Afrodiscendenti Archivi - OGzero https://ogzero.org/tag/afrodiscendenti/ geopolitica etc Sun, 15 Sep 2024 22:17:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Annessione perpetua https://ogzero.org/studium/annessione-perpetua/ Wed, 28 Aug 2024 06:40:17 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=13120 L'articolo Annessione perpetua proviene da OGzero.

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Tutto inizia a Saint-Louis

Già all’inizio del 1600 i francesi arrivarono nel nord dell’attuale Senegal, colonizzando un’isola che venne chiamata Saint Louis. Sulla stessa isola venne costruita più tardi una base commerciale di rilievo (1659) e nel 1673, su ordine del Re Sole, venne costituita la Compagnie du Senegal. Una compagnia coloniale che doveva dedicarsi all’amministrazione del fiorente commercio di schiavi africani (traite négrière in francese) e che seguiva le orme dell’inglese Royal African Company, fondata nel 1660 (con licenza di monopolio per il traffico di schiavi a partire dal 1663). L’espansione francese portò all’occupazione dell’isola di Gorée nel 1677 e a un commercio che già all’epoca si differenziava tra oro, gomma arabica e tratta di persone. L’anno successivo, nel 1678, ebbe termine la guerra franco-olandese (iniziata nel 1672) con una vittoria della Francia che manifestò la sua supremazia militare sul continente europeo. Una supremazia che si vedeva riflessa anche in Africa occidentale, dove nel 1696 venne creata una nuova compagnia, questa volta chiamata Compagnie Royale de Senegal, Cap-Verd et côtes d’Affrique.

Carta ideale della Concessione ottenuta dalla Compagnie Royale du Sénégal consegnata il 31 dicembre 1719 al signor de St Robert dal signor Brüe. Va da Cap-blanc a Bissaux, sancendo fin da allora i confini di un territorio che ha condiviso il medesimo destino

 

Due secoli di scontro anglo-francese per l’affaire mercantilista della storia moderna

Eliminati dunque dalla competizione per il Senegal, sia il Portogallo, che la Spagna, che la Repubblica delle Sette Province Unite, per l’impero francese rimaneva un solo grande avversario, l’Inghilterra, che dal canto suo stava provando a consolidare la sua presenza in Africa. Già dalla metà del Seicento infatti gli inglesi penetrarono lungo la valle del fiume Gambia, iniziando un fiorente commercio che portò nel secolo successivo a uno scontro aperto e costante con la Francia. Il Diciottesimo secolo fu infatti segnato da continue guerre tra Francia e Inghilterra e precisamente alle fine di una di queste, la guerra dei sette anni (1756-1763), la Francia sconfitta dovette rinunciare a tutte le basi che possedeva in Senegal. Solo vent’anni dopo però la partecipazione delle truppe francesi a sostegno degli insorti durante la rivoluzione americana (1776) consentì al governo di Parigi di sedere al tavolo della pace. Con il trattato di Versailles (3 settembre 1783) l’impero inglese, sconfitto, riconosceva l’indipendenza degli Stati Uniti d’America e restituiva alla Francia i porti senegalesi occupati due decenni prima.

Senegambia in una mappa del 1707 intitolata Carte de la Barbarie de la Nigritie et de La Guinee. Il destino di quel territorio e dell’incremento della tratta schiavista è condizionato dallo scontro tra Francia e Inghilterra – e di nuovo diventa centrale la sponda atlantica dell’America – con la parentesi delle Rivoluzioni di fine Settecento

Sospensione rivoluzionaria e Restaurazione coloniale

Pochi anni dopo però arrivò la rivoluzione francese, iniziata con la presa della Bastiglia il 14 luglio 1789 e seguita dalle guerre napoleoniche. Eventi che frenarono (se non proprio interruppero) la politica coloniale della Francia, facendo passare di nuovo i possedimenti francesi in Senegal, sotto il controllo inglese. Per il ritorno della Francia in Senegal bisognerà aspettare il 1816, dopo il crollo dell’impero Napoleonico e la “restaurazione” figlia del Congresso di Vienna (1° novembre 1814 – 9 giugno 1815).

☞Porti e mari “britannici”

Gorée – St-Louis: basi schiavistiche del colonialismo della Françafrique

Pax coloniale francese

Con la Restaurazione postbonapartista la Francia rientrò in possesso delle sue basi coloniali, iniziando un’opera espansiva di sistematica conquista di tutto il territorio, creando un tessuto amministrativo e di “sviluppo” per la creazione di una vera e propria colonia. Nel 1816, Luigi XVIII, appena ritornato sul trono di Francia, nominò il colonnello Julien-Désiré Schmaltz come amministratore dei possedimenti francesi sulla costa senegalese, con il compito di dare il via alla conquista dell’interno del territorio. Tra il 1817 e il 1845 le truppe francesi occuparono la regione di Waalo (ex provincia del regno Djolof) annientando il fragile regime teocratico instaurato nel 1830 dal marabut Diile. Nel 1854, Napoleone III incaricò un intraprendente ufficiale francese, Louis Faidherbe (che all’epoca aveva solo 36 anni), di governare ed espandere il mercato coloniale e di modernizzare l’economia del Senegal. Faidherbe costruì una serie di forti lungo il fiume Senegal, formò alleanze con i leader dell’interno del paese e inviò spedizioni contro coloro che resistevano al dominio francese. Nel 1857 fondo la città di Dakar, costruendo un nuovo porto, installando linee telegrafiche, costruendo strade, e propiziando quella che successivamente sarebbe stata la linea ferroviaria tra la capitale Dakar con il primo insediamento francese nel Nord, Saint Louis. L’opera di Faidherbe, ingegnere militare che fu impegnato anche in Algeria, era impregnata di quella che lui considerava una missione civilizzatrice e per questo costruì scuole, ponti (il ponte principale di St-Louis porta oggi il suo nome) e sistemi per fornire acqua potabile alle città. A livello agricolo introdusse la coltivazione su larga scala di arachidi, espandendo i possedimenti francesi. fino alla Valle del Niger e facendo diventare il Senegal (e la sua nuova capitale Dakar) la principale base nell’Africa Occidentale Francese (Aof). Rimase in carica fino al 1865 (gli succedette come governatore l’ammiraglio Jauréguiberry) e nel 1889 (anno della sua morte) venne pubblicato il suo libro dal titolo Le Sénégal: la France dans l’Afrique occidental (Il Senegal, la Francia nell’Africa Occidentale).

Foto di Diego Battistessa

L’annessione

I governatori che succedettero a Faidherbe conquistarono i regni di Fouta Toro, del Baol, del Kaydor e del Saloum e nel 1889 si arrese ai francesi anche Ali Bouri, l’ultimo sovrano wolof. Mentre venne annessa solo nel 1896 la regione meridionale del Casamance che fino a quel momento era rimasta sotto il controllo del Portogallo. A quel punto la Francia considerò il Senegal come un territorio “pacificato” e nel 1904 venne nominato il primo governatore civile dell’Aof, una federazione fondata nel 1895 con capitale Dakar e che comprendeva Senegal, Niger, Costa d’Avorio, Ciad, Dahomey, Guinea, Alto Volta (attuale Burkina Faso) e Mauritania.

Egalité eurocentrica nella Françafrique

Come ci spiega Papa Saer Sako, nel suo libro Senegal (edizioni Pendragon): «La filosofia coloniale francese si ispirava agli ideali della rivoluzione del 1789, condizionati però da un radicale eurocentrismo, il cui presupposto poggiava sulla convinzione che i popoli colonizzati avrebbero potuto accedere a un superiore grado di civiltà solo adottando i fondamenti della cultura europea. Le autorità coloniali, dunque, si ritennero investite della missione di civilizzare popolazioni considerate ancora immerse nella barbarie, riconoscendo loro una potenziale eguaglianza di diritti in quanto esseri umani, ma rigettando e soffocando ogni aspetto della cultura africana».

Nonostante il forte controllo culturale ed economico francese, su una società complessa e multietnica (composta dalle etnie Wolof, Sérère, Lébou, Peul o Foulbé, Toucouleur, Diola, Mandingo, Sarakholé e Bassari) tra il 1910 e il 1912 nacquero le organizzazioni dell’Aurora di St-Louise quella dei Giovani Senegalesi, le prime organizzazioni finalizzate a dar voce alle aspirazioni dei nativi. Solo due anni dopo, per la prima volta nella storia, un deputato di origine africana, Blaise Diagne, sedette nell’Assemblea Nazionale di Parigi. Ci vorranno però ancora 15 anni di costruzione del tessuto politico senegalese perché nel 1929, prenda vita il Partito della Solidarietà Senegalese, tra i cui membri troviamo Lamine Gueye e soprattutto Sédar Senghor. Quest’ultimo verrà eletto nel 1945 come rappresentante del Senegal nel parlamento francese e tra il 1959 e il 1960 il Senegal e il Sudan francese si unirono nella Federazione del Mali, con Senghor come presidente della nuova Repubblica.

In questo 2024 si è assistito a molte rivolte di giovani africani colti e consapevoli del condizionamento coloniale ancora perdurante: in Kenya contro il presidente Ruto, in Sahel con la presa di potere di giovani militari che hanno espulso l’esercito francese “diversamente occupante”… il Senegal ha tradizioni saldamente democratiche e la comunità si è liberata del burattino francese Macky Sall, completando una presa di coscienza dell’intera comunità, costituita da una ventina di realtà culturali e linguistiche diverse, che attingono alle radici precoloniali; un percorso interno all’Africa che può essere paragonato alla riappropriazione parallela a quella che guarda alle componenti afrodiscendenti in America, come superamento del male coloniale che ha però trasferito in America una cultura, la cui componente si chiede venga riconosciuta nella costituzione delle inter comunità oltreatlantico.

☞Un ponte tra Bahia e Benin

Per i francesi però tutto ebbe inizio a Saint-Louis

«Immense barche (Cayucos), molte volte policromate dai toni accesi e sempre ricche di bandiere e simboli, preghiere e auguri: ciascuna affidata al rispettivo marabù (leader religioso) e/o a Mame Coumba Bang, lo spirito femminile che li protegge dall’ira dell’oceano e, quindi per estensione, protettore anche delle città evitando che vengano fatte scomparire dalle inondazioni. Barche realizzate artigianalmente partendo da un unico pezzo di albero, che trasportano ogni giorno centinaia di pescatori…

Foto di Diego Battistessa

Il fiume Senegal si butta in mare avidamente, dopo aver attraversato altri tre paesi e circa 1700 chilometri, in questo angolo peculiare del pianeta. L’Oceano Atlantico attacca con furia eterna questa lingua di sabbia e dune lunga una trentina di chilometri e larga appena 500 metri, e punisce tutto ciò che incontra sul suo cammino (oggi ancor più a causa dell’impatto dei cambiamenti climatici e della mano artificiale dell’uomo manifestatasi con l’apertura di una breccia nel 2003 nella zona, che ha diviso in due la lingua aumentando l’ansia dominatrice del mare) … Gli autoctoni dicono che nessuno è come i pescatori di queste acque, che lottano per emergere vittoriosi contro le mortali onde oceaniche che già tanti naufragi hanno causato. Nessuno. E attenzione, non solo l’uscita in mare è pericolosa, ma anche il ritorno, “perché sbarcare a St-Louisnon è una cosa qualunque”, sottolineano.
Il sociale, l’economico, il politico, il culturale, il gastronomico, il festivo, l’ambientale… Tutto ruota attorno alla pesca a St-Louis(circa 250.000 abitanti), un tempo capitale dell’Africa occidentale francese e del Senegal e della Mauritania; la seconda città del Paese da quando Dakar divenne capitale nel 1857. Basta guardare una mappa per apprezzare la sua peculiarità geografica, il suo valore strategico nel Nord del Paese. St-Louisè il confine con la Mauritania, per alcuni è il punto finale del deserto del Sahara, per altri ne è la porta d’ingresso…
Città creata dai francesi nel 1659 come primo insediamento europeo nell’Africa occidentale, ma prima di loro la storia qui già cresceva, proprio come crescono i baobab…»

Queste parole, che travolgono come fossero colori di un dipinto su tela, sono della giornalista Lola Huete Machado, che nel 2019 pubblicò sul “El Páis” un articolo che coglieva l’anima di Saint-Louis. E chiunque l’abbia visitata non può non sentire vibrare quelle parole, sovrapponendole alle immagini di una città i cui tratti coloniali sono ancora ben visibili, sia nell’architettura ma anche nell’economia che vede nel turismo (maggioritariamente europeo e specialmente francese) una fonte importante di ingresso.

Foto di Diego Battistessa

Una città dalle molte sfaccettature, con hotel di lusso a pochi metri da una linea di costa dove l’impoverimento e l’economia di sussistenza scandiscono il tempo marcato dall’andare e venire dalle onde. Sulla spiaggia, piena di rifiuti dove deambulano in cerca di cibo capre, pecore e cavalli (spesso di una magrezza non compatibile con la vita), ci sono decine di cayucos, descritti magistralmente da Lola Huete Machado. Accanto a loro un uomo anziano che ha voglia di parlare, lui li ripara i cayucos, mi spiega in francese. Oramai è troppo vecchio per salire su uno di quelli che vanno verso un futuro possibile, verso l’Europa.

Mi indica un’ombra nell’orizzonte, una lingua di terra nascosta dalla foschia che si crea per il troppo calore: «Quella è la Mauritania», mi dice. E poi, spostando il dito un po’ più in là, verso l’oceano, verso la vastità dell’azzurro orizzonte mi dice con fermezza. «Quella invece è l’Europa, tu non la vedi, ma in quella direzione ci sono le Canarie, c’è la Spagna, c’è la speranza».

Foto di Diego Battistessa

Ma se un da lato l’isola di Saint Louis, chiamata anche la “Venezia africana”, è parte di una rotta che da anni è percorsa da migliaia di persone che cercano un miglior futuro, dall’altra è anche (dal 2000) annoverata dall’Unesco come patrimonio dell’umanità.  Un riconoscimento che ha portato a un programma di rinnovamento e riqualificazione di vecchi edifici coloniali, trasformando molti di questi in ristoranti e hotel (gestiti spesso da europei).

Città del Mercantilismo Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù
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Fatale attrazione schiavista tra iberici e mauritani

Ancora adesso in Mauritania – paese che ha contribuito alla presenza di un’ultima colonia sul suolo africano: il Sahara occidentale – vige una legislazione che prevede lo schiavismo, una pratica – denunciata soprattutto dal movimento abolizionista fondato da Biram Dah Abeid, ex schiavo – perpetrata dalla minoranza “bianca” berbera, discendente da antichi nobili beydens, che vessano da secoli la maggioranza nera haratine, piantando in antichità semi panafricani per quello sfruttamento europeo della schiavitù su scala globale benedetto da bolle papali ancora precedenti l’impulso alla tratta derivante dalla spedizione di Cristobal Colon: Niccolò V prendeva semplicemente atto degli enormi interessi e ricchezze provenienti dalla deportazione e dal colonialismo, dunque lo benediva.
Come si legge in questo estratto dal volume di Diego Battistessa America Latina Afrodiscendente: una storia di (R)esistenza, esistono porte che mettono in comunicazione mondi diversi, in cui lo schiavismo si incista perfettamente sugli affari dei rispettivi gruppi dominanti su sistemi diversi tra loro ma complementari nello sfruttamento.

L’impero portoghese (l’ultimo impero a sciogliersi dopo la Rivoluzione dei Garofani, 1415 -1975) è stato indissolubilmente caratterizzato dalla tratta degli schiavi che divenne la colonna portante delle attività economiche d’oltremare. Il Portogallo in Africa si occupò di istituzionalizzare la pratica della schiavitù (già operata in diverse forme dai regni locali) e di darle un apparato legale e amministrativo. Non a caso la cittadina di Lagos, in Algarve, nel sud del Portogallo è conosciuta come la porta europea della tratta degli schiavi africani. Nel 1444, in un giorno infausto, arrivarono in quel porto 200 schiavi africani sequestrati in una retata partita da un porto commerciale che il Principe Enrique (conosciuto come El Navegante) aveva stabilito sulle coste dell’attuale Mauritania.

Cronologia e rotte dei principali movimenti della tratta degli schiavi. Mappa: NGM-P. Fonte: An Atlas of the Transatlantic Slave Trade, di David Eltis e David Richardson, riprodotto con il permesso della Yale University Press.

I profitti della vendita di quegli esseri umani spinsero molti altri a cercare fortuna con spedizioni verso le coste africane. Nei dieci anni successivi centinaia di africani arrivarono al porto di Lagos che si trasformò in breve tempo nel primo mercato europeo di vendita di schiavi provenienti dall’Africa. Questo è il punto di inizio dell’industrializzazione della tratta di esseri umani che portò più di 12 milioni di persone a essere “trafficate” verso le Americhe (oggi a Lagos esiste il Museo della Schiavitù, monito di quel passato di infamia e terrore diffuso ormai nei luoghi topici dello schiavismo: Gorée, Bahia, Liverpool, Amsterdam).

Foto di Diego Battistessa

Solo 8 anni dopo l’arrivo dei primi schiavi a Lagos, venne concessa la benedizione papale al re del Portogallo Alfonso V per legalizzare, agli occhi della comunità cristiana, quell’abominevole pratica. Il commercio di esseri umani fioriva, il centro delle operazioni si era spostato da Lagos alla capitale Lisbona e si cominciavano a stabilire regole e tariffe standard per normare la tratta e la vendita di esseri umani provenienti dall’Africa.

Dum diversas

Il papa Niccolò V (Tommaso Parentucelli) con la bolla Dum diversas del 16 giugno 1452 (quindi ben quarant’anni prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo nelle Americhe) legalizzava per volere di Dio la schiavitù e concedeva al re del Portogallo Alfonso V di «ridurre in perpetua schiavitù saraceni, pagani, infedeli e nemici di Cristo». Qui un estratto della bolla papale:

«Noi, rafforzati dall’amore divino, spinti dalla carità cristiana, e costretti dagli obblighi nel nostro ufficio pastorale, desideriamo, come si conviene, incoraggiare ciò che è pertinente all’integrità e alla crescita della Fede, per la quale Cristo, nostro Dio, ha versato il suo sangue, e sostenere in questa santissima impresa il vigore delle anime di coloro che sono fedeli a noi e alla vostra Maestà Reale. Quindi, in forza dell’autorità apostolica, col contenuto di questa lettera, noi vi concediamo la piena e libera facoltà di catturare e soggiogare Saraceni e pagani, come pure altri non credenti e nemici di Cristo, chiunque essi siano e dovunque abitino; di prendere ogni tipo di beni, mobili o immobili, che si trovino in possesso di questi stessi Saraceni, pagani, non credenti e nemici di Cristo; di invadere e conquistare regni, ducati, contee, principati; come pure altri domini, terre, luoghi, villaggi, campi, possedimenti e beni di questo genere a qualunque re o principe essi appartengano e di ridurre in sudditanza i loro abitanti; di appropriarvi per sempre, per voi e i vostri successori, i re del Portogallo, dei regni, ducati, contee, principati; come pure altri domini, terre, luoghi, villaggi, campi, possedimenti e beni di questo genere, destinandoli a vostro uso e vantaggio, e a quelli dei vostri successori…» (Niccolò V, Dum diversas)

Mexico, Distrito Federal, Palazzo Nazionale, murales di Diego Rivera dipinti sulla civiltà precolombiana

☞Conseguenze misericordiose del possesso di uomini

L’asse lusitano Gorée-Lagos diventa commercio transoceanico con Bahia

Nel 1536 dunque i portoghesi stabilirono una redditizia base commerciale sull’isola di Gorée ma le vicende del continente africano (e in questo caso la colonizzazione del Senegal) sono sempre state strettamente legate alle vicende interne del continente europeo. Nel 1580 infatti, con l’annessione del Portogallo alla corona di Spagna, la corte di Madrid prese possesso anche di tutti i territori che fino a quel momento erano stati sotto il dominio portoghese in Africa; e non solo…

L’unione iberica tra Spagna e Portogallo, tra il 1580 e il 1640, sotto l’egida della casa reale degli Asburgo dette origine a un conglomerato territoriale che comprendeva possedimenti in tutto il mondo: Messico, gli attuali Stati Uniti occidentali e meridionali, America centrale, Caraibi, Sud America, Filippine, Timor orientale, Paesi Bassi spagnoli (eccetto Paesi Bassi), nonché nuclei costieri e diverse enclave in Barberia (termine utilizzato per riferirsi alle zone costiere di Marocco, Algeria, Tunisia e Libia), Guinea, Angola, Mozambico e altre basi in Africa orientale, Golfo Persico, India, regni e ducati territoriali in Francia e in Italia e nel Sudest asiatico, (Macao, Molucche e Formosa).

Infatti il commercio portoghese non entrerà mai nello schema della Triangolazione: contando direttamente sui possedimenti intermedi di Capo Verde, San Paulo, Fernando de Nouronha tra Guinea, Angola, Mozambico e coste del “vicino Brasile (Salvador de Bahia)”, finché la tratta degli schiavi fu un affare iberico non transitò dall’Europa, ma andò direttamente dal Golfo di Guinea al Pernambuco.

Nonostante ciò però, la priorità che la Spagna dava allo sfruttamento delle enormi ricchezze delle colonie del “Nuovo Mondo” e la lunga e logorante guerra navale con l’Inghilterra (scoppiata proprio perché lo schiavismo industriale inglese andava a collidere su zone di influenza spagnole) fece passare in secondo piano il progetto di espansione nel continente africano, aprendo la porta all’arrivo di nuove potenze coloniali europee, come la Repubblica delle Sette Province Unite (1581-1795, territori calvinisti che oggi costituiscono i Paesi Bassi renani dalla Frisia a Rotterdam, in contrapposizione alle 8 province meridionali cattoliche, corrispondenti alle Fiandre, Artois, Brabante e Lussemburgo) che presto stabilì una base proprio sull’isola di Gorèe.

La piazza della borsa di Amsterdam come simbolo del nascente capitalismo, che si sviluppò soprattutto in Olanda e Inghilterra (alleate contro Luigi XIV). Capitale economica d’Europa nel Seicento, Amsterdam basò la sua fortuna soprattutto sull’attività commerciale e finanziaria; nella borsa venivano trattati i prezzi di tutte le merci e vi investivano anche i piccoli agricoltori e gli artigiani. Dipinto del 1659 (Rotterdam, Museum Boymans – Van Beuningen)

Arrivo in Senegal della Repubblica delle Sette Province Unite

Il settore tessile era alla base dell’economia olandese e inglese; il cotone ovviamente proveniva dal commercio della triangolazione schiavista. La tratta degli schiavi olandesi – avvenuta tra il XVII e il XIX secolo – è stata determinante per lo sviluppo economico e sociale del paese. Dipinto di Isaac Claesz van Swanenburgh in cui si vede il momento della filatura, che veniva eseguita prevalentemente dalle donne. (Leida, Stedelijk Museum de Lakenhal)


Stampa custodita nel National Museum of World Cultures in Amsterdam, Netherlands. Il Museo Nazionale della Schiavitù, un progetto a lungo atteso dai discendenti delle comunità africane delle ex colonie olandesi in Suriname (Sud America) e nelle Antille Olandesi (Caraibi), sta finalmente prendendo forma e l’apertura è prevista per il 2030

L’arrivo dei commercianti della Repubblica delle Sette Province Unite in quello che oggi è il Senegal (per gli olandesi Senegambia, o in dutch Bovenkust), ha coinciso con la progressiva perdita di controllo del territorio da parte del Portogallo. Le prime basi commerciali della Dutch West India Company furono stabilite sull’isola tra il 1588 e il 1617, periodo nel quale l’isola assunse il suo nome attuale partendo dal Goede Reede olandese e derivato poi nel francese Gorée. In quest’epoca vennero costruiti la maggior parte dei forti e dei magazzini che furono successivamente utilizzati per il massivo “stoccaggio” e commercio delle persone schiavizzate, mentre la prima base commerciale permanente fu installata solo nel 1621 (quando l’isola venne annessa alla Repubblica delle Sette Province Unite, comprandola dal Portogallo). Nel giugno di quell’anno infatti, venne fondata dai fiamminghi Willem Usselincx e Joannes de Laet, la Compagnia delle Indie Occidentali (Geoctroyeerde West-Indische Compagnie – WIC): una compagnia della marina mercantile olandese che rimase operativa fino al 1792. La sua sede si trovava ad Amsterdam e nel 1621, la Repubblica delle Sette Province Unite gli concesse una licenza per un monopolio commerciale nelle Antille olandesi, autorizzando la partecipazione olandese alla tratta degli schiavi atlantica, brasiliana, caraibica e del Nordamerica. L’area in cui la compagnia poteva operare era costituita dall’Africa occidentale (tra il Tropico del Cancro e il Capo di Buona Speranza) e dalle Americhe, inclusi l’Oceano Pacifico e la Nuova Guinea orientale. Lo scopo della licenza era eliminare la concorrenza, in particolare spagnola e portoghese, tra le varie stazioni commerciali.

☞La Casa degli schiavi inaugurata dagli olandesi

L’importanza dei porti atlantici nel Mercantilismo

La Repubblica delle Sette Province Unite non riuscì a mantenere però per molto tempo il controllo totale dell’isola anche perché proprio nella seconda metà del Diciassettesimo secolo si consumò una sfibrante lotta tra l’Olanda e la Francia di Luigi XIV (il Re Sole), confronto che portò a un progressivo tramonto del dominio olandese sui mari, a favore della già citata Francia (i porti atlantici di Nantes innanzi a tutti, e poi La Rochelle, Le Havre e Bordeaux in particolare) e dell’Inghilterra con i suoi porti (Liverpool soprattutto, e poi Londra, Bristol).

Una nota importante quando parliamo di commercio di persone e di Africa è data dalla comprensione del tipo di scambio che veniva proposto dalle potenze coloniali europee ai regni africani, che erano i principali “fornitori” di schiavi. I trafficanti europei intercambiavano diversi tipi di mercanzie nelle coste africane per l’acquisto di schiavi: tessuti, alcool, armi, diversi tipi di utensili e anche un particolare tipo di conchiglia molto ricercata e ambita dai nobili, sacerdoti e guerrieri locali, chiamata cauri. Il cauri è una piccola conchiglia che possiede una spiccata lucentezza, tanto da farla assomigliare alla porcellana e per questo in passato è stata utilizzata alla stregua di una pietra preziosa, assumendo un valore commerciale molto alto.

Una stampa del 1845 che mostra come le conchiglie cowry venissero usate come moneta corrente da un commerciante arabo. Il Ghana ha adottato l’immagine della conchiglia come moneta aggiungendo per antifrasi “Libertà e Giustizia”

Queste conchiglie sono “la casa” di un mollusco della famiglia Cypraeidae, che si ritiene essere originario delle Maldive, sebbene si trovi anche in diverse aree non solo nell’Oceano Indiano, ma anche nel Pacifico. I grandi imperi coloniali erano gli unici che potevano acquisire grosse quantità di cauri, che veniva poi scambiato con persone, sulle coste occidentali dell’Africa. In questo senso, un altro elemento da sottolineare (e molto spesso poco considerato), era la dinamica attraverso la quale gli schiavi venivano catturati e posteriormente venduti ai commercianti europei.

 

Le tratte dello schiavismo nell’interno africano

Questi ultimi infatti non si addentravano nel cuore del continente africano per ridurre in schiavitù le popolazioni native, ma promuovevano quest’attività tra i regni locali.

Così il compito di catturare e schiavizzare uomini e donne africane ricadeva sui sovrani delle tribù locali che dominavano le relazioni commerciali nel continente, lasciando agli europei la parte della navigazione e della distribuzione degli schiavi nei territori coloniali oltre oceano. Gli schiavizzati venivano catturati durante i conflitti tra le popolazioni locali, portati fino alla costa e poi venduti ai trafficanti europei. Non mancavano però casi di persone, appartenenti alle stesse comunità che commerciavano con gli europei che, o per aver commesso un crimine o semplicemente per essere caduti in disgrazia agli occhi del sovrano, venivano venduti come schiavi. Questo ci permette di poter affermare che in sostanza gli europei controllavano solo la parte costiera oceanica del traffico degli schiavi africano, che vedeva nello stesso continente un forte protagonismo dei sovrani locali, veri signori e padroni del commercio di esseri umani nel continente.

☞ La cattura degli africani sugli africani

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Nhara lusitana – signare francese: tenutarie amministrative

La più grande Casa degli Schiavi dell’isola di Gorée (e ultima) fu aperta dagli olandesi nel 1776. Questa “casa degli orrori” era amministrata da Anna Colas Pépin e oggi è stata convertita dall’Unesco in un museo della memoria e santuario per la riconciliazione.  La stessa Unesco che dichiarò nel 1978 patrimonio dell’umanità questa isola di soli 17 ettari che si trova a 15 minuti di traghetto dal porto di Dakar.

Edouard-Auguste Nousveaux, Il principe di Joinville assiste a un ballo sull’isola di Gorée, dicembre 1842 – Collezioni del castello di Versailles – (Tra le persone che lo ricevono si può vedere la figura di quella che potrebbe essere Anna Colas Pépin)

Anna Colas Pépin era una signare che gestì nel Diciannovesimo secolo quella che oggi è la casa museo sull’isola di Gorée. “Annacolas” Pépin (1787-1872), ostentò il prestigioso ruolo di signare, nome dato alle donne mulatte franco-africane dell’isola di Gorée e della città di Saint-Louis nel Senegal coloniale francese tra il Settecento e l’Ottocento, diventando una delle persone più rilevanti nel commercio dell’isola. Esisteva una parola anche in portoghese per definire lo stesso ruolo, nhara, che identificava le donne d’affari afro-portoghesi che hanno svolto un ruolo importante come agenti d’affari attraverso i loro legami con le popolazioni portoghesi e africane.

Belle vite tra mito e romanzo storico su sfondo schiavista

Il ruolo delle signare era importantissimo e spesso fungeva anche da vincolo sociale e culturale con le amministrazioni coloniali dei territori sotto il controllo delle potenze europee. Queste relazioni non si limitavano allo spazio commerciale e al traffico di influenze ma spesso includevano anche relazioni amorose più o meno ufficiali, con alti rappresentanti della colonia. Il loro mito e la loro influenza hanno attraversato varie generazioni e le troviamo anche in opere letterarie di enorme spessore, come nel romanzo storico Segu (1988), della recentemente scomparsa scrittrice e giornalista dell’arcipelago della Guadalupa (Caraibi), Marise Liliane Appoline Boucolon (Maryse Condé). In questa magnifica e già immortale opera, Maryse Condé, ci parla nella prima parte del capitolo 9, di Anna Pépin (zia di Anna Colas Pépin).

 

La memoria controversa in epoca contemporanea

Il diverso significato museale

Ciascuno dei vertici del triangolo mercantilista propone un suo approccio alla memoria, museificando gli aspetti con cui si trova a fare maggiormente i conti dal proprio punto di vista della tratta: a Bahia il museo della coscienza nera, a Liverpool quello delle scuse vergognose, in Algarve quello della memoria rimossa delle deportazioni portoghesi da Gorée, tanto poco riconosciuto da essere in madrepatria lusitana.

Il Museo della memoria e la Maison des Esclaves

«Sdraiata su una stuoia sul balcone della sua casa sull’isola di Gorée, Anne Pépin si annoiava. Si annoiava da dieci anni, da quando il suo amante, il gentiluomo di Boufflers, che era stato governatore dell’isola, era tornato in Francia. Aveva messo da parte abbastanza soldi per sposare la sua bella amica, la contessa di Sabran. Anne restava sveglia la notte pensando alla sua ingratitudine. Non aveva potuto dimenticare che per alcuni mesi aveva organizzato feste di alta classe e balli in maschera, intrattenimenti teatrali come quelli della corte del re di Francia. Ma ormai tutto era finito e lei era lì, abbandonata nel suo pezzo di basalto gettato in mare davanti a Capo Verde, unico insediamento francese in Africa, a parte Saint-Louis alla foce del fiume Senegal» (Maryse Condé, Segu).

Per un approfondimento sulla storia e creazione di questa casa museo, possiamo fare riferimento a un articolo della Ph.D Deborah L. Mack, pubblicato dall’American Alliance of Museums (AAM) – un’associazione senza scopo di lucro che si occupa di riunire i musei degli Stati Uniti sin dalla sua fondazione nel 1906.

Mack ci spiega come che nel Novecento i membri della famiglia di Boubacar Joseph Ndiaye (nativo di Gorée) acquisirono una residenza del Diciottesimo secolo che fu la casa di una ricca imprenditrice senegalese e signare di nome Anna Colas Pépin. Ndiaye passò diversi anni della sua infanzia in questa residenza e dopo l’indipendenza del Senegal dalla Francia, con l’incoraggiamento personale di Léopold Sédar Senghor (illustre poeta e primo presidente del Senegal indipendente dal 1960 al 1980), Ndiaye iniziò la sua ricerca storica sull’edificio. Investendo in proprio tempo e risorse economiche, Ndiaye “scavò” nel passato sociale e architettonico della residenza Pépin. scoprendo un infame passato che lo portò a ribattezzare la casa come Maison des Esclaves (la Casa degli Schiavi). Il lavoro di Ndiaye come curatore prima e fondatore del museo poi, è durato fino alla data della sua morte, avvenuta nel 2008.

Foto di Diego Battistessa

Dall’industria schiavistica a quella turistica

Con l’abolizione della schiavitù finì l’epoca di splendore di Gorée che doveva la sua fama e la sua ricchezza al commercio di quello che all’epoca veniva chiamato “avorio nero”, una forma mercantilista e disumanizzante di chiamare le persone vittime della tratta.

Di fronte alle sue coste nacque Dakar, la futura capitale del Senegal, e Gorée si svuotò progressivamente. Dei 5000 abitanti che contava alla fine dell’Ottocento, oggi se ne contano poco più di 1000. L’isola divenne un luogo di riposo e svago per le famiglie benestanti dei politici coloniali in cerca di tranquillità e oggi, anche grazie al lavoro svolto dall’Unesco, è un luogo che riceve un flusso importante di turisti internazionali.

L’orrore dello schiavismo in epoca moderna

Per le strade dell’isola, dove non circolano automobili e il tempo sembra essersi fermato, le costruzioni color pastello si alternano a edifici in rovina che ricordano antichi fasti del tempo che fu. Una ricchezza che nascondeva un orrore senza pari, perché mentre al secondo piano di queste mansioni si consumava la vita in stile “europeo” con cerimonie, balli e riunioni d’affari, al piano terra “vivevano” un vero e proprio inferno le persone “ammassate” in attesa di essere vendute: infatti mentre al piano superiore viveva il proprietario della Masion des Esclaves, al piano inferiore tutto era stato costruito nei minimi dettagli per il commercio umano. Un’architettura della tortura con celle anguste dove venivano divisi uomini, donne e bambini; ma esistevano anche prigioni (luoghi ancora più angusti e claustrofobici), dove annientare la resistenza psicologica dei più ribelli, oltre a una stanza utilizzata per l’alimentazione. In quest’ultimo spazio venivano “ingrassati” gli schiavi prima di essere venduti, secondo dei protocolli che prevedevano di raggiungere un certo peso prima delle trattative con i proprietari delle navi negriere.  Si creava volontariamente anche una separazione fisica tra i bambini (da 4 a 12 anni) e le loro madri, per impedire a queste ultime di udire il pianto dei figli, e preservare così la loro “salute” e quindi il prezzo di vendita della “merce”. La Casa Museo dell’isola di Gorée è il perfetto esempio di queste costruzioni del terrore. Il pianoterra di questo edificio poteva arrivare a contenere fino a 200 persone, divise in celle di poco più di 2 metri quadrati, dove erano costrette a rimanere in piedi ed espletare i loro bisogni nella stessa posizione. All’arrivo i prigionieri passavano la prima ispezione dove si controllava la dentatura, si cercavano segni di malattie, cicatrici, qualsiasi indizio che potesse diminuire il prezzo. Gli uomini, in forza, che pesavano almeno 60 kg erano destinati immediatamente alla vendita. Tra il primo e il secondo piano della mansione, due scale semicurve, venivano esposte le persone sequestrate e schiavizzate per essere mostrate e negoziarne il prezzo con i potenziali acquirenti.

Foto di Diego Battistessa

Una volta acquistati, non veniva dato il loro tempo di dire addio a nessuno, venivano fatti passare per un angusto corridoio nella cui parte finale si trovava una porta affacciata sul mare: il luogo tristemente noto come la porta del non ritorno. L’ultimo punto di contatto fisico con il proprio continente, la propria terra, il proprio universo: il primo passo nella tratta oceanica che li avrebbe portati vero il “Nuovo Mondo“.

Ile de Goré

Una simbolica porta sull’isola di Gorée, da dove le imbarcazioni schiaviste salpavano verso il continente americano, trasportando nelle stive gli schiavi catturati come manodopera nei campi oltreatlantico. Foto di Adriano Boano

Merce all’ingrasso

Chi però non pesava almeno 60 kg e non dimostrava di essere sufficientemente in forza, veniva obbligato a mangiare, secondo le stesse pratiche usate per ingrassare il bestiame. Catene, ceppi e pesanti palle di ferro logoravano polsi, collo e caviglie, impedendo ogni tentativo di fuga, rompendo la resistenza psicologica e facendo piombare queste persone nella più totale rassegnazione. L’incapacità di comunicare tra loro (spesso venivano da luoghi, etnie e culture diverse) aumentava il sentimento di solitudine, portando alcuni di loro a tentare il suicido. Morirono a migliaia, in queste e nelle altre case degli schiavi dell’isola. Morirono di malattie, morirono di botte, morirono di paura, violentati in ogni modo possibile e immaginabile, abusati in ogni aspetto della dignità umana: morirono anche quelli che restarono vivi.

☞e continuarono a morire in catene oltreatlantico

Edifici tra le rovine: la riconciliazione impossibile

Sull’isola sono presenti oggi altri luoghi simbolo che rendono testimonianza di un passato lontano dall’abbandono del presente. Arrivando dal mare, con La Chaloupe de Gorée (barca Gorée) che parte dal Porto di Dakar (Terminal dei Traghetti), la prima cosa che si vede è il Fort d’Estrées. Un forte con una importante batteria di cannoni, costruito dai francesi tra il 1852 e il 1856 per proteggere l’ingresso del porto della recentemente fondata Dakar. Oggi questo spazio ospita un museo, gestito dall’Institut fondamental d’Afrique noire (Ifan), dedicato alla memoria africana. Nella stessa zona trovavamo anche un simbolo che voleva essere di riconciliazione ma che ha acceso più di una controversia. Proprio di fronte al museo si trovava infatti la piazza Europa, per celebrare gli aiuti che l’Unione europea ha destinato per il ripristino dei valori storici dell’isola. Nel giugno 2020 però l’amministrazione locale ha deciso di ribattezzare il luogo come “Place de la Liberté et de la Dignité humaine”, così come spiegato in questo articolo di “Le Monde”.

Foto di Diego Battistessa

Lasciandosi alle spalle il forte-museo si può iniziare una passeggiata (tra le poche strade che intrecciano l’isola) circondati da baobab e rigogliose bouganville, antiche case coloniali, ristoranti, piccoli punti di vendita di prodotti artigianali, alcune pensioni per il pernottamento e alcuni edifici in rovina. Possiamo trovare anche una chiesa, una moschea, una scuola e una piccola spiaggia di sabbia dove spiccano i variopinti tipici cayucos senegalesi.

Foto di Adriano Boano

Una passeggiata obbligata è quella che porta dal Mercato dell’Artigianato attraverso il sentiero dei Baobab, poche centinaia di metri che aprono lo sguardo verso i resti del Fort Saint-Michel, costruito dagli olandesi dopo aver acquistato l’isola dai portoghesi. L’isola è inoltre oggi sede e musa ispiratrice di una grande comunità artistica, le cui opere sono ben visibili in ogni angolo di questo piccolo pezzo di terra circondato dal mare.

Approcci diversi tra afrorappresentanti di opposte provenienze

Foto di Diego Battistessa


Foto di Diego Battistessa

L’isola di Gorée è diventata con il tempo anche un luogo di pellegrinaggio e manifesto politico per grandi leader mondiali contemporanei, tra i quali spiccano sicuramente Nelson Mandela e Barack Obama. Il 25 novembre 1991 Mandela visitò Gorée e nello specifico il Museo della Casa degli Schiavi, entrando una delle anguste celle di punizione e rimanendoci per svariati minuti. Quando lasciò la cella si racconta che non poté trattenere l’emozione, spiegando come quel posto gli ricordava Robben Island, in Sudafrica, dove era stato prigioniero.

Ancora presenti sul web, sono invece le immagini del presidente degli Usa, Barack Obama, che nel giugno del 2013 visitò l’isola di Gorée: occasione sfruttata dai suoi detrattori per strumentalizzare revisionisticamente il dibattito sulla reale o presunta importanza dell’isola e sul suo reale impatto numerico nella tratta transatlantica di persone.

☞c’è toponomastica e toponomastica

Città del Mercantilismo Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis
Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda
Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

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Prime contaminazioni europee

Tra il 1444 e il 1445 l’esploratore portoghese Dinis Dias fece rotta dal Portogallo verso sud, verso le coste occidentali dell’Africa. Nel suo viaggio non si applicò nella cattura di persone da schiavizzare e da poter rivendere nel nascente mercato di esseri umani di Lagos, bensì si concentrò nell’esplorazione di nuove terre e nuove rotte marittime. Dias giunse in quella che oggi è la penisola della regione di Dakar, battezzandola come penisola di Cabo Verde.

L’esploratore portoghese non sapeva di aver raggiunto la parte più occidentale del continente africano e di tutto il congiunto territoriale dell’Eurafrasia (Vecchio Mondo o Continente antico), quello che però vedeva era un eccellente porto naturale di fronte al quale si trovava un’isola che sarebbe diventata tristemente famosa in tutto il mondo: l’isola di Gorée (in francese, Île de Gorée; in portoghese, Ilha de Goreia) che fu per più di tre secoli uno dei mercati di persone che “rifornirono” le economie schiaviste di Stati Uniti d’America, Caraibi e Brasile. Dagli abitanti locali l’isola era chiamata Berzeguiche, però l’esploratore portoghese la battezzò come Ilha de Palma (l’isola delle Palme) e anche se non fu usata immediatamente come base permanente, il luogo venne utilizzato come punto di sbarco e commercio nella regione: cristianizzato nel 1481 con la costruzione di una cappella per i riti religiosi.

 

L’interesse delle potenze coloniali

Fu 84 anni dopo l’arrivo di Dinis Dias che i portoghesi costruirono sull’isola la prima Casa degli Schiavi, una data marcata a fuoco nella storia: il 1536 è l’anno che inaugurò uno dei processi più oscuri dell’umanità. L’isola passò di “mano in mano” più volte, giacché le potenze coloniali e marittime dell’epoca (Portogallo, Francia, Inghilterra e Paesi Bassi) a partire dal Sedicesimo secolo si dedicarono all’installazione di forti e insediamenti militari dal Senegambia (un’area geografica che corrisponde approssimativamente ai bacini dei fiumi Senegal e Gambia) fino al Golfo di Guinea. Fortezze che fungevano sia da scalo economico che come rifugio dalle aggressioni dalle potenze europee rivali e contro gli attacchi dei vicini stati africani.

Adolphe d’Hastrel, Casa della signara Anna Colas a Gorée, 1839

Dopo l’arrivo dei portoghesi giunsero sull’isola anche i naviganti della repubblica delle Sette Province Unite (attualmente Paesi Bassi) che nel 1588 ne iniziarono la colonizzazione, costruendo nel 1621 un insediamento per proteggere la loro attività di commercio di schiavi. Ed è proprio in riferimento al periodo di dominio dei Paesi Bassi che si fa risalire il nome dell’isola, giacché per la sua posizione strategica, questo piccolo pezzo di terra in mezzo al mare offriva un porto sicuro per l’ancoraggio delle navi, da qui perciò l’origine del suo nome: chiamata Goede Reede dagli olandesi (Baia buona). Nel 1677 arrivarono anche i francesi (dalla vicina e recentemente consolidata, nel 1659, base commerciale di Saint Louis), che assunsero il controllo e stabilirono una piccola base commerciale sull’isola. I francesi rimasero in possesso (in modo alterno) dell’isola fino al 4 aprile 1960 (data dell’indipendenza del Senegal) però a partire dall’abolizione della schiavitù in Francia e nelle colonie, avvenuta nel 1848, Gorée soffrì un enorme declino economico, che aumentò ancora di più con la fondazione della città di Dakar nel 1857 (attuale capitale del Senegal).

☞I francesi arrivano per rimanere

 

Destinazione d’uso schiavista

Fu così come questo piccolo lembo di terra si trasformò, secondo quanto riporta l’Unesco, in un quartier generale (prima legale e poi clandestino) della tratta di persone schiavizzate, dove arrivarono a operare contemporaneamente 28 Case di Schiavi, che “stipavano” in condizioni disumane (dentro veri e proprio ergastulum di romana memoria), persone rapite da varie parti dell’Africa occidentale. Persone schiavizzate (donne, uomini, bambini) che venivano imprigionati, incatenati e poi fatti salire su delle barche che li avrebbero portati (dopo orribili mesi di navigazione) a destinazione, in porti come quello di Salvador da Bahia, dove sarebbero stati marchiati a fuoco e venduti.

1. Le navi negriere

Vittime di una guerra etnica o del capriccio di un sovrano, catturati, fatti camminare incatenati per chilometri prima di raggiungere la costa africana dell’Oceano Atlantico. Lì, privati del loro nome, della loro identità, di tutti i diritti.

Vengono fatti salire su una nave: la prima che molte di quelle persone avessero mai visto. Di fronte a loro un viaggio di mesi attraversando l’Atlantico per raggiungere le piantagioni di canna da zucchero dove avrebbero lavorato fino a morire di stenti.

Una folla di neri di ogni tipo incatenati insieme, che a malapena hanno spazio per voltarsi, che viaggiano per mesi, storditi, circondati dalla sporcizia e da grandi contenitori pieni di vomito, in cui spesso cadono e muoiono soffocati i bambini. Le grida delle donne e il lamento dei morenti trasformano l’intera scena in un inconcepibile orrore. Morte e malattie sono ovunque e una persona su sei non sopravviverà a questo viaggio e al lavoro brutale ed estenuante che seguirà (Organizzazione delle Nazioni Unite – Onu)

Il “middle passage” (passaggio intermedio) era la parte del commercio triangolare che prevedeva un viaggio disumano (che durava dai due ai tre mesi) dai porti africani verso le coste del continente americano; questo commercio dalla rotta triangolare è il legame che tiene insieme il trittico proposto in questo dossier. Questa rotta stabilita nell’oceano Atlantico a partire dal Diciassettesimo secolo fino al Diciannovesimo secolo prevedeva l’acquisto di schiavi nei porti africani (specialmente nel Golfo di Guinea) per vendere le persone schiavizzate nei porti del “Nuovo Mondo”, dopo un lungo e penoso viaggio in mare di mesi (middle passage). Le barche quindi cariche di merci acquisite con la vendita degli schiavi, tornavano nei porti europei chiudendo il triangolo. Le barche destinate al trasporto di schiavi prendevano il nome di barche negriere. Le imbarcazioni venivano modificate dagli armatori in modo da poter contenere il maggior numero di persone possibile: il livello di sovraffollamento, mancanza di igiene e di qualsiasi minima considerazione umana, rendeva queste barche un vero inferno.

La storia infinita di abusi, sfruttamento, contenzione e scafisti

Il carico di persone schiavizzate (che in alcuni casi arrivò anche a 400 per una singola imbarcazione) veniva diviso tra uomini, adolescenti e donne insieme ai bambini. Le donne venivano costantemente stuprate dal capitano e dal resto dell’equipaggio, gli uomini venivano utilizzati per alcuni lavori minori e si cercava di tenerli in allenamento per mantenere la loro forza fisica. Alle donne venivano dati alcuni abiti per coprire i loro corpi mentre gli uomini spesso erano lasciati completamenti nudi. Le donne si occupavano anche di preparare il cibo per l’equipaggio e spesso agli schiavi veniva richiesto di intrattenere i marinai con balli e canti: negarsi voleva dire guadagnarsi una punizione fisica.

Domanda di merce abbondante e non avariata

Da un lato il capitano della barca negriera doveva assicurarsi di poter caricare quanti più schiavi possibile per massimizzare il suo guadagno, dall’altro però era necessario contenere le epidemie e le morti per denutrizione. Gli schiavi viaggiavano non solo in spazi angusti, senza luce, stipati come merce nella stiva o in sottocoperta ma anche incatenati. Durante la maggior parte delle infinte giornate di navigazione non potevano quasi muoversi. La dissenteria era la maggior causa di morte tra gli schiavizzati, che però molto spesso venivano colpiti anche dalla malaria, febbre gialla, scorbuto, problemi respiratori e infezioni. Non possiamo sapere per certo quali fossero le condizioni psicologiche delle persone che vivevano questa disumana situazione, né quanti casi di suicidio (o di tentato suicidio) ci siano stati: diventa però comprensibile immaginare che non fosse solo la dolenza fisica la causa di tante morti. La reale percentuale di morti, delle persone che dall’Africa venivano portate in schiavitù verso le Americhe è ancora fonte di dibattito, ma il punto di partenza comune degli storici è che si tratti di una cifra superiore al 15 per cento del totale.

I cimiteri nei mari

Quando una persona schiavizzata moriva sulla barca negriera non gli veniva concesso nessun rito funebre, veniva semplicemente gettata nell’oceano. Il compito dei marinai, spesso gente senza scrupoli e senza futuro (l’ultimo posto sul quale avrebbe voluto lavorare un marinaio bianco europeo dell’epoca, era una barca negriera), ero quello di prevenire le ribellioni, mantenere vivi gli schiavi e preparali (tagliare loro barba e capelli, curare le ferite superficiali, etc.…) per la vendita, prima di giungere a destinazione.

Una volta raggiunti i porti delle Americhe venivano fatti passare per un controllo sanitario e dopo il passaggio alla dogana venivano presi in carica dal commerciante locale autorizzato (che contava con una particolare licenza) che procedeva a marchiarli con un ferro incandescente per stabilirne la proprietà.

Estratto dal libro America Latina Afrodiscendente: una storia di (R)esistenza, di Diego Battistessa

Il Mercato e la Capoheira☜

 

Africa di David Diop

Difficile immaginare cosa abbia voluto dire, difficile provare a sentire quello che hanno sentito quelle persone, difficile se non impossibile immedesimarci in quel terrore, in quello spaesamento, in quella rabbia e in quell’angoscia. Lasciamo allora che siano le parole di David Mandessi Diop (9 luglio 1927 – 29 agosto 1960) un poeta senegalese (morto troppo giovane in un incidente aereo) che ha contribuito enormemente con il suo lavoro, che parte da un forte e convinta posizione anticoloniale, al movimento letterario della Négritude. In questa poesia Diop fa dialogare l’Africa con un discendente di quelle persone trafficate, che idealmente possiamo immaginare si trovi ora nel continente americano.

A mia madre

Africa, mia Africa

L’Africa e i fieri guerrieri negli antichi deserti

L’Africa cantata da mia nonna

Sul bordo del suo fiume lontano

Io non ti ho mai conosciuto

Ma il mio sguardo è pieno del tuo sangue

Il tuo buon sangue nero è stato versato sui campi

Il sangue del tuo sudore

Il sudore del tuo lavoro

L’opera della schiavitù

La schiavitù dei tuoi figli

Africa, dimmi Africa

Sei tu allora quella schiena che si curva

E che cade sotto il peso dell’umiliazione

Quella spada tremante, macchiata di rosso

Chi dice sì alla frusta nel lavoro di mezzogiorno

Ed ecco che gravemente, mi risponde una voce

Figlio impetuoso, quell’albero giovane e robusto

Quell’albero laggiù

Splendidamente solo tra i fiori appassiti

È l’Africa, la tua Africa che rinasce ancora

Che germoglia di nuovo con paziente ostinazione

I cui frutti acquisiscono a poco a poco

Il sapore amaro della libertà.

☞e una voce risponde oltreatlantico

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La Rivoluzione industriale di Cottonopolis

La ricchezza dei paesi imperiali è anche la nostra ricchezza.
Frantz Fanon, Les damnés de la terre

Quasi il 90 per cento del cotone coltivato in Alabama, Mississippi e Louisiana veniva venduto a Manchester, trasformato in tessuto da cinquemila stabilimenti tessili del Lancashire procurando cibo per le tavole delle classi lavoratrici. Così si potrebbe riassumere l’esplosione della rivoluzione industriale che coinvolse Manchester e che la vincolò, attraverso il porto di Liverpool a un commercio che incoraggiava e traeva enormi profitti dalla schiavitù. La zona del Lancashire era già molto famosa per i cotonifici alimentati dall’acqua ma l’apertura del primo stabilimento al mondo azionato a vapore in Miller Street, da parte di Richard Arkwright nel 1781, cambiò tutto. A poco a poco la meccanizzazione dei processi rivoluzionò in modo sostanziale la produzione, trasformando le fiorenti industrie tessili di Manchester nel primo centro di produzione di massa al mondo.

Nei paesi coloniali il popolo colonizzato e la classe operaia del paese colonialista hanno interessi comuni. La storia delle guerre di liberazione, condotta dai popoli colonizzati, è la dimostrazione della falsità di questa tesi
Frantz Fanon, Pour la révolution africaine : écrits politiques

Infatti spesso il Lumpenproletariat e le classi meno abbienti vedono i migranti come rivali proprio nell’attribuzione del lavoro più sfruttato e sottopagato, finendo con il fare il gioco dei padroni e dei fascisti più retrivi e razzisti.

Il ruolo dell’informazione e il controllo della narrazione

Il vincolo di Manchester con il passato schiavista del Regno Unito è così forte che recentemente (nel 2023) anche “the Guardian”, il principale quotidiano di sinistra britannico si è scusato. Il giornale fondato a Manchester nel 1821, ha infatti riconosciuto i suoi legami con la tratta e lo sfruttamento degli schiavi negli Stati Uniti d’America facendo riferimento agli uomini che iniziarono quest’impresa editoriale. Il giornale fu fondato da John Edward Taylor, un giornalista che era però anche un commerciante di cotone, attività che lo portò ad associarsi in numerose occasioni alle piantagioni negli Stati Uniti d’America: piantagioni che utilizzavano manodopera schiava. Però non solo John Edward Taylor: infatti almeno nove degli undici investitori originari possedevano società che ricavavano buona parte del loro capitale dal commercio di cotone, zucchero e prodotti tessili, industrie intrinsecamente legate alla schiavitù.

Ne risulta dunque che “the Guardian” è stato costruito e finanziato con denaro procedente dal commercio e dallo sfruttamento della schiavitù. Ole Jacob Sunde, direttore dello Scott Trust (che oggi possiede “the Guardian”), ha dichiarato:

«Lo Scott Trust è profondamente dispiaciuto per il ruolo che John Edward Taylor e i suoi sostenitori hanno avuto nell’economia della schiavitù. Riconosciamo che chiedere scusa e condividere questi fatti in modo trasparente è solo il primo passo per affrontare i legami storici di “the Guardian” con la schiavitù transatlantica, che è stata un crimine contro l’umanità. In risposta ai risultati della ricerca, lo Scott Trust si impegna a finanziare un programma di giustizia riparativa nel prossimo decennio, che sarà progettato e portato avanti in consultazione con le comunità discendenti negli Stati Uniti, in Giamaica, nel Regno Unito e altrove, focalizzato su progetti a lungo termine e iniziative di impatto significativo».

Foto di Diego Battistessa

Orrore schiavista Usa <-> Sfruttamento industriale GB

“The Guardian” però non si è limitato a stabilire le origini della sua fondazione, ma ha lanciato nel 2023 un enorme lavoro di giornalismo investigativo che ha prodotto un grande impatto nella società britannica. Stiamo parlando di Cotton Capital, how slavery changed the Guardian, Britain and the world. Una ricerca accademica, commissionata alla fine del 2020 dallo Scott Trust e condotta in tre fasi dall’Istituto per lo studio sulla schiavitù dell’Università di Nottingham e dal Wilberforce Institute for the Study of Slavery and Emancipation dell’Università di Hull, ha infatti stabilito una serie di connessioni tra il commercio transatlantico di persone schiavizzate, la città di Manchester e la Gran Bretagna in generale. Una serie di articoli, reportage, podcast e documenti che ricostruiscono e spiegano nel dettaglio l’oscuro passato di Cottonopolis.

Foto di Diego Battistessa

«Quando ci prendiamo un momento per pensare agli orrori della schiavitù americana raramente siamo portati a fare collegamenti con gli stabilimenti di Manchester».
David Olusoga, storico e ricercatore dello Scott Trust

lo schiavismo reso possibile dai porti britannici ☜

L’inchiesta di “The Guardian”

Qui alcune parti, accessibili gratuitamente, della ricerca intitolata Cotton Capital dal quotidiano progressista di Manchester, che si collega direttamente al vertice del Triangolo sviluppato a Bahia.

Dalla pagina web del museo, possiamo leggere:

«Soprannominata “Cottonopolis”, Manchester un tempo era il centro internazionale dell’industria mondiale del cotone. La città importava fino a un miliardo di tonnellate di cotone grezzo all’anno, città come Bolton e Preston divennero centri di produzione e la Platt Brothers & Co. Ltd. di Oldham costruì macchine tessili per stabilimenti di tutto il mondo.
L’industria tessile di Manchester ha portato una grande ricchezza a molte persone. Tuttavia, innovazione e profitti sono andati di pari passo con la disuguaglianza e lo sfruttamento, su scala locale e globale. Nel 1860, oltre l’80 per cento del cotone lavorato negli stabilimenti di Manchester e dintorni veniva coltivato da africani schiavi nelle piantagioni del sud degli Stati Uniti. Era solo grazie a questo sistema di sfruttamento umano, che i produttori di Manchester ottenevano il cotone nelle quantità e ai prezzi desiderati».

☞come avveniva per le tessitrici olandesi

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Tentativo di riscatto

A oggi cosa sta facendo la città di fronte alle evidenze storiche di sfruttamento dello schiavismo su cui si fonda il benessere dell’Impero britannico? Liverpool ha deciso di non nascondere la testa sotto la sabbia” e in un atto che ha generato non poche polemiche, il consiglio comunale della città ha deciso di non cambiare la toponomastica dei luoghi pubblici, ma di “conservare e spiegare” i nomi delle strade che commemorano le persone coinvolte nella tratta e nello sfruttamento degli schiavi. Invece di rinominare queste strade dunque, il Comune ha deciso di erigere delle targhe accanto ai segnali stradali per fornire informazioni sui vincoli che legano il personaggio in questione con la schiavitù.

La stessa cosa è stata fatta anche nella Walker Art Gallery (una delle collezioni di dipinti più importanti e rinomate del Regno Unito), che oggi espone insieme ai quadri delle personalità di Liverpool, oggetti che prima facevano parte della collezione del museo della schiavitù. In particolare possiamo fare riferimento ad alcune catene da caviglia in ferro battuto, che sono state permanentemente trasferite alla Walker Art Gallery nel tentativo di affrontare ed esibire i legami coloniali tra schiavitù e arte. Catene del tipo utilizzato durante il viaggio sulle navi negriere per trattenere e imprigionare gli africani sottocoperta nella stiva della nave, che sono oggi esposte accanto al quadro della famiglia Sandbach, noti commercianti e proprietari di piantagioni nelle Americhe.

Foto di Diego Battistessa

Vediamo dunque come attraverso degli sforzi congiunti si provi ad affrontare in modo diretto questo passato scomodo e pieno di soprusi, sforzi che si centrano anche nel dare spazio alle generazioni di nuovi artisti afrodiscendenti e africani che trattano la tematica della tratta degli schiavi e del loro commercio da diverse latitudini, geografiche ed emotive. Un esempio di questi nuovi progetti dirompenti ospitati dal Museo della Schiavitù è offerto dal dipinto di Shane D’Allessandro dal titolo Contributions (2020): un artista visivo emergente di origini giamaicane e italiane, originario del Suffolk britannico e attualmente residente a Londra.

Foto di Diego Battistessa

There Ain’t No Black in the Union Jack, espressione presa dal titolo del libro d Paul Gilroy del 1987 e che denuncia come non ci sia traccia del contributo delle comunità nere all’identità britannica nel simbolo ultimo della patria, la bandiera, chiamata in modo informale “The Union Jack”. Partendo da questa domanda, “Non c’è nero nella Union Jack”? l’autore spiega che «il mio dipinto reinventa la bandiera britannica per racchiudere le comunità nere dei Caraibi che, come molte altre comunità, hanno dato e contribuito così tanto, spesso senza riconoscimento o ringraziamento. Pur non includendo tutte le bandiere dei Caraibi nel mio dipinto, spero che sia comunque in grado di invocare sentimenti di solidarietà per tutti i neri di questo paese, indipendentemente dalla loro provenienza».

Nel dipinto vengono incorporate alla Union Jack le bandiere di Aruba, Bahamas, Barbados, Cuba, Repubblica Domenicana, Grenada, Giamaica, St. Lucia, Saint Kitts e Nevis, St Vincent e Grenadine, Trinidad e Tobago.

Foto di Diego Battistessa

☞e questo fa il paio con la memoria del Muncab di Bahia

Dopo questo viaggio toponomastico della città di Liverpool e nel passato coloniale britannico, possiamo comprendere la connessione innegabile che questa città ha con la tratta delle persone africane schiavizzate e con il profitto sul lavoro delle stesse nelle piantagioni del “Nuovo Mondo”. Non solo Beatles e calcio, dunque ma un passato che consegna una pesante eredità con la quale fare i conti. Liverpool ha giocato un ruolo da protagonista nell’espansione del traffico di persone africane schiavizzate (come Bristol, altro porto tristemente famoso per gli stessi motivi), una memoria che non può e non deve essere sepolta. Gli sforzi che vanno in questa direzione oggi sono molti, un impegno verso un’opera di riscrittura della “verità” collettiva che passa verso la messa in discussione della Storia raccontata dai vincitori e per una necessaria riparazione verso la comunità afrodiscendente. La complessità di una città portuale come Liverpool, che ha visto per esempio l’arrivo di milioni di irlandesi tra il Settecento e l’Ottocento (la maggior parte di loro come scalo a New York e Londra, ma molti altri rimasero; ragione per la quale si calcola che due terzi degli scouser abbiano ascendenze irlandesi), che ha sofferto per il naufragio del Titanic (la White Star Line era proprietaria della famosa nave e aveva sede a Liverpool , inoltre  molti dei passeggeri erano irlandesi diretti in America), che ha vissuto una forte radicalizzazione politica negli anni Ottanta (basti nominare gli scontri di Toxteth nel 1981) e una forte avversione verso Margareth Thatcher e le sue politiche, non può essere riassunta solo dalla sua partecipazione nel commercio triangolare.

La rivolta di Toxteth nel 1981

Nonostante ciò, è vitale dare spazio a questo passato, così come sta facendo il Museo della Schiavitù di Liverpool e la University College of London, attraverso il Centre for the Study of the Legacies of British Slavery. Quest’ultimo progetto per esempio (istituito presso l’Ucl con il generoso sostegno dell’Hutchins Center di Harvard), si basa su due progetti precedenti che tracciano l’impatto della proprietà degli schiavi sulla formazione della Gran Bretagna moderna: il ESRC-funded Legacies of British Slave-ownership project (2009-2012), e il ESRC and AHRC-funded Structure and significance of British Caribbean slave-ownership 1763-1833 (2013-2015). Utilizzare questo database è molto facile, basta accedere al sito e usare la barra di ricerca per ottenere informazioni sui vincoli dei singoli individui con la tratta, commercio e sfruttamento delle persone schiavizzate. Vi consigliamo di fare una prova con i nomi delle persone segnalate nella toponomastica che trovate qui. Il lavoro della Ucl ha avuto un impatto così importante nella società inglese al punto da obbligare importanti organizzazioni ed enti britannici alle pubbliche scuse: tra gli altri, la Chiesa anglicana, la Banca d’Inghilterra, la catena di pub Greene King e il mercato assicurativo Lloyds di Londra, che assicurava i viaggi delle navi negriere.

☞è il capitalismo, bellezza

Città del Mercantilismo Triangolo britannico Scousers Manchester
Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis
Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

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Un museo indispensabile per una città insanguinata

We will remember

They will remember that we were sold, but not that we were strong. They will remember that we were bought, but not that we were brave

William Prescott, former slave 1937

«Ricorderanno che fummo venduti ma non che eravamo forti. Ricorderanno che fummo comprati ma non che eravamo coraggiosi». Parole lapidarie che aprono il circuito della visita al Museo della Schiavitù di Liverpool, inaugurato nell’agosto 2007. Un museo indispensabile, duro e potente, situato al terzo piano del Museo Marittimo del Merseyside presso il Royal Albert Dock di Liverpool. Si tratta di uno dei pochissimi musei nazionali al mondo che coprono la tratta transatlantica degli schiavi, le sue conseguenze, la sua eredità. Uno spazio vivo, in continua trasformazione, un centro di risorse internazionali per campagne per i diritti umani come Black Lives Matter e che vuole essere pioneristico per la necessaria e urgente discussione sociale sulla responsabilità storica del commercio triangolare e nello specifico della tratta di essere umani. Le parole di William Prescott scuotono e fanno capire l’intensità di quello che si sta per vedere, parole alle quali fanno eco quelle del museo, che in modo simbolico risponde We will remember (noi ricorderemo).

Concetto di negritudine racchiuso in bacheca: coscienza a posto e riscatto annientato… con molte scuse.

vale per il museo di Bahia☞

☜ come per il Museo degli schiavi a Gorée

Il più grande porto di schiavi

Il nickname degli abitanti di Liverpool deriva dal tipico stufato di carne (scouse) ancora oggi molto popolare. Ma cosa devono ricordare gli Scousers? Devono ricordare che la loro città, lo sviluppo del porto, i lussuosi edifici e le opulente ville, le banche ma anche le scuole, gli ospedali e gli enti di beneficenza, sono macchiati dal sangue di coloro che vennero trafficati, torturati e venduti come schiavi dall’altro lato dell’Atlantico da compagnie marittime di Liverpool. Dalla metà degli anni Quaranta del Settecento, Liverpool fu il più grande porto commerciale di schiavi della Gran Bretagna, rappresentando l’84,7 per cento di tutti i viaggi di schiavi tra il 1793 e il 1807.

Albert Dock, la darsena schiavista per eccellenza

Gli archi che si vedono tutt’ora sulla Goree Piazzas sono gli stessi della Goree Warehouse che vedevano gli schiavi, sbarcando in catene nel bacino di questo porto…

strappati dalle vene dell’Africa☞

Lo stufato di schiavi nella pentola dell’industrialismo

Le navi del Mersey trasportarono quasi 1,5 milioni di africani resi schiavi, sia verso la Gran Bretagna che verso le Americhe, dando alla città una posizione privilegiata per la compravendita di persone e il profitto sulla vita umana. E nonostante il fatto che la tratta degli schiavi fosse stata abolita in Gran Bretagna nel 1807, i mercanti e le famiglie accomodate di Liverpool vincolate a questa inumana attività economica, continuarono a raccogliere i frutti finanziari dei loro brutali affari, approfittando dei ruoli apicali e di potere acquisiti grazie alla ricchezza e prestigio dello sfruttamento degli schiavi africani.

Molti di questi commercianti utilizzarono la ricchezza accumulata per le loro carriere politiche (tra il 1700 e il 1820 almeno 25 sindaci che ebbe la città, erano vincolati al commercio di schiavi), per differenziare i loro interessi e per investire nello sviluppo industriale, dando impulso alla posizione della Gran Bretagna come potenza globale dominante.

Una posizione che si manifestò in modo chiaro durante il regno della regina Vittoria, che occupò il trono inglese tra il 1837 e il 1901. Durante questo lungo periodo, conosciuto come epoca vittoriana, la Gran Bretagna si convertì nella potenza coloniale più importante con colonie e possedimenti di enormi estensioni in Asia, Africa, Oceania e America. Un periodo che rafforzò le teorie di chi difendeva l’idea della superiorità della razza inglese, come si evince dal testo del discorso di Joseph Chamberlain (capo del dipartimento coloniale della Gran Bretagna) al Royal Colonial Institute nel 1897.

Qui un passaggio di quel discorso diventato storico:

«We feel now that our rule over these territories can only be justified if we can show that it adds to the happiness and prosperity of the people, and I maintain that our rule does, and has, brought security and peace and comparative prosperity to countries that never knew these blessings before. In carrying out this work of civilization we are fulfilling what I believe to be our national mission, and we are finding scope for the exercise of those faculties and qualities which have made of us a great governing race».

[Riteniamo ora che il nostro governo su questi territori possa essere giustificato solo se possiamo dimostrare che esso contribuisce alla felicità e alla prosperità delle persone, e io sostengo che il nostro governo ha portato, e porta, sicurezza, pace e relativa prosperità ai paesi che non avevano mai conosciuto queste benedizioni prima. Nel portare avanti quest’opera di civilizzazione stiamo adempiendo a quella che credo sia la nostra missione nazionale e stiamo trovando spazio per l’esercizio di quelle facoltà e qualità che hanno fatto di noi una grande razza governante].

stessa ipocrisia supponente della bolla Dum Diversas

Toponomastica orgogliosamente coloniale


Un passato silenziato per troppo tempo, le cui vestigia sono sotto gli occhi di tutti ed emblematica è la toponomastica della città. Basta camminare per la città che ha “lavato la sua immagine” con il calcio e con i Beatles, o con le manifestazioni oceaniche dell’agosto 2024 contro il razzismo dei nazionalisti inglesi, che hanno strumentalizzato l’omicidio di tre ragazzine in chiave antimigranti per rendersi conto di questa doppia faccia scouser.

Sono infatti ancora decine le strade intitolate a volti noti del passato della città, persone diventate ricche e famose per aver tratto profitto nella tratta degli schiavi e nel loro sfruttamento. Nel 2008, nella St George Hall venne aperta un’esposizione artistica dal titolo ‘Read the Signs’ che esaminava l’associazione di luoghi e nomi locali con la schiavitù. Qui un estratto di quanto raccolto nell’esposizione, attraverso alcuni esempi, tra i quali spiccano casi eclatanti e insperati:

  • Ashton Street – che prende il suo nome da John Ashton (1711-1759), un commerciante di sale che investiva anche nel commercio degli africani ridotti in schiavitù. Usò i profitti derivanti dalla vendita del sale e dal traffico di schiavi per sovvenzionare la costruzione del Canale di Sankey, comprando 51 delle 120 azioni.

    Emblematico del capitalismo inglese: dai proventi della tratta di schiavi e delle merci della triangolazione gli investimenti si allargano e infestano tutti i comparti economico-finanziari: dalle infrastrutture al sale, al più classico dei settori britannici: le miniere

    Suo figlio, Nicholas, utilizzò la fortuna di famiglia per acquistare miniere di carbone a Parr, St Helens e acquistò anche Woolton Hall nel 1772. La famiglia Ashton è ricordata anche con altre strade che portano il loro nome; Ashton Square a Woolton e Ashton Drive a Hunts Cross.

    St. Helens, Sussex. 1874

  • Blackburne Place – che prende il nome da John Blackburne, (1693-1786), un noto commerciante di schiavi di Liverpool (anche se originario di Oxford). Il suo nome appare nell’elenco dei mercanti che commerciavano con l’Africa fin dal 1752 e John Blackburne senior fu membro attivo dell’élite della città, diventandone sindaco nel 1760. Blackburne fece fortuna a Liverpool e utilizzò parte della sua ricchezza per ristrutturare la casa di famiglia, Orford Hall, acquistando posteriormente anche il maniero di Warrington nel 1764. Oltre a commerciare persone schiavizzate, Blackburne era anche un importante commerciante di sale che possedeva le saline adiacenti al secondo bacino umido di Liverpool, aperto nel 1753 (noto come Salthouse Dock). Anche Blackburne Street a Garston prende il nome dalla famiglia poiché i Blackburn vi trasferirono le loro saline nel 1798.
    Blackburne, così come molti commercianti di Liverpool che avviarono un’attività di traffico di esseri umani, continuarono a diversificare i loro interessi economici, approfittando delle industrie che sorsero nel Lancashire meridionale. Interessi che includevano la produzione di sale, le attività bancarie, la costruzione navale, la fabbricazione di corde e l’estrazione del carbone. Nel 1780 i Blackburn avevano già acquisito molti terreni dentro e intorno a Liverpool e il figlio di John, anch’egli chiamato John, utilizzò parte di questo terreno per costruire Blackburne House, completata nel 1790. John junior, seguendo le orme di suo padre, divenne sindaco di Liverpool nel 1788, essendo anche membro fondatore dell’Athenaeum Club, insieme a molti altri commercianti di schiavi di Liverpool. I Blackburn sono ricordati anche in Great Orford Street, dal nome della loro tenuta vicino a Warrington dove avevano una famosa serra, ritenuta la prima nel paese a coltivare ananas, caffè, tè e canna da zucchero.

Questo ritratto di John Blackburne in origine lo raffigurava con in mano un ananas, che fu poi ridipinto ma di cui rimane un’immagine fantasma.Quando l’ananas è stato dipinto, anche la mano sinistra di Blackburne è stata modificata per mostrare l’indice puntato, anziché la posa innaturale e serrata che sarebbe risultata dalla rimozione dell’ananas. Il libro che Blackburne sta indicando è Species Plantarum di Carl Linnaeus, stampato nel 1753 (Artuk.org data l’immagine al 1743, dieci anni prima della pubblicazione del libro). In senso orario, dall’alto a destra: il dipinto com’è oggi, un primo piano dell’ananas mancante, un contorno per mostrare dove si trovava l’ananas e la ricostruzione finita. ©Bygone Liverpool

La disponibilità di questa pianta, insieme ad altre coltivate da Blackburne, come il caffè, la canna da zucchero e il cotone, fu ovviamente il risultato del commercio verso le Americhe aperto dalla tratta degli schiavi. Il primo ananas che Blackburne coltivò fu a sua volta il risultato della tratta degli schiavi e quasi certamente giunse a Liverpool attraverso una nave che aveva trasportato africani schiavizzati nelle Indie Occidentali nella seconda tappa del commercio triangolare. Forse su una delle sue stesse navi negriere?

  • Blundell Streetdedicata a Bryan Blundell (c. 1675 – 1756), commerciante di tabacco, capitano e proprietario di navi negriere: la prima nave a salpare dai Dock costruiti nel 1715 fu la The Mulberry di Blundell.

    Nelle liste dei Mercanti che commerciano in Africa nel 1752, appaiono ben tre membri della famiglia Blundell. Bryan Blundell fu due volte sindaco di Liverpool nel 1721 e nel 1728, e fu uno dei mercanti più importanti della città durante la prima metà del Diciottesimo secolo. Usò la sua influenza per convincere altri mercanti locali a contribuire alla costruzione e al mantenimento del Blue Coat School nel 1718.

Parete della linea del tempo al Bluecoat, creata per il tricentenario della scuola per orfani ricavata dalla St. Peter’s Church. del reverendo Robert Styth con i fondi dei traffici di Bryan Blundell. La grande immagine di sfondo è tratta da una stampa, Recollections of the Blue-Coat Hospital, Liverpool, St George’s Day, 1843. Questa litografia di Thomas Picken fu pubblicata nel 1850 da Skinner, professore di acquerello di Liverpool, e stampata da G. Webb & Co, Londra. La stampa si ispira a un dipinto di Henry Travis conservato nella collezione della Liverpool Blue Coat School e mostra la banda della scuola che conduce i bambini attraverso i cancelli, osservati da insegnanti, governatori e pubblico.

Sebbene l’amministrazione della scuola finisse con il diventare uno dei suoi interessi principali, rimase armatore fino ai settant’anni, proprietario e armatore della tristemente famosa nave negriera Sea Flower (costruita tra il 1745 e il 1748), che servì per il traffico inumano di uomini e donne schiavizzate. Anche i suoi figli Jonathan e Richard furono coinvolti nella tratta degli africani ridotti in schiavitù, così come i suoi nipoti, Bryan e Henry.

  • Bold Street prende il nome da Jonas Bold (1745-?), un noto mercante di schiavi, commerciante di zucchero e banchiere, che fu sindaco di Liverpool tra il 1802 e il 1803. Bold era socio della società bancaria Staniforth, Ingram, Bold e Daltera (tutti e quattro i soci erano coinvolti nella tratta degli schiavi).
    Bold Street era la sede del Lyceum Club, costruito dal famoso architetto Thomas Harrison e inaugurato nel 1802. Il terreno che occupa l’edificio fu acquistato dai soci dal negriero e socio bancario di Bold, Thomas Staniforth. Il Lyceum fu costruito per ospitare la Biblioteca di Liverpool, che si ritiene sia la più antica biblioteca pubblica a sottoscrizione del Paese, fondata nel 1757. Molti dei membri fondatori del Lyceum commerciavano in africani schiavizzati.
  • Cunliffe Street prende il nome dal prominente mercante di schiavi Foster Cunliffe (1682-1758) che fu eletto sindaco della città nel 1716, 1729 e 1735. Alla metà del Diciottesimo secolo Foster e i suoi due figli possedevano quote in 26 navi che prendevano parte al commercio triangolare; almeno quattro di queste 26 erano navi negriere e arrivavano a “stipare” 1120 prigionieri. Numeri che garantivano un enorme profitto per i Cunliffes, che con la vendita di schiavi, acquisivano un capitale che poi investivano nell’acquisto di prodotti dalle colonie, come tabacco (soprattutto dalla Virginia), zucchero e rum da vendere al ritorno in Inghilterra. Uno dei figli di Foster, Ellis fu eletto deputato per Liverpool al parlamento britannico e rimase in carica per dodici anni (1755-67), arrivando anche a essere nominato baronetto. Foster morì nel 1758 e suo nipote, anch’egli chiamato Foster (1755-1834), utilizzò la ricchezza accumulata dal nonno e dal padre per acquistare Acton Hall e la tenuta vicino a Wrexham. Fu il fondatore della Society of Royal British Bowmen, essendo il tiro con l’arco un passatempo popolare per la nobiltà terriera durante la fine del Settecento.

    Se oggi consideriamo il batik un prodotto caratteristico dell’Africa occidentale, in origine era un’esportazione britannica in Africa, derivata dall’appropriazione olandese delle tecniche di stampa indonesiane. Divenne estremamente popolare in Africa e preferito al costume tradizionale come segno di prestigio sociale. Vestendo Cunliffe in questo modo nella statua del Victoria and Albert Museum, si sottolinea l’intreccio tra la costruzione dell’identità “africana” e quella “britannica” attraverso lo scambio: la Gran Bretagna commerciava tessuti in cambio di schiavi, molti dei quali venivano utilizzati per produrre cotone che poi veniva riportato in Gran Bretagna per rifornire l’industria tessile, che a sua volta si impadroniva dell’arte di un’altra colonia, depredata da colonizzatori partner e rivali.

    intrecci tra colonizzatori ☞

  • Earle Street – intitolata alla famiglia Earle, che prosperò durante un secolo con il commercio di persone schiavizzate. L’apripista fu John Earle, che arrivò a Liverpool da Warrington nel 1688, unendosi alla casa di William Clayton, deputato e noto commerciante. Nel 1709, John fu eletto sindaco di Liverpool e per l’epoca il suo coinvolgimento nel commercio triangolare era già molto noto. Alla sua morte, tre dei suoi figli – Ralph (1715-1790), Thomas (1719-1781) e William (1721-1788) – rilevarono il commercio di schiavi sulla costa africana. Ralph divenne sindaco di Liverpool nel 1769 e William Earle fu responsabile di almeno 117 viaggi di navi negriere lungo una carriera durata più di 40 anni: si calcola che fu il sesto commerciante di schiavi più attivo nel cinquantennio 1740-1790 dal porto di Liverpool (William Davenport, the Slave Trade, and Merchant Enterprise in Eighteenth-Century Liverpool , un testo del 2009, scritto da Nicholas Radburn per la Victoria University of Wellington). Dopo la morte di William nel 1788, i suoi figli Thomas (1754-1822) e William (1760-1839) rilevarono l’azienda di famiglia. Thomas Earle fu sindaco nel 1787 e utilizzò la ricchezza della famiglia per acquistare la tenuta di Spekeland; nel 1805 costruì Spekeland House vicino al sito di Earle Road. Nel 1830 gli Earle acquisirono una piantagione a Berbice, nell’allora Guyana britannica (ora Guyana), ottenendone la proprietà come parte di un debito inesigibile. Il figlio di Thomas, sir Hardman Earle, 1° Baronetto (1792-1877), commissionò a Harvey Lonsdale Elmes la costruzione delle Allerton Towers nel 1847: uno dei simboli nella città di Liverpool delle eccentriche mansioni costruite dagli armatori e dai mercanti di schiavi durante il periodo di massimo “splendore” del commercio portuale.
  • Gladstone Road prende il nome da sir John Gladstone, 1° baronetto (1764-1851), originario di Leith, in Scozia e proprietario di numerose piantagioni. Gladstone si trasferì nel 1786 a Liverpool per lavorare con Edgar Corrie, una partnership che ebbe molto successo, tanto che i due diversificarono rapidamente i loro affari anche nel commercio di tabacco della Virginia. Negli anni successivi Gladstone passò rapidamente al commercio di zucchero e cotone dalle Americhe (Guyana britannica) dove nelle sue piantagioni venivano schiavizzate centinaia di persone, e nei primi decenni del 1800 comprò anche alcune proprietà in Giamaica.

    Il figlio William E. Gladstone (1809-1898) fu educato per avere un enorme successo in politica (fu mandato a studiare a Eton nel 1821), piano che venne compiuto perfettamente giacché William Gladstone fu primo ministro britannico per ben quattro mandati (per 12 anni). Come primo ministro William Gladstone fu simpatizzante della causa irlandese però si oppose all’emancipazione immediata delle persone schiavizzate (fu anche un sostenitore della Confederazione durante la guerra civile americana). Quando gli inglesi abolirono finalmente la schiavitù nel 1830, la famiglia Gladstone ricevette oltre 90.000 sterline (una cifra enorme per l’epoca) a titolo di risarcimento per gli schiavi che dovette liberare.
  • Parr Street prende il nome da Thomas Parr (1769-1847) un commerciante di schiavi e banchiere a Liverpool, proprietario dell’enorme nave negriera Parr varata nel 1797. Questa nave non era solo la più grande nave negriera di Liverpool, ma con le sue 566 tonnellate (bm), era la nave più grande dell’intera tratta degli schiavi transatlantica britannica, potendo arrivare a “contenere” 700 persone ridotte in schiavitù. Si dice che la nave sia esplosa al largo della costa occidentale dell’Africa nel 1798, il che potrebbe indicare che trasportava polvere da sparo da scambiare con gli africani ridotti in schiavitù. Nel 1789 Thomas Parr fece costruire la casa che ancora oggi si trova all’angolo tra Parr Street e Colquitt Street, che nel 1822 divenne la sede della Liverpool Royal Institution, istituita dai mercanti di Liverpool nel 1814 e fondata per «la promozione della letteratura, della scienza e delle arti». Molti degli uomini che contribuirono a fondare l’istituzione avevano legami con il commercio e lo sfruttamento di schiavi, sia come trafficanti che come proprietari di piantagioni delle Indie occidentali.
  • Penrhyn Streetprende il nome da Richard Pennant, 1° baronetto Penrhyn (1737-1808) deputato nel parlamento britannico per Liverpool (dal 1761 al 1790) e proprietario di sei piantagioni da zucchero in Giamaica.

    Tagliatori di canna da zucchero in Giamaica

    Utilizzò parte dei profitti del commercio schiavista per investire nella costruzione di strade e banchine e nell’industria dell’ardesia in Galles. Il nipote di Richard Pennant, che ereditò le proprietà di famiglia alla morte di Lord Penrhyn, costruì il castello di Penrhyn, ora di proprietà del National Trust.

  • Sir Thomas Street – prende il nome sir Thomas Johnson (1664-1729), conosciuto come “il fondatore della moderna Liverpool. Fu sindaco nel 1695 e fu uno dei primi commercianti di schiavi di Liverpool, finanziando la seconda nave documentata a lasciare il porto destinata a trasportare persone schiavizzate. Nel 1700, insieme a Robert Norris di Speke Hall, Johnson finanziò il viaggio della nave The Blessing verso la Gold Coast (Africa occidentale) e poi alle Barbados, dove gli uomini e le donne ridotti in schiavitù dovevano essere scambiati con cotone, zenzero e zucchero. Johnson fu anche coinvolto nel “Virginia Trade“, che vide i commercianti di Liverpool commerciare tabacco prodotto da africani ridotti in schiavitù.

    Nel 1708, mentre prestava servizio come deputato per Liverpool nel parlamento britannico, spinse per la costruzione della prima darsena commerciale di Liverpool (e probabilmente del mondo), che fu inaugurata nel 1715. Questa impresa fu in gran parte responsabile dell’aumento del commercio estero di Liverpool e che molte navi negriere attraccassero qui durante il Diciottesimo secolo. Nel 1717 si offrì di acquistare la sezione francese dell’isola caraibica di St-Kitts per 61.000 sterline, presumibilmente per la continuazione della produzione di zucchero coltivato dagli schiavi, ma l’offerta non fu accettata. Investì molto nella South Sea Company, il cui interesse principale era il trasporto di schiavi nelle colonie spagnole nelle Americhe.
  • Tarleton Streetdedicata alla famiglia Tarleton, che ha prodotto tre generazioni di commercianti di schiavi e il cui membro più famoso fu Banastre Tarleton (1754-1833). Banastre è ricordato per aver combattuto con valore per gli inglesi durante la Guerra d’indipendenza americana, stesso impeto che utilizzò alla Camera dei Comuni per impedire la fine della tratta degli schiavi. Gli inizi del commercio di schiavi della famiglia di Banastre risalgono però a suo nonno, che passò “il business di famiglia” a suo padre, fino ad arrivare a lui e ai suoi tre fratelli John, Clayton e Thomas. Il generale Banastre Tarleton usò la sua fama di eroe della guerra coloniale per assicurarsi di diventare deputato di Liverpool nelle elezioni parlamentari del 1790, e una volta eletto, usò la sua posizione di deputato per proteggere gli interessi commerciali della sua famiglia, lottando strenuamente per garantire che la tratta degli schiavi fosse preservata dal governo britannico.

  • A questi luoghi topici di onomastica raccapricciante si aggiungono due casi particolari:
  • – Pennylane Street: esiste un forte dibattito su questa strada di Liverpool resa famosa e immortale nel 1967 grazie al suo utilizzo come titolo per una canzone dei Beatles – in cui comunque i Fabolous Four vanno a ritroso nel tempo (“meanwhile back”). Da un lato c’è chi sostiene che sia dedicata al mercante di Liverpool James Penny (morto nel 1799), che guidò 11 viaggi di navi negriere trasportando persone schiavizzate e che creò la sua propria compagnia marittima, la James Penny & Co. Dall’altro c’è chi sostiene come non ci sia alcuna possibilità di provare una correlazione diretta tra il nome della strada e James Penny, posizione assunta anche dalla dirigenza del Museo della Schiavitù di Liverpool.
  • – The Goree Piazzas: certezze invece sono quelle che esistono su un luogo che oggi non esiste più nella moderna Liverpool ma che ci parla di un vincolo profondo con quanto succedeva nelle coste dell’Africa occidentale, nello specifico in Senegal, nell’isola di Gorée. Dove troviamo oggi Beetham Plaza infatti, un tempo si ergeva la sede dei magazzini Goree, i primi magazzini a più piani costruiti a Liverpool. La loro costruzione fu proposta quando fu costruito il George’s Dock nel 1768, ma la costruzione vera e propria non iniziò fino al 1793 e fu ultimata nel 1802. Il loro nome ebbe origine più di tre decenni prima quando furono costruiti su un terreno chiamato Goree Causeway (dal nome della stazione commerciale di Gorée, in Senegal, che gli inglesi avevano sottratto ai francesi nel 1758 e che sarebbe stata restituita alla Francia nel 1763).

    I Magazzini furono demoliti in seguito ai danni provocati dai bombardamenti durante la Seconda guerra mondiale. Come nota segnaliamo che quei magazzini videro tra i loro fruitori sia Washington Irving (che aprì nei magazzini Goree un’attività commerciale intorno al 1817, impresa che poi fallì) e Nathaniel Hawthorne (che aveva un ufficio in Goree Piazza quando fu console statunitense a Liverpool nel 1853).

Toponomastica timidamente anticoloniale


È importante però segnalare che a Liverpool possiamo trovare anche delle strade, piazze, o altri spazi pubblici, dedicati a personaggi illustri della città che lottarono per l’abolizione della schiavitù.

Qui due esempi:

  • Roscoe Street (Roscoe Gardens/ Roscoe Lane): prende il nome da William Roscoe (1753-1831), considerato uno dei più grandi figli di Liverpool. Roscoe era un avvocato, banchiere, poeta, botanico, politico, collezionista d’arte e difensore della causa abolizionista.
  • Cropper street: prende il nome da James Cropper (1773-1840), un commerciante e filantropo, che arrivò a Liverpool all’età di 17 anni da Winstanley e che fu apprendista presso Rathbone Brothers (i primi commercianti di Liverpool che importarono cotone dall’America). Successivamente fondò la propria azienda: Cropper, Benson & Co. e la prosperità derivante dalla sua attività permise a Cropper di impegnarsi in una serie di attività religiose e filantropiche. Si concentrò nella campagna per l’abolizione della tratta degli schiavi, scrivendo opuscoli e provando a creare un fronte unito a livello politico. Le sue attività erano molto impopolari a Liverpool e molti mercanti delle Indie occidentali che possedevano piantagioni nei Caraibi lo attaccarono e criticarono. Nel biennio 1823-24 fu oggetto di una serie di attacchi sulle colonne dei giornali di Liverpool da parte di sir John Gladstone, padre del futuro primo ministro William Gladstone (e proprietario di più di 2000 persone schiavizzate nei suoi campi di lavoro forzato in Giamaica e Demerara, Guayana). Nel 1831 Cropper unì le forze con suo genero, Joseph Sturge, per formare gli Abolizionisti della Giovane Inghilterra, che si distinguevano dagli altri gruppi che lottavano per l’abolizione per la loro schiettezza e il loro approccio vigoroso.
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Manchester al centro del vertice europeo

Nella storia della tratta transatlantica delle persone africane schiavizzate, la città di Liverpool (capitale della contea di Merseyside) ha svolto un ruolo di primo piano, insieme alla vicina Manchester (Cottonopolis). Un porto (Liverpool) che ha beneficiato direttamente del traffico di esseri umani, riuscendo ad accumulare enormi fortune e sviluppando la propria economia al costo della vita di milioni di persone.

Prima di parlare però di Liverpool, dobbiamo fare un passo indietro e cercare di capire come il Regno Unito abbia iniziato a giocare un ruolo determinante nel commercio triangolare, nome che storicamente viene dato alla rotta commerciale stabilita nell’Oceano Atlantico dal Diciasettesimo al Diciannovesimo secolo: una rotta che se vista sulla mappa, disegna una figura simile a un triangolo tra Africa, America e Europa.

Come per Gorée e Salvador de Bahia, i nuovi orizzonti geografici aperti dalle spedizioni marittime delle grandi potenze europee avevano stabilito nuove rotte, creando le basi per una fiorente rete di rapporti economici che vedeva l’Europa al centro. Gli apripista di questa nuova forma di espansione coloniale furono i portoghesi che crearono la loro base operativa in Brasile e che istituzionalizzarono il commercio di persone africane schiavizzate (in Portogallo a Lagos si istituì infatti il primo mercato europeo degli schiavi). Dopo i lusitani, fu la volta degli spagnoli e dei francesi che avevano già stabilito delle colonie in America continentale e nelle Antille, e che puntavano alla sostituzione della manodopera indigena (gli indigeni vennero sottoposti a un regime di tale sfruttamento che intere popolazioni vennero sterminate in pochi decenni) con quella dei neri africani schiavizzati. Infine dal Seicento, furono gli Inglesi, la Repubblica delle Sette Province Unite (Olanda, Zelanda, Utrecht, Gheldria, Overijssel, Frisia, e Groninga) e la Francia in piena auge, a togliere il monopolio del commercio schiavista al Portogallo, diventando così i nuovi protagonisti del commercio triangolare sull’Atlantico.

Le carte dilatano gli orizzonti… e moltiplicano le Compagnie

Da un lato, la scoperta della possibilità di poter circumnavigare l’Africa (l’arrivo al Capo di Buona Speranza da parte del portoghese Bartolomeu Dias il 12 marzo 1488) aveva aperto la “corsa” verso le ricchezze dell’India, provocando il fiorire di numerose Compagnie europee di navigazione e commerciali. Multinazionali dell’epoca che iniziarono a stabilire basi di scambio e rifornimento (e anche forti militari) lungo la costa africana, soprattutto in Africa occidentale. In questo caso, come già segnalato, l’apripista fu il Portogallo (con gli insediamenti a Sao Tomé e Principe, Fernão do Pó, l’isola di Gorée, Angola, Mozambico o Zanzibar), al quale si accodarono la Repubblica delle Sette Province Unite (Colonia del Capo, oggi in Sudafrica) e successivamente la Francia e il Regno Unito. Si trattava all’inizio di basi di appoggio, senza la pretesa di espandere il controllo delle potenze europee verso l’interno del continente africano (dove gli arabi da anni controllavano le rotte commerciali), espansione che arriverà solo in pieno 1800, ratificata posteriormente alla conferenza di Berlino del 1914, dove l’Africa venne spartita tra Francia, Regno Unito, Belgio, Portogallo, Spagna, Italia e Germania. In questo senso è importante ricordare che prima della Grande Guerra 1914-1918 (conosciuta successivamente come Prima guerra mondiale) esistevano solo due territori indipendenti in Africa: Etiopia e Liberia.

European colonial possessions in Africa, from 1600s to 1922. Figure provided by Kevin Tervala of Baltimore Museum of Art.

Dall’altro la rotta aperta da Cristoforo Colón verso il “Nuovo Mondo” nel 1492, una terra che il navigante genovese era convinto fossero le Indie e che cominciò a chiamarsi America (in onore del navigante Amerigo Vespucci) solo con la mappa del cartografo tedesco Martin Waldseemüller del 1507.

Fu in quel momento storico, con l’apertura di queste due rotte, che si posero le basi per il futuro commercio triangolare. Le stesse potenze che si disputavano le basi africane iniziarono la conquista del “Nuovo Mondo” dove però in questo caso l’apripista era stata la Spagna

Liverpool e Manchester: come la Gran Bretagna ha fondato il suo benessere sul traffico e sfruttamento degli schiavi

British delivery: le prime consegne di materiale umano

I primi africani ad arrivare nelle colonie che l’Inghilterra stava cercando di stabilire in Nordamerica, furono un gruppo di circa 20 persone schiavizzate che arrivarono nell’agosto del 1619 a Point Comfort, Virginia (vicino a Jamestown): persone (merce) sottratte da corsari britannici a una nave negriera portoghese. Fu l’inizio dell’orrore, il primo passo per la creazione della più grande e massiva impresa di disumanizzazione che la storia ricordi, operata dalla corona britannica e da uno stuolo di commercianti senza scrupoli.

The Maroons In Ambush On The Dromilly Estate In The Parish Of Trelawney, Jamaica (1810)

Un altro importante spartiacque storico si ebbe pochi anni dopo con la conquista della Giamaica da parte del Regno Unito ai danni della Spagna. Fu infatti nel 1655, quando una spedizione britannica guidata dall’ammiraglio Sir William Penn e dal generale Robert Venables riuscì a impossessarsi dell’isola, iniziando una guerra che in 5 anni eliminò ogni resistenza spagnola ancora presente (ma non quella degli schiavi liberti, chiamati Maroons, che dettero molto filo da torcere agli inglesi). La Giamaica iniziò a essere uno dei grandi “laboratori” britannici della sottomissione e sfruttamento delle persone schiavizzate dall’Africa, considerando che la popolazione dell’isola crebbe da poche migliaia al loro arrivo – alla metà del Diciassettesimo secolo – fino a 18.000 nel 1680: a quella data un abitante su due degli abitanti dell’isola erano persone schiavizzate.

 

Mare britannicum

In questo contesto venne redatto il Navigation Act del 1660, un documento che stabiliva che solo le navi di proprietà inglese potevano entrare nei porti coloniali della corona britannica. Sempre nel 1660 Carlo II concesse uno status speciale alla Company of Royal Adventurers Trading to Africa, compagnia guidata da suo fratello minore Giacomo, il duca di York (in seguito Giacomo II). Questa compagnia poteva contare sul monopolio del commercio britannico con l’Africa occidentale (che includeva oro, argento e schiavi) però fallì nel 1667 a causa di numerosi debiti accumulati. Nel 1672 tuttavia la compagnia venne ricreata, con un nuovo beneplacito reale e con il Royal African Company (Rac).

Possiamo vedere dunque che la monarchia britannica sostenne fin dall’inizio lo sfruttamento del continente africano e la tratta degli schiavi, molti dei quali venivano marchiati a fuoco con le lettere DOY, a significare “proprietà del duca di York”. Ma la responsabilità non era solo dei re e della loro corte, ma anche degli uomini d’affari e della classe mercantile di Liverpool e di Cottonopolis (Manchester ricevette questo nome per essere la capitale mondiale del commercio del cotone che proveniva dalle piantagioni del Sud degli Stati Uniti, paese nato dalle 13 colonie inglesi che nel 1776 dichiararono la loro indipendenza). Senza gli schiavi la rivoluzione industriale non sarebbe stata ciò che è stata, così come ci ricorda Eric Williams nel suo libro del 1944 Capitalismo e Schiavitù.

Un libro che spiega come la schiavitù abbia contribuito a finanziare la rivoluzione industriale in Inghilterra e di come proprietari di piantagioni, costruttori navali e mercanti legati alla tratta degli schiavi accumularono vaste fortune che permisero la fondazione di banche e di numerose industrie europee, che amplificarono la portata del capitalismo in tutto il mondo.

☞le basi dell’annessione perpetua

 

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Capital Afro

Salvador de Bahía è una città costiera situata nel Nordest del Brasile, e il suo nome originario era Salvador de la Bahía de Todos los Santos. Quando pensiamo a questa città dobbiamo subito menzionare che siamo di fronte non solo alla prima capitale coloniale del Brasile (fondata dai portoghesi) ma anche a uno dei centri urbani di matrice europea, più antichi del continente Americano. Oggi Salvador conta una popolazione di quasi 2,5 milioni di abitanti e con una estensione municipale di 312 chilometri quadrati. È la capitale dello stato di Bahia e si trova 1446 chilometri lontano dalla capitale federale del Brasile, ovvero Brasilia. Il suo centro storico è conosciuto come il “Pelourinho” (o Pelo per i locali) che nel 1985 è stato dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’Unesco.

Foto di Diego Bsattistessa

Prima capitale del Brasile (1549-1763), San Salvador de Bahía è stata un punto di confluenza di culture europee, africane e amerindiane. Nel 1588 fu creato il primo mercato di schiavi del Nuovo Mondo, destinati al lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero. La città ha saputo conservare numerosi edifici rinascimentali di eccezionale qualità, spesso magnificamente stuccati, che caratterizzano in modo unico la città vecchia». Un dato curioso rispetto alla città, è che si dice che ospiti 365 chiese, uno per ogni giorno dell’anno.

Il futuro è ancestrale

Visitare oggi Salvador de Bahia de Todos los Santos significa fare un viaggio nelle radici africane dell’America Latina, toccando con mano l’eredità ancora viva di un passato fortemente legato all’altro lato dell’oceano: nello specifico l’eredità dei popoli a sud del deserto del Sahara, con un’enfasi sull’area occidentale bagnata dall’Atlantico (dal Senegal fino all’Angola). Farlo poi con un occhio attento alle celebrazioni religiose risulta ancora più interessante se si vogliono esplorare iniziative culturali e alcune tradizioni sincretiche di questa città brasiliana conosciuta come la Roma nera, perché è la città più nera fuori dall’Africa. Novembre 2023 è stato per esempio il mese del lancio ufficiale del progetto Salvador Capital Afro, evento internazionale multilivello che ha occupato tutti i 30 giorni del mese, mettendo al centro l’essenza dell’afrobrasialianità.

Salvador Capital Afro è un movimento nato nel 2022 e lanciato ufficialmente il 31 agosto 2023 (Giornata internazionale delle persone di discendenza africana) dalla prefettura di Salvador de Bahia: un ambizioso progetto culturale che vuole riconnettere la città e la sua gente con il loro patrimonio ancestrale, attraverso il rafforzamento e la valorizzazione delle espressioni artistiche, religiose e del patrimonio culturale della città, la cui origine risiede nel popolo afrodiscendente.

l’altra faccia della medaglia: Liverpool tenta il riscatto dalla vergogna

Il mese della coscienza nera

Dal 2011 il 20 novembre viene celebrato in Brasile come il giorno della coscienza nera, ma mentre per il resto del paese si tratta di un unico giorno di celebrazione e di riflessione, l’idea è che a Salvador de Bahia l’intero mese di novembre sia dedicato alla radice nera della città. È così che nel 2023 si è dato il via a un calendario di attività di portata internazionale per promuovere questa nuova idea di afroturismo e di riappropriazione dell’identità nera.

«Il protagonismo nero è un antidoto alla disuguaglianza e al razzismo strutturale», ha sottolineato Ivete Sacramento, attuale segretaria municipale delle riparazioni per le comunità afro della città brasiliana, per la rivista creata per l’occasione, il cui nome evidenzia quello del progetto: “Salvador Capital Afro”.

Il Festival Afropunk, il Festival Libertatum, il Festival Internazionale dell’Audiovisivo Nero del Brasile sono state tra le attività più importanti di un programma ambizioso che ha visto anche la riapertura del Museo Nazionale della Cultura AfroBrasiliana (Muncab). Tra le personalità nazionali e internazionali africane o afrodiscendenti si segnala la presenza di Wole Soyinka (primo africano a ricevere il Premio Nobel per la Letteratura nel 1986), delle cantanti Victoria Monét e Alcione, degli artisti Taís Araújo, Viola Davis, Angela Bassett, tra gli altri. Si tratta insomma di trasformare Salvador nella nuova capitale afro del continente, partendo da ciò che questa città è sempre stata, riconnettendosi con le identità africane e promuovendo la cultura afrodiscendente.

Contemporaneamente non va dimenticata ‘influenza britannica che ha saccheggiato anche il Brasile, commerciando i prodotti degli schiavi e rifornendo di materie prime le fabbriche di “Cottonopolis”. In Gran Bretagna si registrano simili iniziative di memoria di quelle che furono le connessioni con lo slancio della Rivoluzione industriale a Manchester:

Il riscatto della memoria

L’idea alla base del “nuovo” Muncab, che oggi si trova dentro l’antico Palazzo del Tesoro di Bahia, è quella di essere il cuore della cultura afrobrasiliana di Salvador de Bahia, che dal canto suo si fregia di essere la città più nera fuori dall’Africa. Un museo che possa concentrare da un lato artisti tradizionali e dall’altro le nuove generazioni di artisti neri, sia a livello nazionale che internazionale. Il Muncab vuole rappresentare il riscatto di una memoria che deve essere seme di cultura viva, per la produzione e diffusione di una identità afrobrasiliana da sventolare con orgoglio come bandiera della nuova Salvador, fiera del suo passato e proiettata verso un futuro fatto di ancestralità.

Foto di Diego Bsattistessa

All’interno del museo si entra in contatto con l’identità nera in molte delle sue sfaccettature, partendo dall’Africa per espandersi poi fuori dal continente per riflettere sull’orrore del traffico inumano di persone, passando per le varie forme di resistenza e resilienza, permettendo anche di comprendere e scoprire i contributi culinari, religiosi, musicali che le comunità africane hanno lasciato in eredità.

Foto di Diego Bsattistessa

Una eredità che si fa presente e che si manifesta in una collezione permanente di più di 400 opere (pitture, sculture, mobili, documenti, tra gli altri oggetti) che si intreccia ad altre attività come iniziative cinematografiche, spazi educativi e di rafforzamento identitario, includendo progetti di scambio internazionale con paesi africani fortemente legati alla città, come Angola, Mozambico e Guinea. Per la riapertura del museo nel 2023 è stata scelta l’esposizione Un Defeito de Cor (Un difetto di colore) che aveva già attirato quasi 100.000 visitanti nel Museo d’Arte di Rio de Janeiro.

 

Diversità e sincretismo

Il Muncab è sicuramente uno dei pilastri di Salvador Capital Afro, progetto che mira a promuovere la diversità artistica, culturale e gastronomica afrobrasiliana, e che vuole rendere protagonista anche tutto ciò che riguarda il sincretismo religioso e le pratiche rituali africane che con i secoli si sono fuse con il cristianesimo imposto dalla corona portoghese ai tempi della colonia.

Foto di Diego Bsattistessa

Sì, perché l’antica città di Bahia è stata per lungo tempo la capitale cristiana di tutto il Sud Atlantico oltre a essere la prima capitale del Brasile, luogo nel quale tra il Sedicesimo e il Diciannovesimo secolo arrivarono dal Golfo del Benin milioni di persone schiavizzate e trafficate (si stima tra 1,5 e 2 milioni di persone). Una migrazione forzata che ha obbligato a una stretta convivenza di aspetti culturali africani, europei e indigeni, producendo con il passare degli anni una cultura popolare che si esprime fortemente attraverso le sue celebrazioni, in modo particolare quelle religiose e artistiche.

Foto di Diego Bsattistessa

Il centro pulsante e identitario di questo mondo afrobrasiliano è come detto il nucleo antico della città, nello specifico la zona di Pelourinho, dove troviamo a ogni angolo elementi che ci ricordano dove siamo.

Liverpool ha dovuto confrontarsi con i nomi lordi di schiavismo

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Mercato concentrazionario

Ai piedi dell’Elevador Lacerda troviamo il Mercato Modelo, che fin dal periodo coloniale fu il centro della tratta degli schiavi in Brasile, e quindi nel Nuovo Mondo. Una visita obbligata dentro una struttura che oggi è adibita a commercio di souvenir turistici ma che mantiene, soprattutto nei sotterranei, quell’aura di terrore e di morte. Nei sotterranei di questa struttura venivano infatti rinchiusi coloro che si ribellavano o che tentavano di fuggire a un destino di schiavitù, soffrendo terribili agonie e spesso condannati a morire per annegamento quando la marea si alzava.

Un ricordo vivo e doloroso della crudeltà umana, traccia di un passato legato a doppio filo con l’identità della città e della sua gente. Il mercato si può vedere in tutta la sua grandezza e apprezzandone la posizione strategica dalla Praça Tomé de Sousa, dove troviamo anche un altro monumento simbolo del periodo della tratta degli schiavi. Si tratta del Monumento della Croce Caduta, una imponente croce inclinata che domina una piazza che funge da belvedere, accanto all’edificio che prende il nome di Casa de las Bahianas. Una croce che ricorda l’oscura storia di questa città, il sangue versato e la connivenza della Chiesa nell’orribile mercantilizzazione della vita che tanta ricchezza portò agli imperi coloniali.

libera chiesa in libero schiavo ☞

Il contraltare carnascialesco di Liberazione

Gli elementi architettonici di Pelourinho sono accompagnati costantemente da suoni, odori e colori, in un crogiolo di sensazioni che fanno vivere una costante vibrazione carnevalesca. Il Carnevale è per Salvador de Bahia (come per tutto il Brasile) un appuntamento cruciale ogni anno ma nel Pelourinho e specialmente nella Praça Terreiro de Jesus, questa sensazione è sperimentabile praticamente ogni giorno. Qui non è difficile trovare gruppi di persone che si cimentano (a volte per i turisti, a volte per piacere personale) nella capoheira, manifestazione culturale afrobrasiliana (creata in Angola dagli schiavi bantu che poi hanno portato in Brasile la “Danza della zebra”) basata su una espressione corporea che ingloba elementi di combattimento, danza, musica e acrobazia, che alludono a autodifesa e lotta mascherata mimica, con cui fuggire a costituire Quilombos nelle foreste, prive di zebre.

Un rituale che al ritmo di strumenti tipici come il berimbau, i pandero, gli agogó, i reco-reco e soprattutto gli atabaque (gli alti e tipici tamburi) riempiono di ritmo e di vita il centro storico di Salvador. Una carica musicale che i locali accompagnano con una bevanda particolare, che non può mancare nelle celebrazioni di Salvador de Bahia, il Cravinho. Si tratta di una bevanda tipica delle feste dove la forte presenza della cannella, serve a mascherare con il suo aroma, l’alta gradazione alcolica. E se si parla di bevande e gastronomia, non si può non fare un accenno al Acaraje. Un piatto tipico da consumare per strada (nei piccoli punti vendita ambulanti gestiti da «mamis» di Pelourihno), oppure nei ristoranti, a base di pasta di fagioli, ripieno di gamberi e accompagnato da una salsa piccante molto intensa.

 

L’ascensore a vite

Elevador do Parafuso: “Sollevatore a vite”, in realtà era idraulico e azionato da un motore a vapore. Era soprannominato “a vite” per il grande pezzo a spirale che spingeva le due cabine dell’ascensore, mantenendo un collegamento ideale con l’enorme forza fisica che si produceva a Salvador de Bahia con l’apporto dei lavoratori schiavizzati.

Elevator Lacerda visto al livello della Città bassa

Un altro luogo simbolo di Pelo è sicuramente O Elevador Lacerda, un enorme ascensore che unisce la parte bassa della città con la parte alta, quella che vide la nascita del primo centro urbano fortificato da parte dei portoghesi. L’opera architettonica è di quelle che tolgono il fiato e che rendono caratteristico e immediatamente riconoscibile il panorama urbano di Salvador de Bahia. L’ascensore Lacerda è una vera e proprio opera maestra dell’ingegneria, soprattutto se si pensa che fu il primo ascensore urbano del mondo, inaugurato l’8 dicembre del 1873 con un’altezza all’epoca di 63 metri (nel 1930 fu riformato e ora misura 72 metri). L’obiettivo è quello di poter trasportare in modo facile e veloce, le persone che da Praça Cairu, nella città bassa (di fronte all’oceano Atlantico) vogliono raggiungere la Praça Tomé de Sousa, nella città alta, nel cuore di Pelourinho, proprio di fronte allo storico Palácio Río Branco (l’edificio che fu sede del governo del Brasile durante il periodo coloniale).

Si tratta oggi di un punto turistico importante per la città ma anche di uno snodo di trasporto pubblico fondamentale, che arriva a “muovere” decine di migliaia di passeggeri al mese, persone che con pochi spiccioli (15 centesimi di reais) possono evitare di dover risalire le famose e faticose ladeiras (ripide salite) della città. Il nome dell’ascensore deriva dai suoi ideatori, Augusto Federico de Lacerda (ingegnere) e Antônio Francisco de Lacerda (imprenditore) che ne iniziarono la costruzione nel 1869. Nel 1873 la struttura fu inaugurata con il nome di Ascensore idraulico da Conceição da Praia, anche se popolarmente fu subito battezzato Elevador do Parafuso: solo nel 1896 acquisirà l’attuale nome di Elevador Lacerda.

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Sincretismo non solo Pelourinho

Per provare a introdurre l’identità storica e il presente di Salvador de Bahia è necessario però uscire da Pelourinho ed esplorare altri elementi urbani, architettonici e naturali che ne conformano l’anima e il carattere.

Il concetto di sincretismo religioso apre un ventaglio di esiti mutevoli di concezioni e pratiche religiose (create, ricreate, adattate, ricontestualizzate) in uno spazio-tempo diverso da quello di origine. Un processo ben descritto nel fascicolo 20 del 2004 El Pelourinho de Bahia, cuatro décadas después della rivista “Iconos. Revista de Ciencias Sociales”.

La parola sincretismo deriva dal greco synkrasis, ovvero mescolare insieme, ed è tutt’altro che anomalo che le religioni passino per questo tipo di processo. Il sincretismo religioso nel mondo latinoamericano ha vissuto numerose tappe che hanno visto, in modo alterno, il protagonismo di popolazioni indigene, coloni europei, criollos e afrodiscendenti. La base di questo processo è stato un credo, quello cattolico, che ha svolto un ruolo principale nello sviluppo di nuove forme religiose in America Latina, giacché durante il periodo coloniale la Chiesa Romana Cattolica e Apostolica, dominava il campo spirituale di tutti i paesi della regione compresi tra il Messico e la Terra del Fuoco. Mappando le religioni afrolatinoamericane, possiamo subito identificare il Brasile come un centro focale di studio e di analisi, visto che siamo di fronte a un paese nel quale si ha la sublimazione di questo processo di resistenza delle tradizioni ancestrali africane da un lato, e di krasis (mescolanza) dall’altro, verso le molteplici spiritualità, originarie e importate, presenti nel territorio.

Siamo di fronte a una grande complessità di rituali, simbologia e ancestralità che oggi si manifesta in Brasile in una vasta pluralità di religioni afrobrasiliane, come per esempio: Babaçuê (Pará), Batuque (Río Grande del Sur), Cabula (Espírito Santo, Minas Gerais, Río de Janeiro y Santa Catarina), Candomblé (presente in tutto il Paese), Culto a los Egúngún (Bahia, Río de Janeiro, São Paulo), Culto de Ifá (Bahia, Río de Janeiro, São Paulo), Quimbanda (Río de Janeiro, São Paulo), Macumba (Río de Janeiro), Omoloko (Río de Janeiro, Minas Gerais, São Paulo), Tambor de Mina (Maranhão, Pará), Umbanda (presente in tutto il Paese), Xangô do Nordeste (Pernambuco) e Xambá (Alagoas, Pernambuco).

Come specificato bene in un articolo di “MiraCuBì” è sempre Jorge Amado a offrire una dettagliata panoramica dell’Olimpo afrobrasiliano di Bahia nel capitolo Gli orixá di Carybé – noto artista, amico dell’autore brasiliano che illustrò il libro Bahia, le strade, le piazze.

Fuori dalla zona del “Pelo” a Salvador de Bahia ci sono almeno altri due punti di interesse sincretico: la Chiesa di Nosso Senhor do Bonfim e il Dique di Tororó rappresentano i due punti in cui il meticciato religioso trova la sua amalgama a partire da luoghi originariamente sacralizzati da culti diametralmente opposti.

Chiesa di Nosso Senhor do Bonfim

Un altro luogo di culto, diventato simbolo nazionale e internazionale, è la Chiesa di Nostro Signore di Bonfim (nel quartiere di Bonfim), una delle chiese cattoliche più tradizionali della città, dedicata al Senhor do Bonfim, santo patrono dei bahiani e simbolo del sincretismo religioso di Salvador de Bahia.

Foto di Diego Battistessa

Costruito sulla cima della Collina Sacra, questo edificio di culto è lo scenario del famoso Lavagem do Bonfim, evento nel quale le donne bahiane di Candomblé lavano in modo rituale i gradini della chiesa con abbondante acqua. Si tratta di uno dei rituali religiosi più importanti del Salvador, rispettato e celebrato sia dai fedeli cattolici che dai membri del Candomblé.

Non di minore importanza il fatto che proprio da questa chiesa provenga il famoso braccialetto colorato che potete vedere in tutta Salvador de Bahia. Il nastro originale fu creato nel 1809 e misurava esattamente 47 centimetri di lunghezza, la misura del braccio destro della statua di Gesù Cristo, Signore di Bonfim, situata sull’altare di questa chiesa, sicuramente tra le più famose di Bahia. Venduto o regalato in diversi colori in tutta la città, il nastro Senhor do Bonfim rappresenta, a seconda del colore, un orixá diverso. In questo modo, gli orixá, divinità centrali del Candomblé, si uniscono al messaggio rappresentato da Gesù di Nazaret, creando un nuovo spazio di comunione e devozione inclusiva che trascende i confini della religione e si estende alla cultura e all’identità afrobrasiliana.

Foto di Diego Battistessa

 

Dique di Tororó

E se parliamo di orixá non si può non visitare a Salvador de Bahia il Dique di Tororó, unica sorgente d’acqua dolce della città e luogo utilizzato anticamente come linea di difesa naturale che delimitava la zona della città alta di quella che era la capitale del Brasile. Il nome Tororó deriva dalla parola della lingua indigena tupi, tororoma, che significa “getto” e che in questo caso si riferisce alla sorgente d’acqua. Oggi questa laguna rappresenta un luogo religioso e turistico, visto che nel 1998 vennero istallate al suo interno otto sculture dell’artista plastico figlio di Salvador de Bahia, Octavio de Castro Moreno Filho, conosciuto come Tatti Moreno. Le sculture che fluttuano nell’acqua e che sono illuminate di notte, rappresentano gli orixá Oxum, Ogum, Oxóssi, Xangô, Oxalá, Iemanjá, Nanã e Iansã.

Foto di Diego Battistessa

le prime contaminazioni datano a metà del Quattrocento

E poi c’è la Praia da Barra

Probabilmente la spiaggia più conosciuta e frequentata di Salvador de Bahia, la spiaggia di Barra (nome del quartiere) che si trova esattamente sulla punta della penisola dove si trova la città, tra la Bahía de Todos los Santos e l’Oceano Atlantico. Un luogo unico dal quale si può vedere sia l’alba che il tramonto sul mare e che custodisce anche l’antico forte di Santo Antonio (vicino al Farol da Barra). Questa spiaggia rappresenta il circuito più famoso del Carnevale di Salvador de Bahia e la sua lunga estensione e pluralità l’ha fatto diventare un luogo multiattività dove convivono il turismo e la vita quotidiana degli abitanti della città.

Foto di Diego Battistessa

e poi ci sono le spiagge di Saint-Louis, dove iniziò tutto ☞

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Sfarzi coloniali e riappropriazione afro

Pelourinho e sullo sfondo Nossa Senhora do Rosario Foto di Diego Battistessa

Il centro della terribile pratica di mercificazione umana a Salvador de Bahia era proprio il quartiere di Pelourinho, nome che in portoghese richiama la gogna dove venivano legate e frustate le persone schiavizzate. Si tratta di un enorme complesso monumentale, arroccato su una collina di fronte al mare: un luogo scelto strategicamente dai portoghesi perché facile da fortificare e con la possibilità di vedere con largo anticipo possibili navi nemiche che si avvicinavano. Il quartiere raccoglie l’insieme più importante dell’architettura coloniale del Seicento e Settecento nella regione e tra le innumerevoli chiese che ne fanno un luogo unico nel mondo (come la famosa Chiesa di San Francesco), ospita anche la chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos (Nostra Signora del Rosario dei Neri): edificio di culto la cui costruzione durò quasi 100 anni e che è uno dei simboli della “rivalsa afro” nella città. L’elemento curioso e storico di questo edificio religioso, risiede nel fatto che durante gli anni della colonia portoghese, questa era l’unica chiesa della città che permetteva l’ingresso alle persone afrodiscendenti.

Chiesa di San Francesco. Foto di Diego Battistessa

 

Progressiva commistione di culture 

Proprio dal quartiere di Pelourinho e dalla chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos parte il 4 dicembre la celebrazione di Santa Barbara e dell’orixá Iansã. Un rituale sincretico, considerato patrimonio immateriale dal Governo dello Stato di Bahia dal 2008, che riunisce cattolici e religiosi di origine africana. Un atto di fede che da un lato omaggia una delle grandi Sante cristiane e dall’altro professa devozione a una delle entità divine che furono associate al cristianesimo in epoca coloniale da parte della popolazione nera africana schiavizzata, in un esercizio di resistenza e di preservazione delle proprie radici religiose e culturali: Iansã.

Statuetta yoruba della Sierra Leone: il sincretismo della santeria

Originaria delle popolazioni che occupavano il territorio subsahariano oggi corrispondente a Nigeria, Togo e Sierra Leone, Iansã fa parte del pantheon yoruba, una ricca tradizione religiosa che comprende diverse divinità legate agli aspetti naturali come vento e acqua. Conosciuta anche come Oiá o Oyá, è una delle principali orixá femminili, ampiamente venerata e celebrata in varie tradizioni religiose in Brasile, Africa occidentale e nei Caraibi.

Festa di Santa Barbara, appuntamento fisso del 4 dicembre Foto di Diego Battistessa

 

O Pagador de Promessas

Il film O Pagador de Promessas del 1962, diretto da Anselmo Duarte, che vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes dello stesso anno, diventando il primo film sudamericano nel conseguire tale distinzione è emblematico di questa convivenza di culture forzata dalla deportazione coloniale e che gradualmente attraverso scontri e rifiuti ha prodotto un sincretismo religioso e culturale. L’anno successivo divenne anche il primo film brasiliano e sudamericano nominato all’Oscar come miglior film straniero. Il film segue le vicende di Zé, un umile contadino che fa una promessa a Santa Barbara in un terreiro (luogo di culto del Candomblé e dell’Umbanda): se il suo asino si riprenderà dalla malattia, porterà una croce da casa sua alla chiesa di Santa Barbara, che si trova proprio nella città di Salvador, nel quartiere di Santo Antônio Além do Carmo. Ma quando il prete locale scopre che ha pregato secondo il rito delle religioni afrobrasiliane, rifiuta di lasciarlo entrare in chiesa, non permettendogli di mantenere così la sua promessa. Anche se contro la sua volontà, Zé diventa un martire religioso e un attivista politico per coloro che interpretano in modo ambiguo il suo messaggio, portando la storia a un epilogo fatale. Oggi però, rispetto all’epoca ritrattata nel film, la città è cambiata così come è cambiato il sentire di una Chiesa cattolica locale che sempre di più si è aperta alle professioni di fede sincretiche.

Per rimanere in tema cinema merita una menzione il Cinema Glauber Rocha, uno delle ultime sale di strada rimasti a Salvador de Bahia (i cinema di Rua di Salvador vertevano sull’idea che l’esperienza culturale cinematografica poteva andare ben oltre la visione di un film). Un cinema popolare, che è anche punto di ritrovo per il quartiere e che si trova a pochi passi dal Muncab e dal centro di Pelourinho. Un cinema che prende il nome da Glauber Pedro de Andrade Rocha (14 marzo 1938 – 22 agosto 1981), regista, attore e sceneggiatore brasiliano considerato come il principale rappresentante del Cinema Novo. Questo spazio fu inaugurato nel 1919 con il nome di Cine Guarany e fu per quasi 70 anni la principale sala cinematografica di Salvador de Bahia, essendo caratterizzato da elementi che lo rendevano modernissimo per la sua epoca. Nel 1955 fu rinnovato con le “nuove” attualizzazioni tecnologiche dell’epoca e dopo un periodo di “alti e bassi” con diverse opere di riqualificazione, fu riaperto nel 1982 con l’attuale nome di Glauber Rocha, diventando uno spazio di incontro, di cinema d’autore e di esposizioni artistiche (ospita oggi infatti anche dei pannelli dell’artista plastico Carybé, opera dal titolo Indios Guaranys).

Jorge Amado: l’impegno politico nel Novecento di Bahia

Tornando però al cuore di Pelourinho e alla sua architettura che rappresenta una viva testimonianza di un passato che si intreccia con forza al presente, in pieno Largo do Pelourinho troviamo l’edificio della Fundaçao – Casa di Jorge Amado, inaugurata nel 1987 dallo stesso famoso politico e scrittore brasiliano (pluripremiato però senza mai essere riuscito a ottenere il premio Nobel per la letteratura). Un luogo di “culto” per chi onora ancora oggi la memoria di questo illustre brasiliano e che ospita e conserva la sua collezione, promovendo tra l’altro, attraverso la fondazione, lo sviluppo delle attività culturali nello stato di Bahia. Lo scrittore brasiliano Jorge Amado (nato il 10 agosto 1912 a Itabuna) fu sicuramente uno dei grandi ambasciatori di Bahia e morì, solo quattro giorni prima di compiere 89 anni, proprio nella città di Salvador, il 6 agosto 2001.

Fundaçao – Casa di Jorge Amado, Largo Terreiro de Jesús. Foto di Diego Battistessa

Siamo di fronte a uno degli autori più letti al mondo, la cui vita però fu marcata dall’isolamento a causa della sua adesione al comunismo. Amado si dedicò infatti alla militanza politica (che gli costò anche il carcere) e nel 1945 fu deputato del Partito comunista brasiliano, lo stesso partito che solo cinque anni dopo fu messo al bando e considerato un partito illegale. L’esilio insieme alla famiglia, una vita rocambolesca in latitanza, l’abbandono della carriera politica e infine il ritorno nel suo Brasile solo nel 1955. Una vita di lotta, che si riflette nelle sue opere che spesso hanno trattato di temi sociali, scritti per la cui descrizione non basterebbe un libro. Pubblicò il suo primo romanzo all’età di 18 anni e già nel 1944 dette vita uno dei suoi capolavori Terras do Sem Fim (La terra senza fine), un libro che descrive con crudezza la dura vita dei lavoratori nelle piantagioni di cacao. Famoso tra i molti altri anche Gabriella, garofano e cannella, opera scritta in età più adulta (nel 1958) ma non può mancare un riferimento a un’opera che lo lega in modo particolare alla città di Salvador de Bahia. Un libro che si chiama appunto Bahia de Todos-os-Santos pubblicato nel 1945. Una specie di guida di una città che Amado ci aiuta a conoscere attraverso la sua gente e i suoi miracoli, i suoi angeli e i suoi demoni, la sua musica e gli amori incorniciati dal blu intenso dell’oceano. Tutto questo oggi è trasmesso e custodito dentro la Fundaçao – Casa di Jorge Amado, dove si trovano anche le quasi 100.000 pagine di lettere che lo scrittore ha ricevuto durante la sua vita, da persone di tutto il mondo.

Candomblé. Foto di Luciano Paiva, Flickr. CC BY-NC-ND 2.0

Adiacente alla casa di Jorge Amado si trova il Museu da Cidade, che oltre a un’ampia collezione di costumi candomblé – la tradizionale danza bahiana –, custodisce oggetti personali del poeta Castro Alves, l’autore di La nave degli schiavi annoverato tra i primi personaggi pubblici a schierarsi contro la schiavitù nell’Ottocento.

 

Flussi e riflussi tra Bahia e Benin

L’edificio della fondazione si trova a pochi metri dalla chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos e poco più in basso, troviamo un altro dei tesori storico-culturali di questo quartiere: la casa do Benin. Dal sito della prefettura di Bahia possiamo trovare più informazioni su questo centro culturale già diventato iconico, ideato dall’etnografo Pierre Verger e nato come risultato di un accordo bilaterale per unire i legami tra Salvador de Bahia e la Repubblica del Benin, luogo di origine della maggior parte delle persone schiavizzate arrivate a Salvador de Bahia.

Foto di Diego Battistessa

Inaugurato nel 1988, lo spazio si trova in un palazzo in Rua Padre Agostinho Gomes, vicino a Taboão, nel Pelourinho. Nel cuore del Centro Storico Casa do Benin rappresenta un pezzo di Africa, un luogo generatore di uno scambio culturale da e verso il continente africano. Questo spazio culturale possiede un importante patrimonio artistico e culturale afrobrasiliano ed è mantenuto dalla Fondazione Gregório de Mattos per migliorare le relazioni culturali tra le due sponde dell’Atlantico: all’interno è visibile una collezione composta da 200 pezzi provenienti dal Golfo del Benin, raccolti dal fotografo francese Pierre Verger, durante i suoi viaggi in Africa, per studiare i flussi e riflussi tra l’Africa e Bahia. Contiene anche pezzi legati alla cultura afrodiasporica, donati da artisti e istituzioni di tutto il mondo.

A donare un’atmosfera unica, il modo particolare nel quale vengono appesi dei tessuti colorati dell’artista plastico e designer Goya Lopes, che danno ancora più vita e movimento a un luogo che vuole anche promuovere la creatività artistica della moda afrobrasiliana.

Texture di Goya Lopez

Città del mercantilismo Salvador de Bahia Sincretismo Elevador Lacerda
Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester
Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

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Gentrificazione battente bandiera panamense

Dopo la panoramica che abbiamo dato rispetto a un paese, Panama, le cui dinamiche interne sfuggono usualmente al grande pubblico, andiamo a esplorare la sua capitale e soprattutto un modello di vita che manifesta una gentrificazione senza scrupoli, senza limiti e promossa in modo costante sia dal capitale nazionale che straniero.

Città di Panama, fondata il 15 agosto 1519 dallo spagnolo Pedro Arias Dávila con il nome di La Muy Noble y Leal Nuestra Señora de la Asunción de Panamá, è oggi una delle città che meglio rappresentano i contrasti e le disuguaglianze che attanagliano l’America Latina. In questa urbe di 1,5 milioni di persone (secondo dati ONU) troviamo una speculazione edilizia costante, spesso correlata al riciclaggio di denaro, un processo accelerato di gentrificazione (soprattutto nella zona della Città Vecchia), e una separazione netta e violenta delle classi sociali, operata attraverso l’utilizzo di elementi di architettura ostile (o design dell’emarginazione) che si riflettono in tutte le zone moderne e “high class” della capitale del paese centroamericano.

Una marcata discriminazione della strutturazione sociale che riverbera sugli spazi e sull’architettura della città

Nella città gli elementi della diversità etnica del paese sono molto presenti ma risulta altrettanto chiaro a che classe sociale sia attribuito ogni “livello” della struttura demografica. Da una lato infatti possiamo vedere come le persone appartenenti alle popolazioni indigene del paese vivano del lavoro informale, della particolare mancanza di accesso ai diritti fondamentali e del salario alla giornata. Non è insolito vedere persone indigene vendere la loro merce per le strade, in zone degradate della città (come via Veneto, una dei centri del traffico di persone e della prostituzione di tutto il paese centroamericano) oppure chiedere alcuni spiccioli per comprare l’ennesima bottiglia di alcool del giorno. Nonostante ciò è importante sottolineare che l’immagine generale che si percepisce rispetto alle culture ancestrali nella capitale, ha davvero poco a che vedere con ciò che si scopre e si può imparare dalla visita alle sei contee (già descritte in precedenza) che dal 1938 al 2020 hanno cambiato il volto politico-amministrativo del paese, dando autonomia e una certa indipendenza alle popolazioni native.

L’apporto nativo alla cultura del paese…

La situazione in città, appena descritta, non fa certo giustizia al contributo di queste popolazioni, basti pensare per esempio come lo stesso nome della capitale (e per estensione del paese) provenga da una parola indigena (anche se c’è ancora dibattito sul significato). Le due versioni esistenti coincidono sull’origine, e cioè che gli spagnoli una volta arrivati nella zona costiera dove oggi sorge la città abbiano attinto al linguaggio locale per battezzare il nuovo insediamento. Una versione spiega come Arias Dávila abbia utilizzato il nome che gli indigeni cueva (popolazione originaria completamente massacrata ed estinta durante la conquista spagnola dell’istmo) davano a un piccolo gruppo di case nei pressi della zona, conglomerato chiamato appunto Panama. Secondo questa versione la parola Panama potrebbe avere due significati: “abbondanza di pesci e farfalle” oppure potrebbe essere “il nome che gli indigeni davano a un albero” sotto la cui ombra erano soliti riunirsi. L’altra versione chiama in causa il popolo indigeno guna, protagonista nel 1925 della Rivoluzione guna e della effimera repubblica di Tule (sul golfo di Urabá, a cavallo del confine colombiano), che avrebbe utilizzato le parole panna mai (da qui Panama per gli spagnoli) come sinonimo di “oltre quel punto”.

… e alla superficialità della merce-turismo

Ovviamente però le popolazioni indigene costituiscono anche un forte richiamo turistico, elemento che non è stato sottovalutato dal capitale avido di poter trasformare in merce ogni cosa. E così, nella città che vede vivere nella periferia e nella precarietà quelle persone indigene che hanno lasciato le contee, si vende l’immagine di un paese plurale, che custodisce e apprezza la sua eredità indigena e che mette in vetrina l’arte ancestrale e la sapienza manifatturiera dei nativi. Un doppio standard che serve, dentro la capitale, per offrire al turismo internazionale una foto ricordo, un souvenir “stravagante”, un pezzo di cultura locale. In mezzo a tutto questo ci sono però anche punti di luce e tra questi spicca il museo Mumo, Museo della mola, prodotto della messa in comune di più di 200 molas provenienti dalle collezioni della Fondazione Llopis (più di due terzi delle molas), dalla collezione privata di David de Castro (un quarto del totale) e dalla Fondazione di Alberto Motta che ha promosso l’idea della creazione di questo spazio. Un luogo assolutamente da visitare (ingresso gratuito) e che contribuisce a innalzare l’immagine e cultura del popolo indigeno guna, (che ha appoggiato l’iniziativa attraverso i suoi cinque diversi congressi) mostrando a chi visita il museo qualcosa di unico.

Porta d’ingresso del Museo della Mola: El Colegio II, Planta baja y nivel 200, Calle José D. de la Obaldía – Casco Antiguo, Panamá. | Foto Diego Battistessa, gennaio 2022

Storia emblematica delle tipiche molas

Le molas sono piccoli rettangoli di tela che vengono usati per coprire (integrati nei vestiti) il petto e le spalle dell’abito tradizionale delle donne guna. Sono elaborate a mano mediante la tecnica della sovrapposizione di diverse cappe di tessuto. Si tratta di un lavoro certosino e una donna guna può impiegare fino a 60 ore di lavoro per produrre una mola di difficoltà medio (la difficoltà dipende dai colori, dai motivi, dalla grandezza…). Storicamente si crede che le donne guna abbiano cominciato a utilizzare questa tecnica all’inizio del Diciannovesimo secolo. La produzione delle molas ha visto un salto di qualità negli anni Sessanta, quando le comunità hanno perfezionato la tecnica arrivando alla produzione di molas di una complessità straordinaria.

Dal punto di vista ancestrale, all’interno del museo viene spiegato che, secondo la cosmovisione guna, le molas furono create fin dall’origine dell’universo nel Galu Dugbis, un luogo sacro che si trova nella quarta cappa dell’inframondo, spazio nel quale vivono le specialiste delle forbici, spiriti con aspetto di bellissime donne. Quando un uomo nele (o guida spirituale), si avvicinava a questo Galu, veniva ammaliato da una di queste donne che lo convertiva immediatamente in suo sposo. Secondo il mito, nessun uomo sarebbe mai tornato dal Galu Dugbis e fu una donna, Nagegiryai, l’unica che riuscì a penetrare questa cappa riuscendo a vedere i disegni, armonici e cangianti, tessuti dagli spiriti. Nagegiryai apprese dentro il Galu Dugbis l’arte delle molas insieme a molte altre conoscenze ancestrali femminili, che poi trasmise al resto delle donne del popolo guna.

Le molas vengono vendute in tutte il Casco Antiguo (città vecchia) ma anche nel resto della città, come souvenir e attrattivo turistico, insieme ad altri oggetti appartenenti alle culture degli altri popoli indigeni. Da Yaviza e dintorni, per esempio, un piccolo porto nel mezzo della selva del Darién arrivano le meravigliose e complesse manifatture realizzate dal popolo emberá. Yaviza è un nodo di collegamento con il pacifico e il punto di termine della famosa “Carrettera panamericana” che inizia in Alaska, 12 580 km più a nord. La Panamericana riprende poi a Turbo in Colombia, dall’altra parte della Selva del Darién, per arrivare fino alla punta sud del continente.

Un villaggio di circa 4500 anime, con un mix etnico afroamerindio che fa del luogo un melting pot storico, sociale e culturale. Il popolo indigeno emberá (le cui donne vestono le coloratissime paruma), il popolo indigeno wounaan, una folta comunità afrodiscendente e molti sfollati del lungo e terribile conflitto interno colombiano: tutto questo è Yaviza A ricordo della colonia spagnola si trova la piccola fortezza di San Geronimo, molto deteriorata e “mangiata” dal fiume Chucunaque, ma ancora visibile: meno di 100 chilometri più a sud, nella spessa e quasi impenetrabile selva del Darién, è già Colombia, ma questa è un’altra storia.

Testa di Ara, realizzata dalle sapienti mani del popolo indigeno emberá. | Foto Diego Battistessa, Yaviza, novembre 2021

La migrazione afroantillana e il quartiere di Calidonia

Un altro importante luogo di memoria storica e di rivendicazione del ruolo della popolazione afrodiscendente nella regione latinoamericana è senza dubbio il museo afroantillano di Panama.  Un luogo che l’estensore di queste note panamensi ha avuto il privilegio di poter visitare durante le ricerche per la stesura del suo libro America Latina afrodiscendente: una storia di (R)esistenza e che ci guida dentro una storia purtroppo poco conosciuta.

Contractors afroantillani per costruire infrastrutture ottocentesche

La prima migrazione afroantillana (afrodiscendenti provenienti dalle Antille) arrivò a Panama, nella zona atlantica di Bocas del Toro, intorno al 1820. In quella zona infatti operavano le compagnie bananiere britanniche provenienti dalle isole di San Andrés e Providencia. Verso le metà del 1800 però, la febbre dell’oro californiana generò un forte interesse per la costruzione di una linea ferroviaria transcontinentale e fu così che la Compañia del Ferrocarril di Panama (con sede a New York) mise sotto contratto 5000 giamaicani tra il 1850 e il 1855. A quell’epoca si credeva che i lavoratori neri giamaicani fossero gli operai perfetti per quel tipo di compito: da un lato si pensava che i neri fossero immuni (o quasi) alle malattie tropicali e dall’altro la pessima situazione economica della Giamaica li obbligava a emigrare per lavorare.

Vecchie e nuove rotte commerciali si concentrano sull’asse Colon/Panama

I nuovi arrivati si stabilirono lungo la rotta del treno, percorso che passava da Colón (città sulla costa atlantica all’epoca conosciuta come Aspinwall) e che arrivava alla città di Panama. Questa migrazione massiva fomentò il commercio dell’istmo attivando/riattivando nuove e vecchie rotte commerciali con Kingston (Giamaica), Europa e Usa. I migranti afroantillani che poi decisero di rimanere nel paese anche nella seconda metà dell’Ottocento, forgiarono un tessuto sociale ricco e articolato, fatto di scuole, negozi, chiese, logge e associazioni benefiche.

Scene di vita della popolazione afroantillana che decide di rimanere nell’istmo nel Diciannovesimo secolo | Foto del Museo afroantillano di Panama

Gli afroantillani giocarono inoltre un ruolo di primo piano come forza lavoro per il progetto francese del Canale di Panama: quello guidato da Lesseps e che terminò in un fallimento. Centinaia di loro morirono per gli incidenti e le malattie tropicali, falcidiati dall’inclemenza della selva. Con l’avvento degli Stati Uniti d’America il progetto del Canale si riattivò e ancora una volta loro, gli afroantillani erano in prima linea…

Il genius loci di Calidonia tra Ferrocarril e Canal

Il museo afroantillano di Panama sorge nella parte della città corrispondente al distretto di Calidonia, zona dove molte delle famiglie afroantillane migranti si stabilirono durante il periodo della costruzione della rete ferroviaria e del canale. Un luogo simbolico, attraverso il quale è possibile raccontare la storia di una città che ha vissuto un fiorente commercio, una forte migrazione e una importante mescolanza culturale. Processi che hanno segnato quella che venne battezzata da William Patterson alla fine del Seicento come Baia di Caledonia, giacché la prima colonia che si stabilì nella zona era scozzese e Patterson decide di assegnarle il nome latino con il quale era conosciuta la Scozia. Il nome passò poi attraverso la lingua castigliano e diventò Calidonia, allo stesso tempo in cui, quando Panama era ancora colombiana, le terre corrispondenti oggi al distretto venivano distribuite a pochi ricchi latifondisti. L’idea era quella di rendere la zona un luogo di commercio che potesse attirare la migrazione straniera e così nel 1823, il Congresso della Colombia (stato nato solo 2 anni prima) emanò un decreto che autorizzava la distribuzione di 1.920.000 ettari di terra demaniale.

Costruzione della comunità afroantillana giunta nell’istmo nel Diciannovesimo secolo | Foto del Museo afroantillano di Panama

Prodromi della finanziarizzazione panamense e conseguente prima gentrificazione (1908)

L’obiettivo erano gli investimenti europei e nordamericani che avrebbero dovuto aiutare a stabilire nuove imprese e colonie commerciali per attivare la zona dell’istmo. Nonostante ciò, almeno all’inizio la zona “non decollò” e per gli abitanti, per lo più immigrati dei caraibi che lavorano in condizioni precarie per le grandi compagnie, esistevano limitazioni sanitarie dovute alla mancanza di acqua potabile, all’inesistenza di un sistema sanitario, alle paludi e alle strade allagate che facilitavano la proliferazione di zanzare e la trasmissione di malattie come la malaria.

Fn in quello scenario che due compagnie che all’epoca furono tra le protagoniste della scena pubblica dell’istmo, la Panama Railroad Company e la Isthmian Canal Company, decisero di intervenire per creare una zona abitabile che permettesse l’espandersi delle loro operazioni commerciali. Per fare ciò dovevano poter contare su un quartiere moderno e così decisero di intervenire per riqualificare un quartiere che nel 1908 contava una popolazione di 35.668 abitanti (la maggior parte della quale era forza lavoro proprio per queste compagnie). I lavori vennero incentrati su un piano igienico-sanitario che vide anche la necessità di asfaltare le strade, la demolizione di molte case (specialmente quelle dei migranti caraibici, la costruzione dell’acquedotto e di un nuovo sistema di fognature. Come era previsto la riqualificazione della zona aumentò il valore del terreno e incoraggiò la speculazione immobiliare per la costruzione di grandi edifici popolari (a capitale privato) per l’affitto di stanze ai residenti.

Ponte di Calidonia

Calidonia fu anche lo scenario di numerosi scontri tra liberali e conservatori (che si disputavano il controllo politico della Colombia) e proprio in questo distretto venne combattuta la sanguinosa battaglia del Ponte di Calidonia, che vide la sconfitta dei liberali e dove morirono 800 soldati (700 della fazione dei liberali e 100 della fazione dei conservatori).
Il Ponte Calidonia sorgeva proprio nella zona dove oggi si trova il Museo afroantillano.

Vista del Ponte di Calidonia (destra) nel 1916, insieme alla famosa Casa Miller (sinistra). | Fonte wikipedia, foto di uso comune

Il 29 aprile 1915 il presidente Belisario Porras (Panama aveva dichiarato la sua indipendenza dalla Colombia nel 1903) divise la città in 4 grandi settori tra i quali figurava appunto Calidonia, insieme a Curundú, Bella Vista e Santa Ana; rispettivamente a ovest, nord e sud. A oggi invece il distretto è amministrativamente composto da cinque quartieri: Calidonia, Marañón, San Miguel, La Expósito e Perejil.
I fragili edifici in legno che costituivano i blocchi comunitari porticati e i balconi furono esclusi dai lavori di conservazione (come la Casa Miller che si vede nella foto: qui un approfondimento) ma oggi camminando per le strade di Calidonia, un occhio attento può ancora riconoscere tracce di quel passato che tanto ha contribuito alla coesione sociale e alla formazione del centro urbano.

Casco Viejo…

to be continued (7)

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500 anni di rotte commerciali e rivolte afrodiscendenti

Skyline di Città di Panama | Foto D. Battistessa (2022)

Colón e la popolazione afropanamense

Quanto succede nella provincia di Colón non può però essere compreso se non si fa un passo indietro nella storia di Panama e non si conosce la situazione della popolazione afrodiscendente del paese centroamericano, popolazione fortemente concentrata in questa provincia caraibica.

El Cimarronaje

(

Estratto da America latina afrodiscendente, di Diego Battistessa (Arcoiris, Salerno 2021)

Le ribellioni dell’istmo di Panama

Nella Panama della colonia spagnola il fenomeno del cimarronaje (epiteto peggiorativo con il quale venivano chiamate le persone schiavizzate che fuggivano) iniziò fin dai primi decenni del Cinquecento, proprio con l’arrivo dei primi “carichi” di forza lavoro schiavizzata dall’Africa. Gli schiavi vennero portati nella zona per svolgere diversi lavori: uno dei principali era la pesca delle perle. Un’attività che, al pari della vita delle miniere d’oro e d’argento, non solo era molto dura ma anche molto pericolosa: decine infatti furono gli africani morti per annegamento, per embolie polmonari o vittime di attacchi di verdesca. A fronte di questa situazione iniziarono le fughe verso l’interno e verso la giungla del Darién. I cimarrones però non si nascondevano dagli spagnoli, li affrontavano in campo aperto e attaccavano le carovane che percorrevano la rotta commerciale dell’istmo che collegava i due oceani. Verso la fine del decennio del 1540, si cominciano ad avere notizie di uno schiavo liberto chiamato Felipillo, leader fuggito dalle zone perlacee e capace di organizzare i cimarrones in un palenque (comunità autonoma di liberti) sulle rive del Golfo di San Miguel, nel Darién. Felipillo e i suoi portavano avanti una guerra di guerrilla nella giungla panamense, realizzando attacchi sul cammino reale e derubando i viaggiatori di armi e rifornimenti: di notte poi razziavano gli insediamenti spagnoli per liberare altri africani schiavizzati.

La difesa spagnola delle rotte di merci atlantiche

Per gli spagnoli la situazione era insostenibile. Avevano da pochi anni iniziato le operazioni commerciali nell’istmo e non potevano permettere a degli schiavi di mettere a rischio quella rotta mercantile. L’impatto delle azioni di Felipillo aveva causato non poche proteste alle autorità spagnole da parte dei coloni, che argomentavano di non poter/voler pagare le tasse e di non avere sufficiente forza lavoro. Il compito di eliminare la minaccia dei cimarrones ricadde sul Capitano Francisco Carreño che iniziò una guerra senza quartiere, infliggendo gravi e inumani castighi a coloro che venivano catturati. Le truppe di Carreño, dopo diverse scaramucce, scoprirono nel 1549 l’ubicazione esatta del palenque di Felipillo, che fu attaccato in forze e ridotto in cenere. Dopo aver ucciso il leader africano gli spagnoli probabilmente pensarono di aver eliminato il problema delle ribellioni nella zona, ma non avevano fatto i conti con l’esigenza biologica di libertà di coloro che erano stati schiavizzati. Poco dopo, altre ribellioni esplosero a Panama, guidate da capi come Antón Mandinga e il Negro Mozambique (che non ebbero molta fortuna) e soprattutto da Bayano, erede dello spirito di Felipillo.

Le origini di Bayano non sono chiare. Si dice che fosse stato catturato nell’attuale Sierra Leone, che fosse un famoso guerriero e che appartenesse alla tribù Mandinga. Un’altra ipotesi lo colloca come membro del popolo Yoruba, al quale appartenevano la maggior parte degli schiavi portati nelle Americhe: ipotesi che spiegherebbe anche il suo nome, derivante probabilmente dalla parola bayanni che in lingua yoruba identifica un idolo o un oggetto venerato dai fedeli del dio del tuono. Anche sull’inizio della sua ribellione le versioni sono discordanti. Alcuni parlano di una ribellione iniziata quando ancora Bayano si trovava sulla barca negriera che lo stava portando a Panama, altri di una fuga e un’insurrezione iniziata poco dopo essere arrivato nel Darién. Quel che è certo è che Bayano, negli anni in cui Felipillo soccombeva alle truppe di Carreño, riuscì a riorganizzare i cimarrones scappati nella selva e a costituire un nuovo, grande palenque conosciuto come Ronconcholon, vicino al fiume Chepo (conosciuto anche come fiume Bayano). Il condottiero africano contava su una forza che gli storici fanno oscillare tra i 400 e i 1200 uomini. Il Palenque di Ronconcholon era dunque una città in piena regola, che poteva disporre di un esercito che rappresentava una grande minaccia per la forza di occupazione spagnola. Per anni le truppe di Bayano portarono avanti una guerriglia che mise in ginocchio il commercio della corona spagnola. Per affrontare il pericolo rappresentato dall’insurrezione dei cimarrones arrivò a Panama anche il marchese de Cañate, viceré del Perù, che incaricò il capitano Gil Sánchez di dirigersi nella regione di Chepo e sconfiggere le truppe di Bayano. Sánchez e il suo contingente però vennero sconfitti. Una successiva spedizione guidata questa volta dal capitano che uccise anni prima Felipillo, Francisco Carreño, ebbe successo e Bayano venne catturato e portato nella località di Nombre de Dios nell’attuale provincia di Colón. Qui il Presidente della Real Audiencia de Panamá, Álvaro De Sosa, offrì ai cimarrones la possibilità di stabilire un accordo per uscire dall’illegalità e convivere con le autorità spagnole. Dopo aver accettato l’accordo ed essere dunque tornato in libertà, Bayano ricominciò tuttavia le razzie e gli attacchi sulle rotte commerciali: di nuovo catturato, questa volta da un contingente di 200 uomini guidato da Pedro de Ursúa venne inviato successivamente in Perù per essere giudicato. Nel cuore dell’impero spagnolo in Sudamerica, il cimarrón ribelle venne processato e successivamente portato in Spagna, dove morì.

Lago di Bayano, che prende il nome dal condottiero liberto del palenque di Ronconcholon | Foto Diego Battistessa (2022)

La storia delle ribellioni di persone schiavizzate a Panamà e la loro presenza sul territorio sono vincolate in modo profondo e simbolico all’identità di tutta la regione. Va sottolineato infatti che i principali insediamenti di gruppi di afrodiscendenti si trovavano in quella che veniva chiamata “Costa Arriba” nell’attuale provincia di Colón (ci furono altri palenque Costa Abajo de Colón, a ovest dell’attuale canale, ma ebbero meno rilevanza). Proprio in quella zona arrivò Cristoforo Colombo durante il suo quarto viaggio, in quelle che ancora non si chiamavano Americhe, nel 1502. La città di Nombre de Dios (dove fu portato Bayano) venne fondata nel 1510 da Diego de Nicuesa ed è uno dei primi insediamenti europei in America: è considerato il più antico insediamento ancora abitato, fondato nell’America continentale dagli europei. La cittadina di Nombre de Dios ebbe fortune alterne: abbandonata e ripopolata nel 1519, saccheggiata e incendiata dai pirati nel 1572 e nel 1596. Dopo l’incendio del 1596 innescato dal corsaro inglese Francis Drake, la popolazione venne spostata nella zona più salubre e fortificabile di Portobelo: altro luogo nel quale si concentra la storia e la trazione afrodiscendente.

La spiaggia del piccolo villaggio di Nombre de Dios, luogo nel quale sbarcò Cristoforo Colombo nel 1502 | Foto D.Battistessa (2022)

Comunità africane sovrapposte a snodi commerciali

In tutta la provincia di Colón troviamo comunità afropanamensi (da notare per esempio anche l’insediamento chiamato Palenque, che nacque come un vero e proprio villaggio di cimarrones e che ha mantenuto il nome fino ai nostri giorni) ma senza ombra di dubbio Portobelo rappresenta il centro identitario più forte. Portobelo non era all’epoca un luogo di permanenza della popolazione afrodiscendente, ma era sicuramente uno dei nodi commerciali di transito più importanti. Con il tempo però si formarono delle comunità africane stabili che si organizzarono nei quartieri di Guinea e Malambo, veri e propri conglomerati di tradizione africana e sincretica. Come eredità di questo processo storico sincretico troviamo la cultura “congo”, concentrata nella Costa Arriba e Costa Abajo della provincia di Colón. Si tratta di un articolato sistema di lingua, musica e danza afrocoloniale. Questa pratica è caratterizzata da un’espressione violenta ed erotica durante la danza, associata a una rappresentazione teatrale, il cui tema riporta a episodi storici della tratta degli schiavi, della schiavitù e delle conseguenti ribellioni nere durante i tempi del colonialismo. Tamburi, danza a piedi nudi, momenti di trance e un linguaggio che mischia lingue coloniali pronunciate al contrario e lingue di origine africana. Un’eredità dei primi schiavi africani che dentro i palenque svilupparono una pratica culturale riconosciuta oggi dall’Unesco come patrimonio culturale immateriale dell’umanità.

Passaggio strategico

Il polo atlantico: Colón

A oggi dunque la provincia di Colón, è caratterizzata per essere la zona di Panama con la più alta concentrazione di popolazione afrodiscendente, popolazione che storicamente vive gli strascichi lasciati da un razzismo strutturale che durante 4 secoli si è manifestato nella regione con la schiavitù e successivamente con una marginalizzazione e mancanza di accesso ai diritti umani fondamentali e alle condizioni di base per lo sviluppo di una piena forma di cittadinanza. La città di Colón, capoluogo dell’omonima provincia ha una popolazione di poco meno di 100.000 persone e dista solo 80 chilometri dalla Capitale, collegata alla stessa dall’Autostrada Transístmica (Panamá-Colón), che unisce le due coste oceaniche (Atlantico e Pacifico) del paese centroamericano. Colón è anche la seconda città più popolosa dei Caraibi centroamericani e qui si trova uno dei porti più grandi di tutta l’America Latina. Dato che contrasta non poco per la situazione di depressione economica e mancanza di servizi e infrastrutture urbane (in comparazione con la Capitale) nella quale versa la città e per estensione tutta la provincia. Colón è infatti un enorme hub commerciale, essendo la zona caraibica di entrata del Canale di Panama, ragione per la quale nell’area è stata istituita quella che si chiama Zona di Libero Commercio di Colón, interconnessa con il Sistema Integrato di Gestione Doganale di Panama, per facilitare e accelerare le procedure del commercio estero.

La vocazione infrastrutturale tra ferrovia e canale interoceanici

Ma le modalità e la nascita della stessa città di Colón, quando l’istmo di Panama faceva ancora parte del territorio nazionale colombiano, ci fanno capire come la zona sia da sempre solo stata vista come un luogo da sfruttare per i capitali nazionali e stranieri. Dobbiamo infatti tornare indietro fino al 1850, quando si decise finalmente di dare vita a un progetto che fu a suo tempo dello stesso Simón Bolivar, ovvero il collegamento attraverso una rotta ferroviaria dei due oceani (il canale di Panama sarebbe stato inaugurato solo 64 anni dopo). Il progetto interessava molto agli Stati Unit d’America e fu proprio lo statunitense William Henry Aspinwall (16 dicembre 1807 – 18 gennaio 1875), socio della società mercantile Howland & Aspinwall e cofondatore sia della Pacific Mail Steamship Company che del Panama Canal Railway a rendersi protagonista di questo progetto ingegneristico. Proprio la Panama Railroad Company aveva bisogno di un terminal sull’Atlantico per costruire la prima ferrovia interoceanica e per fare ciò si decise di costruire l’infrastruttura necessaria sull’isola di Manzanillo (poco più di 250 ettari), sul lato orientale della baia di Limón. I lavori iniziarono nella primavera del 1850 e la manodopera arrivò dalle Antille (con un gran numero di Giamaicani), dalla Spagna e anche dall’Italia: uomini falcidiati da malaria e dissenteria che morirono a decine per realizzare questo progetto. Una volta terminato il terminal Atlantico della ferrovia, alla zona venne data una parvenza (tra degrado e abbandono) di piccolo centro urbano e gli investitori statunitensi proposero di chiamare la “nuova città” Aspinwall, in onore di uno dei grandi capitalisti che finanziavano le operazioni di Panama Canal Railway (William Henry Aspinwall). Lo stato colombiano istituito in quegli anni però non accettò la proposta e battezzò ufficialmente il 27 febbraio 1852 la città con il nome di Colón. Gli statunitensi rifiutarono la decisione e continuarono a chiamare la città (che si trovava in territorio colombiano!) con il nome di Aspinwall. La disputa durò fino al 1890 quando una ferma azione del governo di Bogotá, che eliminò la possibilità di utilizzare l’indirizzo postale di Aspinwall, obbligò gli statunitensi a cedere e accettare il nome di Colón. La città sorta da una stazione ferroviaria non venne però risparmiata dalle vicende belliche che scossero la Colombia nel 1885 e anche dopo l’indipendenza di Panama (nel 1903) fu devastata da un incendio che la distrusse completamente nel 1915 (un anno dopo l’inaugurazione del Canale). Proprio la costruzione del Canale di Panama e la sua messa in funzionamento, portarono nuovo vigore a questo centro urbano che iniziò nella seconda decade del 1900 una costante crescita demografica. A questo si aggiunse nel 1953 la creazione della zona libera per il commercio internazionale di Colón (prima zona franca del mondo moderno) che però non salvò la città da una dura recessione economica iniziata nel 1960 e non ancora terminata.

Il Canale

to be continued (5)

¡Ya Basta extractivismo! Marca-paese Dighe e discariche La Zona del Canale Ancestralità e gentrificazione Casco Viejo – CauseWay – Artificial Island

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]]> 6. Il fiorire delle (R)esistenze https://ogzero.org/studium/6-il-fiorire-delle-resistenze/ Sun, 15 May 2022 21:55:08 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7548 L'articolo 6. Il fiorire delle (R)esistenze proviene da OGzero.

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Stop the Wall

Di fronte a tutto questo però abbiamo visto un fiorire di geografie della (R)esistenza che passano per arte, politica, cultura e mobilitazione sociale. Passano per il riscatto attravesro la ribellione a un progetto urbano istituzionale che emargina interi universi culturali e di pensiero alternativo, relegandoli alla periferia fisica e intellettuale: quando non attaccandone direttamente l’integrità fisica.

Marielle come Carolina Maria de Jesús, voce afrobrasiliana delle favelas di São Paulo che negli anni Sessanta prese letteralmente “a pugni” il Brasile e il mondo squarciando il velo che copriva le reali condizioni di vita dei favelados. Dal cuore della favela Canindé, sulla riva del Tietê nella città di São Paulo, la voce di Carolina emerse in modo prepotente raccontando senza filtri il dolore e la fame. Una donna nata il 14 marzo del 1914 a Sacramento, nello stato di Minas Gerais e successivamente emigrata a São Paulo dove lavorò come domestica e raccoglitrice di carta e ferro per la strada. Il suo diario, pubblicato per articoli inizialmente su il giornale O cruzeiro a partire dal 10 giugno 1959 e in forma di libro nel 1960, fu un terremoto letterario. Quarto de Despejo, il nome della sua opera (che ha venduto più di 100.000 copie ed è stato tradotto in più di dieci lingue) parla all’altro Brasile (quello che non vive nella favela) raccontando la sua vita, la sua quotidianità, la fame. Fame, una parola che ritorna in modo costante, quotidiano, quasi una litania dentro le pagine che raccontano la favela tra gli anni 1955 e 1959. Riflessioni asciutte, a volte semplici ma taglienti e penetranti, come quella del 3 giugno 1958:

«Quando sono a corto di soldi, cerco di non pensare ai miei bambini che chiederanno pane, ancora pane e caffè. Devio i miei pensieri al paradiso. Penso: ci sono persone lassù? Sono migliori di noi? Il loro dominio supererà il nostro? Ci sono nazioni così varie come qui sulla terra? O è un’unica nazione? Esiste una favela? E se c’è una favela lì, io vivrò nella favela anche quando morirò?”» (Carolina Maria de Jesús, Quarto de Despejo: diario de uma favelada, con illustrazioni di Vinicius Rossignol Felipe, Sao Paulo, Ática editrice, 2014, p. 50).

São Paulo e il Brasile riconoscono oggi il valore storico, culturale, antropologico e simbolico di quelle parole arrivate dalla Stanza della discarica (traduzione di Quarto de despejo). Parole che mostravano una razzializzazione delle povertà, che per la prima volta parlavano della favela da dentro la favela: aggirando le fredde analisi urbanistiche, statistiche e sanitarie di giornalisti, politici e specialisti vari. Almeno due i grandi omaggi riservati a Carolina Maria de Jesús nel 2022. Il primo è stata una mostra gratuita ospitata dal prestigioso Instituto Moreira Salles, che si trova nell’Avenida Paulista: luogo simbolo del potere economico brasiliano: Carolina Maria de Jesus: un Brasile per brasiliani è il titolo del progetto che è stato inagurato il 25 settembre 2021 e che è rimasto aperto al pubblico fino al 3 aprile 2022. Il secondo è avvenuto il 23 aprile, durante il primo carnevale postpandemia di São Paulo, nel quale la sua figura è stata onorata dalla scuola Colorado do Brás con il tema: Carolina, a Cenerentola Negra do Canindé.. La scuola ha raccontato, in un corteo emozionante, la storia della scrittrice di Sacramento, passando per Franca (dove ha iniziato a vivere con un gruppo circense) e arrivando poi a São Paulo nella favela di Canindé. Svelando un volto doloroso del Brasile, la vita di Carolina è stata raccontata con serietà e rispetto dalla Scuola, cosa che non ha impedito al corteo di essere colmo all’inverosimile di bellezza e colori.

Luiz Gama e Carolina Maria de Jesús, Murales celebrativo dell’afrodiscendenza – Casa das Rosas (SP) – (foto di Diego Battistessa)

La storia di Carolina e di Marielle ci parla di favelas e popolazione afrodiscendente, un binomio non scontato, non ovvio, ma figlio di politiche decennali di marginazione e di Branqueamento forzato dei centri delle città, che hanno stereotipato la popolazione afrobrasiliana spingendola ai margini (figurativamente e letteralmente) della società.

L’eredità di Marielle e di Carolina

Lo spazio delle donne afrodiscendenti in Brasile è andato dunque crescendo, dentro e fuori dalla favela. Nello stesso anno (il 2018) in cui fu uccisa Marielle Franco per esempio veniva eletta nello stato di São Paulo la prima donna transgender nell’Assemblea legislativa statale. Si tratta di Erica Malunginho da Silva, afrobrasiliana nata a Recife il 20 novembre 1981, affiliata al Partito Socialismo e Libertà (Psol) e considerata una della 100 persone di origine africana più influenti al mondo dal Mipad (Most Influential People of African Descent),ente che fa parte dell’Agenda globale delle Nazioni Unite (Onu). Sulla scia di Malunghiño anche Erika Hilton, donna transgender afrobrasiliana, è stata eletta consigliera della città di São Paulo nel 2020 sempre tra le file del Psol (nominata anche lei dal Mipad). Erika è stata la donna più votata nel 2020 in tutto il Brasile con oltre 50.000 voti ed è la prima trans afrobrasiliana eletta al Consiglio comunale di São Paulo. Donne afrobrasiliane che fanno storia e che evidenziano l’intersezionalità della discriminazione capitalista, razziale e patriarcale. Che dire poi di Sueli Carneiro, filosofa, scrittrice e prominente attivista contro il razzismo nel movimento sociale nero brasiliano. Carneiro è la fondatrice e l’attuale direttrice del Geledés – Instituto da Mulher Negra, ed è considerata una delle principali autrici del femminismo nero in Brasile: nel marzo 2022 è diventata la prima donna afrodiscendente a ricevere un dottorato honoris causa dall’Università di Brasilia.

Malunginho celebrava così questo importante avvenimento storico sul suo profilo instragram ufficiale:

«Il titolo di dottore onorario (in filosofia) assegnato a Sueli Carneiro riflette l’importanza della sua eredità, che è collettiva. Scrivendo, teorizzando e mostrandoci possibili percorsi di emancipazione del nostro popolo, Sueli dimostra che altre destinazioni sono possibili. Un’intellettuale nera che scrive di femminismo nero e tanti altri argomenti e che fa parte della nostra saggezza ancestrale. La conoscenza è una tecnologia che le donne nere ci hanno insegnato a padroneggiare…
… Congratulazioni a Sueli Carneiro e a tutte le donne nere che costruiscono la conoscenza in questo paese molto diseguale chiamato Brasile. Viva la vita e il lavoro di Sueli!»

Pochi giorni prima invece, Erika Hilton, chiudeva un cerchio che ci ha portato da Carolina a Marielle per poi arrivare all’attivismo delle trans afrobrasiliane. La Hilton annunciava sul suo profilo instagram diverse attività per ricordare e onorare l’autrice di Quarto de Despejo:

«Nonostante oggi sia stato segnato dal triste ricordo dell’omicidio di Marielle Franco, molti anni prima, nel 1914, un altro evento segnò la stessa data, ma con gioia: la nascita della scrittrice e multiartista Carolina Maria de Jesus.
Nata nella città di Sacramento, nello stato di Minas Gerais, fu nella città di São Paulo che Carolina scrisse la sua opera e incise il suo nome nella Storia. L’autrice di Quarto de despejo: diario di una favelada, Casa de Alvenaria, tra gli altri titoli, poesie e canzoni, ha affrontato la fame, ha lavorato come raccoglitrice di materiali riciclabili e ha lasciato un’eredità di arte e lotta di cui siamo orgogliosi e orgogliose e che ci ispira».

Erika Hilton continua poi spiegando nel testo della pubblicazione che in memoria di Carolina Maria de Jesus, tra le varie iniziative, è stato creato il Fondo municipale per combattere la fame, è stato instituito (proprio da Hilton) il Premio Carolina Maria de Jesus che sarà assegnato ogni anno per riconoscere pubblicamente il lavoro delle donne nere nell’arte e per i diritti umani e infine, è stata presentata una proposta di legge per l’installazione di un’opera d’arte in onore di Carolina Maria de Jesus nei dintorni della Biblioteca Mário de Andrade.

Chiudo questo testo (che potrebbe durare ancora molte pagine) con un consiglio di lettura, che arriva da un’altra attivista e giornalista brasiliana che definisce se stessa latino-amefricana. Sto parlando di Michele Carlos, che parlando di A Radical Imaginação Política das Mulheres Negras Brasileiras scrive quanto segue:

«Il libro porta una raccolta di testi di donne nere, in tempi diversi, che, nelle loro azioni come agenti di trasformazione in politica, hanno portato discussioni e soluzioni ai problemi della società. Da qui il “RADICAL”, dalla radice, cercare il cambiamento alla base, guardare all’origine del problema. “Immaginazione” non significa il luogo della “non azione”. Piuttosto il contrario. Qui l’immaginazione è vedere, sapendo che ci sono altri percorsi e possibilità per/nella costruzione di una democrazia che rappresenti il popolo. Chiunque riesca a immaginare oltre ciò che è prefissato, può agire promuovendo cambiamenti reali».

E le “donne nere brasiliane” – perché questo è il gruppo di popolazione più numeroso del Brasile. Le donne nere costituiscono il 25 per cento della popolazione, ma devono anche affrontare una maggiore sottorappresentanza negli spazi di potere e decisionali, pubblici o privati».

Il libro è una realizzazione dell’Instituto Marielle Franco e la piattaforma “Donne nere decidono” con la Fondazione Rosa Luxemburgo  e riunisce testi di Regina Souza, Marielle Franco, Erica Malunguinho, Benedita da Silva, Leci Brandão, Luiza Barros, Vilma Reis e tante altre. È disponibile anche gratuitamente in pdf.

fine

Città Visibili Rio de Janeiro São Paulo Brasilia Composizione della Favela Favela afrodiscendente

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]]> Le città visibili https://ogzero.org/studium/le-citta-visibili/ Fri, 29 Apr 2022 16:47:51 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7172 L'articolo Le città visibili proviene da OGzero.

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OGzero nelle città

È possibile individuare un genius loci che rappresenti una costante nel tempo e negli spazi urbani utilizzati? Nella collana “Le città visibili”, sì.

Città rese visibili attraverso la narrazione dell’esperienza personale degli autori, coadiuvati dalle voci dei testimoni e degli abitanti che forniranno un’interpretazione del territorio, della sua trasformazione e degli elementi alieni che proliferano tramite flussi di merci e di persone a provocare le contrazioni di spazi, come le loro estensioni, urbane e demografiche. Autori che esamineranno le strategie di conservazione monumentale e di “reinterpretazione delle rovine” viaggiando tra smart cities, improntate alla sicurezza digitale, che accentuano – costituendosi come ascensori e discensori sociali – la differenza nella struttura e nella mobilità urbana tra periferie e downtown. Esploreranno i luoghi di aggregazione attorno allo scambio di merci, come i mercati popolari e i centri della grande distribuzione, cercheranno di illustrare il cambio di destinazioni d’uso che prelude ai grandi progetti di infrastrutture e di conseguenza l’impatto sul tessuto urbano. Impossibile non collegare a tutto ciò i flussi migratori, con l’inclusione di nuovi arrivi e l’evoluzione della loro tipologia e l’eventuale marginalizzazione dei migranti – interni o esterni che siano; a cui si correlano anche l’esclusione di massa e lo svuotamento di aree, le ghost-town e i quartieri già progettati e costruiti come ghetti, o la gentrificazione causata da interessi immobiliari.
Gli autori di questa serie ci porteranno per mano nei loro luoghi del cuore, come guide capaci di farci sentire l’atmosfera delle città, permettendoci di intuirne realmente le attuali peculiarità senza dimenticare la Storia passata per quelle strade.

Clicca qui sotto sul nome della città per approfondire



Già Visibili in libreria


GERUSALEMME NAIROBI FREETOWN LUSAKA BANGKOK BRAZZAVILLE BOBO-DIOULASSO

In questa sezione venite indirizzati a materiali e indicazioni inerenti ai volumi già pubblicati nella collana dedicata alle città rese visibili attraverso la penna e gli occhi di autori che conoscono bene il genius loci di ciascuno di quei territori che han dato luogo a quella realtà urbana identificata dal nome della città in copertina.



Visibilità ancora in preparazione


ISTANBUL BEIRUT BUENOS AIRES BAMAKO PECHINO KIGALI PANAMÁ y COLÓN

La produzione di un libro proviene da un lungo percorso di individuazione della città che può suscitare interesse all’interno della collana, del suo potenziale autore e poi lo sviluppo del testo a seguito della raccolta degli argomenti e delle testimonianze, delle immagini e delle mappe da integrare. Ma anche del confronto e della elaborazione della sostanza che sta costituendo la base del futuro volume in via di realizzazione. Queste sono per ora le città su cui abbiamo cominciato a focalizzare la nostra attenzione e che sono già state affidate alla penna di esperti conoscitori di quelle comunità urbane.

Intanto traspaiono potenziali visibilità altrove…


Esistono poi situazioni urbanistiche e di agglomerazione umana particolarmente interessanti e che non riusciamo ancora a ricondurre a un formato editoriale di pubblicazione da proporre in libreria. Però assumono già una forma tale che… racchiudono già in embrione una… svolgono una narrazione riconducibile a… colgono una particolare situazione metropolitana che… riteniamo abbiano diritto a venire divulgate in questa sezione delle nostre proposte. Insomma finiscono con l’essere tutte collegate dal filo rosso della abitabilità di un territorio, dallo sviluppo della forma “città” e potrebbero contenere in sé un’idea che informa l’intera superficie metropolitana a cui ricondurre magari una nuova impresa libraria.

Per ora aggiungiamo queste suggestioni al dossier dedicato alle comunità urbane, come proposte di lettura collaterali ai volumi:

_ L’ultimo racconto di Diego Battistessa si dipana tra Savador de Bahia, Liverpool/Mancheser e prende spunto da Gorée/Saint-Louis. Il Triangolo del Mercantilismo

_ Avevamo cominciato con le favelas brasiliane. Il racconto di Diego Battistessa si dipana tra Rio de Janeiro, São Paulo e Brasilia

_ E proseguito con il 40ennale della costituzione di Yamoussoukro, la capitale della Costa d’Avorio, descritta da Angelo Ferrari e fortemente voluta da Boigny

400 anni di modello geopolitico schiavista

_ Per fondare un Capitalismo duraturo bisogna “scoprire” territori da “colonizzare” esterni al mondo regolato da diritti, i cui abitanti vanno deumanizzati per motivare la loro schiavizzazione.
E questo è stato perpetuato dal sistema negli ultimi secoli con poche varianti, dettate soprattutto dalle esigenze della tecnologia e dalle richieste di beni da depredare e di genti da sfruttare.

_ La terra dei caporali: dovunque lo schiavismo perpetua il suo orrore c’è un Eichmann che obbedisce?
Quando Diego ci ha proposto di analizzare questa triangolazione di porti nel colonialismo storico abbiamo pensato che poteva essere utile individuare in quali meccanismi il capitalismo si è andato perpetuando fin dalle sue basi date dall’allargamento dei potenziali mercati di merci e braccia con le scoperte geografiche della modernità (che non a caso viene datata da quel periodo di nuove tecnologie come la polvere da sparo, e le nuove rotte marittime più convenienti), adattandoli via-via alla “tecnologia” più attuale che sostiene la logistica da un lato – tracciando le rotte –, e quali organizzazioni possono sovrintendere all’approvvigionamento di manodopera schiavizzata nell’interno, che si avvale di percorsi paralleli o subalterni alle stesse vie battute da armi, droga, merci grezze dall’altro. Questi sono i meccanismi innaturali che tengono in piedi il capitalismo, senza i quali quel sistema energivoro e oligarchico non potrebbe reggersi. E l’operazione di Diego funge molto bene da memoria di quel che è stata la culla dell’attuale sfruttamento globale della migrazione, ma anche a rievocare quegli stessi meccanismi inventati con il mercantilismo e che regolano tutt’ora economia, politica e morale.
Ovviamente maggiore è l’investimento e la conseguente copertura degli stati-nazione, più ampi sono gli interessi e più si allarga il coinvolgimento finanziario, incontrastabile anche se nocivo quando la soglia del capitale profuso supera il livello di rischio di rientro qualora l’operazione fallisse: sia essa incentrata su estrazione, sfruttamento, riduzione in schiavitù, saccheggio e occupazione di territorio, ammantato da regole di controllo commerciale adattate agli stati più potenti. E tuttora diversamente – ma non meno ferocemente – coloniali, a cominciare dall’apartheid israeliano.

_ Saccheggio e debito infrastrutturale: le triangolazioni imperialiste descritte dal presidente del Burkina Faso Ibrahim Traoré sembrano – nel tentativo di collegarsi all’insegnamento anticoloniale di Sankara – ricalcare le stesse impronte triangolari su cui si fonda il capitalismo dal mercantilismo Secentesco in poi, che è l’argomento di questa serie di articoli di Diego Battistessa attorno a tre città: Salvador de Bahia, Gorée/Saint-Louis, Liverpool/Manchester.
La triangolazione si ripete identica con i medesimi meccanismi del mercantilismo emerso con la nascita dell’epoca industriale, perché il depauperamento dei territori di provenienza è prodotto dal saccheggio delle risorse da parte del capitalismo globale che attinge ai beni africani attraverso l’estrattivismo e impone infrastrutture che creano debito per paesi che sono così schiacciati dalla finanza mondiale; attraverso l’ipocrisia della Comunità europea che stanzia fondi contro la fame e poi sottrae ai pescatori proprio di Saint-Louis i prodotti dell’Oceano per farne mangimi per salmoni destinati a tavole non esattamente affamate (film di Francesco De Agustinis, Until the end of the world); lasciando “sgocciolare” soltanto la gestione della manodopera ai livelli inferiori di mera manovalanza mantenuta nella miseria e marginalità – e in alcuni casi nemmeno quella –, in modo da essere spinta a emigrare nella terra dei caporali dove il marchio “clandestino” cancella i diritti, riproponendo il modello dell’apartheid; e dovunque abbassa i livelli di contrattazione delle classi lavoratrici. Una migrazione gestita attraverso le organizzazioni di intermediazione che usano gommoni quando va bene, se non scafi assemblati con saldature di pezzi di acciaio, imbarcazioni assimilabili alle galere dello schiavismo seicentesco. Ma più pericolose.

_ Meglio le stive delle galere di quelle dei barconi? Una tratta gestita da scafisti africani, ma organizzata grazie alle leggi degli europei che realizzano le condizioni perché i padroni possano usufruire di manodopera schiava a basso o nullo costo, facendo finta di chiudere le frontiere per lasciar passare solo i sopravvissuti tra i disperati pronti a tutto e privi di diritti, senza documenti e quindi inesistenti come umani: non pesano in nessun bilancio di spesa e nella stessa condizione degli africani deportati in America sulle galere.

_ Capitali europei, merci esotiche… schiavi africani. Forse per seguire il bandolo storico della matassa ordita da Diego Battistessa si può partire da Liverpool, dove si sono stanziati i denari per armare i vascelli, usando i proventi derivanti dal commercio di schiavi – e, se ci si chiede ancora come sia stato possibile che una cultura come quella inglese (in grado di pensare di ripulirsi la coscienza riconoscendo in un museo le sue colpe, esibendole e così annientando nuovamente la cultura africana, collocata in bacheca e resa innocua) abbia potuto ordire una tratta così razzista, bastano le immagini di agosto 2024 che ritraggono i fanatici sovranisti britannici impegnati nel loro sport preferito, la caccia all’emigrato.


Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

Anche se, mettendo al centro la manovalanza, salpare da Gorée (o meglio Saint-Louis) è probabilmente il moto più immediato, perché viene umanamente spontaneo seguire il destino dei deportati africani.


Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

O piuttosto considerare centrale Bahia, dove si assorbiva la manodopera schiavizzata e si caricavano preziose merci per i porti occidentali… Liverpool/Manchester in testa, a chiudere il cerchio di The Birth of a Capitalism (per parafrasare il film di Griffith, forse il più nazionalista, e razzista, della storia del cinema).


Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

Sta di fatto che l’importanza dei porti lievita con l’apertura di rotte commerciali globali che spostano sugli oceani gran parte del commercio dell’interno, che si configura come percorso per raggiungere il porto attrezzato più vicino e competitivo. Infatti questa triangolazione documentata da Diego Battistessa si inserisce in un sistema che creò molte altre triangolazioni e tutte si vanno conglobando all’interno di un unico sistema che sullo Schiavismo costituì (e continua a costituire) l’embrione dello sfruttamento globale chiamato Capitalismo.


Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

Le grandi capitali senza storia 

Capitali: sono le città che ospitano le sedi del governo di uno stato. Spesso sono rappresentative anche dello spirito del paese che le ospita, quando non capita è perché sono frutto di una operazione artificiale. Abbiamo già considerato l’atto di erigere capitali dal nulla, in particolare dando un quadro del sistema di potere militare birmano con la capitale Naypyidaw; oppure con la altrettanto spettacolare Brasilia –  comunque in questi 60 anni di “vita” maggiormente percorsa dalla Storia, non foss’altro perché il visionario che le ha insufflato lo spirito si chiamava Niemeyer.

Tutti esempi accomunati dalla pretesa di imporre una agglomerazione dove manca la comunità, tenuta insieme da cultura, storia, riconoscimento nazionale, riferimento amministrativo e commerciale, vie e snodo di traffici… tutte prerogative mancanti a Yamoussoukro

Tutto questo è sviluppato da Angelo Ferrari che coglie l’occasione del quarantesimo anniversario della hybris di Boigny, che volle far assurgere il suo villayet avito al rango di grande capitale. Ma ciò che non può vantare una grande tradizione, non è stata attraversata dalla storia o non può vantare grandi produzioni culturali è destinato a trasmettere un senso di vacuità, di artificioso e una freddezza che deriva dalla mancanza di sostrato culturale e di storie. Oltre che di Storia. Questa la descrizione di una capitale – Yamoussoukro – voluta dal dispotico padre della patria ivoriana.  


Yamoussoukro

Favelas nelle città

Favela: una parola brasiliana che oramai è entrata nel nostro lessico e nell’immaginario collettivo. Sei lettere che descrivono un luogo che abita una dimensione marginale, periferica e volontariamente dimenticata dallo stato. Favelado/a colui o colei che è costretto a una (non) vita nella favela.
La spinta all’industrializzazione dell’Estado Novo di Getúlio Vargas trascinò centinaia di migliaia di migranti nell’ex Distretto Federale all’interno del disegno del Estado Novo, creando un’esplosione delle baraccopoli, il cui nome istituzionale era ormai diventato favelas.

La sconfitta delle elite pauliste a livello nazionale con la dittatura di Getulio Vargas non portò però a uno stop di quell’impulso che trasformò completamente il volto urbano di São Paulo, coprendo i terreni delle vecchie fazendas con nuovi e moderni quartieri e proiettandosi verso un grande salto industriale che si sarebbe pienamente compiuto durante la Seconda guerra mondiale. São Paulo aveva già iniziato dunque quel cammino che l’ha portata oggi a essere la città più popolosa del Brasile e suo vero centro economico e finanziario. Negli stessi anni in cui a Rio de Janeiro, l’amministrazione pubblica istituzionalizzava le favelas, a São Paulo entrava in scena il futuro, sotto forma di un edificio oggi iconico, Esther…

Negli anni Quaranta su Rio si riversò un potente flusso migratorio. Su questi migranti stava però per abbattersi una nuova grande “disgrazia” economica, manifestatasi sotto il nome di Brasilia. Progettata infatti come una metropoli futuristica nel mezzo della pianura dello stato del Goiás, Brasilia fu inaugurata il 21 aprile 1960 dall’allora presidente Juscelino Kubitschek.

Un Brasile che viaggiava dunque a due velocità e che negli anni Settanta, con la dittatura militare, inaugurò un progetto politico di sradicamento della favela: furono cacciati fisicamente dalle loro case centinaia di migliaia di residenti. Durante l’amministrazione di Carlos Lacerda, molti furono trasferiti in progetti di edilizia popolare come Cidade de Deus.

Negli anni Ottanta si assistette invece allo scoppio della violenza associata al fiorente commercio di droga, che aveva fatto diventare le metropoli snodi logistici molto importanti per i carichi di cocaina destinati all’Europa. Le favelas, luoghi nei quali lo stato non esisteva, si riempirono di armi e lo spazio lasciato vuoto dalle istituzioni venne presto riempito da gruppi criminali.

Le favelas in Brasile, possono essere caratterizzate con ordini di grandezza diversi a seconda per esempio della densità demografica o dello sviluppo urbano delle stesse: in estensione verticale sulle colline (come quella di Vidigal a Rio de Janeiro) o in estensione orizzontale (come Cidade de Deus a Rio de Janeiro o Paraisópolis a São Paulo, in modo paradossale perché a ridosso di un’estensione verticale di un grattacielo di lusso al di là del muro – apparentando questo dossier con quello che OGzero va sviluppando sulle Barriere).

La tensione tra le due dimensioni abitative della città, quella delle favelas e quella “ordinata” del Brasile proiettato nel futuro, rimane alta. Un esempio di questo è il Parco Nazionale di Tijuca, situato nella zona Sud di Rio de Janeiro, considerato la più grande “foresta urbana” del mondo e dichiarata Riserva della Biosfera dall’Unesco nel 1991. L’integrità di quest’area è stata minacciata dall’avanzare degli insediamenti informali, che sono cresciuti esponenzialmente sulle pendici delle montagne e delle colline che formano il Parco Nazionale.

Il 19 novembre 2008 nella città di Rio de Janeiro venne installata la prima UPP – Unità di Polizia di Pacificazione, il germe di un nuovo paradigma di presenza militare del governo in aeree fino a quel momento completamente dimenticate. Da quella cultura repressiva sono usciti quelli che hanno ucciso Marielle Franco, filha da Maré (figlia carioca della favela Maré). Marielle come Carolina Maria de Jesús, voce afrobrasiliana delle favelas paulista che negli anni Sessanta prese letteralmente “a pugni” il Brasile e il mondo squarciando il velo che copriva le reali condizioni di vita dei favelados.

Tutto questo è sviluppato da Diego Battistessa in un flusso analitico e narrativo che abbiamo cadenzato nelle 6 pagine accessibili attraverso i pulsanti che trovate qui


RIO DE JANEIRO SÃO PAULO BRASILIA CIUDADE DE DEUS PARAISÓPOLIS ROCINHA MARÉ GÁVEA CANINDÉ RECIFE

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]]> Rimangono pronipoti di schiavi deportati nel Nuovo Mondo? https://ogzero.org/rimangono-pronipoti-di-schiavi-deportati-in-latinamerica/ Fri, 03 Dec 2021 18:42:18 +0000 https://ogzero.org/?p=5497 Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi. La subordinazione e marginalizzazione dei discendenti delle masse di persone […]

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Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi.

La subordinazione e marginalizzazione dei discendenti delle masse di persone africane deportate durante lo schiavismo è rimasto sistema in tutti gli stati in America latina e Caraibi. In questo articolo il quadro di riferimento storico, geografico e culturale quando si parla di America latina e Caraibi comprende il gruppo di paesi considerato dalla Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños – Celac. I paesi membri della Celac sono 33: Antigua e Barbuda, Argentina, Bahamas, Barbados, Belize, Bolivia, Brasile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Cile, Dominica, Ecuador, El Salvador, Grenada, Guatemala, Guyana, Haiti, Honduras, Giamaica, Messico, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Dominicana, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Santa Lucia, Suriname, Trinidad e Tobago, Uruguay e Venezuela


«La popolazione afrodiscendente dell’America latina e dei Caraibi è composta principalmente da discendenti di popoli africani ridotti in schiavitù durante la tratta degli schiavi operata nella regione per quasi 400 anni. Sebbene si tratti di gruppi umani diversi, risultanti dal processo di schiavitù e dalla riproduzione delle disuguaglianze consolidate a partire dalla creazione dei nuovi stati della regione, le popolazioni afrodiscendenti latinoamericane soffrono senza distinzione il razzismo e la discriminazione strutturale. Nonostante il contesto avverso, gli afrodiscendenti hanno resistito e combattuto in modo permanente, riuscendo a posizionare le loro rivendicazioni storiche nelle agende internazionali, regionali e nazionali, principalmente nel secolo attuale. Uno dei corollari di questo processo è il Decennio Internazionale per gli afrodiscendenti istituito dalle Nazioni Unite per il periodo 2015-2024, basato su tre pilastri: riconoscimento, giustizia e sviluppo».

Cepal, 2017

Una persona su quattro in America Latina e nei Caraibi si riconosce come afrodiscendente ma, nonostante ciò, questo gruppo etnico è sicuramente la minoranza più invisibile della regione. Lo certifica tra gli altri, la Banca Mondiale, che in un report del 2018 contabilizza in 133 milioni gli appartenenti alla comunità afrodiscendente presenti nella regione latinoamericana. Sono il Brasile, il Venezuela, la Colombia, Cuba, il Messico e l’Ecuador a concentrare la maggior parte della popolazione afrodiscendente ma, anche in tutto il resto della regione, la presenza dei discendenti di coloro che furono portati in catene nel Nuovo Mondo, è parte dell’eredità storica e culturale nazionale.

Ascolta “People on the Move from Mesoamerica”.

 

Resistere per esistere

Anacaona è stata l’ultima Principessa dei Caraibi e resistente del popolo Taino. Morì nel 1503 a soli 29 anni, dopo una lunga lotta contro il dominio delle flotte spagnole che avevano saccheggiato e messo in schiavitù l’intera popolazione Taino. Condannata a morte, le fu proposto di aver salva la vita se si fosse offerta come concubina in un galeone spagnolo, Anacaona rifiutò e pertanto fu impiccata senza pietà.

Quella delle persone afrodiscendenti con l’America latina è una relazione carnale, costruita sui loro corpi – e con i loro corpi, templi di resistenza immolati alla causa della libertà. Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi.

La tratta degli schiavi in America Latina e nei Caraibi ebbe inizio per sopperire a un massacro perpetrato dai conquistadores nei confronti delle popolazioni indigene. I primi a soccombere di fronte al massivo sfruttamento dei nativi da parte dei nuovi arrivati furono i due popoli indigeni taino e caribe – da cui deriva il nome di Caraibi – e il loro destino si trova ben descritto nel volume di Sebastián Robiou Lamarche Taínos y caribes: Las culturas aborígenes antillanas (Editorial Punto y Coma, 2003). Le Antille spagnole, nome attribuito alle isole dell’arcipelago delle Antille facenti parte dell’impero spagnolo (dal 1492 al 1898) si trasformano fin da subito in una fonte di grande ricchezza per la Spagna e più tardi anche per altre potenze europee.

Durante tutto il periodo della colonia l’espansione capitalista guidata dalle politiche e dagli interessi delle metropoli del vecchio continente si è basata su una crescente e pressante richiesta di mano d’opera da sfruttare per le attività agricole, l’allevamento, i lavori di costruzione, di estrazione di risorse naturali e anche per le guerre. Come già riportato per il caso dei Taino e dei Caribe, la popolazione indigena fu falcidiata in pochi anni dagli incontri/scontri con i colonizzatori a causa della riduzione in schiavitù, dalle malattie importate dal Vecchio Continente e dalle guerre. Il collasso demografico conseguente a questa situazione portò le potenze europee a concentrare la loro attenzione sull’Africa, nello specifico sul Golfo di Guinea, conosciuto tra il XVII e XIX secolo come la Costa degli Schiavi.

Ile de Goré

Una simbolica porta sull’isola di Goré, da dove le imbarcazioni schiaviste salpavano verso il continente americano, trasportando nelle stive un carico di schiavi catturati come manodopera per i campi oltreatlantico (foto scattata nel 1998).

La struttura gerarchica, classista e razzista dell’epoca coloniale determinò fin da subito una posizione di estrema subordinazione della popolazione africana in America Latina e nei Caraibi, posizione assimilabile a quelle delle popolazioni indigene in termini di povertà materiale ed esclusione sociale e politica. Bisogna sottolineare che questa subordinazione non ha avuto termine con la liberazione delle persone afrodiscendenti dalla condizione di schiavi, ma estende la sua ombra fino ai giorni nostri e si manifesta attraverso il razzismo strutturale che relega queste comunità in una situazione di maggiore tasso di povertà, minor accesso all’educazione, minor accesso ai centri di salute, minore accesso al lavoro degno ed esclusione dagli spazi di decisione politica. A questo si aggiunge un elemento di negazione storica della presenza di persone afrodiscendenti nella regione e della loro partecipazione tanto nei processi di liberazione dal potere coloniale così come nello sviluppo sociale e culturale delle nazioni latinoamericane (Cepal, 2017).

Cosa identifica il termine afrodiscendente ?

«Lo studio della popolazione afrodiscendente presenta numerose sfide, a cominciare dalla mancanza di consenso su chi è e chi non è afrodiscendente, anche all’interno dei contesti nazionali. Il termine è stato adottato per la prima volta da organizzazioni regionali di discendenza afro all’inizio degli anni 2000. La parola descrive persone unite da un’ascendenza comune (ma che vivono in condizioni abbastanza dissimili), che vanno dalle comunità afroindigene, come i garífuna del Centro America, fino a enormi segmenti della società maggioritaria, come i pardos del Brasile. Negro, moreno, pardo, preto, zambo e creole, tra i tanti altri, sono termini molto più vicini alle nozioni di razza e relazioni razziali dei latinoamericani. Comunemente, queste categorie hanno stigmi e pregiudizi associati, come risultato di una lunga storia di discriminazione e razzismo. Nella maggior parte dei paesi, l’adozione del termine afrodiscendente è ancora parziale. In Venezuela, la maggioranza della popolazione morena (di razza mista) spesso rifiuta il termine e le sue implicazioni, mentre nella Repubblica Dominicana la maggioranza degli afrodiscendenti di razza mista preferisce identificarsi come indigeni».

(Banca Mondiale, 2018)

Le difficoltà per identificare, mappare e censire le persone di ascendenza africana nei paesi latinoamericani sono legate a doppio filo con la negazione della discriminazione razziale da parte degli stessi, oltre allo storico tentativo di rendere invisibile la pluralità etnica nella regione. Questa volontaria cecità sociale è figlia dell’opera di conseguimento dell’immagine europea di sviluppo e modernità, chimera vissuta dai governi liberali dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento in America latina. In questo schema di emulazione politica e sociale, le popolazioni indigene e gli afrodiscendenti erano visti e interpretati come elementi di disturbo, di arretratezza e di un passato da “pulire” con un’opera di blanqueamiento – lo “sbiancamento razziale”, ovvero quella pratica sociale, politica ed economica utilizzata in molti paesi postcoloniali per raggiungere un supposto ideale di bianchezza. Il termine si origina in America latina e può essere considerato sia in senso simbolico che biologico. Simbolicamente, lo sbiancamento rappresenta un’ideologia nata dalle eredità del colonialismo europeo, descritto dalla teoria della colonialità del potere di Aníbal Quijano, che si rivolge al dominio bianco nelle gerarchie sociali. Biologicamente, lo sbiancamento è il processo realizzato sposando un individuo dalla pelle chiara per produrre una prole dalla pelle non più scura.

Per raggiungere questo scopo venne favorita, da numerosi paesi latinoamericani (basti citare il Venezuela come esempio esplicativo), una massiccia immigrazione di persone dall’Europa: regione vista come culla della civiltà, Mater culturae e fornitrice di intellettualità, creatività, professionalità e soprattutto di pelle bianca. Successivamente, durante il XX secolo e con l’affermazione di identità nazionali fluide e plurali, si diffuse in America Latina la falsa percezione di aver raggiunto una sorta di giustizia sociale multietnica. In quel contesto, l’identificazione di una parte della popolazione come afrodiscendente venne interpretata come un elemento di fomento al razzismo e di conseguenza nessun dato su questa popolazione appariva nelle statistiche latinoamericane. A testimonianza, la Banca Mondiale ci ricorda nel suo report che negli anni Sessanta del XX secolo, solo il Brasile e Cuba includevano delle variabili etniche nei loro censimenti.

È dunque con questa completa mancanza di conoscenza, un vero e proprio abisso statistico a livello demografico e socioeconomico, che i paesi della regione latinoamericana hanno iniziato il terzo millennio. La domanda di chi è o non è afrodiscendente è quindi relativamente nuova e ha acquisito notevole importanza con l’introduzione delle varianti “razziali” nei censimenti nazionali a partire dagli anni 2000. L’autodeterminazione come afrodiscendenti in America latina ha poi ricoperto un ruolo strategico a livello politico, economico e sociale con l’introduzione di un quadro normativo di protezione dei diritti di questa popolazione. In questo scenario, però, si è vista in alcuni casi una perversione legale che ha comportato una nuova forma di discriminazione:

«Con la creazione di quote per gli afrodiscendenti nel mercato del lavoro o nel sistema educativo, per esempio, le persone che sono state escluse nel passato per non essere sufficientemente bianche ora corrono il rischio di essere escluse per non essere sufficientemente nere» (Banca Mondiale, 2018)

Dove vivono le persone afrodiscendenti in America Latina e nei Caraibi

I dati raccolti dalla Banca Mondiale su un totale di 16 paesi della regione latinoamericana parlano di 133 milioni di persone afrodiscendenti, circa il 24% del totale della popolazione. Il Brasile è sicuramente il paese che da solo pesa in modo determinante sulla bilancia demografica, con una popolazione afrodiscendente nel 2015, stimata in 105 milioni di persone. Il Brasile insieme al Venezuela, concentrava all’epoca il 91% della popolazione afrodiscendente della regione e un altro 7% era distribuito tra Colombia, Cuba, Ecuador e Messico. Si evince dunque che le tre aree di concentrazione della popolazione oggetto di studio sono rappresentate dal Brasile, dai Caraibi e dalla costa dell’Oceano Pacifico. Si tratta di una forte eterogeneità determinata dai contesti paese, dalle zone geografiche di residenza e dalla presenza o meno all’interno delle statistiche e dei censimenti nazionali. Ciononostante, la maggior parte delle persone afrodiscendenti della regione condividono non solo le radici africane ma anche una lunga storia di migrazione forzata, oppressione, sfruttamento ed esclusione.

Sono donne, sono afrodiscendenti e stanno facendo la Storia

Ascolta “The importance of being afro”.

 

Il caso più emblematico di questa fine 2021 è sicuramente quello della Repubblica della Barbados, divenuta tale il 30 novembre 2021 con la definitiva separazione dalla corona britannica e l’ingresso nel Commonwealth come repubblica indipendente. A sancire questa transizione storica la nomina del primo presidente dell’isola caraibica, una donna afrodiscendente: Sandra Mason. Un avvenimento dalla enorme simbologia storica, politica, etnica e di rivalsa identitaria. Basti pensare che proprio in un altro territorio inglese caraibico (le Bermudas), vide la luce nel febbraio del 1831, un’opera letteraria unica e che fu determinante per l’abolizione della schiavitù. Si tratta di The history of Mary Prince, a west indian slave written by herselfes, la prima autobiografia scritta da una donna nera schiava originaria delle Bermudas e di nome Mary Prince. Il libro ebbe un impatto enorme non solo in Inghilterra e fu un elemento fondamentale per la promozione dell’abolizione della schiavitù nelle colonie britanniche avvenuta nel 1833 con lo Slavery Abolition Act.

Un documento considerato come un referente della letteratura nera africana delle colonie e che valse a Mary Prince il riconoscimento come una vera e propria eroina delle Bermudas. Il 26 ottobre 2007, per la ricorrenza del 200° anniversario dell’abolizione della tratta degli schiavi (Slave Trade Act del l807) , nella casa in cui Mary Prince visse a Londra nel 1829, venne scoperta una targa in suo onore. La targa recita: “Mary Prince, 1788-1833, la prima donna africana a pubblicare le sue memorie di schiavitù visse in questa casa nel 1829”.

Passato e presente che si intrecciano dunque, in un cammino dove la geografia della resistenza chiude circoli a distanza di generazioni, traccia linee leggibili solo se osserviamo da una certa distanza, a volte di secoli, il quadro originale.

Sandra Mason è però solo l’ultimo tassello di un movimento eterogeneo e trasversale, che vede le donne afrodiscendenti della regione giocare un ruolo centrale nella riscoperta, rivendicazione e posizionamento nelle agende nazionali e internazionali del peso identitario della loro comunità. Da diversi campi d’azione donne come Gessica Geneus,

La regista haitiana di Port-au-Prince ha fatto sentire a Cannes il valore della lingua creola con il suo film Freda, sul coraggio delle donne del suo paese. Film inserito anche nella sezione lungometraggi di finzione del Fespaco di Ouagadougou in Burkina Faso.

la cantante Rihanna; Robyn Rihanna Fenty, nata a Bridgetown, è stata dichiarata “eroina nazionale” di Barbados proprio il 30 novembre giorno della proclamazione della Repubblica delle Barbados per aver, secondo le parole della primo ministro Mia Mottley: “l’immaginazione nel mondo attraverso la ricerca dell’eccellenza con la sua creatività, la sua disciplina e, soprattutto, il suo straordinario impegno per la sua terra”.

 

 

 

la compianta Marielle Franco, Politica e attivista afrobrasiliana assassinata il 14 marzo 2018 da sgherri coperti da organismi della polizia.

 

Shirley Campbell Barr, la poetessa afrodiscente del Costa Rica, autrice della poesía “rotundamente negra”.

 

l’attivista per la difesa della natura e politica afrocolombiana Francia Elena Márquez Mina

gli ori olimpici di Tokyo 2020 Neisi Dajomes (Ecuador), Jasmine Camacho-Quinn (Porto Rico), Elaine Thompson-Herah (Giamaica), Yulimar Rojas (Venezuela), l’attivista e ballerina afrobrasiliana Tuany Nascimento tra le altre centinaia, continuano a costruire una narrazione alternativa che passa per un epistemologia nuova, inclusiva e sgombra della colonialità del potere.

La colonialità del potere è un concetto che mette in relazione le pratiche e le eredità del colonialismo europeo negli ordini sociali e nelle forme di conoscenza, avanzate negli studi postcoloniali, sulla decolonialità e negli studi subalterni latinoamericani, in particolare da Anibal Quijano. Identifica e descrive l’eredità vivente del colonialismo nelle società contemporanee sotto forma di discriminazione sociale che è sopravvissuta al colonialismo formale e si è integrata negli ordini sociali successivi. Il concetto identifica gli ordini gerarchici razziali, politici e sociali imposti dal colonialismo europeo in America Latina che prescriveva valore a determinati popoli/società mentre ne sminuiva o invisilibizzava altri.

 

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