Álvaro Uribe Vélez Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/alvaro-uribe-velez/ geopolitica etc Fri, 25 Mar 2022 11:55:40 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Gli spartiacque delle comunità latinoamericane – 1 https://ogzero.org/gli-spartiacque-delle-comunita-latinoamericane-1/ Thu, 30 Dec 2021 17:22:22 +0000 https://ogzero.org/?p=5695 L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano. L’idea di usare i molti appuntamenti elettorali del 2021, in prosecuzione nel 2022, per incardinare in un unico flusso i rivolgimenti elettorali a consuntivo dell’anno che sta finendo e in continuità nella prospettiva […]

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L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano.

L’idea di usare i molti appuntamenti elettorali del 2021, in prosecuzione nel 2022, per incardinare in un unico flusso i rivolgimenti elettorali a consuntivo dell’anno che sta finendo e in continuità nella prospettiva dell’anno che verrà, è sorta dalla consueta attenta osservazione di Diego Battistessa sui fenomeni che avvengono nel continente. Abbiamo punteggiato questo rapido excursus individuando le tappe più significative con podcast sugli aspetti che lungo l’anno ci avevano incuriositi e che confermano le scelte di Diego per proporre un’analisi posta anche in dialettica con una parallela esposizione del punto di vista di Alfredo Somoza, focalizzata sull’individuazione delle due sinistre latinoamericane: quella populista-autoritaria e quella trasparente, popolare perché nata dalle pulsioni all’emancipazione dei popoli – anche e soprattutto latinos – e dai Movimenti di rivolta al neoliberismo, che sono al centro della critica all’involuzione del Capitalismo compresa in Siamo già oltre?


Il 2021 elettorale in America Latina e nei Caraibi:
un ritorno della regione a quale sinistra?

Con la vittoria di Gabriel Boric Font le elezioni presidenziali in Cile, la cui seconda tornata elettorale si è svolta il 19 dicembre scorso, chiudono un anno elettorale turbolento nella regione. Cerchiamo di fare il punto di quanto successo e di ciò che ci aspetta per il 2022 prossimo venturo.

L’anno che si sta per concludere è iniziato con un primo importante appuntamento con le elezioni presidenziali in Ecuador, celebratesi il 7 febbraio. L’uscente Lenin Moreno godeva del più basso consenso regionale e i suoi anni di governo si erano caratterizzati per un duro scontro con colui che fu il suo padrino politico: Rafael Correa (ex presidente ecuadoregno 2007-2017). A disputarsi la presidenza del paese andino sono stati il banchiere e imprenditore Guillermo Lasso, il leader indigeno Yaku Pérez e l’economista Andrés Arauz, nuovo delfino di Correa, la cui condanna per corruzione gli ha impedito di candidarsi alla vicepresidenza. La prima tornata elettorale, nella quale si votava anche per il parlamento, ha visto la vittoria schiacciante di Arauz che però non ha superato il 50 per cento dei consensi e ha dovuto quindi affrontare il ballottaggio con Guillermo Lasso: arrivato secondo dopo un polemico testa a testa con Yaku Pérez. L’11 aprile la votazione finale ha ribaltato i pronostici e ha dato la vittoria al banchiere conservatore Lasso, in un voto che si è concentrato principalmente sul correismo o anticorreismo, polarizzando il contesto politico e sociale.

Nel Salvador le elezioni legislative e municipali del 28 febbraio hanno visto la schiacciante vittoria del partito Nuevas Ideas, facente capo al presidente in carica, Nayib Bukele.

Alfredo Somoza ce ne fece un ritratto, mentre i salvadoregni si ribellavano al presidente populista

Ottenendo 56 seggi su 84 in gioco nel Congresso e 152 consigli municipali su 262, Bukele si è assicurato il totale potere politico nel paese centroamericano. Le azioni che hanno seguito a questo nuevo accentramento dei poteri dello stato hanno provocato però duri scontri interni e la critica della comunità internazionale nei confronti del “presidente millenial” del Salvador.

Alfredo Somoza evidenzia le radici comuni di Bukele e Ortega in quell’altra sinistra latinoamericana, riprendendo i fili della insurrezione della popolazione salvadoregna impoverita dal populismo
“Corsi e ricorsi nella storia del Mesoamerica”.

 


La sinistra paternalista delle Ande

Il 7 marzo nella Bolivia del presidente Luis Alberto Arce Catacora, si è votato per le elezioni subnazionali nelle quali la popolazione veniva chiamata a votare per i 9 dipartimenti che compongono lo stato plurinazionale della Bolivia e 336 comuni. Il Mas (Movimiento al Socialismo), partito dell’attuale presidente – e dell’ex presidente Evo Morales –, ha ottenuto la vittoria solo in 3 dipartimenti (Cochabamba, Oruro e Potosí) ma si è affermato in più di due terzi dei comuni: ben 240.

In aprile la scena politica regionale viene accaparrata dal Perù dove, dopo anni di terremoto sociale e politico, si cerca di ritornare a una normalità democratica. Tra i numerosi candidati che si presentano alla sfida presidenziale, sono due persone che rappresentano poli opposti che arrivano al ballottaggio. Si tratta di Keiko Fujimori (figlia dell’ex presidente Alberto Fujimori) del partito di destra Fuerza Popular e del candidato Pedro Castillo, un “signor nessuno” membro del partito di sinistra Perú Libre. Poi il 6 giugno nonostante la dura campagna mediatica contro Castillo, maestro elementare delle zone rurali, portata avanti da Keiko e dai settori conservatori del paese, la sinistra vince. Il Perù rimane con il fiato sospeso perché il risultato ufficiale tarda ad arrivare. Giorni di tensione, ricorsi, frustrazione fino al 19 di luglio, quando finalmente anche Keiko Fujimori si deve arrendere e riconoscere Pedro Castillo come nuovo presidente eletto del Perù.

Del tema dell’estrattivismo peruviano avevamo parlato con Matteo Tortone

 

 

Sempre nel mese di aprile (il 19) il Partito Comunista di Cuba – Pcc conferma il presidente Miguel Díaz-Canel come primo segretario, segnano la fine di un’epoca. Il 16 dello stesso mese infatti, Raúl Castro (89 anni) si era dimesso dalla carica del partito per dare spazio a una nuova generazione di rivoluzionari che potessero portare avanti lo spirito del castrismo. L’isola, ancora sotto embargo, è però oggi scossa dalle proteste di numerosi Artivisti che lottano per ottenere libertà di espressione e contro la repressione politica e sociale del partito unico.


La sinistra costituente spinta dai Movimenti popolari

Aprile avrebbe dovuto essere inoltre il mese storico per le votazioni che in Cile dovevano portare il popolo a scegliere i membri dell’Assemblea costituente ma per l’emergenza Covid-19 il processo elettorale è stato spostato al 15 e 16 maggio. Nella stessa data si sono svolte inoltre le elezioni municipali e quelle dei governatori regionali, previste inizialmente per il 20 ottobre 2020 e rimandate per ben 4 volte. Il risultato è stato un plebiscito per le eterogenee forze politiche della sinistra che hanno ottenuto più di due terzi dei seggi dell’Assemblea e risultati storici come la vittoria della giovane comunista Irací Hassler: eletta sindaco della capitale Santiago.

 Anche in questo caso possiamo affidare al commento di Alfredo Somoza il compiacimento per la svolta cilena:
“Chile despertó y entierra Pinochet”.

Giugno ci porta alle elezioni federali e statali in Messico dove Morena, il partito dell’attuale presidente Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo) ha mantenuto il controllo del Congresso (grazie alle alleanze), perdendo però la maggioranza assoluta. L’obiettivo di Amlo di ottenere una maggioranza qualificata insieme al Pt e al Partito dei Verdi si è vista dunque frustrata chiudendo le porte alle riforme costituzionali che erano l’obiettivo di Morena per i prossimi tre anni di presidenza.

A luglio si è tornato a votare in Cile per le primarie presidenziali e per la prima volta è apparso il nome di Boric, ma soprattutto la regione è stata sconvolta da ciò che succede a Haiti. Nella notte tra 6 e 7 luglio, un commando di 28 persone prende d’assalto la residenza del presidente Jovenel Moïse nel quartiere Pelerin, a Pourt-au-Prince, la capitale del paese. Sette uomini armati entrano nella casa sparando 16 colpi al presidente e ferendo anche sua moglie (che si è finta morta per sopravvivere all’attacco). Il magnicidio fa piombare il paese ancora più nel caos e scopre trame e interessi internazionali che intrecciano Colombia, Ecuador, Usa e il piccolo paese caraibico. Le elezioni presidenziali previste per novembre sono state spostate a data da destinarsi e nel frattempo Ariel Henry, membro del partito Inite (centro sinistra) funge da presidente provvisorio.

Diego Battistessa proprio a luglio commentava così la deriva haitiana:

 


La sinistra populista, dinastica e totalitaria

Il 12 di settembre in Argentina più di 34 milioni di persone sono state chiamate a votare alle primarie aperte simultanee e obbligatorie (Paso) per definire le liste dei candidati che si sarebbero sfidati a novembre per rinnovare metà della Camera dei deputati (127 dei 257 seggi) e più di un terzo del Senato (24 dei 54 seggi). In questo contesto l’opposizione è riuscita ad assestare un duro colpo al partito del presidente Alberto Fernández, vincendo nella provincia di Buenos Aires, principale roccaforte della coalizione di governo, Frente de Todos. La tendenza delle Paso è stata poi confermata nelle elezioni del 14 novembre dove la coalizione dell’opposizione Juntos por el Cambio ha vinto in 13 province, includendo i cinque distretti più popolosi del paese: la provincia di Buenos Aires, la Città Autonoma di Buenos Aires, Córdoba, Santa Fe e Mendoza. In generale, al livello nazionale l’opposizione è riuscita a staccare di ben 9 punti percentuali la colazione di governo, ottenendo quasi il 42% dei voti contro il 33% del Kirchnerismo.

Nel frattempo però, a ottobre si sono tenute le elezioni municipali nei 261 distretti territoriali del Paraguay: elezioni che erano previste per il 2020 ma che causa coronavirus furono rimandate. Il risultato più importante (e anche il più discusso) è stata la rielezione di Óscar Rodríguez, membro del partito di governo (Partido colorado) nella capitale Asunción, nonostante gli scandali di corruzione che lo hanno visto protagonista.

 

Il  7 novembre ci sono state inoltre le elezioni “farsa” in Nicaragua che hanno dato ancora una volta una vittoria “schiacciante” a Daniel Ortega e alla vicepresidente (sua moglie) Rosario Murillo. Dietro questo apparente plebiscito (con dati di astensionismo che si aggirano intorno all’80%) ci sono infatti molteplici violazioni dei diritti umani: una repressione senza precedenti, l’incarcerazione arbitraria (iniziata a maggio 2021) di 39 persone identificate dal regime come opposizione, tra queste sette aspiranti alla presidenza.

Diego Battistessa ci aveva già fatto a luglio un parallelo tra due situazioni di quell’altra sinistra simile a quello descritto da Alfredo Somoza tra Bukele e Ortega, questa volta la incredibile dinastia nicaraguense era posta a confronto con l’eredità castrista

“Las revoluciones desencantadas y socavadas”.

Il 21 dello stesso mese si è tornato a votare in Venezuela, in una votazione dove l’opposizione, anche se ancora frammentata, ha deciso di partecipare (prima volta dal 2018). Il Partito Socialista Unito del Venezuela – Psuv (partito di governo) ha vinto 20 dei 23 governi locali in ballo. All’opposizione invece la vittoria negli stati di Cojedes, Nueva Esparta e Zulia. Ancora una volta queste votazioni hanno suscitato non poche polemiche, anche per le irregolarità registrate dalla delegazione degli osservatori elettorali dell’UE presente sul territorio fin dal 14 ottobre e tornata in Venezuela dopo 15 anni di assenza. I delegati dell’UE sono stati chiamati spie e nemici del popolo venezuelano dallo stesso Maduro, che come se non bastasse, ha invalidato la vittoria del candidato dell’opposizione Freddy Superlano nello stato di Barinas. Qui infatti Superlano, della Mud (Mesa de la Unidad Democrática) ha affrontato sconfiggendolo, il fratello del defunto Hugo Chávez, ovvero Agernis Chávez. Barinas però è anche lo stato che ha dato i natali a Chávez ed è dunque un simbolo trascendentale per la rivoluzione bolivariana. In questo senso, accogliendo il diktat di Maduro, il Tribunal Supremo de Justicia (Tsj) ha informato a fine novembre che le elezioni a Barinas sono state invalidate e che si ripeteranno il 9 gennaio 2022: Superlano non potrà partecipare visto che su di lui esiste un processo amministrativo che gli impedisce di ricoprire cariche pubbliche.


Novembre ha visto poi la prima tornata elettorale delle presidenziali cilene che ha determinato la definizione del ballottaggio tra Boric e Kast, con il quale abbiamo iniziato questo veloce excursus, ma anche le storiche elezioni in Honduras: elezioni che hanno portato alla vittoria della leader di centrosinistra Xiomara Castro. Con una partecipazione del 70% degli aventi diritto, il paese centroamericano ha messo fine a 12 anni di neoliberismo (iniziato dopo il colpo di stato del 2009), dando la presidenza a una donna e sancendo la vittoria dei movimenti sociali e delle organizzazioni che si battono per la difesa dei territori e dei beni comuni.

Su queste due elezioni avevamo fatto il punto con Davide Matrone:

“Cile e Honduras: motivi sociali per confrontare responsi elettorali”.

Il mese si è concluso con un altro avvenimento epocale, ovvero la cerimonia attraverso la quale una giurista, Sandra Mason, è diventata la prima presidente della recente nata Repubblica delle Barbados. La cerimonia attraverso la quale l’isola caraibica ha cambiato il suo status da Monarchia Costituzionale (sotto il Regno di Elisabetta II) a Repubblica è avvenuta il 30 novembre. Un passaggio di consegne che ha coinciso con il 55esimo anniversario dell’indipendenza dell’isola caraibica, avvenuta nel 1966 ma che fino a fine novembre aveva continuato a essere legata alla Corona inglese.

Cosa ci aspetta nel 2022?

Se il 2021 è stato “senza tregua”, anche il 2022 ha davvero molto da offrire in termini di elezioni e processi elettorali.

Come già detto il calendario elettorale vedrà nuovamente a gennaio le elezioni nello stato di Barinas in Venezuela dove, senza troppa immaginazione, verrà dichiarato governatore Agernis Chávez. Il 6 febbraio si sposterà in Costa Rica per le elezioni legislative e presidenziali con una eventuale seconda tornata elettorale prevista per il 3 aprile. Ancora da definire poi le date delle elezioni “comarcali” a Panama ma soprattutto quelle del plebiscito nazionale in Cile per l’approvazione della nuova Costituzione. Inoltre il 2 ottobre si tornerà ancora una volta a votare in Perù per le elezioni regionali e municipali, sempre e quando le azioni di “spodestamento” di Pedro Castillo da parte dell’opposizioni non vadano a buon fine e non aprano la strada a nuovi e incerti scenari politici.

I due appuntamenti salienti però riguardano Colombia e Brasile dove due visioni diverse di società e di mondo si daranno battaglia per la presidenza.

In Colombia quest’anno siamo andati molte volte dapprima, a febbraio, con Ana Cristina Vargas, che poi è intervenuta in voce descrivendo l’insurrezione antiuribista di maggio:

e poi ci ha accompagnato anche Tullio Togni nei suoi vari interventi dal territorio, a giugno e dicembre
“Differenti protagonisti della rivolta colombiana. La necropolitica uribista”.

In Colombia, paese segnato da un processo di Pace che non decolla, da una disuguaglianza sociale in aumento e da interminabili casi di corruzione, violenza e impunità; l’Uribismo (movimento ideologico conservatore che segue la linea del’ex presidente Alvaro Uribe Vélez) dovrà cercare di frenare la sinistra in aumento di consenso. Il presidente uscente, l’uribista Ivan Duque, è stato indicato come il principale colpevole del fallimento degli accordi di Pace siglati da Juan Manuel Santos con le Farc e le proteste iniziate il 28 aprile 2021 hanno sancito la frattura definitiva con il popolo. La credibilità di Duque e la sua popolarità hanno subito dei duri colpi, anche a livello internazionale per i report delle ong e anche dell’Onu, sulle violazioni dei diritti umani perpetrate dagli squadroni antisommossa (Esmad) durante le proteste. In questo senso neanche i successi militari come la cattura del narcotrafficante Otoniel sono serviti a ridare smalto alla figura di Duque che milita nel partito Centro democratico, fondato da Uribe nel 2013.  Dall’altro lato la lista dei precandidati presidenziali continua ad ampliarsi favorendo una frammentazione del voto: a sinistra spicca il senatore Gustavo Petro che proverà per la terza volta a diventare presidente. Le elezioni si svolgeranno il 29 di maggio (prima tornata) con il ballottaggio previsto per il 19 giugno. Prima di quella data ci sarà un altro appuntamento elettorale che servirà per avere il polso della situazione, ovvero le elezioni legislative del 13 marzo.


In Brasile la situazione non solo è complessa ma è anche molto tesa. L’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, una volta superati i “problemi giudiziari” non ha nascosto la volontà di candidarsi per le presidenziali che si svolgeranno in prima istanza il 2 ottobre, con il ballottaggio previsto per il 30 ottobre. Da un lato la sua popolarità è in crescita e dall’altro Jair Bolsonaro, l’attuale presidente cerca di correre ai ripari dopo anni di politiche aggressive, escludenti e negazioniste nei confronti del Covid-19 e dei relativi vaccini. La popolarità di Bolsonaro non gode di buona salute ma nel frattempo il 30 novembre scorso lo stesso Bolsonaro si è affiliato al Partido liberal (destra), pensando a una ricandidatura per il periodo 2022- 2026.

Altre figure di rilievo nel paese hanno annunciato la loro volontà di candidarsi e tra queste spicca sicuramente il nome di Sergio Moro. Moro infatti a novembre scorso si è affiliato al partito di centro Podemos, in vista della partecipazione alle elezioni del 2022, presentandosi come una terza via per il Brasile. La possibile candidatura a presidente di questo ex giudice di 49 anni ha sollevato però non poche polemiche visto che proprio lui aveva diretto in modo non imparziale la mega operazione anticorruzione conosciuta come “Lava Jato” che aveva portato alla carcerazione di Lula. La non imparzialità di Moro, sostenuta a più riprese da molte voci della sinistra brasiliana, è stata sancita in modo definitivo dalla Seconda sezione della Corte suprema del Brasile, che ha dichiarato martedì 23 marzo 2021 che l’ex giudice non ha agito con “imparzialità” in uno dei processi contro l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, le cui sentenze erano già state annullate in precedenza.

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La Colombia della “pace” https://ogzero.org/la-colombia-della-pace/ Sun, 12 Dec 2021 21:25:45 +0000 https://ogzero.org/?p=5547 A 5 anni dagli Accordi di Pace fra il Governo Santos e la guerriglia storica delle Farc, il cammino per lasciarsi il conflitto alle spalle sembra ancora lungo e tortuoso, come il corso degli innumerevoli  corsi d’acqua del Delta del Rio Danubio; il dipartimento del Cauca si affaccia sulla costa pacifica della Colombia, ma di […]

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A 5 anni dagli Accordi di Pace fra il Governo Santos e la guerriglia storica delle Farc, il cammino per lasciarsi il conflitto alle spalle sembra ancora lungo e tortuoso, come il corso degli innumerevoli  corsi d’acqua del Delta del Rio Danubio; il dipartimento del Cauca si affaccia sulla costa pacifica della Colombia, ma di pacifico c’è solo la certezza del conflitto tra narcos. Tullio Togni ci ha inviato questi scatti che illustrano nel suo racconto un paesaggio di difficile composizione del cinquantennale conflitto ufficialmente concluso 5 anni fa dal premio Nobel, il presidente Juan Manuel Santos.


Jefferson commenta lo sparo isolato appena sentito poco lontano, dice che sicuramente non si tratta di un’esecuzione: se il colpo fosse stato diretto al cranio, lo avremmo sentito più soffice e diffuso; attutito. Usa le mani per spiegare qualcosa che va oltre il senso dell’udito, ma per chi non ci è abituato questo rimane un concetto astratto; aleggia nell’aria.

Costa colombiana sul Pacifico

 

Buenaventura, città portuale sulla costa pacifica colombiana, è un inferno a ritmo di salsa che a partire dalle sette di sera tace quasi del tutto: un coprifuoco informale proibisce ogni danza per le strade, nessuno osa togliere la scena alle bande locali che si spartiscono il controllo e il microtraffico; “los chotas” e “los espartanos” da un anno a questa parte si sono dichiarate guerra, ma rimangono parte della stessa struttura illegale detta “La Local”. Le principali occupazioni di quest’ultima sono il narcotraffico e l’estorsione, oltre a quella pratica terribile a cui la Colombia si è abituata nel corso degli anni di conflitto e che si definisce come “pulizia sociale”. La relazione storica è con le “Autodefensas Gaitanistas de Colombia – Agc”, anche dette “Clan del Golfo”, gruppo paramilitare presente a livello nazionale il cui massimo esponente, Dairo Antonio Úsuga David (alias Otoniel), è stato recentemente arrestato. Anche se molti pensano che si sia consegnato nel quadro di un accordo ben più ampio con il governo attuale; del resto, alle elezioni di maggio 2022 non manca molto tempo.

La riconfigurazione del conflitto

Se potesse scegliere, Jefferson non andrebbe mai a Buenaventura, rimarrebbe tutta la vita in uno dei numerosi villaggi di palafitte sparse che si estendono lungo i cosiddetti “Fiumi di Buenaventura”, rami d’acqua che dalla cordigliera occidentale attraversano la foresta del Chocó e del Valle del Cauca per poi sciogliersi nell’Oceano pacifico. Ma c’è una relazione stretta fra gli spari e la casa di legno lasciata vuota davanti alla quale è seduto: in tutta questa zona, la popolazione locale – principalmente afrocolombiana – vive sotto il fuoco incrociato dei gruppi armati presenti, in particolare le dissidenze delle Farc che non sono entrate nel Processo di Pace o vi si sono sottratte, l’Eln – Esercito di Liberazione Nazionale, i paramilitari delle Agc e lo stesso Esercito colombiano. È errato gettare tutto nello stesso calderone, ma nella confusione generale della riconfigurazione del conflitto nel post-Accordo, la stessa guerriglia ha perso la sua identità storica e varia molto a seconda della regione e del contesto in cui opera; nell’Occidente colombiano, punto d’incontro fra l’entroterra e il porto di Buenaventura da cui passa oltre il 60 per cento della merce del paese, quasi tutti i gruppi armati sembrano avere vocazione economica – la cocaina – più che ideologica, per cui anche se nella maggior parte dei casi l’esercito e le Agc si alleano informalmente per combattere la guerriglia, non è raro assistere a scontri armati fra le Farc e l’Eln.

Valle Cauca

Innumerevoli rivoli d’acqua sulla costa colombiana del Pacifico e qualche drappo di rivendicazione territoriale (© – Red de Hermandad y Solidaridad con Colombia)

La riconfigurazione del territorio

Nel conglomerato di villaggi in cui vive Jefferson detta legge la Colonna Mobile Jaime Martinez, dissidenza delle Farc-Ep riunita nel “Comando Coordinador de Occidente”; lo dimostrano i cartelloni che si affacciano sul fiume o la stessa delegazione armata che si presenta: ragazzi sui vent’anni vestiti in civile se non fosse per il giubbotto verde militare, le armi e le munizioni al collo. Ma il controllo territoriale va oltre i fucili e gli spari: è fatto di ordini e restrizioni con mine antiuomo ai margini dei villaggi per limitare la mobilità della popolazione civile e le incursioni dei gruppi armati rivali, è il reclutamento forzato e le isolate esecuzioni extragiudiziali. È quanto successo alla fine di ottobre nel villaggio accanto, quando un membro del consiglio comunitario è stato assassinato perché sospettato di essere un informatore dell’esercito colombiano, dopo che i media avevano strumentalizzato alcune sue dichiarazioni rispetto al conflitto armato nella regione e lo avevano di fatto esposto a un alto rischio. È lo sparo attutito a cui si riferisce Jefferson, è la complessità del vivere in un contesto intricato e precario, in cui chi oggi è costretto a offrire un pranzo a un gruppo armato, domani viene ucciso dall’altro per aver collaborato con il nemico, oppure è perseguito dalla magistratura per aver dialogato con attori illegali presenti nel territorio. Lo stato in tutto questo si limita alla presenza militare, con incursioni frequenti, scontri armati ad alto impatto simbolico e ulteriori danni per le popolazioni locali. Queste ultime, organizzate nei consigli comunitari, denunciano la stessa convivenza fra stato e gruppi armati, chiedono che si rispetti la Legge 70 del 1993 che riconosce le comunità afrocolombiane come gruppo etnico con diritti sul territorio e autonomia di governo, rivendicano garanzie di sicurezza, educazione e sanità in tutta la zona della “Buenaventura rurale”: a proposito, nessun piano di vaccinazione per il Covid è stato ancora previsto qui. Alla guerriglia e in particolare alle dissidenze delle Farc, invece, chiedono semplicemente coerenza. In generale, per come si vive oggi, dicono che si stava meglio prima.

Villaggi su palafitte nella Valle del Cauca (© – Red de Hermandad y Solidaridad con Colombia)

Gli accordi di pace

A 5 anni dalla convulsa firma degli Accordi di Pace del 2016 fra il governo Santos (2010-2018) e le Farc, la Colombia vive una situazione paradossale a cui i numeri fanno da cornice: 299 ex guerriglieri e 1270 leader sociali assassinati, 500 organizzazioni della società civile vittime di minacce, 250.000 persone costrette all’esodo forzato. Numeri importanti che evidenziano una tragica realtà.

La terra rimane a tutti gli effetti il motore del conflitto, lo stato non si è impegnato a restituirla né a redistribuirla, ha abbandonato molti territori precedentemente controllati dalle Farc dando il via libera all’entrata di nuovi gruppi armati. Quando ha investito, lo ha fatto per generare monocolture per l’esportazione o piani di esplorazione per soddisfare gli interessi di multinazionali straniere anziché quelli delle comunità indigene e contadine che più di tutti hanno sofferto. E quanto alla difesa dell’ambiente, benché nella recente Cop26 il presidente Duque abbia dichiarato di essere disposto a difendere gli ecosistemi del paese, solo nel 2020 sono stati registrati oltre 65 omicidi contro attivisti ambientalisti. Per non parlare del processo di sostituzione delle coltivazioni illegali a suon di glifosato e di assenza di alternative valide alla coca.

Cauca indigena, ottobre 2020

Le poche prospettive per la popolazione smobilitata e gli omicidi di ex guerriglieri e attivisti sociali, sono l’altro grande cruccio del bilancio a 5 anni dagli Accordi di Pace, poiché dimostrano che lo spazio per le nuove lotte sociali e l’esercizio delle attività politiche e pubbliche, continuano a costare vite umane. A ciò si aggiunge l’altissimo livello di impunità per chi commette questi crimini e chi li ordina, un fenomeno messo in relazione con la corruzione della classe politica e gli attacchi della destra uribista al sistema di giustizia transizionale (Jep) nato nel 2016.

La Colombia oggi

Oltre a Cali, epicentro del “Paro Nacional”, Buenaventura è destinazione obbligata e recipiente delle popolazioni sfollate di tutta la regione del Pacifico colombiano. Lo scorso agosto è occorso a 1600 persone della zona del “Litoral San Juan”, vittime dei bombardamenti dell’esercito colombiano contro l’Eln, mentre negli ultimi giorni è toccato ad altre centinaia di persone appartenenti alle comunità indigene e afrocolombiane dei “Fiumi di Buenaventura”. Una volta in città, la loro prospettiva è quella di cercare di sopravvivere in un modo o nell’altro nei quartieri popolari, alla mercé delle bande locali e di quel ciclo di violenza che sembra non finire mai.

Da qualche parte a Buenaventura si nasconde anche Santiago, giovanissimo coordinatore delle brigate mediche a Cali che durante i mesi del “Paro Nacional” offrivano i primi ausili ai manifestanti vittime della violenza della polizia. Come successo a molti altri, una volta ristabilitosi l’“ordine sociale” gli sono cominciate a piovere addosso minacce di morte da parte di gruppi non identificati; la pressione su di lui è cresciuta al punto tale che, credendosi perduto, ha voluto farla finita. Ma oggi è ancora vivo, nascosto e protetto da una piccola cerchia di persone di fiducia. Lo stesso, purtroppo, non si può dire di suo fratello: vittima della vendetta trasversale, 10 giorni fa è stato fatto sparire.

Vecchia copia della rivista “Semana” uscita prima che venisse cooptata nella galassia uribista, asservendosi al potere da posizioni di denuncia come queste.

La Colombia del post-Accordo fra Governo e Farc non ha raggiunto una reale fase postbellica; quest’ultima si è semplicemente adattata e rimodellata al presente, forse a causa di alcune debolezze strutturali come la non messa in questione del sistema economico e di “sicurezza nazionale”, oppure il fatto che a vederlo ora, l’accordo appare come un’intesa esclusiva fra le alte sfere di due mondi opposti che hanno commesso lo stesso errore: dimenticarsi delle loro basi.

A circa sei mesi dalle elezioni presidenziali di maggio 2022, è difficile immaginare quale sarà il destino della pace in Colombia.

Un cielo pieno di nubi (© – Red de Hermandad y Solidaridad con Colombia)

 

 

 

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Popoli indigeni e sciopero nazionale https://ogzero.org/popoli-indigeni-e-sciopero-nazionale/ Wed, 30 Jun 2021 23:18:36 +0000 https://ogzero.org/?p=4077 L’insurrezione in corso in una Colombia stremata da anni di neoliberismo imposto da Uribe, dal latifondo, dalle divise, scatenato dalla riforma fiscale e che vede in piazza da due mesi migliaia di persone determinate e per nulla spaventate dalle centinaia di morti, scomparsi, seppelliti in fosse comuni, vede protagoniste le comunità indigene, oggetto del desiderio […]

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L’insurrezione in corso in una Colombia stremata da anni di neoliberismo imposto da Uribe, dal latifondo, dalle divise, scatenato dalla riforma fiscale e che vede in piazza da due mesi migliaia di persone determinate e per nulla spaventate dalle centinaia di morti, scomparsi, seppelliti in fosse comuni, vede protagoniste le comunità indigene, oggetto del desiderio degli interessi minerari e agrari; del narcotraffico e dei paramilitari. La minga della Cauca fa tremare i monumenti secolari del colonialismo per colpire il neocolonialismo del neoliberismo. 

Tullio Togni continua a ribadirci che «el paro no para» anche attraverso la testimonianza di Edwin Guetio, di cui ci ha fornito alcune interessanti analisi, introiettate in questo articolo, aggiornate poi in questa corrispondenza da Bogotà, trasmessa in diretta il 1° luglio 2021 dalla trasmissione Bastioni di Orione di Radio Blackout.

Ascolta “Differenti protagonisti della rivolta colombiana. La necropolitica uribista” su Spreaker.


Il 7 maggio 2021, a poco più di una settimana dall’inizio delle sollevazioni popolari del Paro Nacional, un gruppo di giovani del popolo indigeno Misak abbattevano a Bogotá la statua dello spagnolo Gonzálo Jimenez de Quesada, a cui si attribuisce la fondazione della capitale della Colombia. In un comunicato a poche ore dai fatti, i manifestanti rivendicavano l’atto in nome del «recupero di uno spazio fisico e simbolico, sottraendolo alle violazioni che da secoli sono state perpetrate da parte dei sicari della conquista».

Gonzálo Jimenez de Quesada

L’abbattimento delle statue è la sineddoche del superamento di quel colonialismo… mentre si avversa il neocolonialismo

Oltre un mese più tardi, il 9 giugno, mentre le mobilitazioni si protraevano a oltranza nel nome di el paro no para, manifestanti indigeni dello stesso gruppo etnico abbattevano la statua di Cristobal Colón e danneggiavano quella della regina Isabella di Castiglia, detta “La cattolica”.

Claudia Lopez, sindaca di Bogotá, non tardava a condannare pubblicamente e con estrema risolutezza tali violenze rivolte al passato e alla memoria; quasi al contempo, in un’intervista rilasciata nelle strade, un manifestante appartenente al popolo Misak specificava che «questa terra non è quella degli spagnoli, bensì quella dei popoli indigeni».

La questione indigena. I numeri…

Nella molteplicità delle forme di lotta e delle rivendicazioni, nell’eterogeneità della piazza e delle mobilitazioni, la questione indigena è di primaria importanza, e dato il contesto attuale oltre che storico sarebbe impossibile negarlo. Per quanto percentualmente limitata rispetto ad altri paesi sudamericani (4,4% della popolazione – 1.905.617 persone), la popolazione indigena in Colombia è ben presente, come dimostra il censimento nazionale del 2018 che ha registrato 115 popoli indigeni presenti in tutto il paese. I dipartimenti in cui si concentrano maggiormente le popolazioni indigene sono Guajira (394.683 abitanti), Cauca (308.455), Nariño (206.455), Córdoba (202.621) e Sucre (104.890). Al contempo, i principali popoli indigeni presenti su suolo colombiano per numero di abitanti, sono i Wayuu (380.460 persone), gli Zenú, (307.091), i Nasa, (243.176) e i Pastos (163.873).

… e la Minga
popoli indigeni e sciopero nazionale

La minga nella Cauca convoca il paro nacional indigeno. La minga è un gruppo di persone piuttosto ampio che si occupa della “sicurezza”, che poi si conforma come minga interpretando il risultato dell’unione di diversi gruppi etnici indigeni. In particolare durante i cortei la marcia indigena è detta “minga”, che in sé racchiude anche il significato di protesta

Il Cric – Consejo Regional Indígena del Cauca conta 10 popoli indigeni e 127 autorità ancestrali, è figlio della resistenza indigena di fronte all’etnocidio che ha caratterizzato gli ultimi 500 anni e, più recentemente, delle lotte per la terra e l’identità portate avanti lungo il secolo XX, in particolare quelle di Martin Quintín Lame e poi dalla Asociación nacional de Usuarios Campesinos (Anuc). Edwin Guetio, coordinatore del settore per la difesa e la promozione dei Diritti Umani, ci spiega in quale situazione si trovano attualmente i popoli indigeni del Cauca colombiano e quale è stato finora il loro coinvolgimento nel Paro Nacional:

“La criminalizzazione della protesta sociale”.

Terra e territorio nella storia e nei simboli

Ha ragione Claudia Lopez, sindaca di Bogotá: le statue sono il passato e la memoria. Attaccarle, però, è un atto simbolico che riporta indietro l’attenzione, aiuta a non dimenticare. Non sorprende dunque che le mobilitazioni dello sciopero nazionale iniziato lo scorso 28 aprile 2021 abbiano voluto andare a toccare anche quella che è indubbiamente una delle radici dei tanti problemi strutturali di questo paese. Non sorprendono nemmeno le parole dei manifestanti indigeni rispetto ai soprusi perpetrati dai colonizzatori spagnoli e al diritto a terra e territori.

Latifondo, monocultura e controllo militare

È forse proprio quest’ultimo punto il centro e l’origine della discriminazione storica contro i popoli indigeni e gli altri considerati “marginali”: la proprietà privata della terra, l’accumulazione e la sottrazione delle proprietà collettive ancestrali. In questo processo storico, si individuano tre momenti fondamentali: il primo coincide con l’espropriazione della terra durante i secoli XVI e XVII – subito dopo la fine della resistenza armata delle comunità indigene del Cauca – e la costituzione delle grandi haciendas; il secondo momento corrisponde con l’espansione del latifondismo durante il secolo XIX e XX, quando alcune grandi famiglie ottennero titoli di proprietà privata a scapito della proprietà collettiva tradizionale dei popoli indigeni; il terzo e più recente momento coincide con l’epoca della “Violenza” degli anni Cinquanta del Novecento, che aumentò considerevolmente l’accumulazione delle terre nelle mani di pochi. Il lungo conflitto interno, la privatizzazione ulteriore e la militarizzazione dei territori con il fenomeno del paramilitarismo, contribuirono poi a fare il resto durante i decenni successivi. La situazione attuale non si distanzia di molto da quella degli anni scorsi, basti pensare che il 60% della terra della regione del Cauca risiede nelle mani del 7,8% della popolazione, mentre l’85% dei piccoli proprietari possiede solo il 26% della terra, che viene inoltre classificata con livello di fertilità basso o molto basso. Rimangono poi le altre problematiche di sempre, come il controllo militare dei territori, le coltivazioni illegali destinate al narcotraffico e le monocolture, prima fra tutte quella della canna da zucchero.

Los resguardos indígenas si definiscono come proprietà collettive di una comunità indigena, come dagli articoli 63 e 329 della Costituzione politica, che le dichiara non trasferibili né alienabili: indispensabili per rispettare il territorio e la cultura in cui ciascun colombiano si riconosce

Los resguardos indígenas si definiscono come proprietà collettive di una comunità indigena, come dagli articoli 63 e 329 della Costituzione politica, che le dichiara non trasferibili né alienabili: indispensabili per rispettare il territorio e la cultura in cui ciascun colombiano si riconosce

Per quanto riguarda i cosiddetti resguardos indígenas – territori appartenenti alle popolazioni indigene – va segnalato che la loro autonomia viene spesso violata sia da gruppi armati di vario tipo sia dalle forze statali, mentre il settore imprenditoriale non perde occasione per chiederne la riduzione in termini di estensione.

Autonomia e partecipazione: le Costituzioni

Vi è un altro asse parallelo nel processo di discriminazione ed esclusione storica delle popolazioni indigene: la loro considerazione e rappresentanza all’interno dello spazio pubblico e politico, i diritti concessi e riconosciuti dalla legge, la loro efficacia. A tal proposito, la Costituzione del 1991, cosiddetta Costituzione dei Diritti Umani arrivata dopo 105 anni dalla precedente, ha segnato una svolta storica, almeno sulla carta. Prima di allora le popolazioni indigene non godevano di alcun tipo di riconoscimento di fronte alla legge, tanto che la Costituzione del 1886 non ne menzionava nemmeno l’esistenza. In generale, l’impostazione portata dagli spagnoli e il modus operandi di fronte agli indigeni si mantenne anche dopo l’Indipendenza nazionale e si tradusse nell’uniformità etnica, religiosa e linguistica. Ne è un chiaro esempio la legge 89 del 1890, che elevò ulteriormente il livello di violenza e assimilazione nei confronti delle popolazioni indigene: l’idea era quella di portare i “selvaggi” alla “civiltà”, l’imposizione della religione cattolica era una condizione sine qua non.

Multiculturalità sulla Carta e diritti da conquistare

popoli indigeni e sciopero nazionale

Trent’anni fa, al momento della creazione dell’Assemblea Costituente, si registra la prima rappresentanza indigena nella storia colombiana costituita da Lorenzo Muelas, Francisco Rojas Birry e l’ex guerrigliero Alfonso Peña Chepe. I risultati furono importanti: divieto costituzionale del razzismo, garanzie per la rappresentanza e la partecipazione politica indigena, riconoscimento dell’autonomia nei resguardos e delle specificità culturali in termini di organizzazione sociale e della proprietà, usi e costumi, educazione, medicina tradizionale. In generale, il principale obiettivo raggiunto fu il riconoscimento della diversità etnica e della multiculturalità, confermato dalla ratifica della Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Una vittoria su più livelli nonostante varie lacune, prima fra tutte l’assenza di un capitolo esplicito dedicato ai diritti etnici e indigeni; al tempo stesso, però, una minaccia per l’oligarchia al potere e le sue mire di controllo sull’intero territorio nazionale.

Proprio da lì sembra derivare buona parte della violenza che oggi continua a perpetrarsi:

“Il controllo indigeno sul territorio: contro narcos, estrattivismo e gruppi armati”.

Paramilitarismo urbano

Lo sciopero nazionale ha sicuramente esacerbato il grado di violenza con cui si deve confrontare l’opposizione sociale in Colombia, e in tale contesto le popolazioni indigene sono state attaccate da più parti. Emblematico è quanto avvenuto lo scorso 9 maggio a Cali, quando un gruppo di civili armati ha aperto il fuoco contro la minga indígena. Un fatto allarmante in quanto rappresenta l’uscita alla luce pubblica di un fenomeno definibile come paramilitarismo urbano, finora rimasto più o meno nascosto nell’immensa zona grigia della continuità fra simili atti e gli altissimi livelli di impunità.

La solita condotta calunniosa di Uribe

Ma per capire meglio alcuni meccanismi dell’apparato repressivo dello stato, ancora una volta occorre fare un salto nel passato, quando il 30 maggio 1999 l’Esercito di Liberazione Nazionale (Eln) organizzò uno degli attentati più eclatanti della sua storia, conosciuto come il “Secuestro en la Iglesia La Maria”, avvenuto nel quartiere Ciudad Jardín della città di Cali. Decine di guerriglieri dell’Eln proruppero all’interno della chiesa nel momento della celebrazione religiosa e sequestrarono circa 200 persone, obbligandole a salire su dei camion che li portarono nelle montagne circostanti. Tutti furono poi liberati ma il bilancio fu comunque pesante: 3 morti e 1 ferito.

Ebbene, nel momento in cui, 22 anni più tardi, gli indigeni del Valle del Cauca si mobilitavano per raggiungere le manifestazioni del Paro Nacional a Cali, il solito Álvaro Uribe Veléz, in un tweet poi rettificato, “confondeva” la bandiera rossoverde del Cric con quella rossonera dell’Eln, e allarmava la popolazione civile sull’imminente arrivo in città dei guerriglieri:

Grupo terrorista ELN en Jamundí, Valle. El camino es apoyar la acción de las Fuerzas Armadas con estricta observancia de la Constitución; evitar el avance de la defensa privada armada. No repetir preferencia del terrorismo sobre las Fuerzas Armadas, se sufren consecuencias.

 

In altre parole, si trattava di un gravissimo atto di diffamazione nei confronti del Cric e di un forte incitamento alla violenza: il risultato non poteva di certo essere una sorpresa, e non a caso avvenne nello stesso quartiere di 22 anni prima, Ciudad Jardín di Cali:

“Resistenza e repressione: 9 maggio a Cali”.

I prossimi passi

Nella sua visita in Colombia avvenuta in giugno 2021 fra le mille polemiche, la Commissione Interamericana dei Diritti Umani (Cidh) ha espresso serie preoccupazioni per quanto mostrato da parte dello stato in termini di gestione della protesta sociale, di fatto tradottasi in repressione violenta sia a livello fisico che giudiziario. La piattaforma Indepaz ha denunciato che dall’inizio del Paro Nacional e fino al 24 giugno 75 persone sono state uccise. In un rapporto dell’anno scorso, giugno 2020, la stessa organizzazione sottolineava che dal 2016, anno della firma degli Accordi di Pace, 269 attivisti indigeni erano stati assassinati. Nel solo 2021, dei 79 attivisti sociali uccisi in tutto il paese, 26 risultano essere indigeni.

Sono cifre impressionanti e che dipingono in maniera esaustiva lo scenario di “pace fragile” che vive il paese, in cui ampi settori al potere non hanno alcuna intenzione di invertire la rotta e sono pronti a rispondere come hanno sempre fatto: con la forza e la violenza.

Allo stesso tempo, lento ma irreversibile, nell’intersezionalità della lotta procede il cammino verso l’autodeterminazione dei popoli indigeni e di tutti i gruppi etnici considerati “altri”. È un cammino per la vita, per la terra e per la pace, che ha trovato nel Paro Nacional del 2021 un momento di svolta:

“Una Colombia giusta e sociale. Insorgente, ma evitando la Guerra civile”.

La Dichiarazione di Quito

Uno degli slogan che più è risuonato in questi mesi di sciopero, è stato il seguente: A PARAR PARA AVANZAR, come fosse un intreccio fra cosmogonie e concezioni diverse del tempo, più o meno lineari. Allo stesso modo, è opportuno, un’ultima volta, volgere lo sguardo al passato, tornare all’attualità di oltre trent’anni fa, prima ancora dell’Assemblea Costituente del 1991.

È il 1990, è la Dichiarazione di Quito in occasione del Primo Incontro Continentale dei Popoli Indigeni, si parla di autodeterminazione:

“(…) La autodeterminación es un derecho inalienable e imprescriptible de los pueblos indígenas. Los pueblos indígenas luchamos por el logro de nuestra plena autonomía de los marcos nacionales. La autonomía implica el derecho que tenemos los pueblos indios al control de nuestros respectivos territorios, incluyendo el control y manejo de todos los recursos naturales del suelo y subsuelo y espacio aéreo. Asimismo, la autonomía (o soberanía para el caso de los pueblos indios de Norteamérica) implica la defensa y la conservación de la naturaleza, la Pachamama, de la Abya Yala, del equilibrio del ecosistema y la conservación de la vida.

Por otra parte, autonomía significa que los pueblos indios manejaremos nuestros propios asuntos para lo cual constituiremos democráticamente nuestros propios gobiernos (autogobiernos). Exigimos en forma urgente y lucharemos por conquistar las modificaciones de las constituciones de los distintos países de América, a fin de que se establezca en ellas el derecho de los pueblos indios, especificando muy claramente las facultades del autogobierno en materia jurídica, política, económica, cultural y social.

Los pueblos indígenas estamos convencidos de que la autodeterminación y el régimen de autonomía plena sólo podremos lograrlo previa destrucción del actual sistema capitalista y la anulación de toda forma de opresión sociocultural y explotación económica. Nuestra lucha está orientada a lograr ese objetivo que es la construcción de una nueva sociedad plural, democrática, basada en el poder popular”.

[D.R., Bernal Camargo, Autonomía y libre determinación de los pueblos indígenas en el marco del Estado social de derecho de la Constitución política colombiana de 1991, in “Revista Republicana”, ISSN: 1909-4450, nn. 4-5, Corporación Universitaria Republicana].

popoli indigeni e sciopero nazionale

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Le molte violenze della pace in Colombia https://ogzero.org/le-diverse-violenze-della-pace-in-colombia/ Sun, 14 Feb 2021 12:33:36 +0000 http://ogzero.org/?p=2422 Le recenti dichiarazioni del leader delle Farc Rodrigo Londoño hanno portato al centro dell’attenzione, ancora una volta, le criticità che sta incontrando il processo di pace in Colombia. Comparso davanti alla Jurisdicción Especial para la Paz (Jep), Londoño, più noto come Timochenko, ha ammesso la responsabilità delle Farc nell’uccisione di Alvaro Gómez Hurtado, già direttore […]

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Le recenti dichiarazioni del leader delle Farc Rodrigo Londoño hanno portato al centro dell’attenzione, ancora una volta, le criticità che sta incontrando il processo di pace in Colombia. Comparso davanti alla Jurisdicción Especial para la Paz (Jep), Londoño, più noto come Timochenko, ha ammesso la responsabilità delle Farc nell’uccisione di Alvaro Gómez Hurtado, già direttore del Partito Conservatore, e ha menzionato che i vertici delle Farc avevano contemplato la possibilità di attentare contro la vita dell’ex presidente Juan Manuel Santos, ma non hanno mai avuto informazioni sufficienti su di lui e dunque l’attentato non è mai stato realizzato. Questa parte della dichiarazione di Timochenko, che ha avuto una certa risonanza in Europa, in Colombia ha avuto un impatto piuttosto limitato. Lo stesso Santos ha risposto che anch’egli aveva firmato l’autorizzazione per compiere operazioni militari contro le Farc e ha ricordato che le regole del gioco, imposte dalla componente governative, erano chiare: «I negoziati sono stati portati avanti nel corso delle guerra, come se le guerra non ci fosse stata, e la guerra, nel frattempo, è andata avanti come se i negoziati non ci fossero stati». Entrambi, Santos e Londoño, hanno ribadito l’importanza del riconoscimento pubblico della verità, che rappresenta un bisogno e un diritto delle vittime e hanno espresso preoccupazione per le uccisioni degli ex combattenti delle Farc e dei leader sociali.

Pace: un percorso accidentato

Se, sulla carta, la guerra con le Farc è conclusa, di fronte alle numerose violenze che continuano a colpire la società colombiana è infatti doveroso fare un bilancio critico del processo di pace e mettere in luce le profonde falle che possiamo constatare nel percorso, più che mai necessario, di ricostruire il patto sociale su basi più democratiche ed eque.

Conseguenze bio-sociali della pandemia

Come altrove, il 2020 in Colombia è stato fortemente segnato dalla pandemia Covid-19, che ha fatto emergere in modo lampante le numerose contraddizioni che caratterizzano il nostro contesto sociale, economico e politico. Una delle prime e più interessanti asserzioni del volume Epidemie e società di Frank Snowden è che le malattie epidemiche non sono affatto eventi biologici episodici che si abbattono in modo casuale sulle collettività, ma sono fenomeni che potremmo definire bio-sociali, che colpiscono i punti più vulnerabili di una collettività, mettendo in luce in modo drammatico le fragilità del sistema. Nel caso colombiano queste affermazioni sono particolarmente vere. Gli effetti a livello epidemiologico del Covid-19 sono stati radicalmente diversi rispetto a quelli che si sono osservati in Europa. Mentre in paesi come l’Italia il principale fattore di rischio è l’età, in Colombia è la classe sociale a determinare chi corre il rischio più grave. Vi è, poi, un lato ancor più sinistro della pandemia e delle misure per contenerla: mentre in altri paesi il fatto di essere confinati in casa ha diminuito gli indici di violenza, in Colombia, al contrario, c’è stato un aumento complessivo del numero di leader sociali assassinati, dei fenomeni di violenza contro le donne e dell’insicurezza urbana. “Restare a casa”, dunque, ha amplificato la “vulnerabilità strutturale” di categorie che già prima erano di per sé vulnerabili.

I ceti più poveri sono i più colpiti dalla pandemia (foto di Jkraft5, Soacha)

Violenza strutturale e violenza politica

Nella pandemia, in sintesi, si è manifestato un intreccio persistente e irrisolto fra disuguaglianza sociale, violenza strutturale e violenza politica. Non va dimenticato che il conflitto armato si è sviluppato in una società caratterizzata da marcate disuguaglianze sociali che vede contrapposte, da un lato, una élite economica che esercita un controllo pressoché totale sulle terre, sulle materie prime e sulla produzione e, dall’altro, la grande maggioranza della popolazione che oscilla fra la “fatica ad arrivare a fine mese” e, nei casi peggiori, l’impossibilità di accedere alle risorse minime per garantire la propria sussistenza.

Bogotà, 2019: attivisti di Puro Veneno attaccano un manifesto contro la brutalità della polizia (foto di Sebastian Barros)

L’accordo di pace: criticità tuttora irrisolte

Sono passati poco più di quattro anni dal 30 novembre del 2016, il giorno in cui il Congresso colombiano, dopo molte vicissitudini, diede il via all’attuazione dell’accordo di pace sottoscritto tra le Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane e il Governo colombiano. La prima versione dell’accordo era stata siglata il 26 settembre di quello stesso anno. Alcuni punti di questa prima versione, tuttavia, erano stati ridiscussi in seguito alla sconfitta del “SÍ” nel plebiscito che avrebbe dovuto ratificare l’accordo, ed erano state apportate delle modifiche in ragione della necessità di allargare la platea politica dei sostenitori di una soluzione pacifica e negoziata del conflitto.

Nella sua versione finale, l’accordo affrontava alcune questioni nodali capaci di alimentare il conflitto sociale armato. Erano incluse nei punti, per esempio, la cosiddetta “questione agraria”, ovvero le profonde asimmetrie nella distribuzione della terra, che dovevano essere affrontate a partire da un programma di riforma integrale della proprietà terriera, a vantaggio delle comunità contadine e delle minoranze indigene e nere che nel corso del conflitto erano state espropriate dai loro territori tradizionali.

Particolare importanza era stata data alla questione della partecipazione politica delle Farc (che ha recentemente annunciato la rinuncia alla storica sigla e la nascita del partito Comunes) e, più in generale, delle componenti sociali non sufficientemente rappresentate nello scenario nazionale. Il nodo della giustizia, la verità e la riparazione delle vittime erano stati trattati in modo ampio ed era stata costituita la già menzionata Jep, con il compito di amministrare la giustizia transizionale. Erano stati inoltre concordati dei meccanismi per affrontare il problema della coltivazione della coca e del narcotraffico.

Molte di queste criticità rimangono tuttora irrisolte e, per quanto riguarda il narcotraffico, i problemi si sono intensificati.

Gli ostacoli politici

L’implementazione degli accordi ha incontrato ostacoli politici e sociali a molti livelli. Sebbene la versione finale fosse stata approvata senza voti contrari, i parlamentari del Centro Democrático (un partito di destra fortemente contrario al processo di pace, diretto dal senatore ed ex presidente Álvaro Uribe Vélez) si erano ritirati dalle aule durante la votazione e avevano reso esplicita la loro volontà di ostacolare l’implementazione delle misure contenute negli accordi. Una linea politica, questa, che è risultata evidente durante l’attuale mandato presidenziale: il governo Duque ha infatti accumulato notevoli ritardi – e conseguenti malcontenti – nell’iter legislativo che avrebbe consentito l’attuazione di quanto pattuito e, sulla scia di Uribe Vélez (2002-2006 e 2006-2010), ha ostacolato la giustizia transizionale e i suoi meccanismi di verità e riparazione; ha promosso narrazioni ufficiali che negano (o quantomeno minimizzano) le responsabilità, presenti e passate, della componente governativa e ha “normalizzato” misure repressive da parte della polizia e delle forze dell’ordine che violano i diritti fondamentali, giustificandole come azioni necessarie per il mantenimento dell’ordine pubblico.

Fra i fatti di cronaca più emblematici del 2020 si possono infatti ricordare l’uccisone di Javier Ordoñez, a cui seguì una violenta repressione messa in atto per sedare le proteste nella capitale, e la morte di Mario Paciolla, membro della Misión de Verificación de los Acuerdos de Paz dell’Onu e autore di un rapporto su un bombardamento dell’esercito che aveva l’obiettivo di colpire un leader dissidente delle Farc e fu presentato come un impeccabile successo militare da parte di Duque, ma nel quale in realtà erano stati uccisi a sangue freddo, e da terra, otto ragazzi fra i 12 e i 17 anni.

“La Jep riformula una storia del conflitto armato”.

L’obiettivo è eliminare i leader sociali

Per capire quanto sia critica l’attuale situazione del paese, e quanti ostacoli si stiano cercando di frapporre alla “costruzione di una pace stabile e duratura”, alcune cifre offrono un efficace punto di riferimento.

Indepaz, un’associazione che monitora lo stato della situazione dei diritti umani in Colombia, ha raccolto documentazione relativa a più di 90 massacri avventi nel 2020, a questi si aggiunge l’uccisione di 310 leader di lotte sociali e 12 loro familiari o amici. Questa stessa organizzazione aveva segnalato oltre 750 uccisioni di leader sociali fra il 2016 e il 2019. Sebbene le cifre ufficiali siano più contenute rispetto alla documentazione raccolta da Indepaz, la portata della violenza che si sta abbattendo contro questi attivisti è stata riconosciuta anche da istanze governative: il Difensore del Popolo, un ente che ha il ruolo di sorvegliare e promuovere la tutela dei diritti umani, ha riconosciuto ben 555 uccisioni fino al 2019 e altre 139 vittime nel 2020. Alle cifre agghiaccianti dei leader sociali assassinati, si aggiungono i nomi di 64 ex combattenti, firmatari dell’accordo, uccisi nel corso dell’anno.

I massacri e le uccisioni dei leader sociali, sindacalisti, attivisti nel campo dei diritti umani, ambientalisti, rappresentanti dei movimenti lgbti, oppositori e, in generale, tutte le persone che possono rappresentare una minaccia allo status quo dei settori dominanti sono fenomeni ricorrenti nella storia colombiana.

I “leader sociali” sono uomini e donne che si contrappongono con enorme coraggio al “potere totale” che gli attori armati tentavano, e tentano ancora oggi, di conquistare attraverso l’estrema violenza. Si tratta, in quasi tutti i casi, di figure di riferimento all’interno delle proprie comunità, che hanno assunto ruoli di massima importanza nella denuncia dei crimini degli armati, nella rivendicazione del diritto alla terra, nella difesa dei diritti delle comunità locali e nei processi di autoorganizzazione collettiva. Si tratta, quindi, di persone decisamente scomode per chi ha l’obiettivo strategico di stabilire un dominio sul territorio e sulle sue risorse.

Narcocapitale e desplazamiento

Chi c’è dietro le uccisioni di questi leader sociali? Ancora non ci sono risposte a questa domanda, anche perché oltre il 90 per cento dei crimini resta impunito. In parte l’uccisione dei leader sociali può essere imputata ai cartelli nazionali e internazionali del narcotraffico che sono operativi in Colombia. Va però sottolineato che il traffico di droga non è solo l’opera di organizzazioni criminali che agiscono nell’illegalità, ma va inteso come un fenomeno complesso, che si infiltra nelle strutture dello stato e ha un elevato livello di ingerenza sulla sfera economica, sulla politica e sulla cultura del contesto in cui si radica.

In Colombia, per esempio, uno degli ambiti privilegiati di investimento dei “narcocapitali” è stato quello fondiario. La violenza ha costretto intere popolazioni ad abbandonare le proprie terre e a spostarsi verso le città, spesso in condizioni di grave precarietà economica e senza adeguati tutele statali: è il noto fenomeno del desplazamiento, che non è cessato e che ha colpito fino a oggi circa 8 milioni di colombiani. Queste terre, in seguito, vengono occupate, o a volte acquistate a prezzi irrisori, da paramilitari e narcos, di fronte all’impotenza degli abitanti ancestrali, le comunità contadine, indigene e afrocolombiane.

Graffiti nelle strade di Medellin “Siamo tutti migranti” (foto StreetFlash)

Affrontare la questione del narcotraffico, quindi, non può limitarsi – come invece è accaduto – all’uso di misure repressive o al ricorso alla fumigazione con glifosato, una tecnica di sradicamento delle coltivazioni di coca che ha un impatto devastante a livello ambientale e umano. Per risolvere uno dei più gravi e annosi problemi della Colombia, sarebbe invece necessaria un’attenzione globale ai bisogni sociali ed economici delle popolazioni delle zone coinvolte nella coltivazione, nonché l’implementazione di politiche mirate capaci di limitare la dilagante corruzione nelle istituzioni locali e nazionali.

La strategia del terrore non è finita

Nella storia del conflitto colombiano è possibile rilevare una marcata tendenza a ricorrere ai massacri, all’eliminazione fisica dell’oppositore, alla mutilazione e alla violenza sui corpi vivi e morti come strumento per garantire un potere assoluto sulla popolazione e sul territorio. Queste modalità di uso strategico del terrore non sono purtroppo scomparse.

Se a livello ufficiale non ci sono “nomi” per gli autori di questi crimini, nei luoghi in cui vengono commessi, invece, i sospetti e le “voci” non mancano. Sovente non è difficile identificare le persone contro le quali si rivolgevano le rivendicazioni dei leader: sono narcotrafficanti, certo, ma anche latifondisti, capi dell’industria estrattivista mineraria e agraria, proprietari di bestiame, occupanti abusivi di terre espropriate ai contadini nel corso del conflitto, qualche volta politici o figure importanti a livello che traggono benefici dalla corruzione.

A livello statale il carattere sistematico e programmato delle uccisioni viene negato e gli assassinati vengono sempre presentati come “episodi isolati”. Tuttavia vi è un’innegabile responsabilità dello stato nella mancanza di tutela di persone che sono sotto esplicita minaccia, nell’elevata impunità e nella scarsa trasparenza con cui vengono gestite le indagini, nella mancanza di volontà di applicare quanto stabilito negli accordi in materia di riforma agraria, traffico di droga, giustizia e sicurezza. Poiché in passato abbiamo assistito a sistematici processi di sterminio di interi gruppi in virtù delle loro convinzioni ideologiche e dei loro progetti politici (si pensi al genocidio dell’UP), è più che mai necessario alzare il livello di allerta e monitorare con attenzione la situazione dei diritti umani in Colombia per arginare quest’onda di violenza che sta travolgendo chi è impegnato attivamente nella trasformazione sociale del paese ed evitare un nuovo “genocidio politico”.

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