ASEAN Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/asean/ geopolitica etc Mon, 13 Nov 2023 22:32:04 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Lettera22: luoghi e tempi per immaginare il sequel https://ogzero.org/lettera22-luoghi-e-tempi-per-immaginare-il-sequel/ Thu, 09 Nov 2023 16:17:25 +0000 https://ogzero.org/?p=11838 Nell’estate 2023 è uscito dopo una accorta e lunga gestazione, il numero zero di “Lettera22”, manifestazione in forma di rivista del consorzio omonimo di giornalisti indipendenti in occasione del trentennale della creazione del gruppo di professionisti che testimoniano la realtà dove si svolge, essendone esperti di lunga data. La produzione è descritta nell’editoriale come “lento […]

L'articolo Lettera22: luoghi e tempi per immaginare il sequel proviene da OGzero.

]]>
Nell’estate 2023 è uscito dopo una accorta e lunga gestazione, il numero zero di “Lettera22”, manifestazione in forma di rivista del consorzio omonimo di giornalisti indipendenti in occasione del trentennale della creazione del gruppo di professionisti che testimoniano la realtà dove si svolge, essendone esperti di lunga data.
La produzione è descritta nell’editoriale come “lento ruminare” che racconta l’addensarsi dell’esplorazione dello spazio scritto a specchio di quella dei luoghi dove gli eventi, liberati dalle colonne della cronaca geopolitica, fuoriescono per costituire i capitoli di un libro in forma di magazine; l’oggetto dell’esplorazione diventa così una “terra di mezzo”, come esplicitano gli autori che rivendicano l’ibridazione delle forme narrative: dalla graphic novel al saggio sociologico, dal reportage di viaggio al racconto storico immerso in un orto o in un aeroporto al momento dello scoppio di una “operazione militare speciale”… rigoroso, circostanziato, preciso, eppure godibile per la creatività spontanea.
Rilegate in una confezione raffinata le storie graficamente impreziosite dei complici dell’Associazione di giornalisti indipendenti ci portano a spasso per il mondo con storie che si dipanano tra Corno d’Africa e Sudest asiatico, dal preludio al ritorno dei Talebani in Afghanistan all’Italia del fascismo – quello precedente e parallelo alla contemporanea invasione nazista della Serbia descritta nei disegni inediti di Zograf

Alla fine della lettura abbiamo pensato che valesse la pena tornare su alcuni dei luoghi evocati nel libro-fascicolo: ciascuno degli interventi è corredato da un Secondo Tempo, ci sembra che un buon approccio per OGzero per interpretare l’utilità di questa formula editoriale – e proporne un processo di lettura in sintonia con gli obiettivi di entrambe le testate – sia quello di partire dalla realtà in cui si stanno evolvendo ora i processi che troviamo in nuge tra le righe di questo volume e rintracciarvi le tracce o i prodromi; una sorta di Terzo tempo che ritorna sulla meditazione dei testi proposti per rilanciarne la attualità che li ribadisce.


In the mook del giornalismo indipendente

Gli afgani collaterali

Il fascicolo si apre sul quartiere del Politecnico di Kabul dopo il ripristino della shari’a, ma la storia rievocata da Giuliano Battiston insieme al padre della vittima, a cui le illustrazioni pointilliste di Giacomo Nanni conferiscono cromatismi psichedelici, percorre il 3 maggio 2009 una strada vicino a Gozarah…

Illustrazione di Giacomo Nanni

Ora si è richiuso il sipario sul paese abbandonato dalla Nato definitivamente due anni fa, ma quell’episodio di sprezzo per la vita delle popolazioni civili autoctone da parte del contingente italiano ai tempi in cui Ignazio Benito era ministro della Difesa rimane irrisolto e il generale Rosario Castellano ha potuto andare in pensione come generale di corpo d’armata il 28 giugno 2023 senza macchia e con tutti gli onori; solo un ulteriore episodio del corollario di collateral damage, perla lessicale eufemistica coniata da Bush per le stragi perpetrate dagli eserciti alleati. Nei vent’anni di occupazione euro-americana l’Afghanistan è stato oggetto di aiuti che servivano di più alle organizzazioni e istituzioni occidentali, che hanno gestito il paese in maniera diversamente coloniale, spesso con disprezzo per una cultura che nessuno ha voluto conoscere e che le truppe non incrociavano nell’apartheid armato che vigeva e che causò l’omicidio al centro della ricostruzione di Battiston. Il risultato è la diffidenza restituita dagli afgani che si sono sentiti presi in giro e non hanno trovato motivi per resistere al ritorno dei Talebani a seguito di una nuova fuga dopo quelle dei britannici del Great Game e del generale Gromov, mentre attraversava il ponte della Fratellanza, prima crepa sul muro dell’imperialismo sovietico. Le condizioni del paese fanno da sfondo alla precisa restituzione della testimonianza del padre della vittima effettuata da Battiston e si ripresentano invariate: la situazione delle carceri, le spie, l’economia dell’oppio dell’Hellmand sostituita dalla produzione di metanfetamine, la prevenzione inesistente per i disastri dei terremoti (con il corredo di migliaia di morti nell’autunno delle province dell’Ovest), proprio dove operava quel contingente italiano.

OGzero ha frequentato spesso la tragedia afgana e raccolto i racconti dei ragazzi, le cui radici affondano in quella cerniera tra mondo persiano, continente indiano e corridoi per le merci dal mondo cinese al di là dell’Himalaya, da dove sono espatriati quasi vent’anni fa, mantenendo forti contatti con le famiglie, tornando tutti a sposare donne scelte dal clan, a volte ancora nelle case avite di Ghazni, in altri casi già trapiantati a Quetta fin dalla disfatta sovietica. La novità di questo periodo è quella che la diaspora di un popolo espulso dalle sue terre non ha fine e il governo pakistano ha decretato la cacciata degli afgani dal proprio territorio, adducendo il pretesto che molti degli attentati jihadisti sono attribuibili a profughi afgani.

 

 

Ma proprio quei ragazzi hazara ci invitano ad approfondire chi sarebbero quel paio di milioni di afgani che devono lasciare il Pakistan e la loro destinazione, per comprendere meglio il disegno che potrebbe nascondersi dietro il loro rimpatrio. Innanzitutto i senza documenti afgani non stanno a Quetta, ma a Nord e i Talebani afgani saprebbero già dove collocarli: sarebbero destinati al territorio confinante con il Tagikistan e l’Uzbekistan, perché nella regione a maggioranza tagika e uzbeca scarsi sono gli islamisti e la deportazione dei pashtun molto probabilmente affini ai talebani servirebbero a diventare maggioranza in un territorio in cui si è completato un canale, il Qosh Tepa, che dirotta le acque del Amu Darya, in grado di irrigare i terreni desertici e poco abitati, dando opportunità di lavoro a comunità poco rappresentate in zona. Ma soprattutto possono esportare nei paesi limitrofi il radicalismo islamista caro ai talebani, e in particolare l’Uzbekistan potrebbe essere a rischio di infiltrazione, ovvero la nazione a ridosso della quale si trova l’area più arretrata dell’Afghanistan, quella con minori risorse.

Mappa tratta dal volume La grande illusione (Rosenberg &Sellier, 2019)

A proposito di deportazioni e diaspore capitano a fagiolo due dei racconti del “Secondo tempo” di “Lettera22”, quello che vede protagonista Ahmad Naser Sarmast, fondatore dell’Istituto nazionale di musica, chiuso dai talebani provocando la fuga all’estero delle allieve musiciste e il breve racconto da Kandahar, la capitale delle melograne, dove il conflitto si fece aspro quando gli americani precipitosamente restituirono il paese all’oscurantismo e gli agricoltori dovettero abbandonare case e terreni. Ora «la guerra è finita e siamo tornati a lavorare i campi».

Questo avviene più al Sud del paese; al Nord si stanno preparando penetrazioni del jihad verso le repubbliche centrasiatiche, attraverso una possibile “sostituzione etnica”; proprio le due repubbliche che Francia e Unione europea hanno preso in considerazione per imbastire una rete di relazioni commerciali, in alternativa alle risorse minerarie di cui non riescono più ad approvvigionarsi in Africa. E il viaggio di un paio di giorni di Mattarella a Samarcanda non può non avere risvolti strategici in questo senso.

Una serie di dubbi di una serie con troppi spunti e ipotesi, che proprio il cofondatore di “Lettera22” ci aiuta a ricomporre in questo podcast:

“L’ingombrante presenza afgana in Pakistan risolta con l’espulsione?”.

 

Il giornalista a una dimensione: quella in viaggio

Uno dei fili rossi del numero zero di “Lettera22” si può individuare nel reportage, talvolta seguendo itinerari di camminanti alla scoperta di territori; più spesso i paesaggi sono di conflitti e talvolta di intrichi delittuosi; in altri casi si tratta di semplici brevi spostamenti nello spazio, ma sprofondati nell’utopia delle performance voguing inseguita in Germania o dislocamenti lontani nel tempo a disvelare delitti irrisolti nella Lucania insurrezionale postborbonica. Appassionanti comunque, non ci soffermiamo su questi apporti contenuti nel fascicolo solo perché il nostro ambito è già fin troppo ampio delimitandolo alle questioni geopolitiche.

La tassonomia coloniale come classificazione della specie

Illustrazione di Adriana Marineo

Un approccio neanche tanto nascosto tra le pieghe dell’intelligente apporto di Paola Caridi che mette al centro la Sicilia, quella dell’annuncio mussoliniano dell’impero dell’agosto 1937– sembra di assistere ancora una volta alle immagini dell’Istituto Luce – quello dalla vicina Libia e del remoto Corno d’Africa. Entrambe aree non a caso in fibrillazione: 120 anni di storia di un colonialismo (e protettorato dell’Agip/Eni) straccione hanno prodotto scollamento e odio intercomunitario come eredità delle nefandezze. La Sicilia al centro geografico dell’impero che rende colonialismo l’emigrazione, e ora diventa testimonianza di ciò che di quella Palermo hanno lasciato i bombardamenti: Villa Giulia e l’Orto botanico – “colonizzati” ora per contrappasso dall’immigrazione bengalese per praticare il cricket. Quella Sicilia al centro dello schieramento strategico Nato nel Mediterraneo: Sigonella, il Muos… come racconta un altro complice di “OGzero” e “Lettera22”, Antonio Mazzeo.

Come si vede s’intrecciano in poche pagine serie di argomenti che regolano i rapporti mondiali tuttora, affondando le radici in quel precedente regime fascista – e in quell’altra Guerra mondiale –, retaggi della storia che tornano, evocati da quei luoghi che nella storia hanno rappresentato le stazioni di molte tappe. Anche se ora il Giardino coloniale non esiste più fisicamente, però le piante dell’Altro ci hanno conquistato, dimostrando come si ripeta la seduzione eclettica della cultura aliena che aveva ellenizzato la vittoria militare della Roma antica. Ma soprattutto l’aggettivo del Giardino è importante nell’evoluzione dell’articolo di Paola Caridi che si può gustare da pagina 68 di “Lettera22” numero zero: l’approccio coloniale dell’Italia fascista rispunta nella sua brutalità come la gramigna sulla falsariga di britannici e soprattutto degli olandesi descritti da Amitav Gosh a proposito della noce moscata. Scrive l’estensore del saggio:

«L’agricoltura coloniale doveva imporre alle comunità native un modo di coltivare secondo la nostra impostazione agricola. Allo stesso tempo doveva formare tecnici italiani capaci di coltivare le specie locali», a cui nel trasporto in “patria” gli scienziati italiani avevano persino cambiato nome a piante che loro ritenevano di aver “scoperto” e riconducendole alla sistematica classificazione linneana, ma che stavano lì da sempre, con quell’atteggiamento che Gerima, il regista etiope, stigmatizza da sempre: l’imposizione di un punto di vista culturale esogeno che fa della “integrazione” delle Species plantarum un paradigma per quella delle “razze”, per dirla alla Almirante. E infatti nell’articolo di Caridi lo spostamento dall’Orto botanico palermitano a quello romano trova protagonista una donna di origine somala, lingua letteraria italiana e «cosmogonia botanica complessa», che mette in relazione lo stato «sofferente, striminzito, piccolo» di una pianta d’incenso, che erano le stesse condizioni in cui si sentiva l’animo della donna; per poi tornare all’Orto siciliano e lì ritrovare gli insegnamenti paterni e l’originario nome della coltura. Le jacaranda palermitane però sono solo una “citazione lontana” delle strade di Gaza… quando esisteva ancora: forse per non offuscare la bellezza della copia si è operato in modo da cancellare l’originale.

In questa tassonomia non poteva mancare la supponenza bonapartista della reinterpretazione in chiave orientalista della cultura dei popoli attraversati dalle armate francesi:

«Dare un nome alle piante significa non soltanto appropriarsene, ma cancellare completamente una storia. È la storia all’interno di un preciso ecosistema che viene resa invisibile, anche attraverso il “nominare”. E assieme a questo battesimo non richiesto ci son le ramificazioni scientifiche, mediche, culturali».

Le stesse usate da Bonaparte: è la cancellazione degli eventi precedenti all’arrivo del colonizzatore, in modo da restituire una verginità culturale su cui imbastire una narrazione occidentale che faccia sue le risorse altrui. Il pessimo ultimo colonialismo italiano si insediò con le scuole di agraria. Sempre meglio che esternalizzare lager in Albania.

Quel treno per Yunnan

E questo “orientalismo” ci consente di salire insieme a Emanuele Giordana sul Cina-Laos Express, senza provare l’ebbrezza del viaggio verso le terre evocate dall’Orient Express.

Mappa di Andrea Bruno

L’estensore aveva accennato a questo percorso già in un intervento radiofonico (dal minuto 45 di questo podcast) in cui illustrava con evidente ammirazione il percorso ferroviario che porta da Kunming nello Yunnan cinese a Singapore, attraverso Vientiane. Un ramo di quella rete di trasporti che i cinesi hanno inserito nella Belt Road Initiative per omogeneizzare e far crescere l’Asean, aggirando il chockpoint potenziale dello Stretto di Malacca:

“Il mattatoio birmano dopo 2 anni: dati, analisi, prospettive allargate all’Asean”.

Subito il pezzo di Emanuele Giordana si dipana dalla capitale del Laos, ma anche sollevando il velo del tempo sulla prima esperienza degli anni Settanta: facile il confronto… anche perché allora persino la Thailandia era coinvolta dagli Yankee nella guerra al Vietnam. Gli spostamenti e l’attraversamento come sempre relativi alla situazione epocale si alternano nel racconto che è sempre avventura: in questo caso si trascorre da ricordi “stupefacenti” di rivoluzioni e sostanze, monaci e Ak-47, bombe e principi rossi, a taxi carissimi e le difficoltà a muoversi autonomamente; cimeli museali di chemins de fer e “scommesse” (arriveremo a Boten in una delle tappe del treno: «centro del gioco d’azzardo con annessi e connessi») cinesi sul futuro avamposto laotiano, trascorrendo dal periodo coloniale classico al neocolonialismo, attraversando nuvole di oppio che escono dal treno su cui risaliamo a Vang Vieng, dopo una pausa narrativa tutta da godere nel Triangolo d’oro, di cui ancora vagheggiamo in certi articoli. Adesso i divertimenti sono equiparabili a divertifici economici a basso contenuto culturale e infima attenzione ecologica… ma si può proseguire alla tappa successiva Luang Prabang; ma soprattutto il viaggio racconta tante verità sul paese e sulla condizione dei laotiani (e forse di un po’ tutto il Sudest asiatico), che il testimone rileva da par suo: infrastrutture cinesi e platea di consumatori laotiani; appaltatori e tecnologie… ovvero il Bignami della Bri fatto tratta ferroviaria… con tutto il contorno di affari e presenza cinesi.

Illustrazione di Andrea Bruno

E allora si coglie la politica della rieducazione dell’intera area effettuata da Pechino alla propria cultura, alla propria lingua; e il treno – lo insegna il vecchio West e Sam Peckimpah – è fattore unificante e ficcante, utile per diffondere idee e modi di vita ad “alta velocità”.

E così arriviamo a Boten: come Oudom Xai è l’ombelico del mondo ferroviario, così Boten è la fenice locale che risorge sempre dalle sue ceneri… però solo il ricordo del viaggiatore, che negli ultimi decenni è transitato di qui periodicamente, può restituire l’evoluzione del territorio. E Boten è di nuovo un fulgido modello di molte città sul confine di stati, dove è concesso ciò che altrove non si può fare. E intanto il Laos muta la sua natura: ambiziosi progetti cinesi visti dal finestrino tolgono spazio al Laos agricolo e rurale… ma queste lampisterie non sono che alcuni passaggi di un racconto preciso e a tutto tondo dell’evoluzione del paese ai lati della ferrovia… che i cinesi vorrebbero portare fino a Bangkok, e infatti i tailandesi temono il progetto, perché con il treno si estende l’influenza di Pechino.

Ma questa è un’altra storia e vedremo di raccontarla sia con “Lettera22” che nei libri di “OGzero”

L'articolo Lettera22: luoghi e tempi per immaginare il sequel proviene da OGzero.

]]>
Asean tra decimazione pandemica e decrescita tradizionalista https://ogzero.org/covid-golpe-birmano-e-repressione-thai-l-oriente-a-pezzi/ Wed, 01 Sep 2021 20:09:40 +0000 https://ogzero.org/?p=4769 Covid, golpe birmano, repressione thailandese: elementi di stravolgimento innescati per un cambio di rotta di difficile elaborazione per i criteri occidentali. Il Sudest asiatico va decifrato immergendosi in quel mondo altro e sfuggente ai parametri europei, però in grado di elaborare svolte che risultano incomprensibili per i farang, se non dopo che i processi si […]

L'articolo Asean tra decimazione pandemica e decrescita tradizionalista proviene da OGzero.

]]>
Covid, golpe birmano, repressione thailandese: elementi di stravolgimento innescati per un cambio di rotta di difficile elaborazione per i criteri occidentali. Il Sudest asiatico va decifrato immergendosi in quel mondo altro e sfuggente ai parametri europei, però in grado di elaborare svolte che risultano incomprensibili per i farang, se non dopo che i processi si sono ormai proiettati in una direzione inattesa per quanto linearmente coerente a quell’universo di riferimenti, ma di difficile interpretazione al di fuori di quelli, producendo svolte che estromettono gli elementi alieni alla comunità, che si ritrae nei valori tradizionali, forse per trovarvi nuova linfa in prospettiva futura, benché al momento appaia semplicemente reclinata in uno spirito conservatore e retrivo.

Solo una frequentazione ventennale dell’area come quella di Max Morello può cogliere gli elementi di affanno in cui si sta dibattendo innanzitutto la cultura del Sudest asiatico. E questo produce in lui un moto di delusione per l’implosione della sua fascinazione verso l’approccio filosofico delle società asiatiche che aveva imparato a frequentare, l’illusione di potersi lentamente avvicinare a interpretare quel mondo attraverso la conoscenza della filosofia che lo permea; ora sono quasi irriconoscibili nel loro travaglio… e l’inaudito è che questo forse consente di tornare a riconsiderare l’approccio della cultura occidentale, vista l’assenza di spunti progressivi per uscire da una crisi non solo economica e sanitaria da parte di una filosofia che invece risultava affascinante perché appariva capace di proposte globali e non identitarie.


Il grotesque della danse macabre

«Questa mattina è morto il padre di Cho. Soffocato. Non si trova più l’ossigeno… I militari se lo prendono per loro e i loro protetti. Negli ospedali pubblici c’è l’esercito che decide chi ha diritto al respiratore…».

Così mi ha scritto un amico che per fuggire dal caos e dal virus dilagante in Birmania ha abbandonato la casa che si era costruito a Yangon e si è trasferito in un condominio a Bangkok con il figlio e la moglie Cho.

«Non voglio fare il cinico ma mi sembra inutile fare il conto dei morti in Birmania. Qui si moriva comunque per qualsiasi altra malattia. La differenza è che adesso si muore soffocati»,

mi dice un altro amico rimasto in quel paese. Lui ha cercato di evitare il contagio, le manifestazioni e i combattimenti continuando a spostarsi tra i villaggi più isolati.

La Birmania, Yangon in particolare, è divenuta la scena di una tremenda rappresentazione pulp, splatter, horror, da teatro dell’assurdo e della crudeltà. I paragoni con generi o forme di spettacolo, di patologie psichiche reali o diaboliche, di miti e superstizioni non sono un espediente letterario. Servono a rappresentare una realtà che diviene sempre più difficile da credere, immaginare e descrivere se non si ricorre alla dimensione fantastica, a un vero e proprio lessico dell’orrore che si ritrova nei titoli, negli articoli, nei post, nei tweet.

A fine agosto le vittime della repressione militare sono oltre 1000. Circa 15.000 i morti per Covid. Entrambe le cifre, probabilmente, errate per difetto e sicuramente destinate ad aumentare. Soprattutto la seconda. In alcune zone metà della popolazione potrebbe essere già infetta. A Yangon i morti superano i 2000 al giorno.

Catastrofe umanitaria multidimensionale

«Stiamo morendo tutti. Il Myanmar è sull’orlo della decimazione»,

mi dice un altro amico ancora stremato dal contagio. I cadaveri vengono bruciati anche negli inceneritori, sepolti in fosse comuni o addirittura in discariche. Il Covid si diffonde ulteriormente tra i volontari che li trasportano. Molti muoiono in casa, soffocati, aspettando l’ossigeno che non arriva. L’esercito si riserva il controllo dell’ossigeno le cui scorte vanno esaurendosi.

La perfetta rappresentazione, anche semantica, di questa situazione sta tutta nella dichiarazione di Michelle Bachelet, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. Riferendosi alla situazione in Myanmar ha definito una crisi che sta precipitando in una “catastrofe umanitaria multidimensionale”. Espressione che ingloba l’angoscia, l’orrore, la miseria, la violenza del covid e del golpe.

Solo il 40% del già ridotto sistema sanitario birmano è operativo, secondo le stime più ottimistiche solo il 6% di una popolazione di 54 milioni è vaccinato. Molti medici vengono arrestati per aver violato il coprifuoco per visitare qualcuno o portargli ossigeno. Altri medici e infermiere finiscono in prigione per essersi rifiutati di lavorare negli ospedali dei militari. Migliaia di persone si ammalano e muoiono di Covid in carcere. I dirigenti anziani della National League for Democracy sono letteralmente decimati. Si estingue così una generazione sopravvissuta a decenni di lotte e persecuzioni. Insomma, il Covid diviene il miglior mezzo di controllo e repressione: sta stremando l’opposizione, è perfetta scusa alle morti per tortura. Ma soprattutto il Covid riduce la popolazione in uno stato di attonita impotenza, esacerbando diseguaglianze già abissali, condannando i più poveri, il cui numero è destinato a raddoppiare, a soffrire senza possibilità di reazione. Intanto è più che triplicato il numero dei rifugiati interni, uomini donne e bambini che hanno abbandonato i loro villaggi per sfuggire ai conflitti tra esercito e milizie etniche che si sono riaccesi in tutta la Birmania.

È una tempesta perfetta…

in cui non sembra aprirsi alcuno spiraglio. Le milizie sono vittime del “dilemma del prigioniero”: pur sapendo che l’unica possibilità di reale opposizione sta in un’alleanza, non riescono a unirsi per reciproca diffidenza e per l’incapacità di valutare rischi e benefici. Il People’s Defence Force (Pdf), braccio armato del National Unity Government (Nug), a sua volta, sembra paralizzato dal mancato appoggio delle milizie e dalla difficoltà di convertirsi alla lotta armata da parte di un’opposizione che, sotto la guida di Aung San Suu Kyi aveva fatto della non-violenza la sua forza. In molti casi, quindi, i gruppi di resistenza sembrano mossi dalla disperazione, pronti a un sacrificio rituale. Com’è accaduto ai giovani che si sono gettati da una finestra per evitare la cattura e la tortura.

A poco a poco, tuttavia, sembra che alcuni gruppi stiano evolvendo verso forme più organizzate e sofisticate di guerriglia, come l’agguato in cui sono stati uccisi cinque poliziotti proprio come rappresaglia per il suicidio degli studenti.

Sul fronte opposto la giunta militare non sembra in grado di vincere una guerra civile che non aveva previsto. Le forze armate, Tatmadaw, sono decimate anch’esse dal Covid, forse perché ai militari è stato somministrato a loro insaputa il Covaxin, un vaccino indiano ancora non approvato. Secondo fonti dell’opposizione, inoltre, sarebbero già più di 2000 i disertori – soprattutto soldati semplici, sottufficiali e poliziotti – che si sono uniti al Civil Disobedience Movement (Cdm).

In questo scenario da incubo, il programma politico presentato dal generale Min Aung Hlaing, artefice del golpe e autoproclamato primo ministro, appare come un “manifesto di pazzia”, paragonabile a quello dell’Angkar, l’organizzazione dei khmer rossi di Pol Pot, secondo cui chiunque si opponga all’organizzazione stessa è un nemico da sterminare. Anche se ciò significa far strage del proprio popolo. In questo delirio il nemico diviene l’incarnazione del male: Aung San Suu Kyi e la sua Nld sono addirittura accusati di aver violato il dharma, la legge buddhista di cui i militari si ergono a protettori e difensori. Una missione sacra che, secondo i monaci più fanatici, è stata premiata dalla divinità che ha fatto guarire dal Covid l’ultraottantenne generale Than Shwe, dittatore della Birmania dal 1992 al 2011, autore di una sanguinosa repressione con migliaia di dissidenti torturati e imprigionati. Il fatto che Than Shwe e sua moglie abbiano potuto godere di cure precluse al resto della popolazione è anch’esso da considerare come il segno di un karma miracoloso. Al contrario la Signora sarebbe stata punita per la sua incapacità nell’affrontare la crisi sanitaria, nel trovare un accordo con i diversi gruppi etnici e nel mantenere il sostegno dell’Occidente in seguito alla crisi determinata dalle violenze sui rohingya.

Accusa, quest’ultima, che appare grottesca pensando alle responsabilità di buona parte dell’intelligenza occidentale che ha abbandonato Aung San Suu Kyi – e con lei i rohingya – al proprio destino, accusandola di crimini contro l’umanità e genocidio per non essersi opposta con sufficiente forza alla persecuzione compiuta dai militari. È stato proprio l’Occidente, dunque, accecato da una hybris, a creare le condizioni per il golpe.

… per un’epidemia golpista

La situazione in Myanmar sta generando un effetto contagio in tutta l’area. Oltre a ridefinirsi come stato paria, è condannato a essere anche untore. E non solo per le decine di migliaia di persone in fuga. È come se tutti gli orrori della ex Birmania si replicassero o venissero alla luce nelle altre nazioni dell’Asean: la scarsità di ossigeno e di vaccini, il mistero sul numero di morti o contagiati, i cadaveri bruciati nei crematori dei monasteri o sepolti in fosse comuni, la miseria che rende un tampone un lusso (nelle Filippine, per esempio, costa otto volte il minimo salario giornaliero), la rinascita di pratiche magiche in sostituzione di cure mediche inesistenti, l’acuirsi di tensioni etniche, religiose e razziali in cui ognuno cerca nell’altro un capro espiatorio.

Inizialmente sembrava che la resistenza al virus dei popoli del Sudest asiatico fosse l’ennesima prova di una cultura che aveva gli anticorpi per contrastarlo. Per alcuni ricercatori, come l’italiano Antonio Bertoletti dell’Università di Singapore, poteva essere così, ma solo perché si era creata una sorta d’immunità dovuta all’esposizione a virus come la Sars.

Poi, nell’aprile scorso, è arrivata la variante Delta. I contagi e i decessi sono aumentati in modo esponenziale con una crescita superiore a ogni altra parte del mondo. Il Sudest asiatico e i suoi 655 milioni di abitanti sono divenuti l’ultimo hotspot della pandemia, rivelando i malfunzionamenti strutturali della regione: l’autoritarismo o la democrazia limitata, la corruzione e la burocrazia che l’alimenta, le diseguaglianze, il potere delle élite e delle oligarchie, l’assenza di un adeguato sistema di assistenza sociale e sanitaria.

La società disfunzionale e la trasmissione sessuale del virus

La Thailandia è un esempio perfetto di questa società disfunzionale: è stata modello per il golpe birmano e quindi vittima della stessa contaminazione tra Covid e politica, sia pure in forma meno virulenta. Dall’inizio della pandemia sino ad aprile 2021, i casi di Covid erano stati circa 28.000, con 98 morti. Da aprile a fine agosto i contagiati sono circa 400.000, i morti oltre 11.000.

L’epicentro di questa nuova ondata sono stati quei locali, come il Krystal Exclusive Club o l’Emerald, frequentati dai cosiddetti Vvip. Non semplicemente vip, bensì very very important person, che in quei locali incontrano ragazze che non sono semplici escort bensì aspiranti mia noi, moglie minore, amanti ufficiali, cui pagare l’affitto in un residence di lusso (o intestare un appartamento) e assicurare un tenore di vita adeguato allo status del Vvip.

La trasmissione del virus per via sessuale (in senso del tutto traslato), del resto, sembra comune ai paesi del Sudest asiatico. È accaduto anche in Cambogia dove i primi casi della nuova ondata si sono verificati tra i Vvip frequentatori del N8, esclusivo locale di Phnom Penh. A infettarli sarebbero state due delle quattro ragazze arrivate pochi giorni prima da Dubai a bordo di un jet privato.

In pochi giorni il Covid si è diffuso in modo tanto rapido e violento quanto inaspettato. In Thailandia il contagio e la morte, sempre più rapidamente, si sono spostati dai quartieri delle élite come Thonglor e Suan Luang, alle prigioni, ai dormitori dei lavoratori edili, agli slum come Khlong Toey, dove è impossibile qualunque distanziamento sociale, le condizioni igieniche sono precarie, l’assistenza medica limitata. E dove la malattia è vissuta come un ulteriore stigma sociale, il segno di un karma malefico.

Interessi regali in campagne vaccinali thailandesi

La crisi è aggravata dai ritardi nella campagna vaccinale. Il governo thailandese, infatti, l’aveva pianificata con l’uso quasi esclusivo del vaccino AstraZeneca, prodotto dalla compagnia nazionale Siam BioScience, su cui, a quanto sembra, facevano conto anche altri paesi del Sudest asiatico. A fine agosto, solo l’11% della popolazione era completamente vaccinato. Secondo alcuni siti dell’opposizione molte dosi sono state vendute all’estero. Ma sarà impossibile determinare responsabilità o cause: la società farmaceutica, infatti, fa parte del patrimonio della corona, controllato direttamente da re Vajiralongkorn. E qualsiasi critica o semplice dubbio rientra ineluttabilmente sotto la legge di lesa maestà.

Altro responsabile dei ritardi vaccinali è l’ineffabile ministro della Sanità Anutin Charnvirakul, già noto per aver dichiarato che i farang, gli occidentali, erano potenziali untori in quanto “sporchi”. Secondo molte indiscrezioni Anutin avrebbe dichiarato che il vaccino Pfizer non aveva dimostrato la sua efficacia sulle popolazioni asiatiche. Quindi avrebbe dato più fiducia al cinese Sinovac (che secondo le stesse indiscrezioni è in parte controllato da una delle più ricche famiglie thai).

Nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi mesi abbiano contenuto il dilagare della crisi sanitaria, il virus ha innescato la peggior crisi economica che abbia colpito la Thailandia negli ultimi vent’anni e 21 milioni di persone rischiano di non avere più mezzi di sostentamento. La Thailandia, che secondo un rapporto del 2018 era al primo posto nella graduatoria delle diseguaglianze sociali, rischia di incrementare in modo esponenziale il suo primato.

Ritorno al futuro della decrescita nella felice vita tradizionale 

La pretestuosità dei valori khwampenthai, la rivolta in salsa prik…

In una situazione del genere appare allucinante una delle soluzioni proposte dall’establishment, ispirata ai valori della khwampenthai, la thailandesità, più che a teorie macroeconomiche: un programma di decrescita felice secondo cui il popolo thai dovrebbe tornare a uno stile di vita tradizionale, che sembra finalizzato soprattutto a un maggior controllo. Sempre più detenuto dalle cinquanta famiglie più potenti del regno, il cui patrimonio combinato ha raggiunto la cifra record di 160 miliardi di dollari. A ogni buon conto, per evitare possibili conseguenze personali per qualsiasi eventuale errore, il ministro Anutin si è fatto latore di una legge che scarichi di qualsiasi responsabilità nella gestione del covid operatori sanitari e funzionari di ogni livello.

In questo clima era inevitabile che riprendessero le manifestazioni di piazza. Ma se prima si trattava soprattutto di una protesta d’élite che metteva in discussione la cultura gerarchica della tradizione thai, compreso il totem e tabù della monarchia, e si svolgevano secondo forme e modi da “indiani metropolitani” in salsa prik, piccante, oggi sono rivolte antigovernative, rabbiose, spesso violente, innescate dalla paura del virus e dal risentimento verso un sistema corrotto che non è riuscito a contenerlo. Altrettanto violenta la reazione della polizia che sempre più spesso fa uso della forza e sembra voler contendere all’esercito il ruolo di gendarme del governo, riappropriandosi del controllo delle strade (con tutti i benefici che ne conseguono).

… e i bachi nei principi della sapienza tradizionale

«La Thailandia sta precipitando in un nuovo caos», ha dichiarato un attivista di Human Rights Watch.

«C’è un certo conforto nella decadenza. È come confrontarsi con la prima nobile verità del Buddha, il dukka, l’inevitabile sofferenza che segna l’esistenza»,

mi aveva detto lo scrittore thailandese Tew Bunnag. Figlio lui stesso dell’ammart, l’élite, che ha ripudiato la sua classe sociale per dedicarsi alla meditazione e all’assistenza ai malati terminali, Bunnag commentava così il suo libro Il viaggio del Naga in cui il serpente gigante della mitologia hindu-buddista simboleggiava la natura che governa i destini umani.

«Vivi nella sensazione di questo sottile equilibrio tra il dukka e il tentativo di cogliere ogni attimo di piacere che ti offre la vita».

Il naga, oggi, sembra incarnarsi nel Coronavirus, ma sembra che la massa della popolazione thai abbia perduto la disperata capacità di cogliere il sanuk, quel piacere che allevia la sofferenza.

La pandemia di Covid-19, insomma, sta facendo crollare quella House of Cards, il castello di carte, che si reggeva sul principio del pii-nong, maggiore-minore, che riguarda l’età, il ruolo familiare, lo status professionale, economico, sociale, culturale, l’esperienza. Un complesso rapporto che era uno degli elementi della khwampenthai, divenuta espressione di un crescente orgoglio nazionale. Per la maggior parte dei locali, che fossero phrai o ammart, membri del popolo o delle élite, uniti in questo come nella passione per il som tam, l’insalata di papaya verde, la salvezza era insita nella loro capacità di rispettare le regole, nei loro rituali, come il wai, il modo di salutarsi giungendo le mani di fronte al volto, che evita ogni contatto.

Gli asiatici, infatti, giustificano ineguaglianze, colpi di stato, restrizioni e violazioni dei diritti umani affermando che per loro non si possono applicare i valori dell’Occidente. Al tempo stesso quegli stessi valori vengono contestati in funzione di una pretesa superiorità morale che deriverebbe dal mantenere immutati i propri valori. È qualcosa che va contro uno dei cardini della logica aristotelica: il principio di non-contraddizione. Ma, ancora una volta, parliamo di una logica occidentale, lineare, ben diversa da quella orientale. Qui vige un principio circolare in cui tutto è o può essere il contrario di tutto.

Il fallimento del minilateralismo

Quello che alcuni osservatori locali hanno definito “minilateralismo” dell’Asean a indicare un modello virtuoso di sviluppo in cui si confrontano gruppi di paesi, si sta rivelando come l’ulteriore limite di un’organizzazione sovrannazionale priva di visione strategica, di quella “centralità” che definisce la capacità di affrontare le sfide esterne al gruppo di nazioni. E come l’Asean si è rivelata del tutto incapace di gestire la crisi politica in Myanmar, ancor meno sembra capace di prendere posizione tra i grandi giocatori che si confrontano nello scacchiere dell’Asia orientale, in particolare nel Mar della Cina meridionale. Quella dell’Asean appare una vera e propria manifestazione di ignavia: i problemi non vengono risolti non tanto per divisioni interne, quanto perché non sono posti o sono rimossi. Ancora una volta si manifesta quel principio che in Thailandia è sintetizzato nell’espressione “mai pen rai”: non pensarci, non preoccuparti. Potrebbe accadere così anche per la ripresa dell’estremismo islamico nell’area – che non ha rinunciato al progetto di un califfato in Sudest asiatico.

Ripiegamento dall’arrembaggio asiatico…

In effetti sta accadendo il contrario di ciò che molti preconizzavano: il “Tramonto dell’Occidente” cui doveva succedere l’alba del “Nuovo secolo asiatico” sembra essersi arrestato al crepuscolo, cui sta seguendo un’improvvisa aurora che illumina l’ovest. Il “Post-Western World” sembra trascorso o comunque si è ristretto entro i confini dell’Impero di Mezzo. Sembra invertito un ordine che aveva assunto le caratteristiche di un processo naturale, quasi genetico, come se l’evoluzione della Repubblica Popolare Cinese si diffondesse in tutta l’Asia per partenogenesi. Un processo di cui facevano vanto soprattutto le nuove tigri asiatiche, le nazioni dell’Asean, del Sudest asiatico. Oggi invece la Cina diventa sempre più inaccessibile: le autorità della provincia dello Yunnan che segna il confine con il Sudest asiatico stanno progettando un muro che li protegga da ondate di profughi.

… e il ripiegamento dall’esotico

Agli occhi di un farang, quell’altrove dove anche le zone d’ombra facevano parte di uno scenario esotico in cui si compiaceva di vivere senza subirne le conseguenze, diviene un teatro della crudeltà dove non può più sottrarsi alla realtà, dove anche lui può divenire una vittima. La prima, più forte reazione a questa presa di coscienza è un desiderio di fuga, di ritorno in patria, con la pretesa di essere accolti come un figliol prodigo. È il preludio alla riconversione, al mea culpa, alla dichiarazione d’appartenenza a un mondo che, pur con tutti i suoi limiti, garantisce i fondamentali diritti umani, si basa su quei valori universali che si era stati tentati di rinnegare per la fatale attrazione degli “Asian Values” che apparivano più efficienti e adatti ad affrontare le sfide del nuovo millennio.

Ancora una volta la dicotomia è il velo alla semplificazione perché l’Asia stessa, i suoi valori cambiano profondamente in funzione geografica, culturale, religiosa, storica: Asia del Sud, centrale, orientale, Sudest asiatico, confucianesimo, buddismo (con le profonde differenze tra il Mahayana e il Theravada), islam, eredità coloniali, ideologia comunista o postmarxista, autocrazia e democrazia entrambe in più varianti del Covid.

Fallimento del policentrismo multipolare

«L’Asia è policentrica, multipolare… In Asia non c’è uniformità in termini di geopolitica e cultura e ognuna di quelle nazioni è un mondo a sé stante».

Lo ha scritto Francis Fukuyama in epoca prepandemica, quando il policentrismo appariva un antidoto alla globalizzazione, una nuova forma evolutiva. Oggi, però, si sta rivelando disfunzionale: la gestione della pandemia si è rivelata tra le peggiori al mondo (almeno secondo il Nikkei Covid-19 Recovery Index), circa 90 milioni di persone sono regredite alla condizione di povertà, la middle class è stata uccisa in culla, l’illiberalismo, l’autocrazia, l’etnonazionalismo e l’integralismo religioso si diffondono col virus. Le nazioni del Sudest asiatico si dimostrano non le nuove tigri bensì anatre zoppe che si dibattono in una palude distopica.

Resistenza confuciana?

In questo scenario apocalittico sembrano “salvarsi” solo Vietnam e Singapore, entrambi accomunati dalla comune radice confuciana. In Vietnam, che pure sta subendo una nuova e grave ondata del Covid, il controllo esercitato dal Partito, una classe dirigente più preparata e una lunghissima esperienza delle emergenze hanno contenuto il contagio e la crisi economica. Singapore, sempre più lanciata nella sua corsa verso la realizzazione di un’utopica Elysium, sta procedendo dalla pandemia all’endemia, ossia alla coesistenza col virus tenuto sotto controllo dai vaccini, dalle nuove terapie e da forme di rilevazione rapida del virus come l’analizzatore del respiro. Sono soprattutto questi modelli che hanno creato in molti occidentali l’illusione che tutto il Sudest asiatico potesse rappresentare un’alternativa politica ed esistenziale. Un equivoco, dunque, all’interno di un inganno.

Resilienza occidentalista?

In questa prospettiva culturale bisognerebbe ripensare a tutte le criticità europee rivalutando un sistema che si sta rivelando davvero resiliente. Tanto per usare in modo adeguato un termine abusato. Nel confronto con le nazioni dell’Asean si può comprendere e apprezzare il vero senso della libertà di cui godiamo. Proprio nei beni immateriali – quali la governance, l’innovazione, lo stato di diritto, il welfare, la cultura della libertà di pensiero e d’espressione – l’Europa può riaffermare il suo ruolo, definire un modello culturale. A condizione che ne abbia coscienza e capacità di affermarlo.

«Senza memoria, non vi è identità. E senza identità, siamo solo polvere sulla superficie dell’infinito», ha detto Jonathan Sacks, leader ecumenico, filosofo. Che avvertiva: «Le civiltà cominciano a morire quando perdono la passione morale che li ha portati a esistere».

  


Il pezzo che abbiamo proposto qui è un aggiornamento e un approfondimento operati dall’autore dopo la pubblicazione di un articolo che Massimo Morello stesso aveva scritto per “Il Foglio” uscito il 29 luglio 2021. Come già nella raffinata operazione iconografica operata da Roland Barthes – le due fotografie che corredavano L’Impero dei segni e riproducevano il ritratto di un medesimo giapponese con lievi, ma sostanziali differenze tra il volto nel primo frontespizio della prima illustrazione e la sua versione modificata al fondo del libro – qui si possono confrontare le due versioni e si noterà un’accresciuta amarezza orrifica proveniente sia dalle testimonianze aggiunte, sia dai nuovi dati sulla pandemia e il montaggio diverso nei due pezzi di argomenti simili e dati aggiornati restituisce moltiplicata la delusione dell’orientalista, il travaglio di una società che sembra fornire solo formule contraddittorie e regressive…

L’Oriente a pezzi

 

L'articolo Asean tra decimazione pandemica e decrescita tradizionalista proviene da OGzero.

]]>
La politica estera europea guarda a Oriente https://ogzero.org/la-politica-estera-europea-guarda-a-oriente/ Wed, 14 Oct 2020 19:58:13 +0000 http://ogzero.org/?p=1516 Quando il presidente cinese Xi Jinping visitò Berlino nel marzo 2014, Angela Merkel lo omaggiò di una ristampa tedesca della mappa realizzata dal cartografo francese Jean-Baptiste Bourguignon d’Anville nel 1735 sulla base del precedente lavoro dei gesuiti francesi che, durante il regno dell’imperatore Kangxi dei Qing (1661-1722), furono incaricati di mappare per la prima volta […]

L'articolo La politica estera europea guarda a Oriente proviene da OGzero.

]]>
Quando il presidente cinese Xi Jinping visitò Berlino nel marzo 2014, Angela Merkel lo omaggiò di una ristampa tedesca della mappa realizzata dal cartografo francese Jean-Baptiste Bourguignon d’Anville nel 1735 sulla base del precedente lavoro dei gesuiti francesi che, durante il regno dell’imperatore Kangxi dei Qing (1661-1722), furono incaricati di mappare per la prima volta con criteri scientifici l’estensione territoriale del Celeste Impero.

Il pennuto di D’Anville senza coda né zampe

A quasi tre secoli di distanza, il valore storico della Carte générale de la Chine Dressée sur les Cartes particulières que l’Empereur Cang-hi a fait lever sur les lieux par les Jésuites missionaires dans cet Empire assume sfumature geopolitiche. Anziché un gallo, la Cina di d’Anville è un pennuto senza coda né zampe: le parti mancanti corrispondono, a nordovest, alle attuali regioni autonome del Xinjiang e del Tibet e, a sudest, al Mar Cinese Meridionale, teatro di schermaglie territoriali tra il gigante asiatico e i vicini rivieraschi. Un colore diverso definisce implicitamente le isole di Taiwan e Hainan come realtà distinte.

Rotte commerciali marittime “libere e sicure”

Durante quello stesso incontro, la cancelliera tedesca, citando il “diritto internazionale”, invitò la Cina «a risolvere le dispute territoriali» nelle «corti multinazionali» al fine di «mantenere le rotte commerciali marittime libere e sicure». Chiaro riferimento alla sentenza con cui nel 2016 il Tribunale internazionale dell’Aja contestò i diritti storici rivendicati da Pechino nel Mar Cinese Meridionale, accogliendo la richiesta delle Filippine.

Gli ammonimenti della Merkel sono stati codificati all’inizio di settembre, quando la Germania ha annunciato ufficialmente le nuove linee guida per la politica estera nell’Indo-Pacifico, concetto inaugurato negli anni Venti proprio da un tedesco – il geografo Karl Ernst Haushofer – ripreso nel 2007 dall’ex premier giapponese Shinzo Abe, e rilanciato dieci anni più tardi dall’amministrazione Trump.

L’Indo-Pacifico è un concetto politico variabile

In termini puramente geografici, per Indo-Pacifico si intende una regione biogeografica oceanica che comprende le zone tropicali e subtropicali dell’oceano Indiano e della parte occidentale dell’oceano Pacifico a est, fino alle Hawaii e all’Isola di Pasqua. Ma la sua interpretazione politica cambia da paese a paese. Per Washington, parlare di Indo-Pacifico serve a ridimensionare il ruolo della Cina e della Belt and Road per dare maggiore centralità agli alleati regionali – Australia, Giappone e soprattutto India – in materia di sicurezza e scambi commerciali, con malcelate finalità protezionistiche. E per Berlino? Sfogliando il corposo fascicolo (quasi settanta pagine), si nota l’intenzione di «rafforzare lo stato di diritto e i diritti umani» ma anche e soprattutto l’impegno a «evitare la dipendenza unilaterale [dalla Cina] diversificando le partnership».

L’Europa volge lo sguardo a Oriente, specialmente la Germania

Riconoscendo il valore economico e geopolitico dell’Indo-Pacifico – dove ha sede il 60% della popolazione e un terzo del commercio mondiale – la Germania sfrutta il riposizionamento nel quadrante per rilanciare il multilateralismo e il libero scambio, invocando un dialogo europeo con la NATO e gli attori regionali: Giappone, Corea del Sud, India (citata ben 57 volte) ma anche l’ASEAN, l’organizzazione politica, economica e culturale che riunisce 10 nazioni del Sudest asiatico. La sigla comprende i principali avversari di Pechino nel Mar Cinese Meridionale: Vietnam, Malaysia, Brunei, Filippine e Indonesia. Come sottolinea l’Associazione Italia-ASEAN, è una visione che la Germania punta a trasmettere a livello comunitario, come traspare dal Trio Program formulato dalla presidenza del Consiglio dell’Unione europea, che Berlino lascerà il 31 dicembre al Portogallo e in seguito alla Slovenia.

Mentre le linee guida tedesche segnano un ritorno della prima economia europea tra le Gestaltungsmächten (le “shaping powers” ) – dopo il ridimensionamento militare cominciato alla fine della Guerra Fredda – e un avanzamento in Asia – dopo le distrazioni russe nell’Europa orientale – la Germania non è l’unico paese del Vecchio Continente ad aver voltato lo sguardo a Oriente. Nel 2019, la Francia ha riconosciuto ufficialmente l’importanza della regione con la pubblicazione di un documento programmatico che ne esalta la centralità economica, il peso demografico e la ricchezza di risorse naturali ed energetiche. Anche Parigi parla di “libero commercio”, “multilateralismo” e di un “ordine multipolare”. Ma la svolta indo-pacifica della Germania ha un valore simbolico inedito trattandosi del primo paese “extra-regionale” ad aver formulato una propria strategia, laddove gli interessi francesi sono sostenuti da una presenza fisica massiva.

Come ricorda il documento fin dalle prime righe alludendo ai possedimenti d’oltremare, «il 93% della zona economica esclusiva (ZEE) [della Francia] si trova nell’Oceano Indiano e nel Pacifico, un’area che ospita 1,5 milioni di cittadini francesi e 8000 soldati». La conferma della sovranità sulla Nuova Caledonia – dove è presente la più importante base militare francese del Pacifico – consolida la presa tentacolare di Parigi nella regione, fugando i timori di quanti temevano che un divorzio dalla madrepatria avrebbe lasciato l’arcipelago ricco di nickel in balia della Cina. Mentre l’Indo-Pacific Defense Startegy auspica a chiare lettere maggiori sinergie con Stati Uniti, Giappone, Australia e India, si moltiplicano i segni di un maggior coordinamento anche sul versante europeo.

Francia e Gran Bretagna nel Mar Cinese Meridionale: l’unione fa la forza

Nell’aprile 2017, la missione francese Jeanne d’Arc ha guidato attraverso il Mar Cinese Meridionale una spedizione composta da 52 membri della Royal Navy britannica, 12 ufficiali di varie nazionalità europee e un funzionario UE.  «Visione e valori condivisi» rendono la Gran Bretagna un partner naturale di Parigi. In futuro lo sarà sempre di più. Secondo gli esperti, la minaccia di un no deal con l’Unione europea spingerà gli interessi di Londra anche più a Est. In fondo, si tratterebbe di resuscitare quanto seminato in cinque secoli di colonialismo britannico. Ma il governo di Boris Johnson non sembra volersi fermare qui. L’avvio di trattative per una possibile adesione alla Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership – l’ex TPP da cui l’America di Trump si è sfilata nel 2017 – ha coinciso con l’emergere di indiscrezioni sulla presunta decisione di inviare, per la prima volta, una delle due portaerei britanniche nella regione. Verosimilmente anche nel Mar Cinese Meridionale. Certo, un maggiore dinamismo economico richiede maggiore stabilità e sicurezza. Ma non giova che l’attivismo militare di Londra giunga proprio mentre Hong Kong e il 5G attentano alla longevità dei rapporti con Pechino. Per contenere lo strappo, le potenze europee paiono aver adottato una vecchia tecnica: in Cina si dice «yī gēn kuàizi róngyì zhé, yī bǎ kuàizi nán zhéduàn». Da noi, semplicemente, «l’unione fa la forza».

Questa non è una Zee

Poco dopo l’annuncio delle linee guida tedesche, nel mese di settembre Germania, Francia e Gran Bretagna hanno rilasciato un comunicato congiunto per denunciare le operazioni dell’Esercito popolare di liberazione nel Mar cinese meridionale. La nota, presentata alle Nazioni Unite, fa eco alle rimostranze di Malaysia, Australia, Indonesia, Vietnam e Filippine, sottolineando «l’importanza di un esercizio senza ostacoli della libertà in alto mare, in particolare la libertà di navigazione e di sorvolo, nonché del diritto di passaggio». Rievocando la sentenza del 2016, i tre paesi hanno anche sottolineato che «i diritti storici – rivendicati da Pechino – non sono conformi al diritto internazionale» e che le isole contese – in quanto artificiali – non generano una zona economica esclusiva, l’area adiacente le acque territoriali, in cui uno stato costiero ha diritti sovrani per la gestione delle risorse naturali, giurisdizione in materia di installazione e uso di strutture artificiali o fisse, ricerca scientifica, protezione e conservazione dell’ambiente marino. Nello specifico, Parigi, Berlino e Londra contestano che le Paracelso costituiscano un arcipelago ai fini della tracciabilità delle cosiddette “linee di base diritte”, metodo utilizzato quando la costa è profondamente incavata e frastagliata per misurare la larghezza del mare territoriale. La questione non è nuova. Nel 2018 il Regno Unito aveva già espresso la propria contrarietà passando entro le 12 miglia nautiche dagli isolotti. Ma è la prima volta che Germania e Francia assumono una posizione chiara a riguardo. Quella dell’Unione europea, invece, continua a esserlo molto meno.

La “neutralità” di Bruxelles…

Come articolato nella EU Global Strategy del 2016, la politica estera di Bruxelles tiene fede a un mix di “pragmatismo” e “Realpolitik con caratteristiche europee”. Una formula che permette al blocco di vendere armi ai paesi ASEAN e, contemporaneamente, rifornire Pechino di “tecnologia dual-use”. Quanto ai contenziosi territoriali, Bruxelles si definisce “neutrale”; invoca la necessità di trovare soluzioni pacifiche all’interno di una cornice normativa condivisa. Si appella alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) – pilastro della EU Maritime Security Strategy – e auspica l’introduzione di un Codice di condotta (Coc) tra le parti. Ma delega ai singoli paesi membri l’onere di «sostenere la libera navigazione» e «combattere le attività illecite». Come per altri dossier, anche nel Mar Cinese Meridionale la mancanza di coesione interna ostacola la formulazione di una risposta concertata, specie quando in gioco ci sono gli interessi economici con il gigante asiatico. Un esempio? La risoluzione UE sull’arbitrato dell’Aja, edulcorata in seguito alle pressioni di Grecia, Ungheria, Slovenia e Croazia. A ciò si aggiunge la necessità di mantenere una delicata equidistanza tra la Cina, primo partner commerciale UE, e gli Stati Uniti, principale alleato militare. Un’impresa sempre più difficile.

… che si avvicina a Taiwan

Ammiccando a Bruxelles, Angela Merkel lo ha detto chiaramente: «la nostra prosperità e la nostra influenza geopolitica degli anni a venire dipenderanno da come collaboreremo con l’Indo-Pacifico». Non solo la regione conta per oltre un terzo degli scambi tra il blocco e i paesi extraeuropei. Davanti a Covid e al rischio di un “decoupling”, questa parte di mondo assumerà anche maggiore rilevanza nell’ottica di una crescente diversificazione della catena di approvvigionamento. In tempi recenti, l’interesse di Bruxelles per il quadrante si è esplicitato in un inedito avvicinamento a Taiwan, l’isola che Pechino considera una “provincia ribelle” da riannettere ai propri territori. Circa una quindicina di nazioni europee – comprese Germania, Francia e Italia – hanno recentemente partecipato per la prima volta a un forum sugli investimenti organizzato dall’European Economic and Trade Office, l’“ambasciata” UE a Taipei. Come auspicato dalla presidente taiwanese Tsai Ing-wen, la nuova piattaforma introduce la possibilità che in futuro il dialogo confluisca nella firma di un trattato bilaterale sugli investimenti all’insegna dell’«apertura, della trasparenza e dell’imparzialità». Tutti qualità per le quali la Cina non eccelle.

L'articolo La politica estera europea guarda a Oriente proviene da OGzero.

]]>