alauiti Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/alauiti/ geopolitica etc Fri, 02 Oct 2020 17:27:06 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Questioni dottrinarie in Medio Oriente https://ogzero.org/questioni-dottrinarie-in-medio-oriente/ Sun, 29 Mar 2020 16:26:48 +0000 http://ogzero.org/?p=56 Ma come avevano reagito gli sceicchi alauiti all’abbraccio sciita degli ayatollah al-Sadr e al-Shirazi? Ed era cambiato qualche cosa nella loro dottrina? Rispondere a questo quesito è assai complicato: un conto era quanto veniva proclamato in pubblico, ben altro era stabilire davvero quale dottrina seguissero gli alauiti in segreto. Forse alcuni degli sceicchi più giovani […]

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Ma come avevano reagito gli sceicchi alauiti all’abbraccio sciita degli ayatollah al-Sadr e al-Shirazi? Ed era cambiato qualche cosa nella loro dottrina? Rispondere a questo quesito è assai complicato: un conto era quanto veniva proclamato in pubblico, ben altro era stabilire davvero quale dottrina seguissero gli alauiti in segreto. Forse alcuni degli sceicchi più giovani e istruiti avevano cominciato a formulare una sorta di riformismo alauita per avvicinarsi maggiormente alla teologia e alla filosofia dello sciismo duodecimano. In realtà in una fede esoterica come quella alauita le dispute dottrinarie tendevano a restare confinate a una cerchia ristretta di iniziati: le bocche erano cucite e le lingue si scioglievano soltanto per ripetere che gli alauiti appartenevano allo sciismo, una sorta di mantra recitato per respingere l’accusa di essere miscredenti.

Le questioni dottrinarie poi erano quasi inseparabili dalle dispute sull’autorità religiosa: e in questo campo non ci furono cambiamenti. Gli sceicchi alauiti siriani non riconobbero nessuna autorità e nessuno di loro seguì mai i fatwa o le indicazioni religiose che venivano da Qom e Najaf.

Questo era un punto cruciale. Fino a quando si fossero rifiutati di riconoscere l’autorità religiosa dei più importanti mullah sciiti, gli alauiti non avrebbero mai potuto ottenere un riconoscimento dei grandi ayatollah della statura di un Abol Qassem Khoi a Najaf oppure di Qassem Shariatmadari a Qom, considerati dei marja e-taqlid, fonti di imitazione, quindi dotati di un prestigio assoluto nel mondo sciita del tempo e che oggi può vantare soltanto Alì al-Sistani, il grande ayatollah iraniano, allievo di Khoi, che risiede dagli anni Settanta in Iraq.

I Naqshbandi

Tutto questo è dimostrato da una vicenda per niente secondaria. L’ayatollah Shariatmadari, protagonista della rivoluzione del 1979 contro lo shah e che aveva attirato l’interesse dei reporter occidentali, oltre che del filosofo francese Michel Foucault, intrattenne una lunga corrispondenza con Ahmed Kuftaro, gran muftì della Siria e strettamente legato al clan degli al-Asad. Fu Kuftaro, di origini curde, capo anche della confraternita Naqshabandi, ad accompagnare Giovanni Paolo II nella sua famosa visita alla grande moschea ommayade di Damasco nel 2001: era la prima volta che un papa entrava in una moschea. 

È curioso che la guida del papa fosse il capo in Siria della Naqshbandyya, una tariqa, una confraternita molto antica, che vantava la sua origine dai discendenti di Maometto e che fu in seguito associata al grande mistico del xiv secolo Muhammad Bahah al-Din al-Naqshbandi, da cui ha preso la denominazione. 

I Naqshbandi, detti anche Naksibendi in Turchia, hanno un ruolo chiave nelle sotterranee solidarietà della politica mediorientale. Durante una delle tante finte elezioni presidenziali irachene negli anni Novanta, Izzat Ibrahim al-Douri, vice di Saddam Hussein ed eminente esponente baathista, si fece accompagnare dalla stampa a Tikrit, città natale di Saddam, dove aveva forgiato i legami con il raìs. 

In quella occasione fu più facile del solito avvicinarlo e al-Douri ci rivelò di essere assai religioso: ogni venerdì andava a pregare in una delle moschee più importanti della capitale. Da un membro del suo seguito scoprimmo che apparteneva all’Ordine dei Naqshbandi, la confraternita estesa dall’Asia centrale alla Turchia alla Mesopotamia. Queste credenziali religiose dovevano averlo reso affidabile anche gli occhi del Califfato e del suo capo Abu Baqr al-Baghdadi che si vantava di essere membro di questa tariqa

Che i baathisti avessero dato una mano importante all’ascesa dello Stato Islamico di al-Baghdadi lo dimostrava anche il messaggio caloroso rivolto ai jihadisti con cui nel 2014 era riaffiorato alle cronache Izzat Ibrahim al-Douri dopo un decennio da imprendibile latitante tra Siria e Iraq. Al-Douri, che sarebbe stato ucciso nel 2015 a Suleymania, non era l’unico politico della regione affiliato all’ordine. 

In Turchia la confraternita dei Naksibendi nel dopoguerra trova il suo rinnovatore nell’imam Mehmet Zahid Kotku. Anche lui era un sufi che trasformò il sonnolento ordine della Naqshbandyya turca in una vera scuola socio-politica: sono stati seguaci di Kotku il presidente Turgut Ozal, il primo ministro islamista Necmettin Erbakan e lo stesso presidente Tayyp Erdogan, capo del partito musulmano Akp.

Quando si pensa ai protagonisti della scena mediorientale nessun legame deve essere trascurato e alcuni di questi possono apparire sorprendenti soltanto perché li ignoriamo. Per questo fui meno sorpreso quando due giorni prima della caduta di Baghdad, nella primavera 2003, feci colazione con il segretario di Saddam. Il dottor Ahmad mi venne a prendere nella hall dello Sheraton dove erano accampati alcuni islamisti che avevano sfilato qualche settimana prima per le vie della capitale con le cinture esplosive. «Ma questi prima non li impiccavate ai pali della luce?» osservai. «È vero – rispose Ahmad – ma adesso ci servono anche loro». Erano membri del gruppo islamista Ansar e facevano riferimento proprio a Izzat Ibrahim al-Douri. Qualche tempo dopo si sarebbero fatti esplodere ai check point degli americani e nelle moschee degli sciiti, i nuovi padroni dell’Iraq.

Proprio nel fatale 1979, l’anno della rivoluzione iraniana, il gran muftì siriano Kuftaro visitò Qom e si diffusero voci che fosse andato proprio dall’ayatollah Shariatmadari per ottenere un riconoscimento ufficiale degli alauiti come membri dello sciismo. Ma Shariatmadari non disse una parola al riguardo né fece alcun gesto in questa direzione: il silenzio assordante di Qom lasciò delusi diversi sceicchi alauiti e lo stesso clan degli al-Asad che avevano riposto la loro massima fiducia nella mediazione di Kuftaro, molto noto per la sua abilità nell’intrecciare il dialogo interreligioso.

La rivoluzione iraniana e gli alauiti

La rivoluzione iraniana e lo sciismo militante arrivarono a Damasco prima ancora che l’imam Khomeini facesse ritorno a Teheran il primo febbraio 1979 dopo la fuga dello shah Reza Palhevi. Nel giugno del 1977 era stato sepolto a Damasco, accanto al famoso mausoleo di Zeynab, Alì Shariati, uno dei simboli della rivoluzione.

La storia me la racconta nella sua casa di Teheran Ibrahim Yazdi, testimone di quel tempo. Alla parete della sala c’è la sua foto, quella di un uomo maturo e vigoroso, con un folta capigliatura corvina che arringa una folla oceanica a Korramshar. Un’immagine in bianco e nero, netta, senza sbavature, come poteva apparire in quel momento l’orizzonte dell’Iran: il passato, lo shah, era stato travolto e la rivoluzione prometteva un mondo nuovo. Yazdi il 1° febbraio 1979 era sbarcato a Teheran con il volo da Parigi insieme all’ayatollah Khomeini: pochi giorni dopo sarebbe diventato ministro degli Esteri del primo governo della Repubblica islamica. 

Fu lui, Yazdi, a presentare il progetto di costituzione a Khomeini. Sul frontespizio c’era scritto: «Costituzione della repubblica dell’Iran», l’imam prese una penna e aggiunse: «Costituzione della repubblica islamica dell’Iran». Dieci mesi più tardi il governo di Mehdi Bazargan, che aveva lasciato fuori dalla porta i mullah, si dimetteva e Yazdi passava, per sempre, all’opposizione: 30 anni dopo con i capelli bianchi, qualche anno di carcere alle spalle, un cancro superato, aveva ancora voglia di raccontare.

«Con la sua interpretazione marxista dell’islam Alì Shariati fu l’ideologo più influente della sua epoca e l’inventore dello “sciismo rosso”. Per lui la storia degli sciiti, con il martirio di Hussein a Kerbala nel 680, ucciso dai califfi sunniti, non era altro che la dialettica della lotta di classe, destinata a culminare nella rivoluzione». Delle idee di Shariati e degli slogan sulla rivolta degli oppressi si impossessarono la leadership religiosa e l’imam Khomeini, che però legittimarono il loro potere con il millenarismo sciita. Khomeini fu abile a trasformare la caduta dello shah, alla quale parteciparono nazionalisti, liberali, comunisti e gruppi di sinistra, nella rivoluzione dei turbanti. 

Islamologia, il volume più famoso di Shariati, in poco tempo divenne una sorta di “libretto rosso” tra le giovani generazioni iraniane. Tale fu il successo di Shariati che nel 1973 il regime dello shah lo arrestò imponendogli una durissima carcerazione. Liberato su forti pressioni internazionali andò in esilio in Europa dove aveva studiato negli anni Sessanta a Parigi, appassionandosi a Frantz Fanon e diventando amico di Sartre. 

A Londra il 18 giugno 1977 ricevette una telefonata dalla moglie in cui lo avvertiva che lei e una delle figlie erano state fermate all’aeroporto. Accompagnato da alcuni amici si recò velocemente a Southampton dove attese con grande ansia il complicato superamento dei controlli doganali da parte della moglie e della figlia. Tornato a casa, Shariati si addormentò per l’ultima volta; il mattino seguente fu ritrovato morto nel letto, c’è chi dice a causa di un arresto cardiaco e chi perché caduto vittima di un agguato notturno della polizia segreta dello shah.

«Fu 24 ore dopo la sua morte – racconta Yazdi – che ci trovammo a Londra con Sadq Gotzbadeh e Abholassam Banisadr per decidere dove seppellirlo: la sua volontà era di essere tumulato vicino al mausoleo di Zeynab a Damasco e mi incaricai dell’operazione». Gotzbadeh diventato ministro dopo la rivoluzione fu giustiziato da un plotone di esecuzione nel 1982 per aver partecipato a un complotto contro Khomeini; Banisadr, primo presidente della repubblica islamica, fu deposto nel 1981 e costretto all’esilio in Francia. L’altro fondatore insieme a Yazdi del Movimento per la libertà iraniana negli anni Sessanta, cui aveva aderito anche Shariati, era Mostafa Chamaran, ex fisico della Nasa: nominato ministro della Difesa fu ucciso nel 1981 sul fronte nella guerra Iran-Iraq. La rivoluzione e la guerra divoravano così i protagonisti della storia insieme a un milione di giovani iraniani che cadevano nelle paludi dello Shatt al-Arab.

La tomba di Shariati è una stanza accanto al mausoleo di Seyeda Zeynab, la figlia di Alì e di Fatima, quindi nipote di Maometto. È meta di lunghi pellegrinaggi da parte degli sciiti iraniani che con i pasdaran montano la guardia al complesso monumentale situato nel governatorato di Damasco. Shariati è sepolto in una stanza dove ci sono le sue foto, mazzi di fiori e una piccola biblioteca che espone alcuni dei suoi libri, compresi Islamologia e Fatima è Fatima, un libro dedicato da Shariati alla figlia del Profeta e al ruolo delle donne rivoluzionarie. Anche gli alauiti vanno a trovare Zeynab, in quanto figlia di Alì, e il mausoleo è una meta delle visite non solo degli sciiti ma anche delle correnti sufi devote al culto della nipote di Maometto.

La scelta di seppellire Shariati a Damasco non fu casuale. Dopo il 1973 e la legittimazione elargita dall’imam Musa al-Sadr, le autorità siriane avevano cominciato a dare rifugio ai fuoriusciti iraniani, soprattutto religiosi, che formavano l’opposizione allo shah Reza Palhevi ed erano perseguitati dalla Savak, la polizia segreta.

E non fu casuale che a officiare le esequie di Alì Shariati fosse proprio Musa al-Sadr, che aveva incoraggiato i rapporti tra il regime di al-Asad e gli ayatollah antishah. Da parte loro i siriani non potevano certo immaginare che il variopinto corteo dei dissidenti iraniani, dai mullah con il turbante ai giovani esponenti delle correnti marxiste, potesse un giorno rovesciare il regime di Teheran fortemente sostenuto dagli Stati Uniti che ne avevano fatto una sorta di guardiano del Golfo. Lo stesso presidente democratico Jimmy Carter, un anno prima dello scoppio della Rivoluzione, era andato a Teheran dallo shah per brindare con le mogli al Capodanno 1978: le due coppie furono fotografate che alzavano calici di champagne e sorridevano agli obiettivi.

Agli alauiti di Damasco importava soprattutto tenere buoni rapporti con gli ayatollah sciiti. Non avevano potuto ottenere l’appoggio del celebre Shariatmadari ma forse speravano in quello dell’imam Khomeini che allora si trovava ancora a Najaf. Dopo tutto Khomeini era un rivoluzionario che subordinava la tradizione religiosa all’obiettivo primario di abbattere lo shah e anche lui, come del resto Musa al-Sadr, aveva bisogno di amici influenti. Non è chiaro fino a che punto gli alauiti siriani al potere si spinsero a chiedere il sostegno religioso di Khomeini per la loro legittimazione ma è certo che corteggiavano i religiosi sciiti in esilio: quando Khomeini fu costretto a lasciare Najaf e gli fu rifiutato l’ingresso in Kuwait prese in considerazione di stabilirsi a Damasco prima di scegliere la Francia.

1979: paradossale alleanza strategica siro-iraniana

I rapporti tra siriani e iraniani diventarono strategici dopo la rivoluzione del 1979. La Siria tollerava la presenza dei pasdaran iraniani nella valle della Bekaa dove stava nascendo il movimento degli Hezbollah in un Libano sotto lo stretto controllo di Hafez al-Asad. In cambio l’Iran stese il silenzio sulla repressione da parte del regime siriano dei Fratelli musulmani che erano scesi in rivolta a Hama. E quando Saddam Hussein attaccò l’Iran il 22 settembre del 1980 i siriani si schierarono con Teheran. 

Era un paradosso: da una parte l’Iran combatteva contro l’Iraq baathista di Saddam, presentando il regime sunnita di Baghdad come l’emblema dell’empietà, dall’altra gli ayatollah iraniani erano in stretti rapporti con un altro regime baathista, quello di Damasco, in mano agli alauiti ritenuti dai sunniti degli incorreggibili miscredenti.

La posta in gioco tra i laici di Damasco e i religiosi di Teheran era altissima: senza la cooperazione della Siria l’Iran non poteva estendere la sua influenza fino alle coste del Mediterraneo e i siriani senza la collaborazione della Repubblica islamica non potevano tenere sotto controllo il Sud sciita del Libano, una pistola puntata contro Israele che aveva occupato le alture siriane del Golan nel 1967 proprio quando Hafez al-Asad era comandante dell’aviazione.

I due regimi, quello di Damasco e quello di Teheran, avevano credenze religiose diverse ma condividevano lo stesso destino geopolitico: è stato così fino ai nostri giorni con l’asse sciita tra Teheran-Baghdad-Damasco e gli Hezbollah libanesi.

L’Iran ha quindi fornito al regime di al-Asad una legittimazione religiosa derivante dai suoi interessi strategici ma lo ha fatto sempre in maniera indiretta e sottile. Quando i religiosi iraniani della Repubblica islamica, anche quelli che in passato sono stati direttamente legati all’imam Khomeini, visitano Damasco parlano sempre il linguaggio della politica. Non si soffermano mai a discutere di dottrina o a fare riferimenti di carattere religioso, non accennano minimamente ai rituali degli alauiti. Parlano di solidarietà politica tra Damasco e Teheran e si appellano genericamente all’ecumenismo tra musulmani, alla necessità di essere uniti contro la minaccia dell’imperialismo, del colonialismo e del sionismo. Sottolineano sempre i grandi sacrifici compiuti dai siriani su questi fronti ma si guardano bene dal toccare argomenti religiosi per non aprire capitoli scottanti tra loro e gli alauiti che si autoproclamano seguaci dello sciismo. Tanto più dopo che nel 2015 la Russia, potenza cristiano-ortodossa, è scesa direttamente in campo con le sue forze armate per sostenere Bashar al-Asad.

Non c’è dubbio però che la rivoluzione iraniana abbia fatto sentire i suoi effetti anche sull’esigenza di riforme all’interno della comunità alauita. Nel 1989 Hafez al-Asad incontrò più volte gli sceicchi alauiti a Qardaha chiedendo una modernizzazione della dottrina e di rafforzare i legami culturali con i maggiori centri dello sciismo duodecimano. Alcune centinaia di studenti alauiti vennero spediti a Qom ma non è chiaro fino a che punto poi ci sia stata una reale riforma interna e se gli sceicchi siriani abbiano davvero sacrificato la loro verità eterna alle esigenze effimere del potere. Il velo del silenzio e il mantello del segreto proteggono ancora il mistero alauita.

Frags tratti da Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente, di Alberto Negri, con una prefazione di Lucio Caracciolo, Torino, Rosenberg & Sellier, 2017

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Lo sciismo nella terra dei due fiumi https://ogzero.org/lo-sciismo-nella-terra-dei-due-fiumi/ Sun, 29 Mar 2020 15:45:15 +0000 http://ogzero.org/?p=51 Questo era il mondo nella Qom dell’imam Musa al-Sadr, che se non fosse scomparso in Libia nel 1978 forse avrebbe cambiato la traiettoria dello sciismo. Figlio dell’imam Sadr al-Din, dopo essersi formato nello studio delle scienze religiose, si laureò in sharia e scienze politiche presso l’Università di Teheran nel 1956 prima di insediarsi a Tiro […]

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Questo era il mondo nella Qom dell’imam Musa al-Sadr, che se non fosse scomparso in Libia nel 1978 forse avrebbe cambiato la traiettoria dello sciismo. Figlio dell’imam Sadr al-Din, dopo essersi formato nello studio delle scienze religiose, si laureò in sharia e scienze politiche presso l’Università di Teheran nel 1956 prima di insediarsi a Tiro del Libano nel 1960. Fu il fondatore del movimento Amal, particolarmente attivo e seguito nel Sud del Libano a forte maggioranza sciita. 

Alto, affascinante, con occhi verdi mobili ed espressivi, Musa al-Sadr parlava molte lingue ed era un oratore brillante, ascoltato anche dalle altre comunità libanesi. Possedeva anche grandi capacità organizzative e abilità nel raccogliere fondi che servirono a cause sociali, umanitarie e alla fondazione delle milizie di Amal, nei cui campi di addestramento passarono attivisti iracheni, iraniani e un corpo di pasdaran, le Guardie della rivoluzione khomeinista.

Musa al-Sadr fu il primo imam musulmano a pregare in una chiesa alla cerimonia di Pasqua, a entrare nel salotto buono della Beirut cristiana citando in un famoso discorso Sartre, Jaspers e Marx, a scrivere un saggio su “Le Monde”. 

Gli al-Sadr in Siria

Al-Asad e gli alauiti lo interessavano. Fu lui, capo allora dell’Alto consiglio sciita del Libano, a emettere nel 1973 un fatwa (un responso sulla legge religiosa) in cui si sanciva che gli alauiti erano membri a pieno titolo della grande comunità islamica degli sciiti come seguaci di Alì, il primo dei Dodici imam. Da allora lo sciismo diventò uno dei pilastri del regime, con la conseguente diffusione di rituali e pellegrinaggi che hanno poi legato sempre di più Damasco alla repubblica islamica iraniana, con la quale un tempo condivideva anche un nemico comune, il presidente iracheno Saddam Hussein.

Questo è il motivo originario per cui gli al-Asad, passato lo scettro dopo la morte di Hafez al figlio Bashar nel 2000, sono ancora oggi alleati di ferro di Teheran: i religiosi sciiti legittimarono il loro potere politico a Damasco di fronte ai sunniti. Ma questa fu anche la fine dell’alauitismo originario. Gli alauiti non andavano in moschea, non praticavano il ramadan e osservavano rituali completamente diversi, inoltre credevano nella metempsicosi, la trasmigrazione della anime. Con l’affiliazione allo sciismo gli al-Asad cominciarono a comportarsi come “veri” musulmani e trascinarono con loro gran parte della minoranza alauita. Il loro modello religioso era quello sciita.

L’imam Seyed Musa al-Sadr aveva avuto un ruolo fondamentale nella trasformazione della setta degli alauiti. Gli al-Sadr sono una delle dinastie più prestigiose dello sciismo e la famiglia di Musa al-Sadr attraverso le parentele con gli Sharefeddine e i Noureddine faceva risalire le sue origini al settimo dei Dodici imam Musa al-Kazim a sua volta discendente di Alì e Fatima, la figlia di Maometto. E come tutti i discendenti di Maometto i religiosi al-Sadr, ramificati con i loro alberi genealogici collaterali dall’Iran, all’Iraq, al Libano, al Golfo, indossano come segno distintivo il turbante nero e vantano l’appellativo di seyyed

Hasab e Nasab, la genealogia e la stima acquisita sono più importanti in questo mondo del luogo di nascita e la fama di un grande ayatollah e della sua famiglia trascendono ampiamente le frontiere del Medio Oriente. 

Gli al-Sadr in Iraq

Quella degli al-Sadr è una storia con un prestigio quasi senza eguali nello sciismo, non solo sotto il profilo religioso e dottrinario ma anche per l’influenza politica. Era cugino di Musa al-Sadr, per esempio, Mohammed Baqr al-Sadr, grande giurista e politologo, definito una sorta di Khomeini dell’Iraq, che insieme alla sorella fu giustiziato da Saddam nel 1980. E Mohammed Baqr era lo zio di Muqtada al-Sadr, uno dei capi degli sciiti iracheni dopo l’invasione americana del 2003, il cui padre Sadiq al-Sadr venne anche lui giustiziato dal regime sunnita iracheno nel 1999.

Cosa significasse essere un al-Sadr lo toccai con mano in Iraq dove quella famiglia rappresentava la resistenza al potere sunnita monopolizzato dal clan di Tikrit di Saddam Hussein. La sua storia coincideva con quella degli sciiti iracheni. Fu in base agli interessi della Corona britannica che Gertrude Bell, grande scrittrice e agente dei servizi di sua Maestà, disegnò l’Iraq e lo affidò a una minoranza sunnita per contrastare i religiosi sciiti che durante e dopo la Prima guerra mondiale avevano condotto la rivolta contro gli inglesi, inchiodandoli in furibonde battaglie con 90 000 morti. Sul trono salì l’hashemita Feisal, figlio dello sceicco spodestato della Mecca, al quale seguì il nipote Feisal II, rovesciato e ucciso da un colpo di stato del generale Kassem nel 1958. Ma il monopolio sunnita del potere proseguì con il golpe del 1963 dei fratelli Arif e quello baathista del 1968 che proiettò ai vertici il clan di Tikrit con Saddam, che quando si presentò l’occasione ordinò di impiccare o assassinare tutti gli ayatollah più importanti, deportò migliaia di sciiti nel 1979-1980 e con la repressione della rivolta della primavera 1991, seguita alla guerra del Golfo, ne massacrò nel Sud almeno 100 000. 

«È necessario andare oltre a queste vicende sanguinose, trovare il modo di superare le divisioni, stringerci la mano e agire per il bene dell’Iraq», ripeteva dal suo esilio di Londra Abdul Majdi al-Khoi, figlio del grande ayatollah Seyed al-Khoi, il cui fratello Taqi era stato assassinato nel 1994 dai sicari di Saddam. I suoi appelli alla pacificazione, che suonano ancora oggi d’attualità dopo la barbarie del Califfato, però non ebbero fortuna: quando tornò in Iraq fu accoltellato nella moschea di Alì a Najaf il 10 aprile 2003 mentre Saddam Hussein era in fuga, braccato dagli americani. Questi ultimi accusarono della sua morte proprio Muqtada al-Sadr ed emisero contro di lui un mandato di cattura, poi annullato per sedare una delle frequenti rivolte delle sue milizie denominate l’Esercito del Mahdi.

Con la fine del regime baathista nel 2003 gli Stati Uniti avevano di fatto consegnato il governo alla maggioranza sciita alleata dell’Iran: una rivincita storica e un risultato che Teheran aveva ottenuto senza muovere un pasdaran, come del resto era accaduto nel 2001 con la caduta dei talebani, arcinemici della repubblica islamica sciita. E non è certo un caso che quando il raìs venne impiccato, prima che il suo corpo fosse inghiottito dalla botola, gridasse tutte le sue maledizioni contro l’Iran mentre i suoi giustizieri inneggiavano a Muqtada al-Sadr e alla famiglia diventata il simbolo della resistenza al potere sunnita. 

Di quella scena fosca abbiamo soltanto le immagini labili e sfocate girate con i cellulari: riguardandole dopo qualche anno appare più chiara la parabola di al-Qaida nella Terra dei due fiumi guidata all’epoca da Abu Musab Zarqawi, ucciso dagli americani nel 2006, e diventa anche più distinta la traiettoria dell’allievo di Zarqawi, Abu Baqr al-Baghadi, il fondatore del Califfato il 29 giugno 2014 a Mosul, che per sollevare i sunniti in Iraq e in Siria si alleò con gli ex ufficiali di Saddam.

Il ritratto di Muqtada allora era ovunque, accompagnato da quello del leader libanese degli Hezbollah, Hassan Nasrallah. Le altre foto di Sadr City, uno dei più grandi quartieri di Baghdad disegnato negli anni Cinquanta sul modello urbanistico di Manhattan, ricordavano a tutti la genealogia di Muqtada: c’erano oltre al ritratto dello zio, Mohammed Baqr, anche quello del padre, Sadiq al-Sadr, ucciso dal raìs nel 1999 insieme ai due fratelli di Muqtada.

I due “martiri al-Sadr”, Musa e Sadiq, gli avevano trasmesso un’eredità molto significativa, spirituale e materiale. Il prestigio politico e quello religioso, nonostante Muqtada nei suoi studi teologici si fosse fermato prima della laurea islamica. Ma soprattutto aveva ereditato come fosse una proprietà di famiglia inalienabile una rete di decine di migliaia di seguaci a Baghdad ed estesa a tutto il Sud dell’Iran. 

Per questo quando gli americani tentarono per due volte di metterlo alle strette nel 2004 esplosero rivolte ovunque, da Baghdad a Najaf, a Nassiriya e nel 2008 anche a Bassora. 

Custode di questa rete, che comprende le consistenti elemosine dei credenti e le entrate dai pellegrinaggi, era stato per anni l’ayatollah Kazem Hussein Haeri di Qom, considerato il successore di Mohammed Baqer al-Sadr, lo zio di Muqtada. Haeri, insieme alla leadership di Teheran, aveva convinto Muqtada a trasformare il suo movimento sul modello degli Hezbollah libanesi: partito politico e milizia, organizzato con una forte presenza sociale sul territorio.

Muqtada al-Sadr

Nel dicembre 2006, in occasione di un’intervista con Muqtada, entrai ancora una volta nel tempio di Alì a Najaf sormontato dalla famosa cupola d’oro. 

Prima della caduta del raìs iracheno, all’ingresso dell’ufficio del custode era incollata una grande targa nera con caratteri in oro che riportava l’albero genealogico di Saddam: il leader baathista, sunnita e secolarista aveva trovato il modo di far risalire la sua famiglia a quella del genero e cugino di Maometto. Si trattava, ovviamente, di un falso ed era stata rimossa. Una stanza era stata invece riservata alla tomba del grande ayatollah Khoei, ritenuto una specie di santo e guaritore: accanto erano stati sepolti i suoi due figli brutalmente assassinati.

Il giornalista iracheno che mi accompagnava, Sadiq Sattar al-Husayni, mi fece notare che due delle quattro porte del tempio erano controllate da uomini di Muqtada e da lì era vietato l’ingresso a chiunque: «Il grande ayatollah Alì al-Sistani, il più importante religioso iracheno, ne ha una sola. Un’altra è per i membri anziani dell’hawza, il consiglio del clero. Non c’era dubbio alcuno che qui comanda Muqtada, un mullah di 32 anni che pure non ha nessuna qualifica di alto grado nella gerarchia religiosa». Senza l’aiuto di Sattar, che aveva studiato a Najaf e sapeva come superare le insidie del viaggio da Baghdad, andare da Muqtada sarebbe stato rischioso e anche inutile. 

Febbraio 2014

Il giovane mullah, con il turbante nero, una barba mal coltivata e una tunica larga che non riusciva a nascondere una sagoma intorno al quintale, aveva un’aria svogliata. Erede di una famiglia di ayatollah – il padre, lo zio e due fratelli furono uccisi da Saddam Hussein – Muqtada, sposato con una cugina, senza figli, era trincerato a Najaf, da dove minacciava un jihad (sforzo contro gli infedeli per la causa islamica) contro gli americani se non se ne fossero andati presto dal paese. 

«Ho fatto testamento e comprato la stola di cotone bianco che adorna i defunti – confidò nervosamente – perché americani, saddamisti e terroristi mi vogliono morto». Respirò pesantemente prendendo fiato e fece una lunga tirata: «Odio l’America perché ha importato il terrorismo in Iraq: continuerà a scorrere un fiume di sangue finché ci saranno soldati stranieri. Noi siamo pronti a parlare con i sunniti moderati. Ma ci stiamo anche preparando a una grande battaglia contro i terroristi sunniti e al-Qaida. Loro hanno voluto la guerra distruggendo la moschea di Samarra, dopo che Bin Laden aveva approvato un fatwa per ammazzare gli sciiti. Quella è stata la svolta. Il capo degli ulema sunniti, Haret al-Dhari appoggia al-Qaida e ha impedito la ricostruzione della moschea facendo uccidere tecnici e operai che avevo mandato con i soldi raccolti tra i fedeli di Najaf e Kerbala. È amico dei sauditi, sempre pronti a finanziare i terroristi sunniti. Sono stato per un giro diplomatico nei Paesi arabi: ho constatato che, tranne qualche eccezione, sono tutti nostri nemici».

Muqtada contava nel 2006 su migliaia di uomini armati, questa era la sua massa di manovra più temibile, ma aveva anche ottenuto la quota maggiore dei seggi nel blocco sciita vincitore delle elezioni del 2005. Tra rivolte e battaglie, l’ultima quella di Bassora nel 2008, Muqtada al-Sadr non è però riuscito nell’obiettivo di conquistare la leadership sciita e del paese, ed è stato convinto dall’Iran a rinfoderare le armi e a usarle soltanto per costituire le milizie anti-Califfato. Ma le roccaforti del suo potere restano ancora oggi, nel 2016, intatte.

Secondo Sattar, che conosceva bene le trame dei mullah iracheni per averli a lungo frequentati, «Muqtada voleva diventare il leader dell’Iraq mettendo in secondo piano anche l’autorità dell’Hawza, l’alto consiglio religioso di Najaf composto da quattro Grandi Ayatollah, l’iracheno Said al-Hakim, l’iraniano Alì al-Sistani, il più prestigioso, Mohamed Seyed Fayad, afghano, e Bashir al-Najafi, di origini indiane. Come vedi – sottolineava Sattar – il consiglio di Najaf è una sorta di “multinazionale” sciita: per questo Muqtada insiste sul nazionalismo iracheno come carattere distintivo del suo movimento». Un obiettivo molto ambizioso, avversato, oltre che dagli americani, dai sunniti e dagli stessi sciiti come la famiglia Hakim, eterni rivali degli al-Sadr. 

La posta in gioco è sempre il potere, il prestigio religioso e politico con la strumentalizzazione della fede settaria, il controllo delle finanze del clero e, soprattutto, del petrolio del Sud, il carburante indispensabile con i petrodollari dei grandi progetti politici di questa parte del Medio Oriente. 

Ma la «mezzaluna sciita» avrebbe potuto scrivere una storia diversa da quella già conosciuta in questa regione, non in Iraq, forse, ma in Libano, dove un giorno arrivò Musa al-Sadr. 

Come svanisce un ayatollah

Ci sono molti modi di essere un al-Sadr. Nell’estate del 2006, mentre infuriava la battaglia tra gli Hezbollah libanesi e Israele, vado a Tiro. L’ufficio di Fatima alla Fondazione dell’imam Musa al-Sadr è un accampamento. Fatima sta raccogliendo gli aiuti, fa una lista delle persone scomparse e ospita come può i bimbi senza genitori e con le famiglie divise. Non ha tempo per rispondere a domande ma invoca un sostegno, un aiuto di qualunque tipo. L’emergenza in Medio Oriente non finisce mai: ai profughi di allora in Libano si sono aggiunti quelli dalla Siria, un milione su una popolazione di 4,2 milioni di persone. 

La foto dell’imam, scomparso in Libia a 50 anni, si trova ovunque a Tiro: fu qui che il religioso iraniano cominciò la sua attività pubblica. Il partito da lui fondato, Amal, “la speranza”, qui vince ancora regolarmente le elezioni municipali battendo gli Hezbollah di Nasrallah. Colto, elegante, ammantato del fascino dei Seyed, i discendenti del sangue di Maometto, Musa al-Sadr arrivò nel Jabal Amil, il Sud del Libano dove la sua famiglia aveva vissuto fino al xviii secolo, alla fine degli anni Cinquanta: con lui iniziò il risveglio degli sciiti, il loro riscatto morale, economico.

La sorella dell’imam Musa al-Sadr, Robabeh, oggi dirige la Fondazione, istituita nel 1960, che sostiene con borse di studio 1200 studenti, assiste migliaia di orfani e ogni anno cura oltre 50 000 persone. È aiutata dal figlio, Rida Charafeddine, laureato all’Università americana e manager della Byblos Bank, esponente di una generazione di sciiti moderna, emancipata. E non in contraddizione con gli insegnamenti di Musa al-Sadr. Il turbante nero di al-Sadr, frenetico viaggiatore, non esitava a corteggiare politici arabi, intellettuali cristiani e sunniti, uomini d’affari e banchieri, per sostenere la causa sciita.

«Prima della partenza per il suo ultimo viaggio a Tripoli lo aiutai a preparare una valigia piena di libri, c’erano anche cassette di musica persiana», ricorda la sorella Robabeh al-Sadr Charafeddine. E anche una lettera, mai spedita, a Khomeini. 

Due giorni prima della partenza da Beirut per la Libia Musa al-Sadr aveva inviato un articolo a “Le Monde” sulla lotta in Iran tra lo shah e l’opposizione religiosa degli ayatollah. L’Iran era la sua patria e naturalmente si sentiva coinvolto in prima persona, come persiano ed esponente religioso di primo piano. «In Iran – scrisse anticipando i tempi – è in corso un’autentica rivoluzione che non è di destra o di sinistra ma di un intero popolo nella sua diversità, vi partecipano studenti, lavoratori, intellettuali e uomini di religione. Il leader della rivoluzione,– aggiunse – il grande imam Khomeini, esprime le dimensioni nazionali, culturali e libertarie di questa rivoluzione». Fu un giudizio influente che pesò successivamente anche in Occidente sulla prospettiva con cui vennero valutati gli eventi che travolsero dopo qualche mese l’Iran e portarono alla fuga dello shah: Khomeini tornò trionfalmente in Iran il primo febbraio 1979.

Ma forse l’imam Musa pagò soprattutto un’intervista che diede a Tripoli due giorni prima di scomparire: è l’ipotesi, piuttosto fondata, che avanzava qualche anno fa Fouad Ajami, celebre studioso della politica araba e profondo conoscitore delle vicende di al-Sadr. Musa al-Sadr sosteneva sul giornale kuwaitiano “Al Nahda” che era venuto il momento di trattare con Israele: per dare la caccia ai palestinesi dell’Olp lo stato ebraico aveva appena invaso il Libano del Sud uccidendo un migliaio di sciiti e provocando l’esodo di altri 250 000. «Gli sciiti – dichiarò Musa al-Sadr – avevano perso le loro case, la loro terra e molte vite: forse avrebbero potuto evitarlo se avessero accettato di collaborare con Israele». Parole dette allora che probabilmente ancora oggi possono suonare come una condanna a morte per un leader musulmano agli occhi dei radicali: allora dominava il “fronte del rifiuto” di ogni negoziato con gli israeliani e il Colonnello libico Gheddafi insieme alla Siria degli al-Asad ne faceva parte. 

La sorella Robabeh mi raccontò la sua versione della storia, assai interessante: «Israele aveva invaso il Libano meridionale e rifiutava di ritirarsi secondo la risoluzione 425 dell’Onu. Mio fratello riteneva fosse suo dovere informare i leader arabi della situazione di crisi politica e umanitaria. Si recò quindi in Siria, Giordania, Arabia Saudita, Algeria, per chiedere una conferenza araba sul Sud del Libano. Al termine di un colloquio durato quattro ore con Houari Boumèdiène, il presidente algerino gli consigliò di fare rotta sulla Libia da Gheddafi: «Il mio fratello libico – disse Boumèdiène – ha informazioni sbagliate sulla situazione libanese». Fu così che cominciò la trattativa per il suo viaggio a Tripoli: si accordarono per il 25 agosto ma Musa al-Sadr avvertì i libici che sarebbe dovuto partire comunque il 1° settembre per una visita alla moglie che doveva essere operata in un ospedale di Parigi. Scomparve cinque giorni dopo la partenza ma in tutto il periodo che restò a Tripoli non abbiamo mai ricevuto da lui nessuna telefonata o notizia, neppure dai suoi compagni di viaggio. Un comportamento davvero insolito per l’imam ma anche per Badreddin, il giornalista che lo accompagnava. Io credo che Gheddafi fosse ostile alle posizioni politiche di Musa al-Sadr e soprattutto al suo piano di avviare trattative con Israele».

La sparizione di Musa al-Sadr

La scomparsa di al-Sadr è una vicenda controversa che riaffiora continuamente. L’imam arrivò nella capitale libica il 25 agosto del 1978 insieme a due compagni di viaggio, un religioso, lo shaykh Muhammad Yakoub, e un giornalista Abbas Badreddin, direttore dell’agenzia di notizie libanese: fu visto per l’ultima volta il 31 agosto in un hotel di Tripoli, Al Shati, da cui uscì verso mezzogiorno. Incontrando una delegazione di libanesi nella lobby affermò che stava andando a un appuntamento con Gheddafi. Secondo i libici invece aveva lasciato la capitale proprio quel giorno con un volo Alitalia diretto a Roma. Ma in Italia arrivò soltanto la sua valigia depositata all’Holiday Inn da due agenti di Gheddafi che misero sul letto della sua camera anche il mantello scuro dell’imam. 

Dopo la caduta di Gheddafi nel 2011, venne fuori che negli anni Ottanta i servizi segreti italiani, per mantenere buoni rapporti con il raìs libico, avevano avallato la versione del regime secondo il quale Musa al-Sadr nell’estate del 1978 si era volatilizzato durante una tappa a Roma. Ma nessuna testimonianza, né del personale dell’Alitalia né di quello dell’Holiday Inn confermava questa versione dei fatti. 

Nell’autunno del 2015 si cercavano ancora le sue tracce. Uno dei figli di Gheddafi, Hannibal, si era rifugiato a Damasco ma in un viaggio a Beirut venne arrestato dagli Hezbollah che lo interrogarono con metodi brutali sulla fine di Musa al-Sadr per poi consegnarlo controvoglia alla magistratura libanese in un momento politico delicato in cui si doveva decidere il candidato cristiano alla carica di presidente. Hannibal accusò Jallud, il numero due del regime libico, di aver fatto scomparire l’imam al-Sadr. La storia e il mito dell’imam scomparso in tutti questi decenni non si sono mai offuscati e gli sciiti non smettono di cercare la verità.

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