Amlo Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/amlo/ geopolitica etc Sat, 14 Jan 2023 11:14:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 L’equilibrismo di tre pesi diversi in Nordamerica https://ogzero.org/lequilibrismo-di-tre-pesi-diversi-in-nordamerica/ Sat, 14 Jan 2023 00:52:49 +0000 https://ogzero.org/?p=10062 Dietro alla relativa eco ottenuta dall’ennesimo incontro tra i tre paesi del Nordamerica si nascondono invece tematiche annose difficilmente risolvibili: i cartelli dei narcos che sull’altra riva del Rio Bravo chiamano War on drugs e che sviluppano  business sempre diversi con l’obiettivo dei mercati anglosassoni del continente; mentre visti dalla frontiera settentrionale i flussi migratori […]

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Dietro alla relativa eco ottenuta dall’ennesimo incontro tra i tre paesi del Nordamerica si nascondono invece tematiche annose difficilmente risolvibili: i cartelli dei narcos che sull’altra riva del Rio Bravo chiamano War on drugs e che sviluppano  business sempre diversi con l’obiettivo dei mercati anglosassoni del continente; mentre visti dalla frontiera settentrionale i flussi migratori si ammassano sulla riva opposta del Rio Grande, come in un grande hub, dove comunque si riescono a spuntare salari maggiori, dove in qualche modo si può “aspettare”. Però sia gli uni – i flussi di droga – che gli altri – i flussi migratori – risalgono lungo tutto il territorio messicano a partire dalla frontiera meridionale. Infatti non manca nemmeno nell’incontro del Distrito Federal di Ciudad de México il confronto tra comunità native e afrodiscendenti – vessate e umiliate dai colonialisti e dai loro discendenti – e bianchi che diventano ancora più feroci nella difesa di privilegi anacronistici. Ma non sono rappresentate da nessuno dei partecipanti, sono pura merce di scambio: per creare difficoltà ai paesi antagonisti (non ammessi alla Cumbre di L.A.) si accettano migranti da quelle frontiere… e si sbattono le porte in faccia agli altri.
Amlo è riuscito nell’intento di apparire all’altezza dei due “amici” anglosassoni? Diego Battistessa ha analizzato la tre giorni de los tres amigos anche mantenendo accesa la luce proveniente dal continente che si apre a Sud di quel confine meridionale messicano che non trova spazio nell’economia autosufficiente del vertice.

fin qui OGzero


Dal 9 all’11 gennaio si sono riuniti a Città del Messico “I tre amici”, in spagnolo Los tres amigos. Non stiamo parlando di Alfonso Cuarón, Alejandro González Iñárritu e Guillermo del Toro, direttori di cinema messicani, conosciuti appunto come “Los tres amigos” – e nemmeno Steve Martin, Chevy Chase e Martin Short (protagonisti della omonima pellicola di John Landis del 1986 all’origine dell’espressione) –, ma bensì dei capi di stato di Canada (nella veste del primo ministro), Usa e Messico (presidenti delle reciproche Federazioni di stati). Trudeau, Biden e Lopez Obrador hanno dato vita al vertice dei leader nordamericani per stabilire delle politiche comuni su temi chiave per “i tre paesi”: in special modo migrazione, sicurezza (leggi narcotraffico) e commercio. Questo incontro trilaterale è il decimo della sua storia, iniziata il 23 marzo 2005 sotto il nome di Alliance for North American Security and Prosperity, con la riunione a Waco (Texas) di George W. Bush (USA) , Paul Martin (Canada) e Vicente Fox (Messico).

Un evento che segna questo inizio 2023 ma che affonda le radici nel 2022. Prima di addentrarci infatti dentro l’analisi di quanto discusso dai tre leader nordamericani nell’evento di Città del Messico è necessario volgere lo sguardo all’anno appena trascorso per capire con quale stato d’animo Trudeau, Biden e Lopez Obrador, si sono seduti al tavolo delle trattative.

 

Mexico – United States of America

Tensione diplomatica

In primo luogo non si può non sottolineare che questo vertice risana una frattura che si era palesata durante un altro importante summit, quello delle Americhe, celebratosi a Los Angeles dal 6 al 10 giugno 2022. Un incontro del quale vi abbiamo parlato in queste pagine  (dove ho potuto partecipare di persona) e dove, tra le altre, pesava proprio l’assenza di Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo). La presa di posizione del presidente messicano rispetto alla sua non partecipazione a questo importante incontro, che si celebra ogni 4 anni, riguardava l’esclusione a priori di Cuba, Nicaragua e Venezuela, paesi ritenuti antidemocratici dagli Usa. Tra il 9 e l’11 gennaio dunque, Lopez Obrador e Biden hanno potuto tornare a negoziare “face to face” in un contesto internazionale, dove strette di mano e foto di rito hanno allentato (almeno a favore di telecamera) una tensione che ancora era nell’aria.

War on drugs di Nixon: mezzo secolo fa

Non è da sottovalutare neanche quanto sono riusciti a realizzare Messico e Usa – nello specifico le autorità messicane –, lavorando insieme alla Drug Enforcement Agency (Dea) degli Stati Uniti rispetto alla lotta ai cartelli che controllano le rotte del narcotraffico. La cattura a luglio 2022 in Messico del narcotrafficante Rafael Caro Quintero (uno dei fondatori del Cartello di Guadalajara insieme a Miguel Ángel Félix Gallardo ed Ernesto Fonseca Carrillo) considerato uno dei latitanti più ricercati del mondo e reso famoso al grande pubblico per la serie Narcos, è stato un gran risultato.

Amlo antidroga

Operazione che ha fatto vedere in modo chiaro la volontà dell’amministrazione di Amlo di lottare contro questa piaga (il Messico ha dichiarato guerra al narcotraffico nel 2007) e di appoggiare le autorità Usa nella persecuzione di questi criminali. Persecuzione, cattura ed estradizione, quest’ultima proprio la più temuta dai leader dei cartelli che sanno di poter vivere una vita “alla grande” nelle carceri messicane ma di tutt’altra storia si tratta se invece la pena è da scontare in una prigione “gringa”.

La catena delle estradizioni

In questo senso il Messico nel 2022 ha estradato più di 50 criminali legati al narcotraffico, principalmente verso gli Stati Uniti, assestando duri colpi ai cartelli di Sinaloa, del Golfo, di Arellano Félix e del gruppo criminale Guerreros Unidos (quest’ultimo collegato al caso dei 43 studenti di Ayotzinapa nel 2014, episodio della politica avversa alle realtà indigene del Mexico). Oltre a Rafael Caro Quintero, altri “narcos” di spicco catturati o estradati nel 2022 sono Mario Cárdenas Guillén, uno dei capi del Cartello del Golfo (conosciuto come “M-1” o “El Gordo), Adán Casarrubias Salgado, conosciuto come El tomate, che si suppone essere il leader del gruppo Guerreros Unidos e Carlos Arturo Quintana, alias “El 80”, uno dei capi del gruppo criminale La Línea, nell’ orbita del Cartello di Juárez. E ancora Juan Francisco Sillas Rocha, uomo di fiducia degli Arellano Felix e Jaime González Durán, alias El Hummer, parte del gruppo di comando degli Zetas.

Welcome, Mr President

Insomma una collaborazione che ha portato buoni frutti e che proprio pochi giorni prima dell’inizio di questo nuovo vertice dei leader nordamericani ha avuto la sua ciliegina sulla torta. Si perché non è certo passato inosservato il tempismo con il quale, proprio 4 giorni prima dell’inizio dell’incontro trilaterale, le autorità messicane hanno realizzato un imponente operazione che ha portato alla cattura di Ovidio Guzmán, uno dei figli (“los chapitos”) dello storico capo del Cartello di Sinaloa, Joaquín El Chapo” Guzmán.

Alle 5 del mattino di giovedì 5 gennaio, diversi elicotteri, uno dei quali armato di mitragliatrice, hanno aperto il fuoco contro bersagli a terra nella città di Culiacán, stato di Sinaloa. Così è iniziato il blitz delle forze federali messicane che hanno catturato Ovidio, conosciuto anche come El Ratón” o “El Gato Negro, sul quale pendeva una taglia di 5 milioni di dollari. Il Cartello ha però reagito in modo rapido e violento, Culiacán è rimasta ostaggio di più di 50 blocchi stradali realizzati da uomini armati appartenenti all’esercito di Guzmán, criminali che hanno anche assaltato l’aeroporto per evitare che Ovidio venisse portato via dalla città.

Il governo messicano ha notificato all’amministrazione di Joe Biden l’azione portata a termine con successo, una sorta di gesto di buona volontà che Amlo ha presentato al presidente degli Stati Uniti d’America prima del suo arrivo a Città del Messico.

Lunga vita all’infame Titolo 42

Sul tema migratorio bisognerebbe scrivere un articolo a parte. È comunque chiaro che questo aspetto è stato centrale nella strategia dell’amministrazione Biden fin dall’inizio della presidenza nel 2021: basti considerare che il primo viaggio fatto dalla vicepresidente Kamala Harris (giugno 2021) riguardava proprio la questione migratoria, ed è stato realizzato tra Messico e Guatemala. Amlo è stato un buon alleato per le politiche migratorie dei democratici statunitensi che durante questi ultimi due anni hanno dovuti fare i conti con l’aumento dei flussi e della pressione verso la frontiera nord, nella misura in cui si minimizzavano (o eliminavano) le barriere per prevenire la diffusione del Covid-19.

L’esternalizzazione delle frontiere in salsa guacamole

Frontera norte

Biden nel 2022 ha cercato per ben due volte di far eliminare il famoso Titolo 42 (a maggio e a dicembre) ma in entrambe le occasioni la maggioranza repubblicana dei giudici ha fermato l’azione della Casa Bianca. Nel frattempo nell’ottobre del 2022 il governo del Messico dava per concluso il programma chiamato Quédate en Mexico (rimani in Messico): programma creato nella legislatura dell’ex presidente Donald Trump (2017-2021) che stabiliva che i migranti che volevano entrare negli Stati Uniti d’America legalmente, dovevano attendere la risoluzione delle procedure burocratiche in territorio messicano. Una misura che il Messico ha subito suo malgrado e che oltre a creare un enorme caos alla frontiera, ha generato multiple violazione dei diritti fondamentali delle persone migranti.

Nonostante ciò, il 2022 si è concluso con dei record storici di transiti migratori irregolari verso gli Usa, situazione che ha esposto il fianco di Joe Biden agli attacchi dei repubblicani che parlano di vera e propria “invasione”, minacciando di processare il segretario alla sicurezza nazionale, Alejandro Mayorkas. Da qui l’ultimo “asso nella manica” giocato dall’attuale presidente a stelle e strisce proprio pochi giorni prima del vertice dei Tre amigos: ancora una volta un piano di bastone e carota.

«Do not come!»

Proprio mentre a Culiacán l’esercito messicano battagliava con il Cartello di Sinaloa per arrestare Ovidio Guzmán, Joe Biden annunciava nuove misure per rafforzare il controllo del confine con il Messico e in cambio prometteva l’apertura di nuovi canali di immigrazione legale, soprattutto alle persone provenienti da Venezuela e Cuba (che vivono la più grande crisi migratoria della loro storia) oltre a Nicaragua e Haiti. Gli Usa, ha detto Biden, accetteranno 30.000 migranti al mese provenienti dai sopracitati paesi, a patto che queste persone in movimento possano dimostrare legami familiari con emigrati già presenti nel territorio statunitense. Allo stesso modo verrà rafforzato il controllo nella frontiera sud e non ci sarà “nessuna pietà” per chi cerca di passare il confine in modo illegale. «Do not come!» (Non venite), continua a recitare Biden, il mantra gringo che sentiamo ripetere ai democratici da giugno 2021, quando proprio in Messico lo disse Kamala Harris per la prima volta in questa amministrazione – e ribadito durante la Cumbre di Los Angeles.

Dossier top secret

Per concludere, a Biden in questi giorni non sono mancati neanche problemi interni. Infatti proprio lunedì 9 gennaio, mentre stavano iniziando i lavori del vertice si è saputo di una importante indagine che lo vede implicato direttamente. Sarebbero infatti stati trovati circa una dozzina di documenti riservati su Iran, Ucraina e Gran Bretagna nell’armadio di un ufficio che l’attuale presidente ha utilizzato mentre collaborava con l’Università della Pennsylvania (2017- 2021), periodo nel quale non ricopriva nessun incarico politico. Una volta trovati i documenti è stato informato il Dipartimento di Giustizia, che ha nominato un pubblico ministero, John Lausch (uomo scelto a suo tempo da Donald Trump), per portare avanti le indagini. Il problema (un altro) è che mentre erano in corso le indagini preliminari per determinare se sussistono gli indizi di reato, sono venuti alla luce nuovi documenti “top secret”, stipati nel garage della residenza di Biden nel Delaware, suo feudo elettorale. Ora bisogna capire se ci sono gli estremi per istruire un processo e in quel caso si staglierebbero nubi molto oscure nell’orizzonte dei democratici, visto che tra poco l’ottantenne presidente Usa dovrà far sapere se correrà per un secondo mandato nel 2024 o se lascerà il testimone del partito a qualcun altro.

Canada

Sappiamo che il Canada è un paese dal basso profilo, nel senso che non riempie di scandali i “rotocalchi” internazionali. Nonostante ciò, questa vetrina internazionale offerta da Amlo è però servita al primo ministro Justin Trudeau per sottolineare il rispetto dovuto alle comunità indigene e alla protezione dell’ambiente.

Pellegrinaggi penitenziali

Parole che riportano subito all’immagine simbolo del 24 luglio 2022, quando Jorge Bergoglio atterrava dopo un volo di 10 ore all’aeroporto canadese di Edmonton per iniziare un viaggio di 6 giorni nel quale avrebbe chiesto perdono ai rappresentanti di vari popoli indigeni (Inuit e Métis tra gli altri) per la complicità della Chiesa cattolica negli abusi perpetrati nei collegi dove venivano internati i bambini indigeni.

Più di 150.000 di loro vennero allontanati dalle loro case dal 1800 fino agli anni Settanta del secolo scorso e internati con la forza nelle scuole nel tentativo di isolarli dall’influenza delle loro famiglie e della loro cultura. Queste scuole/collegi erano finanziati dalla Chiesa cattolica e dal governo e il loro compito era quello di integrare alla forza le nuove generazioni di indigeni alla società canadese di religione cristiana. Dopo la visita di papa Francesco, il governo canadese ha effettuato una dichiarazione nella quale riteneva insufficienti le scuse del Pontefice, che non aveva fatto menzione nei suoi discorsi agli abusi fisici e sessuali perpetrati contro i bambini indigeni. Lo stesso Justin Trudeau aveva chiesto perdono alle popolazioni indigene native il 25 giugno 2021 dopo che la Federation of Sovereign Indigenous Nations (FSIN, che rappresenta nazioni indigene native a Saskatchewan) aveva riferito del ritrovamento di circa 750 tombe anonime in una fossa comune in un collegio in Canada: nel luogo dove prima si ergeva la  Marieval Indian Residential School nella provincia di Saskatchewan. Un tema ancora scottante in Canada e che ha segnato il governo di Trudeau.

I temi del vertice

«Condividiamo una visione comune per il futuro, basata su valori comuni», le parole di Biden a corollario di un incontro che si è centrato principalmente su sicurezza, economia, clima e migrazione.

Autosufficienza economica

Una delle azioni concrete è stata la creazione di un comitato di 12 membri (4 per ogni paese) per la pianificazione e la sostituzione delle importazioni in Nordamerica. L’idea è che i tre paesi possano raggiungere insieme l’autosufficienza, creando un‘unione economica forte ed efficace.

In questo senso Trudeau ha sottolineato che insieme i tre amici superano il pil dell’Unione Europea e che possono essere il volano di una «economia continentale, solida e resiliente».

Respingimenti limitati

Il tema migratorio è stato centrale e se da un lato Amlo ha chiesto a Biden di promuovere riforme per agevolare la legalizzazione di milioni di messicani che vivono e lavorano in Usa, dall’altro lo ha ringraziato per non aver costruito nemmeno “un metro” di muro (il famoso muro promesso da Trump). Il Canada, che riceve una minore migrazione di cittadini messicani, dal canto suo ha posto in marcia il programma di concessione di visti di lavoro a giornalieri messicani, un piano di mobilità regolare che già include 25.000 persone. Il focus però è stata la frontiera del Rio Bravo o Rio Grande, a seconda della riva da cui si guarda, e della pressione migratoria che viene esercitata in questo punto. Come detto in precedenza il nuovo piano di Biden è stato annunciato pochi giorni prima del vertice, spazio nel quale è stato reiterato e confermato da Amlo.

Il mercato di Fentanyl

Lopez Obrador ha poi posto sul tavolo un’altra questione, quella che riguarda il fentanyl, e la sua sempre maggiore diffusione in Usa e Canada. Si tratta di una droga molto potente, che viene confezionata in modo illegale in Messico e che viene poi esportata nel Nord del continente. Dal sito del Centers for Disease Control and Prevention:

«Il fentanyl è un oppioide sintetico che è fino a 50 volte più forte dell’eroina e 100 volte più forte della morfina. È un importante fattore che contribuisce alle overdose fatali e non fatali negli Stati Uniti. Esistono due tipi di fentanyl: fentanyl farmaceutico e fentanyl prodotto illegalmente. Entrambi sono considerati oppioidi sintetici. Il fentanyl farmaceutico è prescritto dai medici per trattare il dolore intenso, specialmente dopo un intervento chirurgico e negli stadi avanzati del cancro.
Tuttavia, i casi più recenti di overdose correlate al fentanyl sono collegati a quello prodotto illegalmente, che viene distribuito nei mercati di stupefacenti per il suo effetto simile all’eroina. Viene spesso aggiunto ad altri farmaci a causa della sua estrema potenza, rendendo i farmaci più economici, più potenti, più stimolanti e più pericolosi».

In questo senso, il presidente del Messico si è impegnato con Stati Uniti e Canada a lottare contro il traffico di fentanyl, confermando che questa attività è stata messa tra le priorità delle Forze Armate del paese latinoamericano.
Il vertice si è chiuso in un clima di cordialità e mutuo intendimento, un gioco politico di do ut des , nel quale ognuno dei tre attori ha “giocato” pensando al cortile di casa sua.

Lo scenario latinoamericano visto dal vertice dei tre amici

Durante il vertice Amlo ha chiesto a Biden e Trudeau di «porre fine a questo oblio, abbandono e disprezzo verso l’America Latina». Parole lapidarie che però rendono bene l’idea di come le forti economie nordamericane facciano “orecchie da mercante” rispetto alla situazione attuale del resto del continente, in preda a forti convulsioni sociali e attacchi profondi alle fondamenta democratiche, così faticosamente costruite negli anni passati.

Tre casi su tutti ci portano a una riflessione sullo stato della regione: Brasile, Perù e Bolivia.

In Brasile abbiamo visto l’8 gennaio migliaia di sostenitori di Bolsonaro assaltare la piazza dei tre poteri a Brasilia. Un atto di superbia morale, terrorismo interno e sdegno verso le istituzioni che ha connotato uno dei giorni più tristi per il Brasile.

In Perù, dove i fatti di dicembre che hanno portato all’arresto dell’ex presidente Pedro Castillo e la nomina della sua vice, Dina Boluarte come prima donna a dirigere il paese sudamericano, le repressioni delle proteste hanno causato decine di morti e centinaia di feriti. Il popolo che si rispecchia in Castillo, contadini e indigeni delle zone rurali, grida que se vayan todos (che se ne vadano tutti) chiedendo elezioni anticipate e la cacciata della corruzione dalle istituzioni: le forze dell’ordine rispondono con proiettili ad altezza d’uomo. Per capire il livello dello scontro basti pensare che a Lima la procura ha chiesto di indagare Boluarte per «presuntos delitos de genocidio, homicidio calificado y lesiones graves».

In Bolivia nel periodo natalizio è stato arrestato il governatore del dipartimento di Santa Cruz, (zona che fa parte della chiamata mezzaluna bianca) dove la destra conservatrice si oppone da anni a Evo Morales prima e ad Arce ora. Luis Fernando Camacho (il governatore) è stato detenuto per i fatti legati alla crisi politica che ha seguito le elezioni del 2019, la cacciata di Evo dal paese e l’insediamento di Jeanine Áñez come presidente del paese (oggi anche lei in carcere): dopo la sua cattura sono iniziate manifestazioni per chiederne la liberazione.


Proprio di questi eventi distribuiti tra Brasilia, Cuzco, Ayacucho, Arequipa, Puno e di considerazioni sui fatti boliviani di questi giorni si è parlato su Radio Blackout il 12 gennaio 2023 con Diego, concludendo ad anello il discorso, ritornando all’inizio di questo articolo:
“Sacudidas en la marea rosa”.


Insomma, uno scenario di instabilità che vede proprio nell’occhio del ciclone tre dei paesi della nuova “ondata” della Marea Rosa fare i conti con la polarizzazione sociale e politica. Se a questo aggiungiamo gli appuntamenti elettorali importanti di questo 2023, specialmente in Argentina, dove il kirchnerismo sembra partire in svantaggio per l’elezione del prossimo presidente e l’attentato sventato contro Francia Marquéz (vicepresidente) in Colombia, possiamo capire quanto il bandolo della matassa sia difficile da districare.

Un aiuto può venire da Moleskine Sur, un ottimo compagno di viaggio nei meandri delle realtà latinoamericane proiettate verso un 2023 dai risvolti molto incerti.

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“Alta Marea” in America Latina https://ogzero.org/alta-marea-in-america-latina/ Tue, 08 Nov 2022 20:30:20 +0000 https://ogzero.org/?p=9403 Il Brasile svolta con fatica. I governanti sovranisti usano ogni trucco pur di non lasciare il potere: fake news, calunnie, alleanze con il peggio della società retriva e delle sette religiose; Bolsonaro ne è un modello, come Trump. Ma il Brasile ha indubbiamente svoltato non rieleggendo per la prima volta il proprio presidente al secondo […]

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Il Brasile svolta con fatica. I governanti sovranisti usano ogni trucco pur di non lasciare il potere: fake news, calunnie, alleanze con il peggio della società retriva e delle sette religiose; Bolsonaro ne è un modello, come Trump. Ma il Brasile ha indubbiamente svoltato non rieleggendo per la prima volta il proprio presidente al secondo mandato. Questo però apre a uno scenario apparentemente positivo per un Latinoamerica che vede la stragrande maggioranza dei paesi governati da esponenti di variegate sinistre, ciascuna con peculiarità diverse ed elementi che gettano ombre da un lato sull’effettiva attenzione ai diritti civili (la dinastia nicaraguense, il partito unico cubano), dall’altro sulla reale volontà di eliminare diseguaglianze, sganciarsi dal giogo neoliberista (in particolare in Cile) o dal paternalismo (il Perù di Castillo). Tutto questo produce incertezza: sarà possibile per questi governi progressisti contenere il consueto ritorno del populismo fascistoide? quale unità della nuova “Marea Rosa” si potrà ottenere con queste radici tra loro diversissime e senza un collante che vent’anni fa proveniva dal carisma di alcuni leader e dal laboratorio sociale in fermento?
Da questa situazione prende spunto Diego Battistessa, che già in altri snodi si era peritato di cogliere possibili sviluppi per le comunità latinoamericane, per riassumere le puntate immediatamente precedenti – schieramenti, accordi, patti, strategie degli ultimi 30 anni, dal crollo del muro… – e tentare di immaginare i temi che rappresentano la sfida per i progressisti sudamericani: o riusciranno a cambiare le condizioni di vita, le strutture economiche, le disparità imposte dal neoliberismo, le storture puramente mediatiche; oppure tornerà la ferocia bolsonarista, che sopravvive al fantoccio Bolsonaro.

Fin qui OGzero…   


Il Giro di Giostra

Con la vittoria di Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile il 30 ottobre scorso, sono quasi 570 milioni le persone che a oggi in America Latina sono governate dalla sinistra: quasi il 90% di un subcontinente la cui popolazione si aggira intorno ai 640 milioni di abitanti. Tra questi paesi figurano le 5 più grandi economie della regione: Brasile, Messico, Argentina, Colombia e Cile.
Uno scenario storico che ci riporta a una nuova manifestazione espansiva della cosiddetta “Marea Rosa”, apparsa all’inizio del terzo millennio con un giro, una svolta a sinistra di molti paesi della regione latinoamericana. Oggi questa marea è ancora più estesa (da capire se anche più forte) visto che include Messico e Colombia (anche se ha perso Uruguay ed Ecuador).
Vediamo però da dove viene questa ondata di “governi di sinistra”, in quale contesto storico si è generata e soprattutto di che sinistra (sinistre) stiamo parlando quando osserviamo con maggiore dettaglio cosa succede nel contesto latinoamericano.

Doveroso a questo punto premettere la definizione di “gringo”, perché la diffidenza nei suoi confronti è uno dei collanti, forse il più viscerale per gli abitanti del Cono Sur, e allora eccolo:

Esistono varie versioni sull’origine della parola “gringo”, qui vediamo le due più diffuse. La prima versione, accreditata dalla Reale Accademia Spagnola dice che “Gringo” equivale a «straniero, soprattutto di lingua inglese o persona che generalmente parla una lingua diversa dallo spagnolo». Gringo è un’antica parola spagnola che si è evoluta dalla parola “greco”, perché quando si ascoltava parlare qualcuno una lingua sconosciuta, si diceva che ti stavano “parlando in greco”, spiega il linguista messicano Luis Fernando Lara alla BBC Mundo. La seconda versione ci riporta alla guerra tra Messico e Stati Uniti d’America nella quale i soldati messicani solevano gridare “Green go home!” riferendosi al colore dell’uniforme degli statunitensi. Sulla stessa linea un’altra versione dice che i battaglioni statunitensi erano identificati con dei colori e che quando il battaglione verde si lanciava all’attacco, nell’aria risuonava il grido: “Green go!” Ad ogni modo il termine oggi è usato in America Latina per definire in modo specifico gli statunitensi e in modo generico uno straniero: il primo uso in un testo scritto in inglese rimonta al 1849.

Il Foro de São Paulo come risposta al criminale imperialismo “Gringo”

Tutto nasce nel Foro de São Paulo, che è stato senza ombra di dubbio l’embrione di quanto oggi vediamo nella regione. Dal sito della stessa organizzazione possiamo leggere l’incipit della presentazione:

«Il Forum trae origine nel luglio 1990 dall’appello rivolto a partiti, movimenti e organizzazioni di sinistra da parte di Lula e Fidel Castro, affinché si riflettesse al di là delle risposte tradizionali sugli eventi successivi alla caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989) e sui possibili percorsi alternativi e autonomi per la sinistra dell’America Latina e dei Caraibi».

In quel primo storico incontro parteciparono in 48, tra partiti e organizzazioni, plurali e diverse ma tutte appartenenti all’arco politico della sinistra, che firmarono la Dichiarazione di San Paolo, manifestando obiettivi precisi e una comunione d’intenti in chiave antineoliberista. In quel documento possiamo sottolineare l’intenzione di continuare a elaborare proposte di unità consensuale di azione nella lotta antimperialista e popolare, di produrre sforzi mirati alla promozione di scambi specializzati su problemi economici, politici, sociali e culturali e di definire, in contrasto con la proposta di integrazione sotto il dominio imperialista, le basi di un nuovo concetto di unità e integrazione continentale.

Un manifesto per una nuova visione latinoamericana, lontana dalla “Dottrina Monroe” (Monroe Doctrine, 1823), dall’“Operazione Condor” (Operación Cóndor, 1975-1989) e dal “Accordo di Washington” (Washington Consensus, le riforme neoliberali raccomandate nel 1989). Il preludio di quanto sarebbe successo solo 10 anni dopo…

Monroe Doctrine

Il concetto di Dottrina Monroe fa riferimento al principio della politica estera degli Stati Uniti d’America di non consentire l’intervento delle potenze europee negli affari interni dei paesi dell’emisfero americano. Questa dottrina deriva da un messaggio al Congresso del presidente James Monroe  inviato il 2 dicembre 1823 (paragrafi 7, 48 e 49). Si riassume nella famosa frase «America agli americani» dove per americani si fa ovviamente riferimento agli uomini bianchi del Nordamerica, ma soprattutto “non alle potenze coloniali”.

Operación Cóndor

«L’Operazione Condor invade il mio nido: io perdono, però non dimenticherò mai», canta il famoso gruppo portoricano Calle 13 in uno degli inni moderni della regione: la canzone lanciata nel 2011:

Quando parliamo di questa operazione, anche conosciuta come Plan Condor facciamo riferimento a una strategia di ingerenza criminale degli Usa, messa in atto per frenare l’espansione dei governi di sinistra nella regione latinoamericana. Dopo il trionfo della rivoluzione cubana (1° gennaio 1959) e i successivi falliti tentativi statunitensi di diroccare Fidel Castro, la Casa Bianca dette il via libera a una nuova strategia che “raffinava” quanto già la Cia (Agenzia Centrale di Intelligence) stava realizzando nella regione. Per contrastare l’insediamento di governi di sinistra in America Latina nei primi anni della Guerra Fredda gli Usa promossero e finanziarono diversi colpi di stato (golpe) come parte del loro interesse geostrategico nella regione. Tra questi ricordiamo il colpo di stato guatemalteco del 1954, il colpo di stato brasiliano del 1964, il colpo di stato cileno del 1973 e il colpo di stato argentino del 1976. Paesi nei quali vennero poi installate feroci dittature militari di destra, che commisero massive violazioni dei diritti umani, tra le quali detenzioni illegali di sospetti oppositori politici e/o dei loro parenti, torture, stupri, sparizioni forzate e traffico di bambini. Tutto questo sotto lo sguardo compiacente e complice degli Stati Uniti d’America che appoggiarono questi regimi fino a quando la pressione internazionale e la pressione dell’opinione pubblica interna non obbligò Washington a fare marcia indietro. Le dittature nelle quali l’intervenzionismo “gringo” ha lasciato il segno (e una lunga scia di sangue) prima e durante il “Plan Condor” sono quelle di Fulgencio Batista a Cuba, Rafael Trujillo nella Repubblica Dominicana, la famiglia Somoza in Nicaragua, Tiburcio Carias Andino in Honduras, Carlos Castillo Armas in Guatemala, Hugo Banzer in Bolivia, Juan María Bordaberry in Uruguay, Jorge Rafael Videla in Argentina, Augusto Pinochet in Cile, Alfredo Stroessner in Paraguay, François Duvalier in Haiti, Artur da Costa e Silva e il suo successore Emílio Garrastazu Medici in Brasile e Marcos Pérez Jiménez in Venezuela. I nuovi processi democratici nella regione iniziarono solo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, mentre si estendeva e rafforzava tra i popoli dell’America Latina un forte sentimento antistatunitense e antimperialista.

Washington Consensus

Per Accordo di Washington si intende un insieme di “ricette” economiche neoliberiste promosse da varie organizzazioni finanziarie internazionali negli anni Ottanta e Novanta. Proposte che formavano un nuovo decalogo del neoliberismo volto ad affrontare la crisi economica del 1989 in America Latina, regione che stava vivendo una lunga e drammatica recessione, passata alla storia come il decennio perduto. Fu l’economista britannico John Williamson a coniare il termine in un suo articolo del 1989 che esaminava le dieci misure economiche professate dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), dalla Banca Mondiale, dalla Banca Interamericana di Sviluppo e dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America: tutte istituzioni con sede a Washington DC.


Anche per introdurre gli eventi del nuovo millennio con le fughe in avanti progressiste e i bruschi ritorni all’ordine reazionari va spiegato il concetto di “Socialismo del XXI secolo”:

l’espressione fa riferimento al concetto originariamente formulato nel 1996 dal sociologo tedesco Heinz Dieterich Steffan e si riferisce alla combinazione di socialismo con democrazia partecipativa e diretta. È una tendenza che cerca di dare risposte al grave problema del sottosviluppo in cui l’America Latina vive sommersa a causa delle devastazioni del capitalismo. Il socialismo del XXI secolo è una manifestazione attuale del socialismo; cioè del periodo di transizione relativamente lungo dal capitalismo al comunismo. Pertanto, questo “nuovo socialismo” prende spunto dalle precomprensioni socialiste che si trovano nei fondatori del marxismo. Il socialismo del XXI secolo presuppone uno sfondo democratico: è necessario costruire una democrazia partecipativa o diretta nella regione e in ciascuno dei suoi paesi che lasci alle spalle la tradizionale democrazia rappresentativa. Il punto di partenza deve essere la dignità inviolabile di ogni essere umano, che richiede la considerazione dell’uomo come un essere eminentemente sociale, di tendere al pieno sviluppo umano, di istituire una democrazia partecipativa, di creare un nuovo modello economico e di raggiungere un alto grado di decentramento

La prima apparizione ufficiale del termine in America Latina si deve a un discorso dell’allora presidente del Venezuela, Hugo Chávez, il 30 gennaio 2005 dal V World Social Forum.

La “Marea Rosa”: il socialismo del XXI secolo

Come detto, nel Foro de São Paulo si comincia a dare vita a un nuovo sogno latinoamericano che verrà poi plasmato da eventi storici come il primo forum sociale mondiale di Porto Alegre (Brasile) nel 2001 nel quale si forgia la consegna “Un altro mondo è possibile”. In quegli anni la regione è attraversata da enormi livelli di disuguaglianza e da una frustrazione nell’accessibilità di grandi fasce della popolazione ai diritti fondamentali: basti pensare che nel 2002 vivevano in povertà 221 milioni di latinoamericani, ovvero all’epoca il 44% della popolazione della regione. Per rispondere a questa situazione e frenare le politiche neoliberali proposte (imposte) da Washington, sorgono nuovi leader che, anche grazie alla legalizzazione della concorrenza elettorale (con la transizione alla democrazia in America Latina i partiti di sinistra hanno potuto competere per il potere), guidano i popoli oppressi della regione a una rivincita storica.

L’inizio di quella che verrà chiamata in seguito “Marea Rosa” (termine di Larry Rohter, inviato del “NY times” per seguire le elezioni in Uruguay) si ha con l’elezione di Hugo Rafael Chávez Frías in Venezuela, che assume il potere il 2 febbraio 1999. Un momento cruciale nel quale si consolida il primo governo di un partito membro del Foro de São Paulo e che segna l’inizio di un’onda socialista e progressista seguita dalle vittoriose elezioni di Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile (2003), Néstor Kirchner in Argentina (2003), Tabaré Vázquez in Uruguay (2005), Evo Morales in Bolivia (2006), Michelle Bachelet in Cile (2006), Rafael Correa in Ecuador (2007), Daniel Ortega in Nicaragua (2007) e José “Pepe” Alberto Mujica in Uruguay (2010). Si configura quindi un nuovo assetto latinoamericano che ruota intorno a innovativi progetti di integrazione economica e politica come l’Alba e l’Unasur e che riporta Cuba e la sua rivoluzione al centro del panorama politico.

Questa prima ondata della “Pink Tide”, il termine inglese per “Mare Rosa”, subisce però una brusca frenata dopo la fine del primo decennio del 2000, situazione aggravata poi dalla forte recessione del 2012. La morte di Chavéz prima (2013) e di Fidel Castro poi (2016), gli scandali di corruzione (soprattutto Argentina e Brasile) e uno spinto “caudillismo” presidenziale che in molti casi ha spinto i leader a mettere in dubbio le basi del sistema democratico (così per come si concepisce in Europa), ha portato un risorgimento delle forze conservatrici. Partiti di destra che hanno ripreso il controllo delle principali economie della regione partendo dall’Argentina nel 2015, passando poi per il Brasile nel 2016 e per il Cile nel 2017.

Il gruppo di Lima

Nel 2017, in quel contesto e sospinto dal crollo economico Venezuelano che ha provocato un esodo di milioni di persone dal paese sudamericano (a oggi più di 7 milioni secondo l’Onu), prende forma un nuovo gruppo di lavoro con un baricentro palesemente spostato verso destra. Questo consorzio di Stati latinoamericani (e non) , prende il nome di Gruppo di Lima e si configura come un organismo multilaterale basato sulla Dichiarazione di Lima dell’8 agosto 2017. Quel giorno rappresentanti di dodici paesi ufficializzano il loro appoggio all’opposizione venezuelana contro il chavismo-madurismo, per accompagnare un processo negoziato e pacifico che possa portare al superamento della crisi multilivello del Venezuela. Vengono stabilite delle condizioni di base per la negoziazione come la liberazione dei prigionieri politici, lo svolgimento di libere elezioni con supervisione esterna, la possibilità di far entrare aiuti umanitari e la necessità di riportare una separazione di poteri nel Paese. I paesi firmatari della dichiarazione furono: Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Honduras, Messico, Panama, Paraguay e Perù. A questi si sono aggiunti in seconda battuta Guyana, Haiti e Santa Lucia, mentre la Bolivia si è unita con la gestione di Jeanine Áñez (oggi in carcere) dopo la crisi politica del 2019 che ha portato all’uscita di Evo Morales dal paese. Il documento ha ricevuto l’appoggio anche dell’Unione Europea, dell’Oea (Organizzazione degli Stati Americani) oltre che degli Stati Uniti d’America, Barbados, Granada e Giamaica. Con il Lima Group si configura dunque una antitesi del Foro de São Paulo che rende chiara la lotta ideologica e politica che attraversa l’America Latina. Il Gruppo di Lima ha lavorato per ottenere l’isolamento politico venezuelano, con sorti alterne e varie vicissitudini. Nicolás Maduro ha sempre potuto contare, oltre che sull’appoggio dell’alleato storico Cuba, anche sula vicinanza del Nicaragua e fuori dalla regione sul sostegno di Russia e Iran. Inoltre i circa due anni di attività del Gruppo, che formalmente non è ancora sciolto, hanno dovuto fare i conti con l’inizio di una nuova ondata socialista che ci porta alla situazione odierna e che ha visto l’Argentina (da paese fondatore e firmatario) lasciare l’organismo nel 2019, Messico e Bolivia ritirare l’appoggio all’opposizione venezuelana e disconoscere la dichiarazione, oltre allo stesso Perù che ha riallacciato relazioni diplomatiche con il Venezuela di Maduro. A questo si aggiunge la visita del 1° novembre 2022 del presidente colombiano Gustavo Petro al palazzo di Miraflores a Caracas, in un incontro storico con Nicolás Maduro che segna un nuovo riavvicinamento diplomatico tra le sue nazioni sorelle. È da immaginare che anche Lula in Brasile, da gennaio 2023 farà lo stesso.

Una nuova “Alta Marea”

La nuova ondata socialista che ha visto il suo apogeo con il voto del 30 ottobre in Brasile inizia nel 2018 con la storica vittoria di Andrés Manuel Lopez Obrador “Amlo” in Messico, continuando nel 2019 in Argentina con l’elezione di Alberto Fernández, passando poi nel 2020 in Bolivia con l’elezione di Arce, nel 2021 in Perù con Pedro Castillo, in Honduras con Xiomara Castro e in Cile con Gabriel Boric, per arrivare a questo 2022 in Colombia con Gustavo Petro e ora in Brasile con il terzo mandato di Lula.

L’analisi di questo nuovo zenit dei partiti di sinistra può estendersi a molti ambiti ma sicuramente va riconosciuto che la prima “Marea Rosa” aveva raggiunto importanti traguardi legati all’inclusione, all’equità, ai diritti e alla dignità dei popoli indigeni e alla democratizzazione delle risorse. Le donne hanno avuto accesso a posizioni di potere effettivo in politica e nell’esercito e l’agenda dei diritti umani aveva compiuto un notevole salto in avanti soprattutto riguardo a minoranze storicamente perseguitate ed escluse come il collettivo Lgbtqi+.

Ora si apre uno scenario nuovo nel quale la sinistra (le sinistre) latinoamericane si trovano a dover convivere con un contesto globale più che mai volatile e frammentato. Da un lato la guerra in Ucraina, dall’altro gli interessi economici e geostrategici di Stati Uniti d’America, Russia e Cina che per motivi diversi continuano a guardare all’America Latina come un bacino di risorse, commerciale e di influenza, per arrivare agli effetti della pandemia da Covid-19, che ha riportato le lancette dell’orologio indietro di 10-15 anni rispetto ai livelli di povertà e disuguaglianze.

Che sinistra(e) e che democrazia?

El pueblo unido, jamás será vencido” cantava la banda cilena Quilapayún in un manifesto di protesta politica e di futuro possibile che per decenni ha scaldato i cuori “rossi” dell’America Latina e non solo. Un passaggio di questa storica canzone scritta da Sergio Ortega Alvarado e lanciata nel 1973 intona: «De pie, cantar que vamos a triunfar. Avanzan ya banderas de unidad…».

Repressione del dissenso / Condivisione di linee guida socialiste

Cantiamo, in piedi, andiamo a trionfare. Stanno già avanzando le bandiere dell’unità, uno degli attacchi più famosi del mondo nei cori imponenti dei concerti degli Inti Illimani. Ma è proprio sulle bandiere dell’unità che si gioca oggi la partita nella regione. Si perché se un da un lato e in modo generico, vengono definite tutte sinistre quelle che governano oggi in America Latina, tra le stesse esistono fratture e differenze che riguardano la percezione dello stato di diritto, il rispetto dei diritti umani e il contenuto della parola democrazia. È possibile definire Cuba, Nicaragua e Venezuela degli Stati di Diritto? Secondo la definizione canonica, che ci parla degli elementi di base dello stesso (impero della legge, separazione dei poteri, rispetto dei diritti fondamentali) si direbbe proprio di no. Non solo non esiste separazione dei poteri (partito unico a Cuba, controllo totale dello stato da parte del partito di governo in Venezuela, vera e propria istituzionalizzazione della dinastia Ortega-Murillo in Nicaragua) ma assistiamo a una persecuzione totale del dissenso, una privazione del diritto di libertà di espressione e una massiva e strutturale violazione di una lunga lista di diritti umani. Attenzione perché queste critiche non vengono da governi conservatori della regione quali, per esempio quello di Guillermo Lasso in Ecuador, ma bensì da governi di una nuova (e a volte giovane) sinistra come quella di Gabriel Boric in Cile o quella di Petro in Colombia.

Le dichiarazioni del presidente cileno a inizio 2022 in un suo viaggio negli Stati Uniti d’America dove ha parlato alla Columbia University hanno marcato un chiaro punto di inflessione: «Mi dà davvero fastidio quando sei di sinistra e condanni la violazione dei diritti umani in Yemen o El Salvador, ma non puoi parlare delle violazioni degli stessi in Venezuela, Nicaragua o Cile». Aggiungendo poi che non è possibile avere un doppio standard di valutazione perché si tratta di temi di civiltà e non di ideologia. Sempre Boric nel giugno 2022, nel contesto della sua partecipazione al Summit delle Americhe a Los Angeles ha fortemente criticato la repressione del governo cubano contro i manifestanti: «Oggi ci sono delle persone incarcerate a Cuba solo per pensare diversamente (rispetto al partito di governo) e questo per noi è inaccettabile».

Insomma una prima frattura cavalcata poi anche da Gustavo Petro, che già con la fascia presidenziale non ha risparmiato critiche contro Chávez e Ortega (Venezuela e Nicaragua): «Per noi i diritti umani sono fondamentali. La prima discussione che ho avuto con Hugo Chávez mentre era in vita, e forse l’ultima prima della sua morte, riguardava proprio il rispetto del sistema interamericano dei diritti umani. Molti di noi devono la vita, incluso io, a questo sistema dal quale Chávez ha deciso di far uscire il Venezuela», ha affermato Petro in una intervista internazionale a fine giugno 2022. Parlando di Nicaragua ha poi aggiunto: «Coloro che sono imprigionati oggi in Nicaragua sono quelli che hanno fatto la rivoluzione contro la dittatura di Anastasio Somoza», sottolineando che «erano nostri amici e ora sono in prigione. E perché? Ebbene, perché ci sono delle derive che non sono più propriamente democratiche e che vanno evitate».

Le difficoltà e il rischio di risacca

Insomma una chiara e netta frattura sul rispetto dei diritti umani e sul concetto di democrazia, che non può essere sminuito solo all’esercizio del voto (soprattutto quando questo si esercita nella più totale repressione e vulnerabilità). A questo si aggiunge una instabilità interna ai vari paesi del “blocco” di sinistra che potrebbe cambiare la scacchiera con nuovi possibili ritorni di fiamma dei governi conservatori. Pedro Castillo in Perù è in crisi di governo fin dal primo giorno di presidenza e ha già affrontato due mozioni di censura e ora un processo costituzionale. Alberto e Cristina (Fernández e Kirchner) Presidente e Vicepresidente in Argentina sono in rotta da tempo e le prossime elezioni presidenziali saranno tutte in salita per la sinistra argentina. Boric è in caduta libera di consensi e la sconfitta nel referendum per la nuova costituzione cilena a settembre 2022 ha fatto capire che il suo governo cammina “sulle uova”. In Bolivia il presidente Arce ha sostituito tutta la cupola militare a inizio novembre di fronte a quella che lui stesso ha qualificato come «una minaccia di un nuovo colpo di stato». In Messico, Andrés Manuel Lopéz Obrador deve provare a spegnere un incendio dopo l’altro (a livello interno) e la sua leadership regionale è molto debole. Cuba e Venezuela affrontano due crisi migratorie (ed economiche) senza precedenti e il Nicaragua è immerso in una guerra interna contro la Chiesa cattolica, tacciata come terrorista e dissidente da Daniel Ortega. Xiomara Castro non è ancora riuscita a dare un impulso forte al cambiamento in Honduras, sommerso da narcotraffico, impunità e violenza generalizzata. Petro ha dato il primo passo diplomatico con il Venezuela ma ora dovrà concentrarsi su questioni interne come le riforme promesse in campagna elettorale, il processo di Pace con l’Eln (Esercito di Liberazione Nazionale) e la questione del narcotraffico nel paese. Rimane da vedere che impronta darà Lula a questa nuova “Alta Marea”, giacché è l’unico grande leader carismatico sopravvissuto alla prima onda della “Marea Rosa” e veterano della prima riunione del Foro di San Paolo.

Anche su questo si sono confrontati Diego Battistessa e Alfredo Somoza

“Lula riprenderà per mano il Latinoamerica?”: un dialogo a caldo sulla vittoria di Lula tra Diego Battistessa e Alfredo Somoza su Radio Blackout.

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Ucraina. Chiavi di lettura dal Latinoamerica https://ogzero.org/ucraina-chiavi-di-lettura-dal-latinoamerica/ Sun, 04 Sep 2022 00:00:38 +0000 https://ogzero.org/?p=8732 Senza attrarre la doverosa attenzione internazionale i giganti del Latinoamerica sono stati teatro di alcuni episodi e appuntamenti inconsueti tra fine agosto e inizio settembre, inquietanti ma forse il continente stesso ci può dotare di chiavi geopolitiche di lettura per spiegare i rivolgimenti derivanti dalla lenta distribuzione degli schieramenti entro cui vanno configurandosi i due […]

L'articolo Ucraina. Chiavi di lettura dal Latinoamerica proviene da OGzero.

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Senza attrarre la doverosa attenzione internazionale i giganti del Latinoamerica sono stati teatro di alcuni episodi e appuntamenti inconsueti tra fine agosto e inizio settembre, inquietanti ma forse il continente stesso ci può dotare di chiavi geopolitiche di lettura per spiegare i rivolgimenti derivanti dalla lenta distribuzione degli schieramenti entro cui vanno configurandosi i due fronti destinati a contrapporsi in ogni ambito del conflitto globale, che i traffici di armi dimostrano essere realmente tale, visto che il mondo partecipa alla corsa al riarmo… per poi andare a definire le sfere di influenza in punta di baionetta.

Avevamo chiesto a Diego Battistessa questo sguardo dall’altro lato dell’Atlantico sulle conseguenze del conflitto in Ucraina prima che venisse alla luce lo sventato golpe militare in Brasile – preventivo, orchestrato negli ambienti fascisti vicini al presidente in carica – volto a contrastare la probabile vittoria di Lula alle elezioni di ottobre; e non era ancora avvenuto il fallito attentato a Cristina Kirchner in Argentina; e nemmeno si era svolto il referendum sulla Costituzione cilena che doveva scardinare il lascito di Pinochet. Ma forse anche questi avvenimenti, dopo aver letto questa ricostruzione ragionata degli eventi collegabili al mondo latinoamericano, possono venire letti con lo scopo di schierare il Cono Sur – o sue parti –, da un lato o dall’altro.

OGzero


Sei mesi di guerra in Ucraina

Chiavi di lettura dell’approccio sudamericano

A sei mesi dall’invasione russa dell’Ucraina, oltre al tragico costo umano della guerra, molti degli equilibri geopolitici e geoeconomici sono stati scossi, ridisegnando una nuova normalità fatta di impennate dell’inflazione, costi esorbitanti dell’energia, nuove alleanze politiche e movimenti nello scacchiere mondiale. Cosa è successo in America Latina e nei Caraibi in questi sei mesi e come hanno reagito i leader politici del subcontinente latinoamericano di fronte all’attacco di Putin all’integrità dell’Ucraina? Ecco qui una dettagliata cronistoria che ci porta passo dopo passo a creare un mosaico fatto di molte sfumature e paesaggi ancora in definizione.

Febbraio – Marzo

Il movimento tellurico avvenuto dentro la comunità internazionale subito dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio 2022 ha portato decine di paesi e organismi multilaterali a condannare immediatamente e con veemenza quanto stava accadendo.

Prime scelte di campo

Un primo grande passo è stato quello preso dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu che in una risoluzione del 25 febbraio ha provato a fermare sul nascere l’invasione. Dobbiamo qui ricordare che il Consiglio di Sicurezza è uno degli organi principali dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ed è composto di 15 membri, di cui 5 permanenti (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti d’America) e 10 eletti ogni due anni dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. I 5 membri permanenti sono i vincitori della Seconda guerra mondiale e su ogni votazione hanno la possibilità di veto: veto che annulla di fatto le conseguenze della votazione. In questo caso era già previsto che la Russia avrebbe posto il veto alla mozione, impedendo all’Onu di poter prendere in considerazione misure militari di dissuasione contro l’esercito di Putin. Interessante però, per ciò che ci riguarda in questo articolo, è il comportamento degli altri 14 membri, in particolare di Messico e Brasile che siedono come membri “transitori” per questo periodo. Dei 15 aventi diritto al voto, 11 hanno votato a favore della risoluzione che imponeva alla Russia di fermare l’offensiva, ritirare completamente e incondizionatamente le sue truppe dai confini internazionalmente riconosciuti e astenersi da qualsiasi nuova minaccia e uso illegale della forza contro qualsiasi stato che faccia parte delle Nazioni Unite. Tra questi stati firmatari troviamo proprio Messico e Brasile. La Russia come detto ha posto il veto alla risoluzione, di fatto annullandola, mentre si sono astenute Cina, India e gli Emirati Arabi.

In questo caso dunque l’America Latina, rappresentata da Messico e Brasile ha fatto parte del coro di voci che condannavano l’invasione in Ucraina ma la questione era tutt’altro che priva di sfumature, perché solo poche ore dopo l’inizio delle ostilità, è arrivata la notizia ufficiale di un comunicato da parte della Oea (Organizzazione degli Stati Americani), che in una sessione straordinaria esprimeva una dura condanna verso un’invasione definita «illegale, ingiustificata e non provocata», chiedendo «l’immediato ritiro della presenza militare russa» dall’Ucraina. Se però andiamo a leggere i firmatari di tale documento scopriamo che hanno ratificato la “condanna” dell’Oea: Antigua e Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Giamaica, Granada, Guatemala, Guyana, Haiti, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Domenicana, Suriname, Trinidad e Tobago, Usa e Venezuela (quest’ultimo rappresentato da un delegato del leader dell’opposizione Juan Guaidó dopo l’uscita dall’organismo multilaterale del governo di Nicolás Maduro nel 2019). Leggendo questi nomi scopriamo delle assenze di prim’ordine come Argentina, Brasile, Uruguay, Bolivia e Nicaragua. (Da ricordare che Cuba fu espulsa dalla Oea nel 1962).

2 marzo 2022

A sei giorni dall’inizio dell’invasione russa in territorio ucraino, l’Assemblea Generale dell’Onu emette una risoluzione che condanna le azioni dell’esercito di Putin. Si tratta di una risoluzione che non ha carattere vincolante e che viene appoggiata da 141 dei 193 Stati che siedono nell’Assemblea. Dei 52 restanti, ben 12 decidono di non partecipare alla votazione (tra questi il Venezuela di Maduro) e solo 5 votano contro: Bielorussia, Corea del Nord, Eritrea, Russia e Siria. Le astensioni sono 35 e tra queste si trovano Bolivia, Cuba, Nicaragua e il Salvador. Insomma, la settimana dopo l’inizio della guerra, l’America Latina mostra una netta divisione tra il gruppo dell’antimperialismo statunitense sorretto dall’asse La Avana – Caracas ed esteso a Managua e La Paz, con l’aggiunta del Salvador guidato da Nayib Bukele (sempre più solo per le sue politiche quantomeno discutibili in termini di libertà e democrazia) e il resto del subcontinente che condanna ufficialmente l’invasione. Una divisione comprensibile se vista dall’alto delle relazioni diplomatiche, economiche e di supporto militare che la Russia ha fornito negli ultimi anni in particolare a tre paesi latinoamericani sempre più isolati dalla comunità internazionale occidentale, quali sono Cuba, Nicaragua e Venezuela.

Figura 1 – Dettaglio voto del 2 marzo 2022

La risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu viene in soccorso a una tergiversazione che come abbiamo visto in precedenza aveva caratterizzato buona parte delle cancellerie latinoamericane tra il 24 e il 25 febbraio, a poche ora dalla notizia che le truppe russe erano entrate in territorio ucraino. Nel mio articolo del 25 febbraio comparso su “Il Fatto Quotidiano” davo appunto conto da San Paolo in Brasile, di come la regione latinoamericana stava reagendo alle ferali notizie che arrivavano dall’Est europeo. I portavoce di Bolivia, Messico e Perù non avevano condannato esplicitamente l’invasione, chiedendo piuttosto l’apertura immediata di un dialogo. Cuba, Nicaragua e Venezuela, paesi notoriamente vicini alle politiche di Mosca, si erano preoccupate fin da subito invece di difendere l’azione militare di Putin anche se con un tenore diverso a seconda dei casi.

Il più veemente era stato Nicolás Maduro, che in un messaggio del 24 febbraio aveva dichiarato: «Cosa si aspetta il mondo? Che il presidente Putin se ne stia con le braccia incrociate e non agisca in difesa del suo popolo?».

Nel discorso non sono poi mancate le accuse alla Nato e all’imperialismo statunitense, additati come principali responsabili di quanto sta succedendo. Daniel Ortega dal Nicaragua aveva difeso il riconoscimento della repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk condannando con forza l’applicazione di sanzioni economiche contro la Russia. Toni diversi da Cuba, dove proprio mentre Putin lanciava il suo attacco all’Ucraina (la sera di mercoledì 23 febbraio in America Latina) il presidente cubano Miguel Diaz-Canel era riunito con Viacheslav Volodin, il presidente della Duma russa (il parlamento russo). Diaz-Canel aveva espresso la sua solidarietà alla Federazione Russa di fronte all’imposizione di sanzioni e all’allargamento della Nato verso i suoi confini, evitando però di fare riferimento all’incursione militare russa in Ucraina. Dall’altro lato, forti invece erano giunte le condanne da parte di Cile, Ecuador, Uruguay, Paraguay, Colombia e del Caricom (la comunità caraibica, organizzazione internazionale che riunisce 15 membri con pieno diritto, oltre a 5 associati e 8 membri osservatori).

Camminavano “sulle uova” Argentina e Brasile, presi alla sprovvista da un’azione militare che li poneva in serie difficoltà di fronte alla comunità internazionale. Sì, perché da un lato, proprio all’inizio di febbraio, il presidente argentino Alberto Fernández aveva offerto il suo paese come “porta di accesso” della Russia all’America Latina durante un incontro molto discusso con Vladimir Putin al Cremlino. Solo di fronte a intense critiche e pressioni sia interne che esterne al suo governo, Fernández era stato costretto a rilasciare una dichiarazione in cui lamentava la situazione in Ucraina, rifiutando l’uso della forza e chiedendo alla Russia di «cessare l’azione militare in Ucraina», ribadendo però che «nessuna delle parti doveva usare la forza». Dall’altro lato il Brasile del presidente Jair Bolsonaro che, la settimana prima dell’inizio della guerra, si trovava in visita ufficiale proprio a Mosca. Un viaggio che, viste le ripetute avvisaglie di Washington sull’imminente invasione russa dell’Ucraina, aveva creato non poche polemiche e tensioni. Dopo il 24 febbraio sono arrivate da Brasilia delle dichiarazioni tiepide che esprimevano preoccupazione per le operazioni militari lanciate dalla Russia contro il territorio dell’Ucraina senza però condannare esplicitamente l’operato di Putin.

La lista dei paesi ostili a Mosca

La lista dei paesi ostili a Mosca fu creata per la prima volta nel maggio del 2021 e annoverava solo due nomi: Stati Uniti d’America e Repubblica Ceca. Si tratta di un documento pubblicato dal governo della Federazione Russa nel quale sono ascritti quegli stati, territori, regioni ed entità sovranazionali che sono coinvolti in attività che il Cremlino considera “ostili” o “aggressive” nei confronti della Russia. La lista è stata ampliata a inizio marzo 2022, pochi giorni dopo la risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu e dopo l’applicazione di forti sanzioni da parte dell’Unione Europea e degli Usa contro la Federazione Russa. Oggi il documento conta al suo interno 56 stati o dipendenze territoriali e l’essere menzionati in questa lista comporta l’applicazione di restrizioni rispetto alle relazioni commerciali, valutarie e diplomatiche con Mosca.

Anche questa lista però ci aiuta a capire che la Russia vuole mantenere aperta la porta all’America Latina visto che nessuno dei paesi di questo subcontinente è menzionato nel documento (fatto salvo per la Guyana francese e le Bahamas, quest’ultima aggiunta alla lista il 24 luglio). Le sanzioni infatti colpiscono la quasi totalità del continente europeo, ad eccezione di Bielorussia, Bosnia ed Erzegovina, Moldova e Serbia; in Asia troviamo Giappone, Corea del Sud, Micronesia, Taiwan, Australia e Nuova Zelanda e nella Americhe (a parte le già menzionate) solo Canada e Stati Uniti d’America. Non viene menzionato nessuno Stato africano o latinoamericano.

Aprile

Il 7 di aprile, sempre all’interno dell’Assemblea Generale dell’Onu, è andato in scena il voto per estromettere la Russia dal consiglio dei diritti umani (decisione straordinaria applicata in passata solo nel marzo 2011 alla Libia). Anche questa volta la comunità internazionale si è trovata divisa, ancora più divisa del voto del 2 marzo, chiaro segnale che la macchina diplomatica del Cremlino è riuscita a ampliare la sua sfera di influenza. Sebbene infatti la votazione abbia ufficialmente comportato la sospensione della Russia dal consiglio dei diritti umani dell’Onu, questa volta i voti a favore sono stati “solo” 93 (contro i 141 di marzo), 24 contrari e 58 astensioni: da notare che ben 18 stati non hanno votato tra cui ancora il Venezuela e in questa occasione anche Bolivia, Cuba, Nicaragua e Suriname, che si erano astenute il 2 marzo, hanno invece votato contro questa risoluzione mentre il Salvador ha confermato la sua astensione. Tra gli astenuti fano però il loro ingresso il Belize, Trinidad e Tobago ma soprattutto il Brasile di Bolsonaro e il Messico di Andrés Manuel Lopéz Obrador. Questione geopolitica non di poco conto se si considera che questi due giganti latinoamericani sono la prima (Brasile) e la seconda (Messico), economia del subcontinente.

Figura 2 – dettaglio del voto del 7 Aprile 2022

Maggio

Brasile di Lula

Il mese di maggio si apre con il clamore provocato dalle parole dell’ex presidente del Brasile, Lula Ignacio da Silva, favorito per le prossime elezioni presidenziali di ottobre nella quali affronterà Jair Bolsonaro (presidente uscente).

Lula, in una lunga intervista realizzata da Time e pubblicata mercoledì 4 maggio ha dichiarato:

«Vedo il presidente dell’Ucraina in televisione come se stesse festeggiando, applaudito in piedi da tutti i parlamenti (del mondo). Lui è responsabile quanto Putin. Perché in una guerra non c’è un solo colpevole», ha detto Lula aggiungendo poi che «Voleva la guerra (Zelenski). Se non avesse voluto la guerra, avrebbe negoziato un po’ di più».

Tra i passaggi salienti dell’intervista troviamo poi anche questo:

«Ho criticato Putin quando ero a Città del Messico, dicendo che è stato un errore invadere, ma penso che nessuno stia cercando di contribuire alla pace. Le persone stanno stimolando l’odio contro Putin. Questo non lo risolverà! Dobbiamo stimolare un accordo. Ma c’è un incoraggiamento (al confronto)!».

Infine, nella sua critica a tutto tondo, Lula non ha risparmiato attacchi agli Stati Uniti d’America e all’Onu, specificando

«gli Stati Uniti hanno un peso molto grande e lui (Biden) potrebbe evitarlo (il conflitto), invece di stimolarlo. Avrebbe potuto dialogare di più, partecipare di più, Biden avrebbe potuto prendere un aereo per Mosca per parlare con Putin. Quello è l’atteggiamento che ci si aspetta da un leader».

Rispetto all’Onu invece il 76enne politico brasiliano ha affermato che «è urgente e necessario creare una nuova governance mondiale. L’Onu di oggi non rappresenta più nulla, non è presa sul serio dai governanti. Ognuno prende decisioni senza rispettare l’Onu. Putin ha invaso l’Ucraina unilateralmente, senza consultare l’Onu».

Giugno

Le alleanze si cercano al Vertice

Il mese di giugno è stato il mese dei vertici internazionali: la Cumbre (in presenza) delle Americhe, celebrato a Los Angeles tra il 6 e il 10 giugno, la riunione dei Brics celebrata in forma virtuale a Beijing il 23 giugno e il vertice (presenziale) del G7 di Schloss Elmau in Germania tra il 26 e il 28 giugno. In tutti e tre i vertici si è parlato della guerra della Russia all’Ucraina ma il peso, la presenza e la visibilità dei paesi latinoamericani sono stati molto eterogenei in questi spazi di dialogo e di decisione. Da un lato, il vertice delle Americhe, ospitato quest’anno dagli Usa, ha mostrato la grande frattura esistente nel continente visto e considerato che su 35 stati possibili partecipanti alla fine sono intervenuti solo 26 paesi: con il Brasile arrivato in extremis per la soluzione all’ultimo minuto di un disaccordo tra Biden e Bolsonaro. Cuba, Nicaragua e Venezuela non sono stati invitati e per solidarietà con questi tre paesi non sono intervenuti neanche i presidenti di Bolivia, Honduras e Messico. Dall’altro lato Salvador e Guatemala sono in rapporti molto aridi con l’amministrazione Biden e hanno declinato l’invito, mentre il presidente dell’Uruguay non ha potuto partecipare perché positivo al Covid-19. Un vertice dunque “azzoppato” che ha mostrato l’isolamento Usa nel subcontinente latinoamericano riaffermando la distanza delle politiche e delle visioni di Washington da molte delle amministrazioni latinoamericane. Questo è sicuramente un elemento ad appannaggio di Mosca che, non ha partecipato “fisicamente” al successivo G7 in Germania ma che è stata il centro del dibattito dei 7 “big” presenti: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America (oltre a una rappresentanza politica della UE).

Da ricordare che quello che oggi è il G7 era in precedenza il G8 e includeva anche la Russia. La Federazione russa fu espulsa dal gruppo a seguito della crisi in Ucraina del 2014 che portò all’annessione della penisola di Crimea da parte del presidente russo Vladimir Putin.

Schloss Elmau, G7 del 26 giugno 2022

Al vertice tedesco ha partecipato come invitato il presidente argentino Alberto Fernández, in veste di rappresentante della Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi (Celac). Fernández in questa occasione ha condannato dalle Alpi bavaresi l’operato della Russia in Ucraina, dando un segnale importante di allineamento con le politiche di Washington e della UE.

Solo alcuni giorni prima del G7 però (il 23 giugno) la Russia era stata protagonista del vertice dei Brics, acronimo coniato per associare cinque grandi economie emergenti: Brasile, Cina, India, Russia e Sud Africa. Questo gruppo, che si riunisce dal giugno del 2009, ha rappresentato per anni il paradigma della cooperazione Sud-Sud ed è visto come un’alternativa alle politiche di influenza statunitensi o anche “occidentalocentriche” a livello globale. Tra questi 5 paesi spicca il Brasile, come detto la più grande economia latinoamericana che, per bocca di Jair Bolsonaro, ha detto di voler rafforzare e ampliare la collaborazione commerciale con Mosca. Anche qui troviamo però ancora una volta l’Argentina, paese candidato a un prossimo ingresso nel gruppo, come ricordato proprio nei giorni del suddetto vertice dal ministro degli esteri russo Sergéi Lavrov, in un annuncio nel quale sembrava dire che l’ingresso di Buenos Aires nei Brics potrebbe essere prossimo.

Luglio

Latenti manovre rendono ondivaga la posizione continentale

A inizio luglio si manifesta un segnale inequivocabile rispetto alle profonde divisioni generate dall’invasione russa in Ucraina in America Latina e alle correnti di pensiero a questo riguardo. Il presidente ucraino Volodímir Zelensky fa richiesta ufficiale al Paraguay di poter essere presente in videoconferenza nel prossimo vertice del Mercosur (Mercato Comune del Sud) che sarebbe stato celebrato appunto ad Asunción, capitale del paese sudamericano giovedì 21 luglio. Zelensky, forte dei precedenti discorsi realizzati in svariati forum e vertici internazionali come quello della Nato, del G7, alle Nazioni Unite e nel Forum Economico Mondiale vuole ripetere l’impresa, magari proponendo uno “speech” cucito ad hoc per l’occasione, così come ha fatto in diversi parlamenti in giro per il mondo. In quei giorni è lo stesso ministro degli esteri del Paraguay, Julio Cesar Arriola, a dare la notizia della richiesta che il presidente ucraino ha presentato direttamente a Mario Adbo Benítez (presidente del Paraguay), spiegando però che la domanda verrà sottoposta al vaglio di tutte le parti interessate. Sembrava un puro rito diplomatico e invece arriva il colpo di scena: dopo una votazione interna e segreta del blocco commerciale composto da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay arriva il diniego. Zelenski non parlerà al vertice Mercosur, e a dirlo in una conferenza stampa è questa volta il viceministro degli esteri paraguaiano, Raúl Cano Ricciardi, che però non svela quale paese o quali paesi abbiano votato contro la richiesta del presidente ucraino.

L’America Latina ci ha però abituato a continui colpi di scena e solo 4 giorni dopo il mancato appuntamento di Zelenski con il vertice del Mercosur di Asunción succede qualcosa che ancora una volta muove le carte in tavola. Si perché il 25 luglio arriva la prima visita di un presidente Latinoamericano a Kyiv: si tratta di Alejandro Giammattei, presidente del Guatemala dal 14 gennaio 2020. Questa visita è la prima di un presidente dell’America Latina dal 24 febbraio (data dell’inizio dell’invasione russa) ma è anche la prima in generale degli ultimi 12 anni. Giammattei che aveva ricevuto l’invito a recarsi in Ucraina nel giugno scorso proprio da Zelenski, ha visitato le oramai tristemente famose città di Bucha, Irpin e Borodianka, assicurando che il suo paese non lascerà solo il popolo ucraino nel momento della ricostruzione.

Agosto

Ad agosto, a sei mesi dall’inizio dell’invasione ci troviamo di fronte a un altro “coup de théâtre” questa volta organizzato dall’asse Caracas-Mosca. Infatti il Venezuela di Maduro è diventato il 13 agosto il primo paese latinoamericano a ospitare come anfitrione le “Army Games”, anche chiamate “Olimpiadi della Guerra”. Ovvero delle competizioni militari organizzate proprio dal ministero della Difesa della Russia dal 2015. Ai “giochi” hanno partecipato 270 squadre provenienti da 37 paesi e le gare hanno avuto luogo tra il 13 e il 27 agosto, in 36 modalità di competizione (in Venezuela hanno gareggiato i cecchini). Oltre a Venezuela e Russia, anche Algeria, Bielorussia, Cina, India, Iran, Kazakistan e Vietnam sono state le sedi secondarie dell’edizione di quest’anno. L’alto comando militare venezuelano ha mantenuto un certo riserbo sull’evento, che ovviamente ha risvegliato l’interesse e la preoccupazione degli Usa, visto che la competizione ha comportato l’arrivo di centinaia di militari stranieri in Venezuela. Soldati provenienti da Abcasia, Bielorussia, Cina, Iran, Myanmar, Russia e Uzbekistan: paesi che in molti casi sono colpiti dalle sanzioni degli Stati Uniti d’America.

Ad aumentare la tensione anche una “coincidenza”, se tale si vuole considerare. Infatti le “Olimpiadi della guerra” sono iniziate proprio mentre si concludevano le operazioni militari annuali organizzate dal comando sud degli Stati Uniti d’America: operazioni battezzate PanamaX 2022. A questa importante esercitazione, svoltasi tra il 1° e il 12 agosto, hanno partecipato le forze armate di Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Repubblica Domenicana, Giamaica, Guatemala, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Perù Salvador e Spagna.

Proprio mentre si svolgevano le “Olimpiadi della Guerra” in Venezuela con la benedizione del Cremlino, avviene però un altro colpo di scena. Zelenski riguadagna lo spazio che gli era stato negato al vertice del Mercosur e mercoledì 17 agosto, questa volta nelle aule della Pontificia Universidad Católica de Chile (Puc) riesce a parlare in videoconferenza mandando un messaggio ai presidenti della regione e a tutto il popolo latinoamericano, al quale ha chiesto di cessare il commercio con la Russia.

Ha poi aggiunto: «Per credere a quello che sta succedendo, è importante vederlo. Voglio che i vostri leader, i giovani, vengano in Ucraina. Per noi è importante che l’America Latina conosca la verità», apparendo per la prima volta su uno schermo latinoamericano a 175 giorni dall’inizio della guerra.

Un messaggio seminato in Cile, paese dove il giovane presidente Gabriel Boric aveva da subito dato il suo appoggio, in termini umanitari, verso il popolo ucraino.

Di fronte a tutto questo rimante difficile decifrare le vere intenzioni di Putin in America Latina, dove però sicuramente le sue alleanze con Cuba, Venezuela e Nicaragua e i suoi ammiccamenti ad Argentina e Brasile hanno complicato la risposta dell’Occidente alla sua invasione dell’Ucraina. Non sono da sottovalutare però le agende dei singoli paesi latinoamericani che dal canto loro potrebbero “usare” Putin come “spauracchio” da giocare nell’infinita partita a scacchi con Washington e Beijing, i due poli che continuano a oggi a esercitare comunque la maggiore influenza nella regione.

Conseguenza economiche della guerra nell’area Cono Sur

Chiavi di lettura delle alleanze globali

Per dare uno sguardo in chiave economica di come quanto sta succedendo in Ucraina abbia un riflesso diretto sulle società nazionali della regione latinoamericana, possiamo fare riferimento a un’analisi realizzata dal Real Instituto Elcano di Madrid, elaborata da Carlos Malamud e Rogelio Nuñez Castellano dal titolo L’America Latina e l’invasione dell’Ucraina: il suo impatto sull’economia, la geopolitica e la politica interna.

Spiegano Malamud e Nuñez Castellano che i paesi dell’America Latina, seppur in posizione periferica si vedono influenzati in modo importante dalla crisi in Ucraina. Economicamente, l’aumento dei ricavi per i paesi produttori di materie prime, in particolare idrocarburi, ha convissuto con il rimbalzo inflazionistico causato dall’aumento dei prezzi dell’energia e dalla scarsità di importazioni dalla Russia (fertilizzanti) e dall’Ucraina (cereali). Ci sono stati notevoli disaccordi all’interno di ciascun paese sulla posizione di fronte al conflitto, questione che rende ancora più difficile la politica interna in mezzo alla crescente incertezza sul futuro dell’economia mondiale e regionale, con un possibile aumento dei disordini sociali (vedi il caso delle recenti proteste a Panama). Inoltre la lotta geopolitica globale per il controllo e l’accesso alle risorse energetiche, ha rilanciato alcune potenze petrolifere regionali (come il Venezuela) e ha favorito alcuni spazi commerciali in termini di esportazioni (per esempio quelli argentini con l’esportazione di cereali).

Un’altalena di costi e benefici che però se vista nella foto regionale porta delle cifre tutt’altro che ottimistiche. Secondo i dati della Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (Cepal) resi noti a fine aprile scorso, il conflitto in Ucraina ha esacerbato i problemi di inflazione, aumentando la volatilità dei costi finanziari abbassando le stime di crescita regionale da 2,1% (gennaio 2022) a 1,8% (aprile 2022). Le economie del Sud America cresceranno dell’1,5%, quelle del Centro America e del Messico del 2,3%, mentre quelle dei Caraibi cresceranno del 4,7% (esclusa la Guyana).

Sempre la Cepal, nel volume Ripercussioni in America Latina e Caraibi della guerra in Ucraina: come affrontare questa nuova crisi? pubblicato a giugno, parla anche di un lento e incompleto recupero del mercato del lavoro dopo il Covid-19, prevedendo che la povertà e la povertà estrema supereranno i livelli stimati per il 2021.

«L’incidenza della povertà regionale raggiungerà il 33,7% – 1,6 punti percentuali in più rispetto alle proiezioni per il 2021- mentre la povertà estrema raggiungerà il 14,9% – 1,1 punti percentuali in più rispetto a nel 2021».

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La Cumbre de los pueblos: il non vertice visto dall’interno https://ogzero.org/il-non-vertice-delle-americhe-di-los-angeles/ Sun, 10 Jul 2022 08:44:29 +0000 https://ogzero.org/?p=8170 Diego Battistessa ha partecipato in presenza ai lavori del vertice delle Americhe a Los Angeles, in qualità di Coordinatore regionale per l’America Latina e i Caraibi di Every Woman Treaty. E quindi ci ha potuto dare conto di prima mano dei lavori ufficiali, quelli che hanno dato dimostrazione che il cortile di casa non è […]

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Diego Battistessa ha partecipato in presenza ai lavori del vertice delle Americhe a Los Angeles, in qualità di Coordinatore regionale per l’America Latina e i Caraibi di Every Woman Treaty. E quindi ci ha potuto dare conto di prima mano dei lavori ufficiali, quelli che hanno dato dimostrazione che il cortile di casa non è più considerabile tale a tutti gli effetti, e delle attività parallele del Forum della società civile, rappresentata da quelle ong i cui interessi collidono con le conclusioni antimigratorie formulate dal vertice organizzato malamente da Biden, che come unico intento aveva quello di sancire la chiusura degli Usa (e di conseguenza per imitazione dell’intero Occidente) a qualsiasi forma di immigrazione.


L.A. Cumbre: America non è (solo) Usa

Dal 6 al 10 giugno si è celebrato a Los Angeles (California) il nono Vertice della Americhe. Un incontro regionale che si realizza ogni quattro anni dal 1994 (prima edizione a Miami e unica negli Usa fino a quella del mese scorso) e che riunisce capi di governo, imprese private e delegazioni della società civile del continente americano. L’ultimo vertice di questo genere fu quello di Lima nel 2018 (Trump non aveva partecipato inviando il vicepresidente Mike Pence al suo posto) e questo è stato dunque il primo dell’era Covid-19.

L’amministrazione di Joe Biden non è certamente arrivata all’appuntamento nel migliore dei modi: infatti sia problemi di politica interna (economia, sicurezza e tema migratorio), che l’instabile situazione geopolitica mondiale (guerra in Ucraina) hanno deviato l’attenzione dall’importante vertice continentale abbassandone il “tono”. In quanto anfitrioni, gli Usa hanno dettato le regole e fin da subito hanno fatto sapere che non sarebbero stati invitati i presidenti di Nicaragua, Cuba e Venezuela (Daniel Ortega, Miguel Diaz-Canel e Nicolas Maduro): etichettati dal governo di Biden come regimi antidemocratici dove si violano massivamente e sistematicamente i diritti umani. Una posizione condivisibile o discutibile a seconda dei punti di vista (quella del non invito) che però ha generato un’ondata di protesta regionale che forse  il presidente statunitense non si aspettava. Questa posizione unilaterale e monolitica degli Usa ha infatti portato al rifiuto di partecipare ai lavori del vertice a Los Angeles da parte del presidente del Messico (Andrés Manuel Lopéz Obrador), di quello della Bolivia (Luis Arce) e di quello dell’Honduras (Xiomara Castro). Come se non bastasse neanche Nayib Bukele e Alejandro Giammattei, rispettivamente presidenti del  Salvador e del Guatemala,  sono andati in California perché in aperto conflitto con Biden, mentre il presidente dell’Uruguay, Luis Lacalle Pou, ha dovuto rinunciare al viaggio perché positivo al Covid-19. Insomma, uno scenario tutt’altro che allettante e che ha rischiato di aggravarsi con la minaccia di Jair Bolsonaro (presidente del Brasile) di non partecipare al vertice delle Americhe, se Biden non gli avesse concesso un incontro bilaterale al margine dei lavori dell’evento continentale.

Il presidente Usa ha subito negato questa possibilità e Bolsonaro, in cerca di visibilità per le elezioni presidenziali che si svolgeranno a ottobre  2022 (e che lo vedono in svantaggio nei sondaggi di fronte a Lula) ha quindi palesato il rifiuto al viaggio in California.

Questa situazione di tensione si è manifestata apertamente quando proprio l’8 giugno, con il discorso del presidente Biden al “Microsoft Theater” di Los Angeles si sono aperti ufficialmente i lavori diplomatici del nono vertice delle Americhe Costruire un futuro Sostenibile, Resiliente ed Equo. Il presidente USA ha parlato alla platea di suoi pari accorsi per l’occasione, tra i quali mancava (oltre ai 9 già segnalati in precedenza) proprio il presidente del Brasile. La sera dell’8 giugno però il colpo di scena: Biden viste le numerose assenze (25 presenti su 35 possibili) chiama Bolsonaro, accetta la proposta di riunione bilaterale. E così venerdì 10 giugno, nei discorsi ufficiali di chiusura del nono vertice delle Americhe vediamo apparire un gaudente presidente del Brasile (giunto la sera prima a Los Angeles), che pontifica su futuri accordi e sulle relazioni Usa-Brasile. Un discorso , quello di Bolsonaro, nel quale si fa menzione anche alle ricerche del giornalista britannico Dom Phillips e dell’indigenista Bruno Pereira Araujó, scomparsi il 5 giugno in Amazzonia (verranno poi ritrovati morti il 15 giugno).

Quello con Jair Bolsonaro non è stato però l’unico retroscena di Realpolitik messo in atto da Biden. Non è da meno infatti il gioco di funambolismo che ha legittimato il presidente Usa a inviare una delegazione a parlare con Nicolas Maduro (non riconosciuto ufficialmente dagli Usa come presidente in carica del Venezuela) a pochi giorni dal vertice, per risolvere la questione petrolio viste le sanzioni imposte alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina.
Quindi da un lato il Venezuela non è stato invitato ufficialmente ma dall’altro, proprio in prossimità di questo grande evento continentale, gli Usa negoziavano con il regime di Maduro per esplorare vie di riattivazione di un’industria petrolifera che nel paese sudamericano della rivoluzione bolivariana è ormai ai minimi termini. Ma dov’era Juan Guaidó in tutto questo? Il presidente dell’Assemblea nazionale venezuelana (esautorata da Maduro), riconosciuto da più di 50 stati della comunità internazionale (tra cui gli Usa) come il legittimo presidente del Venezuela, non è stato invitato al nono vertice delle Americhe da Biden. A lui è stata dedicata però una telefonata di circa 8 minuti partita dall’Air Force One proprio mentre Biden stava viaggiando per arrivare a Los Angeles. Il presidente USA ha rinnovato l’appoggio del paese nordamericano a Guaidó, ribadendo la politica di tolleranza zero contro i delitti del regime di Nicolas Maduro e sottolineando che l’Assemblea Nazionale del 2015 è l’ultimo organo eletto democraticamente in Venezuela riconosciuto dagli Stati Uniti d’America.  Guaidó però dunque non ha calcato il red carpet del vertice in quanto ospite “complicato da gestire”, la cui presenza avrebbe potuto appesantire ancora di più la tensione dei lavori a Los Angeles.

Il tema migratorio

Lavori che per l’amministrazione Biden sembra avessero un unico grande scopo. Infatti, al margine delle magniloquenti dichiarazioni dei giorni anteriori al vertice, che parlavano di necessari e urgenti accordi su temi quali stabilità democratica della regione, sicurezza, energie rinnovabili, clima, salute e diritti umani, il tutto si è ridotto al tema migratorio. Si perché se un documento importante è uscito da questo vertice è proprio la “Dichiarazione di Los Angeles” . Un testo che progetta una migrazione coordinata e ordinata, che vuole trovare una soluzione alla crisi migratoria che attraversano gli Usa e che riguarda la maggior parte dei paesi centroamericani: paesi i cui presidenti non erano però presenti al vertice. «Nessun paese dovrebbe assumere da solo il peso dei flussi migratori», ha detto Biden, mentre presentava il testo della dichiarazione di Los Angeles insieme a i suoi pari del continente. «Dobbiamo fermare le dinamiche pericolose e illegali con le quali le persone stanno migrando. La migrazione illegale non è accettabile e metteremo al sicuro i nostri confini», ha poi aggiunto. Mentre risuonavano queste parole nel Centro di Convenzioni nel downtown di Los Angeles arrivava però la notizia di una nuova enorme carovana, circa 7000 persone, composta principalmente da venezuelani, che aveva iniziato la marcia dal Sud del Messico (Chiapas) per arrivare alla sua frontiera settentrionale con gli Usa. Inoltre la dichiarazione di Biden non può non essere letta anche in chiave di politica interna, visto e considerato che proprio la sua amministrazione aveva provato nel maggio scorso a mandare in pensione il Titolo 42. Un articolo che risale al 1944 e che fu reinterpretato da Donald Trump al fine di utilizzare l’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 come vero e proprio scudo per respingere i migranti della frontiera meridionale con il Messico, senza considerare i trattati internazionali vigenti in materia. Una norma che ha portato all’espulsione di milioni di persone alla frontiera tra Messico e Usa e la cui eliminazione costituiva per Biden una battaglia di civiltà. Battaglia però momentaneamente persa, visto che dopo l’annuncio della fine del Titolo 42 i governi repubblicani degli stati dell’Arizona, della Louisiana e del Missouri hanno chiesto a un tribunale federale di fermare la decisione e continuare con il divieto di ingresso per motivi sanitari: richiesta accolta dal giudice Robert Summerhays, del distretto occidentale della Louisiana, che con un ordine dell’ultima ora ha sospeso l’eliminazione del Titolo 42 da parte dell’amministrazione Biden.

Insomma un tema quello migratorio che sembra essere tutt’altro che risolto e che continua a essere materia divisiva tra Repubblicani e Democratici negli Usa. Non va però dimenticato che anche la posizione di Biden rispetto alla migrazione “illegale” è stata fin da subito chiara. Infatti, nello stesso giorno in cui veniva trionfalmente annunciato che sarebbe stato sospeso il Titolo 42, la ormai ex portavoce della Casa Blanca, Jen Psaki, aveva chiarito di avere una posizione tutt’altro che “accogliente” verso i migranti.

«Do not come!» (non venite!): un messaggio che richiama quello della vicepresidentessa Kamala Harris (originaria proprio della California), che aveva detto le stesse parole nel suo primo viaggio internazionale a giugno 2019 in Messico e in Guatemala.

“La Cumbre e gli interessi nel cortile di casa”.

Il flop di Biden e lo scenario latinoamericano

Il nono vertice delle Americhe è stato anche un banco di prova per la compattezza di un nuovo blocco socialista-progressista che ricalca in America Latina quanto successo nei primi anni Duemila con la cosiddetta marea rosa. Il vertice si è infatti celebrato mentre in Colombia, storico alleato Usa nella regione, era in corso una serrata campagna elettorale per il ballottaggio presidenziale celebrato il 19 giugno. Un ballottaggio che vedeva la destra uribista (quella del presidente uscente Duque) fuori dai giochi e che per la prima volta apriva la porta a un governo di sinistra nel paese sudamericano: circostanza confermatasi poi con la storica vittoria di Gustavo Petro sull’outsider Rodolfo Hernánez.


Adesso dunque con l’arrivo di Petro alla presidenza della Colombia possiamo dire che la maggioranza della popolazione dell’America Latina (circa 350 milioni di persone su 630) è governata dalla sinistra giacché diventeranno (Petro si insedierà ad agosto) ben 10 i paesi appartenenti alla sfera socialista / progressista. Qui un breve ripasso:

  • Dal 2007 il presidente del Nicaragua è Daniel Ortega, ex comandante della rivoluzione sandinista che affrontò la dittatura di Somoza;
  • Dal 2013 il presidente del Venezuela è il delfino di Hugo Chvez, Nicolas Maduro;
  • Dal 2018 il presidente di Cuba è Miguel Diaz-Canel che ha preso il timone dell’isola dopo i fratelli Castro;
  • Sempre dal 2018, il presidente del Messico è il socialista Andrés Manuel Lopéz Obrador;
  • Dal 2019 il presidente dell’Argentina è Alberto Fernandez che governa in coppia con Cristina Kirchner;
  • Dal 2020 il presidente della Bolivia e Lusi Arce, ex ministro di Evo Morales;
  • Dal 2021 il presidente del Perù è Pedro Castillo, professore contadino che ha sorpreso tutta la comunità internazionale con la sua vittoria contro Keiko Fujimori.
  • Da gennaio scorso la presidentessa dell’Honduras è Xiomara Castro, ex moglie del presidente Manuel Zelaya deposto da un colpo di stato nel 2009;
  • Da marzo scorso, il presidente del Cile è Gabriel Boric, giovane leader studentesco che ha catalizzato l’onda di protesta arrivando al Palacio de la Moneda;

In un’altra epoca questo avrebbe fatto tremare le pareti della Casa Bianca a Washington ma non oggi, perché possiamo osservare come gli interessi geopolitici e geoeconomici abbiamo sparigliato le carte e creato scenari alquanto particolari. Dentro questo gruppo di paesi di “sinistra” (o autodichiaratisi tali, visto che molti considerano Cuba, Nicaragua Venezuela semplici dittature che usano la maschera del socialismo) esistono “amici” del governo Usa o quantomeno soci d’affari, mentre tra i governi di centrodestra o destra arrivano spesso critiche o “spallate” al vicino nordamericano. Questo nuovo blocco al quale si unisce la Colombia non è però così coeso e sono forti le critiche mosse per esempio contro Venezuela, Nicaragua e Cuba da Gabriel Boric in Cile, che rappresenta una sinistra più giovane e progressista, meno incline a giustificare violenza, soprusi e violazioni massive dei diritti umani (infatti Boric ha partecipato al vertice delle Americhe non allineandosi con Messico, Bolivia e Honduras).

La società civile presente al vertice delle Americhe

L’evento di Los Angeles è iniziato in realtà il 6 giugno con la due giorni del forum della società civile promossa dalla segreteria dell’organizzazione degli Stati Americani (Oea in spagnolo), che ha favorito i tavoli di lavoro e discussione tra le decine di Ong arrivate in California, intorno ai pilastri di questo organismo multilaterale regionale (democrazia, diritti umani, sicurezza e sviluppo) e tematiche oggi cruciali come genere, digitalizzazione, energia pulita e cambio climatico. Numerosi anche gli eventi paralleli che hanno toccano i principali temi dell’agenda che è stata poi discussa dai capi di stato arrivati sulla costa ovest degli Usa.

La zona del downtown di Los Angeles da lunedì 6 giugno ha visto quindi l’arrivo di centinaia di attivisti e attiviste, accademici e accademiche, diplomatici, giornalisti e artisti: come il cubano Yotuel, che ha lanciato nel 2021 (insieme a Gente de Zona, Decemer Bueno, Manuel Osorbo e El Funky) la canzone “Patria y vida” che critica apertamente il governo di Cuba.

Trattato globale per sradicare la violenza contro le donne: Every Woman Treaty

La società civile delle Americhe ha giocato dunque un ruolo importante (con delegazioni anche dei paesi esclusi politicamente dal vertice), presentando petizioni coordinate ai rappresentanti diplomatici degli stati del continente americano su temi cruciali quali sono le sfide del cambio climatico e l’uguaglianza di genere tra gli altri. In questo senso una delle grandi petizioni che ha fatto breccia e che ha trovato l’avvallo e l’appoggio del presidente della Colombia Iván Duque e del segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani, Luis Almagro, riguarda la creazione di un nuovo trattato globale per sradicare la violenza contro donne e bambine. Al vertice infatti ha partecipato anche una delegazione dell’alleanza Every Woman Treaty: una coalizione globale di oltre 1700 attiviste per i diritti delle donne, provenienti da 128 paesi diversi e appoggiate da 840 organizzazioni. Un’alleanza internazionale che lavora dal 2013 per raggiungere uno standard globale vincolante sull’eliminazione della violenza contro donne e bambine e che dopo anni di consultazioni e lavoro di attivismo, nel novembre 2021 ha lanciato una bozza di trattato, che rappresenta un punto di partenza per gli stati per discutere e approvare un nuovo quadro giuridico globale vincolante in materia. L’appello, come detto, è stato raccolto da Iván Duque, che durante il suo discorso di chiusura, venerdì 10, ha dichiarato:

«Oggi voglio fare riferimento alla difesa illimitata dei diritti umani, e in particolare accogliere tutte le voci che chiedono a gran voce che venga adottato questo trattato internazionale per respingere ogni forma di violenza contro le donne e le bambine. Lì si concentra uno dei più grandi drammi della nostra regione…».

Anche Luis Almagro ha sottolineato che

«Abbiamo la responsabilità di promuovere e proteggere i diritti fondamentali delle donne e delle bambine in tutta la loro diversità, il diritto di ogni individuo a essere libero da ogni forma di violenza […] Dobbiamo impegnarci a promuovere urgentemente un nuovo trattato globale autonomo per porre fine alla violenza contro donne e bambine».

Dalle Americhe dunque, in uno scenario di grande simbolismo, queste due importanti voci si uniscono a quelle dei premi Nobel per la Pace Jody WilliamsShirin Ebadi e Tawakkol Karman, a quella della ex relatrice speciale dell’Onu per la violenza contro le donne Rashida Manjoo e dei presidenti della Repubblica democratica del Congo, Félix Tshisekedi, e della Nigeria, Muhammadu Buhari. Un movimento globale e plurale che chiama a una azione urgente per arrestare la violenza contro donne e bambine, una violenza che UN Women chiama “shadow pandemic” (pandemia nell’ombra) e che l’Oms cataloga come “devastantemente generalizzata”. Basti pensare che i dati dell’Onu dicono che una donna su tre nel mondo soffre violenza e che solo nel 2020, ben 81.000 donne e bambine sono state assassinate: una ogni 6 minuti e mezzo.

Proteste e attività parallele in Latinoamerica

Ovviamente non sono però mancate le proteste. Da un lato proprio di fronte al centro di convenzioni di Los Angeles, molte persone hanno manifestato contro la politica migratoria degli Usa e contro le difficoltà per ottenere i permessi di residenza nel paese nordamericano. Dall’altro alcune delegazioni della società civile dei paesi esclusi dal vertice hanno voluto far sentire il loro dissenso denunciando le politiche imperialiste degli Usa al suono di canzoni simbolo come Latinoamerica

e This is not America (il videoclip di quest’ultima canzone ha vinto un premio a Cannes 2022).

Importante inoltre segnalare che mentre si svolgevano i lavori delle delegazioni politiche e delle Ong ufficialmente accreditate per partecipare al nono vertice delle Americhe, sempre a Los Angeles è stato lanciato un vertice parallelo, sotto il nome di Vertice dei popoli per la Democrazia. Un evento critico con il “vertice dell’esclusione” di Joe Biden (così chiamato dai partitari dei governi di Cuba, Venezuela e Nicaragua). Rispetto a questo, Manolo de los Santos, rappresentante dell’Assemblea Internazionale dei Popoli (Aip), ha dichiarato a Telesur che

«in realtà, non vediamo il vertice dei popoli per la democrazia solo come un vertice opposto, ma come il vero vertice a cui parteciperanno gli esclusi, che non sono solo Cuba, Venezuela e Nicaragua, ma che sono anche i milioni di persone che all’interno degli Stati Uniti d’America non hanno il diritto di partecipare ai processi politici in atto».

 

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Gli spartiacque delle comunità latinoamericane – 1 https://ogzero.org/gli-spartiacque-delle-comunita-latinoamericane-1/ Thu, 30 Dec 2021 17:22:22 +0000 https://ogzero.org/?p=5695 L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano. L’idea di usare i molti appuntamenti elettorali del 2021, in prosecuzione nel 2022, per incardinare in un unico flusso i rivolgimenti elettorali a consuntivo dell’anno che sta finendo e in continuità nella prospettiva […]

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L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano.

L’idea di usare i molti appuntamenti elettorali del 2021, in prosecuzione nel 2022, per incardinare in un unico flusso i rivolgimenti elettorali a consuntivo dell’anno che sta finendo e in continuità nella prospettiva dell’anno che verrà, è sorta dalla consueta attenta osservazione di Diego Battistessa sui fenomeni che avvengono nel continente. Abbiamo punteggiato questo rapido excursus individuando le tappe più significative con podcast sugli aspetti che lungo l’anno ci avevano incuriositi e che confermano le scelte di Diego per proporre un’analisi posta anche in dialettica con una parallela esposizione del punto di vista di Alfredo Somoza, focalizzata sull’individuazione delle due sinistre latinoamericane: quella populista-autoritaria e quella trasparente, popolare perché nata dalle pulsioni all’emancipazione dei popoli – anche e soprattutto latinos – e dai Movimenti di rivolta al neoliberismo, che sono al centro della critica all’involuzione del Capitalismo compresa in Siamo già oltre?


Il 2021 elettorale in America Latina e nei Caraibi:
un ritorno della regione a quale sinistra?

Con la vittoria di Gabriel Boric Font le elezioni presidenziali in Cile, la cui seconda tornata elettorale si è svolta il 19 dicembre scorso, chiudono un anno elettorale turbolento nella regione. Cerchiamo di fare il punto di quanto successo e di ciò che ci aspetta per il 2022 prossimo venturo.

L’anno che si sta per concludere è iniziato con un primo importante appuntamento con le elezioni presidenziali in Ecuador, celebratesi il 7 febbraio. L’uscente Lenin Moreno godeva del più basso consenso regionale e i suoi anni di governo si erano caratterizzati per un duro scontro con colui che fu il suo padrino politico: Rafael Correa (ex presidente ecuadoregno 2007-2017). A disputarsi la presidenza del paese andino sono stati il banchiere e imprenditore Guillermo Lasso, il leader indigeno Yaku Pérez e l’economista Andrés Arauz, nuovo delfino di Correa, la cui condanna per corruzione gli ha impedito di candidarsi alla vicepresidenza. La prima tornata elettorale, nella quale si votava anche per il parlamento, ha visto la vittoria schiacciante di Arauz che però non ha superato il 50 per cento dei consensi e ha dovuto quindi affrontare il ballottaggio con Guillermo Lasso: arrivato secondo dopo un polemico testa a testa con Yaku Pérez. L’11 aprile la votazione finale ha ribaltato i pronostici e ha dato la vittoria al banchiere conservatore Lasso, in un voto che si è concentrato principalmente sul correismo o anticorreismo, polarizzando il contesto politico e sociale.

Nel Salvador le elezioni legislative e municipali del 28 febbraio hanno visto la schiacciante vittoria del partito Nuevas Ideas, facente capo al presidente in carica, Nayib Bukele.

Alfredo Somoza ce ne fece un ritratto, mentre i salvadoregni si ribellavano al presidente populista

Ottenendo 56 seggi su 84 in gioco nel Congresso e 152 consigli municipali su 262, Bukele si è assicurato il totale potere politico nel paese centroamericano. Le azioni che hanno seguito a questo nuevo accentramento dei poteri dello stato hanno provocato però duri scontri interni e la critica della comunità internazionale nei confronti del “presidente millenial” del Salvador.

Alfredo Somoza evidenzia le radici comuni di Bukele e Ortega in quell’altra sinistra latinoamericana, riprendendo i fili della insurrezione della popolazione salvadoregna impoverita dal populismo
“Corsi e ricorsi nella storia del Mesoamerica”.

 


La sinistra paternalista delle Ande

Il 7 marzo nella Bolivia del presidente Luis Alberto Arce Catacora, si è votato per le elezioni subnazionali nelle quali la popolazione veniva chiamata a votare per i 9 dipartimenti che compongono lo stato plurinazionale della Bolivia e 336 comuni. Il Mas (Movimiento al Socialismo), partito dell’attuale presidente – e dell’ex presidente Evo Morales –, ha ottenuto la vittoria solo in 3 dipartimenti (Cochabamba, Oruro e Potosí) ma si è affermato in più di due terzi dei comuni: ben 240.

In aprile la scena politica regionale viene accaparrata dal Perù dove, dopo anni di terremoto sociale e politico, si cerca di ritornare a una normalità democratica. Tra i numerosi candidati che si presentano alla sfida presidenziale, sono due persone che rappresentano poli opposti che arrivano al ballottaggio. Si tratta di Keiko Fujimori (figlia dell’ex presidente Alberto Fujimori) del partito di destra Fuerza Popular e del candidato Pedro Castillo, un “signor nessuno” membro del partito di sinistra Perú Libre. Poi il 6 giugno nonostante la dura campagna mediatica contro Castillo, maestro elementare delle zone rurali, portata avanti da Keiko e dai settori conservatori del paese, la sinistra vince. Il Perù rimane con il fiato sospeso perché il risultato ufficiale tarda ad arrivare. Giorni di tensione, ricorsi, frustrazione fino al 19 di luglio, quando finalmente anche Keiko Fujimori si deve arrendere e riconoscere Pedro Castillo come nuovo presidente eletto del Perù.

Del tema dell’estrattivismo peruviano avevamo parlato con Matteo Tortone

 

 

Sempre nel mese di aprile (il 19) il Partito Comunista di Cuba – Pcc conferma il presidente Miguel Díaz-Canel come primo segretario, segnano la fine di un’epoca. Il 16 dello stesso mese infatti, Raúl Castro (89 anni) si era dimesso dalla carica del partito per dare spazio a una nuova generazione di rivoluzionari che potessero portare avanti lo spirito del castrismo. L’isola, ancora sotto embargo, è però oggi scossa dalle proteste di numerosi Artivisti che lottano per ottenere libertà di espressione e contro la repressione politica e sociale del partito unico.


La sinistra costituente spinta dai Movimenti popolari

Aprile avrebbe dovuto essere inoltre il mese storico per le votazioni che in Cile dovevano portare il popolo a scegliere i membri dell’Assemblea costituente ma per l’emergenza Covid-19 il processo elettorale è stato spostato al 15 e 16 maggio. Nella stessa data si sono svolte inoltre le elezioni municipali e quelle dei governatori regionali, previste inizialmente per il 20 ottobre 2020 e rimandate per ben 4 volte. Il risultato è stato un plebiscito per le eterogenee forze politiche della sinistra che hanno ottenuto più di due terzi dei seggi dell’Assemblea e risultati storici come la vittoria della giovane comunista Irací Hassler: eletta sindaco della capitale Santiago.

 Anche in questo caso possiamo affidare al commento di Alfredo Somoza il compiacimento per la svolta cilena:
“Chile despertó y entierra Pinochet”.

Giugno ci porta alle elezioni federali e statali in Messico dove Morena, il partito dell’attuale presidente Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo) ha mantenuto il controllo del Congresso (grazie alle alleanze), perdendo però la maggioranza assoluta. L’obiettivo di Amlo di ottenere una maggioranza qualificata insieme al Pt e al Partito dei Verdi si è vista dunque frustrata chiudendo le porte alle riforme costituzionali che erano l’obiettivo di Morena per i prossimi tre anni di presidenza.

A luglio si è tornato a votare in Cile per le primarie presidenziali e per la prima volta è apparso il nome di Boric, ma soprattutto la regione è stata sconvolta da ciò che succede a Haiti. Nella notte tra 6 e 7 luglio, un commando di 28 persone prende d’assalto la residenza del presidente Jovenel Moïse nel quartiere Pelerin, a Pourt-au-Prince, la capitale del paese. Sette uomini armati entrano nella casa sparando 16 colpi al presidente e ferendo anche sua moglie (che si è finta morta per sopravvivere all’attacco). Il magnicidio fa piombare il paese ancora più nel caos e scopre trame e interessi internazionali che intrecciano Colombia, Ecuador, Usa e il piccolo paese caraibico. Le elezioni presidenziali previste per novembre sono state spostate a data da destinarsi e nel frattempo Ariel Henry, membro del partito Inite (centro sinistra) funge da presidente provvisorio.

Diego Battistessa proprio a luglio commentava così la deriva haitiana:

 


La sinistra populista, dinastica e totalitaria

Il 12 di settembre in Argentina più di 34 milioni di persone sono state chiamate a votare alle primarie aperte simultanee e obbligatorie (Paso) per definire le liste dei candidati che si sarebbero sfidati a novembre per rinnovare metà della Camera dei deputati (127 dei 257 seggi) e più di un terzo del Senato (24 dei 54 seggi). In questo contesto l’opposizione è riuscita ad assestare un duro colpo al partito del presidente Alberto Fernández, vincendo nella provincia di Buenos Aires, principale roccaforte della coalizione di governo, Frente de Todos. La tendenza delle Paso è stata poi confermata nelle elezioni del 14 novembre dove la coalizione dell’opposizione Juntos por el Cambio ha vinto in 13 province, includendo i cinque distretti più popolosi del paese: la provincia di Buenos Aires, la Città Autonoma di Buenos Aires, Córdoba, Santa Fe e Mendoza. In generale, al livello nazionale l’opposizione è riuscita a staccare di ben 9 punti percentuali la colazione di governo, ottenendo quasi il 42% dei voti contro il 33% del Kirchnerismo.

Nel frattempo però, a ottobre si sono tenute le elezioni municipali nei 261 distretti territoriali del Paraguay: elezioni che erano previste per il 2020 ma che causa coronavirus furono rimandate. Il risultato più importante (e anche il più discusso) è stata la rielezione di Óscar Rodríguez, membro del partito di governo (Partido colorado) nella capitale Asunción, nonostante gli scandali di corruzione che lo hanno visto protagonista.

 

Il  7 novembre ci sono state inoltre le elezioni “farsa” in Nicaragua che hanno dato ancora una volta una vittoria “schiacciante” a Daniel Ortega e alla vicepresidente (sua moglie) Rosario Murillo. Dietro questo apparente plebiscito (con dati di astensionismo che si aggirano intorno all’80%) ci sono infatti molteplici violazioni dei diritti umani: una repressione senza precedenti, l’incarcerazione arbitraria (iniziata a maggio 2021) di 39 persone identificate dal regime come opposizione, tra queste sette aspiranti alla presidenza.

Diego Battistessa ci aveva già fatto a luglio un parallelo tra due situazioni di quell’altra sinistra simile a quello descritto da Alfredo Somoza tra Bukele e Ortega, questa volta la incredibile dinastia nicaraguense era posta a confronto con l’eredità castrista

“Las revoluciones desencantadas y socavadas”.

Il 21 dello stesso mese si è tornato a votare in Venezuela, in una votazione dove l’opposizione, anche se ancora frammentata, ha deciso di partecipare (prima volta dal 2018). Il Partito Socialista Unito del Venezuela – Psuv (partito di governo) ha vinto 20 dei 23 governi locali in ballo. All’opposizione invece la vittoria negli stati di Cojedes, Nueva Esparta e Zulia. Ancora una volta queste votazioni hanno suscitato non poche polemiche, anche per le irregolarità registrate dalla delegazione degli osservatori elettorali dell’UE presente sul territorio fin dal 14 ottobre e tornata in Venezuela dopo 15 anni di assenza. I delegati dell’UE sono stati chiamati spie e nemici del popolo venezuelano dallo stesso Maduro, che come se non bastasse, ha invalidato la vittoria del candidato dell’opposizione Freddy Superlano nello stato di Barinas. Qui infatti Superlano, della Mud (Mesa de la Unidad Democrática) ha affrontato sconfiggendolo, il fratello del defunto Hugo Chávez, ovvero Agernis Chávez. Barinas però è anche lo stato che ha dato i natali a Chávez ed è dunque un simbolo trascendentale per la rivoluzione bolivariana. In questo senso, accogliendo il diktat di Maduro, il Tribunal Supremo de Justicia (Tsj) ha informato a fine novembre che le elezioni a Barinas sono state invalidate e che si ripeteranno il 9 gennaio 2022: Superlano non potrà partecipare visto che su di lui esiste un processo amministrativo che gli impedisce di ricoprire cariche pubbliche.


Novembre ha visto poi la prima tornata elettorale delle presidenziali cilene che ha determinato la definizione del ballottaggio tra Boric e Kast, con il quale abbiamo iniziato questo veloce excursus, ma anche le storiche elezioni in Honduras: elezioni che hanno portato alla vittoria della leader di centrosinistra Xiomara Castro. Con una partecipazione del 70% degli aventi diritto, il paese centroamericano ha messo fine a 12 anni di neoliberismo (iniziato dopo il colpo di stato del 2009), dando la presidenza a una donna e sancendo la vittoria dei movimenti sociali e delle organizzazioni che si battono per la difesa dei territori e dei beni comuni.

Su queste due elezioni avevamo fatto il punto con Davide Matrone:

“Cile e Honduras: motivi sociali per confrontare responsi elettorali”.

Il mese si è concluso con un altro avvenimento epocale, ovvero la cerimonia attraverso la quale una giurista, Sandra Mason, è diventata la prima presidente della recente nata Repubblica delle Barbados. La cerimonia attraverso la quale l’isola caraibica ha cambiato il suo status da Monarchia Costituzionale (sotto il Regno di Elisabetta II) a Repubblica è avvenuta il 30 novembre. Un passaggio di consegne che ha coinciso con il 55esimo anniversario dell’indipendenza dell’isola caraibica, avvenuta nel 1966 ma che fino a fine novembre aveva continuato a essere legata alla Corona inglese.

Cosa ci aspetta nel 2022?

Se il 2021 è stato “senza tregua”, anche il 2022 ha davvero molto da offrire in termini di elezioni e processi elettorali.

Come già detto il calendario elettorale vedrà nuovamente a gennaio le elezioni nello stato di Barinas in Venezuela dove, senza troppa immaginazione, verrà dichiarato governatore Agernis Chávez. Il 6 febbraio si sposterà in Costa Rica per le elezioni legislative e presidenziali con una eventuale seconda tornata elettorale prevista per il 3 aprile. Ancora da definire poi le date delle elezioni “comarcali” a Panama ma soprattutto quelle del plebiscito nazionale in Cile per l’approvazione della nuova Costituzione. Inoltre il 2 ottobre si tornerà ancora una volta a votare in Perù per le elezioni regionali e municipali, sempre e quando le azioni di “spodestamento” di Pedro Castillo da parte dell’opposizioni non vadano a buon fine e non aprano la strada a nuovi e incerti scenari politici.

I due appuntamenti salienti però riguardano Colombia e Brasile dove due visioni diverse di società e di mondo si daranno battaglia per la presidenza.

In Colombia quest’anno siamo andati molte volte dapprima, a febbraio, con Ana Cristina Vargas, che poi è intervenuta in voce descrivendo l’insurrezione antiuribista di maggio:

e poi ci ha accompagnato anche Tullio Togni nei suoi vari interventi dal territorio, a giugno e dicembre
“Differenti protagonisti della rivolta colombiana. La necropolitica uribista”.

In Colombia, paese segnato da un processo di Pace che non decolla, da una disuguaglianza sociale in aumento e da interminabili casi di corruzione, violenza e impunità; l’Uribismo (movimento ideologico conservatore che segue la linea del’ex presidente Alvaro Uribe Vélez) dovrà cercare di frenare la sinistra in aumento di consenso. Il presidente uscente, l’uribista Ivan Duque, è stato indicato come il principale colpevole del fallimento degli accordi di Pace siglati da Juan Manuel Santos con le Farc e le proteste iniziate il 28 aprile 2021 hanno sancito la frattura definitiva con il popolo. La credibilità di Duque e la sua popolarità hanno subito dei duri colpi, anche a livello internazionale per i report delle ong e anche dell’Onu, sulle violazioni dei diritti umani perpetrate dagli squadroni antisommossa (Esmad) durante le proteste. In questo senso neanche i successi militari come la cattura del narcotrafficante Otoniel sono serviti a ridare smalto alla figura di Duque che milita nel partito Centro democratico, fondato da Uribe nel 2013.  Dall’altro lato la lista dei precandidati presidenziali continua ad ampliarsi favorendo una frammentazione del voto: a sinistra spicca il senatore Gustavo Petro che proverà per la terza volta a diventare presidente. Le elezioni si svolgeranno il 29 di maggio (prima tornata) con il ballottaggio previsto per il 19 giugno. Prima di quella data ci sarà un altro appuntamento elettorale che servirà per avere il polso della situazione, ovvero le elezioni legislative del 13 marzo.


In Brasile la situazione non solo è complessa ma è anche molto tesa. L’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, una volta superati i “problemi giudiziari” non ha nascosto la volontà di candidarsi per le presidenziali che si svolgeranno in prima istanza il 2 ottobre, con il ballottaggio previsto per il 30 ottobre. Da un lato la sua popolarità è in crescita e dall’altro Jair Bolsonaro, l’attuale presidente cerca di correre ai ripari dopo anni di politiche aggressive, escludenti e negazioniste nei confronti del Covid-19 e dei relativi vaccini. La popolarità di Bolsonaro non gode di buona salute ma nel frattempo il 30 novembre scorso lo stesso Bolsonaro si è affiliato al Partido liberal (destra), pensando a una ricandidatura per il periodo 2022- 2026.

Altre figure di rilievo nel paese hanno annunciato la loro volontà di candidarsi e tra queste spicca sicuramente il nome di Sergio Moro. Moro infatti a novembre scorso si è affiliato al partito di centro Podemos, in vista della partecipazione alle elezioni del 2022, presentandosi come una terza via per il Brasile. La possibile candidatura a presidente di questo ex giudice di 49 anni ha sollevato però non poche polemiche visto che proprio lui aveva diretto in modo non imparziale la mega operazione anticorruzione conosciuta come “Lava Jato” che aveva portato alla carcerazione di Lula. La non imparzialità di Moro, sostenuta a più riprese da molte voci della sinistra brasiliana, è stata sancita in modo definitivo dalla Seconda sezione della Corte suprema del Brasile, che ha dichiarato martedì 23 marzo 2021 che l’ex giudice non ha agito con “imparzialità” in uno dei processi contro l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, le cui sentenze erano già state annullate in precedenza.

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Ayotzinapa, sei anni fa se li sono presi vivi https://ogzero.org/la-realta-distopica-della-necropolitica-e-il-potere-di-decidere-chi-deve-vivere-o-morire/ Sun, 27 Sep 2020 17:06:05 +0000 http://ogzero.org/?p=1280 Sei anni dopo la strage dei normalistas di Ayotzinapa il governo messicano riconosce gli insabbiamenti e arresta 70 militari, considerandoli responsabili per i fatti avvenuti a Iguala il 26 settembre 2020. Miguel A. Cabañas ha incastonato in un suo lungo saggio quella collusione di apparati militari, magistratura, politici corrotti e cartelli della droga, riconducendola alla necropolitica che affonda le sue radici nel neoliberismo e nel saccheggio del territorio, delle risorse e della manodopera da parte delle multinazionali, ottenendo una società dispotica animata dall'horrorismo

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War on drugs e repressione di classe

Il potere di decidere chi deve vivere o morire: «La guerra alle droghe rappresenta un importante dispositivo di controllo sociale per i governi nazionali. Il massacro di Apatzingán o il caso di Ayotzinapa in Messico e il Plan Colombia sono tra i più chiari esempi della commistione fra guerra alle droghe e repressione sociale… è ben più di una lotta contro i signori della droga: essa rappresenta oggi uno strumento cardine nelle politiche interne, nonché la più importante strategia per garantire la presenza economico-militare degli Stati Uniti in America Latina». Così Ana Cristina Vargas nel 2017 riassumeva il brodo di coltura geopolitico in cui  si è potuta consumare la notte da incubo di Iguala, facendo risalire alla Necropolitica la causa di questo massacro tra i più famosi per efferatezza nella travagliata storia contemporanea della federazione messicana, soltanto perché il caso Ayotzinapa ha ottenuto la dovuta attenzione da parte della stampa internazionale mettendo radici nella coscienza messicana perché ha scoperchiato i meccanismi del controllo mediatico e ufficiale prodotti in Messico.

Il ricordo degli studenti di Ayotzinapa è ancora tenuto vivo dai genitori dei 43 normalistas torturati, uccisi e ridotti in cenere nella collusione tra potere politico, cartelli del Guerrero e longa manus militare. Una strage avvenuta il 26 settembre 2014 a Iguala, per la quale il 27 settembre 2020 si sono viste migliaia di persone riversarsi nello Zocalo del DF per chiedere una verità accettabile. Questo ha smosso il procuratore Omar Gómez Trejo a dichiarare che sono stati spiccati 70 ordini di cattura ai danni di militari e magistrati dell’epoca (e 34 eseguiti), mentre Andrés Manuel López Obrador ha alluso a una falsa verità sostenuta dal governo precedente di Enrique Peña Neto

Amlo, presidente del Messico

Ma qual è lo sfondo su cui scorrono le immagini di Iguala e in che contesto deve affondarsi l’analisi di quella Necropolitica che continua a ispirare i rapporti coloniali tra le due sponde del Rio Bravo / Rio Grande? Proponiamo qui alcuni brani tratti dal volume Narcos del Norte, pubblicato nel 2017 per la collana di Orizzonti geopolitici di Rosenberg & Sellier. [OGzero]


Neoliberismo e Necropolitica

di Miguel A. Cabañas

La Guerra alle droghe fin dal suo concepimento nel xx secolo non ha ottenuto di eliminare l’insaziabile brama del consumo di stupefacenti. Si può anzi sostenere facilmente come la politica della droga abbia paradossalmente stimolato la produzione, il consumo e l’intervento di contrasto. Sappiamo che già molti hanno prestato la propria voce a criticare le sue conseguenze, la sua inefficacia, l’interminabile repressione che ne deriva. Però la politica non è cambiata, al contrario si è intensificata. Anche la Guerra alle droghe si è modificata entrando in contatto con un altro tipo di conflitti: la Guerra Fredda o quella al terrorismo. È cominciata come una metafora politica e adesso si è trasformata in una “guerra reale” in cui l’esercito e la sua tecnica nell’uccidere son stati resi accessibili e comuni, anche per le strade delle città. Nel XXI secolo il Messico sta patendo le conseguenze di questa “guerra aperta” tra lo stato e il narcotraffico. Questo, tuttavia, è più complesso di quanto i mezzi di comunicazione cerchino di farci credere. Non è una guerra tra buoni e cattivi, e neppure uno stato di belligeranza “legale”; i protagonisti che rimangono esterni al quadro sono le multinazionali che stanno approfittando delle riforme neoliberiste messicane. Come si vedrà in seguito la guerra si concretizza contro la popolazione messicana più debole, contro gli indifesi che non detengono alcun accesso al “monopolio dalla violenza”.

La violenza, secondo Antonio Gramsci, è uno strumento di dominio di una classe sopra le altre ed è anche usata per ottenere il consenso dei governati, al fine di istituire la propria egemonia. Perciò non ci si può esimere dall’intendere il fenomeno della violenza se non contestualizzandolo nei mutamenti neoliberisti avvenuti in Messico e nell’ascesa di un nuovo genere di capitali di provenienza illecita che prendono parte alla lotta per il potere. Come ci ricorda Pierre Bourdieu: «Ogni esercizio della forza è accompagnato da un discorso che mira a legittimare la forza di colui che lo esercita; si può addirittura affermare che la particolarità di ogni rapporto di forza consiste nel dissimularsi come rapporto di forza e di esprimere tutta la sua forza soltanto nella misura in cui riesce a dissimularsi come tale». L’attuale Guerra alle droghe viene pensata come tentativo di legittimare la violenza che nasce dalla svolta neoliberale e nel contesto storico della crisi di legittimazione patita da Felipe Calderón. Non possiamo tralasciare il fatto che il tessuto legato all’accordo strategico Iniziativa Mérida alimentato dal governo di George W. Bush si presenta nell’ambito della convergenza di interessi di entrambi i paesi e dei risultati del Plan Colombia, il cui scopo era rendere questo paese stabile secondo i parametri neoliberisti e il Trattato di libero commercio ratificato nel 2007 tra Stati Uniti e Colombia e approvato dal Congresso statunitense nel 2011. Il Plan Colombia fu approvato negli Stati Uniti con il pretesto della Guerra alle droghe e, comunque, il suo principale obiettivo era di rintuzzare il potere dei gruppi rivoluzionari. Molti assicurano che il Plan Colombia è stato il motivo per cui le Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) decisero di partecipare ai piani di pace, essendo state decisamente indebolite dalla guerra. Secondo le cifre ufficiali, con il rafforzamento delle forze di sicurezza colombiane attraverso una sovvenzione di 10 miliardi di dollari a partire dal 1999, il piano ha fatto in modo che i membri delle Farc perdessero la metà dei combattenti (erano 20 000 e nel 2009 erano ridotti a 10 000), perdendo di conseguenza le zone da loro controllate, sia in ambito urbano che nelle campagne. La Iniziativa Mérida include due miliardi di dollari a partire dal 2008 destinati a rinsaldare ordine e giustizia e a sostenere i diritti umani in Messico. Purtroppo in realtà quello che ha prodotto è una violenza indiscriminata contro i cittadini da parte delle forze armate, dello stato, dei paramilitari e delle organizzazioni criminali. Il congresso degli Stati Uniti ha stanziato 139 milioni di dollari per il 2016 e il 2017 a dispetto del fatto che il governo messicano fosse stato molto criticato per gli abusi in materia di diritti umani (in particolare il caso di Ayotzinapa ha conquistato una grande solidarietà internazionale) e per i casi di tortura, di esecuzioni sommarie e le sparizioni forzate nelle quali si vedono coinvolti membri dei corpi di sicurezza e più specificamente dell’esercito. Era dai tempi della Guerra Fredda che gli Stati Uniti non adottavano un approccio tanto interventista come adesso: stanno cercando di “vincere” guerre volte ad aprire nuovi mercati. La Guerra alle droghe si prospetta come la leva dell’implementazione di un nuovo contratto sociale: il neoliberalismo. Durante la Guerra Fredda gli Stati Uniti avevano appoggiato e promosso le dittature che tralignavano in dittature della borghesia. Adesso siamo passati a un altro modello: la dittatura del capitale. In questo caso ci riferiamo ai due tipi di capitale, quello legale e quello illegale che circola grazie al neoliberismo. Il capitale che si appropria dei minerali e di altre risorse attraverso la spoliazione delle popolazioni latinoamericane; e allo stesso modo il capitale del narcotraffico che sottomette le popolazioni per riprodursi e duplicarsi, mentre le forze di sicurezza fanno la guardia agli interessi dei padroni del capitale.

Neoliberismo: dal Nafta alla svendita di Pemex e Cfe

Il potere del capitale (legale e illegale) collabora per ottenere più benefici. Può essere in concorrenza, ma stipulare anche taciti accordi. Il neoliberismo si consolidò in Messico con il Trattato di libero commercio del Nordamerica (Nafta) nel 1993, che ebbe come conseguenza la ristrutturazione dell’agricoltura e dell’industria messicane: per esempio Donna Chollett analizza i suoi effetti sull’industria saccarifera del Michoacán, quando il presidente Salinas de Gortari privatizzò i mulini dello zucchero statali. L’antropologa del Minnesota spiega come il vuoto economico causato dal trattato fu riempito dall’attività del narcotraffico che portò alla violenza tuttora esercitata nella zona del Puruarán, nel Michoacán. In altri casi i narcos si sono infiltrati nelle industrie, come nel caso della raffineria di resina Ario sempre nel Michoacán. La compagnia Eastman Chemical del Tennessee continuava comunque a fare affari con la raffineria di proprietà de Los Templarios che intimidiva i lavoratori, uccideva, stuprava e taglieggiava, nonostante le informazioni che aveva ricevuto.

Successivamente in Messico si sono privatizzate le telecomunicazioni e il comparto minerario e energetico. Queste riforme neoliberiste hanno portato all’ingresso di compagnie multinazionali che non avevano alcun interesse a rafforzare la società civile, anzi al contrario entravano nelle comunità per sfruttare il territorio e la manodopera. Nel 2009 Calderón “ristrutturò” l’industria dell’energia elettrica e 44 000 lavoratori si trovarono senza lavoro quando si chiuse la compagnia Luz y Fuerza del Centro. Nel 2012 Pemex, l’ente petrolifero statale del Messico, era stato valutato secondo la rivista “Forbes” 416 miliardi di dollari ed era l’ottava azienda petrolifera più grande del mondo, e tuttavia nel 2013 il governo di Enrique Peña Nieto dichiarò che l’impresa registrava perdite e dunque il settore energetico aveva bisogno di una riforma. Si può ipotizzare che i narcos abbiano cominciato a rubare a Pemex migliaia e migliaia di dollari nell’ambito petrolifero nel 2014, per quanto queste circostanze non siano state corroborate da altro che “informazioni ufficiose”. Dall’altro lato del muro gli avvoltoi osservavano la Pemex come un cadavere che si sarebbe potuto spolpare in qualsiasi momento. George Baker, direttore e redattore di “Mexico Energy Intelligence”, una newsletter di orientamento industriale e politico per consiglieri e analisti dell’industria petrolifera texana ma con lo sguardo rivolto al Messico, spiegò nel 2015 alla Cbc News che il 15 per cento era controllato dai narcos e il costo era di 114 miliardi di perdite e «questa è una grande ammissione di vulnerabilità». Malgrado la presenza dell’esercito a Tamaulipas, secondo le informazioni ufficiali, i furti sono aumentati di numero in questi anni. Non funziona secondo la logica che vorrebbe che così come Pemex era a rischio di saccheggio da parte dei narcos prima, allo stesso modo lo sarebbero state anche le compagnie straniere, una volta subentrate nel controllo dell’ente petrolifero. Tuttavia si usò ideologicamente questo argomento per giustificare la necessità di privatizzare la Pemex. Tra il 2013 e il 2015 il governo di Enrique Peña Nieto decapitalizzò Pemex e Cfe (la Comisión Federal de la Electricidad), stornando in segreto 240 miliardi e 518 milioni di pesos (circa 14 miliardi di dollari) del patrimonio nazionale investito in queste imprese e lo ridiresse su altre spese di bilancio. I disinvestimenti nelle due imprese più produttive dello stato messicano aprivano anche la strada alle multinazionali per competere in modo iniquo nel sistema delle aste relative ai contratti, nelle quali si stabiliva la nuova agenda di progetti energetici. Le multinazionali lavoravano con il beneplacito e l’aiuto dei signori della guerra o dei narcos che controllavano certe zone.

I cartelli messicani del narcotraffico

Violenza di stato e terrore narcos per imporre riforme del neoliberismo

la vita e la morte sono regolamentate dal mercato e dalla logica neoliberista tramite la creazione di uno “stato di emergenza” nel quale le forze di sicurezza dello stato possono intervenire con totale carta bianca. Il narcotraffico cresce, si riproduce e si moltiplica nel sistema neoliberale. Inoltre questo partecipa in toto e attivamente a questa neoliberalizzazione e privatizzazione con la preoccupazione di ripulire il denaro sporco.

Necropolitica ed esistenze cestinabili

Achille Mbembe definisce “necropolitica” come la costruzione della sovranità o il potere di decidere chi deve vivere o morire. Contiene pure l’idea del “biopotere” intesa come il dominio della vita in merito al quale il potere prende il controllo in uno “stato di emergenza”. La necropolitica in Messico assembla il neoliberismo con i suoi accompagnatori, i narcos. Entrambi si appoggiano l’un l’altro per sopraffare una popolazione che si trova in un sistema economico che investe in morte. Il problema delle comunità messicane è che non abbassano la guardia rispettando i dettami di questa necropolitica e continuano a lottare per i loro diritti: un esempio è costituito dai padri dei massacrati di Ayotzinapa.

Ayotzinapa - massacro di Igual

Le vite dei poveri e di quelli che si oppongono al sistema vengono trasformate in esistenze cestinabili. Il ribelle, il migrante, il rifugiato sono rifiuti. La popolazione si trasforma in scudo del potere, in qualcos’altro che lo stato non deve difendere, anzi in qualcosa che può essere scomodo e di cui sbarazzarsi. Come afferma Howard Campbell: «I flussi del narcotraffico sono evidenti e fortemente creati dalla globalizzazione neoliberista […] il narcotraffico frontaliero e il fenomeno culturale che chiamo Dwz [Drug War Zone: zona di Guerra alla droga] non possono essere totalmente compresi senza metterli in relazione ai gruppi del crimine internazionale e alle strutture del potere sociale ed economico globale».

Horrorismo, cannibalismo e narcomantas

L’horrorismo è esattamente la violenza nei confronti del corpo vulnerabile e esercitata contro gli indifesi. Questo tipo di violenza estrema è passato alla “legalità” in questo mondo globalizzato e politicizzato dalla guerra al terrorismo e alle droghe. Gli Stati Uniti mantengono prigioni clandestine dove vengono praticate torture e perpetrati orrori contro persone indifese che non saranno giudicate dalla giustizia ordinaria, ma piuttosto secondo le leggi dello stato di eccezione promulgate a cominciare dagli attentati dell’Undici Settembre. Parallelamente i narcos e le forze di sicurezza usano la tortura e altre tecniche orrificanti per diffondere la paura che trattiene la popolazione nella sfera di potere del capitale.

Le decapitazioni si sono trasformate in modo da esprimere questo orrore e poi trasmetterlo attraverso i media con messaggi infarciti di errori ortografici nelle ben note narcomantas che sfidano gli altri gruppi o lo stato stesso. Si tratta di una forma di propaganda primitiva che consegna il messaggio di paura a tutti quelli che non vogliono arrendersi. Le esecuzioni sommarie perpetrate dalle forze di sicurezza con il “colpo di grazia” in fronte mandano lo stesso messaggio territoriale. È l’avviso che non ci sarà pietà contro il nemico, chiunque egli sia. La tortura è la tecnologia più disumanizzante che maneggia l’essere umano come un taglio di carne e trova la forma più orripilante di disumanizzare l’“altro”. Le autorità la usano e i narcos la perfezionano.

L’abuso violento è una maniera per demoralizzare il nemico, per provare che la violenza è una forma di piacere per il barbaro. Il cannibalismo è stato adoperato da Los Zetas e adesso anche dal Cjng (Cártel Jalisco Nueva Generación). Mangiarsi il corpo del proprio nemico acquisendo così misticamente la sua forza era una pratica adottata in precedenza dal gruppo militare Los Kaibiles nella lotta contro i rivoluzionari nel Guatemala del dittatore Efraín Ríos Montt. Los Kaibiles collaborarono con Los Zetas e Los Zetas cominciarono a fare del cannibalismo una forma di intimidazione del nemico e come “patto di fratellanza” si mangiavano le cosce dei nemici avvolte nei tacos condividendole con tutti i presenti. Entrambi, Los Kaibiles e Los Zetas, furono addestrati dalle Forze speciali della School of the Americas (Escuela de Las Américas) a Fort Benning, in Georgia.

Le tante menzogne sulla notte di Iguala

Uno studente di Ayotzinapa superstite della strage di Iguala

Fin dall’inizio sorse il sospetto che l’esercito fosse stato informato di quello che capitava e che non avesse fatto nulla per evitare le sparizioni e la violenza di quella notte. Già nel dicembre 2014 un reportage della rivista d’inchiesta messicana “Proceso” di Anabel Hernández e Steve Fisher, usando testimoni, video, rapporti inediti e dichiarazioni di magistrati, concludeva che la polizia federale aveva partecipato direttamente e attivamente all’aggressione ai normalistas. Ottennero anche un documento governativo del Guerrero in cui si provava come gli studenti della Escuela Normal de Ayotzinapa erano stati seguiti fin dalla loro uscita da agenti della amministrazione federale e statale. Secondo questo documento «alle 17,59 il Centro de Control, Comando, Comunicaciones y Cómputo (C4) di Chilpancingo ha informato che i normalistas erano partiti da Ayotzinapa diretti a Iguala. Alle 20 la PF [polizia federale] e la polizia statale hanno raggiunto l’autostrada federale Chilpancingo-Iguala, dove gli studenti stavano cominciando a raccogliere denaro per una colletta. Alle 21,22 il comandante della base della PF, Luis Antonio Dorantes, è stato informato dell’ingresso dei giovani al terminal degli autobus e alle 21,40 il C4 di Iguala ha segnalato la prima sparatoria». Ma questo rapporto affermava: «anche l’esercito ha operato». Le modalità del C4, che opera con video e fotografie, fa sì che tutti i differenti livelli della polizia siano simultaneamente informati. Questo sistema è stato istituito per coordinare gli sforzi dei distinti organi di polizia contro il crimine organizzato. In questa caso Hernández e Fisher inquadravano la dinamica all’interno della guerra sporca contro «gruppi di attivisti politici in formazione».

Nel settembre 2015 i membri della commissione di esperti comparirono davanti alla Commissione per i diritti umani del DF (Comisión de Derechos Humanos del Distrito Federal) e presentarono la Relazione Ayotzinapa (El Informe Ayotzinapa). Il documento di 560 pagine contiene i risultati dell’inchiesta indipendente seguita dalla commissione che include documentazione della procura stessa (Pgr e Pgj) del Guerrero. Giunsero alla conclusione che per opere o omissioni furono coinvolti almeno cinque corpi di sicurezza: l’esercito messicano, la polizia federale, quella statale del Guerrero, la polizia municipale di Iguala e quella di Cocula. Lo smarrimento di alcune prove e video del C4 evidenziavano l’insabbiamento della verità e l’impunità dei colpevoli. Ma questo caso evidenziava anche la grave crisi umanitaria che viveva il Messico, con l’esercito nel mirino delle accuse. Il 5 ottobre il segretario alla Difesa nazionale comparve nel notiziario di Televisa a ripetere che il 27° battaglione di Iguala non avrebbe conferito con la commissione o con nessun altro al riguardo, perché – assicurava – non era colpevole di nulla, dopodiché minacciò di dimettersi dalla carica se i suoi soldati fossero stati interrogati da un gruppo di investigatori stranieri.

Dopo vari anni di inchieste Hernández pubblicò il suo libro La verdadera noche de Iguala. Una delle domande di Hernández senza risposta era come mai gli scomparsi provenissero da un autobus specifico mentre gli altri non erano stati aggrediti allo stesso modo. Nella documentazione della Pgr veniva menzionato anche un quinto mezzo che all’inizio compare nei documenti dell’inchiesta e di cui a poco a poco ci si è “dimenticati”. “Il quinto autobus” è l’unico che non sia stato assalito a fucilate dalla polizia municipale, ma è stato intercettato dalla polizia federale e gli studenti trasferiti sotto la minaccia delle armi. I due autobus Estrella de Oro requisiti dagli studenti di Ayotzinapa sono quelli intercettati dalle forze statali. Però Anabel Hernández è andata oltre: ha assodato che il 27° fanteria era il corpo operativo agli ordini di un boss locale impiegato a recuperare i pacchi di eroina che erano stati nascosti su questo quinto autobus e che, essendosi accorti gli studenti di quello che stava capitando, furono fatti sparire perché non rimanesse alcun testimone oculare. Il libro evidenzia che la Pgr chiese di aprire un’inchiesta sul 27° fanteria, ma fu ostacolata da ordini presidenziali. Il seguente documento segreto sancisce tutto ciò: «Si provveda… a che si allarghi l’inchiesta riguardo al capitano José Martínez Crespo con l’intento di fare piena luce sugli addebiti che sono scaturiti in relazione a possibili connivenze del suddetto con la delinquenza organizzata e i risultati della quale siano rimessi alla Subprocuraduría Especializada en Investigación de Delincuencia Organizada (Seido)». Secondo Hernández esistono anche prove balistiche della presenza e del coinvolgimento nell’attacco dell’esercito sul luogo del crimine. Negli ultimi due anni e mezzo l’esercito ha respinto la richiesta di ispezionare le sue strutture e si è rifiutato categoricamente di rilasciare dichiarazioni riguardo alla torbida vicenda della sparizione dei 43. Peña Nieto ha promosso il militare, Alejandro Saavedra Hernández, che era al comando del 27° fanteria quella notte. Due anni dopo e durante l’ondata di maggior violenza scatenata nello stato, secondo il quotidiano “El País” «due mesi dopo la sparizione, Saavedra Hernández acquisì poteri ancora maggiori e fu nominato comandante della IX regione militare del Guerrero», e due anni dopo arrivò addirittura a ricoprire l’incarico di nuovo ispettore e supervisore generale dell’esercito messicano. I padri dei 43 continuano a ripetere che Saavedra Hernández fu una delle menti che orchestrarono quanto accadde quella notte del 2014 a Iguala.

Secondo l’inchiesta di Hernández nel suo libro La Verdadera Noche de Iguala: La historia que el gobierno trató de ocultar, nel Guerrero «opera una rete di complicità tra autisti di autobus, passeggeri e diversi gruppi criminali per trasferire la droga; normalmente lo scambio funzionava senza contrattempi grazie alla corruzione che lo proteggeva». Questa connivenza tra il legale e l’illegale nel Guerrero è quello che ha fatto sì che gli studenti di Ayotzinapa costituissero un inconveniente nella logica di mercato. Questo incidente pone concretamente in evidenza la collusione di tutti i livelli dello stato e delle forze dell’ordine per coprire la verità e far sì che la gente non abbia la chiave per comprendere la violenza perpetrata in Messico.

 

La necropolitica proviene dal cuore di tenebra del neoliberismo e dilaga nella geopolitica caratterizzata dall’espansionismo. Gli Stati Uniti sono molto interessati a che questo continui a incrementare i loro redditi e i miliardi di dollari che lubrificano la macchina di morte in Messico. Se non si comincia a capire, a denunciare e a estirpare l’espansione neoliberista con le sue strategie dell’orrore, in un futuro molto vicino vivremo in una realtà distopica. In Messico sta già accadendo.

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