Amnesty International Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/amnesty-international/ geopolitica etc Thu, 25 Aug 2022 10:18:17 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 n. 18 – Tra monti e boschi alpini. La frontiera che uccide (I) https://ogzero.org/la-frontiera-che-uccide-tra-monti-e-boschi-alpini/ Wed, 16 Mar 2022 12:40:27 +0000 https://ogzero.org/?p=6761 Movimenti secondari dei flussi migratori si riscontrano, oltre che tra Francia e Inghilterra, anche in prossimità dei confini italo-francesi, più specificatamente in Alta Val di Susa e a Ventimiglia. Nella frontiera Nordovest dell’Italia con la Francia si registra un’importante corrente migratoria che ogni anno nell’ultimo triennio ha visto il transito di circa 100.000 persone e […]

L'articolo n. 18 – Tra monti e boschi alpini. La frontiera che uccide (I) proviene da OGzero.

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Movimenti secondari dei flussi migratori si riscontrano, oltre che tra Francia e Inghilterra, anche in prossimità dei confini italo-francesi, più specificatamente in Alta Val di Susa e a Ventimiglia. Nella frontiera Nordovest dell’Italia con la Francia si registra un’importante corrente migratoria che ogni anno nell’ultimo triennio ha visto il transito di circa 100.000 persone e che si intensifica proprio in questo periodo dell’anno quando le temperature cominciano a essere meno rigide. All’atmosfera turistica incantata di chi ama sciare si sostituisce a partire dal tardo pomeriggio e per tutta la notte, la contrapposta quotidiana sofferenza e la fatica di migliaia di migranti – soprattutto famiglie – che percorrono gli stessi luoghi a piedi, sfiancati da temperature che in inverno toccano circa i 15 gradi sotto lo zero; privi d’equipaggiamento da montagna con abiti logori e indossati da giorni se non da mesi. Fabiana Triburgo e Matthias Canapini uniscono le loro competenze e i loro materiali in questo articolo, corredato dalle testimonianze raccolte da Matthias nella sua esperienza lungo il confine italo-francese.


 The Milky Way, per pochi

È il tentativo disperato di chi prova a raggiungere la Francia attraverso le località sciistiche italiane per evitare di essere intercettato e rimandato indietro dalla polizia italiana e francese. I due stati infatti, anche in questo caso – come già visto nei precedenti articoli riguardanti le attuali rotte migratorie – nel 1997 hanno siglato un importante accordo di cooperazione bilaterale, l’accordo di Chambery, sul quale ci soffermeremo in seguito, al fine di agevolare le riammissioni dalla Francia all’Italia. I migranti che attraversano tale rotta sono prevalentemente afgani, iraniani, pachistani e in piccola percentuale migranti provenienti dall’Africa subsahariana e arrivano, nella quasi totalità dei casi, dalla rotta balcanica: questo vuol dire che prima di raggiungere l’Alta Val di Susa i migranti possono aver attraversato circa otto diverse nazioni quasi esclusivamente a piedi.


Luigi D’Alife, regista di The Milky Way, lavoro che documenta e racconta
il passaggio della rotta migrante dalla Valsusa; Luigi ha fornito preziose
informazioni per l’estensione di questo saggio.

Spesso gli stessi nuclei familiari dei profughi si sono generati durante il transito di tali paesi essendo il loro precedente viaggio durato – nella migliore dell’ipotesi – almeno quattro anni, come narrano le testimonianze e le immagini del freelance Matthias Canapini che pubblichiamo in questo articolo.

Il principale snodo della cosiddetta “rotta alpina” si individua nella città di Oulx in provincia di Torino – raggiunta dai migranti per lo più con il treno – dalla quale poi si sviluppa un ulteriore bivio di transito per raggiungere la città francese di Briançon dalla quale dista circa 30 km. I profughi, infatti, dalla città di Oulx si dirigono a piedi o verso Bardonecchia, per poi attraversare il traforo del Frejus con filobus o con il treno – soprattutto quanti possiedono documenti di riconoscimento – oppure si dirigono verso Claviere sempre in provincia di Torino, a oggi il tratto maggiormente praticato dai migranti su tale rotta – per poi attraversare il Colle del Monginevro. Se dunque la destinazione di entrambi i percorsi è la città di Briançon è altrettanto vero che anche questa non è altro che una prima tappa, pur se finalmente in territorio francese, per raggiungere principalmente Lione o Calais con l’obiettivo rispetto a quest’ultima (come già riscontrato) di raggiungere la Gran Bretagna.

La casa cantoniera occupata e sgomberata più volte dagli sbirri italiani

Chez JesOulx era la casa cantoniera occupata (e poi sgomberata) dopo che l’accoglienza del rifugio autogestito era stata scacciata dai locali della curia occupata nel comune di Oulx

Va specificato che solo una parte dei migranti che transitano per Oulx ha come fine ultimo quello di stabilirsi in Francia perché nella maggior parte dei casi la meta finale è la Germania nella quale vivono stabilmente molti dei familiari dei profughi da diversi anni.

Il Colle dell’Agnello

Non è tuttavia da ignorare un altro percorso quello del Colle dell’Agnello, poco battuto per la sua elevata impraticabilità, ma in prossimità del quale le intercettazioni da parte della polizia francese, data proprio l’ostilità del territorio, sono molto sporadiche. La rotta nasce ufficialmente nel 2017, due anni dopo quella, sempre al confine italo-francese, che interessa la città di Ventimiglia. In realtà già nel 2016 alcuni migranti erano stati intercettati in prossimità del monte Chaberton in Francia e scambiati per turisti. Se dunque la rotta si delinea nel 2017 e nel 2018 raggiunge il suo apice – quando si “apre” la rotta balcanica e anche attraverso Trieste si arriva in Italia – in essa è altrettanto importante delineare una rilevante mutazione del suo originario tratto di percorrenza che a oggi non segue più l’originario pericoloso percorso di montagna del Colle della Scala (in prossimità della città di Bardonecchia) – in quanto soggetto a slavine e interamente  in salita – ma, come già detto, quello del Colle del Monginevro.

Rifugi e marauders

Nella rotta vi sono a ogni modo due importanti centri di accoglienza per i migranti in transito: nella città di Oulx il rifugio Fraternità Massi – Talita’ Kum aperto dalle 16 alle 10 del mattino con a disposizione circa 40 posti, e a Briançon, il Refuge Solidaire, rispetto al quale più volte è stato richiesto dalla municipalità lo sgombero. Invece è chiusa la casa cantoniera abbandonata e autogestita da volontari sempre nella città di Oulx che ospitava dai 30 agli 80 profughi al giorno e che da settembre a dicembre del 2020 ha accolto 3500 persone. Interessante capire come sia nato il Refuge Solidaire essendo il presente articolo immediatamente successivo a quello relativo alla rotta della Manica. I primi interventi di accoglienza dei migranti a Briançon sono infatti stati attivati nel 2015 proprio per i migranti di Calais quando il governo francese chiese alle altre città del paese di farsi carico della accoglienza in seguito allo smantellamento della Jungle. A Briançon quindi fino al 2017 stazionavano pochi profughi provenienti da Calais ma nello stesso anno con lo strutturarsi della rotta alpina nasce il Refuge Solidaire grazie anche all’intervento di Médicins du Monde che ancora oggi opera in loco insieme ad altre associazioni tra cui Rainbow for Africa. L’attività che si affianca all’accoglienza del Refuge Solidaire e che non può essere ignorata è quella svolta dai marauders: circa 200 volontari provenienti da tutta Europa che quotidianamente si occupano di prestare soccorso ai migranti che si perdono nei sentieri in montagna o riportano ferite gravi agli arti in seguito a cadute dovute al territorio impervio e che chiaramente non consentono loro di proseguire il viaggio rimanendo intrappolati nella rotta. Spesso i marauders, agevolando il transito dei migranti e soccorrendoli, sono sottoposti a comportamenti vessatori subendo multe, accuse e convocazioni a comparire davanti alle autorità francesi.

la frontiera che uccide

Claviere, protesta per Blessing, la giovane donna scomparsa dal 7 maggio nelle acque del fiume (foto Matthias Canapini).

Occorre, inoltre segnalare il lavoro della rete del progetto Cafi “Coordination d’actions aux frontièrs intérieures”, del quale fa parte anche Amnesty International e Médecin Sans Frontieres che da diversi anni svolge attività di osservatorio quotidiano permanente sul rispetto dei diritti dei migranti alle frontiere interne all’Unione in questo caso specifico in prossimità degli snodi Oulx-Monginevro-Briançon.

Accordi Italia-Francia

Tale attività risulta particolarmente importante perché documenta i respingimenti ossia il “Refus d’entrée” che viene notificato ai profughi dalla polizia francese (Paf) alla frontiera, sotto la direzione del ministero degli Interni. Risulta necessario quindi procedere all’analisi giuridica relativa ai motivi che sottendono alla cooperazione delle forze di polizia dei due paesi alla frontiera, alla militarizzazione della frontiera francese e alla sospensione dell’applicazione di alcuni articoli del Codice frontiere Shenghen – ossia del regolamento 2016/399 da parte della Francia. Come già accennato l’Italia e la Francia il 3 ottobre del 1997 hanno concluso l’Accordo bilaterale di Chambery, al fine di intensificare la cooperazione degli uffici di polizia e di dogana nelle rispettive zone di frontiera, garantendo comunque la libertà di circolazione sancita dal Codice Shengen ma non certamente per i cittadini dei paesi terzi anche nelle ipotesi in cui siano dotati di documenti.

Tale principio invece – è bene ricordarlo – ha valenza tanto per i cittadini europei che per i cittadini di paesi terzi dell’Unione ma comunque presenti sul territorio europeo.

Conformemente a tale intento sia da parte italiana che da quella francese sono stati costituiti dei Centri comuni di Cooperazione di polizia di frontiera e di dogana che realizzano la propria attività di diretta collaborazione mediante appositi uffici dislocati in prossimità dei luoghi di frontiera tra i due paesi e all’interno dei quali può essere chiesto da ciascuno dei due stati contraenti, l’ausilio delle forze di polizia dell’altro paese sul proprio territorio. È importante fin da subito precisare che la creazione di tali Centri di Cooperazione è prevista nel testo dell’accordo in due luoghi specifici: nella città di Ventimiglia e nella città francese di Modane vicina allo snodo migratorio proveniente da Bardonecchia.

Migranti risalgono i boschi al confine tra Francia e Italia (foto Matthias Canapini)

Uno dei punti maggiormente preoccupante del presente accordo è quello “nascosto” in modo subdolo nella lettera a) dell’art. 8

ossia che nei Centri di Cooperazione gli agenti di polizia di entrambi i paesi si impegnano «al compimento degli atti precari e alla consegna delle persone in situazione irregolare nel rispetto degli accordi vigenti». È evidente infatti come in questo passaggio si possa scorgere il “fondamento giuridico” (?!) sulla base del quale i due stati realizzano le cosiddette riammissioni con respingimenti dei migranti dalla Francia all’Italia che come noto si determinano a catena fino al confinamento dei migranti in stati terzi dell’Unione. Come al solito dietro l’enunciato «situazione irregolare» si è consapevoli che si nasconda la posizione dei richiedenti asilo che sono irregolari per definizione dovendo essere messi nella condizione – in base alle Convenzioni Internazionali come quella di Ginevra – di poter fare ingresso nel paese di destinazione per formalizzare la domanda di protezione internazionale mediante la quale quindi possono eventualmente ottenere un permesso che sancirebbe la propria regolarità di soggiorno, in questo caso uno stato membro dell’Unione. Come evidente, tale accordo riproduce quello che già è stato analizzato per l’accordo di cooperazione franco-britannico di Le Touquet in relazione alla rotta della Manica: anche in questo caso infatti si sancisce che la vigenza dell’accordo debba considerarsi a tempo indeterminato.

Controllo e sicurezza (!?)

L’art. 10 dell’Accordo di Chambery inoltre specifica che per la Repubblica Italiana sono considerate zone di frontiera le province di Aosta, Cuneo, Imperia e Torino mentre per la Repubblica francese le Alpi Marittime, dell’Alta Provenza, le Alpi Alte, quella della Savoia e dell’Alta Savoia. Ciò che è altrettanto destabilizzante è il binomio continuo nel testo tra le frasi “controllo delle frontiere” da parte delle due forze di Polizia e il termine “sicurezza”, come al solito. Non solo, nell’art. 8 lettera c) dell’Accordo di Chambery si fa puntualmente riferimento al «coordinamento delle misure congiunte di sorveglianza nelle rispettive zone di frontiera»: un enunciato che inevitabilmente si pone in contrasto con il Codice delle frontiere Shengen.

la frontiera che uccide

Claviere, posto di controllo della polizia italiana (foto Matthias Canapini).

Le frontiere interne infatti sono disciplinate al Titolo III – Capitolo I del Codice Shengen che secondo l’art. 22 «possono essere attraversate in qualsiasi punto senza che sia effettuata una verifica di frontiera sulle persone indipendentemente dalla loro nazionalità». Infatti, l’esercizio dei poteri di polizia da parte delle autorità competenti degli stati membri non viene considerato equivalente all’esercizio dei controlli di frontiera, solo ad alcune condizioni in particolare per esempio se «sono concepiti ed eseguiti in modo chiaramente distinto dai controlli sistematici sulle persone alle frontiere esterne» secondo l’art. 23 (iii). Nello specifico la reintroduzione temporanea del controllo di frontiera alle frontiere interne è disciplinata dagli artt. 25-35 contenuti nel Titolo III, Capitolo II del Codice Shengen. La Francia dal 2015 si è appellata alle «gravi minacce alla sicurezza interna» – citate nell’art. 25 – che hanno consentito il ripristino temporaneo dei controlli alle frontiere interne, dopo l’attentato terroristico al Bataclan nel 2015, e in seguito nel 2017 per lo choc di quello sulla Promenade des Anglais di Nizza e da ultimo per la diffusione del virus da Covid-19. Tuttavia, il Codice Shengen sancisce chiaramente all’art. 25, paragrafi 1, 2, 3, 4 che i controlli relativi alla libertà di movimento delle persone all’interno del territorio dell’Unione, debbano essere considerati un’extrema ratio ossia aventi caratteri di eccezionalità e pertanto devono essere attuati per un periodo iniziale di trenta giorni o della durata della minaccia, rinnovabile – «tenuto conto di eventuali novità» – per periodi di ulteriori 30 giorni ma per un periodo complessivo non superiore ai 6 mesi. Solo in circostanze di eccezionale gravità caratterizzate da una procedura specifica di cui all’art. 29 del Codice Shengen il ripristino dei controlli alle frontiere può arrivare a due anni. Tuttavia, come detto, la Francia ha ripristinato il controllo alle frontiere interne in particolare per quel che ci riguarda al confine italo-francese, da oltre 6 anni! È bene ricordare inoltre che l’adozione da parte di uno stato membro del ripristino del controllo alle frontiere interne debba essere notificato ai sensi dell’art. 27 del Codice Shengen agli altri stati membri e alla Commissione UE.

Tuttavia, come noto anche per altre questioni in ambito migratorio non solo le cattive prassi adottate superano le disposizioni legislative europee (e i trattati internazionali) senza che vi sia alcun richiamo di un organo istituzionale ufficiale dell’Unione al rispetto delle medesime, ma costituiscono addirittura “fonte di ispirazione” per nuove proposte di legislazione europea da parte della Commissione che hanno come obiettivo quello di rendere legittimo ciò che oggi è ancora illegittimo in modo da potere aggirare gli ostacoli dei ricorsi giurisdizionali dinanzi alle corti competenti.

Tutto ciò purtroppo è già realtà, considerato non solo il più volte citato nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, ma anche lo stesso Codice Shengen, dato che a dicembre del 2021 la Commissione Europea ha presentato una proposta di riforma del medesimo, adeguandosi alle pratiche illegittime (e se possibile, anche peggiorandole) adottate dagli stati membri per contrastare i flussi migratori attraverso i controlli ai confini.

la frontiera che uccide

«La frontiera uccide» (foto Matthias Canapini).

L’appello per la modifica delle politiche migratorie

Dell’analisi di tale proposta di riforma ci si soffermerà nel successivo articolo sulla rotta migratoria al confine italo-francese con la città di Ventimiglia; tuttavia va precisato che il fine di tali analisi giuridiche è soprattutto quello di non dimenticare le tragiche morti riportate anche su questa rotta come quella di Ullah Rezwan Sheyzad un ragazzo afghano di 15 anni trovato morto nei pressi dei binari della ferrovia di Oulx nel giugno del 2021 e di Fathallah Balafhail  un marocchino di 31 anni trovato senza vita non lontano da Modane, entrambi mentre tentavano di raggiungere Briançon.  La speranza è che la cieca politica della Commissione e degli stati membri non sia più complice di tali accadimenti: è necessario pertanto ribadire l’appello di diverse associazioni tra le quali AsgiMédicins du MondeDiaconia Valdese e Melting Pot Europa rivolto alle autorità italiane e francesi per la modifica delle politiche relative alla gestione delle frontiere interne e alle autorità locali dei due paesi affinché rispondano alle esigenze e ai bisogni dei migranti che transitano lungo i loro confini.

L'articolo n. 18 – Tra monti e boschi alpini. La frontiera che uccide (I) proviene da OGzero.

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n. 14 – Oi Barbaroi, gli schiavi della rotta dell’Egeo https://ogzero.org/gli-schiavi-della-rotta-dellegeo/ Mon, 18 Oct 2021 11:29:13 +0000 https://ogzero.org/?p=5174 Il Mediterraneo orientale rappresenta un braccio di mare in cui si sedimentano conflitti, interessi, estrazioni e alleanze variabili che affondano nei secoli. Sulla omerica lotta tra Ellade e Anatolia si innesca il flusso migratorio che vede la Turchia snodo essenziale e uso strumentale del singolo migrante.  Fabiana Triburgo di nuovo qui ha l’occasione di delineare […]

L'articolo n. 14 – Oi Barbaroi, gli schiavi della rotta dell’Egeo proviene da OGzero.

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Il Mediterraneo orientale rappresenta un braccio di mare in cui si sedimentano conflitti, interessi, estrazioni e alleanze variabili che affondano nei secoli. Sulla omerica lotta tra Ellade e Anatolia si innesca il flusso migratorio che vede la Turchia snodo essenziale e uso strumentale del singolo migrante. 

Fabiana Triburgo di nuovo qui ha l’occasione di delineare gli errori strategici sostanziali dell’Unione, che sfociano in una vera e propria violazione dei diritti umani, questa volta s’evidenzia l’intolleranza delle frange razziste interne all’Unione europea, che in Grecia sono radicate ancora di più dopo la grave crisi che l’inflessibilità di alcuni paesi ha impoverito pesantemente, rinfocolando in parte della società una sorta di sovranismo revanchista che sfocia nel razzismo.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


I profughi sono l’unica merce di scambio…

«La Grecia non sarà la porta d’Europa». Questa la dichiarazione del governo greco in merito alla crisi umanitaria afgana in seguito alla presa del potere da parte dei talebani ad agosto di quest’anno. La manifestazione di intenti dell’esecutivo greco certamente non sorprende, considerate le gravissime violazioni del diritto d’asilo, perpetrate da oltre cinque anni lungo la rotta dell’Egeo che rendono davvero difficile per i migranti immaginare la Grecia come un paese di destinazione, non a caso definito dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen “scudo d’Europa”.

La Grecia più che un paese di destinazione è un paese di “sospensione” in primo luogo dei diritti

Attualmente nella rotta dell’Egeo sono bloccate oltre 6000 persone da diversi anni, 4000 delle quali nei centri di accoglienza. Ad ogni modo occorre ricordare che al momento la nazionalità afgana è quella maggiormente presente – circa il 63 % – all’interno dei campi stanziati nel territorio greco.

Profughi afgani

L’articolo di Elena Kaniadakis è apparso su “il manifesto” del 14 settembre 2021.

… soggetta a muri: gabbie per contenerli, frontiere naturali rese invalicabili

Le conseguenze di tale posizione politica non si sono fatte attendere: con prontezza il governo greco lo scorso agosto ha completato la costruzione di un muro di 40 chilometri al confine con la Turchia, in prossimità del confine terrestre di 200 chilometri tra i due paesi, lungo le rive del fiume Evros/Meric, ostacolando in tale modo qualunque accesso terrestre alla rotta balcanica.

A ciò si aggiunge il recente quanto allarmante fenomeno della creazione di 5 hotspot “di ultima generazione” in ciascuna delle isole greche posizionate nell’Egeo:

rispettivamente oltre a Samos, anche a Lesbo – il più grande “campo profughi” d’Europa: Moria – nonché a Levos, Chios e Kos, grazie agli ingenti finanziamenti dell’Unione europea – circa 250 milioni di euro – predisposti per il raggiungimento di tale obiettivo.

Restrizione

Tali politiche rimandano immediatamente alla restrizione geografica nelle isole greche che nel 2015 venne imposta ai migranti che volevano recarsi a chiedere asilo nella Grecia continentale. Ciò avvenne, come detto, in conseguenza dell’aumento del flusso migratorio dovuto prevalentemente allo scoppio della guerra in Siria e della perdurante instabilità in Afghanistan, in Iraq e in Pakistan.

gli schiavi della rotta dell'Egeo

Egeo, Turchia, gennaio 2016: migranti siriani cercano di raggiungere la Grecia per poi rifugiarsi in Centro Europa (foto di beforesunset/Shutterstock).

È proprio in tale contesto infatti che cominciò – seguendo i propositi dell’Agenda europea sulla migrazione in quell’anno – la creazione da parte della Commissione europea di centri di identificazione ed espulsione extraterritoriali rispetto al continente europeo, i cosiddetti hotspot appunto, con contestuale impossibilità per i migranti di presentare le domande d’asilo, pratica che sappiamo poi essere degenerata nel fenomeno – oggi sistematico – dell’esternalizzazione delle frontiere dell’Unione europea. Nei documenti identificativi dei migranti arrivati in Grecia comincia quindi ad apparire la dizione “Restrizione nell’isola di…”. La situazione oggi è ulteriormente peggiorata: con l’International Protection Act, adottato dalla Grecia e modificato più volte, dal 2021 non è più prevista la possibilità di revoca del provvedimento sulla restrizione geografica alle isole greche per quanti, secondo l’ordinamento giuridico greco, vengono considerati vulnerabili – in particolare i minori stranieri non accompagnati e le donne incinte – con la conseguente impossibilità a presentare la domanda d’asilo e a risiedere nella Grecia continentale.

La concessione della revoca della restrizione geografica al momento opera infatti soltanto nei confronti di chi non può ricevere cure mediche adeguate in una delle isole dell’Egeo e se tale condizione sia dimostrabile con una comprovata certificazione di un ospedale pubblico greco.

Detenzione

Il primo di questi “moderni” centri di accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati è stato inaugurato il 18 settembre scorso nell’isola di Samos, il cosiddetto campo di Zervos, finanziato dall’Ue con 38 milioni di euro: il centro possiede campi da basket, aria condizionata, cucina accessoriata, adeguati servizi igienici ma, al tempo stesso, si contraddistingue per essere dotato di telecamere di sicurezza, scanner a raggi x – utilizzati per identificare i migranti – tornelli in ingresso e in uscita con orari limitati, porte magnetiche. Non solo, il campo è costantemente pattugliato dagli agenti di polizia greca, circondato da un filo spinato disposto intorno a uno spazio di circa 12.000 chilometri quadrati, posizionato in una valle desolata dell’isola lontano dai centri abitati – proprio come il nuovo campo di Lipa in Bosnia – ma possiede al suo interno un centro detentivo – come se lo stesso campo non lo fosse già – nel quale dovranno rimanere i migranti che devono essere rimpatriati in Turchia in esito al rigetto della domanda d’asilo o perché questa è stata dichiarata inammissibile.

Respingimento

Rispetto alle domande d’asilo si precisa che in Grecia al momento esistono tre tipi di procedure: la procedura “regolare” che si svolge nel continente europeo, la faster border procedure ossia la procedura che si svolge sulle isole dell’Egeo, le procedure accelerate o di frontiera e quelle cosiddette “Dublino”. In particolare, la faster border procedure nelle isole dell’Egeo prevede due fasi: una riguardante il giudizio di ammissibilità, valutata sulla base della nozione di paese terzo sicuro e l’altra concernente l’esame nel merito dei motivi che hanno costretto il richiedente a lasciare il proprio paese di origine. Al riguardo occorre precisare che il 7 giugno di quest’anno,

la Grecia con una decisione ministeriale congiunta ha dichiarato che debba essere considerata la Turchia paese sicuro

per cinque nazionalità dei migranti transitanti lungo la rotta dell’Egeo ossia quella siriana, afgana, bengalese, somala e pakistana.

Turchia, paese sicuro

È chiaro dunque che nell’ambito delle politiche europee oggi ci si sta muovendo ancora sulla scia del già citato accordo Ue-Turchia del 2016, anche se a rigor di logica, ci si chiede come possa essere onestamente considerato sicuro – per un richiedente asilo appartenente alle succitate nazionalità – un paese che ha firmato la Convenzione di Ginevra in modo restrittivo, ossia accettando di riconoscere lo status di rifugiato soltanto ai cittadini provenienti dall’Unione europea. Questo tra l’altro è stato già riscontrato rispetto ai migranti siriani accolti dalla Turchia a partire dal 2015 e soprattutto dal 2016, in esito al succitato accordo, per cui oggi il paese d’ispirazione imperialistica neo-ottomana – attualmente il primo paese al mondo per accoglienza dei migranti – non concede neanche più la protezione temporanea a favore dei siriani ma li strumentalizza per soddisfare le proprie finalità securitarie e di accrescimento della propria sfera di influenza sul suo territorio, favorendo il loro insediamento in zone appartenenti al Kurdistan turco al fine di indebolire le rivendicazioni identitarie del popolo curdo.

I migranti inoltre, siriani e non, sono considerati dalla Turchia un mezzo di ricatto per l’ottenimento di ulteriori finanziamenti dell’Unione,

per cui dal 2020 la Turchia ha cominciato a opporsi ai trasferimenti formali dei migranti respinti dalla Grecia, con l’intento – poi soddisfatto – di ottenere un ulteriore finanziamento dall’Ue mentre chiaramente rimangono sul territorio turco i migranti che hanno fatto ingresso in esso, eludendo i controlli della polizia turca, a seguito dei respingimenti operati dalla Grecia.

gli schiavi della rotta dell'Egeo

Scontri tra migranti e polizia nella buffer zone sul cinfine Turchia-Grecia a Pazarkule, nel febbraio 2020 (foto 4.Murat/Shutterstock).

A tal fine dato di particolare rilievo è il crollo del numero degli sbarchi lungo la rotta – in conseguenza dei pushbacks collettivi ellenici – in cooperazione con Frontex, che da 50.000 nel 2019 sono diminuiti a poco più di 1000 nel 2021, dato questo che si aggiunge a quello della dichiarazione di inammissibilità da parte della Grecia di circa 4000 domande d’asilo.

Dublino, ovvero delle deportazioni

Questo proprio in ragione della considerazione della Turchia come paese sicuro – già prima della dichiarazione ministeriale del giugno scorso – nonché sulla base di argomentazioni concernenti l’erronea applicazione del regolamento di Dublino che ancora prevede, come criterio principale nell’individuazione dello stato competente a trattare la domanda d’asilo, quello del primo paese di ingresso nell’Unione europea.

Rispetto a ciò molti sono i rapporti inquietanti in merito alle modalità con le quali tali respingimenti sono effettuati, come le “deportazioni” notturne – documentate da Amnesty International, Human Rights Watch, da Oxfam e dal Greek Council for Refugees – da parte di uomini con i passamontagna che dai campi prelevano i migranti per introdurli in grossi Van neri e da lì su gommoni diretti in Turchia.

Prima di “deportarli” li denudano completamente per assicurarsi che non abbiano indosso alcun dispositivo – primo tra tutti il cellulare – in grado di filmare tali pratiche e in questa condizione disumana li abbandonano sul territorio turco.

A riguardo va segnalato che a settembre la Grecia ha dovuto sospendere – in conseguenza del ricorso di uno dei tanti migranti respinti nelle isole dell’Egeo che tentavano di accedere alla Grecia continentale – i provvedimenti di rimpatrio in ragione della disposizione di misure ad interim da parte della Corte di Strasburgo (Corte Edu) che, alla fine di agosto, ha ordinato alle autorità greche di garantire condizioni di vita e sanitarie adeguate a favore del ricorrente. Nello stesso provvedimento la Corte ha disposto altresì che la Grecia dovesse revocare la restrizione geografica nelle isole, nel caso di specie l’impedimento a lasciare l’isola di Lesbo attuato nei confronti del migrante parte del giudizio. Già nel 2020 tuttavia la Corte di Strasburgo aveva riconosciuto la necessità di misure ad interim in grado di assicurare migliori condizioni di vita e assistenza sanitaria in seguito alla denuncia presentata da tredici migranti in condizione di vulnerabilità, rappresentati in giudizio dal Legal Centre di Lesvos.

Sottrazioni di servizi e mercato delle adozioni

Va ricordato che i numerosi minori presenti nei campi posizionati sul territorio greco non frequentano la scuola nonostante gli ingenti finanziamenti elargiti dall’Ue al paese ellenico per l’istruzione, di cui 7,5 milioni di euro specificatamente destinati ai bambini rifugiati, per loro inoltre era stato previsto nel 2019 un piano di ricollocamento all’interno dei paesi dell’Unione su base volontaria e per quote: triste dire che nel 2020 esigue sono state le domande accolte dagli stati membri che oltretutto con criteri discrezionali hanno deciso, come in un mercato, di porre dei criteri per l’ingresso come per esempio quello della nazionalità (solo bambini siriani) o dell’età (solo bambini al di sotto dei 12 anni).

Strumentalizzazione di giuste rivolte e devastazioni dell’inferno

Del tutto vana, retorica quanto inutile la dichiarazione pronunciata della commissaria Ue per gli affari interni Ylva Johansson, all’indomani dell’incendio sull’isola di Lesbo: «Mai più Moria». E falsa, considerato che sulle macerie di quel campo si è costruita un’altra tendopoli, costituita da circa 200 tende – il cosiddetto campo “New Kara Tepe” o “Moira 2.0”. A ciò si aggiunga che nessuna responsabilità è stata individuata rispetto alle autorità che erano a capo della gestione del campo – strutturato per accogliere 3000 persone – e che, invece, al momento del rogo, ne accoglieva circa 13.000 in condizioni disumane. Come noto, l’incendio è scoppiato dopo l’individuazione dei primi casi di Covid all’interno del campo con la conseguente assurda decisione di chiuderlo per quattordici giorni invece di mettere in isolamento i pochissimi migranti risultati positivi al virus. Diversa e paradossale inoltre la sorte dei sei afgani, quattro dei quali minori all’epoca dei fatti, ritenuti gli autori dell’innesco che, sottoposti al giudizio in conseguenza della testimonianza di un altro migrante – invero dubbia – sono stati condannati alla pena di 10 anni di reclusione senza avere nessuna possibilità di una vera difesa nel processo.

Marginalizzazione

È chiara dunque la volontà anche dell’esecutivo greco di centrodestra, guidato da Kyriakos Mitsotakis, di rendere invisibili i migranti, “deportandoli” all’interno di ghetti fuori dai centri abitati o dai poli turistici, chiudendo numerosi campi nella Grecia continentale e trasferendoli in lande desolate seppur in campi iperinnovativi.

Tuttavia, si può realmente scambiare con aria condizionata e campi da basket il rispetto dei propri diritti, in particolare l’accesso alla procedura d’asilo, o addirittura godere della libertà personale?

Rivalità locale secolare sfruttata da potenze globali con vittime delocalizzate

Rispetto alle dinamiche geopolitiche che, nella rotta interessano particolarmente i rapporti tra Grecia e Turchia, la questione migratoria e la strumentalizzazione dei migranti con l’Unione che l’agevola, nasconde il gioco di forza tra i due paesi da anni in contrapposizione tra loro per la rivendicazione della supremazia proprio rispetto alle acque dell’Egeo e alle isole che insistono su quel territorio marittimo, nelle quali attualmente sono residenti un elevato numero di migranti. Uscita sconfitta la Grecia dalla guerra del 1919-1922, con il Trattato di Losanna del 1923 si stabilì il ritorno forzato di circa un milione di greci, ellenofoni e turcofoni dal territorio turco – in particolare dalle coste dell’Anatolia – in quello greco. La Grecia riuscì comunque a occupare alcune isole posizionate strategicamente nell’Egeo, anche se prossime alla penisola anatolica, poiché nel corso del conflitto (grazie al sostegno britannico) si sancì di fatto l’interdizione turca ai mari. Infatti le Zone economiche esclusive turche sarebbero scandalosamente ridotte, se l’attività muscolare di Ankara e gli accordi strategici non cercassero di uscire da questo cul de sac volto a contenere l’ambizione ad affrontare il mare aperto di Erdoğan.

Elaborazione Ispi.

Mediterraneo orientale, ma anche l’incursione turca nel mare occidentale

La Grecia oggi come ieri rappresenta infatti – soprattutto per Stati Uniti e Francia – una delle principali risorse geografiche per contrastare la proiezione geopolitica espansionistica turca di Erdoğan, non solo nell’Egeo ma anche nel mar Mediterraneo tenuto conto anche delle postazioni turche in Algeria, Tunisia e in Libia. In particolare, rispetto a quest’ultima vale la pena ricordare l’accordo turco-tripolino, stipulato il 27 novembre del 2019 che si basa sull’irrilevanza del concetto della piattaforma continentale delle isole dell’Egeo come Creta e Rodi, sostenuto invece non solo chiaramente dalla Grecia ma dall’intera comunità internazionale, con la sottoscrizione della Convenzione di Montego Bay del 1982 che definì per la prima volta i criteri con cui spartire le acque tra i due paesi. La Turchia non ha mai ratificato tale convenzione che, se venisse applicata, restringerebbe il suo raggio di azione nei mari dalle 12 miglia alle 6 miglia nautiche occludendo il passaggio delle proprie navi militari dai Dardanelli fino al Mediterraneo orientale. L’accordo con Tripoli, invece sebbene non riconosciuto a livello internazionale consente potenzialmente alla Turchia di rivendicare due tratti di mare amplissimi, non solo nell’Egeo ma anche in parte del Mediterraneo. In reazione a tale accordo la Grecia ha recentemente stipulato due successivi accordi: uno con il governo italiano nel giugno del 2020 e l’altro ad agosto dello stesso anno con l’Egitto.

È facile dunque constatare come la Turchia sia giunta ad avere un controllo dei flussi migratori non solo verso la rotta dell’Egeo, ma anche verso quella balcanica e ora anche verso quella del Mediterraneo che verrà di seguito analizzata.

A sostegno di ciò si sottolinea che l’accordo Ue-Turchia, stipulato nel marzo del 2016, era stato concluso nel prevalente interesse della Germania. Questo sia perché i siriani in fuga nel 2015 erano diretti in primo luogo verso l’Europa centrale, sia poiché da sempre vi è un asse turco-tedesco, essendo la Turchia il primo partner commerciale della Germania che a sua volta ospita una rilevante comunità turca titolare spesso ancora del diritto di voto in Turchia. A giugno del 2021 tuttavia, al vertice con il quale si è dichiarata la volontà di rinnovare per la seconda volta tale accordo, l’ex cancelliera tedesca era affiancata dal presidente del consiglio italiano. Ciò dimostra che ormai il succitato accordo, rinsaldato con un ulteriore bonifico di 3 miliardi di euro, presi dai fondi dalla Cooperazione allo sviluppo dell’Unione, è divenuto la base sulla quale proiettare la politica europea nella gestione dei flussi migratori nelle diverse rotte, con un’evidente incoerenza: da una parte vi è l’intenzione dei paesi dell’Ue – come di altre potenze internazionali quali gli Stati Uniti – di bloccare qualsiasi espansionismo turco a livello geopolitico, dall’altra è sufficiente che la Turchia alzi la voce per chiedere altri finanziamenti volti al contenimento dei migranti e con lo scopo di far obbedire prontamente i leader europei, mettendo da parte le preoccupazioni sull’ambiziosa avanzata della Turchia nelle acque che lambiscono le coste di alcuni paesi dell’Unione. Ci si chiede pertanto, se l’ingresso e l’integrazione dei migranti nel territorio dell’Unione, applicando semplicemente la normativa europea già esistente, sia un pericolo così grave da consentire di porre a rischio la vita di migliaia di persone e, se si vuole parlare in termini di Realpolitik, da permettere a chi è stato definito un “dittatore” il margine per continuare il proprio espansionismo internazionale anche in ambito militare.

L'articolo n. 14 – Oi Barbaroi, gli schiavi della rotta dell’Egeo proviene da OGzero.

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