Ashraf Ghani Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/ashraf-ghani/ geopolitica etc Tue, 05 Oct 2021 17:50:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Cronaca di una relazione annunciata: il Turkmenistan guarda con interesse ai Taliban https://ogzero.org/turkmenistan-e-taliban-interessi-e-attrazione-fatale/ Mon, 04 Oct 2021 22:59:24 +0000 https://ogzero.org/?p=5084 Continuiamo a tentare di comprendere come potrà evolvere la situazione nell’area centrasiatica, nonostante il lento oblio in cui sta sprofondando l’incubo afgano: da un lato ospitiamo corrispondenze di un giovane rifugiato ancora intrappolato a Kabul, che descrive la condizione vieppiù precaria dell’esistenza kabulina (soprattutto per le donne e gli hazara); dall’altro interpellando esperti, studiosi, analisti […]

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Continuiamo a tentare di comprendere come potrà evolvere la situazione nell’area centrasiatica, nonostante il lento oblio in cui sta sprofondando l’incubo afgano: da un lato ospitiamo corrispondenze di un giovane rifugiato ancora intrappolato a Kabul, che descrive la condizione vieppiù precaria dell’esistenza kabulina (soprattutto per le donne e gli hazara); dall’altro interpellando esperti, studiosi, analisti a cominciare da chi studia e frequenta da molto tempo la politica, cultura, storia e governance dei paesi limitrofi. Dopo il Pakistan di Beniamino Natale e Eric Salerno, il paese confinante con l’Afghanistan di cui si conosce in misura molto limitata la politica e il posizionamento nei confronti dei Taliban è il Turkmenistan. E scopriamo nelle parole di Luca Anceschi una predisposizione del regime di Ashgabat a farsi irretire da interessi cleptoautoritari comuni ai due regimi diversamente islamici.   


Alla geografia non si comanda. Mentre le truppe statunitensi si preparavano a lasciare definitivamente l’Afghanistan, le cancellerie dell’Asia Centrale seguivano l’inesorabile ascesa delle truppe affiliate al movimento dei Taliban con trepidante attesa. Una larghissima porzione di territorio afgano è incuneata nella regione centroasiatica: una linea di poco superiore agli 800 chilometri, spesso combaciante con lunghi tratti fluviali (Tedzhen, Kushk, Murghab, Amu Darya), traccia il confine con il Turkmenistan, il più isolato e autoritario tra gli stati subentrati all’Unione Sovietica. Nonostante le conclamate tendenze isolazioniste del regime turkmeno, ciò che accade a Kabul non può quindi non esser notato da chi governa ad Ashgabat.

Asia Centrale: gli “stan” in ordine sparso

La rapida assuefazione di Ashgabat

Mentre in Occidente si infervora il dibattito sull’opportunità di riconoscere il regime instauratosi alla guida dell’Emirato Islamico d’Afghanistan, il Turkmenistan – al pari degli altri stati centroasiatici – si è dovuto rapidamente adattare al nuovo, impresentabile vicino. D’altronde, il regime di Ashgabat non ha mai rinunciato a mantenere rapporti di buon vicinato con i Taliban: negli anni Novanta, i luogotenenti dell’allora presidente Saparmurat Niyazov sembravano non aver nessun problema nel farsi ritrarre in compagnia di esponenti Taliban della prima ora, tessendo una fittissima rete di relazioni economiche per lo più informali, spesso legate al narcotraffico, che si accompagnavano a patti (più o meno stabili) di non aggressione. La musica non è cambiata neanche nella turbolenta estate appena conclusasi: ancor prima della presa di Kabul e la frettolosa fuga di Ashraf Ghani, emissari del governo turkmeno già si incontravano con i governatori messi dai Taliban a capo delle regioni di Balkh ed Herat. Negli ultimi mesi, l’ambasciata turkmena a Kabul e il consolato a Mazar-i Sharif non hanno praticamente mai smesso di espletare le proprie funzioni, arrivando addirittura a godere della protezione di guerriglieri Taliban appostatisi all’ingresso delle due sedi diplomatiche.

Attrazione fatale

Pur avendo concesso il proprio spazio aereo al transito degli aeromobili impegnati nell’evacuazione di truppe occidentali e profughi afgani, il Turkmenistan ha evitato in ogni modo possibile di accogliere sul proprio territorio i rifugiati provenienti dall’Afghanistan, rinunciando finanche al rimpatrio della comunità etnica turkmena presente in Afghanistan. Alla preoccupazione con cui il presidente Gurbanguly Berdimuhamedov guardava alla questione afgana nella primavera scorsa, quando il governo turkmeno aveva iniziato una massiccia mobilitazione di truppe nelle zone confinanti con l’Afghanistan, si è dunque sostituito un tacito ma evidente opportunismo. Nonostante il Turkmenistan non abbia ancora riconosciuto ufficialmente l’Emirato Islamico di stanza a Kabul, la dissonanza tra l’atteggiamento di apertura di Ashgabat e le politiche occidentali che tassativamente evitano contatti ufficiali con i Taliban rimane evidentissima. Al contempo, i buoni rapporti tra il Turkmenistan e il regime di Kabul devono esser visti come un’importante eccezione alla regola centroasiatica, una regione in cui gli altri stati limitrofi si sono rivolti ai nuovi padroni dell’Afghanistan con una malcelata ambivalenza (Uzbekistan) o sfoggiando un’aperta ostilità (Tagikistan).

Matrimonio di convenienza autoritaria con il vicino Emirato

Consolidamento della cleptocrazia assoluta

È la ricerca di una spesso effimera stabilità autoritaria che, a mio modo di vedere, continua a indirizzare le strategie di lungo raggio tramite cui il Turkmenistan intende correlarsi con i Taliban. Per un regime ossessionato dal potere assoluto come quello guidato da Berdimuhamedov, i rapporti di vicinato sono semplici veicoli di consolidamento autoritario. In quest’ottica l’Afghanistan diventa un interlocutore primario per la costruzione di rapporti economici più o meno leciti che hanno tuttavia un fine meramente cleptocratico: arricchire il regime turkmeno consentendo al presidente e ai suoi alleati più importanti la gestione di ingenti capitali per scopi prettamente personali. L’Afghanistan rimane indispensabile per lo sviluppo del commercio con il subcontinente indiano, un’area a cui il Turkmenistan guarda con un solo, grande obiettivo in mente: la commercializzazione delle proprie riserve di gas naturale.

Tapi: un gasdotto virtuale

Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India (TAPI) pipeline project proposed map [9].

L’Afghanistan come hub energetico emergente nella regione (2 ottobre 2021).

Il gasdotto Tapi [Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India] è, nella fattispecie, il progetto che dovrebbe concretizzare le ambizioni turkmene di esportare ingenti quantità di gas naturale nei mercati del subcontinente. Sono quasi 30 anni che si parla, spesso a sproposito, di Tapi: sponsorizzato inizialmente dagli Stati Uniti e, in un secondo momento, da importanti istituzioni finanziarie tra cui l’Asian Development Bank, questo gasdotto è finora rimasto un castello in aria e, a mio modo di vedere, resterà tale nonostante il ritorno dei Taliban al potere. L’interesse per il progetto in questione è sicuramente elevatissimo ma la comunità internazionale continua a guardare alle dinamiche progettuali da una prospettiva essenzialmente distorta. Negli ultimi decenni, i lavori di costruzione sono rimasti bloccati allo stadio iniziale, non per la profonda instabilità afgana, come molti hanno frettolosamente concluso e ripetutamente suggerito, bensì a causa dell’ostinazione turkmena a finanziare internamente il progetto senza ricorrere a fondi erogati da compagnie petrolifere estere. La motivazione per tale ostinazione è legata alla logica di controllo totale su cui il regime di Ashgabat ha finora modellato le proprie politiche energetiche: mentre importanti sinergie con compagnie del Golfo hanno contribuito a sviluppare il settore turkmeno del Caspio, l’accesso di investimenti stranieri alle riserve onshore è a tutt’oggi limitato a una sola joint-venture conclusa con Cnpc verso la fine degli anni Duemila. È impensabile che un progetto i cui profitti sono avvolti da un alone di mistero possa arrivare ad attrarre gli importanti capitali internazionali di cui necessita: anche se i prezzi del gas naturale sono destinati a rimanere alti nel medio periodo, e nonostante l’interesse dei Taliban a garantire la sicurezza del settore afgano del gasdotto, Tapi rimane un progetto di difficilissima realizzazione.

Infrastrutture: mobilità e reti energetiche

Su quali orizzonti potrà dunque espandersi la cooperazione commerciale tra il Turkmenistan e l’Emirato Islamico d’Afghanistan? Considerando che l’economia turkmena è formata da un vastissimo settore energetico e poc’altro, le opzioni a disposizione del regime di Ashgabat sembrano essere piuttosto limitate. Garantendo una certa stabilità interna, l’avvento dei Taliban potrebbe offrire un contesto favorevole alla realizzazione di progetti a partecipazione turkmena la cui vocazione rimane incentrata sulla connettività (autostrade e ferrovie), facilitando anche l’integrazione della rete elettrificata tramite cui il Turkmenistan intende esportare annualmente una media di 500-kilovolt verso l’Afghanistan. Al contempo i rapporti di buon vicinato offrono un ottimo contesto per il contrabbando e il narcotraffico, rendendo il confine turkmeno/afgano terreno fertile per la conduzione di attività essenzialmente illecite.

Utilitarismo diversamente islamico

È dunque un matrimonio di convenienza autoritaria quello che si andrà realizzando tra il regime di Ashgabat e quello di Kabul. I religiosissimi Taliban sono pronti a chiudere un occhio davanti alle politiche antireligiose portate avanti da Berdimuhamedov, che vede l’Islam come una fonte di legittimità interna e continua in tal senso a reprimere fonti indipendenti di attivismo islamico. Il regime turkmeno, dal canto suo, è pronto a mettere da parte ogni riserbo sul ruolo potenzialmente dirompente che l’avvento dei Taliban potrà recitare sulla scena regionale al fine di garantirsi sbocchi commerciali verso nuovi mercati. Quest’alleanza tra improbabili partner conferma una volta per tutte che l’integrazione tra Asia Centrale e Asia Meridionale si costituirà non su infrastrutture e connettività, come auspicato dalle potenze occidentali, ma rimarrà fermamente incentrata sugli interessi prettamente autoritari espressi dai regimi locali.

Monumento nel Parco dell’Indipendenza ad Ashgabat.

 

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Afghanistan: il quadro interno e le forze in campo https://ogzero.org/afghanistan-il-quadro-interno/ Thu, 22 Jul 2021 10:14:39 +0000 https://ogzero.org/?p=4356 L’arduo compito di valutare la situazione attuale tra le varie fazioni in Afghanistan non poteva che venire conferito a Emanuele Giordana, tra i più competenti analisti di quell’area. Ne risulta una lucida fotografia che fa ruotare sul palcoscenico tutti i protagonisti che possono esprimere una pressione dall’interno sugli eventi che si produrranno nel momento in […]

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L’arduo compito di valutare la situazione attuale tra le varie fazioni in Afghanistan non poteva che venire conferito a Emanuele Giordana, tra i più competenti analisti di quell’area. Ne risulta una lucida fotografia che fa ruotare sul palcoscenico tutti i protagonisti che possono esprimere una pressione dall’interno sugli eventi che si produrranno nel momento in cui ai Talebani verrà sottratto l’unico argomento forte che hanno – la presenza militare straniera nel territorio afgano. L’affresco raccoglie le biffe di personaggi poco raccomandabili, le cui armi consentono loro di spadroneggiare ormai dall’inizio della guerra, 40 anni fa; ma questo non toglie che attraverso i loro alleati, o citando mire economiche, si sviluppino prassi securitarie e predatorie strategie.

Questo contributo più interno all’anima del paese si affianca ad altri due interventi contemporanei ospitati sul sito, uno di Sabrina Moles, mosso dalla curiosità di capire gli interessi cinesi sui corridoi commerciali, e l’altro di Yurii Colombo, volto a ritessere la tela russa a 30 anni dal ripiegamento sovietico, completando la panoramica sulla situazione geopolitica afgana in seguito al ritiro delle truppe americane dal paese che abbiamo intrapreso cominciando da una tavola rotonda che li ha visti partecipi e trasmessa in diretta nella serata del 13 luglio da Radio Blackout, un’analisi che poi abbiamo cercato di approfondire nello studium “La solita musica afgana?”, chiedendoci se sarà un altro Afghanistan quello imbandito in questi due mesi di approcci internazionali.


Minacciosi fuochi sacrificali sulla festa

Martedì 20 luglio, mentre nel palazzo presidenziale di Arg si pregava per la festa del sacrificio Eid al-Adha, una salva di razzi ha colpito i distretti uno e due della capitale. Benché il presidente Ghani abbia continuato a pregare, gli scoppi degli ordigni si udivano forti ad Arg e davano il segnale preciso che, negoziati o meno, la guerra va avanti su più fronti. I Talebani hanno negato ogni responsabilità (e in seguito l’Isis ha rivendicato il lancio di sei Katyusha) ma Ghani li ha comunque tirati in ballo, accusandoli di non volere la pace. A due giorni dall’ultima tornata negoziale a Doha, in Qatar, tra governo di Kabul e guerriglia – conclusasi con un nulla di fatto – la guerra delle parole si somma alla guerra guerreggiata, la propaganda alle armi. Anche se era abbastanza evidente sin dal mattino che i razzi non fossero di marca talebana, colpire a pochi metri dal simbolo del potere che fino a ieri era difeso anche dai soldati che per oltre vent’anni hanno occupato l’Afghanistan, non è un bel segnale.

Rivela, se ancora ve ne fosse bisogno, che gli attori della guerra sono assai più numerosi che non i due contendenti – Talebani e Governo – che si fronteggiano a Doha o nei 421 distretti che compongono la galassia territoriale del paese.

Sindrome di Saigon

Di questi 421 distretti, la metà (229 secondo gli analisti dell’Afghanistan Anlysts Network) sono in mano ai Talebani. Si tratta di centri spesso minori o periferici ma alcuni di essi sono attorno ai capoluoghi provinciali dove l’esercito afgano ha schierato le sue difese lasciando in molti casi al nemico i centri più complicati da difendere. La lezione militare è comunque importante e al contempo politica: anche se difficilmente i Talebani potrebbero prendere le grandi città (e gli stessi hanno escluso di volerlo fare) l’effetto valanga delle conquiste (come rivela la mappa) ha un ovvio impatto psicologico ancor prima che bellico.

Distretti afgani contesi tra Talebani e governo di Kabul - luglio 2021

Distretti afgani contesi tra Talebani e governo di Kabul – luglio 2021

Aiuta a diffondere la “sindrome di Saigon” – la paura che cada la capitale – che certo non aiuta l’esecutivo di Kabul. E aver preso gran parte dei posti di frontiera, oltreché un colpo di teatro, priva il Governo dei cespiti derivati del commercio che vengono intascati dalla guerriglia. La lettura più ovvia è che la guerriglia voglia far pesare la pressione psicologico-militare sul negoziato per ottenere di più. E cedere finalmente su un cessate il fuoco che resta una chimera anche se la giornata di martedì, primo giorno della festa di Eid, ha segnalato una tregua di fatto tra Talebani e Governo. Vediamo dunque le forze in campo nella situazione attuale.

Andarsene ma restare: la scelta di Washington

L’abbandono della base di Bagram in gran fretta, ha dato l’idea che gli americani non solo siano determinati ad andarsene ma che vogliano farlo – e lo stanno facendo – nel minor tempo possibile. È proprio così?

Afghanistan: il quadro interno

L’amministrazione Trump aveva previsto una riduzione iniziale della presenza militare Usa da 13.000 a 8600 uomini entro luglio 2020, seguita da un ritiro completo entro il 1° maggio 2021. L’Amministrazione Biden ha poi annunciato in aprile che avrebbe continuato il ritiro, ma oltre maggio e con una data finale che coincide con l’11 settembre. Decisione poi ancora anticipata e che, secondo gli osservatori, avrebbe solo rafforzato la decisione dei Talebani di diventare più aggressivi onde arrivare a un negoziato da posizioni di forza. Intanto è diventata esecutiva anche la decisione dei paesi aderenti alla coalizione Nato che, sempre in aprile, hanno deciso di iniziare il ritiro delle forze della missione Resolute Support il 1° maggio 2021, per completarlo entro la prima metà di luglio (nel febbraio 2021, il personale Nato ammontava a 9592 uomini – di cui 2500 americani – da 36 Paesi. La mappa si può vedere qui). La Nato comunque si impegnerebbe a proseguire l’addestramento in Europa di soldati afgani e i governi della coalizione dovrebbero continuare a sostenere finanziariamente le forze armate afgane. All’inizio della settimana, il 19 luglio, 15 paesi e il rappresentante Nato a Kabul hanno lanciato un appello ai Talebani perché fermino la loro avanzata. Una mossa forse dovuta ma che lascia il tempo che trova.

Modalità di permanenza militare statunitense

Oltre al sostegno finanziario, gli americani però non intendono esattamente uscire del tutto dalla scena afgana. Dovrebbero dunque rimanere attenti su due fronti: quello dei servizi (la Cia sta preparando nei paesi confinanti basi da cui operare anche se non è impresa facile) e quello di un aumento dell’impegno della marina statunitense nel Golfo, da cui monitorare quanto avviene in Afghanistan. Sia per eventuali attività terroristiche non per forza talebane (Isis, qaedisti) ma anche nel caso in cui le cose dovessero precipitare e i Talebani dovessero tentare di far cadere Kabul. Si tratterebbe di utilizzare soprattutto l’aviazione: droni, aerei spia e caccia da impiegare nel teatro afgano in modalità che non sono ancora chiare ma con opzioni interventiste non escluse dal segretario alla Difesa Lloyd J. Austin, secondo il quale le operazioni di sorveglianza aerea sono già iniziate assai prima del ritiro completo e ancora in luglio sono tornate a essere veri e propri bombardamenti aerei partiti da basi esterne al territorio afgano in supporto dell’azione delle forze d’elite di Kabul impegnate nel tentativo di riconquistare territori occupati dai Talebani; le azioni sarebbero concentrate nei distretti di Kunduz e Kandahar e gli ufficiali preposti lamentano sotto anonimato una minore efficacia, dovuta alla diminuita capacità di concentrazione sul bersaglio della missione da parte dell’intelligence dislocata a terra.

I protagonisti autoctoni

La forza dei Talebani

Alle aperture che Hibatullah Akhundzada, il leader dei Talebani, ha fatto il 18 luglio in una nota apparsa sul sito ufficiale dell’Emirato islamico d’Afghanistan sostenendo che la guerriglia vuole la pace e il dialogo, si alterna la durezza nella tattica politica negoziale rafforzata dalla pressione sul terreno in una ventina delle 34 province afgane. Il passato sembra però raccontare di una spallata difficile se i Talebani volessero tentare una scalata militare che arrivi sin nella capitale. Non ci riuscirono i mujahedin quando i sovietici abbandonarono il paese nel 1989, anche se contavano molti più uomini di quanti non ne abbia oggi la guerriglia in turbante. I mujahedin infatti dovettero aspettare il taglio dei fondi che Mosca smise di versare a Kabul. Fu solo a quel punto, nel 1992 – ben tre anni dopo! – che, senza più stipendio, l’esercito che faceva capo al governo amico di Mosca del dottor Najibullah si dissolse aprendo la strada alla conquista della capitale. Difficile comunque valutare attualmente la forza effettiva dei guerriglieri: secondo l’ultima stima disponibile delle Nazioni Unite, i Talebani potrebbero contare su una forza militare che va da 55.000 a 85.000 uomini. Un “esercito” che arriverebbe a 100.000 unità contando anche i non combattenti, gli informatori e i fiancheggiatori. Si tratterebbe di circa la metà dei soldati dell’esercito nazionale afgano (Ansf) che a sua volta può contare su 150.000 poliziotti e personale di intelligence. Se è davvero questo il rapporto di forza, prendere le città è un’impresa pressoché impossibile.

Afghanistan: il quadro interno

Il ritorno dei Signori della guerra

I vecchi e ormai ottuagenari Signori della guerra uniti alla congerie di capi tribali dell’epoca della resistenza contro i sovietici – che appare come una riedizione della vecchia Alleanza del Nord – ritornano sulla scena per gestire quella che hanno già chiamato “seconda resistenza” (moqawamat-e do): eventualità cui si preparano da tempo. Nelle settimane successive all’annuncio del ritiro degli occupanti, diversi gruppi di potere periferico si sono impegnati in manovre armate per posizionarsi come attori “negli sforzi di guerra o di pace” e per controllare il teatro politico e militare. Questi vecchi islamisti, non molto meno radicali dei Talebani e che hanno in media un’ottantina d’anni (c’è anche qualche figlio: è il caso di Batur Dostum o di Ahmad Massud, figlio del famoso comandante del Jamiat, Ahmad Shah Massud) costituiscono uno dei rischi principali di una nuova sanguinosa guerra civile di cui già sono stati buoni attori nel passato. I nomi sono noti: Abdul Rasul Sayyaf, Abdul Rashid Dostum, Muhammad Ismail Khan, il ras di Herat che ha già schierato i suoi uomini a difesa della città occidentale che controlla da sempre (sostiene di poter contare addirittura su 500.000 uomini!). Ovviamente quello dei Signori della guerra non sarebbe un esercito unico e unito ma semmai uno spurio battaglione formato da milizie etniche con lo scopo di difendere le identità delle diverse province; ma soprattutto con la finalità di controllare le rendite di posizione personali dei vari leader nei territori e nel Governo di Kabul. Ghani sembra voler puntare su di loro come sostegno all’esercito della repubblica. La Storia si ripete (su di loro avevano puntato anche gli americani).

Afghanistan: il quadro interno

Un fragile esecutivo

Al di là dell’aspetto militare (che sembra scontare un addestramento perseguito con i canoni degli occupanti che, avendo perso la guerra coi Talebani, non sembrano essere o esser stati i consiglieri migliori), un problema è rappresentato proprio dall’esecutivo afgano o meglio dal presidente Ashraf Ghani, che non vuole mollare la poltrona e rifiuta sia un governo di transizione sia l’idea di farsi da parte. Ashraf Ghani, che non ha brillato nei tentativi negoziali coi Talebani e che all’ultimo incontro a Doha non ha neppure partecipato, è in rotta di collisione con diverse province dove la nomina dei governatori (a lui fedeli) ha sollevato malumori che si sono tramutati anche in incidenti. Né ha trovato consenso la sua ultima trovata di un Supremo Consiglio di Stato, superorganismo (ovviamente solo consultivo) per coinvolgere anche chi è fuori dal governo o si senta politicamente escluso. Ci dovevano essere l’ex presidente Hamid Karzai e il leader di Hizb-e-Islami Gulbiddin Hekmatyar così come Salahuddin Rabbani, il capo di una fazione del Jamiat-e-Islami, assieme ad altri 15 influenti personalità politiche. Ma proprio Karzai, Rabbani ed Hekmatyar hanno rifiutato l’invito, individuando nella decisione del presidente l’ennesima manovra di Ghani per far finta di condividere decisioni che in realtà vuol prendere da solo. Ghani è a capo dell’apparato militare e può contare sulle persone che ha nominato ai vertici dello stato, nell’esercito e nelle province in questi anni.

Ma questa forza apparente del presidente è di fatto una debolezza che rischia di riflettersi anche sul piano militare – dove appunto si vanno aggiungendo i vecchi mujahedin – ed è scomparso l’alleato che dava le indicazioni: Washington.

Quel che resta di Isis e al-Qaeda

Le bombe Eid al-Adha o l’attacco in maggio alla scuola nel quartiere sciita Dasht-i-Barchi di Kabul, ci ricorda la presenza attiva di quel che rimane dell’Isis o meglio della Provincia del Khorasan affiliata all’autoproclamato ed ex Stato Islamico di Raqqa. Schegge apparentemente senza padrone (circa un paio di migliaia) che continuano a colpire e ad attrarre quando possono ex talebani irriducibili o in rotta coi vertici o ex miliziani stranieri (Iraq, Siria) in cerca di un nuovo lavoro. Fenomeno in parte residuale, come la presenza di al-Qaeda, ma che crea caos ulteriore confondendo acque già torbide. Si teme che tutte queste variabili possano essere comprate dal miglior offerente, discorso che vale anche per Talebani e mujahedin.

Come in passato, la presenza di più forze in campo, che necessitano di finanziamenti esterni (i Talebani meno di altri), può alimentare nuovamente le ceneri del conflitto interno per servire l’agenda di chi vuole condizionare da fuori il futuro dell’Afghanistan.

Una lista lunga: dai russi ai pachistani, dagli indiani ai cinesi, dall’Iran alle potenze piccole e grandi del Golfo.

La popolazione civile

C’è un ultimo elemento poco considerato dagli osservatori, molto concentrati sugli aspetti e gli apparati militari (esercito, talebani, milizie): la popolazione civile. Prima di tutto rappresenta una resistenza forte nelle città a un nuovo avvento di un governo oscurantista. Meno vera nelle campagne, questa avversione verso i Talebani si salda comunque probabilmente con una stanchezza diffusa della guerra come dimostrarono le “marce della pace” che attraversarono in lungo e in largo il paese tra il 2018 e il 2019. Ma la gente delle città può anche diventare una forza militare qualora i Talebani tentassero la spallata. Se Governo e Talebani (e forze d’occupazione) avessero ascoltato questo attore solo apparentemente secondario in passato, le cose forse non sarebbero arrivate a questo punto. Resta, comunque la si voglia vedere, una risorsa nel buio tunnel del conflitto.

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Afghanistan: l’instabile cortile di Pechino in Asia Centrale https://ogzero.org/afghanistan-linstabile-cortile-di-pechino-in-asia-centrale/ Thu, 22 Jul 2021 10:14:17 +0000 https://ogzero.org/?p=4326 Il ritiro americano dei Boots on the afghan Ground somiglia un po’ in chiave geopolitica alla Teoria delle Catastrofi di René Thom che vedeva come si creassero laddove si veniva a creare un vuoto che andava in qualche modo riempito e di conseguenza avvenivano sconvolgimenti per il vortice di riempimento che si andava a creare […]

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Il ritiro americano dei Boots on the afghan Ground somiglia un po’ in chiave geopolitica alla Teoria delle Catastrofi di René Thom che vedeva come si creassero laddove si veniva a creare un vuoto che andava in qualche modo riempito e di conseguenza avvenivano sconvolgimenti per il vortice di riempimento che si andava a creare e lo spostamento a cascata. Per gli interessi americani probabilmente le tecnologie di controllo e intervento rapido sono ormai in grado di ritirare le truppe tradizionali da un territorio diversamente colonizzato; per gli interessi cinesi l’Afghanistan ha invece ancora un duplice “tradizionale” interesse, che richiede non truppe, ma accordi con chi deterrà il potere sulle infrastrutture – per le merci del Bri – e sul confine di 75 chilometri condiviso con lo Xinjiang – per poter contenere internamente il nazionalismo uiguro e assicurarsi il controllo del Corridoio del Wakhan. 

Questo articolo di Sabrina Moles incentrato sull’analisi degli interessi cinesi per l’Afghanistan si affianca ad altri due interventi contemporanei ospitati sul sito, uno di Emanuele Giordana, che documenta la situazione interna e i rapporti di forza attuali nei distretti afgani, e l’altro di Yurii Colombo sugli interessi russi a Kabul, completando la panoramica sulla situazione geopolitica afgana in seguito al ritiro delle truppe americane dal paese che abbiamo intrapreso cominciando da una tavola rotonda che li ha visti partecipi e trasmessa in diretta nella serata del 13 luglio da Radio Blackout, un’analisi che poi abbiamo cercato di approfondire nello studium “La solita musica afgana?”, chiedendoci se sarà un altro Afghanistan quello imbandito in questi due mesi di approcci internazionali..


Colmare gli svuotamenti irresponsabili con il basso profilo strategico

La Cina è apparsa come marginale nelle dinamiche afghane dall’inizio della guerra al terrorismo annunciata dagli Stati Uniti dopo i fatti del 2001, ma ha sempre agito con il basso profilo che ha caratterizzato la diplomazia cinese degli ultimi quarant’anni. Oggi più che mai, però, Kabul torna a risvegliare l’attenzione del vicinato e la dipartita delle forze armate americane contribuisce a lasciare un vuoto nel risiko dei nomi più influenti sull’area. Ecco che allora Pechino ritorna a far parlare di sé e del suo ruolo in Asia Centrale con uno sguardo particolare verso l’Afghanistan.

Guardando la cartina del continente asiatico, la distanza tra la capitale cinese e Kabul è quasi tre volte la distanza che separa l’Italia da Mosca. Eppure, alla Cina importa moltissimo dell’Afghanistan e di quei 76 chilometri di confine che dividono i due paesi. In questa breve striscia di territorio, che per la Cina è spesso sovradimensionata a 90 chilometri, corre la periferia dello Xinjiang. Già epicentro delle accuse della comunità internazionale contro Cina e snodo chiave dei progetti di connettività cinesi in Asia, con il ritorno dell’instabilità questo territorio è diventato un grattacapo per Pechino. Sebbene da un lato quello che la Repubblica Popolare indica come “abbandono irresponsabile” degli Stati Uniti sia un conveniente strumento per posizionarsi come partner regionale intenzionato a mantenere gli equilibri.

Ghani o Talebani, purché sian libere le mani

Gli interessi della Cina, come Pechino dichiara e tiene a ribadire nelle sue esternazioni pubbliche, sono la stabilità declinata attraverso la prosperità economica, il dialogo equo tra attori e il rispetto della sovranità. Non per niente questa posizione ha giovato nel rapporto storico che Pechino intrattiene con i Talebani e che recentemente è stato descritto dal portavoce Suhail Shaheen (anche parte attiva nei negoziati) come un saldo rapporto di amicizia. I rappresentanti dei Talebani sono anche stati ospitati in Cina, ancora non si conoscono i dettagli di questi incontri. L’intesa tra Talebani e Cina risale al dicembre 2000, quando Mullah Mohammed Omarera era capo del gruppo e governatore ufficiale dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan. Nell’ultimo decennio la Cina ha continuato a tenersi tutte le porte aperte, palleggiando tra il governo riconosciuto di Ashraf Ghani e gli altri attori non statali diffusi sul territorio. Le diverse narrazioni, insomma, hanno una cosa in comune: il contatto dichiarato più o meno apertamente tra la Cina e un ampio ventaglio di attori, compresi quelli non statali.

Risorse succulente per la Bri e concorrenza agguerrita

I due grandi temi che sembrano emergere dal discorso cinese sullo sviluppo e stabilizzazione dell’Afghanistan sono quindi economia e sicurezza, un mix che non è nuovo nella proiezione estera di Pechino, ancora di più se questa coinvolge il vicinato. L’Afghanistan è di fatto una delle gemme incastonate negli ambiziosi piani della nuova Via della Seta (o Belt and Road Inititiative, Bri), la cui instabilità attuale non può essere ignorata da Pechino quando ragiona sull’avanzamento dei suoi progetti lungo il corridoio sino-pakistano. Investimenti che secondo le proiezioni accoglieranno almeno 62 miliardi di dollari da parte cinese. Per non parlare delle attività pensate dentro i confini afghani, dove esistono ancora grandi bacini di risorse sottosfruttate – secondo alcune stime si parla di un triliardo di dollari. Non solo corridoio per far passare scambi commerciali e infrastrutture, quindi: l’Afghanistan è il più grande bacino di rame della regione, oltre a essere ricco di carbone, ferro, gas, cobalto, mercurio, oro, litio e torio. Ci sono inoltre anche altri beni che iniziano a interessare agli investitori cinesi, come i jalghoza, un tipo di pinoli il cui commercio è esploso in Cina negli ultimi anni. Rimane da evidenziare, però, che la Cina è ancora lontana dall’essere il primo partner commerciale di Kabul, settore dove prevalgono Emirati Arabi (le cui importazioni dall’Afghanistan sono cresciute addirittura del 730 per cento tra 2018 e 2019), Pakistan e India.

Reti tribali e infiltrazioni cinesi in rete

A partire dal 2011 si registra una maggiore presenza di investimenti diretti esteri nel settore energetico, con l’ottenimento da parte della China National Petroleum Corporation (Cnpc) dei diritti di perforazione di tre giacimenti petroliferi per 25 anni, per un totale previsto di circa 87 milioni di barili di petrolio. Tra i giacimenti minerari assicurati, invece, figurano i diritti di estrazione del rame a Mes Aynak, nella provincia di Logar.

Il sito archeologico di Mes Aynak, la cui conservazione è in pericolo a causa degli interessi minerari cinesi.

Infine, il Badakhshan, la provincia afghana che confina con la provincia cinese dello Xinjiang, è una zona di forti traffici illeciti e non – in particolare di pietre preziose. Il caso delle infiltrazioni cinesi nella rete Haqqani dello scorso dicembre 2020 aveva, per esempio, fatto riemergere il tema delle attività “dietro le quinte” dei cinesi in Afghanistan. Tra i principali protagonisti degli attacchi terroristici a Kabul e sulla lista dei gruppi terroristi statunitensi, pare che il gruppo fosse coinvolto in attività di contrabbando di droga e armi, ma anche nella creazione di una finta cellula separatista uigura per incastrare i combattenti in arrivo dallo Xinjiang. È stata l’agenzia di spionaggio indiana Research and Analysis Wing (R&AW) a riferire all’intelligence afghana della presenza di cittadini cinesi sospetti a Kabul, e ora non è chiaro se alcuni sospettati siano rimasti in detenzione nel paese o se siano stati tutti trasferiti nella madrepatria. I progetti cinesi sono spesso soggetti a rallentamenti e non è una novità che possano cadere in un nulla di fatto. Oggi il Pil dell’Afghanistan dipende al 40 per cento dagli aiuti esteri [dati Banca Mondiale], ma si prevede almeno un dimezzamento entro il 2030: si pone quindi l’imperativo di affidarsi a progetti concreti, che permettano al paese di rendersi sempre più indipendente e autonomo sul piano economico.

Delirio securitario in attesa di liste di proscrizione comuni

La protezione dell’infiltrazione economica cinese in Afghanistan non può non prescindere dalla stabilità lungo il confine, ecco quindi che anche la tutela del territorio e l’incolumità dei cittadini cinesi diventano prioritari. Il ritorno a una situazione di relativa instabilità non giova alla Repubblica Popolare, che durante il mese di luglio 2021 ha evacuato 210 connazionali con voli charter. La Cina può ancora offrire aiuti nel processo di sviluppo e ricostruzione afghano, ma lo farà alle sue condizioni, in primis la sicurezza degli asset finanziati di banche e imprese cinesi. Sul piano della sicurezza, quindi, non spaventa tanto il cosiddetto “vuoto di potere” lasciato dagli Stati Uniti, quanto un generale senso di instabilità lungo il confine sino-afghano.

Wakhan Corridor

Moto donate dai cinesi a soldati afgani dislocati in un checkpoint sino-afgano nel corridoio Wakhan

In questo senso la ripresa dei Talebani diventa sia motivo di apprensione, che di sollievo. Tutto dipenderà dalla relativa stabilità che riusciranno a creare nel paese: anche per questo la Cina non chiude le possibilità di dialogo con nessuno. Gli accordi con i Talebani sono incentrati sulla promessa che le milizie controllino e impediscano gli ingressi degli uiguri dal confine con lo Xinjiang, e viceversa: la provincia occidentale cinese che condivide il breve tratto di confine con l’Afghanistan deve essere protetta dall’ingresso delle milizie di tutti i gruppi terroristici, da al-Qaeda allo Etim.

Il Badakhshan è stato infatti rifugio storico del Movimento indipendentista del Turkestan orientale (Etim), gruppo separatista di matrice islamica nato nel 1993 con l’obbiettivo di rendere lo Xinjiang uno stato indipendente da Pechino. Secondo le ultime stime il movimento raccoglierebbe poche centinaia di individui, che nell’ultimo periodo si sarebbero stabilizzati in Siria e che oggi starebbero invece ritornando in Asia Centrale. A complicare la situazione, però, è arrivata la bagarre diplomatica tra Cina e Stati Uniti sul tema Xinjiang. Mentre ai Talebani viene riconosciuto questo ruolo di “poliziotti oltreconfine” e l’Etim rappresenta per la Cina uno scomodo impiccio, gli Stati Uniti hanno deciso di rimuovere il movimento dalla Us Terrorism Exclusion List nel novembre 2020. L’Etim era stato schedato da Washington nel 2002, ma oggi gli Usa affermano che non esistono prove concrete dell’esistenza del gruppo oggi. Inoltre, la mossa arriva anche per lanciare un segnale a Pechino, finita nell’ultimo anno sotto lo scrutinio internazionale con l’accusa di internare gli uiguri in campi di lavoro forzato – accuse che si sono trasformate in sanzioni da parte di Unione Europea e Usa, a cui la Cina ha risposto con altrettante sanzioni a individui e società. La scelta statunitense non è piaciuta alla Repubblica Popolare, che ha accusato gli americani di portare avanti una logica di doppio standard sui diritti umani in Asia e «utilizzare [la lotta al terrorismo] fin quando fa comodo e poi scartarla quando non serve più». Anzi: secondo alcuni osservatori cinesi gli Usa hanno deliberatamente preso questa decisione per incoraggiare i miliziani dell’Etim a destabilizzare le attività cinesi nella regione.

Scommesse sul cambiamento dei Talebani

Altri analisti cinesi invece cercano di contrastare quella che chiamano una «strategia occidentale di esporre le presunte paure della Cina», ovvero: sarebbe tutto un tentativo mediatico per ridurre gli interventi della Repubblica Popolare a piani di difesa contro un pugno di terroristi uiguri. La situazione è molto più complessa. Cao Wei, un esperto di studi sulla sicurezza internazionale presso l’Università di Lanzhou, ha dichiarato al “Global Times” (megafono mediatico di Pechino in lingua inglese) che è altamente improbabile che estremisti e gruppi terroristici entrino in Cina dal corridoio del Wakhan.  Per il dottor Wei i talebani sono molto cambiati e dovranno prima o poi fare i conti con un paese da gestire oltre lo stato di guerra civile: il Badakhshan è già sotto il loro controllo, e per questo motivo la Cina dovrà fare più attenzione alle infiltrazioni dello Etim da altri paesi dell’Asia centrale.

Wakhan, ancora tomba degli imperi?

L’attenzione sul corridoio del Wakhan non è una prerogativa esclusivamente cinese: nella “tomba degli imperi” si alternano tanti attori diversi, ognuno con interessi differenti e che spesso cerca nella Cina una spalla su cui contare. Talvolta, è la Cina stessa che prende l’iniziativa, soprattutto ora che l’addio degli Stati Uniti rischia di far precipitare la situazione in tutta la regione.

Il Pakistan, alleato ad ammansire gruppi ribelli diversamente minacciosi

Ecco, quindi, che tra i primi nomi in lista compare quello del Pakistan, storico partner economico di Pechino con cui porta avanti un dialogo trilaterale insieme all’Afghanistan dal 2015. Il Pakistan lavora su tutti i fronti per porre in sicurezza il confine con l’Afghanistan e la Cina è stata di aiuto nel gestire, per esempio, quella che sembra la ristrutturazione del gruppo Tehreek-e-Taliban Pakistan (Ttp) nella provincia afghana Paktika. E qui ritorna la Cina, perché proprio i talebani e la rete Haqqani con cui dialoga Pechino sono strumentali anche per Islamabad a tenere sotto controllo la minaccia terroristica. Il Ttp è inoltre dichiaratamente antagonista della Cina, che condanna per la persecuzione degli uiguri. A sua volta, il premier pakistano Imran Khan ha ripreso il dialogo con i gruppi ribelli del Belucistan che si oppongono alla Belt and Road Initiative cinese: una mossa non scontata che potrebbe facilitare le cose a Pechino. In questo senso, per la Cina è importante il rapporto con il Pakistan (che viene definito tie gan “ferreo, solido come una roccia” – una nozione ancora dibattuta ma che tende a evidenziare la solidità che Pechino vede nella relazione) nel contesto mutevole dell’Afghanistan postritiro statunitense.

Mosca e gli “stan”: partner fondamentali nella questione afgana

Sempre parlando di politiche di vicinato, la Cina ha avviato da tempo il dialogo con i cinque stati centrasiatici sulla situazione afghana per combattere quelli che chiama i “tre grandi mali”: terrorismo, estremismo e separatismo. Gli stessi elementi che ricorrono nel discorso cinese sul terrorismo internazionale e i rischi a esso associati nella regione dello Xinjiang. In questo 2021 di cambiamenti per Kabul e, di conseguenza, per chi con l’Afghanistan condivide confini instabili e porosi, sono diventate centrali le visite del ministro agli affari esteri Wang Yi e il dialogo congiunto multilaterale. Talvolta questi incontri sono inseriti nel più ampio meccanismo di sicurezza regionale fondato dalla Cina e che vede partecipe anche la Russia: la Shanghai Cooperation Organization. La Russia rimane un importante alleato da mantenere nella regione, in quanto a sua volta promette di non cedere all’interventismo di stampo neoliberale promosso dagli Usa. Importanti per entrambi i giganti le partnership strategiche su tutto il territorio, dove contano sicurezza e interessi economici, ancor meglio se corredato di una buona relazione con gli stati centrasiatici. A essere favorita da entrambi rimane la soluzione politica del conflitto afghano, attraverso negoziati tra le parti. Rimane però un vuoto nella sostanza di queste operazioni, dove per ora sembra che Mosca e Pechino vadano ad agire individualmente.

La Cina appare cauta nei confronti dei gruppi di potere di matrice islamica, ma i fatti dimostrano una disposizione a scendere a patti mediata da negoziati in grado di soddisfare le parti. Lo scacchiere afghano dei mesi a venire rimane un ambiente molto complesso da interpretare, dove non si esclude che possano ancora avvenire dei cambiamenti decisivi. Per ora, quindi, niente rapporti di ferro definiti per Pechino, ma flessibili palleggiamenti tra gruppi di potere.

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La montagna di Doha e il topolino del dialogo intra-afgano https://ogzero.org/la-montagna-di-doha-e-il-topolino-del-dialogo-intra-afgano/ Wed, 07 Oct 2020 09:38:26 +0000 http://ogzero.org/?p=1432 A quasi un mese dallo storico incontro di settembre tra Talebani e governo di Kabul l’unico passo avanti lo fa la guerra. Mentre il presidente afgano Ashraf Ghani reiterava il 21 settembre dal podio virtuale delle Nazioni Unite la sua richiesta di un cessate il fuoco nel paese, le statistiche del Ministero dell’Interno di Kabul […]

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A quasi un mese dallo storico incontro di settembre tra Talebani e governo di Kabul l’unico passo avanti lo fa la guerra.

Mentre il presidente afgano Ashraf Ghani reiterava il 21 settembre dal podio virtuale delle Nazioni Unite la sua richiesta di un cessate il fuoco nel paese, le statistiche del Ministero dell’Interno di Kabul stimavano a un centinaio le sole vittime civili in 24 province nelle ultime due settimane seguite allo storico incontro del 12 settembre a Doha. In quella data, formalmente per la prima volta, il governo di Kabul e i Talebani si sono incontrati dando vita al tanto sospirato dialogo intra-afgano. Ma da allora le bocce sono rimaste ferme, segnate da combattimenti e incidenti il cui bilancio è di decine di morti anche tra le forze di sicurezza afgane e la guerriglia. Le due delegazioni, rappresentate da altrettanti “gruppi di contatto”, hanno da allora cercato faticosamente di stabilire l’agenda di discussione che dovrebbe impegnare l’Alto Consiglio di pace – che ha da Kabul il mandato a trattare – e gli inviati della shura di Quetta, che dovrebbero rappresentare la variegata e disomogenea galassia talebana. Ma all’inizio di ottobre le tante riunioni preliminari hanno prodotto scarsi risultati mentre il calendario continua invece a segnalare raid aerei, incursioni nei villaggi, uccisioni mirate, accuse reciproche un po’ ovunque nel paese. Se il primo obiettivo doveva essere una tregua o almeno una diminuzione delle ostilità, il risultato è ancora uguale a zero.

All’interno: una pace scomoda

I punti in discussione dell’agenda negoziale dovrebbero essere una ventina ma il primo scoglio (a parte il sospirato cessate il fuoco) sembra sia il dovuto riconoscimento dell’accordo tra Talebani e americani, siglato sempre a Doha in febbraio. Per i Talebani è la premessa, per Kabul invece un riferimento da evitare poiché assegna al governo afgano un ruolo da comprimario e non certo da protagonista. Un protagonismo che i Talebani vogliono tenere per sé. Vogliono e debbono, poiché al loro interno l’ala radicale (non si sa per ora quanto forte) incalza il gruppo dirigente che rischia, con la pace, di lasciare disoccupati decine di capibastone e di militanti cui premono più le singole rendite di posizione che non il futuro equilibrio pacifico del paese. Cosa altrettanto vera tra i sostenitori del governo che si stanno comunque armando, semmai le cose dovessero precipitare.

Dall’estero: denaro e forze militari

C’è dunque una dinamica interna (intra-afgana appunto) che si interseca con una dinamica esterna che riguarda attori primari e secondari del conflitto le cui sedi si trovano fuori dal paese. In primis gli Stati Uniti con le incombenti elezioni presidenziali. Poi tutti gli altri, alleati di questo (il governo) o di quella (la guerriglia) e a volte di entrambi. Cominciamo da Ashraf Ghani e dal suo litigioso esecutivo: molto dipenderà, a novembre, oltreché dall’esito delle elezioni americane, dall’esito della Conferenza dei donatori di Ginevra dalla quale si capirà quante risorse Europa e Stati Uniti intendono ancora impegnare nel paese. Il flusso di cassa, sia per l’economia nazionale sia per le forze di sicurezza (circa 300.000 uomini tra esercito e polizia), diventa essenziale per Ghani poiché può garantire al governo di Kabul un elemento di forza da opporre alla temerarietà dei Talebani che pure si trovano nelle stesse difficili acque. Anche la guerriglia corre infatti il rischio di una “donor fatigue” dei suoi sostenitori abituali, dal Pakistan all’Arabia saudita al Golfo, senza contare le donazioni private o il sostegno di Iran, Russia e Cina che possono aprire o chiudere i rubinetti a seconda delle convenienze. Con pochi denari anche la guerriglia potrebbe trasformarsi in una presenza militare più debole nelle campagne afgane, caposaldo militare degli studenti coranici. Nonché in un indebolimento della leadership del loro capo “ufficiale”, quel Mawlawi Hibatullah Akhundzada, criticato da quanti si sentono traditi dal negoziato o che vedono nella pace una diminuzione dei propri poteri di controllo territoriale su diverse aree del paese. È su queste basi (i soldi e la forza militare) che si giocherà probabilmente la vera partita tra Talebani e Kabul: più ancora che sulla futura forma di governo, sui diritti civili e di genere, sull’istruzione, sul voto, sul ruolo dell’islam. Temi gravati dall’incognita Covid-19 che ufficialmente – ma le riserve sul dato sono molte – conta pochi casi (39.422 al 6 ottobre) e poche vittime (1466) ma che resta una variabile con cui tocca fare i conti.

Il ritiro delle truppe condizionato

Su tutto ciò regna incontrastata la guerra anche se, questa volta, ai combattimenti partecipano solo afgani e il conflitto sembra essere tornato nell’alveo di una guerra civile, senza più l’aiuto di forze esterne – almeno ufficialmente – anche se le forze esterne (Usa, Nato) restano nel paese se non altro per “osservare”. Senza utilizzare le armi ma anche senza smettere di addestrare l’esercito afgano e continuando a pagare gli stipendi, un elemento fondamentale per tenerlo insieme. Al momento dunque nessuno abbandona gli afgani al loro destino e se, sulla base dell’accordo Usa-Talebani firmato il 29 febbraio 2019 a Doha, gli Stati Uniti hanno deciso di lasciare l’Afghanistan entro 18 mesi e hanno iniziato a far tornare a casa parte della truppa, il segretario di stato Mike Pompeo ha messo le mani avanti. Ha sottolineato che Washington cercherà di ritirare i soldati entro la primavera del 2021 ma anche che il ritiro è condizionato dalla completa cessazione delle ostilità dei gruppi terroristici come al-Qaeda e Stato Islamico nel Khorasan (Isis), per ora ancora attivi in Afghanistan. Una carta di riserva, insomma.

La Nato rimane sul terreno

Quanto alla Nato, per ora si resta con quasi 16.000 uomini (8000 statunitensi, 1300 dalla Germania, 950 dalla Gran Bretagna, 895 dall’Italia, 860 dalla Georgia, 600 dalla Turchia e così a scalare tra i 38 membri Nato della missione Resolute Support. Missione no-combat anche se in questi anni l’Alleanza ha operato anche militarmente, pur senza fanfare, al fianco dell’esercito afgano. Ora dovrebbe limitarsi ai consigli in attesa che gli americani decidano quel che succede o deve succedere. Le incognite restano tante in attesa che si sblocchi (ovvero inizi) il negoziato tra le due delegazioni. Mentre il paese continua a pagare il suo tributo al conflitto più lungo della Storia recente a cavallo di due secoli.

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La pace di Doha è quella sospirata dagli afgani? https://ogzero.org/la-pax-talebana-preparata-a-doha-dagli-americani/ Sun, 13 Sep 2020 12:07:56 +0000 http://ogzero.org/?p=1233 O non è piuttosto quella di Mike Pompeo, segretario di stato statunitense, di Abdul Ghani Baradar, numero due della gerarchia talebana, e persino di Abdullah Abdullah, capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale? La pax (elettorale) americana si combina con l’occasione storica per il movimento jihadista di riprendersi il paese (ora Repubblica, nel 2001 Emirato […]

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O non è piuttosto quella di Mike Pompeo, segretario di stato statunitense, di Abdul Ghani Baradar, numero due della gerarchia talebana, e persino di Abdullah Abdullah, capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale? La pax (elettorale) americana si combina con l’occasione storica per il movimento jihadista di riprendersi il paese (ora Repubblica, nel 2001 Emirato islamico) senza colpo ferire.

Una guerra lunga 40 anni

Gli americani sono apparentemente arbitri, l’intento di Trump è quello di ritirare le truppe (a fine ottobre si ridurranno a 4000 unità, secondo gli accordi del 29 febbraio con i Talebani) a scopi elettorali e ottenere uno stato non troppo islamico, controllato attraverso l’indispensabile erogazione di fondi e assistenza a un tessuto socio-economico reso incapace di reggersi da 40 anni di guerra ininterrotta; ai Talebani è richiesta un’abiura dei legami con al-Qaeda, un brand a cui hanno aderito obtorto collo per l’aggressività di Bush, di cui il negoziato è la più patente sconfitta; il governo di Ghani e Abdullah è da sempre debole, quotidianamente sotto scacco per gli attentati che costano la vita a 50 persone al giorno e che vedono Isis e al-Qaeda disputarsi la leadership jihadista, un potere fondato su elezioni andate deserte e i cui risultati hanno impiegato mesi a essere diramati e che deve presenziare a negoziati che hanno come fine la dissoluzione del governo stesso per crearne uno condiviso tra tutte le fazioni, le culture e le tribù che costituiscono la nazione.

Il vicepresidente Amrullah Saleh, tagico della cerchia di Masud ed ex capo dei servizi nel governo Karzai, è il più scettico sull’opportunità dei negoziati con i Talebani, che considera marionette in mano ai militari pakistani. È infatti scampato al secondo attentato ai suoi danni; lui è rimasto illeso, non così le decine di feriti e i 10 morti procurati da quella bomba piazzata a Kabul – in un quartiere residenziale non a caso presidiato dagli americani – emblematicamente quattro giorni prima che iniziassero i negoziati. E già una settimana dopo l’inizio dei negoziati era stato ucciso il presunto responsabile dell’attentato (il mullah Sangeen, il numero due della Red Unit talebana) in un’operazione condotta a Surobi.

Quello intrafgano è un negoziato tra fronti opposti delegittimati agli occhi degli afgani, che non li ha mai considerati propri rappresentanti: poche frange tribali al confine pakistano riconoscono l’autorità dei Talebani, le richieste dei quali sono il ritiro delle truppe straniere e l’imposizione di uno stato islamico; peraltro nessuno riconosce l’autorevolezza di un governo corrotto e fondato sugli interessi di lobbies oligarchiche, che ha obbedito agli accordi siglati dall’amministrazione Trump in campagna elettorale e in assenza di rappresentanti del governo e della società civile afgani, così Ghani ha dovuto liberare obtorto collo 5000 prigionieri talebani (in cambio di mille governativi).

Intanto all’inizio della seconda settimana il leader del partito Jamiat-e-Islam, Salahuddin Rabbani, che è stato anche a capo dell’Alto Consiglio per la pace del governo Karzai ha esposto notevoli dubbi sull’efficacia della road map dei temi proposti, proponendo di rivedere anche il sistema politico attuale.

In previsione di un approfondimento che intendiamo proporre una volta che gli sviluppi consentano valutazioni sulle trattative, riproponiamo uno stralcio dell’analisi che inquadra precisamente la situazione attuale. Un saggio scritto quasi un anno fa da Giuliano Battiston, e compreso in La Grande Illusione, volume a cura di Emanuele Giordana sull’Afghanistan in guerra dal 1979, di cui l’attuale teatrino qatariota (regime sunnita filojihadista) è il nuovo atto messo in scena, mentre i civili – fisicamente vulnerabili – muoiono per gli attentati, o – vulnerabili economicamente – sopravvivono sotto la soglia di povertà.

[OGzero]


Delegazione talebana a Doha il 12 settembre 2020

Dipendenza dall’estero: sovranità parziali e segmentate

La questione che qui vogliamo sottolineare è che il progetto di state-building ha avuto effetti controproducenti. Ha generato uno state-rentier, frammentato, debole, fortemente dipendente dalle risorse esterne. Il welfare sociale, l’educazione, la salute, le infrastrutture, l’esercito, la regolamentazione e la pianificazione economica: in Afghanistan ogni aspetto della vita pubblica è dipendente da aiuti esterni. La dipendenza dall’esterno ha inficiato la legittimità dello stato e del governo, ha modificato radicalmente il panorama della governance, la stessa nozione di potere, le relazioni tra il territorio e la politica, producendo principi politici, valori morali e culturali, fonti di potere e di legittimità diversi. In poche parole, ha prodotto “sovranità segmentate”, parziali, per ricorrere ancora una volta al lessico di Territorio, autorità, diritti. A ben vedere, poi, sebbene questi nuovi network di potere globale abbiano istituito tra di loro rapporti diversi e discontinui, a volte competendo, a volte confliggendo, a volte finendo per cooperare, è la loro stessa presenza ad aver impedito che il governo centrale trovasse e potesse rivendicare fonti autonome ed esclusive di legittimità normativa e politica. Infine, ma non da ultimo, l’emergere di nuove forme di sovranità e governance ha indebolito non soltanto lo stato, ma la stessa capacità dei cittadini di rivendicare trasparenza, aumentando la distanza tra governo/stato e popolazione. In poche parole, il processo di state-building centripeto ha creato un regime di poteri multipli, privi di responsabilità e di “responsività” verso i cittadini. Un esito che ha conseguenze anche sul processo di pace. Vediamo come.

Governo e Talebani: attori illegittimi

All’interno della complessa geografia di poteri appena descritta, esistono due attori – non monolitici e diversificati al loro interno (due reti di potere sarebbe più opportuno definirli) – che almeno a livello simbolico giocano un ruolo preminente: il governo di Kabul e i Talebani. I Talebani sono il principale movimento di opposizione armata in Afghanistan. Ci interessa però sottolineare alcuni aspetti, funzionali al nostro discorso. Il primo è che i Talebani rappresentano una galassia articolata al proprio interno, con centri di potere (le shure, i consigli) diversificati, con indirizzi strategici, finanziatori, priorità diverse e a volte confliggenti; il secondo è che la postura dei Talebani recentemente è stata condizionata dall’ingresso in Afghanistan di un altro attore della guerriglia, la “Provincia del Khorasan”, la branca locale dello stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi; il terzo è che, proprio in ragione del rapporto dialettico tra le varie componenti dei Talebani e gli sponsor stranieri, come il governo/stato anche i Talebani sono percepiti come un attore soltanto parzialmente legittimo, perché non del tutto autonomo, ma eterocondizionato; il quinto punto è che non sono una forza residuale, ma un gruppo consapevole delle proprie potenzialità, tanto da sommare ai successi strategici sul campo anche quelli politici: deboli, divisi e sfiduciati all’inizio del 2002, oggi i Talebani hanno fatto digerire all’Amministrazione degli Stati Uniti l’idea che l’opzione militare sia ormai impraticabile e che l’unica opzione plausibile per mettere fine alla guerra sia quella diplomatica. Fino a pochi anni fa soltanto dei “terroristi” o dei pariah, oggi godono di una patente di legittimità politica. Se non degli alleati veri e propri contro l’espansione dello Stato Islamico in Asia centrale, sono diventati degli interlocutori politici a tutti gli effetti.   

Resistenti sul campo di battaglia, forti al tavolo negoziale, finanziariamente ancora piuttosto solidi, i Talebani appaiono però fragili in casa, in termini di consenso. Se in alcune aree e fasce sociali godono di un appoggio logistico e dell’adesione della popolazione, altrove sono guardati con sospetto: troppo pesante l’eredità del loro governo, troppo pesante il bilancio delle vittime civili, troppo lontani dal sentire comune le loro idee sull’economia e sulla società, sull’Afghanistan che verrà. La domanda da porsi allora è: perché rimangono un attore egemone? Per tre motivi principali. La prima rimanda a quella particolare economia politica di guerra a cui abbiamo fatto riferimento. La seconda è la presenza delle truppe straniere, di per sé un fattore di mobilitazione antigovernativa, un carburante per la macchina della propaganda jihadista. La terza è il forte deficit di legittimità del governo, screditato agli occhi della popolazione.

Delegazione governativa a Doha

L’attuale governo ha una storia particolare, che merita di essere raccontata. Il governo si basa su un compromesso politico, imposto dall’esterno, uno dei simboli della subalternità alle reti di potere globale. Per porre fine alla lunga contesa sugli esiti del ballottaggio presidenziale del 14 giugno 2014, l’allora segretario di stato Usa John Kerry ha sollecitato un accordo che prevedeva un governo bicefalo: accanto alla carica del presidente – attribuita ad Ashraf Ghani – è stata introdotta una nuova figura istituzionale, quella del Chief of Executive Officer, con poteri «simili a quelli di un primo ministro», attribuita allo sfidante Abdullah Abdullah. L’inedito esperimento di ingegneria istituzionale non ha funzionato, finendo con il paralizzare le attività dell’esecutivo, istituzionalizzando la rivalità che intendeva sanare. Anche se politicamente debole e diviso, il governo di unità nazionale è rimasto in carica per un intero mandato, cinque anni, per due ragioni: la debolezza delle opposizioni e il sostegno della comunità internazionale, che in assenza di alternative ha preferito accordargli credito, come dimostrano i 15,2 miliardi di dollari stanziati al termine della conferenza dei donatori di Bruxelles dell’ottobre 2016.

Al di là del ruolo giocato dagli attori esterni, l’impasse in cui si è ritrovato il governo Ghani-Abdullah rimanda a una discussione interna, la grande questione irrisolta della governance dell’Afghanistan posTalebano. Affrontata già negli incontri preliminari alla conferenza di Bonn del 2001, è stata particolarmente dibattuta nel corso della Loya Jirga costituzionale del 2003, quando si sono contrapposti due grandi blocchi etnico-politici: da una parte il blocco “pashtun”, con l’idea di un sistema presidenziale fortemente centralizzato, modellato sulla Costituzione del 1964, poi adottata con alcune modifiche; dall’altra il blocco “tagico”, propugnatore di un sistema di governo più rappresentativo e meno centralizzato, che includesse la carica del primo ministro, anche come contrappeso alla storica, contestata egemonia dei pashtun come reggenti dello stato-nazione. Dietro all’antagonismo e alla reciproca diffidenza personale tra Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah si è giocata dunque una partita cruciale: quella tra rappresentanza, società ed esercizio istituzionale del potere. Una partita simile a quella che si gioca ora, o che si potrebbe giocare, tra il governo da una parte e i Talebani dall’altra. Una partita che va sotto il nome di processo di pace, ma che non si esaurisce in quello.

Reti di potere, pace politica e pace sociale

«Leader dei Talebani, la decisione è nelle vostre mani. Accettate la pace, sedetevi al tavolo negoziale e costruiamo insieme il paese». È con queste parole che il 28 febbraio 2018 il presidente Ashraf Ghani ha offerto ai Talebani il riconoscimento come partito politico, l’implicita garanzia dell’immunità, la possibilità di rivedere la Costituzione, l’inclusione nelle istituzioni, un ufficio politico a Kabul e l’ipotesi di un cessate il fuoco, realizzato poi per tre giorni nel giugno 2018. In quel discorso Ghani ha fatto riferimento alla possibilità di affrontare «aspetti controversi della futura presenza internazionale», questione dirimente per i Talebani. Un riferimento che lasciava presagire margini di manovra futuri per un dialogo diretto tra i Talebani e gli Stati Uniti, un negoziato che ha assunto una forma concreta con gli incontri tenuti nell’estate del 2018 tra esponenti del movimento antigovernativo e l’inviato di Donald Trump, Zalmay Khalilzad, da cui è scaturito nel gennaio 2019 una bozza di accordo.

Anche la proposta di Ghani di una «revisione congiunta» della Costituzione era un passo verso gli “studenti coranici”, che però hanno continuato a lungo a invocarne la riscrittura completa. Oltre ai dissidi interni del fronte antigovernativo, incapace di trovare una linea comune sul “che fare” una volta che le armi verranno deposte, dietro alla questione della revisione costituzionale e dell’architettura politico-istituzionale si nasconde un nodo politico: per i Talebani il governo di Kabul è illegittimo, semplice braccio amministrativo delle forze di occupazione, soltanto un pezzo di una rete di potere globale, un interlocutore privo di coesione, facile da manipolare e dividere. A dispetto dell’unità di facciata e dei successi politici che li hanno condotti al tavolo negoziale di Doha, in Qatar, anche i Talebani però, come abbiamo visto, sono un attore attraversato da spinte centrifughe, frutto dell’adesione delle diverse anime del movimento alle diverse reti di potere globale emerse in Afghanistan negli ultimi anni. Da questo punto di vista, se il dibattito con gli americani, un nemico esterno, può essere facilmente condotto sulla base di posizioni condivise dalla maggioranza, quello con il governo di Kabul sulla governance postnegoziato potrebbe risultare molto più difficile e frammentare ulteriormente il già composito fronte antigovernativo.

In sintesi, proprio a causa della presenza delle reti di potere globale che abbiamo provato a descrivere, sia il governo/stato sia i Talebani sono divisi al loro interno e godono di una scarsa legittimità agli occhi degli afgani. Ciò rende rischioso e costitutivamente fragile qualunque accordo i due attori possano trovare in futuro, sottolineano molti esponenti della società civile. In termini generali, tra gli intervistati prevale l’idea che la soluzione militare si sia rivelata inefficace e che sia indispensabile seguire la via del dialogo politico, attraverso un piano di riconciliazione nazionale e un contestuale processo di pace. Si registra la tendenza a sostenere l’ipotesi che i Talebani possano ottenere posizioni di potere in un futuro governo di “ampia coalizione”, a due condizioni: che ciò serva davvero a porre fine al conflitto e che non pregiudichi, se non l’architettura politico-istituzionale creata dopo il 2001, le conquiste legislative e sociali degli ultimi anni, spesso associate a tale architettura. Le aspettative che i Talebani siano in grado o siano disposti a soddisfare tali condizioni sono superiori a quelle registrate dallo stesso autore negli anni passati, ma rimangono piuttosto basse. Quanto alla capacità dei rappresentanti governativi di garantire la sopravvivenza dell’ordine normativo/istituzionale corrente, si registrano aspettative molto basse, che sembrano rimandare alla convinzione che i Talebani siano “più forti” del fronte governativo-statuale, giudicato litigioso e fragile. Comunque tutti gli attori risultano scarsamente legittimi.

Per questo gran parte degli intervistati distingue tra “pace politica” e “pace sociale” e reclama un doppio approccio al processo di pace: al negoziato politico-diplomatico che punta nel breve periodo all’interruzione del conflitto dovrebbe accompagnarsi un parallelo processo sociale di lungo periodo che punti alla ricostruzione delle relazioni tra le comunità locali. E che offra canali di comunicazione e confronto agli attori che, pur godendo di maggiore legittimità e rappresentatività del governo o dei Talebani, sono stati esclusi dalle reti di potere globale emerse in Afghanistan. Molti degli intervistati condividono infatti una diagnosi di partenza: alla base dell’instabilità del paese ci sono molti fattori, endogeni ed esogeni, ma uno di questi è la crisi identitaria causata da quattro decenni di guerra. Il tessuto connettivo che fa di una società una nazione sarebbe stato indebolito dalla guerra e questa fragilità sarebbe stata sfruttata dagli attori endogeni che fanno parte delle reti di potere globale, parzialmente esogene. Reti opache, che non possono essere smantellate attraverso un negoziato, dall’alto al basso, ma che vanno prima “rese trasparenti”, poi trasformate con processi sociali di lunga durata, dal basso all’alto. Senza una sottostante pace sociale che gli dia solidità e consistenza, sostengono gli intervistati, ogni accordo politico tra attori illegittimi è destinato a produrre risultati effimeri. Il dialogo politico-diplomatico è lo strumento più adatto per porre fine al conflitto nel breve periodo, ma il dialogo sociale, il recupero di sovranità e autonomia di fronte all’egemonia delle reti di potere globale, sono gli strumenti per costruire un nuovo spazio sociale e politico dotato di legittimità, unico antidoto a una nuova esplosione del conflitto.

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