Amazzonia Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/amazzonia/ geopolitica etc Thu, 19 May 2022 21:12:33 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Società civile e popoli indigeni: protagonisti dell’accordo di Escazú https://ogzero.org/l-accordo-di-escazu-parla-la-societa-civile-e-i-popoli-indigeni/ Wed, 04 May 2022 15:31:08 +0000 https://ogzero.org/?p=7267 L’America Latina e il Caribe compongono una delle regioni del pianeta con maggiore megadiversità, possiedono cioè un immenso patrimonio di specie animali, vegetali ed ecosistemiche. Inoltre, in questo subcontinente si trova il 28% delle terre coltivabili, un terzo delle riserve di acqua dolce e il 22% delle foreste mondiali. Allo stesso tempo, la regione latinoamericana […]

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L’America Latina e il Caribe compongono una delle regioni del pianeta con maggiore megadiversità, possiedono cioè un immenso patrimonio di specie animali, vegetali ed ecosistemiche. Inoltre, in questo subcontinente si trova il 28% delle terre coltivabili, un terzo delle riserve di acqua dolce e il 22% delle foreste mondiali. Allo stesso tempo, la regione latinoamericana è la seconda al mondo per esposizione e vulnerabilità a disastri naturali, che gli effetti del cambio climatico stanno intensificando rapidamente. Infine, l’elevato numero di conflitti socio ambientali in questa area del mondo è legato principalmente alle attività di deforestazione, all’agro business e allo sfruttamento minerario, oltre all’installazione di grandi idroelettriche e mega impianti di energie rinnovabili.

Difensori della terra e della vita

Secondo l’ultimo rapporto della ong Global Witness, durante il 2020 sono avvenuti nel mondo 227 omicidi di persone che difendono la terra, più di 4 alla settimana. È la cifra più alta registrata dal primo monitoraggio del 2012, questo significa che la pandemia e le misure di isolamento non hanno frenato la violenza. Sette dei dieci paesi più colpiti si trovano in America Latina e più di un terzo degli attacchi sono rivolti contro popolazioni indigene.

È in questa cornice che, tra il 20 e il 22 aprile appena passati, si è svolta a Santiago del Cile la prima Conferenza delle Parti (COP) dell’accordo regionale sull’accesso all’informazione, la partecipazione pubblica e la giustizia in materia ambientale in America Latina e nei Caraibi, conosciuto come Accordo di Escazú, dal nome della località dove è stato approvato, in Costa Rica, nel 2018.

Si tratta del primo trattato regionale latinoamericano in materia ambientale – simile alla Convenzione di Aarhus europea, che l’Italia ha ratificato nel 2001 – ma è l’unico al mondo a contenere disposizioni specifiche per la protezione degli attivisti ambientali.

Stabilire come si traduce questo principio in meccanismi e dispositivi concreti sarà uno dei compiti del Comitato di appoggio all’applicazione e al compimento di Escazú, la cui creazione è stato uno dei maggiori risultati di questa COP e che il prossimo anno eleggerà i suoi 7 rappresentanti tra figure indipendenti dalle istituzioni governative e con traiettoria in democrazia ambientale.

L’idea è che serva ad «assicurare l’applicazione delle norme di Escazú, che l’accordo non resti lettera morta», spiega Natalia Gómez, della Ong EarthRights International, una dei sei rappresentanti della società civile alla COP. Quando il Comitato si sarà installato, qualsiasi persona di un paese aderente a Escazú potrà denunciare una violazione direttamente a questa istituzione che dovrà mettere in atto misure di protezione, «è in questo modo che comincerà realmente l’implementazione dei dispositivi di difesa degli attivisti» conclude.

 

La partecipazione è l’essenza di Escazú

Il traguardo della prima COP di Escazú è in realtà soltanto un inizio: tra gli obiettivi della tre giorni di Conferenza c’erano l’elezione del tavolo direttivo e l’approvazione del regolamento interno, documento già ampiamente discusso dai 12 paesi aderenti. Per questo ha colto tutti di sorpresa la proposta della delegazione boliviana di eliminare la partecipazione del pubblico dalle decisioni in materia ambientale, durante la giornata di giovedì 21 aprile. Si tratta di una condizione che è stata inserita nel trattato fin dal 2014, durante il lungo cammino di negoziazioni che hanno portato all’attuale Conferenza.

«Eliminare la partecipazione del pubblico significa tradire lo spirito dell’Accordo», ha affermato lapidario il leader indigeno Nadino Calapucha di fronte alla riunione plenaria, attorno al tavolo rotondo della sede della CEPAL. Con il volto dipinto e il copricapo di piume della sua comunità, il portavoce del Coordinamento di Organizzazioni Indigene della Regione Amazzonica (COICA) ha chiamato a rispettare uno dei pilastri di Escazú: la possibilità che, al tavolo direttivo, prenda la parola qualsiasi persona proveniente dai territori dei paesi aderenti.

L’intervento di Nadino Calapucha (foto Cepal).

Il momento di tensione è rientrato grazie al rifiuto unanime della proposta presentata dalla Bolivia da parte degli oltre 700 delegati presenti, ed è stata così confermata la presenza di un rappresentante del pubblico, inteso come la società civile in senso ampio, al tavolo direttivo della Conferenza.

Ma i delegati del COICA sono andati oltre, con la richiesta di un posto riservato a un portavoce dei popoli indigeni. «Non c’è Accordo di Escazú senza i popoli indigeni», afferma Lolita Piyahuaje, vicepresidente della Confederazione delle Nazioni Indigene dell’Amazzonia Ecuadoriana (CONFENIAE) presentando la proposta, che prevede anche l’implementazione di un caucus, un’assemblea indigena nella COP.

José Gregorio Díaz Mirabal, coordinatore generale del COICA, ha ricordato il Principio 10 della Dichiarazione di Río sull’ambiente del 1992, «che è stato il primo germoglio da cui nato l’Accordo di Escazú», in cui si afferma che «il miglior modo per trattare le questioni ambientali è con la partecipazione di tutti i cittadini interessati», evidenziando che «ci sono 476 milioni di indigeni nel mondo, in America Latina siamo 58 milioni, 826 popoli, non è un tema secondario la partecipazione indigena a Escazú, perché stiamo parlando delle nostre vite, dei nostri diritti, dei nostri territori».

Difensori del territorio, popoli indigeni e giovani generazioni

Durante la COP si sono formati due gruppi di lavoro coordinati dai sei rappresentanti del pubblico, uno ha raccolto l’urgenza della situazione in cui si trovano i difensori ambientali, mentre l’altro ha preso in carico la richiesta di una specifica rappresentanza indigena. «Abbiamo lavorato sulla proposta, che ora deve ottenere l’appoggio di un paese aderente per entrare in discussione», spiega Andrea Sanhueza, direttrice del centro studi cileno Espacio Público e una delle sei persone che attualmente rappresentano la società civile alla Conferenza. Aggiunge che nel frattempo il seggio messo in discussione dalla Bolivia e infine confermato è aperto perché possa sedersi al tavolo delle trattative chiunque lo richieda. «Nessuno può metterlo in discussione perché come pubblico abbiamo diritto a stare nelle negoziazioni», continua Andrés Napoli, un altro degli attuali rappresentanti, direttore della fondazione ambientalista argentina FARN. «Se la mettiamo al voto, ci sono paesi che potrebbero opporsi a una delegazione indigena, ma se c’è un portavoce indigeno seduto nel seggio del pubblico la riunione comincia, questo lo possiamo dire per esperienza».

Secondo i rappresentanti, che saranno eletti nuovamente il prossimo agosto, un’altra differenza importante rispetto alle COP sul cambio climatico che conosciamo da anni è che la società civile non prende la parola alla fine, quando la maggior parte dei delegati se n’è già andata e nessuno ascolta, ma durante il dibattito, alla pari con i funzionari degli stati, e questo favorisce la capacità di incidere nelle decisioni, nonostante il pubblico abbia solo diritto di parola e non di voto.

La società civile prende la parola durante il dibattito (foto Cepal).

«Stiamo iniziando una campagna per invitare le generazioni più giovani a candidarsi per essere i prossimi rappresentanti del pubblico», conclude Sanhueza, riferendosi alla grande presenza di giovani a seguire le attività della COP e all’importanza che abbiano a loro volta un ruolo di rilievo nelle negoziazioni tra i paesi membri.

L’Accordo di Escazú è uno strumento necessario per l’America Latina e il Caribe, ma la sua reale efficacia dipenderà proprio dalla società civile organizzata e dalla sua capacità di incidere nelle decisioni politiche. Una delle principali sfide è ottenere l’adesione dei paesi che non hanno ancora firmato l’accordo: solo 12 dei 33 che compongono la regione sono attualmente parte del tavolo direttivo, altri 12 hanno firmato ma non ratificato e restano in una posizione di osservatori, come il Cile, che ha dato un passo avanti a marzo, con l’assunzione del nuovo governo di Gabriel Boric.

Delle nazioni che condividono il bacino amazzonico, per esempio, fanno parte dell’accordo solo l’Ecuador, la Guyana e la Bolivia, e quest’ultima ha rivelato la sua polemica posizione. Guyana francese, Suriname e Venezuela sono tra i firmatari, mentre la Colombia, il Brasile e il Perù sono i grandi assenti.

I pericoli per l’Amazzonia

«Noi siamo i difensori della vita, chi ci difende?», si domanda durante gli incontri organizzati dalla COP Elsa Merma Ccahua, presidente dell’Associazione di Donne che difendono il territorio e la cultura K’ana a Espinar, nella regione di Cuzco in Perù. «Io sono portavoce di organizzazioni sociali di 11 regioni peruviane che affrontano malattie per metalli pesanti e tossici, conviviamo da 40 anni con le imprese minerarie», spiega. L’estrazione mineraria ha prodotto contaminazione nella zona e colpisce direttamente le comunità contadine originarie: «i nostri animali stanno morendo di malattie sconosciute, le coltivazioni nella chakra si sono impoverite. Come donne, soprattutto, siamo private della terra che è il nostro sostento per mantenere la famiglia, educare i figli, è la nostra sicurezza alimentare».

Nella provincia di Pangoa in Perù, proprio il giorno prima dell’inizio della COP è stato assassinato Ulises Rumiche, leader di un’organizzazione di popoli originari amazzonici, mentre tornava alla sua comunità dopo una riunione con funzionari ministeriali.

In Brasile e in Perù quasi tre quarti degli omicidi avvengono nella zona amazzonica e solo in Colombia sono state uccise 65 persone durante il 2020, portando questo Paese in cima alla lista mondiale stilata da Global Witness per il secondo anno di fila.

In Brasile, il presidente Jair Bolsonaro è stato denunciato davanti alla Corte Penale Internazionale per le sue responsabilità nella deforestazione dell’Amazzonia, eliminando e ostacolando gli organismi e le leggi che proteggono il polmone verde del pianeta. La denuncia, sostenuta da un’equipe di esperti insieme alla ong AllRise, ha calcolato che si può imputare al governo di Bolsonaro la perdita di circa 4000 km quadrati di selva all’anno, da quando ha assunto la presidenza nel 2019 il tasso di deforestazione è aumentato fino all’88%. Il Brasile andrà alle elezioni il prossimo ottobre e la ricandidatura di Lula da Silva potrebbe indicare un cammino diverso nei confronti della foresta amazzonica. In Colombia invece le presidenziali saranno il prossimo 29 maggio e per la prima volta da decenni esiste una possibilità che la coalizione di centro sinistra del Pacto Histórico possa vincere sulla destra legata alla figura di Alvaro Uribe, mentre il progetto di legge per approvare l’Accordo di Escazú nel paese è tornato in discussione al Congresso la scorsa settimana scorsa.

(Foto Cepal)

I prossimi appuntamenti della COP sono nel 2023 per una riunione straordinaria in Argentina, dove saranno eletti i sette responsabili del Comitato incaricato di verificare l’applicazione e il compimento delle regole del trattato, e nel 2024 nuovamente a Santiago del Cile. Qui, il risultato dei prossimi appuntamenti politici nella regione potrebbe avere una forte influenza per avanzare nella protezione dei beni naturali latinoamericani e di chi li difende.

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La rapacità estrattivista distrugge aree protette dell’Amazzonia https://ogzero.org/non-e-un-approccio-a-favore-dell-ambiente/ Fri, 11 Feb 2022 22:06:31 +0000 https://ogzero.org/?p=6285 Due diversi sversamenti di greggio hanno inquinato in gennaio enormi aree protette dell’Amazzonia ecuadoriana attorno a Piedra Fina e le coste peruviane nei pressi di Lima, tra due riserve naturali. Le ricostruzioni riconducono a cause evitabili, se si seguissero protocolli di sicurezza o materiali resistenti, ma ciò che risulta subito evidente è che la causa […]

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Due diversi sversamenti di greggio hanno inquinato in gennaio enormi aree protette dell’Amazzonia ecuadoriana attorno a Piedra Fina e le coste peruviane nei pressi di Lima, tra due riserve naturali. Le ricostruzioni riconducono a cause evitabili, se si seguissero protocolli di sicurezza o materiali resistenti, ma ciò che risulta subito evidente è che la causa prima del disastro ecologico è il sistema estrattivista di un capitalismo rapace, le cui scelte di privatizzazione e di catene di approvvigionamento insicure sono improntate al massimo profitto. E non è mai un approccio a favore dell’ambiente, come si evince dall’esposizione di Diego Battistessa, che in questo pezzo accomuna i due eventi proprio per la riconducibilità palese al sistema di sfruttamento delle risorse fossili.


Nel mese di gennaio due gravissimi disastri ambientali hanno colpito il Perù e l’Ecuador. Non si tratta di casi isolati ma di esternalità negative prodotte da strategie economiche di estrattivismo massivo: esternalità che nel corso degli anni vengono ciclicamente prodotte da un capitalismo predatorio che in America Latina trova il suo asse portante nell’estrazione mineraria e nello sfruttamento delle risorse idriche e di idrocarburi. Le imprese private alla quali i governi latinoamericani garantiscono (o hanno garantito) concessioni lucrative e una quasi totale impunità, hanno calpestato per anni i diritti delle popolazioni indigene, non rispettando in molti casi la Convenzione dei popoli indigeni e tribali del 1989 (n. 169) dell’Oit che garantisce alle stesse il diritto del consenso libero, preventivo e informato sulla costruzione e/o attivazione di progetti con grande impatto socio-ambientale nei loro territori.

Il continuo attacco alle coste pacifiche

Non è un approccio a favore dell'ambiente

21 spiagge di Ventanilla, Santa Rosa y Áncón sono inerdette dopo lo sversamento di petrolio del 15 gennaio 2022

Il primo disastro in ordine di tempo è quello avvenuto in Perù, dove uno sversamento di 11.000 barili di petrolio avvenuto il 15 gennaio nella raffineria La Pampilla (nel quale è coinvolta la petroliera italiana Mare Doricum) ha contaminato decine di chilometri di costa tra cui due aree protette: la  Zona Reservada de Ancón e la Reserva Nacional Sistema de Islas, Islotes y Puntas Guaneras. Lo sversamento si sarebbe prodotto (da quanto ricostruito fino a ora) mentre la Mare Doricum, stava consegnando il suo carico di petrolio nella raffineria gestita dalla compagnia petrolifera spagnola Repsol. Durante le operazioni di scarico la petroliera sarebbe stata colpita dallo tsunami provocato dall’eruzione del vulcano Hunga Tonga-Hunga Ha’apai (Tonga, Oceania): esploso proprio il 15 gennaio liberando una quantità di energia tra i 5 e i 30 megatoni di Tnt (secondo le prime stime realizzate dalla Nasa). Il risultato di quello che è già il più grande disastro ambientale della storia del Perù, sono decine di chilometri di costa pacifica a nord di Lima sommerse dal liquido nero, animali intossicati o uccisi dalla sostanza viscosa e migliaia di pescatori locali che hanno perso il lavoro. Se il danno è certo e visibile, stessa cosa però non si può dire della causa dello sversamento. La versione al vaglio degli inquirenti non è infatti la prima versione data da Repsol, che il 16 gennaio aveva riportato un piccolo incidente con la fuoruscita di poche decine di barili. Solo successivamente, di fronte all’innegabilità dei fatti, la compagnia spagnola ha ritrattato la sua versione offrendo supporto alle operazioni di mitigazioni del danno.

L’incredibile difesa di Repsol

Il presidente di Repsol Perù, Jaime Fernández-Cuesta, ha affermato nei giorni successivi all’accaduto che, sebbene la compagnia abbia commesso degli errori – soprattutto rispetto alle dichiarazioni iniziali sulla quantità di petrolio sversato –, a oggi il piano di contingenza di Repsol è attivo impegnando circa 850 persone sulla costa, oltre a tre macchine per la pulizia marina, sei serbatoi galleggianti, 13 navi di grosse dimensioni grandi e 31 navi più piccole nelle acque circostanti. Un’azione, quella di Repsol, che però è stata giudicata tardiva dalle autorità peruviane che, per bocca della (ora ex) prima ministra Mirtha Vásquez, hanno annunciato a gennaio la possibilità di denunciare la multinazionale in tre diversi ambiti: false dichiarazioni, deficienza e lentezza del piano di contingenza e la obbligatorietà di garantire aiuto umanitario alla popolazione danneggiata per l’accaduto.

La situazione politica in cui capita
Non è un approccio a favore dell'ambiente

L’indagine per “presunto” inquinamento ambientale provocato dalla fuoruscita di greggio della multinazionale spagnola Repsol promanava dall’ex ministro della giustizia, che nel turbillon imposto dalla presidenza di Castillo si trova ora collocato sullo scranno di primo ministro. Una farfalla sbatte le ali alle isole Tonga e una marea di greggio si abbatte sulle coste di Lima… e subito dopo abbatte un premier peruviano.

Una battaglia che si preannuncia lunga e complicata anche per l’incerto orizzonte politico del Perù attuale. Mirtha Vásquez è infatti una delle protagoniste di quello che sicuramente è oggi uno dei panorami politici più complessi della regione. Pedro Castillo, nominato presidente a metà 2021 dopo una serrata, lunga e dura battaglia elettorale contro Keiko Fujimori, non sembra poter trovare il bandolo della matassa e dà l’impressione di camminare in un terreno minato dove è difficile distinguere gli amici dai nemici. Per responsabilità proprie, sabotaggi interni alla sua coalizione e attacchi costanti dall’opposizione (da distribuire secondo le simpatie e percezioni del caso), Castillo è stato incapace di dare continuità alla sua azione di governo e dopo 6 mesi di presidenza si trova in questi giorni a cambiare il suo gabinetto per la quarta volta. A Natale 2021 infatti, il paese e la stampa già facevano i conti con 11 cambi al vertice dei vari ministeri dando conto che dei 19 ministri in carica a quella data, solo 10 avevano iniziato il mandato insieme a Castillo 5 mesi prima.  Il 2022 non è iniziato in modo diverso. L’avvocatessa Mirtha Vásquez ha infatti rinunciato al suo incarico di primo ministro il 31 gennaio, allegando come detonante della sua decisione le dimissioni dell’ex ministro dell’interno Avelino Guillén. Al suo posto Castillo ha nominato a inizio febbraio l’avvocato e congressista Héctor Valer che però ha rinunciato all’incarico dopo soli 8 giorni per lo scandalo prodotto dalla pubblicazione di una serie di denunce per aggressione familiare che lo riguardano. Infine l’8 febbraio il presidente Castillo ha dovuto promuovere in modo repentino e urgente Aníbal Torres Vásquez (che era ministro della Giustizia e Diritti Umani da luglio 2021) al ruolo di presidente del consiglio dei ministri. In tutto questo l’opposizione non sta a guardare e il 18 novembre la congressista di Avanza País, Patty Chirino ha promosso una “moción de vacancia” (istanza di destituzione) per supposta incapacità morale nella guida del paese di Castillo. La mozione non ha prosperato visto che necessitavano 52 voti a favore nella votazione del 7 dicembre e ne sono stati ottenuti solo 46; contrari alla mozione: 76 e 4 astenuti.

Il partito di estrema destra Renovación popular ha però annunciato il 2 febbraio una nuova “moción de vacancia”, negando questa volta a Castillo le competenze per poter governare il paese. La questione risulta ancora più complessa se si pensa che mentre Renovación popular presentava la mozione, era primo ministro Héctor Valer, che in passato aveva militato nelle fila di quella formazione. Insomma una scacchiera degna di Garri Kaspárov.

Ascolta “L’imprevedibile insubordinazione istituzionale di Castillo” su Spreaker.

Basta una pietra a produrre una falla micidiale

Ascolta “Un tubo bucato innaffia di greggio l’Amazzonia ecuadoriana” su Spreaker.

In Ecuador la fuoruscita di 6300 barili di petrolio in Amazzonia nella zona di Piedra Fina, provincia amazzonica di Napo (circa 80 km dalla capitale Quito) ha portato il greggio a raggiungere alcune aree protette nel Parco nazionale Cayambe Coca, provocando un grave disastro ecologico. La fuoruscita è avvenuta il 28 gennaio quando una pietra di grosse dimensioni è franata (a causa della forti piogge) sul grosso tubo dell’oleodotto dell’impresa privata Oleuducto de crudos pesados – Ocp Ecuador. La Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (Conaie) ha denunciato immediatamente attraverso le sue reti la fuoriuscita, allertando riguardo all’enorme danno ambientale e criticando le politiche estrattiviste del nuovo presidente Guillermo Lasso (alla presidenza dal maggio 2021).

Le riparazioni di Ocp Ecuador

Jorge Vugdelija, presidente esecutivo di Ocp Ecuador ha dichiarato a inizio settimana alla stampa ecuadoregna che il 7 febbraio sono terminati i lavori di riparazione all’oleodotto e che le operazioni di trasporto del greggio dall’Amazzonia fino al porto sul Pacifico di Esmeraldas, sono riprese senza inconvenienti. Incalzato rispetto al danno ecologico provocato, Vugdelija ha assicurato che le azioni di riparazione ambientale e compensazione sociale sono già state attivate seguendo gli accordi presi con il governo e con l’appoggio e l’accompagnamento delle autorità. Ocp Ecuador ha confermato che sono state già inviate sul posto tre imprese specializzate in mitigazione del danno ambientale, con un dispiegamento di 790 persone nella zona della fuoruscita. Allo stesso modo è stato comunicato da Vugdelija che sono stati ritirati circa 1000 metri cubi  di terra contaminata, che sono stati già distribuiti 120.000 litri di acqua e kit alimentari alla popolazione vittima del disastro e che sono state inviate delle equipe mediche per iniziare ad affrontare problemi di salute nei centri abitati della zona.

La lunga scia di danni nei 20 anni di oleodotti ecuadoriani

La via dell'Oleodotto ecuadoriano

L’oleodotto Ocp è il secondo più grande dell’Ecuador e trasporta circa il 30% della produzione petrolifera del paese: è lungo 485 chilometri e può trasportare 450.000 barili al giorno (attualmente ne trasporta 180.000). Nel 2001 l’impresa privata Ocp Ecuador ha prodotto uno studio ambientale sull’impatto del progetto che è stato successivamente attivato nel 2003. Fin dall’inizio però si sono manifestate grosse negligenze che hanno portato a severi danni ambientali. Il tragitto dell’Ocp (che va da lago Agrio vicino ai giacimenti petroliferi della regione dell’Oriente dell’Ecuador fino al terminal petrolifero di Balao a Esmeraldas, sulla costa pacifica) infatti corre per buona parte parallelo all’oleodotto SOTE – Sistema de Oleoducto Transecuatoriano: il primo oleodotto partito dall’Amazzonia ecuadoriana nel 1972 e lungo 497 chilometri. Nell’aprile del 2003, durante i lavori per la costruzione dell’oleodotto Ocp è stato danneggiato il Sote, provocando una fuoriuscita di petrolio di 10.000 barili che ha raggiunto la Riserva Cayambe Coca e la laguna di Papallacta, che fornisce circa il 60% dell’acqua potabile di Quito. Da quel momento in poi si sono riportati numerosi incidenti e fuoruscite di petrolio (2009, 2013 zona di Esmeraldas  e 2020 zona cascata San Rafael).

Bucato sull'oleodotto bucato

Stendere il bucato su un oleodotto bucato

La lotta delle comunità indigene

Rispetto a quest’ultima fuoruscita di petrolio di fine gennaio 2022, il ministro dell’Ambiente dell’Ecuador, Gustavo Manrique, ha segnalato che è stata avvistata una chiazza di petrolio arrivata fino ad Añangu, nel Parco nazionale Yasuní. Il rapporto del ministro coincide con quanto già affermato e denunciato dalle comunità indigene (come il video pubblicato dalla leader indigena Nina Gualinga), che hanno stimato che l’ultima fuoriuscita ha interessato almeno 300 chilometri, dall’area in cui l’oleodotto si è rotto fino all’ingresso dell’area dello Yasuní. Il petrolio ha contaminato le fonti di acqua e cibo di centinaia di comunità indigene visto che lo sversamento ha raggiunto gli affluenti del fiume Coca: almeno 60.000 persone sarebbero state colpite da questo disastro.

In un contesto difficile nel quale le comunità indigene e in generale gli abitanti dell’Amazzonia ecuadoriana vivono una ulteriore avanzata del neocolonialismo estrattivo è arrivata però una buona notizia. Il 4 febbraio infatti l’Ong Alianza Ceibo ha pubblicato questo comunicato stampa, dando conto di una grandissima vittoria per le popolazioni indigene ecuadoriane:

«La Corte Costituzionale dell’Ecuador infatti si è pronunciata poco fa a favore del diritto dei popoli indigeni di decidere, in base alle loro forme di governo, il futuro dei loro territori in Amazzonia. Questa sentenza è storica e fornisce uno dei precedenti più potenti al mondo sul diritto dei popoli indigeni ad avere l’ultima parola sui progetti estrattivi che interessano le loro terre. Questo diritto, noto anche come Consenso Libero, Previo e Informato (Fpic), ci offre un potente strumento per proteggere 9,3 milioni di ettari di territori ancestrali in tutto il paese, e quindi affrontare i piani del presidente Guillermo Lasso, che intende intensificare l’estrazione di petrolio e la produzione mineraria. La lunga battaglia che la Comunità di Sinangoe ha condotto per la difesa del proprio territorio è un’azione esemplare condotta dalle popolazioni indigene per mitigare la crisi climatica globale».

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