Astana Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/astana/ geopolitica etc Sun, 15 Dec 2024 14:51:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Il crogiolo caucasico tra i confini fittizi dei vincitori https://ogzero.org/il-crogiolo-caucasico-tra-i-confini-fittizi-dei-vincitori/ Mon, 09 Oct 2023 23:43:29 +0000 https://ogzero.org/?p=11677 Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – […]

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Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – soprattutto dall’esterno – si sono fatti prevalere contrasti etnici a condivisione di territorio tradizionalmente abitato da famiglie eterogenee, condizionate da invasioni e dominazioni variabili e costanti. E quando soffiano i venti nazionalisti si scompaginano le comunità per creare stati usati per soffocarle, ognuno secondo la propria tradizione verso il vicino; in questo caso è sintomatico come i paesi islamici più lontani come l’Algeria definiscano gli armeni cristiani colonizzatori, mentre l’Iran sciita come il popolo azero appoggi Erevan per mere questioni di metri di confine da salvaguardare, mentre il miglior alleato dei “fratelli altaici” azeri è il vicino sunnita Erdoğan, interessato alla creazione di un unico territorio ottomano senza interruzioni di confini.
Ciò che rende ancora più impellente l’abbandono della terra avita da parte della ex maggioranza armena fuggita dall’Artsakh è la ferocia autoritaria del regime dinastico ex sovietico… mentre perdurano i bombardamenti turchi sui curdi e i sionisti passano per vittime, pur essendo Nethanyauh dalla parte dei carnefici, come gli Aliyev o il despota Erdoğan; tutti in qualche modo collegati e con interessi intrecciati, tra le vittime dei contenziosi decennali mancano solo i saharawi. 


La secolare replica del genocidio armeno

L’attuale violenza (massacri, deportazioni…) subita dagli armeni rievoca fatalmente il genocidio del 1915.
C’ è ancora spazio per una qualsivoglia “soluzione politica” che garantisca minimamente i diritti della popolazione armena del Nagorno-Karabach?
Meglio non raccontarsi balle. Ormai – a meno di imprevedibili eventi di portata planetaria – la questione è chiusa definitivamente. Anzi, potrebbe anche andare peggio.
Non si può infatti escludere che dopo l’Artsakh venga invasa anche la stessa Armenia, in particolare il corridoio per congiungere l’esclave azera di Karki al confine con l’Iran (e la Turchia).

Vediamo intanto di riepilogare la tragica catena degli ultimi tre anni.
I bombardamenti azeri del 19 settembre avevano riportato nella cronaca un conflitto forzatamente dimenticato, tuttavia l’attacco di Baku contro il Nagorno-Karabach e quanto poi avvenuto ai danni del popolo armeno non calava inspiegabilmente dal cielo. Come già si era ipotizzato in agosto.
Era perlomeno probabile.
Il Nagorno Karabakh era una repubblica autoproclamata (ribattezzata con l’antico nome di Artsaj) abitata in prevalenza da armeni, ma posta forzatamente all’interno dei confini dell’Azerbaijan. E che già prima del 1991 si batteva per la propria indipendenza.

Pulizia etnica alternata

Nel conflitto del 1988-1994 la vittoria era andata agli armeni con la conseguente espulsione di migliaia di azeri.

Nella Seconda guerra del Nagorno-Karabach (autunno 2020) le parti si invertirono e per oltre 40 giorni l’esercito azero si scatenò sulla popolazione civile compiendo ogni genere di efferatezze. Qualificabili come una brutale pulizia etnica.
Al punto che molti armeni in fuga riesumarono i loro cari dalle tombe e fuggirono con le bare fissate al portapacchi delle auto dopo aver incendiato la propria casa.

L’evanescente interposizione russa

In realtà solo un terzo della provincia indipendentista era passato sotto il controllo di Baku, ma erano chiare le intenzioni di completare l’opera quanto prima. Nonostante la poco convinta opera di interposizione dei soldati di Mosca, soprattutto dopo che l’Armenia aveva accettato di partecipare a esercitazioni congiunte con truppe Nato (direi un autogol di Erevan).
Ovviamente anche all’odierna (definitiva?) sconfitta degli Armeni (anche per essere stati isolati e privati di mezzi di sussistenza da circa nove mesi) di fronte alle preponderanti forze azere, date le premesse, era fatalmente scontata.

Neottomanesimo via Baku

Smantellata l’amministrazione armena della enclave ribelle, Baku ha dichiarato di volere «integrarla totalmente nella società e nello Stato azeri».

Quanto alle voci di una possibile concessione di “autonomia”, la cosa appare piuttosto fantasiosa. Se nell’Azerbaigian non gode di alcun riconoscimento la consistente “minoranza” Talish (una popolazione di lingua iraniana che supera il milione di persone) cosa potrebbe toccare ai circa 120.000 armeni del Nagorno-Karabach? Peraltro ormai fuggiti nella quasi totalità e poco propensi a rientrare nonostante le rassicurazioni del governo di Baku.

La coltre di gas

Dal canto suo l’Unione Europea si guarda bene dall’intervenire pensando ai consistenti accordi con l’Azerbaijan in materia di gas.

Solidarietà al popolo armeno è stata espressa vigorosamente dal Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (Knk).

Nel comunicato ha denunciato «la tragedia umana che avviene sotto gli occhi del mondo nell’Artsakh (Alto Karabach) dove un centinaio di migliaia di Armeni sono costretti all’esilio». E il Knk ricordava anche le immagini terribili del 2020 con «i soldati azeri che tagliavano nasi e orecchie ai civili e vandalizzavano i monasteri».

Ovvio il parallelismo con quanto avviene “nelle zone curde occupate dalla Turchia” (il principale alleato dell’Azerbaigian).
Ma esiste anche un altro timore, ossia che “se cade l’Artsaj, cade anche l’Armenia”.

Una lingua di terra turca a unire Caspio e Mediterraneo

Già nel 2020 l’Azerbaijan aveva occupato territori ufficialmente dell’Armenia nella regione di Syunik. Una lingua di terra che si frappone alla dichiarata intenzione di Turchia e Azerbaijan di unire il Mediterraneo con il Caspio via terra. Ricordo che Turchia e Azerbaigian sono già confinanti grazie all’enclave azera di Najicheván che – toh, coincidenza! – Erdogan ha appena visitato per la prima volta.

Forse paradossalmente (visto che gli azeri sono in maggioranza sciiti come gli iraniani) l’unico paese con cui l’Armenia mantiene stabili e diretti rapporti commerciali (nel 2020 forse s’aspettava anche sostegno militare, ma invano) è l’Iran. La perdita della regione di Syunik le sarebbe quindi fatale.

L’analogo trattamento turco destinato ai curdi

Per il Knk comunque non ci sono dubbi «Si tratta di pulizia etnica orchestrata dall’Azerbaigian e dalla Turchia., motivata dall’ambizione geopolitica pan-turca che intende riunire queste due nazioni (…). Dopo 108 anni il popolo armeno si ritrova di nuovo vittima di massacri e deportazioni orchestrati dalle forze statali animate da odio razzista verso la cultura e il popolo armeno. Di conseguenza la pulizia etnica attualmente in corso nell’Artsakh deve essere considerata come la continuazione del genocidio armeno del 1915 perpetrato dai Giovani Turchi».
E conclude paragonando le attuali sofferenze degli armeni a quelle analogamente patite dai curdi a Shengal, Afrin e Serêkaniyê: «Nomi e vittime di questi massacri possono cambiare, ma le motivazioni rimangono identiche».

Diretto interventismo turco nell’area curdo-armena

Risalendo all’ottobre 2020 già allora appariva evidente come il conflitto tra Armenia e Azerbaijan fosse propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia.
Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si andava sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti (sunniti) provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri (sciiti) contro gli armeni cristiani.
Un destino, quello della cittadina al confine turco-armeno di Kars, analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanli nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste.

Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe stato quindi di che stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars».

D’altra parte era quasi scontato che Erdogan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto, mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

Niente di nuovo

2009

Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.
Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale “Hurriyet” ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993. Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdoğan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.
Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Anche per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista, quasi un progressista, comunque non un seguace di Erdoğan) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan, chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

1988

Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica Repubblica d’Armenia.
E il 20 febbraio 1988 – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno/azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Agdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armeni. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. È il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.
Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno-Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

1991

In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno stato indipendente sarà approvata con il 99% dei voti.
A questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).
Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.
A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.
Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – discretamente e solo a livello logistico – la Grecia.
Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex Urss (russi e ucraini).

Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.
Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti. Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14% del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (cessate il fuoco del 12 maggio) prendevano il via sotto la supervisione di Mosca.

Il fallimento del Gruppo di Minsk

1994

Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato Osce) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.
Tuttavia – almeno col senno di poi – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

Qualche considerazione in merito alle efficaci operazioni propagandistiche (soprattutto da parte di Baku e Ankara) rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato. Forse perché – tutto sommato – già allora conveniva schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale, Armenia.
Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il Nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974. Per non parlare della continua evocazione di una – non documentata – partecipazione di militanti del Pkk ai combattimenti (a fianco degli armeni ovviamente).

Nel frattempo (gli affari sono affari) la Francia non smetteva di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non era e non è l’unico paese a farlo naturalmente (vedi l’Italia che dovrebbe fornire anche minisommergibili). Ma la cosa appariva stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Per esempio, all’epoca, nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.
Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku colpivano direttamente la popolazione di Stepanakert.

E già allora in qualche modo il conflitto tra Armenia e Azerbaijan appariva propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne era addirittura la “vetrina”). Intravedendo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

Due parole poi sul ruolo assunto da Teheran

Anche se poteva apparire incongrua, da più parti si formulava l’ipotesi di un Iran deciso a schierarsi con l’Armenia nel conflitto con l’Azerbaijan.
Incongrua soprattutto pensando che in entrambi i paesi, Iran e Azerbaijan, è prevalente la fede sciita.

Ma poi (come forse era lecito aspettarsi) alcuni autorevoli esponenti politici iraniani erano intervenuti dichiarando che «l’Iran non sceglie l’Armenia a sfavore dell’Azerbaijan».

Il giornalista Raman Ghavami si diceva convinto che «sia probabile che dovremo assistere a una significativa collaborazione tra l’Iran, la Turchia, l’Azerbaijan (e presumibilmente anche la Russia a questo punto, N.d.A.) sia sull’Armenia, sia su altre questioni che interessano la regione».

Si sarebbe andato infatti configurando un nuovo livello di sostanziale collaborazione nelle relazioni tra Azerbaijan e Iran. Addirittura Teheran avrebbe (notizia non confermata) richiesto all’Armenia di “restituire” (nientemeno ?!?) il Nagorno-Karabakh a Baku.

Per Raman Ghavami in realtà l’Iran «da sempre preferisce rapportarsi con gli azeri sciiti piuttosto che con gli Armeni». Come avveniva già molto prima dell’insediarsi del regime degli ayatollah.

Nuovo intreccio dei destini armeni e curdi

A tale riguardo riporta l’esempio della provincia dell’Azerbaijan occidentale (posta entro i confini iraniani) che in passato era abitata prevalentemente da curdi e armeni.
Ma tale demografia venne scientificamente modificata, nel corso del Ventesimo secolo, dai vari governi persiani che vi trasferirono popolazioni azere. Sia per allontanarvi i curdi, sia per arginare gli effetti collaterali del contenzioso turco-armeno entro i confini persiani.
Molti armeni e curdi vennero – di fatto – costretti a lasciare le loro case.
Inoltre, in tale maniera, si creava una artificiosa separazione tra le popolazioni curde di Iraq, Turchia e Siria e quelle in Iran. Cambiando anche la denominazione geografica. Da Aturpatakan a quella di Azerbaijan occidentale.

Altro elemento di tensione tra Erevan e Teheran – sempre secondo Raman Ghavami – deriverebbe dal ruolo della chiesa armena nell’incremento di conversioni al cristianesimo da parte di una fetta di popolazione iraniana.

Legami finanziari Teheran-Baku

Da sottolineare poi l’importanza vitale, per un paese come l’Iran sottoposto a sanzioni, dei legami finanziari con l’Azerbaijan. Ricordava sempre Raman Ghavami come, non a caso, la succursale della Melli Bank a Baku è seconda per dimensioni soltanto a quella della sede centrale di Teheran.
Un altro elemento rivelatore sarebbe il modo in cui, rispettivamente, Baku ed Erevan hanno reagito alla cosiddetta “Campagna di massima pressione” sull’Iran in materia di sanzioni: mentre gli scambi commerciali tra Armenia e Iran si riducevano del 30%, quelli con l’Azerbaijan si intensificavano.
Ad alimentare la tensione poi, il riconoscimento da parte dell’Armenia di Gerusalemme come capitale di Israele. Una avventata presa di posizione di cui Erevan potrebbe in seguito essersi pentita. Vedi il successivo contenzioso (e ritiro dell’ambasciatore) a causa della vendita da parte di Israele di droni kamikaze IAI HAROP all’Azerbaijan.

Ulteriore complicazione (ma anche questa era forse prevedibile) la notizia che erano già in atto scontri armati tra i mercenari di Ankara inviati in Azerbaijan (presumibilmente jihadisti, sicuramente sunniti) e gli azeri sciiti.

Insomma, il solito groviglio mediorientale.

La spartizione di Astana: Russia e Turchia e gli oleodotti dell’Artzakh

Nel novembre 2020 si concretizzava poi un vero capolavoro di cinico realismo: gli accordi con cui Russia e Turchia si spartivano il Nagorno-Karabakh garantendosi il controllo della vasta rete di oleodotti che attraversano (o attraverseranno) il territorio storicamente conteso tra Armenia e Azerbaijan. Paese, quest’ultimo che fornisce alla Turchia un quinto delle sue importazioni di gas naturale (oltre a ingenti quantità di barili di petrolio dal Mar Caspio) direttamente all’hub di Ceyhan.
E qualche briciola non di poco conto andava anche al Belpaese (se abbiamo interpretato correttamente le dichiarazioni di Di Maio).
Ricapitoliamo. Il 10 novembre 2020 l’Armenia (il paese sconfitto) e l’Azerbaijan (il vincitore) firmavano un “accordo di pace” sotto la tutela ufficiale di Mosca e ufficiosa di Ankara.

Mentre le colonne dei profughi dal Nagorno-Karabakh) si allungavano per abbandonare il paese invaso dagli “alleati” (ascari?) di Ankara (l’esercito azero e le milizie mercenarie jihadiste qui inviate dai territori già invasi della Siria), iniziava il dispiegamento lungo la linea di contatto dei duemila – inizialmente – soldati russi (presumibilmente integrati con truppe turche, sul modello delle “pattuglie-miste” nel Nord della Siria). Durata prevista della loro presenza, cinque anni rinnovabili.

Un risultato niente male per Erdogan che vedeva ratificata la sua alleanza strategica con Baku. Così come venivano confermate le conquiste azere (almeno trecento insediamenti tra cui Susi, strategicamente rilevante). Non meno rilevante, l’acquisizione da parte dell’Azerbaijan di un collegamento diretto con Nachichevan (la sua enclave) e quindi con la Turchia.

Ovviamente gli armeni non l’avevano presa bene. A farne le spese il primo ministro Nikol Pashinyan (un leader “di plastica” secondo alcuni commentatori, messo su dall’Occidente un paio di anni prima per allontanare l’Armenia dal suo alleato tradizionale russo) di cui la piazza ha richiesto le immediate dimissioni.
Gli eventi sono noti: il palazzo del governo letteralmente preso d’assalto, il parlamento occupato e il presidente Ararat Mirzanyan che quasi rischiava di essere linciato dalla folla inferocita. I manifestanti erano anche andati a cercare direttamente a casa sua il primo ministro (presumibilmente non per una pacata conversazione), ma senza trovarlo (buon per lui, naturalmente).

L’interesse italico

a sei zampe…

Si diceva delle vaghe (o svagate?) dichiarazioni di Di Maio («Monitoreremo con attenzione gli sviluppi nelle aree dove si registra un particolare attivismo turco, vigilando affinché siano tutelati il rispetto del diritto internazionale, gli interessi italiani anche economici e con l’obiettivo di scongiurare qualsiasi escalation»). E chi vuol intendere...intenda.

Del resto, con buona pace della piccola Armenia, la cooperazione con l’Azerbaijan è da tempo consolidata. L’Italia – oltre che il maggior destinatario delle esportazioni petrolifere – risulta essere uno dei principali partner commerciali di Baku con un interscambio annuale – si calcola – di sei miliardi di euro. Sarebbero almeno tremila le imprese italiane che hanno investito nella repubblica caucasica. Risaltano in particolare Eni e Unicredit con interessi stimati in seicento milioni di dollari.

… e Leonardo-Finmeccanica

Cooperazione quindi ben consolidata, si diceva. Ma non solo in campo energetico. Magari indirettamente, anche militare. Risale, per dirne una, al 2012 la vendita di una decina di elicotteri Augusta Westland (società controllata da Leonardo-Finmeccanica), ufficialmente per uso civile (ma vengono in mente gli elicotteri venduti alla Turchia negli anni Novanta, su cui poi venivano applicate le mitragliere vendute separatamente). Nel 2017 l’amministratore delegato di Leonardo firmava a Baku – sotto lo sguardo del ministro Calenda – un accordo con la Socar (società statale petrolifera azera) per incrementare la sicurezza e l’efficienza delle infrastrutture energetiche grazie appunto alle tecnologie italiche.

Con un diretto riferimento al gasdotto di 4000 chilometri che la Socar stava realizzando per far giungere in Puglia e quindi in Europa (vedi la questione del Tap), dopo aver attraversato la Georgia, la Turchia, la Grecia e l’Albania, i previsti 20 miliardi di metri cubi (annuali) di gas di provenienza dall’Azerbaijan. Particolarmente rilevante e significativo il ruolo assunto da alcune aziende italiane (Snam S.p.A. di San Donato Milanese, Saipem, Eni, Maire Tecnimont…). Appare evidente come in tale contesto l’Armenia sia ormai fuori gioco, estromessa, marginalizzata (nonostante – a titolo di parziale consolazione – qualche ipocrita piagnisteo sul genocidio subito da parte della Turchia).

L’onnipresente invasività israeliana

Tornando alla breve, ma comunque devastante, guerra intercorsa nel 2020 tra Erevan e Baku, andrebbe poi approfondito il ruolo assuntovi da Israele.
Se la Turchia sembra aver fornito a Baku – oltre ai mercenari jihadisti – aerei e droni, cosa avrà fornito Israele? In qualche modo deve aver comunque contribuito visto che durante i festeggiamenti per la schiacciante vittoria, i manifestanti azeri inalberavano e sventolavano, oltre al vessillo nazionale e alle bandiere turche, numerosi drappi con la Stella di David.

Risalgono invece ai primi di ottobre (2023) le rivelazioni dell’intelligence francese sul fatto che i comandi militari azeri avrebbero ringraziato sentitamente Israele per il sostegno nel recente attacco al Nagorno-Karabach. Sia a livello espressamente militare (armamenti vari, soprattutto droni della Israel Aerospace Industries, della Rafael Advanced Defense Systems e della Israel Militari Industries), sia di intelligence (Mossad e Aman’s Unit 8200).
Sempre da fonti dell’Esagono risulta che nel corso del conflitto di settembre una quindicina di aerei cargo azeri sono atterrati nell’area militare di Ouda (Negev). Circa un centinaio di altri aerei cargo azeri erano ugualmente qui atterrati nel corso degli ultimi sei-sette anni. Presumibilmente non per rifornirsi di pompelmi. Inoltre Israele avrebbe fornito anche sostegno nel campo della Cyber Warfare (tramite l’Nso Group).
A ulteriore conferma dello stretto rapporto con Baku, il ministro israeliano della difesa si è recato recentemente nella capitale azera per verificare di persona l’efficacia del sostegno israeliano all’Azerbaijan.

Un bel caos geopolitico comunque

Proxy war disequilibrata

E arriviamo al febbraio di quest’anno, quando mentre a Erevan si ricordavano le vittime del pogrom del 1988, in Iran gli armeni manifestavano a sostegno della repubblica dell’Artsakh. Niente di strano.
Anche all’epoca dell’attacco dell’Azerbaijan ai territori armeni della Repubblica dell’Artsakh (con il sostegno di Ankara) nel 2020, c’era chi si aspettava un maggiore sostegno all’Armenia da parte dell’Iran, in linea con una certa tradizione. Dal canto suo Israele non mancava di mostrare sostegno (fornendo droni presumibilmente) alle richieste azere, ovviamente in chiave antiraniana. Misteri della geopolitica. Anche se poi sappiamo che le cose andarono diversamente, resta il fatto che comunque in Iran gli armeni costituiscono una minoranza tutto sommato tutelata, garantita (sicuramente più di altre, vedi curdi obeluci) e anche la causa dell’Artsakh gode ancora di qualche simpatia.

Commemorazioni dei massacri passati, in preparazione di quelli presenti

O almeno così sembrava leggendo la notizia del raduno di solidarietà con la popolazione armena della Repubblica dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) che si era tenuto presso il monastero di Sourp Amenaprguitch (Santo Salvatore) di Ispahan nella mattinata del 24 febbraio 2023 (nonostante, ci dicono, le condizioni atmosferiche inclementi). Oltre alle comunità armene di Nor Jugha (Nuova Djulfa, un quartiere di Ispahan fondato dagli armeni di Djulfa nel Diciassettesimo secolo) e di Shahinshahr, erano presenti molti armeni provenienti da ogni parte dell’Iran.
Numerosi gli interventi e i messaggi arrivati a sostegno alla causa della popolazione armena della Repubblica (de facto, anche se non riconosciuta in ambito onusiano) dell’Artsakh.

Quasi contemporaneamente, due giorni dopo, in Armenia venivano commemorate le vittime del massacro di Sumgaït (quartiere industriale a nord di Baku). Il presidente armeno Vahagn Khatchatourian con il primo ministro Nikol Pašinyan, il presidente del parlamento Alen Simonyan e altre figure istituzionali si sono recati al memoriale di Tsitsernakaberd a Erevan deponendo una corona e mazzi di fiori.
Il memoriale ricorda le persone uccise nei pogrom avvenuti (con la probabile complicità delle autorità azere) nel febbraio 1988 a Sumgaït, Kirovabad e Baku. Il massacro (in qualche modo un preludio alla guerra del 1992 in quanto legato alla questione del Nagorno Karabakh) sarebbe stato innescato da rifugiati azeri provenienti dalle città armene. Almeno ufficialmente. In realtà i responsabili andrebbero identificati tra i circa duemila limitčiki (operai immigrati delle fabbriche chimiche) a cui le autorità avevano distribuito alcolici in sovrabbondanza.
Se le fonti ufficiali azere parlarono soltanto di trentadue vittime, per gli armeni queste furono centinaia. Addirittura millecinquecento secondo il partito armeno Dashnak (oltre a centinaia di stupri).
Inoltre i militari inviati per fermare i disordini impiegarono ben due giorni per percorrere i circa trenta chilometri che separano Baku da Sumgaït. Vennero arrestate centinaia di persone, ma i processi si conclusero senza sostanziali condanne.

Guerra annunciata, forza di pace distratta

Tutti defilati… tranne i curdi

Nel marzo 2023, pressata da più parti affinché intervenisse, finalmente Mosca aveva parlato tramite il ministero della Difesa, accusando Baku di aver violato gli accordi sul Nagorno-Karabakh del 2020. Meglio tardi che mai, anche se la Federazione Russa appariva sempre più incerta (o disinteressata?) al destino dell’Armenia, praticamente abbandonata a se stessa (quasi da tutti sia chiaro, non solo dalla Russia; con la nobile eccezione dei curdi).
Eppure i segnali della possibilità di un ennesimo conflitto (guerra a relativamente “bassa intensità”) non erano mancati. Il 5 marzo si era registrato un altro scontro armato nel corridoio di Lachin (per gli azeri, di Zangezur) tra Stepanakert e Goris, bloccato ormai da tre mesi da presunti “manifestanti ecologisti” azeri. La sparatoria era avvenuta tra la polizia armena e i militari azeri che avevano arbitrariamente fermato un veicolo e – nonostante fosse costata la vita di cinque persone – era passata quasi inosservata.
Invano Nikol Pašinyan, primo ministro di Erevan, aveva richiesto, rivolto anche al tribunale internazionale dell’Onu, l’istituzione di una missione internazionale di indagine sulla situazione in cui veniva a trovarsi l’unica via di collegamento tra l’Armenia e la repubblica del Nagorno-Karabakh, ormai ridotta alla condizione di enclave sotto assedio, con oltre 120.000 persone di etnia armena sprovviste di cibo e medicinali. In base all’accordo trilaterale del 9 novembre 2020 (e riconfermato per ben due volte nel 2021 e ancora nell’ottobre 2022), alla Russia spettava il compito di controllare e assicurare i trasporti nel “corridoio” con una sua forza di pace.

Estrattivismo abusivo e pretestuoso ecologismo

Il pretesto avanzato dai sedicenti “ecologisti” azeri che da mesi bloccavano il passaggio sarebbe quello di poter controllare le miniere (private, non statali) di Gyzylbulag (oro) e di Demirl (rame e molibdeno) dove gli armeni avrebbero compiuto “estrazioni illegali”.
Dopo le ripetute accuse di “mancata osservanza dell’impegno di controllo”, fino a quel momento da parte di Mosca erano giunte soltanto rassicurazioni verbali (dicembre 2022). Ma anche la dichiarazione che «le forze di pace possono agire soltanto quando entrambe le parti sono d’accordo».

«Gli azeri continuano ad avanzare pretese massimaliste, senza concedere alcuna forma di compromesso», aveva denunciato Vagram Balayan, presidente della commissione affari esteri dell’assemblea nazionale del Nagorno-Karabakh. Sostanzialmente in quanto Baku “non intende riconoscere l’esistenza del Nagorno-Karabakh e del popolo dell’Artsakh”. Ossia, detta fuori dai denti, “vogliono soltanto farci scomparire dalla storia” (come sembra confermato dagli ultimi eventi). Costringendo gli armeni a scegliere tra un’evacuazione “volontaria” e la deportazione.

Fine annunciata

E intanto con il mese di agosto il tragico epilogo si profilava all’orizzonte.
Con gli Armeni del Nagorno-Karabakh ormai presi per fame, in un articolo di quei giorni mi ero chiesto se «si può già parlare di genocidio o dobbiamo aspettare qualche migliaio di morti per inedia?».
Domanda retorica ovviamente.

A un certo punto l’evidente, colpevole, latitanza della Russia (storicamente “protettrice “ della piccola Armenia) sulla questione del Nagorno-Karabakh sembrava aver lasciato campo aperto all’intervento pacificatore – o perlomeno a un tentativo di mediazione – di Unione Europea e Stati Uniti.
Ma l’irrisolta questione del Corridoio di Lachin (unico corridoio tra Armenia e Nagorno-Karabakh) conduceva fatalmente al nulla di fatto. E intanto per gli armeni del Nagorno-Karabakh la situazione continuava a peggiorare.
Chi in quei giorni aveva avuto la possibilità di percorrere le strade di Stepanakert parlava di lunghe file di persone che – dopo ore di attesa – ottenevano letteralmente un tozzo di pane. Per non parlare di quanti crollavano – sempre letteralmente – a terra a causa della fame. Almeno 120.000 persone colpite dall’isolamento totale e dalla conseguente crisi umanitaria (sia a livello sanitario che alimentare).
Senza dimenticare che – ovviamente – l’Azerbaigian da tempo aveva provveduto a interrompere il rifornimento di gas. Difficoltoso, in netto calo, anche quelli di energia elettrica e di acqua. A rischio le riserve idriche con tutte le prevedibili conseguenze.
Quanto all’alimentazione ormai si era ridotti alle ultime scorte di pane e angurie. Il peggioramento si era andato accentuando da quando veniva impedito (con posti di blocco installati illegalmente dall’Azerbaigian) l’accesso anche alla Croce Rossa e alle truppe russe di interposizione che comunque finora avevano rifornito di cibo – oltre che di medicinali – la popolazione armena.

Silenzio tombale e pennivendoli distratti

Bloccato da mesi alla frontiera anche un convoglio di aiuti umanitari (oltre una ventina di camion) inviato da Erevan.
In pratica, un grande campo di concentramento.
Al punto che un cittadino armeno gravemente ammalato, mentre veniva trasportato dalla Croce Rossa in un ospedale dell’Armenia (e quindi sotto protezione umanitaria internazionale), veniva sequestrato, privato del passaporto, sottoposto a interrogatorio e spedito a Baku dove – pare – sarebbe stato anche processato per eventi risalenti al primo conflitto scoppiato in Nagorno-Karabakh negli anni Novanta.

E ogni appello rivolto alle autorità e organizzazioni internazionali (Unione Europea, Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Russia, Gruppo di Minsk…) era destinato a restare inascoltato.
Con un preciso riferimento al blocco del Corridoio di Lachin operato dall’Azerbaijan, un ex esponente della Corte Penale Internazionale, l’avvocato argentino Luis Moreno Ocampo, aveva espressamente evocato un possibile genocidio.
Ma la sua appariva la classica “voce che grida nel deserto”. Quello dell’informazione almeno.

Poi la conferma dei peggiori timori con il tragico epilogo avviato il 19 di settembre.


Il giorno dopo la Guerra lampo dei fratelli turcofoni avevamo sentito Simone Zoppellaro, la cui analisi consentiva di comprendere nei dettagli cause e conseguenze delal dissoluzione dell’indipendenza dell’Artzakh

“Cala un sipario plumbeo sull’Artsakh”.

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Caro fratello Assad, ti va un panino insieme?! https://ogzero.org/caro-fratello-assad-ti-va-un-panino-insieme/ Mon, 02 Jan 2023 00:29:02 +0000 https://ogzero.org/?p=9934 Il 28 dicembre si è svolto a Mosca un vertice a tre con la partecipazione del ministro della Difesa turco Hulusi Akar e il generale Ali Mahmoud Abbas, alla presenza del ministro della Difesa russo Sergey Shoigu nell’ottica della svolta turca per cambiamenti politici e trasformazioni globali – in riavvicinamento e riconciliazione con Damasco per […]

L'articolo Caro fratello Assad, ti va un panino insieme?! proviene da OGzero.

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Il 28 dicembre si è svolto a Mosca un vertice a tre con la partecipazione del ministro della Difesa turco Hulusi Akar e il generale Ali Mahmoud Abbas, alla presenza del ministro della Difesa russo Sergey Shoigu nell’ottica della svolta turca per cambiamenti politici e trasformazioni globali – in riavvicinamento e riconciliazione con Damasco per «la necessità di porre fine alle differenze e raggiungere soluzioni che servano gli interessi della regione». Secondo al-Watan si tratta del risultato finale di diversi incontri avvenuti in precedenza tra i servizi di intelligence e la Turchia avrebbe contestualmente accettato un completo ritiro dal conflitto siriano; oltre al riconoscimento da parte di Ankara del rispetto per la sovranità e l’integrità territoriale della Siria; sarebbe stata discussa anche l’attuazione dell’accordo concluso nel 2020 per l’apertura della strada M4.
È stato pianificato dal Cremlino a breve un incontro tra i ministri degli esteri e infine, sempre nella capitale russa, il vertice Erdoğan-Assad. Evidente che per l’ennesima volta il presidente turco intende sfruttare a proprio favore la situazione siriana, sabotando l’autonomia curda e nello stesso tempo rimandando in patria i profughi siriani residenti attualmente in Turchia. Due carte da giocare nelle prossime elezioni presidenziali. Intanto si continua a vellicare l’istinto militarista, vera continuità tra potere ottomano, kemalista e neo-ottomano di Erdoğan, con un costante riarmo e investimenti in produzioni belliche

In questo processo, che è evidentemente il proseguimento dello spirito di Astana nell’ambito più precipuamente della Guerra siriana per cui si è manifestato inizialmente, le parti riunite hanno confermato che il Pkk, con le sue emanazioni siriane Ypg-Ypj, è una milizia per procura di America e Israele e rappresenta il pericolo maggiore per la Siria e la Turchia. L’articolo che proponiamo è stato completato da Murat Cinar il giorno prima di questo incontro, ma già da quasi un mese ci stava lavorando,  avendo avuto sentore della direzione in cui si stavano evolvendo gli eventi geopolitici in Mesopotamia.

Fin qui l’introduzione di OGzero, la parola a Murat…


Retaggio ottomano

Tra Turchia e Siria c’è un confine di 911 chilometri. I due paesi hanno iniziato a avere un rapporto complicato sin dal crollo dell’Impero Ottomano; confini, acqua, formazioni armate, rapporti commerciali, energia, rifugiati, traffico di droghe e persone e infine spese militari. Oggi sembra che sia giunto il momento di aprire l’ennesimo “nuovo capitolo”.

Un passato importante lungo l’Eufrate

L’Eufrate è uno dei due fiumi che danno il nome alla Mesopotamia. Nasce nel territorio della Repubblica di Turchia ma cresce e prosegue il suo percorso verso lo Shatt-al Arab attraversando la Siria. Innegabile l’importanza di questa fonte d’acqua, ma anche che ne scaturiscano conflitti e manovre politiche. Sia Ankara che Damasco, tranne alcuni momenti nella storia, hanno sempre voluto sfruttare questa risorsa comune come elemento di ricatto e non di cooperazione. In Turchia, sia il governo di Süleyman Demirel sia quello di Turgut Özal sono stati sempre sostenitori, negli anni Settanta e Ottanta, dell’idea che Ankara avesse il diritto di controllare totalmente il regime delle acque. Infatti la costruzione del megaprogetto delle dighe (Progetto del Sudest Anatolia) aveva l’obiettivo di risultare una opportunità di ricatto ai danni del regime di Damasco.
Ovviamente il fatto che la Turchia fosse sempre stata un fedele membro della famiglia Nato e la Siria fosse l’alleato numero uno dell’Unione Sovietica in zona ha fatto sì che la rivalità tra questi due vicini risultasse come una sorta di “guerra fredda” di riflesso per procura.

Il ruolo in commedia del Pkk

Senz’altro la nascita e la crescita negli anni Settanta e Ottanta dell’organizzazione armata Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ha un po’ scombussolato la situazione. Soprattutto dopo la decisione da parte dell’organizzazione di lasciare, quasi totalmente, il territorio della Repubblica di Turchia e creare le proprie “basi” e “accademie” in Siria, le relazioni tra questi due vicini sono diventate molto complicate. Dalle lezioni di “sicurezza nazionale” presso le scuole pubbliche alle dichiarazioni dei governatori, dal linguaggio dei media fino alle scelte politiche dei governi che risiedevano ad Ankara ormai la presenza del Pkk per la maggior parte della società turca risultava essere un enorme problema e una notevole minaccia. Ormai la vicina Siria ufficialmente “sosteneva i terroristi”.

La svolta di Adana

Infatti proprio su questo tema nel 1998 fu firmato l’Accordo di Adana tra questi due vicini. Un accordo che impegnava Damasco a collaborare con Ankara nella sua “lotta contro il terrorismo”, perché ormai per la Turchia la presenza del Pkk sul territorio del vicino era un “casus belli”. Proprio in quel periodo, ottobre 1998, mentre si consolidava per la prima volta una collaborazione del genere, Abdullah Öcalan (“Apo”), il leader storico del Pkk che viveva da anni in Siria, dovette lasciare il paese e nel giro di pochi mesi a Nairobi in Kenya fu arrestato dai servizi segreti turchi. Öcalan, condannato all’ergastolo, vive tuttora in isolamento in un carcere speciale sull’isola di Imrali in Turchia.

Il progetto del Grande Medioriente

Pochi anni dopo l’arrivo al potere dell’Akp (Partito dello Sviluppo e della Giustizia) i rapporti tra Ankara e Damasco si consolidano ancora di più. La Turchia lavorava come intermediario nei tentativi di dialogo tra Israele e Siria che si svolgevano a Istanbul e il presidente siriano, Bashar al-Assad, insieme a sua moglie decideva di fare le vacanze a Bodrum in Turchia, incontrando l’attuale presidente della repubblica, Recep Tayyip Erdoğan che all’epoca era il primo ministro. Proprio in quel periodo Erdoğan si intestava, in diretta tv, la copresidenza del Greater Middle East Project, ideato e promosso dall’allora presidente statunitense George W. Bush con l’obiettivo di creare una zona di collaborazione e alleanza tra i paesi di maggioranza musulmana, dai Balcani fino all’Asia orientale.

Una nuova fase

In alcuni incontri del 2004 tra i paesi della Nato e del G8 erano persino state organizzate delle presentazioni per annunciare alcuni dettagli di questo progetto, che secondo alcuni analisti rappresentava un tentativo di allargamento non ufficiale della Nato con l’intento di limitare lo spazio di manovra dei paesi ancora comunisti e socialisti. A dirigere questo progetto c’era anche Erdoğan, quindi il rapporto intercorrente tra Ankara e Damasco diventava fondamentale.
A quest’ondata di cambiamenti in positivo per una collaborazione amichevole tra i due paesi si può aggiungere l’abolizione del visto tra i due paesi nel 2009 e una serie di accordi commerciali straordinari firmati tra Erdoğan e Assad soprattutto nell’ottica delle privatizzazioni che il governo di Damasco aveva avviato.

La guerra per procura

Senz’altro la guerra per procura ancora in corso in Siria ha cambiato radicalmente le carte in tavola. L’instabilità generalizzata che domina tuttora in Siria è partita nel 2011 con le prime rivolte popolari. In poco tempo l’infiltrazione dei servizi segreti delle terze parti, la nascita e la crescita delle formazioni armate terroristiche sostenute da numerosi paesi vicini e la presenza dei soldati di vari paesi hanno fatto sì che ormai la guerra in Siria potesse essere definita come una proxy war.

Le prime reazioni e scelte

«Assad è come Mussolini, lasci il suo potere. Prima che scorra ulteriore sangue lasci la sua poltrona».

Subito dopo le prime manifestazioni che hanno ricevuto la risposta dura di Damasco, erano queste le parole pronunciate da Recep Tayyip Erdoğan. Una posizione netta e chiara, assunta nel lontano 2011, dichiarata durante il suo intervento nel gruppo parlamentare dell’Akp.
All’inizio della guerra in Siria il piano di Ankara era quello di fare il possibile perché Assad lasciasse il suo potere. In quest’ottica nel 2014 aveva anche partecipato agli incontri di Ginevra con l’intento di creare un nuovo percorso per la ricostruzione politica e amministrativa della Siria. Nel mentre non mancavano le dichiarazioni forti e convinte di Erdogan:

«Il Presidente siriano ha ucciso circa un milione di cittadini suoi. In realtà stiamo parlando di un terrorista che sparge il terrorismo di stato. Non possiamo dialogare con una persona del genere, non sarebbe corretto nei confronti di un milione di siriani assassinati».

Le prime milizie antisiriane e il ruolo dell’Isis

Sempre nello stesso periodo, in collaborazione con l’amministrazione statunitense dell’epoca, Ankara aveva avviato i lavori per l’addestramento delle prime brigate dell’Esercito libero siriano (Fsa) con l’intento di creare un corpo militare che potesse lottare contro il regime di Damasco. Successivamente questa forza in parte è scomparsa, in parte ha aderito alle formazioni terroristiche e in parte ha collaborato con Ankara.


Quel periodo fu molto importante per la Turchia e per il resto del Medioriente. La nascita e crescita dell’Isis ha rimescolato i piani: soprattutto i lavori di reclutamento dei nuovi adepti, l’utilizzo di territori senza rispetto del confine e la creazione di nuove fonti di guadagno in Turchia, da parte dell’organizzazione terroristica, hanno fatto sì che Ankara ormai fosse direttamente coinvolta nella guerra in Siria. Alcune intercettazioni relative alle riunioni dei servizi segreti turchi, varie dichiarazioni rilasciate da parte di numerosi esponenti del governo e la posizione dei mezzi di propaganda rivelarono quanto poco Ankara fosse dispiaciuta della presenza dell’Isis in Siria. Alla fine della partita avrebbe potuto anche rendere più “facile” la caduta di Assad.

Tuttavia sono successe tre cose che hanno ribaltato ancora un’altra volta i piani.

L’alba degli Accordi di Astana

Mosca in Siria

Innanzitutto la Russia, insieme all’Iran, decise d’intervenire militarmente in Siria per salvare Damasco che stava subendo dei gravi colpi in questa guerra. Ormai chiunque avesse avuto l’intenzione d’immischiarsi con gli affari interni della Siria era obbligato a dialogare con Mosca e Teheran.

Confederalismo democratico in Rojava

Poi la nascita del Confederalismo democratico con il protagonismo delle sue forze armate nella lotta contro l’Isis fece sì che a livello mondiale la nuova esperienza politica ed economica guadagnasse credibilità e rispetto. Questo punto ovviamente era un problema per Ankara dato che dietro il progetto del Confederalismo democratico che sorgeva, come zona autonoma nel Nord della Siria (il Rojava), c’erano una serie di attori molto “problematici” come Öcalan e Pkk. Nel 2012 il Partito dell’unione democratica (Pyd) dichiarava la nascita delle unità di difesa popolari (Ypg-Ypj) impegnate nella lotta contro il terrorismo fondamentalista nella regione.

Isis in Turchia

Infine gli attentati dell’Isis sul territorio della Repubblica di Turchia che causarono la morte di centinaia di persone in meno di due anni coinvolgevano ancora di più Ankara in questa guerra che era in corso ormai da quasi cinque anni. Alla lista di priorità nuove si aggiungeva la lotta contro l’Isis che ormai era una netta minaccia contro la sicurezza nazionale per la Turchia.

Forzata alleanza

Per risolvere i suoi problemi Ankara si trovava ormai obbligata a consolidare i rapporti con la Russia per poter agire in Siria. Oltre a ciò le Ypg-Ypj non potevano essere degli interlocutori dato che erano i cugini degli storici “terroristi” per Ankara. Anche se per poco un tentativo di dialogo con Salih Muslim era stato fatto. Muslim è il leader politico del partito politico siriano Pyd – la forza non armata dominante in Rojava. Tuttavia in poco tempo questo tentativo si è concluso senza successo. Secondo alcuni analisti perché Ankara aveva proposto al Pyd di lottare contro Assad in collaborazione con l’Esercito libero siriano, invece il Pyd ha rifiutato la proposta decidendo di non prendere parte nella guerra in Siria e proseguire per la sua strada. Questa “terza scelta” non prevedeva né di collaborare con la Turchia né di sostenere Damasco.
Relativamente a quest’ultimo punto non si può ovviamente tralasciare il fatto che il tentativo di dialogo tra lo stato e il Pkk, in Turchia, sia fallito proprio nel periodo in cui le Ypg-Ypj acquisivano più credibilità a livello internazionale nella loro lotta contro l’Isis.


Dunque si tratta di un momento che ha creato una notevole preoccupazione strategica per Ankara.

Le “operazioni speciali” turche in Siria

Dunque nel 2016, poche settimane dopo il fallito golpe in Turchia e in pieno stato d’emergenza, Ankara decise di avviare la sua prima operazione militare. Gli obiettivi erano 3: lottare contro l’Isis, contro le Ypg-Ypj e contro il governo centrale. Da quel momento a oggi sono passati circa 7 anni e la Turchia, ufficialmente, ha lanciato 4 altre operazioni aumentando nel Nord della Siria la sua presenza militare, politica e economica. Ankara è stata accusata in questo periodo di avviare anche una campagna di cambiamento culturale e demografico della zona provando a cancellare l’identità curda e distruggendo i segni del Confederalismo democratico.

Equilibrismi tra Nato e Russia

In questo gioco molto delicato e pericoloso Ankara ha dovuto gestire i rapporti con la Russia e con i suoi alleati della Nato presenti sul territorio. Non è stata una partita facile perché quanto più il tempo passava, tanto Ankara diventava sempre più dipendente dalla Russia anche al di fuori dalla guerra in Siria: turismo, accordi energetici, agricoltura, investimenti militari, presenza dei servizi segreti, centrali nucleari…

Quest’avvicinamento ovviamente presupponeva una sorta di allontanamento parziale e graduale dalla famiglia della Nato anche se la Turchia restava sempre un membro del patto transatlantico e l’unico membro fortemente presente sul territorio siriano.

Freddezza tra Turchia e UE

Il rapporto consolidato, delicato ma anche fragile tra Ankara e Mosca con la nascita del conflitto armato in Ucraina è entrato in una nuova fase. Il rapporto con la Nato e con l’UE invece è diventato sempre più debole e oggi lo possiamo considerare come una “collaborazione strategica” più che alleanza. Tra Ankara e Nato in tutto questo tempo ci sono state delle divergenze: dai processi per evasione fiscale e frode, all’embargo non rispettato contro l’Iran, fino ad arrivare agli accordi militari con Mosca e l’acquisto degli S-400. Oggi l’Isis sembra essere morto oppure in coma e l’esperienza del Confederalismo Democratico molto indebolito, accerchiato e in parte anche distrutto.
Invece a Damasco è ancora al potere Assad.

Nuova fase dopo l’“operazione speciale” in Ucraina

Oggi Ankara ha deciso di riprendere, gradualmente, il dialogo con il presidente siriano. Il 27 novembre 2022 l’attuale presidente della Repubblica di Turchia ha rilasciato queste dichiarazioni dopo aver inaugurato il ripristino delle relazioni con l’Egitto:

«Ci sono diversi paesi che vogliono approfittare delle relazioni precarie del nostro paese con i paesi del Golfo. Non glielo possiamo permettere. Come abbiamo ripristinato le relazioni con l’Egitto in futuro possiamo fare la stessa cosa anche con la Siria».

Proprio in quei giorni l’agenzia di notizia internazionale Associated Press pubblicava un articolo in cui sosteneva che Erdogan avesse mandato una lettera ad Assad invitando l’esercito siriano di riprendere in mano le zone liberate delle Ypg-Ypj e chiedeva a Damasco di collaborare per il rimpatrio dei siriani presenti in Turchia, ormai circa 4 milioni.
Pochi giorni dopo, il 15 dicembre, sempre lo stesso Erdoğan, sull’aereo, al rientro dal Turkmenistan ha deciso di concretizzare la sua proposta, parlando con i giornalisti a bordo:

«Vorremmo fare un incontro a tre con la Russia e la Siria. Prima si impegneranno i servizi segreti e poi i Ministri di Sicurezza Nazionale. Dopo questi potrebbero incontrare anche i leader. Ne ho parlato con il Presidente Putin anche lui è d’accordo. Così possiamo iniziare a una serie di incontri».

Mentre Mosca accoglieva con piacere questa proposta, dalla Siria arrivavano le prime dichiarazioni scettiche: Pierre Marjane, parlamentare siriano responsabile delle Relazioni esteri del parlamento, il 29 novembre rilasciava queste dichiarazioni a un giornale in Turchia, “Kisa Dalga”:

«Potremmo dialogare con la Turchia tuttavia deve ammettere che ha finanziato e addestrato le forze armate terroriste e le ha fatte entrare in Siria. Poi deve dichiarare che è pronta a ritirarsi dalla Siria».

Ovvero: lo stato dell’arte

Infatti – secondo una serie di osservatori internazionali, alcuni governi stranieri e una serie di giornalisti che lavorano in Turchia – l’attuale governo ha sostenuto direttamente oppure indirettamente alcune organizzazioni terroristiche fondamentaliste che hanno agito in questi anni in Siria. Questo punto ovviamente ha causato sempre le reazioni dure di Damasco: a oggi la Turchia risulta presente militarmente sul territorio siriano in modo massiccio, tanto che solo nel 2021 il numero di truppe impegnate contava più di 10.000 soldati.

Tra le parole pronunciate da Marjane si vede anche un riferimento all’Accordo di Adana firmato nel 1998. Secondo il parlamentare siriano sarebbe necessario prenderlo in mano e applicarlo. In realtà si tratta di una premessa ch’era stata fatta negli incontri di Astana nel 2019 tra Mosca e Ankara. Dunque oggi la situazione in cui ci troviamo ci fa capire che, a grandi linee, l’intenzione sia di tornare alle condizioni del 2010: prima delle rivolte arabe.

“Erdoğan esagerato: un dittatore rilancia sempre nuove pretese”.

Come mai?

Le risposte sono tante. Potremmo studiare questa sezione concentrandoci sulle motivazioni legate alla politica interna ma anche estera.

Elezioni del 2023

Se guardiamo la politica interna senz’altro la profonda crisi economica che strozza la Turchia rappresenta un problema per Ankara soprattutto alla luce delle elezioni del 2023. L’inflazione alle stelle, la fuga dei giovani, le opposizioni sempre più compatte e il caro vita ogni giorno fa perdere punti a Erdogan nei sondaggi.
Le spese militari in Siria forse per Ankara risultano ormai difficilmente sostenibili e un rapporto commerciale (soprattutto petrolio) regolare con il vicino confinante per più di 900 km potrebbero essere una soluzione.

I rifugiati in ostaggio

Ovviamente la presenza di circa 4 milioni di siriani in Turchia rappresenta un problema per Ankara. Una popolazione in parte proveniente dalle zone, come Afrin, colpite dalla Turchia in questi ultimi anni e “ripulite” delle sue popolazioni curdofone. Un esercito privo di diritti, di persone ricattabili e sfruttate rappresenta il nuovo proletariato a basso salario messo in concorrenza con la mano d’opera locale. Mentre questa contrapposizione può far piacere agli industriali, ma non è gradita ai cittadini che devono fare i conti con la profonda crisi economica. Quindi l’eventuale rimpatrio graduale di queste persone è necessario per Ankara in particolare per riprendere quell’emorragia di voti che defluisce verso quei partiti che da tempo sostengono che “i siriani se ne devono andare”.


Si tratta di un progetto che in prima persona Erdoğan promuove ormai da circa 4 anni:

«Una zona cuscinetto nel nord della Siria, lunga 480 chilometri e profonda 30,  dove sarebbero collocati circa 2 milioni di siriani».

In diversi interventi pubblici e televisivi Erdoğan raccontava il suo progetto di costruire nuove cittadelle in questa zona e collocarci principalmente le persone arabofone. Per fare tutto questo è ormai necessario accettare che a Damasco c’è un interlocutore e parlare con questo anche perché il progetto di Erdogan in questi anni non ha ricevuto riconoscimento né dalla Russia né dalla Nato.

Al posto di Ypg-Ypj: dialogo tra autocrati

Invece nella politica estera molto conta la presenza della Russia in Siria che potrebbe diventare debole, se la guerra in Ucraina non si concludesse a breve. Dunque per Ankara iniziare a costruire ponti con Damasco attraverso un canale di dialogo diretto senza l’ausilio di Mosca potrebbe essere un investimento per quel giorno in futuro quanto Putin deciderà di lasciare definitivamente la Siria. Nel fare questo ovviamente Ankara avrebbe un piatto pronto per Damasco ossia le zone che controlla in Rojava, “bonificate” dalle Ypg-Ypj, che potrebbero essere consegnate a Damasco [come sancirebbero le indiscrezioni di “al-Watan”]. Inoltre ovviamente Ankara vuole mettere le mani avanti per evitare ciò che è successo in Iraq quando si è “conclusa” l’invasione statunitense ossia la nascita di un Kurdistan. Il regime al potere in Turchia senz’altro non ha voglia di avere una zona federale curda che si comporti in modo diverso rispetto a quella irachena che collabora senza problemi con Ankara. Quindi per Ankara ovviamente è meglio avere il governo centrale siriano al di là del confine al posto dei “terroristi”. In quest’ottica spolverare l’Accordo di Adana, che promette una reciproca collaborazione nella lotta contro il “terrorismo” ha molto senso.

Dalla parte della Nato

Sempre bazzicando affari geopolitici il ripristino dei rapporti con Damasco potrebbe fornire ad Ankara come una mossa apprezzata da parte della famiglia della Nato, dato che sarebbe l’unico paese del “club” a dialogare direttamente con Assad. Dunque Erdoğan risulterebbe ancora un importante e irrinunciabile interlocutore. Alla luce delle elezioni generali del 2023 per Erdoğan questo potrebbe dire portare a casa una vittoria importante in termini di credibilità internazionale.

Ma contemporaneamente sarebbe anche una mossa che renderebbe “indipendente” e “privilegiata” la Turchia. Erdoğan potrebbe usare questa novità come un elemento di forza o un ricatto contro i suoi alleati (come ha fatto per contrastare le reazioni ogni volta che ha invaso il Rojava), visto che il suo rapporto con gli alleati è sempre più precario. Le relazioni tra Ankara e Nato sono diventate deboli in questi anni anche perché la scelta di sostenere politicamente e militarmente le Ypg-Ypj è stata definita come un “tradimento” per Ankara dato che queste sigle per il regime in Turchia sarebbero le cugine dei “terroristi”.
Inoltre anche la nascita dell’Esercito Democratico Siriano (Sdf) con il sostegno degli Usa ha creato preoccupazione ad Ankara che temeva la nascita di un esercito curdo in zona. Dunque le scelte radicalmente diverse per quel che concerne la Siria si fondano tuttora sulla grande amarezza derivante dalla tensione che esiste tra Ankara e il resto della Nato. Quindi la manovra di Ankara (per consolidare i rapporti con Damasco) potrebbe fare sì che Erdoğan continui ad agire in Siria con l’intento di creare nuove strategie indipendentemente dalla Nato.

Stuccare vicendevolmente le crepe, perpetuando i relativi poteri

Il 28 dicembre Hulusi Akar, il ministro della Difesa Nazionale, e il capo dei Servizi segreti Hakan Fidan, sono partiti da Ankara per Mosca per incontrare i loro colleghi siriani. L’incontro avvenuto dopo 11 anni di gelo nelle relazioni è stato produttivo secondo Akar: avrebbero parlato della questione dei rifugiati, della lotta contro il “terrorismo”, della difesa dell’integrità territoriale della Siria e dell’espulsione delle forze straniere dal territorio.

Ripristinare i rapporti con la Siria per Ankara ha questi valori. Invece per Damasco ha qualche importanza in più. Nel caso in cui si potesse avviare il progetto congiunto di eliminare il Confederalismo democratico in Rojava e le sue forze (Sdf, Ypg-Ypj) per Damasco significherebbe riprendersi quel quarto del suo territorio occupato e controllare una grande fonte di petrolio e gas che attualmente si trova sotto il controllo di queste forze armate e degli Usa.

Inoltre, per Assad, ripristinare i rapporti con Ankara vuol dire far accettare la sua presenza al potere e archiviare le possibili proposte legate all’abbandono del potere. In quest’ottica per Damasco accettare la proposta di Erdoğan potrebbe sembrare il conferimento di una sorta di vittoria che potrebbe usare nella campagna elettorale del 2023; ma contemporaneamente Assad avrebbe immediatamente un interlocutore già al potere con il quale interloquire senza discutere di tutti i crimini contro il suo popolo da lui commessi durante questa guerra lunga 11 anni. In realtà la situazione rientrerebbe all’interno delle scelte che sta facendo Ankara ultimamente, ossia: il consolidamento dei rapporti direttamente con i leader dei paesi controllati dai regimi o dalle famiglie come l’Arabia Saudita, il Qatar, l’Egitto e gli Emirati Arabi.

Sostanzialmente: due regimi potrebbero trovare un accordo su una serie di temi senza avere “il peso” della giustizia e della democrazia.

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Il “nuovo” ordine mondiale e il gioco delle parti da Astana a Kyiv https://ogzero.org/il-gioco-delle-parti-e-il-nuovo-ordine-mondiale/ Sun, 27 Mar 2022 21:52:07 +0000 https://ogzero.org/?p=6901 Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 […]

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Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 spunti offerti da Eric Salerno e Sabrina Moles, che ci hanno rievocato le intuizioni messe in gioco in Astana e i 7 mari di Antonella De Biasi. Così “OGzero” nel momento dell’annuncio di un tavolo di pace imbandito a Istanbul comincia a credere che lo spirito di Astana non è sfumato del tutto e su questo dubbio ha cercato di ricostruire i cocci prodotti dall’esplosione del multilateralismo nei rapporti tra stati, dallo scardinamento di alleanze esili, dalla individuazione del momento in cui il Cremlino ha pensato che fosse più opportuno far saltare gli equilibri. Un istante che Antonella nel suo scritto, steso a ottobre, preconizzava individuando nella ignominiosa ritirata americana dall’Afghanistan il segnale della debolezza per cui era possibile azzardare il morso del serpente.

Salvo poi accorgerci che ciascuno ha tratto vantaggio o imponendo spese militari, o annettendosi nuovi territori rivieraschi, o soffiando su un nazionalismo sovranista, cancellando piani ecologisti e ridistribuendo energia con un maggior profitto per i produttori. Distribuito sciovinismo e testosterone in tutti i paesi del primo mondo.

Perciò a partire dalla chiosa del libro, proviamo con questo editoriale a mettere in fila gli eventi di queste ultime 5 settimane sulla scorta di quello che il volume di Antonella De Biasi aveva già individuati come potenziali snodi critici; andremo a trovare nel libro verifiche delle analisi prodotte a posteriori dagli equilibri scaturiti dalla “spezial operazy” di Putin, così da inserirla nell’annoso flusso geopolitico senza gli isterismi cavalcati dal profitto guerrafondaio. Infatti il volume si chiude con una frase emblematica: «Il gioco di Astana, seppur precario, in fondo è anche un gioco delle parti» e le dichiarazioni e le mosse diplomatiche di fine marzo seguono il canovaccio.


Il conflitto in corso è figlio della interpretazione data da una nazione come la Russia al periodo governato da una sorta di multilateralismo: se ne riconoscono i metodi inseguendo i gangli della dottrina Gerasimov (mai realmente scritta o teorizzata, ma resa evidente dalla prassi bellica russa), il cui scopo principale era quello di spezzare l’unilateralismo derivato dalla fine della Prima guerra fredda, in particolare: la soluzione cecena, da cui deriva la carriera del generale; Georgia e Crimea, rimaste senza risposta da parte delle altre potenze… ancora più palese l’uso strumentale del Donbass oggi, come 8 anni fa a suffragio della considerazione dei territori a est del Dnepr come giardino di casa.

Nel caso del conflitto in Nagorno-Karabakh gli armeni hanno pensato erroneamente che Mosca li avrebbe difesi “contro una minaccia turca e musulmana”, come sostiene il professore francese esperto di islam Olivier Roy. Così non è stato perché in fondo l’immagine di una Russia cristiana, ultimo argine all’islam di cui l’Armenia si sente avamposto, serve solo a intermittenza e sempre più raramente come topic/pedina intercambiabile per la personale partita a scacchi di Putin, per ristabilire la grandezza della Russia agli occhi degli occidentali e dei paesi rappresentati dalle economie emergenti. Alcune reazioni caute e sottotono lasciano pensare che Putin non solo fosse al corrente dell’offensiva azera ma che ne abbia addirittura discusso i limiti con il regime di Aliyev così da riprendere solo i territori che, secondo il diritto internazionale, sono azeri. L’estrema destra occidentale ha sempre visto la Russia di Putin, costruita a sua immagine e somiglianza negli ultimi vent’anni, come il baluardo dei valori cristiani minacciati dall’islam. Il Cremlino sfrutta quando servono queste simpatie da sempliciotti. L’obiettivo di Putin è riprendersi e controllare his back-yard.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 49)

Ma anche e soprattutto andava preso nella giusta considerazione l’interventismo in Siria. E in Libia: non si dimentichi il voto del 3 marzo all’Onu che ha visto la metà di paesi africani compromessi per armi, sicurezza e traffici con la Russia compattamente astenuti, in particolare allarmanti le astensioni dei paesi maghrebini fornitori di gas e con interessi – anche militari – intrecciati con il Sud dell’Europa; tutto questo dinamismo del Volga sullo scacchiere internazionale è un prodotto degli accordi di Astana, che è l’altro snodo diplomatico-pragmatico attraverso cui passa la strategia russa di questo periodo e che ha finora imposto i dossier al mondo.

Ma la preparazione alla guerra classica, dotandosi di armi sofisticate, da parte dell’Ucraina attraverso gli stessi meccanismi di alleanze e accordi ibridi con ciascuna potenza locale (e talvolta globale, ma cambiando ogni volta campo contrapposto) ha scombinato il disegno di Shoigu, Gerasimov e Putin. Questa si può considerare una conseguenza del fatto che la Nato si è risvegliata dal coma (indotto da Trump, sodale della deriva reazionaria putiniana mondiale) di cui parlava Macron, ma lo ha fatto predisponendosi a rispondere alla guerra che Bruxelles (e soprattutto Arlington e Langley) sapeva sarebbe stata scatenata: in che modo si preparava? armando gli ucraini con ogni ordigno convenzionale o meno, sia attraverso le armi in dotazione agli alleati europei (baltici in primis), sia con i droni turchi, che con alcune armi di fabbricazione israeliana – ma non tutte, come vedremo – e producendo una propaganda nazionalista identitaria per sollevare lo spirito bellico dell’Europa. Addirittura gli S-400 che furono motivo di sanzioni americane contro la Turchia potrebbero diventare paradossalmente strumenti di difesa per gli ucraini se Ankara si farà convincere a passarle a Zelensky, o le porrà sulla bilancia della trattativa: la tecnologia di cui sono dotate sicuramente è efficace contro le macchine belliche del cui impianto sono parte.

L’amministrazione Biden è ben consapevole che deve tenere la Turchia dentro l’asse Nato per impedire che passi nell’orbita russo-cinese. Così Erdoğan userà questo punto per ottenere vantaggi almeno nelle relazioni bilaterali. La questione critica più importante per gli Usa è il sistema missilistico S-400 che Erdoğan ha acquistato da Putin, non compatibile con quello Nato

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 84).

Si può dunque parlare di una proxy war combattuta in territorio europeo e con obiettivi gli interessi europei, che vede gli Usa defilati e non interventisti, ma guerrafondai e impegnati a far esporre l’UE, tagliando così tutti i ponti (e gli oleodotti) euro-russi che in particolare la Germania merkeliana (e di Schroeder) avevano costruito: doppio risultato per gli americani che vendono all’altra sponda atlantica il loro gas poco ambientalista, piazzando (o affittando a caro prezzo) anche le navi che trasportano i rigasificatori.

Ora che gli altri protagonisti in commedia hanno appreso come prendere le misure al sistema bellico ordito da Mosca dalla Cecenia in avanti, accettando una vera e propria guerra con migliaia di morti e smaltimento di magazzini di armi novecentesche; ora che si è dimostrata la marginalità della UE e la sua riduzione a mera potenza locale succube della Nato, mentre la Russia – pur non sfondando e rimettendoci in immagine guerresca e di efficienza militare, piangendo molti più morti e dissanguandosi in spese  – si prende tutte le coste del Mar Nero settentrionale e del mar d’Azov; ora rimane in piedi il modello di rapporti e accordi spartitori; scambi e traffici multilaterali che han funzionato per spartirsi territori di confine, operazioni militari e aree di riferimento tra potenze locali: quel sistema di accordi, che Antonella De Biasi ha correttamente descritto nel suo testo dedicato agli Accordi di Astana, e dove si possono rintracciare in nuce le dinamiche e gli equilibri che ora dopo la guerra spiccano nella narrazione della resistenza ucraina, trova una riproposizione nella fornitura di armi e nelle candidature alla composizione del conflitto da parte di potenze “locali”. Insomma: gli Accordi di Astana vedono trasformati gradualmente i ruoli dei singoli attori e la chiave che ne promana vede protagonisti Turchia (che ospita sia gli yacht degli oligarchi – magari sfuggiti al Novichok dell’Fsb –, sia le denunce dei dissidenti) e Israele (che accoglie ebrei russi e ebrei ucraini), nella totale assenza di strategia Usa/EU.

In fondo la prospettiva di incontri bilaterali russo-ucraini riferita da David Arakhamia, leader parlamentare ucraino e partecipante ai negoziati, previsti per il 28-30 marzo a Istanbul (e/o successivamente a Gerusalemme, probabilmente) con padrini gli equidistanti Turchia e Israele che stanno facendo avance l’un l’altro per ritessere reciproci rapporti diplomatici dopo l’incidente della Mavi Marmara evocato da Murat Cinar nel suo articolo, appare come i memoranda d’intesa stipulati durante il vuoto trumpiano riempito ad Astana, evocati da Antonella De Biasi:

Erdoğan e Putin per primi, e a seguire l’appena eletto Raisi, cercheranno di mantenere l’influenza guadagnata negli ultimi quattro anni della presidenza Trump facendo buon viso a cattivo gioco. Si sa che le alleanze non sono per sempre – anche e soprattutto tra leader autoritari e populisti –, ma ogni volta che ci sarà una crisi, e quindi anche un’occasione per aumentare l’influenza nello scacchiere internazionale, si farà sempre in tempo a scrivere inediti memorandum d’intesa e scegliere una nuova suggestiva località per sottoscriverli.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85)

 

E il terzo protagonista degli Accordi di Astana, l’Iran, che vi ha partecipato da potenza locale impegnata a mantenere la preminenza sulla mezzaluna sciita e con l’intento di contribuire alla marginalizzazione delle potenze europee, non ha avuto reazioni dopo la crisi afgana e non prende posizione in quella attuale: è apparso chiaro che la repubblica islamica viene tenuta in sospeso per il fatto proprio che a Putin serve l’appoggio di Bennett e quindi potrebbe far pesare un veto alla ripresa degli accordi Jcpoa, nel momento in cui pare che l’amministrazione Biden sarebbe invece disponibile a riprendere i negoziati sul nucleare iraniano, per focalizzarsi sull’indo-pacifico. Come per gli altri teatri delle guerre scatenate e composte ad Astana, il ruolo iraniano è stato in genere di supporto non attivo agli accordi: una sorta di notaio che assicura il proprio assenso in cambio della non intromissione nei propri affari.

Gilles Kepel su “Le Grand Continent” anticipando stralci del suo ultimo libro: «L’amministrazione Biden, il cui primo impulso diplomatico è consistito nel relativizzare il peso del Medio Oriente nella sua agenda politica estera a favore delle questioni cinesi e russe, e nel far prevalere nella regione la riattivazione del Jcpoa sull’antagonismo israelo-palestinese, le cui asperità si pensava fossero state cancellate dagli Accordi di Abramo, si trova così costretta a giocare dietro le quinte durante la guerra del maggio 2021», chiamata dal professore francese “la guerra degli undici giorni”. In questo nuovo caos con gli smottamenti nei paesi dell’area mediorientale, caucasica e mediterranea la Libia e quel che accadrà a cavallo del nuovo anno, determineranno i confini geopolitici degli attori di Astana, nello specifico la Turchia e la Russia.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85).

Applicazione di un modello

Qui infatti ritroviamo attivo come sempre il compare di Putin di tanti incontri ad Astana: Erdoğan ha mantenuto lo stesso atteggiamento ambiguo che lo ha contraddistinto in Siria, in Libia, in Nagorno-Karabakh – non a caso di nuovo gli azeri stanno sfruttando l’occasione che impedisce a Mosca di difendere l’alleato armeno – quando ha sostenuto in genere la parte avversa al fantoccio locale di Putin, salvo poi comporre ogni questione attraverso una spartizione de facto di territori, interessi, occupazioni. Anche in questo caso Erdoğan ha fornito a Zelensky armi e sostegno da appartenente alla Nato, ha mantenuto un ruolo ambiguo sui Dardanelli e sull’accesso al Mar Nero in relazione alla Convenzione di Montreux – e anche in questo caso la sottolineatura di Antonella De Biasi di p. 48 di Astana e i 7 mari, relativa all’appoggio russo ad abkhazi e agiari che solleva questioni ataviche in contrapposizione russi e turchi, sostenitori dell’etnia tatara, poneva già il problema di schieramenti – ma poi non aderisce a sanzioni ed embarghi… e questo consente ad Ankara di proseguire la diplomazia di Astana verso Mosca e di proporsi come mediatore, forse per la sua esperienza di occupazione del Rojava e strage di curdi. Ruolo che è in grado di svolgere l’altro campione di democrazia: Israele che da 55 anni occupa territorio palestinese e applica l’apartheid. Anche Israele compare 49 volte nel libro di Antonella De Biasi, pur non essendo tra gli ospiti di Astana, se non in veste di Convitato di Pietra: infatti Tel Aviv ha mantenuto un profilo basso, senza contrariare il Cremlino, sia per i milioni di russi e ucraini immigrati in Israele, sia per gli innumerevoli interessi che legano i due paesi; peraltro ha fornito qualche ordigno a Kyiv, senza consentire l’uso di Pegasus o di Blue Wolf, e tantomeno Iron Dome, sistema di difesa antiaerea richiesto dall’Ucraina fin dal 2019 (per dire da quanto si stavano preparando alla “sorprendente” aggressione russa). E soprattutto, come dice Eric Salerno: «Israele ha bisogno di alleati» e questo è reso ancora più evidente dall’accoglienza per gli Accordi di Abramo che ha stipulato prontamente con alcuni paesi arabi.

Israele e Turchia evidenziano il proseguimento sotto altre forme del multilateralismo sotto il cappello della crisi russo-ucraina: come ci ha detto Eric Salerno nella puntata di Transatlantica24 per quanto riguarda Tel Aviv – ma vale anche per Ankara, nonostante il disastro economico: se va in porto l’occupazione coloniale di tutte le zone in cui la Turchia è impegnata, il colonialismo predatorio può rimpinguare le casse. A entrambe il ruolo di potenze locali va stretto e sia nell’area interessata dalle operazioni belliche, sia nel resto dei 7 mari presi in considerazione nel volume dedicato da OGzero ad Astana, si propongono come interlocutori privilegiati, spesso in sostituzione degli interessi delle potenze coloniali europee classiche, assurgendo a un ruolo di potenze più ampia di quella locale mediterranea.

Il ridimensionamento del ruolo dell’Occidente nel panorama internazionale è determinato soprattutto dalla radicale contestazione del suo modello politico, economico e culturale attuata dalla Cina e in secondo luogo dalla Russia. Non è un caso che Cina e Russia siano tra i principali sostenitori di due organizzazioni multilaterali come i Brics e la Shangai Cooperation Organization (Sco). Di recente i due paesi hanno iniziato a collaborare per ridurre la loro dipendenza dal dollaro.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Dunque di nuovo le potenze asiatiche evidenziano la inadeguatezza della prosopopea dell’UE, che preferisce riarmarsi, dissanguandosi e riducendo a nulla il sistema welfare liberal-democratico, pur di rincorrere sul piano militare le altre potenze guerrafondaie e venditrici di tecnologie militari per sostenere le industrie belliche anche europee, ringalluzzite dalla guerra per procura al confine eurasiatico, evocativo di altre invasioni, ma che sembra preludere a un ridimensionamento tanto dell’Europa, quanto della Russia stessa, ridotti a belligeranti locali di una guerra a cui stanno alla finestra le due vere potenze globali, che preparano il confronto in ambito indo-pacifico. Gli Usa ottengono – dopo che da due amministrazioni lo richiedono – che tutti gli europei destinino il 2% del pil alla “sicurezza”, sgravando gli americani di parte della spesa militare; la Cina – come ci spiegava Sabrina Moles nell’incontro di Transatlantica24 – senza schierarsi, ma lanciando segnali di propensione per l’invasore, pur facendo attenzione a non confondersi con una potenza sull’orlo del fallimento come la Russia che ha il pil di una provincia cinese (il Guandong), può trarre vantaggi, se non si prolunga troppo la crisi e se non si propone come mediatrice, perché rischierebbe di venire degradata al rango di potenza intermedia come appunto Turchia e Israele. I mediatori nel gioco delle parti.

Dopo la normalizzazione delle relazioni sino-russe alla fine della Guerra Fredda, la Russia è emersa come un importante fornitore di armi e tecnologia per la Cina. Quella relazione era un’ancora di salvezza finanziaria per l’industria della difesa russa in un momento in cui gli ordini di approvvigionamento nazionali si erano prosciugati. Ma da allora le vendite russe alla Cina sono diminuite man mano che l’industria della difesa cinese è maturata «in misura significativa grazie al trasferimento di tecnologia e al furto dalla Russia», commentano Eugene Rumer e Richard Sokolski sul sito di Carnegie Endowment for international peace. La Cina ora compete con la Russia nei mercati delle armi. Attualmente le vendite di armi dalla Russia alla Cina rappresentano solo il 3% del commercio totale annuo dei due paesi, che supera i 100 miliardi di dollari. Con l’accesso alla tecnologia occidentale tagliato a causa delle sanzioni, l’industria della difesa russa ha guardato alla Cina come una fonte alternativa di innovazione che non ha la capacità di sviluppare a livello locale.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Può essere che il prossimo teatro di questo “Risiko per procura” torni in zona balcanico-caucasica (Nagorno Karabakh ed enclave etniche della Repubblika Srpska, oppure le tensioni panslavistein Bosnia); può darsi si inaspriscano le dispute che in Africa vedono impegnati militari turchi e miliziani della Wagner in contrasto – soprattutto in Françafrique – con gli eserciti coloniali classici; sicuramente Russia e Cina stanno collaborando assiduamente per spartirsi il Sudamerica, grazie alla distrazione di Biden che prosegue il disimpegno del suo predecessore.

L'articolo Il “nuovo” ordine mondiale e il gioco delle parti da Astana a Kyiv proviene da OGzero.

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La guerra in Ucraina cambierà le scelte di Ankara? https://ogzero.org/la-posizione-di-ankara-nel-conflitto-russo-ucraino/ Fri, 18 Mar 2022 14:40:19 +0000 https://ogzero.org/?p=6806 Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di […]

L'articolo La guerra in Ucraina cambierà le scelte di Ankara? proviene da OGzero.

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Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di accordi per spartire senza problemi le aree lasciate “libere” dal disimpegno dell’America trumpiana, dimostrando forse un inizio di affanno a svolgere il ruolo di grande potenza. Forse si può inquadrare la “spezial operazy” come una delle tappe delle spartizioni di Astana, che hanno visto diversamente impegnati gli eserciti e le milizie di Ankara e Mosca e quindi l’equidistanza  tra i contendenti da parte di Erdoğan fa il paio con l’interposizione di Putin in finale di conflitto in Nagorno Karabakh concluso a favore dell’Azerbaijan dai droni Bayraktar, protagonisti anche nel confronto bellico in Ucraina. L’equilibrio di Ankara, apparentemente sbilanciato a favore di Kiev (in chiave atlantista), ma attento a lasciare ampi spiragli di apertura a Mosca per proporsi come mediatore – forse per esperienza diretta nell’occupazione imperiale di territori limitrofi al proprio come il Rojava –, può ottenere riconoscimento internazionale, premiando l’ambiguità e la politica dei due forni di Erdoğan? Ed è vera competizione tra Israele e Turchia per ottenere il ruolo di paciere («proprio loro!?!», diranno curdi e palestinesi), o non è il gioco delle parti, per cui ognuno appare come campione valido per ciascuno dei due contendenti, perché tutti legati a filo doppio dallo scambio delle armi?

Vera rivalità tra Israele e Turchia per il ruolo di mediatore?

L’ossessione di OGzero per Astana arriva fin qui, lasciando spazio alle intuizioni di Murat Cinar…


Due paesi importanti per la Turchia sono in piena guerra; Ucraina e Russia. Dai droni ai pomodori, dalla centrale nucleare agli S-400, dal turismo al grano… e dal gas al riciclaggio di denaro. Per il governo centrale della Turchia, Mosca e Kiev sono due partner strategici con i quali ha consolidato dei rapporti economici, politici e militari in questi ultimi anni.
Ora invece questi due vicini stanno attraversando un forte conflitto armato tra loro. Dunque qual è stata, finora, la posizione di Ankara?

Le prime scelte

La politica della Turchia, dal 24 febbraio, quando la Russia ha iniziato a invadere l’Ucraina, mostra che rimarrà in armonia e coordinamento con l’occidente e la Nato, ma senza mettere in pericolo il suo legame con questi due paesi.

Atlantismo

La Turchia, che ha attuato la Convenzione di Montreux e ha impedito a più navi da guerra russe di accedere al Mar Nero, attraverso il mar di Marmara e gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo, afferma che non intende imporre sanzioni alla Russia e che farà del suo meglio per mantenere aperti i canali di dialogo con Mosca per la soluzione del problema, accolto con favore anche dall’Occidente.
Con le dichiarazioni rese il giorno dell’inizio dell’operazione, che la Russia definisce “operazione militare speciale”, la Turchia ha chiesto il rispetto dell’integrità territoriale e dell’unità politica dell’Ucraina e ha dichiarato di rifiutare l’attacco russo. La Turchia, che non ha riconosciuto l’invasione e l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014, ha rivelato che continuerà ad agire insieme all’opinione pubblica internazionale con questa posizione che ha assunto. La Turchia ha anche appoggiato il testo della risoluzione di condanna della Russia all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (Onu).

Oltre a condannare la Russia, la Turchia ha anche fornito all’Ucraina il massimo livello di sostegno. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky e i ministri degli Esteri e della Difesa turchi si sono incontrati spesso con le loro controparti ucraine e hanno discusso degli sviluppi riguardanti l’occupazione russa esprimendo il sostegno della Turchia alla sovranità dell’Ucraina.
L’uso efficace dei droni armati “made in Turkey”, Bayraktar venduti dalla Turchia, che negli ultimi anni ha approfondito la cooperazione con l’Ucraina nel campo dell’industria della difesa, ha reso ancora più importante il dialogo tra i ministri della Difesa dei due paesi. Le dichiarazioni delle autorità ucraine di voler acquistare più droni dalla Turchia si sono riflesse anche sulla stampa durante questo processo.

Droni autarchici turchi: l'esercito di Ankara si fornisce di ogni dettaglio tecnologico dall'industria nazionale per equipaggiare il proprio gioiello bellico: i sistemi aerei senza pilota

Bayraktar-TB2 Sịha, che fanno strame dei carri armati russi incolonnati.

Sin dall’inizio della guerra, la Turchia ha annunciato di aver iniziato a inviare aiuti umanitari in Ucraina. Con tutti questi passi, la Turchia ha dimostrato di sostenere l’Ucraina.

Caro amico Putin

Il presidente della Repubblica di Turchia, prima e dopo l’inizio dell’operazione, ha dichiarato: «Non rinunceremo alle nostre relazioni speciali né con l’Ucraina né con la Russia» e ha lanciato il messaggio che cercherà di mantenere una politica equilibrata anche se la crisi approfondisse.

Tuttavia, ciò non ha impedito ad Ankara di «invitare Mosca a interrompere l’operazione il prima possibile». Nelle loro dichiarazioni, il presidente Erdoğan e il ministro degli Esteri Mevlüt Çavuşoğlu hanno sottolineato che l’operazione militare ha messo in pericolo la sicurezza sia regionale che mondiale e che la Russia dovrebbe rinunciarvi il prima possibile. Nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa è stato anche affermato che Çavuşoğlu ha trasmesso direttamente questo richiamo al ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, con il quale aveva parlato al telefono.
La Turchia è stata anche tra i paesi che hanno criticato le minacce sventolate da Putin sull’eventuale utilizzo delle armi nucleari. İbrahim Kalın, il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, ha definito “sconcertante” il fatto che Mosca abbia messo sul tavolo la carta nucleare.

Con la Nato ma…

La dedizione della Turchia al patto transatlantico è molto discutibile da parecchi anni. Sia Trump sia Biden, diverse volte hanno criticato Ankara per le sue scelte militari e politiche in Siria e per le sue relazioni con la Russia. Mentre gli Usa sono arrivati anche alle sanzioni economiche e militari, con la Grecia e la Francia ci sono stati dei momenti di grande tensione e reciproche minacce in questi ultimi 2 anni.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Settembre 2020, dispute tra appartenenti alla Nato nel Mediterraneo orientale: Grecia e Francia contro Turchia.

Tuttavia dalla guerra in Libia fino al caso degli uiguri, dall’Afghanistan alla produzione militare joint venture con gli alleati, dall’occupazione russa in Crimea e ora con l’appoggio a Kiev, possiamo dire che la Turchia ha seguito molto fedelmente la linea politica, economica e militare della Nato.

… It’s the economy…

La guerra in Ucraina arriva in un momento molto importante per la Turchia; sia per le sue relazioni forti con Mosca sia per la devastante situazione economica e politica che Erdoğan deve affrontare a casa. Un governo ai minimi storici nei sondaggi (meno di 35%) un anno prima delle elezioni presidenziali e parlamentari, sia per il lavoro di grande successo che portano avanti i sindaci delle opposizioni eletti nelle grandi città nel 2019 sia per l’enorme corruzione sempre più conosciuta e evidente che rappresenta il governo e la famiglia del presidente della Repubblica. Ovviamente a questa situazione catastrofica politica bisognerà aggiungere anche la crisi economica senza precedenti. Un’inflazione che supera la soglia del 130%, una Lira che perde il suo valore ogni giorno davanti alle monete straniere, una povertà diffusa e terribile e un vuoto nel fisco che spinge Ankara a svendere qualsiasi cosa al capitale russo, cinese e mediorientale.

… l’intermediario

Insomma: le scelte discutibili, radicali e pericolose di Erdoğan, operate in questi ultimi anni per consolidare un rapporto forte con Putin, fanno paradossalmente sì che la Nato trovi in Ankara un alleato a cui attribuire un ruolo chiave in questo conflitto. Quello del mediatore. Dall’altro lato Erdoğan non vorrebbe assolutamente perdere l’occasione per fare una forte propaganda elettorale nella politica interna portando a casa prestigio, rispetto e forse anche un po’ di soldi, vista la situazione economica e elettorale devastante.

Mediazione

Infatti l’incontro importante ma non fruttifero, avvenuto ad Antalya in Turchia, tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e quello ucraino Kubela il 10 marzo è una delle dimostrazioni del fatto che il governo centrale vorrebbe lavorare come mediatore in questo conflitto, molto probabilmente per portare a casa un paio di carte vincenti. L’impegno apprezzato sia da Zelensky sia da Putin ha ricevuto anche gli applausi dal segretario generale della Nato, Stoltenberg che ha espresso la sua gratitudine direttamente al presidente della repubblica di Turchia quando l’ha incontrato durante la sua visita ad Ankara l’11 marzo.
Inoltre, la Turchia si era astenuta, il 26 febbraio, dal votare contro la sospensione della Russia nel Consiglio d’Europa, sulla base del fatto che «una completa interruzione del dialogo e la demolizione dei ponti non sarebbe vantaggiosa». Il ministro Çavuşoğlu ha dichiarato: «Non dovremmo concordare sull’interruzione del dialogo. C’è qualche vantaggio per il Consiglio d’Europa nel rompere i legami con la Russia qui? No. Ecco perché ci siamo astenuti nella votazione. Perché questo comporterebbe la chiusura del dialogo». Tuttavia il 17 marzo, durante una riunione straordinaria: «Il Comitato dei Ministri ha deciso, nel quadro della procedura avviata in virtù dell’articolo 8 dello Statuto del Consiglio d’Europa, che la Federazione russa cessa di essere membro del Consiglio d’Europa a partire da oggi, 26 anni dopo la sua adesione».

La diplomazia di Twitter e le telefonate private

Ankara, sin dall’inizio della guerra, ha mantenuto l’opinione secondo la quale tenere aperti i canali di dialogo con Mosca avrà un impatto positivo sul processo negoziale avviato tra funzionari russi e ucraini. Il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, İbrahim Kalın, in una dichiarazione alla stampa turca, ha affermato che la Turchia segue da vicino il processo negoziale tra le parti in guerra e trasmette i suoi suggerimenti alla Russia, soprattutto grazie al dialogo in corso.
A tutti questi passi e dichiarazioni ovviamente dovremmo aggiungere il continuo traffico di telefonate tra Ankara, Mosca e Kiev e i ringraziamenti di Zelensky direttamente verso Erdoğan comunicati ripetutamente su Twitter, per il suo sostegno

Importanti relazioni sia con Kiev sia con Mosca

In un’intervista rilasciata alla Cnn International, İbrahim Kalın ha dichiarato di non volere che i loro forti legami economici con Mosca, inclusi settori come l’energia, il turismo e l’agricoltura, siano danneggiati, e ha sottolineato che credono nei vantaggio provenienti da una condizione di dialogo alternativa all’imposizione di sanzioni.

La Turchia, che l’anno scorso ha ospitato circa 5 milioni di turisti russi (e 2 milioni di ucraini), ha preferito non assecondare i paesi occidentali che hanno chiuso il loro spazio aereo.

La Russia è il più grande fornitore di gas naturale della Turchia e sta anche costruendo la prima centrale nucleare del paese. I primi reattori dovrebbero essere messi in servizio nel 2023. Il volume degli scambi tra Turchia e Russia supera i 20 miliardi di dollari. I due paesi puntano ad aumentare questa cifra a 100 miliardi di dollari.

Questo rapporto commerciale in crescita vale anche per l’Ucraina. Secondo la Camera di Commercio di Istanbul (Ito) nel 2021 il volume commerciale superava i 7,4 miliardi di dollari Usa e nel 2022 l’obiettivo è raggiungere i 10. Solo nell’ultimo incontro avvenuto il 3 febbraio sono stati firmati ben 8 accordi commerciali tra Erdoğan e Zelensky. La collaborazione tra questi due paesi è in forte crescita anche nel campo militare.

Mediatori sì ma non da soli

La crisi energetica, l’interruzione dei rapporti commerciali, degli investimenti finanziari e del gigantesco riciclaggio di soldi nelle banche europee e in collaborazione con le mafie europee e la minaccia sulla sicurezza cibernetica sono solo alcuni punti che necessitano un piano B nel caso in cui le cose si mettessero molto male a lungo termine con Mosca. Dunque a questo punto insieme ad Ankara subentrano nel gioco due altri attori insospettabili: Grecia e Israele.
La Turchia, ultimamente, sembra che stia ricucendo i suoi rapporti con questi due “alleati”/vicini.

Israele, una volta “razzista” e ”terrorista” per Erdoğan

Infatti non è un caso che il presidente della Repubblica d’Israele, Isaac Herzog, abbia visitato la Turchia, incontrando il suo omologo turco il 9 di marzo. Una visita che era stata già organizzata ma ovviamente ha assunto un’importanza particolare in questo periodo esattamente come il contenuto delle dichiarazioni finali.

«Sia l’inizio di una nuova fase nelle relazioni tra questi due paesi. Dobbiamo rafforzare i nostri obiettivi commerciali soprattutto nel campo dell’energia»: erano alcune parole pronunciate da Erdoğan alla fine dell’incontro. Herzog invece ha voluto parlare anche della convivenza dei popoli, la pace tra le religioni e ha pure citato una poesia di Hikmet.

Secondo il conduttore televisivo israeliano, Mohammad Micedle, questi due paesi hanno obiettivi in comune in Siria e in Ucraina. Quindi devono lavorare insieme. Invece secondo, Jonathan Freeman, uno dei professori dell’Università di Gerusalemme il ruolo di questi due paesi acquisisce un valore aggiunto derivante dalla guerra in Ucraina soprattutto nell’ambito della sicurezza, dell’energia e dal punto di vista economico.

«Grecia e Cipro avranno le risposte che meritano» (Erdoğan, 14 ottobre 2020)

Lo stesso tipo di visita a Istanbul è stato effettuato il 13 di marzo anche dal primo ministro greco Kyriakos Mītsotakīs con Erdoğan.

L’incontro si è concluso con una serie di buoni intenti e progetti legati al «nuovo piano di sicurezza in Europa alla luce della guerra in Ucraina, lotta contro l’immigrazione irregolare e rafforzamento dei rapporti commerciali».

Una nuova fase, una nuova era positiva e felice meno di 2 anni dopo quel famoso momento di crisi registrato nelle acque dell’Egeo che portava quasi alla guerra questi due vicini storici; come l’incontro tra Erdoğan e Herzog mette la parola fine ai dissapori sorti nel maggio 2010 con la vicenda della Freedom Flotilla e l’assalto alla Mavi Marmara, nave turca assaltata dai servizi israeliani che causarono la morte di 9 marinai turchi.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Assalto del Mossad alla nave turca Mavi Marmara in rotta verso Gaza nel maggio 2010: causarono 9 morti tra l’equipaggio e il pretesto al presidente turco per ergersi a paladino della causa palestinese.

Oligarchi e oppositori già in Turchia

Approfittare della fuga dei capitali dai paesi in conflitto e isolati è una scelta ormai molto diffusa in diversi angoli del mondo. Esattamente come quello di aprire le porte agli oppositori che a lungo andare potrebbero rappresentare una “carta” politica importante nei confronti dell’alleato di oggi. La Turchia ha fatto queste mosse ospitando quell’enorme quantità di denaro dello stato libico e di quello venezuelano nei momenti di grande crisi economica, politica e militare. Questa scelta fatta da Tripoli e Caracas comporta fedeltà e collaborazione e per Ankara la parziale disponibilità di questi due paesi rappresenta anche un elemento di forza nei confronti dei suoi alleati. In merito alla presenza degli oppositori invece possiamo citare il caso degli uiguri in fuga dallo Xinjiang e dei tatari scappati dalla Crimea in due tempi diversi in questi ultimi anni, rendendo così la Turchia rifugio degli oppositori e degli oppressi per quegli attivisti che rappresentano “minaccia e problema” per gli alleati Cina e Russia.

La storica attrazione per Istanbul

Secondo il professore universitario, Aydin Sezer, la vicinanza geografica della Turchia fa sì che per chi volesse portare via il suo capitale dalla Russia la rende più accessibile e attraente rispetto alla Cina e ai paesi del Golfo. Nel suo intervento fatto in diretta il 7 marzo, organizzato dal portale di notizie “Gazete Duvar, Sezer sostiene che numerose aziende russe stanno già avviando operazioni di acquisto dei beni di lusso, immobili costosi e vari investimenti finanziari a Istanbul. La stessa notizia è stata approfondita il 15 marzo in un articolo di Nuran Erkul Kaya ed Emre Gurkan Abay anche sul sito dell’agenzia di stato “Anadolou Ajansi” e un’esaustiva carrellata di patrimoni investiti in Turchia da parte di oligarchi russi molto vicini a Putin è stata redatta da su “medyascope”.
In una notizia firmata da “Euronews”, il 15 marzo, invece si parlava di quelle migliaia di “benestanti” russi che hanno deciso di lasciare la Russia per via della loro opposizione contro la guerra ma anche perché pensano che una catastrofe economica sia in arrivo. Lo stesso argomento era stato reso pubblico il giorno prima anche da “The New York Times”. In questo articolo, firmato da Anton Troianovski e Patrick Kingsley, si citavano i principali paesi di destinazione come Armenia, Georgia, Uzbekistan, Kirghizistan e Kazakistan ma anche la Turchia. Perché?

Profughi russi a Istanbul

Un turco trasporta nella neve stambulina materassi comprati da organizzazioni umanitarie per aiutare profughi russi contrari alla guerra e timorosi della catastrofe economica russa.

I motivi sono parecchi. Per esempio, nonostante il fatto che i paesi europei abbiano chiuso i loro spazi aerei agli aerei russi, la Turchia non l’ha fatto e questa scelta rende Istanbul una delle alternative per i russi che vogliono lasciare il paese. Solo la Turkish Airlines continua a organizzare 5 voli al giorno per Mosca e, insieme ad altre compagnie, questo numero supera i 30 in alcuni giorni. Kirill Nabutov, un commentatore sportivo di 64 anni fuggito a Istanbul, nell’intervista rilasciata al quotidiano statunitense afferma che la storia si ripete. Anche la cugina della madre di Nabutov fuggì a Istanbul nel 1920 e da lì andò in Tunisia. Anche se non grande come gli ucraini, questa fuga ricorda quelle 100.000 persone in fuga dalla guerra civile negli anni Venti, dopo la rivoluzione bolscevica, rifugiate a Istanbul.

Politica interna appesa ai colpacci internazionali

Il ruolo della Turchia, da diversi punti di vista, possiede un peso importante in questa fase storica che sta attraversando prima di tutti l’Ucraina poi il resto del mondo. Questo ruolo senz’altro è dovuto alle relazioni che Ankara ha costruito in questi ultimi anni, quelle relazioni basate sul reciproco sfruttamento, esattamente come diversi leader mondiali fanno da tempo. A questo fattore sarebbe opportuno aggiungere anche la crisi diplomatica, economica, energetica e politica in cui si trovano alcuni alleati della Turchia. Come abbiamo visto nell’esperienza della “gestione dei migranti” e nei conflitti armati in Libia e Azerbaigian/Armenia, dove l’incapacità oppure l’indifferenza dell’Unione europea e della Nato subalterna, Ankara approfitta dell’occasione. Infine la situazione economica e politica, devastante, in cui si trova il governo di Erdoğan deve fare qualcosa. Un leader che ha sempre fatto alimentare la politica interna con quella estera non può perdere quest’occasione sperando di perdere a casa qualche vittoria. Ce la farà? Questo dipende anche dagli alleati e dai partner della Turchia.

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La distribuzione delle armi ai patrioti https://ogzero.org/la-distribuzione-delle-armi-ai-patrioti/ Mon, 28 Feb 2022 02:36:46 +0000 https://ogzero.org/?p=6548 Non è compito, né obiettivo di OGzero riportare notizie, anche se stravolgono il mondo e condizionano ogni aspetto della geopolitica, finché non si decanta il polverone che sollevano, consentendo un’analisi distaccata di ciò che provocano. Questa la natura analitica del sito; poi OGzero ha una sua componente parziale, schierata – per quanto cinica – e […]

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Non è compito, né obiettivo di OGzero riportare notizie, anche se stravolgono il mondo e condizionano ogni aspetto della geopolitica, finché non si decanta il polverone che sollevano, consentendo un’analisi distaccata di ciò che provocano. Questa la natura analitica del sito; poi OGzero ha una sua componente parziale, schierata – per quanto cinica – e contraria a ogni autoritarismo e militarismo che rivendichiamo come tratto distintivo. E che ci spinge a intervenire quando un’enormità inaccettabile viene assorbita come se non si trattasse di una barbarie: un’“involuzione copernicana”, che non è tanto l’invasione di un paese ex satellite da parte di un autocrate riconosciuto (Biden ha definito Putin un “killer” a inizio mandato), ma che l’Unione Europea con la sua prosopopea sull’approccio burocraticamente democratico si riduca al rango di trafficante per delegare un suo contenzioso. Questo passo è la vera svolta della vicenda ucraina, che per il resto dal punto di vista geopolitico è una delle innumerevoli situazioni di conflitto che ammorbano il pianeta.


Le infinite declinazioni degli aggettivi bellici

La guerra boot on the ground e il Glovo dei missili anticarro

Abbiamo anche avviato uno studium – non perché subodoravamo risvolti guerrafondai, ma perché l’escalation delle guerre di droni e nuovi sistemi di difesa e offesa è in atto da alcuni anni, producendo sempre nuove guerre – che ci impegna per l’intero 2022 (e forse anche oltre) a monitorare le movimentazioni, le consegne, i traffici di armi nel mondo, perché laddove c’è una transazione di questo tipo, prima o poi quell’arma viene usata. Non siamo anime belle che pensano che l’Europa non venda armi a chi è impegnato in un conflitto (chi se non i combattenti adoperano, consumano e ricomprano altre armi, se non chi le sta usando?) e quindi non ci stupiamo che si stanzino alcune centinaia di milioni per comprare armi da girare a un combattente, preoccupa che venga fatto senza infingimenti: hanno trovato il pretesto per poter moltiplicare gli affari per l’industria bellica senza dover pagare dazio. Senza contare che avevano già iniziato il giorno prima degli annunci ufficiali di Von der Leyen, a consegnare – come da consuetudine – armi ai belligeranti:

Guido Limpio, Missili e lanciarazzi. Italia, i primi soldati, “Corriere della Sera”, 27 febbraio 2022, p. 11. Pubblicato la sera precedente l’annuncio di Ursula Von der Leyen sugli stanziamenti UE per acquisto di armi da consegnare all’Ucraina

Il rilievo che ci viene spontaneo è il fatto che la tipologia degli articoli del delivery europeo via Polonia (ma anche le repubbliche baltiche sono tra i protagonisti più attivi già da alcune settimane nella distribuzione) denuncia la classificazione di quella che sarà la proxy war nel cortile di casa per alcuni anni: armi per un contrasto sul terreno, invischiando l’armata russa nella trappola scavata al suo confine a cominciare da Maidan.

Equipaggiamenti per guerre non lineari e guerriglia urbana

E infatti come sito attento ai rivolgimenti geopolitici siamo mitridatizzati alle guerre: uguali a quella carpatica ce ne sono state e se ne stanno combattendo molte altre nel mondo, certo non con una delle 3 potenze mondiali come protagonista diretta, ma sempre sullo sfondo si trovano impegnate tutte le potenze globali e locali. Perciò del gran polverone suscitato in questi giorni ciò che maggiormente indigna OGzero è il fatto che per la prima volta l’UE sovvenziona ufficialmente l’acquisto di armi per consegnarle a un paese terzo in guerra. Non siamo anime belle illuse che immaginano che con le manifestazioni di un weekend si possa fermare una determinazione alla imposizione delle proprie visioni deliranti da parte di un potere che usa spietati mercenari dovunque, uccide oppositori con il polonio, ammazza giornalisti come regalo di compleanno, sostituisce il colonialismo della Françafrique; ci indigniamo piuttosto a scoprire che un cancelliere socialdemocratico, appena valuta le centinaia di migliaia di migranti ucraini che premono ai confini, fa strame di scelte decennali e decide il riarmo tedesco – che non si può sentire dopo la Seconda guerra mondiale e le macerazioni degli anni Settanta a elaborare il senso di colpa di una nazione (cosa che l’ipocrisia cattolica italiana non ha mai consentito) – trovando 100 miliardi (!!!) per rinnovare la Bundeswehr… nemmeno Merkel sarebbe arrivata a una tale faccia di bronzo. Ma sicuramente il rinnegamento dei “valori europei” maggiore è quello che vede l’intera Unione allineata a rinunciare a ogni retorica – bastano 300.000 migranti – e vendere armi letali per costituire una guerriglia antirussa, affidandole probabilmente a Pravi Sektor e al Battaglione di Azov: più nazisti del modello collaborazionista di Bandera. Piuttosto che trovarsi 7 milioni di migranti (bianchi e caucasici) all’uscio, si impedisce che possano emigrare se hanno meno di 60 anni e più di 18 (coscrizione obbligatoria!), li si approvvigionano di armi e si organizza una guerriglia per procura; gli stessi razzisti polacchi che fino a un mese fa hanno fatto morire di freddo e fame nella foresta, riempiendoli di botte, quei migranti che arrivano dalle guerre scatenate dall’Occidente (afgani, africani, di “speci” evidentemente non abbastanza “famigliari”), accolgono fraternamente – e giustamente – i fuggitivi dai massacri della guerra perpetrata da Putin in Ucraina (ma non le sue vittime siriane).

Manifesto anarchico russo: “ No alla guerra degli oligarchi! Vogliono il carbone del Donbass? Combattano e muoiano loro”

Guerra ibrida e guerra nucleare ipermediatizzata: armi tattiche e molotov

La soluzione sarebbe dunque una proxy war in più (in Yemen siamo già oltre i 300.000 morti civili, ma sono distanti e arabi), fa solo più effetto perché europea e perché il bullo del Cremlino sventola la minaccia delle armi tattiche nucleari cercando di mantenere un ruolo da cattivo credibile dopo lo smacco per il fatto che la Blitzkrieg non è riuscita nemmeno questa volta (ricordate dall’altro lato la Mission accomplished?). Inquieta anche perché gli ucraini vengono trattati da europei di serie B – un nuovo apartheid all’interno del continente –  rimandati indietro al confine e “invitati” a imbracciare i fucili e fabbricare le molotov – se solo avessimo preparato in Valsusa gli stessi “pintoni attivi” in favore di telecamera saremmo pericolosi insurrezionalisti – per assaltare carri armati russi; addirittura si agevolano arruolamenti di volontari targati Europa, mentre i compagni che sono andati a condividere la lotta curda in Rojava (quella davvero una lotta antinazista) sono in sorveglianza speciale. Infingimenti geopolitici: guerra mediatica.

Istruzioni per la preparazione di una bottiglia molotov sui social ucraini

Istruzioni per la preparazione di una bottiglia molotov sui social ucraini

La guerra geopolitica

Si evidenzia allora una stortura che ci fa sospettare che la guerra non sia poi così ideologica come vorrebbe spacciare il Cremlino con il suo improbabile antinazismo, ma smaccatamente geopolitica, come non possono ammettere né Biden (che costringe il mondo a schierarsi, per occuparsi del quadrante indopacifico – ottenendo la neutralità dell’India da un lato, ma anche del Kazakhstan dall’altro… e la preponderanza degli affari nelle scelte degli “alleati” arabi; e che dire dell’imbarazzo turco sul trattato di Montreux e il diritto di chiusura dei Dardanelli che non si capisce come e se viene applicato o meno alle navi da guerra russe?). Tantomeno può definirlo “conflitto geopolitico” l’attendismo cinese – che cerca di capire come sfruttare l’occasione con Taiwan, e gli conviene che si ammanti il tutto di nobili principi degni di una guerra santa, o di liberazione; né gli europei spacciatori di armi letali, un altro aspetto tipico della geopolitica, ammantato come sempre di idealismo di liberazione. Come geopolitiche sono le conseguenze delle sanzioni: tutte avvantaggiano le risorse americane. Il gas – molto più caro, perché va trattato – verrebbe erogato da un ponte navale transatlantico, che legherebbe ancora di più gli europei arruolati dallo Zio Sam; le chiusure di rotte aeree richiederanno maggiore consumo di idrocarburi, forniti da Usa e mondo arabo… NordStream2, capitolo chiuso e nuova umiliazione tedesca (che non è mai una bella cosa, se ricordiamo le cause dell’ascesa di Hitler).

Ascolta “Paralisi e delirio a Mosca. Europa anno zero?” su Spreaker.

 

Quindi ci saremmo aspettati anche da Bruxelles reazioni tipicamente geopolitiche, tattiche come le sulfuree mosse del Cremlino, test di alleanze come quelle intessute da Washington, persino i traccheggiamenti in punta di diritto internazionale di Ankara (che evidentemente non considera concluso il rapporto privilegiato con Putin all’interno degli Accordi di Astana e non intrappola le navi russe nel Mar Nero, pur vendendo droni all’Ucraina), o il sornione attendismo di Pechino… invece si spaccia per raffinato pensiero il nuovo ruolo di mediatori di ordigni per guerriglia che l’impaurita Europa si è ritagliata, facendo strame del raffinato pensiero contro la guerra e interpretando la strategia politica come tattica da trafficante. L’Europa come comparsa in commedia nel ruolo del trafficante: una nuova accezione della esigenza di “aiutarli a casa loro”, fornendogli le armi e alimentando altro fiero nazionalismo. Ma schierandosi così in modo esplicito contro Mosca, rimanendo facili bersagli dei missili tattici per impaurire meglio l’opinione pubblica, quella sì non geopolitica ma ideologizzata dai media mainstream.

Comunque dove ci sono molotov che volano addosso al potere costituito o a un esercito di occupazione, qualunque esse siano, ci trovano solidali

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L’assalto al carcere di Sina “forse” orchestrato da Ankara e Damasco https://ogzero.org/assalto-al-carcere-forse-orchestrato-da-ankara-e-damasco/ Thu, 03 Feb 2022 17:10:52 +0000 https://ogzero.org/?p=6122 Quattro giorni di ininterrotti scontri tra i combattenti dello Stato Islamico (Isis) e le forze curdo-siriane (Fds), che presidiavano il carcere assalito da miliziani ben equipaggiati. Il bilancio finale è stato di più di 330 morti, molti jihadisti fuggiti (un migliaio i catturati dalla pronta reazione curda); un preoccupante segnale di quanto la rete jihadista […]

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Quattro giorni di ininterrotti scontri tra i combattenti dello Stato Islamico (Isis) e le forze curdo-siriane (Fds), che presidiavano il carcere assalito da miliziani ben equipaggiati. Il bilancio finale è stato di più di 330 morti, molti jihadisti fuggiti (un migliaio i catturati dalla pronta reazione curda); un preoccupante segnale di quanto la rete jihadista si sia ricostruita, ancora più allarmante se si riconduce a una precisa orchestrazione occulta da cercare ad Ankara – e non solo – questo improvviso assalto dei tagliagole del Daesh al carcere curdo in cui erano reclusi i foreign fighters che gli occidentali non rivogliono indietro. Un ritorno dell’interesse occidentale per la questione dei jihadisti stranieri detenuti deve aver sollecitato il presidente turco a intervenire; e il risultato è stato l’annientamento di Abu Ibrahim al Hashimi Al Qurayshi, leader dell’Isis, dopo l’insuccesso del piano ordito dai satrapi turco-siriani.

A questo proposito abbiamo ricevuto alcune rilevanti osservazioni di Gianni Sartori, confermate dai bombardamenti avvenuti una settimana dopo per mano dell’aviazione di Erdoğan, come racconta l’articolo di Chiara Cruciati per “il manifesto” del 3 febbraio 2022, che proponiamo qui sotto. Riprendiamo dunque il pezzo di Sartori comparso sulla rivista “Etnie”, corredandolo tra le altre con un’immagine di Matthias Canapini, con il quale inauguriamo una collaborazione che immaginiamo proficua.


Lo davamo per scontato. Intravedere dietro l’attacco di Daesh al carcere di Sina (nel quartiere di Xiwêran/Gweiran della città di Hesîçe/Hassaké) la complicità di Ankara era tutto meno che un esercizio di fantasia. Ma a quanto sembra la manina inopportuna non era l’unica. In base ai primi accertamenti, le fonti curde hanno denunciato un ruolo, oltre che dell’intelligence turca, anche di quella siriana.

Bombardamenti turchi sui curdi siriani dopo l'assalto jihadista

3 febbraio 2022. Bombardamenti turchi sul Confederalismo democratico dei curdi siriani dopo l’assalto jihadista del 20 gennaio: evidente l’impronta di Ankara.

Premesse dell’assalto e mandanti

Iniziato il 20 gennaio, l’assalto operato dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Daesh) veniva se non stroncato sul nascere, perlomeno ridotto ai minimi termini. Purtroppo aveva avuto il tempo di provocare “danni collaterali” non irrilevanti. Sono almeno una cinquantina (ma il bilancio potrebbe accrescersi) i caduti tra membri di Fds, Asayish e civili curdi accorsi volontariamente per contrastare l’operazione jihadista. Dopo mesi di sostanziale menefreghismo per la sorte delle popolazioni (curde, ma non solo) del Nord e dell’Est della Siria sottoposte all’occupazione o comunque agli attacchi dell’esercito e dell’aviazione turca, l’Occidente è parso ridestarsi e prendere coscienza che la minaccia dell’Isis/Daesh non era stata definitivamente cancellata.
Per cui, non detto ma pensato, anche la presenza curda recuperava spessore e spazio sui media. Perlomeno come argine al fanatismo degli estremisti islamici.
Se pur lentamente, emergono le prime connessioni – interne ed estere – che hanno reso operativo il progetto per liberare i circa 5000 detenuti (membri o sostenitori di Daesh) rinchiusi a Sina. E tutte invariabilmente conducono ad Ankara o a Damasco. O magari a entrambe. Si tratta di elementi, indizi riguardanti le riunioni preliminari, le varie fasi di pianificazione, gli obiettivi individuati dalla banda degli assalitori. Non si sarebbe trattato quindi di un’azione pianificata esclusivamente dall’Isis, ma di una complessa operazione con il sostegno – come dire: bilaterale – proveniente dall’esterno del gruppo jihadista (per quanto questo sia presumibilmente infiltrato come un colabrodo da servizi vari).
A quanto sembra, condizionale sempre d’obbligo, l’operazione potrebbe essere stata decisa e pianificata in Turchia. I membri di Daesh catturati dalle Fds avrebbero confessato che era stata preceduta da una lunga preparazione (almeno 7-8 mesi) e che le riunioni di pianificazione si sarebbero tenute a Serêkaniyê (Ras al-Ain) ossia in un’area attualmente sotto occupazione turca. Vi avrebbero partecipato membri di varie “cellule dormienti” sia locali che provenienti dalla Turchia. E tutte indistintamente sarebbero state rifornite di adeguati armamenti.
Dato che tra i prigionieri si trovavano diversi esponenti di alto livello dell’organizzazione terrorista, è evidente che l’operazione rivestiva una certa importanza.
Per prima cosa, con qualche mese di anticipo, vari esponenti dell’organizzazione terrorista, sia individualmente che in piccoli gruppi, erano venuti ad abitare nel quartiere di Gweiran/Xiwêran, dove sorge la prigione (una ex scuola provvisoriamente adibita a carcere) e in quello di Heyî Zihur.
Nel comunicato delle Fds del 25 gennaio si legge che «almeno 200 esponenti dello stato islamico si erano installati a Serêkaniyê, Girê Spî e Ramadî, in particolare nel quartiere di Gweiran e nei dintorni del carcere».
Contemporaneamente anche i detenuti si organizzavano per la rivolta.
Va ribadito che in maggioranza si tratta di persone addestrate alla guerra e di origine straniera (muhajir ossia “migranti”, termine utilizzato per indicare i miliziani stranieri che combattono per Daesh). Persone che – in genere – i rispettivi paesi di provenienza si rifiutano di riportare in patria.

Dinamica dell’assalto e indizi sui mandanti

Orchestrazione Isis
Il primo veicolo imbottito di esplosivo era stato posto in prossimità dello svincolo di una condotta petrolifera (moltiplicando quindi la potenza dell’attentato) mentre venivano bloccate le strade d’accesso al carcere. Altri veicoli, ugualmente riempiti con materiale esplodente, colpivano la porta della prigione e l’edificio delle Forze di autodifesa (Erka Xweparastinê). Entravano allora in azione anche le “cellule dormienti” precedentemente installate nel quartiere. Catturando alcuni civili (da usare come ostaggi o scudi umani) e abbattendo un muro della prigione con una ruspa.
Assalto al carcere di Sina

Famiglia yazida a Dohuk (© Matthias Canapini)

Una volta entrati, distribuivano le armi ai detenuti islamisti e prendevano altri ostaggi tra il personale del carcere.

Risposta Fds

La priorità per le Fds e per le forze della sicurezza interna (Asayish) è stata quella di proteggere i civili. Nel contempo circondavano (bloccandone a loro volta le vie d’accesso) e mettevano in sicurezza (procedendo all’evacuazione degli abitanti) i quartieri di Gweiran e di Heyî Zihur. Al momento sarebbero circa 200 (per almeno tre quarti facenti parte delle “cellule dormienti” esterne al carcere) gli esponenti di Daesh uccisi in cinque giorni di combattimenti. Alcune centinaia degli evasi poi sono già stati ripresi.

Quello che sta emergendo, sia dalle prove raccolte che dalle testimonianze e dagli interrogatori, è un probabile ruolo di Ankara e Damasco nell’orchestrare il grave episodio.
Equipaggiamento turco, attività siriana

Tra gli “indizi” (ma messi tutti in fila acquistano le sembianze di prove) a sostegno della tesi di un diretto coinvolgimento di Turchia e Siria: le armi – della Nato – con numeri di serie turchi trovate in mano ai terroristi dell’Isis; la registrazione di telefonate dei membri di Daesh in prigione con la Turchia; le confessioni di quelli catturati mentre cercavano di rientrare a Serêkaniyê (sotto l’ombrello turco); le carte d’identità siriane di recente emissione in mano ai miliziani jihadisti; l’incremento di attività del regime siriano nella regione…

Assalto al carcere di Sina

Jihadisti evasi dalla prigione secondo l’agenzia russa “Sputnik”.

Altri elementi, altre prove, assicurano le Fds saranno presto messi a disposizione dell’opinione pubblica. Nel giro di qualche giorno.

Pianificazione a lunga scadenza:

contrattempi…
Stando ai piani preliminari, l’attacco avrebbe dovuto svolgersi ancora in ottobre o novembre, in coincidenza con un ennesimo attacco turco nel nord e nell’est della Siria e con il previsto rafforzamento dei suoi presidi e avamposti militari nelle zone già occupate. Proprio in ottobre Erdoğan si era consultato sia con Biden che con Putin ed è plausibile pensare che non ne abbia ottenuto il tacito assenso per l’ulteriore invasione.
Un contrattempo (per Ankara e Daesh beninteso) a cui se ne aggiunse presto un altro. Quando le Fds avevano individuato e arrestato alcune “cellule dormienti” a Hesekê e Raqqa ricevendo da uno dei caporioni arrestati la confessione che il loro obiettivo era il carcere di Hesekê. Un progetto quindi apparentemente disinnescato dall’operazione delle Fds, ma in realtà solo rinviato.
… e coincidenze d’intelligence
Altra coincidenza. Con un tempismo perfetto, al momento dell’attacco jihadista al carcere, l’esercito e l’aviazione turchi attaccavano simultaneamente Zirgan, Tel Tamer (da dove avrebbero potuto intervenire agevolmente in sostegno a Daesh) e Ain Issa causando vittime tra i civili.
Questo per quanto riguarda Ankara. E Damasco?
Rimane sempre a guardare mentre il territorio della Siria viene occupato da forze straniere? In realtà prima dell’attacco jihadista si era registrata un’intensa attività militare dell’esercito siriano proprio a Hesekê. Ma soprattutto era andata intensificandosi una violenta campagna diffamatoria nel confronti dell’amministrazione autonoma (Aanes) delle Fds sui media siriani filogovernativi. Inevitabile collegare tutto ciò ai recenti incontri tra il Mit (intelligence turca) e il Mukhabarat (intelligence siriana).
Un riavvicinamento tra i rispettivi servizi (ostili e su fronti opposti per molte questioni, ma sostanzialmente concordi nei confronti del “pericolo curdo”) che li aveva visti confrontarsi alla fine di dicembre (stando almeno a quanto riportava la stampa turca) in Giordania, ad Aqaba.
Sempre basandoci su quanto scrivevano i giornali turchi, nel corso della riunione si sarebbe discusso anche di «operazioni congiunte nel Nordest della Siria» e in particolare di «un’operazione militare turca per la profondità di 35 chilometri in revisione agli accordi di Adana; la sollevazione delle tribù (in chiave anticurda, ça va sans dire, come ci aggiornano regolarmente alcuni siti rosso-bruni italici N.d.A) a Deir ez-Zor, Hesekê  e Raqqa; la liberazione dei detenuti nelle prigioni e la ricostruzione di Aleppo».
Sempre sulla stampa turca – e quindi la cosa va presa con beneficio d’inventario – si suggeriva che Mosca e Damasco apparivano interessati, favorevolmente, alle richieste turche.

Un complotto annunciato contro l’amministrazione autonoma

Minacce velate

Qualche giorno prima, il 22 dicembre 2021, c’era stata la dichiarazione congiunta dell’ultima (per ora, siamo già alla diciassettesima) riunione di Astana tra Russia, Turchia e Iran, dove si stabiliva che le parti interessate erano concordi nell’«opporsi alle attività separatiste che minacciano la sicurezza nazionale dei paesi vicini all’est dell’Eufrate». Inoltre venivano definite “illegali” (anzi, un vero e proprio “sequestro”) i redditi provenienti dal petrolio siriano. Con un evidente riferimento al fatto che i curdi, dovendo comunque sopravvivere e tenere in piedi l’amministrazione autonoma, le milizie di autodifesa e soprattutto garantire prezzi calmierati (sia del pane che del combustibile) alla popolazione, si rivendono il petrolio. Del resto perché non dovrebbero farne uso visto che sgorga su quei territori dove convivono con arabi, turcomanni, armeni e altre popolazioni? Territori, ricordo, liberati dalla presenza di Daesh soprattutto grazie al sacrificio di migliaia di curdi delle Ypg.
Per chi vuole intendere, se pur dietro un linguaggio formalmente corretto, il messaggio era chiaro.

Il complotto dei Servizi

Ora, secondo i curdi, in questa dichiarazione si intravedono i presupposti per un autentico complotto contro l’amministrazione autonoma (Aanes) e il Rojava. In caso di vittoria dell’operazione al carcere di Hesekê è probabile che la Turchia sarebbe intervenuta da Tell Tamer (da nord) mentre Damasco avrebbe attaccato da Tabqa, Raqqa e Deir ez- Zor (da sud). Così come si era probabilmente stabilito nell’incontro tra il Mit e il Mukhabarat.
Magari con la scusa di porre fine al massacro (facilmente prevedibile se Daesh non fosse stata fermata in tempo) da loro stessi promosso, previsto e forse pianificato.
Se la pronta, coraggiosa risposta delle Fds ha impedito comunque un disastro ben peggiore, rimane il dubbio che a conti fatti quanto è accaduto possa ugualmente portare acqua al mulino dei due regimi. Potrebbe infatti fornire il pretesto (non solo a Damasco e Ankara, ma anche a Mosca e Teheran) per accusare l’amministrazione autonoma di incapacità e inadeguatezza. Di essere esposta ai rigurgiti di Daesh. Prima alimentati e innescati, poi strumentalizzati come alibi per “riportare l’ordine” in Rojava.
A consolazione, va ricordato che i curdi hanno dimostrato ancora una volta di essere un osso duro. Oltre che per i cani rabbiosi di Daesh, anche per i mastini di Ankara e Damasco.
Assalto al carcere di Sina

A completamento della ingarbugliata serie di eventi intrecciati nella zona denominata Mena giunge notizia (la riporta “Mediapart”) dell’eliminazione del capo dello Stato Islamico in seguito a un raid dell’esercito americano: un’esplosione ha raso al suolo la casa di tre piani che ospitava il turkmeno Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi (alias Abdullah Kardaş, ufficiale di Saddam Hussein, ovvero Amir Mohammed Abdul Rahman al Mawli al Salbi) e parte della sua famiglia che si è fatto saltare in aria al momento dell’attacco ordinato da Biden. Abitava ad Atamah, un villaggio nei pressi di un campo profughi al confine tra Siria e Turchia, in quella provincia di Idlib, che fa da zona cuscinetto pretesa da Erdoğan al momento della sconfitta dell’Isis di al-Baghdadi e da lui controllata… un’altra coincidenza?

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Kazakhstan. La rivolta che montava da tempo inaugura il 2022 https://ogzero.org/kazakhstan-la-rivolta-che-montava-da-tempo/ Thu, 06 Jan 2022 22:51:02 +0000 https://ogzero.org/?p=5770 Nel Kazakistan dell’ultimo capo del Pcus locale, sopravvissuto al potere per 30 anni alla fine dell’Urss, il raddoppio delle tariffe energetiche è arrivato dopo che si è concluso il percorso in tre fasi di privatizzazione dell’energia. Alcuni analisti internazionali riconducono l’incremento di fabbisogno di energia in un paese che la produce (ed è straricco di […]

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Nel Kazakistan dell’ultimo capo del Pcus locale, sopravvissuto al potere per 30 anni alla fine dell’Urss, il raddoppio delle tariffe energetiche è arrivato dopo che si è concluso il percorso in tre fasi di privatizzazione dell’energia. Alcuni analisti internazionali riconducono l’incremento di fabbisogno di energia in un paese che la produce (ed è straricco di risorse energetiche) al fatto che le criptomonete hanno spostato i loro computer dalle sedi cinesi e i calcoli dell’algoritmo consumano talmente tanta energia ogni secondo che assorbono moltissima energia e hanno automaticamente fatto lievitare i prezzi delle fonti energetiche con l’aumento di richiesta. Ma la goccia di gpl è solo quella che ha fatto traboccare il vaso.

In realtà, qualunque contingenza abbia provocato questa emersione della rabbia del popolo kazako, la mobilitazione del proletariato che sta ribellandosi dura da molto più tempo che le privatizzazioni e la lotta di classe negli ultimi mesi aveva ottenuto importanti risultati e dunque ha solo proseguito la ribellione individuando la possibilità di ribaltare finalmente un sistema totalitario, corrotto, oligarchico e predatorio proprio dei proventi di quelle risorse che pretendeva di far pagare il doppio a un paese ricco dove si vive da poveri: una rivolta senza capi che subito è tacciata di intelligenza con gli Usa, ma questa somiglia troppo alla lotta di classe.

Yurii Colombo ha potuto analizzare la situazione attuale, avendo ben presente la rivolta del 2015-2016, ma anche badando agli interessi esterni – cominciando ovviamente da Mosca, ma anche dai paesi europei, dalla Cina partner commerciale, dai finanzieri svizzeri… – mettendo al centro l’evento quasi mitico di un paese in piazza che prende i palazzi del potere in poche ore, si scontra con le forze dell’ordine, un’insurrezione senza capi (probabilmente non ispirata da forze straniere, ma neanche spontanea perché montante da tempo), si ammanta di Storia per il suo divampare improvviso, ma è dotato della forza che le lotte precedenti le hanno infuso. Potranno soffocarla con l’intervento di Putin, ma il potere di Nazarbaev è stato definitivamente archiviato. Ora il problema è di Putin? 


“Ci sono giorni che valgono anni”, dice un vecchio motto. Ed effettivamente se non fossero eventi anche tragici quelli che in queste ore si stanno verificando in Kazakistan, si potrebbe desiderare che il tempo si fermasse per meglio fissare e analizzare i (rari) processi di accelerazione della storia. In soli quattro giorni le prime rivendicazioni operaie e popolari contro l’aumento dei prezzi del gas iniziate nelle regioni Sudoccidentali del paese si sono trasformate in un processo insurrezionale. Fino al punto che per essere sedate il Presidente in carica Quasym-Jormat Toquaev ha chiesto l’intervento dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto), il patto di Varsavia versione dopo il crollo dell’Urss, esattamente 30 anni fa.

Da più parti per spiegare quanto sta avvenendo stanno parlando di “rivolta spontanea”, ma è davvero così? Non proprio, la mobilitazione non è nata come Minerva dalla testa di Giove e mobilitazioni di tale portata forse possono essere improvvisate ma non create dal nulla.

Il focolaio della rivolta: non è la prima volta di Zhanaozen

La ribellione è iniziata il primo dell’anno nella provincia di Mangistau nel Sudest del Kazakistan che si affaccia sul Caspio nella cittadina di Zhanaozen e infettando poi la capitale regionale di Aktau. Tuttavia il cambio di passo è avvenuto il giorno dopo quando sono entrati in sciopero i minatori della regione di Karaganda e della Kazakhmys Corporation nell’ex regione di Zhezkazgan bloccando la ferrovia e l’autostrada a Taraz, Taldykorgan, Ekibastuz, Kokshetau e Uralsk. La rapidità dello sviluppo delle agitazioni non è stata però casuale.

Il movimento operaio kazako ha una grande tradizione di lotta nell’era postsovietica. Le prime ondate rivendicative soprattutto nel settore petrolifero ed estrattivo (oltre che metalmeccanico) condussero alla formazione nel 2004 dei primi sindacati indipendenti kazaki dell’era postsovietica. Il momento culminante di questa ondata rivendicativa (principalmente salariale) che proseguì in crescendo dal 2008 fu raggiunto nel 2011 con i gravi incidenti nella città di Zhanaozen, quando il 16 dicembre, la polizia sparò sugli operai, uccidendone 16, ferendone e arrestandone centinaia.

Malgrado la durissima repressione che ne seguì, forme di resistenza semiclandestina dei lavoratori non cessarono mai da allora. Nel 2021 il processo di ricomposizione delle lotte ha poi accelerato e il 30 giugno scorso i lavoratori dell’azienda di servizi petroliferi Kezbi Llp di Zhanaozen inscenarono una prima fermata “a gatto selvaggio”; gli scioperanti chiedevano aumenti salariali, cambiamenti nell’organizzazione dell’attività e miglioramenti delle condizioni lavorative. La lotta fu coronata da successo e i lavoratori in lotta ottennero un raddoppio salariale: il 100% di aumento, da 200.000 a 400.000 tenghe (da 400 a 800 euro). Visto il successo gli scioperi si allargarono rapidamente a tutta la zona. Il 13 luglio i lavoratori di Kmg-Security incrociarono le braccia seguiti due giorni dopo dai lavoratori dell’azienda di trasporti MunaiSpetsSnab Company. Anche qui breve mobilitazione e vittoria immediata con aumenti del 100% del salario e altre conquiste. Il 21 luglio fu poi la volta della Kunan Holding. In seguito a Zhanaozen è iniziato il primo sciopero delle donne della Nbc, con le stesse richieste di salari più alti e migliori condizioni di lavoro. Un crescendo rossiano di fermate; scioperi alla Aktau Oil Service Company e alla Oilfield Equipment and Service, alla BatysGeofizService, alla Eurest Support Services Llp (Ess), alla Ozenenergoservis, nel campo petrolifero di Karazhanbas, nella regione di Mangistau. E scioperi anche alla Industrial Service Resources Llp, alla Industrial Service Resources Llp, alla Kmg Ep-Catering, alla Ezbi, alla Emir-Oil Kmg Ep-Catering, alla Abuev Group. Scioperarono poi in piena estate anche i corrieri della Glovo di Alma Ata.

Operai in sciopero il 2 agosto 2021. Gli scioperanti vivevano in baracche e guadagnavano in media 200 euro al mese. Sfruttati da privati e aziende pubbliche.

Il 28 giugno un grosso gruppo di donne di Astana presero d’assalto il ministero dell’industria di Astana, chiedendo posti di lavoro, alloggi e maggiori benefici per i bambini. L’8 luglio i lavoratori delle ferrovie di Shymkent bloccarono la circolazione regionale, mentre sempre ad Alma Ata, il 20 luglio, decine di dipendenti dei servizi di soccorso delle ambulanze protestarono contro il ritardo nel pagamento delle indennità “coronavirus” e per le disastrose condizioni di lavoro (tutte queste informazioni sono tratta dalla pagina anarco-sindacalista russa “Kras”).

Abbiamo fatto un così minuzioso (ma in realtà la nostra lista è solo parziale) riassunto delle lotte dei lavoratori kazaki della scorsa estate per un motivo molto semplice. Perché dimostra che la teoria della “spontaneità assoluta” è fuorviante. Se oggi i lavoratori kazaki si stanno muovendo con tanta decisione ciò è dovuto in primo luogo ai successi parziali che ottennero durante quelle agitazioni e ciò ha sicuramente rafforzato in loro convinzione e fiducia.

Ma la “ribellione” si è trasformata in “rivoluzione” non solo per la discesa in campo della classe operaia industriale. Dal secondo giorno ad Alma Ata hanno iniziato a mobilitarsi i giovani delle periferie in veri e propri riot (spesso armati) che hanno conteso palmo a palmo alle forze dell’ordine e ai reparti speciali il territorio, facendo diventare una metropoli di due milioni di abitanti l’epicentro dello scontro, un subbuglio divenuto eminentemente politico visto che le autorità avevano a quel punto accettato di ridurre i prezzi del gas, sussidiare quelli degli alimentari e il governo si era formalmente dimesso.

Expert”, un autorevole settimanale moscovita non certo di sinistra, sostiene che le dimensioni della rivolta ad Alma Ata sono determinate dal fatto che «ci sono molti giovani sfaccendati e spesso disoccupati. Infatti secondo un censimento dell’autunno scorso il 53,69% della popolazione ha meno di 28 anni. Ed è proprio tra questi strati che la disoccupazione è particolarmente alta».

L’estensione geografica delle proteste segnala inoltre come si siano saldati diversi elementi di carattere anche locale. Non solo il Sud e l’Ovest, ma anche il Nord, solitamente depresso e calmo con popolazione russa dominante, sta ribollendo e questa è una novità assoluta. A Taldykorgan un monumento a Nursultan Nazarbaev è stato abbattuto: un’azione che sarebbe stata impensabile fino a pochi giorni fa.

In alcune zone occidentali del paese gli scontri sembrano addirittura cessati e il potere è stato preso dai manifestanti insieme ai funzionari locali e alle forze di sicurezza, per esempio a Zhanaozen. In questo quadro se entro 24-48 ore il governo centrale con l’aiuto delle truppe dell’Alleanza non dovesse riuscire a prendere il controllo della situazione – finora il numero di morti tra i manifestanti resta imprecisato ma nell’ordine minimo di decine di vittime – si potrebbe assistere a un vero e proprio crollo statale per certi versi simile a quello avvenuto in Afghanistan l’estate scorsa. In questo quadro va tenuto conto però conto che non sono apparsi segni di livore antirusso e neppure la variante del fondamentalismo islamico sembra giocare un ruolo significativo mentre non è chiaro dove si andranno a posizionare i vari clan tribali che negli equilibri del paese hanno sempre svolto un certo ruolo.

I segni di “cedimento strutturale” ci sono tutti.

Secondo il portale russo “Meduza” in queste ore «ci sono notizie di decine di jet privati che lasciano il paese, il Kazakistan dell’élite imprenditoriale sta lasciando il paese in fretta e furia»

E lo stesso Nursultan Nazarbaev dopo essere stato dimesso d’imperio dal presidente in carica si dice si sia rifugiato all’estero. Ma che si stesse ballando su un Titanic nessuno se lo immaginava.

In un articolo per “Foreign Policy” nel dicembre scorso Baurzhan Sartbayev, presidente del Consiglio di amministrazione di Kazakh Invest sosteneva con baldanza che «il Kazakistan è emerso come un attore importante nell’economia globale e una destinazione di investimento attraente. In definitiva, il Kazakistan è sulla strada per migliorare il clima degli investimenti e rafforzare la posizione del paese all’interno della comunità globale».

Del resto non sono solo la classe operaia e il sottoproletariato a essere stanchi di un potere che – forse unico insieme all’Azerbaigian – vanta una filiazione diretta dall’ex Urss, essendo stato Nazarbaev anche l’ultimo segretario del Pcus kazako fino proprio al 1991. In questi anni mentre la forbice delle ricchezze sociali si allargava a dismisura si è formato nelle grandi metropoli (Alma Ata e Astana – ora Nur-Sultan) un piccolo strato di classe media urbana che ha mostrato sempre più stanchezza per la corruzione, il nepotismo, l’autoritarismo e la scarsa mobilità sociale che affascia il paese. Questi strati sociali sono anche quelli più sensibili alle argomentazioni prettamente politiche come il fatto che non se ne poteva più di Nazarbaev, l’insoddisfazione per il governo di Tokayev, per un sistema di partiti rigido e antidemocratico, per l’esistenza di leader locali non eletti e così via. Se elementi di “rivoluzione arancione” ci sono nella vicenda kazaka si annidano in questi strati e in queste città dove da sempre sono state attive le ong occidentali, le associazioni culturali turche e la presunta base di Mukhtar Ablyazov, un ex banchiere bancarottiere che guida il partito della Scelta Democratica del Kazakistan, oggi in esilio a Kiev, la cui influenza è scarsa o nulla. Secondo i cospirazionisti di destra e di sinistra però sarebbe stato lui a orchestrare la rivolta per far giungere Putin alle trattative con la Nato – che iniziano il 10 gennaio – debole e impaurito. Tuttavia tutti gli organi informativi russi più accreditati continuano a ripetere che «non esiste alcuna prova o indizio» che la rivolta sia stata manovrata o perfino programmata dall’estero.

Le reazioni soft del resto del mondo

La tesi del “ruolo di forza straniere” viene rilanciata in queste ore per evidenti motivi anche dal ministero degli Esteri russo con un comunicato ad hoc ma senza troppa convinzione. Putin appare, dietro le quinte, convinto che i margini di manovra dell’attuale regime siano stretti, ma non sembra aver altra scelta oggi che sostenere il presidente in carica, un po’ come avvenne nel 2020 con la Bielorussia di Lukashenka. In Russia e a Mosca in particolare vivono molti migranti centroasiatici con cui il potere russo non vuole avere attriti. Anche per questo l’intervento dei soldati russi è stato presentato come un “intervento pacificatorio”.

«I pacificatori armati non portano pace»: infatti si parla di centinaia di morti, militari decapitati, feriti e migliaia di arresti, dopo l’arrivo delle truppe del Csto

Del resto anche i media occidentali hanno evitato – almeno finora – di suonare la grancassa della propaganda antirussa e i motivi sono evidenti: ci sono grandi investimenti stranieri nel paese che ora rischiano di sfumare o di subire pesanti perdite a causa del clima interno del paese – tra cui quelli dei Paesi Bassi, che rimangono il più grande investitore del paese con 3,3 miliardi di dollari, seguiti da Stati Uniti (2,1 miliardi di dollari), Svizzera (1,3 miliardi di dollari), Russia (704. 9 milioni di dollari), Cina, con i suoi 508,7 milioni di dollari. Quest’ultima come spesso le succede ha mostrato per ora il suo solito volto di softpower rifiutandosi di commentare gli avvenimenti.

La situazione per Putin già complessa ai suoi confini occidentali ora potrebbe diventare non agevole anche a oriente. Anche perché la resistenza della classe operaia che non arretrerà, potrebbe impedire quella “riforma dall’alto” del regime interno che la presidenza Toqaev ora sembra pronta a compiere.

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Variante turca nella recrudescenza dei bagliori della Guerra Fredda 2.0 https://ogzero.org/variante-turca-in-un-bagliore-di-guerra-fredda-2-0/ Tue, 26 Oct 2021 11:41:13 +0000 https://ogzero.org/?p=5237 Una rinnovata intensa attività dell’intelligence mondiale (con la variante turca) ha allarmato ultimamente gli esperti di spionaggio. In particolare decisioni di pubblico dominio, come il dimezzamento dei rappresentanti russi nell’ufficio di collaborazione tra Nato e Russia – indicati come agenti sotto copertura –, s’intrecciano con manovre più nascoste che preludono a un muscolare confronto militare […]

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Una rinnovata intensa attività dell’intelligence mondiale (con la variante turca) ha allarmato ultimamente gli esperti di spionaggio. In particolare decisioni di pubblico dominio, come il dimezzamento dei rappresentanti russi nell’ufficio di collaborazione tra Nato e Russia – indicati come agenti sotto copertura –, s’intrecciano con manovre più nascoste che preludono a un muscolare confronto militare e dunque a operazioni di spionaggio di cui i più raffinati analisti si stanno occupando per rilevare indiscrezioni e metterle in fila nel tentativo di restituire un quadro più chiaro dell’intricato mosaico che si va disegnando sullo scacchiere internazionale. Tutto ciò capita in occasione dell’uscita del primo volume frutto degli approfondimenti di OGzero, La spada e lo scudo, scritto per noi da Yurii Colombo per tentare di chiarire storia, modalità e tensioni interne ed esterne ai servizi segreti russi.

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Questo articolo va a illustrare il doppio binario su cui si trovano a lavorare i servizi russi: l’offensiva occidentale volta a ridimensionare l’influenza di Mosca sui paesi ai confini europei all’indomani del ritiro dall’Afghanistan sta producendo un piano di contenimento e difesa globale per l’area europea nel caso di attacco russo (il primo dopo la fine della Guerra Fredda). Contemporaneamente i servizi si trovano ad affrontare un rinnovato attivismo del controspionaggio turco che ha a sua volta operato arresti di agenti russi, che tradizionalmente stanziano a Istanbul con l’incarico di individuare ed eliminare i leader ceceni; arresti riconducibili all’epilogo della Guerra siriana con lo sgombero degli alleati turchi da Idlib, ma che collocano i servizi di Ankara in una posizione di battitore semilibero, in opposizione e collegato da accordi sia con l’Occidente (la Nato) sia con la Russia (Astana, non ancora messa in soffitta).


Tensioni tra apparati spionistici, preludio di confronti militari?

Lo scontro tra Russia e i paesi della Nato, con la recentissima sospensione delle reciproche rappresentanze a Mosca e Bruxelles è entrata in una nuova fase. Dal 1° novembre infatti la Federazione ha sospeso ufficialmente la sua rappresentanza presso la Nato e contemporaneamente ha posto sotto sfratto l’ufficio informazioni dell’Alleanza a Mosca. A partire da quella data – come ha ricordato il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov – per i contatti con Mosca, la Nato dovrà rivolgersi all’ambasciatore russo in Belgio. La decisione del Cremlino è giunta come reazione alla decisione della Alleanza Atlantica di ridurre da 20 a 10 i membri della rappresentanza russa a Bruxelles, rendendo impossibile di fatto l’operatività dell’ufficio. La rappresentanza russa era già stata ridotta da 30 a 20 funzionari ai tempi del caso Skripal [il tema è stato sviluppato dall’estensore dell’articolo nel volume La spada e lo scudo]; otto dei dieci funzionari russi rispediti a casa, sarebbero una ritorsione per il presunto coinvolgimento del Gru (i Servizi russi militari per l’attività all’estero) in un attentato contro un deposito di munizioni nella Repubblica Ceca del 2014 [anche per questo episodio si trovano approfondimenti nel volume La spada e lo scudo] anche se il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg ha sostenuto che «non esiste un motivo particolare per le espulsioni dei diplomatici russi», rimandandole semplicemente alla perdurante politica aggressiva russa in Europa.

«La politica della Nato nei confronti della Russia rimane coerente. Abbiamo rafforzato la nostra deterrenza e difesa in risposta alle azioni aggressive della Russia, mentre allo stesso tempo rimaniamo aperti per un dialogo significativo» ha dichiarato a Sky News un funzionario della Nato.

La ricostruzione di Bellingcat dell’attentato del 2014.

Il difficile equilibrio caucasico indispensabile per Mosca

Mosca, dal canto suo, si sente sempre più accerchiata e non si può dire che questa percezione possa essere semplicemente derubricata alla voce “vittimismo” (anche se il Cremlino ha dimostrato di soffrirne talvolta). Le vicende del recente passato, l’addio quasi definitivo della Moldavia dall’area d’influenza russa (il governo filoccidentale di Chişinău comunque è tornato dopo l’esplosione dei prezzi degli idrocarburi di quest’autunno a chiedere con il cappello in mano a Putin gas a prezzi calmierati), la faglia bielorussa e l’instabile alleanza con l’Armenia, impongono alla Russia la massima vigilanza.

Il portavoce presidenziale russo Dmitry Peskov ha affermato con nettezza che la decisione della Nato di espellere i diplomatici russi e le accuse di “attività ostili” hanno completamente minato le prospettive di normalizzazione delle relazioni e di ripresa del dialogo.

Il ministro della difesa russo Sergej Šoigu ha aggiunto – a muso duro – come «l’attuazione del piano di “contenimento” della Nato in Afghanistan è finito in un disastro, che tutto il mondo sta ora affrontando» e ha voluto ricordare a Berlino come andò a finire l’ultima volta che la Germania cercò di trovare uno “spazio vitale” a est.

«Sullo sfondo delle richieste di una deterrenza militare della Russia, la Nato sta costantemente sospingendo le proprie forze verso i nostri confini. Il ministro della difesa tedesco dovrebbe sapere molto bene come nel passato ciò si concluse per la Germania e l’Europa», ha sottolineato il ministro della difesa russo.

Quest’ultima dichiarazione è giunta dopo che il ministro della Difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer, il 21 ottobre, alla domanda se la Nato stesse contemplando scenari di dissuasione della Russia per le regioni del Baltico e del Mar Nero, anche nello spazio aereo con armi nucleari, ha risposto che dovrebbe essere reso molto chiaro alla Russia che anche i paesi occidentali sono pronti a usare tali mezzi. I media tedeschi hanno anche riferito che la Nato si starebbe preparando per un conflitto con la Russia. Il piano di difesa della alleanza occidentale avrebbe definito perimetri e parametri su come replicare a possibili attacchi dalla Russia e alla minaccia terroristica. Un tale piano – se confermato – rappresenterebbe una vera novità visto che tali ipotesi dopo il crollo del muro di Berlino erano stati messi in soffitta, ha fatto rilevare la “Suddeutsche Zeitung”. Del resto come sottolinea il portale russo “Vzglyad” già un mesetto prima, il 22 settembre 2021, i ministri della difesa della Nato avevano firmato un accordo per un fondo tecnologico militare da 1 miliardo di euro. Secondo la Nato questo piano di difesa rappresenta anche una risposta alla decisione di Mosca di mettere in cantiere la produzione di nuove armi nucleari a medio raggio e sviluppare nuovi sistemi d’arma. Le forze armate russe avrebbero persino recentemente testato i robot da combattimento nelle esercitazioni, lavorando all’uso dell’intelligenza artificiale in campo militare e sull’aggiornamento dei sistemi spaziali.

In questo quadro «I ministri della difesa della Nato a Bruxelles hanno adottato giovedì un nuovo piano di difesa globale per l’area europea e nordatlantica dell’alleanza. In esso l’alleanza occidentale definisce come risponderà a possibili attacchi dalla Russia, così come la minaccia del terrorismo in corso. È il primo piano globale di questo tipo dalla fine della Guerra Fredda: copre scenari che vanno da attacchi militari convenzionali e guerra ibrida ad attacchi informatici e disinformazione, così come combinazioni e attacchi simultanei, per esempio nelle regioni del Baltico e del Mar Nero», ha sostenuto Paul-Anton Krueger in un intervento su “RIA Novosti”.

Nave da ricognizione russa nel mar baltico (foto Adriana_R / Shutterstock).

Segnali di riposizionamenti geopolitici dietro il controspionaggio turco

A complicare lo scenario per la Russia, c’è l’attivismo sul piano del confronto spionistico della Turchia, sempre più battitore libero e sempre meno affidabile alleato della Nato. L’8 ottobre a Istanbul (ma la notizia è stata divulgata solo il 22 ottobre) sono state arrestate sei persone accusate di essere agenti dei servizi di intelligence russa. Si tratta di quattro cittadini russi – Abdulla Abdullayev, Ravshan Akhmedov, Beslan Rasaev e Aslanbek Abdulmuslimov – oltre a un cittadino ucraino, Igor Efrim, e un cittadino uzbeko, Amir Yusupov. Il gruppo è accusato di aver violato l’articolo 328 del codice penale turco (“spionaggio politico o militare”), e ora rischiano da 15 a 20 anni di prigionia. Secondo Giancarlo Elia Valori in un articolo pubblicato sul portale “Le Formiche”. L’offensiva ottomana nei confronti della Russia sarebbe da rimandare a un rinnovato asse tra Erdoğan e il consigliere per la sicurezza nazionale degli Emirati arabi uniti, Tahnun bin Zayed al-Nahyan. Secondo Valori, ci sarebbe «voglia di voltare pagina su otto anni di gelide relazioni, cristallizzate dal rovesciamento nel 2013 dell’egiziano Mohamed Morsi, un membro dei Fratelli Musulmani vicino alla Turchia e fermamente osteggiato dagli Emirati Arabi Uniti». In realtà, come rileva il giornale russo “Gazeta.ru”, oggi forse la voce più vicina al Cremlino, il nucleo di intelligence (che sarebbe stato trovato in possesso anche di armi e passaporti falsi) stava lavorando al fine di eliminare alcuni rappresentanti dell’“opposizione cecena” rifugiatisi in Turchia. Ricordiamo che già negli ultimi anni alcuni dei più noti oppositori al regime di Kadyrov a Grozny erano stati oggetti di misteriosi attentati in Germania e in Austria.

Ciò che sorprende in questa vicenda è che per ora il governo di Ankara non ha confermato la notizia e tutte le informazioni provengono dall’agenzia “Anadolu”, anche se il ministero degli esteri russo ha di fatto confermato gli arresti. Una fonte anonima di “Gazeta.ru” sostiene che al centro dell’operazione del controspionaggio turco ci sarebbe in realtà il tentativo della Russia, dopo le sconfitte micidiali degli armeni nei cieli durante la guerra con gli azeri dello scorso anno, di raccogliere informazioni dettagliate sui droni Bayraktar TB2, così come altri nuovi progetti riguardanti altri tipi di armi avanzate. Va ricordato però che questa crisi tra i due paesi non è un temporale scoppiato a ciel sereno. Come abbiamo già rilevato in altri nostri pezzi scritti per OGzero, dopo Astana i rapporti tra Russia e Turchia hanno continuato a volgere al brutto. All’inizio di ottobre, il capo della diplomazia turca Mevlüt Çavuşoğlu è intervenuto al Forum sulla sicurezza di Varsavia ribadendo necessità di sostenere l’Ucraina nel suo tentativo di entrare nella Nato. Inoltre, si è venuto a sapere in quell’occasione che i militari turchi starebbero addestrando i loro colleghi ucraini in tattiche di guerriglia urbana e secondo l’agenzia di stampa siriana “Sana”, ulteriori unità dell’esercito turco sono state spostate nella provincia siriana di Idlib e si parla insistentemente di una possibile operazione militare contro i paramilitari curdi a Tel Rifat.

I droniBayractar TB2

«A causa di ciò che sta accadendo a Idlib, Turchia e Russia stanno iniziando ad avere ulteriori attriti, ulteriori problemi». Questo è già successo in passato, ha commentato l’analista politico Yashar Niyazbayev: i rapporti dei media turchi «inizialmente suonavano – ha dichiarato – più come una gaffe informativa che come spiegazioni intelligibili in relazione alle spie russe».

La versione che l’arresto dei sei a Istanbul sia da rimandare a possibili omicidi politici contro ex oppositori ceceni è messa in discussione da Ivan Starodubtsev, un esperto di Turchia, autore del libro Russia-Turchia: 500 anni di vicinato tormentato il quale sul suo canale Telegram ha affermato: «deve essere innanzitutto una questione di possesso illegale di armi». Starodubtsev si dice convinto che la mafia cecena e, più in generale quella caucasica, opera attivamente a Istanbul da tempo immemore, e le “rese dei conti” criminali al loro interno sarebbero abbastanza frequenti. Del resto casi di morte di vari boss criminali caucasici per mano dei loro complici e concorrenti non sono rari a Istanbul. Si tratta di una tesi – da non escludere – che però è stata più volte usata dal Fsb ceceno per allontanare da sé accuse e sospetti.

In passato, al contrario, i servizi segreti turchi hanno ripetutamente collegato l’uccisione di ex comandanti di campo e militanti ceceni a Istanbul alle attività dei servizi di sicurezza russi che avrebbero “vendicato” la loro partecipazione a bande e attacchi terroristici dei primi anni Duemila, quando la guerriglia indipendentista raggiunse il suo apice.

Uno dei primi omicidi di più alto profilo ebbe luogo nel dicembre 2008, quando l’ex signore della guerra Islam Dzhanibekov fu ucciso sulla soglia della sua casa nel quartiere Ümraniye di Istanbul. Il killer in quel caso aveva usato una pistola con il silenziatore a doppia canna “Groza”. Nel 2009, l’ex signore della guerra Musa Asayev fu anch’egli ucciso a Istanbul. A quel tempo era noto per essere un rappresentante del terrorista Doku Umarov, coinvolto nella raccolta di denaro per i militanti del radicalismo musulmano.

Infine, nel 2011, tre membri della diaspora cecena, Berg-Khazh Musayev, Rustam Altemirov e Zaurbek Amriyev, erano stati associati al terrorista Doku Umarov e successivamente erano stati uccisi sempre a Istanbul. In Russia, però i tre erano a quell’epoca ricercati in quanto sospettati di aver organizzato un attacco terroristico all’aeroporto internazionale Domodedovo nel gennaio dello stesso anno.

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Kabul post-Usa: il Cremlino corre ai ripari in Centrasia https://ogzero.org/astana-e-realmente-tramontata-l-afghanistan-e-la-ritirata-usa/ Thu, 22 Jul 2021 10:13:50 +0000 https://ogzero.org/?p=4306 Il punto di vista di Yurii Colombo sulla situazione che la Russia si trova ad affrontare con il ritiro delle truppe Usa dal suolo afgano. L’equilibrio dei paesi ex sovietici traballa e Putin si muove cautamente: dopo le vicende in Nagorno-Karabach e di fronte alla conquista neotalebana che potrebbe riportare l’islamismo radicale nei paesi più […]

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Il punto di vista di Yurii Colombo sulla situazione che la Russia si trova ad affrontare con il ritiro delle truppe Usa dal suolo afgano. L’equilibrio dei paesi ex sovietici traballa e Putin si muove cautamente: dopo le vicende in Nagorno-Karabach e di fronte alla conquista neotalebana che potrebbe riportare l’islamismo radicale nei paesi più poveri del Centrasia la Russia non può che trattare con molta cautela direttamente con i Talebani. Al Cremlino si pensa che gli Stati Uniti abbiano intenzione di usare l’Asia centrale come trampolino di lancio per contenere Russia, Cina, Turchia e Iran. Astana è realmente tramontata?

Questo articolo di Yurii Colombo si affianca ad altri due interventi contemporanei ospitati sul sito, uno di Emanuele Giordana e l’altro di Sabrina Moles, completando la panoramica sulla situazione geopolitica afgana in seguito al ritiro delle truppe americane dal paese che abbiamo intrapreso cominciando da una tavola rotonda che li ha visti partecipi e trasmessa in diretta nella serata del 13 luglio da Radio Blackout, un’analisi che poi abbiamo cercato di approfondire nello studium “La solita musica afgana?”, chiedendoci se sarà un altro Afghanistan quello imbandito in questi due mesi di approcci internazionali.


L’ormai prossima conquista da parte dei neotalebani di tutto il territorio afgano sta inquietando non poco il Cremlino. I motivi sono evidenti. Malgrado Mosca non abbia più confini con Kabul, tre paesi centroasiatici ex sovietici (Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan) si trovano a diretto contatto con il paese più conteso dell’area, facendo diventare molto concreta la possibilità di una futura penetrazione in Russia della guerriglia radicale islamica.

Fonte: elaborazione OGzero, da La Grande Illusione. L’Afghanistan in guerra dal 1979, a cura di Emanuele Giordana (Rosenberg & Sellier, 2019)

Dopo che Michail Gorbaciov ordinò il ritiro delle truppe sovietiche, l’Urss e poi la Federazione Russa non cessarono naturalmente di interessarsi alle vicende afgane: sostennero il regime di Najibullah e seppur con accortezza, anche lo sforzo bellico degli Usa e dei suoi alleati per stabilizzare e neocolonizzare il paese dopo l’Undici Settembre. Non è un caso che quando l’amministrazione Trump decise di lasciare l’Afghanistan al suo destino, al Cremlino non hanno avuto ragioni per festeggiare la ritirata americana, anzi. Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha espresso un giudizio molto netto sui 20 anni di presenza Nato in Afghanistan e sulle sue prospettive:

«La situazione tende a un rapido deterioramento, anche nel contesto del ritiro precipitoso delle truppe americane e di altre truppe della Nato, che nei decenni della loro permanenza in questo paese non hanno raggiunto risultati tangibili in termini di stabilizzazione della situazione».

Il confine afgano-tagiko

La Russia però, ancor prima di pensare a strategie ad ampio raggio, ha bisogno di affrontare con urgenza la situazione apertasi al confine tra Afghanistan e Tagikistan con l’inizio dell’estate. Ai primi di luglio 2021, le guardie di frontiera del Tagikistan hanno permesso l’ingresso nel paese a più di 1000 soldati afgani in rotta dopo un duro scontro con i Talebani. Secondo quanto riportato da fonti dell’intelligence russa, i Talebani controllerebbero già oltre il 70 per cento dei 1344 chilometri del confine afgano-tagiko. Che le valutazioni russe siano in linea di massima corrette è stato confermato dal Comitato di Stato per la sicurezza nazionale del Tagikistan, il quale sostiene che i Talebani sarebbero riusciti a impossessarsi dell’ufficio del comandante di frontiera di Ovez nella contea di Hohon. Si tratta del Gorno-Badakhshan, dove gli insediamenti tagiki e afgani si trovano uno di fronte all’altro, separati solo dal fiume Pyanj.

Putin e l’impegno coi tagiki

Vladimir Putin sta monitorando la situazione da vicino e ha espresso dopo un colloquio con il presidente tagiko Emomali Rahmon, anche formalmente la sua disponibilità a fornire sostegno al Tagikistan su base bilaterale e nel quadro dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (l’alleanza militare guidata dalla Russia che ha sostituito il Patto di Varsavia e di cui fanno parte oltre la Federazione Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan l’Armenia e la Bielorussia) se i Talebani dovessero decidere di far penetrare le loro strutture militari nel paese ex sovietico. La Russia ha una presenza non propriamente simbolica in Tagikistan: la sua base militare nel paese è a soli 70 chilometri dal confine afgano e può garantire in pochissimo tempo l’arrivo in zona di truppe e di artiglieria pesante. Tuttavia l’avvertimento del presidente russo per ora sembra più che altro formale come già era avvenuto con l’Armenia in autunno durante la guerra dello scorso autunno nel Nagorno-Karabach. La Russia è rimasta scottata in Afghanistan e ha dovuto constatare che neppure l’alleanza militare più forte del mondo è riuscita a sconfiggere l’islamismo radicale e quindi agirà con molta cautela.

Tanto è vero che mentre rassicurava l’alleato tagiko ha invitato per una due-giorni di colloqui informali a Mosca proprio una delegazione talebana (a dimostrazione che in politica e diplomazia tutto è possibile visto che l’organizzazione musulmana in questione è fuorilegge in Russia).

Una delegazione dell’ufficio politico del movimento talebano composta da quattro persone e guidata dallo sceicco Shahabuddin Delawar ha provato a rassicurare i russi sulle loro intenzioni una volta che avranno conquistato Kabul. I Talebani, secondo il comunicato del ministero degli Esteri russo seguito agli incontri, «hanno confermato il loro interesse a raggiungere una pace sostenibile nel paese attraverso negoziati, tenendo conto degli interessi di tutti i gruppi etnici della popolazione del paese, nonché della loro disponibilità a rispettare i diritti umani, comprese le donne nel quadro delle norme islamiche e delle tradizioni afgane».

I Talebani hanno perfino sostenuto di voler combattere l’Isis sul proprio territorio e di non voler violare i confini degli stati dell’Asia Centrale.

Non credete alle promesse dei Talebani

Forse i Talebani sono cambiati, forse sono meno rigidi ideologicamente e più “glamour”, ma è pur sempre un’organizzazione radicale, è un “ordine della sharia” di cui i russi non si fidano. Si tratta di un approccio condiviso da Andrey Serenko, direttore del centro di analisi della Società russa di scienze politiche, che aggiunge: «Non bisogna credere alle promesse talebane di combattere il narcotraffico, le cui entrate ammontano oggi ad almeno la metà dell’intero bilancio dei Talebani (cioè circa un miliardo di dollari), e neppure bisogna far conto sulle loro promesse di non proliferazione della guerra oltre i confini afgani».

I russi si sarebbero trovati di fronte alla stessa faccia moderata che gli islamici radicali hanno già tentato di mostrare agli americani, anche se nessuno ovviamente può realmente prevedere quali saranno le loro intenzioni una volta che conquisteranno Kabul. Mosca però deve fare di necessità virtù e ha accolto positivamente le rassicurazioni e sottobanco probabilmente si è dimostrata persino disponibile a finanziare la ricostruzione delle infrastrutture afgane proponendo di fornire bollette petrolifere low-cost al futuro governo a trazione talebana.

Turkmeni e uzbeki: di nuovo sotto l’ala di Mosca?

La prudenza del Cremlino è stata intesa perfettamente a Dushanbe tanto è vero che il presidente tagiko Emomali Rahmon ha capito che per ora dovrà difendersi da solo e ha incaricato il ministro della Difesa di mobilitare 20.000 riservisti per rafforzare il confine tagiko-afgano.

Anche gli altri paesi centro-asiatici sono sul chi vive e mostrano preoccupazione, soprattutto il Turkmenistan e l’Uzbekistan, i quali dopo il crollo dell’Urss si erano defilati su posizioni neutrali ma che ora potrebbero essere costretti, almeno temporaneamente, a tornare sotto l’ala protettrice di Mosca.

Le autorità uzbeke hanno già chiuso il ponte di Termez, attraverso il quale i soldati sovietici entrarono in Afghanistan nel 1979 e se ne andarono nel 1989 e il loro esercito sta conducendo esercitazioni su larga scala al confine con l’Afghanistan, mentre nelle scuole si tengono corsi di addestramento militare.

L’arrivo di Lavrov in Uzbekistan.

Il terreno fertile per il successo dei Talebani

Se si esclude il Kazakistan dove la crescita economica sta perfino conducendo alla formazione di una significativa classe media, gli altri paesi centroasiatici restano poverissimi, sono spesso governati da caste corrotte e autoritarie e alimentano costanti flussi migratori verso le metropoli russe.

I Talebani una volta insediatisi al potere potrebbero far diventare il paese la “terra promessa” per radicali e islamisti di tutto il mondo ma soprattutto attirare dalla loro parte quelle frange giovanili del Centrasia che hanno partecipato in migliaia all’avventura dell’Isis in Siria.

Mercenari siriani alleati della Turchia

Tra le fila talebane del resto già adesso si trovano molti giovani militanti di etnia uzbeka, turkmena e tagika, attirati dalle sirene di un’ideologia reazionaria che si presenta radicale e non incline ai compromessi. Ma anche organizzazioni più strutturate e con una certa tradizione come per esempio il Movimento islamico del Turkestan orientale piuttosto attivo nella regione negli ultimi anni, soprattutto in Kirghizistan. Dopo le disfatte subite dall’esercito cinese negli scorsi decenni, questa formazione ha costruito legami stabili anche con i Talebani.

I Talebani verso l’Asia Centrale

Secondo l’editorialista di “Kommersant” Maxim Yushin anche la stessa determinazione dei Talebani a combattere lo Stato Islamico potrebbe rivelarsi un boomerang per i russi e i propri alleati. «I Talebani – scrive Yushin – possono iniziare l’espansione in Asia Centrale, possono cacciare i loro avversari dello Stato Islamico. Ci sarebbero allora decine di migliaia di tagiki e uzbeki, in precedenza arruolati nell’Isis, in fuga dai nuovi padroni del paese che potrebbero riversarsi in Tagikistan e Uzbekistan, il che inevitabilmente aumenterebbe la tensione sociale e politica in questi stati, dove già ci sono abbastanza problemi».

Se la situazione prendesse un tale corso, secondo lo specialista russo di Afghanistan, Mosca allora non potrebbe abbandonare i regimi laici di Dushanbe, Tashkent, Ashgabat e Bishkek al loro destino. «La radicalizzazione della popolazione dell’Asia centrale – conclude Yushin – è uno scenario disastroso per le autorità russe, dato che milioni di persone di queste repubbliche lavorano nel nostro paese. Tutto sommato, da un mal di testa americano, l’Afghanistan molto presto potrebbe trasformarsi in un mal di testa russo».

Un ragionamento che filerebbe fino in fondo se non fosse che una parte dei gruppi dirigenti dei paesi del Centrasia sarebbe tentata di avere relazioni dirette con i Talebani per evitare di tornare a essere delle specie di protettorati russi.

Resta da vedere per la Russia anche quali relazioni stabilire pure con il traballante governo di Kabul. Secondo gli specialisti del Fsb l’esercito afgano sta perdendo la partita con la guerriglia musulmana sul terreno motivazionale come la persero i vietnamiti filoamericani negli anni Sessanta. In teoria il governo in carica dovrebbe avere una struttura di 300.000 uomini bene equipaggiata e dotata di artiglieria pesante che avrebbe agevolmente la meglio contro i 75.000 miliziani talebani. Ma negli ultimi mesi a fronte dell’avanzata dell’opposizione in diverse province, interi distaccamenti governativi, intere tribù, che in precedenza avevano giurato fedeltà a Kabul, avrebbero fatto il più prosaico “salto della quaglia”.

Nessun sostegno a Ghani

Putin continua ovviamente a tenere i contatti con il governo in carica guidato dal presidente Ashraf Ghani provando a capire quanto ancora potrebbe reggere e quanto sia pronto a farsi da parte, alla malaparata, in buon ordine. Secondo un grande esperto di Asia centrale e Afghanistan come Arkady Dubnov,

Mosca non sarebbe pronta ad assicurare il sostegno a Ghani dopo la partenza definitiva degli americani, perché ciò danneggerebbe il dialogo recentemente aperto proprio con i Talebani.

Questi ultimi avrebbero fatto intendere – durante la loro visita moscovita – che la figura di Ghani sarebbe per loro del tutto inaccettabile in qualsiasi ipotesi di governo di coalizione ed è proprio il fatto che lo stesso Ghani cerchi di restare a galla che finisce per irritare Mosca.

Secondo Dubnov, «più a lungo Ghani si aggrappa al potere, maggiore sarà la portata dello spargimento di sangue in Afghanistan e minore sarà l’influenza di Mosca sul futuro governo di Kabul».

E malgrado Kabul abbia fatto di tutto per accreditarsi di fronte a Putin negli ultimi anni, facendo anche scelte bizzarre, come il riconoscimento dell’annessione della Federazione della Crimea nel 2014.

Il tradimento Usa

Mosca non nasconde che vive il ritiro americano come un piccolo tradimento. Quando gli Stati Uniti intervennero in Afghanistan nel 2001, Mosca appoggiò la risoluzione 1368 e più tardi, nel 2008, quando i Talebani iniziarono ad attaccare la rotta pakistana, attraverso la quale veniva effettuato l’80 per cento dei rifornimenti per le truppe della Nato, la Russia garantì all’Alleanza persino il suo spazio aereo. Ora con l’Accordo di Doha, che prevede l’evacuazione delle forze armate statunitensi e la riconciliazione nazionale in Afghanistan, la Russia si è trovata spiazzata di fronte a una mossa che riconosce legittimità all’islamismo radicale e anche per questo ha deciso di trattare direttamente con i Talebani senza ritessere troppo il filo con gli americani.

Al Cremlino si è inteso che gli Stati Uniti non sarebbero tanto interessati a mantenere il controllo sulla situazione in Afghanistan quanto di utilizzare l’Asia centrale come trampolino di lancio per contenere Russia, Cina, Turchia e Iran.

Il ritorno di Astana

Oggi del resto sono le truppe turche a garantire la sicurezza dell’aeroporto di Kabul, la Cina si è offerta di finanziare la ripresa del paese proponendo di farlo entrare di sbieco nel grande progetto della Via della Seta e l’Iran ha già annunciato di volersi proporre come grande mediatore tra Talebani e autorità ufficiali afgane. Se Astana è tramontata, con la ritirata Usa in Afghanistan potrebbe ripresentarsi però in inedite e più estese varianti.

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Stabilizzare Eurasia passando da Erevan https://ogzero.org/tenere-fuori-dal-gioco-washington-e-stabilizzare-l-eurasia/ Sun, 27 Jun 2021 10:00:23 +0000 https://ogzero.org/?p=4050 Sembra che ci sia ancora qualche sparuto paese al mondo in cui la dittatura delle società che realizzano i sondaggi elettorali non spadroneggi: tra questi c’è sicuramente l’Armenia. Nelle settimane precedenti alle elezioni legislative anticipate del 20 giugno, resesi non più procrastinabili dopo la disfatta nella guerra nel Nagorno Karabakh, il premier Nikol Pashinyan era […]

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Sembra che ci sia ancora qualche sparuto paese al mondo in cui la dittatura delle società che realizzano i sondaggi elettorali non spadroneggi: tra questi c’è sicuramente l’Armenia.

Nelle settimane precedenti alle elezioni legislative anticipate del 20 giugno, resesi non più procrastinabili dopo la disfatta nella guerra nel Nagorno Karabakh, il premier Nikol Pashinyan era infatti dato perdente da tutte le rilevazioni delle principali società demoscopiche. Il partner della prestigiosa Gallup International in Armenia – la società Mpg – prevedeva una corsa sul filo di lana di Pashinyan con il suo avversario, l’ex presidente del paese e capo del Blocco Armeno, Robert Kocharian è l’agenzia Ria Novosti, che aveva condotto una rilevazione solo 6 giorni prima del voto, aveva perfino stimato per Kocharyan il 32% delle preferenze contro il 24% di Pashinyan. Inaspettatamente invece il Contratto Civile guidato proprio dal primo ministro Nikol Pashinyan ha fatto saltare il banco ed è decollato al 53,92% dei voti espressi, detronizzando il suo rivale che pur chiamando alla rivalsa contro il disprezzato nemico azero, si è fermato al 21,04%. La terza forza a entrare in parlamento è stata quella guidata dall’ex capo del servizio di sicurezza nazionale del paese Artur Vanetsyan che pur non avendo superato lo sbarramento del 7% (come altri 22 partiti che avevano partecipato alla campagna elettorale) dato che per legge il numero di partiti rappresentati non può essere meno di tre, con il suo 5,2% farà parte lo stesso del consesso legislativo.

Robert Kocharian, lo sconfitto leader del Blocco armeno

Il Blocco armeno ha denunciato brogli ma non è stato preso sul serio neppure dai suoi sostenitori e nessuno è sceso in piazza a protestare a Erevan come invece era successo massicciamente dopo la cocente sconfitta militare dello scorso autunno.

Sviluppi internazionali dopo la sorpresa elettorale

Cosa dunque è successo nelle settimane precedenti al voto da rendere inefficaci le interviste delle società di sondaggio?

Ipotesi sull’incidenza dell’armistizio sul voto

Le elezioni erano in primo luogo un plebiscito sull’armistizio che ha fatto perdere all’Armenia tre quarti del territorio conteso con l’Azerbaijan. La maggioranza degli elettori da questo punto di vista non ha probabilmente cambiato opinione e continua a considerare ancora oggi una “capitolazione” l’accordo di pace firmato sotto l’egida di Mosca, tuttavia è cambiata con il raffreddarsi delle emozioni del momento, la sua percezione della dinamica politica in corso.

«Le elezioni si sono concluse inaspettatamente per molti in Russia, ma questa sorpresa è stata dovuta a sondaggi dubbi o alle valutazioni di alcuni esperti che si sono schierati piuttosto con una delle forze politiche e non hanno fornito un’analisi obiettiva della situazione», ha affermato il ricercatore presso l’Istituto di studi postsovietici e interregionali (Riac) Alexander Gushchin. «Le elezioni hanno dimostrato che la vecchia élite e i suoi leader non sono stati in grado di consolidare attorno a sé la quota principale dell’opinione pubblica armena nemmeno sull’onda dell’insoddisfazione per la sconfitta militare nella seconda guerra del Karabakh. La scia di pubblica negatività verso l’“ex” si è rivelata troppo grande, mentre l’elettorato di Pashinyan è stato mobilitato al massimo» ha osservato ancora Gushchin.

«Le elezioni in Armenia hanno confermato il sostegno alla formula per la futura pace nella regione, elaborata con la mediazione di Mosca lo scorso novembre», sostiene inoltre Andrej Fedorov, direttore del Centro russo per la ricerca politica, su “Kommersant” del 22 giugno 2021. «Se il corso verso la normalizzazione continuerà, per la Russia significherà la possibilità di neutralizzare ai suoi confini meridionali un focolaio di instabilità a lungo termine potenzialmente pericoloso. Allo stesso tempo, il percorso per ridurre il confronto tra Armenia e Azerbaijan dovrebbe facilitare il compito di coinvolgere Baku nei processi di integrazione in Eurasia». Pertanto secondo Fedorov «dopo le elezioni in Armenia, nella nuova fase, la crescente influenza della Russia può essere determinata sia dal mantenimento della pace sia da un ruolo più attivo nella costruzione di nuove relazioni tra le parti coinvolte nel conflitto del Karabakh».

L’emotività dei sondaggi seppellita dalla Realpolitik nelle urne

Ciò che non è risultato credibile – soprattutto ai cittadini armeni che vivono nelle campagne e proverbialmente più saggi e moderati di quelli urbani – è che si possa rimettere in discussione l’accordo raggiunto con il cessate il fuoco o persino riprendere la guerra. Il fatto che Pashinyan, nato e divenuto celebre come attivista dei diritti umani filoccidentale e sostenitore delle esigenze degli strati del lavoro intellettuale, abbia potuto attecchire nell’Armenia profonda e perfino trasformarsi in un politico che guarda a Mosca come ciambella di salvataggio anche nel futuro, è interessante per capire come opinione pubblica e leader possano cambiare pelle rapidamente nel mondo attuale, ma ciò ancora non spiega lo iato tra i polls virtuali che lo davano al 20% e il più del 50% di voti veri ottenuti nei seggi. In realtà – come ha sottolineato Gevorg Mirzayan, professore di Scienze politiche all’Università di Mosca – la maggior parte degli oppositori di Pashinyan è rimasta a casa, e sarebbero loro in maggioranza a formare l’esercito costituito da 1,2 milioni di elettori armeni che non si sono presentati al voto, a cui di fatto va aggiunto quel 17% che ha votato per liste che non avevano alcuna possibilità di entrare in parlamento: due modi di protestare contro la scarsa concretezza di Kocharian piuttosto che un sostegno al premier uscente.

Strategia russa di stabilizzazione e controllo

Questo quadro darebbe qualche chance a Putin di giocare il ruolo di facilitatore del coinvolgimento di Baku nei processi di integrazione in Eurasia e in misura minore di stabilizzazione dei difficili rapporti con la Turchia.

Il fattore più importante del voto, è che la “sacralizzazione” del problema del Karabakh e l’idea di vendetta nazionale non sono già più in cima ai pensieri di ampi strati della società armena, che hanno già altre priorità, in primo luogo la ripresa economica.

Tenere fuori dal gioco Washington

Ad aprile era stata annunciata la costruzione congiunta di una centrale nucleare russo-armena, ulteriore segnale dell’abbraccio economico-energetico russo

Inoltre, la maggioranza degli armeni si è dimostrata più realista del re, comprendendo che nelle condizioni attuali nel Caucaso meridionale e intorno al Artsakh, i partiti “bellicisti” armeni, anche se avessero vinto le elezioni, difficilmente sarebbero stati in grado di capovolgere la situazione a loro favore.

Mosca ha effettivamente tirato un sospiro di sollievo dal voto a Erevan perché garantisce la road-map tripartita definita in autunno e soprattutto la presenza di proprie truppe nella regione per anni. Non è un caso che il giorno dopo il voto senza attendere la conferenza stampa dell’opposizione, il Cremlino ha annunciato il suo «sostegno alla scelta del popolo armeno». Del resto Mosca non solo ha visto quanto Pashinyan nei suoi confronti abbia abbandonato i modi del bizzoso destriero e ora vada al passo come un ubbidiente pony, ma si sia dimostrato negli ultimi mesi un politico accorto. Infatti mentre la diaspora di Parigi e New York si batteva il petto per il Karabakh perduto e l’orgoglio nazionale infranto ma restava a osservare da lontano le vicende patrie, il popolo armeno dimostrava nell’urna più voglia di “normalità” e “pace”, se non proprio con gli invisi azeri almeno con gli altri popoli della regione, russi compresi.

Pashinyan allineato e coperto con il Cremlino

È interessante notare che nel suo primo discorso alla nazione dopo le elezioni, Nikol Pashinyan, da parte sua ha fatto un bel po’ più che un gesto dimostrativo nei confronti della leadership russa. «Esprimo la mia gratitudine alla Federazione Russa, al presidente russo Vladimir Putin e al primo ministro Mikhail Mishustin per il sostegno che hanno fornito all’Armenia e al popolo armeno in questa situazione», ha affermato Pashinyan in Tv. «L’Armenia dovrà approfondire seriamente la cooperazione militare e strategica con la Russia – ha aggiunto il leader armeno – a fronte della politica aggressiva dell’Azerbaijan», ha perfino aggiunto.

Su scala regionale il ruolo di Erevan del resto visto lo stato in cui versa la sua economia e il suo esercito, si riduce a cercare di contrastare l’alleanza sempre più stretta tra Ankara e Baku brandendo come può l’arma del genocidio turco.

Strategia turca di stabilizzazione e controllo

Le cose dalla parte della barricata turcofona si stanno muovendo rapidissimamente. Mentre in Armenia si chiudeva la campagna elettorale, il 15 giugno, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan giungeva a Şuşa, città simbolo della vittoria militare azera di qualche mese fa, dove con Ilham Aliyev, ha firmato una dichiarazione di Alleanza che d’ora in poi per i contraenti si chiamerà “Storica Dichiarazione di Şuşa”. Dietro ai titoli pomposi, a Şuşa si sono fatti comunque dei concreti passi avanti per quanto riguarda la cooperazione bilaterale nel campo della sicurezza, accordandosi perché l’Azerbaijan crei un «modello ridotto dell’esercito turco». Ankara e Baku conducono regolarmente e già da tempo esercitazioni militari congiunte e operazioni antiterrorismo ma per ora Baku non ha dato alcun segno di voler aderire alla Nato, segno che Ankara potrebbe desiderare avere nelle proprie disponibilità un arsenale e delle truppe autonome e fuori dal controllo Usa.

Allargamento di Astana?

In questa occasione il leader turco ha voluto anche mostrare la sua versione dialogante, diventata la sua postura dominante dell’ultimo periodo: ha chiesto ad Aliyev la normalizzazione delle relazioni con Erevan e ha proposto un format di cooperazione a sei nel Caucaso meridionale, che veda la partecipazione di Turchia, Russia, Azerbaijan, Armenia, Georgia e Iran. L’aver aggiunto nel menù anche l’Iran è un gesto di non poco conto che al Cremlino hanno preso in seria considerazione non solo in vista dei nuovi passi americani di apertura nei confronti del paese islamico ma soprattutto del realismo e del gradualismo con cui la Turchia voglia sviluppare la sua politica egemonica nella regione.

Qualche ora prima, del resto, Erdoğan aveva incontrato il presidente Usa Biden e si era dimostrato anche in questo caso assai disponibile e quasi remissivo malgrado lo “sgambettino stellestrisce” del riconoscimento ufficiale dell’“Olocausto armeno”. Il presidente turco ha promesso a Biden di restare “alleato sincero della Nato” ma non ha ceduto di un palmo né sulla questione del suo ruolo in Siria e Libia né sull’acquisto di sistemi missilistici antiaerei russi S-400.

Biden era venuto in Europa anche per verificare lo stato delle relazioni con Georgia e Ucraina in vista di una loro futura adesione alla Nato ma anche su questo terreno, dovrà tenere conto delle mosse bilaterali degli attori regionali.

Fatale attrazione caucasica per Erdoğan

Recentemente il primo ministro di Tblisi, Irakli Garibashvili, ha visitato Ankara proponendosi ai turchi come potenziale secondo alleato regionale, malgrado la Georgia sia un paese cristiano: una eventualità che sembra piacere ad Erdoğan proprio in vista dell’ingresso del paese ex sovietico nella Alleanza atlantica.

Tenere fuori dal gioco Washington

Ma la Georgia è attiva anche in direzione di un altro paese chiave della zona e cioè l’Ucraina anch’essa predestinata a diventare membro della Nato nonché dell’Unione europea. Tblisi è più avanti nel processo di adesione ma grazie al “fattore Donbass” che potrebbe tornare a essere dirimente in Europa in qualsiasi momento, Kiev potrebbe superarla al fotofinish, malgrado la Georgia abbia anch’essa in Abkhazia e Ossezia del Sud dei contenziosi aperti con la Russia e proprio la comune avversione a essa è il mastice che tiene insieme i due paesi ex sovietici.

Siamo a un passaggio fondamentale. L’ascendente di Ankara cerca di emarginare la declinante Mosca nella regione senza però per il momento farsela nemica come invece è nelle corde di Ucraina e Georgia: tenere fuori dal gioco Washington è nel loro comune interesse.

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Il trailer del kolossal hollywoodiano “America is back” https://ogzero.org/america-is-back-la-regia-del-road-movie-di-biden/ Sun, 20 Jun 2021 01:34:58 +0000 https://ogzero.org/?p=3925 «America is back» in Europe, but… Biden torna a proporre la politica multipolare americana, che mira a presentare gli Stati Uniti come riferimento di un’ampia alleanza in cui si distribuiscono patenti di democrazia a tutti, tollerando in parte anche il regime putiniano (o comunque mostrando di voler aprire un dialogo), purché si adotti un profilo […]

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«America is back» in Europe, but… Biden torna a proporre la politica multipolare americana, che mira a presentare gli Stati Uniti come riferimento di un’ampia alleanza in cui si distribuiscono patenti di democrazia a tutti, tollerando in parte anche il regime putiniano (o comunque mostrando di voler aprire un dialogo), purché si adotti un profilo intransigente verso Pechino o si rendano meno stretti legami e partnership con l’unico rivale riconosciuto. Infatti la regia raffinata ha dapprima restituito una riunione di famiglia nella verde Cornovaglia, dove il vecchio patriarca è venuto in Europa a cercare location adatte per una ridistribuzione dei ruoli all’interno del consesso europeo, lanciando segnali distensivi di collaborazione che superassero l’isolazionismo dell’amministrazione precedente – di cui si sono frettolosamente cancellati gli sgarbi –, ma sancendo la globalizzazione e lo spostamento dal marcato eurocentrismo, già abbandonato da Obama, all’asse indopacifico.

America is back

Ripulitura preventiva delle deiezioni trumpiane

E di nuovo la trama del film lascia trasparire il messaggio anticinese dell’intreccio.

Il Convitato di Pietra

E allora scomponendo il film del viaggio di formazione della presidenza Biden nei suoi duetti, cominceremmo con quello non ancora avvenuto tra Xi Jinping e Biden – ma di cui c’è già stata una prolessi nei titoli di coda, immaginandolo nella cornice del G20 italiano, in scena esattamente vent’anni dopo quello tragico genovese. Ci pare che cominciare l’analisi dei fotogrammi del road-movie europeo di Biden dal fuoricampo in cui è rimasto collocato per tutto il tempo il co-protagonista principale sia l’ottica attraverso cui assistere almeno a una sequenza della pellicola. Quella che consideriamo centrale e che ci sforziamo di inquadrare come nel film Dark Passage con Humphrey Bogart (regia di Delmer Davies per un titolo perfetto nel 1947 come per sottotitolare l’attuale film di Biden), in cui Vincent non viene inquadrato se non con particolari degli occhi e invece la cinecamera coincide con il suo sguardo, cercando di restituire l’ottica della soggettiva fuori scena di Xi Jinping, il controcampo del Convitato.

Don Giovanni 1979, di Joseph Losey

Per quanto sommessa, accennata e rimasta impigliata nel resto della trama, fatta invece di spettacolari palcoscenici e forti illuminazioni (quasi a voler spostare l’attenzione su episodi collaterali, come avviene spesso nei road-movie); la mano tesa del Convitato di pietra ha preso il fuoriscena come nel finale del Don Giovanni, relegando l’annuncio di un percorso delle merci alternativo a quello promosso dalla Bri, la nuova Via della seta, al rango del catalogo di Leporello: una smargiassata fin dall’allitterazione del nome Build Back Better World.

Il messaggio principale del film, sempre sottotraccia, è che vanno ridimensionati innanzitutto i rapporti commerciali con i cinesi, ma fingendo che si tratti di una guerra morale alle violazioni dei diritti civili.

E parlando di questa sequenza con Sabrina Moles (@moles_sabrina), il film si è trasformato in un viaggio interstellare, con al centro la nuova piattaforma spaziale cinese, che ha costretto Biden a un aggiornamento dell’articolo 5 dell’accordo Nato, estendendolo al dominio spaziale:

“La pantomima globalizzata della Guerra morale alla Cina”.

Il servo di due padroni

Di tutta la pantomima messa in scena nel viaggio di formazione del mondo di Biden infatti, riconsiderando il tourbillon dei messaggi mediatici, una volta conclusa la kermesse e lasciate decantare le dichiarazioni, spenti i riflettori, a posteriori nel consuntivo non si annoverano risultati apparentemente tangibili, ma è stata come una proiezione di slide della sceneggiatura da recitare nei prossimi anni della serie-tv che potrebbe intitolarsi The Great Game. The Revenge, la cui regia è affidata a Biden, con Blinken aiutoregista nelle sequenze del ritiro da Kabul, quindi al di là di ogni simulacro simbolico – che non avrà mai lo stesso impatto dell’ultimo elicottero che il 1° maggio 1975 lasciava l’ambasciata americana in Vietnam, anche se si tratta proprio di quel remake – offerto in pasto alle telecamere i nodi del film vero ruotano ancora attorno a Donbass e Crimea – come ci racconterà Yurii Colombo alla fine di questo articolo – e di conseguenza alle ex repubbliche sovietiche, che ritroviamo nel discorso di Baku, pronunciato da Erdoğan guarda caso proprio il giorno dopo il ritorno nell’alveo della Nato, con il compito speciale di andarsi a immolare in Afghanistan, come già avvenne quando la Turchia dovette pagare l’ingresso nella Nato dissanguandosi nella Guerra di Corea.

M.A.S.H., 1970, regia di Robert Altman

Stavolta il presidente turco di buon grado allunga i suoi tentacoli anche verso il Khorasan con la benevolenza degli Usa, che gli delegano così controllo militare, sfruttamento e ricostruzione di un’area fondamentale per il passaggio di merci tra XInjiang uyguro, Karakum turkmeno, Pamir tajiko, HinduKush multitribale, Karakorum e pianure indo-pakistane… monti e pianure persiane. Nomi evocativi di pellicole in costumi di mercanti: l’autentica antica Via della seta – il copyright – da contrapporre alla Belt Road Initiative per conto americano.

D’altronde nel duetto realmente interpretato con Putin si è giunti a una comunità di intenti («un dialogo bilaterale sulla “stabilità strategica”») su quel territorio che ha visto i due imperialismi rimanere impantanati nella Campagna d’Afghanistan.  Come riporta l’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della Luiss: «Nella conferenza stampa tenuta da Biden, a seguito dell’incontro che è durato circa 3 ore, il presidente ha affermato di aver discusso dell’interesse condiviso di Stati Uniti e Russia nel prevenire «una recrudescenza del terrorismo in Afghanistan»; [anche se ci sono prove del “Times” di aiuti economici e in armi elargiti da Mosca ai Talebani, ai quali erano anche state promesse taglie dal Cremlino per ogni soldato statunitense ucciso]. Un giornalista gli ha quindi chiesto se avesse fatto qualche domanda a Putin al riguardo. «No, è stato lui a chiedere dell’Afghanistan. Ha detto che spera che saremo in grado di mantenere un po’ di pace e sicurezza, e io ho detto: “questo dipende molto da voi”».

Dunque si direbbe che entrambe le potenze appaltino a Erdoğan il vuoto lasciato dal ritiro, ma poi gli affari azeri hanno inebriato il presidente turco spingendolo a parlare di imminente unità d’intenti tra 6 nazioni, tra queste le tre che hanno animato i protocolli di Astana e che si inserivano nella assenza trumpiana per spartirsi l’area (Russia, Turchia, Iran). Il colpo di scena turco di Baku allarga il novero a Georgia, Azerbaijan e… Armenia (!), dichiarando nella composizione dell’accordo quanto sia centrale proprio l’area caucasica, un’area che Putin non si può permettere sia sotto il controllo occidentale. E in questo caso l’ottica adottata nelle proiezioni della trama del film imbastita a Bruxelles, a cui hanno assistito Biden e Erdoğan alterna quello del documentario in stile Settimana Incom, con la promozione delle prodezze dei droni Bayraktar in Caucaso; mentre l’altro stile retorico utile per inquadrare lo sforzo richiesto alla Turchia in territorio libico non è più quello del materiale mediatico per l’arruolamento nelle Private military and security companies, quanto la brochure patinata delle imprese edili per la ricostruzione con l’imprimatur di Biden.

Illuminante risulta cercare di adottare lo sguardo di Ankara sull’incontro di Bruxelles, il primo tra Biden e Erdoğan, usando la lucida ironia di Murat Cinar (@muratcinar):
“Finto multilateralismo al servizio di reali democrature affaristiche”.

Il Terzo Uomo

Dunque in qualche modo Erdoğan dimostra ambiguità anche genuflettendosi a Bruxelles il giorno prima da Biden e quello successivo intraprendendo anche lui un road-movie interno all’Azerbaijan per controllare appalti e rilanciare l’alleanza di Astana allargata a un’area limitrofa e complementare a quella che coinvolge l’Afghanistan… e che è fondamentale per la politica di Putin, di cui il presidente turco rimane alleato. 

Proprio del terzo incontro del Gran Tour bideniano rimane da parlare, dopo la presenza inquietante del Convitato ingombrante Xi e l’infido Erdoğan, la scena madre e l’epilogo del viaggio di formazione vedeva la compresenza nell’inquadratura del “Killer dagli occhi di ghiaccio e senz’anima”, come lo stesso Biden aveva definito Putin

America is back

L’occhio che uccide, 1960, di Powell e Pressburger

Il consumato stratega aveva organizzato la sfida non tanto come nel torneo di The Quick and the Dead (Sam Raimi, 1995), piuttosto spingendo sull’atmosfera da spy story, per evocare i giornalisti uccisi e i dissidenti avvelenati, senza con questo appendere il Cremlino al cappio dei diritti umani e quindi cambiando registro narrativo l’incontro non ha risolto i veri nodi che rappresentano il dissidio tra Russia e Stati Uniti, ma si è trasformato in una partita a scacchi in stallo… riguardo al possibile  scacco di uno dei due contendenti possiamo seguire lo sguardo moscovita di Yurii Colombo (@matrioska2021):

“Le relazioni insolubili”.

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n. 8 – Siria (IV): dopo la Guerra cosa può cambiare? https://ogzero.org/una-nuova-primavera-araba-siria-le-dinamiche-attuali-del-conflitto-2020-2021/ Wed, 26 May 2021 11:33:41 +0000 https://ogzero.org/?p=3634 Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone di quattro interventi, ognuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe […]

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Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone di quattro interventi, ognuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe umanitaria che ha fatto seguito allo scatenarsi del conflitto siriano dell’ultimo decennio. Dove porteranno questi anni di Guerra civile? Potrà riemergere una nuova Primavera araba?

L’autrice ha dapprima analizzato le attuali condizioni di siriani ormai integrati in realtà esterne al paese ai quali ora viene chiesto di rimpatriare, rischiando la vita e rinunciando alla nuova esistenza costruita faticosamente in esilio. L’analisi è proseguita valutando le condizioni economiche e umanitarie in cui si tengono le elezioni il 26 maggio, senza dimenticare la specificità della Primavera araba nelle diverse regioni siriane; ha proseguito poi collegando le modalità di protesta alla particolare peculiarità del regime alauita del clan al-Assad; le fasi della politica di Bashir – fino alla Primavera araba e il conflitto esploso nel 2011, che ha fatto del territorio siriano uno scenario usato dalle potenze globali e locali per imporre la propria supremazia. Da ultimo in questo articolo ancora più dedicato alla geopolitica si cerca di fare il punto dei conflitti nelle 4 partizioni di territorio tra i vari protagonisti scontratisi in particolare nell’ultimo biennio.


n. 8, parte IV

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il conflitto siriano: gli ultimi due anni di Guerra

Come già notato nel precedente articolo sulla situazione in Siria, in particolare con riferimento alle pregresse tappe del conflitto – ormai perdurante da oltre dieci anni –, appare evidente l’interazione in esso tra le milizie appartenenti alle forze governative, le potenze della regione mediorientale e quelle internazionali.

La ripartizione ottomana e le relazioni locali del territorio

Più specificatamente la presenza di attori regionali nel territorio siriano deve rinvenirsi in ragione di alcune dinamiche dal punto di vista storico. Prima della dissoluzione dell’Impero Ottomano le province mediorientali erano determinate non solo da suddivisioni meramente amministrative quanto anche da alcune realtà informali. Attigue alle regioni dominate da Istanbul infatti vi erano delle subregioni che venivano gestite dalle élites locali e che possedevano una certa autonomia rispetto al governo centrale dell’impero perseguendo abitualmente i propri interessi politici ed economici e interagendo tra di loro. Citiamo come caso esemplificativo del fenomeno in questione le relazioni tra le città di Damasco e Aleppo con Nablus, oggi città della Cisgiordania. Allo stesso tempo nelle zone rurali i gruppi comunitari stanziati in prossimità del monte druso-maronita, nell’attuale stato libanese, intrattenevano i loro rapporti con i gruppi residenti nelle montagne alauite a est di Latakia, nell’attuale territorio siriano. Tuttavia la creazione degli stati nazionali non prese in considerazione né le suddivisioni amministrative né quelle informali, sia cittadine che rurali, preesistenti nell’area.

A ogni modo molte delle relazioni di cui sopra sono rimaste intatte anche a fronte delle suddivisioni coloniali dei territori dell’impero ottomano: basti pensare agli scambi commerciali che vi sono oggi tra la pianura di Hims in Siria e Hermel in Libano, o tra la città siriana di Dara’a e quella giordana di Mafraq.

Le comunità locali sono in ogni caso ancora oggi consapevoli della sovrapposizione tra la realtà nazionale e quella locale caratterizzata dalla reciprocità con altre realtà dell’area mediorientale.

Tali comunità locali sono solite riferirsi all’una o all’altra a seconda degli interessi in gioco.

Con riferimento al conflitto in corso in Siria queste duplici dimensioni spiegano le ragioni per le quali molti miliziani sciiti, provenienti dall’Iraq, siano andati a combattere in Siria tra le milizie leali al governo di Assad sulla base di una presunta necessità di proteggere i luoghi santi sciiti dagli attacchi violenti della comunità sunnita. Stesso fenomeno si può considerare rispetto alle forze di opposizione sunnite al regime di Damasco nelle quali, dopo pochi mesi dall’inizio del conflitto, sono confluiti i militanti estremisti islamici provenienti da altri paesi del Medioriente per compiere il jihad che tuttavia non aveva alcun apparente legame con le proteste del 2011 da parte delle forze di opposizione contro Assad.

Protagonisti, accordi internazionali e…

Le potenze internazionali nel conflitto siriano riconducibili a strategie statali attualmente sono in particolare: l’Iran e la Russia a sostegno delle forze governative di Assad, la Turchia che combatte a favore di alcune delle forze ribelli che operano nel Nord del paese e gli Usa a supporto delle milizie curde. Quello che appare chiaro è che il governo del regime di al-Assad, così come d’altro canto le forze di opposizione, difficilmente possono attualmente determinare vittorie decisive nel conflitto in corso a loro favore senza l’appoggio delle potenze estere regionali del Medioriente e internazionali.

Tuttavia, a intervenire in Siria non vi sono solo attori regionali o internazionali – militari e politici statali – ma anche attori umanitari e militari internazionali non statali, nonché numerose ong straniere.

A tal proposito va menzionato il ruolo delle Nazioni Unite e specificatamente quello del Consiglio di Sicurezza – nel quale tra i membri permanenti vi è la Russia ma non la Turchia – nonché quello della Nato, nel quale invece tra i membri vi è la Turchia (dal 1952) e ovviamente non la Russia. Ricordiamo che Russia e Turchia sono al momento le due principali potenze straniere presenti nel paese. Inoltre la missione Onu di supervisione delle Nazioni Unite in Siria istituita dalla Risoluzione n. 2043 del Consiglio di Sicurezza del 21 aprile 2012 venne sospesa nel giro di pochi mesi. In tale conflitto l’Onu più volte è uscita sconfitta dal suo ruolo di risolutore pacifico. Al riguardo, occorre invece soffermarsi sul Processo di Astana nel quale le Nazioni Unite svolgono un ruolo di osservatore permanente.

Il processo di Astana è un processo finalizzato all’instaurazione di un sistema di pace in Siria siglato da Turchia, Russia e Iran – complementare a quello ufficiale dell’Onu a Ginevra – iniziato a dicembre del 2016 con i negoziati nella capitale del Kazakhistan, grazie all’iniziativa diplomatica dei suddetti paesi, dopo l’intervento armato della Russia e al fine di realizzare gli obiettivi della risoluzione n. 2254 delle Nazioni Unite con la quale sono state tracciate le linee guida verso una transizione politica del conflitto guidata dagli stessi siriani. Tale accordo nel 2017 ha portato alla definizione di quattro zone di “de-escalation” del conflitto. L’accordo avrebbe dovuto coinvolgere a partire dal 2018 (Accordo di Sochi) insieme ai diplomatici delle tre nazioni, anche i rappresentanti del regime di al-Assad e una parte delle forze di opposizione, ma, come detto in precedenza, l’accordo è stato più volte violato nel 2019 dalle potenze contraenti.

… ripartizione in 4 zone di controllo

Il 5 marzo del 2020 Mosca e Ankara – sempre all’interno del processo di Astana – hanno raggiunto un’altra importante intesa che prevede una zona di sicurezza lungo l’autostrada M4 che congiunge Aleppo alla costa e rispetto alla quale viene garantito il pattugliamento da parte di militari russi e turchi. Il 16 febbraio del 2021 si è siglato un ulteriore accordo tra le parti sempre in linea con lo spirito del Processo di Astana avente come oggetto l’elaborazione di una costituzione per il dopoguerra, la transizione politica nel paese nonché il ritorno in sicurezza dei rifugiati.

Tutto ciò premesso, si può affermare che nell’ultimo anno il conflitto siriano non si è caratterizzato per interventi militari dispiegati su larga scala da parte di tutti gli attori presenti nelle aree sotto il controllo del regime, ma il paese rimane comunque intrappolato nel conflitto armato per i continui scontri nell’area a Nordovest e di quella a Nordest, ossia due delle tre zone che costituiscono oggi la ripartizione del paese nelle cosiddette “Sirie”. Come accennato dunque occorre far riferimento per un’analisi degli accadimenti bellici più recenti – ossia quelli dal 2020 a oggi – a questa ripartizione geografica, analizzando contestualmente le azioni militari più rilevanti di ogni singolo attore regionale e internazionale presente in Siria che, come detto, sono i principali fautori delle dinamiche del conflitto iniziato nel 2011.

1) I recenti sviluppi nella zona sotto il controllo governativo e il Sud del paese:

Russia e Israele in Siria

Con lo Stato d’Israele il 18 febbraio 2021 il presidente Bashar al-Assad ha raggiunto un’intesa relativa allo scambio di prigionieri, un israeliano e due siriani, in conseguenza di negoziati condotti dalla Russia. Secondo alcune fonti israeliane, inoltre, sempre nel mese di febbraio del 2021 il premier Benjamin Netanyahu e il presidente Vladimir Putin hanno tenuto colloqui telefonici nel corso dei quali Tel Aviv avrebbe chiesto a Mosca l’assistenza per le questioni “umanitarie” riguardanti la Siria. Poco dopo la notizia della liberazione degli ostaggi da entrambe le parti è stato anche comunicato che il consigliere per la sicurezza israeliano si era recato a Mosca per una visita diplomatica. Non si comprende bene se questo possa essere considerato un primo passo verso un tentativo di ristabilire un rapporto di fiducia con la Russia:

in realtà passare da intese a livello umanitario a possibili intese tra le due nazioni sul piano militare risulta a oggi molto difficile, considerata la presenza regionale iraniana nel conflitto alla base dei continui attacchi israeliani, prevalentemente raid missilistici, nei territori siriani come avvenuto di recente.

Il 22 aprile 2021 nel Sud di Israele è esploso un missile terra-aria al quale Tel Aviv ha risposto con il lancio di raid aerei contro obiettivi in prossimità della capitale Damasco come aveva già fatto in passato: l’attacco siriano poiché realizzato in un’area vicino al reattore nucleare di Dimona aveva suscitato preoccupazione nello stato israeliano.

Successivamente però è stato accertato che il missile proveniente dalla Siria non era frutto di un intervento militare deliberato contro il territorio israeliano ma si trattava – secondo “The Time of Israel” – di un missile antiaereo vagante lanciato come reazione contro un caccia israeliano, durante uno scontro aereo tra i due paesi avente a oggetto alcuni obiettivi nelle Alture del Golan. Inoltre è stato successivamente precisato che il missile non ha colpito il reattore, avendo interessato un’area a 30 chilometri di distanza dallo stesso.

Iran e Israele in Siria

Le tensioni tra Israele e Iran si sono intensificate recentemente sia a causa della decisione iraniana di proseguire le ricerche del processo di arricchimento dell’uranio al 60 per cento – il livello più elevato finora raggiunto – sia per l’incidente presso l’impianto nucleare iraniano a Natanz del quale Israele ritiene responsabile l’Iran. In precedenza, Israele nel conflitto siriano si è più che altro resa responsabile di attacchi missilistici contro il gruppo libanese Hezbollah – alleato dell’Iran – cercando in ogni modo di evitare l’inserimento iraniano nelle fazioni militari presenti nel territorio siriano.

Israele percepisce l’Iran come una minaccia alla propria esistenza nell’area mediorientale. Le dichiarazioni del capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Aviv Kochavi rilasciate nel 2021 e riprese da Reuters, sono state chiare: «Gli attacchi missilistici israeliani nel 2020 sono riusciti a evitare il trinceramento dell’Iran in Siria, ma abbiamo ancora molta strada da fare».

Il ministro degli Esteri iraniano ha replicato che Teheran continuerà la sua politica di resistenza contro il potere statunitense e israeliano nella regione mediorientale.

Dal 2020 a oggi gli attacchi israeliani, tuttavia, non si sono più limitati alle Alture del Golan o nella parte della Siria meridionale – al confine con lo Stato d’Israele – o vicino Damasco ma, come vedremo, anche verso Nordovest contro la città di Aleppo, quella di Hama, al confine con l’Iraq, e a Homs. Un esempio di questo espansionismo militare israeliano è l’attacco missilistico dello scorso 5 maggio verso Latakia.

Va invece qui menzionato l’attacco avvenuto 24 ore dopo, ossia il 6 maggio 2021, da parte di Israele contro il governatorato di Quneitra a Sudovest della Siria: gli obiettivi del raid israeliano, secondo gli attivisti umani presenti nella zona, sarebbero state le postazioni e le truppe a sostegno del governo di Assad.

L’Isis invece è riuscito a stabilire nel 2021 una sua roccaforte nella regione di Badia collocata in una zona desertica che va dal Sudest al Nordest del Paese difficilmente raggiungibile da carri armati o aerei da guerra da parte delle forze lealiste che proprio da qui subiscono gli improvvisi attacchi del gruppo terrorista.

2) I recenti conflitti nella Zona a Nord e Nordovest del paese:

Accordi e interessi contrastanti nel Gruppo di Astana

Il 5 maggio del 2021 le forze di difesa siriane hanno intercettato un attacco missilistico di Israele contro diverse aree a nordovest della Siria, e uno dei missili, ha causato un morto e sei feriti. L’esercito siriano ha dichiarato di essere riuscito ad intercettare più missili israeliani. Più precisamente alcuni di questi hanno colpito la città di Latakia, Hifa e quella di Maysaf. Secondo alcune fonti delle intelligence occidentali l’intento di Israele sarebbe quello di colpire obiettivi legati all’Iran e presenti in Siria. L’Iran infatti sostiene le milizie di Hezbollah che in Siria controllano non solo le aree meridionali e orientali, le zone di frontiera tra Siria e Libano e alcune aree intorno a Damasco, ma anche zone a Nordovest. A loro volta i militanti di Hezbollah sostengono le forze militari del regime di Assad.

La Russia già nel 2020 si è assicurata una presenza importante nel porto siriano di Tartus e ha mantenuto il suo quartier generale presso l’aeroporto tra Jabla e Latakia, ma deve prestare attenzione continuamente al suo alleato (vedi processo di Astana) e, allo stesso tempo, rivale turco in quanto milizie filoturche in Siria sono di fatto fortemente contrastate dalle forze siro-iraniane e da quelle russe.

Nell’area, a causa della scarsità di risorse finanziare, determinata dalla crisi economica sono diminuite le risorse a disposizione anche del governo di Damasco che si è fortemente indebolito. Tale indigenza ha prodotto delle conseguenze anche sul piano militare determinando una temporanea interruzione dell’intervento delle forze lealiste verso le altre zone (Nordovest e Nordest) che ancora sfuggono al controllo di Assad. Non solo, ma la zona è stata interessata dall’accordo del 5 marzo del 2020 tra Turchia e Russia che ha stabilito il “cessate il fuoco” nella provincia di Idlib e una zona “cuscinetto” – pattugliata dalle forze militari di entrambi i paesi – lungo l’autostrada M4 che congiunge Aleppo a Latakia. Tuttavia nel febbraio del 2021 ancora non era stata riaperta la strada internazionale M4 e i pattugliamenti russi e turchi sono stati spesso ostacolati da gruppi militanti locali costituiti anche da alcuni gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda.

Il nodo jihadista

In conseguenza di tale accordo infatti si è sollevata una parte della popolazione locale che teme un’ulteriore avanzata delle forze lealiste nell’area; invece la coalizione filoturca del Fronte Nazionale per la Liberazione componente dell’Esercito nazionale siriano ha sostenuto l’accordo. Tuttavia, non sono mancati anche gli scontri diretti tra Russia e Turchia come quello compiuto nella giornata del 26 ottobre del 2020 dal governo siriano di Damasco e dalla Russia in una zona al confine tra Siria e Turchia, più precisamente nell’area di Jabal al Dweila nella quale moltissimi siriani sfollati si erano rifugiati.

Alla base della decisione dell’attacco vi sarebbe la volontà di Mosca di colpire uno dei principali gruppi armati sostenuto da Erdoǧan con un intento chiaramente ammonitivo nei confronti della Turchia.

Médecins sans frontières ha dichiarato tale evento fortemente preoccupante per i 78 morti e i numerosi feriti e per il fatto che l’attacco sia stato compiuto in una zona relativamente sicura che tuttavia già il 21 ottobre 2020, era stata oggetto dei bombardamenti in particolare nei villaggi di al-Magarah e di al-Rami occupati dal gruppo islamista militante Hts ossia Hayat Tahir al-Sham – un tempo legato ad al-Qaeda e, come detto sopra, dal Fronte nazionale di liberazione.

Quello del 26 ottobre è stato l’attacco più violento dall’entrata in vigore del cessate il fuoco nel marzo dello stesso anno. Anche nel marzo del 2021 sono aumentati in modo esponenziale gli attacchi da parte delle forze militari che sostengono il regime: in particolare è stato colpito un ospedale presso al-Atarib nei pressi di Aleppo, sono stati sferrati attacchi missilistici da parte dei russi, nella zona al confine con la Turchia, più precisamente in prossimità di Bab al-Hawa. Nel Nord della Siria al momento vi sono circa 60 postazioni militari turche stanziatesi sul territorio proprio in conseguenza dell’intesa tra Mosca e Ankara, in particolare a Idlib, ad Aleppo, a Hama e anche a Latakia.

Va precisato che nell’area l’Hts ha un ruolo prevalente e, dopo alcune tensioni con le forze militari turche, ha adottato un atteggiamento maggiormente distensivo nei confronti della Turchia non manifestato da parte di altri gruppi ancora affiliati ad al-Qaeda in particolare dal gruppo Tanzim Hurras al-Din che invece ha abbandonato l’Hts. Tali gruppi jihadisti estranei a Hts sono divenuti autori di diversi attacchi nell’area Nordovest del paese sia contro le truppe turche che contro quelle russe. In risposta il gruppo Hts nel 2020 ha sferrato una violenta offensiva contro il gruppo Tanzim Hurras al-Din e gli altri gruppi affiliati ad al-Qaeda.

Anche nel 2021 il gruppo HTS ha continuato a colpire le cellule di al-Qaeda presenti nel paese cercando di consolidare maggiormente la propria posizione nella provincia di Idlib, sia per assicurarsi il riconoscimento del ruolo di valido interlocutore locale da parte della Turchia, sia per dimostrare chiaramente di prendere le distanze dagli atti violenti compiuti dai militanti jihadisti d’ispirazione qaedista anch’essi nell’area.

Tuttavia il 12 aprile 2021 le forze militari siriane insieme a quelle russe hanno lanciato decine di raid dalla mattina contro le postazioni del sedicente Stato Islamico: in particolare a Nordovest nelle regioni di Hama e Aleppo. È dall’inizio del 2021, infatti, che l’organizzazione terroristica IS ha continuato ad attaccare l’esercito governativo causando vittime tra le milizie locali e, nonostante le attività di reazione militare poste in essere da Damasco e Mosca, le cellule del sedicente Stato Islamico continuano a permanere nel territorio siriano a Nordovest in particolare nei governatorati di Hama e Homs ma anche, come vedremo in seguito, a nordest a Raqqa e Dayr az Zawr.

Va precisato che l’offensiva delle forze governative e russe nel Nordovest si è verificata in conseguenza di un rapimento di 19 siriani, 11 civili e 8 agenti di polizia, in seguito a un attacco dell’IS, il 16 aprile del 2021 nella regione di Hama, mentre altre 40 persone risultano al momento disperse.

Gli scontri caratterizzati da lancio di missili e attacchi aerei dei gruppi armati locali quali Russia, Turchia, Hts (IS) e gruppi legati ad al-Qaeda continuano quindi a mettere a dura prova la popolazione civile.

3) I recenti conflitti nella Zona a Nordest del paese:

Zona controllata dai curdi: Pyd, Ypg/Ypj, Fds

L’area del Nordest è governata dall’Amministrazione autonoma del Partito dell’Unione democratica curda (Pyd) la cui ala militare è rappresentata dall’Ypg/Ypj, ossia dall’Unità di protezione popolare. Come accennato, in quest’area, più specificatamente nella parte compresa nella regione desertica della Badia, sono fortemente presenti le forze del sedicente Stato Islamico autrici di continui attacchi contro le Forze democratiche siriane (Fds), coalizione a guida statunitense comprendente le milizie governative ma soprattutto le forze curde dell’Ypj/Ypg.

L’IS in questo periodo sta portando avanti una guerriglia sia con le Sdf che contro le milizie filogovernative cercando in ogni modo di destabilizzare l’area e dimostrare che il regime non ha il controllo del territorio. Tuttavia, a marzo del 2021 alcuni jet russi hanno bombardato delle postazioni del sedicente Stato Islamico nella campagna di Hama, e nelle aree desertiche nelle quali il gruppo estremista è stanziato da diverso tempo, mentre lo scorso aprile un raid areo russo ha causato la morte di 200 terroristi nella regione.

Altra formazione estremista jihadista dell’area è il succitato gruppo legato ad al-Qaeda Tanzim Hurras al-Din responsabile nel 2021 di un’offensiva militare ai danni delle milizie russe nella campagna di Raqqa. Infine, sempre nel Nord-Est è divenuta preponderante la presenza della Turchia che ha stretto sotto il proprio controllo alcune importanti città precedentemente sotto l’amministrazione autonoma, come quella di Afrin, e che ostacola militarmente le forze dell’Ypj/Ypg per la loro attiguità con l’ideologia del Pkk – Partito dei lavoratori del Kurdistan – qualificato dalla Turchia ma anche da Stati Uniti e Unione Europea come organizzazione terroristica.

United States are back

Rispetto agli Usa va ricordato che la prima operazione militare del neoeletto presidente Biden nel 2021 è stata quella in Siria del 25 febbraio contro le postazioni delle milizie filoiraniane al confine con l’Iran; il Pentagono ha dichiarato che l’azione militare è stata compiuta come reazione al raid missilistico del 15 febbraio che ha ucciso un contractor e ha ferito militari statunitensi negli avamposti americani del Kurdistan iracheno, azione che sarebbe stata rivendicata da una milizia irachena legata all’Iran. Il Pentagono ha poi riferito che il presidente agirà nell’area per proteggere il personale della coalizione americana.

Il ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria, fortemente promosso dall’amministrazione Trump è in fase di arresto con Biden.

Come nel caso dell’amministrazione Trump, Biden però non intende prendere parte alla destituzione del regime che garantisce la stabilità nell’area mediorientale, quindi da un lato gli Stati Uniti continuano a bloccarlo economicamente per indebolirlo, attraverso l’applicazione delle sanzioni Caesar, dall’altro danno la possibilità ad Assad attraverso la Russia di uscire dal conflitto, sempre tenendo sotto controllo Teheran e il programma sul nucleare.

Rojava e Kurdistan iracheno

Gravi tensioni si sono registrate nella zona del Nordest nello scorso anno, con l’accerchiamento delle città di al-Qamshli e di al-Hasaka, da parte delle Forze Democratiche, già sotto il controllo dell’Amministrazione autonoma curda, disconosciuta da Damasco e guidata dal Democratic union party (Dup). Nell’area persistono anche nel 2021 violenti scontri tra le milizie filogovernative ossia le Forze nazionali di difesa (Ndf) con le Forze democratiche siriane (Fds) a maggioranza curda.

Occorre altresì tener conto degli attacchi tra le Fds e le milizie filoturche: le Fds temono che la Russia e il regime possano giungere a un accordo che implichi la loro espulsione dalla zona. In particolare, il 20 aprile 2021 un veicolo delle Ndf è stato attaccato dalle forze di sicurezza curde Asayish (forze di sicurezza della coalizione delle Fds) e gli scontri si sono protratti in modo così violento da richiedere l’intervento della Russia come mediatore.

Il 26 aprile è stato quindi raggiunto un accordo secondo il quale le forze curde Asayish sono riuscite a ottenere l’allontanamento delle Ndf filogovernative da alcuni quartieri delle città di al-Qamshli e al-Hasaka nelle quali comunque il potere è ancora ripartito tra il regime di Assad e le Fds.

Il 5 marzo 2021 il Ministero della Difesa americano ha dichiarato che la presenza militare russa in Siria viola «il meccanismo di distensione del conflitto» non attenendosi agli accordi stretti con la colazione delle Fds per il contenimento degli scontri nell’area. Ciò risulta particolarmente pericoloso in quanto già nel 2020 si era giunti a uno scontro diretto tra militari russi e statunitensi. Alle accuse portate avanti dal Ministero della Difesa Usa tuttavia la Russia ha risposto affermando che la presenza militare statunitense nel Nordest del paese è illegale e ha dichiarato che «Washington non ha il diritto di criticare l’attività militare legale delle forze armate russe in Siria» in quanto operano «in accordo con il governo del paese».

Ultima questione da analizzare nell’area è quella del campo di al-Hawl nel Nord della Siria al confine con l’Iraq nel quale vivono circa 70.000 persone tra cui circa 11.000 familiari di presunti membri dell’IS: al momento 50.000 membri delle Forze curde sono impegnate in un’operazione di sicurezza volta ad arrestare sostenitori dell’IS nel campo profughi di al-Hawl.

Russia vs. Turchia / Iran vs. Israele

In conclusione le nuove situazioni che oggi preoccupano maggiormente sono: il possibile definitivo deterioramento dei rapporti tra Russia e Turchia rivali tra di loro ma finora sempre scesi a patti; tuttavia, dallo scorso anno i rapporti tra le due potenze si sono resi sempre più logori anche perché la Turchia ha deciso di assumere un ruolo strategico anche in Ucraina contro le milizie filorusse. Se nell’ultimo periodo Mosca aveva annunciato la riapertura dei valichi di frontiera tra le zone sotto il controllo dell’opposizione e quelle sotto il controllo del regime, per alleviare anche la crisi economica in cui si trova il paese, la Turchia ha smentito seccamente tali dichiarazioni.

Altro problema è il possibile affronto militare diretto tra Iran e Israele.

lo scontro tra i due paesi si è ulteriormente esacerbato come abbiamo visto dopo il ritrovamento del missile a Dimona nel quale si trova l’impianto nucleare israeliano. Infine, il governo è ormai arrivato a un tal punto di dipendenza sia dalla Russia che dall’Iran che sarà difficile continuare a sostenere le spese derivanti da tale sostegno in ambito militare, finora mantenuto grazie alla presenza di posti di blocco che estorcono denaro alla popolazione locale senza prospettare un sistema di erogazione di risorse pubbliche a beneficio dei principali alleati nel conflitto.

Un’altra Primavera?

Rispetto a quanto finora riportato si può affermare dunque non solo che il conflitto è tutt’altro che concluso ma che tra circa un decennio si potranno presentare nuovamente i moti del 2011, data la condizione nella quale si trova attualmente il paese: a protestare saranno individui nati e cresciuti durante il conflitto armato, vissuti in condizioni di indigenza, e che non hanno avuto acceso ad alcun tipo d’istruzione.

 

una nuova Primavera araba?

Una generazione abituata a combattere e sopravvivere (foto Mohammad Bash).

Appare così inevitabile prima o poi lo sgretolamento effettivo del regime oggi fortemente depotenziato e tenuto in vita da altre forze internazionali e regionali.

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L’Iran guarda a Est https://ogzero.org/attacco-cibernetico-a-natanz/ Tue, 13 Apr 2021 09:02:44 +0000 https://ogzero.org/?p=3058 Il più importante impianto nucleare iraniano è di nuovo al centro dell’attenzione internazionale: il 10 aprile Rohani aveva inaugurato lì, a Natanz, in pompa magna una nuova serie di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Il giorno dopo però l’impianto è stato colpito da un attacco cibernetico che le autorità iraniane hanno definito “terrorismo nucleare”. Già il […]

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Il più importante impianto nucleare iraniano è di nuovo al centro dell’attenzione internazionale: il 10 aprile Rohani aveva inaugurato lì, a Natanz, in pompa magna una nuova serie di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Il giorno dopo però l’impianto è stato colpito da un attacco cibernetico che le autorità iraniane hanno definito “terrorismo nucleare”. Già il 2 luglio 2020 l’impianto di Natanz era stato oggetto di un attacco, presumibilmente israeliano. Questa volta la responsabilità di Israele è asserita da fonti dell’intelligence statunitense citate dal New York Times. Il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif ha dichiarato, lunedì 12 aprile, che l’Iran “risponderà” all’attacco, e ha accusato: Israele «ha voluto vendicarsi per i nostri progressi sulla via la revoca delle sanzioni». Insomma:  il nuovo attacco a Natanz  accentua i rischi di escalation tra Iran e Israele, e minaccia di ipotecare i colloqui appena avviati a Vienna per rilanciare l’accordo del 2015 sul programma nucleare iraniano.

L’articolo di Marina Forti che proponiamo colloca il contenzioso sul nucleare iraniano nel contesto, allargando lo sguardo ad altri protagonisti, ponendo le basi per interpretare la collocazione geopolitica dell’Iran nei prossimi anni.


Uno spostamento, verso Est?

La firma di un accordo venticinquennale di partenariato tra l’Iran e la Cina è stata accolta da commenti contrastanti. Firmato il 27 marzo a Tehran dai ministri degli Esteri iraniano e cinese, Javad Zarif e Wang Yi, l’accordo riguarda commercio, investimenti e difesa. È uno sviluppo importante, per il merito, e forse prima ancora per il momento in cui viene annunciato.

Presupposti per la ripresa del Jcpoa

Infatti, una delle partite più difficili affrontate oggi dalla diplomazia internazionale riguarda il possibile rilancio dell’accordo sul nucleare iraniano – il Joint Comprehensive Plan of Action, o Jcpoa, firmato da sei potenze mondiali con l’Iran nel 2015, da cui gli Stati Uniti si sono ritirati unilateralmente nel maggio 2018 per volere dell’allora presidente Donald Trump.

Il suo successore Joe Biden, appena insediato alla Casa Bianca, ha affermato l’intenzione di riportare gli Stati Uniti in quell’accordo: a condizione però che l’Iran torni a osservare le limitazioni alle sue attività nucleari previste dal Jcpoa, in parte abbandonate negli ultimi mesi. Tehran ha risposto che è stata Washington a rompere gli accordi: dunque prima gli Usa revocano le sanzioni draconiane e unilaterali che da due anni e mezzo soffocano l’economia iraniana, poi anche l’Iran torna a osservare i patti. La questione di chi debba compiere il primo passo ne nasconde altre, non ultimo il fatto che sia a Washington, sia a Tehran lavorano gruppi di interesse contrari alla ripresa di quegli accordi.

L’impasse si è prolungata per oltre due mesi. Finché gli Stati Uniti hanno accettato di partecipare a un vertice dei firmatari dell’accordo nucleare (Francia, Regno Unito, Germania, Russia, Cina, Unione europea e Iran), che si è tenuto a Vienna nella settimana dopo Pasqua, con i rappresentanti europei nel ruolo di mediatori. Iran e Stati Uniti hanno dunque accettato di definire un meccanismo di rientro simultaneo: gli Usa revocano le sanzioni del periodo Trump mentre l’Iran torna a limitare l’arricchimento dell’uranio secondo il vecchio accordo. Definire le modalità non sarà semplice, ma il percorso è aperto.

C’entra qualcosa tutto questo con l’accordo di cooperazione sino-iraniano, annunciato solo pochi giorni prima? Direttamente no, certo. E però, è chiaro che un partenariato economico tra l’Iran e la Cina limita l’efficacia del principale strumento di pressione usato da Washington verso Tehran, cioè le sanzioni commerciali. «L’Iran sta cercando di dire che ha dei partner, anche in un momento di tensione e difficoltà», commenta Esfandiar Batmangheligj, direttore della newsletter Bourse and Bazar specializzata in Iran e Asia centrale (citato da “The Independent”).

L’importanza di questo accordo però va oltre il dossier nucleare, e si inquadra nella più ampia strategia di sviluppo dell’Iran tra Europa e Asia.

Cosa sappiamo degli accordi tra Cina e Iran?

Per la verità non conosciamo molti dettagli sul “patto di cooperazione strategica” firmato a Tehran. Sappiamo che è stato in gestazione per cinque anni: ne parlò per la prima volta il presidente cinese Xi Jinping nel gennaio 2016 durante la sua visita a Tehran, dove aveva incontrato il Leader supremo, ayatollah Ali Khamenei. Sul momento la cosa sembrava caduta; si tornò a parlarne solo nel febbraio del 2019, quando l’allora presidente del parlamento iraniano Ali Larijani, in visita a Pechino, ne riparlò con il presidente Xi. Nel luglio di quell’anno lo stesso Larijani dichiarò che l’Iran aveva elaborato una bozza di accordo da discutere con le controparti cinesi. I negoziati sono proseguiti nel più assoluto riserbo; nel settembre 2019, quando il giornale “Petroleum News” ha dato notizia di un accordo negoziato “in segreto”, è sembrata una sorpresa.

Nel luglio del 2020 un’agenzia di stampa iraniana ha affermato di avere la bozza dell’accordo appena approvata dal governo di Hassan Rohani; poco dopo la stessa bozza è stata diffusa da “IranWire”, sito di oppositori iraniani all’estero.

Tanta segretezza ha suscitato molte polemiche in Iran. Le correnti più oltranziste hanno accusato il governo Rohani di “svendere” il paese; si diceva che avesse dato in concessione alla Cina alcune isolette iraniane nel Golfo Persico, forse addirittura l’isola di Kish, nota destinazione turistica. Il governo ha smentito. Il parlamento (dominato da deputati ultraconservatori) ha convocato il ministro degli Esteri per rispondere a interrogazioni molto ostili. L’ex presidente Mahmoud Ahmadi Nejad ha accusato Rohani di trasformare l’Iran in un protettorato cinese. Polemiche basate su illazioni e anche vane, poiché è noto che un tale accordo non si potrebbe negoziare senza il coinvolgimento del Consiglio di sicurezza nazionale e il consenso del Leader supremo. (Interessante però che le stesse accuse al governo Rohani siano state mosse dagli ultraconservatori interni e dagli exilés di “IranWire”).

Anche il “New York Times” nel luglio 2020 ha affermato di aver ricevuto il documento in 18 pagine che delinea la cooperazione tra Iran e Cina: secondo il giornale newyorkese, gli è stata data «da qualcuno al corrente dei negoziati con l’intenzione di mostrare l’ampiezza dei progetti considerati». In altre parole, fonti della Repubblica Islamica intenzionate a far sapere agli Stati Uniti (c’era ancora Trump) quanto la strategia di “massima pressione” fosse vana.

Dettagli del Patto di cooperazione sino-iraniana

In ogni caso, tutto ciò che sappiamo di quell’accordo si basa su quella bozza (secondo fonti citate sempre dal “New York Times” non sarebbe cambiata in modo sostanziale). Se dobbiamo prenderla per buona dunque sappiamo che la “cooperazione strategica” permetterà alla Cina di espandere la propria presenza in Iran nei settori delle telecomunicazioni, porti, ferrovie, nel sistema bancario, industria energetica, sanità, turismo e molti altri.

Città petrolifere alla foce dello Shatt-el Arab (foto di Wollwerth).

L’accordo elenca un centinaio di progetti, dai treni ad alta velocità alla creazione di “zone economiche speciali”: a Maku, nel Nordovest dell’Iran; a Abadan, città di installazioni petrolifere dove il fiume che separa Iran e Iraq (Shatt-el Arab per gli iracheni, Arvand per gli iraniani) si butta nel Golfo Persico; e sull’isola di Qeshm, nel Golfo. Si parla poi di infrastrutture per la rete di telecomunicazioni 5G, del sistema di posizionamento globale Beidou (il “Gps cinese”), di sistemi di monitoraggio del cyberspazio (controllare ciò che circola sulla rete).

Il sistema di posizionamento cinese Beidou

I progetti elencati non hanno nulla di stupefacente: sono quelli che la Cina ha proposto ovunque nell’ambito della sua “Belt Road Initiative”, il progetto globale di infrastrutture con cui sta espandendo commercio e investimenti cinesi nel mondo. Però denotano che Pechino non ha avuto troppe remore, anche ai tempi dell’amministrazione Trump, a pianificare investimenti in Iran nonostante il rischio di incorrere nelle “sanzioni secondarie” degli Stati Uniti – quelle che gli Usa applicano a paesi e aziende di paesi terzi che intrattengono relazioni economiche con l’Iran. (Si ricordi che la compagnia di telecom cinese Huawei è stata punita negli Usa proprio per non aver rispettato l’embargo all’Iran.)

Investimenti e accordi militari del Patto di cooperazione sino-iraniana

Le fonti citate dal “New York Times” dicono che la Cina investirà un totale di 400 miliardi di dollari nel periodo coperto dagli accordi (25 anni), in gran parte nei primi anni. E che riceverà in cambio regolari forniture di petrolio iraniano, a quanto pare a prezzi molto scontati: l’interesse sarebbe reciproco, perché Pechino importa tre quarti del suo fabbisogno di greggio, mentre l’Iran è tra i maggiori produttori mondiali ma ha visto il suo export assottigliarsi proprio a causa delle sanzioni statunitensi.

Quanto alla cifra di 400 miliardi di dollari non ci sono conferme, e secondo alcuni esperti è molto esagerata. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijan, ha dichiarato che l’accordo non prevede “target definiti” sul volume degli scambi e degli investimenti; c’è solo la volontà di sviluppare «il potenziale di cooperazione dei due paesi nel campo economico, umano e altro».

L’accordo ha anche un capitolo sulla difesa, e qui i dettagli sono ancora più scarsi: si parla di addestramenti ed esercitazioni congiunte, ricerca, scambio di intelligence. Non è una novità assoluta. La cooperazione militare tra Cina e Iran ha già portato a tenere esercitazioni congiunte almeno tre volte dal 2014 a oggi; l’ultima nel dicembre scorso quando una nave da guerra cinese ha raggiunto quelle di Iran e Russia in una esercitazione nel golfo di Oman. Dire che sia un’alleanza in chiave antiamericana è esagerato (la Cina ha ottimi rapporti e acquista petrolio anche da paesi che invece sono nel campo americano, a cominciare dall’Arabia saudita). Però il segnale resta, e l’Iran tiene a sottolinearlo. In occasione delle manovre navali sino-russo-iraniane l’agenzia ufficiale cinese, Xinhua, aveva citato il comandante della Marina militare iraniana, Ammiraglio Hossein Khanzadi, secondo cui «l’era delle invasioni americane nella regione è finita».

Ricaduta infrastrutturale del Patto di cooperazione sino-iraniana

Quale sarà la traduzione pratica di questi accordi è presto per dire. Lo sviluppo più significativo per la Cina sarà rafforzare la sua presenza in un paese al crocevia geografico dell’Eurasia – e consolidare una presenza strategica sulle coste iraniane del mare d’Oman: si parla di un porto a Jask, appena fuori dallo stretto di Hormuz, quindi all’imboccatura del Golfo Persico tanto importante per il trasporto di petrolio mondiale (non a caso sul lato opposto di quel mare, in Bahrein, ha base la Quinta flotta degli Stati Uniti). Non pare che l’Iran si prepari a concedere una base militare alla Cina sulle sue coste (la sola base navale cinese all’estero oggi è a Gibuti, costruita nel 2015 a poche miglia da una base statunitense). Ma è chiaro che anche i porti commerciali hanno una valenza strategica, e negli ultimi decenni la Cina ne ha costruita una serie in tutto l’oceano Indiano, da Hambantota nello Sri Lanka meridionale a Gwadar in Pakistan, sulla rotta per Suez.

Per l’Iran invece lo sviluppo più concreto sono proprio i potenziali investimenti in infrastrutture e altri progetti economici. E secondo diversi osservatori questo si inserisce nel quadro di un riorientamento strategico delle priorità iraniane, che va ben oltre la necessità di resistere alle sanzioni statunitensi.

La Cina soppianta l’Unione europea

Le relazioni economiche tra Tehran e Pechino in effetti non sono nuove. Già nel 2011 la Cina aveva preso il posto dell’Unione europea come primo partner commerciale dell’Iran. Il motivo è semplice: tra il 2010 e il 2014, durante il secondo mandato del presidente Ahmadi Nejad, l’Iran si era trovato circondato da un muro di sanzioni (allora erano multilaterali, decretate dell’Onu oltre che da Unione europea e Stati Uniti), che aveva reso molto difficile importare qualunque cosa.

Allora però la Cina era solo un ripiego; per l’Iran il partner economico prioritario restava l’Europa. Così nel 2015, quando il moderato presidente Rohani ha firmato l’accordo sul nucleare, l’Iran ha puntato a rafforzare gli scambi e attirare gli investimenti europei. In effetti, per qualche tempo delegazioni commerciali da tutta Europa sono arrivate a Tehran in cerca di affari, e decine di memorandum d’intesa sono state firmate. Le aspettative però hanno tardato a realizzarsi (anche perché l’Iran restava escluso dal sistema bancario internazionale, controllato dagli Usa attraverso il dollaro). Poi l’avvento del presidente Trump ha decretato per l’Iran un isolamento economico ancora più forte delle precedenti sanzioni multilaterali. Gli investimenti europei, che in ogni caso erano rimasti sulla carta, si sono dileguati. E Tehran ha cominciato a riconsiderare la sua strategia.

Scelte di partnership alternative forzate dal protrarsi di sanzioni

Per resistere all’accerchiamento economico l’Iran doveva assicurarsi fonti alternative per le sue importazioni, soluzioni alternative per le transazioni finanziarie, vie alternative per esportare il proprio petrolio, e soprattutto modi per espandere le esportazioni di manufatti e prodotti non petroliferi. Ed è ciò che ha fatto.

Oggi due elementi vanno sottolineati. Il primo è «una crescente importanza dei paesi vicini come partner commerciali e lo spostamento delle fonti di importazione dai paesi occidentali a quelli della regione e orientali», osserva l’analista e imprenditore iraniano Bijan Khajehpour, che si basa sui dati diffusi dal ministero degli esteri iraniano per i primi dieci mesi dell’ultimo anno fiscale (dal 20 marzo 2020 al 20 gennaio 2021).

Il volume totale degli scambi, esclusi petrolio e prodotti petroliferi, ammontava in quei dieci mesi a 58,7 miliardi di dollari (è il 18 per cento meno del periodo corrispondente l’anno prima, ma pesa la pandemia di Covid-19). Le esportazioni non-petrolifere ammontavano a circa 28 miliardi di dollari, di cui oltre il 76 per cento è andato a cinque paesi: per il 26 per cento alla Cina (primo mercato per i prodotti iraniani), poi all’Iraq, gli Emirati Arabi Uniti, la Turchia e l’Afghanistan.

Nello stesso periodo l’Iran ha importato poco più di 30 miliardi di dollari di beni e servizi (il 20 per cento meno dell’anno prima), e i primi cinque paesi d’origine sono Cina (24,8 per cento), Emirati, Turchia, India e Germania (poco meno del 5 per cento).

Quanto all’export di petrolio bisogna fare delle ipotesi, perché i dati restano confidenziali (ovvio: sfugge ai monitoraggi ufficiali, perché chiunque ammetta di importare petrolio iraniano rischia ritorsioni da parte statunitense). Khajehpour ipotizza che l’export di greggio nei dieci mesi considerati ammonti a 7,2 miliardi di dollari, calcolando circa 600.000 barili al giorno al prezzo medio di 40 dollari a barile. (Per avere un’idea di quanto le sanzioni Usa costino all’economia iraniana si pensi che nel giugno 2018, quando gli Stati uniti si sono ritirati dall’accordo nucleare, l’Iran esportava 2,7 milioni di barili di greggio al giorno.)

Riconversione economica e sviluppo di medio-piccola manifattura locale

Il secondo elemento da sottolineare è che nelle esportazioni iraniane l’industria manifatturiera ha superato gli idrocarburi, e non solo nell’ultimo anno di pandemia. Già nel 2019 l’export non-petrolifero aveva totalizzato 41 miliardi di dollari, superando quello del petrolio. Non solo: mentre il settore petrolifero si era contratto del 35 per cento a causa delle sanzioni, il manifatturiero si era contratto appena dell’1,8 per cento.

Questo conferma che l’economia iraniana è molto più diversificata di quelle di altri paesi grandi produttori di idrocarburi: e sebbene fosse una tendenza già visibile nei primi anni del secolo, sono state proprio le sanzioni ad accelerarla. L’industria manifatturiera iraniana – automobili, meccanica, agroalimentare, farmaceutica e altro – rappresenta ormai l’ossatura dell’economia nazionale, con una struttura di piccole e medie imprese che producono sia per un mercato interno di 84 milioni di persone, sia per esportare nella regione circostante.

Strategia di resistenza

È questo che negli ultimi tre anni ha permesso all’economia iraniana di resistere alla “massima pressione” esercitata dagli Usa. La cosiddetta “economia di resistenza”, cioè la strategia di consolidare la produzione industriale interna, non è servita solo a sostituire le importazioni (sempre più costose a causa delle sanzioni), ma anche a consolidare «una strategia mista, promuovere le esportazioni e diversificare le fonti delle importazioni», osserva Khajehpour (così anche nelle importazioni pesano meno di una volta i beni di consumo finiti; nell’ultimo anno il 70 per cento delle importazioni erano beni intermedi, destinati all’industria interna).

La strategia di resistenza è stata questa: espandere la produzione nazionale anche per rafforzare l’export; rafforzare gli scambi con i paesi vicini, inclusa la Russia e l’Asia centrale; ridurre la dipendenza tecnologica dall’Occidente diversificando le importazioni. E guardare all’Eurasia, stabilire accordi di cooperazione a lungo termine con la Cina e nel prossimo futuro la Russia.

Si può immaginare che tutto questo andrà ben oltre l’esito dei colloqui cominciati a Vienna, la (auspicabile) revoca di almeno parte delle sanzioni statunitensi e il possibile rilancio dell’accordo sul nucleare. L’Iran ha cominciato a guardare all’Eurasia.

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Biden Aggiustatutto: “Can you fix it?” https://ogzero.org/gatte-da-pelare-per-biden/ Thu, 28 Jan 2021 11:53:53 +0000 http://ogzero.org/?p=2325 Joseph Robinette Biden Jr., meglio noto come Joe Biden, è il 46º presidente degli Stati Uniti d’America dal 20 gennaio 2021. Si chiude o si interrompe l’epoca dell’amministrazione bizzarra guidata dall’imprenditore Donald John Trump. La vittoria elettorale, anche se non schiacciante, di Biden, soprattutto con la maggioranza in entrambe le Camere, sembra che porterà il […]

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Joseph Robinette Biden Jr., meglio noto come Joe Biden, è il 46º presidente degli Stati Uniti d’America dal 20 gennaio 2021. Si chiude o si interrompe l’epoca dell’amministrazione bizzarra guidata dall’imprenditore Donald John Trump.

La vittoria elettorale, anche se non schiacciante, di Biden, soprattutto con la maggioranza in entrambe le Camere, sembra che porterà il vento del Partito democratico 2.0 in terra americana.

A questo punto le relazioni tra i due storici alleati della Nato, Ankara e Washington, molto probabilmente subiranno dei cambiamenti.

Trump loved Erdoǧan

In questi ultimi quattro anni, la sempre più diffusa politica del post truth mescolata a una notevole crescente cultura razzista e militarista ha scombussolato radicalmente la politica interna degli Usa. Contemporaneamente la figura del “one man” o “ghe pensi mi” di Trump ha fatto sì che la sua personalità schiacciasse anche la consolidata e forte cultura istituzionale statunitense in politica estera.

Sicuramente, sia per via dell’età di Biden sia per la sua posizione e cultura politica, in questa nuova fase gli Usa assumeranno un atteggiamento ben diverso rispetto all’amministrazione uscente e questo cambiamento avrà effetto anche nei confronti di quegli alleati che, da tempo, governano i loro paesi un po’ come faceva Trump negli Usa.

In un suo articolo di approfondimento, Carl Bernstein, giornalista statunitense di Cnn, il 30 giugno del 2020, specificava che il presidente della Repubblica di Turchia, in certi periodi chiamava Trump al telefono anche due volte a settimana e qualche volta anche mentre giocava a golf. Secondo Bernstein questo è un esempio significativo di come Trump abbia calpestato spesso varie prassi diplomatiche.

Da questo punto di vista questi due leader, molto carismatici e altrettanto pragmatici, si assomigliano molto. Erdoǧan, anche grazie al sistema presidenziale introdotto con il referendum del 2017, ama (è obbligato) a concentrare un po’ tutto sulla sua figura. Erdoǧan “si intende” di istruzione, sanità, tatuaggi, religione, politica estera, parto, abbigliamento, edilizia, calcio, giornalismo, giustizia e persino demografia. Due maschi, bianchi e over 70, su certi argomenti molto lontani tra loro, si sono invece trovati molto bene nel coordinare una serie di affari e nascondere sotto il tappeto diversi temi fonti di conflitti importanti.

Quindi, molto probabilmente, Erdoǧan con l’arrivo di Biden non avrà più a Washington un presidente che gli sarà vicino con una telefonata in qualsiasi momento. Saranno gli assistenti del presidente o i ministri a occuparsi della Turchia, non sempre e direttamente il nuovo leader democratico.

La giustizia è un’opinione

Uno dei punti di cui la nuova amministrazione Usa deve occuparsi è il famoso e lungo processo anticorruzione che vede coinvolta la banca statale turca Halkbank e l’imprenditore turco-iraniano Reza Zarrab. Questi due soggetti sono accusati di far parte di un progetto di riciclaggio di denaro ed evasione fiscale che è stato utilizzato dalle istituzioni, banche e aziende turche, e non solo, per aggirare l’embargo statunitense imposto all’Iran.

Zarrab si trova negli Usa, sotto protezione, dal 2016 ed è ormai un collaboratore di giustizia. È difficile dimenticare la sua storica dichiarazione rilasciata nell’aula del tribunale, dopo aver disegnato e raccontato perfettamente questo progetto diabolico: «Di tutto questo era al corrente anche l’attuale presidente della Repubblica». Grazie alle dichiarazioni di Zarrab è stato arrestato e trattenuto in carcere l’ex direttore generale della Halkbank, Mehmet Hakan Atilla, nel 2017, per trentadue mesi.

Tra le accuse importanti attribuite a Zarrab, ad Atilla e al governo turco c’è anche quella di frode ai danni del sistema bancario statunitense.

Questo processo, apparentemente un valido motivo di conflitto tra gli alleati, invece era uno dei punti che accomunavano Trump ed Erdoǧan. Entrambi i leader hanno sempre provato palesemente a esercitare una notevole influenza sulla magistratura quindi mettendo in discussione la separazione dei poteri. Infatti Trump aveva provato a far dimettere Geoffrey Berman, il procuratore capo di New York che si occupava del maxiprocesso, e secondo alcuni giornalisti ed ex collaboratori del presidente tutto questo era per accontentare Erdoǧan, proprio come anche quest’ultimo spesso fa rifiutandosi, verbalmente e pubblicamente, di riconoscere non solo le decisioni della Cedu ma anche quelle della Corte Costituzionale della Repubblica di cui lui risulta tuttora il presidente.

Ci si attende, con l’insediamento di Biden, più spazio di manovra e libertà per la magistratura su questo maxiprocesso. Nel caso in cui venissero fuori dei dettagli più imbarazzanti ed evidenti non sarebbe fuori luogo pensare a una nuova ondata di sanzioni nei confronti della Turchia oppure di alcuni membri del governo.

Gli S-400, pomo della discordia

Uno dei punti dolenti tra gli storici alleati del Patto atlantico è stato l’acquisto nel 2017 da parte di Ankara del sistema antiaereo S-400, di nuova generazione e produzione moscovita.

Questa mossa ovviamente non era stata digerita da Washington: il secondo esercito più importante della Nato aveva deciso di investire in una tecnologia militare molto avanzata, comprandola proprio da uno dei suoi più importanti antagonisti. Mentre invece Ankara giustificava la scelta sostenendo che il sistema analogo, ma di produzione statunitense, le era stato negato dall’amministrazione Obama e quindi non aveva altra scelta, dovendo difendersi dalla minaccia costituita dalla guerra in Siria.

Dopo una serie di ultimatum e lievi minacce la Turchia è stata infine espulsa dal progetto di produzione degli F35 e nei confronti di Ankara sono state attivate, parzialmente, la sanzioni Caatsa. Tuttavia possiamo dire che le posizioni dell’ex presidente americano Trump non sono mai state abbastanza critiche in relazione alla questione.

Oggi, con l’amministrazione Biden, troviamo Tony Blinken sulla poltrona di ministro degli Affari esteri: quasi braccio destro di Obama per il Medio Oriente, uno degli esperti, in seno al Partito democratico, di politica estera.

Oltre questi dettagli biografici spicca senz’altro la dichiarazione last minute del nuovo ministro: «La Turchia è un nostro presunto alleato strategico ma non si comporta da vero alleato. Un alleato vicino a Mosca, che è il nostro più grande avversario strategico, non serve. Valuteremo le nuove sanzioni contro Ankara».

Pochi giorni dopo questa netta dichiarazione è risuonata una comunicazione del presidente della Repubblica di Turchia: «Siamo decisi a firmare un secondo accordo per il sistema S-400 con Mosca. Non so come accoglierà questa decisione l’amministrazione Biden ma non chiederemo il permesso a nessuno».

In poche parole, sembra che il metodo del bastone e della carota, utilizzato spesso da Trump per sopire i conflitti con Ankara e che non ha dato i suoi frutti nel caso degli S-400, non sarà quello scelto dalla nuova amministrazione Usa.

Guerra in Siria: il filo sottile con Mosca

Quello siriano è decisamente uno dei motivi di allontanamento politico sorto tra Ankara e Washington in questi ultimi tempi.

Nell’arco di tre anni il governo centrale turco ha deciso di inviare le sue truppe sul territorio siriano e ha avviato quattro operazioni in collaborazione e coordinazione con l’Iran, la Russia e indirettamente con la Siria, trascurando gli Stati Uniti.

La lettera amara di Trump a Erdoǧan, in cui chiedeva di non fare “sciocchezze” non era quella reazione forte che le forze armate e politiche siriane si aspettavano. Pochi giorni dopo quella missiva i soldati statunitensi pian piano hanno lasciato il terreno all’esercito della Repubblica di Turchia per avviare l’operazione Sorgente di Pace nel mese di ottobre del 2019.

Ormai era chiaro e ufficiale che sul territorio siriano fosse Mosca a decidere e coordinare le manovre in collaborazione con Damasco e Tehran. La presenza della Turchia è solo il frutto di quel rapporto politico ed economico perverso, legato a un filo sottilissimo, tra Ankara e Mosca.

Le operazioni militari della Turchia sono state realizzate anche con il sostegno dell’Esercito libero siriano composto da combattenti mercenari, ex soldati dell’esercito siriano e numerose brigate jihadiste.

L’esperimento fallito: milizie e tradimenti

Questa forza paramilitare è anche il frutto di un progetto fallito e guidato da Lloyd Austin. Nel 2013 Ankara e Washington dopo un breve periodo di addestramento avevano preparato un gruppo armato sul territorio turco, per combattere l’Isis. Tuttavia, una volta entrati in Siria, questi hanno deciso di aderire a diversi gruppi jihadisti come al-Nusra. Forse questo fu il momento in cui l’amministrazione Obama decise di cambiare alleanze sul territorio siriano. Oggi Austin è il primo segretario alla Difesa afroamericano della storia degli Stati Uniti, una novità che potrebbe avere impatto sulle scelte di Washington in Siria.

Un altro nome interessante è Brett McGurk, rappresentante speciale della Casa Bianca per il Medio Oriente e il Nord Africa. Figura non amata dai media mainstream della Turchia per via dei suoi stretti rapporti con le forze armate “curde”. Nel 2017, il ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu aveva chiesto all’amministrazione statunitense di sospendere l’incarico a McGurk dopo la sua visita di persona alle Unità di Difesa Popolari, Ypg, in Rojava. Dovutoglu, senza troppi giri di parole, in diretta tv sul canale Ntv aveva accusato McGurk di “sostenere” le forze armate del Pkk, organizzazione definita “terroristica” da Ankara e Washington. Un anno dopo, nel 2018, Trump decise di togliere l’incarico a McGurk. Oggi, questa figura “problematica” molto probabilmente avrà un ruolo determinante nella nuova amministrazione statunitense.

Con la Cina accordi commerciali e sanitari…

Cina e Iran sono in cima alle priorità della politica estera di Biden e in tutti e due i casi Ankara svolge un ruolo abbastanza importante.

La collaborazione economica tra Ankara e Pechino è in continua crescita. Il volume commerciale tra questi due paesi, nel 2019, superava la soglia dei 20 miliardi di dollari americani, registrando un notevole aumento rispetto agli anni precedenti.

Nei primi giorni del 2021 è stato firmato un nuovo accordo commerciale che prevede un notevole rafforzamento da parte di Ankara della rete ferroviaria, operazione che porterebbe a un aumento del volume commerciale sulla Via della Seta: 11.438 chilometri che collegherebbero Xi’an con Praga, ovviamente la Turchia – che si trova in mezzo – avrebbe un ruolo importante. Grazie a questa novità le tonnellate di merci trasportabili salirebbero da 400.000 a 1 milione. Inoltre nel progetto è prevista la costruzione di una nuova linea di 230 km che porterebbe fino alla Repubblica autonoma di Naxçıvan, accessibile ormai grazie all’accordo firmato da Armenia, Russia e Azerbaigian alla fine del conflitto armato del Nagorno.

Sempre nei primi giorni del 2021 arrivano due notizie importanti dalla Cina. I famosi produttori dei cellulari “intelligenti” – Tecno, TCL, Xiaomi e Vivo – hanno deciso di aprire nuove fabbriche in Turchia. Grazie a una nuova legge, introdotta nel 2020, i cellulari importati dall’estero subiscono un’ulteriore tassazione in Turchia; dunque la strategia di Pechino è quella di produrre in Turchia e prendere in mano il mercato.

La pandemia causata dal virus SarsCov2 ha aperto una storica fase di collaborazione economica e sanitaria tra questi due paesi. Uno dei primi acquirenti del vaccino SinoVac, produzione cinese, è la Turchia. Verso la fine del mese di gennaio saranno acquistati circa 20 milioni di dosi. La campagna di vaccinazione già avviata era stata anticipata in realtà con la sperimentazione di massa della terza fase del vaccino, sempre in Turchia.

… e una mano lava l’altra

A una tale armonia ovviamente bisognerebbe associare anche un allineamento politico. Sempre nei primi giorni del 2021 Ankara ha deciso di avviare operazioni di polizia presso le abitazioni dei cittadini cinesi di origini uigure residenti in Turchia. Secondo l’Osservatorio dei Diritti umani nel Turkistan orientale (Ethr) si tratterebbe dell’attuazione dell’accordo sul rimpatrio dei criminali firmato con Pechino nel 2017 e durante queste operazioni sarebbero stati arrestati diversi cittadini uiguri. Pochi anni fa, nel 2009, l’attuale presidente della Repubblica, presso il canale televisivo Ntv, aveva definito le politiche di Pechino contro i cittadini uiguri come un “genocidio”.

Questo graduale avvicinamento di Pechino e Ankara senza precedenti sarà molto probabilmente per Biden tra le questioni da tenere in considerazione.

Iran: il tavolo di Astana

Forse l’elemento più importante che lega Teheran e Ankara è il fatto che si siano seduti allo stesso tavolo per una ventina di volte nella città di Astana per disegnare il futuro della Siria. In quest’ottica (tenendo in considerazione anche il maxiprocesso Halkbank) per Biden Ankara potrebbe avere un ruolo chiave nel “dialogo” con Teheran. Ovviamente tenendo conto che questi due alleati all’interno della Nato hanno poi in mano diverse carte per ricattarsi a vicenda: sembra quindi che la partita sarà molto delicata.

Quando è minacciata la libertà, e non solo quella di espressione

Una delle cose che accomunava Trump e Erdoǧan era avere nel cuore la continua crociata contro il mondo del giornalismo. Sono ormai molto conosciute le invettive aggressive e arroganti di Trump nei confronti di alcuni giornali e canali televisivi statunitensi accusati di divulgare “notizie false”.

Oltre a un numero sempre alto di giornalisti in carcere o obbligati a vivere in esilio, in questi ultimi venti anni la Turchia è diventata anche un vero cimitero di emittenti televisive, radiofoniche e giornali che hanno dovuto chiudere i battenti oppure che sono stati chiusi con i decreti di legge durante lo stato d’emergenza dal 2016 al 2018. A tutto questo ovviamente aggiungiamo anche le posizioni personali di Erdoǧan nei confronti dei giornali dell’opposizione, espresse, per esempio, in quella dichiarazione rilasciata in diretta Tv, proprio il primo gennaio del 2021, contro uno dei più importanti giornali di opposizione, “Sozcu” (tra i primi tre per numero di copie vendute): «Io non leggo quel giornale e consiglio a tutti di non comprarlo, è inutile». “Sozcu” aveva fatto infuriare Erdoǧan quando aveva pubblicato il bilancio governativo del 2020 in prima pagina: “lacrime e sofferenza”.

La libertà di stampa è uno dei punti cardine del programma di Biden. Non solo per via di quanto è stata minacciata da Trump ma anche per come viene sistematicamente oltraggiata in diversi paesi del mondo.

Proprio nel 2016, in pieno stato d’emergenza, Biden aveva pronunciato queste parole sulla situazione in Turchia: «È importante, in tutto il mondo, avere il diritto alla critica libera. Le libertà di espressione e di stampa in Turchia sono garantite con la Costituzione e vanno protette». Infine nel mese di gennaio del 2020, in un’intervista rilasciata al “New York Times” aveva definito chiaramente la sua posizione dicendo: «Erdoǧan è un leader autocratico, dobbiamo sostenere le opposizioni in Turchia per allontanarlo dal potere utilizzando modalità democratiche».

Un (non)conclusione

Ci sono numerosi elementi che hanno distanziato questi due alleati negli ultimi anni: dalla richiesta di estradizione sempre rifiutata di Fethullah Gülen (leader della comunità di Hizmet residente in Pennsylvania, accusato di essere ideatore del fallito golpe del 2016) fino al rapporto di Ankara con gli altri alleati della Nato come Parigi e Berlino e numerosi sono i capitoli della Storia che possono essere riaperti e reinterpretati dall’amministrazione Biden.

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Lo sceicco e il sultano: amici e isolati https://ogzero.org/lo-sceicco-e-il-sultano-amici-e-isolati/ Thu, 10 Dec 2020 11:21:51 +0000 http://ogzero.org/?p=2013 Il 26 novembre, nella capitale della Turchia, i due presidenti hanno firmato un nuovo accordo commerciale composto da 10 intese importanti. Ankara e Doha, dal 2015 hanno iniziato a intensificare il loro rapporto economico e politico. Per quale motivo? Due amici vicini e isolati Turchia e Qatar sono sempre più isolati dai loro vicini e […]

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Il 26 novembre, nella capitale della Turchia, i due presidenti hanno firmato un nuovo accordo commerciale composto da 10 intese importanti. Ankara e Doha, dal 2015 hanno iniziato a intensificare il loro rapporto economico e politico. Per quale motivo?

Due amici vicini e isolati

Turchia e Qatar sono sempre più isolati dai loro vicini e alleati storici. Il conflitto dentro la Nato ormai non è una novità per Ankara. Certamente anche i suoi continui problemi con i vicini come Grecia, Siria, Cipro e Armenia oppure alleati europei fanno sì che questo paese composto da 85 milioni di abitanti sia sempre nel mirino di proteste e sanzioni.

A questa lista, per Ankara si aggiungono ovviamente alcuni vicini-lontani mediorientali come l’Arabia Saudita che ha avviato un boicottaggio capillare nel mese di novembre contro i prodotti turchi. Si tratta dello stesso partner che ha preso delle misure severe contro Doha insieme all’Egitto, Bahrein e Emirati Arabi.

Turchia e Qatar sono accusati entrambi di promuovere direttamente oppure indirettamente l’ideologia dei Fratelli Musulmani. Infatti entrambi hanno un pessimo rapporto con l’attuale presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, che arrivò al potere facendo un colpo di stato contro Mohamed Morsi, il numero uno dei Fratelli Musulmani in Egitto. I rapporti di reciproca ammirazione personale e politica erano alla luce del sole tra il presidente rovesciato (e stroncato da un infarto in tribunale) e quello che guida Ankara.

Studiando anche il caso libico vediamo che Doha e Ankara si muovono insieme per sostenere il presidente Fayez al-Sarraj, riconosciuto dalle Nazioni Unite e sospettato, a livello internazionale, di essere l’esponente libico dei Fratelli Musulmani. Nell’agosto del 2020, Turchia e Qatar hanno firmato un accordo con il governo centrale per iniziare ad addestrare l’esercito libico.

Nel fronte mediorientale vediamo che entrambi i paesi attirano l’antipatia degli stessi governi. Ryad accusa Doha di sostenere le milizie iraniane nella guerra civile in Yemen e di armare diverse organizzazioni terroristiche in Siria. Quindi applica un forte embargo contro il Qatar. Queste accuse toccano anche Ankara per via delle sue scelte economiche, militari e politiche in Siria dove affianca realtà come l’Esercito Libero Siriano oppure le brigate dell’El-Faruk. Diverse fonti sostengono che quest’ultima riceva un massiccio e diretto sostegno anche da Doha.

Ovviamente anche l’avvicinamento militare, politico ed economico tra Ankara e Tehran per via degli incontri di Astana, e il riciclaggio di denaro denunciato nei tribunali statunitensi, fan sì che i vicini mediorientali guardino con sospetto la Turchia.

Questo isolamento ha prodotto, negli ultimi anni, una notevole connessione tra queste due amministrazioni molto discutibili. Una prima si registra nel 2015 e un’altra nel 2019: Ankara ha costruito due basi militari importanti sul territorio qatariota. Secondo le dichiarazioni ufficiali dell’emiro al potere a Doha, la presenza dei militari turchi l’ha salvato nel fallito golpe del 2017. Tamim al-Thani sostiene che quest’azione contro di lui sia stata pianificata e messa in atto dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi.

Mentre diventano evidenti i punti di questo cortocircuito collaborativo, a livello politico, sarebbe il caso di studiare anche le nozze economiche tra Ankara e Doha.

Il bancomat qatariota della Turchia

Il primo passo è stato fatto nel 2015. Si tratta del primo incontro in cui entrambe le parti hanno firmato una lettera d’intenti. Successivamente, il 30 luglio del 2016, proprio 15 giorni dopo il fallito golpe, l’emiro qatariota è giunto in Turchia per una visita. Questo gesto è stato ricambiato a Doha con un secondo incontro il 24 agosto dello stesso anno. In ciascuno degli incontri le parti hanno firmato i primi accordi commerciali.

Amici isolati

Il Qatar risulta essere il terzo paese al mondo in possesso delle maggiori riserve del gas e il quattordicesimo paese per quelle petrolifere. Ovviamente gli accordi sulle fonti energetiche non rinnovabili sono prevedibili ma Doha e Ankara si sono trovate d’accordo anche su altri campi; sanità, banche, infrastrutture, ferro, acciaio, tessile, alimentari e produzione militare.

Ascolta “Gli accordi Qatar-Turchia” su Spreaker.

Nel 2010 una delle più importanti catene ospedaliere della Turchia, Memorial, è stata venduta per il 40% a un consorzio qatariota e inglese. Nel 2012, il 40% della grande catena di negozi specializzati in arredamento, English Home, è stato venduto alla Banca di Investimenti del Qatar.

Due banche private, ABank e Finansbak, in 3 diverse tranche sono state vendute alla Commercial Bank of Qatar e alla Qatar National Bank. Nel primo caso al 100% e nel secondo per il 99,81%.

La storica fabbrica statale che produce carri armati e mezzi blindati per l’esercito della Repubblica di Turchia nella città di Sakarya è stata data in concessione, per 25 anni, all’azienda turca Bmc che è controllata al 49% dal Comitato industriale delle Forze Armate del Qatar.

L’unica emittente televisiva che aveva la concessione per la trasmissione delle partite di calcio del campionato di serie A, Digiturk è stata consegnata nel 2013 nelle mani del Fondo di Assicurazione sui Depositi di Risparmio della Turchia. Tre anni dopo, nel 2016, viene venduta al gruppo televisivo qatariota, BeinSport. A causa della crisi economica e della scarsa quantità di abbonati, i conti fatti inizialmente non tornavano e BeinSport ha accumulato un buco di bilancio per compensare la quale si è impegnato il ministro dello Sport e così Ankara ha sganciato nel mese di novembre circa 32 milioni di euro.

Ascolta “Erdoğan vende i suoi gioielli al Qatar” su Spreaker.

Questa storia d’amore procede anche con la vendita dei terreni per un progetto inesistente. Si tratta del Kanal Istanbul che prevede la creazione di un canale parallelo a quello del Bosforo. Questo nuovo progetto è materia di grandi discussioni perché distruggerà una vasta area verde, inquinerà le fonti di acqua potabile, creerà nuovi intasamenti nel traffico già caotico di Istanbul e in seguito alla costruzione di nuove aree abitative farà sì che la popolazione della città sul Bosforo cresca velocemente. Inoltre secondo numerosi scienziati potrebbe creare delle conseguenze disastrose nel caso di un terremoto nella città più sismica della Turchia.

Kanal Istanbul

Dunque nelle aree dove è prevista la realizzazione di Kanal Istanbul, un’azienda turca, Triple ha comprato nel 2019, pochi mesi dopo la sua fondazione, 44 ettari di territorio. Indagando un po’ si scopre che l’azienda appartiene al 100% alla famiglia dell’emiro qatariota.

La collaborazione per gli armamenti: il triangolo Turchia-Siria-Qatar

Secondo le dichiarazioni rilasciate in aula con tanto di materiale audiovisivo dall’ex colonnello Nuri Gokhan Bozkir, questi due paesi sembra che abbiano collaborato anche nel trasporto illegale delle armi. Bozkir si trova in Ucraina come rifugiato. Dopo aver lavorato per l’esercito della Repubblica di Turchia per vari anni con la missione di spostare armi dall’Europa dell’Est in Siria si è dimesso e ha deciso di chiedere asilo in Ucraina. Nelle sue dichiarazioni rilasciate in aula e al quotidiano ucraino “Strana”, Bozkir sostiene che l’intera operazione è stata possibile grazie a 7 container di soldi mandati da Doha nel 2012 e nel 2015 in Turchia. Nella sua visita personale, nel 2019, il presidente della Repubblica di Turchia aveva chiesto al suo collega ucraino l’immediata estradizione dell’ex colonnello Bozkir.

Ascolta “Erdoğan vende i suoi gioielli al Qatar” su Spreaker.

Una vendita segreta

Nell’ultimo incontro avvenuto a Ankara, il 26 novembre, il presidente della Repubblica ha annunciato che il 10% della borsa valori di Istanbul è stato venduto all’Autorità di Investimenti del Qatar. Finora non è stata fatta nessuna dichiarazione in merito al valore incassato in questa vendita. Sarebbe un sogno assurdo sperare una trasparenza del genere dato che quel 10% venduto faceva parte del 90% delle azioni del Fondo del Benessere della Turchia. Si tratta di un organo statale fondato nel 2016 e controlla Turkish Airlines, Turk Telecom, due banche statali e Turkish Petrol. A dirigere questa realtà si trova lo stesso presidente della Repubblica e secondo la legge non avrebbe nessun obbligo di rendere pubblici i conti.

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L’influenza russa si estingue nelle case incendiate a Karvachar? https://ogzero.org/il-vincolo-di-un-solco-inciso-tra-armenia-e-russia-negli-accordi-del-nagorno/ Sat, 28 Nov 2020 16:30:54 +0000 http://ogzero.org/?p=1862 Fantasie occidentali su Astana, droni reali su Stepanakert Tutta la grande stampa italiana ha sostenuto la tesi secondo cui l’accordo di pace nel Nagorno-Karabach sarebbe stato l’ulteriore capitolo di una alleanza tra Putin ed Erdoğan. Una chiave di lettura tutta ideologica – l’unità dei dittatori contro le democrazie – costruita sulla presunta unità d’intenti dei […]

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Fantasie occidentali su Astana, droni reali su Stepanakert

Tutta la grande stampa italiana ha sostenuto la tesi secondo cui l’accordo di pace nel Nagorno-Karabach sarebbe stato l’ulteriore capitolo di una alleanza tra Putin ed Erdoğan. Una chiave di lettura tutta ideologica – l’unità dei dittatori contro le democrazie – costruita sulla presunta unità d’intenti dei due capi di stato in Medio Oriente. La guerra iniziata nell’enclave a maggioranza etnica armena ha avuto due inoppugnabili vincitori (Turchia e Azerbaigian) e due sconfitti (Armenia e Russia), su questo però non si può non concordare. Gli accordi di pace firmati in fretta e furia la notte del 9 novembre mentre era in corso una vera e propria rotta dell’esercito armeno che stava rischiando di perdere persino Stepanakert, la capitale dell’Artsakh, rappresenta una vera e propria débâcle per il governo di Nikol Pashinyan.

Il vincolo di un solco inciso tra Armenia e Russia

Il giudizio che abbiamo dato a caldo sulle colonne de “il manifesto” l’11 novembre 2020 resta sostanzialmente corretto: «L’accordo è un boccone amaro per l’Armenia che deve dire addio all’idea di giungere a una unificazione con la regione contesa. Il documento siglato dai tre governi afferma che le parti in conflitto rimangono nelle posizioni raggiunte e ciò significa che buona parte del territorio del Nagorno-Karabakh torna in mano azera e pone le truppe di Baku a pochissimi chilometri da Stepanakert, la quale sarà ora collegata all’Armenia solo da un corridoio che attraversa la zona di Lachin. Lo status di Stepanakert non viene definito – come avrebbe voluto Mosca – e questo darà la possibilità successivamente all’Azerbaigian di rivendicarla». La Russia, avendo collocato i suoi caschi blu tra i contendenti piange con un occhio solo perché potrà dire la sua sulla sistemazione definitiva della regione ma segna un suo ulteriore arretramento geostrategico.

Per molti ordini di motivi. Il primo perché malgrado l’Armenia faccia parte pienamente del sistema di difesa euroasiatico (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, Csto) capeggiato dalla Federazione, Putin non è intervenuto a sostegno di Erevan neppure quando negli ultimi giorni del conflitto – prima attraverso il ministro degli esteri Zohrab Mnatsakanyane poi direttamente dal premier armeno – era stato espressamente richiesto, sottolineando più di una volta la propria neutralità nel conflitto (mentre Erdoğan sosteneva non solo formalmente il “fratello azero” fornendo combattenti foreign fighters siriani e soprattutto quei droni che hanno avuto, come più in là vedremo, un ruolo importante nel conflitto).

Il vincolo di un solco

I caschi blu russi prendono posizione

… poi la ferita suppurerà nell’equidistanza

Per restare nel gioco e avere un ruolo centrale nella trattativa di pace, Mosca ha dovuto pagare un prezzo politico fondamentale: il futuro definitivo allontanamento dell’Armenia in un “fronte Europeo” della Federazione dove Bielorussia e Moldavia finiranno – a medio termine – per pencolare inevitabilmente verso la Nato. È evidente quanto il “ruggito” di Putin a sostegno di Lukashenko in agosto sia stato seguito dall’equidistanza nel conflitto nel Nagorno-Karabach, il cui motivo principale della tiepidezza russa non può essere ricercato nell’antipatia personale di Pashinyan – che pure c’è – o nella doppiezza con cui Erevan ha condotto negli ultimi due anni la sua politica estera. Per riequilibrare l’evidente crescente peso turco nella regione che permette ora di collegare Ankara direttamente al Karabach, Mosca ha mostrato per ora solo di voler far rientrare dalla finestra i mediatori francesi e americani, lasciati fuori formalmente dall’armistizio del 9 novembre.

Nell’intervista concessa a “Rossia1” dopo l’armistizio, il presidente russo ha voluto togliersi un sassolino dalle scarpe: «Il 19-20 ottobre, ho avuto una serie di conversazioni telefoniche sia con il presidente Aliyev che con il primo ministro Pashinyan, dopo che le forze armate azere avevano ripreso il controllo di una parte insignificante, la parte meridionale del Karabach. Nel complesso, ero riuscito a convincere il presidente Aliyev che fosse possibile fermare le ostilità, ma una condizione obbligatoria da parte sua era il ritorno dei profughi, anche nella città di Shushi. Inaspettatamente… il primo ministro Pashinyan mi ha detto direttamente che lo vedeva come una minaccia per gli interessi dell’Armenia e del Karabach. Anche adesso non mi è molto chiaro quale sarebbe stata questa minaccia, tenendo presente che il ritorno dei civili sarebbe stato supposto mantenendo il controllo da parte armena su quella parte del territorio del Karabakh, Shushi compreso, e tenendo presente la presenza dei nostri caschi blu».

Una dichiarazione che può essere letta come un modo per indebolire il premier armeno, ora contestato dall’opposizione interna come “capitolatore”, ma di cui non vanno dimenticate le valenze interne russe. Non solo perché nella Federazione russa vivono 2 milioni di armeni (ma anche 2 milioni di azeri) ma perché le simpatie dei russi “autoctoni” erano tutti per l’“alleato cristiano”. Se Putin non ha alcun interesse ora a far saltare Pashinyan, non ha neppure interesse che in Armenia si possa battere il tamburo propagandistico del tradimento russo.

Il vincolo di un solco

Armeni bruciano le case prima di lasciare il Nagorno

Forniture sbilanciate: pessima propaganda per l’industria bellica russa

Il destino del primo ministro armeno resta legato alla posizione che assumeranno i militari (anche se l’insperato appello del senato francese al riconoscimento di Artsakh del 26 novembre 2020 gli ha fatto riprendere un po’ di vigore). L’esercito che sembrava sostenere il primo ministro in carica appare ora diviso. Qualcuno nello stato maggiore sta iniziando a pensare che debba essere salvato l’essenziale a fronte delle proteste che si levano a livello popolare, e Pashinyan debba essere sacrificato sull’altare della riconciliazione nazionale. Si tratta dell’opinione, per esempio, espressa dall’ex ministro della difesa dell’Armenia. Secondo il militare «non è stato l’esercito a perdere la guerra e la responsabilità dovrà essere assunta in solido dall’attuale leadership politica». Del resto la discussione sull’impreparazione militare nella disfatta armena continuerà a tenere banco ancora per parecchio. Subito dopo il cessate il fuoco è stato per primo a Stepanakert il presidente Arayik Aratyunyan a sollevare la questione dell’arretratezza delle armi a disposizione dei suoi combattenti. Una denuncia di sbieco nei confronti degli alleati russi che avrebbero lasciato in condizioni di degrado l’esercito di un paese alleato. Ma non solo. Si tratta di un tema delicato che tocca – come già nella guerra in Georgia del 2008, mitigata però dal facile successo – l’eventuale inefficienza delle armi russe, ovvero un eventuale spot negativo per il mercato dell’industria bellica della Federazione e per i suoi volumi di esportazione.

Collaudo per guerre di droni

I siti specialistici si sono concentrati sul ruolo inedito avuto dai droni nel conflitto azero-armeno ma che ha interessanti ricadute politico-militari visto che l’aggressività turca non è destinata certo a ripiegare nei prossimi mesi e anni.

Dopo la guerra nel Karabach, molti esperti hanno iniziato a sostenere che sarebbe in corso una rivoluzione nelle questioni tattico-militari, che sta per cambiare persino le strategie degli eserciti – non solo dei paesi in via di sviluppo, ma anche di quelli più potenti. Stiamo parlando dell’uso massiccio di veicoli aerei senza pilota da parte dell’Azerbaigian nel recente conflitto, sulla base degli sviluppi tecnici e strategici turchi. La teoria secondo cui i droni cambieranno radicalmente l’arte della guerra ha incontrato, a dire il vero anche molte perplessità. Secondo queste scuole i droni in Karabach non hanno mostrato nulla di nuovo: l’esercito turco e azero avrebbero semplicemente approfittato della debolezza del sistema di difesa aerea armeno e hanno mostrato al mondo un modo convincente di come si sconfigge un esercito debole ma l’uso massiccio di droni non funzionerebbe contro un esercito “strutturato”.

Ordigni di diversa fabbricazione (e di varia efficacia)

Le ostilità sono iniziate con vari tipi di attacchi di droni. Sono stati usati da parte azera, in primo luogo, i turchi Bayraktar TB2, detti anche hunter-killer, che montano missili e bombe ad alta precisione e droni Harop kamikaze di fabbricazione israeliana, antiradiazioni contro la difesa aerea armena.

Il vincolo di un solco inciso

I droni forniti dai turchi a Baku

Nei primissimi giorni del conflitto, l’esercito del Karabach ha perso dozzine di installazioni di difesa aerea, perlopiù obsolete, ereditate dall’Armenia dopo il crollo dell’Urss. Gli assalti alle sue difese antiaeree sono poi proseguiti: in ottobre e novembre sono stati colpiti diversi elementi dei sistemi missilistici antiaerei a lungo raggio S-300 (ampiamente superato visto che ora è in fase di progettazione nei laboratori russi l’S-500) e un lanciatore del più moderno complesso Tor-M2KM, sempre di fabbricazione russa. Dopo aver messo fuorigioco le difese antiaeree, i droni azeri sono passati al campo terrestre distruggendo sistematicamente carri armati, autoblindo, artiglieria e camion che trasportavano munizioni avversari. Seguiti da una serie di attacchi diretti alle postazioni della fanteria armena e ai depositi di munizioni. La diseguaglianza delle forze in campo – già nota prima del conflitto – è apparsa evidentissima. A seguito delle pesanti perdite di armeni a causa di attacchi aerei, il fronte nel sud del Karabach è stato sfondato in più punti, e in seguito (all’inizio di novembre) la fanteria azera, avanzando attraverso il terreno montuoso, che l’Armenia considerava la sua “fortezza naturale”, ha raggiunto le aree vitali della repubblica non riconosciuta, cioè le città di Shushi e Stepanakert. A questo punto, come risulta dai discorsi dei leader della difesa armena pubblicati al termine del conflitto, a causa degli attacchi dei droni, il loro esercito aveva perso quasi tutta l’artiglieria.

Tuttavia però negli ultimi giorni di guerra, gli attacchi aerei sono diventati più radi. Ciò potrebbe essere attribuito alla nebbia e alle nuvole basse ma secondo i giornalisti israeliani, che citano l’intelligence del loro paese, l’uso dei droni avrebbe potuto essere ostacolato da forniture urgenti di guerra elettronica russa. Questa sarebbe giunta sì in largo ritardo ma avrebbe evitato alla ritirata armena di assumere i caratteri della rotta (Sergej Lavrov aveva più volte dichiarato negli ultimi giorni di conflitto di “non guardare con piacere” a un trionfo militare turco-azero). Arayik Aratyunyan ha dichiarato da parte sua che «recentemente eravamo stati in grado di risolvere il problema dei droni, ma l’ultimo giorno il nemico è riuscito di nuovo a usarli e a sferrare attacchi pesanti».

Valutazioni a consuntivo per sviluppi del sistema industrial-militare

Così, la guerra transcaucasica è diventata la prima in cui i compiti principali, di solito risolti con l’aviazione “tradizionale”, sono stati realizzati dai droni. Molti esperti ritengono che questa non sia solo la sostituzione di un tipo di velivolo con un altro, ma una svolta decisiva, una vera rivoluzione negli scontri militari.

Il vincolo di un solco inciso

Caratteristiche dei droni kamikaze israeliani

Secondo il giornale moscovita “Kommersant”: «Il vantaggio principale dei droni, soprattutto di classe piccola e media, sarebbe il basso costo di funzionamento. I droni d’attacco di piccola e media portata sono piattaforme per l’utilizzo di armi ad alta precisione e strumenti di sorveglianza e ricognizione abbastanza avanzati. Sono in grado di colpire la maggior parte dei bersagli sul campo di battaglia e dietro le linee nemiche, pur rimanendo velivoli molto semplici rispetto ai moderni aerei e elicotteri con equipaggio». I progressi della tecnologia hanno reso possibile la produzione di missili e bombe di piccole dimensioni e massa, che, nonostante le dimensioni e il prezzo, possono colpire i bersagli più tipici sul campo di battaglia.

Il secondo vantaggio dei droni è che non c’è un pilota a bordo e sono controllati da operatori che sono a decine, centinaia e persino migliaia di chilometri dal fronte. Ciò consente di renderli economici anche sotto il profilo del “capitale umano”: se il pilota non può essere ucciso o catturato durante la missione, questa può essere molto più rischiosa. Il terzo vantaggio è la possibilità di svolgere missioni di molte ore. I droni a turbogetto che volano a velocità molto basse (meno di 200 km/h) – spiegano gli esperti – sono estremamente economici in termini di consumo di carburante.

Il last but not least tra i vantaggi dei droni è che sono stati originariamente concepiti come una parte importante della rete informativa sul campo di battaglia. I droni sono una piattaforma per vari sensori che studiano la situazione e identificano i bersagli. Condividono queste informazioni in tempo reale con gli operatori, che, a loro volta, le condividono anche in tempo reale con l’intera rete di controllo del combattimento. Inoltre, è possibile insegnare facilmente ai droni a interagire tra loro. Entrambe le opzioni sono state mostrate nel video del Ministero della Difesa azero del Karabach. Non è un caso che durante la guerra il Canada ha vietato la fornitura di stazioni elettroniche ottiche alla Turchia, di solito risolti con l’aviazione “tradizionale” ma che in questo caso sono state eseguite da droni.

Adattabilità a guerre con caratteristiche diverse

Gli aerei senza pilota presentano comunque anche evidenti svantaggi rispetto alle piattaforme con equipaggio. Il carico utile dei droni di piccole e medie dimensioni è limitato a causa dei motori di potenza relativamente bassa. In parole povere, i sistemi con equipaggio sono in grado di lanciare simultaneamente molti più bombe o proiettili sul nemico rispetto ai droni. E questo può essere importante in una “guerra ad alta intensità” – un conflitto tra potenze militari avanzate.

Per 38 anni, da quando furono usati per al prima volta dall’aviazione israeliana, i droni si sono trasformati da uno strumento di nicchia per operazioni speciali in parte integrante della ricognizione e della designazione del bersaglio. Fino a pochi anni fa, infatti, i droni d’assalto venivano usati (principalmente dagli americani) per effettuare attacchi mirati contro “bersagli leggeri”: leader politici o “terroristi”, petroliere dello Stato Islamico…

Come ha dimostrato l’esperienza della guerra in Karabach, i droni di altri produttori possono essere rapidamente inclusi in questo sistema: in particolare, i droni kamikaze di fabbricazione israeliana e gli aerei d’attacco Su-25 di progettazione sovietica fanno parte integrante dell’arsenale azero ma guarda caso non di quello armeno.

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Il Grande Gioco in Asia centrale: la Cina palleggerà da sola contro il muro? https://ogzero.org/la-bri-cambia-rotta-in-asia-centrale-la-cina-palleggera-da-sola/ Thu, 26 Nov 2020 15:32:30 +0000 http://ogzero.org/?p=1844 Ricordate il “nuovo Grande Gioco”? Agli inizi degli anni Duemila, qualcuno aveva etichettato così la competizione tra Cina, Russia e Stati Uniti in Asia Centrale, rievocando la rivalità regionale tra impero russo e britannico nel XIX secolo. Ebbene, negli ultimi anni il “Grande Gioco” è diventato un “singolo” tra i due ingombranti vicini: la Russia, […]

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Ricordate il “nuovo Grande Gioco”? Agli inizi degli anni Duemila, qualcuno aveva etichettato così la competizione tra Cina, Russia e Stati Uniti in Asia Centrale, rievocando la rivalità regionale tra impero russo e britannico nel XIX secolo. Ebbene, negli ultimi anni il “Grande Gioco” è diventato un “singolo” tra i due ingombranti vicini: la Russia, che da vecchia Madre ha continuato a garantire la sicurezza dell’area ex sovietica, e la Cina, la potenza emergente che con il suo peso economico si è gradualmente imposta nelle dinamiche interne, arrivando a esercitare un maggiore ascendente anche sugli equilibri politici e sul mantenimento della sicurezza nel quadrante minacciato dal terrorismo islamico. Con la pandemia di coronavirus c’è chi prevede che Pechino comincerà presto a palleggiare da solo contro il muro.

Pechino e i suoi rapporti diretti con gli “stan”

Ma facciamo un passo indietro. Dalla caduta dell’Unione Sovietica il gigante asiatico non ha lesinato gli sforzi per cercare di recuperare il tempo perduto stabilendo rapporti diretti con gli “stan”, gestiti fino agli anni Novanta attraverso il filtro di Mosca. Nel 2009, il Dragone ha soppiantato la Russia diventando primo partner commerciale dell’Asia Centrale con 10 miliardi di dollari di scambi contro i 527 milioni del 1992. Di più. Ha cominciato a ridisegnare il network di infrastrutture energetiche d’epoca sovietica entrando a gamba tesa negli affari di Mosca. Ormai la Cina controlla un quarto del petrolio kazako ed è il primo acquirente di gas turkmeno. Tiene a galla Kirghizistan e Tagikistan finanziando un terzo del debito estero di Bishkek e coprendo il 42 per cento dei conti in rosso accumulati da Dushambe.

L’Asia Centrale: un ponte tra Oriente e Occidente

La nascita della Belt Road Initiative (BRI) – annunciata nel 2013 in Kazakistan – si colloca alla fine di un lungo corteggiamento cominciato nel 1994, quando l’allora premier cinese Li Peng passò in rassegna tutta l’Asia Centrale – Tagikistan escluso – trascinandosi al seguito una truppa di imprenditori per promuovere lo sviluppo di “una nuova Via della Seta” a base di “infrastrutture moderne”. Il resto è storia recente. Sette anni fa, il presidente cinese Xi Jinping ha individuato nella regione, ricca di risorse naturali, uno snodo cruciale per stabilizzare e rilanciare economicamente le arretrate regioni della Cina occidentale, che condividono confini ed etnie con Tagikistan, Kirghizistan e Kazakistan. Per sua vocazione naturale, l’Asia Centrale si candidava a ponte tra Oriente e Occidente.

La Nato asiatica e il soft power cinese

Da allora Pechino ha guadagnato terreno a scapito di Mosca coltivando il proprio soft power (con borse di studio e l’istituzione di oltre 20 centri specializzati in studi centroasiatici), cementando la propria presenza militare con esercitazioni sulle alture del Pamir, e rafforzando la propria posizione all’interno della Shanghai Cooperation Organization, la “Nato asiatica” che dopo aver svolto per il primo decennio funzioni di antiterrorismo è stata arricchita di finalità economiche in previsione di possibili sinergie con la Bri e l’Unione economica eurasiatica. Nonostante l’iniziale reticenza di Mosca, la spartizione dei vecchi ruoli è andata sfumando. Agli attori regionali, inizialmente, la cosa stava anche bene. Nell’ottica di un processo di “derussificazione” nello spazio postsovietico, l’avanzata cinese serviva a controbilanciare l’influenza moscovita, fornendo un nuovo modello di riferimento a base di capitalismo di stato, sistema politico monopartitico e scarsa tutela dei diritti umani. Risultato: nel 2018, gli investimenti diretti esteri cinesi nei cinque “stan” hanno raggiunto i 14,7 miliardi di dollari rispetto agli 8,9 miliardi registrati al momento del lancio della Bri.

Il nuovo “impero” è economicamente e politicamente instabile

Poi è successo qualcosa. Come spiega Jonathan Hillman in The Emperor’s New Road: China and the Project of the Century, a oggi la nuova via della seta si presenta come un insieme di «iniziative mal coordinate più che una vera e propria strategia». Nonostante le ricorrenti accuse di “neocolonialismo”, il gigante asiatico non sembra gestire al meglio il nuovo “impero”. L’insostenibilità economica degli investimenti cinesi, in Asia Centrale, è stata amplificata dalla corruzione endemica, mentre la stabilità assicurata per anni dalla longevità politica dei leader sovietici non è più così scontata dopo la successione in Kazakistan e Uzbekistan, e la recente insurrezione popolare in Kirghizistan. A conti fatti, nell’ultimo lustro l’heartland ha perso terreno a vantaggio del Sudest asiatico, dove si concentra quasi un terzo degli investimenti complessivi della Bri. Ma questo non implica necessariamente un disimpegno del Dragone dalle steppe centroasiatiche, quanto piuttosto un cambiamento di rotta. Un cambiamento reso anche più necessario dall’arrivo di Covid-19 .

Il virus fa cambiare rotta ai cinesi

Con gli Stati Uniti in balia del coronavirus e la Russia schienata dal crollo dei prezzi del petrolio, la Cina rimane l’unica ancora di salvezza per la regione. Dopo un primo illusorio contenimento dell’epidemia, la chiusura dei confini di Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan non solo non ha prevenuto la diffusione del contagio – secondo cifre sottostimate sono oltre 162.000 le infezioni in Kazakistan, il paese centroasiatico con il bilancio più elevato. Ma ha persino aggravato le difficoltà economiche della regione interrompendo la catena di approvvigionamento, impedendo il ritorno dei lavoratori migranti e facendo schizzare l’inflazione. Secondo la Banca Mondiale, l’Asia Centrale chiuderà il 2020 con una contrazione della crescita del 5,4%. Al contrario la locomotiva cinese ha ripreso a viaggiare in terreno positivo. Qualche incidente di percorso c’è stato. A giugno il ministero degli Esteri cinese aveva ammesso che il 20% dei progetti Bri è risultato “gravemente compromesso” dalla pandemia, mentre il 30-40% lo è stato parzialmente. Ma le ultime statistiche ufficiali danno gli investimenti cinesi lungo la via della seta in crescita del 30% nei primi tre trimestri. Secondo dati dell’Amministrazione generale delle dogane cinese il commercio estero con i paesi Bri è aumentato dell’1,5% fino a oltrepassare i mille miliardi di dollari.

Nuovi piani strategici

Nonostante le molte criticità, l’interessamento per l’Asia Centrale non sembra prossimo a svanire. Lo scorso 16 luglio, per la prima volta, Pechino ha chiamato virtualmente a raccolta i ministri degli Esteri di tutti e cinque gli “stan” replicando un format già utilizzato nella regione da Giappone, Corea del Sud e Unione europea. L’iniziativa, che rompe con l’usuale predilezione cinese per i bilaterali, ha spianato la strada per la visita fisica del capo della diplomazia cinese Wang Yi in Kazakistan e Kirghizistan poco prima che la contestazione del voto gettasse Bishkek nella peggiore crisi politica dagli scontri etnici del 2010. In quell’occasione, non è stata fatta nemmeno una parola dei nuovi investimenti da 600 milioni di dollari preannunciati a giugno da Pechino e Nursultan. In compenso, Wang ha promesso il supporto cinese «fino a quando la pandemia sarà completamente sconfitta».

La Nuova Via della Seta “sanitaria”…

In tempi di virus e difficoltà economiche globali, i capitali cinesi saranno in buona parte dirottati nel sistema sanitario locale, noto per le condizioni ospedaliere non ottimali, il limitato accesso ai farmaci e le carenze di un personale medico mal pagato. Dall’inizio dell’epidemia, la regione ha beneficiato di donazioni, forniture sanitarie e assistenza medica a distanza, messi a disposizione tanto dalle autorità provinciali quanto dalle aziende cinesi presenti nella regione, come Huaxin, Sany, Sinopec, China Construction e China Road and Bridge Corporation. Anche la Sco ha fatto la sua parte organizzando un seminario in tandem con Alibaba e l’Università di Medicina di Wenzhou. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, a seguito dell’ultimo meeting tra i rispettivi ministri degli Esteri «Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan e Mongolia hanno deciso di costruire insieme una fortezza antipandemia, una via della seta sanitaria e una comunità della salute per tutti». I partner regionali non hanno perso tempo. Solo pochi giorni fa l’Uzbekistan ha annunciato che 5000 volontari si sottoporranno alla sperimentazione del vaccino prodotto dalla Anhui Zhifei Longcom Biopharmaceutical nella speranza di ottenere un accesso privilegiato nel caso in cui il farmaco dovesse rivelarsi efficace.

Quello che sta avvenendo in Asia Centrale rispecchia su piccola scala il nuovo corso della Bri. Come spiega su “Eurasianet” Dirk van der Kley, Research Fellow presso l’Australian National University, Pechino non abbandonerà l’heartland, ma probabilmente cambierà la natura del suo attivismo economico puntando sempre meno sul finanziamento delle infrastrutture tradizionali per privilegiare gli investimenti diretti esteri, l’export di sovracapacità industriale e l’importazione di prodotti agricoli. Un segnale in tal senso giunge dal progressivo calo del debito accumulato da Tagikistan e Kirghizistan, i due paesi centroasiatici più dipendenti dai capitali cinesi. Secondo “Eurasianet”, l’ultimo prestito consistente concesso a Bishkek e Dushambe risale addirittura al 2014. Solo pochi giorni fa l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), la superbanca nata per colmare il deficit infrastrutturale dei paesi asiatici, ha annunciato la creazione di un dipartimento dedicato alla sanità e all’istruzione.

… e informatizzata

Con queste premesse è lecito attendersi un maggior protagonismo non solo della via della seta sanitaria ma anche della sua declinazione digitale: telemedicina, e-commerce, e-learning e fintech potrebbero in futuro sostituire le grandi opere. Il motivo lo sintetizza il Csis così: «Rispetto ai massicci progetti energetici e dei trasporti che hanno dominato i primi anni della Bri quelli che coinvolgono la tecnologia dell’informazione e della comunicazione sono generalmente a basso costo, meno visibili e destabilizzanti per le comunità locali, più semplici da realizzare e facili da monetizzare. Tutte qualità che li rendono meno rischiosi e più attraenti per gli investitori». Le cinesi Huawei, Ceiec, Citic Group e Costar Group sono già presenti da anni in Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan con l’istallazione di sistemi di videosorveglianza contro il crimine e gli incidenti stradali. Tashkent, Dushambe e Nursultan hanno speso ciascuna tra i 21 e i 22 milioni di dollari per realizzare il progetto “Safe City” in partnership con Huawei.

Il rigurgito etnonazionalista anticinese

Quello della sicurezza è un tema che sta a cuore tanto alle autocrazie centroasiatiche quanto al regime comunista cinese. Assicurare la stabilità dei paesi partner è diventata una priorità per Pechino. Soprattutto da quando, nel 2016, l’ambasciata cinese di Bishkek è stata colpita da un attacco dinamitardo attribuito a militanti uiguri, la minoranza etnica musulmana che l’Asia Centrale condivide con la regione autonoma del Xinjiang aldilà del confine con la Cina.

Dopo un ventennio di guerra a bassa intensità, l’astio degli uiguri nei confronti delle politiche cinesi ha finito per contagiare anche le altre etnie centroasiatiche. La reclusione di kazaki e kirghisi nei “centri per la rieducazione” del Xinjiang hanno infiammato l’opinione pubblica nei paesi d’origine. A febbraio accese proteste anticinesi hanno costretto alla cancellazione di un progetto Bri da 275 milioni di dollari per la costruzione di un hub logistico ad At-Bashy, nel Kirghizistan settentrionale. Nonostante il controllo sulle informazioni da oltrefrontiera, ci sono le prime avvisaglie di un latente rigurgito etnonazionalista. Secondo Oxus Society for Central Asian Affairs, negli ultimi due anni e mezzo si sono verificate almeno 98 manifestazioni contro la penetrazione cinese nella regione. Non è facile quantificare l’impatto del malumore popolare sugli interessi economici del gigante asiatico. Con la Russia e gli Stati Uniti messi fuori gioco dal Covid difficilmente i “nuovi khanati” sapranno dire di no ai finanziamenti cinesi. Ma è indicativa l’assenza di Kazakistan e Kirghizistan tra i 50 paesi firmatari della mozione presentata da Pechino per difendere le proprie politiche etniche in sede Onu.

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Considerazioni sul Libano che vanno oltre il Libano https://ogzero.org/considerazioni-sul-libano-che-vanno-oltre-il-libano/ Thu, 03 Sep 2020 09:08:42 +0000 http://ogzero.org/?p=1121 Archiviare i rapporti di forza coloniali in questo periodo di nazionalismi esasperati può ricondurre a modelli vecchi di secoli, anziché soddisfare le richieste di emancipazione dei popoli repressi: l'impero ottomano e quello russo tentano di ricreare le antiche sfere di influenza.

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«Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: “la Padania è una repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore”». Parole di Umberto Bossi nella sua dichiarazione d’indipendenza della Padania, 15 settembre 1996. Una sfida, una provocazione politica. Ma anche la realtà di un mondo in cui le Nazioni, come sono state disegnate negli ultimi secoli, non necessariamente corrispondono agli elementi coesivi che finora hanno consentito loro di sopravvivere in pace.

Anni fa sentivo un giovane militare israeliano stanco della guerra contro l’indipendentismo palestinese affermare: «A cosa serve tutto questo. Presto il mondo sarà globalizzato e le nazioni, come le conosciamo oggi, non esisteranno più. Ognuno vivrà dove meglio si trova». Quel futuro (non solo per il Covid) c’è e non c’è. E invece assistiamo a una lenta e spesso cruenta trasformazione del mondo come fu tracciato nella sabbia o sulle cime dei monti dai nostri nonni e bisnonni. Divisioni e non consolidamento.

Confini tracciati altrove

Da Bossi e la Padania, tra razzismo e settarismo religioso, non è difficile approdare sulle sponde meridionali del Mediterraneo. Non soltanto perché sono poche ore d’aereo ma perché il Vicino Oriente come lo vediamo sulle cartine geografiche e nelle cronache dei telegiornali, fu creato o disegnato nel Castello Devachan a Sanremo tra il 19 e il 26 aprile 1920 e consolidato – si fa per dire – pochi mesi dopo a Sèvres, in una antica fabbrica di porcellane a sud di Parigi. Il tutto sulle rovine di uno dei più longevi, affascinanti, poco studiati e spesso incompresi imperi della storia. Di cui anche il minuscolo territorio che conosciamo come Libano faceva parte.

Segno di cambiamento degli equilibri

L’esplosione del 4 agosto 2020 a Beirut, che ha ucciso oltre 200 persone e ferito altre 7000 devastando vaste zone della capitale libanese, ha riportato il paese dei cedri sulle prime pagine dei giornali. Accanto a dubbi, incertezze, ipotesi (attentato o incidente?) sono riprese le considerazioni sulla stabilità, direi quasi la sopravvivenza, del piccolo paese creato dalla Francia e di cui Parigi sembra rivendicare un diritto di tutela se non di più. I legami tra Francia e Libano risalgono al XVI secolo quando la monarchia parigina si rivolse al sultano ottomano per proteggere i cristiani di una regione che, dalla nascita di Gesù in poi, il mondo religioso cresciuto attorno alla sua memoria definisce “Terra santa” ma che per 623 anni, dal 1299 al 1922, faceva parte di uno degli imperi più longevi e potenti e spesso più illuminati della storia controllando, in nome dell’islam sunnita, fette importanti dell’Europa e dell’Asia.

Dove le feroci Crociate dei cristiani d’Europa non riuscirono nel loro intento di dominare la terra d’altri, la forza militare e la diplomazia degli imperi più recenti del vecchio continente ebbero maggiore successo. Con la sconfitta tedesca nella Prima guerra mondiale e la conseguente distruzione del suo alleato di comodo – l’impero Ottomano appunto – francesi, inglesi e italiani (con il consenso dello zar di tutte le Russie) si divisero le spoglie. Non fu un processo indolore. Il trattato di Sèvres provocò la reazione immediata dei nazionalisti turchi sopravvissuti alla sconfitta del vecchio impero. Mustafa Kemal Atatürk, il padre della Turchia moderna, guidò una serie di guerre per cacciare francesi, italiani, greci dall’Anatolia e dopo appena tre anni, con il Trattato di Losanna, gli europei furono costretti a fare un piccolo passo indietro riconoscendo i confini della Turchia di oggi. Un prezzo relativamente modesto visto come Gran Bretagna e Francia erano riusciti a consolidare la loro presenza nel Vicino Oriente e determinare la realtà di nuove entità come Siria, Iraq, e a gettare le basi, con il patto semiclandestino di Sykes-Picot (16 maggio 1916), per la creazione di Israele. Nelle loro menti probabilmente più che un regalo ai sionisti ebrei (peraltro quasi tutti europei) doveva essere un elemento di disturbo nel mondo arabo dominato dalle due anime principali dell’islam.

Mandato coloniale permanente?

Torniamo al Libano. La Società delle Nazioni, ratificando l’accordo Sykes-Picot, affidò la Grande Siria (la Siria attuale e cinque province che costituiscono l’attuale Libano) al controllo diretto della Francia. E Parigi agendo da padrone colonialista, nel settembre 1920 istituì la Repubblica libanese con Beirut come capitale sul territorio allora in gran parte cristiana ma con una forte minoranza musulmana (oggi maggioranza) e drusa. Il paese divenne indipendente alla fine della Seconda guerra mondiale. Fu adottata una Costituzione che voleva garantire i diritti delle varie comunità con un sistema di divisione del potere. Per molti anni ha funzionato trasformando il piccolo stato sulle rive del Mediterraneo in una specie di Svizzera del Medio Oriente: nel bene e nel male.

Gli sviluppi politici nella regione dopo la creazione dello stato d’Israele e, più di recente, con la rivoluzione khomeinista in Iran, assommato ai grandi cambiamenti demografici in Libano, hanno portato alla situazione che vediamo oggi. Con una provocatoria petizione online firmata da 60000 tra residenti e membri della grande e influente diaspora libanese, è stato chiesto alla Francia di tornare a prendersi cura del Libano con un nuovo Mandato. «La Francia non lascerà mai il Libano», parole del leader francese Macron in visita a Beirut devastata dall’esplosione al porto. «Il cuore del popolo francese batte ancora al polso di Beirut». Solo retorica o il neocolonialismo francese fatica a morire? Per sottolineare il legame storico, Macron ha fatto il bis tornando a Beirut il 1° settembre, cento anni dopo quel famoso “Mandato”. Ancora parole, ma forse la consapevolezza che troppi fattori, locali e regionali, giocano contro un ruolo di Parigi che vada oltre eventuali piogge di euro per sostenere un sistema corrotto e fallimentare. Di sicuro, con la divisione del potere costituzionale che non rispecchia più la realtà demografica del Libano, il futuro della piccola nazione è sempre più in bilico in un mondo in cui montano le tendenze autonomiste, si inasprisce lo scontro tra Iran e Arabia saudita, gestori delle due verità contrapposte dell’islam, e prendono impeto le aspirazioni di vecchie potenze imperiali, tra cui la Turchia. Una nota: gli stati nazionali radicati nella storia della regione di cui parliamo sono appena quattro: Egitto, Iran, Yemen e Turchia.

Il passato, un incubo rinnovabile

La disgregazione dell’Unione sovietica e della Jugoslavia hanno aggiunto nuove nazioni all’Onu e si è parlato molto negli ultimi anni di ridisegnare i confini del Medio Oriente per soddisfare le istanze, per esempio, dei curdi, traditi dalle spartizioni postimpero Ottomano. Stesse ipotesi aleggiano per risolvere il conflitto interno della Libia, altra realtà complessa disegnata dall’Italia coloniale dopo la cacciata dei turchi da Cirenaica e Tripolitania. In essenza, è in corso nel bacino del Mediterraneo un grande gioco i cui protagonisti rispecchiano più il passato che un’idea rivoluzionaria per il futuro. Mentre la Francia rincorre la sua gloria appassita e la Russia agisce pensando non tanto all’Urss, di relativamente breve memoria storica, quanto al grande impero degli zar che molti osservatori tendono a dimenticare, la Turchia (membro della Nato, formalmente alleato dell’Occidente e, purtroppo, più volte respinta come possibile membro dell’Unione europea) sembra voler ripristinare la gloria dell’impero d’Oriente e dell’islam sunnita che dominarono per sei secoli sulle rovine dell’impero cristiano di Costantinopoli. La nuova classe dirigente turca e buona parte degli ufficiali superiori rivendicano quanto meno un ruolo di potenza regionale soprattutto sul Vicino Oriente islamico.

Per i servizi segreti israeliani, che guardano con simpatia alle mosse di Macron, e per la Cia, in uno stato di confusione anche per la politica attuale della Casa Bianca, la Turchia di Erdoğan (in corso di collisione con la Grecia per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel Mediterraneo) «è più pericolosa dell’Iran» degli ayatollah. Di sicuro l’estensione della presenza militare di Ankara – dalla Libia a Siria, Libano settentrionale, Iraq, Qatar, Afghanistan, Somalia e i Balcani – non è mai stata tanto vasta dai giorni dell’Impero Ottomano. L’accordo tra gli Emirati arabi uniti (che hanno paura dell’Iran) e Israele (nemico principale di Tehran) fa parte del Grande gioco regionale che mette in difficoltà soprattutto le pedine più piccole e deboli. Quelle create a tavolino.

Assisteremo a nuove guerre e alla creazione di nuovi confini? Una piccola scintilla potrebbe far esplodere le istanze autonomiste di cui conflitti religiosi e tribali sono i sintomi sempre più evidenti. Se la nostra Padania non è veramente a rischio perché non vi esistono le condizioni fondamentali per rivendicare l’autodeterminazione, non è così per molte delle realtà nel Vicino Oriente (e non soltanto) dove vi sono popoli riconosciuti come tali sottomessi da governi non rappresentativi che li discrimina come razza, credo o colore.

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L’Iran da Astana all’Eurasia https://ogzero.org/liran-da-astana-alleurasia/ Sun, 02 Aug 2020 22:20:34 +0000 http://ogzero.org/?p=990 Massima pressione americana e scenario multilaterale regionale È passato inosservato l’ultimo vertice dei presidenti di Russia, Turchia e Iran, riuniti il 1° luglio scorso (in videoconferenza) per discutere gli ultimi sviluppi della situazione in Siria. Il virtuale incontro però aveva la sua importanza. Per cominciare, ha riaffermato che il cosiddetto “processo di Astana” non è […]

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Massima pressione americana e scenario multilaterale regionale

È passato inosservato l’ultimo vertice dei presidenti di Russia, Turchia e Iran, riuniti il 1° luglio scorso (in videoconferenza) per discutere gli ultimi sviluppi della situazione in Siria. Il virtuale incontro però aveva la sua importanza. Per cominciare, ha riaffermato che il cosiddetto “processo di Astana” non è defunto, come molti andavano annunciando.

Con questo nome si indica la serie di colloqui cominciata del dicembre 2016 nella città di Astana (Kazakhstan) per iniziativa di Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdoğan e Hassan Rohani con l’inviato del segretario generale dell’Onu per la Siria: una iniziativa diplomatica per la pace in Siria, parallela agli (inconcludenti) colloqui sponsorizzati dall’Onu a Ginevra. Il format di Astana ha portato nel settembre 2017 a un accordo per istituire quattro “zone di de-escalation” nel territorio siriano, di cui le tre potenze si sono fatte “garanti”.

Non entreremo qui nei dettagli di come questi accordi si sono tradotti sul terreno: che la Siria sia ancora lontana da una effettiva stabilizzazione è sotto gli occhi di tutti. Il punto che qui interessa è che sotto lo stravagante format intitolato a una citta kazakha abbiamo tre potenze regionali che discutono compromessi e accordi in uno scenario, la Siria e il Vicino Oriente, dove però le rispettive agende politiche sono diverse e spesso in aperto conflitto. A cominciare dal fatto che la Turchia appoggia le formazioni ribelli sunnite che cercano di rovesciare il governo di Bashar al Assad, mentre la Russia e l’Iran si sono adoperati anche militarmente per tenerlo in piedi.

Più in particolare, il vertice di luglio è stato il primo da quando Turchia da un lato, Russia e Iran dall’altro si sono scontrati nella provincia di Idlib, la più ampia delle zone di “de-escalation” (la tensione era salita in febbraio con 33 militari turchi uccisi da un raid attribuito a jet russi, a cui la Turchia ha risposto attaccando forze del regime siriano e milizie sciite filoiraniane). Una relativa calma è tornata dopo che Erdoğan in marzo è volato a Mosca e ha concordato con Putin un cessate il fuoco, con un meccanismo di “corridoi di sicurezza” per garantire le vie di comunicazione, e di pattugliamenti comuni che però dovrebbe preludere alla ripresa di controllo delle forze di Damasco sulla provincia di Idlib (ovvero, sembrerebbe che Ankara abbia dovuto accettare le condizioni russe). In realtà molti segnali dal terreno fanno temere una ripresa di ostilità.

 

Integrazione attraverso scambi, favori e relazioni complicate

Eppure il comunicato congiunto del vertice tripartito lascia intendere che la Russia lascerà alla Turchia più tempo per concludere ciò che si è impegnata a fare nel quadro degli accordi di Astana, e cioè mettere sotto controllo i ribelli jihadisti siriani che operano nella provincia di Idlib. Le variabili sono numerose e complicate: dalla dinamica tra le formazioni ribelli più dipendenti dal sostegno turco (come Hayat Tahrir Shams) e quelle più radicali – al controllo delle province nordorientali a maggioranza kurda, che la Turchia considera una propria zona di pertinenza (tanto che occupa un’ampia “zona cuscinetto” con l’accordo di fatto degli Usa e anche della Russia). Concedere alla Turchia di occupare altro territorio siriano-kurdo potrebbe diventare moneta di scambio per recuperare zone strategiche controllate dai ribelli sunniti più a sud. Altre variabili poi ci porterebbero in Libia, un altro teatro di guerra internazionalizzata dove Mosca e Ankara sono su fronti contrapposti: le due crisi sono molto intrecciate.

Tutto questo dice quanto sia ancora lontano un assetto stabile che sia preludio alla pace in Siria. Intanto però il format di Astana afferma la sua esistenza sulla scena mediorientale come un fronte politico-diplomatico contrapposto a quello a conduzione statunitense.

La dichiarazione dei tre presidenti per esempio se la prende con «l’appropriazione e trasferimento illegale di risorse petrolifere che appartengono alla Repubblica Araba di Siria», allusione alle forze degli Stati Uniti che presidiano due campi petroliferi nella provincia nord-orientale siriana, la cui amministrazione autonoma curda (controllata dalle Forze democratiche siriane, filo Usa) ha di recente concesso a compagnie Usa il diritto di commercializzare il petrolio estratto. I tre presidenti ribadiscono inoltre l’impegno a difendere «sovranità, indipendenza e integrità territoriale» della Siria, quindi a «respingere iniziative illegali di autogoverno» – riferimento alla tentazione di affermare un’autonomia territoriale curda nel Nordest difesa dagli Usa. Condannano le sanzioni statunitensi contro la Siria.

La dichiarazione congiunta poi condanna «gli attacchi militari di Israele in Siria», e questa è una concessione al presidente Rohani: si riferisce alla serie di raid condotti nelle ultime settimane da forze israeliane contro obiettivi iraniani e delle milizie filoiraniane intorno a Damasco (l’ultimo episodio è del 20 luglio). Ma proprio questo è anche un esempio di come il format tripartito copra agende molto diverse. Infatti è dubbio che la Russia abbia davvero intenzione di reagire agli attacchi di Israele contro obiettivi iraniani in Siria. C’è perfino chi parla di un vero e proprio accordo dietro le quinte tra Mosca e Tel Aviv (che peraltro hanno intensi contatti diplomatici) per ridimensionare le milizie filoiraniane, e in generale la presenza dell’Iran in Siria.

Lo scenario è complicato, e anche le relazioni tra Tehran e Mosca lo sono. Nel 2015 l’Iran ha concesso ai jet russi in partenza dalle basi nella regione del Caucaso di sorvolare il proprio spazio aereo per andare a bombardare le postazioni dello Stato islamico in Siria, e a Tehran la cosa era presentata come il primo passo di una nuova alleanza strategica con Mosca. L’occasione era la comune “guerra alla Stato islamico”, o Daesh secondo l’acronimo in arabo (pare che ai russi interessasse in particolare colpire le milizie cecene all’interno delle formazioni jihadiste). L’Iran aveva già mandato forze speciali sul terreno a sostenere l’esercito governativo e organizzare milizie; l’entrata in gioco della Russia ha contribuito in modo decisivo a cambiare le sorti militari del conflitto siriano e salvato il regime di Assad.

Dal punto di vista dell’Iran, l’interesse strategico in Siria è evidente. Si tratta di un raro “paese amico” tra i vicini arabi (e da lunga data: negli anni Ottanta Damasco con Hafez al Assad, è stata l’unica capitale araba a non appoggiare l’invasione dell’Iran da parte dell’Iraq di Saddam Hussein), e di un’area di influenza strategica importante, via di comunicazione verso il Mediterraneo, accesso verso l’alleato movimento di Hezbollah in Libano: dunque quella che Tehran considera la sua “profondità strategica” nei confronti di Israele. Vedere a Damasco un governo sunnita di stampo saudita sarebbe per Tehran un disastro da evitare a tutti i costi. Per questo ha sostenuto l’esercito governativo siriano e varie milizie filogovernative, spesso addestrate e organizzate dalle Guardie della rivoluzione iraniana (anche se nessuno ne darà mai conferma ufficiale): cosa che continuerà finché le varie reincarnazioni di Daesh e di al-Qaeda avranno i loro sponsor. L’obiettivo iraniano è assicurarsi in futuro che a Damasco sieda un governo non ostile. Anche la Russia, che ha in Siria la sua unica base militare nel Mediterraneo, ha tutto l’interesse a garantirsi in Siria un governo amico.

Le convergenze di interessi però non sono eterne, e comunque non esclusive. Le milizie organizzate dalle Guardie della Rivoluzione iraniane in Siria (e in Iraq) sono state fondamentali per respingere l’offensiva dello Stato islamico (e il principale artefice di questo successo sul terreno è stato il comandante delle forze speciali al Qods, Qassem Soleimani, poi ucciso da un raid statunitense nei primi giorni di gennaio 2020 a Baghdad). Ma quelle milizie sono diventate ingombranti per molti, sia in Iraq che in Siria: che esista o meno un accordo dietro le quinte tra Israele e Russia, entrambe le parti hanno interesse a ridimensionare l’influenza iraniana sul terreno.

Questo non significa che l’alleanza strategica sia finita. E in ogni caso non impedirà a Russia, Turchia e Iran di tenere “al più presto” il prossimo vertice del “processo tripartito”, questa volta in presenza a Tehran su invito del governo iraniano (ma non c’è ancora una data).

 

Astana per uscire dall’isolamento: cooperazione e infrastrutture

Come valutare il “processo di Astana”, visto da Tehran? Per rispondere bisogna allargare lo sguardo. L’Iran ha un evidente interesse a far parte di una sede di diplomazia multilaterale. In primo luogo per restare nel gioco regionale: riaffermare che una soluzione per la Siria non può prescindere da tutte le parti in causa nella regione, e l’Iran è una di queste (si ricordi che i primi, vani tentativi di dialogo sulla Siria promossi in sede Onu avevano escluso l’Iran a causa del veto Usa: solo dopo l’accordo sul nucleare del 2015, su insistenza russa, i rappresentanti di Tehran sono stati ammessi ai “colloqui sulla Siria” – benché finora inconcludenti).

L’interesse però va oltre la Siria, per quanto importante. Il punto è che la Repubblica Islamica dell’Iran fa i conti con uno storico accerchiamento nella regione: politico, diplomatico, a volte militare (come quando le truppe Usa si trovavano in Iraq, in Afghanistan, oltre a pattugliare il Golfo Persico). L’accordo sul nucleare del 2015 (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa, firmato da sei potenze mondiali e dall’Iran) aveva rotto l’isolamento. Ma da quando nel maggio 2018 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha deciso di buttare alle ortiche l’accordo, intorno all’Iran si è costruito un nuovo blocco: un muro di sanzioni senza precedenti. Benché unilaterali, il sistema di sanzioni Usa riesce a isolare l’Iran grazie al ricatto delle sanzioni secondarie (che colpiscono aziende e paesi terzi che abbiano contatti commerciali con Tehran). È la strategia della “massima pressione”. Non che sia riuscita a far crollare l’Iran, e difficilmente ci riuscirà: ma certo sta pesando molto. Dal crollo delle esportazioni di greggio alla difficoltà di acquistare pezzi di ricambio industriali, derrate alimentari o materiale medico, gli iraniani stanno pagando un prezzo molto alto.

L’Iran ha un disperato bisogno di rompere questo isolamento. Per questo, con il “programma tripartito” di Astana e ben oltre, l’Iran ha un interesse fondamentale ad approfondire la cooperazione strategica con la Russia, come del resto con la Cina. E con i paesi vicini. Con la Turchia in particolare l’Iran ha legami di vecchia data, sia politici che commerciali, culturali, umani (la Turchia è tra i pochissimi paesi dove i cittadini con passaporto iraniano non abbiano bisogno di un visto d’ingresso). Benché spesso in concorrenza sulla scena regionale, Tehran e Ankara mantengono una “cooperazione strategica” nell’interesse reciproco.

Tanto più importante è la sponda russa. Il 22 luglio scorso il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif ha concluso una missione a Mosca, dove ha portato un “messaggio speciale” del presidente Hassan Rohani a Vladimir Putin (il contenuto del messaggio non è stato diffuso), e dove ha discusso con il suo omologo, il ministro degli esteri Sergey Lavrov, una serie di questioni bilaterali e di coordinamento regionale. Non sapremo cosa si sono detti circa lo scacchiere siriano. Sappiamo però che Iran e Russia hanno concordato di definire un nuovo accordo ventennale di cooperazione strategica, che vada oltre quello attualmente in vigore (che scade in marzo).

Analogo accordo è quello che l’Iran ha in ballo con la Cina: un accordo venticinquennale di cooperazione economica e di sicurezza, che secondo alcune fonti sarebbe addirittura già stato firmato anche se finora è circolata solo una bozza ufficiosa e numerose illazioni (cosa che ha suscitato grandi critiche in Iran, e attacchi dell’opposizione conservatrice che accusa il governo di Rohani di “svendere” il paese). L’accordo è in discussione da quando il presidente Xi Jinping in visita a Tehran nel 2016 ne ha parlato con l’ayatollah Ali Khamenei, e tratterà di energia, telecomunicazioni, infrastrutture come porti e ferrovie – e del petrolio che la Cina comprerà dall’Iran.

Gli accordi di cooperazione con Russia e Cina sono di sicuro il tentativo, per l’Iran, di allentare la “massima pressione” statunitense cercando la partnership di due potenze altre (entrambe membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu). Ma in entrambi i casi la cooperazione è cominciata ben prima dell’avvento di Trump a Washington. La realtà è che la “massima pressione” avrà solo accelerato una dinamica che sarebbe emersa comunque, la tendenza a una maggiore integrazione in quello spazio di scambi e relazioni politiche ed economiche spesso chiamato “Eurasia” e di cui l’Iran è un tassello centrale, in senso geografico e politico: in cui si incrociano corridoi di trasporti e progetti industriali, la Belt Road Initiative cinese, i gasdotti russi, ferrovie, porti (come quello Chabahar sulla costa iraniana, possibile sbocco nell’oceano Indiano per molte repubbliche centroasiatiche). Uno spazio multilaterale in cui Tehran sta a pieno titolo.

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La spartizione delle risorse nel Mediterraneo https://ogzero.org/accordo-tra-erdogan-e-serraj-e-la-spartizione-delle-risorse-nel-mediterrano/ Fri, 24 Jul 2020 00:24:15 +0000 http://ogzero.org/?p=99 24 luglio 2020 Con le esplicite intenzioni espresse ad alto livello dai due responsabili degli Affari esteri turco e russo in relazione alla soluzione libica, che da opposte fazioni sarebbe individuata nella diplomazia da trovare in un prossimo incontro a Mosca, appare sempre più evidente un più ampio piano comune globale giocato nel centinaio di […]

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24 luglio 2020

Con le esplicite intenzioni espresse ad alto livello dai due responsabili degli Affari esteri turco e russo in relazione alla soluzione libica, che da opposte fazioni sarebbe individuata nella diplomazia da trovare in un prossimo incontro a Mosca, appare sempre più evidente un più ampio piano comune globale giocato nel centinaio di incontri tra Putin e Erdoğan nei quattro anni intercorsi dal fallito golpe del 15 luglio 2016 e sancito dagli Astana Papers. Dovunque nello scacchiere mediorientale le due potenze locali occupano campi avversi e in ciascuno di questi teatri di guerra, dopo scaramucce per procura, giocano il ruolo dei pacificatori, spartendosi risorse e territori, economie e infrastrutture, governance e vie di comunicazioni… Hanno cominciato il gioco in Siria, dove la Turchia, appartenente ancora alla Nato, ha coperto il maggiore interesse russo – procurandosi la striscia antikurda che richiedeva e congelando Idlib, bacino di milizie jihadiste da svuotare per utilizzarle in Libia,  dove risulterà il vincitore accaparrandosi il petrolio dell’Eni (come nel quadrante del Mediterraneo orientale), pur beneficiando l’“alleato” russo del controllo di parte del territorio sottraendolo all’influenza occidentale tanto paventata da Putin all’indomani dell’abbattimento di Gheddafi; e ora il connubio tra zar e sultano si va a occupare del Nagorno Karabakh, resuscitando una disputa trentennale nei piani di Putin utile a bloccare il South Caucasus Pipeline, impossibile da far passare in mezzo a una nuova guerra tra armeni (fieri nemici dei turchi per il genocidio e alleati dei russi per affinità religiosa) – che infatti hanno iniziato le provocazioni belliche nel giugno 2020 – e azeri, appoggiati dai turchi.

Il prossimo palcoscenico della pantomima che apparentemente divide Russia e Turchia, ma non i loro interessi finali si gioca attorno al reale interesse dei due tiranni: le pipeline, quelle da boicottare per l’interesse di Gazprom, a cominciare da quella che passerebbe attraverso la Grecia a partire da Israele per giungere in Salento, che si configura come concorrente del South Stream turco, ma anche delle pipeline russe, da cui dipendono gli approvvigionamenti energetici occidentali.  

Le prime reazioni internazionali al sempre maggiore dinamismo turco nell’area si ebbero con l’accordo intercorso tra Erdoğan e Sarraj per spartirsi il petrolio del Mediterraneo, un vero e proprio abuso, sono state minime: una fregata italiana a difendere i giacimenti che l’Eni si era aggiudicata nel mare prospiciente Cipro – dimenticata in questa operazione, forse perché comunque la Turchia la considera integralmente di sua proprietà – e infatti  la Grecia ha espulso l’ambasciatore turco. Ma cosa si può immaginare in trasparenza dietro a questa sorprendente iniziativa? In quale contesto nei due paesi si va a inserire?

 

Il maresciallo libico Khalifa Haftar e il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov a Mosca, il 13 gennaio 2020 (Ufficio stampa del ministero degli Esteri russo via AP)

Murat Cinar analizza i meccanismi che il 12 dicembre 2019 regolavano gli interessi nell’area

Da quell’episodio si è potuto allargare il campo, ai molti motivi di scontro e guerra aperta, di repressione e strategie, alleanze e affinità religiose (piegate a fare da foglia di fico per gli interessi geopolitici): il parlamentare Demirtaş malato non curato nel carcere di Edirne dove è ostaggio del regime, banche nazionalizzate per svuotarne i forzieri e sovvenzionare le infrastrutture che fanno da bacino di voti per l’Akp, e poi l’arabizzazione forzata del Rojava negli intenti di Erdoğan – e in questo ambito si registrano le affermazioni di Assad, disponibile a incontrare il presidente turco ma solo per ricordargli che è un invasore (ma in fondo anche Assad padre aveva operato un’arabizzazione della regione ai danni dei curdi); le due fazioni che si contendono il potere in quella che era la Libia sono sempre più internazionalizzate, con precisi appoggi agli uni o agli altri, con la presenza russa che condiziona protagonisti di entrambi i campi di questa guerra per procura, che è un risvolto di quanto è successo e sta accadendo in Siria, un paese che sta diventando modello anche per una nazione che non esiste più dalla fine di Gheddafi; l’attenzione turca si sta da tempo concentrando anche sul Nordafrica e la Libia dove Arabia Saudita ed Emirati, insieme all’Egitto del generale al-Sisi, sostengono il capo della Cirenaica Khalifa Haftar. Mentre Ankara, con il Qatar e in parte l’Italia, appoggia il governo di Tripoli, la città di Misurata e la Fratellanza Musulmana.

La guerra in Libia non è più guerra civile, è diventata regionale. A sostegno di Haftar si prodigano militarmente Egitto, Emirati Arabi e Russia. A oggi l’unico attore forte regionale è la Turchia che non ha mai cambiato posizione e non ha problemi a dichiarare il suo approccio interventista, riaffermando il suo ruolo nella regione anche in relazione a quanto accade in Siria (lì si riproduce lo stesso meccanismo insito nel rapporto di Ankara con la Russia).
La Francia auspica una risoluzione politica-diplomatica ma è, insieme alla Nato, sul campo a combattere a fianco di Haftar. L’Italia – che politicamente appoggia Tripoli (e ha interessi economici in Tripolitania) – è in realtà statica, non ha “amici” in Libia, ma in realtà non è ostile a Haftar. Al-Sarraj aveva bisogno di sostegno militare, ma a parte la missione in difesa dell’ospedale di Misurata sicuramente una certa attività di intelligence, l’Italia non si è poi attivata più di tanto. La Turchia invece è disposta a farlo e al-Sarraj è stato obbligato ad accettare l’aiuto della Turchia. Le reazioni a catena dimostrano che ormai in quel territorio si sta svolgendo una proxy war, una guerra per procura.

Nancy Porsia spiegava il carattere regionale della guerra in Libia nel dicembre 2019

Il governo di Tripoli, ha reso noto di temere la “minaccia” di intervento egiziano in Libia dopo che il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, in una dichiarazione pubblicata, ha definito il Governo di accordo nazionale libico (Gna) “ostaggio di formazioni armate e terroriste”. Il Consiglio del Gna afferma di comprendere “il diritto dello Stato egiziano” alla “sicurezza nazionale ma non accetta alcuna minaccia alla propria sovranità” e “invita le autorità egiziane a rivedere le proprie posizioni circa la crisi libica e a giocare un ruolo positivo che rifletta la profondità delle relazioni storiche fra i due Paesi fratelli”.

E mentre a Tripoli si combatteva e le milizie misuratine lanciavano lo stato di mobilitazione contro l’ennesima fase dell’offensiva del generale cirenaico Haftar sulla capitale, il presidente turco Erdogan incassava l’approvazione da parte della commissione parlamentare Esteri dell’accordo di cooperazione militare con il Gna (il governo tripolino, inventato dall’Onu) siglato il 27 novembre a Istanbul con il premier Serraj.

Quanto la guerra libica sia sempre legata alla profonda crisi in atto nel Mediterraneo Orientale sui confini marittimi delle Zone Economiche Esclusive lo si evince anche dal rischieramento di un drone turco armato BayraktarTB2 all’aeroporto di Gecitakle nella regione di Famagosta, nella Cipro del Nord.

Come affermava Chiara Cruciati su “il manifesto” del 17 dicembre 2019:

Se con il memorandum Ankara si impegna a inviare materiale e consulenze (cosa che con i droni già fa da tempo, violando l’embargo libico), ora Erdogan promette anche truppe, in cambio del controllo sullo specchio di mare tra Creta e Cipro.

Il cosiddetto “accordo di demarcazione” regalerebbe ad Ankara la giurisdizione in acque che ospitano giacimenti di gas naturale tra i più ricchi al mondo, da quelli ciprioti (su cui minaccia anche Israele: è di domenica la notizia dell’allontanamento di una nave dell’Istituto di Oceanografia israeliano da parte della marina turca nelle acque di Cipro) e su quelli nordafricani.

Lo fa sfidando apertamente l’altro attore regionale della crisi libica, l’Egitto, che sta sulla barricata opposta, con Haftar. E sfida anche l’Italia, convinta da aspirazioni neocoloniali, più che dalla vicinanza geografica, che la Libia sia doverosamente affar suo: oggi il ministro degli Esteri Di Maio dovrebbe volare a Bengasi per vedere il generale renegade perché, come dicono in tanti, è tempo di mediare tra le due parti (fossero solo due…) e uscire dal guado. Il probabile incontro è stato preparato nei giorni scorsi dall’Aise, i servizi segreti italiani, già a Bengasi.

Insomma, ormai Haftar va rivalutato (questa sembra la visione dell’Italia che teme di perdere il malloppo a favore della Francia) sebbene da mesi stia stringendo d’assedio il governo voluto dall’Onu e riconosciuto come il solo legittimo dalla comunità internazionale, a partire da Roma.

Identica narrazione, indirettamente, la dà il governo egiziano: «Il governo a Tripoli – ha detto da Sharm el Sheik il presidente al-Sisi – è ostaggio di milizie armate e terroriste». Non li nomina, ma nel mirino di al-Sisi ci sono i Fratelli musulmani, considerati i veri reggenti tripolini e riferimento politico dell’Akp di Erdogan e del Qatar, l’altra potenza regionale alleata di Sarraj che nei giorni scorsi, per bocca dell’emiro Al Thani, ha detto di voler/poter intervenire «sul piano economico e della sicurezza» al fianco di Tripoli.

Dall’interventismo turco in mezzo Vicino Oriente non poteva mancare la stoccata al nemico-amico statunitense. Brucia ancora il riconoscimento da parte della Camera Usa, il 31 ottobre, del genocidio armeno. Ma bruciano di più la sospensione della vendita degli F35 e le sanzioni che Washington ha paventato se Ankara proseguirà nell’acquisto del sistema di difesa missilistico russo S-400.

E così Erdogan ha pensato bene di minacciare gli Usa di «chiudere la base aerea di Incirlik e la stazione radar di Kurecik, che ospitano i militari americani». Nella seconda c’è la Nato, nella prima bombe atomiche Usa. Erdogan non vede l’ora di metterci le mani: da Incirlik è partito un pezzo del tentato golpe del 2016.

L’aeroporto di al-Watiya a sudovest di Tripoli diventerà una base militare turca

Intanto, in seguito all’accordo bilaterale di cooperazione militare sottoscritto lo scorso novembre tra Ankara e il Gna, la Turchia occuperà due basi militari in Libia: il grande aeroporto di al-Watiya (nella foto), vicino al confine tunisino, 125 chilometri a sudovest di Tripoli, da dove sono state cacciate da poco le forze dell’Lna che la controllava dal 2014) e nel porto di Misurata. Forse la base verrà occupata anche dalle forze statunitensi dell’Africa Command (Africom) dopo le intese tra Ankara e Washington dei giorni scorsi e il colloquio tra Donald Trump ed Erdoğan. Mentre a Misurata verrebbe invece creata una base navale: la presenza di navi turche è considerata essenziale per la sicurezza delle attività di perforazione (petrolio e gas) nella regione.

Il porto di Misurata dove la Turchia installerà la sua base navale

 

L'articolo La spartizione delle risorse nel Mediterraneo proviene da OGzero.

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Il mare di Astana: il Mediterraneo https://ogzero.org/studium/il-mare-di-astana-il-mediterraneo/ Thu, 09 Jul 2020 10:26:26 +0000 http://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=435 L'articolo Il mare di Astana: il Mediterraneo proviene da OGzero.

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Il mare di Astana: il Mediterraneo

Le strategie diventate palesi in questioni mediorientali hanno prodotto proposte per risolvere i conflitti sulla sponda meridionale del Mediterraneo ma anche spartizioni di aree sottoposte al controllo dei poteri locali coalizzati ad Astana. Questo “studium” tentava di illustrare i diversi ruoli delle potenze regionali coinvolte e gli equilibri toccati a livello globale dagli sviluppi dei frequenti appuntamenti nel quadro del Processo di Astana.
Con il coinvolgimento di alcuni tra i più occhiuti esperti del quadrante mediorientale abbiamo tentato di accompagnare la narrazione di questo scorcio di periodo che volge al termine con la conclusione del “non coinvolgimento” trumpiano e le prime mosse della amministrazione Biden; ci siamo convinti che il cambiamento in atto vada a incidere sugli accordi che ad Astana hanno creato le condizioni per la spartizione tra Iran, Turchia e Russia delle spoglie della Mesopotamia, concludendo quella sorta di alleanza e dunque può essere legittima un’analisi conclusiva e complessiva, allargando lo “studium”, che avevamo avviato limitandolo al Mediterraneo, proponendo una fiaba piratesca intitolata ‘Tutti i mari di Astana’ come progetto editoriale.
Alla fine ce l’abbiamo fatta: questo è il primo prodotto risultato di un agglomerato di idee, interventi, articoli, podcast pubblicati attorno agli sviluppi degli Accordi di Astana: ha seguito esattamente i passi previsti dall’idea che ha dato la stura al progetto di OGzero, che proprio con questo confronto iterato deve arrivare a individuare la necessità di una pubblicazione che faccia il punto sull’argomento. Il lungo percorso, durato 16 mesi, con i tanti materiali che trovate qui di seguito, ha trovato in Antonella De Biasi chi ne ha fatto non solo una sintesi ma anche analisi ulteriori, ipotesi interpretative, collegato eventi e inanellato strategie più o meno palesi, usando una rotonda e piacevole forma linguistica puntellata da evocative metafore marinare.

E così possiamo proporvi questo splendido volumetto di 88 pagine, un concentrato di informazioni, approfondimenti e analisi: “Astana e i 7 mari”… buona lettura


Accordi di Astana di pacificazione graduale delle Sirie

A  caldo, mentre Tahrir al-Sham entrava in Damasco e le altre insorgenze prendevano possesso del territorio abbandonato dall’esercito in disfatta di Bashar al-Assad, abiamo sentito Murat Cinar per una brevissima analisi su quelli che possono essere i futuri orizzonti per quella terra che eravamo abituati a chiamare Siria e ora è un bantustan di comunità che come unico collante ha la gioia per la liberazione dal tirano fuggito a Mosca:

“La dissoluzione siriana: tappa storica del progetto di rivolgimento mediorientale”.

Non è l’epilogo di Astana, ma solo una tappa in più verso il nuovo disegno del medioriente

100%

Avanzamento



Acquistabile in libreria attraverso la rete di Fastbook

isbn: 9791280780027


Dopo il compimento definitivo della trasformazione del territorio tracciato da Sykes-Picot finora chiamato Siria, con l’accelerazione degli accordi globali che ha dato semaforo verde ai mercenari di Tahrir al-Sham concentrati per anni a Idlib per proseguire il piano ebraico-statunitense di cancellazione degli equilibri del Medio Oriente come li conosciamo da mezzo secolo a questa parte, abbiamo chiesto a Murat Cinar di aiutarci a comporre il mosaico, seguendo le strategie dei singoli protagonisti e lo sviluppo della Storia che ha visto travolgere i regimi tunisino,libico, egiziano, siriano… come diceva il (profetico nei suoi confronti) Gheddafi: «Chi è il prossimo?»

Intanto Astana si sposta a Doha, dando un segnale di quale dei tre pards stia dando le carte in questa fine del 2024: ERdogan e il suo bancomat al-Thani cercano di evitare di venire travolti e lo fanno giocando su più tavoli e facendo le mosse giuste, previste nel piano di imposizione dello Stato ebraico come pivot unico mediorientale a guardia degli interessi americani.

Gli eventi globali che coinvolgono il superamento del multilateralismo e il nuovo ordine mondiale che dovrà scaturire dal confronto pesante tra potenze mondiali continua a poter venire interpretato alla luce del testo scritto da Antonella De Biasi ormai quasi un anno fa e ancora completamente consultabile per ritrovare i prodromi di quanto sta avvenendo… e ancora ci si incontra tra compari di Astana, lasciando immaginare accordi particolari in funzione antioccidentale. Così abbiamo interpellato la nostra autrice per fare il punto sulla situazione mediorientale:

Il libro di Antonella De Biasi continua anche a mesi dalla sua uscita a suggerire percorsi interpretativi per i nuovi panorami che si dipanano nella direzione individuata in Astana e i 7 mari. E OGzero continua a porre al centro proprio quegli accordi giunti al settimo appuntamento (oltre ai molti collaterali incontri spartitori); adesso ci sembra che quel sistema di controllo regionale tra Russia, Turchia, Iran si inserisca nello stravolgimento globale innescato dalla sfida all’egemonia americana dell’invasione russa dell’Ucraina, palesemente fuori dal sistema di controllo mondiale e con un occhio al confronto dell’Indopacifico. Proponiamo qui un intervento di Matteo Bressan docente di Relazioni internazionali presso l’Osservatorio per la stabilità e sicurezza del Mediterraneo allargato della Lumsa, durante il quale sono emersi molteplici spunti che si trovavano in nuce nel libro ma che ora  trovano nuovi inquietanti risvolti collegabili al processo inaugurato ad Astana tra Mosca, Teheran e Ankara. Questa la registrazione:

Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 spunti offerti da Eric Salerno e Sabrina Moles, che ci hanno rievocato le intuizioni messe in gioco in Astana e i 7 mari di Antonella De Biasi. Così “OGzero” nel momento dell’annuncio di un tavolo di pace imbandito a Istanbul comincia a credere che lo spirito di Astana non è sfumato del tutto e su questo dubbio ha cercato di ricostruire i cocci prodotti dall’esplosione del multilateralismo nei rapporti tra stati, dallo scardinamento di alleanze esili, dalla individuazione del momento in cui il Cremlino ha pensato che fosse più opportuno far saltare gli equilibri. Un istante che Antonella nel suo scritto, steso a ottobre, preconizzava individuando nella ignominiosa ritirata americana dall’Afghanistan il segnale della debolezza per cui era possibile azzardare il morso del serpente.

Salvo poi accorgerci che ciascuno ha tratto vantaggio o imponendo spese militari, o annettendosi nuovi territori rivieraschi, o soffiando su un nazionalismo sovranista, cancellando piani ecologisti e ridistribuendo energia con un maggior profitto per i produttori. Distribuito sciovinismo e testosterone in tutti i paesi del primo mondo.

Perciò a partire dalla chiosa del libro, proviamo con questo editoriale a mettere in fila gli eventi delle ultime settimane sulla scorta di quello che il volume di Antonella De Biasi aveva già individuati come potenziali snodi critici; andremo a trovare nel libro verifiche delle analisi prodotte a posteriori dagli equilibri scaturiti dalla “spezial operazy” di Putin, così da inserirla nell’annoso flusso geopolitico senza gli isterismi cavalcati dal profitto guerrafondaio. Infatti il volume si chiude con una frase emblematica: «Il gioco di Astana, seppur precario, in fondo è anche un gioco delle parti» e le dichiarazioni e le mosse diplomatiche di fine marzo seguono il canovaccio.

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Sulla base del testo di Antonella De Biasi il 21 gennaio 2021 si è assistito a un webinar condotto da Vittoria Valentini con Matteo Bressan docente di Relazioni internazionali presso l’Osservatorio per la stabilità e sicurezza del Mediterraneo allargato della Lumsa, durante il quale sono emersi molteplici spunti evinti da Astana e i 7 mari, evidenziando come sia un testo valido per sviluppare ulteriori analisi degli Accordi tra Mosca, Teheran e Ankara. Questa la registrazione:

“Osservatorio mediterraneo su Astana e i 7 mari”.

Introduciamo alcune considerazioni fatte con Stefano Capello in questa fase di riepilogo dei materiali affastellati nello Studium durato alcuni mesi. Alterniamo in questa sezione le parole di Stefano Capello con le suggestioni tra parentesi dei potenziali sviluppi dell’aspetto portato in evidenza che ci sorgono come insieme di ipotesi e perplessità, che potranno essere fugate dall’analisi più approfondita che intendiamo realizzare.

Considerazioni finali

di Stefano Capello

L’accordo di Astana tra Turchia, Iran e Russia sembra messo in grave difficoltà dai recenti avvenimenti del Caucaso, dai cambiamenti di peso delle potenze locali con l’inizio dell’Amministrazione Biden e dalla nuova strategia Blinken. In realtà si tratta di un patto che non poteva che produrre un equilibrio dinamico di competizione tra i tre attori.

Elementi pregressi con potenziali sviluppi

Per capire il patto di Astana bisogna tenere conto dell’evoluzione del sistema geopolitico del Grande Medio Oriente.

  • In primo luogo il ridimensionamento definitivo della Russia da superpotenza mondiale a superpotenza regionale. La Russia ha ormai una proiezione di potenza che è concentrata sull’estero vicino e non è più considerabile un rivale globale degli Stati Uniti. Le sue rivalità si calibrano sui rapporti con le altre grandi potenze regionali con le quali condivide gli spazi di influenza e di interesse immediato. Resta ovviamente l’esistenza di un grande arsenale nucleare che in questo momento risulta più un peso economico che non un effettivo strumento di proiezione di potenza.

[Per l’ambito relativo ad Astana questo vale se lo consideriamo rivolto verso i paesi occidentali e il bacino del Mediterraneo; ci sorge il dubbio che sul Pacifico e nei confronti delle altre grandi potenze asiatiche (Cina e India) si possano immaginare alleanze in grado di consegnare alla Russia un ruolo come potenza di riferimento? Perché non sarebbe prevedibile una sorta di Accordo di Astana con la Cina, visto che è rimasta fuori dalle alleanze militari anticinesi (ma anche dal Rcep)?]

  • La Turchia è una potenza Nato in via di autonomizzazione nelle dinamiche regionali. in questo senso persegue una sua politica di potenza che deve sicuramente tener conto delle necessità e delle pressioni della superpotenza americana con la quale però i rapporti sono definibili come di partenariato conflittuale a livello del grande Medio Oriente. Ankara comunque persegue una sua autonoma proiezione di potenza sui territori “ottomani”. Da un lato prosegue il conflitto con la Grecia sia per l’Egeo che per Cipro mirando al controllo del Mediterraneo orientale e in questo senso deve essere letta anche la riapertura della conflittualità con Israele ed Egitto (per quanto con entrambi siano in corso negoziati per la spartizione delle risorse del Mediterraneo orientale); dall’altra persegue un ritorno alle posizioni del vecchio impero tanto nel vicino Medio Oriente (proiezione militare in Siria e Iraq, quanto diplomatica verso il Libano e il Qatar); alcuni segnalano una forte presenza nei Balcani anche, con una presa in particolare ovviamente sui territori maggiormente abitati da musulmani come Albania, Kosovo, Macedonia, bosgnacchi e in modo molto diverso gli accordi amichevoli con lo stato bulgaro. La presenza poi in Libia non deve essere vista solo come una vestigia dell’impero ottomano prima del 1911, ma piuttosto come un aspetto del conflitto con l’Egitto e allo stesso tempo una sfida aperta alla Francia e alla sua volontà di egemonia sul Mediterraneo occidentale, iniziato con l’attacco a Gheddafi e che per Bagnoli è il motivo che ha spinto Putin a intervenire in Siria, per paura che gli occidentali potessero occupare il Mediterraneo orientale; il conflitto nel Caucaso va visto nel suo aspetto di aumento dell’egemonia in un’area cruciale per il transito energetico e, per la longue durée, come il riproporsi di un’area di frizione tra i tre imperi dell’area, quello ottomano, quello russo e quello persiano.

[Si direbbe che la Turchia stia rimodulando le alleanze e cerchi di rientrare nell’alveo della Nato, guardando all’Egitto come possibile partner economico e svolgendo il ruolo di player diplomatico per conto di Blinken; un riposizionamento che non può che consolidare le posizioni di Ankara nell’Asia centrale e nei Balcani, facendo collidere maggiormente gli interessi in aree dove il contrasto con Putin è maggiore?]

  • Infine l’Iran fin dalla rivoluzione islamica si è posto il problema di porsi come potenza regionale autonoma in conflitto con la superpotenza americana ma non solo; il conflitto con i sauditi e le altre monarchie del golfo è un conflitto da questo punto di vista non essenziale per l’Iran dal momento che lo spazio di profondità strategica dell’Iran non è la penisola arabica o il Golfo persico ma è il vicino Oriente nella parte relativa agli attuali Iraq e Siria, cioè gli stati che si frappongono tra l’Iran stesso e il Mediterraneo. Da questo punto di vista il conflitto strategico è proprio quello con la Turchia che ha interesse sulle stesse aree. In fondo si tratta di ritornare al progetto millenario dell’impero persiano che è quello di egemonizzare il vicino Oriente allo scopo di porsi come paese intermediario dell’asse del commercio europ-asiatico, cioè l’80 per cento del commercio mondiale.

[Quindi i cardini su cui Tehran e Ankara possono ancora trovare delle intese o un patto di non belligeranza a cosa si ridurrebbero? Il contenimento dei curdi, che abitano parte del territorio di entrambi; dei comuni nemici sauditi – a questo punto  anche per conto degli americani da parte turca; il contrasto degli interessi israeliani?]

Situazione sviluppatasi durante il patto a tre

  • Progressivo disinvestimento americano dall’area del “Grande Medio Oriente”. Per gli Stati Uniti il Medio Oriente conta meno di una volta. in fondo l’ultimo tentativo di controllo diretto dell’area è stato il progetto “Grande Medio Oriente” di Bush con la catastrofica invasione dell’Iraq del 2003. Da questo punto di vista l’amministrazione Obama ha segnato un effettivo cambio di strategia americana sull’area. Il progetto di indipendenza energetica perseguito soprattutto attraverso la pratica del fracking hanno reso gli Stati Uniti sempre meno dipendenti dal petrolio arabo; questo ha cambiato parecchio la situazione degli interessi degli Stati Uniti nell’area. D’altra parte tanto l’amministrazione Obama, quanto l’amministrazione Biden sono perfettamente coscienti che lo scontro vero e proprio si giocherà con la Cina e questo rende i teatri fondamentali della guerra l’Europa (da schierare contro la Cina) e l’Indopacifico (dove gli Stati Uniti hanno fatto passi da gigante per costruire un’alleanza navale anticinese). In questo quadro il Medio Oriente per gli americani diventa un teatro da stabilizzare secondo i principi classici delle potenze di mare: evitare sempre che ci sia un paese in una determinata area che assuma un ruolo egemonico. Da questo punto di vista per gli Stati Uniti la stabilizzazione del Medio Oriente passa attraverso un equilibrio di potenza tra i maggiori attori regionali: Israele, Turchia, Arabia Saudita, Iran ed Egitto.
    Resta ovviamente la relazione privilegiata con Israele che però viene sempre più forzatamente integrato all’interno di una alleanza regionale che vede come protagonisti anche l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti (il cosiddetto “Patto di Abramo”).

[L’Iran e la Turchia in questo quadro sono due potenze regionali che vanno ridimensionate o semplicemente si cerca di attribuire loro un ruolo mediorientale utile per il minore coinvolgimento diretto degli Usa? È escluso un conflitto diretto che da un lato mischierebbe gli Stati Uniti in una guerra che rischia di essere simile a quella di Bush, dall’altra rischierebbe di squilibrare troppo il rapporto di potere a favore degli altri attori regionali, piuttosto è possibile che nei piani americani si stiano prendendo le misure per ridurre il potenziale di scontro con il mondo sciita filoiraniano da un lato e si intenda far svolgere il ruolo di gendarme pacificatore alla Turchia per quel che riguarda l’area compresa in quelli che erano i confini ottomani?]

  • La Russia in tutto ciò si comporta come una potenza regionale che tesse accordi con le altre potenze regionali tutte comunque allo stesso tempo alleate e concorrenti. Una strategia estesa un po’ in ogni quadro dello scacchiere (anche in Africa, per esempio in Mali o in Sudan), dove Putin invia milizie, o fa accordi con tutti i protagonisti anche in contrasto tra loro (palese tattica messa in atto in Nagorno) L’accordo con l’Iran è storico ed è soprattutto in funzione antiamericana, l’Iran però è anche storicamente nemico di Turchia e Arabia Saudita con le quali i russi hanno continuato a svolgere accordi nel corso di questi anni. Sicuramente è stato fondamentale nell’alleanza tra Russia e Iran il rapporto sul territorio siriano a difesa del governo di Assad ma non è l’unico punto; in larga parte il contrasto all’espansionismo turco nel Caucaso ha unito le due potenze. Più in generale però la Russia sembra interessata più che a costruire un’alleanza di ferro con l’Iran a costruire una seria di rapporti a geometria variabile nell’area con tutti gli attori presenti. Rapporti che sono a seconda dei momenti di tensione anche militare o di collaborazione.

[Più in generale l’interesse della Russia è fondamentalmente quello di mantenere il controllo sull’estero vicino, in questo caso il Caucaso e non perdere il piede a terra nel Mediterraneo. fondamentali diventano le alleanze in questo quadro che permettono la stabilizzazione delle basi siriane ma anche l’appoggio alla fazione cirenaica nella guerra in Libia; in Siria il nemico erano quindi la Turchia e le monarchie del Golfo che in forme diverse appoggiavano le fazioni anti-Assad nel paese. In Libia invece le stesse monarchie che attraverso l’Egitto, appoggiano i cirenaici sono gli alleati del momento mentre la Turchia rimane il nemico. Potrà essere questo rivolgimento il motivo che farà saltare il periodo di Accordi di Astana?]

Quadro finale dopo il Nagorno-Karabakh

In questo quadro però le alleanze, come dimostrato dalla situazione in Siria e Libia non sono finalizzate a ricercare una soluzione definitiva quanto a cercare un equilibrio che permetta ai russi di mantenere le loro posizioni.

  • In generale da questo punto di vista l’accordo di Astana sembra più un tentativo di trovare un punto di accordo che delimiti delle sfere di interesse piuttosto che una vera e propria partnership globale nell’ambito regionale.
  • Nello specifico della guerra per il Nagorno-Karabakh in realtà l’accordo di Astana è stato sostanzialmente mantenuto. L’Armenia è stata decisamente ridimensionata senza che l’Azerbaijan potesse arrivare a una vittoria totale sul campo; la Turchia ha aumentato il suo peso specifico sul campo tramite l’alleanza con Baku; le truppe di interposizione sono russe e sia l’Armenia che l’Azerbaijan devono fare i conti con Mosca rispetto alle loro politiche interne; il presidente armeno è stato pesantemente colpito nel suo tentativo di avvicinarsi all’Occidente; l’Iran ha potuto evitare di schierarsi con uno dei due contendenti dal momento che si trova nella scomoda posizione di alleato dell’Armenia mentre il 21 per cento della sua popolazione è di origine azera.

Il mare di Astana: il Mediterraneo

Ultima tappa della normalizzazione del “dopo-Trump” per il Vecchio Mondo

Dopo i segnali lanciati dai sauditi come tentativo di composizione delle dispute scatenate il 5 giugno 2017 contro l’emirato del Qatar, reo di non adeguarsi alle sanzioni antiraniane e sottoposto a sua volta a un embargo durissimo, che solo l’aiuto turco ha evitato la capitolazione e la chiusura persino della emittente “Al-Jazeera”, nel dicembre 2020 si assiste a manovre volte a reintegrare a tutti gli effetti il Qatar. L’aiuto turco era giunto in cambio dell’appoggio ricevuto da Erdogan nel momento del golpe fallito, ma soprattutto sanciva l’alleanza che da quel momento in particolare ha consentito a Turchia e Qatar di espandere controllo su territori, intensificare le relazioni militari tra loro e colonizzare mercati; ma soprattutto la Turchia ha potuto avvalersi delle enormi disponibilità di denaro dell’emiro, in cambio della svendita e del controllo di infrastrutture, impianti, industrie, interi pezzi di territorio turco. Forse con il cambio alla presidenza americana MbS ha intensificato gli sforzi per ricollocare il Qatar nell’ambito delle monarchie arabe della Penisola, in funzione antiraniana; in questo contesto rimane soltanto l’Egitto di al-Sisi restio ad accettare di riaccogliere il Qatar nel consesso arabo-sunnita. In particolare è il Kuwait a intensificare gli sforzi per una mediazione tra il “Quartetto” e la “Corrente di Doha”, coadiuvato dal dinamico genero di Trump, che ha già sponsorizzato gli Abraham Accords tra Israele e due dei componenti del “Quartetto” (Emirati e Barhein): Kushner si è infatti recato a Riad e a Doha il 2 dicembre per verificare le potenzialità di un accordo e mantenere un po’ di prestigio e potere al regno wahhabita durante il New Deal di Biden?

Il punto dopo gli attentati antiraniani e gli accordi sul Nagorno-Karabach

Gli sviluppi della concertazione tra i protagonisti di Astana – ovvero le potenze localmente più attive nel controllo del Mediterraneo orientale e delle sue sponde meridionali; del Medio Oriente, in particolare la Mesopotamia; del Caucaso e dei paesi dell’Asia centrale – dopo il cessate il fuoco in Nagorno Karabach e gli omicidi mirati antiraniani passati quasi sotto silenzio da parte di Russia e Turchia ci hanno convinto che il quadro risulta sufficientemente chiaro da poter cominciare a tirare le somme.

Un trappolone ordito a Neom ai danni degli iraniani, già sotto sanzioni in tempo di Covid

Quello che getta una luce sinistra sugli accordi di Astana dopo un 2020 che si apre con il drone che centra l’auto di Qasem Soleimani, capo delle Guardie della Rivoluzione e si chiude con un altro drone che inquadra la vettura di Muslim Shahdan, capo dei pasdaran fa pensare che stiano venendo meno uno dei presupposti per cui la repubblica islamica aveva aderito agli incontri di Astana: poter contare su appoggi e sull’alleanza in particolare con la Turchia, con cui condivide anche le medesime “soluzioni” del  comune problema curdo. Di fronte all’attacco provocatorio del Mossad si trova a dover risolvere pulsioni vendicative che sarebbero controproducenti e Realpolitik che suggerirebbe cautela. Questa l’analisi di quali potenziali percorsi stretti rimangono per rieditare gli accordi obamiani affidata a Michele Giorgio in un intervento su Radio Blackout del 3 dicembre a commento della eliminazione di Mohsen Fakrizadeh, capo del progetto della agenzia nucleare iraniana.

Ascolta “Eliminazioni nucleari per avvelenare i pozzi nel Golfo” su Spreaker.

Di conseguenza ci si può chiedere quali strategie siano state innescate a Neom tra Netanyahu, Mbs e Pompeo e se ci si deve attendere reazioni iraniane prima che subentri l’amministrazione Biden (e questo potrebbe rendere inutile l’alleanza di Astana?), oppure si registreranno escalation apertamente belliche che Trump potrebbe lasciare in eredità insieme a Netanyahu, a ridosso di nuove elezioni a Tel Aviv e con i guai giudiziari ad attenderlo? Le ripercussioni coinvolgerebbero l’intero Golfo persico, con le prevedibili ritorsioni sugli Emirati per un eventuale attacco israelo-statunitense sul suolo persiano. Anche su questo abbiamo chiesto il parere di Michele Giorgio.

Ascolta “Mossad in azione antiraniana o in estensione degli Abraham Accords?” su Spreaker.

Un trappolone ordito ai danni degli armeni, i russi distribuiscono le spoglie

Nel caso del recente conflitto tra armeni e azeri la raffinata tattica russa ha fatto in modo di immaginare una soluzione che accontentasse tutte le nazioni in gioco senza nemmeno guastare i rapporti con l’unico attore in commedia che ha subito una umiliante sconfitta (confidando erroneamente in un maggiore appoggio da parte russa): gli armeni, puniti per la loro rivoluzione di velluto che stava portandoli pericolosamente a flirtare con quelle democrazie occidentali (Gruppo di Minsk), uscite dal conflitto senza aver ottenuto nemmeno una tregua che durasse più di un paio di ore, durante il conflitto in cui la differenza è stata data dall’uso di tecnologie sofisticate da parte dell’esercito azero (i droni di fabbricazione turca e tecnologia israeliana in particolare). I russi hanno legato a sé ancora di più gli armeni: infatti controlleranno per 5 anni il territorio attraverso il Fsb, compreso il corridoio per unire il Nakhchivan all’Azerbaijan, contestato dall’Iran. Questo il punto di vista di Murat Cinar:

Ascolta “Accordo moscovita pigliatutto” su Spreaker.

Leggermente discorde il parere di Yurii Colombo, che considera un ripiego la soluzione adottata da Putin per il Nagorno, messo alle strette dall’evoluzione della guerra e volendo mantenere un profilo equidistante tra i due contendenti, evitando di intervenire come in Bielorussia, ma finendo con l’inimicarsi la parte che non ha potuto contare sugli armamenti conferiti invece agli azeri da turchi e israeliani, in particolare; secondo Yurii Colombo sarà  facile che anche l’Armenia cerchi nella Nato un protettore più affidabile.

Il mare di Astana: il Mediterraneo

Putin e Aliyev firmano l’accordo per la cessazione dei combattimenti tra armeni e azeri

L’Iran ha scongiurato eccessivi coinvolgimenti sul confine segnato dal fiume Aras con la persistenza dell’enclave armena che limita la pressione sui confini settentrionali dell’Iran; questo può bastare per salvaguardare gli interessi di Tehran? In fondo il piano che aveva presentato Khamenei aveva come primo punto il ritorno ai confini riconosciuti dall’Onu e questo è il fondamento dell’accordo sancito; inoltre l’intervento russo ha impedito una vittoria completa dell’Azerbaijan e ha posto fine alle dimostrazioni della minoranza azera in Iran che chiedevano agli ayatollah di intervenire a fianco di Baku. Infine la fine delle ostilità porterà via i mercenari sunniti scaricati da Erdoğan al confine anche iraniano.

La Turchia ha invece ottenuto l’accesso diretto a Baku via terra e sono state esaudite molte richieste decennali del nazionalismo interno che produrranno consenso, confermando Erdoğan nella strategia volta a potenziare un’economia di guerra, dispendiosa ma che in prospettiva potrebbe fornire risorse dai territori controllati e costruzione di infrastrutture adesso fuori dai confini. Un’ipotesi di cambio nell’impostazione dell’economia bellica turca nelle parole di Murat Cinar che potrebbe preludere a una ulteriore e più difficilmente sanabile frattura tra Mosca e Ankara.

Ascolta “Erdoğanomics di guerra in Nagorno-Karabach” su Spreaker.

I missili S-400: un rilancio – la prosecuzione – dell’Impero ottomano?

Alcune recenti iniziative della Turchia potrebbero dimostrare che Ankara ormai si muove come una superpotenza in grado di trattare da pari a pari con i due colossi (Usa e Russia) oltre che con le altre entità rilevanti (Iran, Arabia Saudita…). Sarebbe quindi fuori luogo cercare di ridimensionarla specificando “potenza a livello regionale”, visto che qui si parla sia di Medio Oriente che di Mediterraneo e Caucaso.
Un passetto alla volta, la Turchia sembrerebbe intenzionata a integrare – anche ufficialmente – il sistema di difesa S-400 nella sua struttura di difesa contraerea e di combattimento, nonostante il gesto di Ankara assuma quasi l’aspetto di uno sgarro nei confronti di Washington, in lampante contraddizione con il ruolo della Turchia, per il momento ancora alleata degli Usa e membro della Nato.
E dove verrebbero collocate definitivamente tali batterie di missili? Una – molto probabilmente – dovrebbe rimanere nei pressi di Ankara. Le altre a sorvegliare mar Egeo e Mediterraneo orientale. Oppure alle frontiere con la Siria e con l’Armenia e in questo caso, agitare la minaccia dell’impiego operativo dei missili S-400 funzionerebbe come merce di scambio (o, se preferite, ricatto). Non mancano peraltro risvolti della vicenda che suonano come ostentazione di indipendenza da Mosca.

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I giochi di Astana sono agli sgoccioli?

Il ritorno di fiamma della guerra in Nagorno-Karabach dimostra con evidenza che i cinque anni di politica di appeasement tra Russia e Turchia stanno volgendo al termine e la partnership rischia di crollare a causa dell’inconciliabilità delle ambizioni geopolitiche (già sintomatiche erano le posizioni prese in relazione alla situazione libica a inizio 2020).

Bisogna capire se il punto di caduta dello scontro nel Nagorno-Karabakh, escludendo la catastrofe di un confronto diretto tra Russia e Turchia, sarà una vittoria completa azera o se, come continuano ad affermare gli esperti di strategia russi, Ilham Aliyev si accontenterà di sedersi al tavolo della trattativa dopo essersi ripreso i corridoi che collegano il Nagorno-Karabakh all’Armenia. In entrambi i casi, Mosca ne uscirà indebolita e dovrà ripensare seriamente ai suoi rapporti con Ankara. A settembre Erdoğan ha annunciato di aver trovato giacimenti di gas nel Mar Nero che dovrebbero garantire entro il 2023 l’autonomia energetica al suo paese. A quel punto allora, i buoni rapporti con Putin, potrebbero per lui essere solo un intralcio.

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Massima pressione americana e corridoio multilaterale eurasiatico

Russia e Turchia sembrano voler affinare ulteriori strategie bilaterali, che si aggiungono a quelle orchestrate con gli ayatollah.

Per il terzo protagonista l’interesse essenziale degli accordi tripartiti è l’uscita dall’isolamento e la realizzazione di rapporti e scambi che aggirino le sanzioni. L’Iran è apparentemente più defilato ma è il tassello centrale del mosaico di corridoi commerciali e infrastrutturali, sbocchi sull’oceano Indiano e passaggi di pipeline; non si limita a rinnovare gli accordi ventennali in scadenza con la Russia, o a rinsaldare la partnership con la Turchia in un quadro complesso dato da divisioni di ogni tipo, ma sulla base mesopotamica degli accordi di Astana, nati sul pretesto di dare una soluzione al conflitto siriano, fonda il mantenimento del ruolo regionale e salvaguarda la multilateralità alla base della geopolitica eurasiatica… magari guardando anche ad accordi con la Cina già in atto.

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Da zar a raiss: la strategia putiniana in Medio Oriente e nel Mediterraneo

La “guerra ibrida” non è quella creata dai russi ma – nel pensiero putiniano – è quella che l’Occidente ha creato con l’uccisione di Gheddafi,  tramite la propaganda sui media – in un continuo ribaltamento di ruoli tra chi ne è il fautore – sia per l’occupazione della Crimea sia per l’interventismo sull’altra sponda del Mediterraneo.

Da questo deriva la strategia putiniana messa in atto con le potenze regionali per seguire i suoi interessi economici: appoggiare al-Assad in Siria mentre Erdoǧan dà il suo sostegno ad al-Sarraj in Libia, spartendosi territorio su cui far correre infrastrutture (pipeline), trafficare in armi e risorse energetiche.

Da zar a rais. La tentazione di esagerare, quando si affronta il tema della politica mediorientale di Vladimir Putin, è forte. Il perché è ovvio. L’operazione militare in Siria è stata (quasi) un successo, la gestione degli equilibri di forza sul campo con Iran e Turchia un capolavoro di tattica, l’offensiva diplomatica nell’area il tratto del maestro. Se si aggiunge la volontà di disimpegno americana dall’Oriente Medio, ecco spiegato perché oggi si parla di Vladimir d’Arabia: nella mente di Putin è Tripoli, e non Damasco, il vero obiettivo per vincere la ‘regata’ nel Mediterraneo. In quella parte di mondo però il successo non è mai stabile, bensì mobile come le dune dei suoi deserti: nel 1941 l’offensiva coloniale italiana contro la colonia egiziana della Gran Bretagna cominciò l’inizio della fine del nazifascismo, ma avrebbe dovuto saldarsi con le truppe lanciate alla conquista dell’Unione Sovietica per controllare gran parte delle risorse energetiche dell’area, quell’Urss che già nel 1946 richiese l’amministrazione controllata della Tripolitania e dell’Eritrea. Evidentemente già strategiche per la Russia di allora.

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L’idillio turco-russo messo alla prova da Libia e Siria

Sin dall’inizio della guerra in Siria, la posizione di Ankara è stata sempre a favore della caduta del regime Ba’th. Nel frattempo le relazioni tra Turchia e Russia, nonostante alcuni periodi difficili, si sono allacciate sempre più. Questo crea stupore dato che in Siria, dal 2014, Putin è apertamente schierato in forze accanto al presidente Assad per salvarlo e sembra che l’appoggio di Mosca abbia cambiato le sorti della guerra a favore di Damasco.

Le cose sono diventate ancora più complicate con l’intervento della Turchia nella guerra libica. Nel 2019, Ankara ha deciso di sostenere economicamente, militarmente e politicamente Fayez al-Sarraj, presidente riconosciuto dall’Onu, contro il generale Haftar, uomo appoggiato da Mosca che vorrebbe ottenere il controllo assoluto del paese. Dunque anche in Libia queste due forze si trovano a portare avanti due strategie diverse con un forte rischio di scontrarsi.

Fuori dai territori libici e siriani la collaborazione turco-russa vive un idillio senza precedenti. La domanda che sorge è semplice: “Com’è possibile un quadro del genere?”. Le risposte sono molteplici e non del tutto definitive. Scelte economiche, strategie di alleanza per mantenere il potere e nascondere la corruzione.

Il mare di Astana: il Mediterraneo

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]]> L’attivismo di Erdoğan concepito al Cremlino https://ogzero.org/lattivismo-di-erdogan-concepito-al-cremlino-2/ Tue, 07 Jul 2020 16:04:29 +0000 http://ogzero.org/?p=781 Le strategie parallele russo-turche per l'indipendenza ottomana dagli Usa porta alle intese di Astana per spartirsi energia e controllo sullo scacchiere mediterraneo

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Dieci anni di strategie parallele per il distacco ottomano dagli Usa

L’attuale tavolo da gioco

Sin dall’inizio della guerra in Siria, la posizione di Ankara è stata sempre a favore della caduta del regime Ba’th. Nel frattempo le relazioni tra Turchia e Russia, nonostante alcuni periodi difficili, si sono allacciate sempre più. Questo fatto ovviamente crea stupore dato che in Siria, dal 2014, Putin è apertamente schierato in forze accanto al presidente Assad per salvarlo e sembra che l’appoggio di Mosca abbia cambiato le sorti della guerra a favore di Damasco.

Le cose sono diventate ancora più complicate con l’intervento della Turchia nella guerra libica. Nel 2019, Ankara ha deciso di sostenere economicamente, militarmente e politicamente Fayez al-Sarraj, presidente riconosciuto dall’Onu, contro il generale Haftar, uomo appoggiato da Mosca che vorrebbe ottenere il controllo assoluto del paese. Dunque anche in Libia queste due forze si trovano a portare avanti due strategie diverse con un forte rischio di scontrarsi.

Tuttavia, fuori dai territori libici e siriani la collaborazione turco-russa vive una fase senza precedenti. La domanda che sorge è semplice: “Com’è possibile un quadro del genere?”. Le risposte sono molteplici e non del tutto definitive. Scelte economiche, strategie di alleanza per mantenere il potere e nascondere la corruzione. Cerchiamo di mettere sul tavolo tutto questo per provare a capirci qualcosa.

Il germe del flirt

Senz’altro la caduta del comunismo e l’introduzione del libero mercato ha fatto sì che la Turchia s’introducesse sempre di più nell’economia della Russia. Negli anni Novanta i rapporti commerciali crescevano notevolmente, tuttavia la svolta storica è avvenuta nel 2010 quando questi due paesi hanno costituito il Consiglio di Collaborazione ad Alto Livello (Udik).

La Centrale nucleare di Akkuyu, ancora in fase di costruzione, è stata finanziata dall’investitore russo Rosatom; l’ex banca statale Denizbank è stata venduta alla russa Sberbank; più del 50 per cento del fabbisogno nazionale della carta per i giornali è di fabbricazione russa e la Russia risulta tuttora il principale fornitore del fabbisogno energetico della Turchia. Questi sono soltanto alcuni punti eclatanti di un rapporto commerciale che oggi supera 25 miliardi di dollari statunitensi. Nella lista ovviamente non mancano vari prodotti agricoli, investimenti militari e un enorme mercato turistico.

Un breve attimo di crisi

Senz’altro questa spettacolare storia d’amore ha subito una momentanea rottura nel 2015; ossia cinque anni dopo l’inizio della crescita sproporzionata dei rapporti commerciali e un anno dopo che la Russia aveva deciso d’intervenire in Siria accanto a Damasco.

Il 24 novembre 2015 un Su-24M russo è stato abbattuto alle 9,24, da due F-16 delle Forze Armate Turche, mentre stava ritornando alla base aerea di Khmeimim, vicino Laodicea. Secondo la versione turca, l’aereo russo stava per compiere un bombardamento contro i ribelli Siriano-Turkmeni. Al momento dell’abbattimento, i due membri dell’equipaggio dell’aereo sono riusciti a eiettarsi con successo, ma il pilota è stato catturato dai gruppi armati in Siria e il suo corpo è stato mostrato in un video diffuso su internet. Il vicecomandante della Brigata Turcomanna, identificato come Alparslan Çelik (figlio dell’ex sindaco di Keban, del Partito del movimento nazionalista), ha dichiarato di aver ucciso i due membri dell’equipaggio del Su-24 mentre scendevano col paracadute.

I rapporti sono rimasti congelati per quasi nove mesi, fino a quando Ankara non ha presentato le scuse ufficiali. Oltre allo scambio commerciale interrotto, si sono registrati alcuni episodi anche significativi che hanno aumentato il livello dello stress. Il trattenimento di una decina d’imprenditori turchi in diversi centri d’identificazione ed espulsione e la confisca dei beni di diversi imprenditori legalmente residenti in Russia da più di 20 anni sono state le inevitabilmente decise ritorsioni.

Mosca ha chiamato in causa anche il coinvolgimento della Turchia in Siria per pareggiare i conti con la ricostruzione turca dell’abbattimento dell’aereo. Anatoly Antonov, il viceministro della Difesa nazionale, il 5 dicembre, a Mosca, in una conferenza stampa, utilizzando diverse immagini satellitari, ha comunicato al mondo che la famiglia del presidente della Repubblica di Turchia comprava petrolio direttamente dall’Isis in Siria.

Circa nove mesi dopo, giugno 2016, Ankara, tramite una lettera scritta dal presidente, ha chiesto ufficialmente scusa alla famiglia del pilota russo ucciso. Anche se questa versione non è stata riportata esattamente in questa maniera dai media turchi, in un comunicato ufficiale il Cremlino ha confermato le scuse di Erdoğan.

Un golpe spifferato dai russi?

Un mese dopo l’inizio della normalizzazione dei rapporti con la Russia, il 15 luglio del 2016, la Turchia ha vissuto un tentativo di colpo di stato. Questo gesto folle e violento è stato respinto con la determinazione delle forze armate e della popolazione civile. Restano tuttora numerosi punti oscuri dietro questo strano colpo di stato. Tuttavia ci sono due punti che collegano il golpe al nostro filo.

  1. Innanzitutto secondo Ankara, il tentativo è l’opera dell’ex alleato di Erdoğan, in esilio negli Stati Uniti da più di 20 anni: Fethullah Gülen. Accusato di essere uno dei membri di Gladio è stato definito il principale responsabile del fallito golpe. Il fatto che sia un grande e storico ammiratore della Nato, sia in esilio negli Usa e le amministrazioni statunitensi non abbiano deciso di rimpatriarlo e consegnarlo ad Ankara (nonostante le numerose richieste) fa sì che Erdoğan possa accusare gli Usa di essere «il mentore principale del golpe». Non solo Erdoğan ma la maggiora parte del suo partito e una buona parte del paese pensa tuttora così. Questo è ovviamente un elemento che raffredda i rapporti tra Washington e Ankara, due alleati storici nella Nato.
  2. Il secondo punto legato al golpe è il fatto che siano stati i servizi segreti russi presenti in Turchia a informare Ankara dell’avvento del golpe. Secondo Aleksandr Dugin, consulente di Sergey Naryshkin, capo dei servizi d’intelligence internazionale russi, il 14 luglio del 2016, Ankara è stata informata della preparazione del golpe proprio da lui stesso. Nell’intervista rilasciata all’“Independent” redazione in lingua turca, Dugin sostiene che sia stata la Cia a organizzare il fallito golpe con l’obiettivo di distruggere i rapporti tra Mosca e Ankara, «esattamente come fu fatto nel caso dell’abbattimento dell’aereo».

La versione è stata successivamente sposata in parte anche da Erdoğan. In un’intervista rilasciata ad Al Jazeera, il presidente della Repubblica sosteneva che i piloti turchi che hanno colpito l’aereo russo, erano uomini di Gülen, l’ex predicatore e, secondo Ankara, il responsabile del fallito golpe.

Questo momento storico ha dato slancio al cambiamento delle relazioni tra Ankara-Washington e Mosca.

L’ultima goccia

Mentre le scelte politiche e militari dell’amministrazione statunitense in Siria non venivano apprezzate da Ankara i rapporti con Mosca si complicavano ancora di più. Una Turchia che aveva appena respinto un tentativo di colpo di stato e viveva sotto lo stato d’emergenza assistette in diretta tv all’assassinio dell’ambasciatore russo. Andrej Karlov è stato ucciso il 19 dicembre 2016 mentre presenziava a una mostra d’arte in Turchia, a seguito di colpi d’arma da fuoco sparatigli a breve distanza da Mevlüt Mert Altıntaş, un giovane poliziotto locale.

Altinas ha gridato per circa un minuto dopo aver ucciso l’ambasciatore, elogiando la guerra santa e sottolineando che «coloro che creano sofferenze in Siria saranno sempre puniti». Le sue parole, pronunciate anche in arabo, sono state associate ad alcuni comunicati dell’organizzazione terroristica Al Nusra. Il fatto successivamente è stato smentito ma era chiaro che Altintas avesse deciso di uccidere un diplomatico russo per la difesa della guerra religiosa portata avanti da diversi gruppi armati in Siria, anche contro il governo di Damasco. Dall’inizio della guerra sul territorio siriano operano numerosi gruppi jihadisti che come obiettivo hanno la destituzione di Assad. Ricordiamoci che Mosca si trova, dal 2014, in Siria per salvare Damasco.

Successivamente, nel 2018, il procuratore Adem Akinci ha deciso di emettere il mandato di cattura contro 8 persone ipoteticamente coinvolte nell’assassinio dell’ambasciatore russo. La cosa curiosa è il fatto che secondo Akinci l’attentato sia stato realizzato con il mandato di Gülen, l’ex alleato del governo, accusato di aver messo in atto il fallito golpe del 2016. Per quanto le accuse siano state smentite dallo stesso Gülen, la politica, i media e la magistratura hanno operato in modo che in Turchia la versione di Akinci sia quella accreditata.

La tensione con gli Usa spinge Ankara verso Mosca

Operazioni anticorruzione

Il 2013 si conclude in Turchia con una grande operazione anticorruzione. Fotografie, video, registrazioni audio e numerosi schemi riempiono le pagine dei giornali e le inquadrature dei canali televisivi. In poche parole il governo, numerosi imprenditori e vari governatori locali sono stati accusati di aver ideato e creato un sistema per aggirare l’embargo statunitense in atto contro l’Iran e nel fare questo sembra che le persone coinvolte abbiano riciclato un notevole volume di denaro di provenienza sconosciuta.

Tra le persone coinvolte si vede anche il nome del figlio del presidente della Repubblica e nelle registrazioni audio diffuse su internet si sente la voce di Erdoğan che ordina a suo figlio Bilal di far scomparire i contanti presenti a casa. Bilal Erdoğan è nella lista dei ricercati ma non sarà mai catturato. Ankara reagisce a tutto questo con le dimissioni di 4 ministri e con un’ondata di arresti contro i giudici, procuratori e poliziotti che hanno fatto parte dell’operazione. In pochi giorni Erdoğan definirà tutto questo come un «tentativo di colpo di stato ideato da Gülen».

Il 19 marzo 2016, negli Usa, il numero uno di questo scandalo, l’imprenditore turco-iraniano Reza Sarraf viene arrestato. Durante i lunghi interrogatori, il 30 novembre 2017 Sarraf pronuncia queste parole in aula: «A dare l’ordine è stato Recep Tayyip Erdoğan» e illustra perfettamente tutto il giro di riciclaggio di denaro. Quindi Ankara diventa decisamente ricattabile da Washington. Il 23 marzo del 2017 viene arrestato e condannato anche Hakan Atilla, l’ex vicepresidente della banca statale Halkbank, con l’accusa di aver messo a disposizione la sua banca per questi lavori di riciclaggio denaro e corruzione.

Posizioni diverse in Siria

Il gelo tra i vecchi alleati avviene su diversi fronti. Tra questi ovviamente c’è anche l’enorme differenza nella presa di posizione in Siria.

La scelta dell’ex presidente statunitense, Barack Obama, di armare le unità di difesa popolare Ypg/Ypj nella lotta contro l’Isis, è uno dei punti più importanti. Le Ypg/Ypj sono state sempre definite come un’organizzazione terroristica da Ankara per via della loro vicinanza politica al Partito dei lavoratori del Kurdistan( Pkk), l’organizzazione armata definita “terroristica” dalla Turchia. Senz’altro non possiamo escludere il fatto che il profilo economico e politico del Confederalismo Democratico, progetto rivoluzionario lanciato in Rojava, sia in contraddizione con il disegno politico ed economico fondamentalista, saccheggiatore e nazionalista che governa la Turchia. Inoltre, in numerosi incontri, Washington ha sempre respinto le richieste di Ankara per creare una No fly zone nel Nord della Siria.

Di fronte a queste differenze Erdoğan continua a rifiutarsi di interloquire: né con le Ypg/Ypj né con le Forze Democratiche Siriane (Sf). Secondo Ankara la lotta contro l’Isis è uguale con la lotta contro le Ypg/Ypj. Quindi la sua preferenza è quella di entrare di persona sul territorio siriano e ripristinare la situazione a modo suo.

Non possiamo nascondere anche le dinamiche legate alla politica interna. La questione Pkk-Ypg/Ypj è storicamente irrisolta in Turchia. Il problema della negazione dei diritti delle persone curde negli anni Settanta ha portato una parte del movimento curdo ad abbracciare le armi e nessun governo in Turchia ha voluto veramente dialogare con il Pkk e aprire una strada per la pace. Nonostante due anni di cessate il fuoco, Erdoğan ha notato, nel 2015, a causa dell’esito delle elezioni politiche, che la pace non portava voti. Dopo 15 anni di governo a partito unico, aveva perso la possibilità di comporre il governo da solo e aveva visto entrare in parlamento 80 deputati appartenenti al Partito democratico dei popoli, progetto politico proposto da Abdullah Öcalan, leader storico del Pkk. Erdoğan ora vedeva vacillare il suo potere come l’esito di «un passo avanti fatto per la pace». Quindi quel breve dialogo con il Pkk è stato archiviato e il conflitto è ripreso. In pochi giorni la Turchia è diventata di nuovo, come negli anni Novanta, il campo di battaglia.

Ora Ankara non si trovava assolutamente sulla stessa lunghezza d’onda con gli Usa in Siria. Quindi se voleva mantenere voce in capitolo in Siria e mandare avanti i suoi piani ultranazionalisti con l’obiettivo di mantenere il suo potere, doveva assolutamente trattare con Mosca.

Rapporti stretti con la Russia per motivi economici

Turkish Stream e centrale nucleare Akkuyu

Ovviamente l’ombelico di Ankara si lega alla mamma Russia anche per motivi economici. Mosca non è solo un rifugio politico, oppure un elemento di ricatto contro gli Usa, ma è anche una copiosa fonte di denaro.

Il piano di un gasdotto gigantesco è stato proposto nel 2014 dal presidente russo, Vladimir Putin, durante una sua visita in Turchia. Nel 2016 è stato firmato l’accordo e nel mese di gennaio del 2020 sono state aperte le valvole per pompare il gas. Ankara si aspetta di ottenere, all’anno, 15,75 miliardi di metri cubi di gas, con il diritto alla rivendita. È un progetto simile a quello inaugurato nel 2003 con la presenza di Silvio Berlusconi in Turchia: Blue Stream, il grande progetto di gasdotto in cui è coinvolto non solo il russo Gazprom ma anche l’italiana Eni. La Turchia, grazie all’accordo firmato, è obbligata a comprare il gas da Mosca fino al 2023.

Un altro progetto massiccio russo sul territorio della Turchia è quello della centrale nucleare Akkuyu. I lavori di costruzione sono partiti nel 2018 e la conclusione è prevista per il 2023 per un costo di 20 miliardi di dollari.

Queste due, e non solo, grandi opere ovviamente legano anche dal punto di vista economico Ankara a Mosca.

Inizia Astana Process

La Siria derivante dagli accordi

Questi numerosi cambiamenti storici, spesso sviluppati attorno alla guerra siriana, hanno fatto sì che la Turchia si allontanasse dal suo storico alleato e si avvicinasse a Mosca.

Il 23 gennaio del 2017 nella città di Astana avviene il primo incontro per la pace in Siria tra Ankara, Mosca e Tehran. Con questo primo passo è ormai chiaro che per Erdoğan gli interlocutori sono queste due forze importanti, presenti sul territorio siriano con forze ingenti e l’obiettivo di salvare il governo di Assad. Tuttavia era sempre lo stesso Erdoğan che ormai risultava essere l’unico leader nel mondo che voleva la fine del regime Ba’th.

Mentre negli incontri nella capitale kazaka si parlava dei modi per stabilire la pace in Siria, le Forze Armate della Repubblica di Turchia intervenivano sul territorio settentrionale del paese. Pochi giorni dopo il fallito golpe del 2016 Ankara avviò la sua prima operazione. Fino al 2020 la Turchia è entrata, in modo massiccio, nel Nord della Siria per ben tre volte. L’obiettivo ufficiale era quello di proseguire la lotta contro l’Isis ma anche quello di «mantenere sicuro il confine contro la minaccia delle Ypg/Ypj». In numerose occasioni Erdoğan ha specificato che non avrebbe permesso assolutamente la nascita di una zona autonoma in queste zone controllata dalle forze di unità popolari.

Ovviamente non possiamo ignorare anche le ripetute dichiarazioni di Ankara volte a chiedere in modo insistente la fine del regime di Assad.

Gli incontri di Astana sono un percorso molto complicato composto finora (10 luglio 2020) da 13 incontri. Ankara al tavolo si trova in accordo con queste due forze che sostengono Damasco, mentre sul campo persegue il suo piano quasi in totale tranquillità, molto probabilmente con il permesso di Tehran e Mosca. Infatti nel Nord della Siria, i lavori di monitoraggio e sorveglianza vengono svolti con l’assistenza dell’esercito russo.

Tenendo in considerazione tutto l’andamento storico è evidente che Mosca e Ankara abbiano un rapporto di reciproco sfruttamento e dipendenza. Soprattutto con l’acquisto del sistema d’arma antiaereo russo S400 da parte di Ankara ha fatto sì che la sua dipendenza militare, economica e politica dalla Russia diventasse molto palese. Dunque anche in Siria questi due paesi mettono in atto una collaborazione perversa e strana ma in qualche maniera “funzionante”.

Spostiamoci in Libia, passando da Sochi

(podcast di un intervento di Murat Cinar del 20 febbraio 2020 nella mattinata informativa di Radio Blackout)

Il 22 ottobre del 2019 Erdogan e Putin si incontravano nella città di Sochi, sul Mar Nero, per firmare un accordo di pace in Siria. Quest’incontro avveniva 13 giorni dopo l’inizio dell’intervento militare “Sorgente di Pace” avviato da Ankara in Siria. Dunque in quest’accordo Ankara otteneva una piccola zona “sicura e libera” e lo spostamento di circa 33000 militanti delle Sdf dalle zone sotto il suo controllo. L’area più interessante per Erdogan era la città d’Idlib, famosa per la sua alta concentrazione dei gruppi armati oppositori a Damasco.

Un mese dopo l’accordo di Sochi, il 27 novembre del 2019, Ankara decide di firmare un patto con il governo di Tripoli che le permetta d’intervenire nella guerra libica; militarmente, economicamente e politicamente. Ankara ovviamente appoggia il governo di Tripoli guidato da Al Sarraj e riconosciuto dall’ONU. Di fronte a questo politico accusato di essere l’espressione dei Fratelli Musulmani troviamo il generale Haftar sostenuto dalla Russia e non solo.

Dunque anche in questo caso Ankara, pur continuando a conservare il suo rapporto eccellente con Mosca, si trova a sostenere una linea contro il campione appoggiato dalla Russia. A questo punto, per trovare una soluzione ai punti interrogativi, sottolineiamo un’informazione fornita dall’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr). Nella relazione pubblicata dall’organizzazione, nel mese di giugno del 2020, si specifica che da Idlib in Libia sono arrivati più di 13000 miliziani jihadisti per combattere accanto al governo di Tripoli. Secondo alcune fonti i voli sarebbero partiti dalla città di Antep, in Turchia. Secondo il presidente del Forum Curdo Tedesco, Yunis Behram, il costo economico di questi combattenti viene sostenuto dalla Turchia grazie ai soldi ricevuti dall’Unione europea per creare un sistema di accoglienza dignitoso per i rifugiati siriani presenti nel paese. Secondo Behram un’altra fonte economica proviene dalla vendita del petrolio da parte del governo Al-Sarraj.

Dunque in Libia a prendere decisioni sul campo, dietro le quinte, e fare conti di ogni tipo tra di loro sono due paesi; Turchia e Russia. Apparentemente sembra che siano contrapposti in un quadro di conflitto, tuttavia tra la Siria e la Libia sono loro due a cambiare gli scenari e l’andamento della guerra soddisfacendo reciprocamente i propri bisogni e rispettando le precedenze.

Obiettivi economici

Oltre all’idea di sostenere un leader espressione dei Fratelli Musulmani e disfarsi dei miliziani jihadisti d’Idlib, essere presente in Libia per Ankara concerne ovviamente anche il fabbisogno nazionale di petrolio e di altre necessità economiche.

Stiamo parlando di un paese che compra più del 90 per cento del petrolio che consuma dall’estero. Dunque le fonti energetiche a basso costo sono estremamente importanti. Infatti Ankara cerca nuovi giacimenti petroliferi in Libia dal 2000 tramite le aziende Tpao e Noc. Queste ricerche hanno fatto scoprire sette nuovi giacimenti e per questi lavori la Turchia ha dovuto spendere circa 150 milioni di dollari statunitensi. Ovviamente in questa nuova fase Ankara ha la volontà di usufruire del petrolio con condizioni economiche agevolate grazie al suo sostegno per Tripoli che sta vincendo la guerra sul campo. Quest’obiettivo oltre a non essere smentito da Ankara è stato sempre messo in alto nella lista delle motivazioni che l’hanno spinta a entrare in guerra.

Ovviamente anche in altri ambiti commerciali si prospettano novità. Il 17 giugno 2020 una delegazione di alto livello è partita dalla Turchia per Tripoli portandosi dietro una serie d’imprenditori pronti a firmare nuovi accordi in Libia. Secondo Mithat Yenigun, presidente dell’Associazione degli imprenditori edili, presto le aziende turche inizieranno a costruire delle grandi opere in Libia per la ricostruzione del paese.

Un’altra novità interessante in termini economici invece arriva dalla Banca centrale della Libia che decide di depositare nelle casse della Banca centrale della Turchia, 8 miliardi di dollari in quattro anni.

Tutto questo ha ovviamente un senso molto importante tenendo in considerazione la forte crisi economica in cui si trova la Turchia da circa quattro anni. La disoccupazione cresce, l’inflazione è sempre in aumento, la Lira turca perde costantemente il suo valore e la crescita economica non è più così aggressiva come prima.

Conclusione

La guerra è un momento di caos e nebbia, spesso è difficile comprendere ciò che sta succedendo. Le guerre per procura senz’altro sono ancora più complesse. In Libia e Siria assistiamo a questo tipo di guerre. Due paesi devastati e saccheggiati da diverse forze straniere per diverse ma simili motivazioni. Dunque comprendere le basi e le caratteristiche delle alleanze, come anche le ostilità, non è semplice. In quest’ottica, senz’altro non è molto d’aiuto anche una cultura politica ed economica opportunista e basata sul reciproco sfruttamento.

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La Russia e il Medio Oriente https://ogzero.org/la-russia-e-il-medio-oriente/ Mon, 06 Jul 2020 10:56:02 +0000 http://ogzero.org/?p=427 Da zar a raiss. La tentazione di esagerare, quando si affronta il tema della politica mediorientale di Vladimir Putin, è forte. Il perché è ovvio. L’operazione militare in Siria è stata (quasi) un successo, la gestione degli equilibri di forza sul campo con Iran e Turchia un capolavoro di tattica, l’offensiva diplomatica nell’area – tra […]

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Da zar a raiss. La tentazione di esagerare, quando si affronta il tema della politica mediorientale di Vladimir Putin, è forte. Il perché è ovvio. L’operazione militare in Siria è stata (quasi) un successo, la gestione degli equilibri di forza sul campo con Iran e Turchia un capolavoro di tattica, l’offensiva diplomatica nell’area – tra contratti miliardari di armi e visite di stato “storiche” del presidente russo, come quella a Riad nell’ottobre del 2019 – il tratto del maestro. Se si aggiunge lo zampino di Washington con la sua volontà di disimpegno dall’Oriente Medio, iniziata da Barack Obama e proseguita da Donald Trump, ecco spiegato perché oggi si parla di Vladimir d’Arabia. In quella parte di mondo però il successo non è mai stabile, bensì mobile come le dune dei suoi deserti. L’esempio più fulgido, e attuale, è la “campagna” di Libia. Mosca, dopo la ritirata del maresciallo Haftar, pare in difficoltà. Ma non mollerà. Perché, paradossalmente, nella mente di Putin è Tripoli, e non Damasco, il vero obiettivo per vincere la ‘regata’ nel Mediterraneo.

La Libia, infatti, per Putin è l’omphalos delle crisi che hanno portato alla destabilizzazione della regione e il segnale tangibile – se ce ne fosse ancora bisogno – che dell’Occidente non ci si può fidare. Al Cremlino, nel 2011, era in sella Dmitry Medvedev e Putin, al contrario, si era adattato alle mansioni del primo ministro (che non prevedono la politica estera, saldamente nelle mani del presidente). Come ricorda Mikhail Zygar nel suo Tutti gli uomini del Presidente, «per Putin la decisione di Medvedev di non porre il veto all’ONU sulla risoluzione antilibica fu un’imperdonabile dimostrazione di debolezza». Così ruppe la comanda del silenzio e iniziò a criticare pubblicamente la Nato (e implicitamente le decisioni di Medvedev). «Se l’obiettivo era la no-fly zone perché i palazzi di Gheddafi vengono bombardati ogni giorno?», dichiarò in Tv. Per Putin Europa e Usa non solo avevano truffato Gheddafi – prima revocando il suo status di paria, ammettendolo nel circolo bene dei vari G8, e poi pugnalandolo alla schiena – ma anche Medvedev. E dunque la Russia.

Secondo Zygar la morte del dittatore libico per Putin fu un vero e proprio shock. Non solo. Fu l’evento che lo convinse a tornare al Cremlino, ordinando a Medvedev di farsi da parte. «Il mondo è un casino, rischieresti di perdere la Russia», disse Putin al suo incredulo delfino nel corso (appropriatamente) di una battuta di pesca nei pressi di Astrakhan. «Gheddafi non credeva di certo che avrebbe perso la Libia ma gli americani lo hanno fregato: io resto il candidato più forte». Così l’arrocco fu deciso e Putin s’incoronò zar per davvero (ora, grazie alla riforma della Costituzione, potrà governare indisturbato, se lo vuole, fino al 2036). C’è di più. La Libia non è cruciale nel Putin-pensiero solo per la detronizzazione di Gheddafi, ovvero per gli effetti della rivoluzione, ma soprattutto per le sue cause. Che secondo il Cremlino sono esogene.

Tutte le “rivoluzioni colorate”, infatti, per Mosca sono create dall’estero, in particolare dalla Cia, e la “Primavera araba” rientra in questo esercizio di sovvertimento dello status quo attraverso metodi “ibridi”, che fondono la manipolazione sapiente dell’opinione pubblica (grazie ai social media) alla buona vecchia forza bruta, quando serve. L’uso qui del termine “ibrido” non è un caso. Anzi. Perché la Libia è un caleidoscopio dove le nostre certezze sulla Russia si smontano per essere ricomposte subito dopo in altra foggia e colore. Se dunque fino a oggi avete pensato che il concetto di “guerra ibrida” fosse il prisma adatto con cui osservare e spiegare le mosse di Mosca, be’, è vero l’esatto contrario. La guerra ibrida, per la Russia, l’ha inventata l’Occidente e il suo principale poligono di tiro è stata propria la Libia. Altro che Ucraina.

Ecco, qui per non perdere la bussola sarà necessario aprire una rapida parentesi. La guerra ibrida russa, nei circoli occidentali, prende anche il nome di “dottrina Gerasimov”, in onore del capo dello stato maggiore dell’esercito, il generale Valery Gerasimov. Era il febbraio del 2013 e il periodico russo “Military-Industrial Courier” aveva dato alle stampe un discorso di Gerasimov in cui il generale parlava di come, nel mondo moderno, l’uso della propaganda e dei sotterfugi rendesse possibile a «uno stato perfettamente fiorente di trasformarsi, nel giro di mesi e persino di giorni, in un’arena di feroci conflitti armati, cadere vittima d’intervento straniero e sprofondare nel caos, nella catastrofe umanitaria e nella guerra civile». Ovvero la carta d’identità della Libia post-Gheddafi.

Nel “saggio” si afferma che «lo spazio informatico apre grandi possibilità asimmetriche per ridurre la capacità combattiva di un potenziale nemico: in Africa siamo stati testimoni dell’uso delle tecnologie per influenzare istituzioni e popolazioni con l’aiuto dei network informativi (i social, N.d.r.) ed è necessario perfezionare le attività della sfera digitale, compresa la difesa nei nostri stessi obiettivi». Insomma, a essere ibridi sono gli altri, è la Russia che si deve attrezzare, e il target finale è proprio Mosca, che si vorrebbe destabilizzare con una rivoluzione colorata ad hoc. L’intervento di Gerasimov, in sé passato inosservato, è stato però tradotto in inglese e rilanciato dal blog dell’analista Mark Galeotti. Che per amor di fama ha un po’ forzato la mano. «Un blog – racconterà poi nel 2018 in un articolo pubblicato da “Foreign Policy” – è un esercizio di vanità come tante altre cose: ovviamente volevo che la gente lo leggesse. Così, per avere un titolo scattante, ho coniato il termine “dottrina Gerasimov”, anche se già allora avevo notato nel testo che questo non si trattava altro che di “un contenitore” e non era certo “una dottrina”».

Bene. Se il desiderio era fare colpo, missione compiuta. Con lo scoppiare della crisi ucraina, e l’euro-Maidan di Kiev, altra operazione speciale dell’Occidente agli occhi del Cremlino, il titolo “scattante” di Galeotti tracima l’ambito degli addetti ai lavori e grazie ai media diventa di dominio comune. «All’annessione della Crimea, quando “gli omini verdi” – commandos senza mostrine – si impadronirono della penisola senza sparare un colpo, seguì la guerra del Donbass, combattuta inizialmente da una variegata schiera di teppisti locali, separatisti, avventurieri russi e forze speciali, accompagnati da una raffica di sapida propaganda russa: all’improvviso sembrò che Gerasimov avesse davvero descritto ciò che sarebbe venuto, se solo ce ne fossimo resi conto», riflette ancora Galeotti. Il che è curioso. Sembra una versione geopolitica del Batman di Tim Burton, in cui il Joker e l’eroe mascherato si accusano di essersi creati a vicenda.

La Russia e l’Occidente d’altra parte hanno una lunga tradizione di incomprensioni reciproche e Winston Churchill si spinse a definirla «un rebus all’interno di un enigma avvolto nel mistero». Il grande statista britannico, campione negli aforismi tanto quanto modesto coi pennelli, non si limitò però a lasciarci nella nebbia. Il segreto per decifrare il segreto russo era infatti seguire il filo d’Arianna «dell’interesse nazionale». E in effetti funziona. Oggi, se vogliamo, possiamo aggiornare Churchill usando il concetto di “sovranità” – termine senz’altro più à la page – e le nebbie inizieranno a diradarsi. In Siria la Russia è intervenuta per difendere i propri interessi nazionali e la sovranità del governo in carica (piaccia o no, Bashar al-Assad formalmente era il presidente legittimamente eletto), riaffermando al contempo un doppio principio: Mosca non abbandona i propri alleati ed è ora abbastanza forte per dimenticare le guerre di cortile (Cecenia 1 e 2, Georgia 2008) e tornare a proiettare la sua influenza sullo scacchiere internazionale, come ai tempi dell’Unione Sovietica. Tripoli è dunque la conclusione logica di questo processo. Per chiudere la partita là dove è iniziata. E ristabilire al contempo il proprio interesse nazionale – ovvero il rispetto dei contratti firmati al tempo di Gheddafi.

L’abbiamo presa un tantino larga, ma alla fine siamo arrivati al punto. La Libia, per la Russia, è anche una questione di soldi. Armi, infrastrutture, energia. Mosca aveva dei bei piani con l’autore del Libro Verde. Poi è stato il caos e il Cremlino non ha perso l’occasione per ritagliarsi un posto al tavolo libico. Ma l’equazione Mosca-Libia non è automatica. O perlomeno, non lo era. Nel corso della conferenza stampa di Serghei Lavrov, ministro degli Esteri russo nonché veterano della diplomazia globale, e del suo omologo italiano (al tempo Paolo Gentiloni, era il 2016), dopo un incontro nella capitale russa, Lavrov rispose in modo abbastanza piccato a chi, tra di noi, gli chiedeva se tra Russia e Italia potesse aprirsi un ponte sul dossier libico. In sintesi, Lavrov si lamentava del fatto che in Siria la Russia era vista dall’Occidente come una forza «destabilizzante» mentre in Libia era stato l’intervento della Nato a causare «la distruzione dello stato». «Mi pare curioso pensare che adesso sia compito della Russia trovare il modo per risolvere la crisi», disse Lavrov, legando di fatto i due teatri.

Ecco, quattro anni più tardi lo status quo è sotto gli occhi di tutti. In Libia operano i mercenari russi della Wagner (benché il Cremlino smentisca) e recentemente gli Usa hanno pubblicato delle immagini satellitari che proverebbero la presenza di jet russi moderni nell’est del paese. Insomma, un aiuto sostanziale a Haftar. Mosca, dal canto suo, ha smentito anche questa informazione, per bocca di Mikhail Bogdanov, fine arabista nonché inviato speciale di Putin in Medio Oriente e viceministro degli Esteri: aerei «vecchi», già presenti «da tempo», le solite «fake news». Al di là della querelle sull’aiutino russo, che peraltro viene confermato da chiunque si occupi con attenzione di Libia, la vera questione, persino più interessante, è se davvero Haftar si possa considerare un uomo di Putin. E la risposta è ni.

Dietro l’uomo forte della Cirenaica ci sono diversi interessi. L’Egitto, per esempio. Ma anche gli Emirati Arabi. Il passato di un uomo, parafrasando Fitzgerald, non passa davvero mai, fino in fondo. Se infatti è vero che Haftar, al termine degli anni Settanta, ha ricevuto l’addestramento militare nell’Unione Sovietica, completando una speciale laurea triennale per ufficiali stranieri presso l’Accademia militare M.V. Frunze, in seguito ha poi proseguito la sua formazione militare in Egitto. Senza contare che ha vissuto per 20 anni negli Usa, fino a diventare cittadino americano. Da eroi dei due mondi a voltagabbana il confine d’altra parte è spesso sottile. Quindi sì, Mosca ha una certa familiarità con il maresciallo ma, come ha recentemente sottolineato Jalel Harchaoui, ricercatore dell’Istituto Clingendael dell’Aia, «se dipendesse dai russi, Haftar oggi avrebbe molto meno potere».

L’amara verità è che la vera novità, in Libia come in altre parti del Medio Oriente, è l’inedito attivismo della Turchia. A cambiare le sorti della guerra civile è stato l’intervento di Erdoğan, su richiesta di Tripoli. Che poi è esattamente quanto accaduto in Siria, a parti invertite. Putin in tal senso ha fatto davvero scuola e forse il sultano che fu costretto a baciare la pantofola dello zar per archiviare il grande affronto del jet russo abbattuto dai turchi nei cieli siriani si è tolto un bel sassone dalla scarpa. Sia come sia, Ankara e Mosca hanno ormai alle spalle una lunga storia di collaborazione (per certi versi quasi un’intesa). Senz’altro in Siria, dove, con l’aggiunta dell’Iran, è nata la troika genitrice del format di Astana: piaccia o non piaccia, quella piattaforma ha portato a dei progressi sul piano negoziale, sebbene forse ormai del tutto vanificati dall’esuberanza turca nell’area di Idlib.

E proprio Idlib è stata al centro delle ultime divergenze tra Mosca e Ankara, sanate poi da un summit Putin-Erdoğan in cui si è salvato il salvabile, con un’intesa che ha sino adesso riportato la calma sul terreno. In quell’occasione i due leader hanno affermato che Russia e Turchia, quando la situazione lo richiede, sanno “sempre” giungere a un “accordo”. Non sempre alleati, insomma, ma nemici mai. Un rapporto certo non facile eppure di reciproca soddisfazione. Erdoğan ha acquistato i famigerati sistemi antimissilistici russi S-400 mandando su tutte le furie gli Usa, che da un alleato Nato si aspetterebbero ben altra fedeltà. Un punto a favore (sulla carta) per Putin. C’è poi il TurkStream. Che oltre a portare altro gas russo in Turchia ha dato la possibilità al Cremlino di resuscitare, di fatto, il South Stream, allacciando al tubo i Balcani e l’Est Europa meridionale (e un giorno forse anche l’Italia). Altro favore a Putin. Ma anche a se stessa. La Turchia, infatti, è diventata così un importante hub energetico (sempre sul suo territorio passa il gasdotto che unirà a breve l’Azerbaigian alla Puglia).

Ecco allora che la presenza turca, in Libia, potrebbe non essere così deleteria, per Putin: il punto di caduta, nel medio periodo, si troverebbe su una spartizione del territorio per zone d’influenza. Poi chi vivrà vedrà. Intanto finché l’Occidente non vince, il Cremlino non perde. C’è chi pensa infatti che sarebbe un errore credere che Mosca abbia un “gran piano” in mente per tutto il Medio Oriente e il Mediterraneo. Bruno Macaes, ex ministro portoghese per gli Affari europei e autore di fortunati libri sul ruolo dell’Eurasia (e dunque di Cina e Russia) nella geopolitica che verrà, non esclude che la Russia al momento si accontenti di «partecipare al gioco».

Il coronavirus ha poi scompigliato tutte le carte. Mosca avrà il suo daffare a tamponare la crisi, che sarà pesante dal punto di vista economico, e non è detto che per Putin rappresenti un giro di boa indolore, al netto della riforma costituzionale che dovrebbe (o se non altro potrebbe) garantirgli la poltrona al Cremlino fino al 2036. Il paradiso, per lo zar, può dunque attendere, in Medio Oriente o altrove. Il 2020-2021 sarà probabilmente l’anno in cui, più che giocare a Risiko, Putin si dedicherà a consolidare il fronte interno.

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Tribalismi e nazionalismi a confronto nel Kurdistan iracheno https://ogzero.org/tribalismi-curdo-iracheni-a-confronto-excerpta/ Fri, 19 Jun 2020 16:50:20 +0000 http://ogzero.org/?p=272 La frammentazione in varie etnie, clan tribali e gruppi linguistici curdi in Iraq ha portato alla nascita di una miriade di partiti politici; le tribù erano per lo più suddivise tra Kdp e Puk che si erano aggiudicati le posizioni di potere e ad alto livello all’interno del partito e del governo; l’organizzazione in forma […]

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La frammentazione in varie etnie, clan tribali e gruppi linguistici curdi in Iraq ha portato alla nascita di una miriade di partiti politici; le tribù erano per lo più suddivise tra Kdp e Puk che si erano aggiudicati le posizioni di potere e ad alto livello all’interno del partito e del governo; l’organizzazione in forma di partito era funzionale alla gestione delle questioni sociali e tribali e proprio per questo i due partiti sono sempre stati più forti degli organi giurisdizionali del paese. Talvolta i capitribù che avevano rifiutato il completo appoggio a un partito politico ne hanno pagato le estreme conseguenze: i partiti hanno sempre usato la retorica nazionalista per accusare qualche rivale di tradimento e giustificarne così l’esecuzione.

I partiti curdi hanno impugnato le armi nella lotta politica in diverse fasi della loro storia, ma i governi iracheni hanno sempre operato con pugno di ferro e repressione. Tra genocidi, collaborazionismo con i vari governi e rivolte si è dipanata la storia della società curda irachena – quest’ultima divisa, controllata e strumentalizzata – che ha forgiato il nazionalismo e le politiche fino ai giorni nostri nel paese.

L’immagine è di Kamal Chomani. L’argomento è approfondito nella sua versione estesa e completa di mappa relativa ai gruppi linguistici e confederazioni tribali in Rivalità e sangue tra etnie curde nella politica irachena in questo sito.

 

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Nazionalismo petrolifero e dubaizzazione https://ogzero.org/nazionalismo-petrolifero-e-dubaizzazione/ Sun, 29 Mar 2020 20:49:06 +0000 http://ogzero.org/?p=58 Fino al 2005 il nazionalismo curdo traeva fonte d’ispirazione dall’obiettivo di ottenere i propri diritti democratici e l’autodeterminazione in Iraq, ma – dalla scoperta di petrolio e gas, stipulando contratti con le maggiori compagnie petrolifere del mondo ed esportando sui mercati internazionali di idrocarburi – il nazionalismo curdo si colorò di nazionalismo petrolifero e i due partiti al potere […]

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Fino al 2005 il nazionalismo curdo traeva fonte d’ispirazione dall’obiettivo di ottenere i propri diritti democratici e l’autodeterminazione in Iraq, ma – dalla scoperta di petrolio e gas, stipulando contratti con le maggiori compagnie petrolifere del mondo ed esportando sui mercati internazionali di idrocarburi – il nazionalismo curdo si colorò di nazionalismo petrolifero e i due partiti al potere cercarono di trarne vantaggio in due modi. Innanzitutto usarono le risorse, in particolare il petrolio, per rafforzare la presa sul potere monopolizzando l’intera filiera, dai sondaggi all’esportazione: per dividersi i proventi le famiglie Talabani e Barzani cercarono di comprare il silenzio della nazione in cambio della conversione della Kri in una nuova Dubai e introdussero un sistema di rendite e un capitalismo clientelare, resuscitando quegli elementi di tribalismo che stavano declinando già dal 2003; in secondo luogo la Krg si avvalse del petrolio per attirare compagnie internazionali, in particolare da Europa e Usa con la speranza di proteggere se stessa: Barzani a seguito di un contratto firmato con la Exxon Mobil disse in un discorso tenuto agli studiosi islamici che il «Ceo della Exxon Mobil è più potente del presidente degli Stati Uniti». La Krg cominciò una campagna internazionale all’insegna dell’“Altro Iraq”, esibendo la Kri come una sorta di paradiso nel mezzo della crisi irachena e dipingendolo come un modello di democrazia e di economia in espansione tra i regimi autoritari mediorientali. È proprio lì che i due partiti al potere, e in particolare il Kdp, hanno abbandonato la propaganda nazionalista volta a conseguire i diritti dei curdi per concentrarsi maggiormente sulla ricchezza delle risorse naturali della Federazione, che devono essere sfruttate dai curdi stessi e non dal governo centrale di Baghdad. Le promesse del nazionalismo curdo di democrazia e di libertà si tramutarono in promesse di dubaizzazione della Federazione. Il modello a cui guardava il Kdp non era un modello democratico, ma accarezzava l’idea di una monarchia in cui è in corso un boom economico senza democrazia.

Il governo regionale ha elevato il Pil e il livello di vita, stando ai dati del Dipartimento per la pianificazione; lo sviluppo economico in corso sarebbe indicato dall’incremento diversificato dei prodotti locali nella maggioranza dei settori. Dal quinquennio 2003-2008 le entrate nazionali si accrebbero da 4373 miliardi di dinari iracheni (circa 3 miliardi di euro) a 30 224 miliardi di dinari (22 miliardi di euro), un tasso medio di crescita del 38,3 per cento. Nello stesso periodo il Pil aumentò da 2419 miliardi di dinari (17 miliardi di euro) a 20 954 (150 miliardi), con una performance del 61 per cento tra il 2004 e il 2008. Il Pil pro capite salì da 0,524 milioni di dinari (380 euro) a 4,740 (3400 euro).

La vantaggiosa legge su petrolio e gas 

Contro ogni previsione, le maggiori compagnie petrolifere siglarono contratti con la Krg dopo che il Governo regionale varò la legge 28 del 2007 su petrolio e gas, molto più vantaggiosa per la Krg al confronto di quella nazionale: trasferiva infatti i contratti di fornitura dell’Iraq in base ad accordi per appalti che prevedevano la condivisione della produzione, il che significa che non solo si sarebbero pagati i diritti di prospezione ed estrazione, ma si sarebbero spartiti i guadagni, diversamente dai soliti modelli contrattuali iracheni. La legge divenne uno dei maggiori motivi di disputa tra il Governo regionale e quello federale quando la Exxon Mobil firmò nell’ottobre del 2011 contratti per sei blocchi che coprivano 3 miliardi e mezzo di metri quadri (848 000 acri) della Federazione regionale.

La legge 28 e gli affari del Kdp con la Turchia di Erdoğan 

Non avendo sbocco al mare, la Krg cercò di corteggiare la Turchia per raggiungere i mercati internazionali. E il vicino affamato di petrolio e gas che lamentava da anni la perdita del distretto di Mosul – sotto la direzione di Erdoğan e dell’Akp – accolse con favore l’offerta proveniente nello specifico dal Kdp e i rapporti tra le due entità regionali raggiunsero l’apice; gli esponenti della famiglia Barzani visitarono regolarmente la Turchia, e a Erbil i leader turchi nel marzo 2011 assistettero all’inaugurazione dell’aeroporto internazionale realizzato dalle compagnie turche. Era presente Erdoğan stesso, il primo premier turco a visitare la Kri.

All’inizio dell’invasione dell’Iraq nel 2003 il governo turco aveva definito Barzani un capo tribale e persino minacciato di occupare la Kri. Ad ogni modo gli accordi energetici normalizzarono la situazione, soprattutto dopo quello cinquantennale del 2009 tra i due governi, i cui dettagli non sono mai stati resi pubblici. Il sogno dell’Akp turco di far rinascere il controllo ottomano sulla regione richiedeva un’economia più forte e una strada sicura verso il Golfo Persico. Ma la Krg poteva essere il suo affiliato: circa mille compagnie turche e 30 000 cittadini turchi stavano lavorando all’interno della Kri nel 2011 e gli investimenti e il commercio turco nella Federazione regionale avevano raggiunto i 10 miliardi di dollari. In seguito alla crisi finanziaria e alla guerra al Califfato gli investimenti e gli scambi diminuirono in larga misura; a quel tempo la realtà era che la Turchia non possedeva (non ancora) abbastanza gas e petrolio per soddisfare le proprie esigenze, nonostante Russia e Iran l’avessero approvvigionata, la crisi siriana aveva deteriorato i rapporti tra i turchi e le due potenze regionali e l’Iran era sottoposta a sanzioni, creando difficoltà ad Ankara. Ma la Turchia sembrava essersi guadagnata l’accesso a una maggior quantità di gas a un costo molto minore – dalla Krg. Come è stato successivamente rivelato da alcune fonti, la Turchia aveva ottenuto dalla Krg il gas a metà del prezzo imposto da Russia e Iran.

L’evoluzione nella cooperazione energetica tra Kri e Turchia era interpretata da molti come una via per l’indipendenza della Kri, un sogno curdo lungamente procrastinato; comunque, mettendo tutte le uova nel solo paniere turco alla fine si è creata una dipendenza della Krg dalla Turchia o, come ritenuto da molti, una colonia turca nascente che ha reso la Krg precariamente esposta a ogni slittamento della posizione turca riguardo al Kurdistan: se ne ebbe un esempio nel settembre 2017, quando la Turchia si oppose fermamente al referendum nella Kri sull’indipendenza. Quanto più la Krg faceva prospezioni ed esportava petrolio, tanto più dilagava la corruzione e, invece di diversificare la propria economia, sopprimeva tutti gli altri settori, soprattutto quello agricolo, di cui nelle loro fattorie per secoli i curdi avevano vissuto, provocando così dal 2003 in poi un esodo dai villaggi facilitato da Kdp e Puk che per comprare il consenso elargivano assunzioni nell’esercito o nel governo.

L’abbraccio mortale del nuovo Sultano e la Dinasty curda 

Le politiche petrolifere della Krg non sono state solo una disgrazia per gli abitanti della Regione del Kurdistan iracheno, ma anche per le genti turche, e in particolare per i curdi che vivono in Turchia, dato che Erdoğan ha rafforzato il suo dominio mantenendo il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) al potere grazie ai soldi facili confluiti nelle sue tasche, in quelle della sua famiglia e del partito provenienti dagli accordi petroliferi altamente lucrativi promossi dalla Krg. 

Da quando le relazioni tra Kdp e Akp registrarono un’accelerazione negli accordi petroliferi, in particolare dopo le concessioni del 2011 e poi con il contratto per la fornitura cinquantennale di petrolio e gas del 2013, il Kdp, i suoi media e il greggio del Governo regionale sono stati del tutto asserviti all’agenda di Erdoğan e alle sue politiche.

Erdoğan e l’Akp hanno agevolmente approfittato della fragilità interna del Kdp e di Barzani, dell’opposizione regionale e nazionale irachena al Kdp e alle sue politiche, e della rivalità del Kdp con il Puk, i partiti di opposizione, in particolare con il Pkk, e infine con il Rojava, di cui si è detto nel capitolo sulla Siria. Il Kdp non sarebbe stato in grado di mantenere il proprio potere se Erdoğan non l’avesse sostenuto. 

Senza sbocco al mare, e con Iran e Iraq contrari all’esportazione indipendente di greggio della regione curdo-irachena, il sistema Kdp/Krg non aveva altre strade per esportare il suo petrolio sui mercati internazionali. Erdoğan ha colto l’opportunità di ottenere enormi profitti dai punti deboli politici e geografici della Krg. Uno dei motivi alla base della nomina a ministro dell’Energia turca da parte di Erdoğan di suo genero Berat Albayrak, è che le sue società gestivano l’esportazione del greggio della Krg, comprandolo a tariffe molto più basse dei prezzi del mercato internazionale. Intanto la famiglia Barzani beneficiò anche dell’esportazione del petrolio attraverso la Turchia, visto che il primo ministro Nechirvan Barzani (nipote di Masoud), era l’ideatore del contratto e il Kdp e la famiglia Barzani consideravano il petrolio una loro proprietà esclusiva. 

Questi accordi avvicinarono sempre più Kdp e Akp: entrambi in un certo modo contrariati dai successi del Rojava nel Nord della Siria. Su preciso ordine del governo di Erdoğan nel 2015 a Erbil il Kdp chiuse immediatamente tutte le scuole di Fethullah Gülen (l’imam di cui si è parlato nel capitolo sulla Turchia) e un affarista curdo vicino al Kdp ne acquisì la proprietà. E quando l’esercito turco penetrò la Regione curda irachena per 30 chilometri con l’intenzione di attaccare il Pkk, il premier Barzani disse: «Perché la Turchia ha violato i confini? Qual è la ragione? Ci deve essere per forza un motivo. Prima va rimossa quella causa, finché questa non sarà risolta, non si può parlare delle ripercussioni». I documenti di Wikileaks hanno rivelato che Masoud Barzani considerava il Pkk ostile quando incontrò Erdoğan, visto che diceva che «il Pkk è allo stesso modo nemico anche del Kdp, non solo dei turchi». La Krg e il Kdp sono stati utili per Erdoğan e l’Akp: economicamente per guadagnare miliardi di dollari attraverso lucrosi affari e accordi petroliferi nella Krg, e politicamente per imbrigliare il Pkk sui monti Qandil, nel Kurdistan iracheno e in qualche modo in Rojava. Dal canto suo il Kdp ha ricevuto importanti aiuti militari dalla Turchia, trovato una via per aggirare l’Iraq ed esportare il petrolio con cui procurarsi denaro e finalmente fiaccare il Pkk – il suo maggiore antagonista politico, ideologico e militare nei suoi calcoli geopolitici, viste le roccaforti del partito di Öcalan nel Kurdistan al confine tra Turchia e Siria.

La forte presenza turca nella Krg ha schiacciato il Puk nell’orbita iraniana a un punto tale che non può prendere decisioni strategiche senza renderne conto all’Iran. 

Perché la città siriana di Idlib è importante nella “proxy war”

La “congelata” guerra di Idlib cambierà enormemente il corso degli eventi in Siria, sebbene non si capisca bene nell’interesse di chi lo farà. Comunque, dati i recenti sviluppi, la caduta di Idlib sotto il regime siriano avrebbe serie ripercussioni sugli interessi turchi in Siria e sulla cosiddetta opposizione siriana e dell’Esercito siriano libero (Esl). La perdita di influenza turca e l’opposizione del regime siriano faranno buon gioco agli interessi dei curdi in Siria dato che l’opposizione siriana ora opera per procura della Turchia. La caduta di Idlib e l’eventuale ritorno in mano ad al-Assad certificherebbero il fallimento dei turchi, dell’opposizione e dei gruppi estremisti che hanno portato all’attacco contro la città di Afrin.

Allo stesso modo, il successo dei curdi di Siria influenzerebbe sicuramente gli interessi curdi in Iraq, in Turchia e persino in Iran. Nei confronti dell’Iraq, i curdi di Siria, vicini al Pkk, si troverebbero nella condizione di poter ostacolare gli interessi turchi legati al Kdp in Siria attraverso un riavvicinamento agli altri partiti curdi in Iraq. Un governo curdo-siriano forte aiuterebbe i curdi in Iraq, con l’eccezione del Kdp, a riunirsi con il Pkk, il ramo iraniano del Pkk (il Pjak) e i curdi siriani, in una sorta di alleanza abbastanza forte da frenare il tentativo del Kdp di estendere la sua egemonia. 

Idlib, d’altro canto, sarebbe stata importante anche per l’alleanza curdo-americana in Siria poiché se gli Stati Uniti avessero lasciato soli i curdi, la caduta di Idlib avrebbe implicato una alleanza più forte tra Siria, Iran e Russia. Quindi, gli Stati Uniti sarebbero stati una garanzia per i curdi in Siria e cercheranno di fermare la ricerca da parte della Russia di un appoggio politico in Iraq tramite le sue compagnie petrolifere, soprattutto la Rosneft, nella Regione del Kurdistan. Il conflitto Stati Uniti / Russia nella regione assicurerà una posizione di forza ai curdi sia in Iraq sia in Siria per poter proteggere i propri interessi a Damasco e Baghdad. Nel medio termine, gli Usa potrebbero avvicinarsi al Puk e il Pkk potrebbe essere espunto dall’elenco delle organizzazioni terroristiche stilato da Stati Uniti ed Europa. 

La legge 28 e gli affari del Puk con l’Iran

Anche l’Iran beneficiò del petrolio della Kri, dal momento che il regime degli ayatollah aprì le frontiere per il Puk e il Kdp al contrabbando di petrolio in Iran, che tramite la Repubblica Islamica raggiungeva i mercati internazionali attraverso Bandar-e Emam, oppure veniva consumato nel mercato interno iraniano. Teheran raggiunse un accordo con Baghdad per costruire un nuovo oleodotto per l’esportazione del petrolio di Kirkuk nei porti iraniani e di lì sui mercati mondiali: un’offerta volta a rafforzare il Puk nelle aree sotto il suo controllo, dato che il partito di Talabani era stato in qualche modo marginalizzato dal Kdp nell’affare petrolifero, in quanto le esportazioni avvenivano attraverso oleodotti diretti in Turchia controllati dal Kdp e appunto da Ankara, suo alleato regionale. 

È prioritario per la Krg trovare altre vie per i prodotti petroliferi, altrimenti rimarrà sempre alla mercé delle potenze regionali se mira all’esportazione indipendente del greggio aggirando l’Iraq; finora, infatti, ha instaurato patti energetici regionali soltanto con la Turchia, una nazione che ha da fare i conti con una propria “questione curda” e che ha massacrato migliaia di curdi.

Le rotte del petrolio dopo la rivoluzione del Rojava 

Dopo la crisi siriana del 2011 e la rivoluzione curda in Siria emersa di conseguenza, là si era data una speranza che i curdi raggiungessero finalmente il mare, ma la strada è ancora lunga. Il Pkk è protagonista sulla scena delle rotte dei prodotti energetici della regione, come disse in un’intervista a “Der Spiegel” il massimo dirigente del Pkk Cemîl Bayik: la sicurezza energetica europea passa attraverso il cuore della terra curda in Siria e il Pkk può sempre svolgere il ruolo di chi decide della stabilità del Medio Oriente poiché è diventato la maggior forza per combattere il terrorismo. Bayik mi ha detto una volta nel 2015 che «Il ruolo della Turchia si è indebolito e i curdi sono assurti al rango di forza strategica. I cambiamenti nel Medio Oriente cominciano da lì, da questo momento il comparto energetico non è più l’unica cosa che conta. D’ora in avanti il petrolio e il gas del Medio Oriente o addirittura del Caucaso possono viaggiare via Rojava nel Kurdistan siriano. È la fine dei piani turchi». Bayik è pienamente consapevole del fatto che una delle più gravi cause di debolezza della Turchia è la mancanza di risorse petrolifere, mentre una delle sue più forti risorse risiede nella sua posizione su ogni rotta del greggio verso l’Europa e questo può cambiare una volta che il Kurdistan siriano sia liberato. In ogni caso la Krg non è stata capace di impiegare il suo petrolio come uno strumento al servizio della politica internazionale perché ha ricercato solo l’interesse di parte e non quello nazionale e prematuramente puntando sulla sola carta turca. 

Il Rojava ha assunto un ruolo di primo piano nella politica siriana e contribuirà a dare forma alla mappa del paese dopo che è diventato un alleato degli Stati Uniti nella regione. Nel dopoguerra ci sarà estremo bisogno di relazioni economiche tra nazioni limitrofe. Il Rojava può avvicinare Damasco ed Erbil – sempreché ovviamente quest’ultima smetta di complottare contro questa entità. Esistono profonde divergenze tra Rojava e Kdp, ma i rapporti del Rojava con tutti gli altri partiti curdi in Iraq si trovano ora al loro massimo livello. Da quando il passaggio di Semalka al confine tra Rojava e Kri è controllato dal Kdp che ha chiuso la frontiera dopo che è stata stabilita l’amministrazione dei curdi di Siria, i contrasti tra Rojava e Kdp sono aumentati. Il Rojava è un modello dietro al quale c’è il Pkk che considera il Kdp e i suoi rappresentanti in Rojava – l’Enks (Consiglio nazionale curdo) – alla stregua di servi degli interessi turchi. Il Kdp e il Pkk sono stati in conflitto per mantenere l’egemonia sulle quattro parti del Kurdistan e il Pkk si è rivelato il vincitore, avendo una ideologia e dei leader più forti, in particolare Öcalan, considerato da molti curdi un capo politico e un filosofo, come raccontato nella sezione del volume dedicata ai curdi di Turchia, a differenza di Barzani che non vanta alcun intellettualismo.

La Krg ha altre opzioni da considerare, soprattutto dopo il fallimento del quesito referendario sull’indipendenza; innanzitutto aprendo una nuova strada attraverso l’Iran, incoraggiando Baghdad a collegare l’oleodotto del Nord con quello meridionale e poi normalizzando le relazioni con il Rojava per arrivare al porto internazionale di Haifa: Israele ha già acquistato il petrolio della Krg, anche questo è stato discusso da alcuni esperti per quanto la Krg dovrebbe superare la pubblica diffidenza irachena verso qualunque accordo con lo stato ebraico. 

Rosneft e BP: russi e inglesi per la rotta del gas

Fin dal 1991 gli Stati Uniti erano stati alle spalle della Krg, fornendo protezione, fondi, assistenza e formazione, nonché sostegno politico a Baghdad. Ma prima del referendum la dirigenza curda aveva già avviato approcci con la Russia suscitando la preoccupazione statunitense per il voto. Se gli Stati Uniti non fossero riusciti a riunire Erbil e Baghdad, i leader curdi avrebbero continuato a cercare aiuto nella Russia, convinti che potesse essere il miglior deterrente contro Turchia e Iran, che si erano riavvicinati in occasione del referendum; inoltre miravano agli investimenti russi sul comparto energetico per finanziare il loro budget futuro. La Rosneft, potente compagnia petrolifera russa, infatti sta attualmente costruendo un gasdotto per portare il gas della regione sui mercati internazionali e in periodo referendario pagò un affitto di due miliardi di dollari alla Krg. Questo irritò i britannici perché la loro compagnia petrolifera (BP) aveva firmato un accordo con il governo di Baghdad nel 2013 per lo sfruttamento di giacimenti petroliferi a Kirkuk.

Kirkuk, la Gerusalemme curda e il controllo dei pozzi

I confinanti turchi e iraniani temevano che i partiti curdi locali volessero ispirarsi ai loro confratelli iracheni; l’Iran non voleva che uno stato indipendente curdo si alleasse con Israele e Arabia Saudita perché troppo debole per difendere i confini ed evitare che sauditi, americani e israeliani installassero le loro basi antiraniane nella Regione autonoma del Kurdistan. La continua opposizione di Turchia e Iran ingigantì i problemi per il Kurdistan iracheno, che importa infatti l’85 per cento di cibo e altre merci attraverso Iran e Turchia, il 95 per cento della sua bilancia commerciale inoltre dipende dall’esportazione di greggio tramite i porti turchi. Le sanzioni turche possono facilmente soffocare lo stato curdo, quindi una simile evenienza avrebbe conseguenze drammatiche sotto il profilo economico per una regione già duramente provata da crisi finanziarie e strozzata da miliardi di dollari di indebitamento a livello locale e internazionale. La leadership curda avrebbe dovuto essere più attenta nel periodo precedente al referendum, in modo che gli errori futuri non solo non ostacolassero gli sforzi per uno stato indipendente, ma non mettessero a rischio la relativa stabilità, migliorando il tenore di vita esperito in passato da molti curdi.

Una fonte politica di alto profilo mi ha raccontato che Masoud Barzani ha promosso un referendum irredentista in modo da ottenere «una forte leva da usare contro il governo iracheno per mantenere i pozzi petroliferi a ovest di Kirkuk nel caso di negoziati sul futuro delle relazioni tra Krg e Baghdad». Molti, infatti, dubitavano dei proclami d’indipendentismo di Masoud Barzani; tra questi Hoshyar Abdullah, membro del Gorran, fazione del parlamento iracheno, convinto che il referendum fosse una carta politica giocata per mantenere i giacimenti petroliferi a ovest di Kirkuk e «stornare l’attenzione delle masse curde dai fallimenti della Krg, consentendo al Kdp di recuperare le posizioni perse a Baghdad». 

Masoud Barzani, Nechirvan Barzani e Masrour Barzani, padre, genero e nipote, erano i sostenitori più accaniti dell’indipendenza curda e le loro principali argomentazioni erano, come per gli altri leader curdi, le seguenti: il governo di Baghdad ha deluso nella spartizione del potere, ignorando le richieste della popolazione curda e tagliando i finanziamenti alla Krg; l’Iraq è uno stato fallito e i curdi non vogliono più essere parte di questo fallimento: l’Accordo Sykes-Picot ha privato i curdi della sovranità e ora essi hanno il diritto di opporsi all’ordine tradizionale, visto che sono stati loro a farne le spese; il governo iracheno ha violato 55 articoli costituzionali e non è mai stato implementato l’articolo 140 che determina la sorte di Kirkuk e di altre aree soggette a contenziosi.

Nel 2014 Nechirvan Barzani, il primo ministro del governo regionale curdo, annunciò «l’indipendenza economica del governo locale come strategia per finanziare la Krg attraverso le esportazioni di petrolio», tuttavia questa fallì per il crollo dei prezzi del greggio, la guerra a Daesh e le azioni del governo centrale contro la Krg per tagliare il budget. Di fronte all’avanzata di Daesh su Kirkuk in quello stesso anno il Kdp schierò due brigate a protezione dei campi di petrolio occidentali. Quando il Puk cominciò a sospettare delle intenzioni del Kdp dispiegò a sua volta truppe in quelli a nord della città per bloccare ulteriori pretese del Kdp. Queste mosse mettevano a rischio il destino di Kirkuk dato che non si trovava l’accordo definitivo riguardo il futuro della città (per questo è considerata la Gerusalemme curda, come spiegato nelle mappe all’inizio del volume). Le prospettive per i campi a ovest furono all’origine del conflitto tra il governo regionale e quello iracheno da un lato e tra il Kdp e il Puk dall’altro. Inoltre il Kdp non intendeva concedere a Baghdad il controllo del petrolio dato che il suo piano strategico di controllo energetico era volto a perseguire efficacemente la sua brama di egemonia tramite giochi politici in Iraq e nella regione curda. 

Nel marzo 2017 una forza conosciuta come Hêze Reşeke (Forza nera), vicina al Puk, fece irruzione nella stazione di pompaggio della North Oil Company per mettere sotto pressione Erbil e Baghdad con lo scopo di costruire una raffineria di petrolio a Kirkuk; la mossa del Puk portò Barzani a inviare altri peshmerga per mettere in sicurezza i campi a ovest di Kirkuk controllati dalle forze del Governo regionale leali al Kdp. I leader del Kdp e del Puk non sono davvero riusciti a venire a capo della politica locale e comprendere l’ordine internazionale. 

 

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La decurdizzazione del Nordest siriano https://ogzero.org/la-decurdizzazione-del-nordest-siriano/ Sun, 29 Mar 2020 15:48:54 +0000 http://ogzero.org/?p=48 La deportazione dalla Turchia dei rifugiati siriani curdi in Rojava con quella che al-Assad considera una vera e propria invasione. Una ricollocazione radicale che ufficialmente è definita dal governo turco come un ripristino della situazione demografica della Siria, per creare una “zona di sicurezza”. La pretesa iniziale è di quasi 2 milioni di siriani deportati […]

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La deportazione dalla Turchia dei rifugiati siriani curdi in Rojava con quella che al-Assad considera una vera e propria invasione. Una ricollocazione radicale che ufficialmente è definita dal governo turco come un ripristino della situazione demografica della Siria, per creare una “zona di sicurezza”. La pretesa iniziale è di quasi 2 milioni di siriani deportati in una zona di 500 km, che probabilmente si limiterà a un solo milione, e che implicherà l’enorme interesse turco nella cementificazione, nell’edilizia in quelle zone, un coinvolgimento quindi non solo politico ma anche economico in futuro.

Murat Cinar il 12 dicembre 2019 su Radio Blackout:

 

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Kobane calling https://ogzero.org/kobane-calling/ Sun, 29 Mar 2020 15:24:11 +0000 http://ogzero.org/?p=46 Mentre il conflitto tra le forze politiche, economiche e sociali della Turchia proseguiva nel suo modo sempre più aggressivo e distruttivo, la Siria diventava di nuovo il centro dell’attenzione. Forse questo è uno degli elementi più importanti per comprendere meglio le motivazioni e le caratteristiche degli accadimenti avvenuti in Turchia nell’ultimo periodo. La Siria, oltre […]

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Mentre il conflitto tra le forze politiche, economiche e sociali della Turchia proseguiva nel suo modo sempre più aggressivo e distruttivo, la Siria diventava di nuovo il centro dell’attenzione. Forse questo è uno degli elementi più importanti per comprendere meglio le motivazioni e le caratteristiche degli accadimenti avvenuti in Turchia nell’ultimo periodo. La Siria, oltre a essere un campo di battaglia limitrofo alla Turchia con i suoi 900 chilometri di confine, diventava anche un problema sociale per via dell’aumento di rifugiati in fuga dal paese. In quest’ottica e tenendo in considerazione i due fattori molto importanti era impossibile che la Siria non esercitasse un’influenza sulla politica interna della Turchia. 

In primis con la definizione dei confini: durante la nascita di queste due repubbliche, intere famiglie, centinaia di villaggi, numerosi gruppi religiosi oppure semplicemente migliaia di persone sono state obbligate a fare una scelta; restare in Siria oppure in Turchia. In alcuni casi la scelta era anche obbligata dato che, come fosse stata tracciata una riga, parecchie zone abitative erano state bruscamente divise in due. Questo fatto ha colpito sia le popolazioni siriane che si definiscono arabe, sia le comunità curde, armene, turcomanne e siriache. Per cui per centinaia e migliaia di persone da più di ottant’anni Turchia vuol dire Siria e viceversa.

In secondo luogo la discriminazione messa in atto dai governi siriani partendo dagli anni Sessanta nei confronti dei curdi di Siria ha fatto sì che nascessero dei movimenti reazionari partitici oppure combattenti. Proprio in quel momento nascevano e crescevano dei movimenti analoghi in Iran ma anche in Turchia. In poche parole i movimenti reazionari partitici oppure armati tra questi due paesi sono stati sempre dei cugini e in collegamento, collaborazione e comunicazione.

Quando l’Isis ha deciso di attaccare la città di Kobane in Rojava, nel Nord della Siria, le unità di difesa popolare locali hanno provato a respingerlo. A portare sostegno e aiuto per queste unità sono stati i combattenti stranieri provenienti dall’Europa e dall’America ma anche dall’Iraq e dalla Turchia. Particolarmente nel caso della Turchia ci sono stati alcuni tentativi di massa di sfondare il confine per aderire alle forze locali nella lotta contro l’Isis. Nel mese di ottobre del 2014, quando Kobane era sotto il forte attacco di Daesh, il governo Akp non ha concesso, all’inizio, il permesso di trasportare le armi e gli uomini dall’Iraq a Kobane passando per il territorio nazionale per sostenere la resistenza. 

In quel frangente storico molto importante il neopresidente della repubblica in un suo intervento pubblico nella città di Antep, al confine con la Siria, pronunciava queste parole: «Non basta il bombardamento aereo, bisogna dare un sostegno con un intervento a terra, altrimenti non si può lottare contro questo terrore. Ecco dopo mesi, senza esiti, anche Kobane sta per cadere. La Turchia è pronta a rispondere a ogni tipo di minaccia. In particolare nessuno deve avere dubbi sul fatto che la minaccia contro la nostra caserma Suleyman Sah, un nostro territorio storico in Siria, riceverà la risposta adeguata. Osserviamo con attenzione e preoccupazione tutto ciò che accade a Kobane. Coloro che si oppongono a un intervento militare in Siria cercano di utilizzare quello che vi accade come un elemento per la politica interna». 

Mentre per Demirtaş la visione sarebbe dovuta essere diversa: infatti chiedeva al governo di aprire il confine perché i giovani dalla Turchia potessero andare a Kobane per aderire alla resistenza. Un’altra richiesta di Demirtaş era quella di permettere il passaggio dei mezzi da altri cantoni del Rojava verso Kobane. Entrambe sono state respinte dal governo. 

La violenza dell’Isis aumentava e solo nel mese di settembre circa  100 000 persone hanno forzato il confine e si sono rifugiate in Turchia. A Kobane gli scontri diventavano sempre più duri e in Turchia crescevano le manifestazioni violente in solidarietà con Kobane.

A Cizre, Diyarbakır, Ceylanpinar, Sirnak e Urfa i manifestanti si scontravano con la polizia. I manifestanti richiedevano il permesso per il trasporto delle armi e degli uomini dalla zona federale curda dell’Iraq del Nord verso Kobane e accusavano il governo nazionale della Repubblica di Turchia di sostenere l’Isis. Inoltre disapprovavano un eventuale intervento militare delle forze armate repubblicane, a differenza di quello che aveva proposto il presidente nel suo intervento pubblico a Urfa.

Così partendo dal 6 ottobre per circa una settimana scendevano in piazza migliaia di persone nelle città di Erzurum, İstanbul, Mardin, Van, Ankara, Bingol, Bursa, Diyarbakır, Gaziantep, Igdir, Smirne, Mersin, Mus, Siirt, Urfa, Batman e Sirnak. I manifestanti pro Kobane oppure i militanti dell’Hdp si scontravano con le forze armate dello stato e in alcuni casi anche con i militanti di alcuni partiti ultranazionalisti e fondamentalisti. In pochi giorni sono morte 46 persone e 682 sono rimaste ferite. La polizia ha operato 323 arresti. Per calmare le acque Demirtaş ha invitato diverse volte i manifestanti a rientrare nelle loro abitazioni e ha comunicato anche i messaggi analoghi di Abdullah Öcalan, leader del Pkk. Inoltre Demirtaş criticava la mancata collaborazione del governo e del presidente della repubblica esprimendosi così durante la conferenza stampa del 13 ottobre: «Questa indifferenza crea una rottura emotiva tra le persone. Migliaia di cittadini sono al confine da venticinque giorni a protestare contro l’Isis che massacra a Kobane e la gendarmeria non fa altro che lanciare dei lacrimogeni».

A proposito del coinvolgimento delle persone e dei movimenti in Turchia nella resistenza di Kobane, Erdoğan la pensava diversamente. Durante l’inaugurazione di una scuola coranica nella città di Rize disse: «Cosa c’entra Kobane con la Turchia? Circa 200 000 fratelli curdi sono scappati da Kobane e si sono rifugiati in Turchia. Li abbiamo soccorsi, accolti e gli diamo da mangiare. Cosa volete di più? E voi non sostenete il governo che vorrebbe entrare in Siria e in Iraq». 

Dopo quei giorni di caos il procuratore di Ankara ha denunciato alcuni vertici dell’Hdp con l’accusa di organizzare una rivolta popolare contro il governo. Successivamente anche le parole pronunciate in questo periodo da Demirtaş sarebbero state utilizzate per la rimozione della sua immunità parlamentare. 

Frags tratti da Ogni luogo è Taksim. Da Gezi Park al controgolpe di Erdoğan, di Deniz Yücel, con una prefazione di Alberto Negri e un’analisi di Murat Cinar, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

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Il confederalismo democratico e l’ossessione anticurda della Turchia https://ogzero.org/confederalismo-democratico/ Sun, 29 Mar 2020 15:18:02 +0000 http://ogzero.org/?p=44 Forze in campo e alleanze geopolitiche: combattenti o terroristi? Daesh ha impressionato per ampiezza dei mezzi bellici a disposizione, dai blindati ai lanciagranate: armi che ha soprattutto strappato all’esercito iracheno, allorché si è impadronito di vaste porzioni di territorio in Iraq; vi si trovavano anche raffinerie, e con i proventi della vendita del petrolio il […]

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Forze in campo e alleanze geopolitiche: combattenti o terroristi?

Daesh ha impressionato per ampiezza dei mezzi bellici a disposizione, dai blindati ai lanciagranate: armi che ha soprattutto strappato all’esercito iracheno, allorché si è impadronito di vaste porzioni di territorio in Iraq; vi si trovavano anche raffinerie, e con i proventi della vendita del petrolio il Califfato è stato in grado di foraggiare i suoi militanti, la cui entità numerica rimane incerta. Dato certo è invece il controllo esercitato da Daesh su alcune città conquistate – la siriana Raqqa e l’irachena Mosul – da quando ha avviato la sua azione militare, nel giugno 2014. 

A metà ottobre 2015, combattenti delle tribù arabe del Nord della Siria e assiro-cristiani confluiscono in un corpo combattente di nuova formazione, le Forze democratiche siriane (Sdf), in cui il ruolo prevalente fu esercitato da combattenti curdi dello Ypg. Essa riceveva, soprattutto per volontà di Francia e Stati Uniti, l’appoggio della coalizione internazionale che combatteva Daesh. Da allora a più riprese la Turchia avanzò la pretesa di colpire Sdf e Ypg, asserendo la loro contiguità con il “gruppo terroristico Pkk” e pertanto la loro rilevanza come minaccia terroristica. 

I combattenti curdi, sostenuti dalla coalizione internazionale e dimostratisi non pregiudizialmente ostili verso Russia e Iran, trassero vantaggio dall’offensiva del regime siriano per guadagnare terreno nell’area settentrionale a nord di Aleppo, a spese di fazioni ribelli spalleggiate da Arabia Saudita e Turchia. Ciò spinse la Turchia, a metà febbraio 2016, a bombardare postazioni curde oltreconfine, nonostante gli appelli di Washington e altre capitali occidentali affinché Ankara fermasse gli attacchi.

Obiettivo: il Confederalismo democratico in Rojava

Il 12 agosto 2016, Sdf liberò da Daesh la città di Manbij, a ovest dell’Eufrate. Il 24 agosto, artiglieri e aviatori delle forze armate turche, spalleggiati dall’Esl (Esercito siriano libero), avviarono in Siria l’Operazione Scudo dell’Eufrate, il cui scopo era duplice: respingere i jihadisti dalla zona di confine siro-turca (avvenne a Dabiq, poi a Jarabulus) e bloccare l’espansione dei curdi; il 28 agosto, per esempio, attacchi aerei colpiscono, mietendo 35 vittime, i villaggi Jeb el-Kussa e al-Amarneh, controllati da forze curde. Contemporaneamente il ministro degli Esteri francese Ayrault, intervistato da “Le Monde”, esortava in generale i russi a cessare i bombardamenti e a tornare a percorrere la “via politica”, al fine di risolvere il conflitto siriano. Auspicava una Siria pacificata, stabile e unitaria, che rispettasse i diritti delle proprie minoranze (menzionava espressamente cristiani e curdi). Definiva inoltre positivo un robusto inserimento della Turchia nella lotta contro Daesh e legittimava l’aspirazione turca alla sicurezza delle proprie frontiere; tuttavia metteva in guardia Ankara dall’innescare un violento ingranaggio, cedendo alla tentazione di affrontare in Siria la propria questione curda, vale a dire la lotta contro il Pkk. Ayrault rammentava che i curdi siriani combattevano efficacemente contro Daesh e che non occorreva aggiungere una dimensione anticurda ai nodi di conflittualità già esistenti in Siria.

A metà ottobre 2016 era palese la volontà degli alti gradi statunitensi di lanciare rapidamente un’offensiva su Raqqa, per impedire l’afflusso verso la città di ulteriori combattenti di Daesh reduci da Mosul. Ma la Turchia si oppose alla proposta di utilizzare in tale offensiva una forza a guida curda; taluni ufficiali occidentali sostenevano che avrebbe potuto accrescere la conflittualità interetnica in una città come Raqqa, abitata in prevalenza da genti d’origine araba, però gli Stati Uniti dubitavano che la Turchia fosse in grado di addestrare rapidamente combattenti arabi capaci di sostituire nell’offensiva i curdi, dimostratisi peraltro molto efficienti. Dal 17 ottobre era in corso l’offensiva su Mosul: la coalizione a guida statunitense garantiva alle truppe irachene sostegno con attacchi aerei, artiglieria e truppe d’élite; forze arabe sunnite erano incaricate di combattere nel centro cittadino, i curdi iracheni agivano per garantire sicurezza nell’area perimetrale attorno alla città, soprattutto a sudest. Simile fu l’approccio offensivo proposto dagli Stati Uniti per Raqqa, che richiedeva a tal fine circa 10 000 uomini. Gli ufficiali turchi preferirono attendere piuttosto che veder coinvolti nell’offensiva gli appartenenti allo Ypg. Dal canto loro, i curdi, nel negoziare la loro partecipazione all’offensiva, richiedevano sostegno politico in cambio del loro sforzo volto a creare una regione autonoma nel Nord della Siria. 

Come e chi ha liberato Raqqa

Sdf comunicò a inizio novembre 2016 l’avvio dell’Operazione Ira dell’Eufrate con la partecipazione di 30 000 combattenti e l’appoggio di 300 militari delle forze speciali statunitensi: l’obiettivo era sottrarre Raqqa al controllo di Daesh. A tal fine s’intendeva utilizzare la componente araba di Sdf, invece di quella curda, per evitare tensioni di natura etnica con la popolazione locale d’origine araba. Il capo di stato maggiore statunitense, Dunford, preferì puntare sull’Sdf invece che sull’esercito turco, visto che fino a quel momento la Turchia non aveva esitato ad attaccare Sdf per impedire il consolidamento del controllo curdo sulla zona di confine siro-turca, per quanto sapesse che godeva dell’appoggio statunitense.

Prima della guerra Raqqa annoverava circa 300 000 abitanti. Vi fu un’evacuazione negoziata della città spostando i jihadisti rimasti verso il deserto orientale siriano e la vittoria fu proclamata il 17 ottobre 2017. Nei giorni successivi Sdf provvide a ripulire il territorio dalle ultime sacche di resistenza di Daesh. Raqqa era però ridotta in larga parte in macerie ed erano seriamente danneggiate le reti idrica ed elettrica; a quanto sembra, oltre 1000 civili avevano perso la vita negli ultimi quattro mesi e 270 000 persone erano fuggite dalla città e dai villaggi circostanti, incrementando soprattutto il numero degli sfollati interni siriani. Talal Sello, portavoce di Sdf, invitava pertanto la comunità internazionale a stanziare fondi per sostenere il nascente consiglio civile chiamato a governare la città, aiutandolo nello sforzo di ricostruzione. La coalizione internazionale elogiava i combattenti, principalmente curdi, di Sdf, per tenacia e coraggio dimostrati in combattimento contro un nemico privo di principi, nonché per il loro costante sforzo per ridurre al minimo le perdite fra i civili, facendo spostare con grande cura le popolazioni, anticipatamente, da aree poi interessate da scontri armati dovuti all’avanzata. Sdf fu definita una “forza etnicamente diversificata”. In essa era effettivamente presente un consistente numero di combattenti arabi, ma nella struttura operativa prevalevano i curdi, collegati al Pkk; nei festeggiamenti del 20 ottobre, in una piazza di Raqqa in precedenza utilizzata da Daesh per decapitazioni pubbliche, i combattenti si radunarono dietro un enorme drappo raffigurante Öcalan; ciò contribuì ad alimentare timori fra gli ex abitanti di Raqqa di essere dominati al ritorno da una forza che percepivano ostile. Comunque 655 combattenti persero la vita nel corso della battaglia di Raqqa.

La trama turca

Il posizionamento internazionale di Ankara, con la preoccupazione per l’evoluzione favorevole ai curdi in Siria, si sviluppò su più fronti all’inizio del 2017, dopo l’insediamento a Washington dell’amministrazione Trump. Il 13 febbraio combattenti dell’Esl penetrarono in al-Bab, sottraendo vari quartieri al controllo di Daesh. Erdoğan annunciò personalmente tale successo parziale del gruppo ribelle siriano alleato, indicando i prossimi obiettivi di Scudo dell’Eufrate: Manbij, controllata da forze curdo-arabe, e poi Raqqa, capoluogo siriano del Daesh. Si trattava di propositi alquanto roboanti, considerando che per penetrare nella più piccola al-Bab soldati turchi e Esl avevano impiegato alcuni mesi. Poi Erdoğan si recò in Arabia Saudita. 

Ossessione anticurda: accordi con l’Arabia Saudita

Dall’inizio della Primavera araba non sono mancate divergenze di vedute con i sauditi: in Siria Ankara e Riad hanno talvolta appoggiato gruppi ribelli differenti, e le accomunava solo l’opposizione ad al-Assad e la percezione, condivisa con fastidio, d’un disimpegno statunitense dall’area mediorientale. Ankara decise di giocare più carte. Da un lato s’impegnava per una soluzione diplomatica al conflitto siriano nei colloqui di Astana patrocinati assieme a Mosca e Teheran; dall’altro faceva leva sull’ostilità saudita verso la sempre più influente presenza iraniana – in Libano, Yemen, Siria e Iraq – per avvicinare Riad e altri Paesi del Golfo che sostengono economicamente gli oppositori siriani. In tal modo riuscì a propagandare l’intenzione di creare una No-fly Zone, di circa 5000 chilometri quadrati, nei territori che con i ribelli siriani alleati aveva sottratto a Daesh; si guadagnò così il gradimento saudita: per Riad la presenza turca era un valido contrappeso a quella iraniana; per la Turchia ovviamente la No-fly Zone era da intendersi anche in chiave anticurda.

Ossessione anticurda: accordi con la Russia

Erdoğan auspicò che s’instaurasse una cooperazione militare turco-russa per compiere operazioni in Siria e pervenire alla formazione di una “zona di sicurezza” libera dalla presenza tanto di Daesh quanto dello Ypg. Putin ed Erdoğan tennero a Mosca una conferenza stampa congiunta (marzo 2017), dove Erdoğan dichiarò: «il vero obiettivo ora è Raqqa». La Turchia riteneva che lo Ypg fosse un’emanazione del Pkk e voleva escluderlo dall’operazione di Raqqa, alla quale auspicava invece di partecipare. Comunque, il 26 marzo, Sdf, fruendo ancora del sostegno statunitense, conquistò l’aeroporto militare di Tabqa, a 50 chilometri da Raqqa, controllato da Daesh dall’agosto 2014.

Il 13 novembre 2017 Putin ed Erdoğan s’incontrarono nuovamente a Soči. Si parlò dell’acquisizione del sistema di difesa antiaerea russo S-400 e del contributo di Mosca alla costruzione di una centrale nucleare ad Akkuyu, nel Sud della Turchia. Le divergenze riguardavano la Siria: Erdoğan lamentava l’intenzione del ministero degli Esteri russo di invitare esponenti del Pyd a prender parte al Congresso dei popoli della Siria, finalizzato a regolare la fase postbellica dell’ormai annoso conflitto. Il presidente turco aveva già criticato la dichiarazione russo-statunitense che riconduceva nell’ambito dei colloqui di Ginevra sotto l’egida dell’Onu la ricerca di soluzioni pacificatrici per la Siria: avrebbe preferito un prolungamento della sola conferenza di Astana per poter conservare maggiore influenza sugli sviluppi futuri nel paese; d’altro canto, non voleva polemizzare eccessivamente con Putin, al quale faticosamente era riuscito a riavvicinarsi, dopo l’aspra divergenza dovuta all’abbattimento d’un velivolo militare russo da parte turca nel novembre 2015 citato nel capitolo sui curdi in Turchia.

Ossessione anticurda: il sabotaggio turco della pace

Il 20 novembre 2017 Putin riceve a Soči al-Assad per definire la regolamentazione postbellica; una settimana dopo è prevista la ripresa dei colloqui di Ginevra. Ad Astana la Russia è riuscita a conseguire lo scopo di ridurre gli scontri armati tramite la creazione di quattro “zone di de-escalation” in territorio siriano; al-Assad intende dimostrare buona volontà, come richiesto da Putin, ma a sua volta esige qualche garanzia sulla “non ingerenza di attori esterni”.

Un paio di giorni dopo in una dichiarazione congiunta Putin, Erdoğan e Rohani invitano governo e opposizione a prendere parte a un Congresso dei Popoli impegnandosi a redigere una lista di partecipanti chiamati a elaborare una nuova Costituzione siriana e organizzare elezioni supervisionate dall’Onu. Fissata a fine gennaio, la riunione del Congresso risulterà inconcludente: nel frattempo, infatti, da un lato Turchia e Esl nel Nord, dall’altro truppe siriane con l’appoggio russo nell’area di Ghuta, a est di Damasco, ripresero l’iniziativa militare, svuotando di fatto il progetto.

Ossessione anticurda: i contrasti con gli Usa

A metà gennaio 2018 gli Stati Uniti, nell’ambito della coalizione internazionale impegnata contro Daesh, manifestarono la volontà di costituire in Siria una forza adibita alla protezione delle frontiere, che comprendesse 30 000 uomini. Con motivazioni differenti i più reagirono ostilmente. La Siria parlò d’attacco alla sovranità e all’integrità territoriale, la Russia accusò gli Stati Uniti di puntare a una suddivisione del paese e di adoperarsi per un cambio di governo; Erdoğan si irritò per il fatto che fosse prevista la confluenza in essa di membri dello Ypg: gli Stati Uniti, paese alleato di Ankara in ambito Nato, intendevano in sostanza proseguire la collaborazione con Ypg e continuare a fornirgli armi pur dopo che Daesh era stato sconfitto. Intollerabile per Ankara. 

Il Comando militare statunitense di Baghdad provò invano a sminuire la portata della nuova forza, indicando che essa avrebbe riflettuto la composizione etnica delle popolazioni dell’area in cui avrebbe operato, che l’apporto numerico di Sdf sarebbe stato solo della metà – necessario per garantire esperienza e disciplina –, che l’area da sorvegliare avrebbe incluso porzioni della valle dell’Eufrate, nonché aree di confine internazionale della Siria. La Turchia in riferimento alla costituzione della cosiddetta Forza per la Sicurezza delle Frontiere siriane negò di essere stata consultata da Washington e non poté tollerare che ciò implicasse il posizionamento pressoché costante di combattenti curdi al suo confine meridionale. Infatti erano già iniziati i colpi d’artiglieria contro le postazioni curde nell’enclave di Afrin.

Sconfinamento del conflitto: il ramoscello d’ulivo avvelenato

Sabato 20 gennaio 2018, nel pomeriggio l’attacco annunciato: aerei da combattimento turchi bombardarono postazioni nel Nord della Siria. Il bersaglio era costituito da postazioni d’osservazione dello Ypg nell’area di Afrin, come riferì l’agenzia di stampa turca “Anadolu”. Sull’attacco riferì anche l’Osservatorio siriano per i Diritti umani, che parlava di almeno dieci velivoli militari turchi implicati. La Francia richiedeva una riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. I prodromi risalivano a una settimana prima, quando le postazioni in territorio siriano controllate dai curdi erano state prese di mira da colpi d’artiglieria; a un raduno di suoi sostenitori, Erdoğan aveva annunciato come imminente un’operazione delle forze di sicurezza turche contro le milizie curde presenti nel Nord della Siria e lo scopo sarebbe stato di ripulire l’area di Afrin dalla presenza di forze terroristiche. 

In seguito all’offensiva, l’esercito turco sembrava intenzionato a far sloggiare lo Ypg non solo da Afrin ma anche dall’intera regione di confine siro-turca. Il 9 marzo, Erdoğan dichiarava che l’obiettivo di quel momento era Afrin, ma in seguito si sarebbe giunti a Manbij e dopo ancora si sarebbe garantito che l’intera area a est dell’Eufrate, fino al confine con l’Iraq, venisse “ripulita dai terroristi”. Il confine siro-turco a est dell’Eufrate si estendeva per circa 400 chilometri; in quel momento le truppe turche erano giunte a circa sei chilometri da Afrin e si preparavano ad assediarla. Vi penetreranno il 18 marzo.

A fine marzo 2018 Erdoğan criticò la proposta di mediazione, a suo dire “ingannevole”, proveniente dal presidente francese: la Turchia non intendeva negoziare con i “terroristi” curdi che stavano combattendo in Siria. Erdoğan accusò Macron d’intromissione nelle operazioni militari turche solo per aver ricevuto a Parigi degli esponenti di Sdf, mossa considerara da Ankara un atto ostile. Sdf era, per Erdoğan, alla stessa stregua del Pkk; d’altronde Unione europea e Stati Uniti non consideravano lo Ypg un gruppo terroristico. Agli esponenti di Sdf, Macron aveva assicurato sostegno per stabilire il dialogo con la Turchia e contribuire a stabilizzare l’area, tuttavia il proposito di dispiegare nell’area truppe francesi, asserito da esponenti della delegazione curda e riferito da giornali francesi, venne smentito dalla Francia; essa tuttavia non se la sentiva di abbandonare completamente i curdi, dopo esserne stata alleata nello sforzo bellico contro Daesh.

A metà giugno 2018, Turchia e Stati Uniti si accordarono; Ankara ottenne che le forze dello Ypg venissero allontanate da Manbij; truppe turche e statunitensi provvederanno d’ora in poi congiuntamente a pattugliamenti e ricognizioni dell’area. Lo Ypg attesta di aver concluso l’addestramento delle forze locali e d’aver pertanto avviato il ritiro da Manbij; tuttavia è ovvio che tale ritiro avviene dopo che lo Ypg ha ricevuto comunicazione da Washington dell’accordo turco-statunitense.

La Turchia continua a muoversi a tutto campo, al fine di non perdere la posizione finora acquisita sul fronte siriano allorché si tratterà di agire per instaurare sforzi multilaterali finalizzati a porre fine al conflitto in Siria. Punta a salvaguardare i gruppi ribelli moderati, che ha finora sostenuto e che sono ormai concentrati a Idlib e dintorni. A metà settembre, per evitare che fossero attaccati da truppe di al-Assad , si è accordata con la Russia a Soči per l’istituzione nella provincia di Idlib di una zona demilitarizzata, in vista della restituzione della zona stessa al controllo di Damasco. Ankara ha istituito molteplici postazioni d’osservazione nell’area, per supervisionare l’allontanamento degli armamenti pesanti dalla zona. Tuttavia permane l’obiettivo di arginare il consolidamento curdo nel Nord. A tal fine, a Soči la Turchia ha proposto che parte dei ribelli siano reinseriti nelle forze di sicurezza siriane e parte siano adoperati per contrastare un eventuale ritorno di forze curde nell’area di Afrin, a nord di Idlib. Nell’altra zona da cui i curdi sono stati allontanati, Manbij, la Turchia porta avanti l’impegno preso con gli Stati Uniti: sta infatti provvedendo ad addestrare truppe da adibire al pattugliamento congiunto turco-statunitense. Ciò potrebbe parzialmente consentire di lenire i dissapori recenti di Erdoğan con l’amministrazione Trump. Quest’ultima mantiene a sua volta un po’ di ambivalenza: continua ad avvalersi – nell’ambito della coalizione internazionale volta a estromettere il gruppo Stato Islamico dal territorio siriano – delle forze curde e arabe di Sdf: in particolare nell’assalto in corso all’ultimo baluardo di Daesh, Hajin, nelle vicinanze del confine siro-iracheno. Lo sforzo turco consta anche di una continua proposizione, e procrastinazione, di incontri ad alto livello fra Russia, Turchia, Francia e Germania: lo scopo è coinvolgere i governi di Parigi e Berlino, sul piano economico, nella ricostruzione postbellica siriana. Del resto né la Turchia di Erdoğan né la Russia di Putin sono in grado di provvedervi da sé in assenza di aiuti finanziari. 

Frags tratti da Curdi, a cura di Antonella De Biasi, con i contributi di Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

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Rivalità e sangue tra etnie curde nella politica irachena https://ogzero.org/etnie-curde-in-iraq/ Sun, 29 Mar 2020 15:13:26 +0000 http://ogzero.org/?p=42 Totalitarismo, democrazia e federalismo  In seguito alla Prima guerra mondiale, il colonialismo britannico istituì lo stato dell’Iraq, riunendo – anche con la forza – tutte le componenti della regione. Da allora il popolo curdo iracheno, stanziato principalmente nella parte settentrionale del paese, nei governatorati di Dahuk, Erbil, Kirkuk e Sulaymaniyya, e tra Mosul, Salah-al-Din, Diyala e Baghdad, lotta per salvaguardare […]

L'articolo Rivalità e sangue tra etnie curde nella politica irachena proviene da OGzero.

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Totalitarismo, democrazia e federalismo 

In seguito alla Prima guerra mondiale, il colonialismo britannico istituì lo stato dell’Iraq, riunendo – anche con la forza – tutte le componenti della regione. Da allora il popolo curdo iracheno, stanziato principalmente nella parte settentrionale del paese, nei governatorati di Dahuk, Erbil, Kirkuk e Sulaymaniyya, e tra Mosul, Salah-al-Din, Diyala e Baghdad, lotta per salvaguardare i propri diritti politici e culturali. Negli anni Venti fu stroncato il primo tentativo guidato dallo sceicco Mahmoud Hafid di istituire uno stato curdo a Sulaymaniyya e da allora il movimento di liberazione curdo continua a opporre una strenua resistenza contro i governi iracheni susseguitisi nel tempo.

I partiti curdi in Iraq hanno impugnato le armi nella lotta politica in diverse fasi della loro storia, ma i governi iracheni hanno sempre operato con pugno di ferro e repressione. Le atrocità da loro perpetrate raggiunsero un picco nel 1988 quando il dittatore Saddam Hussein utilizzò le armi chimiche e promosse la campagna Anfal (cioè un genocidio che approfondiremo più avanti) dalla metà alla fine degli anni Ottanta. I giorni migliori per i curdi iracheni furono quelli annoverati dal resto della popolazione irachena come i peggiori, quando cioè la coalizione guidata dagli Stati Uniti invase il paese nel 2003.

Sebbene negli anni successivi la violenza dilagasse a più livelli, per la prima volta l’Iraq sceglieva la strada della democrazia con l’elezione nel 2005 di un nuovo parlamento seguito dalla stesura della prima Costituzione democratica della storia del paese che riguardava tutte le genti irachene, compresa la nazione curda.

Oltre alla nascita della democrazia, un altro passo importante fu il riconoscimento della regione curda come regione federale irachena anche se la leadership curda non riuscì a praticare politiche utili al popolo iracheno e al Kurdistan. Questo processo portò anche alla costituzione di una élite politica totalitaria e corrotta non così dissimile dagli oppressori curdi del passato. Nel settembre 2017, in seguito alla sconfitta dello Stato Islamico in Iraq e Siria, il presidente curdo Barzani impose prematuramente un referendum ai curdi che portò a un ulteriore deterioramento dei rapporti con Baghdad, distruggendo il sogno indipendentista. 

Tribalismi e nazionalismi a confronto 

Con l’Accordo Sykes-Picot il 16 maggio 1916 l’Iraq finì sotto il mandato britannico; fino all’indipendenza dell’Iraq nell’ottobre 1932, il popolo guidato dal re del Kurdistan – lo sceicco Mahmud Hafid – ingaggiò una guerra sanguinosa contro il governo inglese lottando per la propria indipendenza, ma senza successo, nonostante una strenua resistenza politica e armata. Nel marzo 1931, il leader curdo Mahmud Hafid inviò una dura lettera al capo della Lega delle Nazioni a Parigi, in cui denunciava chiaramente l’annessione del Kurdistan meridionale allo stato iracheno come Regione curda dell’Iraq del Nord.

Quando nel 1932 l’Iraq divenne una nazione indipendente i curdi non ebbero altra scelta – dato il fallimento delle ulteriori rivolte – che accettare la nuova situazione. Mullah Mustafa Barzani, fondò il Partito democratico del Kurdistan (Kdp) nel 1946 ispirandosi al Partito democratico del Kurdistan iraniano (Kdpi). Il Movimento di liberazione curdo si rafforzò durante la monarchia, ampiamente influenzato dal Partito comunista (1934) e dallo stesso Kdp, che aveva controllato la politica curda fino ad allora, e i suoi attivisti riuscirono a mobilitare i contadini per ottenere maggiori diritti democratici. La monarchia fu rovesciata dal colpo di stato di Abd al-Karim Qasim nel 1958 e il popolo curdo lo sostenne; allora Mustafa Barzani tornò dalla Russia, paese che ospitava numerosi profughi dopo il collasso nel 1946 di quella Repubblica di Mahabad in Iran, di cui si è fatto cenno nell’Introduzione di questo libro. Sebbene in un primo tempo i rapporti tra i curdi e Qasim fossero buoni, dopo tre anni scoppiò la rivoluzione. Molti storici attribuiscono a entrambe le parti la colpa del deterioramento dei rapporti a scapito di una collaborazione per il bene dell’Iraq. 

Con il dipanarsi della storia che ha forgiato il nazionalismo e le politiche fino ai giorni nostri la società curda è stata divisa in vari clan e tribù, controllati e strumentalizzati con facilità dai nemici dei curdi chiamati a difenderli dalle tribù rivali, aiuto spesso offerto dai regimi iracheni stessi.

Una delle ragioni principali della fine della luna di miele tra Mullah Mustafa Barzani e Abd al-Karim Qasim fu una questione tribale: quest’ultimo aveva rapporti distesi con le tribù Hark e Zibâri che si opponevano al clan Barzani, così Mullah Mustafa Barzani pensò che Qasim volesse usare i suoi rivali per ridurre il suo potere nel Nord. L’ex presidente iracheno e segretario generale del Puk Jalal Talabani, coprotagonista in quei giorni, scrive nelle sue memorie pubblicate nel 2017 che «il crollo delle relazioni tra Barzani e Qasim cominciò quando Ahmed Agha Zibâri (leader di quella tribù) che era un violento, aveva ucciso molti dei Barzani iniquamente» e aggiunge: «Mullah Mustafa Barzani aveva mandato alcuni della sua cerchia per ucciderlo». In seguito Qasim cercò di trascinare in giudizio gli assassini e Barzani respinse quella soluzione; in risposta Qasim armò la tribù Zibâri. Questa mossa fu considerata da Barzani ostile alla sua tribù e al suo potere in Iraq, in particolare nel Nord. 

Da allora le rivalità e il sangue versato tra tribù e clan curdi hanno certo agevolato i regimi iracheni nell’intento di rintuzzare le rivoluzioni curde. E allo stesso tempo alcune tribù e clan, insieme ai loro leader, sono stati la colonna vertebrale delle rivoluzioni contro i regimi iracheni.

Prima di stabilire un nuovo stato-nazione in Iraq, i curdi accumularono potere attraverso gli emiri locali affiliati all’Impero Ottomano, mantenendo il controllo delle amministrazioni locali, battendo moneta e predicando in qualità di emiri curdi e non come sultani ottomani. Il nuovo stato iracheno insomma non riuscì a portare i curdi totalmente sotto il suo controllo, così come non riuscì a creare un’identità nazionale in grado di raccogliere tutte le componenti regionali oltre al comune sciovinismo nazionalista arabo. Infatti nel Congresso fondativo del Partito baathista del 1947, lo statuto chiaramente affermava: «Il partito nazionalista crede che il nazionalismo sia una inconfutabile verità». E fu così che in Iraq nacque il nazionalismo curdo, in opposizione a quello arabo.

La spartizione del potere 

Dal 1932 al 1946 proliferarono svariati partiti nonché figure-chiave politiche che guidarono la rinascita nazionalista e intellettuale, come Ibrahim Ahmed, Rafiq Hilmi e Ala al-Din Sajadi. 

Tutto ciò lasciò un segno politico e intellettuale sulla popolazione, nonostante la nascita del Kdp di Mustafa Barzani avesse messo tutti gli altri partiti un po’ in ombra. Sebbene l’attuale leader, Masoud Barzani, figlio di Mullah Mustafa, abbia portato i curdi al referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno tenutosi il 25 settembre 2017, il Kdp richiedeva in realtà l’autonomia all’interno dei confini nazionali iracheni fin dall’inizio del 1992, quando il parlamento curdo si batteva per la costituzione di una Federazione della regione curda dell’Iraq (Kri). Allo stesso tempo, il Kdp non si è mai pronunciato sul diritto all’autodeterminazione fino al 2010, al contrario dell’Unione patriottica del Kurdistan iracheno (Puk) guidata da Jalal Talabani che insisteva su questo punto fin dal 1975.

Si noti come il Kdp sia diventato un movimento popolare che riuniva le più importanti tribù e capitribù, così come gli intellettuali curdi e gli studiosi islamici e, a differenza di altri partiti, riuscì nell’intento di costruire relazioni paradiplomatiche con più di una nazione. Oltre al forte legame con lo scià iraniano, ebbe rapporti con gli Stati Uniti, Israele e la Russia. Quando il legame con la Repubblica irachena si deteriorò il Kdp guidò l’Aylul (la Rivoluzione di Settembre). Nonostante la guerra la rivolta curda si espandeva sempre più: il leader del Kdp Mustafa Barzani era in contrasto con l’Ufficio politico guidato da Ibrahim Ahmed e da Jalal Talabani, e questo portò a una scissione nel 1964, quando Talabani fece ritorno a Baghdad. L’ala fedele all’Ufficio politico accusò Mullah Mustafa Barzani di essere “tribale e conservatore”, mentre i politici curdi dell’epoca erano impregnati di marxismo. Il Kdp fallì, persino la retorica nazionalista curda non era così efficace perché il suo leader non capiva la reale portata intellettuale e ideologica dell’opposizione al regime iracheno. Mentre la rivoluzione curda si rafforzava, lo stato iracheno si indeboliva a causa di due consecutivi colpi di stato dei baathisti nel 1963 e 1968, che li portarono al potere.

Voltafaccia baathisti e iraniani

I baathisti al potere avevano bisogno di rafforzare la loro presa; annunciarono così in prima battuta riforme economiche radicali in Iraq, nazionalizzarono il settore petrolifero e abbracciarono la causa dei diritti del popolo curdo. Tale apertura portò a un’intesa storica l’11 marzo 1970 tra il governo iracheno e il movimento rivoluzionario curdo di Aylul in cui per la prima volta l’identità curda veniva riconosciuta come partner politico in Iraq. I curdi guadagnarono il diritto all’autonomia e si istituirono delle amministrazioni locali curde nei governatorati di Erbil, Sulaymaniyya e Dahuk, mentre Kirkuk rimase una questione in sospeso. 

Una volta che i baathisti si stabilirono al potere, però, iniziarono a fare un passo indietro rispetto agli accordi presi, avvicinandosi al regime dello scià di Persia per trovare un compromesso su alcune zone dello Shat al-Arab in cambio della sospensione del sostegno iraniano alla rivoluzione curda. Nel frattempo, anche gli Stati Uniti non avevano mantenuto la promessa di sostenere il popolo curdo e la più grande rivoluzione curda era fallita per un complotto a livello regionale. Anche se Mullah Mustafa aveva un cospicuo esercito di peshmerga e godeva del sostegno di gran parte della società, era preoccupato delle mosse dello scià di Persia: fermò quindi la rivoluzione e non permise che altri la rinfocolassero e vietò agli altri leader curdi di proseguirla. 

Il governo iracheno di allora, agli inizi degli anni Settanta, complottò contro la rivoluzione curda dopo pochi anni di pace e prosperità nella regione del Kurdistan e in Iraq. Nel 1973 i rapporti curdo-iracheni stavano prendendo un’altra strada quando il regime baathista annunciò un fronte comune con il Partito comunista, più che altro per avversione nei confronti del Kdp. Quindi nel 1974 riprese la guerra tra il governo iracheno e i rivoluzionari curdi e questi ultimi capitolarono nel momento in cui l’Iraq strinse un’intesa con lo scià di Persia, il 6 marzo 1975, nota come gli Accordi di Algeri, con il supporto dell’Occidente, dell’Oriente e degli Stati Uniti. A Baghdad erano ormai rimasti pochi partiti minori senza una base forte all’interno della società curda; erano piuttosto considerati utili al regime iracheno per distruggere il movimento rivoluzionario curdo. 

In seguito alla fine della Rivoluzione di Mullah Mustafa, apparvero sulla scena molti partiti politici e movimenti armati curdi in opposizione al governo. Fino al 1975, il Kdp e Mullah Mustafa Barzani avevano controllato il panorama politico curdo, eppure in quel periodo riuscirono a emergere alcuni importanti partiti e leader che lui riuscì però sempre a marginalizzare rendendo il partito praticamente privo di opposizione. 

Quando Barzani intraprese una campagna militare contro Qasim la maggioranza delle tribù lo sostenne, così raccolse l’appoggio dei clan Balakayati e Pizhdar (utili perché più vicini all’Iran), ma all’interno della Rivoluzione, i capi delle tribù e dei clan erano in disaccordo sul potere e capitò che venissero eliminati attraverso veri e propri eccidi, come nel caso di Hamad Aghay Mergasori e dei suoi figli: i peshmerga più coraggiosi della Rivoluzione Aylul degli anni Sessanta furono uccisi da Barzani, timoroso che volessero prendere il controllo del partito.

I vari regimi iracheni cominciarono ad arruolare tribù e clan in funzione controrivoluzionaria, iniziando da quelli che avevano buone relazioni con Baghdad, in particolare nella zona di Dahuk. All’interno delle tribù e dei clan c’erano sempre state divisioni tra chi aveva sostenuto la rivoluzione e chi l’aveva avversata.

Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta il regime di Saddam Hussein reclutò molte fragili tribù e clan curdi che controllava fomentando controversie tra di loro in modo che ricorressero all’appoggio del governo. Uno dei motivi per cui così tanti clan e tribù curdi si univano facilmente alle truppe irachene derivava dal fatto che il regime aveva drenato tutte le loro risorse per vivere. Il regime di Saddam aveva distrutto i villaggi e deportato i capitribù in riserve dove migliaia di persone non avevano lavoro. Saddam adottò questa raffinata strategia con l’intento innanzitutto di diminuire la forza dell’opposizione curda e in secondo luogo per fare sì che queste genti rimanessero leali al suo governo evitando di unirsi agli insorti.

Fine dello spirito di Aylul: la fenice curda risorge divisa

L’era successiva al Mullah Mustafa Barzani aprì le porte alla società curda e ai politici di diverse provenienze e ideologie. Nonostante la divisione dei partiti armati abbia portato a una lotta interna fratricida detta birakuji (“guerra civile”), tale diversità portò varie correnti nella politica e nel Movimento di liberazione curdo, dal maoismo all’islamismo.

Il più potente partito fondato da un gruppo di rivoluzionari curdi dentro e fuori dal paese dopo la Rivoluzione Aylul, avversario di Barzani, fu l’Unione patriottica del Kurdistan (Puk), guidato a Damasco dal futuro presidente iracheno Jalal Talabani. Una coalizione di marxisti-leninisti, maoisti e nazionalisti si riunirono con l’impegno preciso di combattere il regime baathista in Iraq e di sfidare l’arretratezza del tribalismo curdo, creando una società curda, socialista e democratica. Il nome specificava l’obiettivo “del diritto all’autodeterminazione del Kurdistan”, un’eredità del Movimento di liberazione curdo, che non intendeva chiedere solo l’autonomia per quella regione. Il Puk modificò anche la retorica del partito poiché si rivolse alla classe lavoratrice ispirandosi allo slogan marxista che invitava i lavoratori e gli oppressi a unirsi. La leadership di partito era giovane e proveniva da vari strati della società, anche con un alto grado di istruzione. Talabani era un leader pragmatico capace di tenere insieme i rivoluzionari più conservatori e i progressisti. Il Puk aveva principalmente tre anime: il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Kzp), un gruppo marxista-leninista attivo fin dagli inizi degli anni Settanta; la Linea generale, l’ala che riuniva alcuni capitribù e i conservatori; e il Movimento socialista del Kurdistan. 

Ispirato al maoismo, il Puk era il partito ideologico per tutti, nonché una forza armata notevole, ma adeguò la sua ideologia nel tempo, assecondando le varie potenze internazionali, e da antimperialista e antisionista alla fine degli anni Ottanta si avvicinò alle forze statunitensi.

In seguito alla nascita del Puk (anti-Kdp e anti-Barzani, considerati entrambi “traditori e conservatori”), il Kdp – i cui seguaci erano stati espulsi in Iran e i cui leader, come Barzani, erano rifugiati negli Stati Uniti o in Europa – si riorganizzò nella speranza di costituire un’opposizione. Alcuni membri annunciarono in un incontro tenutosi a Berlino una leadership pro tempore di Serkrdayeti Kati o Qiyada Muwaqata durante la diaspora. 

Presto iniziarono i contrasti tra la leadership pro tempore e il Puk, come proseguimento della rivalità tra il fronte di Talabani/Ahmed e quello di Mullah Mustafa Barzani, un conflitto noto in curdo come Jalali-Mullahi, e presente ancora oggi. Fino al fallimento della Rivoluzione Aylul, la politica interna curda e le rivalità non furono mai violente e con il partito più forte, il Kdp, che deteneva il controllo della politica curda e del Movimento di liberazione curdo, sarebbe stato facile spegnere ogni dissenso. Comunque sia Kdp che Puk, come anche altri partiti, istituirono una propria forza armata e la politica interna curda si trasformò in una cruenta guerra civile costellata persino da massacri. Molti partiti curdi si frammentarono a causa delle interferenze da parte dei governi regionali e di quello centrale iracheno. Il primo scontro armato tra il Puk e il Kdp accadde nel 1978 a Hakkâridove alcuni leader del Puk persero la vita. Molti membri di questo partito furono uccisi durante gli scontri e nonostante il Kdp godesse del sostegno iraniano e il Puk di quello del regime di Hafiz al-Assad, il Puk non fu capace di trarne profitto a causa di questioni di confine. La forza del Puk infatti era concentrata sulle aree di confine con l’Iran a Sulaymaniyya e a nordest di Erbil, cosa che aveva reso difficile far giungere le armi dalla Siria. In quel periodo il Puk subì una spaccatura che si rivelò un vero disastro per il partito, anche se questo non bastò a indebolirlo. All’inizio degli anni Ottanta il Puk considerava impossibile una negoziazione con il regime per risolvere la questione curda in Iraq, ma in seguito ammorbidì la propria posizione e accettò di trattare un accordo in cambio dell’autonomia nella Kri. Il regime di Saddam si era indebolito a causa della guerra Iran-Iraq e, auspicando una tregua, invocò la pace con i curdi. I negoziati partirono ma furono di poco conto. La guerra tra il Puk e il regime iracheno questa volta risultò più sanguinaria: dopo un anno dall’interruzione dei negoziati, l’Iran era sempre più addentro alla questione curda ed era riuscito a portare tutti i partiti sotto l’ombrello del Fronte del Kurdistan (7 maggio 1988). Il Puk era il partito più potente tra gli otto del Fronte. 

Le tribù curde si erano suddivise tra Kdp e Puk ed erano state distribuite posizioni di potere e ad alto livello all’interno del partito e del governo; l’organizzazione in forma di partito era funzionale alla gestione delle questioni sociali e tribali e proprio per questo i due partiti sono sempre stati più forti degli organi giurisdizionali.

Talvolta i capitribù che avevano rifiutato il completo appoggio a un partito politico ne hanno pagato le estreme conseguenze: i partiti hanno sempre usato la retorica nazionalista per accusare qualche rivale di tradimento e giustificarne così l’esecuzione. Durante la guerra civile nel 1996 Masoud Barzani (del Kdp) accusò Hussein Agha Surchi, leader della tribù Surchi, di collaborare con Saddam e con il Puk; questa accusa emerse quando Barzani temette il rafforzamento del rivale. Alla fine, nel 1996, un manipolo del Kdp attaccò la sua casa uccidendo lui e parecchi suoi uomini. Questo spinse gli altri superstiti leader tribali e centinaia di Surchi a sostenere il Puk nella lotta contro il Kdp.

Il bottino del ladro di Baghdad: l’operazione Anfal di Saddam

Alla fine degli anni Settanta, i gruppi rivoluzionari curdi si erano riorganizzati. Il Puk, il Partito socialdemocratico, il Partito comunista, e diversi gruppi minori si unirono nella resistenza contro il regime iracheno che in risposta deportò popolazioni dalle montagne, distruggendo quasi 4000 villaggi che fornivano appoggio logistico, cibo, intelligence e braccia per la rivoluzione. Interruppe i collegamenti e bombardò le strade che portavano ai villaggi nella speranza di ostacolare la lotta armata. Durante la guerra Iran-Iraq il Kdp si avvicinò al regime iraniano, mossa che portò al coinvolgimento curdo nel conflitto. Nel 1983, il Kdp aiutò l’esercito iraniano a guadagnare terreno nella parte settentrionale dell’Iraq a Haji Omaran, dove l’Iraq aveva contrattaccato in modo disumano massacrando oltre 4000 persone della tribù Barzani, gente innocente che viveva nei campi di concentramento (fonti ufficiali curde parlano di 8000 vittime), deportata lì dai villaggi al tempo della resistenza e della rivolta, nella speranza di sterminarli. Questo massacro segnò l’inizio di una serie di stermini noto come Anfal (il bottino). Sebbene il Partito baath iracheno non fosse di matrice islamica, egli utilizzò il nome di un versetto del Corano noto come Anfal per giustificare i suoi crimini e il clima di terrore e per ingannare il mondo arabo e musulmano facendo credere che i curdi sostenessero gli sciiti iraniani. 

Nello sforzo sistematico di annientare la resistenza curda alla metà e alla fine degli anni Ottanta, il regime iracheno sotto la guida diretta di Ali Hassan al-Majid, noto come Ali il ‘Chimico’ in Kurdistan, dal 1987 al 1989 utilizzò tutti i mezzi possibili per terrorizzare e distruggere la resistenza curda e massacrò oltre 50 000 (fonti curde ufficiali dicono addirittura 182 000) uomini, donne e bambini innocenti, a Garmiyan. Vale la pena ricordare che i partiti curdi avrebbero dovuto evitare ogni coinvolgimento diretto con le forze iraniane perché sapevano per esperienza cosa Saddam sarebbe stato capace di fare, cioè massacrare anche i civili. Saddam Hussein avrebbe giustificato l’ostilità curda come un atto di lesa maestà. I partiti curdi avevano già sperimentato l’ostilità del regime, almeno avrebbero dovuto imparare la lezione o quantomeno tenere segreta la collaborazione. 

I crimini iracheni raggiunsero l’apice quando il 16 marzo 1988 fu attaccata la città di Halabja sul confine Iran-Iraq nella provincia di Sulaymaniyya. L’Iran avanzava sulla città con l’aiuto dei peshmerga curdi, per tutta risposta il regime iracheno commise il crimine più barbaro e orrido della storia dell’Iraq quando Ali Hassan al-Majid, d’accordo con Saddam Hussein, ordinò l’utilizzo di armi chimiche per avvelenare la gente di Halabja. In una sola ora 5000 uomini, donne e bambini innocenti morirono soffocati, lasciati soli nella città rasa al suolo; la maggior parte della popolazione dovette fuggire altrove nel paese o trovare rifugio in Iran, dove si dispersero molti bambini, alcuni dei quali, dopo essere stati adottati da famiglie iraniane, tornarono nella regione del Kurdistan. L’impatto dei gas velenosi sull’ambiente di Halabja è ancora presente oggi. 

Dopo la campagna Anfal, i rivoluzionari curdi vissero tempi bui perché la maggior parte dei villaggi fu distrutta e gran parte dei peshmerga furono uccisi o feriti; la guerra Iran-Iraq era finita dando al regime iracheno l’opportunità di affrontare i curdi in modo molto più efficace che se si fosse trattato di uno scontro esclusivamente tra i curdi e il raìs di Baghdad. 

Bagatelle per un genocidio: collaborazionismo Jash

I colpevoli dei bombardamenti chimici della campagna Anfal e di Halabja furono condotti davanti alle corti internazionali quando nel 2003 cadde il regime iracheno: alcuni criminali vennero protetti dal Kdp e dal Puk, altri scapparono all’estero. Gli eventi di Halabja e l’operazione Anfal sono stati riconosciuti come atti di genocidio dal Parlamento iracheno e dall’Alta Corte Penale irachena nel 2007. Il governo non aveva risarcito le vittime, né aveva porto le sue scuse ufficialmente. Nel frattempo i curdi avviarono una campagna internazionale per vedere riconosciuti i crimini del regime precedente come atti di genocidio che potenzialmente potevano incontrare la condanna di paesi come la Svezia, il Regno Unito, la Norvegia, la Corea del Sud e il Canada. Nel 2007 l’Alta Corte Penale ordinò indagini su 423 curdi e arabi iracheni ex baathisti sospettati di coinvolgimento nel genocidio dell’Anfal

Uno degli aspetti più tristi di questa campagna furono i baathisti curdi noti come la milizia Jash, traditori e mustashar (consulenti) collaborazionisti dell’esercito iracheno durante il genocidio. I capitribù curdi che collaboravano con le truppe irachene erano considerati traditori agli occhi dei rivoluzionari. Nonostante tutto, quando alla fine degli anni Ottanta si costituì il Fronte del Kurdistan, venne emanata un’amnistia per i leader e i membri della Jash nella speranza che appoggiassero l’insurrezione pianificata. Quando nel 1991 partì la rivolta, molti dei capi della Jash – cui era già stata concessa un’amnistia – voltarono le spalle al regime di Saddam Hussein, combattendo l’esercito iracheno e sostenendo i peshmerga, rivelandosi uno dei motivi del suo successo. Per quanto questa fosse una mossa vincente per i rivoltosi, presto i capi Jash ottennero nuove cariche e privilegi nei partiti curdi, soprattutto nel Kdp.

L’Alta Corte Penale processò i principali imputati dell’Anfal, Ali Hassan al-Majid fu impiccato nel gennaio 2010. L’ex comandante iracheno Sultan Hashim, uno dei principali comandanti della campagna che aveva persino dato il nome Anfal a sua figlia, fu condannato ma non giustiziato perché difeso dai sunniti: è in prigione, ma l’ex portavoce parlamentare iracheno Salim al-Juburi, che è un sunnita, ha provato a farlo rilasciare per anni, senza per ora riuscirci. 

Nel 2010, l’Alta Corte Penale emise dei mandati di cattura per 258 curdi membri del Partito baath per il loro coinvolgimento nell’infame campagna negli anni Ottanta, ma nessuno è stato ancora arrestato, a causa del sostegno tribale di cui Kdp e Puk possono beneficiare.

Alcuni dei capitribù collaborazionisti durante il genocidio erano rimasti a Baghdad fino al 2003. Alla caduta del regime si sono uniti al Kdp o al Puk. La lotta per il potere spinse i due partiti ad accogliere chiunque.

Per quanto i capitribù stessero perdendo poco per volta il loro potere dato che la nuova generazione e i nuovi movimenti civili e democratici cercavano di superare le politiche tribali, alle elezioni il Kdp e il Puk decisero di presentare figure tribali, in modo che le tribù si sarebbero schierate a sostegno dei loro candidati. Il Kdp ha ottenuto un largo successo nella tornata elettorale del 2013 a Dahuk, dove il partito elesse molte figure tribali perché i clan locali li sostennero.

Guerra e pace dopo Anfal…

Alcuni rivoluzionari curdi però non si scoraggiarono e proseguirono la loro attività: in quei giorni il Puk appariva come il partito più potente. Talabani era all’estero a fare proseliti per la causa curda in seguito al genocidio di Halabja e Nawshirwan Mustafa, all’epoca segretario dell’ala marxista e numero due del partito, riuscì a riorganizzare le forze peshmerga. Talabani fu molto efficace durante la sua permanenza negli Stati Uniti, soprattutto nell’incontro con gli ufficiali americani a Washington, fautori del peggioramento dei rapporti tra Usa e Iraq, durante il quale si stabilì un collegamento iniziale tra Puk e Stati Uniti. Kosrat Rasul, segretario generale del Puk giocò un ruolo fondamentale nella riorganizzazione dei peshmerga nella zona di Erbil. Inoltre il Kdp era meno presente nelle zone di confine e cercava anch’esso di riorganizzarsi attraverso il suo decimo Congresso in Iran in cui erano presenti oltre 300 membri del partito. 

… e di nuovo guerra: la rivolta che unisce. Kurdayetî

Il fallimento del Partito baath iracheno nella guerra Iran-Iraq spinse il regime a dichiarare una nuova guerra contro un vicino solo due anni più tardi: il Kuwait. Il paese fu invaso durante un’operazione di due giorni nell’agosto 1990 che portò a cambiamenti radicali nelle dinamiche della politica irachena: molte furono le sommosse nelle città del Sud a maggioranza sciita. E anche nella Kri, nel Nord dell’Iraq la popolazione iniziò a sollevarsi. Dapprima le sommosse erano architettate dal fronte curdo, in particolare dal Puk, sotto la guida di Nawshirwan Mustafa.

La rivolta scoppiò nel marzo 1991 nella città di Ranya per poi espandersi a Sulaymaniyya, Erbil, Dahuk e Kirkuk, fu uno dei maggiori successi del movimento Kurdayetî, e mostrò aspetti nascosti nel nazionalismo curdo quando il suo successo decretò l’inizio della sua fine: si trattava infatti di un movimento di liberazione e non di libertà, liberazione della terra e non libertà dell’uomo. Inoltre, il Kurdayetî era un movimento di lotta e resistenza, non prevedeva modalità alternative e fallì nel tentativo di portare un modello di vita e di governo diversi rispetto a quelli esistenti. Il Puk aveva promesso di «ricostruire e guidare la società curda secondo linee moderne e democratiche», ma aveva fallito. Inoltre, il Kdp non era mai andato oltre la sua struttura tribale. 

I curdi riuscirono a liberare quasi tutti i loro territori, ma presto furono cacciati da Kirkuk e si verificarono scontri feroci tra i pershmerga e l’esercito iracheno. Il 31 marzo 1991, l’esodo curdo verso i confini iraniani e turchi portò nelle zone limitrofe centinaia di migliaia di curdi terrorizzati dalla possibilità che il regime utilizzasse armi chimiche. Le vite di centinaia di migliaia di curdi erano in pericolo mortale, le strade bloccate, intere famiglie alla fame non avevano più acqua potabile e medicine e i neonati morivano di stenti, il freddo e la pioggia mettevano in pericolo la vita degli anziani nelle zone di montagna, molti perdevano la vita tornando verso i villaggi sui terreni minati e ci si poteva imbattere in cadaveri lungo le strade ai confini iraniani o turchi o in bambini sperduti di cui nessuno poteva prendersi cura. 

La rivolta curda del 5 marzo e l’esodo di massa, noto come Korraw, riunì il popolo e i partiti già furiosi per il sanguinoso antagonismo seguito al fallimento della Rivoluzione Aylul. 

Risoluzione Onu 688. La No-fly Zone

Per la prima volta, le Nazioni Unite presero una decisione importante in favore dei curdi iracheni: la Risoluzione 688 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Grazie alla comunità internazionale che reagì all’esodo di massa fornendo una No-fly Zone per proteggere i profughi dall’ostilità del regime iracheno istigata dagli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia (quest’ultima si ritirò nel 1998) assicurarono il controllo curdo su tre province: Dahuk, Erbil e Sulaymaniyya. La Risoluzione 688 fu adottata su richiesta di Francia, Iran e Turchia per mettere fine alla repressione nel Kurdistan iracheno e la No-fly Zone diventò operativa perché Saddam Hussein non si attenne mai alle indicazioni dell’Onu. 

La Risoluzione fu una delle più importanti a influenzare il futuro dei curdi in Iraq e portò alla No-fly Zone, anche se nel programma non se ne faceva menzione esplicita: «Si condanna la repressione della popolazione civile curda in molte zone dell’Iraq, comprese molte aree popolate recentemente dai curdi, con conseguente minaccia della pace e della sicurezza internazionale nella regione» e «si richiede al Segretario generale di perseguire sforzi umanitari in Iraq per agire prontamente – in caso si ritenga appropriato, con una ulteriore missione nella regione – sulla questione che riguarda la popolazione civile irachena, in particolare quella curda, che subisce repressione in tutte le sue forme da parte delle autorità irachene»; e inoltre: «Si richiede all’Iraq, come contributo per rimuovere la minaccia alla pace internazionale e alla sicurezza della regione, di porre fine immediatamente alla repressione, e allo stesso tempo si auspica una ripresa del dialogo per assicurare che i diritti umani e politici dei cittadini iracheni siano rispettati».

Nuove speranze per il nuovo Kurdistan 

Dopo la Risoluzione dell’Onu e l’istituzione della No-fly Zone, il nazionalismo e la politica curda entrarono in una fase in cui le speranze per un nuovo Kurdistan e una nuova società arrivarono al culmine. Dato che i curdi per la prima volta godevano di una parentesi di pace gli intellettuali iniziarono a tenere seminari e convegni in cui si discuteva di democrazia e la società civile si organizzò. Celebrazioni e festeggiamenti si tenevano ovunque così come discussioni e dibattiti sul futuro della Regione del Kurdistan. I media curdi iniziarono a spuntare come funghi; si tenevano marce e dimostrazioni a sostegno dei partiti politici, e si organizzavano scioperi e proteste. Gruppi di lavoratori, contadini, studenti e intellettuali iniziarono a strutturare la società civile, dando vita a comuni in cui si risolvevano questioni sociali, politiche ed economiche, comprese quelle relative alla sicurezza. Fondi della comunità internazionale giungevano nella regione, migliaia di persone deportate alla fine degli anni Settanta e a metà degli Ottanta ritornarono nelle proprie terre d’origine. Migliaia di villaggi furono ricostruiti e la gente tornò a coltivare nelle zone in cui era proibito da anni. Molta gente che si era rifugiata in Iran dopo il fallimento della Rivoluzione Aylul tornò nella Kri. Insegnanti volontari aprirono scuole e per la prima volta quasi tutti gli istituti tornarono a insegnare ai bambini in lingua curda. Riaprì l’università di Salahaddin. Grazie a un movimento senza precedenti furono fondate le università di Sulaymaniyya e Dahuk. Poco dopo il successo della Rivolta, nella Regione del Kurdistan per la prima volta si tennero delle elezioni e – anche se con qualche limite – queste portarono alla fondazione del primo parlamento e governo del Kurdistan. Questi momenti pieni di speranza vennero presto scippati dal Kdp e dal Puk quando iniziarono a fare razzia dei progetti del vecchio regime, come accadde per la diga di Bekhme, il grande progetto per l’energia idrica, in costruzione quando l’amministrazione irachena si ritirò dalla Regione. Purtroppo molta gente comune si unì al saccheggio. Il Kdp e il Puk fermarono la ricostruzione, l’attrezzatura elettrica e industriale fu inviata in Iran e Turchia, svenduta a prezzi scontati, e questo permise loro di mantenere il controllo dell’energia. 

1992, le prime elezioni libere per il parlamento curdo 

Nonostante i suoi limiti e gli oppositori dei valori della rivoluzione da parte dei due principali partiti all’inizio degli anni Novanta, alcune storiche conquiste diedero inizio a un nuovo corso storico. Per la prima volta dopo decenni di guerra, il popolo curdo stabilì il primo governo autonomo e un parlamento. Dopo aver superato alcune sfide, i partiti confluiti nel Fronte del Kurdistan iracheno (Ikf) raggiunsero un accordo sulla data delle elezioni del parlamento che si tennero il 19 maggio 1992, giorno in cui le coalizioni e le varie liste elettorali gareggiarono per superare la soglia del 7 per cento ed entrare nel parlamento curdo. Si trattava comunque della prima esperienza democratica dopo anni di oppressione e repressione: era prevedibile che si verificassero dei brogli. Le elezioni erano comunque una novità, non solo per l’Iraq, ma per molti paesi della regione. La prima esperienza di democrazia in una società postbellica tra conflitti e rivolte costituiva una vittoria in sé.

Il Puk era il favorito perché era il partito più forte con una milizia efficiente e una base sociale organizzata, ma fu il Kdp a vincere le elezioni. Le frodi elettorali riguardavano entrambi i partiti. A parte il Kdp (45,3% e 51 seggi) e il Puk (43,8% e 49 seggi), nessuno degli altri partiti politici riuscì a superare lo sbarramento, anche se si era previsto che fosse alla portata del Movimento islamico curdo (Kim, noto come Bizutnewe, 5,1%) e del Partito socialista curdo (2,6%); il Partito comunista del Kurdistan (2,2%) e il Partito popolare democratico del Kurdistan (1,0%) completarono la débâcle democratica.

Il Puk contestò i risultati accusando il Kdp di aver manipolato i voti, reato che ovviamente avevano commesso entrambi. Alla fine i due partiti si misero d’accordo per dividersi i seggi e le cariche parlamentari equamente. Stranamente il primo parlamento e il primo governo curdi erano composti solo da dirigenti del Kdp e del Puk e soprattutto da coloro che non avevano esperienza di governo perché avevano passato la loro esistenza a combattere contro il regime sulle montagne. Il portavoce parlamentare fu assegnato al Kdp e il primo ministro al Puk. 

Jawhar Namiq Salim, il Segretario dell’Ufficio politico del Kdp, fu eletto il 4 giugno 1992 portavoce del Parlamento curdo e Fuad Masum, membro del Consiglio direttivo del Puk, divenne primo ministro del Kurdistan. Dopo un anno, il Puk rimpiazzò Fuad Masum con Kosrat Rasul Ali; Fuad Masum è stato presidente dell’Iraq fino all’ottobre 2018 e Kosrat Rasul Ali è l’ex vicepresidente della Regione del Kurdistan facente funzione di segretario generale del Puk. Il Puk si attivò per rinsaldare ulteriormente la sua forza militare mentre Rasul era un capo peshmerga senza esperienza di governo.

Guerra civile sanguinosa: tutti contro tutti e una mano lava l’altra 

La prima decisione del Parlamento curdo che improntò al peggio la politica curda fu quella che incoraggiò la Turchia a combattere il Partito curdo dei lavoratori (Pkk) nell’ottobre 1993. Il Pkk aveva incominciato ad aprire sedi in molte città curde, soprattutto a Erbil. Possedeva mezzi di comunicazione molto efficaci e una classe dirigente cresciuta nell’ideologia di Öcalan, a differenza di quelle del Kdp e del Puk che non seguivano un’ideologia specifica. I giovani curdi seguaci del Pkk avevano fatto sì che Kdp e Puk temessero un aumento di consenso per il movimento di Öcalan. D’altro canto, la guerra tra Pkk e Turchia era al culmine e quest’ultima era a caccia dei membri del Pkk in tutto il mondo. Il neonato governo regionale del Kurdistan (Krg) era molto vulnerabile ed economicamente, militarmente e politicamente debole; la Turchia e l’Iran trassero ulteriore vantaggio dai due partiti principali perché temevano che la fondazione della Kri potesse fungere da ispirazione per i fratelli curdi in cerca di autonomia che abitavano nei loro territori. La fondazione della Kri e il ritiro dell’amministrazione curda da Erbil, Dahuk e Sulaymaniyya aprì le porte all’interferenza turca e iraniana nella politica curda e spostò l’attenzione dai campi di battaglia alla lotta contro i gruppi dell’opposizione in Iran e Turchia, al contrario di quanto accadeva durante il regime di Saddam Hussein, il quale stava sostenendo i partiti di opposizione curdo-iraniani, non il Pkk, perché tra quest’ultimo e il regime di Hafiz al-Assad correva buon sangue finché, come visto, il leader del Pkk non fu messo alla porta dal regime di Damasco. 

Vale la pena menzionare che con l’istituzione della Federazione per la regione curda dell’Iraq si sperava di attirare il consenso dei curdi presenti in altre regioni, e così i curdi iraniani furono obbligati a deporre le armi e stabilirsi in campi residenziali all’interno della Kri. A partire dal 1991 fino a oggi, centinaia di membri e dirigenti dell’opposizione curdo-iraniana sono stati assassinati all’interno della Kri dal regime iraniano, come ricordato nell’Introduzione. 

I partiti curdi iraniani furono estremamente influenzati dai cambiamenti nelle dinamiche e nella politica della regione. Durante la guerra Iran-Iraq (1982-1988), i partiti curdi beneficiarono dell’ostilità tra i due paesi, avvantaggiandosi della guerra per costruire solidi legami con l’ex regime baathista in Iraq. Non solo, ma operarono liberamente sulle zone di confine stabilendo lì le proprie basi. Partiti e leadership avevano anche sedi e campi militari all’interno delle città irachene. Quando la guerra finì la situazione si aggravò per i partiti curdo-iraniani a causa dell’allentarsi del sostegno iracheno. Nel frattempo, l’avvicinamento promosso dalla Kri dei curdi iracheni divenne una minaccia incombente sui curdi d’Iran. 

Il Kdpi e altre forze politiche curde si ritirarono, forse è più preciso dire che furono forzate a farlo, dalle montagne sul confine Iran-Iraq (principalmente nelle zone ora sotto il controllo del Pkk) per poi essere ricollocate in vari campi di residenza a Erbil e Sulaymaniyya. Accettarono di deporre le armi perché l’Iran minacciò il Governo regionale del Kurdistan iracheno di prendere provvedimenti contro i due partiti nella Kri. Per fare pressione sia sui curdi iracheni sia sui partiti curdi iraniani, l’Iran condusse una campagna repressiva per eliminare gli attivisti politici e i quadri di partito. I partiti curdi iraniani non ebbero scelta e deposero le armi. Sebbene non tutti fossero d’accordo i membri di questi partiti lo fecero e si rifugiarono nei campi di residenza nel Kurdistan iracheno, e chiamarono questa ritirata kempnišîniî, che letteralmente significa “residenza nei campi”.

Era l’inizio della fine della lotta armata che portò al distacco dalla lotta organizzata in Iran e allo sviluppo ideologico. Da allora, i partiti curdi iraniani furono spazzati via dalla lotta armata, da quella diplomatica, organizzata e ideologica contro la repubblica islamica dell’Iran. Il periodo dei kempnišîniî iniziò nel 1993 e continua ancora oggi, ed è considerato dai curdi di quell’area il peggiore nella storia della zona iraniana del Kurdistan, come vedremo nell’ultima parte del volume. Inoltre, il Puk stava tentando di guadagnarsi l’aiuto di Teheran che lo portò a sostenere l’attacco iraniano agli insediamenti del Kdpi a Koya il 29 luglio 1996. Si trattava dell’inizio del cambiamento delle alleanze regionali per il Kdp e il Puk, che si stava sempre più avvicinando all’Iran, mentre il Kdp propendeva per Iraq e Turchia. Le strategie geopolitiche di Sulaymaniyya portarono il Puk all’interno del blocco iraniano e quelle di Erbil e Dahuk avvicinarono il Kdp alla Turchia. Come allora l’Iran è tornato a colpire il 7 settembre 2018 il Kdpi a Koya, uccidendo 15 esponenti, così perseguendo lo stesso scopo di eliminazione fisica, ma stavolta Turchia e Iran non sono contrapposti. 

Man mano che il legame si indeboliva, progressivamente i partiti curdi iraniani dipendevano sempre più dai curdi iracheni, fino a seguire gli interessi di questi ultimi: il Partito per la libertà del Kurdistan (Pak), fondato nel 1991 e guidato da Hussein Yazdanpana, pareva più un’unità affiliata a Masoud Barzani piuttosto che un partito che combatteva per i diritti dei curdi in Iran. 

Il Kdp e il Puk subivano la pressione dell’Iran per forzare i partiti di opposizione curdo-iraniani a deporre le armi, e in seguito furono incoraggiati dalla Turchia a combattere il Pkk. Data la sua forza e l’esistenza di alcune sedi nella Kri, e i dirigenti che lavoravano all’interno della Federazione (essendo quindi cittadini della Regione del Kurdistan iracheno), il Pkk rifiutò di cedere alle richieste delle due fazioni irachene. All’inizio Talabani aveva giocato un ruolo fondamentale per avviare i primi contatti tra il Pkk e il primo ministro turco Turgut Özal che fu il primo a riconoscere pubblicamente l’esistenza dei curdi dopo la fondazione della repubblica turca – come detto nella parte del volume dedicata ai curdi di Turchia. 

Talabani era in buoni rapporti con Öcalan, che allora viveva a Damasco, e aveva convinto Özal a intavolare negoziati di pace con i curdi. Per la prima volta nella storia della guerra tra Turchia e Pkk, quest’ultimo annunciò un cessate il fuoco alcuni giorni prima della morte di Özal. Talabani aveva detto a Öcalan che il primo ministro turco era davvero intenzionato a risolvere la questione curda, anche se non era riuscito a convincere lo stato, l’esercito e persino il partito di proseguire nel processo di pace. 

La Turchia sostenne la coalizione guidata dagli Stati Uniti per utilizzare la base di İncirlik per colpire l’Iraq, nella speranza che i curdi iracheni non stabilissero un governo proprio, temendo una divisione dell’Iraq o il desiderio di autonomia dei curdi turchi. Intanto Ankara teneva d’occhio Mosul, visto che la considerava parte dell’Impero Ottomano. Allo stesso modo l’Iran era interessato all’Iraq e a qualsiasi forza in grado di indebolire il potere del suo storico nemico, inoltre Teheran riteneva che i curdi iracheni non dovevano spingersi oltre il governo locale, ai fini del mantenimento dell’integrità dello stato iracheno e dei suoi confini, aspetto così importante per un paese sciita che ha a sua volta una minoranza curda. 

Il neonato Governo regionale del Kurdistan iracheno non riuscì ad aprire a tutti e la sua vulnerabilità diede una mano ai partiti a consolidare ancora di più il loro potere. La lotta per il potere tra i partiti curdi stava portando la Regione del Kurdistan verso un futuro oscuro. Ogni partito aveva la sua forza militare, e tentava di consolidare il potere attraverso il finanziamento della propria milizia con mezzi illegali, o ricevendo fondi regionali, cioè dalla Turchia, dall’Iran e dai paesi sunniti del Golfo. Il tentativo non riuscito della Krg di formare un esercito peshmerga unico, rafforzò le milizie che divennero più forti della polizia regionale.

Sebbene il segretario del Puk, il generale Jalal Talabani, avesse annunciato molte volte che i conflitti interni curdi sarebbero finiti e non ci sarebbero più state lotte fratricide, il 20 dicembre 1993, iniziò un’altra fase della guerra civile curda tra il Puk e il Movimento islamico curdo (Kim). Il Puk si considerava il partito legittimo per governare la Kri grazie alla sua potente forza militare e al fatto che aveva organizzato la rivolta che portò alla liberazione della Kri. Comunque, la lotta interna tra Puk e Kim indebolì il primo mentre il secondo fu obbligato ad allearsi con il Kdp in previsione di conflitti futuri. Poiché il Kim era molto più piccolo del Puk questa volta la guerra civile non si estese a tutta la Kri. 

Il Primo Maggio 1994 scoppiò la prima ondata di guerra civile curda con uno scontro tra Kdp e Puk; questi due partiti storicamente si erano sempre combattuti e avevano lottato anche prima del 1991 per il controllo del Movimento di liberazione curdo: ideologicamente lontani, il più profondo motivo di disaccordo successivo al 1991 fu il controllo delle risorse, in special modo le entrate del passaggio di frontiera di Ibrahim Khalil con la Turchia. Il Kdp aveva scelto Dahuk come roccaforte per molte ragioni, e dato che la famiglia di Barzani era di dialetto bahdinai, essi trovarono supporto proprio qui; il presidio del Puk era invece, per altrettante buone ragioni, Sulaymaniyya, dove si parlava il dialetto sorani, la lingua di Talabani. Nella storia moderna questa divisione appartiene ai giorni del conflitto tra l’ala di Talabani e Ibrahim Ahmad nell’Ufficio politico del Kdp e quella di Mullah Mustafa Barzani nella Rivoluzione Aylul. 

Questa lotta interna fu sanguinosa, morirono molte persone e molti furono i feriti, migliaia gli sfollati. La prima fase si compì il 29 agosto 1994 ma la faccenda non finì lì perché la questione non era ideologica ma piuttosto un tentativo di egemonizzare la società curda, il suo popolo e la sua economia. 

Delirio egemonico, divisione amministrativa e controllo straniero

La scissione del 1996: scontro tra clan

Nel dicembre 1994 riprese lo scontro Puk/Kdp e raggiunse il suo picco il 31 agosto 1996 quando il Kdp ricorse a Saddam per riprendersi Erbil dopo che il Puk l’aveva cacciato dalla città; il Puk era ormai vicino alla vittoria ed era subentrato al Kdp pochi giorni prima e allora Barzani stipulò un accordo segreto con il regime iracheno. Fu l’inizio di una nuova epoca storica nella politica curda e fino a oggi la Kri non è riuscita ancora a guarire dalle ferite di quei giorni. Da allora il Kdp si considera l’unico potere presente nella Kri.

Il 31 agosto 1996 si verificò infatti la prima vera scissione nella storia dei curdi, secondo una suddivisione che seguiva quella dei paesi della regione, e dopo quella data qualsiasi evento della politica curda che in passato si sarebbe cercato di evitare divenne la normalità; formare un’alleanza con il regime baathista che aveva commesso le atrocità del genocidio solo otto anni prima può essere considerato l’atto più vergognoso della storia curda. 

L’agosto 1996 cambiò le dinamiche politiche e gli equilibri della Kri; il Kdp spinse il Puk in Iran e questi dopo 40 giorni ritornò, ma senza riuscire a riprendersi Erbil a causa di pressioni esterne. La capitale della Kri, Erbil, passò sotto il controllo del Kdp e Sulaymaniyya cadde sotto l’ala del Puk. La Kri era così divisa amministrativamente in due: il governo Krg-Sulaymaniyya e quello Krg – Erbil e Dahuk. 

Gli scontri tra Kdp e Puk si fermarono, e ripresero quelli tra Puk e Kim a Halabja nell’aprile 1997 finché l’Iran trovò un accordo tra le parti, il Kim si unì al Puk nel governo di Sulaymaniyya e venne cacciato da quello di Erbil. 

Nonostante l’interruzione delle ostilità, non era stato raggiunto un vero accordo. Il Puk e il Pkk si organizzarono insieme per attaccare il Kdp nell’ottobre 1997 e questa volta, insieme, erano abbastanza forti da sconfiggerlo, mentre il Kdp sfruttò l’alleanza dei suoi nemici per invitare la Turchia ad attaccarli: il Kdp, aiutato dall’esercito, dall’aviazione e dai carri armati turchi riuscì a sconfiggere il Puk. 

Arrivano gli yankee 

Nel settembre 1998 il Congresso degli Stati Uniti varò l’Atto di liberazione dell’Iraq che dichiara «dovrebbe essere compito degli Stati Uniti cercare di rimuovere il regime di Saddam Hussein dal potere in Iraq e rimpiazzarlo con un governo democratico» e «autorizza il presidente, dopo la ratifica dei comitati preposti, a fornire alle organizzazioni dell’opposizione democratica irachena: 1) assistenza radiofonica e televisiva; 2) il dipartimento della Difesa (Dod) volto a garantire attrezzature e servizi e un’educazione e un addestramento militare (Imet); e 3) assistenza sanitaria, con particolare attenzione ai bisogni delle persone che siano confluite nei territori sotto il controllo del regime di Saddam Hussein. Inoltre proibisce il sostegno a qualsiasi gruppo o organizzazione che sia impegnata in una collaborazione militare con il regime e autorizza stanziamenti». 

L’Atto di liberazione dell’Iraq spinse gli Stati Uniti a cercare gli attori della politica locale, e i più importanti erano i curdi (per via delle zone da loro liberate dalle milizie) e all’interno dei curdi, il Kdp e il Puk, che stavano perdendo energie in lotte intestine e scontri per il potere. Gli Stati Uniti tentarono una mediazione tra i due partiti e invitarono Barzani e Talabani a firmare gli Accordi di Washington. Vedendo la segretaria di stato Madeleine Albright presentare i due leader mentre si stringevano la mano sorridenti le speranze dei curdi rinacquero. Inoltre, nel 1996 era stato varato l’Oil-for-Food Program delle Nazioni Unite e i primi invii di derrate erano giunti nel marzo 1997, l’anno seguente il livello della qualità della vita era quindi ormai quasi normale. Il Kdp e il Puk ricevettero finanziamenti dagli Stati Uniti, perciò abbandonarono la rivalità per combattere non più solo per i propri interessi e gli Accordi di Washington permettevano di condividere potere e entrate economiche. Con il fine di destituire il regime iracheno, gli Stati Uniti entrarono sempre più nella politica curda in modo tale da spostare l’attenzione sull’Iraq e meno sulle lotte interne curde, quelle che invece stavano fornendo opportunità alla Turchia, all’Iraq e all’Iran di sfruttare i partiti curdi e indebolire le strategie statunitensi in Iraq.

La “discrezione” turca nella regione

La Peace monitoring force (Pmf), un contingente guidato dalla Turchia, promuoveva una tregua tra Kdp e Puk fin dal 1997, guadagnandosi nel tempo un’opportunità di rinforzare la sua influenza nella regione curda. Per la Turchia il controllo di quell’area era strategico al fine di indebolire il Pkk. Sebbene il Pmf fosse solo una forza di osservazione fungeva anche da agente turco nella Kri e lasciò l’area subito dopo la caduta del regime iracheno mentre l’esercito turco vi si insediava, in particolare nella zona controllata dal Kdp; da Zakho a Soran, l’intera catena montuosa al confine con Iran e Turchia era sotto il controllo del Pkk. Il dispiegamento di forze turche non si fermò e attualmente sono presenti una ventina di basi militari nei territori del Kurdistan controllati dal Kdp. Mentre mandiamo in stampa il volume gli scontri nell’area montagnosa di Bradost continuano in particolare sul monte Chyadel a ridosso del confine tra Iraq, Iran e Turchia.

Le lotte intestine tra Kdp e Puk terminarono e il Puk attraversò un momento di cambiamento. Il Kim si divise in due fazioni, un gruppo islamico radicale noto come Ansar al-Islam stabilì la sua base nella zona di Hawraman e il 5 dicembre 2001 gli scontri raggiunsero il culmine; nel 2003 gli Stati Uniti eliminarono questo gruppo durante il processo di liberazione/invasione dell’Iraq. 

Nel 2002 il Puk iniziò a normalizzare i rapporti con la Turchia permettendole di manipolarlo incoraggiando lo scontro con il Pkk. Le ostilità tra Pkk e Puk durarono settimane fino a che il Pkk si ritirò dopo una importante sconfitta ma a quel punto la Turchia non aveva più motivo di fornire il suo sostegno al Puk perché la zona sotto il suo controllo non era strategica per lei, mentre il Kdp costituiva un alleato più affidabile. 

Secondo fonti non ufficiali, durante la Guerra civile degli anni Novanta scomparvero 400 persone, molti prigionieri di guerra furono giustiziati e le perdite furono circa 12 000 su ambo i fronti, e migliaia i profughi, alcuni dei quali sono riusciti a rientrare nelle loro terre d’origine solo ultimamente. 

L’intervento della coalizione in Iraq e lo sviluppo della regione curda

Nel 2002, gli Stati Uniti avevano deciso che il regime iracheno doveva cadere e avevano bisogno dei partiti curdi, che giocavano un ruolo essenziale nell’opposizione al regime in Iraq, possedendo forti milizie e controllando i territori. La rivalità tra i due partiti non si era ancora spenta e il parlamento curdo non si era ancora reinsediato come prescrivevano gli Accordi di Washington. È interessante notare come gli Stati Uniti spingessero entrambe le parti verso una negoziazione che iniziò ai primi di settembre 2002 proprio con la mediazione americana. Un mese dopo, il 4 ottobre 2002, il parlamento curdo tenne la sua prima seduta dopo diversi anni di inattività. 

I curdi diedero il loro contributo nella ricostruzione dell’Iraq e i partiti curdi evitarono ogni divisione settaria mantenendo l’equilibrio tra sunniti e sciiti, aspetto che fornì un ruolo chiave alla leadership curda, in particolare a Talabani, che si rese mediatore dei vari conflitti interni iracheni. Il negoziato tra i gruppi dell’opposizione si concluse positivamente e guadagnò il consenso del sistema federale iracheno. Gli Stati Uniti installarono la Coalition Provisional Authority nel 2003 in seguito alla Fondazione del Consiglio di governo iracheno che avvenne nello stesso anno. I capi di governo si alternavano tra i vari leader iracheni, due dei quali curdi: Jalal Talabani e Masoud Barzani. Il Governo regionale del Kurdistan iracheno (Krg) fu riconosciuto come entità federale. 

In occasione delle elezioni del 2005, i partiti curdi si presentarono per entrare in parlamento con una lista congiunta che si guadagnò 75 seggi su 275. Si tennero anche le elezioni nella Kri e la coalizione Puk-Kdp prese il 90 per cento dei voti, con 104 seggi su 111.

La Regione del Kurdistan iniziò a svilupparsi nel 2003, grazie ai miliardi del petrolio iracheno e agli stanziamenti internazionali, acquistò stabilità mentre le città irachene tendevano all’instabilità. 

Gli Stati Uniti tenevano in gran conto la Kri per diversi motivi; la Regione del Kurdistan era l’unica zona stabile in Iraq in cui i soldati americani venivano accolti calorosamente e non a suon di pallottole, i media internazionali mostravano che la caduta del regime era importante: i curdi del Nord dell’Iraq dopo anni di oppressione stavano sviluppando la loro democrazia che avrebbe potuto fare da modello per l’intera regione. Gli Stati Uniti avevano bisogno dei partiti curdi per controbilanciare l’influenza iraniana a Baghdad, la Kri divenne un luogo sicuro per le missioni americane e i curdi erano abili a mediare le rivalità irachene tanto che i primi ministri iracheni avevano bisogno dell’avallo curdo, e dopo tutto, si supponeva che la Kri possedesse una riserva di barili di petrolio per 45 miliardi e 8000-10 000 miliardi di metri cubi di gas naturale: questi numeri ponevano la Kri all’ottavo posto nella classifica delle riserve mondiali di petrolio e gas naturale. Gli Stati Uniti dovettero confrontarsi con la resistenza di diversi gruppi iracheni, tra cui le forze sciite, ma la Kri sosteneva in ogni modo gli americani per rafforzare il legame che li univa. 

Nel 2006, le amministrazioni di Sulaymaniyya ed Erbil si unirono dando luogo a un nuovo Krg, e oltre al governo esistente la regione curda diede vita alla Presidenza della Regione del Kurdistan. Il Kdp e il Puk si spartirono equamente Erbil e Baghdad, e mentre Jalal Talabani divenne il presidente iracheno, Masoud Barzani governò l’entità politica regionale curda; i primi ministri si sarebbero alternati ogni due anni tra di loro secondo il cosiddetto Accordo Strategico firmato nel 2005, un’estensione degli Accordi di Washington. La condivisione del potere tra Kdp e Puk rese i due partiti più forti agli occhi del popolo, ora che avevano deciso di guidare l’Iraq insieme e di partecipare alle elezioni nella Kri con liste congiunte che, in assenza di un vero partito di opposizione, avrebbero vinto con la maggioranza dei voti. 

Dal 1993 al 2003, la Kri attraversò un periodo di blocco internazionale, un blocco dell’Iraq, una guerra civile, una divisione dei territori, e il 2003 segnò l’inizio di un nuovo periodo storico per la società curda, per i movimenti civili, i media, l’istruzione, la crescita economica e dopotutto anche per le trivellazioni, la produzione e l’esportazione del petrolio e del gas che cambiò il corso della storia curda. 

Dopo il 2003: Proteste, riforme mancate e repressione

Tra il 2003 e il 2009 i media liberi curdi erano diventati potenti, la società civile in questo periodo fu molto incisiva. I tre mezzi di comunicazione indipendenti nella Kri – i quotidiani “Hawlati”, “Awene” e “Lvin” – insieme a pochi altri, mettevano alla prova la politica, la storia e il governo curdi. Le proteste studentesche durante questo periodo si susseguirono ad altre in cui i dimostranti chiedevano democrazia, servizi pubblici, giustizia e l’eliminazione della corruzione. Sfortunatamente, il Kdp e il Puk sedarono ogni protesta, facendo vittime. E l’influenza dei media liberi era così forte da arrivare all’omicidio dei giornalisti Soran Mama Hama, nel 2007 a Kirkuk, Sardasht Othman nel 2010 a Erbil, Kawa Garmyani nel 2013 a Kalar, e Wedat Hussein a Dahuk nel 2016. 

Nel 2006 il deputato della Segreteria generale del Puk Nawshirwan Mustafa diede le dimissioni quando il Puk non rese effettive le riforme politiche, economiche, militari, della comunicazione e delle relazioni internazionali per cui Mustafa lottava. Fondò così la Wusha (World Publishing Corporation), un giornale, e la Tv satellitare Knn. Il 25 luglio 2009, Nawshirwan Mustafa annunciò la fondazione del suo Movimento del cambiamento (Gorran) come lista elettorale in corsa per le elezioni e vinse 25 seggi su 111 nel Parlamento curdo, conferendo maggiori speranze di democratizzazione. 

Le aspettative della gente erano molto alte, e mentre la Krg stava guidando il paese verso un modello di stato autoritario petrolifero simile agli Emirati, i due partiti di governo controllavano ogni cosa: dalle moschee ai pozzi di petrolio, c’era chi si chiedeva se mantenere l’opposizione interna al sistema o scendere in piazza. Il 2011 vide la nascita della Primavera araba e la società curda aveva già assistito a diverse proteste. Il 17 febbraio 2011, i dimostranti curdi si riunirono a Sulaymanyya in sostegno alla rivoluzione egiziana. Ben presto tutto questo si trasformò in una protesta contro l’élite al potere e chiedeva un rinnovamento del sistema politico. Nel giro di 64 giorni, ci furono 10 morti e 500 feriti, centinaia di persone furono rapite e torturare nelle prigioni di Kdp e Puk. 

I due partiti governativi sconfissero ogni opposizione e i media internazionali, i paesi europei e gli Stati Uniti chiusero un occhio perché la Kri costituiva ancora un avamposto stabile in Iraq quando non erano ancora chiari gli sviluppi della Primavera araba. Turchia e Iran avevano anche sviluppato il proprio legame economico e politico con il Kdp e il Puk e un cambiamento di governo non avrebbe giovato ai loro interessi; il governo iracheno si era disfatto dei dimostranti curdi che non ebbero altra alternativa che sospendere le proteste. 

Frags tratti da Curdi, a cura di Antonella Di Biasi, con i contributi di Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018, disponibile in libreria e su tutte le principali piattaforme online.

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