America Latina Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/america-latina/ geopolitica etc Fri, 19 Jan 2024 11:04:13 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Buenos Aires https://ogzero.org/studium/buenos-aires/ Sat, 06 Jan 2024 15:28:51 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12265 L'articolo Buenos Aires proviene da OGzero.

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La ciudad porteña dove si può scoprire il mondo

Alfredo Somoza, un indispensabile compagno di strada di OGzero, ci ha promesso di renderci visibile la città che lo ha visto nascere e poi crescere in un periodo terribile; la metropoli che gli ha insufflato lo spirito porteño, quel misto di disincanto e passione che consente all’acume di individuare tra i molti materiali a disposizione quelli che permettono di interpretare la realtà, mettendone insieme i pezzi.
Non è solo con la presidenza da incubo di Javier ‘El Loco’ Milei che OGzero considera centrale il ruolo dell’Argentina: dall’inizio abbiamo seguito il decllino del peronismo kirchnerista, ma proprio in questa sorta di riproposta del passato (dal negazionismo dei crimini della giunta di Videla al fantasma resuscitato del menemismo) che riteniamo possa tornare utile ripercorrere le strade di Buenos Aires, apparentemente immemori di questa Storia che non si ripropone come farsa, bensì con maggiori sofferenze e violenti contrapposizioni. Come se davvero si trattasse di un ricettacolo delle tendenze mondiali che sull’estuario del Rio de la Plata trovano esasperazione e radicalità.
Speriamo di essere in tutte le librerie per la primavera 2025, nel frattempo continueremo ad aggiornare in questa pagina il procedere della scrittura e delle “immagini” della Ciudad

Le città visibili,

Buenos Aires


Buenos Aires 1912

Alfredo Luís Somoza

Storico e giornalista, è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e direttore della rivista online dialoghi.info. Collabora con Radio Vaticana, Radio Inblu, Radio Capodistria, Popolare Network, Radio Svizzera Italiana. Cura un blog sull’“Huffington Post” ed è collaboratore di “East West–Rivista di Geopolitica”. È docente dell’Ispi (Milano) e di diversi Master universitari. I suoi lavori più recenti s’intitolano Il Viaggio e l’incontro: che cos’è il turismo responsabile (Altreconomia), Un Continente da favola e Mezzo secolo di America Latina per Rosenberg&Sellier. E per OGzero Siamo già oltre.

Ai microfoni della sua Radio Milano Popolare si racconta in un dialogo con l’amico fraterno Chawki Senouci

Ascolta “Amo la radio perché dilata i confini… e li liquida”.

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]]> Gentrificazione e apartheid incistati sul lascito coloniale https://ogzero.org/studium/gentrificazione-e-apartheid-incistati-sul-lascito-coloniale/ Sat, 30 Dec 2023 23:14:39 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12219 L'articolo Gentrificazione e apartheid incistati sul lascito coloniale proviene da OGzero.

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Casco Viejo. Panama City coloniale

Il luogo che più di tutti sta soffrendo la gentrificazione è la Città Vecchia di Panama, dove casi come quello della scuola Nicolás Pacheco simboleggiano la resistenza implacabile degli ex residenti del quartiere contro le politiche predatorie del capitale.

Sulla gentrificazione e sul diritto ad abitare

Prima però di parlare di questo caso simbolo e di raccontare come si è giunti alla situazione odierna, è importante fare una riflessione sul concetto di gentrificazione e sul diritto ad avere un luogo nel quale abitare con dignità. Per fare ciò condivido le considerazioni di Carla Luisa Escoffié Duarte, direttrice del Centro per i Diritti Umani della Libera Facoltà di Giurisprudenza di Monterrey. È l’autrice del libro El derecho a la vivienda en México. Derechos homónimos pubblicato da Editorial Tirant lo blanch.
Nelle parole di Escoffié Duarte, che ho tradotto da un suo articolo apparso su “Este País” il 21 giugno 2022 scopriamo che:

«Questo concetto è causa di continui dibattiti e lotte all’interno del mondo accademico, motivo per cui non è possibile accontentare tutte le voci. La sua stessa formulazione è solitamente tanto elementare quanto complicata. È un concetto emerso negli anni Sessanta come proposta concettuale di Ruth Glass. I processi che ha cercato di descrivere in Inghilterra presentano somiglianze e distanze da ciò che accade oggi nelle città dell’America Latina. Di conseguenza, sono state proposte classificazioni geografiche, storiche e qualitative su cosa sia la gentrificazione.
Attualmente, l’America Latina si sta spostando sempre più da uno scenario alla Burning Plain a uno più simile a Blade Runner. Secondo i dati UN-Habitat, oltre l’80% della popolazione della regione vive attualmente nelle città. Secondo i dati Inegi, nel 2020, due terzi della popolazione messicana vivrà nelle città e più della metà in città con 100.000 o più abitanti. Questo fenomeno non implica la scomparsa della vita rurale, ma piuttosto un’alchimia rurale-urbana… dove la città appare come il nuovo scenario di conflitti e tensioni tra classi, generi, identità, religioni ed esperienze. Ciò lo rende anche il nuovo spazio di monopolio da parte delle grandi potenze economiche. Il territorio rurale ha continuato a essere di grande interesse ed è ancora ambito per la produzione che utilizza manodopera a basso costo, ma è emerso un nuovo campo di coltivazione: l’agricoltura immobiliare. Le città sono gli spazi in cui possono germogliare grandi progetti residenziali che non richiedono un’abitazione a breve termine per avere successo economico. Il processo di finanziarizzazione dell’edilizia abitativa consiste proprio nel fatto che gli immobili vengono convertiti in attività finanziarie a fini speculativi. Ecco perché gli edifici vuoti che proliferano nelle zone centrali delle grandi città non rappresentano il fallimento di quel mercato, ma piuttosto le sue forme di accumulazione territoriale contemporanea».

L’abitazione come territorio, la casa come feticcio

Escoffié Duarte già in queste poche righe ci aiuta a cristallizare una dinamica che sta attraversando tutta la regione, come per esempio avevo avuto modo di raccontate intervistando la giornalista Bianca Graulau per “El Páis” sul caso similare di Porto Rico.
L’avvocata messicana però va oltre nell’analisi e ci spinge nell’articolo già citato (e nel suo libro) a una riflessione più profonda che ha a che vedere con il diritto a un luogo in cui vivere in modo dignitoso spiegando cosa intende quando afferma: l’abitazione come territorio, la casa come feticcio.

«Parlare di diritto alla casa in questo contesto implica parlare dei rapporti di potere e delle disuguaglianze socioeconomiche-territoriali che persistono nella regione. Per capirlo dobbiamo prima capire che abitare non è la stessa cosa di avere una casa. La casa è una costruzione architettonica materiale e tangibile. L’abitazione è l’insieme dei processi attraverso i quali una persona abita uno spazio, motivo per cui è costituito da elementi materiali e immateriali. La casa è un oggetto, abitare è un’azione. La casa è uno spazio, abitare è vivere»..

Esistere in quanto abitare

L’abitazione è l’insieme dei processi attraverso i quali una persona abita uno spazio, motivo per cui è costituito da elementi materiali e immateriali

Si parla quindi di diritto ad abitare e non di diritto alla casa. Il diritto umano consiste nell’avere uno spazio in cui vivere, che può essere garantito attraverso la proprietà, ma anche attraverso altre modalità come cooperative abitative, affitti e persino rifugi temporanei per donne vittime di violenza o giovani lgbt+ rifiutati dalle loro famiglie.
Tuttavia, i discorsi egemonici – definiti principalmente dalle élite del settore architettonico e immobiliare – mirano a confondere questi concetti. L’obiettivo è molto semplice: che la popolazione confonda il proprio bisogno con una questione di avere (casa) invece che di essere (abitante di un luogo materiale e immateriale).

Fatte queste necessarie considerazioni possiamo dunque passare a introdurre cioè che sta succedendo nella Cittá vecchia di Panama con il violento processo di gentrificazione già menzionato.

Riavvolgiamo il nastro di Casco viejo

La zona coloniale della Città di Panama, chiamata “Casco Viejo”, ha rappresentato il primo insediamento europeo sulla costa americana fin da quando nel 1519 Pedro Arias Dávila promosse la sua fondazione. Un centro che si trasformò in breve nel quartier generale dei rappresentanti della Corona spagnola e un punto strategico sulle rotte commerciali coloniali e sulle spedizioni che avvenivano verso il Sudamerica (come quella per la conquista del Perù). All’inizio del Diciassettesimo secolo la città contava circa 10.000 abitanti che animavano una vita cosmopolita che si svolgeva in case, alberghi, taverne, conventi, un ospedale, una cattedrale, un forte, una piazza principale, tutti collegati da strade e ponti in entrata e in uscita dalla città. Sappiamo però quanto il Mar dei Caraibi all’epoca fosse rifugio di corsari e pirati, e nel 1671 fu proprio il pirata inglese Henry Morgan a guidare un feroce attacco alla vecchia Panama, saccheggiandola e riducendola in macerie. Sono queste rovine che conformano il Complesso Monumentale Storico di “Panama Viejo”, che comprende appunto le rovine dell’insediamento coloniale e le vestigia archeologiche del periodo preispanico.

Dopo l’attacco e la distruzione lasciata da Morgan, la corona spagnola trasferì la città nel 1673 a sud, su una piccola penisola circondata da scogliere rocciose. È questa nuova città che corrisponde a quello che oggi è conosciuto come Casco Viejo di Panama, zona considerata patrimonio mondiale dell’Unesco fin dal 1997.

Casco Viejo negli anni Trenta

L’Unesco come inizio della fine per i residenti

Fino a questo punto le ricostruzioni, delle autorità della città (e del governo) e dei residenti storici del Casco Viejo, coincidono. Però è negli anni Novanta del secolo passato che si inizia a delineare una frattura nella narrazione.

Questa la versione edulcorata dalla autorità:

«Prima del 1997, il Casco Viejo soffriva di alti livelli di criminalità che causarono lo sfollamento della maggior parte dei suoi abitanti. Tuttavia, dal 2000 in poi, Casco Viejo ha vissuto un processo di gentrificazione volto alla ristrutturazione della maggior parte degli edifici abbandonati della zona. Nascono così centri culturali, ristoranti moderni, nuove boutique e alberghi con bar sulle terrazze. La riabilitazione di Casco Viejo ha riformato molti membri di bande e gangster che ora si dedicano a offrire visite guidate ai turisti. Lo spaccio di droga era l’attività più diffusa nel centro storico, è il caso della banda di Ciudad de Dios. I giovani si ritrovarono senza lavoro e cercarono un modo per sopravvivere nel business della droga. Fortunatamente, l’arrivo di nuove imprese, del turismo e del boom economico ha aiutato questo settore a prendere una nuova direzione nella loro vita. Ora camminano per le strade del centro storico, luoghi di svago, cultura e storia, e dimenticano la violenza e le loro brutte esperienze personali».

Il degrado riqualificato con l’eterno riciclaggio

In base a ciò che avete appena letto, mentre il resto della Città di Panama si espandeva e pensava in grande (vedremo più avanti un progetto multimilionario che iniziò proprio nel 1997), la zona del Casco Viejo era un ricettacolo di delinquenti, perdigiorno, persone di bassa o nulla disponibilità economica e con un limitato livello educativo. In base a questa narrazione (spiegata e difesa in questo articolo di stampa locale) l’opera lungimirante e magnanima dello stato e delle autorità cittadine ha veicolato milioni di dollari (anche procedenti dal riciclaggio come abbiamo visto con lo scandalo dei Panama Papers) per la riqualificazione di questa zona della città.

Trincee e barricate

Basta però passeggiare per le vie Casco Viejo per imbattersi in sacche di resistenza, vere e proprie trincee urbane, che raccontano un’altra storia, una più simile a quello che ci ha spiegato precedentemente Carla Luisa Escoffié Duarte.

Per esempio, striscioni con slogan del tipo Senza abitanti non c’è patrimonio, oppure Il paese si vende al miglior offerente sono posizionati di fronte a una scuola in Plaza Herrera, dove vivono decine di famiglie, unite nell’Associazione dei residenti di San Felipe, che lottano contro uno sfratto coatto che li vuole fuori da questa zona della città.  Lo spiegano bene Leila Nilipur e Melissa Pinel, giornaliste indipendenti, autrici del riconosciuto podcast Indomables, nell’episodio intitolato  La trinchera (la trincea).

Patrimonio dell’Umanità vs Patrimonio umano

«I residenti del quartiere storico della Cittá di Panama vengono cacciati dalle loro case. Abbandonate dalle élite per decenni, le loro dimore coloniali erano deteriorate, ma non vuote. Centinaia di famiglie vivevano lì, mantenendo il quartiere vivace e pieno di tradizione. Ma non appena l’Unesco ha dichiarato il quartiere storico dimenticato Patrimonio dell’Umanità, gli sfratti sono stati immediati. E quei vecchi edifici furono trasformati in alberghi o ristoranti di lusso. Nel frattempo, un gruppo di vicini lotta per una causa che sembra persa: impedire che il loro quartiere perda il suo patrimonio umano».

Fin da prima della Pandemia, questi residenti hanno reagito contro quello che sentono e vivono come un sopruso.

In una intervista al giornale “La estrella de Panama” spiegava che con il piano di riforma e riqualificazione del Casco Viejo li hanno cacciati dalle case dove sono cresciuti. «L’affitto della casa più cara costava 150 dollari al mese, adesso le case ristrutturate non si affittano per meno di 1200 dollari al mese. Ditemi chi può pagarlo», denuncia la presidentessa dell’Associazione dei residenti di San Felipe, Esther Sánchez, già nel 2019.

Esther è una delle vittime del vorace boom immobiliare nel centro storico di Panama scoppiato nel 1997 quando l’Unesco ha dichiarato la zona patrimonio dell’umanità  per i suoi numerosi luoghi storici (Piazze Mayor, Herrera, Bolívar, Chiese di San José, San Francisco…) ed edifici come il Teatro nazionale o quello della Presidenza della repubblica, il Palazzo di giustizia o Bólivar, la Casa Góngora e Boyacá, oltre a un ricco patrimonio architettonico di edifici civili presenti in tutte le sue strade, molti dei quali consumati dalle fiamme nell’incendio del Diciassettesimo secolo e recuperati ecletticamente con nuovi stili aggiunti successivamente: dal coloniale al neoclassico e persino all’art déco.

Dal 2000, l’Ufficio per il Restauro e la Valorizzazione del Complesso Monumentale Storico della Città Vecchia della Città di Panama (Oca) inizia a operare con il Piano Generale per la riabilitazione e il restauro di un’area già occupata da classi sociali con basso podere acquisitivo. Negli anni successivi alla dichiarazione dell’Unesco come patrimonio dell’Umanità della zona, si assiste a un massivo investimento di capitali privati e Fondi stranieri (principalmente europei, canadesi e nordamericani), che non contemplavano nel loro piano di “sviluppo” la permanenza della popolazione locale.

Perciò automaticamente si inizia un piano di espulsione capillare delle persone con minor possibilità economica, con più basso tasso di alfabetizzazione e isolata da gruppi sociali di appoggio. Non stupisce che il piano messo in atto dalle autorità cittadine si chiamasse direttamente “Plan de Evacuación del distrito histórico del Casco Antiguo”, come riportato da questo articolo del giornale nazionale “La Estrella de Panamá”. Come detto, lo slogan del capitalismo che ha invaso questa zona della città è chiaro – Rivive il Centro Storico, rilanciamo il Turismo, rilanciamo la qualità, rilanciamo la comunità. Non si intende però rilanciare un tessuto sociale di quartiere, bensì il varo di un megaprogetto che include anche lo sviluppo della cosiddetta Cinta Costera 3 (che circonda la penisola), per far diventare tutta l’area una boutique a cielo aperto dove il turismo internazionale possa assaporare la “Vecchia Panama” dentro alberghi di lusso e bar/discoteche di tendenza. Un luogo non solo dove non possano più abitare i vecchi residenti ma dove risulta complesso anche per gli abitanti della città poter accedere ai servizi, sempre più cari e diretti in modo netto e chiaro a un potere d’acquisto che non è alla portata della maggior parte delle e dei panamensi.

Calzada di Amador (Causeway)

Visitando oggi la Città di Panama è impossibile non sentir palare della Calzada di Amador, più conosciuta tra le nuove generazioni con il nome di Causeway. La storia di questa passeggiata unica, circondata dall’acqua risale agli inizi del secolo, quando le tre isole Naos, Flamenco e Perico erano ancora separate e collegate solo attraverso piccole barche o traghetti. Quello che oggi conosciamo come Amador Causeway è un enorme frangiflutto costruito tra il 1908 e il 1914 con terra e rocce estratte dagli scavi del Canale, con lo scopo principale di proteggere l’ingresso del Canale dalle forti correnti della Baia di Panama e di diventare una base militare statunitense (la prima fu installata nel 1911).

Il Biomuseo, che oggi si trova proprio nella Calzada de Amador ha dedicato un esteso e dettagliato progetto alla storia di questo luogo simbolo della città, un progetto che permette attraverso foto e testimonianze di fare un salto nel passato.
È così che scopriamo Causeway, per lungo tempo foce del Rio Grande, un enorme delta pieno di mangrovie e paludi, dove si trovava il molo La Boca, parte del sistema portuale della città di Panama. All’inizio del Ventesimo secolo, il fiume fu ostruito con una diga, le sue mangrovie e le sue paludi furono cancellate e il canale trasformato fino a diventare l’ingresso del Canale di Panama. Come detto, dal 1911 al 1996 Amador fu sede di basi militari statunitensi, e le truppe utilizzarono la strada rialzata per raggiungere le batterie di artiglieria costiera delle isole di Naos, Perico e Flamenco.
Il progetto del Biomuseo denuncia come per 75 anni pochissimi panamensi abbiano potuto camminare lungo il bordo del Canale sulla Amador Causeway, perché questa striscia di territorio larga 16 chilometri era sotto controllo (e sovranità) degli Stati Uniti tra il 1904 e il 1979, come abbiamo avuto modo di spiegare nel capitolo La Zona del Canale.

Amador – CauseWay | foto Diego Battistessa, ottobre 2021

Prima del 1979, le uniche persone che potevano entrare ad Amador erano il personale militare statunitense, i lavoratori delle basi civili, i dipendenti della Canal Company e i membri dei club sociali e sportivi che avevano strutture ad Amador, come il Balboa Yacht Club che oltre all’attracco per le imbarcazioni da diporto, disponeva di un bar-ristorante che fu sede di numerose feste, finché un incendio nel 1999 distrusse l’intero edificio.
Nel 1930 iniziò a operare il traghetto Thatcher, che offriva un servizio gratuito per facilitare il transito tra Cittá di Panama e l’interno del paese, che era stato separato dalla costruzione del Canale. Questo traghetto operò fino al 1962 quando fu inaugurato il Ponte delle Americhe: all’epoca circa 40 navi attraversavano Amador per entrare e uscire dal Canale (per un ulteriore approfondimento si può consultare a questo indirizzo)

Vista dalla Calzada de Amador del ponte della Americhe | foto Diego Battistessa, dicembre 2021

L’Amador Causeway è oggi una delle zone più vive della città e finalmente è disponibile per tutta la popolazione, anche se il suo alto interesse turistico ha prodotto un rialzo dei prezzi di beni e servizi, che ovviamente produce un effetto indiretto di esclusione sociale.
Non a pagamento rimane però la vista, una delle più privilegiate di tutta la città. Verso est si può vedere un panorama che va dal Cerro Ancón, passando per Chorrillo, Casco Antiguo fino ai grattacieli della città. A ovest vediamo l’ingresso del Canale, Veracruz, Punta Chame fino all’isola di Taboguilla.

L’isola di Taboga

Dalla Calzada di Amador (isola Flamenco) si prende il traghetto per arrivare, in circa 30 minuti, a Taboga, popolare isola utilizzata per le gite familiari del fine settimana dalla popolazio ne cittadine e sempre di più anche dai turisti, che la trovano facile da raggiungere (e molto più economica della internazionalmente famosa Bocas del Toro). Emblematica di certo atteggiamento turistico da cui sorge la richiesta di “bonificare” territori è questa breve descrizione di Taboga che si può trovare su Lonely Planet: «Un’unica strada e traffico praticamente inesistente fanno di quest’isola tropicale, situata a soli 20 km dalla costa, un luogo perfetto per fuggire dal trambusto della capitale: Panama City. Soprannominata “Isola dei Fiori”, è coperta di profumatissimi boccioli per gran parte dell’anno. Il pittoresco villaggio di Taboga, fondato dagli spagnoli nel 1515, ospita una delle chiese più antiche dell’intero emisfero occidentale».

Artificial Islands

Vista della Ocean Reef Island da Punta Patilla | foto Diego Battistessa, ottobre 2021

Il caso delle Ocean Reef Islands

Si tratta di uno dei progetti più ambizioni realizzati nella regione negli ultimi anni e consiste nella costruzione di due isole artificiali collegata alla costa (nella zona di Punta Pacifico) per mezzo di un ponte. Sul sito della compagnia che promuove la vendita degli esclusivi appartamenti di questo enclave di ricchi creata artificialmente fuori dalla città, letteralmente in mezzo all’oceano, troviamo la frase di marketing: trasforma il tuo modo di vivere la città. Come se non fosse sufficientemente chiaro, in mezzo alla promozione per la vendita delle unità ancora in costruzione, ai possibili acquirenti in merito al piccolo porto privato, si specifica quanto segue:

BENVENUTI IN PARADISO. Una Marina di prim’ordine nella Repubblica di Panama. Più di 150 ormeggi fino a 60 metri (200 piedi), protetti da due isole private dove esclusività e lusso permettono di vivere la propria esperienza con un’incomparabile varietà di servizi che vanno oltre il tradizionale.

Resort isolato per ultraricchi in apartheid dorato

Insomma, un luogo creato artificialmente, un progetto originariamente concepito nel 1997 come ultima fase dello sviluppo dell’area di Punta Pacifica, una delle zone ricche di Panama (dove sorge l’Hotel Marriott per intendersi): le prime isole residenziali costruite dall’uomo in America Latina. Un luogo dove gli ultraricchi possono sentirsi tali nella loro privacy senza doversi mischiare con il resto della capitale di un paese con un tasso di povertà in preoccupante crescita. Già nel 2019, le statistiche i dati ufficiali sulla povertà generale di Panama (dati offerti dal Ministero di Economia e Finanza) avevano raggiunto il 21,5% della popolazione, ovvero 917.069 persone; di cui, il 10%, viveva in condizioni di estrema povertà (o indigenza): cioè 428.005 persone. E questi erano i numeri prima del Covid19 e della crisi del prezzo dei combustibili causati dalla coda lunga della guerra in Ucraina.

Il piano delle isole disponibile sul sito web della compagnia

Ocean Reef Islands è composta da due isole (Isola I e Isola II) di 103.251 m² e 87.552,95 metri quadrati unite da un ponte. Una comunità residenziale privata che conta con un eliporto, uno yacht club, e che è situata nel centro di Panama City pero senza doversi “mischiare” con il resto della città (e soprattutto dei cittadini/e).

Lo stesso gruppo immobiliare che si è incaricato del progetto, fornisce sul sito l’e-book della costruzione. Si tratta di Los Pueblos, un gruppo panamense costituito da varie imprese che fin dal 1985 si occupa dello “sviluppo” della città di Panama. Uno dei nomi noti e fondatore del gruppo Los Pueblos è Mayor Alfredo Alemán, che nel giugno 2020 veniva segnalato da Forbes come una delle persona più ricche di Panama (e una delle più ricche dell’America Centrale) con un investimento di 1,9 miliardi di dollari. Un’enorme ricchezza che però non è cosa rara a Panama dove troviamo per esempio il 78enne, Stanley Motta, azionista in Motta International, Copa Holdings, Gruppo Assa, Inversiones Bahía, TVM Media, Banco Intercontinentale di Panama, con un attivo totale di 4,347 miliardi di dollari (al 2019) e inserito in questo 2023 sempre da “Forbes nella lista delle persone più ricche del mondo.

Riflessione finale

Panama insomma, non smette di sorprendere. Con i suoi contrasti, le sue moderne spavalderie che si stagliano alte nel cielo o in alto mare, circondate da radici di tradizione, storia e folklore, le sue complesse vicissitudini, il suo calore (climatico e umano), la sua capacità di diventare casa per chiunque e allo stesso tempo di togliere la casa a chi qui ha sempre vissuto.
Dalla selva del Darien, al mar dei Caraibi, passando per il maestoso Canale, l’antica base militare statunitense, l’Oceano Pacifico e l’Oceano Atlantico, le contee indigene e i luoghi della (R)esistenza afrodiscendente.
Una babele di mondi, di storie, di lingue, di natura selvaggia, di geografie di lotta e insorgenza. Rifugio di malfattori, terra promessa di migranti, forgia di donne indomabili e crocevia di quasi tutto ciò che si consuma nel mondo.
Concentrato di disuguaglianza eppure paese di opportunità, sede degli uffici regionali dall’Onu ma anche delle società che riciclano tonnellate di dollari, solidarietà e corruzione, cosmogonie ancestrali e fast food… Chiunque arrivi a Panama per la prima volta sentirà di conoscerla da sempre eppure conoscerla davvero nella sua complessità è probabilmente impresa quasi impossibile, fin qui in queste 7 puntate abbiamo provato a mostrare quanti problemi e temi si nascondono in questo istmo da cui fuoriescono poche informazioni… se siamo riusciti a incuriosirvi, troverete tra qualche tempo un ulteriore approfondimento… probabilmente anche in formato cartaceo.

Fine

¡Ya Basta extractivismo! Marca-paese Dighe e discariche Merci rivolte e infrastrutture La Zona del Canale Ancestralità e gentrificazione

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]]> Il colore stinto della nuova Marea Rosa https://ogzero.org/studium/il-colore-stinto-della-nuova-marea-rosa/ Tue, 20 Dec 2022 20:20:54 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=9837 L'articolo Il colore stinto della nuova Marea Rosa proviene da OGzero.

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Le Moleskine non finiscono al mundo del fín del mundo

Vi chiederete come mai è impostato al 90% l’avanzamento del lavoro pur avendo già la possibilità di proporvi il volume completo e acquistabile. Ebbene, è perché stavolta siamo un po’ andati a ritroso rispetto al solito: è vero che il libro discende dagli articoli e gli spreaker che hanno accompagnato la Marea Rosa lungo gli ultimi due anni, ma la sua collazione non è passata attraverso un’analisi dialettica interna al dossier, che ora ne rivela la pubblicazione. Infatti si tratta di un lavoro in fieri che trae spunto da questo volume per fotografare una condizione che si trova ora a uno snodo importante: quasi l’intera area latinoamericana ha fatto argine alle destre che spesso sono le più retrive, costituite da latifondisti terratenientes, apparati militari, finanzieri neoliberisti di matrice coloniale; ma ciascuna di queste forze progressiste al potere è diversa e si muovono tutte in ordine sparso. Diego Battistessa propone di non perdere di vista alcuni dei protagonisti piuttosto che altri per sperare di resistere al ritorno della risacca destrorsa…

«Sono settimane intense quelle che ci stanno portando verso la fine del 2022 in America Latina e nei Caraibi. – ha scritto Diego nel suo canale Linkedin proprio il giorno in cui usciva questa sua fatica editoriale – La regione è scossa da profondi cambiamenti, colpi di scena e dall’aggravarsi di crisi sistemiche che ciclicamente (purtroppo) si affacciano nei vari contesti nazionali». Ma è impossibile comprendere completamente l’America latina e quindi non potrà venire meno da qui in avanti l’apporto di analisi e considerazioni sul continente sudamericano (e Caribe) di un appassionato come Diego Battistessa – ma anche da parte del suo amico e mentore Alfredo Somoza, o lo stimato Davide Matrone, con la prefattrice Paola Ramello e, suo tramite, il monitoraggio di Amnesty – e questa loro pulsione a capire ci consentirà di continuare a proporre in questo Studium materiali per proiettare una luce il più autentica e adatta possibile sugli angoli più oscuri del Latinoamerica.
Per questo stavolta il libro è un punto di partenza per raccogliere sulla sua scia lavori e idee che lungo i prossimi mesi acquisiranno dati per interpretarli alla luce della conoscenza di quella vivace terra che è da qualche parte al di là dell’Atlantico: “Un continente da favola” a Sud.




Dal golpe alla Moneda al nuovo ordine mondiale

Un anno dopo il libro di Diego riprendiamo in altro modo, con Alfredo, la domanda relativa al luogo da cui si arriva e dove si continua ad andare: stavolta il libro che ci guida nell’eterno ritorno ciclico che tiene congelato il Sudamerica all’altalena tra vagiti di speranze di emancipazione e reazione populista che difende i privilegi imposti dalle dittature, che hanno (avuto) a modello il regime di Pinochet.

Manuela Donghi nella sua trasmissione “Next Economy” su GiornaleRadio ha chiesto il 28 dicembre ad Alfredo Somoza di commentare l’accelerazione delle riforme di Javier Milei, che stanno portando in piazza migliaia di persone a cui la vita è già stata resa impossibile, costringendo persino la Cgt a dichiarare un paro general per il 24 gennaio 2024, sfidando i decreti che impedirebbero scioperi e manifestazioni:

Alfredo era stato intervistato da Rete Capodistria il 17 novembre 2023 e il suo intervento si può sentire dal minuto 1:25:15

https://www.facebook.com/100000358016312/posts/7144550768900119/?mibextid=rS40aB7S9Ucbxw6v

L’interesse per il Sudamerica in questo periodo è catalizzato in particolare dalle elezioni presidenziali argentine, che vedono al ballottaggio due contendenti pessimi, risultato di populismo e turbocapitalismo che hanno nuovamente innescato il solito ciclo perverso di emancipazione e speranza vs ferocia e liberalismo. L’amico Alberto Da Rin ha coinvolto Alfredo Somoza nella composizione della pagina che “Il Sole24Ore” dedica alle elezioni di domani:


Dove si arriva e da dove si parte

Questo podcast sintetizza la situazione in sospeso a fine 2022, dopo l’autogolpe di Castillo in Perù, e delimita le speranze di emancipazione dei paesi iberoamericani all’aurora del nuovo anno, la nueva alborada è quanto mai imponderabile e qui continueremo a cercare di dargli uno spessore per renderla più comprensibile anche al di qua dell’Atlantico. Le vittorie elettorali della componente progressista in alcuni paesi dell’America Latina hanno rimarcato i limiti della governabilità: Castillo per primo.

“Guado pericoloso per la Marea Rosa”.

Poi si sono registrati veri tracolli e nuove baldanze della reazione, ultimo episodio quello che ha portato una controfigura pazza come Milei a realizzare i peggiori incubi di sfondamento delle lobbies peggiori. Alfredo ha illustrato con lucidità in una puntata di Bastioni di Orione su Radio Blackout gli sviluppi della politica sudamericana

“Milei, capolavoro distopico di Kissinger a 50 anni dalla Moneda”.

90%

Avanzamento



Diego Battistessa

@DiegoBattistessa (Ig)

Latinoamericanista: docente e ricercatore presso l’Università Carlos III a Madrid; collabora con enti di cooperazione internazionale; reporter, scrive in Spagna per “El País”, è analista per Voz de America negli Usa, e in Italia cura un blog per “Il Fatto Quotidiano”. Si occupa di violazioni dei diritti umani per Osservatorio Diritti.


Libreria Voci dal Latinoamerica Voci dal Caribe

Seguire le analisi e le evoluzioni della lenta spinta all’emancipazione dal neoliberismo finanziario e latifondista, sostenuto da militari e potenze straniere è un percorso che ci siamo imposto non solo per verificare che siano corrette le scommesse contenute nel volume pubblicato da OGzero con Diego Battistessa, ma anche perché è questo il passaggio epocale, l’unica possibilità, verso un nuovo Sudamerica emendato dall’orrore del “Plan Condor” di 50 anni fa. Il 26 gennaio su “il Fatto Quotidiano” Diego ha documentato un altro passaggio.

Si è concluso l’incontro di Celac, la Comunità degli Stati latinoamericani:
sancito il ritorno del Brasile

«È con molto orgoglio che io ritorno a Celac. Alberto io voglio dirti che puoi contare su di me nella lotta per l’integrazione dell’America Latina e dell’America del Sud». Parole dette da Luiz Inácio Lula da Silva e captate da un video mentre stringe le mani di Alberto Fernández, presidente della Repubblica Argentina e anche presidente pro tempore per il 2022 della Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici (composta da 33 stati e chiamata appunto Celac). Parole importanti, che non hanno solo un significato circostanziale trai i presidenti delle due più grandi economie dell’America del Sud, ma che sanciscono che il Brasile è tornato.

Anche perché tra i due presidenti sono intercorsi progetti di una moneta comune, o meglio di un sistema che faciliti lo scambio tra i due paesi: il Sur non è propriamente nemmeno una moneta, ma Ispi spiega:

i due governi vorrebbero trovare un modo per commerciare tra di loro senza dover utilizzare il dollaro americano come valuta di fatturazione. La “moneta comune”, quindi, non sarebbe una nuova valuta in sostituzione delle valute nazionali. I governi vorrebbero creare un sistema per sganciare gli scambi commerciali bilaterali dalla disponibilità di dollari. Infatti, negli ultimi anni il commercio bilaterale si è ridotto per la cronica carenza di dollari in Argentina. Il commercio tra i due Paesi sudamericani è importante: il Brasile rappresenta il primo partner commerciale dell’Argentina, che è il partner più importante in America Latina del Brasile, anche se solo terzo per importanza dopo Cina e Stati Uniti (Ispi). 

, perché il Brasile a guida Jair Bolsonaro aveva abbandonato nel 2020 questo meccanismo intergovernativo creato il 23 febbraio 2010 per promuovere il dialogo nella regione. “Il Brasile ha deciso di sospendere la sua partecipazione alla Celac. La Celac non ha avuto risultati nella difesa della democrazia né in alcun ambito. Al contrario ha dato risalto a regimi non democratici come quelli di Venezuela, Cuba, Nicaragua”, dichiarava l’allora ministro brasiliano degli Esteri, Ernesto Araújo, sancendo così l’autosospensione del Brasile dall’organismo. Un segnale forte dunque quello di Lula a Buenos Aires, in questo incontro del VII vertice del Celac del 24 gennaio, che ha visto il passaggio di consegne alla presidenza protempore tra Fernández e Ralph Gonsalves, presidente quest’ultimo dello stato caraibico di Saint Vincent e Grenadine.

Un vertice caratterizzato dalla crisi istituzionale del Perù e dalla sanguinaria repressione messa in atto dalle autorità, ma anche dalla polemica assenza del presidente del Venezuela, Nicolas Maduro e dalle sfide commerciali che il blocco dei paesi latinoamericani dovrà decidere come affrontare nei prossimi anni. La spinta di Lula si è fatta sentire e proprio il nuovo presidente brasiliano ha voluto sottolineare nel suo discorso che saranno promossi tanto gli accordi bilaterali con i vicini così come il forte impulso di Mercosur, Unasur e Celac, attraverso “un fortissimo senso di solidarietà e vicinanza”.

Tra le assenze, come anticipato, quella di Maduro è stata la più notoria. Ci si aspettava l’arrivo in pompa magna del primo cittadino venezuelano, che avrebbe potuto così tornare a calcare uno scenario sudamericano di livello internazionale e riabilitare la sua immagine al fianco di Lula, pronto quest’ultimo a riallacciare le relazioni diplomatiche con Caracas. All’ultimo minuto Maduro però ha desistito. Le preoccupazioni per la sua sicurezza, le annunciate con manifestazioni contro la sua presenza e la ricompensa di 15 milioni di dollari (ancora vigente) della autorità statunitensi per la sua cattura vengono additate tra le cause di questa défaillance. Nonostante i suoi proclami, dunque, Maduro deve cedere alla realtà dei fatti e cioè che non può andare dove vuole, ma solo dove è protetto (Cuba, Russia e Algeria, per esempio).

Oltre a quella del presidente venezuelano, si sono registrate le assenze del suo alleato Daniel Ortega (presidente de Nicaragua), di Andrés Manuel López Obrador (presidente del Messico) e di Guillermo Lasso (presidente dell’Ecuador): tutti e tre hanno inviato i loro ministri degli Esteri. Neanche la presidente del Perù è stata presente, vista la crisi nella quale è sommersa Dina Boluarte in queste ore. E non sono arrivati nella capitale argentina neanche Xi Jinping e Joe Biden invitati da Alberto Fernández. I presidenti di Cina e Usa non hanno però perso l’occasione di essere presenti almeno indirettamente: così, mentre Xi Jinping ha inviato un video, Biden ha inviato il suo assessore speciale per la regione, ovvero Christopher Dodd. Nelle foto di famiglia spiccavano invece tra gli altri Gabriel Boric (Cile) e Gustavo Petro (Colombia), così come Miguel Díaz-Canel (Cuba), Luis Arce (Bolivia), Mario Abdo Benitez (Paraguay), Xiomara Castro (Honduras) e Mia Mottley (Barbados).

Dal vertice è uscito un documento di 111 punti, già noto come la dichiarazione di Buenos Aires. Tra gli impegni che vengono presi dai 33 Stati membri si trova l’aggiornamento del Piano per la sicurezza alimentare, la nutrizione e lo sradicamento della fame, la continuità del Piano di autosufficienza sanitaria e il rafforzamento della produzione capacità e distribuzione locale e regionale di vaccini, medicinali e forniture essenziali. Oltre al documento principale sono state approvate nel vertice altre 11 dichiarazioni speciali, che includono temi delicati come la difesa della sovranità argentina sulle Isole Malvinas e la fine del blocco economico, commerciale e finanziario degli Stati Uniti contro Cuba. Sono state approvate anche una dichiarazione sulla lotta al traffico internazionale di armi e un’altra sulla promozione e conservazione delle lingue indigene.
Importante anche l’approvazione di due cruciali incontri in agenda: il vertice Celac-Unione europea nel 2023 e il vertice del forum Celac-Cina nel 2024. Riguardo quest’ultimo punto, ancora Lula si è reso protagonista in un incontro con Louis Lacalle Pou (presidente dell’Uruguay) proprio per discutere sull’urgenza che il Mercosur chiuda un accordo con l’Unione europea prima di negoziare con la Cina (cosa che l’Uruguay sta facendo in modo bilaterale senza i suoi soci commerciali). Per finire in Uruguay non poteva mancare uno storico rincontro, quello tra Mujica e Lula, avvenuto nella casa del primo a Rincón del Cerro a Montevideo: una della immagini forti e cariche di simbolismo di questi giorni
Insomma, ci sarà molto da vedere, analizzare e capire in questo 2023 in America Latina. Per fare ciò è però necessario avere un contesto, dei punti di riferimento e delle coordinate regionali, sia a livello storico, politico, economico e sociale. In questo senso, insieme ad OGzero, abbiamo appena pubblicato il volume Moleskine Sur. Taccuini dal Latinoamerica, che raccoglie le mie analisi di geopolitica degli ultimi due anni, passati in larga parte dall’altro lato dell’Atlantico tra Colombia, Panama, Brasile, Messico, Ecuador, Perù e Usa. Un libro di facile lettura (130 pagine) non esclusivo per gli addetti ai lavori, che offre chiavi di lettura attuali a chi si vuole affacciare all’America Latina di oggi. A completare l’opera la prefazione di Paola Ramello, del coordinamento italiano per l’America Latina di Amnesty International Italia e la postfazione del giornalista (grande esperto di America Latina) Alfredo Luis Somoza.In una regione di corsi e ricorsi storici, per capire gli scenari possibili del 2023 è davvero fondamentale riuscire ad ampliare il contesto di analisi. Buona lettura.

Lucia Capuzzi ha colto gli spunti essenziali del libro di Diego Battistessa in questo pezzo apparso su “Avvenire” il 5 aprile 2023



Davide Matrone è un collega e amico di Diego Battistessa, docente e analista della società ecuadoriana dall’osservatorio privilegiato dell’università di Quito. In Ecuador maggiormente morde il neoliberismo latinoamericano e ancora controlla direttamente il potere con Guillermo Lasso, che per distrarre da scandali e disastri economici, da massacri e povertà propone 8 preguntas referendarie, populismo che mira a distruggere la Costituzione e il territorio, la rappresentanza e la partecipazione. Con Davide abbiamo cercato di capire meglio qual è il tentativo dell’oligarchia di resistere all’Onda Rosa a Quito:

Riportiamo qui nel nostro studium, per approfondimento, un articolo di Diego Battistessa uscito il 2 gennaio su “il Fatto Quotidiano”..


AMERICA LATINA, QUESTO SARÀ UN ANNO IMPREVEDIBILE MA CON ALCUNI PUNTI FERMI

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Cosa ci aspetta nel 2023 in America Latina? Una domanda difficile, vista la storica imprevedibilità della regione e la grande volatilità che stiamo vivendo su scala planetaria con la scia del Covid-19 e le conseguenze a più livelli dellinvasione dell’Ucraina da parte della Russia. Un futuro che già sappiamo, però, sarà segnato da alcuni appuntamenti elettorali prefissati e i cui contorni possiamo cercare di definire attraverso l’analisi di quanto accaduto negli ultimi anni, soprattutto nel 2021 e nel 2022.L’anno si è aperto con l’insediamento di Lula in Brasile, un passaggio storico, carico di simbolismo e aspettative. Un’eredità del 2022, che è stato un anno pieno di soprese e colpi di scena per la regione latinoamericana.

Parlando di votazioni, le prime si celebreranno in Ecuador il 5 febbraio. In questa data la popolazione sarà chiamata a votare per un referendum composto da 8 domande riguardanti il tema della sicurezza, l’occupazione, alcune modifiche istituzionali e la sempre più pressante tematica ambientale. Guillermo Lasso, il presidente banchiere eletto in Ecuador nel 2021 (che non gode della maggioranza politica in parlamento), si gioca molto con questo appuntamento elettorale, visto che il suo consenso a livello nazionale è molto calato, mentre il paese è attraversato dalla guerra alle bande criminali, foriere della chiamata “narcoviolenza”.

Ad aprile sarà la volta del Paraguay, dove il 30 si deciderà il nome del prossimo presidente, che si insedierà il successivo 15 agosto. Le principali candidature appartengono a due poli di potere, la Coalizione per un Nuovo Paraguay e l’Associazione Nazionale Repubblicana (conosciuta come Partito Colorado). Nelle primarie del 18 dicembre 2022 per le file della Coalizione per un Nuovo Paraguay il candidato presidenziale indicato è stato Efraín Alegre che si dovrà scontrare contro il candidato del Partito Colorato, Santiago Peña (il Partito Colorado è il partito dell’attuale presidente Mario Abdo Benítez). Le votazioni paraguaiane di aprile 2023 riguarderanno anche l’elezione di 45 senatori titolari e 30 senatori supplenti, 80 deputati effettivi e ottanta 80 sostituti, 17 governatori, 257 membri titolari e 257 membri supplenti per i consigli dipartimentali.

Il primo semestre del prossimo anno si concluderà con le elezioni presidenziali in Guatemala. Un paese tra i più corrotti del mondo, dove lo stesso sito web della vicepresidenza della repubblica dice che “Uno dei problemi fondamentali della società guatemalteca è la povertà, condizione la cui soluzione è stata assente nelle strategie di sviluppo del Paese”. Oltre a presidente e vicepresidente verranno eletti i 160 nuovi membri del Congresso, 330 sindaci municipali e si voterà anche per 20 seggi corrispondenti al Parlamento centroamericano per il periodo 2024-2028. Nel caso in cui si arrivi al ballottaggio, il secondo turno è previsto per il 27 agosto.

I candidati alla presidenza del Guatemala già annunciati (la data finale per candidarsi è il 20 gennaio) sono per ora 6: Ricardo Sagastume (Todos), Isaac Farchi (Partido Azul), Rudio Lecsan Mérida (Patido Humanista de Guatemala – PHG), Edmond Mulet (Cabal), Roberto Arzú (Podemos) e Zury Mayté Ríos Sosa (Valor e Unionista). Da tenere sotto stretta osservazione proprio la candidatura della conservatrice Zury Ríosche porta su di sé un nome e un passato pesanti per il Guatemala. Si tratta infatti nientemeno che della figlia di Efraín Ríos Montt, militare e dittatore dello stato centroamericano che fu Capo di Stato dopo tra il 23 marzo 1982 e l’8 agosto del 1983, dopo aver realizzato un golpe.

Montt, che ha continuato successivamente la sua carriera politica fondando nel 1989 il Fronte repubblicano guatemalteco – Frg (poi ribattezzato Partito repubblicano istituzionale – Pri), è una della figure più sanguinarie delle dittature centroamericane, condannato per genocidio per essere stato riconosciuto colpevole del massacro di 1.771 indigeni maya della comunità Ixil in 15 diverse operazioni compiute dai militari nel dipartimento nord occidentale di Quiche. Il dittatore, accusato anche da Rigoberta Menchú nel 1999, è morto l’1 aprile 2018 senza però aver scontato la sentenza (50 anni per genocidio e altri 30 per crimini contro l’umanità) visto che il processo venne annullato per errori di procedimento e ne venne richiesta la ripetizione.

L’anno si concluderà con due importanti appuntamenti elettorali in Argentina e Colombia. Nel paese di Messi, che ha da poco alzato la Coppa del Mondo di calcio in Qatar, il terremoto politico è in atto da tempo. L’attentato contro la vicepresidente Cristina Fernández de Kirchner (1 settembre 2022), la sua successiva condanna per corruzione (6 dicembre) e le due denunce penali presentate contro Alberto Fernández (il presidente) da rappresentanti di Coalición Cívica e Republicanos Unidos il 23 dicembre danno la misura del caos che regna in Argentina. Per il 13 agosto 2023 sono fissate le primarie aperte, simultanee e obbligatorie (Paso), nelle quali l’elettorato dovrà scegliere i propri i candidati; successivamente le elezioni presidenziali si terranno il 22 ottobre: il 19 novembre si svolgerà il secondo turno. Simultaneamente si voterà anche per metà dei seggi alla Camera dei Deputati e un terzo al Senato.

In Colombia, dove nel 2022 si sono svolte le elezioni presidenziali che hanno dato la vittoria a Gustavo Petro, si terranno il 29 ottobre le elezioni regionali per i 32 dipartimenti del paese, i deputati delle Assemblee dipartimentali, i sindaci e i consiglieri comunali.

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]]> I fiori avvelenati di Atacama https://ogzero.org/i-fiori-avvelenati-di-atacama/ Tue, 14 Jun 2022 15:05:41 +0000 https://ogzero.org/?p=7915 Riprendiamo il fotoreportage realizzato da Alice Pistolesi per l’“Atlante dei conflitti e delle guerre”, in cui viene mostrato lo sfruttamento delle risorse minerarie in Cile a scapito delle popolazioni native e con ripercussioni sull’ambiente in un paese già provato dal cambiamento climatico. Quanto è davvero “green” la produzione di ciò che è utile al mondo […]

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Riprendiamo il fotoreportage realizzato da Alice Pistolesi per l’“Atlante dei conflitti e delle guerre”, in cui viene mostrato lo sfruttamento delle risorse minerarie in Cile a scapito delle popolazioni native e con ripercussioni sull’ambiente in un paese già provato dal cambiamento climatico. Quanto è davvero “green” la produzione di ciò che è utile al mondo per la sua svolta verde? Le foto sono state scattate in Cile nel dicembre 2018 e la mostra è stata presentata a Villa Lascaris a Pianezza il 12 giugno 2022.


L’antica lotta tra lavoro e ambiente, tra interessi economici e tutela del territorio ha in Cile e nelle sue miniere uno dei più significativi campi di battaglia. Il Cile è un paese minerario, ricco di risorse dal deserto di Atacama alla Patagonia. Il Nord è pieno di giacimenti di rame, ferro, molibdeno, piombo, zinco, oro, argento e litio. Moltissimo carbone si trova poi nella macro regione Meridionale. Il Cile è il primo produttore mondiale di rame e di litio, il terzo di molibdeno, il quinto di argento, il diciottesimo di oro. L’attività legata all’estrazione di minerali e alla loro esportazione rappresenta circa un terzo del Pil.

Dietro l’imponente attività estrattiva del paese non può che nascondersi il pericolo ambientale: su un totale di 205 conflitti ambientali mappati dall’Osservatorio dei conflitti minerari in America Latina, almeno 35 interessano il Cile.

Lo stato è uno più vulnerabili al climate change: possiede, nonostante produca solo lo 0,25% delle emissioni globali di gas serra, sette dei nove fattori di rischio stabiliti dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Nel paese il settore industriale e minerario è responsabile del 77,4% delle emissioni di gas serra.

Questa mostra ci porta al Nord del Cile, nei suoi paesaggi e nelle sue contraddizioni. Si parte dalla celebre Chuquiquamata, la più grande miniera a cielo aperto del mondo e, attraverso il villaggio costruito all’interno del comparto minerario e abbandonato nel 2009, si approda nel deserto di Atacama, dove si trova tra il 27% e il 30% delle riserve mondiali di litio. Un elemento essenziale per le batterie di laptop, telefoni cellulari e auto elettriche, considerato uno dei simboli dell’economia verde. Difficile però stabilire se sia davvero green o se le sue conseguenze siano semplicemente ignorate.

Scenari che ci parlano, oltre che di ambiente e lavoro, anche di progresso e transizione ecologica, di quanto si continui a pretendere dalla Terra per inseguire uno sviluppo sempre meno sostenibile.

Chuquiquamata è la più grande miniera a cielo aperto del mondo e opera dal 1910. Gli scarti della miniera hanno prodotto un conflitto ambientale a Quillagua, un’oasi nel bacino del fiume Loa, nel Comune di María Elena a nordovest di Calama. Lì vivevano tra le 2000 e le 3000 persone, sfollate verso la città di Calama a causa della contaminazione delle acque del fiume con sostanze chimiche come xantate e isopropanolo, detergenti e metalli pesanti, tutti elementi utilizzati nei processi di estrazione del rame. L’inquinamento delle acque del Loa ha causato la graduale morte di colture e bovini. Dal 2020 si è iniziato a lavorare in sotterranea. Questo ha comportato molti cambiamenti, tra cui la notevole diminuzione dei lavoratori.

Nel complesso della miniera di Chuquiquamata fino al 2009 hanno abitato oltre 15.000 lavoratori con le rispettive famiglie. Oggi è un villaggio fantasma visitato ogni anno da migliaia di turisti grazie alle visite guidate effettuate dalla stessa azienda che gestisce la miniera, la Codelco.
I minatori che abitavano il villaggio vivono ora a Calama, a 9 chilometri da Chuquiquamata. La città ha un alto livello di contaminazione ed è una delle più inquinate del paese. La principale causa di morte è il cancro e si contano più di 2.000 casi di malattie respiratorie ogni inverno.

Il territorio che circonda il vecchio villaggio minerario e la strada che collega la città di Calama a Chuquiquamata è cosparso da “torte”, montagnole di terreno scavato e di scarto minerario. Quantificare chi si ammalerà a causa dell’arsenico respirato in anni di lavoro, ma anche di vita dentro il villaggio, non è a oggi possibile.

Il Salar de Atacama è uno dei più grandi del continente dopo il Salar de Uyuni (Bolivia). Si trova nel comune di San Pedro de Atacama, la più grande destinazione turistica del Cile. Qui si trova tra il 27% e il 30% delle riserve mondiali di litio; l’80% si trova in America Latina, nel cosiddetto ‘triangolo del litio’, ovvero la regione al confine tra Cile, Argentina e Bolivia. In questi tre Stati il minerale si trova nei deserti salati: qui il litio è presente nell’acqua dei laghi salati sotterranei che viene portata in superficie e fatta evaporare in grandi vasche. Ad estrarre litio ad Atacama sono principalmente le società Sociedad Química y Minera (SQM) e ALBEMARLE, che costituiscono due dei principali gruppi economici mondiali nell’estrazione della risorsa. In previsione dell’aumento della domanda di litio, la SQM, società privatizzata sotto la dittatura di Pinochet e i cui familiari possiedono ancora oggi parte rilevante delle azioni, promette di triplicare la produzione entro il 2030.

L’estrazione del litio, che risale alla metà degli anni Ottanta, ha nel tempo causato gravi danni agli ecosistemi e alle comunità. Questo secondo l’Osservatorio Plurinazionale di Salares Andinos, un gruppo nato a San Pedro de Atacama e che riunisce rappresentanti di comunità, organizzazioni e ricercatori provenienti da Cile, Argentina e Bolivia, preoccupati per le conseguenze, l’intensificazione e l’espansione dell’estrazione del litio nel triangolo delle saline andine e le altre associazioni ambientaliste. L’osservatorio ha rilevato che con il tempo si è danneggiata la distesa di sale, prosciugando gradualmente le sue zone umide. Queste aree e le oasi del bacino di Atacama hanno anche il compito di regolare la temperatura del deserto e catturare la CO2: sono armi vive contro il cambiamento climatico. Secondo gli studi dell’Università di Antofagasta in Cile, per ogni tonnellata di minerale estratto sono necessari due milioni di litri di acqua.

Nella comunità di San Pedro de Atacama convivono quattro fattori di rischio: presenta aree aride o semi-aride, è incline a disastri naturali, ha aree soggette a siccità e desertificazione e ecosistemi montuosi. Nel territorio le alte temperature e l’estrema aridità (il deserto di Atacama è considerato l’area più arida della terra) si combinano con le violente piogge estive che causano morti, inondazioni, erosione ed enormi perdite economiche. Secondo i ricercatori, per soddisfare il crescente mercato delle auto elettriche, il già sovrasfruttato Salar de Atacama non sarà sufficiente, e sarà necessario sfruttare più falde acquifere e saline in territori indigeni Atacameños o Lickanantay, Colla, Quechua e Aymara, andando ad impattare su altre aree protette.

Nell’area di San Pedro de Atacama vivono 11mila abitanti, di cui la metà sono indigeni, per la maggior parte Atacameños. Il costante intervento di tutte le società minerarie della zona ha generato forti divisioni, conflitti, inganni e resistenze nella convivenza comunitaria. L’estrazione mineraria indiscriminata colpisce direttamente le comunità, che devono affrontare gravi problemi di approvvigionamento idrico per l’agricoltura, la pastorizia (allevamenti di lama in primis) e per il turismo locale. Secondo gli osservatori, gli accordi e le compensazioni che le società minerarie hanno concluso nel territorio hanno causato divisioni e tensioni tra la popolazione. Le aziende hanno sfruttato l’assenza dello Stato per soddisfare numerosi bisogni primari della popolazione locale e sottoscrivere accordi di assistenza in cambio dell’accettazione delle aziende e delle gravi conseguenze socio-ambientali dell’estrazione mineraria nei loro territori.

Fenicotteri nella Laguna Chaxa. Lo squilibrio idrico collegato all’estrazione sta provocando il prosciugamento di fiumi e falde acquifere e sta interessando i laghi e le zone umide ai margini della distesa di sale e nelle montagne, ovvero ecosistemi che ospitano specie endemiche altamente vulnerabili, molte delle quali protette. Nel territorio, secondo gli osservatori, a causa degli effetti dell’estrazione e del riscaldamento globale, stanno scomparendo i fenicotteri e altre specie autoctone del salare.

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Società civile e popoli indigeni: protagonisti dell’accordo di Escazú https://ogzero.org/l-accordo-di-escazu-parla-la-societa-civile-e-i-popoli-indigeni/ Wed, 04 May 2022 15:31:08 +0000 https://ogzero.org/?p=7267 L’America Latina e il Caribe compongono una delle regioni del pianeta con maggiore megadiversità, possiedono cioè un immenso patrimonio di specie animali, vegetali ed ecosistemiche. Inoltre, in questo subcontinente si trova il 28% delle terre coltivabili, un terzo delle riserve di acqua dolce e il 22% delle foreste mondiali. Allo stesso tempo, la regione latinoamericana […]

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L’America Latina e il Caribe compongono una delle regioni del pianeta con maggiore megadiversità, possiedono cioè un immenso patrimonio di specie animali, vegetali ed ecosistemiche. Inoltre, in questo subcontinente si trova il 28% delle terre coltivabili, un terzo delle riserve di acqua dolce e il 22% delle foreste mondiali. Allo stesso tempo, la regione latinoamericana è la seconda al mondo per esposizione e vulnerabilità a disastri naturali, che gli effetti del cambio climatico stanno intensificando rapidamente. Infine, l’elevato numero di conflitti socio ambientali in questa area del mondo è legato principalmente alle attività di deforestazione, all’agro business e allo sfruttamento minerario, oltre all’installazione di grandi idroelettriche e mega impianti di energie rinnovabili.

Difensori della terra e della vita

Secondo l’ultimo rapporto della ong Global Witness, durante il 2020 sono avvenuti nel mondo 227 omicidi di persone che difendono la terra, più di 4 alla settimana. È la cifra più alta registrata dal primo monitoraggio del 2012, questo significa che la pandemia e le misure di isolamento non hanno frenato la violenza. Sette dei dieci paesi più colpiti si trovano in America Latina e più di un terzo degli attacchi sono rivolti contro popolazioni indigene.

È in questa cornice che, tra il 20 e il 22 aprile appena passati, si è svolta a Santiago del Cile la prima Conferenza delle Parti (COP) dell’accordo regionale sull’accesso all’informazione, la partecipazione pubblica e la giustizia in materia ambientale in America Latina e nei Caraibi, conosciuto come Accordo di Escazú, dal nome della località dove è stato approvato, in Costa Rica, nel 2018.

Si tratta del primo trattato regionale latinoamericano in materia ambientale – simile alla Convenzione di Aarhus europea, che l’Italia ha ratificato nel 2001 – ma è l’unico al mondo a contenere disposizioni specifiche per la protezione degli attivisti ambientali.

Stabilire come si traduce questo principio in meccanismi e dispositivi concreti sarà uno dei compiti del Comitato di appoggio all’applicazione e al compimento di Escazú, la cui creazione è stato uno dei maggiori risultati di questa COP e che il prossimo anno eleggerà i suoi 7 rappresentanti tra figure indipendenti dalle istituzioni governative e con traiettoria in democrazia ambientale.

L’idea è che serva ad «assicurare l’applicazione delle norme di Escazú, che l’accordo non resti lettera morta», spiega Natalia Gómez, della Ong EarthRights International, una dei sei rappresentanti della società civile alla COP. Quando il Comitato si sarà installato, qualsiasi persona di un paese aderente a Escazú potrà denunciare una violazione direttamente a questa istituzione che dovrà mettere in atto misure di protezione, «è in questo modo che comincerà realmente l’implementazione dei dispositivi di difesa degli attivisti» conclude.

 

La partecipazione è l’essenza di Escazú

Il traguardo della prima COP di Escazú è in realtà soltanto un inizio: tra gli obiettivi della tre giorni di Conferenza c’erano l’elezione del tavolo direttivo e l’approvazione del regolamento interno, documento già ampiamente discusso dai 12 paesi aderenti. Per questo ha colto tutti di sorpresa la proposta della delegazione boliviana di eliminare la partecipazione del pubblico dalle decisioni in materia ambientale, durante la giornata di giovedì 21 aprile. Si tratta di una condizione che è stata inserita nel trattato fin dal 2014, durante il lungo cammino di negoziazioni che hanno portato all’attuale Conferenza.

«Eliminare la partecipazione del pubblico significa tradire lo spirito dell’Accordo», ha affermato lapidario il leader indigeno Nadino Calapucha di fronte alla riunione plenaria, attorno al tavolo rotondo della sede della CEPAL. Con il volto dipinto e il copricapo di piume della sua comunità, il portavoce del Coordinamento di Organizzazioni Indigene della Regione Amazzonica (COICA) ha chiamato a rispettare uno dei pilastri di Escazú: la possibilità che, al tavolo direttivo, prenda la parola qualsiasi persona proveniente dai territori dei paesi aderenti.

L’intervento di Nadino Calapucha (foto Cepal).

Il momento di tensione è rientrato grazie al rifiuto unanime della proposta presentata dalla Bolivia da parte degli oltre 700 delegati presenti, ed è stata così confermata la presenza di un rappresentante del pubblico, inteso come la società civile in senso ampio, al tavolo direttivo della Conferenza.

Ma i delegati del COICA sono andati oltre, con la richiesta di un posto riservato a un portavoce dei popoli indigeni. «Non c’è Accordo di Escazú senza i popoli indigeni», afferma Lolita Piyahuaje, vicepresidente della Confederazione delle Nazioni Indigene dell’Amazzonia Ecuadoriana (CONFENIAE) presentando la proposta, che prevede anche l’implementazione di un caucus, un’assemblea indigena nella COP.

José Gregorio Díaz Mirabal, coordinatore generale del COICA, ha ricordato il Principio 10 della Dichiarazione di Río sull’ambiente del 1992, «che è stato il primo germoglio da cui nato l’Accordo di Escazú», in cui si afferma che «il miglior modo per trattare le questioni ambientali è con la partecipazione di tutti i cittadini interessati», evidenziando che «ci sono 476 milioni di indigeni nel mondo, in America Latina siamo 58 milioni, 826 popoli, non è un tema secondario la partecipazione indigena a Escazú, perché stiamo parlando delle nostre vite, dei nostri diritti, dei nostri territori».

Difensori del territorio, popoli indigeni e giovani generazioni

Durante la COP si sono formati due gruppi di lavoro coordinati dai sei rappresentanti del pubblico, uno ha raccolto l’urgenza della situazione in cui si trovano i difensori ambientali, mentre l’altro ha preso in carico la richiesta di una specifica rappresentanza indigena. «Abbiamo lavorato sulla proposta, che ora deve ottenere l’appoggio di un paese aderente per entrare in discussione», spiega Andrea Sanhueza, direttrice del centro studi cileno Espacio Público e una delle sei persone che attualmente rappresentano la società civile alla Conferenza. Aggiunge che nel frattempo il seggio messo in discussione dalla Bolivia e infine confermato è aperto perché possa sedersi al tavolo delle trattative chiunque lo richieda. «Nessuno può metterlo in discussione perché come pubblico abbiamo diritto a stare nelle negoziazioni», continua Andrés Napoli, un altro degli attuali rappresentanti, direttore della fondazione ambientalista argentina FARN. «Se la mettiamo al voto, ci sono paesi che potrebbero opporsi a una delegazione indigena, ma se c’è un portavoce indigeno seduto nel seggio del pubblico la riunione comincia, questo lo possiamo dire per esperienza».

Secondo i rappresentanti, che saranno eletti nuovamente il prossimo agosto, un’altra differenza importante rispetto alle COP sul cambio climatico che conosciamo da anni è che la società civile non prende la parola alla fine, quando la maggior parte dei delegati se n’è già andata e nessuno ascolta, ma durante il dibattito, alla pari con i funzionari degli stati, e questo favorisce la capacità di incidere nelle decisioni, nonostante il pubblico abbia solo diritto di parola e non di voto.

La società civile prende la parola durante il dibattito (foto Cepal).

«Stiamo iniziando una campagna per invitare le generazioni più giovani a candidarsi per essere i prossimi rappresentanti del pubblico», conclude Sanhueza, riferendosi alla grande presenza di giovani a seguire le attività della COP e all’importanza che abbiano a loro volta un ruolo di rilievo nelle negoziazioni tra i paesi membri.

L’Accordo di Escazú è uno strumento necessario per l’America Latina e il Caribe, ma la sua reale efficacia dipenderà proprio dalla società civile organizzata e dalla sua capacità di incidere nelle decisioni politiche. Una delle principali sfide è ottenere l’adesione dei paesi che non hanno ancora firmato l’accordo: solo 12 dei 33 che compongono la regione sono attualmente parte del tavolo direttivo, altri 12 hanno firmato ma non ratificato e restano in una posizione di osservatori, come il Cile, che ha dato un passo avanti a marzo, con l’assunzione del nuovo governo di Gabriel Boric.

Delle nazioni che condividono il bacino amazzonico, per esempio, fanno parte dell’accordo solo l’Ecuador, la Guyana e la Bolivia, e quest’ultima ha rivelato la sua polemica posizione. Guyana francese, Suriname e Venezuela sono tra i firmatari, mentre la Colombia, il Brasile e il Perù sono i grandi assenti.

I pericoli per l’Amazzonia

«Noi siamo i difensori della vita, chi ci difende?», si domanda durante gli incontri organizzati dalla COP Elsa Merma Ccahua, presidente dell’Associazione di Donne che difendono il territorio e la cultura K’ana a Espinar, nella regione di Cuzco in Perù. «Io sono portavoce di organizzazioni sociali di 11 regioni peruviane che affrontano malattie per metalli pesanti e tossici, conviviamo da 40 anni con le imprese minerarie», spiega. L’estrazione mineraria ha prodotto contaminazione nella zona e colpisce direttamente le comunità contadine originarie: «i nostri animali stanno morendo di malattie sconosciute, le coltivazioni nella chakra si sono impoverite. Come donne, soprattutto, siamo private della terra che è il nostro sostento per mantenere la famiglia, educare i figli, è la nostra sicurezza alimentare».

Nella provincia di Pangoa in Perù, proprio il giorno prima dell’inizio della COP è stato assassinato Ulises Rumiche, leader di un’organizzazione di popoli originari amazzonici, mentre tornava alla sua comunità dopo una riunione con funzionari ministeriali.

In Brasile e in Perù quasi tre quarti degli omicidi avvengono nella zona amazzonica e solo in Colombia sono state uccise 65 persone durante il 2020, portando questo Paese in cima alla lista mondiale stilata da Global Witness per il secondo anno di fila.

In Brasile, il presidente Jair Bolsonaro è stato denunciato davanti alla Corte Penale Internazionale per le sue responsabilità nella deforestazione dell’Amazzonia, eliminando e ostacolando gli organismi e le leggi che proteggono il polmone verde del pianeta. La denuncia, sostenuta da un’equipe di esperti insieme alla ong AllRise, ha calcolato che si può imputare al governo di Bolsonaro la perdita di circa 4000 km quadrati di selva all’anno, da quando ha assunto la presidenza nel 2019 il tasso di deforestazione è aumentato fino all’88%. Il Brasile andrà alle elezioni il prossimo ottobre e la ricandidatura di Lula da Silva potrebbe indicare un cammino diverso nei confronti della foresta amazzonica. In Colombia invece le presidenziali saranno il prossimo 29 maggio e per la prima volta da decenni esiste una possibilità che la coalizione di centro sinistra del Pacto Histórico possa vincere sulla destra legata alla figura di Alvaro Uribe, mentre il progetto di legge per approvare l’Accordo di Escazú nel paese è tornato in discussione al Congresso la scorsa settimana scorsa.

(Foto Cepal)

I prossimi appuntamenti della COP sono nel 2023 per una riunione straordinaria in Argentina, dove saranno eletti i sette responsabili del Comitato incaricato di verificare l’applicazione e il compimento delle regole del trattato, e nel 2024 nuovamente a Santiago del Cile. Qui, il risultato dei prossimi appuntamenti politici nella regione potrebbe avere una forte influenza per avanzare nella protezione dei beni naturali latinoamericani e di chi li difende.

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