milizie) e all’interno dei curdi, il Kdp e il Puk, che stavano perdendo energie in lotte intestine e scontri per il potere. Gli Stati Uniti tentarono una mediazione tra i due partiti e invitarono Barzani e Talabani a firmare gli Accordi di Washington. Vedendo la segretaria di stato Madeleine Albright presentare i due leader mentre si stringevano la mano sorridenti le speranze dei curdi rinacquero. Inoltre, nel 1996 era stato varato l’Oil-for-Food Program delle Nazioni Unite e i primi invii di derrate erano giunti nel marzo 1997, l’anno seguente il livello della qualità della vita era quindi ormai quasi normale. Il Kdp e il Puk ricevettero finanziamenti dagli Stati Uniti, perciò abbandonarono la rivalità per combattere non più solo per i propri interessi e gli Accordi di Washington permettevano di condividere potere e entrate economiche. Con il fine di destituire il regime iracheno, gli Stati Uniti entrarono sempre più nella politica curda in modo tale da spostare l’attenzione sull’Iraq e meno sulle lotte interne curde, quelle che invece stavano fornendo opportunità alla Turchia, all’Iraq e all’Iran di sfruttare i partiti curdi e indebolire le strategie statunitensi in Iraq.

La “discrezione” turca nella regione

La Peace monitoring force (Pmf), un contingente guidato dalla Turchia, promuoveva una tregua tra Kdp e Puk fin dal 1997, guadagnandosi nel tempo un’opportunità di rinforzare la sua influenza nella regione curda. Per la Turchia il controllo di quell’area era strategico al fine di indebolire il Pkk. Sebbene il Pmf fosse solo una forza di osservazione fungeva anche da agente turco nella Kri e lasciò l’area subito dopo la caduta del regime iracheno mentre l’esercito turco vi si insediava, in particolare nella zona controllata dal Kdp; da Zakho a Soran, l’intera catena montuosa al confine con Iran e Turchia era sotto il controllo del Pkk. Il dispiegamento di forze turche non si fermò e attualmente sono presenti una ventina di basi militari nei territori del Kurdistan controllati dal Kdp. Mentre mandiamo in stampa il volume gli scontri nell’area montagnosa di Bradost continuano in particolare sul monte Chyadel a ridosso del confine tra Iraq, Iran e Turchia.

Le lotte intestine tra Kdp e Puk terminarono e il Puk attraversò un momento di cambiamento. Il Kim si divise in due fazioni, un gruppo islamico radicale noto come Ansar al-Islam stabilì la sua base nella zona di Hawraman e il 5 dicembre 2001 gli scontri raggiunsero il culmine; nel 2003 gli Stati Uniti eliminarono questo gruppo durante il processo di liberazione/invasione dell’Iraq. 

Nel 2002 il Puk iniziò a normalizzare i rapporti con la Turchia permettendole di manipolarlo incoraggiando lo scontro con il Pkk. Le ostilità tra Pkk e Puk durarono settimane fino a che il Pkk si ritirò dopo una importante sconfitta ma a quel punto la Turchia non aveva più motivo di fornire il suo sostegno al Puk perché la zona sotto il suo controllo non era strategica per lei, mentre il Kdp costituiva un alleato più affidabile. 

Secondo fonti non ufficiali, durante la Guerra civile degli anni Novanta scomparvero 400 persone, molti prigionieri di guerra furono giustiziati e le perdite furono circa 12 000 su ambo i fronti, e migliaia i profughi, alcuni dei quali sono riusciti a rientrare nelle loro terre d’origine solo ultimamente. 

L’intervento della coalizione in Iraq e lo sviluppo della regione curda

Nel 2002, gli Stati Uniti avevano deciso che il regime iracheno doveva cadere e avevano bisogno dei partiti curdi, che giocavano un ruolo essenziale nell’opposizione al regime in Iraq, possedendo forti milizie e controllando i territori. La rivalità tra i due partiti non si era ancora spenta e il parlamento curdo non si era ancora reinsediato come prescrivevano gli Accordi di Washington. È interessante notare come gli Stati Uniti spingessero entrambe le parti verso una negoziazione che iniziò ai primi di settembre 2002 proprio con la mediazione americana. Un mese dopo, il 4 ottobre 2002, il parlamento curdo tenne la sua prima seduta dopo diversi anni di inattività. 

I curdi diedero il loro contributo nella ricostruzione dell’Iraq e i partiti curdi evitarono ogni divisione settaria mantenendo l’equilibrio tra sunniti e sciiti, aspetto che fornì un ruolo chiave alla leadership curda, in particolare a Talabani, che si rese mediatore dei vari conflitti interni iracheni. Il negoziato tra i gruppi dell’opposizione si concluse positivamente e guadagnò il consenso del sistema federale iracheno. Gli Stati Uniti installarono la Coalition Provisional Authority nel 2003 in seguito alla Fondazione del Consiglio di governo iracheno che avvenne nello stesso anno. I capi di governo si alternavano tra i vari leader iracheni, due dei quali curdi: Jalal Talabani e Masoud Barzani. Il Governo regionale del Kurdistan iracheno (Krg) fu riconosciuto come entità federale. 

In occasione delle elezioni del 2005, i partiti curdi si presentarono per entrare in parlamento con una lista congiunta che si guadagnò 75 seggi su 275. Si tennero anche le elezioni nella Kri e la coalizione Puk-Kdp prese il 90 per cento dei voti, con 104 seggi su 111.

La Regione del Kurdistan iniziò a svilupparsi nel 2003, grazie ai miliardi del petrolio iracheno e agli stanziamenti internazionali, acquistò stabilità mentre le città irachene tendevano all’instabilità. 

Gli Stati Uniti tenevano in gran conto la Kri per diversi motivi; la Regione del Kurdistan era l’unica zona stabile in Iraq in cui i soldati americani venivano accolti calorosamente e non a suon di pallottole, i media internazionali mostravano che la caduta del regime era importante: i curdi del Nord dell’Iraq dopo anni di oppressione stavano sviluppando la loro democrazia che avrebbe potuto fare da modello per l’intera regione. Gli Stati Uniti avevano bisogno dei partiti curdi per controbilanciare l’influenza iraniana a Baghdad, la Kri divenne un luogo sicuro per le missioni americane e i curdi erano abili a mediare le rivalità irachene tanto che i primi ministri iracheni avevano bisogno dell’avallo curdo, e dopo tutto, si supponeva che la Kri possedesse una riserva di barili di petrolio per 45 miliardi e 8000-10 000 miliardi di metri cubi di gas naturale: questi numeri ponevano la Kri all’ottavo posto nella classifica delle riserve mondiali di petrolio e gas naturale. Gli Stati Uniti dovettero confrontarsi con la resistenza di diversi gruppi iracheni, tra cui le forze sciite, ma la Kri sosteneva in ogni modo gli americani per rafforzare il legame che li univa. 

Nel 2006, le amministrazioni di Sulaymaniyya ed Erbil si unirono dando luogo a un nuovo Krg, e oltre al governo esistente la regione curda diede vita alla Presidenza della Regione del Kurdistan. Il Kdp e il Puk si spartirono equamente Erbil e Baghdad, e mentre Jalal Talabani divenne il presidente iracheno, Masoud Barzani governò l’entità politica regionale curda; i primi ministri si sarebbero alternati ogni due anni tra di loro secondo il cosiddetto Accordo Strategico firmato nel 2005, un’estensione degli Accordi di Washington. La condivisione del potere tra Kdp e Puk rese i due partiti più forti agli occhi del popolo, ora che avevano deciso di guidare l’Iraq insieme e di partecipare alle elezioni nella Kri con liste congiunte che, in assenza di un vero partito di opposizione, avrebbero vinto con la maggioranza dei voti. 

Dal 1993 al 2003, la Kri attraversò un periodo di blocco internazionale, un blocco dell’Iraq, una guerra civile, una divisione dei territori, e il 2003 segnò l’inizio di un nuovo periodo storico per la società curda, per i movimenti civili, i media, l’istruzione, la crescita economica e dopotutto anche per le trivellazioni, la produzione e l’esportazione del petrolio e del gas che cambiò il corso della storia curda. 

Dopo il 2003: Proteste, riforme mancate e repressione

Tra il 2003 e il 2009 i media liberi curdi erano diventati potenti, la società civile in questo periodo fu molto incisiva. I tre mezzi di comunicazione indipendenti nella Kri – i quotidiani “Hawlati”, “Awene” e “Lvin” – insieme a pochi altri, mettevano alla prova la politica, la storia e il governo curdi. Le proteste studentesche durante questo periodo si susseguirono ad altre in cui i dimostranti chiedevano democrazia, servizi pubblici, giustizia e l’eliminazione della corruzione. Sfortunatamente, il Kdp e il Puk sedarono ogni protesta, facendo vittime. E l’influenza dei media liberi era così forte da arrivare all’omicidio dei giornalisti Soran Mama Hama, nel 2007 a Kirkuk, Sardasht Othman nel 2010 a Erbil, Kawa Garmyani nel 2013 a Kalar, e Wedat Hussein a Dahuk nel 2016. 

Nel 2006 il deputato della Segreteria generale del Puk Nawshirwan Mustafa diede le dimissioni quando il Puk non rese effettive le riforme politiche, economiche, militari, della comunicazione e delle relazioni internazionali per cui Mustafa lottava. Fondò così la Wusha (World Publishing Corporation), un giornale, e la Tv satellitare Knn. Il 25 luglio 2009, Nawshirwan Mustafa annunciò la fondazione del suo Movimento del cambiamento (Gorran) come lista elettorale in corsa per le elezioni e vinse 25 seggi su 111 nel Parlamento curdo, conferendo maggiori speranze di democratizzazione. 

Le aspettative della gente erano molto alte, e mentre la Krg stava guidando il paese verso un modello di stato autoritario petrolifero simile agli Emirati, i due partiti di governo controllavano ogni cosa: dalle moschee ai pozzi di petrolio, c’era chi si chiedeva se mantenere l’opposizione interna al sistema o scendere in piazza. Il 2011 vide la nascita della Primavera araba e la società curda aveva già assistito a diverse proteste. Il 17 febbraio 2011, i dimostranti curdi si riunirono a Sulaymanyya in sostegno alla rivoluzione egiziana. Ben presto tutto questo si trasformò in una protesta contro l’élite al potere e chiedeva un rinnovamento del sistema politico. Nel giro di 64 giorni, ci furono 10 morti e 500 feriti, centinaia di persone furono rapite e torturare nelle prigioni di Kdp e Puk. 

I due partiti governativi sconfissero ogni opposizione e i media internazionali, i paesi europei e gli Stati Uniti chiusero un occhio perché la Kri costituiva ancora un avamposto stabile in Iraq quando non erano ancora chiari gli sviluppi della Primavera araba. Turchia e Iran avevano anche sviluppato il proprio legame economico e politico con il Kdp e il Puk e un cambiamento di governo non avrebbe giovato ai loro interessi; il governo iracheno si era disfatto dei dimostranti curdi che non ebbero altra alternativa che sospendere le proteste. 

Frags tratti da Curdi, a cura di Antonella Di Biasi, con i contributi di Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018, disponibile in libreria e su tutte le principali piattaforme online.

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