astensionismo Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/astensionismo/ geopolitica etc Tue, 13 Sep 2022 17:29:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 n. 10 Maghreb – parte II: Algeria postelettorale, dove il “nuovo” non cambia https://ogzero.org/algeria-postelettorale-in-crisi-economica-e-stallo-politico/ Fri, 09 Jul 2021 10:34:09 +0000 https://ogzero.org/?p=4255 Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: proseguiamo con l’Algeria, che in questo tempo postelettorale fa i conti con la crisi economica e lo stallo politico, con la repressione del movimento Hirak. E intanto il rapporto con i paesi limitrofi e la definizione […]

L'articolo n. 10 Maghreb – parte II: Algeria postelettorale, dove il “nuovo” non cambia proviene da OGzero.

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Questo saggio dedicato alle rotte nordafricane appartiene alla serie di contributi in cui Fabiana Triburgo approfondisce la questione migratoria: proseguiamo con l’Algeria, che in questo tempo postelettorale fa i conti con la crisi economica e lo stallo politico, con la repressione del movimento Hirak. E intanto il rapporto con i paesi limitrofi e la definizione delle Zee del Mediterraneo ci portano verso il caos libico.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


L’ennesimo roud elettorale

Nella presente sezione riguardante i paesi del Nord Africa – connaturati dall’essere non solo paesi di immigrazione – considerati i flussi migratori provenienti dall’Africa subsahariana, ma anche paesi di transito e di emigrazione degli stessi cittadini nordafricani verso l’Europa – va annoverata l’Algeria, geograficamente la più grande nazione del continente africano con circa 50 milioni di abitanti. Lo scorso 12 giugno questo paese è stato interessato da un ennesimo round elettorale, quello parlamentare, che ha registrato la vittoria indiscussa dell’astensionismo: circa il 70% degli aventi diritto al voto, infatti, non si sono presentati ai seggi per le elezioni del nuovo Parlamento.

Invero il fenomeno non desta particolare stupore perché già nelle precedenti tornate elettorali, in particolare quella del referendum sulla riforma della Costituzione, nel novembre del 2020, così come quella precedente dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica Tebboune il 13 dicembre del 2019 (in seguito alle dimissioni di Bouteflika) si sono distinte per una bassa affluenza alle urne.

Basti pensare che l’attuale presidente è stato eletto con circa il 40% dei voti.

Va ricordato inoltre che il primo ministro algerino Abdelaziz Djerad nominato il 28 dicembre del 2019 e appartenente al gruppo parlamentare degli indipendentisti si è dimesso proprio in esito alle elezioni parlamentari del giugno scorso ed è stato sostituito il 30 giugno dal ministro delle Finanze Ayman Benabderrahmane.

L’astensionismo e la protesta

Le ragioni di un così marcato disinteresse, sino a sfiorare il totale rifiuto, della popolazione algerina nei confronti della classe politica vanno ricercate temporalmente nel febbraio del 2019, data nella quale nacque il movimento di protesta popolare Hirak mediante il quale si sollevarono pacifiche ma decisive mobilitazioni all’indomani delle intenzioni – manifestate da parte dell’ex presidente Bouteflika – di volersi ricandidare per un quinto mandato. L’ex capo di stato, all’epoca in carica da più di venti anni, ottantaduenne e costretto su una sedia a rotelle dal 2013 in seguito a un ictus, pur rivestendo una posizione apicale da diversi anni non aveva più alcuna autonomia d’iniziativa politica e rappresentava soltanto il debole vertice di un apparato statale militare che invece costituisce ancora oggi la vera struttura portante del sistema istituzionale oligarchico algerino. Potere politico e potere militare nella classe dirigente algerina si sovrappongono ed è proprio contro questo impianto che l’Hirak protestò a partire dal 2019, così come avvenne con le proteste popolari in Libano e in Iraq, ottenendo una prima parziale vittoria con le dimissioni di Bouteflika ad aprile dello stesso anno – foraggiate, se non imposte, proprio dall’allora capo di stato maggiore dell’esercito Gaid Salah.

Tuttavia, l’Hirak non è riuscito ancora a scalfire l’impianto sottostante al capo di stato che il movimento di protesta criticava e critica tutt’ora aspramente per le decisioni politiche economiche e sociali adottate nel paese.

Il sistema politico-militare “Povoir”, infatti, che più che una casta rappresenta una struttura “genetica” del potere algerino, è considerato fortemente corrotto e interessato soltanto al mantenimento del proprio status quo, nonostante il tracollo economico che il paese oggi si trova ad affrontare, aggravato ulteriormente a partire dal 2020, dal contesto pandemico. Al riguardo si ricorda che il capo di stato Tebboune ha contratto il Covid-19, in seguito alla sua elezione, e ciò ha provocato un ulteriore stallo politico ed economico nel paese essendosi assentato per un lungo lasso di tempo per sottoporsi alle cure in Germania.

Troppo dipendenti dal petrolio

In tale scenario economico disastroso, contraddistinto da un preoccupante indice di disoccupazione, da un taglio dell’export del 20%, dall’aumento della spesa pubblica e soprattutto da un vertiginoso ribasso del prezzo del petrolio – da 70 dollari al barile a 46 dollari registrati nel 2021 – l’economia algerina ha dimostrato e dimostra le falle di un sistema che non consente l’elargizione dei sussidi necessari per la popolazione civile poiché troppo dipendente dagli introiti derivanti dagli idrocarburi. In particolare, l’Algeria avrebbe la forte necessità di diversificare la propria economia aprendosi maggiormente agli investitori stranieri. Anche se ciò in parte si è cercato di realizzare con alcune riforme legislative, l’impianto, per quanto riguarda la vendita del greggio, non ha subito variazioni.

A ricordarlo è la Legge 49/51 ancora in vigore in Algeria secondo la quale, nell’ipotesi di partecipazioni straniere nelle attività economiche e nelle società algerine, della maggioranza del ricavato deve essere sempre titolare l’apparato statale: caso emblematico è quello della società petrolifera algerina Sonatrach i cui profitti sono intestati per l’80% a dirigenti statali. In tale situazione si ricorda che l’Italia è il primo investitore straniero nell’economia algerina e il 90% del gas importato proviene proprio da quel paese.

La Zee: una rivendicazione unilaterale

Al riguardo occorre sottolineare che nel 2018 l’Algeria, la più grande potenza militare africana, i cui arsenali provengono soprattutto dalla Russia, ha rivendicato unilateralmente la propria zona economica esclusiva (Zee) nell’area marittima che si estende fino a Oristano, più specificatamente a distanza di 60 miglia dalla costa occidentale della Sardegna e almeno a 195 miglia dalla costa algerina, senza che, fino a quest’anno, dal governo italiano vi sia stata alcuna opposizione ufficiale.

Lo scorso giugno anche l’Italia tuttavia ha stabilito la propria Zee che in alcuni casi come quello dell’Algeria ha fatto emergere diverse visioni di giurisdizione.

Vedremo in seguito come tale rivendicazione unilaterale marittima dell’Algeria abbia determinato degli effetti anche sui processi di emigrazione dal paese.

Dopo l’Italia anche la Francia rappresenta un partner economico importante per l’Algeria – che ne era una colonia fino al 1962 – considerato in modo meno benevolo dagli algerini per questioni storiche passate.

Passare per cospiratori: la repressione

Ricordiamo che nel 2021 il presidente Macron dopo molti anni ha ammesso la responsabilità francese di alcune uccisioni durante la guerra di Algeria fino a ora mistificate. I movimenti di protesta dell’Hirak iniziati nel 2019, sospesi momentaneamente nel 2020 a causa delle misure imposte dal governo per il contenimento del virus, sono ripresi in modo vigoroso a partire da febbraio del 2021 e si sono accentuati in prossimità delle elezioni, in particolare nel mese di maggio e giugno di quest’anno. Contro di essi si è imposta una forte repressione caratterizzata da arresti di massa sulla base di false accuse di cospirazione o terrorismo. Inoltre, con emendamenti al Codice penale nel 2021 è stata ampliata la definizione di “terrorismo” secondo la quale rientra anche “il tentativo di conquistare il potere o cambiare il sistema di governo con sistemi incostituzionali”. Più specificatamente alla data del 23 giugno, 273 risultavano essere gli attivisti arrestati e perseguitati solamente per avere esercitato il diritto alla libertà di espressione e di riunione in prossimità delle elezioni, esprimendo il loro dissenso politico.

Tale reazione istituzionale appare contraddittoria rispetto all’operazione di facciata del capo di stato, a febbraio 2021, della liberazione di 37 manifestanti dell’Hirak – lasciandone in carcere comunque ancora 31 – per dimostrare fin da subito una rottura rispetto al passato regime.

L’operazione cosmetica della sicurezza

I manifestanti dell’Hirak in realtà anche nel 2020 sono stati arrestati con l’accusa della violazione delle norme del lockdown o in base alla violazione della legge sulle fake news entrata in vigore lo stesso anno, secondo la quale è prevista la pena detentiva fino a tre anni per i trasgressori. Inoltre, le istituzioni algerine hanno strumentalizzato le misure per il contenimento del Covid-19 per impedire il più possibile le proteste. La stessa approvazione, con referendum popolare della modifica della Costituzione, nel novembre del 2020, era stata vista dalla popolazione come una mera operazione cosmetica che pur registrando delle aperture istituzionali rispetto al regime guidato da Bouteflika – come per esempio l’introduzione della figura del vicepresidente della repubblica  – ha mantenuto la posizione predominante del capo di stato algerino non solo sull’esecutivo, ma anche rispetto al potere legislativo, avendo il presidente la possibilità di porre il veto rispetto alle leggi parlamentari, e su quello giudiziario, restando prevalenti le preferenze che egli esprime sulla nomina dei giudici. La modifica della Costituzione inoltre – entrata in vigore a gennaio del 2021 – se da un lato ha migliorato la protezione delle donne, dall’altro ha indebolito la libertà di parola subordinandola ai valori religiosi e culturali del paese. Oltre a ciò va detto che nel testo della legge contro la discriminazione e l’odio, adottato ad aprile di quest’anno, non vi è alcun riferimento alle discriminazioni legate alla religione, all’orientamento sessuale, e all’identità di genere. Nei confronti delle donne e per le persone Lgbtqi persistono quindi ancora gravi discriminazioni ed è rimasta intatta la disposizione che criminalizza le relazioni sessuali consensuali tra le persone dello stesso sesso per le quali è prevista una pena da due mesi a due anni di carcere oltre a una sanzione pecuniaria. Per le donne le discriminazioni più specificatamente sono state perpetrate in materia di eredità, matrimonio, divorzio, così come è proseguita la violenza di genere e il femminicidio.

Inoltre, si ricorda che è solo grazie all’approvazione di una nuova legge elettorale – lo scorso 7 marzo – che il presidente Tebboune ha potuto indire le elezioni del 12 giugno 2021, anticipandole rispetto alla data del 2022 originariamente prevista per il loro svolgimento.

Perché Tebboune aveva bisogno di anticipare le elezioni?

Tebboune si è posto come l’emblema (falso) dell’appagamento delle istanze sollevate dal movimento Hirak, ringraziando il Movimento stesso per avergli dato la possibilità di salire al potere e riconoscendogli la vittoria per la caduta del precedente regime, ma affermando al contempo che proprio per questo l’Hirak oggi non ha più motivo di esistere in quanto con la propria nomina sarebbe iniziata una nuova era politica per l’Algeria.

Anche qui siamo di fronte alla solita operazione di facciata: Tebboune ha indetto elezioni anticipate con una pluralità di liste parlamentari, circa 1500 per 407 seggi disponibili, ben conscio che il Parlamento in carica al momento della sua nomina si formò nel 2017 sotto il regime di Bouteflika e quindi era privo, in ragione delle successive proteste del movimento Hirak, di una vera legittimazione popolare. Per questo motivo alla vigilia delle elezioni ha dichiarato di non essere poi così interessato a un eventuale astensionismo mentre l’Hirak da parte sua ha cercato di boicottare le elezioni in ogni modo con successo. Se infatti è vero che le elezioni si sono tenute, è vero anche che si è registrata nuovamente l’acquisizione di molti seggi da parte dei partiti emblematici dell’alleanza politica durante il regime di Bouteflika –  il partito Unico del Fronte di Liberazione Nazionale (Fln) con 105 seggi al potere dal 1962 e dal quale proviene l’attuale capo di stato, quello del Ressemblement National Democratique (Rnd) con 57 seggi, al quale apparteneva Bouteflika, e  il partito islamista Movimento per la Società della Pace (Msp) con 64 seggi – che unita all’astensionismo ha fatto fallire in pieno quell’ideale progetto di svolta istituzionale  e di legittimazione popolare che avrebbe voluto mostrare il presidente davanti alla comunità internazionale, tradendo invece più realisticamente la condizione d’impasse o addirittura di regresso politico nella quale si trova attualmente l’Algeria.

Ascolta “Lo stallo ad Algeri e la resistenza del movimento Hirak: un sistema da sovvertire” su Spreaker.

Il “Punto zero”

Il sistema istituzionale algerino desta quindi preoccupazioni sia per la violenta repressione della libertà di espressione, sia di quella politica che quella di credo religioso, che per le persecuzioni nei confronti delle donne e delle comunità Lgbtqi potenzialmente valutabili ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato in conformità alla Convenzione di Ginevra del 1951. È sempre in contrasto rispetto a quanto viene stabilito all’articolo 33 (principio di non-refoulement) della medesima Convenzione che da diversi anni l’Algeria si è resa responsabile di deportazioni di massa dei cittadini provenienti dall’Africa subsahariana verso il cosiddetto “Punto zero” nel deserto nigerino, in prossimità della città di Assamaka, l’unico punto ufficiale di passaggio tra Algeria e Niger. La questione ha assunto una rilevanza drammatica nel 2020, anno nel quale, nonostante gli elevati rischi di contagi legati al virus e la chiusura delle frontiere, l’Algeria ha comunque continuato a eseguire espulsioni sistematiche dei migranti provenienti prevalentemente dall’Africa occidentale, più precisamente di 23.175 individui, mentre nel 2021, tra gennaio e aprile, ha respinto specialmente durante le ore notturne 4370 migranti – dopo averli arrestati e detenuti per giorni – verso la zona desertica nigerina privi di mappe e di rilevatori satellitari.

L’appoggio al Polisario e al popolo saharawi

Ciò appare alquanto singolare dato che l’Algeria è anche un paese di accoglienza: da molti anni sostiene il popolo saharawi che negli anni Ottanta rivendicò la propria autonomia rispetto al Marocco riconosciuta anche dall’Unione Africana. L’Algeria infatti ancora oggi appoggia il Fronte Polisario per la Liberazione del Popolo saharawi dall’occupazione marocchina iniziata nel 1975, ospitando in prossimità della città di Tindouf nella zona sudovest del deserto algerino circa 180.000 profughi saharawi. La questione si è ultimamente esacerbata in seguito alle dichiarazioni lo scorso anno da parte dell’amministrazione americana che ha deciso di riconoscere l’autorità marocchina sui territori contesi, mentre l’Algeria continua a sostenere che la questione dell’indipendenza del Sahara Occidentale può essere risolta solo mediante l’applicazione del diritto internazionale con un referendum di autodeterminazione.

La rotta dimenticata

Insieme a tali fenomeni, legati all’immigrazione e all’accoglienza algerina, occorre considerare anche quello dell’emigrazione che interessa da diversi anni il paese e che concerne la cosiddetta rotta “dimenticata” tra Algeria e Sardegna, percorsa quasi esclusivamente dagli stessi algerini. La rotta, sottoposta a un’attenzione mediatica minore rispetto a quella più pericolosa del Mediterraneo centrale, della quale ci occuperemo più dettagliatamente nella sezione del saggio riguardante gli attuali flussi delle correnti umane, dal 2015 ha interessato particolarmente la tratta Annaba (Algeria) – Sulcis, in particolare le spiagge di Sant’Antioco, Teulada e Sant’Anna Arresi che distano circa 100 miglia dal Nord Africa e sulle quali dall’Algeria si può approdare – nel caso di buone condizioni marittime – anche in 24 ore. I mezzi impiegati in tale rotta oltretutto a volte risultano ben diversi rispetto a quelli di fortuna utilizzati per attraversare la rotta del Mediterraneo centrale: è di febbraio del 2021 la notizia dell’arrivo di un gruppo di trenta migranti tra cui donne e minori giunti dall’Algeria nel Sud della Sardegna a bordo di due motoscafi con motori da 200 cavalli. Già all’inizio del 2020 la nazionalità algerina infatti era al primo posto tra quelle dei migranti approdati in Italia, proprio mediante tale rotta, ragione per cui, nello stesso anno, non solo è stato aperto il centro per il rimpatrio di Macomer, ricavato dall’ex carcere presente sull’isola italiana, ma a settembre del 2020 il ministro dell’Interno italiano Lamorgese ha incontrato il suo omologo algerino Beldjoud e hanno convenuto sull’“attuazione di nuovi modelli operativi con particolare riferimento alle procedure di rimpatrio anche per rendere più efficiente e velocizzare la loro esecuzione”.

Verso il caos libico

Infine, interessante è il rapporto che l’Algeria ha con la vicina Libia. L’Algeria si è da sempre opposta alla bipartizione del paese (Russia e Turchia) e attualmente sostiene il governo ad interim delle Nazioni Unite presiedendo il Gruppo di Lavoro politico del Comitato internazionale sulla Libia. Anche nel 2021 infatti il paese a causa del poroso confine desertico con la Libia ha subito diversi attacchi terroristici. Ecco dunque che in tale sezione del saggio ci avviciniamo inevitabilmente a quel “Caos libico” che evidenzia l’annosa questione degli accordi con il governo italiano, tutt’ora in vigore, per il controllo dei flussi migratori del Mediterraneo centrale.

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Elezioni iraniane: l’astensionismo è social https://ogzero.org/astensionismo-e-social-prospettive-iraniane/ Thu, 17 Jun 2021 10:55:32 +0000 https://ogzero.org/?p=3899 Il 18 giugno in Iran eleggeranno il successore di Hasan Rohani, il dibattito politico ferve tra affollate assemblee e serate pubbliche, ma il boicottaggio al voto viaggia sui social, su quelli che resistono alla censura, nelle stanze virtuali in cui cresce il “partito” dell’astensionismo derivante dalla disillusione degli iraniani: un paradosso per un regime che […]

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Il 18 giugno in Iran eleggeranno il successore di Hasan Rohani, il dibattito politico ferve tra affollate assemblee e serate pubbliche, ma il boicottaggio al voto viaggia sui social, su quelli che resistono alla censura, nelle stanze virtuali in cui cresce il “partito” dell’astensionismo derivante dalla disillusione degli iraniani: un paradosso per un regime che ha sempre indicato la partecipazione popolare come la prova della sua legittimità.


Figure molto in vista del governo iraniano hanno partecipato ad affollate assemblee per rispondere alle domande di cittadini e giornalisti. I candidati alle prossime elezioni presidenziali si sono presentati in serate pubbliche di dialogo, mentre una nota esponente riformista ha lanciato dure critiche alla selezione dei candidati. Un’attivista per i diritti umani ha spiegato perché lei non voterà. Si moltiplicano gli appelli a boicottare il voto. Anche le correnti conservatrici hanno organizzato eventi soprattutto per criticare il governo sulla gestione dell’economia, tema sempre molto popolare. E tutto questo avviene in eventi in diretta sui social media.

Il 18 giugno gli iraniani eleggeranno un successore al presidente Hasan Rohani, giunto al termine del suo secondo mandato, e il dibattito politico ferve.

Ma non sono stati i confronti in diretta Tv tra i sette candidati a mobilitare gli ascolti, quanto i social media: e tra questi soprattutto Clubhouse, ultimo grido in fatto di spazi virtuali.

Perché? Nel recente passato i dibattiti televisivi tra i candidati, inaugurati dalla Tv di stato nel primo decennio del Duemila, avevano avuto risonanza. Davano un’idea di apertura. Per la prima volta i candidati erano messi a confronto in diretta in ore di grande ascolto, con un contraddittorio che metteva alla prova la capacità di comunicare e rispondere a domande scomode.

Senza concorrenti

Non questa volta. Ma non è solo questione di format televisivi. Il fatto è che mai come questa volta il processo di selezione dei candidati è stato restrittivo: il Consiglio dei Guardiani, consesso di giuristi islamici che ha il compito di vagliare le credenziali di ogni candidato alle cariche pubbliche, ha squalificato molti nomi noti. In particolare, ha escluso l’attuale vicepresidente Eshaq Jehangiri, rappresentante di spicco dello schieramento riformista, e perfino l’ex presidente del parlamento Ali Larijani, e questo è stato davvero inatteso: in fondo Larijani è un esponente della nomenklatura della Repubblica Islamica, un conservatore, già caponegoziatore sul nucleare; non è mai stato neppure lontanamente vicino ai riformisti, anche se è un moderato e nelle ultime due legislature si è avvicinato al presidente uscente Rohani. Eppure è fuori. Escluso anche l’ex vicepresidente Mahmoud Ahmadi Nejad.

In altre parole, l’organismo di controllo ha escluso dalla competizione elettorale ogni reale concorrente all’unico candidato favorito dal sistema, e cioè Ebrahim Raisi, attuale capo della potentissima magistratura (che nel sistema istituzionale iraniano risponde solo al Leader supremo), esponente della corrente più oltranzista del sistema politico iraniano.

Il favorito del Leader

Il nome di Ebrahim Raisi emerge in alcune delle pagine più inquietanti della Repubblica islamica dell’Iran. Originario di un villaggio vicino a Mashhad, seconda città iraniana e sede di uno dei più importanti mausolei sciiti, Raisi ha studiato teologia a Qom, dove è stato discepolo di Ali Khamenei (oggi Leader supremo del paese). La sua carriera giudiziaria è cominciata nel 1981, subito dopo la Rivoluzione. Nel 1985 era viceprocuratore di Tehran e nel 1988, sul finire della sanguinosa guerra Iran-Iraq, fece parte di uno speciale gruppo di quattro magistrati che per incarico speciale dell’ayatollah Khomeini (l’allora Leader supremo) doveva epurare i detenuti politici di cui straboccavano le carceri: fu un massacro, l’esecuzione sommaria di migliaia di persone (circa cinquemila, secondo Amnesty International).

Durante la campagna per le presidenziali del 2017, quando Raisi si era candidato contro il presidente Rohani, questi ha rinfacciato a Raisi il suo ruolo nel “comitato della morte”: lui si è difeso minimizzando,  distinguendo tra gli accusatori e chi emette la sentenza.

L’astensionismo è social

Sta di fatto che da allora Raisi ha fatto una carriera sfolgorante, ricoprendo numerose alte cariche nella magistratura. Nel 2009 ha confermato la condanna a morte di numerose persone per aver partecipato alle proteste dopo la rielezione di Ahmadi Nejad. Nel 2016 Khamenei lo ha nominato “custode” della danarosa fondazione Astan Quds Razavi, che gestisce il mausoleo dell’Imam Reza a Mashad e soprattutto gestisce un cospicuo patrimonio e controlla una fitta rete di industrie e aziende commerciali. Nel 2019 Khamenei lo ha nominato Procuratore generale della Repubblica islamica.

È da allora che Raisi sta lavorando alla sua rivincita elettorale. Da capo della magistratura ha lanciato una “guerra alla corruzione”. In un paese dove alcuni sono riusciti ad ammassare grandi fortune in modo poco chiaro mentre le classi medie sono impoverite da crisi e sanzioni, il tema è di sicuro appeal popolare. Qualcuno sostiene che nella sua crociata anticorruzione il Procuratore generale Raisi si sia rivolto solo ai circoli più vicini alla famiglia Rafsanjani e alla sua corrente politica (che include parte del governo uscente), sorvolando sulle malefatte di altre parti politiche.

Certo è che da un paio d’anni Ebrahim Raisi gira per il paese tuonando contro i figli dell’élite “occidentalizzata” e corrotta, tiene incontri pubblici, visita moschee e fondazioni caritatevoli, arringa fedeli, accusa i riformisti di essere elitari e il governo di aver perso contatto con “i poveri”: come una lunga campagna elettorale, di cui ora spera di raccogliere i frutti. Raisi dispone con ogni evidenza dell’appoggio del deep state, i poteri forti della Repubblica islamica, con tutti gli apparati di consenso popolare (tra cui le fondazioni caritatevoli rivoluzionarie come quella di Mashhad che lui presiede).

Ciò che invece manca a Ebrahim Raisi è un carisma personale.

Nei dibattiti elettorali (in Tv: non sono noti suoi interventi su Clubhouse o altri social media) Raisi ha promesso di combattere «la povertà e la corruzione, l’umiliazione e la discriminazione», ed è tutto ciò che ha ripetuto durante uno dei rari comizi “in presenza” di questa campagna elettorale, pochi giorni fa in uno stadio della città sudoccidentale di Ahwaz (nonostante il paese stia ancora facendo i conti con la pandemia di Covid-19).

“Non è un’elezione, è una nomina”

«Questa non è più un’elezione, è una nomina», ha commentato Faezeh Hashemi, ex deputata ed esponente riformista, durante un incontro pubblico la cui registrazione è circolata online. Figlia dell’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, un grande vecchio della politica iraniana, Faezeh Hashemi è nota per prese di posizione molto schiette. «Non capisco perché abbiano pensato che Larijani fosse un pericolo per Raissi», osserva, visto che il capo della magistratura è di fatto in campagna da due anni. «È molto più grave che in passato», sostiene: lasciare in lizza Larijani almeno «avrebbe dato il senso di un confronto, anche se in effetti era offrire una scelta tra il male e il peggio». Ora non c’è davvero più nessun motivo per votare, conclude Hashemi.

Il veto sui candidati non è una novità in Iran. Nonostante tutto però in passato abbiamo visto una certa competizione politica, e il risultato delle urne non era scontato. Nel 1997 fu una sorpresa l’elezione di Mohammad Khatami, il primo fautore di aperture e riforme interne al sistema, che sconfisse il favorito dall’establishment. Nel 2013, quando i Guardiani hanno messo il veto sulla candidatura dell’ex presidente Rafsanjani, i voti di riformisti, moderati, e di tutti coloro che volevano mettere fine ai tempi bui di Ahmadi Nejad si sono riversati sul pragmatico e moderato Hasan Rohani – che in effetti ha riportato qualche apertura nella politica iraniana sia interna, sia internazionale.

Questa volta però non resta alternativa. Nell’ultima settimana di maggio il portavoce del Fronte riformista ha dichiarato che i riformisti non hanno alcun candidato in campo, ovvero che non ritengono di poter riversare i propri voti su nessuno.

Al contrario, si moltiplicano gli appelli a boicottare il voto.

Così, non sorprende che i dibattiti televisivi tra i sette candidati superstiti, andati in onda il 4, l’8 e il 12 di giugno, abbiano suscitato scarso interesse (anche se bisogna riconoscere che non ha aiutato la coincidenza con importanti partite della nazionale di calcio iraniana). I resoconti sono unanimi: dibattiti farciti di veementi accuse e sarcasmi reciproci, ma pochi discorsi concreti sui programmi, solo vaghe promesse.

L’astensionismo è social

L’unico candidato che mostra di crescere in popolarità, almeno secondo i sondaggi, è Abdolnaser Hemmati, già governatore della banca centrale iraniana da cui ha dovuto dimettersi quando ha registrato la sua candidatura in aprile. Hemmati per esempio ha criticato la decisione del governo Rohani di aumentare il prezzo della benzina nel novembre 2019. Si ricorderà che quell’aumento di prezzi aveva scatenato proteste popolari in molte città iraniane, poi represse con violenza dalla polizia e dalle Guardie della Rivoluzione, lasciando un trauma ancora aperto nella società iraniana. Ora Hemmati dice che lui era contrario al rincaro; che se sarà eletto chiederà che sia fatta luce sugli eventi di quei giorni e su quante persone sono state uccise dalle forze di sicurezza, e si accerterà che le famiglie delle vittime ricevano i risarcimenti a cui hanno diritto.

La “stanze” virtuali

Non è chiaro se simili dichiarazioni di simpatia per le vittime del novembre 2019 bastino a ridare qualche entusiasmo agli elettori. La cosa interessante però è che Hemmati ha fatto le dichiarazioni più veementi su Clubhouse.

Nata poco più di un anno fa negli Stati Uniti, Clubhouse è una video-chat che permette agli utilizzatori di aprire una “stanza” virtuale dove invitare fino a ottomila partecipanti per ogni sessione. In Iran ha avuto un immediato successo perché offre uno spazio pubblico, sebbene virtuale, dove si parla di un po’ tutto – cinema, eventi culturali, la pandemia, o anche se boicottare le elezioni.

Bisogna considerare che la diffusione di internet è molto alta in Iran fin dai primi anni Duemila, e ha avuto un’accelerazione nell’ultimo decennio. Un paese di 85 milioni di persone oggi ha quasi 95 milioni di allacciamenti alla banda larga. Negli otto anni di amministrazione Rohani, le sim card in uso sono passate da quasi 60 milioni a 131 milioni. L’uso di internet è pervasivo ormai anche nelle piccole città di provincia, e sono diffusissimi i social media: nel 2018 il ministero della Cultura annunciava che circa 40 milioni di iraniani avevano installato Instagram sui loro smartphone. Telegram è un altro social molto usato: permette di aprire “canali” dedicati che sono diventati veri e propri organi di informazione. Con Clubhouse si aggiunge la possibilità di incontri in diretta.

Come già Telegram e Instagram, molto popolari in Iran, o altri social media, anche Clubhouse è ampiamente usato sia da riformisti che conservatori, voci esterne al sistema politico e insider del regime. In una serata su Clubhouse ad esempio il comandante delle Guardia della Rivoluzione Rostam Qasemi, ha risposto alle domande del pubblico. Il ministro delle telecomunicazioni Mohammad Javad Azari Jahromi ha già animato diverse serate. È qui che opinionisti dei diversi schieramenti politici presentano candidati e lanciano discussioni – erodendo ancora un po’ il monopolio televisivo di stato (già minacciato dalle Tv satellitari straniere che il regime cerca invano di oscurare, o dalle piattaforme di cinema e serie Tv on demand).

È in una “stanza” di Clubhouse che, il 31 marzo, il ministro degli Esteri Zarif aveva discusso dell’accordo di cooperazione tra l’Iran e la Cina e di vari altri temi, in una affollatissima serata in cui ha accettato anche domande da giornalisti iraniani all’estero, come la reporter del “New York Times” Farnaz Fassihi o la free lance Negar Mortazavi che vive negli Usa, e perfino Masoud Behnoud, notissimo commentatore che collabora con Bbc Persian (oscurata in Iran): cosa che non sarebbe mai potuta accadere in un incontro più formale.

Sempre su Clubhouse l’avvocata e attivista Narges Mohammadi ha discusso della difesa dei diritti fondamentali nel paese in un evento pubblico che sarebbe impensabile in presenza. Mohammadi è la vicepresidente e portavoce del Centro dei Difensori dei Diritti umani, organizzazione che ha vita molto difficile in Iran: nel 2013 era stata condannata per “attentato alla sicurezza dello stato” e “propaganda contro il sistema”; scarcerata in via condizionale qualche anno dopo, di recente è stata confermata la sua condanna a 30 anni di reclusione.

In un evento del 31 maggio scorso, Mohammadi ha spiegato che boicotterà le elezioni del 18 giugno e farà propaganda attiva per l’astensione: «Se non sono garantiti i diritti politici dei cittadini, tra cui la libertà d’espressione e di riunione, il voto  non avrà un significato reale. […] Nel 2009 i cittadini hanno votato contro il governo; in altre occasioni hanno votato per candidati che si distinguevano almeno un po’ dal sistema.  Insomma, hanno usato quei minimi spazi politici. Ma nell’atmosfera politica attuale, non vedo uno spazio. Le elezioni hanno perso la loro funzione» (qui un resoconto più esteso dell’avvocata Mohammadi).

Cresce il partito dell’astensione

Mentre gli appelli all’astensione si moltiplicano, l’apatia degli elettori cresce. Secondo l’ultimo sondaggio  della Iran Students Polling Agency (Ispa), affiliata al ministero della Scienza e Tecnologia, solo il 34 per cento dei votanti si dichiara deciso ad andare alle urne; contando gli indecisi si arriva intorno al 38 per cento. Sono percentuali addirittura più basse di quelle registrate in maggio: come se la campagna elettorale oltre a non richiamare più elettori li avesse addirittura allontanati.

I sondaggi vanno presi con cautela, ma molti prevedono una partecipazione bassa.

Nelle ultime tre presidenziali la percentuale dei votanti ha oscillato tra il 72 e l’85 per cento.

Controcorrente, giorni fa l’anziano Mehdi Karroubi, autorevolissimo leader riformista, ha rivolto agli iraniani un appello a votare nonostante tutto, e ha chiesto ai riformisti di unirsi dietro a un nome, magari quello di Hemmati, per non lasciare ai conservatori una vittoria troppo facile. Un anno fa, l’apatia degli elettori e il veto su buona parte dei candidati riformisti hanno permesso alle correnti conservatrici di conquistare la maggioranza assoluta del parlamento iraniano; oggi si preparano a conquistare la presidenza.

La disillusione degli iraniani però è forte. «Ancora nel 2013 c’era uno spirito positivo negli elettori, c’era speranza», fa notare Faezeh Hashemi. Poi però le promesse di sviluppo e benessere aperte dalla presidenza Rohani e dall’accordo sul nucleare non si sono materializzate. L’avvento dell’amministrazione Trump ha riportato sanzioni e difficoltà per le classi medie iraniane, e accentuato la tensione internazionale. La repressione delle proteste popolari, la tragedia dell’aereo ucraino abbattuto per errore, l’incertezza economica – tutto concorre a erodere la fiducia pubblica. La scarsa affluenza al voto ne è un segno.

Bel paradosso per un regime che ha sempre indicato la partecipazione popolare come la prova della sua legittimità.

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