al-Qaeda Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/al-qaeda/ geopolitica etc Sat, 12 Nov 2022 08:48:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi https://ogzero.org/guerre-di-religione-continuazione-del-colonialismo-con-altri-mezzi/ Sat, 12 Nov 2022 08:48:30 +0000 https://ogzero.org/?p=9436 Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che […]

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Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che si fonde e intreccia con le altre che muovono masse di disperati, distruggono il clima, depredano territori, spacciano armi, innescano conflitti per controllare risorse. Si può interpretare questo uso della divisione religiosa come un nodo delle diverse emergenze del Finanzkapitalismus nella sua fase iperliberista, un nodo a cui arrivare dagli altri orrori geopolitici, o da cui partire per inserirlo nella rete che mette insieme l’uso politico-aggressivo della religione, il pastone mediatico, la scorciatoia militarista, l’espansionismo imperialista… ma partiamo dallo storico conflitto irlandese tra cattolici separatisti e unionisti protestanti e poi ci espandiamo nelle più complesse – ma riconducibili agli stessi modelli di potere – contrapposizioni mediorientali.


Solo un’ipotesi, la mia. Da “proletario autoalfabetizzato” senza pretese accademiche. A naso diciamo.
Se in passato le “guerre di religione” potevano, forse, esprimere (“fotografare”) in qualche modo i conflitti etnici e/o sociali del tempo (vedi alcune “eresie” e certe “riforme” diretta conseguenza dei conflitti di classe), direi che in seguito, perlomeno dal secolo scorso, il più delle volte sono state la copertura, la “vetrina” di interessate strumentalizzazioni.

Partiamo dall’Irlanda…

A titolo di esempio, il conflitto irlandese, soprattutto dopo la divisione dell’Isola di smeraldo. Se già nel Settecento cattolici e protestanti (discendenti i primi dagli indigeni irlandesi colonizzati, gli altri dai coloni scozzesi presbiteriani) avevano fatto fronte comune per l’indipendenza dell’Irlanda, anche in seguito (vedi gli scioperi di lavoratori salariati cattolici e protestanti a Belfast) non mancarono lotte comuni. A porvi fine intervennero le ricche borghesie filobritanniche (si veda La Casa d’Orange) elargendo piccoli privilegi e organizzando milizie settarie “lealiste” (v. Uvf). Non potendo utilizzare – che so – un diverso colore della pelle o diversità etniche rilevanti (in quanto entrambe le comunità erano di origine celtica, diversamente dagli inglesi anglosassoni – di origine germanica – e anglicani) si accontentarono di ampliare il modesto solco di natura religiosa.


Poi è andata come sappiamo. Esperimento sostanzialmente riuscito, un modello per future strumentalizzazioni a “geometria variabile”.

… e giungiamo tra le comunità beluci, curde e hazara

Quindi ritengo che anche le sanguinose faide mediorientali tra sunniti e sciiti (con ricadute particolarmente gravi per le minoranze qui presenti: yazidi, alaviti, assiro-cristiani, zoroastriani…) siano state perlomeno “pompate”, gonfiate, esasperate ad arte.
Quanto è avvenuto nelle aree curde, occupate militarmente dalla Turchia, di Afrin e di Sere Kaniyê (Nord della Siria) appare emblematico. Non essendo in grado di controllare adeguatamente le proprie milizie mercenarie (vedi l’Esercito Nazionale Siriano, Sna), Ankara si starebbe affidando direttamente al gruppo terrorista Hayat Tahrir al-Sham (Hts, successore di al-Nusra), con tutta probabilità l’emanazione locale di al-Qaeda.

Il ruolo della Turchia

Anche perché tra le fila di alcune formazioni sul libro paga di Ankara ultimamente serpeggiava, oltre al malcontento, anche una certa preoccupazione.

Le voci su un possibile riavvicinamento tra Ankara e Damasco (patrocinato da Mosca) lasciava intravedere la possibilità di venir scaricati, se non addirittura consegnati, per diversi membri delle milizie mercenarie. In quanto ricercati da Damasco potrebbero venire estradati e questo suggerisce una possibile spiegazione su alcuni episodi di insubordinazione. Come per gli scontri a mano armata intercorsi tra membri di Jabhat al-Shamiya e di Jaish al-Islam.
Tali dispute ricorrenti (oltre al rischio concreto di insubordinazione e defezione) tra le diverse fazioni di Sna (forse non adeguatamente attrezzate, oltre che sul piano politico, anche in quello religioso?) avrebbero suggerito a Erdoğan di far leva sul maggiore entusiasmo, fervore religioso (eufemismo per fanatismo) di Hts. Un fanatismo indispensabile per annichilire le minoranze “eretiche” e non omologate (tutti apostati, dissidenti, “pagani”… addirittura comunisti o anarchici talvolta) del nord della Siria. Nella prospettiva di ulteriori invasioni.
Già all’epoca delle prime manifestazioni contro il regime siriano si assisteva a una proliferazione di gruppi armati, in genere appoggiati, oltre che dalla Turchia, da alcuni stati del Golfo come il Qatar.

Negli Usa è ancora in corso il processo contro “Qatar Charity” e contro Qatar Bank per aver finanziato con 800.000 dollari il leader dell’Esercito Islamico Fadhel al-Salim.

Pulizie etnico-religiose nella Mezzaluna sciita

Per inciso, è probabile che questo stia oggi avvenendo in Iran, nel tentativo di strumentalizzare, “dirottare” altrove, le legittime proteste popolari. Con un occhio di riguardo per i beluci, già manovrati in passato anche da qualche potenza imperialista di Oltreoceano. Come da manuale, ça va sans dire, anche i beluci ci mettono “del loro”: per esempio in Pakistan alcuni gruppi indipendentisti beluci sono ritenuti responsabili di vere e proprie stragi ai danni degli hazara, un’altra minoranza, ma di fede sciita.
Va anche detto che da parte sua la Repubblica islamica sembra far di tutto per fornire pretesti in tal senso. In una recente manifestazione (4 novembre 2022) a Khach, provincia di Zahedan, le forze di sicurezza hanno ucciso una ventina di civili beluci (16 le vittime identificate, tra cui alcuni bambini) ferendone oltre sessanta. Da segnalare – stando a quanto dichiarato da alcuni attivisti – che altri feriti erano poi deceduti non essendo stati traspostati all’ospedale dove rischiavano seriamente di essere arrestati.


Un’altra strage di 90 civili beluci era già avvenuta, sempre nella provincia di Zahedana, il 30 settembre.

Appare evidente che – analogamente a quella curda – anche la popolazione minorizzata dei beluci (“minorizzata” e non minoritaria, in quanto divisa da frontiere statali) in Sistan e Baluchistan subisce quotidiane discriminazioni ed è sottoposta a una dura repressione (come del resto altre comunità delle aree periferiche del paese) da parte di Teheran.
Sia per la loro appartenenza etnica, sia per ragioni religiose in quanto sunniti.
Il comandante di al-Nusra, Al-Hana (Abu Mansour al-Maghrebi) arrestato nel 2020 in Iraq aveva rivelato che lo sceicco Khalid Sueliman (della potente famiglia al-Thani), a capo del Jabhat al-Nusra (e pare anche delle organizzazioni derivate), veniva finanziato con qualcosa come un milione di dollari al mese. Turchia e Qatar sosterrebbero, sia finanziariamente, sia con la fornitura di armamenti, i vari gruppi combattenti emanazione dei Fratelli musulmani salafiti in quanto utile strumento per la loro politica estera. Anche in chiave panislamica.

Guerra turca ai curdi in Siria

Alcune organizzazioni hanno stabilito un’analogia, per vastità e inasprimento, tra l’attuale repressione in Iran e i massacri subiti dai beluci a Deraa (in Siria) nel 2011, denunciati dall’Onu come crimini di guerra.
Storicamente accertato che potenze regionali ostili a Damasco avevano favorito la militarizzazione (vedi appunto la formazione di Sna) e l’escalation del conflitto.
Oltre che a Sna, la Turchia non avrebbe lesinato nel fornire sostegno al fronte al-Nusra (dal 2012 nella lista del terrorismo internazionale in quanto ritenuto emanazione di al-Qaeda) e addirittura a Daesh. Formazioni entrambe notoriamente jihadiste.

Quanto al fronte al-Nusra, va ricordato che nell’ottobre 2012 attaccava i distretti autonomi di Şêxmeqsûd e Eşrefiye (regione di Aleppo) uccidendo decine di curdi. Subito dopo gli ascari jihadisti si scagliavano contro Afrin, incontrando però la ferrea resistenza delle Ypg/Ypj. Nel voler annichilire in primis le zone curde del Rojava (dove si sperimentava la rivoluzione del Confederalismo democratico) il Jabhat al -Nusra si smascherava da solo, mostrando apertamente di agire su indicazione della Turchia.

Sempre nel 2012, in novembre, veniva attaccata, partendo direttamente dalla Turchia, anche Serêkaniyê. Un’operazione congiunta tra al-Nusra e alcune milizie curde collaborazioniste legate al Pdk. Entrando in alcuni dei quartieri a maggioranza araba di Serêkaniyê, queste milizie si spacciavano per ribelli antiAssad cercando di stabilire alleanze. Solo successivamente (il 19 novembre) partiva il brutale attacco contro i quartieri a maggioranza curda. Veniva assassinato il sindaco della città e la chiesa diventava un bivacco per il loro quartiere generale.

Nel frattempo la loro già consistente presenza veniva rinforzata dall’apporto della cosiddetta Coalizione nazionale (Etilaf), che – secondo i curdi – sarebbe al Etilaf di Sna o comunque della sua derivazione, il “governo di transizione siriano”. Oltre al seggio di Istanbul, Etilaf ne controlla uno anche a Berlino (oltretutto finanziato dal governo tedesco).
Avrebbe anche una certa influenza in alcuni progetti (ugualmente finanziati dal governo tedesco) che sembrano funzionare come “specchietti per allodole”, allo scopo di creare cortine fumogene sulla realtà della situazione curda. Tra questi, il Centro europeo di studi curdi (Ezks) e il sito Kurdwatch, divulgatore di notizie farlocche intese a giustificare le operazioni militari di Erdoğan nel Nord della Siria e nel Nord dell’Iraq. Ma nonostante questo ulteriore apporto di milizie, successivamente venivano scacciati dalla popolazione insorta dei quartieri curdi, grazie anche all’intervento dei combattenti di Ypg e Ypj.

Gli scontri ripresero, durissimi, nel gennaio 2013. Praticamente una vera e propria ammucchiata di gruppi mercenari guidata da al-Nusra quella che contese per circa due settimane il controllo dei quartieri alle milizie curde. Sconfitte nuovamente, le truppe jihadiste si misero in salvo direttamente oltre il confine turco (immediatamente blindato dai soldati turchi per maggior sicurezza), ma lasciando in mano ai curdi un’ampia documentazione della loro intensa collaborazione con Ankara.
Purtroppo durante la ritirata sia al-Nusra che Daesh non mancarono di vendicarsi sulla popolazione curda con una vile rappresaglia.

Come a Til Eran (luglio 2013) e a Tal Hasil. Dichiarando pubblicamente, attraverso le moschee, che sia il bagno di sangue nei confronti della popolazione curda (circa un’ottantina le vittime accertate) che il sequestro-rapimento delle donne curde (prelevate a centinaia) era giustificato dal punto di vista religioso. Rastrellando poi casa per casa le due località sopracitate alla ricerca di “Apoisti”, ossia di seguaci di Apo Öcalan. Oltre a quelli crudelmente assassinati (alcuni bruciati vivi, con le immagini poi diffuse nei social), vanno considerati anche i desaparecidos (qualche decina) e i cadaveri (una ventina) di cui non è stata possibile l’identificazione.

Til Hasil

Da sottolineare che – per quanto entrambe aspirassero alla supremazia – Al-Nusra e Daesh (o Stato Islamico che dir si voglia) non smisero mai di collaborare proficuamente. Sia garantendo una certa “osmosi” di combattenti –praticamente intercambiabili – da una formazione all’altra (in base alle necessità del momento), sia dandosi il cambio, alternandosi nel controllo delle aree occupate. E soprattutto instaurando congiuntamente durante l’occupazione delle città, dei villaggi e dei quartieri curdi un aspro regime di ispirazione salafita. Anche a livello di tribunali islamici dove operavano in coppia.

Sempre sotto la supervisione di Ankara ovviamente. L’assalto al carcere di Sina à Hesekê (gennaio 2022) era stato pianificato dai territori occupati dalla Turchia.

Come già detto negli ultimi tempi al-Nusra aveva cercato di “riciclarsi” prendendo (almeno ufficialmente) le distanze da al-Qaeda e cambiando pelle e nome. Diventando prima, nel 2016, Liwa Fatah al-Sham e successivamente, nel 2017, appunto Hayat Tahrir al-Sham (Hts, in realtà una finta coalizione di vari gruppi, sostanzialmente sotto il controllo della vecchia al-Nusra, comunque denominata). Attualmente la casa madre sarebbe localizzata in quel di Idlib, in felice coabitazione con l’alleato turco. Allo scopo dichiarato di soffocare il risorgere e la diffusione del Confederalismo democratico in questa parte del Rojava. Esperienza pericolosa perché esemplare e contagiosa, soprattutto così in prossimità del confine turco.

Dal maggio di quest’anno (a seguito dell’incontro di Idlib-Sarmada con esponenti del regime turco) le milizie di Hts hanno ripreso a riposizionarsi e raggrupparsi su Idlib puntando quindi su Afrin. Inoltre si sarebbero acquartierati anche nelle zone di Girê Spî, Azaz, al-Bab, Cerablus e intorno alla città di Minbić (ancora gestita dall’amministrazione autonoma).
Sempre in vista di ulteriori attacchi in Rojava.

Per concludere, pur essendo presto rientrato nella lista nera dei gruppi terroristi, Hts continua a godere dei finanziamenti di Turchia, Qatar, Arabia Saudita…
Pare anche di qualche non meglio identificato “paese occidentale”…

Vai a sapere.

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Afghanistan: il quadro interno e le forze in campo https://ogzero.org/afghanistan-il-quadro-interno/ Thu, 22 Jul 2021 10:14:39 +0000 https://ogzero.org/?p=4356 L’arduo compito di valutare la situazione attuale tra le varie fazioni in Afghanistan non poteva che venire conferito a Emanuele Giordana, tra i più competenti analisti di quell’area. Ne risulta una lucida fotografia che fa ruotare sul palcoscenico tutti i protagonisti che possono esprimere una pressione dall’interno sugli eventi che si produrranno nel momento in […]

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L’arduo compito di valutare la situazione attuale tra le varie fazioni in Afghanistan non poteva che venire conferito a Emanuele Giordana, tra i più competenti analisti di quell’area. Ne risulta una lucida fotografia che fa ruotare sul palcoscenico tutti i protagonisti che possono esprimere una pressione dall’interno sugli eventi che si produrranno nel momento in cui ai Talebani verrà sottratto l’unico argomento forte che hanno – la presenza militare straniera nel territorio afgano. L’affresco raccoglie le biffe di personaggi poco raccomandabili, le cui armi consentono loro di spadroneggiare ormai dall’inizio della guerra, 40 anni fa; ma questo non toglie che attraverso i loro alleati, o citando mire economiche, si sviluppino prassi securitarie e predatorie strategie.

Questo contributo più interno all’anima del paese si affianca ad altri due interventi contemporanei ospitati sul sito, uno di Sabrina Moles, mosso dalla curiosità di capire gli interessi cinesi sui corridoi commerciali, e l’altro di Yurii Colombo, volto a ritessere la tela russa a 30 anni dal ripiegamento sovietico, completando la panoramica sulla situazione geopolitica afgana in seguito al ritiro delle truppe americane dal paese che abbiamo intrapreso cominciando da una tavola rotonda che li ha visti partecipi e trasmessa in diretta nella serata del 13 luglio da Radio Blackout, un’analisi che poi abbiamo cercato di approfondire nello studium “La solita musica afgana?”, chiedendoci se sarà un altro Afghanistan quello imbandito in questi due mesi di approcci internazionali.


Minacciosi fuochi sacrificali sulla festa

Martedì 20 luglio, mentre nel palazzo presidenziale di Arg si pregava per la festa del sacrificio Eid al-Adha, una salva di razzi ha colpito i distretti uno e due della capitale. Benché il presidente Ghani abbia continuato a pregare, gli scoppi degli ordigni si udivano forti ad Arg e davano il segnale preciso che, negoziati o meno, la guerra va avanti su più fronti. I Talebani hanno negato ogni responsabilità (e in seguito l’Isis ha rivendicato il lancio di sei Katyusha) ma Ghani li ha comunque tirati in ballo, accusandoli di non volere la pace. A due giorni dall’ultima tornata negoziale a Doha, in Qatar, tra governo di Kabul e guerriglia – conclusasi con un nulla di fatto – la guerra delle parole si somma alla guerra guerreggiata, la propaganda alle armi. Anche se era abbastanza evidente sin dal mattino che i razzi non fossero di marca talebana, colpire a pochi metri dal simbolo del potere che fino a ieri era difeso anche dai soldati che per oltre vent’anni hanno occupato l’Afghanistan, non è un bel segnale.

Rivela, se ancora ve ne fosse bisogno, che gli attori della guerra sono assai più numerosi che non i due contendenti – Talebani e Governo – che si fronteggiano a Doha o nei 421 distretti che compongono la galassia territoriale del paese.

Sindrome di Saigon

Di questi 421 distretti, la metà (229 secondo gli analisti dell’Afghanistan Anlysts Network) sono in mano ai Talebani. Si tratta di centri spesso minori o periferici ma alcuni di essi sono attorno ai capoluoghi provinciali dove l’esercito afgano ha schierato le sue difese lasciando in molti casi al nemico i centri più complicati da difendere. La lezione militare è comunque importante e al contempo politica: anche se difficilmente i Talebani potrebbero prendere le grandi città (e gli stessi hanno escluso di volerlo fare) l’effetto valanga delle conquiste (come rivela la mappa) ha un ovvio impatto psicologico ancor prima che bellico.

Distretti afgani contesi tra Talebani e governo di Kabul - luglio 2021

Distretti afgani contesi tra Talebani e governo di Kabul – luglio 2021

Aiuta a diffondere la “sindrome di Saigon” – la paura che cada la capitale – che certo non aiuta l’esecutivo di Kabul. E aver preso gran parte dei posti di frontiera, oltreché un colpo di teatro, priva il Governo dei cespiti derivati del commercio che vengono intascati dalla guerriglia. La lettura più ovvia è che la guerriglia voglia far pesare la pressione psicologico-militare sul negoziato per ottenere di più. E cedere finalmente su un cessate il fuoco che resta una chimera anche se la giornata di martedì, primo giorno della festa di Eid, ha segnalato una tregua di fatto tra Talebani e Governo. Vediamo dunque le forze in campo nella situazione attuale.

Andarsene ma restare: la scelta di Washington

L’abbandono della base di Bagram in gran fretta, ha dato l’idea che gli americani non solo siano determinati ad andarsene ma che vogliano farlo – e lo stanno facendo – nel minor tempo possibile. È proprio così?

Afghanistan: il quadro interno

L’amministrazione Trump aveva previsto una riduzione iniziale della presenza militare Usa da 13.000 a 8600 uomini entro luglio 2020, seguita da un ritiro completo entro il 1° maggio 2021. L’Amministrazione Biden ha poi annunciato in aprile che avrebbe continuato il ritiro, ma oltre maggio e con una data finale che coincide con l’11 settembre. Decisione poi ancora anticipata e che, secondo gli osservatori, avrebbe solo rafforzato la decisione dei Talebani di diventare più aggressivi onde arrivare a un negoziato da posizioni di forza. Intanto è diventata esecutiva anche la decisione dei paesi aderenti alla coalizione Nato che, sempre in aprile, hanno deciso di iniziare il ritiro delle forze della missione Resolute Support il 1° maggio 2021, per completarlo entro la prima metà di luglio (nel febbraio 2021, il personale Nato ammontava a 9592 uomini – di cui 2500 americani – da 36 Paesi. La mappa si può vedere qui). La Nato comunque si impegnerebbe a proseguire l’addestramento in Europa di soldati afgani e i governi della coalizione dovrebbero continuare a sostenere finanziariamente le forze armate afgane. All’inizio della settimana, il 19 luglio, 15 paesi e il rappresentante Nato a Kabul hanno lanciato un appello ai Talebani perché fermino la loro avanzata. Una mossa forse dovuta ma che lascia il tempo che trova.

Modalità di permanenza militare statunitense

Oltre al sostegno finanziario, gli americani però non intendono esattamente uscire del tutto dalla scena afgana. Dovrebbero dunque rimanere attenti su due fronti: quello dei servizi (la Cia sta preparando nei paesi confinanti basi da cui operare anche se non è impresa facile) e quello di un aumento dell’impegno della marina statunitense nel Golfo, da cui monitorare quanto avviene in Afghanistan. Sia per eventuali attività terroristiche non per forza talebane (Isis, qaedisti) ma anche nel caso in cui le cose dovessero precipitare e i Talebani dovessero tentare di far cadere Kabul. Si tratterebbe di utilizzare soprattutto l’aviazione: droni, aerei spia e caccia da impiegare nel teatro afgano in modalità che non sono ancora chiare ma con opzioni interventiste non escluse dal segretario alla Difesa Lloyd J. Austin, secondo il quale le operazioni di sorveglianza aerea sono già iniziate assai prima del ritiro completo e ancora in luglio sono tornate a essere veri e propri bombardamenti aerei partiti da basi esterne al territorio afgano in supporto dell’azione delle forze d’elite di Kabul impegnate nel tentativo di riconquistare territori occupati dai Talebani; le azioni sarebbero concentrate nei distretti di Kunduz e Kandahar e gli ufficiali preposti lamentano sotto anonimato una minore efficacia, dovuta alla diminuita capacità di concentrazione sul bersaglio della missione da parte dell’intelligence dislocata a terra.

I protagonisti autoctoni

La forza dei Talebani

Alle aperture che Hibatullah Akhundzada, il leader dei Talebani, ha fatto il 18 luglio in una nota apparsa sul sito ufficiale dell’Emirato islamico d’Afghanistan sostenendo che la guerriglia vuole la pace e il dialogo, si alterna la durezza nella tattica politica negoziale rafforzata dalla pressione sul terreno in una ventina delle 34 province afgane. Il passato sembra però raccontare di una spallata difficile se i Talebani volessero tentare una scalata militare che arrivi sin nella capitale. Non ci riuscirono i mujahedin quando i sovietici abbandonarono il paese nel 1989, anche se contavano molti più uomini di quanti non ne abbia oggi la guerriglia in turbante. I mujahedin infatti dovettero aspettare il taglio dei fondi che Mosca smise di versare a Kabul. Fu solo a quel punto, nel 1992 – ben tre anni dopo! – che, senza più stipendio, l’esercito che faceva capo al governo amico di Mosca del dottor Najibullah si dissolse aprendo la strada alla conquista della capitale. Difficile comunque valutare attualmente la forza effettiva dei guerriglieri: secondo l’ultima stima disponibile delle Nazioni Unite, i Talebani potrebbero contare su una forza militare che va da 55.000 a 85.000 uomini. Un “esercito” che arriverebbe a 100.000 unità contando anche i non combattenti, gli informatori e i fiancheggiatori. Si tratterebbe di circa la metà dei soldati dell’esercito nazionale afgano (Ansf) che a sua volta può contare su 150.000 poliziotti e personale di intelligence. Se è davvero questo il rapporto di forza, prendere le città è un’impresa pressoché impossibile.

Afghanistan: il quadro interno

Il ritorno dei Signori della guerra

I vecchi e ormai ottuagenari Signori della guerra uniti alla congerie di capi tribali dell’epoca della resistenza contro i sovietici – che appare come una riedizione della vecchia Alleanza del Nord – ritornano sulla scena per gestire quella che hanno già chiamato “seconda resistenza” (moqawamat-e do): eventualità cui si preparano da tempo. Nelle settimane successive all’annuncio del ritiro degli occupanti, diversi gruppi di potere periferico si sono impegnati in manovre armate per posizionarsi come attori “negli sforzi di guerra o di pace” e per controllare il teatro politico e militare. Questi vecchi islamisti, non molto meno radicali dei Talebani e che hanno in media un’ottantina d’anni (c’è anche qualche figlio: è il caso di Batur Dostum o di Ahmad Massud, figlio del famoso comandante del Jamiat, Ahmad Shah Massud) costituiscono uno dei rischi principali di una nuova sanguinosa guerra civile di cui già sono stati buoni attori nel passato. I nomi sono noti: Abdul Rasul Sayyaf, Abdul Rashid Dostum, Muhammad Ismail Khan, il ras di Herat che ha già schierato i suoi uomini a difesa della città occidentale che controlla da sempre (sostiene di poter contare addirittura su 500.000 uomini!). Ovviamente quello dei Signori della guerra non sarebbe un esercito unico e unito ma semmai uno spurio battaglione formato da milizie etniche con lo scopo di difendere le identità delle diverse province; ma soprattutto con la finalità di controllare le rendite di posizione personali dei vari leader nei territori e nel Governo di Kabul. Ghani sembra voler puntare su di loro come sostegno all’esercito della repubblica. La Storia si ripete (su di loro avevano puntato anche gli americani).

Afghanistan: il quadro interno

Un fragile esecutivo

Al di là dell’aspetto militare (che sembra scontare un addestramento perseguito con i canoni degli occupanti che, avendo perso la guerra coi Talebani, non sembrano essere o esser stati i consiglieri migliori), un problema è rappresentato proprio dall’esecutivo afgano o meglio dal presidente Ashraf Ghani, che non vuole mollare la poltrona e rifiuta sia un governo di transizione sia l’idea di farsi da parte. Ashraf Ghani, che non ha brillato nei tentativi negoziali coi Talebani e che all’ultimo incontro a Doha non ha neppure partecipato, è in rotta di collisione con diverse province dove la nomina dei governatori (a lui fedeli) ha sollevato malumori che si sono tramutati anche in incidenti. Né ha trovato consenso la sua ultima trovata di un Supremo Consiglio di Stato, superorganismo (ovviamente solo consultivo) per coinvolgere anche chi è fuori dal governo o si senta politicamente escluso. Ci dovevano essere l’ex presidente Hamid Karzai e il leader di Hizb-e-Islami Gulbiddin Hekmatyar così come Salahuddin Rabbani, il capo di una fazione del Jamiat-e-Islami, assieme ad altri 15 influenti personalità politiche. Ma proprio Karzai, Rabbani ed Hekmatyar hanno rifiutato l’invito, individuando nella decisione del presidente l’ennesima manovra di Ghani per far finta di condividere decisioni che in realtà vuol prendere da solo. Ghani è a capo dell’apparato militare e può contare sulle persone che ha nominato ai vertici dello stato, nell’esercito e nelle province in questi anni.

Ma questa forza apparente del presidente è di fatto una debolezza che rischia di riflettersi anche sul piano militare – dove appunto si vanno aggiungendo i vecchi mujahedin – ed è scomparso l’alleato che dava le indicazioni: Washington.

Quel che resta di Isis e al-Qaeda

Le bombe Eid al-Adha o l’attacco in maggio alla scuola nel quartiere sciita Dasht-i-Barchi di Kabul, ci ricorda la presenza attiva di quel che rimane dell’Isis o meglio della Provincia del Khorasan affiliata all’autoproclamato ed ex Stato Islamico di Raqqa. Schegge apparentemente senza padrone (circa un paio di migliaia) che continuano a colpire e ad attrarre quando possono ex talebani irriducibili o in rotta coi vertici o ex miliziani stranieri (Iraq, Siria) in cerca di un nuovo lavoro. Fenomeno in parte residuale, come la presenza di al-Qaeda, ma che crea caos ulteriore confondendo acque già torbide. Si teme che tutte queste variabili possano essere comprate dal miglior offerente, discorso che vale anche per Talebani e mujahedin.

Come in passato, la presenza di più forze in campo, che necessitano di finanziamenti esterni (i Talebani meno di altri), può alimentare nuovamente le ceneri del conflitto interno per servire l’agenda di chi vuole condizionare da fuori il futuro dell’Afghanistan.

Una lista lunga: dai russi ai pachistani, dagli indiani ai cinesi, dall’Iran alle potenze piccole e grandi del Golfo.

La popolazione civile

C’è un ultimo elemento poco considerato dagli osservatori, molto concentrati sugli aspetti e gli apparati militari (esercito, talebani, milizie): la popolazione civile. Prima di tutto rappresenta una resistenza forte nelle città a un nuovo avvento di un governo oscurantista. Meno vera nelle campagne, questa avversione verso i Talebani si salda comunque probabilmente con una stanchezza diffusa della guerra come dimostrarono le “marce della pace” che attraversarono in lungo e in largo il paese tra il 2018 e il 2019. Ma la gente delle città può anche diventare una forza militare qualora i Talebani tentassero la spallata. Se Governo e Talebani (e forze d’occupazione) avessero ascoltato questo attore solo apparentemente secondario in passato, le cose forse non sarebbero arrivate a questo punto. Resta, comunque la si voglia vedere, una risorsa nel buio tunnel del conflitto.

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n. 5 – Afghanistan: la soluzione si allontana https://ogzero.org/una-difficile-eredita-mina-la-soluzione-dei-conflitti-in-afghanistan/ Wed, 21 Apr 2021 07:13:24 +0000 https://ogzero.org/?p=3177 Prosegue la raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose […]

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Prosegue la raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Il quinto contributo focalizza l’attenzione sull’Afghanistan.


n. 5

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Una guerra che dura da più di 40 anni

La nazionalità afgana è tra le maggiormente riscontrate tra i migranti che percorrono le attuali rotte migratorie, in particolare quella balcanica. Infatti, uno dei conflitti più longevi che si registra a livello internazionale, con riferimento all’area dell’Asia centrale, è quello che interessa l’Afghanistan. Quest’anno ricorre il ventennale del conflitto, iniziato per mano dell’intervento armato degli Stati Uniti e della Nato nel 2001, in conseguenza alla strage terrorista di al-Qaeda, dell’Undici Settembre dello stesso anno compiuta negli Stati Uniti. Il paese è comunque in guerra da più di quarant’anni e al momento non ci sono buone prospettive né in ordine a una risoluzione realmente pacifica del conflitto in corso che possa rassicurare la popolazione civile,  né tantomeno in ordine a un riconoscimento  di una posizione di stabilità dell’esecutivo, presieduto formalmente dal presidente Ashraf Ghani, rispetto alla costante guerriglia per opera di Talebani e del sedicente Stato Islamico in Afghanistan, costituitosi nel 2015, nonostante la presenza militare degli Usa e degli stati membri della Nato.

Il palazzo Darul Aman a Kabul subì ingenti danni durante gli anni di scontri tra mujaheddin e talebani (foto JonoPhotography)

Dai mujaheddin ai Talebani e ritorno

Come noto l’Afghanistan dal 1979 al 1989 è stato oggetto dell’offensiva e dell’occupazione armata da parte dell’ex Unione Sovietica, alle quali sono corrisposti gli attacchi armati contro il regime di Naijbullah e dei suoi alleati sovietici, da parte dei guerrieri islamici mujaheddin (“coloro che compiono il jihad, la lotta”), sostenuti da diversi governi stranieri in particolare dal Pakistan, dall’Arabia Saudita e proprio dagli Stati Uniti che fornirono loro denaro, addestramento e armi, durante tutta la durata del conflitto, preoccupati com’erano dal continuo espansionismo dell’Urss e dei quali faceva parte lo stesso Osama Bin Laden. Tale sostegno da parte degli Usa venne definito l’ultimo conflitto simbolo della Guerra Fredda tra i due paesi: nel 1989 l’Urss fu costretta a ritirarsi decretando così la vittoria dei mujaheddin e abbandonò l’invasione militare dell’Afghanistan, portando con sé il pesante fardello della perdita di migliaia dei propri uomini. Tuttavia, una volta caduto il regime sovietico di Mohammed Najibullah, che ormai non godeva più dell’appoggio dell’Urss, i mujaheddin conquistarono Kabul destituendo la Repubblica democratica dell’Afghanistan (Rda) nel 1992, proclamando la nascita dello Stato Islamico dell’Afghanistan. Dopo tale proclamazione vi furono dissidi politici e ideologici tra le diverse fazioni e ciò agevolò la costituzione del movimento armato dei Talebani (“studiosi del Corano”) i cui membri si erano addestrati in Pakistan. Il gruppo venne fondato nel 1994 da Mohammad Omar, che nel 1996 destituì lo Stato Islamico e instaurò un Emirato Islamico, ossia un regime teocratico, fondato sulla ferrea applicazione della legge coranica. Tale regime si consolidò negli anni successivi ma i mujaheddin nel 1997 si allearono tra loro formando l’Alleanza del Nord (Fronte islamico nazionale unito per la Salvezza dell’Afghanistan), e si scontrarono nuovamente con i Talebani dando inizio a una sanguinaria guerra civile. I Talebani progressivamente durante la guerra ottennero il controllo di quasi tutto il territorio afgano (alla fine del 2000 più del 95 per cento), nonché il riconoscimento dal Pakistan, dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi. I mujaheddin continuarono comunque a opporsi ai Talebani, soprattutto nel Nord del paese e riacquisirono il potere nel novembre del 2001, solo dopo l’intervento militare della Nato in Afghanistan, in esito all’attentato terroristico alle torri gemelle a causa dei legami del regime talebano con il gruppo terrorista al-Qaeda, ritenuto responsabile della strage negli Stati Uniti.

Le sanzioni e il governo provvisorio

La nota organizzazione terroristica, infatti, fondata proprio da Osama Bin Laden, di origine saudita, negli anni Novanta si avvicinò al regime dei Talebani dal quale ottenne per diversi anni sostegno e protezione.  Gli attentati alle ambasciate americane in Kenya e in Tanzania, attribuiti ad al-Qaeda e gli insuccessi dei tentativi della diplomazia internazionale di riavviare il dialogo fra i Talebani e l’Alleanza del Nord portarono all’inasprimento delle sanzioni da parte dell’Onu per la mancata consegna da parte dei Talebani di Bin Laden, nel 2000. Si accentuò cosi l’intransigenza del governo talebano: nel 2001 venne ucciso Ahmad Shah Massud, capo militare e politico dell’opposizione dei Talebani, e il giorno successivo avvenne l’attacco terroristico dell’11 settembre negli Usa.

Massud, figura culto nel Panshir (foto di Michal Hvorecky)

La guerra statunitense, in coalizione con la Nato contro il gruppo terrorista di al-Qaeda, guidato dallo stesso Osama Bin Laden, iniziò nell’ottobre del 2001 in modo del tutto singolare: l’organizzazione venne considerata, fin da subito, dagli Usa al pari di un’organizzazione statuale. Il governo statunitense appoggiò le forze dell’Alleanza del Nord fino al definitivo abbattimento del regime talebano nel novembre 2001.

Tuttavia il conflitto armato che si instaurò in Afghanistan a partire dal 2001 ha visto il succedersi di diversi accadimenti nei quali i Talebani hanno registrato “sconfitte” e “vittorie”. Dopo la capitolazione di Kabul del novembre del 2001 infatti con gli accordi di Bonn siglati tra le varie fazioni politiche presenti nel paese fu istituito un governo provvisorio formato dalle diverse etnie presenti in Afghanistan a capo del quale venne nominato il presidente di etnia pashtun Hamid Karzai affiancato dalle Nazioni Unite. Nel mentre le truppe speciali americane continuarono la ricerca nel 2001 di Osama Bin Laden e l’individuazione dei gruppi armati dei Talebani che intanto sferravano costantemente la loro guerriglia anche contro il contingente internazionale presente nel paese. Il 9 ottobre del 2004 si tennero le prime elezioni nazionali presidenziali durante le quali Karzai venne eletto con il 55 per cento dei voti a favore, confermandosi così come presidente. Con la nuova tornata elettorale del 2009 che confermò nuovamente la presidenza di Karzai crebbe l’attività terroristica che si basò sulle accuse di brogli elettorali che decretarono la vittoria dell’allora presidente. Anche per questa ragione Karzai propose di intraprendere dei dialoghi di pace con i Talebani che questi rifiutarono. Dopo l’uccisione di Osama Bin Laden nel 2011 una volta individuato il suo rifugio nei pressi della città di Islamabad sono invece stati intrapresi tra Usa e Talebani colloqui volti all’identificazione di una soluzione politica alla guerra. Da quanto esposto si comprende come i Talebani non sono mai usciti di scena nel conflitto afgano fino a costituire, ancora oggi, una forza così influente nel paese da essere stati chiamati dall’amministrazione Trump, nel 2019, a sedere al tavolo dei negoziati con gli Usa per la costituzione di un sistema di pace in Afghanistan.

La madre di tutte le bombe

In questo processo storico però non va taciuto il ruolo del sedicente Stato Islamico in Afghanistan, costituitosi nel 2015 e contro il quale nel 2017 nella regione di Nangharan, nel Nordest afgano, dove risiede prevalentemente il gruppo terrorista, è stato lanciato un ordigno esplosivo di undici tonnellate da parte degli Usa, considerata la madre di tutte le bombe (Moab – Mother of all the bomb). In particolare, l’IS-K – lo Stato Islamico della provincia di Khorasan nell’area nordoccidentale del paese (oggi regione divisa tra Iran, Turkmenistan e nella sua parte sud con l’Afghanistan) – è stato fondato nel 2015 da ex membri dei Talebani pakistani e ha diffuso la propria ideologia nelle aree rurali del paese come la provincia di Kunar nella quale si evidenzia una maggiore presenza di musulmani salafiti, lo stesso ramo religioso dell’Islam sunnita del sedicente Stato Islamico in Afghanistan. Nel 2019 Kabul, come esito di una campagna militare durata diversi anni, ha ripreso di nuovo possesso dei territori da questi occupati.

Gli Stati Uniti hanno dichiarato ufficialmente la sconfitta dello Stato Islamico in Afghanistan, ma ciò non corrisponde alla realtà come si evince dai recenti attentati che hanno interessato il paese.

Doha, il negoziato

Nel 2019 iniziano ufficialmente i negoziati di pace tra Stati Uniti e Talebani a Doha nel Qatar dove la forza talebana vanta di avere una sorta di ambasciata. Ciò che si pone alquanto sconcertante è, dopo vent’anni di guerra nel paese e dopo due tornate elettorali che hanno visto vincitore Ghani, l’estromissione dal tavolo dei negoziati del Governo di Kabul presieduto dallo stesso, compiendo in questo modo una vera e propria sua delegittimazione.

I negoziati, finalizzati a un accordo di pace, che verrà poi firmato il 29 febbraio 2020, per quanto riguarda gli Usa sono gestiti da Zaimai Khalizai, diplomatico afgano americano già ambasciatore dell’Afghanistan negli Stati Uniti, i Talebani, invece, sono rappresentati da Mohammad Abbas Stanikzai diplomatico a capo dell’ufficio di Doha e da mullah Abdul Ghani Baradar cofondatore dei Talebani rilasciato nel 2018 da una prigione pakistana.

L’oggetto dell’accordo di febbraio 2020 è stato essenzialmente basato su due punti: il ritiro di tutte le truppe armate straniere entro il primo maggio del 2021 e l’impegno da parte dei Talebani a che il territorio afgano non sia più la base di attività terroristiche o di minaccia nei confronti degli Usa; nonché l’avvio di un dialogo interno tra afgani. Tuttavia, va detto che se gli Usa mirano a portare sostegno principalmente militare per il consolidamento di un governo di tipo repubblicano in Afghanistan, i Talebani vogliono creare di nuovo l’istituzione di un Emirato islamico auspicabilmente retto da Pakistan, Iran, Cina e Arabia Saudita.

La sigla dell’accordo è avvenuta alla presenza dei ministri e delle rappresentanze delle organizzazioni internazionali di trenta paesi. L’accordo, quindi, ha sicuramente una rilevanza internazionale ma non è ancora risolutivo in quanto, a oggi, non si registra né la fine della guerra né tantomeno quella dell’intervento americano in Afghanistan.

Gli equilibri dell’area: l’utilità (tutta Usa) della pressione

L’accordo dimostra inevitabilmente la sconfitta riportata dall’amministrazione americana rispetto al conflitto afgano, questione che intende abbandonare – come già avvenuto in passato – lasciando alle forze di influenza locali la risoluzione effettiva del medesimo per occuparsi di questioni che al momento le premono maggiormente, come l’avanzata dell’egemonia economica internazionale da parte della Cina o il controllo delle aree di influenza della Russia. Tuttavia, è chiaro allo stesso tempo che risulta sempre importante mantenere per gli Usa una certa pressione sull’Afghanistan, data la sua geolocalizzazione, vicina com’è all’Iran alla Cina alla Russia e al Pakistan con i quali gli Stati Uniti sono in contrasto o in competizione. La sconfitta americana nel conflitto si evince anche dalla progressiva diminuzione dei toni della narrazione delle amministrazioni americane che si sono susseguite nel tempo rispetto agli obiettivi iniziali della guerra in Afghanistan da parte degli Usa, per i quali, dopo venti anni di conflitti, è sufficiente la sigla di un accordo con gli insorti talebani anche se gli attacchi a opera di questi sono ancora oggi tutt’altro che sedati. Il disimpegno completo delle forze armate statunitensi, quindi, è stato previsto dopo 14 mesi dalla stipula dell’accordo, mentre i militari della Nato e altri alleati determineranno un progressivo disimpegno in modo proporzionale. L’amministrazione Trump si è impegnata formalmente anche a rimuovere tutte le sanzioni che gravano sui Talebani e ha promesso la liberazione dei loro prigionieri. Da parte loro, i Talebani devono assicurare una notevole diminuzione degli atti di violenza e l’impegno a negoziare con il governo afgano, oltre che, come detto, a far sì che il gruppo terrorista non rappresenti una minaccia per gli Stati Uniti.

L’indagine dell’Aja sui crimini di guerra (di tutti)

Non è in ogni caso da sottovalutare quanto è avvenuto immediatamente dopo la stipula dell’accordo Usa-Talebani, ossia la decisione all’unanimità, da parte del Tribunale Internazionale dell’Aja del 5 marzo del 2020, con la quale si è autorizzato il procuratore generale Fatou Bensouda ad avviare un’indagine sui crimini di guerra commessi in Afghanistan da parte dei Talebani, degli Usa e delle forze del governo afgano. La richiesta di avviare un’indagine era già stata presentata alla Camera preliminare della Corte internazionale nel 2017 in esito alle denunce delle vittime dei familiari per i crimini puniti dal diritto internazionale compiuti nel conflitto, ma all’epoca era stata respinta sulla base della mancata collaborazione che le parti chiamate in causa avrebbero sicuramente posto in essere rispetto a una chiarificazione degli avvenimenti oggetto delle indagini. Inoltre l’altra motivazione addotta dalla Camera fu quella concernente l’elevato costo che un processo di questo tipo avrebbe comportato. Se lo scorso anno si è arrivati a ribaltare la sentenza è sia per il cambiamento dello scenario politico del conflitto afgano, sia perché vi sono nuove evidenze fattuali portate avanti dall’accusa che non possono essere ignorate e sulla base delle quali è soddisfatto sicuramente il fumus delicti. Ciò che va sottolineato è che oggetto delle indagini non saranno soltanto i crimini commessi nel territorio afgano ma anche quelli compiuti in altri paesi connessi con il conflitto afgano, come Lituania, Polonia e Romania e che, non solo, si procederà per i crimini per i quali è stata richiesta l’autorizzazione a procedere da parte del procuratore generale presso il Tribunale dell’Aja, ma anche per qualsiasi crimine di competenza della Corte che emergesse nel corso delle indagini, collegato a tale conflitto. Secondo Amnesty International si tratta di «una decisione storica con cui il massimo organo di giustizia internazionale, rimediando a un suo terribile errore, si è posto da parte delle vittime dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità commessi da tutte le parti coinvolte nel conflitto afgano».

Inoltre l’Ispettorato generale delle forze di difesa australiane in un rapporto pubblicato nel 2020, basato su un’inchiesta diretta dal giudice Paul Brereton durata 4 anni, ha ritenuto credibili le informazioni circa la responsabilità da parte delle forze speciali australiane di gravi violazioni dei diritti umani, in particolare dell’uccisione di 39 civili e di trattamenti disumani commessi tra il 2005 e il 2016 in Afghanistan, raccomandando un’indagine penale in merito. La Commissione indipendente dei diritti umani dell’Afghanistan ha quindi invitato gli Stati Uniti e il Regno Unito a seguire l’esempio australiano e a indagare in merito ad alcuni atti commessi dalle proprie forze speciali potenzialmente qualificabili come crimini di guerra.

Il 2020 inoltre viene ricordato anche per essere stato l’anno in cui si è registrato il più alto numero di vittime dall’inizio del conflitto nel 2001 e in cui sono iniziati dei nuovi negoziati, questa volta, tra il governo di Kabul e i Talebani sempre finalizzati, come quelli del 2019, tra Usa e Talebani, alla costituzione di un sistema di pace in Afghanistan.

I nuovi negoziati e la delegittimazione di Ghani

Tali nuovi negoziati, portati avanti a partire da settembre del 2020, sono stati – come detto precedentemente – conseguenza diretta delle condizioni poste alla base dell’accordo siglato nel febbraio 2020 tra Stati Uniti e Talebani. I rappresentanti delle due diverse fazioni nel paese sono dal lato della squadra nazionale della Repubblica islamica in Afghanistan (IRoaA team), Abdullah Abdullah, in quanto presidente dell’Alto Consiglio di Riconciliazione Nazionale (Hncnr) e, per la delegazione talebana, Mawlavi Abdul Hazim Ishaqzai, figura di alto rilievo religioso nel paese e vicino a Hibatullah Akhunzada.

Il governo bicefalo

Le cause dell’estromissione dell’esecutivo retto dall’attuale presidente Ghani in tali negoziati intrafgani vanno individuate in due fenomeni. Il primo è costituito dal fatto che i Talebani non hanno mai riconosciuto le vittorie elettorali ottenute da Ghani, sia nel 2014 che nel 2019, ritenendo che in entrambe le occasioni vi sia stata una manipolazione dei risultati elettorali; il secondo fenomeno invece è fondato sull’ampia contestazione subita, sempre in conseguenza dell’esito delle votazioni, da parte dei partiti di opposizione e così accesa d’aver costretto l’esecutivo neoeletto, nel 2014, ad affidare ad Abdullah Abdullah, il leader del principale partito di opposizione, il ruolo di amministratore delegato del governo presieduto da Ghani e, dopo le elezioni del 2019, a concedergli proprio la carica di capo del Consiglio di pace in Afghanistan. Infatti, il risultato delle elezioni di settembre del 2019 non è stato mai avallato da Abdullah Abdullah che aveva costituito un governo “ombra” speculare a quello di Ghani, tentando di impedirne l’insediamento, fino al maggio del 2020 quando, con l’intensificarsi degli attacchi dei Talebani, i due leader hanno concordato una ripartizione proporzionata degli incarichi all’interno del neoeletto esecutivo. Per questo motivo il governo di Kabul oggi viene definito bicefalo. Per aggirare questi ostacoli già nel 2019 all’inizio dei negoziati Usa-Talebani, per l’accordo siglato a febbraio del 2020, il capo negoziatore del governo afgano Stanikzai ha inventato lui stesso il termine “squadra nazionale inclusiva efficace”, identificata poi nel 2020 come team IRoA.

Parte del Team IRoA incontra il ministro degli Esteri americano Pompeo

Tuttavia l’attuale repubblica che siede accanto ai Talebani nei negoziati intrafgani, avviati a settembre del 2020, non esprime tanto un pluralismo democratico presente nel paese, quanto una frammentazione delle forze politiche afgane. La posizione dei Talebani, dopo i negoziati intrafgani, sembra spingere più verso un sistema di governo ibrido islamico che verso un nuovo Emirato. Per quanto riguarda invece l’influenza degli altri attori regionali, quali Pakistan, Russia Iran e Cina, anche se hanno svolto un ruolo importante per l’instaurarsi dei negoziati, la loro influenza nella formalizzazione di un accordo conseguente a questi non deve essere sopravvalutata: i vicini dell’Afghanistan infatti hanno poca capacità di plasmare il pensiero dei Talebani che sanno di potersi liberamente sganciare da eventuali concessioni o promesse di supporto a un governo repubblicano afgano, potendo rinunciare ai colloqui intrafgani e persistere con i propri atti di guerriglia.

Una difficile eredità

A novembre del 2020, inoltre, l’allora segretario americano alla difesa Christopher Miller ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero ritirato le proprie truppe dall’Afghanistan con un’ulteriore riduzione delle stesse dopo le 8000 ritirate lo scorso anno, fino ad arrivare a 2500 entro il mese di gennaio 2021. Questa decisione si è determinata in esito alla vittoria elettorale di Joe Biden, il 7 novembre del 2020, prima del suo insediamento il 20 gennaio del 2021. Biden infatti al momento sta gestendo la difficile eredità lasciata dal suo predecessore nel conflitto afgano dovendo fare i conti, da un lato con le condizioni poste dall’accordo Usa-Talebani del febbraio 2020, dall’altro con l’esacerbarsi degli attacchi armati per mano dei Talebani e del sedicente Stato Islamico in Afghanistan.

Trump, dal canto suo, non ha mancato di evidenziare più volte i risultati diplomatici ottenuti dalla sua amministrazione rispetto alla questione afgana, in particolare: il ritiro delle truppe americane, le garanzie sull’antiterrorismo e del cessate il fuoco, in una prospettiva futura, da parte dei Talebani nonché dell’inizio dei negoziati intrafgani con due incontri rispettivamente tenutisi a settembre del 2020, e all’inizio di gennaio del 2021. Tuttavia, il conflitto resta oggi tutt’altro che concluso.

Il ritiro condizionato delle truppe

Alla data del suo insediamento nel 2021, anno in cui ricorre il ventennale dall’inizio del conflitto in Afghanistan, Biden ha, in tale sede geopolitica, come primo elemento con cui confrontarsi, quello temporale dettato dall’accordo Usa-Talebani siglato a Doha, ossia quello del ritiro, entro il primo maggio del 2021 di tutte le truppe americane.

Al riguardo si sottolineano le dichiarazioni del neoeletto consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan che ha ritenuto, fin da subito, di chiarire l’intenzione della nuova amministrazione a rivedere l’accordo siglato con i Talebani a febbraio del 2020 per verificare se, effettivamente, i Talebani stiano ponendo del tutto fine ai loro legami con i gruppi terroristi e se questa verifica potrebbe comportare la proroga di ulteriori sei mesi della presenza delle truppe americane in Afghanistan, dilazionando la data del loro ritiro. Ciò, in ragione anche del fatto che il ritiro delle forze armate statunitensi deve essere interpretato, secondo l’attuale amministrazione americana, nel senso che questo avverrà solo se vi saranno evidenze fattuali circa l’effettivo adempimento, da parte dei Talebani, delle condizioni dettate nell’accordo con gli Usa.

Fonte: “la Repubblica”, 15 aprile 2021

La società civile: attore e osservatore permanente

In tale scenario il ruolo della società civile afgana si è evoluto nel tempo: all’inizio del XX secolo i rappresentati della società civile erano il clero e gli attori religiosi mentre a partire dalla metà del XX secolo, la rappresentanza della società civile è stata identificata nei professionisti, nei politici, negli artisti e più in generale in tutti i cittadini con alle spalle un sistema di istruzione superiore. Con l’invasione sovietica vi è una rilevante mutazione degli attori della società civile, sia durante il conflitto contro l’Urss, sia nel corso del governo del paese da parte dei mujaheddin sia in seguito, con gli stessi Talebani. La società civile, da questo momento in poi, sarà stata costituita prevalentemente dalle organizzazioni non governative nazionali e internazionali.

A partire dal 2001 la società civile afgana, invece, ha operato in un contesto maggiormente inclusivo grazie al riconoscimento del suo ruolo da parte delle istituzioni statali e ha lavorato nell’ambito dell’educazione civica ricoprendo posizioni di rilievo anche nei media e nelle organizzazioni di diverso tipo.

Infine, oggi, la società civile in Afghanistan è composta da ong, sindacati, organizzazioni sociali e culturali, organizzazioni comunitarie, organizzazioni femminili e di cittadini che promuovono l’organizzazione religiosa, i diritti delle donne, la libertà di parola e più in generale i diritti umani. In quest’ottica è facile comprendere come essa costituisca un attore rilevante per il raggiungimento di un’effettiva condizione di pace nel paese, quantomeno come osservatore permanente.

L’escalation di attacchi terroristici

Nel mese di marzo 2021 infatti – nonostante l’accordo di pace firmato il 29 febbraio del 2020 tra Stati Uniti e Talebani e le due tornate negoziali intra- afgane – si è registrata un’escalation degli attacchi terroristici nel paese. Intanto si avvicina sempre maggiormente il termine del Primo Maggio per il ritiro delle truppe americane. Gli attacchi di cui sopra hanno interessato soprattutto le donne. A essere rimaste uccise, infatti, agli inizi di marzo, sono state una giovane dottoressa afgana che si stava recando al lavoro nella città di Jalalabad, a causa di un ordigno esplosivo posizionato sotto la sua automobile e di tre giornaliste dipendenti della stessa emittente locale, in esito a tre diversi attentati, mentre, tre mesi prima, era già stata uccisa la presentatrice della stessa emittente. Il 30 marzo 2021 Amnesty International inoltre ha riportato l’assassinio di tre operatrici sanitarie, impegnate nella campagna di vaccinazione contro la poliomielite, sempre nella città di Jalalabad, definendo tale atto «codardo, contro tre donne impegnate a proteggere la salute di 10 milioni di bambine e bambini al di sotto dei cinque anni di età, all’inizio della campagna di vaccinazione».

Negli ultimi mesi gli omicidi sono stati rivolti specificatamente a un tipo di appartenenti alla società civile: giornalisti, giovani istruiti, attiviste per i diritti umani. Tali uccisioni sono finalizzate a distruggere la speranza di quanti si impegnano quotidianamente per un futuro diverso dell’Afghanistan e sono stati rivendicati dal gruppo terrorista dello Stato Islamico in Afghanistan con l’intento di affermare la propria presenza sul territorio al pari di al-Qaeda e dei Talebani.

Per questo motivo, in esito agli omicidi di marzo, Fatima Gailani, una delle negoziatrici a Doha per l’accordo Usa-Afghanistan, ha chiesto che i Talebani, distaccandosene, condannino pubblicamente gli attacchi rivendicati dall’IS-K e che si impegnino maggiormente a favore dei cittadini afgani, con una buona istruzione, affinché rivestano ruoli di rilievo nella società civile.

Regioni strategiche: il Nangarhar…

Come visto, i recenti attentati si sono accentuati proprio nella regione del Nangarhar di cui la capitale è la città di Jalalabad, e l’autore è sempre l’IS-K che, come detto, è stato ufficialmente dichiarato sconfitto nel 2019 dagli Usa, ma che in realtà non è stato mai debellato dal territorio afgano e, negli ultimi mesi, sta sferrando sanguinari attacchi prevalentemente sulla popolazione civile come quelli avvenuti dall’11 al 17 marzo e tra il 20 e il 21 marzo del 2021. Secondo il governo di Kabul, pur essendo la maggior parte degli attacchi rivendicati dal sedicente Stato Islamico, essi vengono realizzati con l’appoggio dei Talebani che forniscono militanti e agevolano le attività del gruppo terrorista, Talebani che, a loro volta, sarebbero sostenuti da alcuni militanti pakistani.

La regione del Nangarhar è particolarmente coinvolta dagli attacchi terroristi per diverse ragioni. In primo luogo, la città di Jalalabad ha una posizione strategica, essendo il primo centro urbano prima del confine a Nordest dell’Afghanistan con il Pakistan, nel quale, fin dagli anni Ottanta, si è stanziato, dopo l’occupazione sovietica, il gruppo dei Talebani. In secondo luogo, la regione ha una rilevante importanza poiché la zona risulta essere un punto di snodo cruciale per i due paesi in ragione del passaggio di merci e delle risorse del territorio prettamente rurale. A tali caratteristiche, tipiche dell’area, si aggiunge poi l’attuale presenza massiccia di esponenti del sedicente Stato Islamico, per cui in tali territori si sono accesi negli ultimi anni gli scontri più cruenti tra Stato Islamico e Talebani con conseguenze disastrose sotto il profilo economico, ambientale e rispetto alla condizione della popolazione civile locale, considerando le migliaia di sfollati interni dirette in altre aree del paese e di rifugiati nei paesi limitrofi, provenienti da quest’area.

una difficile eredità

Siyad Darah (foto JonoPhotography)

… e linee tracciate sulla carta

Infine, si aggiunge il problema della certa determinazione del confine territoriale tra tale parte Nordest dell’Afghanistan e il Pakistan, in quanto l’attuale delimitazione viene contestata e non è stata mai riconosciuta dall’Afghanistan poiché imposta sotto il dominio inglese senza tener conto che in prossimità dei due lati del confine risiedevano e risiedono da sempre molti individui di etnia pashtun. Da ciò si comprende anche la molteplicità di aspetti culturali, etnici, religiosi condivisi tra i due paesi e che, nel corso degli anni e ancora oggi, i Talebani hanno saputo sfruttare per il perseguimento dei propri obiettivi. I Talebani, tuttavia, sono responsabili attualmente di un diverso tipo di attentati rivolti, non tanto verso la popolazione civile come nel caso del sedicente Stato Islamico, quanto piuttosto verso le istituzioni dell’esecutivo afgano: come i convogli militari e di polizia gli stessi edifici istituzionali, facendo emergere così il preoccupante cambiamento in ambito securitario seguito al parziale ritiro delle truppe statunitensi nel 2019.

 

18 marzo: la conferenza di pace di Mosca

Infatti, come dimostrano gli accadimenti di metà marzo il rapporto Talebani-Usa, in virtù dell’accordo, non può certo considerarsi disteso: il 17 marzo 2021 i militari statunitensi hanno dichiarato di aver compiuto un attacco aereo contro i Talebani a sostegno del governo afgano che ha provocato la morte di 48 persone nella provincia di Kandahar. Tuttavia, se da un lato gli Stati Uniti hanno affermato che è stato eseguito in piena conformità con l’accordo di Doha, i Talebani hanno invece ritenuto che l’attacco aereo sia da considerarsi una violazione esplicita dell’accordo di pace di febbraio dello scorso anno.  In tale contesto, il 18 marzo, si è tenuta una conferenza internazionale sulla pace in Afghanistan a Mosca coerente con l’intento americano di includere anche gli altri stati che esercitano una sfera d’influenza sull’Afghanistan. Infatti, la conferenza è stata l’occasione per la sottoscrizione di una dichiarazione congiunta della Russia, della Cina, degli Stati Uniti e dal Pakistan in merito al conflitto afgano, mediante la quale hanno deciso che non offriranno sostegno alla creazione di un nuovo Emirato islamico in Afghanistan ma che sosterranno un’azione diplomatica per la risoluzione del conflitto. La dichiarazione è suddivisa in dieci sezioni nelle quali si afferma: l’esistenza di una ferma volontà del popolo afgano rispetto a una condizione di pace duratura nel paese da conquistare solo mediante un’azione diplomatica; la richiesta della riduzione degli atti di violenza del paese e più specificamente la richiesta ai Talebani di non portare avanti ulteriori offensive in primavera; l’impossibilità per i paesi partecipanti alla conferenza di sostenere il ripristino di un Emirato islamico; la necessità del proseguimento dei negoziati intrafgani con una specifica tabella di marcia rispetto agli obiettivi che le parti si propongono; l’imprescindibilità di creare un governo afgano indipendente, sovrano, unificato e democratico; la garanzia dell’assenza di qualsiasi legame con gruppi terroristi; il presupposto fondamentale  della  protezione di tutti i cittadini afgani; l’importanza di un dialogo internazionale dell’Afghanistan in grado di fronteggiare la crisi del paese; l’apprezzamento per il sostegno offerto da Qatar a ospitare i colloqui di pace e, infine, la nomina del segretario generale delle Nazioni Unite Jean Arnault  come inviato nel paese.

La possibile proroga del ritiro delle truppe Usa

Inoltre il 22 marzo del 2021, il segretario alla difesa Lloyd Austyn si è recato in Afghanistan: Il capo del Pentagono infatti ha ritenuto necessario incontrare personalmente l’attuale presidente Ashraf Ghani per discutere dell’escalation degli attentati nel paese e, il 22 marzo, il portavoce dei Talebani ha confermato alla stampa che si sta mettendo in atto un piano di sostanziale di riduzione della violenza nel paese entro 90 giorni, tuttavia ancora non qualificabile come un vero e proprio “cessate il fuoco”. Inoltre, il presidente della Commissione delle Forze Armate Statunitensi Adam Smith, il 25 marzo, ha rivelato l’intenzione dell’amministrazione Biden di negoziare una proroga della scadenza per il ritiro delle truppe statunitensi – condivisa dalla Nato che è pronta ad aspettare con gli Usa il ritiro delle proprie forze – e che, tuttavia, i militanti talebani stanno combattendo contro l’IS-K, quanto contro il governo afgano. Al riguardo si sottolinea che il parlamento tedesco, il 25 marzo 2021, ha già però avallato il rinnovo della partecipazione delle truppe tedesche Nato nel conflitto afgano fino alla fine del 2022. Infine, il 31 marzo, secondo il quotidiano “Tolo News” gli stati Uniti sarebbero sul punto di decidere per una proroga dai 3 ai 6 mesi per il ritiro delle truppe, mentre i Talebani hanno richiesto la liberazione di 7000 loro detenuti nelle prigioni afgane.

Intanto le violenze nel paese si stanno esacerbando sempre di più. La sensazione che si ha, quindi, è che sia nel caso in cui Joe Biden rispettasse la condizione del ritiro delle truppe dal Primo Maggio entro l’11 settembre, conseguenza dell’accordo formalizzato dalla precedente amministrazione degli Stati Uniti con i Talebani, sia nel caso in cui il presidente neoeletto decidesse di non rispettarla, prorogando i termini di alcuni mesi, potrebbero comunque verificarsi nuovi scontri e attacchi armati: nel primo caso perché i Talebani e il sedicente Stato Islamico potrebbero, in questo modo, continuare a contrastare il consolidamento dell’esecutivo afgano, avendo maggiore campo libero e approfittando del totale disimpegno delle truppe americane, mentre nel secondo caso avrebbero l’alibi del mancato rispetto del termine per giustificare il perdurare delle loro attività sanguinarie di guerriglia.

Quello che si evince in tale scenario politico e che condiziona anche le dinamiche strategiche e tattiche degli altri paesi interessati alla stabilizzazione dell’area è il principio secondo il quale, per risolvere situazioni complesse come quella afgana, l’intervento militare è una soluzione meramente transitoria nel processo di pace che coinvolge il paese. Questo infatti dovrebbe essere accompagnato da politiche basate principalmente sul miglioramento del sistema scolastico-educativo per la popolazione civile e sulla messa in atto di strumenti di state building rispetto alle forze politiche locali: solo in questo modo si potrebbe raggiungere effettivamente il tanto auspicato cambiamento.

L'articolo n. 5 – Afghanistan: la soluzione si allontana proviene da OGzero.

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n. 2 – Mali e Niger: conflitti e instabilità nel Sahel https://ogzero.org/n-2-mali-e-niger-conflitti-e-instabilita-nel-sahel/ Sun, 11 Apr 2021 08:22:10 +0000 https://ogzero.org/?p=2912 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

L'articolo n. 2 – Mali e Niger: conflitti e instabilità nel Sahel proviene da OGzero.

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il secondo contributo, focalizzato sulla regione del Sahel.


n. 2

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Sahel: estrema povertà, crescita demografica e marginalità delle comunità periferiche

Secondo l’interpretazione dell’Unione Europea a far parte di quest’area sono i cosiddetti paesi del G5, ossia Mali, Mauritania, Burkina Faso, Ciad e Niger. Nell’area è presente un forte attivismo dei gruppi armati jihadisti in particolare nei territori del Mali, Niger e Mauritania, favoriti anche dai confini estremamente porosi tra i tre paesi. Ad ogni modo tutti gli stati appartenenti all’area del Sahel sono oggi interessati da traffici illeciti di armi, droga e di uomini nonché da massicci fenomeni migratori che spingono l’Europa a esternalizzare nella regione le sue frontiere, come vedremo in seguito. I paesi del Sahel infatti si trovano in una condizione di instabilità dalla caduta del regime di Gheddafi in Libia. Già nel 2014 emergeva la drammatica condizione del Sahel: estrema povertà dell’area, forte crescita demografica e marginalità delle comunità periferiche. Questi fenomeni sono stati acuiti proprio dalla caduta di Gheddafi, dalle Primavere Arabe determinate nel Nord del continente africano, e dalla diffusione degli estremisti di matrice fondamentalista.

Le missioni Onu

Soprattutto in ragione della presenza di gruppi terroristi nei territori del Sahel è dovuto l’intervento di forze internazionali ed europee nell’area con la missione Onu Minusma, missione di pace nella regione del Mali, e rispettivamente con le missioni europee: Eucap in Niger per fornire assistenza alle forze di sicurezza interne al paese e per un maggiore coordinamento con altri paesi del Sahel, in particolare con Mali e Mauritania, Eucap in Mali con lo scopo di difendere la democrazia già flebile per ristabilire l’autorità di uno stato in un territorio dove le forze jihadiste sembrano inarrestabili. Infine, si segnalano l’Eutm, ossia la missione europea per fornire assistenza e mentoring alle forze armate maliane, e la Racc missione europea per consentire in Mauritania e in Ciad una maggiore e più stabile presenza europea.

Missione Minusma in Mali (foto del Ministero della Difesa dei Paesi Bassi)

Il mese di marzo è stato interessato da diversi scontri tra le ramificazioni di al-Qaeda e l’Isis nel Sahel, nella regione delle tre frontiere tra Burkina Faso, Mali e Niger. Il conflitto si è verificato da ultimo tra il gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani ossia lo Jnim affiliato ad al-Qaeda e l’Isgs ossia lo Stato Islamico nel grande Sahara. Secondo l’istituto per gli studi di politica internazionale tale conflitto può essere legittimamente qualificato come uno dei più cruenti al mondo.

Conflitti e instabilità nel Sahel

Video propagandistico rilasciato dalle milizie Jnim (foto Menastream)

Jnim e Isgs condividono origini comuni nella rete di al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi). Tra i due gruppi infatti vi erano legami personali e di lungo periodo basati anche su azioni coordinate per affrontare nemici che allora erano comuni, contraddistinti dalla mancanza assoluta di lotte intestine jihadiste tra loro.

Tuttavia, negli ultimi anni si sono strutturati in maniera diversa: l’Isgs si è fondato nel 2015 dopo essersi separato da al-Mourabiton, movimento affiliato ad al-Qaeda. Tuttavia, il suo rapporto con al-Qaeda non è mai terminato e anzi, ancora oggi, si riscontrano tra loro accordi, collusioni e relazioni di coesistenza nel territorio.  Lo Jnim, fondato invece nel 2017, ha riunito diversi gruppi jihadisti disparati in diverse aree, tra cui proprio il gruppo al-Mourabiton e il gruppo jihadista burkinabè Ansarul Islam.

L’Isgs, gruppo piccolo e oscuro, dotato di una rudimentale infrastruttura multimediale ha saputo sfruttare l’assenza dello stato nelle comunità remote, intercettando le sensazioni di abbandono della popolazione civile e gli interessi delle comunità pastorali presenti nell’area, al contempo non ha dimostrato alcuna reticenza a incorporare anche unità dello Jnim, indebolite o marginalizzate. Lo Jnim nello stesso periodo ha preferito maggiormente rafforzare il suo processo d’integrazione nell’Isis. Nel 2019 con un’azione simultanea le due forze jihadiste hanno preso possesso della regione al confine dei tre stati costringendo al ritiro gli eserciti locali. Oggi l’Isgs sfida apertamente lo Jnim vantandosi delle sue vittorie su questo. Lo Jnim scredita apertamente l’Isgs per le vittime civili a causa dei suoi militanti.  A questa situazione si aggiunge la pressione delle forze militari contro il terrorismo, guidate dalla Francia nella missione Barkhane. È necessario quindi interrogarsi come sia nata tale missione e a che punto si trovi oggi rispetto ai fini precostituiti in passato e che legittimano la sua esistenza nella regione del Sahel.

I francesi nel Sahel: i movimenti in Azawad

La Francia era stata già presente militarmente nell’area del Sahel con la missione Serval. Il presidente Hollande nel 2013 è intervenuto con tale operazione in esito ad alcuni accadimenti di particolare rilievo che avevano interessato il Mali. Dopo la caduta di Gheddafi, infatti, la maggiore instabilità del Sahel si era riscontrata nei territori sahariani del Nord del Mali, nella regione dell’Azawad, che dopo l’indipendenza dalla Francia nel 1960, sono passati a Bamako.

La caduta del regime dittatoriale libico infatti ha provocato la formazione di movimenti filoindipendentisti tuareg nei quali militavano non solo cittadini maliani, ma anche altri cittadini africani con un background militare non indifferente. Alcuni di loro provenivano proprio dalle fila militari lealiste di Gheddafi. Tali militanti insieme hanno fondato l’Mnla, ossia il Movimento di Liberazione dell’Azawad. Questo fenomeno e la concomitante condizione di malcontento nelle caserme militari e l’incapacità delle forze militari maliane di fermare gli stessi movimenti filo-indipendentisti, nonché l’appoggio fornito ai tuareg da parte di al-Qaeda, hanno contribuito in modo fondamentale alla determinazione del colpo di stato nel dicembre 2012 in Mali. Il colpo di stato è stato infatti condotto dai tuareg e dai gruppi estremisti islamici. Tuttavia, dopo il colpo di stato, i gruppi estremisti hanno sempre più limitato la presenza dei tuareg negli interventi militari e hanno portato il conflitto sempre più a sud del paese fino ad arrivare a Konna, località non lontana dalla capitale Bamako. A questo punto il governo maliano ha chiesto aiuto e supporto a Parigi e alle forze militari francesi, in accordo con la comunità economica degli stati dell’Africa occidentale.

Dall’operazione Serval a Barkhane

L’operazione Serval, quindi, prima attraverso dei bombardamenti aerei, poi con dei gruppi militari di terra, costringendo i ribelli a fuggire nuovamente a Nord, ha consentito che Bamako riacquisisse il controllo di quasi tutto il territorio del Mali. In seguito a tale operazione, nel 2014, i francesi con l’operazione Barkhane, sono intervenuti nuovamente a livello militare in Africa, non solo in Mali, ma anche in tutta la regione del Sahel comprendente i cinque stati sopracitati. L’operazione Serval, quindi, è stata ristrutturata e rinominata.

I colpi di stato

In ogni caso questa volta, nonostante la presenza militare della Francia, ad agosto del 2020, si è verificato un nuovo colpo di stato simile a quello del 2012. Infatti, vi è stato l’ammutinamento della base militare a Katim e il presidente Ibrahim Boubacar Keita è stato rimosso. Ritorna l’elemento comune al colpo di stato del 2012 del malcontento delle Forze armate del Mali rispetto al governo centrale.  Ad agosto del 2020 Amnesty International con un comunicato si è detta estremamente preoccupata per l’arresto dell’ormai ex presidente del Mali, Ibrahim Boubacar Keita, dell’ex primo ministro Boubou Cissé e di altri esponenti del deposto governo a opera del Comitato nazionale per la Salvezza del Popolo, autore del colpo di stato del 18 agosto 2020. L’organizzazione ha chiesto alla giunta militare che ha assunto il potere di liberare tutte le persone arrestate – tranne quelle per cui possono provare che siano state autrici di crimini riconosciuti dal diritto internazionale – e di impegnarsi a rispettare i diritti umani. Amnesty International ha espresso preoccupazione anche per la notizia riguardante la morte di 4 persone e il ferimento di 15 colpite da armi da fuoco in circostanze ancora poco chiare. Il colpo di stato si è verificato, come specifica l’organizzazione umanitaria, in un contesto di forte crisi politica, nata in seguito alla proclamazione dei risultati delle elezioni legislative dell’aprile del 2020 e acuitasi durante le proteste di massa, promosse e dirette, dal mese di giugno, dal Movimento 5 giugno Fronte patriottico di resistenza. Il 10 luglio scorso le proteste, infatti, ricorda Amnesty erano state soppresse dalle forze di sicurezza con estrema brutalità. Alla fine della giornata i morti erano stati almeno 14 e i feriti 300. La crisi istituzionale, infatti, è stata esacerbata dalla questione Covid, che ha provocato numerosi scioperi e un peggioramento del sistema educativo. Per tali motivi il presidente ha deciso il rinvio delle elezioni legislative in Mali e, in seguito, i giudici della Corte Costituzionale in Mali hanno accolto il ricorso dell’ex presidente Boubacar Keita assegnandogli 8 seggi in più rispetto a quanti ne risultavano dall’esito delle votazioni. Questo è stato uno degli elementi che ha portato al colpo di stato questa estate.

Milizie e gruppi terroristici

In tutta l’area del Sahel, ad ogni modo, si rileva la presenza costante di gruppi terroristi ed è per questo che molte forze internazionali ed europee hanno deciso di intervenire negli ultimi anni nella regione. Tra tali gruppi terroristici, tuttavia, ci sono state molte tensioni negli ultimi anni come tra al-Qaeda e Stato Islamico nel Sahel, per cui oggi, con riferimento alla regione, si parla di “terrorismo non unitario”. Tuttavia, vi sono anche moltissimi gruppi armati non terroristici (groupes armés non identifiès) che sono da considerarsi comunque pericolosi come quelli terroristici e così anche le forze armate maliane autrici di molteplici abusi che rappresentano un terzo delle violenze perpetrate nell’area. È bene, tuttavia, soffermarsi sui gruppi non terroristici presenti nell’area. La proliferazione di gruppi non statali armati nel Sahel ha determinato violenza e insicurezza nella regione; tali gruppi, come visto, oltre a quelli estremisti violenti, sono gruppi armati politicamente motivati, le milizie di autodifesa, i gruppi di sicurezza locali. L’aumento di tutti i gruppi armati presenti nella regione riflette in ogni caso l’incapacità degli stati del Sahel di esercitare il monopolio della forza in modo da proteggere efficacemente i loro cittadini e preservare l’integrità del territorio. Gli attori non statali infatti operano in modo scioccante in spazi in cui la presenza dello stato è debole o contestata, come per esempio le aree rurali e di confine, così come le aree maggiormente periferiche. Il Niger – nonostante una politica che afferma “tolleranza zero” verso le milizie locali e i gruppi di autodifesa – non è stato risparmiato dai gruppi estremistici violenti che stanno guadagnando sempre più terreno nel territorio nigerino. In Mali, invece, le regioni di Mopti e di Segon, interessate da conflitti secolari, da una limitata presenza delle forze di sicurezza dello stato e da un facile accesso alle armi, hanno condotto alla creazione di gruppi locali di autodifesa su base comunitaria e di milizie locali.

Ascolta “Le frontiere liquide del Sahel” su Spreaker.

I gruppi armati non violenti ed estremisti, ma politicamente motivati, invece in Mali sono stati ritenuti ufficialmente partner legittimi per lo stato con cui lavorare, come è avvenuto con gli accordi di pace e di riconciliazione del 2015.

Barkhane: una missione controversa

In questo scenario è importante capire quali siano dunque le prospettive per l’operazione Barkhane nel Sahel. Macron, infatti, ha ribadito l’impegno della Francia nell’area del Sahel con la missione, senza una diminuzione delle forze armate militari impiegate nell’area. L’obiettivo principale di Macron è quello di annientare militarmente i principali gruppi terroristi jihadisti che hanno fatto del Sahel la propria roccaforte. Barkhane è la più ingente missione europea su suolo africano e fornisce training, mentoring, supporto logistico ed intelligence alle forze armate e all’intelligence dei paesi del G5, in un’ottica di cooperazione governativa della politica di sicurezza contro il terrorismo. Tale ultima dichiarazione del presidente francese ha destato non poco stupore in ambito internazionale poiché Macron aveva precedentemente comunicato la volontà di ritirare circa 600 uomini facenti parte dell’unità di supporto in Burkhinabé, facendo trapelare l’intento di rimodulazione dell’intervento del contingente, in linea con parte dell’opinione pubblica francese che ha assunto opinioni critiche sulla missione.

Takouba: quando Barkhane non basta

Infatti, la Francia nella missione ha visto il verificarsi di molteplici incidenti e 55 vittime tra i militari francesi nonostante con Barkhane si siano riportati dei “successi” come l’uccisione di Abdelmalek Proukdel, il leader di al-Qaeda nel Maghreb islamico. La missione viene criticata perché concepita solo sotto il profilo militare e diversa dagli approcci degli stati G5 e delle Nazioni Unite che concepiscono come strumento utile per lo state-building, la riduzione dei conflitti e la capacità di negoziare con i principali gruppi insorgenti nell’area in quanto darebbe a Parigi la possibilità di strutturarsi come presenza di medio-lungo periodo nella regione del Sahel.

Conflitti e instabilità nel Sahel

Operazioni della Missione Takouba

Su queste basi infatti sembrerebbe nata l’idea della missione francese Takouba, ossia una missione che implicherebbe il coinvolgimento di altri paesi in sostegno alla propria attività militare nel Sahel alla quale hanno già aderito, a livello intenzionale, Belgio, Danimarca, Italia, Estonia, Olanda e Repubblica Ceca. Tuttavia, la missione Takouba sembra fondarsi più su un approccio massimalista che riflessivo, ossia poiché Barkhane non sta funzionando come previsto, occorre aggiungere altro supporto militare e quindi chiedere ad altri paesi europei di partecipare alla propria missione militare con forze congiunte.

Al proposito Antonio Mazzeo può approfondire l’aspetto relativo all’impegno militare, estendendo il discorso a strategie neocolonialiste

Ascolta “Missioni coloniali in Sahel: tassello della guerra globale e della spartizione del mercato africano” su Spreaker.

Le armi come aiuti umanitari

I conflitti armati nel Sahel hanno coinciso con un aumento di importazione delle armi da parte dei paesi G5, in particolare Mali e Burkina Faso. Alcuni di questi trasferimenti sono stati finanziati dall’Unione Europea o sono stati consegnati come aiuti umanitari da parte della Francia, del Qatar o degli Emirati Arabi Uniti. Secondo il Sipri, infatti, diverse grandi potenze stanno usando le forniture di armi come uno strumento di politica estera per aumentare l’influenza nell’area.

Inoltre, in Niger si è registrata negli ultimi giorni una recrudescenza dei conflitti che desta grande preoccupazione a livello internazionale. Il 15 marzo 2021 sono rimaste uccise 58 persone e si registrano molti feriti in seguito all’attacco sferrato contro gli abitanti dei villaggi che facevano ritorno dal mercato settimanale di Banibangou, nella regione di Tilabèri, in prossimità del confine con il Mali.

Insicurezza interna

Gli autori di questa strage anche in questa circostanza sono ritenuti “gruppi armati non identificati”; il medesimo giorno i gruppi hanno attaccato anche il villaggio di Darey Dey nel quale sono rimasti uccisi tutti gli abitanti e si sono verificati episodi di saccheggio, devastazioni e incendi. Lo scopo di tali attacchi è quello di costringere la popolazione locale, attraverso atti violenti e vandalici, a lasciare i territori di appartenenza. La sessa zona di Tilabèri, tra l’altro, era stata interessata a gennaio del 2020, da un’uccisione di massa rivendicata, in questo caso, dallo Stato Islamico nel Grande Sahara.

Ancora, il 21 marzo 2021 sono stati uccisi 40 civili nei villaggi di Intazayene, Bakorat, e AkiFakit nel distretto di Tillia, nella regione di Tahoua, sempre in prossimità del confine con il Mali. La regione stessa ospita diversi rifugiati maliani. In questa zona di confine normalmente operano diversi gruppi terroristi, in particolare lo Stato Islamico nel Grande Sahara. Anche la responsabilità di questo ulteriore drammatico evento viene attribuita a “non meglio identificati individui armati”.  In realtà, a causa dell’attacco nel distretto di Tillia, di domenica 21 marzo, è salito a 137 il bilancio delle vittime.

Tra dicembre 2020 e marzo 2021, mentre in Niger erano in corso le elezioni, infatti, sono state uccise complessivamente circa 262 persone, tutte civili, la maggior parte proprio da gruppi armati non identificati. La questione si incardina proprio nell’impossibilità di comprendere il fenomeno alla base di tali attacchi poiché quasi nessuno di essi è stato rivendicato. La tesi prevalente è quella, al momento, che tali gruppi armati non identificati vogliano operare, attraverso le proprie attività criminali, una sorta di pulizia etnica.

In questo momento storico dunque il Niger si trova ad affrontare, oltre agli atti di natura terroristica anche gli scontri politici determinati dagli esiti delle votazioni elettorali del 21 febbraio del 2021 che hanno decretato la vittoria ufficiale di Mahamane Bazoum, contestata fortemente dall’altro candidato, Mahamane Ousmane che ha denunciato brogli e ha promesso forti proteste nel paese. Per Bazoum, quindi, che assumerà la carica il prossimo, 2 aprile 2021, la questione securitaria è certamente la prima da affrontare.

Fonti:

L'articolo n. 2 – Mali e Niger: conflitti e instabilità nel Sahel proviene da OGzero.

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Popoli oppressi vs cinismo tattico: quale soluzione? https://ogzero.org/il-diritto-dei-popoli-all-autodeterminazione-le-lotte-comuni/ Fri, 26 Feb 2021 12:26:50 +0000 https://ogzero.org/?p=2482 Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano […]

L'articolo Popoli oppressi vs cinismo tattico: quale soluzione? proviene da OGzero.

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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano – al di là delle istanze religiose o nazionaliste – per la propria identità, con la volontà di liberare dal controllo dall’esterno di un territorio e delle genti che lo abitano.


Una premessa. Personalmente considero l’indipendentismo come uno degli aspetti assunti dalle lotte per i diritti e per l’autodeterminazione dei popoli. E l’indipendenza uno sbocco possibile, non un destino necessario.

Alla richiesta di analizzare la possibilità di un rapporto organico, stabile e strutturale tra anarchismo e indipendentismo di sinistra, ho sempre risposto con una buona dose di scetticismo.
Tuttavia, dato che le circostanze e le scelte mi avevano portato a solidarizzare con irlandesi, baschi, corsi, curdi e altri (in quanto vittime di una forma di oppressione, una delle tante che devastano questa “valle di lacrime”), senza mai rinnegare i miei trascorsi giovanili inequivocabilmente libertari, ho cercato di vivere dentro questa contraddizione. Per quanto mi è stato possibile, in base al principio della makhnovsina: «Con gli oppressi contro gli oppressori, sempre».
Che poi ci sia anche riuscito, questo è un altro paio di maniche.

L’apparato statale è indispensabile?

In una fase precedente, evidentemente in preda all’ecumenismo, mi ero spinto oltre, scrivendo che «lottare per il superamento della forma-stato a favore dell’autorganizzazione totale delle classi subalterne deriva da una concezione del mondo non dissimile da quella di chi teorizza il superamento dello stato-nazione per l’autorganizzazione della comunità popolare» 1). E mi salvavo l’anima aggiungendo un indispensabile “Forse”. Del resto le “nazioni senza stato” che hanno saputo sopravvivere, conservare tradizioni e linguaggi, combattere l’oppressione e lo sfruttamento e talvolta anche difendere la propria terra dal degrado, non dimostrano, magari senza volerlo, che l’apparato statale non è poi così indispensabile?
Penso quindi che tra libertari e indipendentisti di sinistra (“nazionalisti”? “nazionalitari”? “abertzale”?) ci si possa comunque sopportare, si possa convivere. E talvolta, di fronte al comune nemico del momento, solidarizzare, lottare insieme 2).

Lotte comuni e condivisione

La Storia infatti ha registrato lotte comuni contro capitalismo, fascismo e imperialismo, contro il nucleare e in difesa dell’ambiente, dei diritti umani e dei prigionieri…. Oltre naturalmente alla condivisione di repressione, galera, esilio. Non sono poi mancate reciproche contaminazioni, biografie familiari e personali che si sovrappongono, osmosi tra gruppi libertari e indipendentisti di sinistra.

[…]

Popoli manovrati

Ma negli ultimi anni lo scenario sembra essersi ulteriormente complicato. Non tanto per la possibilità, comunque scarse, di coniugare in maniera duratura le istanze libertarie con quelle indipendentiste. E nemmeno perché questi “nazionalisti” siano cambiati in peggio. Da parte mia mantengo un profondo rispetto per tutti quei militanti baschi, catalani, irlandesi o curdi (da Bobby Sands al Txiki) che hanno perso la vita cercando di coniugare liberazione nazionale e sociale.

Quello che è cambiato, sicuramente in peggio, è l’accresciuta capacità del sistema tecno-industriale-militare dominante (il “caro”, vecchio imperialismo, fase suprema eccetera eccetera) di strumentalizzare i movimenti di liberazione. Anche questo un “effetto collaterale” della globalizzazione? L’autodeterminazione rischia davvero di ridursi, come avvertiva il sociologo catalano Manuel Castells, a una variabile che si usa o si getta a seconda del caso?
Una questione che ovviamente non riguarda soltanto gli anarchici, ma tutta quella sinistra antagonista, non omologata e non addomesticata che ancora si confronta con il diritto dei popoli all’autodeterminazione.
Certo, per i colonizzatori il divide et impera non è una novità. Viene praticato con successo almeno dai tempi di Giulio Cesare.
Le milizie curde alleate della Turchia che (come ha riconosciuto il Parlamento curdo in esilio) parteciparono al massacro degli armeni durante il genocidio del 1915 possono aver fornito un protocollo per l’utilizzo da parte della Francia, e in seguito degli Usa, di alcune minoranze indocinesi contro la resistenza vietnamita. In Irlanda del Nord era il proletariato protestante, maggiormente garantito, a condurre la “guerra sporca” (omicidi settari, spesso indiscriminati) contro gli abitanti dei ghetti cattolici. Da sottolineare che entrambi, indigeni irlandesi e coloni scozzesi, erano di origine celtica (non germanica, come gli inglesi, angli e sassoni). Un elemento in più per sottolineare l’artificiosità e la strumentalità, a tutto vantaggio dell’imperialismo di Londra, della divisione in due comunità reciprocamente ostili.
Putin ha potuto “pacificare” la Cecenia con il ferro e con il fuoco, utilizzando anche bande di ex guerriglieri indipendentisti divenuti collaborazionisti. Sul piano religioso, sciiti e sunniti, a fasi alterne, vengono strumentalizzati in Medio Oriente. Lo stesso avviene con le popolazioni minorizzate – curdi, beluci, turcomanni – alimentando e armando le loro aspirazioni a una maggiore autonomia o all’indipendenza.

Contraddizioni e guerre tra poveri

Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e al-Da’wa, notoriamente filoiraniani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente gli Usa avrebbero utilizzato in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad al-Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?
Anche le “guerre tra poveri” che hanno insanguinato il subcontinente indiano danno l’impressione di essere state in parte manovrate. Nel 2007 alcuni gravi attentati compiuti in occasione di feste nazionali e anniversari dell’India, vennero inizialmente attribuiti ai gruppi islamici. Successivamente emerse la pista dei separatisti del nord-est (bodo, naga…). Nel secolo scorso lo scontro era stato particolarmente duro nell’Assam, dove la maggioranza della popolazione è induista. Dal 1989 al 1996 la guerriglia dei bodo (in maggioranza cristiani) avrebbe causato la morte di migliaia di persone. Nel dicembre 1996 un attentato al Brahamaputra Express, mentre attraversava l’Assam, provocò più di trecento morti. Ancora prima delle rivendicazioni, l’atto terroristico venne attribuito ai bodo che due giorni prima avevano fatto saltare un ponte ferroviario.

Strategia della tensione mascherata da lotta per l’autodeterminazione?

Molto probabilmente in alto loco qualcuno pensa che è “sempre meglio che si ammazzino tra di loro”, purché il controllo del territorio e delle risorse rimanga saldamente nelle mani di chi detiene il potere. Si tratti di un esercito di occupazione, di una multinazionale o di criminalità organizzata come nei pogrom di Ponticelli. E naturalmente anche l’oppresso, il diseredato di turno ci metterà “del suo”.
Un caso limite, a mio avviso, quello dei karen, in perenne fuga tra Birmania e Thailandia e che da qualche tempo verrebbero sostenuti da gruppi neofascisti europei.
Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale e di quelli autonomistici non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Non a caso Manuel Castells ha parlato di «indipendenze a geometria variabile», denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese «a seconda di chi, del come e del quando». Ricordava che osseti e abkhazi si erano ribellati contro la Georgia nello stesso periodo in cui i ceceni si sollevavano contro la Russia. Inizialmente gli Usa appoggiarono l’insurrezione cecena, ma tollerarono facilmente la repressione da parte della Georgia. Analogamente nel caso del Kosovo (dove è stata poi costruita un’immensa base statunitense) si è invocato il diritto all’autodeterminazione, mentre per il Tibet non si va oltre qualche protesta simbolica. Quanto agli uiguri, sembra quasi che non esistano come popolo.

Il cinismo tattico caso per caso

«Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione – ha scritto il sociologo catalano – sono frutto di un cinismo tattico» e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno «strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente». Gli esempi si sprecano. Pensiamo al diverso trattamento riservato ai curdi in Iraq, già praticamente autonomi (e alleati degli Usa a cui hanno consentito di installare alcune basi militari), mentre quelli della Turchia continuavano a essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, grande alleato degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. Nel 2010, dopo una serie di impiccagioni di militanti curdi che l’opinione pubblica mondiale aveva completamente ignorato, i curdi dell’Iran (Partito per una vita libera in Kurdistan, Pjak, considerato il ramo iraniano del Pkk attivo in Turchia) sembravano essersi rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva rivelato “Le Monde”, ma poi la situazione sembra essere cambiata).
Nel caso di Timor Est, la popolazione subì per anni un vero e proprio genocidio nell’indifferenza dell’opinione pubblica. Tra le poche eccezioni, negli anni Settanta, Noam Chomski e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip). Solo di fronte al rischio concreto di una dissoluzione dell’Indonesia intervennero le forze internazionali, ripescando l’ex guerrigliero Gusmão, leader del Frente revolucionària de Timor-Leste independente (Fretilin) per farne il presidente. Pare che inizialmente non ne fosse particolarmente entusiasta, dato che aspirava a ritirarsi dalla vita politica e darsi all’agricoltura. Paradossale che per garantire l’indipendenza di Timor Est venissero impiegati anche soldati inglesi provenienti dalle caserme di Belfast.
E a proposito di Belfast, due situazioni molto simili come l’Irlanda del Nord e il Paese basco negli ultimi anni sembravano aver imboccato strade antitetiche. Soluzione politica, abbandono della lotta armata da parte di Ira, Inla e delle principali milizie lealiste, liberazione dei prigionieri politici e cogestione del governo locale a Belfast e Derry.

Repressione, ancora casi di tortura, tregue effimere, illegalizzazione di partiti (Herri Batasuna, Batasuna, Bildu, Sortu…), associazioni ( Jarrai, Haika, Segi, Gestoras pro Amnistia, Askatasuna…) e giornali (“Egin”, “Egunkaria”) a Bilbo, Donosti e Gasteiz. Solo nel 2012, con la definitiva rinuncia alle armi di Eta e la possibilità per la “sinistra abertzale” di partecipare alle elezioni (con Sortu), si è riaperta la possibilità di una soluzione politica del conflitto. Ma al momento Arnaldo Otegi e altri esponenti indipendentisti rimangono ancora in galera (come se durante le trattative Blair avesse fatto arrestare Gerry Adams) e per i prigionieri politici baschi, in particolare per gli etarras, la situazione rimane molto difficile 3).
La mia ipotesi è che negli anni Novanta il «grande laboratorio a cielo aperto per la controinsurrezione» dell’Irlanda del Nord dovesse chiudere in vista della partecipazione britannica alle guerre in Afghanistan-Iraq e del ruolo fondamentale assunto da Londra. Meno convincente la tesi della conversione di Blair al cattolicesimo, anche se non si può mai dire. Quanto agli Usa, Clinton avrebbe agito per conservare il voto dei cittadini statunitensi di origine irlandese che solitamente votano per i Democratici.

L’ombra dei poteri globali

È ipotizzabile che in Irlanda del Nord la stessa Cia abbia dato una mano per togliere di mezzo qualche capo delle milizie lealiste (filobritanniche) che non aveva compreso la nuova situazione. Ipotesi formulata anche dal compianto Stefano Chiarini. Al contrario, già negli anni Novanta Washington inviava agenti della Cia nel Paese basco per coadiuvare l’apparato repressivo.
Il problema di “quale autodeterminazione” si pone soprattutto nel caso di stati nati dalla colonizzazione, dato che le loro frontiere sono state stabilite in base a trattati europei con cui si decideva arbitrariamente il destino delle popolazioni. I poteri globali reali (economici, militari, tecnologici) stabiliscono caso per caso, di volta in volta, se appoggiare una lotta di liberazione, legittimarne la repressione o anche inventarne una di sana pianta. Al limite della farsa l’episodio che ha visto un gruppo di aspiranti golpisti (quasi tutti membri di una loggia massonica) arruolare mercenari per sobillare la rivolta secessionista nel Cabinda, regione angolana ricca di petrolio. Episodio da segnalare per l’uso spregiudicato di due onlus (Freedom for Cabinda e Freedom for Cabinda Confederation) create appositamente per ricevere donazioni.

Alcuni casi esemplari, storici, di separatismo a puro uso e consumo di qualche potenza coloniale (come il Katanga di Tshombe nell’ex Congo belga) potrebbero tornare di attualità. Per esempio in Bolivia con Santa Cruz, capoluogo di una regione ricca, abitata prevalentemente da discendenti dei colonizzatori, che ha spinto per l’indipendenza. Chissà? Forse Evo Morales (il presidente boliviano esponente del Ma, Movimento al socialismo) ha rischiato davvero di finire come Lumumba, il presidente progressista del Congo, assassinato nel 1961 dagli sgherri di Tshombe al servizio dell’imperialismo belga.
E forse non è un caso che nel 2008, dopo anni di impegno a fianco dei popoli oppressi, la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip), riconosciuta dall’Onu e dall’Unesco, abbia definitivamente sospeso le sue attività. Fondata da Lelio Basso, la Lidlip è stata per trent’anni portavoce delle minoranze, delle popolazioni perseguitate, dei movimenti di liberazione dal colonialismo.

 

NOTE

1) Gianni Sartori, Catalogna – Storia di una nazione senza stato, ed. Scantabauchi, 2007.
2) Ovviamente mi riferisco all’indipendenza come sbocco di una lotta di liberazione, dall’oppressione coloniale classica, “da manuale”. Come nel caso di Algeria, Guinea Bissau, Mozambico, Angola, Irlanda… o dal “colonialismo interno” come potrebbe essere per i Paesi baschi, il Tibet e la Cecenia. A mio avviso si può legittimamente parlare di movimenti di liberazione quando la lotta è anche contro il sistema economico responsabile dell’oppressione (capitalismo, neoliberismo, capitalismo di stato…). Escludendo, per quanto mi riguarda, dall’interessante dibattito partiti come l’Adsav bretone, la Lega Nord o alcuni indipendentisti fiamminghi nostalgici del nazismo.
3) Ma l’auspicata soluzione politica del conflitto è tornata nuovamente al palo dopo la retata del 1° ottobre 2013 contro 18 esponenti di Herrira (tra cui il portavoce Benat Zarrabeitia). Il giudice Eloy Velasco ha accusato l’associazione basca per i diritti umani dei prigionieri politici di essere “un tentacolo di Eta” in quanto avrebbe organizzato manifestazioni di “esaltazione” dei prigionieri baschi.

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Spirali destabilizzanti avvolgono Cabo Delgado https://ogzero.org/cabo-delgado-periferie-insorgenti-creano-zone-franche-per-ogni-traffico/ Sun, 06 Dec 2020 09:16:27 +0000 http://ogzero.org/?p=1979 L’opportunismo jihadista sfrutta la pandemia Il terrorismo ha da sempre trovato nei periodi di crisi nuove opportunità per promuovere i propri obiettivi, e il coronavirus, per molti gruppi jihadisti è diventato un alleato fondamentale, quasi essenziale. La crisi economica innescata dalla pandemia, l’immobilismo di molti stati davanti al virus, hanno creato l’ambiente “ideale” nel quale i […]

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L’opportunismo jihadista sfrutta la pandemia

Il terrorismo ha da sempre trovato nei periodi di crisi nuove opportunità per promuovere i propri obiettivi, e il coronavirus, per molti gruppi jihadisti è diventato un alleato fondamentale, quasi essenziale. La crisi economica innescata dalla pandemia, l’immobilismo di molti stati davanti al virus, hanno creato l’ambiente “ideale” nel quale i miliziani di Allah hanno trovato nuovi spazi di movimento. L’Africa non è esente da tutto ciò. Anche se i numeri della pandemia non sono nemmeno paragonabili – per numero di morti e contagi – con quelli occidentali, il virus ha aggravato crisi economiche e sociali già di per sé precarie sulle quali, spesso, il jihadismo costruisce la sua fortuna. Se alcuni analisti si aspettavano un rallentamento della violenza terroristica, sono stati smentiti dai fatti. Anzi c’è stata un’accelerazione e i dati sono lì a dimostrarlo. Ma non solo.

Gli esperti, infatti, sottolineano che questi gruppi legati al terrorismo islamico sanno bene di non essere immuni al pericolo sanitario. Infatti, nell’incitare i propri membri a mettere in atto nuovi attacchi, il leader non mancano di diffondere documenti su come prevenire la diffusione del virus, in alcuni casi utilizzano anche le linee guida ufficiali dell’Organizzazione mondiale della sanità. Insomma, si ergono a difensori delle popolazioni più diseredate e dimenticate dai governi del continente africano. Il coronavirus, dunque, come arma per creare consenso.

Si allarga la spirale del Califfato nero sulle regioni subsahariane

In tutta l’Africa i gruppi che si ispirano all’Isis e ad al-Qaeda sono attivi più che mai, e non solo nella regione del Sahel piombata nel caos con il ripetersi di attentati terroristici per mano di gruppi jihadisti che stanno mettendo fuori controllo paesi come il Mali e il Burkina Faso. Con il rischio concreto che a sud della Libia nasca un Califfato nero. L’attenzione è dunque massima in Sahel, soprattutto da parte delle potenze mondiali che seguono quanto sta succedendo. Il contesto è andato deteriorandosi di mese in mese. Le operazioni militari, in particolare quelle della Francia, sembrano non avere il successo sperato. Di certo, oggi possiamo chiamare questa fascia di territorio che va dalla Somalia alla Mauritania fino al Senegal… Il Sahelistan, per paragonarlo ai grandi spazi dell’Afghanistan e del Pakistan e per il ruolo che gioca il terrorismo internazionale. Un nome non casuale: in questa regione regna il caos.

Il Sahelistan

I jihadisti hanno alzato il livello dello scontro un po’ ovunque, seminano terrore, anche se non controllano concretamente territori – per ora – come hanno fatto in Medio Oriente. Ma molta parte del continente è teatro di scontri e attentati feroci. Nell’Africa Occidentale, nelle regioni a maggioranza musulmana. In Somalia dove al Shabaab terrorizza la popolazione da anni, nell’Est della Repubblica democratica del Congo dove la guerra fa parte della quotidianità e dove le risorse naturali sono enormi. In Nigeria dove Boko Haram ha moltiplicato i suoi attacchi. Nel Nord del Mozambico dove l’islam è radicato da secoli e dove da tre anni imperversa un gruppo affiliato all’Isis. I terroristi sanno approfittare delle debolezze dei governi, che si tratti di stati “falliti” come la Somalia o impotenti come la Nigeria. La pericolosità di questi gruppi, e le conseguenti difficoltà da parte dei governi nazionali e delle coalizioni internazionali nel combatterli, sta proprio nel fatto che non vi è una struttura gerarchica e, dunque, un centro di controllo unico. Piuttosto operano in “franchising” come capita in molti paesi dove, per altro, cambiano persino nome o si appropriano di altre sigle, pur non avendo la stessa matrice di affiliazione. E il caso del jihadismo in Mozambico è emblematico, relativamente giovane, e che già sta varcando i confini lanciando i propri attacchi in Tanzania. Il “caso” Mozambico merita un approfondimento.

Di qua e di là del fiume Ruvuma

La spirale esplosiva della povertà intrecciata a quella jihadista

L’orrore non ha limiti in un Mozambico squassato dal terrorismo jihadista, in particolare nella regione del Nord di Cabo Delgado. Una regione dimenticata dallo stato, dove si fatica a vivere e ad arrivare a fine giornata. La povertà è dilagante. Ma Cabo Delgado è anche una regione ricca di risorse. Qui agisce e opera un gruppo jihadista che inizialmente si faceva chiamare al-Shabaab “i giovani”, come il gruppo jihadista somalo. Non è chiaro, tuttavia, se e quali legami esistano tra i due gruppi. Di certo la versione mozambicana fa riferimento all’Isis, mentre quella somala ad al-Qaeda. Tanto che nel rendere note le sue azioni fa sfoggio di passamontagna e drappi neri tipici dello Stato Islamico. La ferocia, poi, è tipica di questi gruppi. L’affiliazione all’Isis, tuttavia, non è verificabile, potrebbe essere semplicemente emulazione e una sorta di “libero franchising”. L’inizio, anche un po’ sgangherato, delle azioni terroristiche di questo gruppo viene fatto risalire al 5 ottobre del 2017 quando vengono attaccate tre stazioni di polizia nella città di Mocimboa da Praia. Da lì inizia una spirale di violenza in un’area periferica, tradizionalmente tranquilla ed economicamente depressa, tra le più povere del paese.

Cabo Delgado

Zona di attività insurgentes, Nord del Mozambico

La spirale implosiva dell’impotenza mercenaria di fronte al caos assoluto

Il governo, in più riprese, ha sferrato dure offensive contro i gruppi terroristici, ma con successi alterni, riprendendosi territori occupati dai jihadisti, per poi riperderli.  In molte occasioni ha fatto affidamento su mercenari provenienti dall’estero: i Wagner, russi, e mercenari provenienti dal Sudafrica. Operazioni che non hanno avuto grande successo. I mercenari russi, già attivi in Siria, Libano e Repubblica Centrafricana non sono riusciti a venire a capo della ribellione. Non si sa molto, per ovvie ragioni, delle loro attività nel paese, ma di certo hanno subito diverse perdite tra le loro fila. Così come i mercenari sudafricani che avrebbero perso, oltre che uomini anche mezzi. Questi gruppi, ben addestrati e armati, sembrano essere impotenti di fronte al dilagare dell’offensiva jihadista. Questi fatti, inoltre, definiscono un salto di qualità del gruppo terroristico che nel Nord del paese si fa chiamare Ahlus Sunna wal Jamaa, puntando a sconfinare in Tanzania, attraversando e seguendo il corso del fiume Ruvuma.

La spirale di violenza attinge forza da periferie insorgenti e… dal mare

Se i primi attacchi sono stati infatti portati con mezzi di fortuna (coltelli, machete…), quelli organizzati di recente hanno fatto registrare un balzo di qualità. I miliziani sono dotati di armi automatiche nuove ed efficienti. Non solo. Anche il livello di addestramento è cresciuto. Questi gruppi sanno impiegare in modo professionale ed efficace gli armamenti di cui dispongono. Il vescovo cattolico di Pemba, Luiz Fernando Lisboa ha spiegato, recentemente, che questi uomini, che inizialmente si spostavano con vecchie motociclette, «ora hanno armi e veicoli e possono eseguire attacchi su vaste aree».

Gli attacchi non si placano. Dopo aver occupato numerose cittadine e aver terrorizzato migliaia di persone, i miliziani che si rifanno all’Isis, hanno lanciato raid contro alcune isole al largo di Palma e sono rientrati in alcuni centri abitati nel distretto di Muidumbe dove di recente le forze governative erano riuscite a stabilire propri presidi. Non solo i ribelli sono riusciti ad annullare i progressi parziali che erano stati compiuti dalle forze governative ma, ed è un particolare nuovo, hanno dimostrato la capacità di condurre attacchi di un certo rilievo anche via mare. Un fatto che ha messo a rischio collegamenti, fino a poco tempo fa sicuri, e che hanno convinto il governo a sospendere almeno per ora i rifornimenti via mare per la città di Palma.

La spirale speculativa: una zona franca di traffici di persone ed eroina, gas ed estrazionismo, fauna e legname

Lo scopo dichiarato di questi gruppi è voler imporre l’islam radicale. Formalmente, appunto, perché dietro questa dichiarazione di intenti si nasconde il traffico di stupefacenti e lo sfruttamento illegale delle miniere, di cui il Nord del Mozambico è ricco. E si fanno forti della povertà che regna in quel territorio mozambicano. Come se ci fosse una sorta di “islamizzazione della rivolta”. Una reazione alla marginalità e alla povertà profonda in un’area ricca di risorse minerarie e di giacimenti di petrolio.

spirale speculativa

Piattaforme nell’Oceano Indiano

Il fatto che i gruppi islamisti del Mozambico ricevano probabilmente armi, munizioni e attrezzature dall’esterno non è l’unico segnale che li avvicina ad altri gruppi che operano nel continente africano. Eric Morier-Genoud, un accademico di Belfast esperto di Mozambico, sottolinea che esistono forti somiglianze tra l’evoluzione dell’insurrezione in Mozambico e l’emergere di Boko Haram nel Nord della Nigeria.

La spirale di terrore degli sfollati

A farne le spese è, come sempre, la popolazione inerme, che fugge dai villaggi, si nasconde nella boscaglia per non essere sgozzata. Secondo la Displacement Tracking Matrix dell’Oim, almeno 424.000 persone sono sfollate alla fine di settembre, un aumento del 17 per cento rispetto al mese precedente. Sul totale degli sfollati, oltre 144.000 si trovano in aree difficili da raggiungere a causa di problemi di sicurezza. «Abbiamo dovuto lasciare la nostra zona a causa di molteplici attacchi e trasferirci nella città di Pemba – ha detto Nlabite Chafim, una delle otto persone della stessa famiglia che sono fuggite a piedi attraverso le foreste a luglio prima di trovare un mezzo di trasporto per la capitale provinciale –. Mia nipote ha assistito all’uccisione dei suoi genitori, e lei non è più la stessa».

«Sembra stiano cercando di rimuovere l’intera popolazione della parte settentrionale della provincia di Cabo Delgado, cacciando la gente comune senza alcuna pietà», spiega suor Blanca Nubia Zapata, religiosa delle Carmelitane Teresiane di San Giuseppe, in un colloquio con la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS). La religiosa risiede a Pemba, il capoluogo della provincia nel mirino dei terroristi. «Nelle ultime settimane sono arrivate qui oltre 12.000 persone. Alcuni sono morti lungo la strada. Sono 180 chilometri, ma non potete immaginare cosa siano le nostre “strade”, tre o quattro giorni di seguito senza cibo, senza acqua, con bambini sulle spalle. Ci sono donne che hanno partorito per strada. Sono semplicemente terrorizzati. Molte famiglie – prosegue Sister Blanca – ci hanno chiesto aiuto e le abbiamo messe in salvo nella scuola».

Il vescovo di Pemba, Luiz Fernando Lisboa, in un video di Caritas Mozambico inviato ad ACS, descrive la situazione di Paquitequete, un sobborgo della capitale che si affaccia sulla costa: «Sono arrivati già 10000 rifugiati e altri sono in arrivo. Non hanno un luogo in cui dormire, solo coperte e rifugi improvvisati. Alcune persone sono morte durante il tragitto. Si tratta di una situazione umanitaria disperata – prosegue il prelato – per la quale stiamo chiedendo, anzi implorando l’aiuto e la solidarietà della comunità internazionale».

Le testimonianze si moltiplicano e descrivono l’orrore che le popolazioni stanno vivendo. Testimonianze che, in particolare, arrivano da svariate realtà missionarie che operano nell’area e che hanno la possibilità di poterle raccontare perché in contatto costante con le case madri in occidente.

Sfollati Mozambicani

La spirale di un conflitto asimmetrico su base continentale

Il villaggio di Muambula è diventato quasi un luogo fantasma: gli abitanti sono fuggiti tutti, tranne qualche persona molto anziana. Il distretto di Muidumbe, nella provincia di Cabo Delgado, conta circa 80000 abitanti ed è composto da 26 comunità, per la maggior parte di etnia maconde. Si tratta perlopiù di gente dedita all’agricoltura. Qui vive e lavora padre padre Edegard da Silva, missionario brasiliano della congregazione Nostra Signora de La Salette. La sua testimonianza è stata raccolta dalla rivista “Nigrizia”: «Molti ci chiedono il perché di questa guerra che dura ormai da tre anni. Per noi missionari che viviamo con la gente di questi villaggi, l’unica risposta è che questa guerra ha ucciso molte persone innocenti. Sono i poveri che muoiono. E non hanno nulla a che fare con le motivazioni che portano i jihadisti per prendere il controllo della regione. Più di 500000 persone sono state costrette ad abbandonare le loro terre e comunità. Una parte di questi profughi, spesso intere famiglie, sono accolti da amici e parenti nelle altre cittadine della regione; altri vivono, in condizioni precarie, nei campi profughi costruiti dal governo. È una guerra crudele, folle, diabolica, che separa le persone». Il missionario, tuttavia, tiene a specificare che i jihadisti non compiono attacchi mirati contro le missioni cattoliche. Le incursioni hanno lo scopo di destabilizzare l’intera comunità, colpendo i servizi essenziali come gli ospedali, le scuole o le banche. E conclude «Al momento non possiamo contare sulle forze di sicurezza. Non si vede, da parte loro la capacità o la volontà di proteggere questo territorio».

Per affermarsi, questi gruppi sfruttano i risentimenti locali, la miseria, l’abbandono delle popolazioni locali da parte del governo centrale e l’arretratezza economica osservata nello sviluppo della regione. Una volta affermata la loro presenza, i gruppi terrorizzano le comunità per creare un clima di paura ma offrono anche un’alternativa ai giovani disoccupati che accettano di essere arruolati.  Il Nord del Mozambico, infatti, è una regione complessa. Ha sofferto molto durante la guerra di indipendenza (1964-1974) e durante quella civile (1977-1992) ed è una delle aree più trascurate del paese. A livello nazionale, ha i più elevati tassi di analfabetismo, disuguaglianza e malnutrizione infantile. È una delle poche province a maggioranza musulmana – mentre il resto del paese è cristiano – ma è un islam moderato che, da sempre, segue una tradizione sufi moderata. Il Mozambico, dopo aver cercato di minimizzare la minaccia, ha iniziato a schierare un numero maggiore di poliziotti e militari per controllare meglio la regione.  Un’operazione per rassicurare anche gli investitori stranieri che hanno investito milioni di dollari per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel Nord.

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La montagna di Doha e il topolino del dialogo intra-afgano https://ogzero.org/la-montagna-di-doha-e-il-topolino-del-dialogo-intra-afgano/ Wed, 07 Oct 2020 09:38:26 +0000 http://ogzero.org/?p=1432 A quasi un mese dallo storico incontro di settembre tra Talebani e governo di Kabul l’unico passo avanti lo fa la guerra. Mentre il presidente afgano Ashraf Ghani reiterava il 21 settembre dal podio virtuale delle Nazioni Unite la sua richiesta di un cessate il fuoco nel paese, le statistiche del Ministero dell’Interno di Kabul […]

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A quasi un mese dallo storico incontro di settembre tra Talebani e governo di Kabul l’unico passo avanti lo fa la guerra.

Mentre il presidente afgano Ashraf Ghani reiterava il 21 settembre dal podio virtuale delle Nazioni Unite la sua richiesta di un cessate il fuoco nel paese, le statistiche del Ministero dell’Interno di Kabul stimavano a un centinaio le sole vittime civili in 24 province nelle ultime due settimane seguite allo storico incontro del 12 settembre a Doha. In quella data, formalmente per la prima volta, il governo di Kabul e i Talebani si sono incontrati dando vita al tanto sospirato dialogo intra-afgano. Ma da allora le bocce sono rimaste ferme, segnate da combattimenti e incidenti il cui bilancio è di decine di morti anche tra le forze di sicurezza afgane e la guerriglia. Le due delegazioni, rappresentate da altrettanti “gruppi di contatto”, hanno da allora cercato faticosamente di stabilire l’agenda di discussione che dovrebbe impegnare l’Alto Consiglio di pace – che ha da Kabul il mandato a trattare – e gli inviati della shura di Quetta, che dovrebbero rappresentare la variegata e disomogenea galassia talebana. Ma all’inizio di ottobre le tante riunioni preliminari hanno prodotto scarsi risultati mentre il calendario continua invece a segnalare raid aerei, incursioni nei villaggi, uccisioni mirate, accuse reciproche un po’ ovunque nel paese. Se il primo obiettivo doveva essere una tregua o almeno una diminuzione delle ostilità, il risultato è ancora uguale a zero.

All’interno: una pace scomoda

I punti in discussione dell’agenda negoziale dovrebbero essere una ventina ma il primo scoglio (a parte il sospirato cessate il fuoco) sembra sia il dovuto riconoscimento dell’accordo tra Talebani e americani, siglato sempre a Doha in febbraio. Per i Talebani è la premessa, per Kabul invece un riferimento da evitare poiché assegna al governo afgano un ruolo da comprimario e non certo da protagonista. Un protagonismo che i Talebani vogliono tenere per sé. Vogliono e debbono, poiché al loro interno l’ala radicale (non si sa per ora quanto forte) incalza il gruppo dirigente che rischia, con la pace, di lasciare disoccupati decine di capibastone e di militanti cui premono più le singole rendite di posizione che non il futuro equilibrio pacifico del paese. Cosa altrettanto vera tra i sostenitori del governo che si stanno comunque armando, semmai le cose dovessero precipitare.

Dall’estero: denaro e forze militari

C’è dunque una dinamica interna (intra-afgana appunto) che si interseca con una dinamica esterna che riguarda attori primari e secondari del conflitto le cui sedi si trovano fuori dal paese. In primis gli Stati Uniti con le incombenti elezioni presidenziali. Poi tutti gli altri, alleati di questo (il governo) o di quella (la guerriglia) e a volte di entrambi. Cominciamo da Ashraf Ghani e dal suo litigioso esecutivo: molto dipenderà, a novembre, oltreché dall’esito delle elezioni americane, dall’esito della Conferenza dei donatori di Ginevra dalla quale si capirà quante risorse Europa e Stati Uniti intendono ancora impegnare nel paese. Il flusso di cassa, sia per l’economia nazionale sia per le forze di sicurezza (circa 300.000 uomini tra esercito e polizia), diventa essenziale per Ghani poiché può garantire al governo di Kabul un elemento di forza da opporre alla temerarietà dei Talebani che pure si trovano nelle stesse difficili acque. Anche la guerriglia corre infatti il rischio di una “donor fatigue” dei suoi sostenitori abituali, dal Pakistan all’Arabia saudita al Golfo, senza contare le donazioni private o il sostegno di Iran, Russia e Cina che possono aprire o chiudere i rubinetti a seconda delle convenienze. Con pochi denari anche la guerriglia potrebbe trasformarsi in una presenza militare più debole nelle campagne afgane, caposaldo militare degli studenti coranici. Nonché in un indebolimento della leadership del loro capo “ufficiale”, quel Mawlawi Hibatullah Akhundzada, criticato da quanti si sentono traditi dal negoziato o che vedono nella pace una diminuzione dei propri poteri di controllo territoriale su diverse aree del paese. È su queste basi (i soldi e la forza militare) che si giocherà probabilmente la vera partita tra Talebani e Kabul: più ancora che sulla futura forma di governo, sui diritti civili e di genere, sull’istruzione, sul voto, sul ruolo dell’islam. Temi gravati dall’incognita Covid-19 che ufficialmente – ma le riserve sul dato sono molte – conta pochi casi (39.422 al 6 ottobre) e poche vittime (1466) ma che resta una variabile con cui tocca fare i conti.

Il ritiro delle truppe condizionato

Su tutto ciò regna incontrastata la guerra anche se, questa volta, ai combattimenti partecipano solo afgani e il conflitto sembra essere tornato nell’alveo di una guerra civile, senza più l’aiuto di forze esterne – almeno ufficialmente – anche se le forze esterne (Usa, Nato) restano nel paese se non altro per “osservare”. Senza utilizzare le armi ma anche senza smettere di addestrare l’esercito afgano e continuando a pagare gli stipendi, un elemento fondamentale per tenerlo insieme. Al momento dunque nessuno abbandona gli afgani al loro destino e se, sulla base dell’accordo Usa-Talebani firmato il 29 febbraio 2019 a Doha, gli Stati Uniti hanno deciso di lasciare l’Afghanistan entro 18 mesi e hanno iniziato a far tornare a casa parte della truppa, il segretario di stato Mike Pompeo ha messo le mani avanti. Ha sottolineato che Washington cercherà di ritirare i soldati entro la primavera del 2021 ma anche che il ritiro è condizionato dalla completa cessazione delle ostilità dei gruppi terroristici come al-Qaeda e Stato Islamico nel Khorasan (Isis), per ora ancora attivi in Afghanistan. Una carta di riserva, insomma.

La Nato rimane sul terreno

Quanto alla Nato, per ora si resta con quasi 16.000 uomini (8000 statunitensi, 1300 dalla Germania, 950 dalla Gran Bretagna, 895 dall’Italia, 860 dalla Georgia, 600 dalla Turchia e così a scalare tra i 38 membri Nato della missione Resolute Support. Missione no-combat anche se in questi anni l’Alleanza ha operato anche militarmente, pur senza fanfare, al fianco dell’esercito afgano. Ora dovrebbe limitarsi ai consigli in attesa che gli americani decidano quel che succede o deve succedere. Le incognite restano tante in attesa che si sblocchi (ovvero inizi) il negoziato tra le due delegazioni. Mentre il paese continua a pagare il suo tributo al conflitto più lungo della Storia recente a cavallo di due secoli.

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Tuareg, i curdi dell’Africa? https://ogzero.org/il-deserto-diventa-pantano-in-libia/ Fri, 02 Oct 2020 11:28:43 +0000 http://ogzero.org/?p=1333 L'indipendenza e autodeterminazione dei popoli del Fezzan e della Nigeria passa attraverso la collaborazione tra tuareg e tebu, ma anche contro il neocolonialismo occidentale, soprattutto francese, che mira a controllare oro, uranio, petrolio, acqua e vuole imporre la sua presenza militare attraverso missioni Onu con il pretesto di combattere il jihadismo, con cui brevemente e riconoscendo l'errore il popolo azawad si era alleato nel 2013

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Se non proprio malevola, almeno superficiale.

Così almeno mi era apparsa la semplificazione mediatica con cui si proiettava lo spettro jihadista sull’ultima – per ora – ribellione tuareg. Arrivando a sostenere che certe etnie del Mali non potevano essere altro che “vittime o complici dell’islamismo più feroce”.

Tertium non datur.

In realtà – credo – la questione è più complessa. Si doveva, almeno, precisare quale fosse – e quale sostanzialmente sia – la condizione in cui versano i tuareg. Quella di una “nazione senza stato” che vive, si sposta e – se del caso – combatte ben oltre i ristretti confini del Mali. Per inciso. Appare evidente l’analogia con la nazione curda, ugualmente frantumata da vari confini statali, più o meno artificiosi, a seguito dei ben noti processi di “decolonizzazione controllata” del secolo scorso.

Invece si è cercato di interpretare la diffusione, il dilagare dell’islamismo radicale come effetto collaterale del “rientro” (in realtà una dispersione) delle “milizie nomadi” (in parte costituite da combattenti tuareg) già “alleate del beduino Gheddafi”. Senza interrogarsi in merito alle ragioni che avevano spinto molti tuareg, legati o meno al Mnla (Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad) in Libia.

Indipendenza e autodeterminazione azawad

Alla fine del Novecento le lotte per l’indipendenza (o almeno per l’autonomia, il decentramento) e gli scontri armati tra le milizie tuareg e gli eserciti di Mali e Niger risultarono deleteri soprattutto per le popolazioni civili, oggetto di repressione e brutali massacri.

Come per esempio nel 1990 a Tchin Tabaraden in Niger.

E forse non è un caso che anche attualmente nel Niger permangano gruppi armati che lottano per l’autodeterminazione. Tra questi il Mnj (Mouvement des Nigériens pour la justice).

Oltre alla liberazione dei prigionieri politici tuareg e alla possibilità di svolgere liberamente attività politica, il Mnj esige dal governo di Niamey la fine dello sfruttamento coloniale dei territori abitati dai tuareg (vedi le miniere di uranio, devastanti per la salute della gente, in mano alle multinazionali straniere come la francese Areva).

Altra organizzazione armata in parte ancora operativa (o almeno nel primo decennio del XXI secolo) il Front des forces de redressement. Avrebbe (meglio il condizionale in attesa di conferme) invece deposto definitivamente le armi il Front patriotique nigérien.

La svolta islamista: faida interna e non conversione religiosa

Comunque, tornando alla caduta di Gheddafi, all’epoca buona parte dei tuareg prese la via del ritorno. Talvolta portandosi appresso una discreta quantità di armamenti sofisticati. Salvo poi – magari incautamente – venderle a gruppi jihadisti ben riforniti di petrodollari. Peggio ancora. Qualche ex esponente del Mnla (vedi Iyad Ag Ghali) si era avvicinato da tempo alle milizie jihadiste, anche in contrapposizione con gli ex compagni di lotta.

Più che una conversione religiosa, la vedrei come il risultato di personalismi, concorrenze e faide interne.

Risaliva al 6 aprile 2012 la dichiarazione unilaterale di indipendenza dell’Azawad che di fatto aveva temporaneamente spaccato il Mali in due. Ma dopo nemmeno venti giorni – forse per inesperienza, stupidità o sotto minaccia come nei matrimoni forzati – alcuni referenti del Mnla presenti sul campo firmavano un accordo-capestro con Ansar al-Din, gruppo islamista finanziato da al-Qaeda nel Maghreb islamico. Con la velleitaria creazione di un Consiglio transitorio dello Stato Islamico dell’Azawad formato da 40 membri, 20 del Mnla e 20 di Ansar al-Din.

Risvolto grave, l’applicazione della sharia e la costituzione della polizia islamica (hisba).

A sua parziale giustificazione Bilal Ag Sherif, segretario del Mnla e firmatario dell’accordo, sosteneva di aver agito per evitare una guerra interna tra tuareg e convincere i fratelli integrati in Ansar al-Din ad abbandonarne i ranghi.

Un accordo che era lecito definire una “mostruosità” e appunto come tale veniva sconfessato dal coordinamento dei responsabili del Mnla.

Il portavoce del Mnla Habaye Ag Mohamed riteneva «inconciliabile con la linea politica del Mnla l’atteggiamento fondamentalista e in particolare il jihadismo salafita portato avanti da Ansar al-Din».

Bilal Ag Sherif, firmatario del documento, veniva richiamato all’ordine e costretto a rompere tale accordo.

Per Nina Valet Intalou, esponente dell’Ufficio esecutivo del Mnla, bisognava «rigettare categoricamente questo accordo, perché cercare di evitare una guerra fratricida non significa accettare il diktat imposto da gruppi oscurantisti».

Il documento, spiegava: «era stato firmato pensando che i nostri fratelli tuareg schierati con Ansar al-Din avrebbero lasciato questa organizzazione terroristica. Avremmo potuto accettare uno Stato islamico democratico, pensando che noi siamo già musulmani. Ma il documento proposto da Iyad Ag Ghali è veramente contrario agli obiettivi del Mnla e alla nostra cultura. Quello che lui vorrebbe è uno stato talebano».

Ovviamente nel 2012 il confronto veniva spontaneo con i talebani. Oggi probabilmente si evocherebbe lo spettro dell’Isis.

Donne e giovani protestano contro i fondamentalisti

A conferma dell’estraneità tra il movimento per l’autodeterminazione tuareg e l’integralismo islamista, già il 5 e il 6 giugno 2012 centinaia di donne e di giovani della città di Kidal scendevano in strada per protestare contro i fondamentalisti. Successivamente, nella notte tra il 7 e l’8 giugno, si registravano scontri armati tra i militanti di Mnla e quelli di Ansar al-Din.

Purtroppo la storia della lotta tuareg per l’autodeterminazione (sia indipendentista che autonomista) è da sempre attraversata da scissioni e conflitti interni.

Lo stesso leader di Ansar al-Din, Iyad Ag Ghali, in precedenza si era distinto come promotore delle rivolte degli anni Novanta del secolo scorso.

Ma, almeno fino al 2012, le istanze dell’islamismo radicale non avevano – pare – trovato spazio significativo all’interno del movimento tuareg, da sempre sostanzialmente laico.

Successivamente, nel giro di qualche mese, il Nord del Mali finiva quasi completamente in mani jihadiste (oltre ad Ansar al-Din, erano entrati in azione anche il Mujao (Movimento unicità e jihad nell’Africa dell’Ovest) e direttamente Aqmi, Al-Qaïda au Maghreb islamique). Ma con la riunione internazionale di Bamako del 19 ottobre 2012 si avviava quel «progetto di intervento militare credibile» richiesto nella settimana precedente alla Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest (Cedao) e all’Unione Africana. La Francia riusciva a coinvolgere i 15 paesi membri del Consiglio di Sicurezza e porre la questione sotto il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite (in quanto la situazione del paese africano costituiva «una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale»). Il resto è cosa nota. Prima l’intervento diretto dell’esercito francese (aviazione, forze speciali…) per riprendere il controllo di Gao, Timbuctù, Kidal, Tessalit… con l’Operazione Serval (dal nome di un felino africano) dal gennaio 2013 alla metà del 2014.

Operativi da gennaio anche alcune centinaia di soldati africani (provenienti da Niger, Benin, Nigeria e Togo) della Missione internazionale di sostegno al Mali (Misma).

Barkhane e Takouba ma la guerra non si ferma

Poi – dopo la costituzione della missione onusiana Minisma (Mission Multidimensionelle Intégrée des Nations Unies pour la Stabilisation au Mali) e una serie di operazioni dai nomi più o meno pittoreschi (Dragon, Constrictor, Centaure, Epervier…) dall’agosto 2014 l’intervento contro le bande salafite assumeva la veste di un dispositivo regionale: l’operazione Barkhane (dal nome di una duna “migrante” nel deserto) a cui partecipavano Mauritania, Burkina Faso, Ciad, Mali e Niger (comunque sottoposti alla direzione dell’Esagono).

Ma la guerra non si è fermata. Nemmeno dopo migliaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati. Un tragico bilancio a cui si deve aggiungere la denuncia di sistematiche violazioni dei diritti umani. Opera soprattutto di soldati africani nei confronti di civili arabi e tuareg (sbrigativamente – e comodamente – identificati come salafiti). Nel frattempo ha visto la luce anche Takouba (“spada di legno” – quella dell’Onore – in tamashek, la lingua dei tuareg), denominazione per le forze speciali europee che dovrebbero sostenere le truppe maliane nella lotta contro il terrorismo jihadista.

Stando alle dichiarazioni della ministra della Difesa francese Florence Parly, Takouba era già stata preannunciata da Macron in occasione dell’incontro di Pau, quello indetto proprio per tacitare le voci sul dissenso africano all’intervento francese.

Quanto al governo di Bamako, va riconosciuto che fin dal 2012 – in prossimità dei territori occupati dalle milizie jihadiste – venivano allestiti alcuni campi di addestramento.

Tuttavia – vuoi per mancanza di mezzi, vuoi per imperizia – risultavano alquanto scadenti. Con i volontari alloggiati in strutture provvisorie, senza armi e addirittura scarsamente riforniti di generi alimentari (letteralmente “alla fame” secondo alcuni visitatori, nemmeno in grado di compiere l’addestramento). Com’era prevedibile, molti disertarono per raggiungere Ansar al-Din e il Mujao, Organizzazioni ben finanziate, in grado di garantire «assistenza economica alle famiglie di ogni combattente vivo o morto e un’abitazione fino al momento in cui i figli saranno in grado di sposarsi».

Un copione che si va ripetendo su larga scala anche in questi giorni.

Contraddizioni in seno ai popoli

Un bel casino, certamente. Senza dimenticare che oltre ai durevoli, tenaci contenziosi tra popolazioni indigene e governi statali ne permangono altri – non meno devastanti – tra le popolazioni stesse.

Troppo spesso strumentalizzati dai governi (e anche in questo Gheddafi aveva fatto scuola) in nome del sempre attuale “divide et impera”.

Come quello tra tuareg e tebu (il “Popolo delle Rocce”) chiamati ikaraden dai tuareg.

Un breve riepilogo

Nei suoi 40 anni di permanenza al potere Gheddafi aveva abilmente alimentato le reciproche ostilità tra le tribù arabe e alcune “minoranze” (in realtà popolazioni minorizzate in quanto separate dai confini statali, come i curdi o anche i baschi) presenti nel Sud della Libia: tebu e tuareg. Utilizzando gli scontri interetnici per controllare, discriminare, emarginare e reprimere. E i tuareg – in particolare nelle zone di frontiera – per far pressione su Algeria, Niger e Mali.

Dopo il 2011, con la caduta del regime, esplodevano le istanze di maggior autonomia politica da parte dei tebu per il controllo delle zone petrolifere e aurifere e delle vie di comunicazione. In particolare dei check-point utilizzati per sfruttare proficuamente i vari traffici legali e illegali (armi, medicinali, derrate alimentari, droga, alcolici e anche esseri umani).

Mentre la Libia sprofondava nel conflitto, in questo decennio i Tebu si sono imposti – talvolta anche violentemente – alle altre tribù (sia arabe che tuareg, se pur in diversa misura e in maniera differenziata) per trarre benefico dalla nuova situazione generatasi con la caduta ingloriosa del Colonnello. Nei territori meridionali della Libia – lì dove coabitano le varie etnie – sono presenti in grande quantità non solo l’ambita risorsa petrolifera, ma anche minerali rari e perfino l’acqua (per la presenza di vaste falde freatiche). Acqua di cui usufruiscono le popolazioni (il 90 per cento dei libici) che vivono nel Nord del paese.

Tuareg e tebu: scontri etnici tra apolidi

Non si deve comunque generalizzare. Occorre valutare la complessità delle relazioni che si vanno instaurando di volta in volta, di luogo in luogo. Relazioni, si diceva, varie e variabili (differenziate, variegate…), sia politicamente che economicamente.

Per esempio nel contenzioso per il controllo delle risorse tra tebu e tuareg nel Fezzan (nel Sudovest del paese) per un certo periodo sembrava prevalere l’aspetto militare, lo scontro armato.

In passato, in quanto minoranze non arabe, sia tebu che tuareg avevano subito evidenti discriminazioni (entrambi manipolati in funzione della politica “panafricana” di Gheddafi), ma in diversa misura.

Così, mentre migliaia sia di tuareg sia di tebu si ritrovavano sostanzialmente nella medesima condizione di apolidi, per i primi esisteva la possibilità di integrarsi vantaggiosamente nel sistema della sicurezza interna. Godendo quindi della possibilità di armarsi adeguatamente e di facilitazioni in campo economico (permessi di lavoro, accesso all’amministrazione…).

Gheddafi il garante dei tuareg

Del resto Gheddafi si presentava talvolta come un “garante”, un “sostegno”, un protettore anche dei tuareg del Mali e del Niger. Perfino nei confronti dei loro governi dai quali effettivamente subivano discriminazioni e repressione.

Questo può spiegare la posizione assunta nel 2011 dai tuareg libici (a cui si aggregarono molti altri provenienti da Mali e Niger) che si schierarono con il regime.

Una scelta che in seguito avrebbero pagato duramente.

Ad aggravare ulteriormente il conflitto tra le due etnie, la chiusura nel 2014 della frontiera tra Libia e Algeria fino ad allora vantaggiosamente controllata dai tuareg. Di colpo questi si scoprivano privati di una preziosa fonte di reddito in quanto flussi commerciali, traffici e contrabbando venivano dirottati sulla frontiera con il Niger, tradizionalmente controllata dai Tebu. L’altra frontiera del Sud della Libia, quella con il Ciad, dal 2013 è interessata da un imponente traffico di oro estratto, spesso artigianalmente, dalle miniere del Fezzan. Anche questo un traffico gestito principalmente dai tebu.

La scelta infelice di una parte dei tuareg (ormai in difficoltà anche sul piano sanitario) di allearsi militarmente con elementi integralisti forniva ai tebu l’occasione per tacciarli di “terrorismo” (assimilandoli ai salafiti) e di presentarsi all’opinione pubblica internazionale come garanti della lotta al medesimo nel Sud della Libia. Così per esempio vennero interpretati gli scontri sanguinosi – con decine di vittime – del settembre 2014 a Ubari (storicamente feudo tuareg del Fezzan, ma con una forte presenza tebu) tra milizie tebu e tuareg. Scontri scoppiati inizialmente non certo per questioni ideologiche o religiose, ma semplicemente per il controllo dei check-point e di una stazione di servizio (oltre che, beninteso, dei cospicui giacimenti petroliferi della zona).

Il paradosso della riconciliazione

Per la cronaca. In un primo momento i tuareg ebbero la meglio, ma successivamente, nel 2019, persero nuovamente il controllo dei giacimenti, stavolta per mano dell’Esercito nazionale libico (Anl).

In questa circostanza le milizie tuareg e tebu si “riconciliarono” e costituirono un fronte comune per combattere contro l’esercito del generale Haftar.

Ennesimo paradosso del conflitto libico (talvolta, benevolmente, definito un ginepraio, ma più spesso un “autentico pantano”)?

Forse non proprio se pensiamo all’accordo di pace faticosamente conseguito e sottoscritto dalle due comunità nel 2015 a Doha.

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Galassia jihadista in Sahel https://ogzero.org/galassia-jihadista-in-sahel/ Mon, 06 Jul 2020 07:30:44 +0000 http://ogzero.org/?p=383 La guerra contro la diversità intraislamica: spettacolarizzazione della violenza tra brand dall’outbidding fino all’uccisione di Droukdel La pandemia di Covid 19 ha colpito il continente africano in modo più contenuto rispetto a gran parte del mondo, anche se non si può certo dire che lo abbia risparmiato. Nel quadrante del Sahel, una fascia di territorio […]

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La guerra contro la diversità intraislamica: spettacolarizzazione della violenza tra brand dall’outbidding fino all’uccisione di Droukdel

La pandemia di Covid 19 ha colpito il continente africano in modo più contenuto rispetto a gran parte del mondo, anche se non si può certo dire che lo abbia risparmiato. Nel quadrante del Sahel, una fascia di territorio dell’Africa subsahariana che comprende o lambisce una decina di paesi – Senegal, Mauritania, Ciad, Mali, Algeria, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Eritrea e Sudan – sono stati finora (a metà giugno) registrati in aggregato circa 60mila casi di Coronavirus, con un numero di decessi superiore ai 2mila. I picchi sono stati registrati prevedibilmente nei paesi più densamente abitati, come la Nigeria (16mila casi) e il Camerun (quasi 10mila).

L’emergenza sanitaria globale ha avuto sul pubblico europeo l’effetto di cristallizzare la percezione degli avvenimenti non correlati al coronavirus, come se sul mondo ci fosse un’unica finestra, affacciata sull’epidemia. È però bene tener presente che la pandemia non ha arrestato alcuni processi in corso, anzi, in alcuni casi li ha rafforzati. È anzi possibile sostenere che se essa non si fosse verificata probabilmente oggi si parlerebbe proprio del Sahel come l’area più calda e instabile del pianeta. È in questa porzione di mondo che la galassia jihadista mostra le evoluzioni e prefigura le prospettive più preoccupanti.

Nel solo mese di marzo, in corrispondenza dell’innalzamento del picco dei contagi in gran parte dei paesi del Sahel, i gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda e all’Isis hanno compiuto attentati sanguinari in Camerun, Nigeria, Burkina Faso (dove alla fine di aprile si contano quasi 900mila sfollati interni, aumentati di quasi 300mila da febbraio), Mali e Ciad, uccidendo centinaia di persone. D’altronde proprio in quei giorni l’Isis aveva diffuso un comunicato in cui invitava i suoi affiliati a «non avere pietà e lanciare attacchi contro gli infedeli durante la pandemia», considerata di per sé dall’organizzazione terroristica come una «punizione divina per i non musulmani».

Il 24 marzo, la fazione di Boko Haram guidata da Abubakar Shekau ha ucciso 94 soldati ciadiani in un’imboscata nei pressi del Lago Ciad, mentre nelle stesse ore perdevano la vita 47 soldati nigeriani in un’altra azione condotta dall’Islamic State in West Africa Province (Iswap), ossia l’organismo affiliato a Daesh in cui è confluita una parte dell’organizzazione Boko Haram. Pochi giorni prima, il 19 marzo, in Mali altri 29 soldati venivano uccisi in un attacco condotto dai miliziani qaedisti di Jama’a Nusrat al Islam wa al Muslimin (Gsim).

Nel mese di febbraio sono stati almeno tre gli attentati terroristici coordinati tra i due gruppi, che nel Levante arabo si fanno la guerra l’uno contro l’altro mentre in Africa occidentale, da qualche mese, sembravano aver iniziato a unire gli sforzi per prendere il controllo del territorio di stati politicamente e militarmente deboli. «I combattenti dei due gruppi sembrano coordinarsi negli attacchi e sembrano dividersi aree di influenza nel Sahel, concludendo accordi», aveva detto a fine febbraio alla Associated Press il generale delle Forze speciali americane, Dagvin Anderson. L’evoluzione del protagonismo operativo e dei rapporti tra al-Qaeda e Isis in questo quadrante sono aspetti che richiedono alcune riflessioni, perché il pesante deterioramento delle condizioni di sicurezza nel Sahel occidentale è in corso almeno da cinque anni, e anche perché potrebbero generare alcuni paradossi. Secondo le stime dell’International Centre for Counter-terrorism, con base in Olanda, solo nel 2019 sono state 4mila le persone che in quest’area hanno perso la vita in attentati condotti da organizzazioni terroristiche locali e transnazionali, riconducibili a Isis o al-Qaeda.

Questo scenario ha incontrato un punto di possibile svolta lo scorso 3 giugno, quando le Forze speciali francesi coinvolte nell’operazione Barkhane (cominciata nel luglio 2014) hanno individuato e ucciso in Mali l’algerino Abdelmalek Droukdel, capo di al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi).

3 giugno 2020: annuncio dell’uccisione di Abdelmalek Droukdel, capo e fondatore di al-Qaeda nel Maghreb islamico, in Mali ad opera della missione Barkhane

Abdelmalek Droukdel, laureato in chimica, ex veterano del Gis algerino, esperto in particolare di esplosivi, non era solo il responsabile della “internazionalizzazione” del jihad nella stessa Algeria e nel Sahel, della saldatura di movimenti di guerriglia locali al più ampio e transnazionale jihadismo globalista di al-Qaeda; era anche l’ultimo leader di etnia araba di al-Qaeda nel Maghreb (Aqmi). La sua morte suggerisce innanzitutto che il jihadismo locale rappresentato ora soprattutto dal Gsim è ben avviato in un processo di “africanizzazione” che passerà per il contestuale sfaldamento di Aqmi, più riconducibile a una leadership militare e a ideologi arabi, spesso legati alle prime generazioni di qaedisti (quelli che hanno combattuto contro i sovietici in Afghanistan).

Come spiega in un report del 2018 Djallil Lounnas, il Gsim è oggi il più potente gruppo jihadista attivo nel Sahel. È stato creato nel marzo 2017, risultato della fusione di quattro formazioni: il ramo saheliano di Aqmi guidato da Yahya Abu Al-Hammam (all’anagrafe Djamel Okacha, anch’esso poi ucciso dai francesi nel febbraio 2019); Al-Mourabitoun, formazione qaedista capeggiata da Mokhtar Belmokhtar; Ansareddine, milizia di ispirazione salafita con a capo Iyad Ag Ghali (sul quale si tornerà più avanti); e la katiba (battaglione) Macina, già precedentemente legata alla stessa Ansareddine, alla cui testa c’è il jihadista maliano di etnia peul-fulani, Amadou Koufa.

La guida del Gsim è stata assunta proprio da Iyad Ag Ghali: di etnia tuareg, Ghali ha lunghi trascorsi tra le fila delle legioni internazionali di Gheddafi. Poi è diventato un contrabbandiere, nemico del governo di Bamako, con cui all’inizio del nuovo millennio si riappacifica fino a ottenere l’incarico di consigliere culturale a Jedda, in Arabia Saudita, da cui sarà però espulso nel 2010 proprio per aver provato ad allacciare contatti con al-Qaeda. Nel 2011 prova a intestarsi la guida del Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (Mnla), una formazione di ribelli laici di etnia tuareg che vorrebbero l’indipendenza della regione, tenendosi ben a distanza da al-Qaeda. Fallisce nel progetto di farsi eleggere alla guida del gruppo e decide di fondare Ansareddine, col sostegno finanziario di al-Qaeda. Nel 2012 una guerra civile si esaurirà con il sostanziale inglobamento dello stesso Mnla nel Consiglio di Transizione dello Stato islamico Azawad.

È proprio ad Abdelmalek Droukdel e al capo di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, che Iyad Ag Ghali, il giorno della dichiarazione ufficiale di istituzione del Gsim, giura fedeltà. Ma non solo. La saldatura del Gsim al network jihadista globale è evidente quando ai nomi dei due terroristi si aggiunge quello di Hibatullah Akhunzada, leader dei Talebani afghani, riconosciuto qualche tempo prima “comandante dei credenti” dai vertici del gruppo fondato da Osama Bin Laden. La decisione di includerlo, inoltre, conferma un altro aspetto importante: il Gsim rigetta l’idea della fedeltà allo Stato Islamico proclamato a Mosul (Iraq) nell’estate 2014 da Abu Bakr al-Baghdadi. Da un punto di vista geopolitico, invece, si tratta di una risposta alla creazione – avvenuta ufficialmente nel 2014 – del G5 Sahel, una piattaforma di coordinamento soprattutto sui temi di sicurezza da parte di Mauritania, Burkina Faso, Ciad, Mali e Niger, sotto la leadership francese.

Parallelamente, nell’Est e nel Sud del Mali, nei pressi dei confini con Burkina Faso e Niger, è nato nel maggio 2015 il meno numeroso (circa 450 combattenti) tra gli “Stati islamici” dichiarati in giro per il mondo dalla comparsa sulla scena di Abu Bakr al-Baghdadi. Lo Stato islamico del Sahara maggiore (Isgs) è il risultato di una scissione all’interno del citato movimento qaedista di al-Murabitoun, che a sua volta è nato nel 2013 come “joint venture” tra il Mujao (Movimento per l’unicità del Jihad in Africa occidentale) e la katiba Mulaththamin (“battaglione degli inturbantati”) di Belmokhtar, separatosi dall’Aqmi. La nascita formale dell’Isgs viene riconosciuta dall’Isis, che ne proclama l’affiliazione ufficiale, oltre un anno dopo, nell’ottobre 2016.

Il motivo risiede nella sua scarsa popolarità locale rapportata a quella del Gsim, ben più radicato, e nel maggiore riguardo che i vertici dello Stato islamico hanno verso un altro Stato islamico, quello delle province dell’Africa occidentale (Iswap), in particolare la Nigeria. Si tratta di Boko Haram, il gruppo attivo dal 2009 e balzato agli orrori delle cronache occidentali soprattutto dopo il rapimento delle 276 ragazze chibok. Nel 2015 si affilia all’Isis, assumendo la denominazione di Iswap e diventando la più numerosa formazione jihadista riconducibile all’Isis di tutta l’Africa (quasi 4mila uomini). La guida nell’estate 2016 è affidata direttamente da al-Baghdadi ad Abu Musab al-Barnawi, figlio del fondatore di Boko Haram, Mohammad Yusuf, mentre una costola dell’Iswap continuerà a operare come Boko Haram, sotto il comando dell’irrequieto Abubakar Shekau (per certi versi marginalizzato dai vertici dell’Isis, anche se formalmente ancora affiliato).

I rapporti tra al-Qaeda e l’Isis sono sempre stati difficili. Se però in Siria e Iraq le battaglie tra i due gruppi (soprattutto nelle espressioni dello Stato islamico del Levante e di Jabhat al Nusra, ramo siriano di al-Qaeda) sono state frequenti e diffuse, nel Sahel c’è stata un’unica battaglia nel giugno 2015 all’interno della regione Gao (Mali), tra Aqmi e Isgs, nella quale il capo di questi ultimi, Adnan Abu Walid al-Sahrawi, venne gravemente ferito. Per il resto, i due gruppi hanno sempre evitato scontri diretti.

Al-Qaeda e Isis differiscono soprattutto negli obiettivi strategici: se per al-Qaeda la creazione di un “Califfato mondiale” è un obiettivo ultimo, quasi filosofico, lontano, sviluppo naturale di una strategia con cui si intende “sfinire” l’Occidente attraverso la realizzazione di attentati, scatenando reazioni militari che poi dovrebbero indurre le popolazioni arabe a insorgere contro quest’ultimo, creando alla fine uno Stato islamico, per l’Isis la fondazione di uno Stato islamico in un dato territorio è un fine concreto, immediato.

Se per al-Qaeda i musulmani dovrebbero colpire gli infedeli ovunque per perseguire una strategia che porti all’istituzione futura di uno Stato islamico, per l’Isis le azioni militari vanno realizzate anche col fine di difendere il territorio già amministrato. Dal punto di vista operativo e strettamente militare, poi, l’Isis rispetto ad al-Qaeda rivendica anche l’uccisione di altri musulmani nelle sue azioni terroristiche, e soprattutto non si limita a esse: gli uomini fedeli al Califfato sono infatti addestrati al combattimento regolare, e partecipano a battaglie convenzionali proprio per conquistare via via porzioni di territorio.

L’Isis ha ancora un suo quartier generale e si finanzia in modo sistematico, anche con la vendita del petrolio, mentre al-Qaeda è ormai frammentata in una miriade di formazioni locali e reperisce risorse soprattutto attraverso i rapimenti. Il fatto che l’Isis abbia creato uno stato, che emetteva addirittura dei passaporti e per un certo periodo è arrivato a battere moneta, spiega anche la sua maggiore capacità di attrazione di “lupi solitari”, di radicalizzati che vengono facilmente coinvolti in una impresa in qualche modo “patriottica”, a difesa di uno stato vero e proprio, anziché di una semplice idea, o promessa.

Nel Sahel, nonostante l’inimicizia ideologica tra Gsim e Isgs, alla fine del 2019 le due formazioni sembravano alle prese con una fase di convergenza tattica, sancita anche dai comunicati stampa diffusi da alcuni loro teologi. Poi, però, è successo qualcosa: i miliziani dell’Isgs, in pieno “stile Isis”, hanno condotto alcune operazioni militari contro soldati nigeriani, ciadiani, maliani e burkinabé, rilasciando i soliti filmati spettacolari a uso propagandistico. Ciò, nell’immediato, ha provocato un’ondata di defezioni dal Gsim allo stesso Isgs. Così, la prospettiva che l’Isgs si saldasse con l’Iswap (che negli ultimi mesi ha marginalizzato i qaedisti di Ansaru), arrivando a controllare potenzialmente un territorio più grande di quello controllato dall’Isis tra Siria e Iraq, ha spinto il Gsim – che rimane il gruppo più potente nell’area – a prendere delle contromisure, sotto forma di un rinnovato protagonismo militare.

L’uccisione di Droukdel arriva in un momento che gli osservatori hanno ragione di ritenere delicatissimo: sembra infatti che l’algerino sia stato eliminato pochi giorni prima di prendere parte a un summit convocato proprio in Mali da Iyad Ag Ghali, capo del Gsim, forse per riorganizzare una strategia contro l’Isis in chiave marcatamente transnazionale, facendola discendere da un coordinamento con i leader arabi di al-Qaeda e cercando di indebolire i leader locali come Amadou Koufa (e come lo stesso Ghali, che ha però rapporti di lungo corso con jihadisti afghani, pakistani e arabi). Secondo altri, invece, Droukdel stava svolgendo un compito speculare: mediare una pace tra l’Isgs di al- Sahrawi (e Iswap) e il Gsim, anche per scongiurare l’ipotesi di un negoziato tra questi ultimi e il governo maliano di Ibrahim Boubakar Keita, alle prese con forti proteste popolari. Come hanno più volte ricordato alcuni report di Amnesty International, solo tra febbraio e aprile del 2020 tra Mali, Burkina Faso e Niger ci sono state circa 200 uccisioni extragiudiziali commesse sui civili dai diversi eserciti locali, con tutto quel che ne consegue in termini di possibilità di reclutamento per i gruppi jihadisti.

Secondo l’analista Colin Clarke sul “Washington post” il motivo principale per cui al-Qaeda e Isis – pur non scontrandosi apertamente e con eguale frequenza nel Sahel, rispetto a quanto fanno in Iraq e in Siria – evitano di sancire forme ufficiali di cooperazione risiede nel timore che rendere pubblico un tale sviluppo possa stimolare un rafforzamento dei dispositivi antiterrorismo e delle risposte militari dei paesi interessati e dell’Occidente.

Seguendo il ragionamento, è possibile sostenere che in Occidente la notizia di una tensione o di un conflitto tra al-Qaeda e l’Isis (nelle loro espressioni locali saheliane) venga accolta positivamente, poiché suggerisce l’idea che combattendosi tra loro i due gruppi finiscano per indebolirsi a vicenda, fino a distruggersi. C’è però un paradosso, spesso sottovalutato, che poggia anche su alcune basi empiriche: per molti versi la competizione locale tra due organizzazioni terroristiche è benefica per queste ultime, al di là degli effettivi sacrificati e delle risorse impiegate, perché rafforza e rende più diffuse le dinamiche di reclutamento, oltre a stimolare l’innovazione e la creatività, attraverso un processo che l’esperta di terrorismo Miriam Bloom ha definito di “outbidding”, teso ad attirare simpatizzanti e affiliati.

In sostanza, se due gruppi terroristici sono nemici tra loro, il protagonismo dell’uno sarà di volta in volta imitato o superato in sofisticazione e letalità dal protagonismo dell’altro, in un circolo vizioso di spettacolarizzazione della violenza finalizzata all’affermazione, del quale ovviamente fanno le spese i civili coinvolti in attentati. Un esempio lo si è avuto lo scorso marzo, quando gli uomini di Abubakar Shekau (Boko Haram) hanno realizzato il più sanguinoso attentato della storia del Ciad, “solo” per rispondere a una analoga azione dell’Iswap. Come ricorda Brian Phillips su “Foreign Policy”, la rivalità tra organizzazioni terroristiche può rafforzare la loro capacità di sopravvivenza, poiché può spingere i civili a prender parte per l’una o per l’altra, stimola l’innovazione (come un’azienda in crisi), fornisce nuovi incentivi e motivazioni agli affiliati, e non ultimo può far deragliare dei processi di pace (come quello che il governo del Mali vorrebbe portare avanti con il Gsim). Questo vale a maggior ragione per gruppi che hanno obiettivi politici diversi, anziché convergenti.

Per questo il caso del Sahel è particolarmente delicato: senza un negoziato di pace è inverosimile la sconfitta delle centinaia di gruppi jihadisti diffusi in un territorio perlopiù ostile, impervio, in cui è difficile condurre operazioni vincenti in modo convenzionale e in cui le rivendicazioni economiche, sociali e umanitarie rendono sempre fertile il terreno del reclutamento. Se la guerra tra Isis e al-Qaeda dovesse esplodere anche nel Sahel, come accaduto in Siria e Iraq, ciò potrebbe indurre l’Isis a giocare la carta del deragliamento programmatico delle prospettive di pace, arrivando a giocare un ruolo via via sempre più centrale, fino a replicare lo scenario del 2012, in cui in Mali venne imposto un regime simil-talebano, dal quale venivano lanciati altri attacchi nella regione. La morte di Droukdel paradossalmente può avere due effetti speculari: finire per rafforzare la prospettiva di un accordo di pace tra governo maliano e Gsim oppure scongiurarlo, favorendo una integrazione tra un Gsim oggi più “africanizzato” e l’universo jihadista dell’Isis.

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Lo Spirito del tempo che percorre il territorio del Sahel https://ogzero.org/lo-spirito-del-tempo-che-percorre-il-territorio-del-sahel/ Mon, 06 Jul 2020 07:28:38 +0000 http://ogzero.org/?p=393 Nei due anni che vanno dal maggio 2018 al giugno 2020 nel territorio del Sahel si sono verificati cambiamenti che forse oltrepassano i rivolgimenti di una pandemia, poiché sta recedendo la graduale estensione del controllo di Aqmi (al-Qaeda del Maghreb islamico), ma con appoggi saharawi laicissimi, tuareg nomadi che combattevano peul stanziali, con cui han […]

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Nei due anni che vanno dal maggio 2018 al giugno 2020 nel territorio del Sahel si sono verificati cambiamenti che forse oltrepassano i rivolgimenti di una pandemia, poiché sta recedendo la graduale estensione del controllo di Aqmi (al-Qaeda del Maghreb islamico), ma con appoggi saharawi laicissimi, tuareg nomadi che combattevano peul stanziali, con cui han finito con il convergere nella lotta contro gli invasori coloniali occidentali, dando una patina di legittimazione religiosa a conflitti le cui motivazioni vanno ricercate tra entità locali divise tradizionalmente, che cercano di controllare le vie dei traffici illeciti (la droga sovvenziona Daesh) e dei migranti, che sostanzialmente coincidono… e dall’altro lato ci sono settori di collaborazionisti con le politiche antiterroriste di potenze europee, in primis la Francia.

Importante è sottolineare che il Sahel comprende un’area periferica tra le più povere al mondo, con scarso accesso all’acqua, soprattutto a seguito del progressivo prosciugamento del lago Ciad, e con nessuna tradizione nazionale, in quanto fino a pochi anni fa molti erano privi di documenti che attestassero l’appartenenza a uno stato.

Il 4 maggio 2018 avevamo registrato un intervento radiofonico lucidissimo e ancora molto illuminante di Luca Raineri che qui trovate inserito in tre parti per avviare un’analisi incentrata sul Sahel nel momento in cui si assiste a frenetiche manovre a più livelli per sostituire le influenze. Qui è descritto il quadro relativo al contesto, fatto di frontiere liquide e guerre a bassa intensità, al contrario della Siria, dove i brand jihadisti si sono combattuti apertamente:

Ascolta “Giochi di influenze nel Sahel” su Spreaker.

Oltre al passaggio di merci tra Africa subsahariana e Maghreb, quali risorse del territorio sono appetibili ora? Luca Raineri parla di Uranio – più che di petrolio i cui giacimenti maliani sono di scarso valore –, una manna per la voracità delle centrali nucleari francesi, ma meno per il Niger dopo il tracollo del prezzo dell’uranio a seguito del disastro di Fukushima, che ha imposto la ricerca di alternative. Per cui va studiata anche la trasformazione di quell’area dedita alla pastorizia e ora crogiolo e snodo degli interessi globali per quel che riguardano i traffici di armi (crocevia delle guerre in Mali e in Libia), droga e migranti (tra i principali affari dei tuareg, alternativamente impegnati nel contenimento dell’espansione dell’Isis e nella alleanza con lo stesso Daesh contro le forze antiterrorismo del Fc-G5s)

 

Ascolta “Quali interessi economici si intersecano nel crocevia di traffici del Sahel?” su Spreaker.

Forse assistiamo ora al ridimensionamento di quell’interventismo del Marocco a cui alludeva nel maggio 2018 Luca Raineri, che vedeva la monarchia alawide contrapporsi all’Iran, che da sempre cerca di fomentare disordini nell’area per destabilizzarla, eversione avversata dal Marocco. Peraltro più che i gruppetti eversivi stavano cominciando a diventare maggioritarie talune fazioni che mirano a imporre la shari’ia per via di una spinta democratica delle popolazioni.

Ascolta “Le frontiere liquide del Sahel” su Spreaker.

Interessante la ricostruzione della storia del jihad in Sahel e della situazione attuale dopo l’eliminazione a Talahandak dell’emiro algerino Abd al-Malik Droukdel (leader di Aqmi, basata sulla promozione di alleanze claniche) e il conseguente rafforzamento della componente saheliana del jihad qaidista e la definitiva africanizzazione del jihad in Sahel (e infatti si stanno ampliando gli attacchi etnici nel Mopti che contrappone dogon e fulani), che Lorenzo Forlani ha fornito a OGzero con questo Punctum.

 

 

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Il jihad come instrumentum regni https://ogzero.org/il-jihad-come-instrumentum-regni/ Sat, 30 May 2020 08:27:40 +0000 http://ogzero.org/?p=182 Segmentazione e unificazione tribale periodica nel contesto magmatico dei brand jihadisti. La capacità di resistere alla centralizzazione dello stato Elisa Giunchi, novembre 2019 – maggio 2020 L’islam tribale e la sua militarizzazione Già nell’Ottocento funzionari, etnografi e viaggiatori britannici annotarono quanto sarebbe poi stato confermato dagli studi antropologici a partire dagli anni Cinquanta del Novecento: […]

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Segmentazione e unificazione tribale periodica nel contesto magmatico dei brand jihadisti. La capacità di resistere alla centralizzazione dello stato

Elisa Giunchi, novembre 2019 – maggio 2020

L’islam tribale e la sua militarizzazione

Già nell’Ottocento funzionari, etnografi e viaggiatori britannici annotarono quanto sarebbe poi stato confermato dagli studi antropologici a partire dagli anni Cinquanta del Novecento: le tribù pashtun del Sudest erano caratterizzate da un codice etico, il pashtunwali, incentrato su alcuni valori che, pur presenti anche presso altre comunità, erano stati qui tradotti in norme minuziose, da una struttura acefala che rendeva necessaria la pratica del consenso attraverso assemblee consultive (jirga) e da una sostanziale indipendenza dal potere centrale, che era facilitata dalle distanze e dalla natura impervia del Sudest. Tra i pashtun dell’Ovest, per lo più Durrani, e quelli detribalizzati vi era sì una “memoria tribale”, fondata su genealogie mitiche, ma la struttura sociale era maggiormente legata allo stato e gli elementi caratterizzanti del pashtunwali risultavano meno evidenti. Non che le tribù del Sudest fossero realmente indipendenti, come immaginavano i britannici: nella seconda metà dell’Ottocento esse erano legate da tempo al centro da un sistema di sussidi, favori e privilegi, e come contropartita assicuravano al potere politico centrale il loro sostegno militare, in un rapporto di reciprocità che sostanzialmente rimarrà invariato fino agli anni Venti-Trenta del Novecento. 

In materia religiosa, la differenza tra pashtunwali e sharia, spesso rimarcata dagli studiosi, non era percepita come problematica dai pashtun: nella concezione comune i legami genealogici che collegano al profeta Muhammad l’ascendente apicale Qais bin Rashid rendevano i pashtun inerentemente musulmani: osservare il pashtunwali – “fare pashtun” – significava essere musulmani. La sostanziale assenza del potere centrale e il modello acefalo, tendenzialmente egalitario, che era prevalente tra i pashtun più “tribalizzati”, in particolare nel Sudest, provocava tensioni e faide continue tra i segmenti che componevano la comunità. In questa situazione di conflittualità endemica, la composizione delle faide e la ricomposizione del tessuto sociale dopo le violazioni del pashtunwali potevano avvenire solo grazie a figure esterne. Tra queste, le figure religiose, che erano “esterne” in un duplice senso: innanzitutto, in quanto appartenevano a rami minori della genealogia locale o provenivano da altre tribù; in secondo luogo, soprattutto se erano dotate di baraka, rappresentavano la dimensione sacrale, e si prestavano a mediare, quindi, in quanto parte non interessata, con riferimento al volere divino e non a un segmento specifico della tribù.

Questi aspetti si ritrovano attualizzati nella decentralizzazione del controllo del paese alle tribù pashtun del Sudest del paese ma con una forza minore del potere centrale delegittimato dalle compromissioni con gli americani e con potenze regionali come il Pakistan con maggiore possibilità di gestire il territorio a cavallo della Durand Line e di indirizzare il jihad. Si riscontrano similitudini con il passato e differenze, come le interferenze di altri paesi e la necessità di trovare l’accordo con le altre etnie che costituiscono il paese, in precedenza marginalizzate da Durrani, come si coglie in questa clip dell’intervento di Elisa Giunchi registrato il 28 maggio 2020 sulle frequenze di Radio Blackout:

Elisa Giunchi, 28 maggio 2020: Similitudini e differenze tra altre epoche di decentramento controllato e attuale difficoltà di Kabul a controllare il territorio
Porzione della mappa delle separazioni territoriali coloniali contenuta nel volume Sconfinate, a cura di Emanuele Giordana, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018. Al numero 1 si dipana la Durand Line; la Radcliffe Line corrisponde al numero 2; lungo la linea 9 scorre l’Hindukush; il numero 11 coincide con il Khyber Pass. A, B, C indicano le tre zone in cui è diviso il Kashmir.

Il ruolo dei religiosi in ambito tribale

Contro una presupposta laicità del sistema tribale, sulla quale hanno insistito alcuni antropologi, le figure religiose, anche quando non prendevano parte alle jirga, o lo facevano esprimendosi solo su aspetti specifici della fede, assicuravano la liceità religiosa delle decisioni comunitarie: approvavano le decisioni della jirga pur non concorrendo sempre alla loro elaborazione, potevano avviare procedimenti contro individui o clan e disponevano spesso di proprie milizie, composte dai loro deputati e seguaci e da membri della comunità locale che si attivavano ad hoc per rendere effettive le decisioni dei “religiosi carismatici”. Un ruolo di non poco conto che i religiosi ricoprirono più volte presso le tribù pashtun nel corso dell’Ottocento era quello di proclamare e guidare il jihad contro nemici esterni, con l’effetto di ricomporre temporaneamente le differenze interne. Il riferimento ai valori sacrali e, nel caso di coloro che possedevano la baraka, l’incarnazione – per così dire – di quei valori, permettevano di superare la segmentazione locale e di mobilitare più tribù, compito che risultava impossibile al malek/khan che rappresentava uno specifico segmento clanico o tribale. Non è un caso, quindi, che nelle due guerre anglo-afgane (1839-1842 e 1878-1880) i religiosi ricoprissero un ruolo importante, mobilitando la popolazione tribale in nome del jihad e, in diversi casi, soprattutto nel Sudest, guidando le milizie contro l’esercito anglo-indiano. Nelle sollevazioni che scoppiarono al Sud e Sudest sul finire del secolo in reazione alla forward policy britannica le figure carismatiche della variante marabutica riuscirono ancora una volta a unire clan e tribù, superando almeno temporaneamente divisioni e rivalità locali.

Gli stessi inglesi, paradossalmente, contribuirono alla turbolenza tribale e alla militarizzazione delle figure religiose: innanzitutto, i tentativi di occupazione perseguiti con le due guerre anglo-afgane, e le annessioni e ingerenze successive, favorirono il compattamento delle tribù pashtun sotto la guida dei religiosi carismatici, accrescendo l’influenza di questi ultimi rispetto ai capitribù, inerentemente impossibilitati a superare, come si è visto, la segmentazione locale. In secondo luogo, le necessità del jihad contro gli inglesi (e i russi, che premevano da Nord) aumentò la domanda di armi e munizioni, che verso la fine del secolo iniziarono ad affluire in grandi quantità dal Golfo. Al traffico illegale di armi provenienti dall’Europa si sommavano fucili e munizioni provenienti dagli arsenali governativi, sottratti ai sepoy in India e prodotti localmente. Sia i capitribù sia i religiosi più influenti, che si avvalevano di milizie di murid/talib, si dotarono così di armi moderne, costringendo l’Indian Army ad aggiustamenti tattici e il governo in India a incorrere in nuove spese, proprio in una fase in cui la minaccia russa tornava a turbare i sonni di politici e strateghi a Londra e Calcutta. In terzo luogo, la politica inglese di istituire tribal levies e di armare i khassadar perché proteggessero le postazioni britanniche e i passi contribuirono alla militarizzazione delle aree al confine con l’India, di cui i religiosi erano parte integrante. 

Un islam di stato

All’evoluzione dell’islam tribale sul finire dell’Ottocento contribuì, con ogni probabilità, anche l’uso strumentale che l’emiro Abdurrahman (1844-1901) fece dell’islam non solo in funzione antimperialista, ma anche con l’obiettivo di accentrare e unire il paese.

Al potere dal 1880, Abdurrahman si adoperò per trasformare una struttura politica in cui l’assenso all’emiro era contrattato ad hoc e si fondava sulla reciprocità in una monarchia assoluta. L‘emiro fino ad allora era stato una sorta di primus inter pares che poteva in qualsiasi momento, se non andava incontro alle istanze e ai valori pashtun, perdere il sostegno delle tribù e, quindi, il trono. Il potere centrale era quindi fortemente instabile, e chi deteneva le redini del potere era impossibilitato a perseguire riforme di ampio respiro, soprattutto se contraddicevano gli interessi e l’ethos pashtun. E difatti la storia afgana è puntellata da rivolte guidate da figure religiose, che esprimevano la resistenza di ampi settori della popolazione pashtun a imposizioni percepite come devianti rispetto al sistema valoriale e agli interessi delle tribù dalle quali dipendeva in ultima analisi il potere dell’emiro. Già nel 1880 a Shinwar il mullah Najm al-Din, noto nelle fonti britanniche come ‘mullah Hadda’, accusò l’emiro, che si era appena insediato al potere con l’aiuto britannico, di essere un infedele; accusa di non poco conto, visto che il mullah aveva moltissimi seguaci, soprattutto a Est del paese, ma anche nelle aree a maggioranza pashtun sottoposte al controllo del Raj britannico. 

Negli anni successivi i tentativi dell’emiro di ridurre i privilegi e l’autonomia delle figure religiose, e la delimitazione nel 1893 della Durand Line, che attribuiva alcuni territori pashtun ai britannici, costituirono l’occasione di nuove proteste in cui mullah e pir ricoprivano un ruolo fondamentale. Le proteste non dissuasero l’emiro, che anzi moltiplicò i tentativi di arginare la loro influenza e centralizzare il potere. A tal fine, oltre a mettere a morte alcuni mawlawi e a costringerne all’esilio altri, rafforzò il potere dell’esecutivo, diminuì l’indipendenza economica delle figure religiose – sottoponendo i waqf al controllo centrale, imponendo una tassa sulle proprietà religiose e riducendo i finanziamenti alle khanaqa – e integrò mawlawi e mullah nell’apparato statale, favorendone la fedeltà: i mawlawi ottennero il diritto a percepire uno stipendio previo esame da parte di una commissione nominata dall’emiro, al quale spettava il compito di controllare che la loro dottrina non si discostasse dall’islam “corretto”, vale a dire dall’interpretazione approvata dall’emiro. Muhtasib e qazi dovevano vigilare sull’applicazione dei precetti religiosi, epurati dalle loro degenerazioni popolari e di ogni carica eversiva. Agli ulama più fidati fu chiesto, infine, di propagare l’islam ufficiale nel paese, uniformando la pratica religiosa. Significativamente, se nei testi religiosi non trovavano una risposta, i qadi, che erano nominati dall’emiro, erano tenuti non a esercitare l’ijtihad (l’interpretazione di Corano e Sunna), ma a rivolgersi ad Abdurrahman. Fu sempre sotto Abdurrahman che sorse la prima scuola coranica finanziata dal governo, la Madarasa-e-shahi, i cui studenti, una volta diplomati, diventavano funzionari dello stato, secondo un processo di “statalizzazione” dei religiosi che si è verificato ovunque, nel mondo musulmano, tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del secolo successivo. 

Le dinamiche illustrate in questo brano pubblicato nella raccolta La Grande Illusione che si applicano all’analisi del rapporto tra apparati religiosi, tribali e statali nei secoli precedenti nel territorio del Khorasan trovano continuità in queste delucidazioni sull’attualità che Elisa Giunchi ha esposto intervenendo il 28 maggio 2020 durante la mattinata informativa di Radio Blackout, dove descrive il contesto magmatico instabile sui due lati della Durand Line in cui operano i jihadisti – adattandosi alle strutture tribali pashtun – con i diversi intenti che contrappongono i brand: governare uno stato come obiettivo ultimo per l’Isis, mentre al Qaeda è dedita a creare basi da cui lanciare attacchi al potere centrale. Entrambi non rappresentano comunque una novità nella storia afgana, bensì si potrebbe trattare della attualizzazione di quel «ruolo dei religiosi presso le tribù pashtun di proclamare e guidare il jihad contro nemici esterni», di cui si accennava nel testo:

Elisa Giunchi, 28 maggio 2020 (Radio Blackout): continuità delle prassi tribali di contrapposizione nei gruppi jihadisti affiliati sia a Isis che ad al Qaeda

Il jihad come instrumentum regni

Abdurrahman decise di enfatizzare, nei manuali religiosi e nei pamphlet che autorizzava e in alcuni casi scriveva di proprio pugno, la necessità di compiere il jihad contro gli infedeli, contribuendo a consolidare la tradizione militante delle aree pashtun. Il jihad, beninteso, poteva essere proclamato solo dall’emiro. Se era l’emiro a proclamarlo, era dovere di ogni afgano combattere o contribuire alla battaglia con i propri averi. Il jihad senza il suo benestare equivaleva invece a una forma di kufr, principio che permetteva di bollare come blasfema ogni forma di sedizione. Si recuperava quindi la componente quietista della dottrina sunnita classica: per giustificare l’importanza dell’obbedienza al potere costituito si sottolineava che Dio aveva delegato ai sovrani la conduzione degli affari dei fedeli; disobbedire all’emiro significava quindi contravvenire al volere di Dio. Oltre a essere un obbligo religioso, l’obbedienza al potere costituito preservava la comunità dalla fitna, l’anarchia sociale paventata dai giuristi classici. Persino un sovrano ingiusto era preferibile al caos che sarebbe risultato dalla sua deposizione. Ma se, da una parte, si sottolineava che spettava all’emiro proclamare il jihad, al contempo, delegando la difesa del territorio ai leader carismatici pashtun – gli unici in grado di coagulare e guidare i segmenti tribali –, si manteneva in vita e anzi si alimentava la turbolenza tribale e, paradossalmente, la sua capacità di resistere alla centralizzazione dello stato. 

Il jihad, oltre a costituire un utile strumento anticoloniale, si prestava a essere usato per ottenere il consenso dei religiosi proprio nel momento in cui si intaccava la loro autonomia. Tra il 1891 e il 1893 l’emiro organizzò, infatti, diverse spedizioni contro gli sciiti hazara, che furono privati dei terreni più fertili, ridotti in schiavitù e costretti a fuggire in Iran e in Baluchistan; sempre a lui si deve la conversione forzata dei kafiri nel 1895-1896, che era già iniziata sul finire del Cinquecento con una spedizione dei mughal. I mullah – incluso quel mullah Hadda che si era inizialmente opposto all’emiro – furono impiegati nel processo di conversione dei kafiri, beneficiarono dell’espropriazione dei terreni hazara e, di conseguenza, sul finire del regno di Abdurrahman erano nel complesso ben disposti nei suoi confronti.

Quando, nel contesto di una crescente ostilità popolare contro il colonialismo europeo, Habibullah (regnante tra il 1901 e il 1919) si rifiuterà di rinnegare gli accordi conclusi dal padre con i britannici, e quando Amanullah (che regnò fino al 1929) cercherà di imporre dall’alto riforme volte a trasformare in senso “moderno” l’ambito più privato – la famiglia – e a intaccare i valori prevalenti tra i pashtun, mawlawi e pir torneranno, soprattutto nel Sudest, a opporsi frontalmente al potere centrale, grazie alla loro tradizionale capacità di mobilitare e unire i segmenti tribali e alle armi affluite nella regione nei decenni precedenti. Habibullah sarà ucciso e Amanullah, prima di abdicare, si vedrà costretto a rinnegare le riforme che aveva introdotto.

Gli aspetti correlati alla frammentazione del territorio e alle pulsioni a resistere all’accentramento da parte dello stato e il richiamo al jihad come strumento anticoloniale che accentua la turbolenza tribale e l’incapacità di costituire un’“afganità” si ritrova nell’attualità descritta sempre da Elisa Giunchi nel prosieguo dell’intervento, laddove si occupa di ricondurre ai contrasti tradizionali tra le strutture verticistiche verticali della cultura turkmena-mongola con quella orizzontale acefala del sistema pashtun, che rappresentano la tensione costante tra tendenza ad accentrare/decentrare il controllo del potere: Durrani e il periodo della difesa della cintura pashtun emarginava le altre etnie, da cui le rivolte contro l’accentramento; mentre ora i gruppi sono infiltrati da potenze esterne (con i corrispondenti signori della guerra), che favoriscono la frammentazione etnica regionale volta a impedire a Kabul la possibilità di essere un centro forte in grado di impedire interferenze e mediare tra le identità di base. L’instabilità deriva forse proprio dall’eccessivo decentramento. L’unica soluzione sarebbe un programma di emancipazione sociale che esuli da apparato confessionale e etnicità, coagulando gruppi diversi su un programma socioeconomico che si concentrino attorno a figure carismatiche di varie componenti; si parla di Massoud, ma forse è troppo connotato e quindi potrebbe rinfocolare il dissidio tra pashtun e tajik.

Elisa Giunchi, 28 maggio 2020 (Radio Blackout): il superamento della frammentazione etnica regionale può passare attraverso uno sviluppo sociale che superi divisioni etniche e religiose, mancano leader e gruppi disposti a svoltare rispetto a un passato ingombrante di divisioni.

Enfatizzare l’identità religiosa rispetto ad altri fattori identitari

La nascita dei Talebani (letteralmente “studenti”) nei primi anni Novanta all’interno delle madrase affiliate al Jamiat-e Ulema-e Pakistan, il partito pakistano deobandita, trae le sue origini proprio dal legame formatosi a partire dalla fine dell’Ottocento tra madrase deobandite e “religiosi carismatici” del Sudest afgano. Anche altre influenze esterne penetrarono nel paese attraverso i suoi porosi confini meridionali, dal nazionalismo confessionale della Lega musulmana, che nel 1947 avrebbe portato alla nascita del Pakistan, al nazionalismo etnico di Ghaffar Khan, venato di istanze egalitarie e alleato al Congresso nazionale indiano. Negli anni Sessanta, grazie a una limitata apertura politica e in un clima di grande effervescenza intellettuale, si diffusero in ambito urbano movimenti islamisti che, ispirandosi al pensiero di Qutb e Maududi, criticavano la religiosità popolare a favore di un approccio più scritturalista e dogmatico; a essi si sommeranno, durante la resistenza antisovietica, militanti jihadisti, provenienti per lo più dal mondo arabo, che contribuiranno a delegittimare le autorità tribali tradizionali e introdurranno nella società pashtun una rigidità e una spietatezza nuove. Queste concezioni militanti dell’islam si sono diffuse nelle aree tribali, talora intrecciandosi con le reti religiose marabutiche, altre volte scontrandosi con la religiosità e le strutture di autorità locali. Il loro effetto è stato di enfatizzare l’identità religiosa rispetto ad altri fattori identitari, di diffondere una religiosità più normativa, di fornire ai “religiosi carismatici” un’agenda più vasta e di svalutarne parallelamente le competenze “tradizionali”, minando di conseguenza anche la loro capacità di mediare in ambito tribale; parallelamente, le jirga hanno perso la loro autorità originaria; il pashtunwali, infine, appare oggi più un’idealizzazione del passato che una realtà, e quel che è rimasto di questo codice etico si trova a competere con altri sistemi valoriali. L’opinione secondo la quale sia stato il solo jihadismo di matrice araba ad avere impresso una svolta militante all’islam tribale e determinato la nascita del fenomeno Talebano è tuttavia difficilmente condivisibile. Anche l’enfasi sul ruolo che le madrase pachistane hanno avuto nella “nascita” dei Talebani e sugli interessi geostrategici che hanno indotto Islamabad e Riad a sostenere l’estremismo in Afghanistan è eccessiva, e offusca sia le specificità pashtun degli “studenti coranici” sia i processi storici che, ben prima degli anni Ottanta del Novecento, influirono sulla loro militanza. 

Sulla natura pashtun dei Talebani – basti qui dire che negli anni Novanta, quando emersero sulla scena afgana, i loro vertici, per quanto avessero studiato per periodi più o meno lunghi nelle madrase pachistane, provenivano dall’ambiente rurale e tribale pashtun, un ambiente che, nonostante le influenze esterne, manteneva alcune peculiarità. Il mullah Omar, che guiderà i Talebani fino alla sua morte, avvenuta nel 2013, era il mullah di un villaggio vicino a Kandahar ed era sostenuto da altri mullah della sua provincia originaria, l’Uruzgan. Almeno il 60 per cento dei vertici Talebani aveva ricevuto quasi tutta la propria istruzione nelle hujra, un’istituzione tradizionale degli ambienti tribali. Molti erano intrisi della religiosità popolare – quella, in particolare, tipica del sufismo marabutico, fatta di amuleti, reliquie e visite alle tombe dei pir: lo stesso mullah Omar prendeva le proprie decisioni sulla base dei sogni, secondo modalità tipiche dei pir. Alcuni suoi stretti collaboratori erano pir o murid, e il simbolismo sufi era onnipresente nel movimento. Sarà questo, tra l’altro, un elemento di attrito tra i Talebani e al-Qaeda, che porterà quest’ultima a interrogarsi sull’ortodossia degli “studenti” coranici. I Talebani mantenevano inoltre negli anni Novanta, e mantengono tutt’ora, alcune peculiarità dell’ambiente tribale da cui provengono – continuando per esempio a seguire pratiche decisionali inclusive, tipiche delle jirga, che smussano quel potere assoluto dei singoli comandanti che caratterizza i gruppi jihadisti arabi. 

Frags tratti da L’islam: la declinazione afgana della parola del Profeta, di Elisa Giunchi, in La grande Illusione. L’Afghanistan in guerra dal 1979, a cura di Emanuele Giordana, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

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