Urali Archivi - OGzero https://ogzero.org/regione/urali/ geopolitica etc Sun, 23 Oct 2022 16:09:41 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 La carne da cannone imparerà mai a sfuggire al macello? https://ogzero.org/la-carne-da-cannone-imparera-mai-a-sfuggire-al-macello/ Sun, 23 Oct 2022 12:11:03 +0000 https://ogzero.org/?p=9239 Khinstein, un consigliere di Putin, ha dichiarato che la Rosgvardiya metterà sotto maggiore sorveglianza gli uffici di reclutamento di carne da cannone dopo i molti attacchi subiti: evidentemente la propaganda delle operazioni speciali produce invece una consapevolezza sempre più estesa della necessità di boicottare la coscrizione, un recupero da parte dei civili di quella resistenza […]

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Khinstein, un consigliere di Putin, ha dichiarato che la Rosgvardiya metterà sotto maggiore sorveglianza gli uffici di reclutamento di carne da cannone dopo i molti attacchi subiti: evidentemente la propaganda delle operazioni speciali produce invece una consapevolezza sempre più estesa della necessità di boicottare la coscrizione, un recupero da parte dei civili di quella resistenza di stampo novecentesco contro qualunque aspetto abbia attinenza con il mondo militare. A un istintivo moto di sottrazione al reclutamento in una guerra zarista cominciano a moltiplicarsi gli episodi di sabotaggio. Questo si spiega anche con l’analisi della provenienza di classe e dalla periferia dell’impero degli arruolati; e proprio da questo prende spunto Yurii per illustrare in una cavalcata attraverso il territorio della Federazione e i luoghi della diaspora, inseguendo resistenza, controinformazione antimilitarista contrapposta alla propaganda del Cremlino… mobilitazioni di madri, mogli, figlie. Ma Yurii non tralascia nemmeno l’arruolamento ucraino, altrettanto subdolo perché si affida a una censura preventiva di chi si fa passare per la parte buona del conflitto; tuttavia l’impegno internazionalista di Assembly scoperchia la bugia dell’unità nazionale che si regge solo come contrasto all’aggressore. 


La mobilitazione “parziale” dell’esercito della Federazione russa imposta da Putin il 21 settembre ha fatto entrare il conflitto russo/ucraino in un una nuova fase che pone non poche domande sia sulla consistenza e reale tenuta dell’esercito della Federazione che sui particolari caratteri di classe e sulle ricadute sociali della guerra stessa.

La propaganda e la guerra ai poveri

I contorni stessi della mobilitazione di carne da cannone sono rimasti vaghi. Formalmente il ministro della difesa russa Sergej Shojgu ha parlato di 300.000 uomini ma resta aperta l’incognita dell’ormai famosi punto 7 del decreto di Putin che si sussurra dovrebbe prevedere il suo ampliamento fino a un milione di uomini in caso di necessità (era già stato previsto l’aumento di 137.000 membri combattenti dell’esercito entro il 1° gennaio 2023).
Il maggiore successo di reclutamento è avvenuto, senza sorpresa alcuna, nelle regioni più povere e degradate del paese. Già ci s’avvicina al 100% dei riservisti programmati presenti nei campi di addestramento o addirittura ormai al fronte, carne da cannone proveniente da regioni come la Cecenia (reddito pro capite annuo 2170 dollari), dal Kabardino- Blakaria (2670 dollari), dalla Buritia (3650 dollari), dall’Altaj (3730). Si tratta di popolazioni anche con tassi di scolarità tra i più bassi della Federazione e quindi più indifesi di fronte alla propaganda sciovinista dei mass-media e dei social network.

Una recente indagine ha portato alla luce che il 69% dei russi non è mai stata all’estero, mentre oltre il 50% non ha neppure il passaporto. Nelle regioni più povere la mancanza di passaporto supera l’80%. Non si è mai viaggiato all’estero per mancanza di mezzi materiali ma anche per mancanza di curiosità culturale. Sono loro la vera “carne da cannone” che hanno alimentato lo sforzo bellico putiniano negli ultimi 8 mesi.

Le cose cambiano radicalmente quando si arriva nelle capitali storiche della Russia, San Pietroburgo e Mosca. Nella città sulla Neva hanno risposto alla lettera di mobilitazione solo il 18% dei riservisti, a Mosca peraltro sono state chiamate a servire la nazione in Ucraina solo 14.000 persone ma buona parte di queste al momento della chiamata avevano già preso la strada dell’esilio. Non è certo un segreto che chi ha seguito la via della fuga appartiene socialmente – in buona parte – a quegli strati della società che potremmo definire “ceto medio” e che condividono “valori occidentali”. Le lunghe teorie di uomini che si sono visti nei primi giorni della mobilitazione attraversare le frontiere con ogni mezzo disponibile però non sono solo giovani; spesso si tratta di intere famiglie che abbandonano il paese definitivamente.

Renitenti a Volgograd

Esposizione infame a Volgograd delle foto dei renitenti

«Non voglio e non posso attendere – ci dice Igor 32 anni di Samara – quando cambierà qualcosa in Russia. Proverò a ricostruirmi una vita in Germania se riuscirò a raggiungerla».

Per ora è andato in Kazakistan e da lì spera di avere un visto europeo, con lui la moglie e il figlio di tre anni. Anche l’emigrazione verso Israele per chi ha sangue ebraico è molto gettonata:

Valerij è ora in Tajikistan: “Si tratta del paese in cui la vita costa di meno, ma sto preparando i documenti per volare a Tel Aviv e ottenere il passaporto israeliano».

Ma quasi nessuno degli oltre 30.000 che hanno fatto per ora richiesta del passaporto d’Israele intende fermarsi lì: «Troppo difficile inserirsi lavorativamente», dice ancora Valerij che sogna i paesi scandinavi.

Il dissenso al minimo sindacale

La decisione della dirigenza di tenere le frontiere aperte (ma nel Donbass con la dichiarazione della Legge marziale sono state prontamente chiuse) si basa su un calcolo cinico: più oppositori e refrattari alla leva se ne andranno, meno potenziali movimenti interni no-war potranno svilupparsi nel futuro. Si tratta tuttavia di calcoli che potrebbero rivelarsi superficiali, se la guerra dovesse continuare a lungo e la lista dei morti e degli invalidi diventasse insostenibile. Del resto le manifestazioni delle donne in Daghestan contro l’invio dei mariti e dei figli al fronte come carne da cannone la dice lunga su come si stia incrinando la narrazione putiniana sulla guerra. Non era mai avvenuta una mobilitazione spontanea di donne musulmane all’interno dei confini della Federazione russa e segnala quanto potrebbe essere inedita la crescita del femminismo in Russia.

I residenti del villaggio di Endirey in Daghestan hanno bloccato l’autostrada federale La polizia spara in aria a Khasavyurt-Makhachkala, dove le donne avevano inscenato una protesta contro la “mobilitazione parziale” dei loro uomini

Allo stesso tempo è evidente che i caratteri del rifiuto della guerra, per certi versi, assumono caratteristiche diverse da quelli della Prima guerra mondiale e pongono in modo nuovo la questione della lotta contro la guerra. Il’ja Budraytskis uno dei più importanti attivisti e intellettuali russi di sinistra, che ha deciso malgrado tutto di restare nel paese, ritiene che «ci sono importanti cose che chi ha deciso di emigrare può comunque fare». Come per esempio creare dei collegamenti stabili sia con gli altri fuoriusciti nei diversi paesi, naturalmente con chi sta in Russia al fine di giungere a una piattaforma comune di chi è contro la guerra. E allo stesso tempo produrre dei materiali di propaganda per chi è andato al fronte, lo sviluppo sistematico di una controinformazione sull’andamento reale del conflitto (anche se ricordiamo che ai reclutati russi a differenza di quelli ucraini sono stati tolti gli smartphone).

Straccioni mercenari, la carne da cannone

Come già nel caso dei contractors e dei “volontari” reclutati nei mesi precedenti, la parziale mobilitazione è stata selettiva in termini di classe anche sotto altri profili: non è casuale che la maggior parte dei mobilitati (secondo i dati ufficiali 230.000) sono attratti dalla possibilità di ricevere paghe da 200.000 rubli al mese (media nazionale 50.000) e moltissimi benefit quali la possibilità di formazione professionale e la possibilità di acquistare una casa a tassi agevolati nel dopoguerra.

Per esempio il governatore della Yugra, Natalija Komarova, ha deciso di fissare la paga del mobilitato a ben 250.000 rubli e altrettanti al momento della smobilitazione. Alle Sakhalin, in Chukotka e Yamal, si va anche oltre: pagano subito 300.000 rubli a testa. In Jakutia, il presidente Aisen Nikolajev ha addirittura emanato un decreto speciale in cui si afferma che, oltre a vari benefici, le famiglie dei residenti mobilitati riceveranno anche una somma forfettaria di 200.000 rubli. È stata diffusa un’altra promessa del presidente della Crimea Sergej Aksenov: ogni coscritto riceverà anche 200.000 rubli dalle autorità dell’unità militare in cui è stato arruolato. Il denaro dovrà arrivare sulla carta entro cinque giorni. Sembra che siano stati promessi 100.000 rubli ciascuno nelle regioni di Belgorod, Irkutsk, Kursk, Omsk, Tula, Adjgea e in diverse altre regioni.

La mobilitazione ha anche il suo lato industriale: andare a combattere spesso significa abbandonare posti di lavoro che sono comunque utili allo sforzo bellico neozarista nelle retrovie.

Gli operai della fabbrica non hanno voglia di combattere. A poco a poco dal fronte vengono a conoscenza della mancanza di tutto ciò di cui hanno bisogno e che devono comprare tutto a proprie spese, che vengono portati al fronte senza preparazione. Non ci sono nemmeno persone che hanno lasciato [il paese].

Dicono: «Dove potremmo andare? Siamo operai. Nessuno vuole gente come noi, cazzo» (l’intervistato si definisce operaio, ma si tratta di un ingegnere della difesa); e aggiunge: «L’atteggiamento dei soldati all’ufficio di arruolamento militare è brutale, ci chiamano “usa e getta”, prendono tutti indistintamente. Come se ci stessero preparando per il macello… Le persone sono diventate nervosissime, ci sono molti casi di depressione. Di fronte alla morte la loro paura della repressione svanisce», afferma un tecnico di una fabbrica di San Pietroburgo.

Molti, tuttavia, accettano il loro destino con fatalismo (tipicamente russo) e non sembrano essere pienamente consapevoli del grado di pericolo. Un fatalismo che molti pagano con la vita: secondo i servizi segreti britannici (che forniscono gli unici dati “equilibrati”) a settembre le perdite russe sarebbero state di oltre 16.500 uomini a cui aggiungere almeno 35.000 feriti).

La propaganda nazionalista di Kyiv basata sulla censura

“Dall’altra parte della barricata” le informazioni sono assai più ridotte. Da una parte sembra funzionare bene una certa censura “preventiva” messa in atto dal ministero della difesa ucraino, dall’altro, i fenomeni di diserzione e anche di malcontento tra le truppe sembrano essere più limitati temporaneamente. In questo senso l’arma della mobilitazione nazionalista sembra aver funzionato molto più per Zelenskij che per Putin e un certo grado di motivazione a combattere è presente sia nell’esercito regolare che tra le Unità Territoriali volontarie. Come ha ricordato da questo punto di vista Assembly, un gruppo libertario di Kharkhiv impegnato nella solidarietà internazionalista ma piuttosto tiepido verso la partecipazione alla “resistenza armata”:

«Dovremmo capire che l’unità nazionale degli ucraini intorno al potere di Zelenskij si basa solo sulla paura della minaccia esterna. Pertanto, gli atti sovversivi contro la guerra in Russia sono indirettamente una minaccia anche per la classe dirigente ucraina, ed è per questo che consideriamo il loro sostegno informativo un atto internazionalista».

Il malcontento sotto le braci dell’occupazione

Allo stesso tempo gli attivisti di Assembly ricordano come «nonostante l’assenza di una differenza qualitativa tra gli stati in guerra, essi differiscono quantitativamente: se tutti i soldati russi smettono di combattere, la guerra finirà, se lo fanno i soldati ucraini, finirà l’Ucraina. La zona di occupazione inizia a 20 km dalla circonvallazione della nostra città, e sappiamo cosa significa: la “scomparsa” di tutti gli abitanti almeno un po’ attivi e l’età della pietra per il resto della popolazione. Allo stesso tempo, dopo che le truppe russe hanno perso per lo più il loro potenziale offensivo, un’ondata di malcontento sociale ha iniziato a manifestarsi anche in Ucraina – ne abbiamo già parlato».

Il diritto a uscire dal paese e non partecipare al conflitto è anche rivendicato da Assembly, tuttavia la formale mobilitazione generale e la chiusura delle frontiere per i maschi in età adulta grazie alla diffusa corruzione nella società ucraina è stato spesso risolto praticamente da chi non intende fare da carne da cannone: secondo alcune fonti bastano poco più 100 dollari per “oliare” le guardie alla frontiera.
La diserzione vera e propria si è quindi concentrata nei periodi di maggiore difficoltà per l’esercito ucraino, durante la lunga offensiva russa nel Donbass di primavera scorsa. In quel periodo lo stesso presidente ucraino sosteneva che il suo esercito perdeva 200-300 uomini al giorno. Come riportava l’agenzia di stampa russa “Tass” all’epoca:

«I casi di diserzione delle truppe ucraine sono sempre più diffusi», ha dichiarato il servizio stampa del Ministero della Difesa. «Così, nei pressi del villaggio di Aleksandropil nella Repubblica Popolare di Donetsk, più di 30 militari ucraini di uno dei battaglioni della XXV Brigata aviotrasportata, dopo aver abbandonato le armi personali, hanno lasciato volontariamente le loro posizioni», si leggerà sull’agenzia russa.

Altri si erano avuti a inizio estate: il 22 giugno il Ministero russo ha dichiarato che i militari della 57a brigata di fanteria motorizzata ucraina che difendevano gli insediamenti di Gorske, Podleske e Vrubovka nella Repubblica Popolare di Luhansk, dopo aver perso oltre il 60% degli uomini, si sono rifiutati di eseguire gli ordini e hanno abbandonato volontariamente le loro posizioni.

Scarsi o nulli invece i fenomeni di fraternizzazione tra soldati dei due paesi slavi anche se alcune decine di soldati russi, dopo l’inizio della mobilitazione si sono volontariamente consegnati prigionieri alle Forze armate di Kyiv, pur di non combattere.

Il ministero della Difesa ha dichiarato che il comando ucraino è stato costretto a formare battaglioni separati di armi leggere con cittadini mobilitati non addestrati per compensare le perdite.


Questo articolo ha avuto un prequel embrionale in un intervento di Yurii su Radio Blackout  l’11 ottobre 2022. Ecco il podcast che espone ulteriormente l’analisi relativa ai tentativi di resistenza antimilitarista durante l’“Operazione speciale”:
“Quale narrazione della guerra in Ucraina esula dalla propaganda militare?”.

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L’ordine regna in Kazakhstan e grande è la confusione sotto il cielo russo https://ogzero.org/lordine-regna-in-kazakhstan-e-grande-e-la-confusione-sotto-il-cielo-russo/ Sat, 15 Jan 2022 00:49:02 +0000 https://ogzero.org/?p=5851 Il bilancio dopo il ritorno all’ordine non è così scontato nei molti temi toccati dall’intervento di Yurii Colombo a completamento delle intuizioni incentrate sulla lotta di classe che ha inaugurato il 2022 kazako. Hanno fatto attenzione a reprimere senza umiliare i lavoratori kazaki, che ora attendono mobilitati che le promesse siano mantenute: infatti si è […]

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Il bilancio dopo il ritorno all’ordine non è così scontato nei molti temi toccati dall’intervento di Yurii Colombo a completamento delle intuizioni incentrate sulla lotta di classe che ha inaugurato il 2022 kazako.

Hanno fatto attenzione a reprimere senza umiliare i lavoratori kazaki, che ora attendono mobilitati che le promesse siano mantenute: infatti si è trattato di una reazione da un lato militare e spietata (con morti, arrestati, violenze…), condotta da reparti speciali, soprattutto contro i riot. E dall’altro traspare il sapore populista volto a blandire la piazza che impaurisce l’oligarchia – nella tradizione della satrapia  centrasiatica, che ha visto le stesse manovre precipitose nelle altre nazioni limitrofe che sono terra di conquista della Nato e che vedono gli oligarchi tentati di sfuggire al potere di Mosca. Salvo poi rivolgersi al Cremlino per soffocare rivolte e contese. Mentre Putin mira soltanto a mantenere una cintura di sicurezza, chiedendo attraverso i colloqui con la controparte di stilare un regolamento politico strategico che assicuri che non ci sia possibilità alcuna di confluenza nella Nato di un paese che condivida i confini occidentali della Federazione russa. Ma questo riguarda l’Ucraina, il mantenimento invariato del Kazakhstan non è in discussione.

A fronte di questa situazione internazionale ogni paese di quel cuscinetto di sicurezza ha una sua situazione particolare che rientra comunque negli standard delle risposte prevedibili: ciascuno diverso, ma ognuno uguale nel mantenimento degli equilibri. Il Kazakhstan in particolare è importante per le relazioni internazionali, tanto che non si è vista una reazione fatta di sanzioni o muscolare da parte di europei, che sfruttano le risorse; o di americani, che approfittano per provocare Mosca; o di cinesi , che ci devono far passare la Via della Seta. E allora è importante per tutti mantenere lo status quo, ma anche che i lavoratori producano quelle ricchezze che le potenze straniere e le multinazionali del petrolio intendono sottrarre.

Yurii, dopo gli aspetti sociali (assolutamente centrali) affronta subito, eliminandole, le letture complottiste dietro a cui Toqaev ha tentato di nascondersi. Ma la preoccupazione per i milioni di russofoni abitanti fuori dai confini russi, e anche i tanti provenienti dalle ex repubbliche e vivono in Russia, hanno richiesto uno studio della paura del jihad che dalla guerra in Cecenia in avanti ossessiona Putin.


«L’ordine regna in Kazakhstan» potremmo dire parafrasando Rosa Luxemburg. Dopo agitazioni e rivolte durate quasi una settimana – soprattutto grazie all’intervento delle truppe dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto) – il presidente Qasym-Jomart Toqaev è riuscito a riprendere il controllo della situazione e ha promesso anzi che entro la fine del mese di gennaio quest’ultime verranno ritirate completamente dal paese. Restano però aperte non solo molte questioni interne, ma anche riguardanti la sistemazione dell’ordine regionale e inevitabilmente di quello mondiale visto la dimensione strategica per il mondo occidentale del problema del contenimento del radicalismo islamico e del controllo delle rotte energetiche (il Kazakhstan ha riserve di petrolio per 30 miliardi di barili e di gas per 3 trilioni di metri cubi).

L’intervento del Csto è servito a stabilizzare la situazione che rischiava di sfuggire di mano dopo i vistosi fenomeni di “fraternizzazione” e “timidezza” della polizia (e persino dei reparti speciali) nei confronti dimostranti in varie zone del Kazakhstan. Per avere un quadro delle dimensioni degli avvenimenti kazaki basterà ricordare il bilancio finale degli incidenti in tutto il paese: 164 morti tra i dimostranti e 18 tra forze dell’ordine, oltre 8000 arresti, oltre tre miliardi di danni economici dovuti agli scioperi, al blocco delle comunicazioni e dei trasporti e per i danneggiamenti.

Come si evince dall’infografica è stata coinvolta dai disordini solo una delle tre città più popolate, ma tutti i grandi centri urbani industriali (a parte Alma Aty ovviamente) hanno visto manifestazioni egemonizzate da gruppi di lavoratori e dai sindacati. L’eterogeneità delle rivendicazioni e delle proteste non deve far dimenticare il tratto unificante di una richiesta generalizzata di maggior equità sociale.

Nei giorni successivi, il presidente kazako, soprattutto per giustificare l’intervento esterno, ha enfatizzato i caratteri “arancioni” delle dinamiche nel paese, ma ben presto ha dovuto drasticamente ridurre il numero di mercenari a suo dire attivi nelle manifestazioni da 20000 a 300. Lo stesso tasto, ma con meno vigore è stato premuto da Putin, il quale ha però immediatamente distinto «l’azione terroristica dalle proteste contro il carovita». Secondo i servizi speciali del Tagikistan, il numero di campi e centri di addestramento dei terroristi attivi ai confini meridionali del Csto nelle province nordorientali dell’Afghanistan sarebbero oltre 40, e complessivamente sarebbe composti da 6000 combattenti. Il 12 gennaio Toqaev per la prima volta ha indicato quali sarebbero i “mandanti” dell’“azione terroristica”: «Un atto di aggressione… che ha coinvolto combattenti stranieri provenienti principalmente dai paesi dell’Asia centrale, compreso l’Afghanistan. C’erano anche combattenti del Medio Oriente» ha precisato il leader kazako escludendo così l’ipotesi frettolosamente sostenuta dai vari raggruppamenti del cospirazionalismo internazionale sul ruolo dei paesi occidentali.

Secondo il direttore dell’Institute for Geopolitical Research e capo ricercatore presso l’Istituto di Storia ed Etnologia Asylbek Izbairov, i gruppi dell’estremismo islamico fin dalla loro comparsa nel paese intorno al 2011 sono sempre rimasti “ridotti” e “limitati” a gruppi giovanili capaci solo di realizzare attentati terroristici. Tali gruppi hanno assunto nomi spesso roboanti come “Soldati del Califfato” (Junud al-Califfato), “Difensori della religione” (Ansar-ud-din), Battaglione di Baybars ma il loro radicamento sociale è sempre rimasto incerto e il loro programma politico vago.

Questi gruppi avrebbero sviluppato «concetti quasi coloniali di tendenze sufi sincretiche, che a lungo termine portano a una pericolosa “sintesi” di misticismo pseudo-religioso e nazionalismo etnico di “sangue e suolo”».

Un quadro simile si coniugherebbe assai bene ad altre ipotesi circolate sui mass-media kazaki secondo cui soprattutto ad Alma Aty alcune “cellule dormienti” di questi gruppi siano stati il propulsore dei riot popolari dandogli quell’efficienza lamentata dal Toqaev, giunta fino alla prova di forza dell’occupazione dell’aeroporto internazionale a cui avrebbero partecipati circa 800 rivoltosi.

Questa dimensione sarebbe una delle ragioni che avrebbe spinto Putin a ritirare rapidamente le proprie truppe dal paese per evitare (anche in Kirgizistan e in Tagikistan) l’emergere di forti sentimenti antirussi che potrebbero avere ricadute poco piacevoli nelle metropoli russe dove lavorano milioni di migranti centroasiatici.

D’altro canto ciò spiega anche il sostanziale beneplacito al ristabilimento dell’ordine da parte del Dipartimento di stato Usa: non solo perché così vengono garantiti gli investimenti stranieri (161 miliardi di dollari dall’indipendenza del 1991 al 2020 principalmente nel settore energetico) ma anche soprattutto perché la Russia ha tolto le castagne dal fuoco a tutto il capitalismo internazionale in una fase delicata come quella attuale in cui si sta ancora elaborando il lutto della fuga dall’Afghanistan. In questo trentennio tutti i paesi della fascia centroasiatica dell’ex Urss hanno svolto un ruolo di contenimento della crescita dell’islam radicale e anche se molti foreign fighters si sono per un periodo trasferiti a combattere nell’Isis in Siria e in Iraq il ritorno in patria non ha prodotto fenomeni terroristici in tutta l’area e particolarmente in Russia dove l’ultimo attentato significativo resta quello dell’aprile 2017 a San Pietroburgo.

Malgrado ciò il primo intervento dalla sua fondazione nel 1992 del Ctso segna uno spartiacque dal punto di vista politico e tattico-militare.

«Comprendiamo che gli eventi in Kazakistan non sono il primo e tutt’altro che ultimo tentativo di interferire dall’esterno negli affari interni dei nostri stati. Le misure che abbiamo preso hanno dimostrato chiaramente che non permetteremo che la situazione in patria sia scossa e non permetteremo che si materializzino gli scenari delle “rivoluzioni colorate”», ha sostenuto Putin, durante la riunione con gli stati membri.

Il Csto si configurerebbe per certi versi come una sorta di “Santa Alleanza” come quella delle autocrazie europee dopo il 1815, per frenare ai confini dell’Urss l’insorgenza di rivoluzioni democratiche. Una forza non di occupazione però ma di pronto intervento, per frenare l’ulteriore disgregazione di quelli che furono i “confini naturali” dell’Urss e, per altri versi, della Russia zarista. Operazione complessa perché per ironia della storia era stato proprio il Kazakhstan qualche anno fa a proporre lo scioglimento dell’alleanza, per avere le mani libere nella trattativa con le potenze occidentali. Un raggruppamento comunque spurio, il cui asse fondamentale è basato tra Mosca e Minsk. Del resto il settimanale moscovita “Expert” ha dovuto riconoscere a denti stretti che il presidente tagiko Emomali Rakhmon insiste per la «creazione di una lista unificata delle organizzazioni riconosciute come terroristiche nel formato Csto che non è ancora stata redatta».

Secondo il settimanale moscovita «questa è davvero una questione difficile, perché alcuni paesi membri della Csto (specialmente il Tagikistan) amano classificare varie forze di opposizione che chiedono il diritto alla protesta pacifica come terroristi e islamisti», un approccio non condiviso da Mosca soprattutto dopo che è diventata una necessità tenere aperto un confronto con il governo di Kabul.

Mosca non sembra aver tratto un gran giovamento dalla crisi ha cercato in un primo tempo di far passare come “Vzglyad”, un portale russo di geopolitica filoputiniano, in chiave di egemonia sull’intera area. A differenza della Bielorussia, paese povero di risorse, il governo di Nursultan non è interessato – visti gli enormi interessi economici occidentali nel paese – a legarsi mani e piedi a Mosca anche perché ha i mezzi per sviluppare una politica riformista e relativamente redistributiva.

Putin appare costretto a giocare un ruolo interventista visto anche quanto bolle in pentola con l’Ucraina, a cui rinuncerebbe volentieri.

Secondo il politogo Georg Mirzjan: «Se Mosca si rivela non essere pronta a garantire la sicurezza nello spazio postsovietico, la Turchia e la Gran Bretagna possono assumere questo ruolo. Ci potrebbe essere una cintura di instabilità lungo tutti i confini meridionali della Russia, dal mar Nero alla Mongolia, infettando il Caucaso del Nord, la regione del Volga e altre parti della Russia con l’islamismo e il radicalismo».

Il ruolo di sceriffo del Centroasia in via del tutto teorica potrebbe essere assunto dalla Cina, che, a differenza di Gran Bretagna e Turchia, è interessata a stabilizzare la regione a tutela del progetto della “Via della Seta”, ma il problema è che i “pacificatori” cinesi non porteranno certo la pace perché la Repubblica popolare stenta a trovare una lingua comune con la popolazione musulmana della regione. Le attività aggressive (e talvolta predatorie) del business cinese in Kazakhstan e Tagikistan hanno ripetutamente portato a potenti manifestazioni anticinesi (che prima o poi potremmo vedere anche nella Russia siberiana). È proprio per questo che la presenza militare cinese potrebbe causare solo una nuova ondata di radicalismo, inguaiando ancora di più il Cremlino.

“Kazakhstan di lotta e di geopolitica”.
Il governo kazako sta ora correndo ai ripari. La scossa tellurica delle proteste ha smosso fin dalle fondamenta il paese e il regime intende introdurre un vasto pacchetto di riforme in primo luogo di carattere economico-sociale. Durante la riunione di gabinetto dell’11 gennaio, Toqaev ha soprattutto sottolineato quelle dai tratti più nettamente populistici come la riforma della Banca di sviluppo del Kazakhstan (Dbk).

«Dbk si è essenzialmente trasformata in una banca personale per una stretta cerchia di individui che rappresentano gruppi finanziari-industriali e di costruzione. Conosciamo tutti per nome», ha dichiarato il presidente kazako.

Ha proposto anche una moratoria di cinque anni sull’aumento degli stipendi dei deputati e dei funzionari di alto livello. Ha inoltre promesso che i lavoratori del settore pubblico avranno i loro stipendi aumentati assieme a una moratoria sull’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità di tre anni. Sarà quindi istituito un fondo sociale pubblico per risolvere i problemi sociali.

«Dobbiamo dire grazie al primo presidente, Yelbasa (Nursultan Nazarbaev), se si è imposto nel paese un gruppo di aziende molto redditizie e una fascia di persone ricche, anche per gli standard internazionali. Credo che sia il momento di dare credito al popolo del Kazakhstan e di aiutarlo in modo sistematico e regolare», ha commentato sarcastico Toqaev, come se egli durante tutte le amministrazioni precedenti avesse vissuto su un altro pianeta.

Il giorno successivo Il ministro dell’economia del Kazakhstan Alibek Kuantyrov ha annunciato l’introduzione di una tassa supplementare sull’estrazione di minerali solidi. Non ha specificato però quale sarebbe la tassa aggiuntiva o quando entrerebbe in vigore (il Kazakhstan è il più grande produttore di uranio al mondo e ha grandi depositi di rame, di ferro e zinco). Si è ventilato anche un intervento sulla fuga dei capitali verso i paradisi fiscali di cui la famiglia Nazarbaev è sempre stata una gran specialista. Nulla invece sugli idrocarburi, in buona parte controllate da corporation americane, britanniche, olandesi – oltre all’Eni – così come sulla tassazione dei prodotti sui capitali stranieri che controllano il 70% dell’economia del paese. Si prospetta quindi una sorta di gestione “alla Pëtr Stolypin”, l’ultimo ministro delle finanze del potere zarista prima delle rivoluzioni russe: riforme dall’alto accompagnate dal pugno di ferro contro le opposizioni e il movimento operaio. Toqaev ha nominato come nuovo premier il cinquantenne di Alma Aty, Alichan Smailov, una scelta non certo di gran rinnovamento visto che nel passato Smailov è stato vicepremier e ministro delle finanze del paese. Il governo russo ha perfino accusato il nuovo ministro dell’Informazione del Kazakhstan, Askar Umarov, di avere «punti di vista nazisti e sciovinisti sui russi». Il sociologo di Kiev Volodymyr Ishchenko, esperto di dinamiche postsovietiche, è convinto che gli affari per la classe dirigente kazaka non si rimetteranno sui consueti binari dell’accumulazione predatoria tanto facilmente:

«Le tesi sulla “modernizzazione autoritaria”, sulla “rivoluzione passiva” e sull’“imperialismo” mal si adattano alla realtà del capitalismo patronale. Si tratta solo di una conservazione temporanea e intrinsecamente instabile della crisi politica postsovietica che non riesce ancora a trovare una vera soluzione al problema ricorrente della successione».

In questo quadro si deve valutare, il ruolo dell’attore principale di questo passaggio storico, cioè il movimento dei lavoratori. Come abbiamo già scritto su “OGzero” i lavoratori kazaki non da ieri sono entrati in movimento. Si tratta di una classe operaia giovane (soprattutto quella impiegata nei settori più propriamente industriali nella fascia di età giovanile rappresenta più del 30% del totale), concentrata in alcune zone del paese, sperimentata in oltre un ventennio di lotte. Una classe lavoratrice composta in buona misura da donne (il 60,2% delle donne kazake sono occupate) un fattore che rappresenta un baluardo contro la penetrazione del radicalismo islamico più reazionario. Una classe lavoratrice che ha ottenuto alcune vittorie parziali (compresa la riduzione del prezzo del gas) e ha saputo realizzare, seppur in un contesto difficilissimo, in pochi giorni, un ripiegamento ordinato in attesa di vedere se le promesse del governo diverranno realtà. Del resto le rivoluzioni si fanno strada non solo “come nel 1917”, ma anche “come nel 1905”, quando il potere magari regge ma non sa davvero riformarsi: quest’ultimo facendo concessioni significative alla piazza apre nuove contraddizioni nei diversi settori della società e condiziona le mosse delle potenze internazionali.

La classe operaia nell’ex Urss è tornata a essere uno dei fattori della contesa politica dopo una lunga eclisse. Dopo la timida ma in controcorrente apparizione dei nell’ascesa bielorussa, un altro contingente dell’ex Urss si è mobilitato: catapultato sulla scena della storia è divenuto sorprendentemente uno dei fattori del mutamento politico in Kazakhstan. Va sottolineato: non succedeva dai tempi dell’Iran e della Polonia a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso.

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La spada e lo scudo https://ogzero.org/studium/la-spada-e-lo-scudo/ Tue, 28 Sep 2021 15:02:46 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=5024 L'articolo La spada e lo scudo proviene da OGzero.

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I servizi segreti dal Kgb a Putin

I servizi segreti russi, assieme a quelli americani e israeliani, sono probabilmente i più famosi del mondo. E lo sono per molti motivi. Per quanto riguarda la Russia alcune ragioni sono evidenti: resta anche dopo il crollo dell’Urss il paese con i più estesi confini del globo che si allungano dalla Crimea fino a Vladivostok. La Russia è anche quel paese dove nel xx secolo nel giro di dodici anni si consumarono ben tre rivoluzioni e la cui reazione termidoriana interna produsse, tra le altre cose, la costituzione della più ampia rete di campi di concentramento che l’umanità abbia mai visto. Sorvegliare, colpire, punire era già stata del resto in epoca zarista, uno dei refrain della politica interna e internazionale dell’Impero. In epoca staliniana la sindrome di accerchiamento assunse dei contorni surreali. Mentre all’interno si organizzava la caccia sistematica a chiunque potesse essere solo vagamente un “nemico del popolo” (Nepmen, Bianco, trotskista, anarchico o Vecchio Credente) all’esterno agivano delle squadre di killer pronte a eliminare gli avversari che si erano rifugiati all’estero.
Dopo il 1956, con il disgelo krusceviano, la morsa repressiva si allentò, ma all’esterno con lo scatenamento della Guerra Fredda da parte delle potenze occidentali e l’espansione della buffer zone in Europa orientale, i compiti dei servizi sovietici si ampliarono. La loro leggenda nasce lì, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta e diventa oggetto anche di letteratura gialla e cinema d’evasione. Il mondo delle spie, del resto, è indubbiamente affascinante. È un mondo dove si sommano intrigo, eros, avventura, soldi, psicologia, tecnologia. Ciò ha condotto alcuni a sovrastimare il ruolo dello spionaggio fino a perdere di vista che i servizi segreti in tutto mondo, Russia compresa ovviamente, sono ancelle della politica e non il contrario. Nelle diverse fasi storiche, e contingenze politiche, essi possono svolgere un ruolo più o meno preminente che comunque resta accessorio. Anche in Russia: le strutture della “forza” dopo il movimento decabrista del 1825 non hanno mai svolto un ruolo politico autonomo e ciò si dimostrò ancora una volta plasticamente evidentemente durante il fallito putsch del 1991 quando il Kgb dimostrò totale incapacità ad avere propria visione degli avvenimenti e delle dinamiche sociali. Potrà cambiare in era putiniana? La Russia potrà diventare un paese a “trazione Fsb”? Si tratta di un’ipotesi da tenere a mente e valutare ma su cui dovrebbe essere proibito fantasticare. In generale ci sembra valida la riflessione generale che fece Lucio Caracciolo nel presentare qualche anno fa un numero speciale di Limes dedicato proprio ai servizi e che qui riportiamo per esteso: «Oggi nell’universo delle tenebre tutto sembra ruotare intorno alla collazione/protezione di dati. Mentre si discetta di ciberspazio e d’alfabeti digitali, e qualcuno financo pretende di assimilare l’elettronica all’anima grazie al cognitive computing, vale rammentare che qualsiasi analisi comincia e finisce con l’uomo. In senso funzionale: è fatta da umani (agenti d’intelligenza) per altri umani (decisori politici, ma anche economici o criminali). E per via tecnica: l’intelligence presuppone il riduttore umano della complessità, lo stratega che indichi al collettore d’informazioni (vulgo: spia) quali campi esplorare, quali trascurare, in vista di quali scopi. Solo la mania classificatoria delle tecnocrazie può concepire la humint (human intelligence) come arte specifica, sezione a sé nei servizi segreti, quasi possano darsi modi e usi d’analisi perfettamente disumani. Al contrario, senza human factor le discariche di dati “oggettivi” affastellati dai rami imint (immagini), masint (misure) e sigint (segnali) resterebbero materia inerte. O peggio serbatoi cui attingere per manipolazioni a fini impropri».
Questa non è una storia generale dei servizi segreti russi (la materia è talmente estesa che gli unici seri tentativi fatti in questo campo sono di tipo enciclopedico) ma è forse il primo tentativo, almeno in Italia, di fornire un quadro della struttura, del ruolo politico, delle controversie e degli scandali in cui l’Fsb e le organizzazioni a essa collegata sono coinvolte dall’ascesa di Putin in poi. Con alcuni raid però nel passato sovietico: dalla caccia internazionale ai trotskisti fino alla crisi dei missili di Cuba; dalla deportazione e repressione dei Testimoni di Geova fino al ruolo che le donne-agenti, le Mata Hari rosse, ebbero nell’attività di spionaggio durante la Guerra Fredda.
In questo volume troverete anche un capitolo sul fenomeno Bellingcat, il portale che con le sue inchieste sui casi Skripal e Naval’nij ha avuto un ruolo fondamentale nell’acutizzare la crisi tra Federazione Russa e mondo occidentale. L’irruzione di Bellingcat indubbiamente ha segnato una nuova frontiera nel giornalismo investigativo e potrebbe condizionare nel futuro le stesse relazioni tra stati nel quadro di quella che è stata sintetizzata come public intelligence.
Infine abbiamo dedicato uno spazio corposo alla querelle delle relazioni tra Brigate Rosse e Kgb. Non crediamo di aver detto la parola fine sulla questione ma crediamo che l’ampia panoramica qui fornita e la documentazione acclusa (in buona parte inedita in Occidente) possano già per molti versi dare la possibilità di misurare un giudizio storico e politico sereno anche in relazione ai “misteri” del caso Moro.

100%

Avanzamento


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“Dalla Siberia al Caucaso. Periferia, confini e Servizi segreti russi”.
Storia, retroscena e veleni sullo sfondo di un secolo e mezzo di spie russe che si aggirano per il mondo


“La nascita della prima “guardia scelta” agli ordini di Ivan il Terribile nel 1565 fino alla Ceka-Gpu-Nkvd alle soglie della Guerra Fredda”.
Gli inizi del controllo.


“Yurii Colombo, intervistato da Antonio Moscato, per la seconda diretta dedicata alla Russia e ai servizisegreti russi, tema balzato all’attenzione pubblica in questo periodo a causa del caso Biot.”.
In questa puntata: la Guerra Fredda incombe sul mondo come la paura del nucleare. Nasce il Kgb, si moltiplicano le figure di spie e agenti doppiogiochisti che si infiltrano nei meccanismi di potere tra Occidente e Oriente. L’Europa ne è coinvolta, come molti altri paesi; e si arriva all’altro capo del mondo, quando i servizi russi sono messi a dura prova durante la crisi missilistica cubana – un anno dopo l’infelice (per gli Usa) episodio della Baia dei Porci – e Kennedy è in diretto contatto con Khrushev attraverso la famosa “linea rossa”.


“Yurii Colombo ospita #BrunelloMantelli per approfondire questo periodo storico in relazione all’attuale situazione politica (interna ed estera) russa”.

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]]> La lenta decadenza dello zar tecnologico https://ogzero.org/la-lenta-decadenza-dello-zar-tecnologico/ Thu, 23 Sep 2021 18:05:30 +0000 https://ogzero.org/?p=4958 Malgrado è la congiunzione più usata in questo articolo che Yurii Colombo ha fortemente voluto, perché ha risvolti senz’altro sugli equilibri geopolitici, anche se non sono né evidenti ancora, né gli analisti internazionali che non vivono a Mosca hanno potuto annusare il cambiamento, una lenta decadenza dello zar. Stavolta è iniziato davvero il declino del […]

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Malgrado è la congiunzione più usata in questo articolo che Yurii Colombo ha fortemente voluto, perché ha risvolti senz’altro sugli equilibri geopolitici, anche se non sono né evidenti ancora, né gli analisti internazionali che non vivono a Mosca hanno potuto annusare il cambiamento, una lenta decadenza dello zar. Stavolta è iniziato davvero il declino del suo sistema, le elezioni ne hanno dato la stura e se si assisterà alla differenziazione economica indispensabile per evitare il tracollo, a un’emersione di una nuova leadership e a nuovi gruppi di potere nei gangli dello stato, molto probabilmente le scelte strategiche internazionali fissate dal ventennio putiniano vedranno una transizione verso strategie geopolitiche che ancora non si possono nemmeno ipotizzare, ma saranno molto diverse da quanto abbiamo conosciuto finora. Malgrado l’apparato abbia fatto di tutto per fissare lo status quo ante, non è bastato per stoppare l’avvio del declino e l’analisi delle urne è impietosa: lo scollamento della società civile, in particolare giovanile, dal sistema di potere. Malgrado ufficialmente l’apparato tecnologico sia riuscito a mantenere il consenso nelle mani di questa oligarchia, allestendo una nuova vittoria del putinismo a cui nessuno crede nella realtà fuori dalle urne digitali.


Cedimento strutturale: scricchiolii nel sistema di potere

Alla fine anche i media che si erano ostinatamente rifiutati di riconoscere che le elezioni per il rinnovo dei deputati della Duma di stato avrebbero potuto condurre a dei mutamenti profondi del quadro politico interno e quindi, inevitabilmente, visto il peso specifico della Russia nel Vecchio Continente, si sono dovuti arrendere: l’arretramento di Russia Unita è irrevocabile. Il partito padre-padrone dello stato russo da due decenni mostra chiari segni di cedimento strutturale mentre il profondo disagio della società russa profonda trova il modo di canalizzarsi, almeno per ora nel voto per il Partito Comunista. Si apre quindi una nuova inedita fase politica segnata dal lento ma inesorabile declino della stella di Putin, già iniziato in realtà da almeno tre anni.

I numeri che parlano del partito-regime ancora vicino al 50% dei suffragi e la maggioranza assoluta dei seggi non devono trarre in inganno. Se formalmente non cambia un granché nel nuovo emiciclo russo con Russia Unita che passa dai 343 deputati del parlamento precedente agli attuali 324 e i comunisti crescono da 42 a 57, il messaggio che arriva dalle urne è chiaro: soprattutto nelle grandi città i russi esigono un cambiamento del personale politico dirigente.

Propaganda drogata e brogli digitali non bastano più

Malgrado le frodi (una normalità per la Federazione), malgrado si sia allungata la possibilità di votare a ben tre giorni, malgrado si sia aggiunto il voto elettronico a quello tradizionale nelle scuole in cui i partiti di opposizione non hanno possibilità di realizzare alcun controllo, il meno 6% per Russia Unita è ben più che un campanello d’allarme: evidentemente l’oliata macchina della raccolta del consenso pilotato si è inceppata.

Non è bastata l’estrazione di premi (appartamenti, automobili, buoni-acquisto nei supermercati) finanziata dalle grandi imprese russe per chi avesse deciso di votare elettronicamente; non è bastato un assegno una-tantum a militari, poliziotti e pensionati di quasi 200 euro; non è bastata la giornata libera del venerdì per i lavoratori dei municipi, per dare l’impressione che tutto stesse andando come al solito, con una squillante vittoria putiniana. E non è bastato neppure mettere alla testa delle liste di Russia Unita candidati civetta – che mai si presenteranno in parlamento come i popolari ministri della Difesa (Sergey Shougu) e quello degli Esteri (Sergey Lavrov). I russi seppur compassati sufficientemente dal non credere che il voto sia sufficiente a far cambiare qualcosa, hanno voluto comunque evidenziare che il corso dell’attuale amministrazione a loro non piace.

Mosca - elezioni 2021, risultati variabili

La grafica riportata qui sopra mostra come sarebbero andate le cose nei collegi uninominali di Mosca (il 50% dei deputati vengono eletti così mentre il restante 50% su base proporzionale con lo sbarramento del 5%) se non fosse intervenuto l’“aiutino” del voto elettronico ad aggiustare il responso. A sinistra i risultati delle circoscrizioni prima dell’aggiunta dei voti elettronici (dove con il colore verde si indica dove il partito comunista avrebbe preso la maggioranza e in blu dove l’avrebbe preso Russia Unita) e a destra quello venuto fuori una volta aggiunti i voti elettronici. Nella quota proporzionale il trend della capitale è lo stesso: il partito di Putin al 36,7% e i comunisti al 22,7% mentre il complesso delle liste di opposizione si colloca intorno al 40% dei suffragi. In Siberia come nella Jacuzia, dove la crisi economica e il disfacimento sociale sono elementi caratterizzanti e persistenti e dove l’egemonia comunista era troppo evidente, i comunisti superano spesso agevolmente Russia Unita anche nei collegi uninominali.

Si è trattato delle elezioni più manipolate della storia russa come ha voluto sottolineare qualcuno? Difficile dirlo, ma la percezione è che nelle scorse tornate il fenomeno dei brogli più classici (la manomissione dell’urna da parte della commissione elettorale) era stato più accentuato. Il dato essenziale e più interessante è un altro: malgrado i brogli milioni di russi continuano comunque ad andare alle urne.

Il voto è intelligente, non nostalgico

Il partito comunista quindi è diventato come catalizzatore del disagio quando non della protesta. Come è possibile che un partito che ancora rivendica la continuità del “programma di Lenin e di Stalin” sia riuscito a invertire un declino che da 20 anni era sembrato a tutti inesorabile? Come è possibile che un partito che alle amministrative di Mosca superava a stento il 5%, sia diventato il vincitore (perlomeno morale) delle elezioni per la Duma? I motivi sono molteplici. In primo luogo il partito di Zyuganov, è stato quello che – con maggiore enfasi – si è opposto alla controriforma delle pensioni del 2018 che ha innalzato per la prima volta l’età pensionabile in Russia (gradualmente innalzata da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 63 per le donne). E in linea generale è stata la formazione politica che ha votato alla Duma contro tutte le misure antisociali promosse dal governo negli ultimi anni. Malgrado le timidezze (i comunisti avevano promesso che sulla previdenza avrebbero raccolto le firme per un referendum, ma alle parole poi non sono seguiti i fatti), malgrado troppe volte – soprattutto in politica estera – non si sia mai distinto strategicamente dal corso putiniano, si tratta comunque del partito che parla di quello che sta più a cuore a milioni di russi: ovvero della disastrosa distruzione del welfare iniziata da Eltsin e proseguita nei decenni turboliberisti di zar Putin.

A ciò si deve aggiungere la tattica del “voto intelligente” scelta da quel che rimane del gruppo dirigente del partito Navalny che non si trova ancora in prigione o in esilio. Schiacciata dalla repressione (in questi mesi sono proseguiti selettivamente arresti, fermi, condanne e chiusure di siti internet) quella vasta galassia di opposizione “liberal” (cioè giovanile e residente nelle grandi città che la stampa occidentale fa coincidere superficialmente tout-court con Navalny) nei social network ha iniziato il tam tam per il voto ai comunisti come unica arma per incalzare il Cremlino (una tattica a cui si è unita la rarefatta area della “sinistra alternativa”).

La lunga marcia verso il 2024

Era inevitabile che con il “paziente berlinese” in prigione (e lo resterà ancora per almeno due anni) il pallino del gioco di chi deve dirigere l’opposizione sarebbe spettato ad altri e così è stato. Ora toccherà ai comunisti decidere se mettersi in gioco e diventare un ampio polo di riferimento per chi vuole mettere fine a un regime in affanno, o ripetere alla Duma la tattica accorta dell’opposizione “costruttiva” delle scorse legislature. Nel primo caso non potrebbe essere un’operazione di maquillage, ma dovrebbe essere la trasformazione di un partito, percepito come poco più che una reliquia nostalgica dell’Unione Sovietica, in un organismo “moderno”, di impianto socialdemocratico come invocano soprattutto i suoi nuovi quadri emergenti che punti direttamente – nelle prossime elezioni presidenziali del 2024 – a contendere seriamente la presidenza a Putin. Sotto questo profilo gli impazienti dovranno rassegnarsi: la lotta dell’opposizione russa non è una gara di velocità ma piuttosto una maratona.

Nuove Persone, un embrione per nuovi oligarchi?

In questa tornata Putin ha riconfermato di avere un approccio “tecnologico” alla politica. I risultati delle elezioni erano stati “disegnati” in modo da garantire il controllo assoluto di Russia Unita sul parlamento ma con un’allusione al pluralismo. “C’è più scontento, ecco vedete, faccio avanzare un po’ i comunisti”. “Si vogliono più libertà? Ecco per voi il nuovo partito Nuove Persone”. Questa formazione, di ispirazione vagamente liberale, che riesce alla sua prima apparizione nell’agone politico a superare lo sbarramento del 5% e a entrare alla Duma, è la quintessenza di ciò che al Cremlino si immagina debba essere il “quadro politico nazionale”. Movimento fondato poco più di un anno fa, Nuove Persone dice di far riferimento alle teorie interdisciplinari del filosofo sovietico (dissidente) Georgy Shchedrovitsky, scomparso nel 1994. Dietro però ci sono corposi interessi che hanno permesso alla lista di spendere almeno 20 milioni di rubli nella campagna elettorale. In primo luogo il patrimonio del proprietario dell’azienda di cosmetica Faberlic Alexey Necaev ma anche secondo il portale sempre ben informato “The Bell”, di Yuri Kovalchuk, comproprietario di Rossiya Bank e ben piazzato ai vertici nella classifica dei più ricchi uomini del paese di “Forbes Russia. Un partito non putiniano ma non avverso al potere che ha raccolto il voto soprattutto nella fascia demografica che va dai 18 ai 30 anni.

Cedimento strutturale: scricchiolii nel sistema economico

Congiuntura economica: una differenziazione in ritardo

Del resto nella lettura della società del capo del Cremlino non c’è spazio per l’alternanza al potere e men che meno, per i movimenti e le aspirazioni delle classi sociali: queste possono essere sempre manipolate e incanalate grazie proprio a quelle tecnologie politiche create ad hoc. Oggi chi lavora su questo aspetto è principalmente Sergey Kirienko, nello staff della segretaria presidenziale già dal 2016.

Tuttavia le cose, piaccia o meno alla presidenza russa, dal punto di vista “oggettivo” – materialistico – gli equilibri stanno cambiando in fretta nel mondo e metteranno ancora più in crisi l’approccio tecnocratica che piace tanto allo “Zar”. Da qualche mese il prezzo del petrolio è tornato a galleggiare verso l’alto, stabilmente sopra i 75 dollari al barile dopo i lunghi mesi di magra della pandemia. Ciò ha dato, e darà ancora, una boccata d’aria all’economia russa, ma gli effetti non si sono visti né nelle entrate delle famiglie né sul rublo che resta ben oltre gli 85 rubli contro euro, schiacciando così importazioni e consumi. I veri problemi dell’economia russa però non sono neppure congiunturali ma strutturali. Si tratta di capire, in primo luogo, come un paese che ha prosperato sull’esportazione degli idrocarburi potrà affrontare la sfida della green economy che in prospettiva dovrebbe rendere l’Europa indipendente dalle forniture di gas e petrolio russo. Una sfida decisiva per la Federazione che solo ora sta iniziando a ragionare in termini di differenziazione dell’economia (dopo averci già provato durante la presidenza Medvedev). A cui si collega il problema di un saldo demografico disastroso destinato a peggiorare in conseguenza di un covid-19 che in Russia non cessa di mordere (da oltre due mesi i casi di contagio sono rimasti intorno ai 20.000 al giorno con una media di 800 morti).

Le elezioni hanno avviato il cambiamento, malgrado i risultati

Ecco, dentro questa dinamica profonda, probabilmente il dibattito delle oligarchie e i gruppi di potere del capitalismo di stato russo è già iniziato e l’emergere di un partito come Nuove Persone potrebbe non essere un fuoco di paglia. In alcuni circoli russi si dubita già che l’ex direttore del Fsb ormai quasi settantenne, sempre meno popolare e senza una grande formazione economica potrà gestire la sfida del prossimo decennio.

La soluzione non è a portata di mano visto che per ora non si vede all’orizzonte un leader o una nuova classe dirigente che possa garantire una transizione morbida o permetta a Putin se non di andare in pensione almeno di tirare le fila politiche russe da una posizione defilata. Per storia e tradizione tutti i cambi di regime in Russia sono stati complessi e spesso segnati da fortissime fibrillazioni e c’è ragione di pensare che anche questa volta possa essere così: Putin è stato – ed è ancora – il punto di equilibrio tra un complesso di poteri e interessi che verosimilmente faranno molto fatica a trovare una mediazione stabilizzante.

Del resto, a ben vedere, si tratta di una questione che va ben oltre le camarille moscovite e investe tutte le grandi capitali europee se è vero, come è vero, che l’Europa potrà affrancarsi dall’abbraccio americano solo se troverà una sponda in Russia. Sullo sfondo potrebbe tornare in auge persino il vecchio dilemma russo: slavofili o occidentalisti?

Se proiettato su scala internazionale il voto russo ha prodotto un paradosso politico che le cancellerie dei paesi occidentali stenteranno a comprendere: il loro sostegno a Navalny ha determinato per ora il rafforzamento dei comunisti. Né Merkel,né Macron, né Biden, avrebbero immaginato che i loro sforzi per sostenere l’opposizione “liberale” avrebbero potuto avere un simile sviluppo. Nei prossimi mesi potremmo avere persino un’Europa che si riappacifica con Putin. Una svolta “comunista” nel paese, sarebbe ancora più nazionalista e statalista (e sicuramente filo-cinese) di quanto a Bruxelles e a Washington si possano permettere.

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1991, allarme a Mosca: da nomenklatura sovietica a oligarchia russa https://ogzero.org/30-anni-fa-in-unione-sovietica-il-putsch-agostano/ Mon, 16 Aug 2021 08:51:28 +0000 https://ogzero.org/?p=4462 Il 13 agosto 1961 a Berlino veniva eretto un muro 60 anni fa il cui crollo avrebbe frantumato l’impero sovietico 30 anni dopo, il 19 agosto 1991. Attorno a quel muro costruito in un giorno si crearono i più appassionanti plot spionistici (Checkpoint Charlie era un luogo topico, abitato da spie nei film e nella […]

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Il 13 agosto 1961 a Berlino veniva eretto un muro 60 anni fa il cui crollo avrebbe frantumato l’impero sovietico 30 anni dopo, il 19 agosto 1991. Attorno a quel muro costruito in un giorno si crearono i più appassionanti plot spionistici (Checkpoint Charlie era un luogo topico, abitato da spie nei film e nella realtà); la contrapposizione del 1961 non lasciava certo presagire la fine dell’Unione Sovietica, sancita 30 anni fa da un Putsch agostano non del tutto trasparente allora, in epoca di perestrojka, negli intenti, nell’abilità e nella scarsa determinazione dei protagonisti.

In appendice dello studio che vede impegnato Yurii Colombo ad analizzare la storia dei servizi segreti russi, ci propone questa ricostruzione senza dare spazio a dietrologie complottiste: è sufficiente riandare all’atmosfera della primavera 1991 per trovare le spiegazioni e i prodromi di quello Stato di emergenza che pose fine all’era di Gorbaciov. Ma alla fine della rievocazione nell’anniversario troviamo immarcescibile la stessa oligarchia che esercita il potere in Russia da sempre, il medesimo blocco sociale cementato anche nel putinismo.


Il Kgb nel 1985 e i primi malumori antigorbacioviani

Quando Michail Gorbaciov fu eletto segretario generale del Partito comunista dell’Urss nel 1985, il Kgb era una struttura imponente. Secondo i dati forniti da Vladimir Krjuckov, l’ultimo suo presidente prima del crollo dell’Urss, si trattava di un apparato di spionaggio che contava circa 490.000 membri (220.000 guardie di frontiera e 60.000 agenti effettivi). A dar fede ai dati ufficiali della Cia sui propri agenti (senza considerare quelli dell’Fbi), tre volte tanti gli agenti americani.

Se il nuovo leader sovietico inizialmente fu accettato supinamente e senza tanti problemi dalle strutture della “forza” del paese (anche se il complesso militar-industriale avrebbe preferito l’elezione di Grigory Romanov, il potente segretario del partito di Leningrado) via via che la sua strategia di smantellamento dell’Urss e il suo atteggiamento conciliante con l’Occidente presero forma, crebbero i malumori sia nella gerarchia del partito, sia nella struttura degli organi di sicurezza. Questi erano dirigenti non solo formati all’idea di un’Unione Sovietica potente e temuta, ma soprattutto si trattava di uomini cresciuti all’ombra di Yuri Andropov, il quale aveva promosso ai vertici della struttura della sicurezza uomini della provincia, lontani dal clima di corruzione e lassismo che si era iniziato a respirare a Mosca sin dalla seconda metà degli anni Sessanta quando la burocrazia iniziava ad assaporare, senza più vergognarsene, i propri privilegi.

Domande in sospeso

Di questa filiera faceva parte anche Kravcjuk, classe 1924 e nato nella mitica Stalingrado; si era formato negli anni della riforma kruscioviana ed era stato portato al vertice del Kgb proprio da Gorbaciov nel 1988. Sarà proprio lui una delle pedine chiave dell’organizzazione del famoso “Putsch d’agosto” che terrà con il fiato sospeso tutto il mondo tra il 18 e il 21 agosto 1991.

Il goffo e per certi versi comico tentativo di porre fine al regime gorbacioviano, ha provocato nei decenni molte perplessità e provocato illazioni. Ci si è posti soprattutto molti interrogativi sulle effettive capacità del «Comitato statale per lo stato di emergenza» (così si definì ufficialmente il gruppo che si mise alla testa del fallito golpe): perché i “congiurati” si decisero a un passo così drammatico? Perché Eltsin non fu arrestato, lasciandogli la possibilità di organizzare la resistenza a Mosca? Perché i reparti speciali “Alfa” dei servizi segreti non entrarono in azione per stroncare le manifestazioni di protesta? Sono domande a cui oggi, a 30 anni di distanza, è possibile dare una risposta senza ricorrere a dietrologie “cospirazioniste”. Ma per far ciò sarà necessario tornare alla primavera del 1991.

L’atmosfera dell’epoca

Dualismo e misure emergenziali

Il 17 marzo 1991 con il referendum per il mantenimento di un’“Urss riformata” Gorbaciov aveva messo a segno forse l’unico vero successo della sua breve carriera politica. Oltre il 70% degli elettori sovietici delle repubbliche dove si tenne il plebiscito (non vi parteciparono i paesi baltici, Armenia, Georgia e Moldavia perché già sulla via della secessione) si dichiararono d’accordo a mantenere l’Unione. Divenne però presto evidente che si trattava solo di una mezza vittoria per il presidente dell’Urss, perché Boris Eltsin si stava preparando a vincere le elezioni della presidenza della Federazione russa della primavera e a svuotare dall’interno il governo centrale, avocando a sé il potere della Banca centrale di Mosca e avviando lo smembramento del sistema fiscale federale.

Eltsin durante la campagna elettorale del 1991

Fu in quel momento che quella serie di dirigenti sovietici rimasti fino ad allora, seppur con qualche mal di pancia, fedeli servitori della perestrojka iniziarono ad accarezzare l’idea di introdurre lo stato di emergenza e mettere fine al dualismo di poteri Gorbaciov/Eltsin. I documenti e la memorialistica pubblicate in Russia in questi ultimi 20 anni sono pressoché unanimi nel sostenere che una tale eventualità era stata valutata anche dallo stesso segretario generale. Proprio Vladimir Krjuckov, uno dei principali “congiurati dei Torbidi”, ha dichiarato in seguito che Gorbaciov giunse a dirgli qualche mese prima e senza mezzi termini:

«Prepara i documenti per l’introduzione dello stato di emergenza. Lo introdurremo, perché tutto questo non è più sopportabile!»

Vladimir Krjuckov

Che questi umori circolassero al Cremlino è stato confermato anche dall’allora premier Valentin Pavlov:

«Nel 1991 dopo gli scioperi dei minatori… divennero un’urgente necessità le misure di emergenza. La loro introduzione fu studiata da tre gruppi di specialisti sotto la supervisione generale e la direzione di Gorbaciov».

Voci premonitrici

In realtà anche in quel frangente, l’ultimo segretario del Pcus, come spesso gli era successo nei suoi 6 anni di governo, era incerto sul da farsi.  

Fu in questo quadro che nella prima settimana del luglio del 1991 Krjuckov ricevette nella sua dacia fuori Mosca l’ex capo dei servizi segreti militari italiani, l’ammiraglio Fulvio Martini, e in una conversazione riservata sostenne che l’istituzione di un governo forte in Urss, non importa se guidato da Gorbaciov o meno, stesse diventando inevitabile. Martini immediatamente informò il proprio governo di quanto bolliva in pentola a Mosca e quindi quanto poi avvenne non fu un fulmine al cielo sereno come – poi si volle far credere – per i governi occidentali e per la Nato.

Gran parte dell’entourage di Gorbaciov già allora era giunto alla conclusione che l’idea del Segretario generale di poter diventare l’ago della bilancia tra le Repubbliche nella nuova “Urss riformata” fosse un’illusione e si mise decisamente sulla strada del golpe, una strada che si rivelò però ancora più disastrosa della resistenza passiva del loro capo, facilitando così il compito di Eltsin.

Protagonisti: i vertici delle istituzioni e loro reali intenti

Oltre che sul Kgb il comitato golpista poteva contare su centri di potere estesi: dalla sua parte erano schierati il ministro degli Interni Boris Pugo e quello della difesa il maresciallo Dmitrij Jazov, e last but not least il capo del complesso militar-industriale Oleg Baklanov. L’obiettivo del “Comitato” non era “neostalinista”, come un certo giornalismo internazionale sostenne allora. I suoi protagonisti avevano digerito ben bene il XX Congresso e Krjuckov nella sua autobiografia si è dichiarato perfino sostenitore, seppur tiepido, della Primavera di Praga. Il loro obiettivo era piuttosto quello di realizzare una “Tienanmen russa” per poter poi rilanciare le riforme di mercato sotto la direzione del partito e dello stato centrale. Si trattava in primo luogo di un tentativo di formare un “blocco d’ordine”: sempre nelle sue memorie Krjuckov ha ricordato che egli stesso in quanto capo dei servizi segreti insieme a vari membri del Comitato centrale del partito avevano stretto relazioni, già da qualche mese prima del putsch, con il leader dell’ascendente partito nazionalista e di estrema destra Vladimir Zirinovskij che si era dimostrato interessato all’idea di “stabilizzare” il paese.

I veri registi politici dell’operazione erano il vicepresidente dell’Urss, Gennady Janaev e soprattutto il primo ministro Valentin Pavlov che lavorava a costruire un asse con l’Europa. L’allora capo del Kgb ha anche ricordate che:

«Pavlov ci aveva relazionato sul suo viaggio in un certo numero di paesi dell’Europa occidentale. A suo parere, i paesi europei erano pronti a sviluppare un’ampia cooperazione commerciale ed economica con l’Unione Sovietica… Gorbaciov, tuttavia, aderì ostinatamente a un percorso di sviluppo prioritario delle relazioni con gli Stati Uniti. Si nutriva chiaramente di illusioni sugli Stati Uniti e credeva (in realtà solo lo sosteneva) che solo la direzione americana avrebbe potuto risolvere la maggior parte dei nostri problemi economici…».

Gennady Janaev

Valentin Pavlov

Dilettanti apicali allo sbaraglio

I golpisti quindi si illudevano persino di poter trovare se non sostegno almeno indulgenza nel Vecchio Continente in chiave antiamericana.

Non è un caso che nella conferenza stampa in cui venne annunciata la rimozione del Segretario generale e l’introduzione del coprifuoco, il comitato di “salute pubblica” promise di sostenere anche nel futuro l’iniziativa economica privata in Urss e chiese perfino comprensione da parte dell’Onu.

Quel grado di dilettantismo che dimostrarono non arrestando Eltsin appena rientrato da Alma Ata la sera del 18 agosto, fu un’ulteriore conferma di quanto il loro non fosse un progetto razionale ma una confusa avventura destinata al fallimento. Invece di volerlo arrestare in realtà il gruppo dei “congiurati” era interessato paradossalmente a trattare con Eltsin e il premier Pavlov proprio il 18 agosto iniziò ad avere febbre e pressione alta, una malattia diplomatica che tolse quel poco di testa politica al gruppo dei golpisti.

Ecco come riassunse Krjuckov quello che avvenne: «Non appena Eltsin lasciò Arkhangelskoye e divenne chiaro che a causa della malattia di Pavlov, l’incontro tra noi e lui non avrebbe avuto luogo, l’intera guardia del comitato che lo controllava, incluso il gruppo “Alpha”, fu rimossa. Questo è quanto avvenne. Certo, non sarebbe stato un problema trattenere Eltsin, accompagnarlo, come alcuni sostenevano, in un altro luogo, impedire il suo trasferimento a Mosca e in generale fare qualsiasi cosa. Ma non c’erano tali intenzioni, e qualsiasi ipotesi da questo punto di vista fu pura illazione al fine di presentare il Comitato di emergenza statale come una sorta di mostro, pronto a commettere qualsiasi atrocità».

Il “Comitato di salute pubblica” quindi non era neppure pronto a mettere agli arresti domiciliari il principale capo dell’opposizione del paese! E tanto meno era pronto al massacro di chi tra il 19 e il 21 agosto andò sulle barricate; tanto è vero che i pochi morti degli scontri di piazza furono più frutto del caso che della volontà repressiva dei reparti dell’esercito mobilitati nella capitale.

La completa afasia del Kgb e dell’esercito è dimostrata dal fatto che la situazione era completamente fluida e per certi versi meno complicata di quella che i dirigenti cinesi avevano dovuto affrontare a Pechino l’anno prima. La descrizione che Krjuckov fa della situazione delle “forze in campo” in quei 3 giorni è sufficientemente realistica:

«Le informazioni provenienti dalle regioni in quel momento erano incoraggianti. L’appello a scioperare e organizzare manifestazioni non trovava sostegno. Durante il 19 e 20 agosto, in tutta l’Unione Sovietica su una popolazione di quasi 300 milioni di persone, non più di 150-160.000 presero parte a scioperi e manifestazioni… Il 20 agosto si svolse a Leningrado la manifestazione più grande, a cui parteciparono circa 50.000 persone… Il giorno prima, il 19 agosto, Eltsin aveva pronunciato il famoso discorso che fu pubblicizzato in tutto il mondo da un carro armato vicino alla Casa Bianca [sede del governo russo N. d. R.]. Egli condannò il “Comitato di emergenza”, chiamò alla resistenza per la difesa della Casa Bianca anche se nessuno lo avrebbe attaccato. In momenti diversi si riunirono per difendere la Casa Bianca dalle 3-4000 alle 30-35.000 persone, ma non tutte erano persone che sostenevano attivamente la leadership russa, c’era tanta gente che si era recata lì solo per curiosità».

Krjuckov ammette anche che pure i sostenitori del colpo di stato si dimostrarono passivi, mentre la stragrande maggioranza dei sovietici restava incollata davanti alla Tv in attesa di capire come sarebbe finita.

«Indipendentemente da ciò che è stato detto in seguito – ricorda ancora l’allora capo del Kgb – il Comitato di emergenza statale non esortò i suoi sostenitori a scendere in piazza e, se necessario, a difendere con la forza il regime sovietico. Le organizzazioni locali del Pcus erano in generale confuse, la maggior parte dei comunisti era in uno stato di completa e schiacciante inerzia».

Barricate nell’agosto 1991

Il golpe andò così sgonfiandosi da solo mentre parte dell’esercito decideva di passare con Eltsin, oppure semplicemente restò chiuso nelle caserme in attesa che la situazione si chiarisse. Kravjuck mentre il “Comitato” si sfasciava, tentò persino la carta della mediazione con Eltsin:

«La notte del 21 agosto – testimoniò in seguito Kravcjuk – ebbi due o tre conversazioni con Eltsin. Gli dissi che non prevedevo di dare l’assalto alla Casa Bianca. Le conversazioni erano abbastanza tranquille. Non sentivo in lui alcuna irritazione. Inoltre, Eltsin mi disse che dovevamo cercare una via d’uscita dalla situazione che si era creata, e sarebbe stato bene per lui, poter volare con me a Foros per vedere Gorbaciov».

La resa

La mattina del 21 i golpisti ormai completamente demoralizzati volarono da Gorbaciov in Crimea e si arresero. Il vice di Gorbaciov, Janaev, al momento di essere arrestato nel suo ufficio a Mosca, fu trovato completamente ubriaco.

In realtà Krujckov al momento di entrare a far parte del “Comitato” si era consultato solo con un ristretto gruppo di collaboratori pensando che la catena di comando avrebbe comunque funzionato, in caso di necessità.

«Il “Gruppo “Alpha” – ha testimoniato un funzionario del Kgb di allora a cui era stato assegnato il compito di intraprendere una qualsiasi azione di forza nel caso fosse stato necessario – era pronto per l’operazione di internamento di Eltsin. Mio Dio, però non si sarebbe trattato di ucciderlo, come per esempio Salvador Allende in Cile. Tuttavia Krjuckov non diede neppure l’ordine al comandante del gruppo “Alpha” Karpuchin di agire, e i soldati delle forze speciali restarono sedute lì al loro posto, senza far nulla».

Il corpo delle forze speciali “Alpha”.

Il solito blocco sociale di potere: oligarchia putiniana

Ciò che i putschisti desideravano difendere più di ogni altra cosa, era la posizione economica dei gruppi di interesse che rappresentavano, i servizi di sicurezza, le industrie e l’agricoltura pubblica; ma quel blocco di interessi non poteva che essere sconfitto perché buona parte della nomenklatura aveva da tempo smesso di sostenere le strutture di partito e dello stato: pretendeva a questo punto di diventare proprietaria delle ricchezze del paese grazie alle privatizzazioni, osservando con neutralità come sarebbe finita la contesa politica interna. Ci vorrà un decennio e l’ascesa di Putin perché quel grumo di interessi rappresentato dai golpisti tornasse in auge e riuscisse a cementare un nuovo blocco sociale di potere. Krjuckov e gli altri congiurati, verranno arrestati e resteranno alcuni anni in galera mentre il Kgb, in quanto agenzia ormai solo russa, negli anni Novanta passerà attraverso un doloroso periodo di ristrutturazione e ridefinizione dei propri compiti.

 

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Destini dirottati: equilibri in bilico nella Federazione russa https://ogzero.org/destini-dirottati-gli-equilibri-della-federazione-russa-in-bilico/ Fri, 28 May 2021 17:40:35 +0000 https://ogzero.org/?p=3678 La vicenda del “dirottamento” del volo Ryanair sui cieli della Bielorussia ha riportato in auge il tema del destino del piccolo paese slavo, dopo i tumultuosi mesi seguiti alle presidenziali del 9 agosto scorso che hanno riconfermato – tra violenze della polizia e manifestazioni oceaniche dell’opposizione – Alexander Lukashenko alla presidenza della Repubblica. Il tema […]

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La vicenda del “dirottamento” del volo Ryanair sui cieli della Bielorussia ha riportato in auge il tema del destino del piccolo paese slavo, dopo i tumultuosi mesi seguiti alle presidenziali del 9 agosto scorso che hanno riconfermato – tra violenze della polizia e manifestazioni oceaniche dell’opposizione – Alexander Lukashenko alla presidenza della Repubblica. Il tema è scottante perché già come scrivemmo nel giugno scorso, rimanda alle prospettive non solo per la Bielorussia e per tutte quelle realtà che un tempo si definivano il “Vicino estero” russo ma soprattutto del destino della Federazione russa stessa, ovvero del vero oggetto del contendere.

Il traghettatore filoccidentale o il golpe soft?

Per lungo tempo – almeno dal 2018 – Vladimir Putin è stato tentato da un soft putsch a Minsk che portasse ai vertici dello stato bielorusso Victor Babariko, esperto banchiere con molti agganci a Mosca, soprattutto a Gazprom. Un’incertezza durata fino a dopo il 20 agosto 2020 quando dopo l’avvelenamento di Alexey Navalny, lo “Zar” ha sentito “odore di bruciato” (cioè si è convinto che ci fosse un tentativo dei paesi baltici e della Polonia di imporre una transizione filoccidentale alla Bielorussia, via manifestazioni di massa) e ha riconfermato il pieno endorsement al governo di Minsk, non solo a parole, ma nei fatti, tanto è vero che la stessa operazione dell’arresto del fondatore di “Nexta” sarebbe stata gestita tra Atene e Minsk proprio dai servizi russi. Dopo lo sgonfiamento delle manifestazioni antiregime (in larga parte determinate dall’insipienza del gruppo dirigente dell’opposizione ancor prima che dalla repressione) l’ipotesi di “golpe soft” che porti al governo di Minsk un traghettatore del paese verso una “Nuova Bielorussia” continua a circolare all’interno di molte cancellerie europee come ci ha confermato una nostra autorevole fonte dell’opposizione bielorussa oggi in esilio a Londra. L’idea che circola insistentemente sarebbe quella di proporre un uomo dell’esercito “rinnovatore e filoccidentale” che però non sia inviso (se non addirittura gradito) a Mosca. Si riproporrebbe così – seppur in un contesto diverso – l’accordo sottobanco sulla Polonia post-1981 quando il generale Wojciech Jaruzelski pilotò il colpo di stato del 13 dicembre. Come diventò evidente in seguito la mossa sovietica fu realizzata tenendo conto delle esigenze occidentali e rappresentò il punto di equilibrio tra la Dottrina Breznev e la conferma dell’impegno da parte di Varsavia con il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale a pagare i debiti contratti negli anni Settanta.

Il North Stream 2 a rischio

Una variabile che difficilmente oggi potrebbe andare in porto sia perché Lukashenko non sembra disposto a farsi deporre, sia perché Putin potrebbe accettare di valutare tale possibilità solo nel quadro di una trattativa globale che tenga insieme perlomeno la questione del Donbass ma soprattutto il destino dei gasdotti russi in Europa (e in questo senso andrebbe la disponibilità Usa a congelare le sanzioni contro North Stream 2). Secondo Sofia Solomofova del sempre ben informato portale Vzgljad in questi giorni soprattutto Londra starebbe lavorando per far saltare definitivamente il completamento di North Stream 2. Ma soprattutto Boris Johnson punterebbe a bloccare l’altro grande progetto russo: il gasdotto (che attraverserebbe inevitabilmente la Bielorussia e quindi fonte di finanziamento per il regime di Lukashenko), che dovrebbe portare in Germania dalla Siberia Occidentale materia prima per un volume complessivo di 33 miliardi di metri cubi di gas entro il 2022.

La posa della pipeline del Nord Stream 2 nel Mar Baltico (foto Axel Schmidt / © Nord Stream 2).

L’Europa è alla svolta green: o meglio, cambia fornitori…

Schierata ormai apertamente contro la collaborazione energetica tra Russia e UE c’è ora anche il capo della Commissione europea Ursula von der Leyen la quale in questa fase non vorrebbe dare nessuna boccata di respiro all’economia russa. Quello che sarebbe assolutamente da evitare per von der Leyen è che «la Russia tenti di modernizzare la sua economia con i proventi del settore del petrolio e del gas». L’Unione Europea del resto, nel quadro della svolta verso la green economy ha già dichiarato che smetterà di consumare idrocarburi entro il 2050 e nel frattempo potrebbe fare sempre più a meno dell’energia russa puntando non tanto sul gas americano trasportato via mare (che costa davvero troppo) quanto piuttosto sui giacimenti in Algeria e sulle enormi riserve dell’Azerbaigian.

… e la Russia cambia clienti

Igor Yushkov, esperto dell’Università della Finanza del governo della Federazione russa e del Fondo nazionale per la Sicurezza energetica ritiene che ormai Mosca dovrebbe pensare seriamente ad abbandonare l’idea di restare semplicemente una potenza energetica (che rappresenta ancora oggi il 35% del suo Pil) per puntare a una diversificazione della propria economia che guardi all’Asia. Un processo che sarebbe, seppur forse troppo lentamente, già in corso: la Banca mondiale – non a caso – ha rivisto al rialzo le stime per la crescita economica russa che grazie alla scelta “no-lockdown” durante la pandemia dovrebbe crescere con una media del 2,5%-3,5% malgrado i ricavi russi sugli idrocarburi si siano ridotti del 30% nel  2020, l’annus horribilis per eccellenza dell’economia mondiale del Secondo dopoguerra.

Parola d’ordine: diversificare

Sia chiaro, mancando la Russia di una mercato finanziario adeguato alle sue pretese di potenza regionale petrolio e gas restano per ora, come già successe dopo il crack del 1998  (sperando che il prezzo del petrolio continui a restare stabilmente oltre i 40 dollari al barile) la base per qualsiasi ipotesi di differenziazione della propria economia, ma alcune dinamiche sembrano comunque già visibili. In due settori principalmente: agricoltura e industria metallurgica.

1) Agricoltura

Già da qualche anno la Russia sta conoscendo un vero e proprio boom dell’agricoltura dovuto alla modernizzazione delle aziende agricole che l’hanno riportata a vertici mondiali tra gli esportatori di grano (era stato il grande punto di forza dell’economia zarista e la principale debolezza di tutta l’economia sovietica dopo le collettivizzazioni forzate dell’era staliniana). Ma non solo. La Russia putiniana è diventata autosufficiente dal punto di vista delle esigenze del mercato interno nella produzione di carne di manzo (limitando le importazioni a quote provenienti dall’America Latina) e addirittura ha iniziato a inondare i mercati asiatici di proprio pollame e carne suina. E successi significativi il mondo agricolo russo li sta ottenendo anche nella produzione di zucchero, olio di semi e, parzialmente, anche nella produzione di frutta bio.

2) Industria metallurgica

Negli ultimi anni la Rust Belt russa è stata completamente modernizzata. Un esempio lampante dello sviluppo delle industrie ad alta tecnologia russa è la cantieristica (la Russia è leader nella produzione di navi rompighiaccio) e la costruzione di aeromobili. Stiamo parlando principalmente del progetto All Siberian (progettazione e produzione sono stati realizzati a Irkutsk) dell’innovativo aereo civile di linea Irkut Ms-21 a fusoliera stretta, un bireattore monoplano ad ala bassa che non solo dovrebbe sostituire già quest’anno i desueti Tupolev Tu-154 e Tu-204/2014, ma pure altamente concorrenziale rispetto a Airubus e Boeing (e non a caso tale progetto è finito sotto sanzione Usa già da tempo) sul mercato mondiale.

destini dirottati

Il nuovo velivolo di produzione All Siberian.

Business as usual: la resa dei conti tra Bielorussia e Ucraina

La nuova crisi  tra Russia  e Occidente nella variante bielorussa sarebbe quindi una faccenda di business as usual e di rotte energetiche, e assai meno una “querelle antifascista”.  Solo degli inguaribili ingenui come alcuni rossobruni di casa nostra del resto sono riusciti a vedere dietro l’operazione di pirateria aerea di Lukashenko una “svolta antifascista” di Minsk (il suo appello contro una fantomatica ondata “neonazista” in Bielorussia è apparsa davvero bizzarra) e che avrà come ricaduta inevitabile una resa dei conti, a questo punto definitiva, tra Bielorussia e Ucraina. Non che Roman Protasevich e la sua fidanzata non siano stati realmente in prima fila prima nella fase finale delle manifestazioni armate dell’estrema destra in Piazza Maidan e poi  a combattere nel Battaglione Azov in Ucraina orientale sette anni fa, ma la faccenda – per quanto grave – risale a quando Protasevich aveva poco più di 18 anni e successivamente egli ha ripetutamente affermato di aver rotto ogni relazione con il mondo dell’estrema destra. L’ex neofascista preoccupava Lukashenko per altri motivi. In primo luogo per i suoi rapporti con la Cia, da cui nel 2017 ha ottenuto i finanziamenti per aprire il suo fortunato canale telegram “Nexta (oltre un milione di iscritti) – una vera e propria spina nel fianco per Lukashenko – che ha avuto un ruolo non del tutto marginale nelle mobilitazioni dello scorso autunno.

Roman Protasevich

Giochi regionali

Per capire cosa significa la rottura definitiva tra Zelensky e Lukashenko oggi in corso basterà ricordare due aspetti significativi nelle relazioni tra i due paesi slavi. Dopo il cessate il fuoco del 2014 nel Donbass fu proprio il presidente bielorusso a proporsi come mediatore tra Putin e l’allora presidente ucraino Petr Poroshenko, e non a caso la Bielorussia, in quel contesto, non riconobbe l’annessione russa della Crimea (anche se poi non votò le risoluzioni Onu di condanna della Federazione russa). Ora Minsk non potrà più giocare il ruolo dell’ago della bilancia su questo terreno e ciò implica la rottura verticale delle relazioni anche con Ankara che ancora qualche settimana fa ha dichiarato apertamente di voler essere l’alfiere degli interessi di Kiev nella regione, a prescindere dal ruolo che gli Usa vogliano giocare in Ucraina (dove Monsanto ha messo gli occhi sulle fertilissime terre nere).

Mini-Urss: la svolta occidentale rimarrà una chimera?

L’isolamento internazionale di Lukashenko è ormai pressoché totale  e ciò potrebbe far rinascere le aspirazioni mai sopite di Mosca alla formazione di una Confederazione panrussa (una mini-Urss di cui farebbero sostanzialmente parte solo Russia e Bielorussia), e di conseguenza Lukashenko diverrebbe solo un leader regionale. Se l’operazione andasse in porto ciò dovrà avvenire forzatamente entro il 2024, in occasione della rielezione di Putin alla presidenza fino al 2030 e blinderebbe dal punto di vista politico-militare la Bielorussia. A questo punto la svolta filoccidentale di Minsk diverrebbe una chimera e questo spiega perché Polonia e paesi Baltici insistano per un rapido cambio nei rapporti di forza tra Russia e paesi Nato a Est.

A restare schiacciato in un gioco ormai apertamente geopolitico rischia di restare l’ampio movimento democratico e femminista bielorusso dei mesi scorsi che aveva con intelligenza tentato di sottrarsi dalla scelta di schierarsi al di qua o al di là di quella invisibile cortina di ferro che divide ancora l’Europa nel 2021.

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L’opzione panorientale collegata alla guerra di spie panoccidentale https://ogzero.org/tensioni-diplomatiche-tra-russia-e-repubbliche-ex-sovietiche/ Mon, 10 May 2021 09:14:31 +0000 https://ogzero.org/?p=3401 La Repubblica ceca intende chiedere alla Russia almeno un miliardo di corone (39 milioni di euro), come risarcimento dei danni materiali per l’esplosione in un magazzino di Vrbětice, avvenuto il 16 ottobre 2014; Praga accusa i servizi russi Svr e Gru di essere coinvolti. Il risultato è stata l’espulsione di numerosi diplomatici dai rispettivi paesi. […]

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La Repubblica ceca intende chiedere alla Russia almeno un miliardo di corone (39 milioni di euro), come risarcimento dei danni materiali per l’esplosione in un magazzino di Vrbětice, avvenuto il 16 ottobre 2014; Praga accusa i servizi russi Svr e Gru di essere coinvolti. Il risultato è stata l’espulsione di numerosi diplomatici dai rispettivi paesi. Si tratta dell’episodio più eclatante, ma dal 2014 (piazza Maidan) si stanno moltiplicando le tensioni diplomatiche in particolare con le repubbliche ex sovietiche nell’Intermarium tra Mar Nero e Baltico.

Yurii Colombo tenta di inquadrare questi due fenomeni geopolitici che scorrono paralleli da decenni, spiegandoli strategicamente col fatto che la Russia putiniana si trova a scommettere tra Est e Ovest: la crisi dell’egemonia russa sull’area ex sovietica rappresentata da questi strappi diplomatici capziosi, da un lato; dall’altro il progressivo abbandono della diplomazia verso l’“Europa”. Può trattarsi di una spinta a una forte condivisione di intenti tra Mosca e Pechino? Un potente alleato panasiatico che per ora cerca di mantenere le mani libere per poter perseguire il suo scopo principale: fare affari con tutti. Intanto Mosca scatena una Guerra Fredda di spie… o forse è vittima della diplomazia dell’era Biden? Si tratta di una scelta strategica o un ripiego di fronte a un’implosione del vecchio impero sovietico sullo sfondo di confini porosi che mettono in scena rivalità per pozzi di… acqua, come a Vorukh?


Storiche relazioni diplomatiche tra slavi e ricadute economiche

La recente crisi tra Repubblica Ceca e Russia è stata giudicata da buona parte degli osservatori come una nuova importante tappa della nuova Guerra Fredda che contrappone la Russia ai paesi occidentali. La decisione ceca di ridurre il personale diplomatico a Mosca a soli cinque funzionari segna de facto la rottura delle relazioni diplomatiche tra i due paesi slavi (anche se come già in occasione della crisi sul caso Skrypal nel 2017 abbiamo assistito alla fronda del presidente ceco Miloš Zeman, notoriamente filorusso). Si tratta di una situazione non del tutto inedita visto che, come è stato segnalato, ci sono stati già casi del genere nel dopoguerra. Per esempio quando l’Urss ruppe le relazioni diplomatiche con Tirana ai tempi del duro scontro ideologico per la preminenza sul movimento comunista internazionale. Non si tratta del resto dell’unico caso. La Russia non ebbe relazioni fino al 1973 con l’Irlanda (a causa della cooperazione attiva dell’Irlanda con Hitler durante la Seconda guerra mondiale) con la Spagna (le relazioni diplomatiche furono ristabilite solo dopo la morte di Franco) e con il Vaticano.

 

Tuttavia si tratta di un avvenimento che potrebbe avere delle ricadute significative ed effetti a cascata in tutta l’Europa orientale e in primo luogo nei paesi baltici (dove però a rapporti politici pessimi fanno da contraltare relazioni economiche significative soprattutto nei settori del turismo e alimentare) e soprattutto in Polonia e Bulgaria. del resto le ricadute economiche sono già realtà visto che Rosatom, l’agenzia nucleare russa, è stata ora esclusa ufficialmente dalla gara d’appalto per la costruzione di due centrali in territorio ceco.

Riviste d’inchiesta: esplosione di Vrbětice

Se le accuse che sono state lanciate alla Russia si dimostrassero vere, i motivi di un casus belli ci sarebbero veramente tutti. Qualche settimana fa il portale “Bellingcat” (già noto per le sue inchieste sul caso Skypal e sull’avvelenamento di Aleksey Navalny e che fa con una certa probabilità uso di materiali delle intelligence occidentali) in collaborazione con la rivista ceca “Respekt” ha sostenuto che l’esplosione del deposito di munizioni a Vrbětice il 16 ottobre 2014, sarebbe stata opera russa e avrebbe coinvolto almeno sei agenti dell’Unità 29155 del Gru (Glavnoe razvedyvatel’noe upravlenie, il dipartimento esteri di Fsb). L’ampio articolo è ricco di dettagli. Secondo il sito britannico questa azione di diversione sarebbe stata supervisionata personalmente da uno dei comandanti in capo del Gru, il colonnello generale Andrey Averyanov, che si sarebbe recato sotto copertura in Europa centrale nel momento esatto dell’operazione e sarebbe poi tornato a Mosca poche ore dopo l’esplosione. “Bellingcat” ritiene che il generale Averyanov sarebbe “un ufficiale militare di alto rango” che, sulla base dei registri delle telefonate revisionati dalla testata giornalistica, ha una linea di comunicazione diretta sia con il capo del Gru a Mosca e sia con il Cremlino.

 

L’operazione, secondo quanto si apprende da “Bellingcat”, avrebbe coinvolto anche almeno due ufficiali del Gru che si sono recati sotto copertura diplomatica a Budapest, a circa cinque ore di macchina dal deposito di munizioni, poco prima delle esplosioni. Le informazioni sugli spostamenti degli agenti scoperti da “Bellingcat” dimostrerebbero anche che l’operazione era inizialmente probabilmente pianificata per una data precedente, ma sarebbe stata posticipata di circa una settimana, a causa di circostanze sconosciute. L’operazione sembra aver coinvolto diversi viaggi coordinati di membri dell’unità 29155 in Repubblica Ceca attraverso i paesi vicini, nonché una missione di preparazione in Svizzera.

Il coinvolgimento Fsb si allarga a macchia d’olio nella “sua” buffer-zone

L’inchiesta è particolarmente velenosa perché preannuncia altri scoop sulle presunte azioni del Fsb in Bulgaria, i cui rapporti con la Russia sono anch’essi peggiorati recentemente a causa delle “invadenze” russe mettendo in discussione la possibilità che il paese balcanico acquisti nel futuro gas russo via Turkish-stream, come sembrava possibile solo qualche mese fa.

Tuttavia il peggioramento delle relazioni tra i paesi delle cosiddette ex Repubbliche Popolari – mai stati idilliaci dopo il disfacimento della Cortina di Ferro nel 1989 – non può essere imputata semplicemente a una nuova ondata di azioni spionistiche del Cremlino, anzi rappresenta solo forse un assaggio da dare in pasto a un’opinione pubblica occidentale, pronta a vedere nuovamente nel Cremlino “l’impero del male”. Tale dinamica rimanda piuttosto al dipanarsi di una nuova fase politica lungo la linea dei confini con la Russia che può diventare foriera di rischi per la stabilità di un’intera regione.

In primo luogo si tratta della crisi di egemonia della Russia su tutta un’area iniziata negli anni Ottanta, emersa fragorosamente in Polonia ai tempi dell’ascesa di Solidarność e poi proseguita con la decisione dell’amministrazione Gorbaciov (già presa secondo Shevardnadze nel 1986) di abbandonare al loro destino quei paesi dell’Europa centro-orientale che avevano rappresentato per un trentennio una “buffer-zone” fondamentale per la difesa sovietica. Malgrado ciò, dopo il terremoto politico 1989-1991, alcuni dei paesi ex sovietici erano rimasti nell’orbita russa. In primo luogo politicamente, in modo altalenante, ma sicuramente dal punto di vista economico l’Ucraina e lo stesso si può dire, malgrado la sua associazione all’Unione Europea, della piccola Moldavia. E poi sicuramente – la Cuba d’Europa – la Bielorussia di Alexander Lukashenko che resta il principale alleato nella regione ancora oggi e perfino l’Armenia, seppur in modo più defilato. Si è sempre trattato però di relazioni segnate per questi paesi del “Vicino estero” da due elementi “diplomatici” decisivi: a) dalla necessità di avere un approccio realistico, di buone relazioni, con un vicino più potente che tende in qualche modo a costituire dei propri “confini naturali” (pressappoco quelli dell’Impero zarista); b) gli sconti e i sussidi sui prodotti energetici e tutto ciò che vi è connesso, pipeline… che la Russia può garantire.

Benessere petrolifero, furti presunti e crollo del prezzo: ruolo dell’UE al tempo di Biden

Nel primo decennio degli anni Duemila grazie al boom economico al ritmo medio di crescita del Pil del 8% annuo, determinato in primo luogo dall’esplosione del prezzo del petrolio, la Russia putiniana fu in grado di garantire questo quadro di relazioni e anzi riavvicinare in qualche misura paesi ancora più distanti politicamente (la Bulgaria, la Repubblica ceca e perfino l’ultranazionalista Ungheria di Viktor Orbán). Tuttavia a partire dal 2012 e 2013 la ruota è iniziata a girare in senso opposto e la Russia (che comunque resta inchiodata in dodicesima posizione in termini di ricchezza prodotta, un quarto in meno di quella italiana malgrado abbia due volte e mezza la popolazione dello Stivale), ha mostrato evidentemente di non poter più garantire sussidi e sconti. Le crisi politiche a Kiev e a Minsk, possono essere lette, in questo quadro, in chiave economica ancora prima che in chiave politica. La diatriba sul petrolio e gas rubati dagli ucraini già prima dell’uscita di scena di Yanukovich nel 2014 e il doppio gioco sistematicamente operato da Lukashenko nel secondo decennio dei Duemila, ne furono i chiari sintomi (e di cui le sanzioni e la chiusura semiautarchica della Russia dell’ultimo quinquennio ne rappresenta la ricaduta interna). A cui va aggiunto “il tradimento” dello storico alleato serbo, passato armi e bagagli con gli Usa, proprio a partire dalle priorità economiche ancora prima che strategiche, di ritagliarsi uno spazio in Europa.

Questa evoluzione del quadro generale si è andata a incrociare con la nuova postura di politica estera americana, con l’arrivo sulla scena di Joe Biden e il suo tentativo di “ricondurre all’ovile” un fin troppo intraprendente asse franco-tedesco (almeno nella percezione di Washington) di cui abbiamo già parlato sulle pagine di “Ogzero”.

La Germania, nell’ultima fase, ha messo in guardia gli altri paesi europei dal “clamore conflittuale” sulla Russia e si è espressa a favore dello sviluppo di relazioni di buon vicinato con Mosca per quanto Heiko Maas, ministro degli esteri tedesco targato Spd, abbia riconosciuto che i rapporti bilaterali siano “pessimi”. Tuttavia il politologo tedesco Alexander Rahr ritiene che la leadership tedesca potrebbe prima o poi farsi prendere la mano dal desiderio di alcuni paesi dell’Europa orientale di trascinare la Germania in un duro confronto con la Russia. Le prossime elezioni legislative tedesche se vedranno l’ascesa al governo dei Verdi, da sempre più duri con la Federazione che i socialdemocratici, potrebbero dare indicazioni importanti in questo senso.

Guerra Fredda: sanzioni, minacce… il pendolo oscilla a Oriente?

Che il clima in Europa non tenda al bello non c’è proprio bisogno di un meteorologo, per parafrasare Bob Dylan. Il 23 aprile scorso l’ex premier russo Medvedev, ora passato al ruolo di vice di Putin alla Sicurezza nazionale, ha pubblicato un articolo per “Ria Novosti”, in cui riconosce che «negli ultimi anni le relazioni tra Russia e Stati Uniti sono passate di fatto dalla rivalità allo scontro, sono infatti tornate all’era della Guerra Fredda. La pressione delle sanzioni, delle minacce, del confronto dei conflitti, della protezione dei propri interessi egoistici: tutto questo fa precipitare il mondo in uno stato di instabilità permanente».

Dmitry Medvedev

Ha citato però, promo domo sua, un’interessante analogia storica con la crisi dei missili a Cuba nel 1962 che segnò il punto più basso e pericoloso delle relazioni Est/Ovest nel dopoguerra. Allora come oggi gli Usa avrebbero peccato di miopia e avventurismo.
«La politica estera degli Stati Uniti in quel momento – scrive Medvedev – costrinse il nostro paese a reagire di conseguenza. Alla fine degli anni Cinquanta e all’inizio degli anni Sessanta, ciò si è manifestato nel dispiegamento di missili americani in Turchia, Vietnam del Sud e Libano. E nella maldestra politica a Cuba, che ha generato una rivoluzione, e poi nel tentativo di riprendere il controllo dell’Isola della Libertà. E in molti altri modi».

Secondo Medvedev sessant’anni fa gli Usa erano tuttavia in grado di “razionalizzare” le relazioni internazionali mentre «oggi la situazione è un po’ diversa: gli Stati Uniti sono scivolati in una politica estera instabile. Ciò si è manifestato anche nel rifiuto dell’accordo nucleare con l’Iran e il ritiro dal Trattato sui Cieli Aperti». Si tratta di una tesi di fondo della diplomazia russa, quella di una progressiva “perdita della bussola” da parte americana che a Mosca hanno iniziato a propagandare già nell’era Obama. In questo quadro, per Medvedev, è necessario costruire un contrappeso che abbia come baricentro il quadro asiatico. «Dopo il crollo dell’Urss, la parità è scomparsa per un po’. Gli Stati Uniti, avendo vissuto per un decennio e mezzo in un sistema di coordinate, quando nessun altro paese al mondo non solo non aveva un potere paragonabile, ma nemmeno aveva un ipotetico diritto di avere tale potere, hanno semplicemente perso l’abitudine di un dialogo alla pari.
La nuova amministrazione statunitense, ripristinando la sua posizione di governante mondiale e protettrice dell’Occidente collettivo (e allo stesso tempo convincendosi di questo), non ha la forza di ammettere che qualcuno al mondo possa avere capacità infrastrutturali e politico-militari potenzialmente paragonabili a loro. Per esempio, Cina o Russia. Il mondo è congelato nell’incertezza, ma l’Asia lo aiuterà» ha concluso il delfino di Putin.

Da parte russa tutto questo non è nulla di nuovo, si tratta del rilancio dell’ipotesi dell’alleanza semistrategica tra i due paesi ex comunisti in chiave antiamericana. Per ora a Pechino hanno fatto orecchie da mercante all’appello russo, ma non è detto che a medio termine questa alleanza semistrategica, non possa veramente prendere corpo.

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Licenza di espellere https://ogzero.org/colpi-di-scena-e-cambio-di-attori/ Wed, 07 Apr 2021 16:52:30 +0000 https://ogzero.org/?p=2925 L’Intelligence mondiale impegnata in questo periodo nell’adeguamento al nuovo approccio agli Affari internazionali che Biden ha riportato alla contrapposizione del Fronte del Bene all’Impero del Male viene a trovarsi tra le mani dossier scottanti, che sono eredità della arrembante e tatticamente originale dottrina Trump; Yurii Colombo ci ha fornito una serie di chiavi utili per […]

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L’Intelligence mondiale impegnata in questo periodo nell’adeguamento al nuovo approccio agli Affari internazionali che Biden ha riportato alla contrapposizione del Fronte del Bene all’Impero del Male viene a trovarsi tra le mani dossier scottanti, che sono eredità della arrembante e tatticamente originale dottrina Trump; Yurii Colombo ci ha fornito una serie di chiavi utili per inquadrare quella che appare una rinnovata guerra di spie creata apposta per indirizzare messaggi espliciti di allineamento all’interno di una fazione… anche quando la Ostpolitik e gli affari energetici suggerirebbero equidistanza.

Riabituarsi alla banalità dello spionaggio da Guerra Fredda

Il recente caso di spionaggio russo ai danni dell’Italia e della Nato ha riacceso l’attenzione dell’opinione pubblica italiana sui rapporti tra Occidente e Russia. Un’opinione pubblica ormai impreparata a leggere gli avvenimenti internazionali e frastornata dal perdurare della pandemia ha perlopiù commentato in chiave di burla («ma quali segreti mai si venderanno per 5 mila euro?!») e di incredulità quanto successo alla fine di marzo. Se solo avesse letto non qualche spy-story strampalata ma una storia dei servizi segreti internazionali, l’opinione pubblica avrebbe saputo che di queste cifre si è spesso parlato nella storia della compravendita di segreti (anche perché altrettanto spesso di tratta di informazioni di scarso rilievo, antiquate…). Lo ha messo in rilievo Dario Fabbri su Limes on-line e in chiave storica anche chi scrive nella seconda puntata sullo spionaggio russo-sovietico in pubblicazione su Ogzero. Senza rendersi conto della dinamica che da questa estate in poi è in pieno sviluppo (dalle manifestazioni anti-Lukashenko in Bielorussia e dall’avvelenamento di Navalny sui cieli siberiani in sostanza) il “villaggio globale” è stato costantemente sollecitato a prendere parte al rinverdimento della guerra fredda 2.0 che ha ripreso vigore dopo l’elezione di Joe Biden alla presidenza Usa. Nella nostra ipotesi e canovaccio analitico il rilancio, in questa fase in grande stile, del tema dell’“impero del male” russo si basa su elementi di carattere tattico più che strategico. Se il superamento o il rovesciamento di Putin è visto dall’Unione Europea come dagli Stati Uniti come un obiettivo fondamentale (in chiave di accesso al mercato interno postsovietico nel suo complesso e al controllo del flusso delle sue materie prime) nessuna cancelleria occidentale ritiene ragionevolmente che la fine dell’era Putin sia cosa di mesi, malgrado le evidenti fibrillazioni non solo sui suoi confini occidentali (non si dimentichi l’area caucasica e la questione Transnistria oltre alla vicenda Bielorussia a cui per ora è stata posto un rattoppo) ma anche in Siberia. Il vero dibattito tra Berlino e Parigi da una parte e Washington dall’altra è su come sviluppare una crescente pressione sul Cremlino. E qui le divergenze si rivelano non solo di interessi e prospettive di fondo tra l’asse franco-tedesco e americano (che può contare sulle “quinte colonne” baltiche e dell’Europa orientale) ma anche culturali. Da molte parti è stato sottolineato di recente come l’approccio tedesco, storicamente, è spesso stato basato sull’“interdipendenza”.

Il contenimento viene da lontano

Fanteria russa alla Grande Guerra del Nord – L’artigliere stanco

«Gli orizzonti delle diverse linee politiche europee nei confronti della Russia hanno preso forma circa 300 anni fa, quando finì la Grande Guerra del Nord e divenne chiaro che la Russia era saldamente radicata nel Baltico», afferma Martin Schulze-Wessel, professore di Storia dell’Europa orientale all’Università di Monaco. Già allora furono gettate le basi della politica, che più tardi fu chiamata del “contenimento” che trovò nel XX secolo il suo principale interprete negli Stati Uniti d’America e di quella prussiana già allora divisa tra “Occidente”, a cui aspirava, e Impero russo zarista, con il quale non voleva essere nemica. Senza contare che Prussia e Russia avevano la comune aspirazione di indebolire e dividere la Polonia.

L’esperienza di due disastrose guerre mondiali ha rafforzato l’aspirazione delle élite tedesca e sovietica (e poi russa) a politiche reciprocamente vantaggiose piuttosto che conflittuali. L’obiettivo non era – e non è solo – che gli industriali tedeschi facciano profitti, e lo stato sovietico vendesse petrolio e gas all’Occidente. Il punto nodale, da parte tedesca è sempre stato la realizzazione di un mutamento di rotta al Cremlino non con la pressione, come stanno facendo gli Stati Uniti (e come fece per esempio Ronald Reagan quando ipotizzò prima dell’avvento di Gorbaciov delle Guerre stellari) ma rafforzando l’interdipendenza economica tra Europa occidentale e orientale.

Ostpolitik: dal NordStream2 ai fuochi di guerra in Donbass

L’idea di “cambiamento attraverso il riavvicinamento” (Wandel durch Annäherung) fu il motto della “Nuova politica orientale” (Ostpolitik) tedesca, avviata dal cancelliere tedesco Willy Brandt all’inizio degli anni Settanta. Alcune somiglianze con questa politica possono essere viste nell’iniziativa Partnership for Modernization, per la quale l’allora ministro degli Esteri tedesco (attuale presidente) Frank-Walter Steinmeier fece alla fine del primo decennio del 2000.

Anche ora, dopo l’attentato a Navalny, la Germania resta riluttante a compiere passi decisivi, come per esempio l’abbandono del progetto di partnership energetica di North Stream 2, la quale ha una rilevanza non solo economica. Il nuovo gasdotto ha evidentemente un significato: quello strategico e geopolitico, inteso come un’operazione diretta contro la Polonia che verrebbe aggirata a nord. Si tratta di un timore condiviso anche dal presidente ucraino Volodomyr Zelensky che vedrebbe diventare definitivamente obsolete le pipeline russe che ora attraversano il suo territorio e gli garantiscono un’importante rendita economica. La portavoce di Zelensky, Yulia Mendel, ha definito “sorprendente” il dialogo a tre tra Macron, Merkel e Putin rilanciato alla fine di marzo con una lunga riunione online in cui, tra l’altro, si è parlato esplicitamente di Donbass senza coinvolgere la parte ucraina. Successivamente le tensioni sul confine ucraino dopo la ridislocazione delle truppe russe e la dura reazione congiunta di Zelensky-Biden dopo un colloquio durato ben 50 minuti, lasciano presagire che presto tra i due paesi slavi potrebbero persino tornare a battere i tamburi di guerra. Al percorso dei “Protocolli di Minsk” per giungere alla pace nella zona orientale dell’Ucraina del resto non crede più nessuno dopo che il governo di Kiev ha smesso di riconoscere la capitale bielorussa come sede preposta alle trattative per la sua implementazione.

“Nuova guerra in Donbass: consenso interno, equilibri geopolitici e giochi di spie”.

 

Storie di spie tra pipeline contrastate e protocolli stracciati

È in questo quadro che si colloca sia l’accresciuto protagonismo del Gru (Glavnoe razvedyvatel’noe upravlenie), il servizio segreto russo militare, in particolare in Europa, e dell’aumento della soglia di attenzione del controspionaggio dei paesi dell’Unione Europea (anche in chiave propagandistica). Dopo i casi di spie russe scoperte in Austria più recentemente è venuto agli onori delle cronache l’attività dei servizi russi in Bulgaria, un caso assai più significativo di quello tricolore ma completamente – e naturalmente – ignorato dalla stampa italiana. Il 19 marzo scorso è scattata un’operazione in grande stile della polizia di Sofia per neutralizzare “spie straniere”, con perquisizioni in diversi quartier e il blocco di tutte le autostrade interurbane della capitale bulgara. Sono stati arrestati sei cittadini di quel paese che avrebbero costituito nel tempo una “rete di spionaggio” a favore di Mosca. Il gruppo di spie avrebbe fornito costantemente notizie di routine e sarebbe stato posto sotto controllo già dal 2020 e non è da escludere che si sia deciso di interrompere il flusso di informazioni (che avveniva attraverso la moglie russa di uno degli informatori che si incaricava ogni tanto di portare le informazioni all’Ambasciata russa) proprio in corrispondenza della volontà di accrescere la pressione su Mosca. (A proposito: il gruppo riceveva, secondo quanto sostenuto dai funzionari bulgari, circa 2000-3000 leva al mese per spiare le attività del paese ex socialista cioè cica 1000-1500 euro al mese: è davvero un lavoro poco remunerato quello della spia!).

Secondo l’investigatore il giornalista investigativo bulgaro Hristo Grozev che ha lavorato la scorsa estate al disvelamento del caso Navalny ci sarebbe stata una «influenza invisibile di Washington (…) e non è escluso che le informazioni sulle spie possano essere state trasferite ai servizi segreti europei dagli Stati Uniti». Secondo Grozev «scoprire una spia sotto copertura è, prima di tutto, notoriamente un atto politico dimostrativo. Molto spesso infatti l’azione delle spie è ben conosciuta e l’espulsione o l’arresto impedisce l’azione di contrasto per mezzo di notizie false o forvianti. Il secondo si chiama “opportunità politica”. Non bisogna essere degli specialisti del settore per sapere che ogni paese conduce attività di intelligence contro altri paesi. Allo stesso tempo, ogni paese ha obiettivi strategici di natura politica commerciale, economica e internazionale. Ecco perché, se la leadership di un servizio speciale o di un paese riceve informazioni su spie che vendono segreti, allora, prima di tutto, vengono valutati i rischi della distruzione dei piani strategici determinati dall’espulsione dei diplomatici».

In tal caso secondo il portale ucraino Ukrinform, sempre bene informato delle dinamiche dei servizi russi, «sia la parte bulgara che quella italiana avrebbero fatto dei calcoli logici dell’opportunità operativa e politica» per espellere i diplomatici russi. In particolare la scelta italiana sarebbe la diretta conseguenza della linea super-atlantista imposta al suo esecutivo (la definitiva rottura con Putin è stata la condizione essenziale posta alla Lega per entrare nel governo) e segna il definitivo abbandono della politica estera dei “due forni” dell’era tardo guerra fredda dei ministeri Andreotti-De Michelis.

Si tratta di una partita quella della pressione occidentale su Mosca, destinata a durare ancora a lungo e destinata ad avere molti colpi di scena e cambio di attori e di cui la carta dello spionaggio, sarà forse quella meno pesante.

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Navalny: il Cremlino e la Lubyanka, chi decide cosa? https://ogzero.org/il-cremlino-e-la-lubyanca-chi-decide-cosa/ Tue, 15 Dec 2020 18:13:58 +0000 http://ogzero.org/?p=2078 Chi ha avvelenato l’oppositore russo Alexey Navalny – entrato in coma il 20 agosto sul volo Tomsk-Mosca – con un agente nervino denominato dalla stampa Novichok sarebbe stato un reparto specializzato dei servizi russi. È quanto emerge dall’inchiesta condotta dai portali di giornalismo investigativo “Bellingcat” (Gran Bretagna) e “The Insiders” (Russia) con il sostegno di […]

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Chi ha avvelenato l’oppositore russo Alexey Navalny – entrato in coma il 20 agosto sul volo Tomsk-Mosca – con un agente nervino denominato dalla stampa Novichok sarebbe stato un reparto specializzato dei servizi russi.

È quanto emerge dall’inchiesta condotta dai portali di giornalismo investigativo “Bellingcat” (Gran Bretagna) e “The Insiders” (Russia) con il sostegno di “Der Spiegel” e la “Cnn”.

Controlli incrociati

L’inchiesta è particolarmente significativa perché si basa su una massa di prove indiziarie e di concatenazione di fatti così particolari e dettagliati da rendere l’ipotesi della semplice “casualità” assai remota. I due portali sono divenuti particolarmente autorevoli in questo tipo di vicende dopo aver già lavorato in tandem qualche tempo fa, riuscendo a dimostrare fattualmente la responsabilità di due agenti Fsb nell’avvelenamento nel 2018 dell’ex agente russo defected al MI5 Sergey Skripal a Salisbury.

Dopo aver analizzato i database relativi ai voli aerei e ai viaggi in treno (in Russia anche i viaggiatori delle ferrovie vengono registrati con il passaporto) di una serie di persone individuate come agenti Fsb, i giornalisti hanno scoperto i loro spostamenti in dozzine di città russe negli stessi giorni di Navalny sin dal 2017, a partire cioè dal momento in cui quest’ultimo aveva deciso di presentarsi come candidato alle elezioni presidenziali. I metodi e i sistemi con cui gli investigatori sono giunti a ottenere queste informazioni è molto particolare ed esigerà un approfondimento a parte perché dimostra quanto stia mutando il giornalismo d’inchiesta nell’era digitale. Tuttavia si può anticipare qui che il lavoro si è basato su un’analisi degli intrecci tra centinaia di migliaia di tabulati telefonici e dettagli relativi agli spostamenti che fornisce un quadro quasi completo dei legami tra i presunti avvelenatori e che conferma i loro legami con l’Fsb.

Gli otto agenti coinvolti nell’attentato alla vita di Navalny

Non una semplice “opposizione antisistema”

Fino a qui, per tornare al caso in questione, sarebbe possibile asserire che potrebbe trattarsi di semplice sorveglianza dell’attività di uno dei leader di quella che Putin chiama “l’opposizione antisistema”, cioè di qualunque partito o gruppo che non sieda in parlamento. Ma lo screening dei nomi degli agenti coinvolti rivela qualcos’altro. Stanislav Makshakov, Oleg Tayakin (“Tarasov”), Alexey Alexandrov (“Frolov”), Ivan Osipov (“Spiridonov”), Konstantin Kudryavtsev (“Sokolov”), Alexey Krivoshchekov, Mikhail Shvets (“Stepanov”), Vladimir Panyaev sarebbero un “gruppo di fuoco” di specialisti in attentati con armi chimiche. Il ruolo di pivot, secondo gli investigatori, è giocato da Makshakov, chiamato e messaggiato costantemente da tutti i membri del gruppo. Nel passato Makshakov aveva lavorato presso l’Istituto statale di Tecnologia di Sintesi organica, che dirigeva lo sviluppo di nuove forme di armi chimiche fino alla conclusione ufficiale di questi programmi in Russia nel 2017.

Il passo falso di Aleksandrov

In particolare durante il tour elettorale di Navalny in agosto che toccò prima Novosibirsk e poi Tomsk – due grandi città siberiane – e che si concluse con la tragedia sul volo Tomsk-Mosca, il politico fu seguito da Aleksandrov, Osipov e Panyaev. Durante tale viaggio i tre avrebbero – secondo lo studio – utilizzato schede sim usa e getta e quindi gli investigatori non hanno potuto stabilire i loro movimenti esatti. Malgrado ciò per due volte Aleksandrov ha acceso il suo telefono personale per diversi secondi geolocalizzandosi la prima volta vicino a un hotel a Novosibirsk dove la collega di Navalny, Maria Pevchikh, aveva prenotato una stanza, e una seconda volta, non lontano dall’hotel dove si trovava Navalny stesso.

Cambio di programma

Quando la mattina del 20 agosto Navalny fu salvato grazie all’atterraggio di emergenza e il ricovero a Omsk, Aleksandrov, Osipov e Panyaev non ripartirono per Mosca con i biglietti che avevano prenotato in precedenza, ma si trasferirono invece a Gorno-Altaisk, raggiunti nel contempo da Mosca da Tayakin. “The Insiders” e “Bellingcat” presumono che da lì si sarebbero recati all’Istituto per le Tecnologie chimiche ed energetiche, nella vicina Biysk, nella quale si trova anche l’Istituto di Scienze forensi dell’Fsb, al fine di sbarazzarsi degli abiti con le tracce del veleno.

Durante tutti i viaggi dal 2017 in poi, compreso l’ultimo, i membri del gruppo hanno contattato regolarmente per telefono anche il direttore dell’Istituto di Criminalistica, il colonnello generale Kirill Vasiliev e il vicedirettore del servizio tecnico e scientifico dell’Fsb, il generale Vladimir Bogdanov. Inoltre, Zhirov e Makshakov erano in contatto telefonico con Oleg Demidov, uno specialista di armi chimiche che in precedenza aveva lavorato presso il 33° Istituto militare di Shikhany, uno dei presunti luoghi in cui è stato sviluppato il Novichok.

I luoghi visitati da Navalny dal 2017 in cui è stato seguito dagli agenti dell’Fsb

Il terrorismo di stato

Contemporaneamente alla pubblicazione dell’inchiesta, Navalny – dal suo rifugio tedesco – ha messo online un film-documentario reperibile sul suo sito internet con sottotitoli in inglese, aggiungendo alcuni dettagli alla ricostruzione di “Bellingcat” e “The Insiders”. In particolare il blogger anti-Putin ritiene che l’agente nervino gli sarebbe stato somministrato in un cocktail “Negroni” servito nel bar dell’hotel Xander a Tomsk, nella tarda serata del 19 agosto. Navalny sostiene pure di aver subito un altro tentato omicidio a Kaliningrad, il 6 luglio scorso. Tuttavia la parte finale del video, dedicata alla denuncia politica del complotto ai suoi danni, quando parla apertamente di “terrorismo di stato”, è la più significativa dal punto di vista politico. «Quelli che mi hanno perseguitato non sono ficcanaso dell’Fsb che lavorano agli ordini di un oligarca o di un funzionario che ho offeso con le mie denunce. Un intero dipartimento dell’Fsb sotto la guida di alti funzionari ha condotto un’operazione per due anni, durante la quale hanno tentato più volte di uccidere me e i miei familiari ottenendo armi chimiche da un laboratorio statale segreto. Ovviamente un’operazione di questa portata e di questa durata non può essere organizzata da nessuno che non sia il capo dell’Fsb [Alexander] Bortnikov, il quale, a sua volta, non avrebbe mai osato farlo senza l’ordine di Putin», afferma Navalny. Una denuncia non nuova già lanciata dall’oppositore russo il 1° ottobre scorso (a cui aveva replicato piccato il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov accusandolo di essere al servizio della Cia), quando forse aveva già in mano parte del materiale ora pubblicato dai due portali di giornalismo investigativo. Tuttavia, questa denuncia desta qualche perplessità. Quando Navalny il 9 agosto viene avvelenato – i principali laboratori europei lo hanno confermato – si stanno tenendo delle gigantesche manifestazioni e scioperi in Bielorussia contro uno dei più importanti alleati della Federazione russa: Alexander Lukashenko. Risulta difficile pensare, anche se non si può escludere, che in una tale situazione Putin, che è pur sempre un politico guardingo e per certi versi persino cauto, abbia autorizzato alcuni suoi uomini a gettare benzina sul fuoco. Seppure bisogna riconoscere che l’avvelenamento di Skrypal – la cui responsabilità del Fsb è ormai stata provata – avvenne a pochi mesi da quella grande vetrina che era per la Russia l’organizzazione in casa dei mondiali di calcio.

I servizi segreti agiscono autonomamente?

Esiste un’altra ipotesi che Navalny non sembra voler prendere in considerazione, è cioè che l’Fsb possa operare autonomamente dalla presidenza, sia un organo separato con “licenza di uccidere”, per citare un classico della letteratura della Guerra Fredda. Dentro quali dinamiche e per quali fini è in buona parte da capire, ma tutta la storia recente russa va in quella direzione. O magari forse Navalny lo intuisce ma resta schiacciato dalle necessità propagandistiche immediate? Non si può escludere, visto che non a caso nella parte finale della sua videodenuncia, parla inizialmente del fallimento dell’attentato contro di lui come un elemento del degrado del paese: «Tuttavia, nel complesso, è vero, l’operazione è fallita e di ciò ovviamente sono molto contento. Non c’è bisogno di essere sorpresi di questo. Per vent’anni, sotto la guida di Putin, tutto è stato degradato. E se Rogozin è responsabile per la cosmonautica e Chubais è responsabile delle nanotecnologie, allora come è possibile pensare che l’Fsb sia organizzato meglio? Cosa ti fa pensare che il Novichok funzionerà meglio del robot spaziale Fedor? […] Perché tutto è finito in pezzi nel paese e i funzionari pensano solo a dove rubare. Il sistema sta implodendo nel suo insieme, a tutti i livelli».

È un tradimento nazionale: l’appello alla “diserzione”

Navalny, infine, conclude rivolgersi direttamente all’apparato dei servizi segreti: «Vorrei dire qualche parola agli ufficiali dell’Fsb e alle forze dell’ordine in generale. Non vi vergognate di lavorare in questo sistema? Bene, è chiaro che vi siete trasformati in servitori di ladri e traditori. Per vent’anni Putin ha costantemente trasformato sia l’Fsb che il Ministero degli Affari interni in strutture il cui compito principale è aiutare lui e i suoi amici a rubare. E questo è l’unico progetto nazionale che è stato completato perfettamente. Il paese più ricco e con enormi risorse è diventato indigente. […] Non c’è bisogno di partecipare a questo tradimento nazionale. Coloro che sostengono Putin e il suo sistema non sono patrioti, ma traditori. Hanno tradito il popolo russo». Un appello alla “diserzione” – per ora destinato a restare probabilmente senza successo – ma che pone un quesito: quali sono oggi gli equilibri di potere tra Cremlino e Piazza della Lubyanka dove si trova il grande edificio che ospita gli uffici del Fsb?

 

Questo articolo inaugura una serie di articoli che Yurii Colombo produrrà per OGzero riguardanti i rapporti tra Vladimir Putin e i servizi segreti del suo paese, un’interpretazione dei meccanismi e delle strategie di potere che legano Cremlino e Lubyanka. Come si riflette questo rapporto sulle decisioni e sulla politica internazionale?

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