Tutto il mondo Archivi - OGzero https://ogzero.org/regione/tutto-il-mondo/ geopolitica etc Fri, 03 Jan 2025 00:23:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Le missioni di Peacekeeping. 1: profili giuridici e la Monusco in Congo https://ogzero.org/le-missioni-di-peacekeeping-1-profili-giuridici-e-la-monusco-in-congo/ Thu, 02 Jan 2025 23:32:12 +0000 https://ogzero.org/?p=13594 Una ulteriore questione posta dalla necessità di riequilibrare regioni sottoposte a tensioni, guerre civili e, più spesso, percorse dai residui venefici del colonialismo è tipicamente quella inerente agli aspetti giuridici regolatori le missioni cosiddette portatrici di pace, presunta e foriera di nuovi interessi lesivi della autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si […]

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Una ulteriore questione posta dalla necessità di riequilibrare regioni sottoposte a tensioni, guerre civili e, più spesso, percorse dai residui venefici del colonialismo è tipicamente quella inerente agli aspetti giuridici regolatori le missioni cosiddette portatrici di pace, presunta e foriera di nuovi interessi lesivi della autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si possano spartire i miliardi stanziati. Fabiana Triburgo affronta questa montagna di interessi intrecciati in due puntate, in questa prima esemplificando sulla missione Monusco. 


Regole d’ingaggio di Guerra e norme di Peacekeeping

I molteplici scenari di guerra che attualmente si stanno diramando a livello globale e le evidenti crepe dell’impianto Onu createsi dall’immobilismo del Consiglio di Sicurezza – per il sistema dei veti incrociati –, nonché dall’inefficacia in concreto delle recenti pronunce degli organi di giustizia internazionale, fanno emergere quella crisi del sistema di sicurezza internazionale che già si era manifestata durante il periodo della guerra fredda. Oggi, come allora, una delle principali ragioni di questa crisi è da ricercarsi in una sezione della Carta delle Nazioni Unite che non ha mai trovato attuazione ossia il capitolo VII – più in particolare gli articoli 42 e seguenti – nel quale, all’indomani della seconda guerra mondiale, si stabilì che l’uso della forza armata per la risoluzione dei conflitti non si sarebbe mai più dovuto rimettere all’iniziativa del singolo stato – tranne nei casi di legittima difesa ex art. 51 della Carta – ma a un contingente internazionale facente capo esclusivamente al Consiglio, quale garante della pace e della sicurezza internazionale.

Secondo tali norme – poste al fine di garantire obiettività e imparzialità per ogni azione di carattere militare – il Consiglio, non solo avrebbe avuto il potere decisionale in merito all’uso della forza armata, ma avrebbe dovuto anche assumere la direzione delle operazioni militari. Rispetto a tale contingente – così come previsto dalla Carta delle Nazioni Unite (artt. 42, 43, 44, 45) – sarebbe poi dovuto sussistere l’obbligo per ciascuno degli stati membri dell’Onu, di stipulare con il Consiglio di Sicurezza dei veri e propri accordi per decidere il numero, il grado di preparazione nonché la dislocazione delle forze armate di volta in volta utilizzabili parzialmente o totalmente da parte del Consiglio. L’azione militare del Consiglio prevista dalla Carta delle Nazioni Unite nel Capitolo VII sarebbe stata quindi un’azione di polizia internazionale che si sarebbe dovuta esplicare previe risoluzioni del Consiglio di Sicurezza aventi il carattere di delibere operative. Tale azione di polizia sarebbe stata strettamente vincolata nella sua attuazione a sole due ipotesi: quella contro uno stato responsabile di aggressione, di minaccia o di violazione della pace o quella dispiegata in un singolo stato se al suo interno, in ragione di un conflitto civile, si fossero ravvisati gli estremi della minaccia alla pace.

Riscontrata dunque la mancata attuazione dell’impianto giuridico della forza militare internazionale – originariamente prevista dalla Carta delle Nazioni Unite per sottrarre al singolo Stato l’iniziativa dell’uso della forza armata – si può più agevolmente comprendere la nascita delle operazioni di “peacekeeping” comunemente definite “Missioni di Pace” o “Caschi blu dell’Onu”.

L’istituto del peacekeeping non è previsto in alcun articolo della Carta delle Nazioni Unite ma è strutturato su una norma consuetudinaria particolare nell’ambito del capitolo VII che si è formata a integrazione della Carta e a titolo della quale il Consiglio di Sicurezza ha sempre agito ogni volta che ha istituito una singola missione di pace. Inoltre il Consiglio di Sicurezza non ha solo il potere di creare le forze per il mantenimento della pace ma anche di regolarne l’attività. Allo stesso tempo, uno degli aspetti altrettanto importanti del peacekeeping è la delega che il Consiglio di Sicurezza emana nei confronti del Segretario generale dell’Onu per compiere – mediante accordi con gli stati membri – le attività necessarie di reperimento e di comando delle forze internazionali in ordine a tali operazioni di pace. I principi fondanti dell’iniziale costituzione del peacekeeping furono infatti: la necessità del consenso alla sua azione da parte delle autorità territoriali di uno Stato; la neutralità del suo operato rispetto alle parti in conflitto; l’uso della forza limitato alla protezione dei propri militari o più in generale della missione (sempre mediante il reperimento dei militari con accordi stipulati con i singoli stati). Tuttavia, come è facile immaginare il peacekeeping ebbe un timido inizio durante il periodo della guerra fredda ma con la caduta delle ultime repubbliche socialiste negli anni Novanta – in particolare durante il conflitto nell’ex Jugoslavia – raggiunse l’apice del proprio interventismo arrivando ad ampliare i propri settori di competenza e spesso a derogare, almeno in parte, a uno o più di quei tre principi fondanti del peacekeeping di cui sopra.

L’allargamento delle finalità inceppa l’ingranaggio

Già dopo il 1989 infatti si passa dall’iniziale attività di peacekeeping – attuata in scenari locali nei quali Usa e Urss non potevano affrontarsi direttamente – a missioni con finalità più ampie come il controllo del rispetto dei diritti umani, l’attività di monitoraggio di libere elezioni, il rimpatrio dei rifugiati e le attività di soccorso in catastrofi naturali. Ad ogni modo, negli anni successivi il peacekeeping arriva a voler soddisfare, con il proprio intervento, obiettivi sempre più ambiziosi che rientrano nelle cosiddette attività di “peace enforcement” ossia alla vera e propria imposizione della pace raggiunta con l’uso della forza militare, derogando quindi a uno dei tre principi fondanti che avrebbero dovuto caratterizzare la sua attività ossia a quello del non uso della forza. se non per autodifesa o difesa del mandato della missione. È quanto avvenuto nel 2013 (Risoluzione n. 2098) con il tentativo di Peace enforcement della “Brigata di Intervento”, cioè: una forza offensiva di combattimento del contingente Onu, destinata a venire impiegata per vere e proprie operazioni militari contro i gruppi armati presenti nella Repubblica Democratica del Congo, prorogata fino al 2017 con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza. In particolare, tale Brigata era autorizzata a condurre operazioni offensive mirate a neutralizzare i gruppi armati al fine di determinare una stabilità politica nel paese ma, considerata la vastità del territorio, si è coordinata con l’esercito congolese nello svolgimento delle proprie attività che potevano prevedere attacchi militari su propria iniziativa fino al bombardamento aereo.

Il disastroso impegno in Kivu: Monusco

Tale attività in ogni caso sembra non aver conseguito alcun risultato duraturo nel tempo, considerato che già nel 1999 era stata istituita, con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1279, la missione di osservazione Monuc (United Nation Organization in the Democratic Republic of Congo) operante nel territorio fino al 2010, a sua volta sostituita nello stesso anno da una nuova operazione di peacekeeping ossia la Monusco (United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of the Congo) con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1925 del 29 maggio 2010. Si ricorda che la Monusco, prorogata in un primo momento fino al 31 dicembre 2018, è tuttora operante. Più nello specifico, se la Missione di osservazione Monuc aveva il compito di monitorare l’implementazione dell’“accordo di Lusaka” che ha posto fine alla Seconda guerra del Congo (1997-2003) – detta anche Prima guerra mondiale africana, nata dalla rottura dell’alleanza del Congo con Ruanda e Uganda – il mandato principale della Missione di pace Monusco invece «è quello di proteggere i civili e supportare il governo congolese nel consolidamento del processo di pace». La regione interessata da decenni di violenze e saccheggi è in particolar modo quella del Kivu – a Est del paese, al confine con Burundi, Ruanda e Uganda – ricca di Coltan ossia un prezioso materiale utilizzato per la fabbricazione degli schermi dei cellulari e di altri minerali preziosi quali diamanti, oro e rame nonché di legnami di altissima qualità.

Il personale delle Nazioni Unite è malvisto dai gruppi armati in tale regione anche perché è testimone dei traffici di questi materiali a livello internazionale pur non avendo – come appare evidente – alcun potere, capacità o la reale volontà di limitare il contrabbando e lo sfruttamento illegale delle risorse del territorio congolese.

Il contrabbando delle ricchezze della regione del Kivu viene favorito dalle multinazionali europee e americane nei paesi confinanti, primo fra tutti il Ruanda che si configura tra i primi produttori mondiali di Coltan, nonostante il proprio territorio sia del tutto privo di tale minerale. È proprio il criminale riciclaggio delle risorse minerarie della Repubblica Democratica del Congo – mediante lo sfruttamento della popolazione civile – a determinare il rafforzamento dei gruppi armati che combattono contro le forze militari del governo congolese – in particolare i miliziani dell’M23 (Movimento 23 marzo)accusati da Kinshasa e dalle Nazioni Unite di essere sovvenzionati dal Ruanda, con la conseguente impossibilità a ripristinare la pace e la sicurezza nel territorio. Ad ogni modo, il rappresentante speciale del Segretario dell’Onu, responsabile della Missione Minurso, Bintou Keita ha dichiarato recentemente che anche neutralizzare la milizia Adf (Allied Democratic Force) nel nord del Kivu – responsabile nel giugno del 2024 dell’uccisione di 274 civili – rimane una delle priorità della Missione di pace. La fine della missione – per l’aggravarsi delle relazioni tra le forze di pace e la popolazione civile nel Nord Kivu in conseguenza di alcuni eventi accaduti nel biennio precedente – era stata prevista in un primo momento il 30 giugno del 2024.

Tuttavia in prossimità della scadenza l’ambasciatore della Repubblica Democratica del Congo presso le Nazioni Unite, in un discorso dinanzi al Consiglio di Sicurezza, ha dichiarato che «in conseguenza della continua aggressione del Ruanda nel Nord Kivu la seconda fase di ritiro delle truppe della Monusco, in seguito a una comune valutazione, sarà posta in essere quando le condizioni lo consentiranno».

Anche il capo della Missione Bintou Keita ha affermato che non esiste una tempistica per il ritiro dalle province del Nord del Kivu e dell’Ituri per cui le forze di pace nell’Est del paese hanno sospeso il loro ritiro, iniziato a febbraio 2024, senza che attualmente vi sia una nuova tempistica fissata per la fase conclusiva delle operazioni di pace.

Il Governo dei territori

Un’altra forma di intervento delle Forze dell’Onu, ancora più ingerente, che ha finito per riguardare di nuovo l’ex Jugoslavia si è verificata quando il Consiglio – invocando il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale – ha organizzato per prassi un governo dei territori. La differenza ontologica più rilevante del peacekeeping rispetto al cosiddetto governo dei territori è che il primo prevede un potere pubblico limitato delle forze delle Nazioni Unite che si deve affiancare – almeno in linea di principio – necessariamente a quello delle autorità locali mentre nelle ipotesi di “governo dei territori” vi è una sostituzione integrale dell’Onu a tali autorità anche solo temporaneamente. Il governo dei territorisul piano ideologico pur se rientrante nel peacekeeping – ha avuto origine nel principio di autodeterminazione dei popoli e nel processo di decolonizzazione sviluppatosi a partire dagli anni Sessanta, per cui nei territori interessati dalla fine di un conflitto civile o nei quali era messa in discussione la sovranità statale l’Onu ha cercato di ergersi quale garante in concreto degli interessi delle popolazioni locali. Questo processo di deviazione del peacekeeping tuttavia si è intensificato alla fine della Guerra Fredda quando sono scoppiati numerosi conflitti civili in stati ex colonie ma in un’ottica sempre più orientata di fatto verso il Peacebuilding postbellico – ossia verso quel processo di consolidamento della pace e della sicurezza internazionale – garantito dalle Forze dell’Onu nei territori interessati.

Le missioni di peacekeeping si sono quindi moltiplicate e ampliate fino al punto che alcune di esse hanno previsto di fatto lo svolgimento di alcune funzioni di governo nei territori nei quali hanno operato. La competenza del Consiglio, in questo modo, non solo è passata inevitabilmente dalle guerre internazionali a quelle civili, ma più volte alla vera e propria ricostruzione degli stati al termine dei conflitti armati. Infatti, muovendosi nella dimensione del peacebuilding, è stato più agevole per il Consiglio di Sicurezza – nelle situazioni postconflitto – sconfinare verso il governo dei territori, come è avvenuto tra il 1995 e il 1999 nell’ex Jugoslavia ovverosia quando le forze internazionali di pace finirono con il sostituirsi del tutto ai governi nazionali. Si può lecitamente affermare quindi che la prassi del Consiglio di Sicurezza ha ampiamente deviato dalle norme del Capitolo VII fino a interpretare come minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale – delle quali il Consiglio di Sicurezza ha la principale responsabilità – qualsiasi “situazione di pericolo” all’interno di uno stato. In questo modo non solo si è finito con il legittimare l’applicazione di qualsiasi misura che apparisse al Consiglio sufficientemente adeguata. ma si è provocata la trasformazione delle originarie missioni di peacekeeping in missioni di fatto di governo dei territori, se non addirittura come vedremo in vere e proprie missioni di state building.

continua nei Balcani: Peacekeeping 2

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Le missioni di Peacekeeping. 2: le missioni Onu nei Balcani https://ogzero.org/le-missioni-di-peacekeeping-2-le-missioni-onu-nei-balcani/ Thu, 02 Jan 2025 22:06:42 +0000 https://ogzero.org/?p=13589 Prosegue lo studio di Fabiana Triburgo sugli aspetti giuridici a monte delle missioni cosiddette portatrici di pace e tombe per l’autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si possano spartire i miliardi stanziati. Questa seconda puntata sposta l’attenzione dalla Monusco congolese alla missione Unmik in Kosovo, lo snodo che trent’anni fa portò i […]

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Prosegue lo studio di Fabiana Triburgo sugli aspetti giuridici a monte delle missioni cosiddette portatrici di pace e tombe per l’autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si possano spartire i miliardi stanziati. Questa seconda puntata sposta l’attenzione dalla Monusco congolese alla missione Unmik in Kosovo, lo snodo che trent’anni fa portò i governi progressisti a guida Clinton-Blair ad aprire la strada allo sfrenato strame delel regole di pacifica convivenza nate con la fine del nazi-fascismo storico, ricreando l’humus per la riedificazione dell’autoritarismo sovranista.


Il disastroso impegno nei Balcani: Unprofor

Altra missione rispetto alla quale si è fatto ricorso al Peace Enforcement, con deroga non solo del principio fondante del non impiego della forza armata da parte dei peacekeepers ma anche di quello dell’imparzialità e del consenso dello stato di dislocamento, avvenne nell’ex Jugoslavia con la missione Unprofor (United Nations Protection Force) istituita in Bosnia Erzegovina e in Croazia, Risoluzione del Consiglio n. 743 del 21 febbraio del 1992, e dichiarata conclusa, Risoluzione del Consiglio n. 1031 del 15 dicembre 1995, con gli accordi di Dayton nello stesso anno.

Con tale risoluzione il Consiglio decise per l’impiego della forza sotto la propria autorità al fine di creare «Le condizioni di pace e di sicurezza necessarie per la negoziazione di una situazione globale della crisi in Jugoslavia» invitando il Segretario Generale a prendere le «misure necessarie».

A tale risoluzione, infatti, successivamente ne seguirono altre sulla stessa linea dell’impiego della forza, come quella con la quale (Risoluzione del 6 ottobre 1992 n. 779), il Consiglio ordinò alle forze di peacekeeping di «sorvegliare il ritiro completo dell’armata jugoslava dalla Croazia e la smilitarizzazione della penisola di Prevlaka» o quella (Risoluzione del 4 giugno 1995 n. 836) mediante la quale affidò alla Forza Onu di difendere alcune città bosniache e relativi dintorni, dichiarati aree protette già in precedenti risoluzioni. La missione Unprofor quindi non ha intrapreso azioni belliche ma non è stata una missione istituita dal Consiglio di Sicurezza esclusivamente o prevalentemente orientata verso il mantenimento della pace. Comunque il ricorso al Peace Enforcement si è dimostrato non efficace – se non addirittura controproducente sul piano politico, legislativo e su quello militare – rispetto agli scenari internazionali nei quali il Consiglio lo ha disposto.

La prima deroga: il Kosovo… ascesa e declino

La deviazione dall’originale intento delle missioni di peacekeeping è avvenuta con la Missione Unmik (United Nation Interim Administration Mission in Kosovo). La missione – tuttora operativa – è stata istituita in Kosovo con la Risoluzione n. 1244 del 10 giugno 1999, al termine dell’intervento aereo della Nato nel 1998 durato tre mesi che ha costretto il governo di Belgrado al ritiro. In un primo momento, infatti, la Missione ha visto il Consiglio di Sicurezza determinare il governo dei territori delegando al Segretario Generale ogni potere legislativo, giudiziario ed esecutivo anche se l’autorità amministrante faceva comunque capo al Consiglio di Sicurezza che – come già detto – ha sempre ritenuto di agire “conformemente” al Capitolo VII della Carta, qualificando la situazione in loco come minaccia alla pace. In seguito alla dichiarazione di indipendenza del Kosovo nel giugno del 2008 la Missione – assumendo i caratteri di una missione di state building più che di peacekeeping – ha prefigurato come obiettivi fondamentali quelli di organizzare istituzioni temporanee di autogoverno alle quali poi, una volta divenute definitive, ha trasferito ogni potere sotto la guida di un Rappresentante speciale del Segretario Generale Onu, avvalendosi di altri attori internazionali ossia l’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) per la democratizzazione del territorio, l’UE in materia di sviluppo economico (Eulex- European Union Rule of Law) e la Nato (Kpfor – Kosovo Force) per la difesa esterna del territorio.

Si ricorda infatti che nel Capitolo VIII della Carta è prevista la possibilità per il Consiglio di avvalersi su propria “autorizzazione” di organi regionali (come la Nato) per l’adempimento delle proprie funzioni. Successivamente infatti in Kosovo a livello costituzionale sono state istituite l’Assemblea parlamentare e altri organi rappresentativi del paese e si è proceduto alla nomina di un presidente del Kosovo, per cui oggi il paese può essere definito come una repubblica parlamentare monocamerale. Vi è da precisare però che l’indipendenza dichiarata dal paese nel 2008 – riconosciuta da circa cento stati membri tra cui gli Stati Uniti e molti stati dell’Ue ma fortemente contestata dalla Serbia e dalla Federazione Russa – è alla base ancora oggi di fortissime tensioni che dividono la comunità internazionale tra i serbi del Nord del Kosovo circa 100.000 e la comunità albanese rappresentante la maggior parte della popolazione kosovara. Né il parere consultivo della Corte di Giustizia – richiesto dall’Assemblea Generale su iniziativa serba – espresso in modo favorevole circa la conformità della dichiarazione di indipendenza del Kosovo rispetto al diritto internazionale, ha sedato gli scontri politici tra le due anime del paese. Ciò è avvenuto per la mancata definizione nel testo della pronuncia della Corte sullo Status del Kosovo per cui il Rappresentante speciale, già nel 2010, dichiarava al Consiglio di Sicurezza la prosecuzione della missione Unmik – ancora coadiuvata dagli attori internazionali di cui sopra – al fine di garantire una condizione pacifica estesa a tutti i kosovari, nonché di promuovere la tanto agognata stabilità regionale dei Balcani occidentali che alcune vicende, come la cosiddetta “disputa delle targhe”, dimostrano quanto tale obiettivo sia ancora lontano.

“La manipolazione nazionalista controlla ancora la Serbia”.
Infatti, nel 2021 Pristina ha imposto alle automobili serbe di esporre targhe provvisorie recanti la dicitura “Repubblica del Kosovo” per entrare nel Paese. Tale decisione delle autorità kosovare è dettata dal fatto che la Serbia non ha consentito ai veicoli in entrata nel paese dal Kosovo di esporre targhe kosovare. Nel 2011 si è raggiunto un accordo, mediato dall’Ue, di riconoscere vicendevolmente le targhe. A questo accordo però non è stata data piena attuazione e le automobili in entrata in entrambi i paesi dovevano avere apposti specifici bolli che coprissero i loro simboli nazionali. L’accordo del 2011, rinnovato nel 2016, è però nel 2021 scaduto senza arrivare a un compromesso. Solo nel 2024 la disputa è stata risolta, infatti – dopo che il governo serbo nel 2023 ha comunicato che dal primo gennaio 2024 tutte le automobili kosovare avrebbero potuto liberamente attraversare il confine con la Serbia – anche il governo kosovaro ha adottato la stessa misura a favore della Serbia.

Come noto, la disputa delle targhe è soltanto il simbolo di una rottura ben più profonda tra il governo kosovaro di Kurti e quello serbo di Vuçic che ha visto emergere forti tensioni con scontri e violenze nel Nord del Kosovo, richiedendo anche l’intervento del personale Nato (Kpfor) rimasto ferito durante le guerriglie. La Serbia considera la regione come il cuore del proprio stato e della propria religione anche per i numerosi monasteri cristiani ortodossi che si trovano in Kosovo. Dall’altra parte la maggioranza albanese considera il Kosovo il proprio paese dopo la dichiarazione di indipendenza e la minoranza serba come una forza di occupazione e di repressione. Sul fronte della politica interna invece il paese resta bloccato in istituzioni solo formalmente democratiche poiché in preda a una classe politica fortemente nazionalista incapace di assumere decisioni progressiste. La coercizione e l’assertività delle Forze esterne, inoltre, ha portato non solo alla creazione di istituzioni poco efficienti con scarsa legittimità locale ma anche alla tolleranza di un sistema clientelare di corruzione legato a esse. Per tale ragione gli ultimi anni sono caratterizzati da un proliferare di movimenti di protesta sia contro la classe politica corrotta e nazionalista che contro quella internazionale considerata distante, indifferente e compiacente. Per il fallimento degli organismi esterni operanti nel paese – compresi quelli dell’Unione Europea – la popolazione kosovara guarda con maggior disincanto verso l’Occidente e con maggior interesse verso Russia e Cina in particolare i serbi del Nord del Kosovo. Si ricorda che la Serbia è stato l’unico Paese a non aver introdotto sanzioni nei confronti della Russia, all’indomani dell’invasione dell’Ucraina, mentre la Russia è consapevole che investendo in Serbia soprattutto attraverso i suoi programmi di “informazione” può influenzare politicamente, per via della comunanza linguistica, quasi tutta l’area dei Balcani come Bosnia Erzegovina, Croazia e Montenegro.

Da ultimo va ricordato che rientra nella prassi del governo dei territori da parte dell’Onu l’istituzione dei tribunali internazionali per la punizione dei crimini compiuti dagli individui come il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nell’ex Jugoslavia e il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nel Ruanda.

Oltre a questi, sempre mediante il governo dei territori, il Consiglio di Sicurezza ha istituito anche tribunali misti o ibridi perché composti sia da giudici nazionali dello stato in cui sono insediati che da giudici stranieri. Ciò è avvenuto con i Panels in Kosovo istituiti nel 2000 dall’Unmik con Regolamento n. 64: le camere specialistiche del Kosovo sono state poi istituite con legge, all’interno del sistema giudiziario kosovaro, il 3 agosto 2015 dall’assemblea del Kosovo per processare i crimini internazionali commessi durante e dopo il conflitto.

continua nel Sudovest asiatico: Peacekeeping 3

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Le missioni di Peacekeeping. 3: la guardia al bidone di Unifil in Sudovest asiatico https://ogzero.org/le-missioni-di-peacekeeping-3-la-guardia-al-bidone-di-unifil-in-sudovest-asiatico/ Thu, 02 Jan 2025 21:47:02 +0000 https://ogzero.org/?p=13568 Con questa terza puntata si conclude per ora lo studio di Fabiana Triburgo sulla giurisprudenza internazionale che regola le missioni dell’Onu e che esemplarmente sono state analizzate nelle due puntate precedenti in Congo (Monusco) e nei Balcani (Unmik). La missione oggetto di studio è una delle più citate negli ultimi tempi, ma l’intera  sua storia […]

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Con questa terza puntata si conclude per ora lo studio di Fabiana Triburgo sulla giurisprudenza internazionale che regola le missioni dell’Onu e che esemplarmente sono state analizzate nelle due puntate precedenti in Congo (Monusco) e nei Balcani (Unmik). La missione oggetto di studio è una delle più citate negli ultimi tempi, ma l’intera  sua storia è stata travagliata, perché finché la diplomazia internazionale era regolata dai principi scaturiti dall’equilibrio scaturito con la fine della Seconda guerra mondiale Unifil aveva posto un apparente argine al neocolonialismo ebraico.


Risoluzione 1701: La ventennale Blue Line dell’Unifil libanese

Mediante il medesimo meccanismo è stato istituito il Tribunale speciale per il Libano creato nel 2007 dalle Nazioni Unite con il governo libanese. L’accordo tuttavia non è stato ratificato dal parlamento libanese per cui l’attività del tribunale è stata imposta dal Consiglio di Sicurezza ex Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite con Risoluzione n. 1757 del 30 maggio 2007. Anche in Libano, terreno nel quale ancora oggi si scontrano Israele ed Hezbollah, è schierata dal 2006 una forza di pace delle Nazioni Unite: l’Unifil (United Nation Interim Force in Lebanon) per quasi vent’anni era riuscita a evitare che tra i due opposti schieramenti si verificassero più gravi eventi che avrebbero potuto far degenerare la situazione. Tuttavia i recenti scontri tra Hezbollah (o “Partito di Dio”) e Israele hanno portato a far riflettere più stati – a livello internazionale – sulla necessità di ritirare i propri soldati dalla Missione. La missione Unifil in realtà è stata originariamente istituita nel 1978 (Risoluzione n. 425/426) per confermare il ritiro delle forze israeliane, ripristinare la pace internazionale e assicurare che il governo del Libano riprendesse l’effettivo esercizio della sua autorità territoriale nell’area. Successivamente, nel 1982, con la Risoluzione n. 501 la missione è stata implementata e potenziata al fine di garantire la protezione e l’assistenza umanitaria alla popolazione. Il 1982 infatti è l’anno della prima guerra israelo-libanese, iniziata mediante l’operazione “Pace in Galilea” condotta da Israele per sradicare dal Sud del Libano la presenza di palestinesi armati che ipotizzava si nascondessero tra i profughi proseguendo poi fino a Beirut, città nella quale aveva sede l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina). Con l’intervento sotto il patrocinio delle Nazioni Unite si è cercato quindi di evitare un’ulteriore escalation della guerra per cui si è agevolata la partenza da Beirut per Tunisi del presidente dell’Olp Arafat e dei suoi uomini, costringendo gli altri appartenenti alle forze armate palestinesi a riversarsi nelle città limitrofe. Nel 2000 con il ritiro delle forze israeliane, la missione Unifil – mantenendosi nuovamente sul ripristino della pace e della sicurezza internazionale – è divenuta una missione di monitoraggio e di osservazione. Così nello stesso anno è stata istituita dalle forze dell’Onu la Blue Line ossia la demarcazione del confine tra i due stati lunga circa 51 chilometri come limite del ritiro delle forze militari israeliane dal Sud del Libano. Nel 2004 con la Risoluzione n. 1559 il Consiglio di Sicurezza ha richiesto il rigoroso rispetto dell’integrità territoriale e dell’indipendenza del Libano chiedendo ufficialmente il completo ritiro delle forze militari israeliane dal paese nonché il disarmo di tutte le forze militari sul campo, libanesi e non. Il 2006 invece è l’anno del secondo conflitto israelo-libanese iniziato con l’offensiva di Hezbollah contro una pattuglia dell’esercito israeliano e proseguito con la violenta reazione di Israele che aveva lo scopo di neutralizzare l’intero apparato di Hezbollah. È in questo contesto che l’11 agosto del 2006 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu è intervenuto con la Risoluzione n. 1701 che ha imposto l’immediata cessazione delle ostilità, il ritiro di Israele dal Sud del Libano, il supporto allo spiegamento delle forze libanesi in tutto il Libano meridionale, la garanzia dell’accesso umanitario alla popolazione civile, l’assicurazione del ritorno volontario e sicuro degli sfollati, nonché l’assistenza al governo libanese per impedire l’accesso irregolare di armi e per  proteggere i suoi confini. Infatti ancora oggi lo scopo della missione Unifil è quello di presidiare la cosiddetta “Blue Line”, ossia quella zona cuscinetto nella quale è consentito solo all’esercito libanese e ai peacekeepers dell’Onu di possedere armi ed equipaggiamento militare.

La Risoluzione n. 1701 è stata rinnovata ad agosto del 2024 con la quale il Consiglio di Sicurezza ha mantenuto per Unifil lo stesso mandato della Risoluzione del 2006 ma prolungandolo fino ad agosto 2025. Alla fine di settembre del 2024 tuttavia le Forze di difesa Israeliane (Idf) hanno ucciso un numero di persone equivalente a un mese di combattimenti nell’estate del 2006: tra la notte di domenica 22 settembre e martedì 24 settembre le vittime libanesi sono state oltre 550. L’obiettivo di Netanyahu è indebolire Hezbollah e il suo alleato iraniano per eliminare la minaccia dei razzi sul nord di Israele e quello di offrire a decine di migliaia di civili israeliani, sfollati da oltre un anno, di tornare alle proprie case. Non solo, Israele vuole costringere Hezbollah a ritirarsi dal fiume Litani a circa 40 chilometri dalla Blue Line che separa gli schieramenti militari in quanto non esiste ancora un confine internazionale riconosciuto tra il Libano e Israele. Il “Partito di Dio” dalla fine di ottobre del 2023, in seguito all’inizio della guerra israelo-palestinese, ha affermato di voler aderire al fronte anti-israeliano per accelerare la fine del progetto coloniale sionista aprendo il valico del Sud del Libano e dando sostegno a Hamas e ai palestinesi. Tuttavia, a partire dall’estate del 2024 lo stato israeliano perpetra l’assassinio di diversi capi di Hezbollah. In primo luogo, viene ucciso da Israele Fuad Situkr, alto comandante di Hezbollah e successivamente Hassan Nasrallah, storico leader alla guida di Hezbollah che ha visto il gruppo trasformarsi da una fazione di guerriglia alla forza politica più potente del Libano.
Netanyahu ha anche eliminato altri miliziani del partito facendo esplodere migliaia di “cerca persone” e “walkie talkie”, in loro dotazione, dando l’ordine di esecuzione mentre si trovava a New York presso il palazzo delle Nazioni Unite. Infine, il 30 settembre 2024 l’esercito israeliano è entrato direttamente in Libano con carri militari oltrepassando la Blue Line.

La forza Onu di mantenimento della pace ha ribadito che «qualsiasi attraversamento della linea blu viola la sovranità e l’integrità territoriale del Libano nonché la Risoluzione n. 1701 del 11 agosto 2006 dopo la guerra tra il Libano e Israele».

Da qui l’attacco israeliano contro le basi dell’Onu nel Sud del Libano, il 13 ottobre 2024. L’attacco è avvenuto dopo che nei giorni precedenti Israele ha chiesto alle truppe Unifil di spostarsi 5 km più a nord ma i soldati della missione hanno deciso di non muoversi. Con un comunicato ufficiale l’Unifil – rispetto all’attacco subito – ha dichiarato che un carro armato israeliano ha sparato contro una torretta di osservazione di una delle basi della missione più precisamente a Naqura, facendo cadere due operatori di pace di nazionalità indonesiana che sono stati ricoverati in ospedale. È stata inoltre ripetutamente colpita dalle forze militari israeliane la base principale della missione di pace sempre a Naqura.

Si ricorda che attualmente la missione Unifil – impiegata nel sud del Libano – conta oltre diecimila soldati provenienti da cinquanta paesi di cui sedici dell’Unione europea. Netanyahu ha affermato che l’Unifil deve evacuare il Sud del Libano poiché ritiene che i militari stiano fornendo «uno scudo umano ad Hezbollah». Nel novembre del 2024 c’è stato un secondo attacco alla missione con tre distinte operazioni militari mediante razzi (la prima verso il quartier generale dell’Unifil a Shama, la seconda colpendo una base della missione a Ramyet e l’ultima verso una pattuglia Unifil nei pressi del villaggio Kharbat Silim). Dopo il terzo attacco contro l’Unifil mediante il lancio di due razzi contro la “base UNP2-3” di Shama, nelle prime ore del 22 novembre 2024, l’Unifil ha dichiarato che gli ultimi due attacchi alla missione «sono avvenuti per opera di attori non statali presenti sul territorio libanese». Tuttavia si ricorda che la Missione non ha capacità sovrana, Hezbollah non ha interesse a collaborare con le Forze Onu e Israele non ha fiducia che questa possa assicurare la liberazione dal Libano meridionale dalla presenza di Hezbollah. In tale ottica solo il Consiglio di Sicurezza – che tuttavia, come noto, ha posizioni contrastanti al suo interno rispetto a tale conflitto – può dissuadere lo Stato ebraico dall’intensificare i suoi attacchi contro Unifil.

Per ora la comunità internazionale si accontenta dell’accordo del cessate il fuoco raggiunto alla fine di novembre 2024 tra i miliziani di Hamas e il governo israeliano ma emerge tutta l’impotenza dell’impianto Onu a fronteggiare effettivamente le guerre internazionali per cui quella Carta redatta all’indomani della Seconda guerra mondiale, più che un coercitivo impedimento affinché la pace e la sicurezza internazionale non vengano mai violate, sembra essere un nostalgico ricordo scritto di intenti e di speranze spesso smentito dalla realtà dei fatti.

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n. 3 – Due Corti internazionali a confronto: il conflitto israelo-palestinese https://ogzero.org/corti-internazionali-a-confronto-il-conflitto-israelo-palestinese/ Sun, 23 Jun 2024 12:42:06 +0000 https://ogzero.org/?p=12735 Prosegue l’analisi di Fabiana Triburgo con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questo saggio in particolare si concentra sulla Corte internazionali di giustizia e sulla Corte penale internazionale, due entità autonome e che seguono tipi diversi di istruttorie e possono emanare provvedimenti differenti. Vediamo il caso del conflitto israelo-palestinese. L’immobilismo […]

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Prosegue l’analisi di Fabiana Triburgo con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questo saggio in particolare si concentra sulla Corte internazionali di giustizia e sulla Corte penale internazionale, due entità autonome e che seguono tipi diversi di istruttorie e possono emanare provvedimenti differenti. Vediamo il caso del conflitto israelo-palestinese.


L’immobilismo del processo decisionale determinatosi per diversi mesi all’interno del Consiglio di Sicurezza, in ragione del diritto di veto, relativamente all’ipotesi di una tregua o del passaggio degli aiuti umanitari nel conflitto israelo-palestinese è stato scosso dalla forza propulsiva delle risultanze giurisdizionali legate a due corti internazionali in particolare la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale, più nello specifico l’ufficio del procuratore generale (Office of the Prosecutor, cosiddetto OTP), entrambe aventi sede all’Aja nei Paesi Bassi.

Ruoli e funzioni

Questo attivismo così precipuo nei provvedimenti emanati da entrambi nel 2024 – a seguito di due diversi tipi di istruttoria – consentono di delineare meglio le funzioni e i ruoli dell’una e dell’altra Corte nell’alveo delle dinamiche internazionali, pur essendo doveroso anticipare fin da subito che – in considerazione della base volontaristica che caratterizza l’adesione degli stati al diritto internazionale – spesso i provvedimenti delle medesime, pur essendo vincolanti secondo le norme del diritto internazionale, non producono conseguenze giuridiche effettive nei confronti dei soggetti verso i quali vengono emanate ma assumono piuttosto una valenza di natura politica. Ad ogni modo nel corso degli anni – si rammenta che la data di costituzione della Corte di giustizia internazionale è il 1945 mentre la Corte penale internazionale è stata istituita nel 1998 oltre 50 anni dopo – si sono potenziati meccanismi legati alle consuetudini internazionali e alla cooperazione degli stati aderenti ai trattati, per ovviare, sia pure parzialmente, alla mancanza di efficacia sul piano della realtà delle decisioni di tali Corti così diverse tra loro da poter operare contemporaneamente rispetto alla medesima situazione internazionale come sta avvenendo nel conflitto scoppiato da oltre otto mesi nella striscia di Gaza.

Rispetto al confitto israelo-palestinese, più precisamente per gli eventi avvenuti in seguito all’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023, la Corte di giustizia internazionale è stata adita mediante ricorso d’urgenza presentato dal Sudafrica nel quale si dichiarava che la guerra condotta dall’esercito israeliano nella striscia di Gaza fosse qualificabile come un atto di genocidio contro il popolo palestinese e che quindi Israele avesse violato la Convenzione sul genocidio del 1948. A tal proposito, come vedremo più avanti nel dettaglio, la Corte di giustizia internazionale si è pronunciata con l’applicazione di misure cautelari nei confronti dello Stato di Israele. Rispetto ai medesimi avvenimenti, l’azione di impulso della Corte penale internazionale è invece avvenuta motu proprio da parte del procuratore generale presso la corte Karimi Khan, secondo una delle ipotesi previste dallo Statuto di Roma del 1998 ed entrato in vigore il primo luglio 2002. Il procuratore, svolgendo attività di indagine nello Stato di Israele e in Cisgiordania, ha concluso emettendo un mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti di tre esponenti di Hamas ossia Yahya Sinwar, capo del movimento di resistenza islamica Hamas nella Striscia di Gaza, Mohammed Diab Ibrahim al-Masri, comandante in capo all’ala militare di Hamas, ossia delle cosiddette Brigate Al-Qassam e Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico di Hamas, ma nello stesso tempo nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu e del ministro israeliano della Difesa attualmente in carica, Yoav Gallant.

Due Corti, due teste

La diversità della tipologia e delle conseguenze dei provvedimenti adottati dalla Corte di giustizia internazionale e dal procuratore generale presso la Corte penale è dovuta alle differenze ontologiche dei due organismi internazionali e delle loro diverse funzioni. La Corte internazionale di giustizia infatti è il principale organo giurisdizionale delle Nazioni Unite e il suo statuto è parte integrante della Carta delle Nazioni Unite. Essa ha come scopo principale – oltre alla funzione consultiva esercitata a favore dell’Assemblea Generale, del Consiglio di Sicurezza e delle Agenzie delle Nazioni Unite – quello di risolvere le controversie tra gli stati applicando il diritto internazionale o “secondo equità”, qualora le parti ossia gli stati lo richiedano espressamente. Si rammenta che i 17 giudici che la compongono, ognuno di diversa nazionalità in carica per 9 anni e rieleggibili nominati dall’Assemblea Generale e dal Consiglio di Sicurezza, non sono rappresentanti delle posizioni politiche dei diversi stati dei quali sono cittadini e le decisioni vengono assunte con la maggioranza dei voti dei giudici presenti. Premesso ciò, rispetto al ricorso d’urgenza presentato dal Sudafrica contro Israele, la Corte di giustizia con Ordinanza 192 del 26 gennaio 2024 non ha chiaramente deciso nel merito degli accadimenti verificatisi dal 7 ottobre 2023 – decisione che potrebbe richiedere anni per la sua emanazione – ma ha emesso misure cautelari nei confronti dello Stato di Israele chiedendogli al contempo di fare tutto il possibile per prevenire atti genocidari nella striscia di Gaza e di consentire l’accesso agli aiuti umanitari.

L’ipotesi di genocidio: la Corte di giustizia definisce le vittime

Se con tale decisione la Corte di giustizia internazionale non ha dato seguito alla richiesta del Sudafrica di interrompere i combattimenti, imponendo il cessate il fuoco, ha tuttavia implicitamente riconosciuto, decidendo per l’applicazione delle misure cautelari, il cosiddetto fumus boni iuris – ovverossia l’ipotesi di genocidio – rispetto alle azioni compiute da Israele, avendo oltretutto sostenuto che i palestinesi sembrano costituire «gruppo nazionale etnico razziale o religioso» richiamando in tal modo proprio l’esatta dizione mediante la quale, nell’art. 2 della Convenzione sul genocidio del 1948, vengono individuati i destinatari di tale delitto. La Corte di giustizia infatti può adottare in base all’art. 41 del suo statuto nei confronti di uno stato provvedimenti cautelari qualora ritenga che vi sia: il rischio di un pregiudizio irreparabile rispetto ai diritti oggetto del procedimento giurisdizionale, nell’ipotesi in cui la violazione di questi diritti potrebbe comportare conseguenze irreparabili o ancora nei casi di urgenza, ossia qualora ricorra un rischio reale e imminente che sia arrecato un pregiudizio irreparabile a tali diritti prima della decisione definitiva della Corte.

Nello specifico la Corte internazionale di giustizia ha emesso alcune misure cautelari nei confronti di Israele. In primo luogo, la Corte ha ordinato a Israele che il suo esercito non violi la Convenzione sul genocidio – ratificata sia dal Sudafrica che da Israele – evitando l’uccisione dei civili palestinesi nonché di causare loro danni fisici e morali; la Corte ha poi statuito che Israele dovrà punire i cittadini israeliani che pongono in essere atti vietati ai sensi della Convenzione sul genocidio, consentire l’ingresso degli aiuti umanitari sulla striscia di Gaza senza alcuna limitazione, impedire la distruzione di prove utilizzabili nel corso del giudizio di merito sul genocidio e dovrà anche presentarsi davanti alla medesima dopo un mese per dimostrare che tutte le succitate misure cautelari siano state effettivamente adottate.

Vale la pena dunque soffermarsi sul delitto che secondo il Sudafrica sarebbe stato compiuto da Israele nei confronti del popolo palestinese ossia il genocidio che può essere realizzato sia in tempo di guerra che in tempo di pace.

Come già detto la commissione di condotte riconducibili al succitato crimine sono vietate da una specifica Convenzione del 1948 non solo ai fini della repressione ma anche della prevenzione di atti di natura genocidaria. Inoltre, il genocidio come ogni reato è composto sia dall’elemento cosiddetto oggettivo, ossia gli atti compiuti materialmente dagli autori del reato, che dall’elemento soggettivo – in questo caso dolo specifico – ossia la condizione mentale dei medesimi autori del reato atta a sorreggere quei comportamenti vietati dall’ordinamento internazionale. Integrano a tal fine atti di genocidio nei confronti delle vittime di tale delitto le seguenti condotte: le uccisioni, le gravi lesioni dell’integrità fisica e di quella mentale, la sottoposizione a condizioni di vita insostenibili, l’impedimento alle nascite e il trasferimento forzato dei minori. Va altresì precisato che anche i comportamenti definibili quali complicità, concorso, istigazione o incitamento pubblico alla commissione di condotte genocidarie sono punibili ai sensi della Convenzione. Per quanto riguarda invece l’elemento soggettivo del reato è necessario (ai sensi della Convenzione) che l’autore / gli autori – in questo caso lo stato o gli stati – abbiano posto in essere gli atti genocidari «al fine di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale etnico, razziale o religioso», gruppo che, come già anticipato in precedenza, può essere agevolmente considerato quello del popolo palestinese presente sulla Striscia di Gaza con circa oltre 2 milioni di abitanti.

Corti internazionali

Il riconoscimento di un singolo stato può minare i provvedimenti

Tuttavia, se da una parte è vero che tutti gli stati facenti parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite sono obbligati a conformarsi al contenuto dei provvedimenti emessi dalla Corte di giustizia, dall’altra ciò che è fondamentale sottolineare è che tale assunto è comunque subordinato al fatto che il singolo stato, facente parte della controversia dinanzi alla Corte, abbia accettato la giurisdizione della medesima mentre Israele non l’ha fatto, così come d’altronde gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. Questa posizione mina evidentemente la reale efficacia giuridica di un provvedimento della Corte di giustizia verso Israele o verso qualsiasi altro stato che non abbia accettato la sua giurisdizione tenuto conto che – come vedremo anche per la Corte penale internazionale – non vi è un organo in seno alle Nazioni Unite che sia in grado di far applicare i provvedimenti delle Corti internazionali in modo coercitivo. Ciò si ricollega indirettamente anche alla consuetudine internazionale delle missioni di peacekeeping ed è strettamente collegato al fatto che le disposizioni di cui agli artt. 43 e seguenti della Carta delle Nazioni Unite che prevedono un organo di “polizia internazionale” non hanno mai trovato applicazione. Secondo gli artt. 43, 44, 45, gli stati membri avrebbero dovuto stipulare con il Consiglio di Sicurezza il numero, il grado di preparazione e la dislocazione delle forze armate da impiegare nell’alveo di tale organo di polizia internazionale mediante vari contingenti nazionali facenti capo a un Comitato di Stato Maggiore, sottoposto all’autorità del Consiglio di Sicurezza.

Quali differenze tra le Corti internazionali?

Prima di soffermarci sul contenuto del mandato di arresto emesso dal procuratore generale presso la Corte penale internazionale il 20 maggio 2024 occorre specificare le differenze di tale Corte – oltre a quelle temporali relative all’anno della sua istituzione mediante lo Statuto di Roma del 1998 – rispetto alla Corte di giustizia internazionale.

“Sterminio di Gaza: violazione di norme di consuetudine internazionale”.

La Corte penale internazionale non è infatti un organo giurisdizionale delle Nazioni Unite e non persegue gli stati per le violazioni delle norme di diritto internazionale bensì i singoli individui per alcune fattispecie di reati rilevanti ai sensi del diritto penale internazionale, più nello specifico il genocidio, i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e i crimini contro la pace e di aggressione.

Tale distinzione comporta delle conseguenze non trascurabili in quanto come visto

la Corte di giustizia internazionale ha invece come destinatari gli stati che, in quanto enti collettivi qualificabili come persone giuridiche, non possono – qualora vengano condannati per violazione delle norme internazionali – commettere crimini penalmente sanzionabili e quindi le pene a essi comminate, mediante i provvedimenti giurisdizionali, non potranno mai essere quelle previste comunemente negli ordinamenti penali ma avranno tutt’altro tipo di contenuto

come per esempio l’embargo o la rottura dei rapporti diplomatici con gli altri stati delle Nazioni Unite. D’altro canto, va altresì precisato che la competenza giurisdizionale della Corte penale internazionale – così come definita dagli artt. 17 e 18 dello Statuto di Roma – è sussidiaria o meglio complementare rispetto a quella degli stati.

Essa quindi sussiste solo nell’ipotesi in cui gli stati non vogliano o non possano punire le quattro fattispecie dei crimini internazionali di cui sopra e può essere attivata solo mediante le tre modalità previste dallo Statuto di Roma, ossia su iniziativa spontanea del procuratore generale presso la Corte penale, come nel conflitto israelo-palestinese, o mediante richiesta di uno degli stati membri della Corte (a oggi sono 123) oppure ancora su richiesta del Consiglio di sicurezza ma solo riguardo questioni che attengano alla violazione o alla minaccia della pace o ipotesi di aggressione che il Consiglio di sicurezza ritenga non siano di propria competenza. Inoltre, è necessario precisare che l’art. 12 dello Statuto di Roma stabilisce che la Corte penale internazionale – come si è visto per la Corte internazionale di giustizia – è competente soltanto nell’ipotesi in cui la sua giurisdizione sia riconosciuta dallo stato interessato dai suoi provvedimenti.

Tale disposizione di legge nel caso del conflitto israelo-palestinese è particolarmente rilevante perché, se da un lato Israele – così come gli Stati Uniti e la Russia – è tra gli stati firmatari, ma non ha ratificato lo Statuto di Roma per cui formalmente non ha riconosciuto la giurisdizione della Corte, nel caso della Palestina non si può giungere alla stessa conclusione. Infatti, già nel 2015 la Palestina ha richiesto di essere riconosciuta stato parte della Corte penale internazionale in conseguenza degli accadimenti avvenuti a opera di Israele nel giugno del 2014. Non è insolito infatti che gli stati che non percepiscano alcuna tutela da un organo giurisdizionale interno per condotte penalmente rilevanti – come diversi stati africani – sperino di ottenerla mediante l’adesione alla Corte penale internazionale.

Nel 2021 dunque a fronte di tale richiesta la Camera preliminare ha deciso che la Palestina debba essere riconosciuta a tutti gli effetti uno stato ai fini della giurisdizione della Corte penale internazionale e che essa è pienamente esercitabile rispetto ai territori occupati da Israele nel 1967 ossia la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est.

corti internazionali

146 stati (e lo Stato Città del Vaticano) appartenenti all’Onu su 193 riconoscono lo Stato di Palestina.

Nel mandato di arresto del 20 maggio del 2024 il procuratore generale presso la Corte penale internazionale – in seguito alle attività di indagine svolte – ha ritenuto che sia i tre esponenti di Hamas sopraccitati che il primo ministro israeliano Netanyahu e il ministro della Difesa dello Stato di Israele sono responsabili della commissione di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità, ragione per la quale, ancor prima di analizzare il contenuto del provvedimento del procuratore occorre chiarire quali siano le fattispecie che vanno a integrare i suddetti crimini, perseguibili penalmente a livello internazionale.

Cosa sono i crimini di guerra?

Con crimini di guerra si fa riferimento alla violazione di quell’insieme di norme che disciplinano le condotte di quanti combattono nel corso delle ostilità. Tuttavia se è vero che non ogni violazione del cosiddetto Diritto bellico integri necessariamente un crimine internazionale, d’altro canto è vero che anche durante i conflitti armati debbano essere rispettate delle regole minime di civiltà non solo nei confronti della popolazione civile dello stato contro il quale si combatte ma anche rispetto ai prigionieri “dell’esercito nemico” che, non essendo più nella condizione di combattere, devono essere comunque rispettati nella loro condizione di esseri umani da cui discende come corollario il divieto assoluto di essere destinatari di qualsiasi forma ulteriore di violenza bellica, in esito alla loro cattura. Chiarito dunque quali sono i destinatari dei crimini di guerra occorre aggiungere che – così come per il genocidio – anche per i crimini di guerra è presente un complesso di norme internazionali scritte – più specificamente le quattro Convenzioni internazionali di Ginevra del 1949 – che indicano le fattispecie qualificabili come crimini di guerra. Come stabilito da tutte le quattro le Convenzioni di Ginevra del 1949 – trattandosi anche in questo caso di un reato – costituiscono l’elemento oggettivo del suddetto crimine le condotte di omicidio, di stupro, di tortura, la presa di ostaggi, la violazione della dignità personale e i trattamenti inumani e degradanti, ma solo se compiuti nel corso di un conflitto armato o comunque compiuti in ragione dello stesso ovverossia essi devono essere qualificabili come una forma di partecipazione al conflitto. Per quanto attiene all’elemento soggettivo del reato invece in questo caso non è richiesto il dolo specifico come nel caso del genocidio ma l’intenzione di reggere la condotta così come sopra delineata dal punto di vista fattuale.

Si ricorda inoltre che i crimini di guerra sanzionabili secondo le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 erano soltanto quelli internazionali, ossia tra due o più stati, mentre con lo Statuto di Roma del 1998 si sono fatti rientrare nel novero di tali crimini anche quelli compiuti nei conflitti civili ossia tra fazioni diverse ma appartenenti al medesimo stato.

Non un’unica definizione

Più nello specifico con riferimento alla competenza della Corte penale internazionale i crimini di guerra vengono definiti dall’art. 8 dello Statuto di Roma. Diversa analisi è quella che deve essere dedicata alla nozione dei crimini contro l’umanità disciplinati invece dall’art 7 dello statuto della Corte penale internazionale – ma rispetto ai quali non c’è una Convenzione internazionale di riferimento. I crimini contro l’umanità sono una tipologia di crimini che vennero delineati, dal punto di vista storico, mediante l’attività del Tribunale di Norimberga nel corso dell’accertamento dei crimini del regime nazista nel periodo antecedente la Seconda guerra mondiale nei confronti dei cittadini tedeschi come destinatari di condotte criminose, i quali – non essendoci un conflitto in corso – non potevano rientrare chiaramente nel novero dei prigionieri o dei civili dello stato nemico come nel caso dei crimini di guerra.

Ci troviamo sempre, ad ogni modo, dinanzi a reati di rilievo internazionale per cui come è stato individuato per altri crimini penalmente sanzionabili, occorre comprendere l’elemento oggettivo del reato ossia la condotta del “reo” e il suo elemento soggettivo.

Quando il contesto conta

Per quanto attiene al primo aspetto va preliminarmente chiarito – anche in funzione della comprensione del contenuto del mandato di arresto internazionale del procuratore Karimi Khan – che le condotte riconducibili a crimini contro l’umanità possono essere compiute tanto in tempo di guerra quanto in tempo di pace. Esse sono l’omicidio, la tortura, lo stupro, la violenza, la riduzione in schiavitù, e altri atti penalmente rilevanti ma considerati leciti dall’esecutivo al potere in un dato momento storico. Tuttavia, tali condotte vengono qualificate come crimini contro l’umanità solo se compiute nel corso di un attacco sistemico e massiccio, ragione per la quale non possono essere configurati crimini contro l’umanità atti isolati bensì soltanto gli atti che rispondono a una puntuale politica di governo, tollerata dalle autorità nazionali. Inoltre, per quanto riguarda l’elemento soggettivo del reato, anche nel caso dei crimini contro l’umanità ricorre la necessità di un dolo specifico – come si è visto per il genocidio – ossia non solo l’intenzione di porre in essere le condotte di cui sopra ma anche la consapevolezza che quanto si sta compiendo costituisca una violazione generalizzata dei diritti umani. Nel mandato di arresto del procuratore generale più nello specifico si ritengono responsabili – mediante diversi capi di accusa – gli esponenti di Hamas Yahya Sinwar, Mohammed Ibrahim al- Masri, e Ismail Haniyeh, tanto della commissione di crimini di guerra che di crimini contro l’umanità.

Corti internazionali

Quali crimini?

Con riferimento ai soli crimini di guerra (in conformità al succitato art. 8 dello Statuto di Roma) vengono annoverati nel mandato di arresto la presa in ostaggio, i trattamenti crudeli e gli oltraggi alla dignità personale perpetrati nel corso della prigionia mentre come crimini contro l’umanità – in base all’art. 7 – vengono indicati lo sterminio, l’omicidio, e altri atti disumani e degradanti anche se nel contesto della prigionia. Ricondotti ad entrambi i crimini invece sono la tortura, lo stupro e gli altri atti di violenza sessuale. Nel mandato di arresto, rispetto a tali fattispecie rilevanti penalmente a livello internazionale, viene specificato che i crimini di guerra sono stati compiuti nel corso di un conflitto armato qualificato al contempo come internazionale e non internazionale tra Israele e Hamas mentre i crimini contro l’umanità nel corso di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile di Israele, compiuto da parte di Hamas e di altri gruppi armati in conformità all’organizzazione del Movimento.

Tale contesto è il medesimo all’interno del quale il procuratore generale Karimi Khan ha ritenuto destinatari del mandato di arresto internazionale anche il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant in quanto responsabili penalmente, come i tre esponenti di Hamas, di crimini di guerra e contro l’umanità.

Più nello specifico vengono ascritti quali crimini di guerra dei due ministri israeliani: la fame dei civili e l’aver arrecato intenzionalmente grandi sofferenze, gravi lesioni al corpo o alla salute o trattamenti crudeli, nonché gli omicidi e di dirigere intenzionalmente gli attacchi contro la popolazione civile. Il primo ministro e il ministro della Difesa israeliano vengono inoltre ritenuti responsabili di aver provocato sterminio e omicidio anche nel contesto di morti per fame, la persecuzione e altri atti disumani e degradanti ossia crimini contro l’umanità. Tuttavia, poiché diverse delle condotte delle quali sono ritenuti responsabili Netanyahu e Gallant come crimini contro l’umanità sono le medesime idonee a integrare dal punto di vista oggettivo il crimine di genocidio non può passare inosservata in tale ricostruzione dei fatti l’affermazione del procuratore generale Khan mediante la quale si specifica che

«Israele ha intenzionalmente privato la popolazione civile in tutte le parti del territorio di Gaza di oggetti indispensabili alla sopravvivenza umana», ossia con dolo quale elemento soggettivo del reato.

L’integrale perfezionamento del crimine di genocidio – già sollevato dinanzi alla Corte di giustizia che ancora, ricordiamo non si è espressa con un provvedimento definitivo in esito a un giudizio nel merito, nel caso del mandato di arresto del procuratore generale presso la Corte penale internazionale difetta nell’accertamento unicamente della specificità del dolo ossia di quella «volontà di distruggere in tutto o in parte» i palestinesi che tuttavia si ricorda sono già stati considerati riconducibili alla nozione di «gruppo nazionale, etnico, razziale e religioso», unici destinatari di tale crimine secondo la Convenzione di Ginevra. Sulla valutazione dell’esistenza del dolo specifico potrebbero certamente pesare le dichiarazioni del ministro della difesa rilasciate il 9 ottobre del 2023.

Si vedrà solo con il passare degli anni se le due Corti addiverranno nel giudizio di merito a un’univoca ricostruzione dei fatti corroborata o meno dall’individuazione dell’integrazione del o dei medesimi crimini internazionali, sperando che l’attesa non sia ancora inondata di sangue versato da innocenti e che se giustizia non vi può essere perché l’efficacia del sistema di giustizia internazionale non è effettiva che quanto meno si dia una risposta politica così inequivocabile da tracciare non più confini ma filamenti di una maglia di integrazione così estesa e fitta da coprire – seppur con vivida memoria – gli orrori del passato e del presente.


In quanto a risposta inequivocabile a un mese circa dalla pubblicazione di questo articolo la Corte  internazionale di Giustizia dell’Aja ha dato un responso su cui le persone di buonsenso e qualsiasi approccio onesto in punta di Diritto internazionale non possono che concordare da 57 anni a questa parte: Israele ha saccheggiato territori non suoi, imposto un regime di apartheid su popolazioni che non dovrebbero dipendere dallo Stato ebraico, ha vessato, torturato, incarcerato, commesso crimini di guerra e perpetrato massacri, anche favorendo epidemie ed esecuzioni sommarie. Deve smantellare ogni colonia e ritirare le truppe di occupazione da Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme, rientrando nei suoi confini riconosciuti: quelli del 1967 antecedenti la Guerra dei sei giorni. Il fatto che 50.000 palestinesi siano stati uccisi nell’indifferenza generale, i feriti siano nell’ordine di centinaia di migliaia, Gaza distrutta, si continui a impedire la consegna di aiuti umanitari, medicinali salvavita, si diffonda scientemente la poliomielite è solo la dimostrazione che il Diritto internazionale è solo quello del più forte. Anche se – e proprio perché – le indicazioni della Corte comportano un obbligo preciso di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro il paese incriminato, questo assunto – che dovrebbe portare alla soluzione definitiva della questione israelo-palestinese e alla fine dell’arroganza di Tel Aviv – è dimostrato come mera utopia dall’ultima sentenza della Corte internazionale di Giustizia che nel 2003 aveva condannato Israele per l’illegalità del Muro di separazione eretto unilateralmente, derubando tra l’altro i bantustan palestinesi dell’accesso all’acqua.

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G7 – G8 – G20 – G77+1… G8miliardi https://ogzero.org/g7-g8-g20-g771-g8miliardi/ Mon, 18 Sep 2023 20:48:14 +0000 https://ogzero.org/?p=11622 Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, […]

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Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, con chi stare? Un po’ con l’uno un po’ con l’altro. All’aria aperta la situazione è abbastanza caotica. Diversa da prima dove c’era la banda più forte e non ce n’era per nessuno. In più adesso succede che un giorno il sole è rovente e nessuno ha voglia di venir fuori dall’ombra. Un altro diluvia che appena ti affacci in strada quasi anneghi. Un disastro. Non si capisce più niente. Bisogna solo aspettare che i ragazzini, ragazzine incluse, crescano. Ma cresceranno?


Quando sarai grande…

Sì, diventeranno grandi. Anzi G(randi)20. Una specie di super banda che cerca di spartirsi le zone di influenza. Assenti XI Jinping e Putin. Presente! però Giorgia M. e questo ci rincuora.
Il padrone di casa, Modi si è indaffarato moltissimo, senza fare i pignoli su come per l’occasione ha ripulito le periferie di Nuova Delhi. Vuole che l’India sia chiamata Bharat, e su questo niente da dire. Sta già scritto nella Costituzione. Per noi di una certa età va anche meglio perché nel nostro immaginario gli indiani continuano a essere i nativi americani (stavo per scrivere i peller…).
Poi ha ufficialmente siglato la Global Biofuel Alliance a cui aderiscono Brasile, Stati Uniti, Bangladesh, Argentina, Sudafrica, Mauritius, Emirati Arabi e Italia, oltre a Bharat. Mi propongo a Giorgia come servitore della patria ai prossimi incontri nelle Mauritius. Ci tengo ai biocarburanti.

Non è passata inosservata la dichiarazione fatta da Stati Uniti e IBSA – India, Brasile, Sudafrica – sul potenziamento degli aiuti finanziari al Sud Globale.
La geografia sta slittando verso il meridione del mondo. Da un punto di vista delle aspirazioni geopolitiche, delle prese di parola, non può non piacere. Dirà l’avvenire se sarà un guadagno per la Terra e l’Umanità.

 

Nel quartiere c’è sempre qualcuno dei ben piantati che invece di farsi vivo in piazza con lo sguardo strafottente se ne sta non si sa dove. Perfino quelli della sua banda sono sconcertati. Cosa starà macchinando?


… saprai perché…

Xi Jinping perché non è venuto? Se ne fotte? Il suo ruolo se lo gioca nei Brics? Cioè Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e prossimi Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Emirati arabi uniti e Arabia saudita. Augurandosi che non si trasformino in Bricsaeeieauas.  L’erede di Mao lascia intenzionalmente il G20 all’India? Sembrerebbe di sì.

Modi ha così organizzato gli accordi, fossero anche solo pacche sulle spalle, senza la Cina. Tutta questa sua agitazione sta in piedi? Amico di tutti e di nessuno? Putin ha fatto bene a starsene dov’è, deve salvare l’eterna anima russa con i carrarmati e questo disturba le calorose strette di mano.

Sta finalmente cambiando la faccia geopolitica del Mondo, detta anche multipolarismo, oppure sono solo geometrie variabili destinate ad essere ormai perennemente variabili? In altre parole, la novità è il movimento continuo e non la configurazione che assume?

… è un gioco strano: devi imparare…

L’IMEC è una prima risposta. Un baccanale di acronimi da imparare a memoria. India-Middle East-Europe Economic Corridor. Lo promuovono il principe saudita Mohammed bin Salman Al Saud, il presidente degli Emirati Arabi Uniti Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, la presidente dell’Unione Europea Ursula von der Leyen, la primo ministro italiana Giorgia Meloni, il capo della Banca Mondiale Ajay Banga e, ovviamente, Joe Biden e Narendra Modi. Treni, porti, fibre ottiche, pipeline, autostrade, ponti, hub.

Applausi a scena aperta.

Uno per tutti, quello di U.v.der Leyen: «È un ponte verde e digitale tra i continenti e le civiltà».

All’esterno del G20 un encomio altissimo.

Viene da Netanyahu: «Israele è al centro di un inedito progetto internazionale che unirà infrastrutture dall’Asia all’Europa, realizzerà una antica visione e cambierà il Medio Oriente, Israele, e influenzerà il mondo intero».

Coro stellare per un mondo a più facce? Risposta robusta, dieci anni dopo, alla Via della Seta cinese? Entusiasmo a buon mercato? Trionfalismo fuori posto?

… è un gioco strano: devi imparare…

Calma, dice la Cina: «Il tempo mostrerà la differenza tra un’iniziativa che abbraccia tutti con cuore aperto [la Belt and Road Initiative cinese] e una di idee ristrette che divide le nazioni. Noi speriamo che l’IMEC non diventi così».

Risposta secca e stizzita.

I giochi sono aperti e soprattutto il quadrante del mondo si è messo in moto. Una cosa è sicura, il Medio Oriente torna ad essere uno snodo delle politiche mondiali.

Se qualcuno poi, sprovveduto di finezze geopolitiche, osserva un po’ più da vicino i Grandi 20, presenti e assenti, il modo con cui governano i loro paesi e come fanno e disfanno le loro società, qualche brivido giù per la schiena gli corre. Allora il sempliciotto inesperto sceglie di chinarsi sulla minuteria storica e scopre, per esempio, che un treno merci con 36 vagoni container è partito dal sud della Russia, ha attraversato l’Iran, già nemico numero uno dell’Arabia Saudita, e poi dallo Stretto di Hormuz è stato travasato via mare a Gedda, in… Arabia Saudita. A fine agosto.

Oppure viene informato che a Ryad, capitale dell’Arabia Saudita, lo scorso 11 settembre grazie all’Unesco  era in visita ufficiale una delegazione del governo israeliano, anteprima di una possibile normalizzazione tra i due stati mediorientali. Il candido osservatore inoltre si stupirà vieppiù nel vedere che Erdoğan, il sultano turco, si sia subito scagliato contro il corridoio in questione proponendone uno di gamma superiore. Provvisoriamente definito – che strano! – corridoio turco.

… è tutto scritto, catalogato: ogni segreto, ogni peccato…

Non stanno mai fermi i Grandi, anche i Meno Grandi. Saltabeccano da un summit, da un vertice all’altro un po’ qua un po’ là. Finito uno, di corsa all’altro [Brics, 21/24 agosto, G20, 9/10 settembre, G77+Cina a Cuba, dal 15 settembre]. Gli farà bene tutto questo sbattimento? E se prendono aria? E se fanno indigestione? E se perdono l’orientamento? E il jet lag? Cos’è, fregola di contrasto alla depressione?
C’è un moto ondulatorio o sussultorio nella geopolitica? Preludio ad eventi tettonici più duri e consistenti?

Se scendo dai vertici e lo chiedo a una immigrata filippina a Ryad, a un palestinese di Nablus, a una giornalista kurdo-turca in carcere, mi guardano con un certo disincanto. Eppure.

… quando sarai grande, saprai perché

Qualcuno si perde, altri mettono su famiglia, qualcuno ricorda con nostalgia e parla male dei nuovi ragazzini di strada, certi fanno carriera.

Tutto il GMondo è paese.

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G20: l’Africa non è più nel menu ma ‘partecipa’ al banchetto https://ogzero.org/g20/ Mon, 11 Sep 2023 20:57:23 +0000 https://ogzero.org/?p=11571 Nella foto del G20 di copertina in primo piano ci sono 3 membri fondatori dei Brics… ma da membro dei Brics impegnato su più tavoli Modi agisce da battitore “libero” o da gregario per tirare la volata ad altre potenze per proporsi ancora una volta al continente africano come soci “interessati”? Tutti appaiono concordi sull’estensione […]

L'articolo G20: l’Africa non è più nel menu ma ‘partecipa’ al banchetto proviene da OGzero.

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Nella foto del G20 di copertina in primo piano ci sono 3 membri fondatori dei Brics… ma da membro dei Brics impegnato su più tavoli Modi agisce da battitore “libero” o da gregario per tirare la volata ad altre potenze per proporsi ancora una volta al continente africano come soci “interessati”?
Tutti appaiono concordi sull’estensione alla Unione africana della partecipazione a partire dal prossimo G21
brasiliano. Ma come sempre Angelo Ferrari correttamente si chiede cui prodest? e la risposta può non andare questa volta verso una nuova spinta verso gli interessi dei Brics, di cui l’India è un socio tra i più potenti, che hanno già aperto dal canto loro ai mercati africani e, se i russi sono protagonisti in Sahel, centrafrica e gli affari cinesi sono ovunque nell’Africa orientale, è più facile che la porta del G21 possa venire usata più dagli Usa che non dalle potenze asiatiche.
Forse proprio quella Via antiBri in nuce e che vede gli indiani impegnati a riavvicinarsi all’Occidente può trovare nel coinvolgimento del Sud del Mondo un nuovo grimaldello per essere concorrenziale nei vari snodi della Via della seta cinese… ma queste elucubrazioni, ci suggerisce l’africanista Angelo, non considerano il particolare che questa opportunità – nel momento in cui si registrano sommovimenti bollati sbrigativamente come anticoloniali – sarebbe davvero a disposizione di una potenza come l’Unione africana che è un organismo con lo stesso peso dell’Unione europea. Perciò lasciamo spazio ai dati e alle ipotesi di Angelo Ferrari (Agi.it, 11 settembre 2023).  


La proposta indiana

L’Africa si siede al tavolo dei potenti e non è più solo nel menu. L’entrata come membro permanente dell’Unione africana (Ua) nel G20, tra i grandi del mondo, è un segnale molto forte per il continente e una vittoria diplomatica dell’India ma, anche un modo per provare a disinnescare la “mina” dei Brics. Ma non solo: i 55 stati africani hanno un Pil complessivo di 3000 miliardi di dollari e, già dal 2021, hanno dato vita a un’area di libero scambio continentale, con lo scopo di sviluppare gli scambi interafricani tra oltre 1,2 miliardi di persone. Un potenziale enorme. Tuttavia ora, e sarà tutto nelle mani della Unione africana, deve mettere a frutto questo patrimonio che, fino a ora, era solo menzionato nel menu dei vertici internazionali.

Una delle aspirazioni dell’Unione africana, presente nella sua agenda per il 2063, era quella di avere un posto di rilievo nelle relazioni internazionali. La presenza nel G21 va proprio in questa direzione. Ma c’è dell’altro. E cioè che l’Africa ora può lavorare concretamente affinché il continente non sia più considerato un rischio per gli investimenti, ma un’opportunità, in una logica tra pari e non relegato alla subalternità. Ciò permetterà, inoltre, di sviluppare, in un mondo multipolare, strategie usando il dialogo Sud-Sud in maniera tale che le questioni che riguardano lo sviluppo del continente siano considerate prioritarie per e nell’economia globale.

Tutto ciò, inoltre, ha una rilevanza non solo negoziale, ma anche squisitamente economica legata proprio all’Area di libero scambio continentale, dove dovrebbe prevalere la negoziazione multilaterale, cioè tra grandi aree economiche, rispetto a quella bilaterale, ma per fare ciò è necessario che vi sia un interlocutore globale come può essere solo l’Unione africana. Ciò permetterebbe, solo per fare un esempio, all’Unione europea su diversi temi e criticità, di avere un interlocutore unico e, allora, quando vengono evocati piani Marshall per l’Africa, questi non sarebbero più calati dall’alto, ma verrebbero negoziati alla pari con il continente africano.

Hai voluto la bici? adesso vai in fuga, sfuggi alla trappola!

L’istituzione dell’Area di libero scambio africana (Afcfta) potrebbe consentire un aumento di oltre il 50% degli scambi tra i paesi del continente e avrà, anche un effetto significativo sugli scambi tra l’Africa e il resto del mondo con un aumento delle esportazioni del 29% e delle importazioni del 7%, secondo i dati del Fondo monetario internazionale; e ciò può produrre un aumento di “oltre il 10%” del Pil reale medio pro capite.
Il Fondo monetario, tuttavia, sostiene che, perché l’area di libero scambio possa avere un impatto significativo sulle economie, i paesi africani dovranno, necessariamente, mettere in campo una serie di riforme economiche e politiche per sostenere il mercato unico. Non è sufficiente la riduzione delle barriere tariffarie e non tariffarie se questa non si accompagna a un miglioramento del clima imprenditoriale. Senza riforme, secondo il Fondo monetario, l’impatto dell’area di libero scambio africano sarà minore: la semplice riduzione delle barriere, tariffarie o meno, consentirà agli scambi tra i paesi africani di crescere solo del 15%, portando a un aumento dell’1,25% del Pil reale medio pro capite.

Per cogliere tutte le opportunità «sarà necessario investire in capitale fisico e umano, creare un solido quadro macroeconomico e modernizzare il sistema di protezione sociale per sostenere i più vulnerabili durante la fase di transizione».

Una Unione africana protagonista nei consessi internazionali e non più osservatore, può determinare un cambio di passo proprio sullo sviluppo reale del continente.

Non ha caso la decisione presa in India ha avuto il plauso di tutte per le parti coinvolte. Ovviamente, in particolare, dei leader africani: se il Sudafrica era già rappresentato al G20, come Stato unico africano, ciò non ha impedito al suo presidente di accogliere con favore l’ingresso dell’Unione africana.

Cyril Ramaphosa ha sottolineato la necessità di «una cooperazione multilaterale per combattere l’insicurezza alimentare ed energetica». Presente in India anche il comoriano Azali Assoumani, attuale presidente dell’Ua, ha parlato di «culmine di una lotta a lungo termine. È un grande giorno per tutta l’Africa». Il peso massimo del continente, il presidente della Nigeria, Bola Tinubu, ha espresso la sua impazienza di «portare avanti le nostre aspirazioni sulla scena globale utilizzando la piattaforma del G20». Quello del Kenya, William Ruto, dal canto suo, ha parlato di «una sede che permetterà di orientare le decisioni del G20 per garantire la promozione degli interessi del continente». Il senegalese Macky Sall ha enfatizzato “la decisione storica”. Infine, il presidente della Commissione dell’Unione africana, il ciadiano Moussa Faki Mahamat, ritiene che l’integrazione dell’Ua offra ora «un quadro favorevole per amplificare l’advocacy a favore del continente».

I temi sul tavolo sono molti e vanno dai cambiamenti climatici, alla crescita demografica, alla riduzione del debito e della povertà endemica del continente, in una parola: solo “sviluppo”, sia economico, sia politico e sociale – senza dimenticare che si dovrà mettere mano al tema endemico della corruzione – e tutto ciò discutendone da pari con i grandi del mondo. Un cambio di paradigma che l’Unione Africana dovrà gestire al meglio perché questa decisone rappresenti una svolta epocale.

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n. 2 – L’Assemblea Generale tra diritto di veto, immobilismo e sessioni speciali https://ogzero.org/assemblea-generale-onu-tra-diritto-di-veto-e-immobilismo/ Thu, 13 Jul 2023 11:07:30 +0000 https://ogzero.org/?p=11288 Prosegue la serie di contributi di Fabiana Triburgo che analizzano con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questo saggio in particolare si concentra sulle risoluzioni adottate in sessioni speciali dall’Assemblea Generale in occasione del conflitto russo-ucraino e sulle contraddizioni insite nel potere di veto della Russia quale membro permanente nel […]

L'articolo n. 2 – L’Assemblea Generale tra diritto di veto, immobilismo e sessioni speciali proviene da OGzero.

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Prosegue la serie di contributi di Fabiana Triburgo che analizzano con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Questo saggio in particolare si concentra sulle risoluzioni adottate in sessioni speciali dall’Assemblea Generale in occasione del conflitto russo-ucraino e sulle contraddizioni insite nel potere di veto della Russia quale membro permanente nel Consiglio di Sicurezza. Probabilmente le stesse discussioni assembleari porteranno a una riconsiderazione del diritto di veto per superare l’immobilismo del Consiglio di Sicurezza.


La questione che viene lecito porsi – analizzati i limiti che determina l’apposizione del diritto di veto – è se questo possa essere in qualche modo superato o meglio “aggirato” da un altro organo fondamentale delle Nazioni Unite ovverosia l’Assemblea Generale. Se infatti rispetto al conflitto russo-ucraino è emerso l’immobilismo totale del Consiglio di Sicurezza – proprio a causa del diritto di veto esercitato dalla Russia quale membro permanente – l’Assemblea Generale si è riunita molteplici volte in sessione straordinaria per deliberare in merito a tale “Operazione speciale” così come definita dal leader del Cremlino. D’altra parte, se il Consiglio di Sicurezza – secondo l’art. 24 – è il principale organo delle Nazioni Unite al quale vengono demandati il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, la Carta delle Nazioni Unite, in particolare all’art. 11 par. 2 e più in generale all’art. 14, conferisce in tale ambito anche all’Assemblea Generale un ruolo rilevante pur non essendo essa titolare di quei poteri coercitivi implicanti o meno l’uso della forza, propri del Consiglio di Sicurezza.

L’Assemblea Generale infatti, nel caso del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, può soltanto emettere atti privi di forza vincolante aventi il carattere delle raccomandazioni ma può esercitare quelle funzioni conciliative di cui al capo VI della Carta – così come d’altronde il Consiglio di Sicurezza – che si esplicitano attraverso l’istituzione di buoni uffici, di attività di mediazione o di negoziato nei confronti dei paesi membri. D’altro canto, anche l’Assemblea Generale come il Consiglio può disporre le cosiddette “misure temporanee” di cui all’art. 40 della Carta come per esempio le richieste di “cessate il fuoco”, di liberazione pacifica dei prigionieri e d’invito agli stati a non introdurre le armi nei conflitti tra loro. Infine, spetta all’Assemblea Generale in siffatte situazioni quel potere di inchiesta di cui all’art. 34 della Carta pur se, diversamente da quanto avviene nel caso del Consiglio di Sicurezza, esso non può essere finalizzato all’applicazione delle misure coercitive di cui sopra nei confronti degli stati come definite dagli artt. 41 e 42.

Uniting for Peace: come superare l’immobilismo del Consiglio di Sicurezza Onu

Inoltre, benché le risoluzioni dell’Assemblea non abbiano carattere cogente è bene ricordare che lo stato che non adempie le prescrizioni contenute in esse è sottoposto a specifiche responsabilità non solo dinanzi all’Assemblea ma anche dinanzi alla Corte di Giustizia delle Nazioni Unite, in particolare nell’ipotesi in cui uno stato membro si ritenga leso,  come nel caso dell’Ucraina, dallo stato destinatario delle prescrizioni. In tale quadro di funzioni e poteri dei due organi delle Nazioni Unite occorre richiamare la già citata risoluzione dell’Assemblea Generale n. 377 meglio conosciuta come “Uniting for Peace emessa nel 1950 ma quanto mai attuale in considerazione dell’intervento armato russo in Ucraina. La risoluzione allora venne emanata infatti proprio in considerazione dell’immobilismo del Consiglio di Sicurezza nella guerra di Corea del 1950 ed essa, al di là delle conseguenze che abbia poi effettivamente determinato in relazione a tale conflitto – considerata la forte opposizione che ha ricevuto dagli stati socialisti che ha portato anche gli altri stati membri a desistere – ha comunque introdotto un principio innovativo rispetto ai tradizionali poteri che sono conferiti dalla Carta all’Assemblea Generale. La risoluzione n. 377, al momento ancora in essere, stabilisce infatti che se il Consiglio di Sicurezza non può contare sull’unanimità dei suoi membri permanenti – tale da non poter esercitare le sue funzioni per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale – l’Assemblea Generale nei casi in cui possa esservi una minaccia o un atto di aggressione deve considerare immediatamente la questione al fine di adottare raccomandazioni approfondite ai membri delle Nazioni Unite incluso, in caso di rottura della pace o di un atto di aggressione, l’uso delle forze armate proprio per mantenere o ripristinare la pace e la sicurezza internazionale.

La sessione che diede vita alla risoluzione 377 denominata “Uniting for Peace”.

Più verosimilmente rispetto a quest’ultimo potere di disporre misure coercitive come quelle implicanti l’uso della forza si ritiene che la risoluzione ad oggi – anche rispetto al conflitto russo ucraino – sia più agevolmente invocabile affinché l’Assemblea eserciti pienamente (in caso di immobilismo del Consiglio di Sicurezza) quei poteri conciliativi di cui al capitolo VI della Carta che le sono propri. Tale risoluzione inoltre appare particolarmente rilevante perché ha depotenziato il principio della litispendenza tra i due organi sancito con riferimento già alla sola funzione conciliativa dell’Assemblea dall’art. 12 della Carta.

Secondo tale articolo infatti l’Assemblea non può svolgere le funzioni conciliative rispetto a una determinata questione qualora essa sia già pendente dinanzi al Consiglio di Sicurezza o in esame in seno a questo, proprio in ragione della primaria responsabilità in materia secondo il già citato art. 24.

Tale precetto non riguarda la semplice iscrizione a ruolo di una questione dinanzi al Consiglio ma piuttosto le ipotesi nelle quali il Consiglio stia già discutendo in merito a una specifica questione o se ne stia occupando o ancora se vi sia anche la sola probabilità che se ne occupi. Per tale principio le sessioni straordinarie d’urgenza dell’Assemblea, che come vedremo più nel dettaglio rispetto al conflitto russo-ucraino sono state molteplici dopo un’assenza lunga oltre quarant’anni, devono comunque essere richieste dal Consiglio di Sicurezza e dovrebbero avere il carattere dell’eccezionalità.

La condanna all’aggressione: prima risoluzione speciale, non per tutti

La prima risoluzione dell’Assemblea Generale in sessione speciale a essere stata adottata è quella del 2 marzo del 2022 di condanna dell’aggressione russa dell’Ucraina con la contestuale richiesta di cessazione immediata delle ostilità (A/ES-11/L.1). La richiesta che l’Assemblea Generale si riunisse in sessione speciale è stata avanzata dal Consiglio proprio in conseguenza dell’apposizione del veto russo in seno ad esso, veto che la Federazione Russa non può apporre invece nelle delibere assembleari che vengono adottate a maggioranza semplice o dei due terzi degli stati membri come nel caso – secondo quanto stabilito dal paragrafo 2 dell’art. 18 della Carta delle Nazioni Unite – delle raccomandazioni che riguardano il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. La risoluzione è stata adottata con 141 voti a favore, 38 astenuti e 5 contrari ossia, oltre alla Russia, la Bielorussia, la Corea del Nord, la Siria e l’Eritrea.

Tra gli astenuti vi sono diversi paesi asiatici tra cui la Cina, coerente alla propria linea di non interferenza negli affari interni delle singole nazioni e alleato ideologico della Federazione Russa secondo il cosiddetto patto implicito del conferimento primario della prosperità che promette il benessere sociale collettivo in cambio del controllo politico e sociale della società. Così come la Cina anche l’India si è astenuta dal voto: come vedremo in seguito entrambe le nazioni nella quasi totalità delle successive delibere assembleari manterranno questo “non schieramento”.

La risoluzione del 2 marzo 2022 sull’aggressione russa all’Ucraina (fonte Dipartimento della Difesa)

Si ricorda che India e Russia hanno una partnership consolidata nel tempo che si fonda principalmente nella concessione di petrolio e di armi da parte della Federazione Russa anche se quest’ultima è ben consapevole che l’India mantiene dei margini di manovra anche con i paesi occidentali suoi oppositori. Tali relazioni economiche tra i due paesi si sono intensificate dallo scoppio della guerra in Ucraina, poiché per la Russia l’India rappresenta sia un’importante soluzione alternativa alle sanzioni occidentali che l’hanno portata a un pressoché totale isolamento economico che un limite all’espansionismo nell’area da parte della Cina. D’altra parte, l’India oltre a giovare del prezzo a ribasso del petrolio offerto dalla Russia – dalla quale dal 2% delle importazioni dallo scoppio del conflitto ha raggiunto oggi la soglia del 23% delle importazioni dell’oro nero – ambisce anche a un sostegno della Federazione Russa nell’ottenimento di un seggio permanente all’interno del Consiglio di Sicurezza. Non solo, l’importazione delle armi dalla Federazione Russa da parte dell’India risale all’inizio del regime sovietico ed è continuato anche dopo il suo crollo. Basti pensare che le stesse forze armate indiane sono di formazione sovietica e molti ufficiali del paese si sono formati nelle accademie dell’Impero comunista. Particolarmente rilevante è anche l’astensione di ben diciassette paesi africani emblema dell’impegno delle milizie di Wagner – nate nel 2013 con il nome di “Corpi Slavi” formalmente indipendenti ma finanziate e gestite dal Cremlino – che hanno operato oltre che in Siria e in Ucraina anche in molteplici paesi del continente africano da quasi un decennio, beneficiando come contropartita delle risorse del sottosuolo di tali paesi in particolare delle miniere di oro, di diamanti e di uranio, come nel caso del Sudan nel quale i mercenari di Wagner ancora presenti nel paese inizialmente offrirono sostegno al presidente Omar al-Bashir presidiando il confine con il Sud Sudan.

Lo schieramento dell’Asia in particolare (fonte Ispi).

Lo schieramento nel continente africano (fonte Ispi).

La seconda risoluzione e le conseguenze umanitarie

La seconda risoluzione dell’Assemblea Generale in sessione speciale è quella relativa alle conseguenze umanitarie causate dall’aggressione russadel 21 marzo 2022 (A/ES-11/L.2) avanzata dalla stessa Ucraina e appoggiata da altri novanta paesi membri sostenitori e adottata anche in questo caso con un un’ampia maggioranza ossia con 140 voti a favore mentre 38 sono stati i paesi membri che si sono astenuti e 5 ad aver votato contro. Con il termine conseguenze umanitarie l’Assemblea Generale fa riferimento più specificatamente all’assedio perpetrato dalla Federazione Russa in diverse città dell’Ucraina nonché ai bombardamenti che non solo hanno colpito civili ma anche strutture pubbliche come scuole e ospedali nonché infrastrutture idriche e igienico-sanitarie. Inoltre, nella risoluzione la Federazione Russa – considerate le conseguenze umanitarie già causate – viene richiamata al rispetto di puntuali prescrizioni per il futuro, come la tutela dei civili e la protezione di quelli in fuga, compresi gli stranieri, dei beni essenziali per la loro sopravvivenza e infine di porre fine agli assedi nelle città ucraine. Alla Russia viene chiesto inoltre il rispetto del diritto internazionale umanitario compresa la Convenzione di Ginevra e il suo protocollo addizionale. Allo stesso tempo gli altri stati membri vengono invitati a finanziare gli aiuti umanitari delle Nazioni Unite in Ucraina e a incoraggiare i negoziati attraverso la mediazione e il dialogo politico.

Il rappresentante russo presso l’Assemblea delle Nazioni Unite ha definito tale risoluzione “una manipolazione umanitaria” e ha richiamato in modo provocatorio l’intervento armato della Nato nella Repubblica federale di Jugoslavia con l’inizio – il 24 marzo del 1999 – dell’Operazione Allied Force rispetto alla quale il Consiglio di Sicurezza aveva espresso il proprio voto contrario.

Fuori dal Consiglio dei Diritti umani e le conseguenze effettive

La successiva risoluzione dell’Assemblea Generale in sessione speciale è quella che ha disposto la sospensione della Russia dal Consiglio dei Diritti umani. Questa, adottata con la maggioranza dei due terzi dei votanti, è intervenuta in seguito all’emersione di foto che ritraevano nella città di Bucha innumerevoli corpi di civili morti abbandonati lungo le strade e la presenza di fosse comuni. La Russia, a parte la Libia – in conseguenza della repressione delle proteste nel 2011 da parte di Gheddafi poi “destituito” – è l’unico paese nella storia a essere stato sospeso dal Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite, dopo essere stata eletta soltanto l’anno precedente proprio dall’Assemblea Generale con un mandato di tre anni. Ciò che tuttavia non può essere ignorato è che tale risoluzione ha registrato un numero di voti a favore nettamente inferiore rispetto alle due precedenti risoluzioni assembleari. I voti a favore in tale circostanza sono stati infatti 93 a fronte dei circa 140 voti delle altre risoluzioni e non è un caso poiché questa è di fatto la prima delibera dell’Assemblea Generale a implicare con la sua adozione conseguenze effettive nei confronti della Federazione Russa.

Il 16 settembre 2022 la Russia viene sospesa dalla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo.

Il dibattito formale dopo l’esercizio del diritto di veto

L’ulteriore risoluzione dell’Assemblea Generale mandato permanente per un dibattito dell’Assemblea Generale in caso di veto del Consiglio di Sicurezza” del 26 aprile 2022 (A/ 77/L.52) – adottata senza votazione – è stata definita invece storica in quanto ha affrontato nuovamente la questione del diritto di veto ma in modo del tutto innovativo.  L’Assemblea Generale infatti con tale risoluzione ha stabilito che il proprio personale convochi una riunione formale dell’organo assembleare, composto da tutti i paesi membri delle Nazioni Unite, entro 10 giorni dalla data dell’apposizione del diritto di veto da parte di uno o più membri del Consiglio di Sicurezza, nella quale si discuta sulla situazione per la quale è stato posto il veto sempre purché essa non si riunisca in seduta straordinaria d’urgenza sulla medesima questione. L’Assemblea Generale ha proseguito con l’invito rivolto al Consiglio di Sicurezza a presentare un rapporto speciale dell’uso del veto – qualora venga apposto in seno a esso – almeno 72 ore prima che la discussione abbia inizio. Il testo della risoluzione è stato proposto dal Lichtestein e sponsorizzato da 83 paesi membri tra cui tre membri permanenti più specificatamente Francia, Regno Unito e Stati Uniti.

La proposta francese di sospensione del diritto di veto

La Federazione Russa ha espresso contrarietà rispetto a tale delibera assembleare adottata senza votazione in quando secondo la sua opinione l’apposizione in seno al Consiglio di Sicurezza del veto è ancora utilizzata come extrema ratio. Interessante la posizione di un altro membro permanente rispetto a tale risoluzione, la Francia che, dopo aver sottolineato di aver utilizzato il veto “soltanto” 18 volte dal 1945 e di non averlo apposto per più di tre anni, ha precisato tuttavia che  l’Assemblea in questo modo diverrebbe il giudice del Consiglio di Sicurezza e dei suoi membri richiamando ancora una volta invece l’opportunità dell’adozione della propria proposta di riforma rispetto all’uso del veto secondo la quale esso dovrebbe essere sospeso da parte di ogni membro permanente del Consiglio di Sicurezza nelle ipotesi di atrocità di massa, genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Di estrema importanza è poi la risoluzione assembleare del 12 ottobre 2022 (A/ES-11-4) di condanna della Russia per i referendum nel Donbass rubricata come risoluzione “sull’integrità territoriale dell’Ucraina in difesa dei principi della Carta delle Nazioni Unite” adottata con il voto favorevole di 143 paesi membri.

Nel testo della risoluzione vengono richiamate le prime due risoluzioni dell’Assemblea Generale sul conflitto in Ucraina – già analizzate in precedenza – sottolineando la salvaguardia dell’integrità territoriale di ogni stato secondo il diritto internazionale per cui deve considerarsi illegale qualsiasi acquisizione territoriale di uno stato nei confronti di un altro che si sia determinata mediante la minaccia o l’uso della forza armata. Il riferimento in concreto è ovviamente quanto avvenuto con i referendum indetti dalla Federazione Russa di annessione degli oblast‘ di Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia aventi esito positivo come dichiarato dalla Russia il 29 settembre 2022 e in conseguenza dei quali – con atti esecutivi della Federazione Russa – sono stati dichiarati indipendenti i territori ucraini di Zaporizhzhia e Kherson. Tali referendum si sarebbero tuttavia svolti non solo con l’intimidazione nei confronti dei civili da parte delle autorità nominate in modo illegittimo dalla Russia nei territori occupati, ma anche in condizioni non idonee a garantire una partecipazione democratica al voto tali da integrare la piena violazione del diritto internazionale in materia. La risoluzione adottata richiama inoltre le vicende storiche antecedenti che hanno interessato la Russia e l’Ucraina ossia gli scontri nel Donbass tra il 2014 e il 2015 tra l’esercito ucraino e i cittadini ucraini insorti per il rifiuto nel 2013 da parte dell’allora presidente ucraino di dar seguito ai patti di libero scambio con l’Unione Europea. Scontri nei quali si era inserita la Federazione Russa con il tentativo di ripristinare il controllo su alcune porzioni del territorio ucraino e ai quali era seguita la proclamazione unilaterale delle Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk nel Donbass. Con l’accordo di Minsk del 2015 – mai attuato in concreto – sottoscritto da Russia, Ucraina e Germania veniva tuttavia sancito il cessate il fuoco, la liberazione di prigionieri e l’impegno dell’Ucraina a riformare la propria costituzione garantendo piena autonomia alle Repubbliche separatiste, che però continuavano a essere parte del territorio dell’Ucraina e sottoposte alla sua autorità, nonché il ritiro di forze armate e di veicoli militari stranieri.

Con tale risoluzione dunque vengono dichiarati illegali e invalidi i suddetti referendum per cui si invitano tutti gli stati della comunità internazionale, le agenzie delle Nazioni Unite e tutte le organizzazioni internazionali a disconoscere quanto proclamato dal Cremlino il 29 settembre 2022 in quanto tali referendum non hanno determinato alcuna variazione del territorio ucraino.

Vale la pena ricordare che il 16 settembre 2022, prima della dichiarazione del Capo del Cremlino sull’esito dei referendum, la Russia cessava di essere parte della Convenzione europea per i Diritti dell’Uomo così come stabilito dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.

Il meccanismo di risarcimento

In una successiva sessione speciale più specificatamente il 14 novembre 2022 l’Assemblea Generale ha invece adottato una risoluzione con la quale ha raccomandato l’istituzione di un meccanismo di riparazione dei danni causati dalla Federazione Russa con la guerra in Ucraina e l’istituzione di un registro internazionale dei medesimi finalizzato ad archiviare prove e documenti a supporto delle richieste di risarcimento da parte ucraina. L’obbligo di riparazione avrebbe a oggetto oltre gli ingenti danni anche le perdite e le lesioni causate a persone fisiche e giuridiche nonché allo stato ucraino più in generale. Con la risoluzione inoltre viene chiesto alla Russia non solo di provvedere al pagamento dei danni ma anche di interrompere le operazioni militari e ritirare le proprie truppe in Ucraina. La risoluzione è stata adottata anche in questo caso con un numero di voti più ristretto delle iniziali delibere assembleari specificatamente con 94 voti a favore e circa 73 astenuti.

Il mancato schieramento di un numero così elevato di paesi membri è l’emblema della difficoltà della comunità internazionale a essere maggiormente schierata e coesa quando la votazione sulle risoluzioni dell’Assemblea Generale implichi delle conseguenze di fatto o di diritto rispetto alla Russia.

In tale ipotesi infatti è chiaro che la votazione a favore della suddetta risoluzione significhi indirettamente ammettere la responsabilità della Federazione Russa per le violazioni del diritto internazionale e umanitario integrate con l’invasione del territorio ucraino dalle quali appunto discenderebbe l’obbligo di riparazione dei danni.

Tuttavia il giorno precedente la ricorrenza di un anno dall’invasione russa dell’Ucraina l’Assemblea Generale è intervenuta con la risoluzione del 23 febbraio 2023 sul ritiro immediato della Russia dal territorio dell’Ucraina. Essa, più nel dettaglio, contiene nel testo la richiesta di una pace corretta, giusta e duratura in Ucraina, della cessazione delle ostilità, il ritiro immediato delle forze militari russe dal territorio ucraino oltre al riconoscimento della sovranità, dell’unità e dell’integrità dell’Ucraina. La risoluzione è stata adottata con 141 voti a favore 32 astenuti tra cui India e Cina – per cui valgono le precedenti considerazioni in merito agli interessi geopolitici ed economici dei due paesi con la Russia – e 7 voti contrari, ossia oltre la Russia, la Bielorussia, la Corea del Nord, l’Eritrea e il Mali. Rispetto a quest’ultimo paese si rileva che qui sono fortemente presenti i mercenari appartenenti al gruppo di Wagner mediante un accordo con la giunta golpista di Bamako.

La cooperazione rafforzata

Infine, ad aprile di quest’anno vanno menzionate due attività particolarmente rilevanti dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. In primo luogo, si registra a un anno di distanza dalla storica risoluzione precedentemente analizzata sul diritto di veto, adottata senza votazione da parte dell’Assemblea Generale, che i paesi membri delle Nazioni Unite si sono nuovamente incontrati in seduta assembleare per discutere sull’uso del diritto di veto all’interno del Consiglio di Sicurezza e su come intervenire affinché l’Organizzazione delle Nazioni Unite sia più efficiente.

In secondo luogo, l’Assemblea Generale ha adottato una rilevante risoluzione rubricata come “Cooperazione tra le Nazioni Unite e le organizzazioni regionali e altre organizzazioni: la cooperazione tra le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa” proposta da 48 stati membri tra cui la stessa Ucraina. Significativo quanto enunciato nel testo della risoluzione nel quale viene fatto riferimento alle sfide che l’Europa si trova oggi ad «affrontare dopo l’aggressione della Federazione Russa contro l’Ucraina e prima ancora contro la Georgia» in considerazione anche della cessazione dell’appartenenza della Federazione Russa al Consiglio d’Europa che «richiedono una cooperazione rafforzata tra le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa in particolare al fine di ripristinare e mantenere tempestivamente la pace […]». La risoluzione è di straordinaria importanza non tanto per il numero dei voti a favore con la quale è stata adottata ossia 122 paesi su 145 paesi votanti, ma perché

per la prima volta tra questi si annoverano Cina e India che approvando il testo della risoluzione hanno ammesso ufficialmente l’aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina che implica la violazione dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di quest’ultima.

In conclusione tutte le dinamiche dell’Assemblea Generale finora analizzate si sono inserite in modo poliedrico nella stasi del Consiglio di Sicurezza accrescendo inevitabilmente l’importanza del ruolo di tale organo nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale non solo poiché le votazioni delle risoluzioni in seno a esso sono divenute l’unica cartina al tornasole delle mutevoli posizioni dei paesi membri delle Nazioni Unite nello scacchiere internazionale rispetto alla guerra russo-ucraina ma anche poiché probabilmente le stesse discussioni assembleari porteranno a una riconsiderazione del diritto di veto come è avvenuto con la succitata storica risoluzione dell’Assemblea Generale del 26 Aprile del 2022 che ha perfezionato quella prima breccia nella Carta delle Nazioni Unite operata oltre settant’anni fa (!) dalla risoluzione “Uniting for Peace” nell’immobilismo del Consiglio di Sicurezza durante la Guerra Fredda.

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Pax africana in Ucraina https://ogzero.org/pax-africana-in-ucraina/ Tue, 23 May 2023 22:27:47 +0000 https://ogzero.org/?p=11105 La reazione all’esplosione del conflitto ai confini europei da parte degli stati africani è stata differenziata, ma spesso attenta a mantenere una neutralità interessata e spesso legata al forte intreccio di interessi e presenze russe sul territorio. Questo pone alcuni paesi nella condizione di proporsi come potenziali mediatori credibili. Al punto che la diplomazia americana […]

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La reazione all’esplosione del conflitto ai confini europei da parte degli stati africani è stata differenziata, ma spesso attenta a mantenere una neutralità interessata e spesso legata al forte intreccio di interessi e presenze russe sul territorio. Questo pone alcuni paesi nella condizione di proporsi come potenziali mediatori credibili. Al punto che la diplomazia americana ha subito cercato di delegittimare il governo più rappresentativo dei sei: non appena si è avuto sentore dell’iniziativa dei Sei Paesi in procinto di recarsi dai due contendenti la Casa Bianca ha scatenato i suoi giornali, accusando Pretoria di vendere armi ai russi e di non essere neutrale. Nonostante queste polpette avvelenate procede il piano elaborato a gennaio in gran segreto, proprio perché è ovvio che gli interessi di chi non vuole si raggiunga una tregua in vista di trattati di pace rimuoveranno chiunque si frapponga all’escalation.
Dall’altro lato è sintomatico che il ministro degli esteri ucraino Kuleba  incontri i leader dell’Unione africana in Etiopia: evidentemente la mediazione dell’Africa è presa sul serio da entrambe le parti in conflitto… e come spiega Angelo Ferrari nel suo articolo, l’Unione africana sarebbe l’interlocutore istituzionalmente più adatto, ma le pastoie burocratiche e diplomatiche che la contraddistinguono richiedono strutture più snelle ed efficaci. Ma il suo coinvolgimento dalla mossa di Kuleba avvia anche al livello più alto istituzionalmente il ruolo che potrebbe diventare – se non viene boicottato dagli americani e dai loro alleati – centrale nella composizione del conflitto.
L’estensore ci racconta i retroscena e i risvolti di questa “missione africana”, che non foss’altro per le forniture di cibo ha senz’altro bisogno  che ritorni una condizione di non belligeranza in Ucraina.


Il piano africano ha delle possibilità?

Il presidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, ha annunciato che Kyiv e Mosca hanno concordato di ospitare una delegazione guidata dai presidenti di Zambia, Senegal, Congo-Brazzaville, Uganda, Egitto e Sudafrica per discutere un piano di pace, preparato in gran segreto dai sei capi di stato. Un piano elaborato già a gennaio e che, ora, dovrebbe concretizzarsi con un incontro con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, e quello russo, Vladimir Putin. Quale sarà il primo incontro non è stato ancora stabilito, e non sarà facile. Sulla missione, tuttavia, rimangono ancora dei dubbi sulla sua fattibilità e, in particolare, sui tempi. Di certo c’è che domenica 21 maggio è iniziata una visita interlocutoria del presidente della Fondazione Brazzaville, che sovrintende il progetto, Jean-Yves Olliver, accompagnato da due emissari, uno del Senegal e uno del Sudafrica, che li a portati in Russia e Ucraina, per “chiarire le posizioni” e soprattutto per parlare di logistica.
Muovere sei capi di Stato non è cosa da poco.

Attivismo americano di contrasto

Vi sono anche frizioni internazionali che rischiano di compromettere la missione. Su tutte i rapporti tesi tra il Sudafrica e gli Stati Uniti, dopo le dichiarazioni americane volte ad accusare Pretoria di aver fornito armi alla Russia, ma anche per il fatto che il comandante delle forze di terra del Sudafrica ha visitato ufficialmente Mosca.


Dopo queste accuse, mosse dall’ambasciatore americano a Pretoria, il governo sudafricano ha promesso di svolgere un’indagine su queste presunte consegne. L’esercito sudafricano non ha risposto immediatamente. Il presidente sudafricano Ramaphosa, dal canto suo, ha assicurato che il suo paese non sarebbe stato coinvolto in «una competizione tra potenze mondiali» sull’Ucraina e che è stato soggetto a «straordinarie pressioni» per scegliere da che parte stare.

«Non accettiamo che la nostra posizione di non allineamento favorisca la Russia rispetto ad altri paesi. Non accettiamo nemmeno che metta a repentaglio le nostre relazioni con altri paesi» – in particolare la Russia – si legge in una nota al bollettino presidenziale settimanale.

Abboccamenti con i russi e gli ucraini

Ramaphosa ha parlato al telefono la scorsa settimana con il presidente russo Putin, e i due leader hanno mostrato il desiderio di far crescere ulteriormente la loro cooperazione. È noto, inoltre, che gli Stati Uniti stiano facendo pressioni su numerosi paesi africani affinché scelgano da che parte stare, cioè abbandonino Mosca, e quindi sono siano più soggetti “neutrali” rispetto alla guerra ucraina.
Tornando al progetto di pace africano, in discussione ormai da settimane, questo ha avuto un impulso nell’ultimo fine settimana. Secondo Ramaphosa i due “campi”, Mosca e Kyiv, hanno accettato di ricevere la visita di questa missione di pace. Il presidente sudafricano, inoltre, si augura che questo viaggio possa avvenire “il prima possibile”, anche se le modalità sono ancora tutte da discutere, in particolare quale presidente, Zelensky o Putin, riceverà per primo la missione.

Criteri di scelta della delegazione

Secondo la Fondazione Brazzaville, questi sei paesi sono stati scelti per rappresentare le diverse visioni del continente africano sul conflitto, con paesi come il Sudafrica e l’Uganda che difendono i loro legami con la Russia, e altri come lo Zambia e l’Egitto, che hanno votato per il ritiro delle truppe russe dall’Ucraina nell’ultima risoluzione delle Nazioni Unite.
La Fondazione Brazzaville, creata nel 2015 è presieduta dal francese Jean-Yves Ollivier, uomo d’affari che ha fatto fortuna commerciando materie prime in tutto il mondo, in particolare in Africa, dove ha stretto forti legami con numerosi presidenti africani: dall’ex presidente ivoriano, Félix Houphouët-Boigny, al presidente del Congo-Brazzaville, Denis Sassou-Nguesso, passando per l’antico uomo forte angolano, José dos Santos.

Jean-Yves Ollivier è un habitué dei palazzi presidenziali. «Mi sono dedicato agli affari e la politica mi ha raggiunto».

Dietro questa missione c’è anche un po’ di Francia.

La disposizione sudafricana al dialogo

Da parte sudafricana, non sorprende che in questo progetto, tanto ambizioso quanto difficile da concretizzare, sia stato coinvolto Cyril Ramaphosa. Il presidente sudafricano è sempre stato, fin dall’inizio del conflitto, colui che ha sempre invitato al dialogo per trovare una soluzione negoziata al conflitto e, quindi, cominciare a parlare di pace, piuttosto che schierarsi da una parte o dall’altra. Un atteggiamento di neutralità che, tuttavia, ha anche nascosto contraddizioni. La recente visita del comandante di terra dell’esercito sudafricano a Mosca, Lawerence Mbatha, è lì a dimostrarlo. Secondo Pretoria, tuttavia, il segretario generale delle Nazioni Unite e dell’Unione africana avrebbero accolto con favore questa iniziativa.

Il calendario “africano”?

Molte questioni organizzative, tuttavia, rimangono in sospeso. L’Africa non ha voluto rimanere inattiva su un tema che la riguarda direttamente, non fosse per le conseguenze economiche di questo conflitto su tutto il continente. È con questa volontà che questa missione di pace si è concretizzata a gennaio nella massima segretezza con discussioni solo tra capi di stato. Ora, la parte più complessa è il calendario dell’iniziativa di pace, tutto da discutere. Putin avrebbe proposto che si svolgesse a margine del vertice Russia-Africa di fine luglio, i sei presidenti vogliono che si tenga prima, in particolare entro la fine di giugno. La Fondazione Brazzaville, che è all’origine di questo progetto, sostiene che la composizione della delegazione ha senso con sei Stati che hanno posizioni politiche diverse sul tema della guerra in Ucraina: appoggio a uno dei due campi o neutralità. Non è un nodo da poco da sciogliere. Da questo punto di vista, nonostante l’Unione Africana abbia fatto sapere di sostenere questa missione, l’istituzione e il suo attuale presidente, il capo di stato delle Comore, Azali Assoumani, hanno preferito fare un passo indietro per non rallentare il processo diplomatico. Coinvolgere l’istituzione Unione africana avrebbe portato con sé un lavoro diplomatico di non poco conto per convincere gli stati membri della necessità di una missione di pace, un’opera di convincimento complessa che, tuttavia, poteva sfociare in un nulla di fatto.

La fase di preparazione di questa missione diplomatica a Sei è ormai cominciata, anche se gli ostacoli affinché l’iniziativa africana abbia successo sono numerosi.

 

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n. 1 – Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e il conflitto russo-ucraino https://ogzero.org/n-1-il-consiglio-di-sicurezza-dellonu-e-il-conflitto-russo-ucraino/ Sat, 06 May 2023 10:52:27 +0000 https://ogzero.org/?p=10924 Questo saggio di Fabiana Triburgo inaugura una serie di contributi che analizzano con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come il Consiglio di Sicurezza che è l’organo più importante delle Nazioni Unite e che ha potere decisionale in ambito militare e sugli armamenti a livello internazionale, e come le Corti internazionali e quelle regionali; la serie […]

L'articolo n. 1 – Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e il conflitto russo-ucraino proviene da OGzero.

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Questo saggio di Fabiana Triburgo inaugura una serie di contributi che analizzano con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come il Consiglio di Sicurezza che è l’organo più importante delle Nazioni Unite e che ha potere decisionale in ambito militare e sugli armamenti a livello internazionale, e come le Corti internazionali e quelle regionali; la serie continuerà con la descrizione del processo di alcuni stati di l’adesione all’Unione europea (anch’essa un organismo a carattere internazionale e sovranazionale). Sarà interessante vedere nel tempo – se finirà l’attuale follia bellica – che cosa rimarrà dell’Europa e capire quali sono le possibili porte girevoli da cui accedere all’Unione.

Questo primo intervento parte dal conflitto russo-ucraino per spiegare lo scopo della Carta delle Nazioni Unite, la fisionomia del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e le contraddizioni insite nelle normative che ne regolano l’attività, considerando il potere di veto per esempio della Russia quale membro permanente.


“Dove sono le Nazioni Unite?”. La domanda in riferimento alla guerra russo-ucraina che sta assumendo ogni giorno le dinamiche e i tratti salienti di un confitto internazionale, anche se principalmente per procura – sia mediante la fornitura di armi che di truppe di nazionalità diverse da quelle coinvolte direttamente nel conflitto – sembra il quesito maggiormente ricorrente, da oltre un anno, nell’opinione pubblica. La questione è invero l’emblema di quel divario – quasi mai colmato – tra quanto viene percepito dalla popolazione degli stati e quanto si determina attraverso il tecnicismo proprio dei “grandi palazzi del potere”, siano pur essi quelli di un’organizzazione internazionale quale l’Onu che detiene il primato tra quelle maggiormente rappresentative dell’intera comunità internazionale e quindi dei singoli stati che di essa fanno parte. La Carta delle Nazioni Unite, infatti, è un trattato internazionale, ma, dando vita a un complesso di organi preposti al suo interno – tra cui il Consiglio di Sicurezza, l’Assemblea Generale, il Segretariato Generale e la Corte di Giustizia internazionale – è considerata in dottrina anche una Costituzione [B. Conforti e C. Focarelli, Le Nazioni Unite, 12a edizione].

La Storia e la Carta delle Nazioni Unite

L’immobilismo apparente in una svolta risolutiva del conflitto ucraino (ma anche di altri al momento in corso) da parte dell’Onu è dovuto a questioni tutt’altro che ovvie o di facile comprensione tanto che sul tema attualmente sono aperti ampi e contrastanti dibattiti riguardanti la revisione della Carta delle Nazioni Unite, in modo particolare rispetto al funzionamento e alla composizione del suo organo più importante ossia il Consiglio di Sicurezza.

Secondo l’art. 24 della Carta esso è l’organo dell’Onu principalmente demandato al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale – uno degli scopi fondamentali della Carta elencati all’art. 1 –  potere conferitogli dagli stessi stati membri, con la possibilità di agire in loro nome.

È infatti necessario fin da subito sottolineare che lo scenario geopolitico che ha visto l’emanazione della Carta delle Nazioni Unite nel 1945 – nel corso della Conferenza di San Francisco – era completamente diverso rispetto all’attuale assetto internazionale per cui da 50 stati membri iniziali dell’organizzazione si è oggi arrivati a un numero di ben 193 paesi. Ciò è principalmente dovuto alla fine di numerosi colonialismi, alla dissoluzione dell’Unione sovietica e al conflitto dell’ex Jugoslavia, tutti fenomeni che hanno contribuito – pur se in modo molto diverso tra loro – alla formazione di nuove entità statali, dotate di una propria sovranità e indipendenza. Se rispetto alla rappresentanza degli stati, formatisi in seguito al venir meno dei colonialismi, si è data risposta nella Carta con l’emendamento che ha visto negli anni Sessanta l’estensione in seno al Consiglio di Sicurezza del numero dei suoi membri non permanenti, non si è invece ancora risolta la vicenda relativa a un ulteriore aumento della rappresentanza nel Consiglio di Sicurezza degli stati del continente africano e asiatico – che rivendicano il primato dell’indice demografico internazionale – e soprattutto quella concernente l’enorme divario, in termini di poteri esercitati in concreto, tra i membri permanenti del Consiglio – ossia le 5 potenze vincitrici la Seconda guerra mondiale quali Urss, Cina, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna e i membri non permanenti, attualmente 10, rispetto ai 6 iniziali – nominati a rotazione tra tutti i membri delle Nazioni Unite ogni biennio – dopo la succitata modifica dell’art. 23 della Carta nel 1965.

Il diritto di veto

La principale questione quindi da affrontare per comprendere meglio le ragioni del mancato intervento diretto del Consiglio di Sicurezza rispetto al conflitto russo-ucraino, dato il suo ruolo di “custode” della pace e della sicurezza internazionale e considerato che esso dall’inizio del conflitto si è riunito oltre venti volte, è quella del diritto di veto. Esso infatti consiste nel potere, conferito ai cinque membri permanenti del Consiglio, secondo il quale l’espressione del parere contrario di uno soltanto di tali stati è in grado di fermare una proposta di risoluzione presentata in seno a tale organo, addirittura nell’ipotesi in cui non solo siano favorevoli tutti i membri non permanenti ma anche qualora siano comunque favorevoli all’adozione della decisione tutti gli altri quattro membri permanenti. L’unica ipotesi nella quale ciò non avviene è quando il Consiglio si riunisce per deliberare in merito a questioni di carattere procedurale e non sostanziale come per esempio l’inserimento all’ordine del giorno di una determinata questione o nell’ipotesi in cui il Consiglio ritenga necessario convocare l’Assemblea generale – organo plenario in cui sono rappresentati tutti gli stati membri –  in “sessione speciale” (art. 20) – che, come vedremo, è accaduto diverse volte in conseguenza dell’invasione russa dell’Ucraina nel 2022.

È bene ricordare che tale richiesta non veniva avanzata dal Consiglio da circa 40 anni.

Infatti, il periodo emblematico durante il quale l’attività del Consiglio fu quasi del tutto immobilizzata fu quello della Guerra Fredda, per cui spesso – essendo Russia e Stati Uniti entrambi membri permanenti – si verificava il cosiddetto sistema dei “veti incrociati” mediante il quale i paesi del blocco occidentale (Usa, Francia e Gran Bretagna) si contrapponevano all’allora Unione Sovietica o più in generale ai paesi socialisti e viceversa. Vale la pena quindi ricordare che attualmente – considerato l’aumento dei membri non permanenti dopo un ventennio dall’emanazione della Carta – la maggioranza richiesta affinché venga adottata una delibera su aspetti di carattere sostanziale in seno al Consiglio è quella di almeno nove membri, compresi tutti e cinque i membri permanenti. Nel caso invece di una delibera riguardante questioni di carattere procedurale è sufficiente la maggioranza di nove membri, senza la necessità dell’unanimità dei membri permanenti del Consiglio, poiché il diritto di veto in quest’ultima ipotesi non opera. Quindi in primo luogo il Consiglio di Sicurezza dell’Onu – la cui presidenza di turno è stata assunta dal primo aprile 2023 proprio dalla Federazione Russa – non riesce a intervenire con effetti diretti nel conflitto russo-ucraino proprio per il diritto di veto. Al riguardo si rammenta che l’unica proposta di risoluzione del Consiglio di Sicurezza, rispetto al conflitto in questione, ad essere stata adottata – dall’inizio del conflitto – è quella del 6 maggio del 2022.

La minaccia alla pace

La risoluzione è stata approvata all’unanimità da tutti i membri del Consiglio di Sicurezza e quindi con il voto favorevole anche della Russia. Con la succitata risoluzione proposta da Norvegia e Messico si sostengono gli sforzi del Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres a trovare una soluzione pacifica nelle circostanze in questione;

tuttavia rispetto a tale risoluzione la Russia non ha posto il veto in quanto è l’unica risoluzione presentata dinanzi al Consiglio nella quale non vi è alcun riferimento nel testo né alla parola “guerra” né alla parola “invasione”.

L’esercizio del diritto di veto comporta poi anche una serie di conseguenze come per esempio il fatto che la Federazione Russa non possa essere destinataria delle misure coercitive ex art. 41 e  42 della Carta (Capitolo VII) decise appunto dal Consiglio contro determinati stati nell’ipotesi in cui esso stesso rileva sussistere una «minaccia alla pace», una «violazione della pace» o ancora un «atto di aggressione» (art. 39), ossia quelle condotte che potrebbero dirsi integrate con l’invasione armata dell’Ucraina da parte della Federazione Russa. Vale la pena ricordare che quando il Consiglio ha voluto applicare le sanzioni di cui al Capitolo VII ha sempre richiamato la «minaccia alla pace» che può consistere in un conflitto attuato o minacciato in situazioni di violenza bellica o diverse da questa.

Definire l’“aggressione”

Rispetto all’individuazione di queste ultime il Consiglio di sicurezza può trarre indicazioni dalle risoluzioni dell’Assemblea generale e quindi più precisamente dal consenso informale degli stati che viene valutato dal Consiglio caso per caso. Nel corso della storia il Consiglio di Sicurezza ha ritenuto rientranti nel concetto di “minaccia alla pace”: la repressione irachena dei curdi nel 1991, il genocidio e l’uccisione di civili in Ruanda nel 1994, gli attentati terroristici avvenuti a Istanbul nel 2003, quelli di Madrid nel 2004 e quelli di Londra e in Iraq nel 2005, così come le violazioni gravi e sistemiche dei diritti umani e del diritto internazionale nel Kosovo nel 1999. La minaccia alla pace non deve confondersi con la «minaccia o dell’uso della forza» vietate dall’art. 2 par. 4 in modo del tutto generico e indeterminato. Per violazione della pace ex art. 39, invece, si intende un conflitto interno o internazionale già in atto, anche nel caso in cui non sia stato raggiunto il livello più grave di aggressione. Infine, per la definizione di aggressione deve essere richiamata la risoluzione dell’Assemblea generale n. 3314 del 1974 che in tale termine ha annoverato un ampio numero di casi come l’invasione, l’occupazione militare, il bombardamento da parte di forze terrestri o navali, il blocco dei porti e delle coste o l’invio di forze irregolari o di mercenari da parte di uno stato verso l’altro.

È interessante però rilevare che il Consiglio di Sicurezza dal 1945 a oggi non ha mai dichiarato il compimento di un atto di aggressione ex art. 39, ma ha sempre preferito parlare di “violazione della pace” anche nelle ipotesi nelle quali si è verificato un vero e proprio atto di aggressione come nel caso dell’invasione del Kuwait nel 1991. Con il termine “pace” si intende poi in via interpretativa sia l’assenza di conflitti di caratteri interstatali o interni sia l’insieme di circostanze politiche, sociali ed economiche che impediscono l’insorgere di conflitti futuri. Quanto sovraesposto è di particolare rilevanza se si considera che il conflitto russo-ucraino sembrerebbe integrare –  con riferimento all’elenco contenuto nella succitata risoluzione n. 3314 del 1974 – un atto di aggressione.

Misure coercitive (prive di uso della forza)

Con riferimento alle misure coercitive di cui sopra, all’art. 41 sono previste quelle non implicanti l’uso della forza – adottate dal Consiglio di Sicurezza mediante decisioni – che tendono per lo più a isolare a livello internazionale un paese che ha posto in essere una condotta rilevante ai sensi dell’art. 39. Tra le misure di cui all’art. 41 si annoverano, infatti, l’interdizione parziale e totale delle relazioni economiche, l’interdizione delle comunicazioni come per esempio quelle ferroviarie, postali e marittime e la rottura delle relazioni diplomatiche. Si ricorda che tali misure, come quelle implicanti l’uso della forza nei confronti degli stati – di cui al successivo art. 42 – devono essere rispettate non solo dal paese che ne è diretto destinatario ma anche dagli altri stati membri delle Nazioni Unite ai sensi dell’art. 25.

L’uso della forza

Le misure implicanti l’uso della forza ex art. 42, invece, vengono decise mediante delibere operative del Consiglio di Sicurezza che mantiene anche la direzione di tali provvedimenti quando vengono attuati in concreto. Tuttavia, va fin da ora precisato che il sistema di sicurezza collettivo internazionale che si sarebbe dovuto basare sull’affidamento da parte degli stati dell’impiego della forza armata al Consiglio di Sicurezza, ossia a un organismo imparziale – per tutte le questioni riguardanti la pace e la sicurezza internazionale – ha subìto un vero e persistente fallimento. Basti pensare che le disposizioni di cui agli artt. 43 e seguenti – che tra i vari obblighi prevedono quello per gli stati membri di stipulare accordi con il Consiglio di Sicurezza per concordare il numero di uomini, il grado e la dislocazione di contingenti che ciascun paese deve mettere a disposizione dell’organo – sono rimasti “lettera morta” poiché non è stato mai creato un corpo militare univoco composto dai vari contingenti nazionali dei Paesi membri che facesse capo al Consiglio di Sicurezza. È per tale ragione infatti che sono nate e si sono consolidate le missioni di peace-keeping e le autorizzazioni all’uso della forza da parte del Consiglio agli stati membri: entrambe le ipotesi non sono previste da alcun articolo della Carta ma create da consuetudini integrative della medesima. Qualora non vi fosse il diritto di veto, dunque, le misure coercitive previste dall’art. 42, ossia misure implicanti l’uso della forza, adottate dal Consiglio mediante risoluzioni, potrebbero essere applicate in linea di principio – come anche quelle ex art. 41 – nei confronti della Federazione Russa. Infatti, con riferimento alla minaccia alla pace – intesa come violenza bellica – l’unica ipotesi nella quale le misure coercitive di cui sopra non possono essere applicate è quando uno stato agisce per legittima difesa individuale o collettiva ex art. 51.

Tuttavia, perché tale limite all’applicazione delle misure coercitive operi è necessario che l’attacco armato da parte di un altro stato sia già sferrato o in procinto di colpire un obiettivo. Per tale ragione è escluso l’impiego della forza per fini meramente preventivi.

Non è infatti un caso che nel discorso divulgato nella notte tra il 23 e il 24 febbraio del 2022 il presidente del Cremlino Putin dichiari primariamente: «non c’è stata lasciata altra scelta che difendere la Russia e il nostro popolo se non quella che stiamo oggi per compiere. In queste circostanze dobbiamo immediatamente e con coraggio entrare in azione» e dichiara che in tale contesto si stia agendo «in conformità con l’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite». In realtà il presidente russo quando richiama la necessità di difendere la Russia e il suo popolo fa riferimento indirettamente all’espansione della Nato verso est ossia sempre più in prossimità al territorio della Federazione Russa, circostanza questa che delinea il proprio intervento armato come squisitamente preventivo.

Legittima difesa?

È noto tuttavia che non sia questa l’unica circostanza nella storia nella quale uno stato membro abbia richiamato esplicitamente la legittima difesa per giustificare un uso della forza militare in chiave preventiva. Si ricordi tra tutti il caso della sentenza emanata dalla Corte di Giustizia delle Nazioni Unite del 1986 contro gli Stati Uniti per le operazioni militari in Nicaragua, affermando che queste eccedessero notevolmente la legittima difesa. Più recentemente non sono chiaramente ascrivibili all’esercizio del diritto di difesa degli stati di cui all’art. 51: la guerra contro l’Afghanistan nel 2001, il bombardamento della Libia nel 1986, la guerra contro l’Iraq nel 2003 e il bombardamento della Nato (organismo regionale i cui rapporti con il Consiglio di Sicurezza – come vedremo – sono disciplinati nel Capo VIII) contro la Repubblica dell’ex Jugoslavia durante la crisi del Kosovo nel 1999. Tuttavia, il Capo del Cremlino nella parte iniziale del suo discorso – evidentemente orchestrato ad hoc – fa un riferimento indiretto anche a quella parte dell’art. 51 che consente non solo la difesa da parte dello stato attaccato (autotutela individuale) ma anche quello operato da stati diversi da quello attaccato (autotutela collettiva) purché con il consenso di quest’ultimo. Tale richiamo a questa ulteriore parte dell’art. 51 viene esplicitata nella frase in cui il presidente della Federazione Russa sostiene che «Le Repubbliche popolari del Donbass hanno chiesto l’aiuto della Russia». Le Repubbliche popolari del Donbass, però, non hanno i caratteri propri degli stati nazionali, dotati di una propria sovranità e indipendenza, facendo essi parte a pieno titolo del territorio dell’Ucraina. Al riguardo è importante richiamare la risoluzione presentata a settembre del 2022 dagli Stati Uniti e dall’Albania in seno al Consiglio di Sicurezza di condanna dei referendum voluti dal Cremlino per l’annessione delle aree ad est dell’Ucraina in particolare delle repubbliche Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia, Kherson. La risoluzione ovviamente non è stata adottata proprio in ragione del veto della Russia e rispetto a essa si sono registrati 10 voti a favore ma 4 astenuti ossia Cina, India, Brasile e Gabon che hanno dichiarato di non voler inasprire ulteriormente la tensione internazionale.

Le risoluzioni pacifiche

Per completezza si ricorda che il Consiglio di Sicurezza sempre ex Capo VII e quindi in caso di minaccia o violazione della pace o aggressione (ex art. 39) può anche adottare «congiuntamente o alternativamente» alle misure coercitive, raccomandazioni non vincolanti con le quali indica agli stati interessati procedure e termini di regolamento quali: i negoziati, la mediazione, l’arbitrato e la conciliazione per la risoluzione delle controversie tra gli stati membri. Vale la pena ricordare che tali raccomandazioni ex art. 39 del Capo VII sono simili a quelle che il Consiglio emana ex Capo VI concernente la funzione conciliativa dell’organo, volta a una risoluzione pacifica di questioni o controversie che siano in grado di «mettere in pericolo il mantenimento della pace e la sicurezza internazionale» (artt. 33, 36, 37) e che quindi non integrano chiaramente le minacce o le violazioni della pace o gli atti di aggressione di cui all’art. 39. Nelle ipotesi del Capo VI infatti, il Consiglio ha il potere di adottare – dato in questo caso l’obiettivo della risoluzione pacifica – raccomandazioni sempre prive di forza vincolante rivolte agli stati interessati. Tuttavia, se il Consiglio di Sicurezza nell’adottare le misure previste dal Capo VII – ivi comprese le stesse  raccomandazioni – agisce come “protagonista” a livello decisionale contro determinati stati e anche tutti gli altri – diversi da quelli destinatari delle misure – sono obbligati a collaborare perché queste siano efficaci, nel Capo VI sono soltanto gli stati membri destinatari delle raccomandazioni i veri, protagonisti, in quanto hanno l’esclusiva possibilità di tramutare la forza propulsiva di tali atti del Consiglio in azioni che possano considerarsi in concreto risolutive rispetto alla controversia o alla situazione in questione.

Tale distinzione tra le due funzioni del Consiglio – coercitiva e conciliativa – è rilevante in particolar modo con riferimento all’obbligo di astensione dal voto di uno stato previsto dall’art. 27 par. 3. Esso opera infatti soltanto nei confronti di uno stato membro del Consiglio di Sicurezza parte di una controversia relativa a decisioni di cui al Capo VI e non anche nel caso delle decisioni concernenti le misure coercitive del Consiglio di Sicurezza. Inoltre, l’apposizione del veto – comportando l’impossibilità di comminare per la Russia misure coercitive – determina come conseguenza anche quella di non poter essere destinataria di una sospensione dallo status di paese membro delle Nazioni Unite in quanto all’art. 5 della Carta è stabilito che «lo stato membro verso il quale il Consiglio abbia intrapreso un’azione punitiva o coercitiva può essere sospeso dall’esercizio di tutti i diritti e privilegi in seno all’Organizzazione con un’apposita delibera dell’Assemblea generale su proposta del Consiglio di Sicurezza».

Nel caso della Russia quindi non sarebbe possibile la sospensione, oltre per l’inapplicabilità delle misure coercitive, anche per il fatto che la stessa dovrebbe appunto essere proposta dal Consiglio di Sicurezza e la Russia quindi potrebbe apporre di nuovo il veto.

L’eccezione

A ogni modo l’unico caso in cui una Nazione sia stata sospesa come membro delle Nazioni Unite è quello del Sudafrica in ragione dell’Apartheid dal 1974 al 1994 ma fu una sospensione “anomala”, in quanto intervenne direttamente ed esclusivamente da una decisione dell’Assemblea generale senza la proposta del Consiglio di Sicurezza prevista dall’art. 5.  Rispetto all’espulsione di uno stato membro, prevista dal successivo articolo 6, nell’ipotesi in cui uno stato violi persistentemente la Carta, rileva la stessa preclusione in quanto la procedura prevista anche in questo caso prevede come presupposto della delibera dell’Assemblea Generale la richiesta del Consiglio di Sicurezza. Vi è da dire inoltre che tale norma dall’emanazione della Carta non ha mai trovato applicazione nei confronti di uno stato membro delle Nazioni Unite. Date le succitate preclusioni si è riaperto quindi il dibattito – in realtà mai sopito e iniziato nel 1990 – sulla possibilità della revisione della Carta delle Nazioni Unite prevista dall’art. 109.

Essa differisce dal semplice emendamento della Carta, di cui all’art. 108 – mediante il quale nel 1965 è stato aumentato il numero dei membri non permanenti – perché configura modifiche che incidono sensibilmente sulle caratteristiche dell’Organizzazione. Tuttavia, la procedura prevista dagli articoli 108 e 109 della Carta, anche se differente, in entrambi i casi non può essere portata a termine se non con il consenso di tutti e cinque i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

Quindi per risolvere le questioni analizzate si dovrebbe ipotizzare una revisione della Carta che restringesse l’ambito operativo del diritto di veto dei membri permanenti – come quella proposta in passato dalla Francia – secondo la quale il diritto di veto dovrebbe essere limitato in presenza di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e crimini relativi alla violazione dei diritti umani.

Con onestà è lecito affermare che risulta molto difficile che i membri permanenti – senza l’unanime consenso dei quali non vi può essere né revisione né emendamento della Carta – rinuncino ai privilegi derivanti dal diritto di veto a loro riservato. Tale eventualità si considera quasi impossibile poi data l’attuale posizione della Russia nel pieno di un conflitto internazionale e quella delle Nazioni del “blocco occidentale del Consiglio di Sicurezza” che sostengono l’Ucraina. Tutto ciò premesso rimane quindi soltanto la possibilità di monitorare costantemente i lavori dell’Assemblea generale, sia per il fatto che essa stessa è stata convocata, in conseguenza della paralisi derivante dal diritto di veto, in sessione speciale dal Consiglio più volte (considerata anche la risoluzione dell’Assemblea generale n. 377 del 1950 che verrà analizzata in seguito) sia perché resta pur sempre l’Organo nel quale sono rappresentati tutti i paesi facenti parte dell’Onu, anche se in ambito del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale può emanare solo raccomandazioni verso gli stati, verso il Consiglio di Sicurezza o verso entrambi, prive di forza vincolante.

Ne consegue infatti che dalle raccomandazioni dell’Assemblea generale si riesce a desumere in quale direzione vada la posizione dei singoli stati membri rispetto a un conflitto che, essendo ancora così lungo e foriero di continue esacerbazioni, può vedere il cambiamento radicale della loro posizione rispetto a quest’ultimo considerato che – come vedremo in seguito, analizzando le decisioni dell’Assemblea generale sul tema – al momento non si intravede ancora l’unanime condanna della comunità internazionale dell’invasione del territorio ucraino da parte della Russia.

L'articolo n. 1 – Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e il conflitto russo-ucraino proviene da OGzero.

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La vita in codice https://ogzero.org/la-vita-in-codice/ Sun, 02 Apr 2023 21:32:17 +0000 https://ogzero.org/?p=10575 ChatGPT  (Generative Pretrained Transformer di OpenAI) viene sospeso dal garante il 31 marzo 2023; in precedenza Elon Musk, ma soprattutto ingegneri ed esperti di Intelligenza Artificiale, avevano chiesto una moratoria della ricerca e dell’interazione con sistemi informatici che si programmano per autoapprendimento. Si profilano scenari da Blade Runner in mezzo ai soliti lanci di allarmi […]

L'articolo La vita in codice proviene da OGzero.

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ChatGPT  (Generative Pretrained Transformer di OpenAI) viene sospeso dal garante il 31 marzo 2023; in precedenza Elon Musk, ma soprattutto ingegneri ed esperti di Intelligenza Artificiale, avevano chiesto una moratoria della ricerca e dell’interazione con sistemi informatici che si programmano per autoapprendimento. Si profilano scenari da Blade Runner in mezzo ai soliti lanci di allarmi – spesso interessati (come nel caso di prodotti open source) –, e forse di quel film di Ridley Scott vengono a riproporsi piuttosto le figure inquiete di demiurghi alla Eldon Tyrell, contro cui le sue Creature “replicanti” si ribellano; certo che le proposte creative delle performance dell’Intelligenza Artificiale non offrono particolari guizzi geniali (dove forse si trovano a essere messi in gioco “concatenamenti” frutto di elaborazioni del pensiero personale), ma si riducono a compitini, a vacue accozzaglie di banalità… che possono essere confusi con brani o creazioni artistiche solo per la superficialità della maggioranza delle pubblicazioni culturali che ottengono successo solo grazie all’abbassamento del livello dell’elaborazione dei prodotti di ingegno della società – almeno quella italiana, narcotizzata da tutti gli organi di informazione e lo smantellamento di tutte le sedi preposte a istruire e diffondere erudizione. E il garantismo insito nella democrazia sconterà sempre un gap rispetto alle ricette superficiali ma repentine della tecnologia, non riuscendo a imbrigliare la sua pericolosità.
L’esatto opposto delle basi di questo intervento tanto creativo quanto colto e informato di Claudio Canal in bilico sul crinale tra Dna e tecnologia, tra le informazioni genetiche e quelle culturali; tra umanesimo, transumanesimo, postumanesimo, inumanesimo… mettendo in relazione i neuroni a disposizione del cervello umano dotato di sinapsi ben più avanzate degli algoritmi, in grado di replicare solo canovacci stantii e banali.

fin qui OGzero, ora le argomentazioni provenienti dalle sinapsi di Claudio Canal


De Sossiri – C’è un’aria tagliente oggi o solo io la sento?

Casnov – Non sbaglia, caro collega, infatti sono qui per fare il solito ritaglio, ma non vedo la cara Ribonu. Senza di lei come ci arrivo?

Ribonu – Scusate, ero sovrappensiero. Direi: Crìspalo, crìspalo adesso!

Si sente come un colpo di forbici grandi: Zac!

Shakespeare, Measure for Measure, Atto II, scena 1° [rivista]


L’agente CRISPR sfida la lotta per la vita sul pianeta.
Geopolitica della geogenomica

Qual è il ballo preferito dal Dna? Il tango, la mazurka o una balsamica zumba? Neanche per idea, Dna ama le marcette veloci nei rigorosi due/quattro tempi. L’hanno dimostrato molti laboratori che si sono applicati  alla sua sonificazione. Non metterei la mano sul fuoco sulla sostanza scientifica di certe applicazioni. C’è chi, al MIT di Boston, trascrive le vibrazioni sonore delle Variazioni Goldberg di J.S.Bach  in architetture di nuove proteine e, per quanto posso capire io, non mi sembra una baggianata. Scriveva Leonardo: Non sai tu che la nostra anima è composta di armonia? [Trattato della pittura, I/23: “Risposta del re Mattia ad un poeta che gareggiava con un pittore”].

Mattonelle del Castello di Buda di Mattia Corvino

Si può dunque ascoltare il Dna? Gli manca solo la parola, anche se possiede un alfabeto piccolo piccolo di quattro lettere con cui codifica ogni vivente e non solo (virus). Un cuoco con pochi ingredienti che cucina la vita.

Dna, in arte Acido Disossiribonucleico, ha dovuto aspettare non poco per essere scoperto e raccontarci con eleganza di che pasta siamo fatti. Da quando la sfortunata Rosalind Franklin ha mostrato la foto 51, i serpentelli in amore, la doppia elica danzante è entrata nel nostro immaginario tanto che è diventato luogo comune un po’ abusato dichiarare di avere questo o quello nel proprio Dna anche o soprattutto quando non è vero niente.

Era il maggio freddoloso del 1952, al King’s College di Londra la foto n. 51 veniva di fatto scippata dalle mani di Rosalind e iniziava la sua avventura sul palcoscenico della scienza. Sei anni dopo la scienziata sarebbe morta, trentaduenne. Ignota ai più.

Rosalind Franklon “osserva” la foto n. 51

 

Radici biotecnologiche

Lo sposalizio tra bio e tecnologie non risuona rassicurante, come succede invece al mistico bio prefisso a diversità, agricoltura, cibo, etica, architettura
Anche il Dna è dondolo, suscita a getto continuo speranze e paure, sogni e incubi. Nel 2002 l’editore Laterza pubblicava Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza [originale del 2000] di Richard Lewontin, noto biologo e genetista statunitense, deceduto nel 2021. Nella quarta di copertina si poteva leggere:

«Una volta che avremo a disposizione la mappa completa dei nostri geni, saremo in grado di predire lo sviluppo del nostro corpo, delle malattie, della nostra personalità? Comprenderemo meglio le relazioni sociali? Saremo capaci di creare la vita stessa? Da Darwin alla pecora Dolly, inclusi il determinismo biologico, le eredità della selezione naturale, la psicologia evolutiva, le indagini sociologiche sulle abitudini sessuali, la clonazione e il progetto Genoma umano: le critiche di Lewontin sferzano una falsa scienza e si abbattono sull’eccessivo orgoglio di quanti pretendono di dominare, oggi o in un futuro molto vicino, tutti i segreti della vita».

Domande e risposte buttate lì per promuovere un libro, ma non campate in aria. Dopo vent’anni ci è abbastanza chiaro.

Le Biotecnologie si prenderebbero la testa fra le mani se dovessero fornire una definizione di se stesse. Fare formaggio o yogurt è una biotecnologia. Anche il trapianto di fegato o di cuore lo è. Hanno a che fare con ciò che chiamiamo vita e, in certi casi, Vita, in rigoroso maiuscolo. Un campo di ricerca e applicazione in espansione accelerata che si scinde in subsegmenti di subsegmenti. Come la vita, d’altra parte, in cui bíos – la vita individuale e sociale – e zoé  – la vita biologica – si intersecano, si azzuffano e alla fine sembrano scambiarsi i ruoli.

«Io avrei affrontato in me stessa un grado di vita così primario da essere prossimo all’anonimato» (Clarice Lispector, La passione secondo G.H., La Rosa, Torino, 1982, pag. 17).

Per scrutare il Dna era stata concepita negli anni Ottanta del Novecento la Genomica, essendo la Genetica troppo generalista. Al suo fianco la bioinformatica per la eccezionale quantità di dati da trattare. Ne segue una esaltazione classificatoria che si diffonde nei laboratori e la genomica viene sottoposta a una “divisione cellulare” da cui si generano tecnoscienze che sbandierano la desinenza omics: proteomica, metabolomica, epigenomica, trascrittomica, lipidomicaignoroma.

da “Nature Reviews Gastroenterology & Hepatology”

Sembra una c.omica [nessuna parentela etimologica…] l’ingorgo di sentieri di ricerca da febbre dell’oro, dove l’oro è il processo che da qualche miliardo di anni guida il regno della vita e i suoi rituali cellulari. La discesa nel Dna e nei suoi infiniti brusii e moti primari si combina con l’esuberante potenza degli algoritmi. Questo accoppiamento postnovecentesco sollecita aspettative e promesse che nessuno sa se saranno mantenute, tradite o deviate. Mettere le mani sul codice della vita e manipolarlo con o senza secondi fini è l’ampio orizzonte entro cui si muove la genomica e la sua rigogliosa prole – da Joshua Lederberg, ‘Ome Sweet ‘Omics– A Genealogical Treasury of Words  (“The Scientist”, aprile 2001), a Separation Techniques Applied to Omics Sciences. From Principles to Relevant Applications, a cura di Ana Valéria Colnaghi Simionato (Springer, 2021); Wikipedia alla voce List of Omics Topics in Biology ne elenca, per ora, 45. La sesta edizione di 1520 pagine di un trattato universitario Biologia Molecolare della Cellula (traduzione Zanichelli di un’opera collettiva statunitense nota come “l’Alberts”), prevede per ognuno dei 24 capitoli un esteso paragrafo finale Quello che non sappiamo, che, a seconda dell’ottica con cui lo leggiamo, può essere di conforto o di disperazione.
Potremmo chiamarlo un hackeraggio del Dna.

Dispositivo CRISPR

Questo affanno epistemologico ha subìto un ulteriore stress quando una sigla tra le tante che fluttuano nel mare delle scienze ha cominciato a farsi notare:
Crispr. Si scioglie così: Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats che alla lettera si può tradurre Brevi ripetizioni palindrome raggruppate e separate in modo regolare, ancora meno comprensibile dell’originale. Provo: sequenze ripetute di Dna impiegate dai batteri come un vero e proprio sistema immunitario di protezione da acidi nucleici provenienti da altri batteri o da virus.
Venticinque anni di ricerca di base per capire che la sequenza Crispr è uno “schedario” dei Dna dei virus e batteri che in passato avevano sferrato attacchi ai batteri sotto osservazione. Lo “schedario” permette di riconoscere eventuali nuove incursioni e neutralizzarle con una proteina Cas9 [Crispr associated] adibita al taglio del Dna del virus o batterio invasore. Una specie di video gioco in cui, zak!,  non bisogna sbagliare il taglio del cordino infinitesimo che è minaccia.
La mia blasfema sintesi per dire che Crispr-Cas9 è un dispositivo che appartiene agli esseri viventi, perfetti sudditi della natura, come scriveva Giacomo di Recanati.

Nel 2012 due ricercatrici, Jennifer Doudna ed Emmanuelle Charpentier, precedute da una marea di studiosi e dall’attenta analisi della fermentazione del formaggio (e dello yogurt), si rendono conto che il congegno di taglia e incolla praticato dai batteri può essere con una certa facilità riprodotto da esseri umani dotati di intelligenza e di competenza adatte, senza dover spolpare i bilanci di super Stati, come succede ad esempio per l’energia atomica.
In sostanza, Crispr-Cas9 è un insieme di tecniche che permettono di localizzare una sequenza nel Dna di una cellula, rimuoverla, modificarla o sostituirla con una qualsiasi altra sequenza.

 

Si prende il meccanismo in prestito dai batteri e lo si trasforma in una tecnologia di intervento sulla vita. Cioè un prodotto ovvero una merce. Alla genomica vengono improvvisamente i capelli bianchi. Un invecchiamento folgorante. Era infatti concentrata sulla lettura del genoma, mentre si tratta a questo punto non solo di trascrivere-editing il Dna dei viventi [umani e non umani], ma di ricomporlo. Compito della biologia sintetica. Non più una interpretazione del reale, una teoria dell’esistente, ma – citando Bernanr Stiegler da un libro del 2008 (Ėconomie de l’hypermatériel et psychopouvoir-Entretiens avec Philippe Petit et Vincent Bontems) una teoria del possibile, una tecnoscienza che fa avvenire ciò che diviene. E Edward Bryan fornisce pure la prova dei mercati finanziari che scommettono sulla biologia sintetica in un dossier pubblicato nel febbraio 2022 per AllianceBernstein, La rivoluzione della biologia sintetica-Investire nella scienza della sostenibilità

Parte la maratona: migliaia di laboratori si mettono febbricitanti al lavoro, Nobel per la chimica 2020 alle due scienziate. Si può modificare il Dna dei viventi, con discreta facilità, precisione mai vista prima, relativa poca spesa. Sogni, chimere, castelli in aria. Si può guidare l’evoluzione umana, anzi, dei viventi tutti, proclama orgogliosamente la tecnoscienza asserendo, forse a sua insaputa, la materialità della vita e la sua universalità. Non noi e loro, ma solo noi viventi, di qualsiasi specie.

Questa interferenza suscita immediatamente due campi contrapposti:

  1. l’umanità ha una configurazione fissa che deve essere conservata. Guai a chi…! Sugli altri viventi – animali e piante – possiamo intenderci.
  2. l’essenza umana, se c’è, è flessibile e modificabile. In evoluzione, appunto.

Opposte categorie: umanesimo, transumanesimo, postumanesimo, inumanesimo

C’è, mimetizzato da qualche parte, un fronte neo hitleriano? Comunque la si voglia mettere, con CRISPR la biopolitica ha la sua celebrazione solenne. Un potere sulla vita, diretto, allo stato puro, drastico. Vita come campo di battaglia.

Il tumultuoso ginepraio di tecniche Crispr si traduce in migliaia di brevetti con le relative applicazioni industrial-commerciali, che manifestano una tendenza a crisperizzare presente e futuro. In simultanea si alzano grida di allarme: non tutto è innocente e benefico, si documentano danni irreparabili al genoma o esiti cancerosi. Crispr arma di distruzione di massa o elisir di vita nova? Il Nuovo Mondo è veramente brave new world?

Geopolitica

Il 26 novembre 2018 un sorridente biofisico annuncia  che sono nate due bambine a cui in fase embrionale ha modificato il Dna con tecnica CRISPR per renderle immuni all’HIV [AIDS]. Scalpore mondiale. Designer babies. Dopo un po’ il suo governo lo arresta e condanna a tre anni di carcere (non è chiaro in seguito a quale violazione di legge). Il biofisico si chiama He Jankui. Il governo è quello cinese. Lulù e Nana, le due bambine, sembra che non ne abbiano tratto vantaggio, anzi. E se un giorno He Jankui ricevesse il Nobel?
La biopolitica in forma di tecnoscienza inciampa così nella geopolitica. Il momento non è magico. Il Maestro del Mondo tentenna molto nella sua signoria. La splendida solitudine praticata dal 1989 viene poco alla volta rosicchiata dall’esterno e anche dall’interno. Siamo in un’epoca di ridefinizione dei rapporti di potenza e l’ex Contadino Arrabbiato dell’Estremo Oriente contende al Signore del Mondo la sua prerogativa. I due, Cina e Stati Uniti, sono molto interdipendenti economicamente (Global Times), non possono brutalmente disaccoppiarsi, decoupling come dicono gli addetti ai lavori. Il loro divorzio va per le lunghe, la loro separazione non consensuale procede un po’ alla volta e si realizza per ora sul piano della tecnologia, facilitando, di rimbalzo, il coupling, l’accoppiamento Cina/Russia. Sullo sfondo una guerra fredda che si intiepidisce e potrebbe anche diventare calda, se si presta attenzione alla nube che appanna Taiwan.

Il sistema mondo ha bisogno di un rimaneggiamento

Scriveva Giovanni Arrighi: «Uno stato dominante esercita una funzione egemonica se guida il sistema degli stati in una direzione desiderata e, nel far questo, è percepito come se perseguisse un interesse generale» (Il lungo XX secolo – Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, 2014, pag. 51)

Ecco, quest’ultima condizione per gli Stati Uniti non è più riconosciuta da buona parte del pianeta, esclusi governi italiani e consanguinei. Neppure la Cina sprigiona affabilità, nonostante i suoi rilevanti tentativi, la Belt Road Initiative – la nuova Via della Seta –, la fattiva presenza in Africa e in buona parte dell’Asia [ed Europa…], il suo prendere le distanze dal cosiddetto Occidente.  Dalla sua ha una straripante popolazione, in tendenziale decrescita, una coesione sociale imposta dall’alto che funziona epperò scricchiola, una crescita economica travolgente e tuttavia oggi in affanno, una capacità quasi unica di mobilitare menti e intelligenze e non solo corpi.
Anche la Cina deve prendere atto che conta molto la geo, la terra e non solo la politica. Geopolitica. La spaventosa siccità dei mesi estivi del 2022 e la conseguente drastica riduzione del motore dello sviluppo, la banale acqua, hanno messo in graticola popolazione e apparati, piani quinquennali e sviluppo. È indispensabile scongiurare una guerra con la Cina, ma altrettanto lo è esorcizzare una frenata della macchina produttiva cinese, a cui siamo ancora meno preparati.

Il lago Poyang nel tratto di Jinxian il 21 agosto 2022

I due contendenti intitolano il conflitto sulle nuove tecnologie alla propria “sicurezza nazionale” che inevitabilmente genera una spirale di insicurezza reciproca. I due governi sanno che il controllo delle nuove tecnologie emergenti determinerà il successo nel XXI secolo. Il vincitore di questa corsa sarà quello in posizione per guidare l’economia globale e godere dell’influenza e del potere che ne derivano.
Il primato degli Stati Uniti nelle scienze della vita e nelle biotecnologie è indiscutibile. Tuttavia è bene ricordare che fu sì l’URSS la prima a conquistare i cieli con lo Sputnik 1, ma a mettere per primo il piede sulla luna fu Neil Armstrong dell’Ohio. Come allora si tratta non di emulazione, ma di rivalità che negli ultimi tempi ha fatto a pezzi la feconda e significativa cooperazione che intercorreva tra i due. Il panico per le conquiste cinesi nell’intelligenza artificiale si è esteso anche alle biotecnologie (Il “balzo in avanti” nella ricerca scientifica compiuto dalla Cina non ha uguali: Qingnan Xie, Richard B. Freeman, Bigger Than You Thought: China’s Contribution to Scientific Publications and Its Impact on the Global Economy, “China & World Economy”, 2019, 27), con diverse drastiche iniziative di chiusura. Ma il settore biotecnologico è diverso da altri (per esempio quello dei semiconduttori), in particolare l’editing genomico è per sua natura transnazionale e a evoluzione rapidissima (Eric.S.Lander, The Heroes of Crispr, in Cell, 164, 1-2, 2016 la mappa n. 2). C’è rischio che la politica degli Stati Uniti si dia la zappa sui piedi.

Contro Usa contro Cina contro

Due decenni fa gli analisti pensavano che la Cina non avrebbe potuto diventare un gigante economico per l’eccessiva popolazione e per un reddito annuo pro capite pari a quello delle Filippine. Poi, nel decennio successivo, sarebbe invalsa l’abitudine di proclamare che sì, la Cina è economicamente gigantesca, ma tutto si basa sull’abilità di copiare i prodotti delle economie avanzate, non sull’innovazione, la quale ha bisogno di una società libera, di pensatori liberi e indipendenti, non sotto la cappa autoritaria di un regime centralizzatore… I sinologi più avvertiti davano un nome a questa abilità di riprodurre, Shanzhai, un neologismo riferito alla tecnologia che significa contraffatto, imitato. Per noi occidentali un termine spregiativo. Vuoi mettere la romantica creatività dell’individuo in cui si accende per miracolo la lampadina della ispirazione nella sua feconda testa e da cui a cascata poi piovono soluzioni scientifiche, prodotti, sinfonie, poemi. I cinesi in genere, soprattutto se giovani, interpretano Shanzhai come la capacità di incrementare, di migliorare, di far evolvere un quid già esistente. Per dirla in musica, variazioni su un tema.

Epistemologia caotica

Quatto quatto arriva il futuro nel nostro presente e si scopre, soprattutto gli Stati Uniti scoprono, che la Cina è diventata concorrente di livello, anzi competitor, che in effetti dà più l’idea, in questi settori chiave delle nuove tecnologie:

– intelligenza artificiale,
– telefonia di 5° generazione [5G]
– semiconduttori,
– QIS Quantum Information Science [meccanica quantistica applicata all’informazione computazionale]
– biotecnologie,
– energia green.

E non le nanotecnologie, la robotica, le scienze dei materiali, le neuroscienze, il metaverso ecc.? Va bene qualsiasi altro elenco che frulli digitale in mousse con qualcos’altro. È la famosa chaos-epistemology, da non intendersi come epistemologia del caos, il quale abbonda nella realtà, quanto proprio una epistemologia caotica, che non si preoccupa di conoscere, ma di agitare i sogni e i sonni. Lo fa gridando al lupo, al lupo e buttando sul piatto miliardi di dollari per rincorrere, sorpassare, lasciare indietro la Cina.

Se poi il presidente della medesima candidamente dichiara: Noi abbiamo afferrato ben bene lo scopo strategico di costruire un potere scientifico e tecnologico di livello mondiale… e sforzarci per essere i primi nei settori base e in quelli di frontiera non c’è scampo alla costernazione occidentale.

Il paradigma è cambiato. Se la Cina prima era il colosso dai soliti piedi di argilla, adesso è la minaccia da sconfiggere. Con ogni mezzo.

L’analogico senziente

Dentro gli stravolgimenti paradigmatici si sente un rumorino: è l’analogico che avanza, che torna da protagonista sulla scena. È doloroso che sia la guerra a ricordarcelo in mezzo alla nostra infatuazione per il digitale, il virtuale e le tecnologie che se ne nutrono. Bombardamenti, torture, stupri, devastazione, morte, dice la guerra. La vita dice: troppo caldo, troppo freddo, troppa acqua, troppo poca. Bellezza e virus. Nuovi sogni, nuove emozioni, nuova infanzia, nuova lunga vecchiaia. Pieno di gente che rovista nei cassonetti del mondo e quattro gatti [jeff bezos, mark zuckerberg, elon musk, bill gates] che potrebbero comprarsi sull’unghia metà del pianeta. Se gli addizioni il grappolo di oligarchi sparsi qua e là, si comprano tutto il pianeta, satelliti inclusi. Questo per dire che sarà pure una contesa tecnologica quella tra Cina e Stati Uniti, con rispettive confraternite, ma stiamo tutti col fiato sospeso in attesa che la stessa Cina decida o non decida di cosa fare di quella Cina che si chiama Taiwan, per fare un esempio molto analogico e scarsamente virtuale.

Le magnifiche sorti e progressive del digitale non imbottiscono tutto il futuro (David Sax, The Future is Analog, Public Affairs, New York, 2022).

Semaforo verde per Prometeo? Se si può fare una cosa, dobbiamo farla, dice il mito dell’imperativo tecnologico invece di soppesare quello che rischia di fare e sarebbe meglio non facesse. Non siamo forse stati creati come imago Dei? Dice una tradizione cristiana un po’ tirata per i capelli. Quindi con lui co-creatori. Giocando a dio siamo legittimati a cambiare l’evoluzione, a dirigerla come ci pare? Sì, naturalmente, evoluzione significa processo in trasformazione, non un codice fisso per l’eternità.

La paura del Demiurgo al cospetto della Creatura

«Ma noi abbiamo bisogno di pensare a fondo alle vaste implicazioni di una tecnologia potente e di come svilupparla in modo responsabile», dice Jennifer Doudna una delle due scienziate Nobel per il Crispr.

È in scena il rimorso degli inventori. Lo abbiamo già visto con l’energia nucleare o, più alla buona, la scienziata in quanto statunitense ha ben presente il caso dell’afroamericana Henrietta Lacks e il macroscopico business costruito sulle sue cellule immortali. Di cosa si preoccupa Doudna, che ha il DNA addirittura nel suo cognome? Del lato oscuro di Crispr? Sandy Sufian, Rosemarie Garland-Thomson sono due ricercatrici disabili che pongono domande vincolanti nel loro saggio del febbraio 2021 (The Dark Side of CRISPR). E infatti Doudna ribadisce:

«L’editing delle cellule germinali può inavvertitamente trascrivere nel nostro codice genetico le disuguaglianze finanziarie delle nostre società» (A Crack in Creation. Gene Editing and the Unthinkable Power to Control EvolutionCrack in Creation, p. 233)

Chissà perché cancellerei l’inavvertitamente?

Ma forse Doudna si preoccupa della ormai praticabile eugenetica di velluto? Vieni qua che ti togliamo il gene cattivo e, soprattutto, lo togliamo anche ai tuoi discendenti: più nessuno con i capelli rossi. La biodiversità va bene per piante e fiori, ma per gli umani è solo una disgrazia. Estremizzo, ma neppure tanto, una posizione presente in alcune correnti del postumano, del transumanesimo e, molto probabilmente, in alcuni laboratori genetici. Tutti convinti che sia finalmente arrivato il tempo dell’enhancemenet, del potenziamento, dell’aumento della condizione umana, del superamento dei limiti, del salto biologico di qualità. Un futuro aumentato. Sgombrato il negativo dalla vita, cioè la morte, ingombro fastidioso. Immortalità garantita, fra un po’.

Pensieri intriganti e intricati

«C’è una analogia strutturale tra genitori che modificano geneticamente i figli e genitori che li educano tradizionalmente… Non tutte le modificazioni genetiche sono moralmente legittime come non tutti i tipi di educazione sono moralmente appropriati».

Stefan Lorenz Sorgner è un filosofo assertivo e affilato, di cui sto appiattendo un pensiero composito, che non distoglie lo sguardo da una realtà completamente inedita: «guardo la forbice genetica di Crispr o l’editing genetico in generale, come la più importante invenzione scientifica di questo inizio del XXI secolo». Aggiungo, di mio: fino a non molto tempo fa si riteneva che più di due terzi del Dna fosse spazzatura, una materia oscura inerte, poi si è scoperto che invece no, pur non dando origine a proteine, ha un compito regolatore molto importante. Adesso si chiama DNA non codificante-Noncoding DNA. La scienza, come al solito, procede a sbalzi. Sempre più difficile essere lungimiranti.

Ruipeng Lei e Renzong Qiu sono una ricercatrice della School of Philosophy, Huazhong University of Science and Technology, e un ricercatore dell’Institute of Philosophy, Chinese Academy of Social Sciences, in Cina. Ragionando sulle radicali differenze tra l’editing genetico di cellule germinali, che hanno materiale genetico che può essere trasmesso ai discendenti, e quello praticato su cellule somatiche – per esempio quelle del fegato, che invece non hanno questa proprietà – toccano il tema della moralità di Crispr. Concludono con un esempio elementare, ma calzante circa la nostra attuale responsabilità verso il futuro degli umani:

«uno stato A lancia un missile sullo stato B e uccide persone innocenti violando il loro diritto alla vita. Lo stato A lancia oggi un missile che orbita per due secoli e solo dopo va a uccidere persone innocenti. Moralmente è del tutto irrilevante che il missile colpisca subito dopo il lancio o fra due secoli»

Si guardano ormai in cagnesco Cina e Stati Uniti, gli uni mettono tutti i possibili bastoni fra le ruote e lei canta l’inno all’autoproduzione, autosufficienza, autarchia, sovranità scientifico tecnica. Con i corollari che ne possono seguire in chiave di politica nazional/nazionalistica. Sono primedonne della ribalta globale, ma tra le quinte altri protagonisti si affacciano, per esempio l’India che nel campo delle biotecnologie e in specifico nell’Editing genomico sta accumulando una esperienza sostanziosa e mostrando un impegno più che ragguardevole, soprattutto nell’ambito delle coltivazioni, della produttività animale e delle malattie endemiche del Sud Asia [17]. E il Giappone, e il Qatar  e …

Editing the world

Battaglioni corazzati di ricercatori in tutto il mondo stanno espandendo a marce forzate le diverse configurazioni della tecnica Crispr. I geni dei virus, dei batteri, del bioma umano, animale e vegetale non si sono mai sentiti così tanto osservati e maneggiati. C’è un’atmosfera di esaltazione e di ansia utopica nei laboratori, che alimenta inediti sconquassi bioculturali e abissi di abominio. Sono in gioco i parametri fondamentali della vita, tanto che vedere il sommovimento in atto solo come una questione geopolitica tra grandi potenze si rivela una scena incartapecorita. E, come per qualsiasi tecnoscienza, si infiamma una famelica spinta industriale e commerciale che con l’acquolina in bocca intravede miraggi finanziari. Se questo inatteso brodo primordiale sia una chimera è troppo presto per dirlo. Non è invece presto, tornando alla geopolitica spicciola, sottolineare qualche tendenza significativa in ambito militare e agricolo, trascurando la sterminata applicazione in campo medico, difficilmente sintetizzabile.

Premessa simpatica e antipatica: chiunque con una formazione di scuola media superiore è oggi in grado di modificare il genoma di un essere vivente, animale o pianta, senza dover ricorrere a finanziatori formidabili bensì utilizzando i kit adatti a crisperizzarlo, ampiamente disponibili in rete – il caso della società The Odin del biohacker Josiah Zayner è il più noto (la rete è piena di ciarlatani, di genialoidi, di geni [plurale di genio] che operano con Crispr nella versione fai da te). La pericolosità di una proliferazione incontrollata della tecnica Crispr, il cui costo dei reagenti sul mercato Usa si aggira sui 20 dollari, è accuratamente analizzato nel cap. 6° di Genome Editing and Biological Weapons. Assessing the Risk of Misuse, di Katherine Paris (Springer, 2023).

Dual-use

Il criterio che cercava di definire il duplice uso / dual use di un prodotto ovvero la sua destinazione civile con accertate possibilità di impiego militare, caso paradigmatico l’energia nucleare, va svaporando in ambito biotecnologico pur continuando  la Cina a essere accusata di abusarne.  Se, per esempio, con la tecnica Crispr sarà possibile curare qualche tipo di cancro, sarà ugualmente possibile provocarlo, se sarà possibile incrementare una coltivazione basilare, sarà anche possibile ostacolarla. Altro esempio lampante dell’interscambiabilità e fluidità dei risultati è la Neuralink Corporation di Elon Musk che conta, a breve termine, di impiantare un chip neurale nel cervello umano, con finalità – ci mancherebbe – terapeutiche, anche se, al momento, la società è indagata per aver procurato la morte non necessaria in fase di sperimentazione ad almeno 1500 animali. Un piano di ricerca quello dell’interfaccia cervello-computer molto frequentato in ambito militare e Nato in particolare.

La militarizzazione delle biotecnologie non solo in Cina, ma dovunque, può realizzarsi senza recedere dalla loro destinazione “civile”. La nebbia di guerra, di cui parlava Clausewitz, aumenta, non diminuisce nella lettura di Wallace.
La smisurata e lievitante disponibilità di dati sul genoma dei viventi, rende l’applicazione bellica desiderabile e, combinata con altre tecnologie, utilizzabile nel teatro di guerra, senza dover incappare nella deterrenza nucleare che ha regolato la Guerra Fredda: tu spari il primo colpo atomico, io rispondo ed è la fine per entrambi. Cassandra suggerisce che si potrebbero avviare genocidi con bersaglio una certa popolazione ben taggata geneticamente, avendo come mandanti non solo grandi potenze o consueti stati canaglia o regimi apocalittici, come qualcuno li chiama, ma anche compagnie di ventura private, i contractors, ben attivi sul mercato geopolitico, reti mafiose onnipresenti, gruppi terroristici di varia specializzazione.
Attori statali e molti attori non statali. Guardando indietro: l’impero coloniale inglese è stato creato da una compagnia commerciale ben organizzata e non dall’esercito di Sua Maestà. Questa panoramica che risuona di echi di guerra appare linda e stuzzicante perché riesce a strofinare via il suo prodotto finale più genuino, il sangue umano sparso a terra.

Lo scorso ottobre un gruppo di genetisti ha pubblicato su Nature l’articolo Contrastare la militarizzazione della ricerca genetica da parte degli estremisti in cui documenta come la diffusione dei risultati di laboratorio possa incrementare tendenze razziste già ben presenti nella società, in questo caso gli Stati Uniti. Uno degli autori si era accorto che nel documento di 180 pagine pubblicato sui social dal suprematista bianco e fascista orgoglioso, il diciottenne Payton Gendron, era citata con ammirazione una sua ricerca. A maggio il razzista ha ucciso in diretta streaming dieci persone, quasi tutte afroamericane, sparando con un fucile in un supermercato di Buffalo, NY.

Foschia di guerra

In contrasto con questa popolarizzazione delle tecniche di editing genomico, negli ambienti militari prolifera un’ossessione golemica: la creazione del soldato aumentato, non solo per le armi letali che maneggia, ma per la sua strabiliante qualità umana. Opera notte e giorno, non sa cos’è il dolore, quello degli altri meno che mai, sopravvive in ambienti infernali, ha la vista dell’aquila, l’aggressività del leone affamato, è nefasto come un fulmine, immune da fragilità fisiopsichiche come un cherubino, intelligente almeno come Einstein. Un campo di battaglia gremito di vispi David che abbattono uno dopo l’altro i corpulenti Golia che osano presentarsi. Il sogno dei generali, dalla Guerra di Troia. L’alta concentrazione di studi (e di laboratori) sul guerriero superman, Übermensch, può darsi dia qualche risultato bellico, ma soprattutto racconta di un’antropologia militare tentata dalla mitologia in versione contemporanea cioè transumanista, un frullato di Ercole, Maciste, Rambo e Batman. Il Ministero della difesa britannico con quello tedesco parlano infatti di augmentation e non di miglioramento, come consentirebbe il termine enhancement, riferendolo ovviamente all’uomo maschio perché quando si tratta di uomo femmina per accedere alle meraviglie dell’aumentazione deve prima praticare la suppression delle mestruazioni, tanto per cominciare.

Nella foschia il microchip ci vede benissimo

Il nostro sguardo è concentrato sulle Grandi e Medie Potenze, su ciò che arriva ai nostri occhi, e non mi pare che si vedano in giro altri Julian Assange a rovistare  nei sancta sanctorum delle Potenze medesime mettendo in gioco la propria esistenza. È uno sguardo appannato quello con cui scrutiamo gli alti comandi degli stati e forse dovremmo anche scandagliare i tanti hitlerini che gironzolano per il pianeta con intenti predatori. Grabbing non solo di terre, materie prime, acque, biodiversità… ma anche di Dna che la tecnica Crispr ha reso manipolabili e indirizzabili. Sarebbe bene frugare a passi felpati in anonime cucine, cantine, garages, capannoni di periferia, imprese familiari, per mettersi al riparo da future sorprese non gradite e, nello stesso tempo, trarre frutto da questa caotica democrazia genetica per acquisire innovazioni che promuovano equità e non nuove disuguaglianze, che scalfiscano la scienza cementificata nelle istituzioni e nelle imprese multinazionali, che ogni volta aprano e incentivino una discussione pubblica su ciò che è veramente umano. Nella vasta e dispersa comunità di biohackers sarà necessario trovare il punto di equilibrio tra le sperimentazioni dissennate e i disciplinamenti arbitrari. Crispr si lascerà governare?
Mentre noi ci disponiamo ad aguzzare lo sguardo, se ne posa uno su di noi, molto penetrante, nel nostro intimo che più intimo non si può. La sorveglianza genetica in Cina da parte degli apparati governativi ha già racimolato un gruzzoletto di 80 milioni di Dna, negli Stati Uniti si rastrellano quelli degli immigrati, dei detenuti, dei delinquenti e,  meglio essere previdenti, dei neonati. La cara Unione Europea si impegna a far la sua parte.
Che siamo noi stessi a fornirli gioiosamente alla rete o siano scavati ed estratti da altri, il finale non cambia: fantastilioni di dati personali sono minuziosamente accatastati in megacapannoni detti data base, sparsi per il mondo e posseduti da una dozzina di proprietari che ne fanno merce squillante per i loro salvadanai. Le biobanche, in particolare, cresceranno esponenzialmente perché tutti vogliamo che siano debellate quelle malattie che ci fanno paura e quei virus malefici che si sono risvegliati, ben vengano perciò sequenziamenti e screening genetici di massa e magazzini di materiale biologico. Il tecno ottimismo che ci guida (detto anche tecno misticismo) lo esige e se Crispr, o chi per esso, ci promette una panacea per la nostra salute siamo disposti a rinunce anche consistenti. Dentro questa contraddizione, internet + genomica, siamo sballottati e senza grandi idee sul come attraversarla, mentre la Guerra Fredda 2.0 si sta srotolando sul contenimento tecnologico soprattutto dei microprocessori, i chips, che in quanto manufatti prodotti da un’industria rientrano in un quadro visivo tradizionale, più familiare. Una fabbrica con operai e operaie che vanno e vengono, un prodotto impacchettabile, dei consumatori in carne e ossa. La principale azienda produttrice si chiama TSMC, ha sede a Taiwan, ha filiali in Cina e, fra poco, anche in Arizona. Triangolazione bollente che riconosciamo al primo colpo. Crispr e ingegnerie genomiche affini sono meno a vista d’occhio, dunque quasi per niente avvistabili e soprattutto contenibili dalla sorveglianza istituzionale, dalle legislazioni, dalle etiche oggi prevalenti né, presumo, da quelle future.

Dacci oggi

Bazooka, granate e mitragliatrici, rimpiazzate da funghi, muffe e animaletti. Non è un nuovo videogioco per bebè, è uno scenario di guerra. Di agroguerra, un termine che mi invento ipso facto e che applico a una variante della guerra dei mondi che il capitalismo periodicamente ci regala. La cattivissima Cina può impossessarsi del Dna di un seme ogm usato negli Stati Uniti e alterarlo in modo tale da distruggere i raccolti. Proprio così, scrive un rapporto di una commissione governativa di Washington, anche se fino a poco fa vantavano la loro trentennale collaborazione nel settore agrario. Succede nelle migliori famiglie che, aumentando i dissapori, ogni gesto sia percepito come ostilità dichiarata. Nelle collettività in subbuglio tutto diventa strategico. In Iran lo è per le donne togliersi il velo e per il regime impiccarle e con loro chi le appoggia. È un vicolo cieco, finché non si capovolge la strategia dominante. Per farlo è necessario ogni tanto distogliere lo sguardo dai contrasti tra Grandi e setacciare invece lembi e frammenti di una realtà in grande fermento

Agricultural Biotechnology: Latest Research and Trends è un libro di 741 pagine sulle novità delle biotecnologie in agricoltura curato da Dinesh Kumar Srivastava, Ajay Kumar Thakur, Pankaj Kumar; sfogliandolo si sente sgorgare a più voci un’ode alle prodezze dell’ingegneria genomica, le NBT (New Breeding Techniques- nuove tecniche di ibridazione), Crispr e consanguinei. Molti paesi subiscono la scarsità di precipitazioni? Non possiamo ancora modificare il Dna della pioggia, ma possiamo crisperizzare semi, piante e terreni per insegnargli, già dopodomani. a fare a meno dell’acqua.
Fa molto caldo, per equilibrare il loro tasso metabolico i parassiti diventano sempre più voraci? Crisperizziamo a man bassa piante e tutto il resto. In certi luoghi del pianeta si crisperizzano alla vecchia maniera: Dacci oggi il nostro pane quotidiano.
Ci sono, non dubito, elementi di verità in queste attese un po’ messianiche e nelle migliaia di ricerche, esperimenti e applicazioni che si avvantaggiano del caos normativo che differenzia e qualche volta contrappone il comportamento degli stati. Le spinte del mercato costringono i legislatori a riprendere la discussione sugli ogm, mentre il fronte dei crisperizzatori ribatte che non si tratta di transgenico, non viene infilato un gene di altra specie, ma viene semplicemente aggiustato il genoma, la vita sulla terra non viene seviziata. L’effervescenza  del settore è alta, promette bene, piccoli e grandi attori ci scommettono, vale dunque la pena osservare ciò che si agita alle falde.

Biopirateria

Nel 1876 Henry Wickham arriva in Amazzonia per conto dei Reali Giardini Botanici di Londra, raccoglie 70.000 semi di gomma, si fa spiegare ben bene dai nativi come conservarli perché facilmente deperibili e, com’è come non è, a fine Ottocento il Brasile perde il monopolio della gomma che passa all’impero coloniale britannico. Il drenaggio delle risorse genetiche, come ci ha mirabilmente spiegato Crosby, è un tratto essenziale del rapporto Nord/Sud del mondo ed è molto in auge anche oggi, con due varianti. Quella tradizionale, chiamiamola estrattiva, che si impossessa direttamente del materiale genetico vegetale e animale, spesso frutto di un sapere antico, per esempio in Kenya, in Brasile e in generale, quella contemporanea che chiamerei, privatistica, che può accumulare dati genetici a piene mani impugnando una biotecnologia molto sviluppata. La frenesia genomica ha fatto sì che un sistema di conservazione dei miliardi di dati riguardanti il sequenziamento del Dna sia diventato una miniera d’oro in far west normativo. Sono tre i grandi contenitori di dati genetici: GenBank negli Stati Uniti, l’europeo EMBL-EBI e il giapponese DDBJ, pubblici e accessibili. Ci sono poi migliaia di banche dati private, di cui non si sa quali e quanti dati genetici custodiscano, sappiamo però che usufruiscono ampiamente delle banche pubbliche per realizzare le loro sperimentazioni e i loro affari. Si è riusciti nel 2016 a immagazzinare un video musicale, 100 libri e un data base di semi su un filamento di Dna grande come una punta di matita. Si riesce nel gennaio 2023 a produrre sequenze di proteine avendone decodificate 280 milioni. L’abbiamo già incontrata, è la biologia sintetica (o biologia di sintesi o SynBio) che consente, decodificando e ricodificando, il trasferimento digitale senza scambio fisico di materia biologica. E siccome tutto è merce, come predica l’andazzo prevalente, tutto è mercificabile, anche la vita stessa, soprattutto se in forma di astratto codice che di per sé non dà segni di vita, non piange, non ride. Fa da bancomat.

Privatizzazione e commercializzazione

È una pacchia. Scarichi una sequenza e la ricrei in laboratorio. I ricercatori che credono di sapere il latino dicono che tutto avviene in silico, gli altri parlano di Digital Sequence Information- DSI. Acchiappi la zanzara giusta, l’anofele, responsabile della malaria che, in Africa specialmente, uccide centinaia di migliaia di persone, soprattutto bambini e bambine, fai una microriparazione al Dna (detta Gene drive o genetica direzionata) e il gene diventa estintivo,  in questo modo poi lo si può brevettare e commercializzare. Le care estinte sono le zanzare femmine che portano così al collasso l’intera popolazione di animaletti assassini. In laboratorio. All’aria aperta non è ben chiaro se tutto fili così liscio. I piedi di piombo o principio di precauzione sarebbero benvenuti. Nel caso delle cuginette, le vespe,  l’estinzione avviene solo parzialmente e quindi l’esperimento fino a questo momento non sembra funzionare come da previsione. Sarebbe comunque gradito un registro pubblico dei test di gene drive o forzatura genetica, per evitare che le sperimentazioni dal vivo siano generosamente praticate là dove il neocolonialismo continua ad insediarsi con caparbietà, per esempio l’Africa.

Accaparrare biodiversità (“l’inventore” della biodiversità Nicolaj Vavilov [1887-1943] finì la sua vita nel gulag staliniano e, come lui, Aleksandr Čajanov [1888-1939], il più significativo teorico dell’impresa contadina a conduzione familiare) è diventato un must per molte corporations agroindustriali – farmaceutiche e simili – e per agrogenetisti a disposizione del miglior offerente. Si riproduce qui il dual use già evocato.

Tecnologie che sfiorano l’onnipotenza possono essere impiegate per distruggere territori interi o per farne fiorire altri. A scelta. L’infatuazione genomica apre le porte all’eugenetica tuttigusti, per grandi e piccini, ricchi e poverini. Piante in stile e fashion o augmented and multitasking animals: le fantazoologie di Emily Anthes e di Sukanta Mondal sono alla portata di molti.

Mi attrae un libro dal titolo allettante (Women in Sustainable Agriculture and Food Biotechnology. Key Advances and Perspectives on Emerging Topics di Laura Privalle) e dalle inedite informazioni storiche, dalle lodevoli intenzioni pedagogiche (Biotechnology in the Classroom), dalla solidarietà all’Africa’s Fight for Freedom to Innovate e, in ultimo, dalla curatrice che è una ricercatrice dipendente della BayerCropScience, North Carolina, cioè ex Monsanto acquisita dalla Bayer ovvero il connubio luciferino bigpharma e agroindustria globale.

Il biocapitalismo ci sa fare: «Siate astuti come serpenti e puri come colombe» (Matteo 10,16), diceva lui, ma si rivolgeva ai poveracci della Galilea e non agli impresari locali né agli affaristi romani in trasferta.

Il capitolo primo dell’eugenetica è stato scritto nel secolo XX, ed è una lettura ripugnante. Il capitolo secondo lo si sta scrivendo e non è chiara la trama, che oscilla tra lifting della natura a fini produttivistici o estetici e biopirateria e bioprospecting che si sovrappongono starnazzando come la gallina dalle uova d’oro. Ha un nome geopolitico un po’ altisonante lo strillo: agroterrorismo, dal futuro garantito e da una storia non  trascurabile. Può applicarsi alla catena di distribuzione del cibo, alla salute degli animali e di conseguenza a quella umana, ai patogeni per le piante…Una vasta gamma di eugenetiche o, meglio, di disgenetiche per combattere in una qualsiasi forma di guerra, che da sempre è una tecnologia sociale che procede per accumulo. La baionetta si accompagna tranquillamente con i droni, il ratto delle Sabine [=lo stupro di massa] con i bombardamenti a tappeto, le compagnie di ventura [=mercenari parastatali tipo Gruppo Wagner] con gli eserciti professionali di stato e Stati Maggiori. Le avvisaglie di un insolito teatro bellico non mancano. Non ci si potrà più lamentare delle braccia rubate all’agricoltura.

Morale della favola / Favola della morale

C’era una volta una scuola a cui accompagnavo ogni tanto un’amica, si insegnava Taglio e Cucito. Tecniche di ieri, molto in vigore oggi, non per aggiustare tessuti, ma per correggere la vita. Si annunciano benefici, si fiutano sventure. Non è chiaro se siamo immersi in una biofiction, come la chiamano, o se effettivamente i viventi tutti stiano per rigenerarsi, chi oggi chi domani o dopodomani, volenti nolenti.

Il futuro non sta bene di salute. È incerto. C’è chi ne ha paura, chi lo cavalca in sogni diurni, chi lo scambia col passato. Lui capita qua e là in incognito, sempre più biopolitico a prospettare mutazioni dei corpi e dei sistemi neurologici/cervelli, umani animali vegetali.
Questa farfalla non è una farfalla.  No, effettivamente è una farfalla. Insomma, è una farfalla umanizzata. Contiene un gene di una persona, il bioartista Yiannis Melanitis esponente dell’arte transgenica. In più la farfalla e l’uomo condividono lo stesso nome, lei è Leda Melanitis.  Non solo, dunque, ontologie linguistiche, ma scambio genetico come è di norma nella riproduzione dei viventi. Una riaffermazione della interconnettività tra esseri? Un reiterato dominio dell’umano? Una disinvolta indagine sulla vita? Arte chiaroveggente?

Un Ovidio futuro avrà materiale per poetare sulle nuove metamorfosi. Sarebbe meglio che prima di allora si creassero nuove metafore sull’interazione tra i regni viventi (regni!), tra vita sociale-biologia-tecnologie. Le scienze sono potenti, ma non onnipotenti. Corruttibili e, qualche volta, colluse. Le tecnologie godono in modo sproporzionato della loro sacralità. Non confessano depravazioni ed empietà, che hanno patito e patiscono invece le religioni. La vita sociale, che sia quella umana o quella delle api, fa la parte del parente povero. Il clamore mediatico qualche volta si agita ben bene prima dell’uso, intorbidando, o stordisce, tacendo.  Un’informazione non burattina sarebbe già una conquista. I viventi umani potrebbero dedicarsi a elaborare una genEtica non dozzinale e vulnerabile. Se siamo ancora in tempo.

Questo romanzo è opera di fantasia, tranne per le parti che non lo sono (Michael Crichton, Next, 2006).


Alcuni testi di riferimento:

Per ricostruire precedenti e conseguenti della scoperta di CRISPR-Cas9 sono a disposizione ormai bibliografie sterminate: Anna Meldolesi, E l’uomo creò l’uomo. CRISPR e la rivoluzione dell’editing genomico, BollatiBoringhieri, Torino, 2021; l’ottimo blog da lei diretto Crispermania e l’edizione italiana non fluentissima di Kevin Davies, Riscrivere l’umanità. La rivoluzione CRISPR e la nuova era dell’editing genetico, Raffaele Cortina editore, Milano, 2021.
Di Jennifer A.  Doudna e Samuel H. Sternberg, A Crack in Creation. Gene Editing and the Unthinkable Power to Control Evolution, Houghton Mifflin Harcourt, NY, 2017. Importante anche perché Doudna un po’ “mette le mani avanti”  sui pericoli insiti nella tecnica a cui ha contribuito.
Dare un nome alle cose: su come si è giunti a Crispr v. il capitolo terzo di CRISPR People. The Science & Ethics of Editing Humans, di Henry T. Greely, MIT Press, Cambridge, Mass., 2021. Senza tener conto del fatto che c’è ancora un contenzioso apertissimo su chi abbia veramente inventato la biotecnologia Crispr se le due Nobel o Feng Zhang dell’MIT: H. Leidfort,  Major CRISPR Patent Decision won’t end tangled dispute, in Nature, 17.03.2022. I criteri usati dall’Accademia di Svezia non sono quelli dell’Ufficio Brevetti degli Stati Uniti.

Categorie schierate sui due fronti: Umanesimo, transumanesimo, postumanesimo, inumanesimo:
E. Kirksey, The Mutant Project: Inside the Global Race to Genetically Modify Humans, Bristol University Press, 2021;
Aa.Vv., Critica al transumanesimo, Nautilus, Torino, 2019.

Sul concetto di “Shanzhai”:
Jeroen de Kloet, Chow Yiu Fai, and Lena Scheen, a cura di, Boredom, Shanzhai, and Digitisation in the Time of Creative China, Amsterdam University Press, 2019

Stefan Lorenz Sorgner, We Have Always Been Cyborg. Digital Data, Gene Technologies, and an Ethics of Transhumanism, Bristol University Press, 2022, pgg: 8-9, 193. Nonostante insegni in Italia, presso la John Cabot University di Roma, non mi pare che il lavoro complessivo di questo pensatore tedesco abbia suscitato nel nostro paese reazioni significative. Posso sbagliarmi, neppure il tema in generale ha incuriosito, eccetto gli importanti lavori di Mauro Mandrioli, docente di genetica all’università di Modena e Reggio, From genome editing to human genetic enhancement: a new time for discussing eugenics?, in Scienza&Filosofia, n. 27, 2022, e idem L’uomo creatore di se stesso. La rivoluzione della genetica tra nuove possibilità e (in)evitabili rischi, in Scienza&Filosofia, n. 24, 2020.

Su che cosa stia cambiando tra gli eterni contendenti cino/indiani è ben chiarito da Abhay Kumar Singh,  India-China Rivalry: Asymmetric No Longer An Assessment of China’s Evolving Perceptions of India,  Manohar Parrikar Institute for Defence Studies and Analyses, New Delhi, 2021: Il futuro delle due potenze sarà una cooperazione competitiva o un conflitto per l’egemonia?

Per approfondire la relazione in ambito bellico dell’interfaccia uomo-macchina, oltre ai capitoli curati da Alessandro De Pascale e da Gabriele Battaglia per l’opera collettanea 2023: Orizzonti di guerra (OGzero, 2023), un testo datato ma ancora valido è quello di Jonathan D. Moreno, Mind Wars. Brain Science and the Military in the Twenty-First Century, Bellevue Literary Press NY, 2012. Sul proverbiale accrescimento della truppa da parte degli Alti Comandi: Norman Ohler, Tossici. L’arma segreta del Reich. La droga nella Germania nazista, trad. Chicca Galli, Rachele Salerno e Roberta Zuppet di Der totale Rausch. Drogen im dritten Reich, Rizzoli, 2015; ma anche Łukasz Kamieński Shooting up. Storia dell’uso militare delle droghe, Trad. Chiara Baffa, Utet, 2017; la correlata somministrazione di sostanze per inibire remore o per accentuare le prestazioni fisiche, come il recente uso del Captagon nel conflitto siriano: Héloïse Goodley, Pharmacological performance enhancement and the military. Exploring an ethical and legal framework for ‘supersoldiers’ (The Royal Institute of International Affairs Chatham House, novembre.  2020). Jean-François Caron tenta una metainterpretazione comparativa in A Theory of the Super Soldier. The morality of capacity-increasing technologies in the military, Bellevue Literary Press, NY, 2018.

A proposito di microchip: Chris Miller (Chip War. The Fight for the World’s most critical Technology, Scribner, 2022) ricorda giustamente Federico Faggin, il creatore del primo chip nel 1971, ma non dedica un accenno alle biotecnologie e a Crispr. Ruolo dell’Europa in questa “guerra” di semiconduttori. Mi ripeto: gratta gratta anche le tecnologie più di frontiera hanno bisogno di quella cosa molto terra terra chiamata terra. In caso di siccità la produzione di chips ne patisce molto avendo un ingente bisogno di acqua pura. No water no microchips.

Una panoramica ben documentata su privatizzazione e commercio di Dna si trova in Biotechnology, Patents and Morality. A Deliberative and Participatory Paradigm for Reform, di Maureen O’Sullivan (Routledge, 2020).  

Alcune dritte sul Teatro bellico: Panoramica generale,  Panoramica generale n. 2, Panoramica generale n. 3 e curiosa pretesa di dotarsi di “armi bioterroristiche”, Nepal, Le difficoltà di difesa dall’agroterrorismo, l’India, Sospetti sulla Cina e Russia?  Agroterrorismo in Brasile, Modelli di difesa dall’agroterrorismo,  Maria Lodovica Gullino, James P. Stack, Jacqueline Fletcher, John D. Mumford (a cura di): Practical Tools for Plant and Food Biosecurity. Results from a European Network of Excellence, Springer, 2017, in particolare il cap. 2 di Frédéric Suffert: Characterization of the Threat Resulting from Plant Pathogen Use as Anti-cropBioweapons: An EU Perspective on Agroterrorism.
Alberto Cique Moja, Pedro Luis Lorenzo González, Del empleo estratégico de las armas biológicas al agroterrorismo: preparación y respuesta, cap. V di un ampio studio sulla Amenaza biológica dell’ Instituto Español de Estudios Estratégicos: IEEE, 2023, con speciali riferimenti a Crispr.

 

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LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A NOVEMBRE https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-a-novembre/ Thu, 05 Jan 2023 09:28:05 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=9930 L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A NOVEMBRE proviene da OGzero.

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Miniere di guerra di prossimità africana

In Africa subsahariana i cinque maggiori importatori di armi sono stati Angola, Nigeria, Etiopia, Mali e Botswana. Resta un grande importatore l’Egitto che con il più 73% diventa il terzo importatore di armi a livello globale (Focus di “Atlante delle Guerre”, 29 marzo 2022).

Gianni Sartori ci ha fornito un testo foriero di molteplici spunti di lettura paralleli: a cavallo tra risorse africane, compagnie minerarie, approvvigionamenti di armi e conflitti, presenti e futuri.
Alle tradizionali estrazioni del continente (oro, argento, diamanti, rame, manganese) si aggiungono le basi dei nuovi oggetti: coltan, cobalto, grafite, litio… e gli scenari sono quelli ad alta tensione di Zimbabwe, Sudafrica, Marocco, Mali, Burkina Faso, Congo…


E PER LE GRANDI COMPAGNIE GLI AFFARI VANNO A GONFIE VELE
PREANNUNCIANDO FUTURI CONFLITTI

di Gianni Sartori

Se, come recitava negli anni settanta la rivista “Hérodote” (di cui conservo gelosamente due-tre numeri dell’edizione italiana pubblicati dal mai dimenticato Bertani): «La geografia serve a fare la guerra», parafrasando possiamo aggiungere che “la geologia la determina”. O quantomeno la indirizza e alimenta.
Per cui volendo azzardare ipotesi sui futuri conflitti sarebbe opportuno munirsi di aggiornate carte minerarie.

Litio, cobalto, stagno, rame, grafite, nickel… risultano indispensabili per quella fantomatica “transizione energetica” (dove l’unico verde identificabile sembra quello dei dollari, quelli di una volta almeno) a cui tendono in maniera talvolta spasmodica compagnie minerarie e produttori di automobili. Con il continente africano che al momento sembra essere quello più ambito.

Secondo le compagnie minerarie e alcuni governi (africani e non) molte risorse minerarie (litio, rame, stagno, cobalto…) finora sarebbero state non adeguatamente sfruttate (o addirittura “trascurate”). Oggi si intende rimediare riattivando antiche miniere e aprendone di nuove (e pazienza per l’ambiente e le popolazioni indigene, ovviamente).


ZIMBABWE E LITIO

Pare che l’ex Rhodesia, oggi Zimbabwe, sia uno dei pochi paesi africani dotati di vaste riserve di Lithium. Nel senso di “litio”, il minerale (simbolo Li, numero atomico 3, peso atomico 6,94; nessun riferimento ai Nirvana quindi) essenziale per le batterie dei veicoli elettrici.
E se questo ha già scatenato le comprensibili brame delle grandi compagnie minerarie, finora aveva mobilitato soprattutto schiere di minatori individuali (“artigianali”). Sui quali tuttavia stanno calando pesanti restrizioni ministeriali. In pratica non potranno più esportare il materiale grezzo estratto, spesso fortunosamente, da terreni non necessariamente di loro proprietà e da miniere abbandonate.

Una restrizione che non dovrà interessare le miniere di livello industriale in quanto dovrebbero esportare solo materiale trattato, un “concentrato di litio”. Miniere comunque ancora in fase di realizzazione, dato che l’unica importante produttrice di litio è quella di Bikita. Nello stesso tempo il governo di Harare intende favorire aziende locali per la trasformazione in loco del minerale così che possa venir utilizzato direttamente dall’industria dei veicoli elettrici. Risale a novembre l’accordo firmato con la TsingShan Holding per un impianto in grado di produrre il concentrato di litio (“AgenziaNova”). 


100 %

Avanzamento



GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE Traffico 2022


Ventotto i Paesi in cui Wagner avrebbe operato, diciotto dei quali africani: Libia, Repubblica Centrafricana, Mozambico, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Mali, Madagascar e Zimbabwe tanto per citarne alcuni (“AnalisiDifesa”). E Wagner è lì solo per curare gli interessi minerari di Mosca

Il primo vertice Russia-Africa, tenutosi nel 2019, ha fatto parlare di “ritorno della Russia in Africa” dopo anni di disimpegno a sud del Sahara. Il rinvio del secondo vertice, che avrebbe dovuto tenersi alla fine del 2022 in Africa, ha apparentemente messo in luce le vulnerabilità economiche e politiche della Russia alla luce della sua guerra di aggressione contro l’Ucraina. Eppure, l’impegno diplomatico e di sicurezza della Russia in Africa sembra continuare senza sosta. Che impatto ha la guerra in Ucraina sulle relazioni della Russia con i Paesi africani? Come stanno reagendo alla guerra? Cosa possiamo aspettarci dal futuro ruolo e dalla presenza della Russia nel continente? (ISPI)

Per l’Africa, con una perdita annua di quattro milioni di ettari di foreste, questo è “mal comune” (ma senza “gaudio” ovviamente). In base agli atti recentemente pubblicati dalla National Academy of Sciences, l’aumento esponenziale delle attività estrattive in aree forestali costituisce il 47% (oltre tremila e duecento chilometri quadrati) della distruzione delle foreste tropicali dal 2000 a oggi. Soprattutto in Ghana, Tanzania, Zimbabwe e Costa d’Avorio.

Contemporaneamente anche Biden ha rivolto l’attenzione degli Usa all’Africa abbandonata da Trump (e in parte prima da Obama), convocando un summit di metà dicembre per contrastare la presenza sinorussa nel continente (ISPI): Guinea, Sudan, Mali, Zimbabwe, Burkina Faso ed Eritrea sono rimaste fouri dalla lista degli invitati. Invece Teodoro Obiang, l’autocrate guineano più longevo al mondo, risultava tra gli invitati: la Guinea equatoriale è tra i porti nevralgici per ogni tipo di merci, legali o meno.

Tutti paesi dove la tensione per il controllo di queste risorse si fa più forte, creando strategie esterne e appoggi da potenze locali. Smerci di armi… ma gli stati che intendono proteggere i loro minerali “rari” e preziosi non si dotano di armi che possono competere con le potenze interessate allo sfruttamento dele miniere, o per avversare le milizie che fanno gli interessi di quegli stati, piuttosto si dotano di elicotteri per il controllo delle rivolte della popolazione, indignata dalla corruzione e dal saccheggio di risorse nazionali.



In Zimbbwe è operativo il MiG21 nella versione J7, copia non autorizzata del Fishbed realizzata in Cina (“AnalisiDifesa”)

Nel gennaio 2022, lo Zimbabwe era al 93° posto sui 142 paesi considerati nella classifica annuale della GFP con PwrIndx di 2,2498 (laddove lo zero sarebbe “perfetto”).
Il Generale di Brigata Mike Nicholas Sango, ambasciatore dello Zimbabwe presso la Federazione Russa, ha detto che «la politica della Russia nei confronti dello Zimbabwe negli ultimi anni si è evoluta in modo positivo. L’impegno del Governo dello Zimbabwe con la Federazione Russa è storicamente radicato nel contributo del nuovo stato al raggiungimento della libertà e della nazione da parte dello Zimbabwe nel 1980» (“Africa24”).
Secondo lui, il presidente della Repubblica dello Zimbabwe, Emmerson Dambudzo Mnangagwa, ha visitato Mosca nel 2019. Da allora, ci sono state visite reciproche di ministri e parlamentari. All’inizio di giugno 2022, la presidente del Consiglio Federale, Valentina Matviyenko, ha visitato lo Zimbabwe. I militari dello Zimbabwe hanno partecipato ai Giochi dell’Esercito nel corso degli anni e ai Giochi dell’Esercito di metà agosto 2022.
E non a caso i russi hanno voluto scambiare Viktor Bout, il mercante di armi.

Russia
Mentre Washington domina il mercato globale delle armi di alta gamma e ad alta tecnologia, la Russia si è ritagliata un posto di primo piano come fornitore mondiale di armi economiche, ma a bassa tecnologia, talvolta descritte come “armi di valore”. Queste includono nuove varianti di equipaggiamenti sovietici e russi come i carri armati T-72 e T-80, pezzi di artiglieria trainati come il D-30, obici semoventi come il 2S1 Gvozdika e il 2S19 Msta, lanciarazzi multipli semoventi come il BM-27 Uragan e il BM-30 Smerch, il sistema di difesa missilistica S-300 e i veicoli corazzati per il trasporto di personale come il BMP-3 e il BTR-70.

Cina
Sebbene i paesi a basso reddito come Myanmar, Zambia e Zimbabwe acquistino solo armi di questa categoria, anche i paesi a medio reddito come Brasile, India e Thailandia, che partecipano a segmenti del mercato di fascia alta, acquistano grandi forniture di armi di valore. Nel 2022, la spesa per la difesa dei paesi principalmente africani, asiatici e latinoamericani che compongono il mercato di valore ammonterà a 246 miliardi di dollari. Dal momento che le aziende americane di solito non competono nel mercato delle armi di valore, le difficoltà della Russia hanno creato un vuoto. E il paese pronto a riempirlo è la Cina. Se non controllata, Pechino potrebbe utilizzare le vendite di attrezzature per la difesa per costruire relazioni più forti con le élite al potere e per assicurarsi basi all’estero, limitando potenzialmente la capacità di manovra delle forze armate statunitensi in tutto il mondo. L’espansione delle vendite di armi cinesi minerebbe l’influenza degli Stati Uniti nella competizione geostrategica in corso. Ma questo esito non è ancora inevitabile. Gli Stati Uniti e i loro alleati sono ancora in tempo per fornire sostituti alle armi russe a prezzi accessibili e contrastare così le ambizioni della Cina. La Cina vanta sei delle 25 maggiori aziende di difesa del mondo. Sebbene l’attuale quota del cinque per cento del mercato globale degli armamenti sia significativamente inferiore al 19 per cento della Russia, ciò indica il potenziale della Cina di espandere la propria quota di mercato. La Cina ha diversi vantaggi distinti che potrebbero permetterle di dominare il mercato del valore.
L’approccio cinese all’esportazione di armi è transazionale, libero da preoccupazioni sui diritti umani o sulla stabilità del regime. La Cina scambia armi non solo in cambio di un compenso finanziario, ma anche per l’accesso ai porti e alle risorse naturali degli stati destinatari. In parte, fornendo armi di valore come radar, missili e veicoli blindati al Venezuela e all’Iran, per esempio, Pechino si è assicurata un accesso costante al petrolio di quei Paesi. La maggior parte dei paesi dell’Africa subsahariana utilizza armi cinesi, ma le vendite alla regione rappresentano solo il 19% delle esportazioni cinesi. Oltre il 75% delle esportazioni cinesi è destinato ai paesi asiatici dove la Cina ha iniziato a espandere la propria rete di produzione industriale. Il Pakistan, per esempio, ora coproduce molti sistemi d’arma cinesi, come il carro armato Al-Khalid e il caccia JF-17 Thunder. Più di recente, oltre alle armi di valore, la Cina ha iniziato a vendere sistemi d’arma di fascia più alta a clienti importanti: ad aprile ha iniziato a vendere missili antiaerei alla Serbia e a giugno l’Argentina ha segnalato interesse per i jet da combattimento JF-17. La Cina è ora il più grande esportatore di droni al mondo e ha iniziato a vendere i suoi Wing Loong e i modelli CH-4 a clienti che prima acquistavano droni britannici, francesi, russi e statunitensi: un elenco di paesi che comprende Egitto, Iraq, Giordania e Arabia Saudita. (“ForeignAffairs”)
Secondo il “Jane’s Defence Weekly”, quasi il 70% dei veicoli militari blindati presenti in tutti i 54 paesi africani sono di origine cinese, mentre quasi il 20% di tutti i veicoli militari del continente sono stati forniti dalla Cina.
Citando un rapporto dell’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), l’outlet ha sottolineato che, emergendo come quarto fornitore globale di armi, la Cina ha rappresentato il 4,6% del totale delle esportazioni di armi globali tra il 2017 e il 2021.
Di questo totale di esportazioni di armi globali, il 10% è stato destinato a paesi africani. Etiopia, Sudan, Nigeria, Tanzania, Camerun, Zimbabwe, Zambia, Gabon, Algeria, Namibia, Ghana, Burundi, Kenya e Mozambico sono stati i principali importatori di armi cinesi negli ultimi cinque anni (“Asia News International”).

Zimbabwe

«Lo Zimbabwe è forse il più longevo beneficiario africano dell’assistenza alle forze di sicurezza (SFA) da parte della Cina», affermano due ricercatori senior del Peace Research Institute di Oslo, Ilaria Carrozza e Nicholas Marsh, nello studio pubblicato sul Journal of Global Security Studies.

La Cina ha fornito addestramento militare ai membri del Fronte patriottico dell’Unione nazionale africana dello Zimbabwe, guidato da Mugabe, durante la sua lotta per la liberazione. Tra le persone addestrate c’era anche il presidente Emmerson Mnangagwa, salito al potere cinque anni fa dopo il colpo di stato che ha spodestato Mugabe.

«Questo sostegno ha contribuito a suggellare un rapporto di sicurezza tra la Cina e la leadership dello Zimbabwe che dura tuttora», si legge nello studio.

L’assistenza alle forze di sicurezza comprende donazioni, in genere di attrezzature militari e di addestramento, che mirano a migliorare la capacità delle forze di sicurezza di un paese beneficiario, ha affermato Carrozza.
Lo Zimbabwe è stato tagliato fuori dai mercati globali dei capitali nei due decenni trascorsi da quando gli Stati Uniti e altri paesi occidentali hanno imposto sanzioni ad Harare per le violazioni dei diritti umani e la confisca delle terre agli agricoltori bianchi, lasciando a Pechino il ruolo di principale finanziatore di progetti infrastrutturali come dighe idroelettriche, aeroporti e strade (SCMP).

SUDAFRICA: MEGLIO IL LITIO DEL CARBONE? DIPENDE…

di Gianni Sartori

Dal 2023 (stando a una recente dichiarazione) la Compagnia mineraria Marula Mining (All Star Minerals) darà il via alla vendita di litio a una filiale della lussemburghese Traxys. Quanto alla provenienza del minerale, sarebbe la miniera di Blesberg, in disuso da tempo e riaperta nel dicembre 2022. Anche se per ora i lavori proseguono lentamente e su piccola scala, in attesa di ulteriori perforazioni e carotaggi.

Oltre al litio (sotto forma di spodumene che qui lo contiene con percentuali tra il 6 e il 7 %), la miniera sarebbe in grado di fornire anche tantalio.

Ma in materia di miniere non son tutte rose e fiori per il Sudafrica. Le miniere abbandonate di carbone, per esempio, rappresentano – oltre che un potenziale pericolo – una documentata fonte di inquinamento per le sorgenti e le falde acquifere, una grave minaccia per la salute delle popolazioni. O almeno questo è quanto sostiene Human Rights Watch in un suo recente rapporto (The Forever Mines : Perpetual Rights Risks from Unrehabilitated Coal Mines in Mpumalanga, South Africa ) con cui accusa il governo sudafricano di non garantire la bonifica, il risanamento delle miniere abbandonate. Di non aver fatto nulla per rimediare a tale “eredità tossica”.

E ovviamente vengono messe sotto accusa anche le compagnie minerarie che «per anni hanno tratto profitti dallo sfruttamento del carbone, ignorando però le proprie responsabilità al momento di ripulire, bonificare il degrado, l’inquinamento che si sono lasciate alle spalle».

Lasciando sovente alle comunità locali l’onere di rimediare ai danni.

  1. Alla realizzazione del dossier di Human Rights Watch hanno contribuito decine di esponenti delle comunità locali (compresi i genitori dei numerosi bambini che hanno perso la vita precipitando in pozzi a cielo aperto), rappresentanti di associazioni locali e di ong, ricercatori universitari e personale sanitario. E anche molti “minatori individuali” o che operavano comunque a livello artigianale, al di fuori delle compagnie minerarie. In genere tra i residui di quelle abbandonate con gravi conseguenze per la salute. Come ha ben documentato Human Rights Watch riportando oltre 300 decessi di questi “zama – zama”. Deceduti in gran parte per il crollo dei tunnel, in minor misura per intossicazione da gas o incidenti con esplosivi). Inevitabile un raffronto con i garimpeiros di Brasile e dintorni o con i minatori (in genera persone anziane o giovanissime) che scavano (scavano?!) tra i residui, gli scarti delle miniere boliviane.

Su 2300 miniere prese in esame e classificate “ad alto rischio” (tra cui sono centinaia quelle di carbone), soltanto 27 sono state bonificate in Sudafrica. Si tratta di quelle da cui si ricavava l’amianto (in genere “amianto nero”, più nocivo, ma meno costoso da estrarre e che ha distrutto la salute di migliaia e migliaia di minatori neri).

Specificatamente per quelle di carbone, si è potuto documentare come i residui minerari esposti alle intemperie contribuiscano ad aumentare notevolmente l’acidità dell’acqua e dei terreni. Il fenomeno conosciuto come ”drenaggio minerario acido” provoca sia l’inquinamento delle acque che la sterilizzazione dei terreni, oltre a corrodere e danneggiare irreparabilmente le infrastrutture di approvvigionamento dell’acqua potabile.

Se l’UE è il principale partner commerciale del paese, la Cina è presente in misura sempre maggiore con investimenti di varia natura

Decine di compagnie minerarie sudafricane si rifiutano di rendere pubblici i loro piani sociali e di lavoro, o SLP, come richiesto dalla legge. Senza l’accesso a questi documenti, le comunità hanno difficoltà a valutare gli impegni sociali delle compagnie minerarie o a ritenerle responsabili. Questi piani dovrebbero descrivere in dettaglio come le aziende sosterranno la creazione di posti di lavoro e il miglioramento dei servizi nelle città in cui estraggono. L’organizzazione no-profit Mining Affected Communities United in Action (MACUA) stima che tra il 70 e il 90% delle miniere in Sudafrica non pubblichino i loro piani.

Fondata nel 2011, la miniera di Kolomela, a 22 chilometri dalla città di Postmasburg, nella provincia di Northern Cape, produce ogni anno oltre 9 milioni di tonnellate di minerale di ferro. Dal 2021, Kolomela, che è di proprietà della filiale locale del gigante minerario Anglo American, Kumba Iron Ore, ha respinto gli sforzi del MACUA e dei membri della comunità per ottenere una copia dello SLP 2020-2024 della miniera (“Mongabay”).

Oggi il Sudafrica non è più leader mondiale della produzione dell’oro, sebbene secondo le stime dell’US Geological Survey detenga il 50% delle risorse aurifere del pianeta, ma è ancora in testa a livello continentale. Le riserve però iniziano ad esaurirsi e il paese è passato dal 15% della produzione mondiale al 12%.

Questa situazione, con la diminuzione delle miniere e la perdita del lavoro, non ha fatto che peggiorare le condizioni di vita e di lavoro dei minatori, uomini, donne e bambini che accettano condizioni lavorative degradanti e rischiano di morire per poter sopravvivere. Una miniera dismessa è terreno fertile per minatori illegali che cercano l’ultimo filone in autonomia o con l’aiuto degli ultimi tra i disperati. Tra il 2004 e il 2015 un terzo delle 180.000 persone che lavoravano nel settore minerario sudafricano sono state licenziate. Molte sono tornate alle miniere da sole, illegalmente (“Orovilla”). Imponenti e ricorrenti scioperi hanno prodotto scontri e massacri della polizia a difesa di istituzioni e investitori cinesi ed europei, che hanno chiesto all’ex sindacalista compagno di Mandela Ramaphosa di eliminare tasse e promesse di maggiori diritti per i lavoratori: «Le lotte che lo attraversano, tanto dei minatori neri e spesso migranti quanto delle popolazioni nere locali, trascendono il più delle volte i confini nazionali, proprio a causa del carattere non-nazionale dei bersagli e delle rivendicazioni in reazione al Trade, Development and Co-operation Agreement: il piano di liberalizzazioni previsto dall’accordo ha infatti imposto leggi sul lavoro, riduzione dei salari, privatizzazione delle aziende statali, leggi sull’immigrazione e tagli alla spesa pubblica in nome di un “rilancio” dell’economia sudafricana. instaurando un regime commerciale preferenziale tra l’UE e il Sudafrica, con la creazione progressiva di zone di libero scambio (ZLS) per la libera circolazione delle merci. Questo vale sia per gli scambi commerciali, sia per gli investimenti, definendo di fatto l’UE come principale partner economico del Sudafrica. Secondo un modello ormai diffuso su scala globale e di cui l’Ue si fa promotrice, le zone economiche… Se l’UE è il principale partner commerciale del paese, la Cina è presente in misura sempre maggiore con investimenti di varia natura. Come si legge sul sito di Taung Gold, una delle principali società finanziarie cinesi attiva principalmente nel settore minerario, la Cina “è profondamente consapevole dell’importanza degli investimenti cinesi in Sudafrica”. Taung Gold è da oltre un decennio una delle molte imprese della Repubblica Popolare che investono in Sud Africa, soprattutto nel settore minerario. Tra gli esempi più significativi vi è l’acquisizione da parte del Gruppo Jinchuan e del China-Africa Development Fund del 45% di Wesizwe Platinum, una junior mining company» (“ConnessioniPrecarie”). E allora, come riportava “Il Post” nel luglio 2019, i vertici militari sudafricani avevano deciso di usare l’esercito per reprimere le proteste e gli scontri iniziati dopo che l’ex presidente Jacob Zuma era stato incarcerato nel luglio per un episodio di corruzione da parte della francese Thales: una tangente relativa all’acquisto di una partita di armi nel 1999. La difesa dell’ex presidente e del suo sistema di corruzione è solo la miccia che ha fatto esplodere la rabbia, temuta da Pretoria, ma anche da UE e Cina: «Le rivolte sono il prodotto delle disuguaglianze crescenti che la fine dell’apartheid non ha saputo ridurre, e di rivalità politiche all’interno del partito al potere, l’African national congress (Anc)»; Zuma è un populista zulu, eroico combattente da giovane, e anche questi elementi sono alla base delle rivolte contro le barriere sociali sostituite dagli stranieri al posto di quelle razziali. Alla fine si sono visti anche i carri armati Olifant e sono arrivati 25.000 soldati ad appoggiare le forze di polizia. L’ultimo bilancio avrebbe parlato di 212 vititme e migliaia di feriti e arresti.

Perciò le necessità di armi dell’esercito sudafricano deve rispondere al contenimento di rivolte interne: infatti nella più imponente esercitazione militare dell’esercito sudafricano tenutasi nel novembre 2022 (Vuk’uhlome – “alzati e armati” in lingua zulu) ha testato la capacità e lo stato di preparazione della forza terrestre, supportata dalle Forze Speciali SA, dall’Aeronautica Militare SA (SAAF), dal Servizio Sanitario Militare SA (SAMHS), dalla Divisione di Polizia Militare e dalla Divisione Servizi Legali. Durante il Distinguished Visitors’ Day dell’esercitazione sono state dimostrate numerose capacità, che vanno dalla gestione dei disordini civili al lancio di forze aeree con il paracadute, agli attacchi di precisione con razzi e artiglieria, alle operazioni di controinsurrezione, agli attacchi di fanteria… Le Forze speciali, con le loro armi e i loro veicoli, hanno svolto un ruolo importante nella battaglia simulata, che ha visto il coinvolgimento di veicoli corazzati, tra cui i carri armati Olifant.

L’Aeronautica militare ha sostenuto l’esercitazione con aerei da trasporto Cessna Caravan e C212, elicotteri da trasporto/utilità Oryx e A109 e un elicottero d’attacco Rooivalk. Quest’ultimo non ha sparato, ma due caccia-addestratori Hawk Mk 120 hanno sganciato bombe sul poligono di Lohatla. La SANDF è penalizzata da un massiccio sottofinanziamento aggravato da una lista crescente di compiti, oltre che dall’invecchiamento dell’equipaggiamento – non è chiaro quando riceverà i nuovi veicoli da combattimento di fanteria Badger da Denel. Tra le recenti acquisizioni figurano i fucili di precisione Truvelo, i lanciagranate da 40 mm Milkor, i fucili senza rinculo Carl Gustaf Saab, i veicoli con cannone antiaereo ZSU-23-2 montati su Land Cruiser e i veicoli con mortaio Scorpion da 60/80 millimetri (tutti con ogni evidenza sistemi di contenimento interni e non di difesa da potenze straniere). Una grande esposizione dell’industria della difesa ha fatto parte dell’esercitazione Vuk’uhlome, con più di mezza dozzina di aziende che hanno esposto i loro prodotti. Tra queste, Reutech (radar e torrette d’arma), Canvas and Tent (alloggi da campo), Rheinmetall Denel Munition (energia verde), Global Command and Control Technologies (soluzioni di comando e controllo), Dinkwanyana Aerospace (veicoli aerei senza pilota), OTT Solutions (veicoli corazzati, tra cui il dimostratore Ratel Service Life Extension) e Denel. Quest’ultima ha presentato i suoi veicoli da combattimento per la fanteria Badger e RG41, i veicoli corazzati per il trasporto di personale RG21 e RG31 e l’obice semovente T5-52. SVI Engineering ha portato nell’area espositiva due dei suoi veicoli blindati (Max 3 e Max 9). L’azienda ha anche fornito veicoli da mortaio Scorpion alla SANDF (“DefenceWeb”). Ma i 9 velivoli C-47TP in servizio con il 35° Squadron della South Africa Air Force sarebbero quasi tutti a terra in attesa che la società Armscor reperisca sul mercato pezzi di ricambio; le difficoltà economiche della Difesa sudafricana si riflettono pesantemente sulle capacità della SAAF che da mesi tiene a terra per mancanza di ricambi e assistenza l’intera flotta di 26 velivoli da combattimento SAAB Jas 39 Gripen (“AnalisiDifesa”).

LA COMPAGNIA MAROCCHINA MANAGEM FARA’ AFFARI D’“ORO”

di Gianni Sartori

Novità rilevanti anche dal Marocco con l’ormai centenaria compagnia Managem sempre più “leader regionale” (ma con aspirazioni evidentemente “continentali”) nell’industria mineraria africana. Da circa vent’anni va ampliando il suo raggio d’intervento in Sudan (oro), Gabon, RdC (sarà mica per il coltan?) e Guinea (ancora per l’oro).

Verso la fine di dicembre il direttore generale di Managem ha annunciato di aver sottoscritto un accordo (una transazione del valore di circa 280 milioni di dollari) con la canadese Iamgold Corporation per acquisire la proprietà di alcuni progetti di estrazione aurifera in Mali (progetto Diakha-Siribaya), Senegal (progetti Boto, Boto ovest, Daorala, Senala ovest) e Guinea (progetto Karita): una striscia unica di territorio conteso tra Senegal, Mali e Guinea: Bambouk Assets che il Marocco si è attribuito con la dichiarata intenzione di aumentare la propria produzione di oro dato che finora si era posizionata ben lontana dai livelli di produzione di compagnie come Iamgold, Endeavoure, B2Gold o Kinross Gold.

ESCALATION MAGHREBINA

A questi territori, per quanto contigui, va assicurata la sicurezza, perciò il Marocco si riarma e si fa forte delle alleanze strette con Usa e Israele.

Per un controllo capillare della sicurezza nell’estrazione mineraria la prima mossa fondamentale è il controllo dall’alto del territorio e infatti in combutta con Sabca (l’impresa marocchina dell’aerospaziale) troviamo Sabena– di Blueberry Group – e Lockhead impegnatee nel progetto di realizzare la prima officin di manutenzione dei C130, essenziale per la sovranità del Marocco. I media riferiscono di piani marocchini per l’acquisto di 22 elicotteri T129 ATAK per un valore di 1,3 miliardi di dollari. L’accordo si aggiungerebbe a un ordine per 36 elicotteri d’attacco AH-64E Apache e relative attrezzature, per un costo stimato di 4,25 miliardi di dollari. Riconoscendo l’importanza della superiorità aerea nel contrastare qualsiasi minaccia alla sicurezza nazionale che possa derivare dalla crescente instabilità del Sahel e dell’Algeria, il Marocco ha anche ordinato altre 25 unità di caccia F-16C/D Block 72, che porteranno il numero totale della flotta di F-16 del Marocco a 48 unità. L’evoluzione della strategia militare del Marocco pone inoltre particolare enfasi sulla guerra con i droni, utilizzata contro la resistenza saharawi; e proprio in seguito allo strappo di Trump con l’imposizione degli Accordi di Abraham in cambio del riconoscimento della occupazione illegittima del Sahara occidentale da parte di Rabat è stata agevolata la partnership con Israele, il cui capo di stato maggiore a luglio fece la prima visita a Rabat, secondo Reuter per rafforzare la cooperazione militare e quindi “AnalisiDifesa” informava in ottobre che l’esercito del Marocco aveva acquistato 150 UAV WanderB e ThunderB dall’israeliana BlueBird Aero Systems.
La Reuters ha riferito che gli Stati Uniti hanno proceduto con la vendita al Marocco di quattro droni MQ-9B SeaGuardian e di armi a guida di precisione per un valore di 1 miliardo di dollari. I media israeliani hanno anche riferito che il Marocco sta cercando il sistema di difesa aerea e missilistica Barak MX in un accordo del valore di oltre 500 milioni di dollari. Il Marocco ha già acquistato indirettamente gli UAV Heron di IAI e altri UAV dell’unità Bluebird di IAI, oltre a sistemi di veicoli robotici di pattugliamento di Elbit Systems e intercettatori di droni di Skylock. Negli ultimi due anni, il Marocco ha aumentato le importazioni di droni. Li ha acquistati da diversi paesi come Cina, Turchia, Francia e Israele, costituendo così una vera e propria flotta, probabilmente la più sviluppata del Nordafrica, secondo gli specialisti. (“Challenge”).

Il Marocco intende mettere in produzione droni di fabbricazione propria con tecnologia israeliana e perciò ha realizzato un partenariato con i belgi di Orizio, gruppo aerospaziale che costruirà un centro di manutenzione per F-16 e elicotteri a Benslimane. La spesa per la Difesa ha raggiunto il 5,2% del pil marocchino.


L’operazione di addestramento “Desert Shield”, svoltasi a novembre con forze congiunte russe e algerine al confine con il Marocco, coincide con un’escalation del riarmo regionale. L’Algeria ha annunciato che aumenterà a 23 miliardi di dollari il suo budget militare del 130 per cento nel 2023 per raggiungere il 12 per cento del suo prodotto interno lordo grazie all’aumento dei prezzi del gas e del petrolio. Di questi, 5 miliardi sono destinati a operazioni fuori dai confini in seguito all’estinzione dell’Operazione Barkhane nel vicino Mali a supporto della milizia Wagner. Mosca è il maggior fornitore di armi di Algeri (in particolare i carri armati T-90M, nuova versione di quelli datati 1993 e usati ancora in Siria dall’esercito russo; i missili terra-aria S-350 e Buk-M2, corrispondenti ai Barak-8 israeliani in dotazione a Rabat), che partecipa a tutte le manovre congiunte dell’esercito russo. Algeri ha stipulato un contratto di 12 miliardi di dollari per l’acquisto di caccia Sukhoi SU-75 “Checkmate” Viste le debacle delle armi russe (proprio quei residuati bellici dei BMP-1 e 2 in dotazione all’esercito algerino) può darsi che il budget sproporzionato sia volto a differenziare le fonti di approvvigionamento, ipotizza Abdelhak Bassou a “Le360”: «Questo aumento del budget potrebbe essere spiegato dal desiderio del governo algerino di calmare gli occidentali acquistando armi da loro. Un modo per soddisfare tutti. Ma è ovvio che più la Russia si isola sulla scena internazionale, più i suoi satelliti si isolano. A meno che non ci sia una svolta e l’Algeria cambi le carte in tavola».
Ad alimentare le tensioni nella regione si aggiunge anche l’Iran, alleato di Putin, che ha confermato ufficialmente la fornitura dei suoi droni all’esercito algerino e al gruppo separatista del Polisario, gli stessi usati dalla Russia nella sua guerra contro l’Ucraina (“l’Opinione”).

I due paesi sono divisi non solo dai. Fosfati saharawi, ma anche dai percorsi di gasdotti: quello algerino interrotto nell’ottobre 2021 (al momento del riconoscimento di Madrid della sovranità spagnola sul Sahara occidentale) e che transitava dal Marocco per convogliare gas in Spagna; e quello che dalla Nigeria, lungo tutta la costa atlantica, porterebbe off-shore fino in Spagna la pipeline (“JeuneAfrique”).

Dunque di nuovo sono i minerali dietro a un consistente riarmo… Come in Sahel e Centrafrica.

ESTRAZIONE ED ESPORTAZIONE IN SAHEL.
MINERALI DI VALORE DOPO L’USCITA DAI CONFINI

di Gianni Sartori
IL MALI VERSO LA LIBERALIZZAZIONE DEL SETTORE?

Mentre il regime militare del Mali annunciava la creazione di una compagnia mineraria nazionale, quasi contemporaneamente (ai primi di dicembre), dal ministero delle Miniere arrivava un comunicato con cui sostanzialmente si apriva la strada a ulteriori liberalizzazioni in materia di “permessi di esplorazione e permessi di sfruttamento minerario”.
Con ogni probabilità, viste le recenti difficoltà incontrate nel settore, lo stato ritiene così di attrarre investimenti stranieri nello sfruttamento delle risorse minerarie.

Ma non tutti esultano, ovviamente. Per esempio i portavoce del Consiglio locale della gioventù della zona aurifera di Kenieba (regione di Kayes, dove già sono attive una mezza dozzina di società minerarie) hanno protestato vigorosamente in quanto «prima di concedere i permessi di esplorazione e di sfruttamento, si deve consultare la popolazione». Soprattutto per “valutare l’impatto ambientale” e sapendo che «verranno espropriate terre coltivabili per cui alla popolazione si dovranno quantomeno offrire delle adeguate compensazioni».
Attualmente tra i minerali estratti in Mali, l’oro rappresenta il 10% del pil e circa l’80% delle esportazioni.

STERILI POLEMICHE SUL BURKINA FASO?

Da segnalare anche la polemica (strumentale?) scatenata dal presidente del Ghana Nana Akufo-Addo mentre si trovava (guarda caso) a Washington, accusando il Burkina Faso di aver ceduto alla compagnia russa Wagner una miniera d’oro a pagamento dell’intervento militare contro l’insorgenza jihadista.
Notizia immediatamente smentita da Simon Pierre Boussim, ministro di Energia, Miniere e Cave, nella conferenza stampa del 20 dicembre, organizzata con l’ITIE-Burkina (Comitato per la Trasparenza nelle Industrie Estrattive) nella capitale Ouagadougou dell’ex Alto Volta.

In realtà in Burkina Faso esiste già una presenza russa in campo minerario (si parla di tre miniere sfruttate da Nordgold). Ma qui operativa da oltre dieci anni
(“Acled”).

ESCALATION SAHELIANA

Paradossalmente la strategia di influenza della Russia in Africa si basa su interessi economici relativamente minori. Il commercio della Russia con l’Africa non supera i 30 miliardi di dollari, il che non la colloca tra i primi venti partner del continente. Quest’ultima, ricca di materie prime, non è molto complementare alla Russia. «La Russia ha firmato molti accordi di cooperazione economica dal 2014, ma pochi sono stati attuati», ha dichiarato Thierry Vircoulon, per il quale «stiamo anche aspettando di vedere se il suo ruolo nel traffico d’oro in Africa aumenterà e se le promesse forniture di petrolio si concretizzeranno».
Per Maxime Audinet: «nell’Africa subsahariana, la posta in gioco economica è secondaria per Mosca, rispetto alla posta in gioco simbolica della proiezione di potenza, anche se le sue leve, come Wagner, sono pagate a peso d’oro in cambio della loro fornitura di sicurezza attraverso l’estrazione di materie prime come oro, diamanti o legni pregiati» (“LesEchos”).

E infatti le armi presenti sul territorio sono sistemi di lancio di multimissili Aml e Sam SA-7°; elicotteri Mi-17 e siste i di difesa antiaerea ZPU-4: tutte tecnologie belliche utili per il contrasto al terrorismo jihadista e per la difesa delle miniere d’oro.

Lo stato russo cerca di estendere la propria influenza attraverso la vendita di armi: è il principale fornitore dei paesi dell’Africa subsahariana, oltre ad avere importanti contratti con Algeria ed Egitto. Poi Wagner assicura la protezione di leader o addestra soldati in molti paesi: Mali, Libia, Madagascar, Sudan, Mozambico, Repubblica Centrafricana (dove è accusato dalle Nazioni Unite di racket, stupri e torture), e probabilmente anche Burkina Faso.

Tuttavia, i mercenari hanno subito sanguinose battute d’arresto in Libia e Mozambico e il Mali sembra ora deluso dal loro coinvolgimento. Come i suoi rivali, anche lo stato russo ha firmato accordi ufficiali di cooperazione militare con una trentina di paesi, che sulla carta sono vantsggiosi ma spesso corrispondono a qualche esercitazione congiunta, senza garanzie di sicurezza reciproca. La Russia non ha ancora una base militare permanente nel continente, nonostante un progetto in Sudan.

In Sahel, ritirata Barkhane, rimangono le milizie jihadiste e la Wagner, il cui armamento sul terreno fornisce risorse alle esigenze dell’occupazione. Dal 2020 tra Libia, Mali, Burkina la Wagner ha dispiegato i caccia Mig-29 e i Su-24, ma questi non sono l’unico equipaggiamento pesante in dotazione: la Pmc russa ha ricevuto anche almeno un veicolo di difesa aerea Pantsir S1, diverso da quelli utilizzati dall’Lna e da Wagner e “prestato” dagli Emirati Arabi Uniti. Per proteggere i suoi aerei, Wagner ha utilizzato radar P-18 Spoonrest oltre a quelli dell’Lna.

Per i loro movimenti i “musicisti” di Wagner utilizzano veicoli blindati prodotti in Russia da un’azienda appartenente al gruppo di società Yevgeny Pirigozhin. Il veicolo è chiamato Valchiria, Chekan, Shchuka o Wagner Wagon[13], ed è un MRAP costruito su un telaio URAL dalla società EVRO POLIS LLC. Tra le armi importate da Wagner ci sono MRAP GAZ Tigr-M, cannoni D-30 da 122 mm e obici MSTA da 152 mm. Per quanto riguarda le armi leggere, le truppe di Wagner utilizzano AK-103 e soprattutto il fucile da cecchino Osiris T-5000. Wagner ha utilizzato alcuni droni durante le sue operazioni, in particolare Zala 421-16E e Orlan 10s. E quando si ritirano i miliziani spargono mine antiuomo MON-50, 90 e 100 (Rosa Luxemburg Stiftung).

MATERIALI GREZZI LAVORATI IN LOCO…
MA CON INVESTIMENTI STRATEGICI AMERICANI

di Gianni Sartori

LA ZLECA SI VA ESPANDENDO?

Risaliva a tre anni fa l’annuncio da parte di Albert Muchanga (commissario allo Sviluppo economico, al Commercio, all’Industria e all’Attività minerarie dell’Unione africana) di consultazioni amichevoli tra due delle maggiori entità minerarie dell’Africa: il Congo e lo Zambia. Nazioni nei cui territori sono sepolte ingenti quantità di minerali fondamentali per la produzione delle batterie per i veicoli elettrici e che ora, in base ai futuri accordi, dovrebbero poterle produrre autonomamente e direttamente.

A suo tempo per esporre i progressi di tale progetto Muchanga aveva scelto l’occasione del Mining Indaba, il maggior meeting del settore minerario africano; e fondamentale era stato l’anno scorso il ruolo di Muchanga nel veder ratificare l’Accordo sulla Zona di libero-scambio continentale africano (Zleca).


E GLI USA? DIVERSAMENTE DALLE STELLE DI CRONIN NON STANNO A GUARDARE

Gli Stati Uniti non stanno a guardare naturalmente. Firmato recentemente da Washington un accordo (un memorandum d’intesa) con Repubblica democratica del Congo e Zambia (con i maggiori giacimenti di cobalto e rame) sui metalli per le batterie.
Nell’accordo è previsto un investimento da 55 miliardi di dollari nel giro di tre anni.
Fondi elargiti dalla Minerals Security Partnership (vi aderiscono Corea del Sud, Canada, Australia, Regno Unito, Giappone, Regno Unito…) a sostegno dei sistemi sanitari, per la tutela del lavoro femminile, nella lotta ai cambiamenti climatici…
Ma anche, o soprattutto, per investire nei progetti per le auto elettriche. Allo scopo dichiarato di contrastare l’egemonia cinese (visto che Pechino, a titolo di esempio, controlla già gran parte delle miniere di cobalto nella Repubblica democratica del Congo).
Come ha preannunciato il segretario di Stato Antony Blinken: «Washington esplorerà meccanismi di finanziamento e di sostegno agli investimenti nelle catene africane dei veicoli elettrici».

In pratica verranno finanziate sia le estrazioni minerarie che la lavorazione dei metalli estratti (raffinerie e affini). Oltre alle operazioni di riciclaggio. Alla vasta operazione partecipano alcune case automobilistiche (General Motors, Ford, Tesla…) e le compagnie minerarie Albemarle e Piedmont Lithium.

ENNESIMO ECOCIDIO NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO?

Suscita preoccupazione questo ulteriore coinvolgimento della Rd C in progetti estrattivi di rilevanza internazionale.

Sia per la drammatica situazione in cui versano le popolazioni del Nordest del paese (sotto accusa l’estrazione del coltan e le milizie di M23 sostenute dal Ruanda), sia per il già bistrattato ecosistema naturale. Ça va sans dire, soprattutto nelle zone sottoposte a estrazioni petrolifere o minerarie e alla deforestazione. Anche per diretta responsabilità del governo congolese che «svende le foreste che dovrebbe proteggere» (come denunciava un portavoce di Greenpeace).

Governo e ministri sotto accusa non soltanto da parte dei “soliti” ambientalisti, ma anche da associazioni di studiosi e scienziati. Come il Consiglio per la difesa ambientale attraverso la legalità e la tracciabilità (Codelt) e l’Acedh (una Ong regionale) che hanno condotto studi approfonditi sulla foresta pluviale della Cuvette Centrale (provincia di Ituri, sotto stretto controllo militare dal maggio del 2021). Dove appunto si estrae gas, petrolio e oro. Sarebbero soprattutto le miniere aurifere, in continua espansione anche nelle aree protette, a contaminare, distruggere gli ultimi lembi di foresta pluviale dove sopravvive un mammifero raro (da “Lista rossa”), a rischio estinzione, come l’okapi. Oltre ad abbattere le piante e dragare illegalmente i fiumi, i minatori si dedicherebbero al bracconaggio.

Da quasi un decennio l’area viene sfruttata – previo accordo col governo – dalla compagnia Kimia Mining. L’anno scorso ben 205 ong locali, a cui si associava Greenpeace, avevano chiesto al governo della RdC di ritirare le concessioni minerarie alla società cinese. O almeno quelle all’interno della riserva naturale per le okapi.

ENNESIMA GUERRA MONDIALE AFRICANA

Come scrivono anche Marco Dell’Aguzzo e Giuseppe Gagliano l’intervento degli Usa va inquadrato nella necessità di disturbare gli affari minerari cinesi in Africa, in vista della produzione massiva di auto elettriche e dunque del bisogno di Litio e Cobalto: la supply chain africana derivante dall’interdizione finalmente dell’esportazione di litio non lavorato (una mossa dal sapore anticoloniale, che potrebbe, se la stesa misura venisse adottata da molti altri paesi del continente, cominciare uno sviluppo industriale – e di mercato interno – invece di essere solo suolo da depredare).

Dovranno dare lavoro in loco: potrebbe essere un passo avanti. Peccato che gli Usa si propongano essenzialmente per contrastare la penetrazione di Pechino in Africa: le aziende cinesi possiedono la maggioranza delle miniere di terre rare africane e così gli americani si frappongono, impiantando quelle industrie in loco richieste da governi che cercano così di arginare il saccheggio… il problema è che se gli americani cederanno la tecnologia per la lavorazione, si prenderanno una larga fetta del prodotto finale (una mossa essenziale per approvvigionarsi senza arricchire l’avversario) e i cinesi si faranno pagare l’estrazione dei minerali grezzi, agli africani non rimane di nuovo nulla, se non la parvenza di essere entrati a far parte del mercato e non più solo merce – nel caso venga adottata una parte di manodopera locale (che non potrà essere giocoforza specializzata). E così si torna allo Zimbabwe, da cui avevamo cominciato questo safari africano.

Ma il Congo è teatro di scontri e riedizioni di conflitti (la Guerra mondiale africana risale a pochi lustri fa e sembra prepararsi in Kivu di nuovo) che vedono contrapposte le milizie armate da Kigali (come l’M23) all’esercito di Kinshasa e alle truppe di Nairobi –ultimamente – o dell’Uganda.


I gruppi della società civile hanno condannato l’estrazione illegale di oro nella riserva naturale di Okapi, nella Repubblica Democratica del Congo. Da diversi anni, una società di proprietà cinese, la Kimia Mining, ha una concessione all’interno della riserva, rilasciata irregolarmente dal governo della RDC. I gruppi chiedono l’immediata revoca della concessione per proteggere la riserva

In una conferenza stampa tenutasi il 18 ottobre, hanno accusato la Kimia di aver ridotto la copertura forestale, inquinato i fiumi e compromesso l’habitat forestale della riserva. La riserva, inserita dall’Unesco nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità in pericolo, si estende per circa 13.700 chilometri quadrati della foresta pluviale dell’Ituri.  È anche la casa dei nomadi indigeni Efe e Mbuti, che dipendono dai fiumi che nascono nella riserva, ha dichiarato Gabriel Nenungo, coordinatore dei geologi della provincia di Ituri: «Abbiamo osservato le draghe gestite dai cinesi nel fiume Ituri e le fosse di mercurio aperte sono visibili dall’alto». L’attività mineraria ha attirato gruppi armati che trafficano in pelli di okapi e avorio.

L’esercito della RDC fornisce servizi di sicurezza alla Kimia Mining, nonostante le leggi vietino di associarlo alle operazioni minerarie. (“Mongabay”).

Novembre

29 novembre

    • I coyotes mondiali

      • Il 29 novembre Defense Security Cooperation Agency pubblicava la notizia della concessione da parte del Dipartimento di stato americano della vendita di sistemi di difesa antidrone per una spesa pari a un miliardo di dollari in cambio di 10 Fixed Site-Low, Slow, Small Unmanned Aircraft System Integrated Defeat System (FS-LIDS) System of Systems, includendo 200 Coyote Block 2 interceptors; e poi Counter Unmanned Electronic Warfare System (CUAEWS); Coyote launchers; Ku Band Multi-function Radio Frequency System (KuMRFS) radars; Forward Area Air Defense Command e Control (FAAD C2); Counter Unmanned Electronic Warfare Systems (CUAEWS).
      • Lo riportava “BreakingDefense” sottolineava come i principali contractor Raytheon, Northrop Grumman and R&D company SRC.A Marzo si leggeva nel rapporto Sipri del confronto tra il 2017-2021 con il decennio precedente e riprendiamo da lì per inquadrare questa notizia novembrina in omaggio all’esiziale mondiale di calcio ottenuto da Doha (che secondo quel dossier aveva incrementato la spesa del 227% rispetto al lustro precedente) con la corruzione di Sarkozy, Platini e Guéant prima e poi con il sostegno di parlamentari europei di sinistra che negano l’evidenza del sistema omicida e criminale del Qatar (ci limitiamo a suggerire che Messi e Mbappé giocano entrambi nel Psg, che è di proprietà dell’emiro di Doha, un caso che la finale sia per magia tra le loro due compagini?): infatti l’Atlante delle guerre riassumeva così la situazione del Medio Oriente a marzo:

        «Si stabilizzano le importazioni di armi in Medio Oriente. Dopo il forte aumento registrato nel decennio precedente (86% in più tra il 2007-11 e il 2012-16) gli stati mediorientali hanno importato ‘solo’ il 2,8% di armi in più nel 2017-21 rispetto a quello precedente. Il conflitto in Yemen e le tensioni tra l’Iran e altri stati della regione restano alla base delle importazioni di armi nell’area. L’Arabia Saudita si conferma un grande importatore, il secondo al mondo, con un 27% in più investito in armi nel periodo 2012-16, rispetto al precedente.
        Le importazioni di armi del Qatar sono cresciute del 227%, spingendolo dal 22esimo importatore di armi al sesto. Al contrario, le importazioni di armi degli Emirati Arabi Uniti sono diminuite del 41%, passando così dal terzo al nono posto. Tutti e tre questi stati, insieme al Kuwait hanno poi effettuato ingenti ordini che prevedono la consegna nei prossimi anni. Nell’area, poi, Israele ha aumentato le importazioni di armi del 19%».

    • E poi le esportazioni statunitensi verso Riyad sono aumentate del 106%. Ma a cosa serve l’enorme quantità di armi, le più disparate per ogni tipo di guerra, sparpagliate per tutta la penisola araba?

19 novembre

  • La guerra dei droni da Astana

    • La notizia in autunno sul fronte dell’approvvigionamento dei droni per le attività dell’aviazione russa è che si è raggiunto un accordo per impiantare in tempi brevi  uno stabilimento con la tecnologia iraniana direttamente in territorio russo; a rivelarlo il Washington Post, successivamente rilanciato da tutte le testate del mondo. Come sottolinea “DroneBlog”:

      questo accordo oltre che essere strategico mette in luce ancora di più il rapporto e la cooperazione militare fra Iran e Russia, che sta svolgendo un ruolo chiave in Ucraina. Se il nuovo accordo sarà pienamente realizzato, significherebbe un ulteriore rafforzamento dell’alleanza russo-iraniana. Questo accordo, oltre a migliorare la disponibilità di armi all’esercito russo, toglierebbe dall’isolamento l’Iran, dando una nuova spinta economica a un sistema interno collassato ormai da anni e alle prese con una rivoluzione in atto

  • In piena continuità con gli accordi di Astana, che tanto abbiamo analizzato in OGzero.
    E sempre “DroneBlog” scrive che «finora Teheran ha cercato di presentarsi come neutrale nel conflitto ucraino , ma si scopre che sempre più droni di fabbricazione iraniana vengono utilizzati per attaccare le città ucraine, innescando minacce di nuove sanzioni economiche dall’Occidente». E si insinua una scommessa iraniana sul sostegno che deriverebbe dall’alleanza con Mosca per ricavare valore contrattuale per gli accordi sul nucleare
  •  Peraltro l’industria iraniana dei droni si sta già diffondendo in altri paesi. L’Iran ha aperto a maggio una fabbrica in Tagikistan, che produce il drone Ababil-2, secondo l’Eurasia Times: è stato Zelensky stesso a indicare la strategia di avvicinamento a Mosca da parte di Ankara con fini collegati al Jcpoa.
  • The Guardian” il 10 novembre accusava l’Iran di aver sostenuto militarmente fin dal 24 febbraio l’alleato russo, ma ancora prima “Wired” riportava un sistema rudimentale – ma efficace – di aggiramento delle sanzioni: contanti e baratto.
  • In estate il baratto sarebbe dimostrato dall’atterraggio il 20 agosto di 2 Ilyushin IL-76 arrivati e ripartiti da Mehrabad (la città del kurdistan iraniano martirizzata il 19 novembre dalle guardie della rivoluzione): trasportava in cambio di droni armi occidentali sottratte agli ucraini, necessarie agli ingegneri persiani per carpire le tecnologie. Ipotesi suffragate da immagini satellitari diffuse da SkyNews e da dichiarazioni rilasciate al Washington Post il 29 agosto da funzionari statunitensi.

Un ultima notazione sull’asse russo/iraniano: i droni iraniani Mohajer-6 contengono molte componenti provenienti dalla tecnologia occidentale (in particolare giapponesi,  secondo James D. Brown) – quindi senza che si debbano trasferire ordigni catturati per studio – stando alle rivelazioni di “la Repubblica”; ma, a dimostrazione che lo spargimento di morte tra civili attraverso macchine a controllo remoto non comporta scelte di campo, il Blog di Antonio Mazzeo riporta un’informazione raccolta da “DefenseNews”:

    • «Il regime turco di Recep Tayyp Erdogan finanzierà la produzione di droni-elicotteri e droni-kamikaze per il mercato nazionale e l’esportazione, decisione che non potrà non essere accolta con favore anche in Italia. La società di engineering aerospaziale Titra Technoloji, con quartier generale ad Ankara, riceverà sussidi economici governativi per realizzare il primo modello di elicottero a pilotaggio remoto in Turchia. Denominato “Alpin”, il drone-elicottero sarà prodotto in dieci esemplari all’anno, “in aggiunta a 250 droni kamikaze”».

    • La Malesia ha scelto la Turkish Aerospace Industries per la fornitura di tre velivoli senza pilota, secondo quanto dichiarato dal ministro della Difesa della nazione del Sudest asiatico e ripreso da “DefenseNews”.
      TAI aveva presentato il suo Anka, un sistema di velivoli senza pilota a media altitudine e lunga resistenza, alla fiera della difesa e dell’aerospazio LIMA nel 2019. Il 18 agosto 2022 il re malese Al-Sultan Abdullah ha visitato le strutture di TAI ad Ankara, in Turchia. Il 7 ottobre TAI ha annunciato un memorandum d’intesa per una collaborazione con il MIMOS, il centro di ricerca e sviluppo della Malesia. Ma perché la Malesia è alla ricerca di queste macchine da guerra? Le forze armate e la Guardia Costiera della Malesia sono impegnate nella lotta alla pirateria lungo le sue coste, inoltre è loro demandato a livello internazionale il controllo e l’antiterrorismo nel Mare di Sulu (tra la Malesia orientale e le Filippine meridionali, dunque all’interno del quadro anticinese del noto contenzioso nel mar cinese meridionale sulle Spratly Island e nello strategico controllo dello Stretto di Malacca).
  • La famiglia di droni Anka è in grado di svolgere missioni di ricognizione, acquisizione e identificazione di obiettivi e raccolta di informazioni. È dotata di tecnologie elettro-ottiche/infrarosse e radar ad apertura sintetica. Il produttore afferma che i velivoli hanno capacità di volo autonomo e possono decollare e atterrare da soli.La famiglia di UAV ha un’apertura alare di 17,5 metri e una lunghezza di 8,6 metri, e ha un tetto di servizio di 30.000 piedi. Possono rimanere in volo all’altitudine operativa di 18.000-23.000 piedi per più di 30 ore.
    • A metà ottobre il Kazakistan e la Turchia hanno annunciato l’intenzione di sviluppare una “cooperazione strategica a lungo termine” che preveda la coproduzione di satelliti e altri sistemi spaziali.
    • «Questo è il primo passo di una forte cooperazione con il Kazakistan nel campo dello spazio. Il memorandum d’intesa che abbiamo firmato con le società Kazsat e Ghalam sulla creazione di una cooperazione strategica a lungo termine nei settori dei satelliti e dello spazio sarà vantaggioso per il nostro paese e la nostra nazione» (Ismail Demir, Tai)

    • Infatti in maggio, secondo le informazioni di “DefenseNews“, era stato firmato un protocollo tra Kazakhstan e Turchia per la coproduzione di droni da gettare sul mercato Asean e produrre in quella che è la prima fabbrica di Bayraktar fuori dai confini turchi, con contratto che prevede anche manutenzione e riparazione. E quell’accordo faceva seguito a quello di aprile con il Kirghizistan che aveva firmato per primo un accordo per l’acquisto di un numero imprecisato di droni armati: infatti  Bishkek aveva pregato Ankara di soprassedere alla vendita dei letali droni a Dushanbe, alla luce delle tensioni sul confine (e questo spiega la rincorsa al riarmo dei due paesi dell’Asia centrale, sfruttata da Ankara per raddoppiare le vendite).
  • Il drone può essere equipaggiato con armi come il lanciamissili a lancio aereo Roketsan Smart Micro Munition e la capsula missilistica guidata Cirit da 2,75 pollici nelle due stazioni d’armamento sotto l’ala per ingaggiare veicoli leggermente corazzati, personale, rifugi militari e stazioni radar a terra. Un evidente monito per le mire espansionistiche di Mosca.
    • L’aggressività non solo verso il mercato della industria bellica turca si appropria anche di ricerche straniere, come quelle che consentono al criminale Erdoğan di arrivare al drone-elicottero: infatti Antonio Mazzeo spiega che questo velivolo è un sistema a pilotaggio remoto che potrà essere impiegato a fini civili ma soprattutto per missioni bellico-militari di intelligence e ricerca e soccorso. Il prototipo del drone-elicottero è lungo 7 metri, alto 2,35 e ha un diametro del rotore di 6,28 metri; ciò gli consente di essere trasportato in veicoli di medie dimensioni. Il suo peso non supera i 540 kg compresi apparecchiature elettroniche e carburante. L’”Alpin” ha una velocità di crociera di 160 km/h e può coprire un raggio d’azione fino a 840 km di distanza, a un’altitudine di 5000 m. L’autonomia di volo varia dalle due alle nove ore, secondo la portata del carico a bordo.
      Ma perché abbiamo usato il verbo “appropriarsi”? La risposta è nel Blog di Antonio Mazzeo (che cita “DefenseNews”):
    • «L’Alpin è basato sull’elicottero italiano ultraleggero con equipaggio umano Heli-Sport CH-7». Il CH-7 è realizzato infatti dalla Heli-Sport S.r.l. di Torino, azienda fondata dai fratelli Igo, Josy e Charlie Barbaro e specializzata nel design e produzione di velivoli ad ala rotante di ridotte dimensioni. La società si dichiara però del tutto estranea dalla vicenda.

    • In effetti l’Alpin nasce da un accordo tra la Titra turca e la Uavos californiana per convertire il CH-7 in elicottero a pilotaggio remoto: la trasformazione dei velivoli italiani in droni-elicotteri è stata avviata dalla statunitense Uavos, mentre il primo test di volo è stato effettuato nel dicembre del 2020 nei cieli della Turchia.

«L’Alpin è stato progettato per andare incontro alle richieste specifiche ed uniche della Turchia e agli interessi speciali della sua industria nazionale per operare come sistema a pilotaggio remoto in una varietà di scenari complessi nei campi civili e della sicurezza», riporta la nota emessa da Uavos a conclusione delle attività sperimentali in territorio turco. «L’elicottero convertito è indispensabile per l’industria logistica dei velivoli senza pilota per trasportare carichi in zone difficili da raggiungere e sfornite di campi di atterraggio». E viene subito in mente la configurazione del Rojava.

La Turchia – benché socio alla pari nelle concertazioni strategiche di Astana – produrrà entro due anni i tanto decantati Bayraktar TB2 in Ucraina: benché più leggeri e meno efficienti nel contrasto di un attacco aereo, i droni turchi secondo l’Agi saranno già in grado di contrastare quelli iraniani.

    • «l’Ucraina ha un ruolo di primo piano nella catena di approvvigionamento di Baykar, in particolare con il nuovo drone pesante Akinci e il jet da combattimento senza pilota Kizilelma, attualmente in fase di sviluppo, montano entrambi motori ucraini MotorSich» (“Analisi Difesa”).

Secondo Barayktar molto presto i droni turchi TB2 e Akinci potranno colpire con buona efficacia oggetti in volo grazie all’integrazione del sistema di difesa Sungur prodotto da Roketsan, mentre i droni iraniani sono pesanti e rumorosi, sono obiettivi facili perché volano a bassa quota.

Invece quelli turchi sono stati opzionati anche dal governo polacco, che ha ricevuto a ottobre 6 dei 24 TB2 comprati.

19 novembre

    • Comprare gas dalla Tunisia con veicoli militari antimigranti

      • LaLa Francia ha portato a Djerba 200 milioni di prestiti in occasione della Organisation internationale de la Francophonie; ma ha anche consegnato alla Tunisia il primo lotto di una donazione comprendente cento veicoli militari fuoristrada Masstech T4 prodotti da Technam in occasione della ventinovesima sessione della Commissione militare franco-tunisina svoltasi dal 15 al 17 novembre nella capitale del paese nordafricano e documentata da “Tuniscope”; i veicoli sono palesemente utili nel contenimento dei migranti. L’ambasciata di Francia a Tunisi sulla propria pagina Facebook ha precisato che durante i lavori della commissione è stato tratto “un bilancio molto soddisfacente” in termini di cooperazione bilaterale per il 2022. In particolare, sono state svolte 60 attività in Francia o Tunisia.Ma quella più interessante è volta a ristabilire l’asse militare tra le due sponde mediterranee:

        «Per Saied – afferma il politologo francese Vincent Geisser rilanciato da “Africanews” – ospitare questo vertice è “un successo” perché lo porterà fuori dal suo isolamento almeno temporaneamente. È una sorta di pacificazione nei suoi rapporti con i suoi principali partner occidentali, userà questo evento per legittimare una svolta autoritaria fortemente criticata».

    • In cambio la Francia cerca di comprarsi gas in quella che era la sua casa coloniale.

  • Questo veicolo, costruito a partire da un telaio Toyota Land Cruiser HZJ76, è blindato, dotato di griglie di protezione contro le proiezioni e di cinque punti di armamento. È in servizio con l’esercito francese sul territorio francese e in OPEX nel Sahel. Viene utilizzato anche dall’esercito reale giordano (“MenaDefense”)

10 novembre

  • Corsa al riarmo in Africa

    • Nel dossier dell’“Atlante delle guerre” a marzo si leggeva: «In Africa subsahariana i cinque maggiori importatori di armi sono stati Angola, Nigeria, Etiopia, Mali e Botswana. Resta un grande importatore l’Egitto che con il più 73% diventa il terzo importatore di armi a livello globale».

    • L’Etiopia ha usato abbondantemente le sue dotazioni prima di arrivare agli accordi di metà novembre: dopo due anni e un numero imprecisato di morti compreso tra mezzo milione e un milione di vittime (qui un intervento di Matteo Palamidessa raccolto da Radio Blackout).

    “Il genocidio atroce e diffuso nel Corno d’Africa”.

  • Il Mali (e il Sahel nella sua integrità) è alle prese con la necessità di difendersi dai tagliagole jihadisti dotati di armi sofisticate e dunque gli eserciti – affrancatisi da operazioni coloniali francesi, ma così indeboliti – cercano di procurarsi strumenti per liberarsi dalla tenaglia dell’insorgenza, come ci ha raccontato Edoardo Baldaro:
  • Collegata a questa situazione è la notizia lanciata da un tweet postato il 5 novembre da “Spoutenik en Français” (palese indirizzo filorusso) relativa alla richiesta a Mosca per l’acquisto di due elicotteri da parte del Burkina di Ibrahim Traoré nel quadro di un trattato di cooperazione con la Russia di Putin (che affonda le radici nei legami intrecciati tra paesi africani che hanno avviato il proprio distacco dall’Occidente con l’appoggio dell’Urss).

Gli elicotteri sono tra le macchine a uso bellico più ambite nel continente, come documenta Antonio Mazzeo nel suo blog il 10 novembre facendo cenno a una triangolazione di 6 velivoli T-129 “Atak” prodotti in Turchia da Turkish Aerospace Industries su licenza di AgustaWestland (della infinita galassia Leonardo spa) per il governo nigeriano al costo di 61 milioni di dollari. Come sottolinea Mazzeo, la versione turca dell’“Atak” (in uso in Siria, Iraq, Filippine e in futuro in Pakistan) sfodera nuovi sistemi di individuazione e tracciamento dei bersagli ed è dotato di razzi non guidati da 70 mm e missili anticarro L-Umtas.

  • «Nel bilancio della difesa nigeriano per il 2023 è previsto anche uno stanziamento di 4,5 milioni di dollari per l’acquisto di due elicotteri AW109 “Trekker, prodotti in Italia da Leonardo SpA. nel corso di un seminario delle forze armate nigeriane tenutosi a Ibom lo scorso 27 ottobre, il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica Oladayo Amao avrebbe confermato l’intenzione di acquisire 24 caccia bimotori M-346 “Master” realizzati negli stabilimenti di Varese-Venegono di Leonardo» (“DefenceWeb”).

  • L’AW109 aveva già riscosso un enorme successo ad agosto al Labace brasiliano:
  • «L’AW109 Trekker, il primo gemello leggero di Leonardo a offrire un carrello di atterraggio a pattino, mantiene la cellula dell’AW109 Grand, l’ampia cabina e le prestazioni di prim’ordine, offrendo al contempo un maggiore carico utile a un costo competitivo, dimostrando così di essere perfettamente in grado di soddisfare i severi requisiti degli operatori in termini di capacità ed economicità. L’AW109 Trekker è dotato di una cabina di pilotaggio in vetro di ultima generazione di Genesys Aerosystems che può essere configurata in base alle esigenze del cliente» (“DGualdo”, un sito evidentemente promozionale di Leonardo)

  • Oltre all’indubbio affare per Leonardo, si può ipotizzare che il gigante africano immagini un innesco di conflitti nell’area… e forse l’odore di bruciato comincia a farsi più forte nella situazione del Nord Kivu, come illustrato in questo intervento di Massimo Zaurrini:
  • “Rischio di Terza guerra mondiale africana dei Grandi Laghi?”.
  • Dunque la Nigeria si sta riarmando potentemente, è sufficiente elencare i prodotti opzionati, prenotati, comprati, acquisiti che riporta “DefenceWeb”, oltre ai T-129 citati da Mazzeo e ai due AW109: gli Stati Uniti hanno approvato la possibile vendita di 12 AH-1Z alla Nigeria nell’ambito di un potenziale accordo da 997 milioni di dollari che include armi ed equipaggiamenti (nonostante i forti dubbi riguardo il mancato rispetto dei diritti umani del regime di Abuja); riceverà due aerei da trasporto C295 da Airbus, agognati dal 2016. La proposta di bilancio della Difesa nigeriana per il 2023 include finanziamenti per la manutenzione degli L-39ZA, degli Alpha Jet e propone 2,7 miliardi di dollari per tre aerei da sorveglianza/attacco MF 212 costruito dalla Magnus Aircraft nella Repubblica Ceca e 3 miliardi (6,8 milioni di dollari) per tre elicotteri Bell UH-1D.
    La BVST ((Belspetsvneshtechnika, ditta bielorussa) ha già collaborato con l’aeronautica nigeriana, fornendo la manutenzione degli elicotteri Mi-35 e l’addestramento; ora ha trasformato gli MF212 in velivoli armati ideali per compiti di sicurezza interna, sorveglianza e pattugliamento. A quanto pare, può essere equipaggiato con un gimbal elettro-ottico iSKY-30 HD e con missili R-60-NT-L o R-60-NT-T-2. In Ottobre il capo di stato maggiore Odalayo Amao aveva già dichiarato che l’Aeronautica militare nigeriana prenderà in consegna due turboelica Beechcraft King Air 360, quattro aerei di sorveglianza Diamond DA 62 e tre veicoli aerei senza pilota (UAV) Wing Loong II. Oltre a dozzine di velivoli ordinati tra il 2016 e il 2021.

Peraltro il mercato africano – ovviamente con le sue richieste. Le disponibilità di spesa e i bisogni commisurati alla tipologia di conflitti che nell’enormemente vasto territorio che costituisce condizioni di combattimento differenti – mette sul piatto finanziamenti corrispondenti alla percezione di pericolo o di preparazione di guerre e quindi mette in piedi una propria frequentata fiera. La biennale Africa Aerospace and Defense Expo di Centurion in Gauteng (Sudafrica) si è tenuta a fine settembre, proiettando in questi ultimi mesi di 2022 le prospettive di collocazione su piazza del nuovo bombardiere B-21 Northtorpe, forse non a caso presentato in Sudafrica per le sue prerogative di deterrenza, come spiega “BreakingDefense” nelle parole del generale dell’aeronautica Jason Armagost riguardo il sistema Sentinel di cui il bombardiere è parte: « Sentinel sarà altamente resiliente e flessibile. Non solo per la nostra sicurezza, ma anche per garantire i nostri partner e alleati in tutto il mondo. Si tratta di una capacità evolutiva e sono state prese decisioni deliberate su come renderla efficiente con l’infrastruttura che abbiamo, e su come modernizzare la capacità per rimanere flessibile con sistemi di missione aperti e un’architettura digitale per evolvere con ambienti di minaccia in evoluzione», sembra la descrizione del panorama fluido africano. Il B-21 verrà definitivamente svelato il 2 dicembre assicura “MilitaryTimes”: probabilmente i paesi del continente africano non si potranno permettere questo bombardiere presentato a casa loro, ma potranno svuotare gli arsenali dei bombardieri che diventeranno obsoleti dopo l’avvento di questa macchina.

Più alla portata delle casse africane è il drone greco Archytas e soprattutto il Mwari aircraft con scopi multipli e infatti già venduto a molti paesi africani; e di quei paesi elencati all’inizio di questa scheda il Botswana probabilmente prenoterà i suoi droni in funzione antimigratoria, e allo scopo i droni presentati alla fiera sudafricana descritta nel video della scheda di ottobre fanno al caso.

AW109 Trekker

GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE Traffico 2022

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La messinscena delle prime mosse per un negoziato

Consumati un po’ di arsenali, uccise 250.000 persone tra civili e militari nella pianura sarmata, misurate alleanze e potenzialità di imporre la propria supremazia, sembra che 3 incontri contemporanei lancino segnali precisi alle cancellerie internazionali: Zelensky con il cappello in mano a Washington, Putin a organizzare le truppe a Minsk, Medvedev a ricevere ordini a Pechino. Bisogna trovare una nuova area dove proseguire la guerra ibrida mondiale con lo scopo di misurarsi in preparazione del redde rationem.

Come si è arrivati qui

Si sono definitivamente composti in un unico giorno (il primo del gelido inverno nella steppa di famose ritirate della Storia) gli schieramenti e i ruoli dei singoli in questa che, come si era capito dal 24 febbraio, era la prima fase di una lunghissima guerra ibrida tra potenze – intrecciate dalla medesima ideologia neoliberista che impone complicati legami – da combattere sulla estesa scacchiera globale, con interessi ed economie dipendenti l’una dall’altra, ma a un punto di rottura dato dall’impressione di essere equiparabili e dunque entrambe le fazioni ritengono di potersi candidare al controllo globale come potenza di riferimento: gli Usa a difendere la propria supremazia, le potenze non democratiche a proporre il loro modello di sviluppo – comunque all’interno della visione capitalista del mondo.

La disposizione sul palcoscenico

E allora si usano media e incontri per marcare il territorio in vista della lenta composizione della disputa. Localmente: Biden prepara il terreno a un nuovo piano Marshall da aggiungere agli 85 miliardi già erogati per ricostruire e “mangiarsi” l’Ucraina come gli Usa hanno iniziato a fare dal 2014 di Maidan, quando Kiev era un satellite di Mosca (ha cominciato a parlarne “Fortune” già il 7 dicembre).
Intanto i russi attivano anche Lukašenka per annettersi quanto più territorio possibile e fare da cuscinetto al confine con la Nato, arrivando alle trattative con il massimo risultato possibile («La Russia fornisce alla Belarus’ petrolio e gas a condizioni molto favorevoli e preferenziali», ha commentato Interfax a proposito della visita a Minsk, ma come fa notare “ValigiaBlu“, Putin ha dichiarato che avevano concordato di «dare priorità all’addestramento delle nostre truppe… ci forniremo reciprocamente le armi necessarie e produrremo insieme nuovo materiale militare… per l’eventuale uso di munizioni aviotrasportate con una testata speciale») e arrivando gradualmente all’annessione della Bielorussia. Ognuno potrà investire in piani di ricostruzione che faranno girare denaro utile per una nuova spirale virtuosa economico-finanziaria.
Globalmente la Cina si schiera, schermendosi – probabilmente anche per partecipare agli appalti – e senza impegnarsi direttamente in questa Prima guerra del confronto del mondo contro la Nato (che Trump aveva azzerato e Biden resuscitato, investendo una quantità di miliardi inimmaginabile), detentrice di una primazia in parte erosa dal multilateralismo di forze intermedie pronte a schierarsi in modo autonomo volta per volta, come la Turchia – appartenente alla Nato! – o l’India (due specchiati esempi di democratura), o anche i paesi del Golfo sempre più impegnati in attività di maquillage, ma anche di autonomizzazione dallo schieramento filoamericano.

«Servitor vostro»

Medvedev non è omologo di Xi, ma può ricevere indicazioni che tutte le diplomazie interpretano come invito a ritornare a una situazione in cui si possano scambiare merci con minori sanzioni o dazi; la guerra si deve spostare su altri piani, in modo che la Cina possa acquisire ulteriori avanzamenti; per uscire dalla sindrome del Giappone targata 1990 – incapace di progredire con lo stesso ritmo e quindi imploso nella sua scalata al cielo. Esistono altre potenze indopacifiche che stanno crescendo d’importanza e infatti si rinnovano i periodici scontri alla frontiera himalayana con l’India.

Lukashenka non è omologo di Putin, ma si adatta bene al ruolo di subordinato nella alleanza militare – utile per mostrare quel che resta dei muscoli di Mosca per arrivare a un primo negoziato che chiuda il contenzioso in quell’area, in attesa che si sposti altrove (e si stanno ammassando armi attorno all’Iran). Intanto è utile mostrare che almeno sulla Bielorussia il Cremlino può ancora contare ed è l’area che in questo momento è geograficamente fondamentale controllare e dove accumulare minacciosi missili logistici e strumenti ipersonici.

Zelensky non è omologo di Biden, ma è il terzo fantoccio (dagli occhi umani, non come quelli da killer come Putin nei folkloristici ritratti di Biden, fintamente gaffeur) che serve ai tre potenti della terra per lanciare messaggi agli altri due. Zelenski va a prendere gli spiccioli, oltre ai Patriot da schierare contro le dotazioni nucleari collocate contemporaneamente alla frontiera bielorussa dall’esercito russo, sapendo che poi arriveranno i soldi per la ricostruzione. E rilancia le richieste nel monologo al parlamento, mancava solo un elenco alla Leporello (ma questa volta come lista della spesa); dei tre incontri quello davvero mediatico e diffuso su ogni media è il kolossal americano, dove anche i dettagli come gli abiti indossati dai due protagonisti sono funzionali a lanciare messaggi precisi e assegnare ruoli. Zelensky è il buffone di corte in ogni senso, comprendendo pure la facoltà di asserire verità scomode, ovviamente a maggior lustro del monarca e Biden non è re Lear infatti Zelensky non ha mai la medesima statura, non solo fisicamente.

Uno schema bellico inesorabile

La concomitanza dei tre eventi non si configura come complotto globale di un’oligarchia che interpreta in modi diversi il neoliberismo e che quindi trova contrapposti gli interessi delle potenze che si misurano per spartire aree di influenza e ruoli in concorrenza e individuano volta per volta territori che si prestino al confronto perché si tratta di aree di crisi incancrenite (da anni si assisteva alle provocazioni sulle pipeline ucraine; il conflitto in Nagorno Karabakh da decenni volutamente irrisolto e costantemente rinfocolato dai vincitori; come quello del Kosovo, dove sta montando da un paio di mesi la tensione che cova dalla “fine” della guerra di Clinton tra opposti nazionalismi, coccolati apposta dai rispettivi riferimenti…); oppure nuovi protagonisti molto potenti e militarmente approvvigionati e minacciosi come le petropotenze emergenti che usano vetrine diverse – per ora strategicamente collegate con una facciata culturale (il marchio Louvre nel deserto in cambio dell’acquisto di Rafele e altre connessioni vantaggiose per Parigi), velata da megaeventi sportivi (il mondiale di football invernale, imposto a suon di corruzione e interpretando in modo ancora diverso il verbo unico capitalista) e che hanno una concezione del sistema socio-politico ancora più oligarchico e fondato sull’oppressione e la cancellazione della maggior parte dei diritti civili, usando la tradizione come collante per i poteri forti interni.

Automatismi di un ruolino di marcia bellico

Piuttosto che un accordo per svolgere ciascuno un ruolo in commedia distribuito da una regia collettiva (una pièce complottista), si può concepire questo snodo epocale come il processo innescato che non può non passare attraverso tappe inevitabili costituite da molteplici guerre. Quei conflitti che, finché non hanno coinvolto equilibri europei, erano rimasti nella percezione occidentale a bassa intensità, mentre ora si manifestano con distruzioni di arsenali e migliaia di vittime civili anche in Europa, non più solo nel Sud del mondo, dove si sparge il sale sulle ferite non rimarginate mai, per suppurare periodicamente e far esplodere furiosi combattimenti utili per sostituire localmente il predatore di turno: infatti Biden è stato spinto a finanziare potentemente il continente africano per tentare di contrastare la penetrazione di Cina, Turchia e Russia, proprio mentre non è ancora del tutto sopita la guerra in Tigray ed esplode un nuovo focolaio nel Sud dell’Etiopia per l’insorgenza dell’Oromia.

Un’ipotesi che si può avanzare sulla base delle prime mosse di incontri diplomatici ad alto livello tra non omologhi, che usano gli incontri per dettare la politica delle macrofazioni e assistere alla conseguente disposizione delle alleanze, è che si cerchi ora di comporre molto lentamente la questione ucraina, lasciandola però accuratamente non del tutto risolta; contemporaneamente preparando nuovi conflitti in aree significative per il confronto tra le maxipotenze, che possano montare ben più che per una proxy war, a impattare su una nuova emergenza (energetica, lievitando prezzi per fibrillazioni borsiste? religiosa, per induzione jihadista?…) e poi confrontarsi in un nuovo scacchiere (Taiwan?) più vicino al confronto diretto e risolutivo.

Il senso del capitalismo per la guerra

Dunque fa tutto parte della vera Guerra tra Usa e Cina, che non finirà se non trovando un’uscita dal sistema capitalistico, motore mobile che necessita e si alimenta di quel costante conflitto, perché il capitalismo ha bisogno sempre di incrementare il profitto, triturandovi tutto: industria del divertimento, alimentare, consumo di beni… industria bellica.

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LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A OTTOBRE https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-a-ottobre/ Wed, 23 Nov 2022 22:34:20 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=9604 L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A OTTOBRE proviene da OGzero.

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La guerra nei mercati

I paesi importatori di sistemi d’arma

L’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI) ha registrato 163 stati come importatori di sistema d’arma nel quinquennio 2017–21. I cinque maggiori importatori di armi sono stati India, Arabia Saudita, Egitto, Australia e Cina, che insieme hanno rappresentato il 38% del totale delle importazioni. La regione che ha ricevuto il maggior volume di sistemi d’arma nel periodo 2017–21 è stata quella di Asia e Oceania (43% del totale mondiale), seguita da Medio Oriente (32%), Europa (13%), Africa (5,8%) e Americhe (5,5%). Tra il 2012–16 e il 2017–21, i flussi di armi verso l’Europa e verso il Medio Oriente sono aumentati (rispettivamente del 19% e del 2,8%), mentre sono diminuiti quelli verso l’Africa (–34%), le Americhe (-36%), l’Asia e l’Oceania (-4.7%). La maggior parte dei 163 stati importatori era direttamente coinvolta in conflitti armati violenti o in tensioni con altri stati in cui i sistemi d’arma importati hanno giocato un ruolo importante.

I paesi esportatori di sistemi d’arma

Il SIPRI ha registrato 60 stati come esportatori di sistema d’arma nel quinquennio 2017–21, ma la maggior parte di essi sono piccoli esportatori.
«I primi 25 stati in classifica hanno fornito il 99% delle esportazioni totali con i primi cinque stati in classifica— Stati Uniti (USA), Russia, Francia, Cina e Germania—responsabili del 77% delle esportazioni. A partire dal 1950, USA e Russia (o Unione Sovietica prima del 1992) sono sempre stati di gran lunga i principali fornitori di sistemi d’arma. Nel periodo 2017–21, le esportazioni statunitensi sono state maggiori di quelle russe del 108% mentre nel periodo 2012–16 erano superiori del 34%, un divario destinato ad aumentare. Sempre nel 2017–21 le esportazioni statunitensi hanno coperto il 39% del totale mondiale ed erano superiori del 14% rispetto al 2012–16. Al contrario, le esportazioni della Russia sono diminuite del 26% e le sue quote sul totale mondiale sono crollate dal 24% nel 2012–16 al 19% nel 2017–21».


Il posizionamento del grande esportatore Corea del Sud

Secondo il “SIPRI”, i primi quattro esportatori di armi tra il 2017 e il 2021 sono Stati Uniti, Russia, Francia e Cina, con quote globali rispettive del 39, 19, 11 e 4,6%. La Corea del Sud si è classificata all’ottavo posto con il 2,8%, ma l’amministrazione di Yoon vuole che rientri tra i primi quattro.

SCMP segnala che la Corea punta a superare la Cina nelle esportazioni militari e in effetti ci sta riuscendo ampiamente. In realtà gli ambiti e i mercati sono diversi: nel 2021, quasi il 70% delle esportazioni totali di armi della Cina è stato destinato al Pakistan, mentre la Nigeria si è piazzata al secondo posto con l’8%; nessun paese europeo ha acquistato armi dalla Cina; recentissimo è il contratto favoloso della Rpc con i sauditi. Comunque «si prevede che le tensioni regionali aumenteranno ulteriormente la spesa militare nei prossimi anni e la Corea del Sud è considerata una fonte di armi “molto attraente”». E in effetti si parla di 17 miliardi di dollari di vendite di armi nel 2022 (il doppio dello scorso anno), ringraziando la guerra in Ucraina.

Il posizionamento del grande importatore Polonia

Infatti seguendo il flusso delle armi per scovare le guerre in preparazione, nel 2021 la Polonia aveva speso solo in Sudcorea 7,5 miliardi acquistando armi, a cui si aggiungono 10 miliardi di spesa nei primi 10 mesi del 2022 da parte di Varsavia, perché ci sono pochi paesi in grado di produrre armamenti con così poco preavviso. E dopo il missile ucraino sulla cascina polacca di confine “DefenseNews” informa che Varsavia ha accettato di schierare sulla frontiera i Patriot offerti da Christine Lambrecht, ministra della Difesa tedesca, che ha aggiunto anche Eurofighter Tycoon.

Strategie di fidelizzazione

Non deve stupire la generosità, perché in realtà cerca di inseguire (timidamente) la strategia statunitense che ha investito 8 miliardi di armamenti forniti all’Ucraina, facendo così promozione per i prodotti più efficaci e così acquisendo quote di mercato di armi presso l’Europa orientale e baltica che si approvvigionava in precedenza presso le produzioni europee in vista di un graduale svecchiamento degli arsenali postsovietici, inserendosi così nel processo di riempimento dei magazzini anche svuotati dai paesi limitrofi all’Ucraina per rifornire Kyiv di armi ex sovietiche, più adatte per contrastare la tipologia degli omologhi sistemi di offesa di Mosca.

La catena militare

Ma la fidelizzazione derivante dalla promozione statunitense, mentre ha coronato un completo successo con le repubbliche baltiche e gli altri di Visegrád, ha invece fatto solo parzialmente breccia sul governo polacco, nonostante si proponga come cane da guardia di Washington in ambito europeo: proprio per questa ambizione il governo polacco fa spazio nei magazzini passando agli ucraini gli S-300 di produzione russa, retaggio del passato (come per Bratislava che già a marzo aveva accettato i patriot tedeschi, offrendo in una catena infinita gli S-300 a Kyiv), preludio per l’acquisto di 6 Patriot direttamente dagli Usa, annunciati da Błaszczak, il ministro polacco che rastrella armi dovunque riesce, in particolare dalla Corea del Sud, culminando in ottobre con un contratto da 3,55 miliardi di dollari intercorso tra Polonia e Hanwha Aerospace per l’acquisto di centinaia di sistemi di artiglieria a razzo K239 Chunmoo; il ministro della Difesa polacco Mariusz Błaszczak aveva elogiato i lanciatori Chunmoo, che sono molto simili ai sistemi Himars statunitensi ordinati precedentemente dalla Polonia.

L’intreccio Polonia / Sud Corea

Il governo sovranista di Kaczyński già prima dello scoppio della guerra si candidava a diventare una potenza militare e soppiantare il ruolo della “pacifista” Germania in ambito Nato e ora sta riuscendo nell’intento, a dar retta a “Politico“:

«Sebbene la Germania, tradizionalmente alleato chiave dell’America nella regione, rimanga un perno come hub logistico, gli infiniti dibattiti di Berlino su come far risorgere le sue forze armate e la mancanza di una cultura strategica hanno ostacolato la sua efficacia come partner».

Specularmente – e in modo complementare, visti gli scambi tra le due potenze locali – il governo di destra sudcoreano ha come traguardo quello di superare nella classifica dei maggiori esportatori di armi la Cina. E ci sta riuscendo; entrambe cambiano così il loro peso politico specifico nelle rispettive sfere.

La spesa per la difesa della Polonia nel 2022 ha già raggiunto la cifra record di 58 miliardi di zloty (12,7 miliardi di dollari), Varsavia ha in programma di aumentarla ulteriormente, avendo annunciato ad agosto di voler destinare circa il 3% del suo prodotto interno lordo, ovvero circa 21 miliardi di dollari, alla difesa nel 2023.
Sebbene nessuno metta in dubbio l’ambizione della spesa polacca, alcuni si interrogano sulla sua fattibilità e sulle motivazioni politiche che la spingono. Entro il 2035, il paese intenderebbe spendere 524 miliardi di złoty per il settore militare (forse una trappola per il prossimo governo).

Secondo l’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), l’aumento delle spese militari della Polonia rispecchia una tendenza globale.
Ma la bulimia polacca è viziata sia dalle divergenze con Bruxelles sui diritti civili europei, sia dalla spesa a buon mercato assicurata dalle produzioni di Seul:

«L’attrattiva della Corea è che le sue attrezzature militari sono generalmente più economiche delle alternative americane ed europee e possono produrle in tempi stretti. Gli acquisti sono ovviamente un pugno nell’occhio ai sogni di “autonomia strategica” del presidente francese Emmanuel Macron, che immagina un’Europa in grado di difendersi con armi di produzione propria (probabilmente francese)» (“Politico“).

L’incremento esponenziale e costante della spesa per le armi

I dati dell’Istituto mostrano che nel 2021 la spesa militare globale ha superato per la prima volta i 2000 miliardi di dollari. Si tratta del settimo anno consecutivo di aumento delle spese militari a livello globale.

Kim Mi-jung ha detto che le vendite finali di armi della Corea del Sud per il 2022 potrebbero essere ancora più alte, dato che nel prossimo mese potrebbero essere firmati accordi con la Malesia e l’Arabia Saudita: «Gli armamenti coreani hanno un buon rapporto qualità-prezzo, in termini di prestazioni, e il paese dispone anche di basi produttive in grado di produrre un’ampia gamma di articoli, dall’artiglieria semovente agli aerei, il che rende la Corea molto attraente» (Kim Mi-jung, ricercatore dell’industria della difesa presso il Korea Institute for Industrial Economics and Trade).



GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE NOVEMBRE Traffico 2022

85 %

Avanzamento



Ottobre

26 ottobre

  • Collaborazione israelo-marocchina

    Definitivamente sdoganata dalla amministrazione Trump, la almeno trentennale ”amicizia” interessata tra Tel Aviv e Rabat ha trovato nel biennio successivo agli Accordi di Abramo intercorsi tra i due stati una grande impennata di ordinativi e collaborazioni, che possono condurre solo a un contenzioso sempre più belligerante con l’Algeria da un lato e dall’altro la penetrazione degli interessi di Israele nel quadrante occidentale del Mediterraneo attraverso la testa di ponte offerta dall’alleanza con il Marocco..

  • AnalisiDifesa” ha dato notizia dell’acquisto da parte del Marocco di  150 droni WanderB e ThunderB dall’israeliana BlueBird Aero Systems che erano stati testati durante l’esercitazione Maroc Mantlet 2022, dove si insisteva sull’uso dual: infatti sono macchinari adottati per la sicurezza delle frontiere e la protezione dei convogli e… delle forze armate e a sostegno dell’artiglieria.
  • L’accordo prevede addirittura una produzione parziale in Marocco e il periodico marocchino “Le Desk” attribuisce un valore di 50 milioni all’operazione, titolando sulla presenza di decine di droni della BlueBird israeliana già acquisiti dalle Forces armées royales (Far) a febbraio al costo di 500 milioni di dollari (Reuters); contestualmente il Marocco ha negato l’informazione divulgata da Amnesty International, secondo la quale avrebbe acquistato il sistema spyware Pegasus di Nso.
  • Quei droni possono caricare munizioni circuitanti Harop prodotti da IAI (costo 22 milioni, continuando nella spesa marocchina sul mercato delle armi israeliano) e si prevede l’acquisto di Hermes 450; sempre da Israele la marina marocchina intende acquisire Elbit Hermes 900. In estate anche militari di Tsahal hanno partecipato per la prima volta alle esercitazioni African Lion organizzate dall’esercito americano. Questo è potuto avvenire nonostante proprio a luglio le pressioni del senato americano avessero richiesto di spostare altrove l’esercitazione che periodicamente avviene in Sahara occidentale, proprio per il contenzioso con la Repubblica democratica araba del Saharawi (Rasd), che «potrebbe essere una nuova polveriera» (“DefenseNews”): l’esercitazione si è normalmente svolta nel Sahara occupato, potenza della lobby ebraica?
  • I UAV israeliani andrebbero ad aggiungersi a 3 Harfang francesi, sistemi controdroni Skylock israeliani, 13 Bayraktar TB2 turchi; gli Emirati hanno donato al regno marocchino 3 droni di fabbricazione cinese Wing Loong II; alla General Atomics americana sono stati ordinati 4 MQ9 Reaper Sea Guardian.Sempre “Le Desk” aveva dato notizia della dotazione di droni da parte del Polisario in risposta a questo stormo marocchino, in particolare un drone frutto dell’elaborazione Yabhon United 40, la cui evoluzione algerina ha ottenuto il Al-Jezair 54.
  • Intanto Minurso, la missione Onu nell’area, ritiene di non essere più in grado di svolgere la sua capacità di interposizione, nonostante sia stata prorogata fino al 31 ottobre 2023.

24 ottobre

  • Diversivi mediorientali

    In questioni mediorientali spesso si riesce a ricomporre un puzzle mettendo di seguito partecipazioni, agenzie relative a esercitazioni comuni che esibiscono alleanze e poi movimenti di truppe reali e dichiarazioni, che permettono interpretazioni su uno scenario di conflitti tra potenze locali che possono sfociare a breve in confronti aperti.

    La notizia del 24 ottobre dell’agenzia saudita è che l’Arabia Saudita dal 1° al 25 novembre prende parte con le proprie forze aeree all’esercitazione militare “Aerial Warfare and Missile Defense Centre 2022” che si tiene presso la base di Al Dhafra, negli Emirati Arabi Uniti. L’ applicazione del concetto di azione congiunta in un ambiente di guerra simile alla guerra reale si tiene congiuntamente alle forze di Emirati, Oman, Usa, Gran Bretagna, Francia… dunque una esplicita scelta di campo e di alleanza. Soprattutto per quel che riguarda l’aumento della tensione con Tehran (perché invece per le decisioni dell’Opec che potevano creare difficoltà all’esportazione petrolifera russa i sauditi si sono schierati con il Cremlino).

  • Se poi si va a consultare “Defaiya.com” si possono repertoriare serie di notizie relative a molte acquisizioni di armi. Il varo del primo gruppo di 79 pattugliatori medi ad alta velocità francesi (partecipanti alle esercitazioni di Al Dharfa) della classe Couach da parte delle Forze Navali Reali Saudite, dunque flessibili e leggeri, velocissimi per gareggiare con le imbarcazioni dei pasdaran iraniani (i vascelli includono una sofisticata combinazione di sistemi elettronici come dispositivi di tracciamento, sensori ottici e termici, scambio di informazioni e navigazione marina che consentono loro di svolgere compiti di ricerca, monitoraggio e follow-up attraverso un sistema elettronico altamente intelligente).
  • «Queste imbarcazioni rappresentano un’aggiunta qualitativa alle capacità della RSNF, in quanto contribuiranno ad aumentare il livello di prontezza militare e di sicurezza, a rafforzare la forza di sicurezza marittima nella regione e a proteggere gli interessi vitali e strategici del regno, sottolineando la costante attenzione e il sostegno illimitato della saggia leadership saudita e del ministro della Difesa per sviluppare le forze armate al servizio del paese» (contrammiraglio Yahya bin Mohammed Asiri).

  • A completare il quadro ci sono le dichiarazioni congiunte di funzionari statunitensi (altri partecipanti alle esercitazioni di Al Dharfa) e sauditi al “Wsj” riguardo a informazioni di intelligence su un imminente attacco da parte dell’Iran contro obiettivi nel regno, ponendo le forze armate americane, e altre in Medio Oriente, su un livello di allerta elevato che sfociano immediatamente in potenziali estensioni del conflitto a Iraq (Erbil, in particolare, suggerisce “Formiche.net”). Salvo poi venire in aiuto di Mosca entrambi i contendenti, secondo il “Washington Post”: sia Teheran (droni) che Riyad (mantenendo elevati i prezzi del greggio). Il diversivo che infiammerebbe ulteriormente il quadrante mediorientale dimostrerebbe la necessità dei turbanti di stornare l’attenzione dall’insurrezione interna e dalla fornitura di droni all’esercito russo. Gli Stati Uniti hanno anche affermato che gli iraniani stanno addestrando operatori di droni russi in una base nella Crimea occupata dai russi. Il Centro nazionale di resistenza ucraino, parte delle Forze per le operazioni speciali ucraine, ha riferito questa settimana che gli addestratori di droni iraniani stavano aiutando i russi a coordinare gli attacchi dei droni a Mykulichi, vicino a Gomel, nella Bielorussia meridionale. Il primo vicepresidente iraniano Mohammad Mokhber e alti funzionari della sicurezza iraniana si sono recati in visita a Mosca il 6 ottobre dove, secondo la Reuters, hanno concordato nuove forniture di armi.
  • «I russi hanno chiesto più droni e missili balistici iraniani con una maggiore precisione, in particolare la famiglia di missili Fateh e Zolfaghar», ha detto uno dei diplomatici iraniani… e si torna agli Shahed-136 della scheda del 13 ottobre. Merce di scambio con i sofisticati S-400, già motivo di scontro tra Turchia e Usa:
  • «Anche Israele ha subito crescenti pressioni per aiutare l’Ucraina, poiché la guerra di Putin è sempre più vista come un terreno di prova per droni e armi iraniane che potrebbero essere rivolte contro Israele, uno Stato che l’Iran ha ripetutamente giurato di distruggere.
    L’Iran potrebbe sperare di ribaltare il rifiuto opposto in passato dalla Russia di fornirgli sistemi di difesa aerea S-400 e jet da combattimento avanzati, mosse che metterebbero in allarme l’Arabia Saudita e potenzialmente la Turchia» (“Washington Post”).

18 ottobre

  • SHORt Air Defence: Ucraina come banco di sperimentazioni

    Mentre l’esercito degli Stati Uniti testa i primi prototipi di Stryker di Leonardo Drs, l’esercito russo schiera i sistemi Sam (Surface-to-Air Missile): Tor-M2 con le stesse modalità, che vanno ad affiancare gli Iskander 9K720 e i nuovi Strela-10.
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  • Mentre la Nato (cfr. 11 ottobre) testa fuori dai contesti di guerra guerreggiata i suoi Shorad, intorno a Kherson il sistema russo di difesa si accreditava presso “Il Faro sul mondo” a luglio con un bottino che comprendeva in una giornata l’abbattimento di un elicottero MI8, 9 droni turchi e 10 Hymars. Propaganda in entrambi i casi, come dimostra questo video diffuso dall’esercito russo il 18 ottobre.
  • Oltre a coprire le truppe dai missili, questo sistema di difesa aerea resiste anche ai droni turchi Bayraktar e ad altri bersagli aerei (“Altervista“). Al di là della propaganda il Tor-M2, noto con il nome di rapporto Nato SA-15 Gauntlet, è un sistema missilistico terra-aria di fabbricazione russa completamente automatizzato, prodotto nello stabilimento di Izhevsk Kupol di Almaz-Antey, per fornire un’efficace difesa aerea.
  • Nell’esercito russo, spiega “Defense-Blog“, il set di sistemi di difesa aerea ТOR-М2 comprende quattro batterie di quattro veicoli da combattimento 9А331М ciascuna (per un totale di 16 veicoli da combattimento). Il munizionamento dei SAM 9А331М TOR-М2 prevede 16 nuovi missili guidati antiaerei 9М338К; progettato per abbattere aerei, elicotteri e missili da crociera, antiradar e altri missili guidati. Invece Il SAM Strela-10 è progettato per l’osservazione visiva e la distruzione di obiettivi aerei a bassa quota.
  • Lo Strela-10, noto con il nome di segnalazione Nato SA-13 Gopher, è un sistema missilistico mobile terra-aria a corto raggio. Il sistema è destinato principalmente a colpire minacce a bassa quota, come gli elicotteri. L’SA-13 è basato sullo scafo del veicolo multiscopo cingolato MT-LB. Lo scafo dell’MT-LB è interamente blindato in acciaio saldato con il compartimento dell’equipaggio nella parte anteriore, il motore immediatamente dietro il compartimento dell’equipaggio sul lato sinistro e il compartimento delle truppe nella parte posteriore dello scafo.

13 ottobre

  • Droni. Guerre del presente combattute dai robot (e subite dai civili)

    Quasi un incubo per Isaac Asimov, tanto che se applicassimo le sue leggi della robotica ai droni forse coglieremmo la portata profetica della grande fantascienza scritta durante la ribellione degli anni Sessanta e Settanta alla minaccia di guerra globale conseguente a quella in Vietnam (l’Ucraina dell’epoca, invasa militarmente da una grande potenza). Il 13 ottobre sono stati avvistati droni in avvicinamento nei cieli norvegesi, attualmente il paese che fornisce la maggior  parte del gas agli utenti europei: il primo drone è stato avvistato mentre sorvolava l’impianto di trattamento del gas di Kårstø, nel Sudovest della Norvegia, dopo questo episodio altri se ne sono susseguiti e 7 russi sono stati arrestati dagli scandinavi per questa “invasione”. Quella attività sembra inedita, ma i droni sono protagonisti in tutti i palcoscenici di guerra o di semplice confronto armato o di intelligence; dare conto di ogni episodio riportato dai mezzi di comunicazione è impossibile, molti non sono diffusi ma si può tentare un’esposizione delle molte applicazioni degli strumenti “unmanned”, limitandoci a quelle delle ultime settimane, tentando così un repertorio di nuovi robot.

  • Gli ucraini portano i trofei di 9 droni kamikaze iraniani Shahed 136 (“Geranium” in Russia, “Martiri” in Iran) abbattuti – veicoli nati da apparecchi anglo-americani abbattuti studiati e fabbricati sulla ricerca derivante dalla preziosa cattura; “Washington Post” e Cnn hanno riferito in estate che l’Iran aveva inviato un lotto di veicoli aerei senza pilota in Russia. Secondo le testate, Teheran aveva inviato i droni Mohajer-6, Shahed-129 e Shahed-191 in Russia il 19 agosto.
  • I droni di fabbricazione iraniana utilizzati dall’esercito russo per distruggere impianti di produzione di energia elettrica ucraini e spargere il terrore sono quindi saliti alla ribalta della invasione dell’Ucraina quando i russi hanno cominciato a farne un uso terroristico. La Nato ha assicurato che verranno forniti sistemi di difesa dagli attacchi di stormi di droni che costano tra gli 8000 e i 20.000 dollari (i più cari), ben sapendo che nemmeno gli scudi israeliani assicurano la completa distruzione di una flottiglia di Uav; infatti, contando sull’esaurimento degli stoccaggi di droni autoprodotti dai russi, lo sforzo sarà probabilmente anche quello di intercettare le forniture da parte della Iran Aircraft Manufactoring Industrial Company. Non a caso abbiamo citato il governo di Tel Aviv: proprio la fornitura di munizioni circuitanti Shahed 136 (il dubbio è relativo alla quantità di produzione che Tehran è in grado di assicurare di questi velivoli) ha mosso Israele a consegnare sistemi di difesa a Kyiv contro questi sciami di droni, scegliendo di schierarsi nel campo opposto agli odiati pasdaran, forse perché i droni più efficaci sono quelli turchi e quelli sono venduti all’Ucraina. E così – secondo “Formiche.net” Tzahal fornisce intelligence su droni, informazioni su spostamenti di truppe e sui droni può mutare il reciproco accordo di non interferenza russo-israeliano (plausible deniability).
  • Peraltro sono tante le tecnologie e molti i produttori di marchingegni senza equipaggio: occupano il paesaggio bellico più fosco che si può immaginare, pervaso di stormi di droni, forse i prodotti più ambiti e alla portata dello stato più squattrinato, utili sia per arrecare danni al nemico e scatenare il panico, ma anche per soffocare proteste, controllare intere aree… Questi dispositivi senza pilota sono forse il business più innovativo della filiera; e propone sia merci “popolari”, fabbricate anche facilmente da gruppi di insorti (per esempio gli houti yemeniti con know how iraniano, o hezbollah che attinge alla stessa tecnologia), sia quelle sofisticate come il nuovo drone sommergibile da 50 tonnellate Orca XLUUV della marina americana, raccontato da “NavalNews” (il cui costo è di 242 milioni di dollari e ancora a livello di prototipo, i costi sono lievitati: all’inizio della pandemia erano stati stanziati 274 milioni per 5 sottomarini Orca).

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    • Tre anni fa le peculiarità di questo enorme robot rispondevano a determinate applicazioni: posa- cacciamine, guerra asimmetrica elettronica e missioni “hunter killer”, dotato di missili Mk. 46 e le caratteristiche erano spingerli verso una zona operativa, lasciarli vagare, stabilire comunicazioni criptate. Gli UUV grossi sono più autonomi rispetto ai minori che costituiscono una rete di droni marittimi tra americani e sauditi in funzione anti-iraniana (“WSJ”), o – sempre con il medesimo nemico – quei nuovissimi Saildrone Explorers di un’esercitazione congiunta Usa/Uk (“NavyTimes”), utile per controllare vasti tratti di mare, perché possono stare a lungo in mare tra Suez, Gibuti, Hormuz, ma bisognosi di navi di supporto nelle vicinanze, come rilevava “Si Vis Pacem Para Bellum”, un sito molto appassionato all’arte della guerra, ma forse questo coinvolgimento non basta a spiegare il titolo datato febbraio 2020 Il nuovo robot wolfpack della marina militare di Orca sarà pronto per la guerra … e invece ha un ritardo di 3 anni, e non è ancora pronto che già c’è la guerra.
    • Altrettanto sofisticato sarebbe il “bat drone”. Non si tratta di uno sciame di piccoli droni travestiti da pipistrelli, ma di una nuova cellula da combattimento: l’MQ-28 Ghost Bat della divisione australiana della Boeing.
      Il Ghost Bat è un drone da combattimento, destinato a essere controllato da piloti umani. Lo descrive “Task & Purpose”: «Il design è pensato per essere modulare, in modo da poter essere modificato per determinate missioni».L’acquisizione fa parte di un più ampio sforzo dell’Air Force per sviluppare il programma Next Generation Air Dominance, il termine con cui si indica lo sviluppo di aerei di sesta generazione. Fondamentale sarà l’uso di gregari robotici, o come li chiama l’Air Force, velivoli collaborativi da combattimento. Le forze armate stanno testando e mettendo in campo dispositivi senza equipaggio come parte degli sforzi per modernizzare le proprie forze. Alcuni, come i minuscoli droni a vela, sono già in uso presso la Marina. L’Assured Positioning, Navigation and Timing / Space Cross-Functional Team dell’Esercito, che fa parte dell’Army Futures Command, ha recentemente testato un drone Airbus Zephyr S presso il Yuma Proving Grounds in Arizona (e in altre località, anche oltreoceano) che ha raggiunto il record di 64 giorni di volo prima di cadere improvvisamente dal cielo.
    • Come sempre poi nel capitalismo, la differenza è fatta dallo smercio nella gamma media che rappresenta nel volume di numeri il vero affare mondiale. E ormai ogni stato si va dotando di una flotta di droni, applicabili nei contesti più disparati. Spesso si tratta di produzione domestica interna a cominciare dalla risposta greca ai droni turchi, Archytas, il drone a decollo e atterraggio verticale (VTOL) presentato alla Thessaloniki International Exhibition (“GreekCityTimes”), una tipica collaborazione tra Forze Armate e Università, “utile” per monitorare i confini e accompagnare le fregate in funzione di difesa da droni nemici.
    • Presentato anche alla Africa Aerospace and Defense Expo di Pretoria insieme al Mwari, venduto dal Paramount Group ad alcune forze aeree africane: anche le sue caratteristiche prevedono ricognizione e precisione di tiro, potendo caricare molteplici sistemi
  • Ma la produzione maggiore di droni è per conto terzi: cioè macchine sfornate per l’esportazione. Alcune per recapitarle agli ucraini (i Phoenix Ghost di Aevex Aerospace, gli RQ-20 Puma e gli Switchblade dell’AeroVironment, di cui scrive “Military.com”), altre sono autentici oggetti del desiderio, come i 18 Bayraktar Tb2, turchi agognati dalla Romania, che a inizio settembre aveva stanziato secondo Reuters 300 milioni di dollari per il loro acquisto.
  • Un esempio diverso sono gli stormi di droni con intelligenza artificiale pilotati attraverso il 5G, che consentono di intercettare e geolocalizzare segnali a basso potenziale, sperimentati da Lockheed e Verizon il 28 settembre (“DefenseNews”). Il Pentagono ha ottenuto quasi 338 milioni di dollari per il 5G e la microelettronica nell’anno fiscale 2022. Ha richiesto 250 milioni di dollari per l’anno fiscale 2023. Ha potuto farlo, trovando una legittimazione dallo sviluppo tecnologico dei missili balistici cinesi (DF-26) e nordcoreani (Hwasong-12), già capaci di raggiungere la base di Guam, che dall’ultima parata militare in occasione del 70° anniversario della Cina popolare può essere nel mirino anche dei droni ipersonici WZ-8 in dotazione al Pla, come scriveva “The Diplomat” ad agosto, contro i quali è indispensabile trovare contromisure.
    • L’esercito israeliano poi sta promuovendo una guerra con i droni come metodo meno sanguinoso per controllare la Cisgiordania. I palestinesi di Gaza sanno che non è così; infatti l’uso di droni è sempre più spesso in funzione di ordine pubblico e per soffocare insurrezioni, rivolte, assembramenti. Non è un caso che l’esordio ufficiale in Cisgiordania i droni lo hanno visto quando una nuova resistenza non riconducibile a nessun protagonista più o meno controllabile: La Tana dei leoni, che è una realtà priva di leader, senza riferimenti religiosi, né indotta dalle forze di occupazione stesse – come Hamas, che fu alimentata agli esordi da Tel Aviv –; nell’incapacità di contrastare questi giovani stufi di occupazione e sopraffazione non c’è altra risposta che una guerra automatizzata in grado di fornire rapide soluzioni a un ciclo di violenza deplorevolmente (per l’Idf) cronico. “Zeitun” ha fatto una piccola ricerca storica dell’utilizzo di droni da parte di Idf:

    • Israele è stato un precoce pioniere nella tecnologia dei droni. Nel 1968 un maggiore della direzione dell’intelligence militare israeliana, Shabtai Brill, applicò mini-telecamere alla fusoliera di aerei a controllo remoto, del tipo di quelli fatti volare dai bambini nel cortile di casa, per sorvegliare clandestinamente i confini con l’Egitto. Nel 1982, all’inizio della guerra del Libano, le Industrie Aerospaziali di Israele produssero droni di sorveglianza di livello militare che potessero volare insieme a jet da caccia per identificare obiettivi e guidare missili.

      Oggi Israele si autodefinisce una “superpotenza dei droni”. La polizia di frontiera utilizza droni per irrorare con gas lacrimogeni i manifestanti nel complesso della moschea di Al Aqsa. In Cisgiordania i soldati disperdono la folla dai posti di controllo con un drone che spara impulsi sonori contro i bersagli, lasciando i dimostranti intontiti e nauseati. Agenti dell’intelligence militare guidano droni da riconoscimento sulla città di Gaza per definire le coordinate esatte da bombardare.

      Molti palestinesi hanno già vissuto per anni all’ombra della guerra con i droni. La loro presenza a Gaza è talmente pervasiva che ai droni ci si riferisce correntemente come a “zanana”, che significa “ronzio”, evocando il costante rumore degli apparecchi che si librano proprio sopra il tetto di casa, come un minaccioso sciame di api.

      Quando lo scorso anno l’esercito ha annunciato il primo stormo di droni mossi da intelligenza artificiale, “The Intercept ha documentato 192 civili uccisi in soli 11 giorni di combattimenti letali.

12 ottobre

  • Le ambizioni polacche di supremazia

    La quantità abnorme di armi di ogni tipo in transito sul territorio polacco svolge solo il ruolo di hub, oppure bisogna registrare un riarmo di dimensioni gigantesche per le dimensioni del paese. Ovviamente, oltre alla scelta di Varsavia di proporsi come potenza locale, va considerata l’enorme importanza della collocazione della Polonia, soprattutto per la Nato che gioca sul sentimento antirusso di una nazione profondamente sovranista.

  • 12 ottobre è arrivato il primo B2 in Polonia, Il Northrop B-2 Spirit è un bombardiere strategico Questo aereo può trasportare 16 missili da crociera con testate nucleari. Carico di combattimento fino a 27.000 chilogrammi. Una data storica: sancisce l’ambizione di divenire una potenza militare nell’area non solo orientale dell’Europa, avendo fatto la scelta di proporsi a modello sia del costume sovranista, sia dotandosi dei mezzi per imporlo.
  • .
  • La Polonia, oltre a rappresentare il nuovo modello per il sovranismo di estrema destra – perché appare agli occhi sovranisti meno impresentabile di Orban – è uno snodo per le armi destinate a Kyiv: dal crowdfunding che a luglio aveva raccolto 4,9 miliardi di dollari per comprare un  Bayraktar TV2 per le forze armate dell’Ucraina (quel drone può trasportare due missili guidati Umta con un raggio di lancio fino a 8 km o quattro bombe di precisione Mamma-C / Mamma-l); la vicinanza al paese aggredito ha spostato l’asse europeo (non solo militare) più a Est e la nazione di Duda e Kaczynski si propone come hub (uno nuovo a est di Ramstein) e laboratorio di conservatorismo reazionario, meglio tollerato dagli americani che mal digeriscono certe impuntature di indipendenza dell’asse franco-tedesco. Ma il nazionalismo è funzionale anche alla servitù militare. Il 4 settembre “Military Times” informava della vendita degli Abrahams in consegna per il 2025 alla Polonia da parte di General Dynamics Land System (il che dimostra quanto le previsioni per una durata della guerra non tanto breve, come dimostrano le dichiarazioni dei massimi contendenti, che hanno lanciato questa guerra per procura, fondata su tipi di armi come gli Abrahams).
    Faceva eco “Defense News” che riportava anche l’entità della spesa (1,1 miliardi di dollari) in cambio di 250 carri armati M1A2 SEPv3.
  • Ma la Polonia non si è fermata all’approvvigionamento di terra, ha acquisito pure 96 elicotteri AH-64E – Apache (per dare una comparazione l’Australia a maggio ne ha comprati 29 dalla Boeing) pagati 1,4 miliardi di dollari e l’annuncio è stato ufficializzato alla fiera delle armi Mspo tenutasi all’inizio di settembre in Polonia, come riportato da “Breaking Defense”. E anche dare spazio a una sede fieristica sul proprio territorio ha un significato di approdo tra gli stati che contano nella filiera delle armi.
    Questo perché Apache e Abrahams lavorano congiuntamente: gli elicotteri

 «saranno schierati per la prima volta presso la 18ª Divisione meccanizzata. Non tutti, ma le prime unità. Questo proprio in seguito al fatto che la 18ª Divisione sarà equipaggiata con i carri armati Abrahams. Questi elicotteri funzionano benissimo con i carri armati Abrahams. Insieme, costituiscono una forza enorme. Una forza di resistenza, perciò vogliamo usarli come deterrente per il nostro avversario», ha dichiarato Błaszczak in una dichiarazione rilasciata dal ministero della Difesa polacco» (“DefenseNews”).

    • Sempre durante l’Expo documentata da “BreakingDefense” Adam Hodges, Capture Team Lead for Vertical Lift International Sales di Boeing Defense, Space & Security, ha dichiarato ai giornalisti che l’azienda sta offrendo alla Polonia “l’AH-64EV6, con capacità MUM-T, proponendo ad aziende polacche il sostentamento locale, quindi altro denaro europeo sperperato in spesa militare, funzionale all’interoperatività polacco-americana.
    • Boeing ha stabilito importanti collaborazioni con il governo e l’industria polacchi, in particolare partnership con il Polish Armaments Group che continuerà a espandersi con l’implementazione di attività di formazione e supporto con l’industria locale.
    • Mentre atterravano a Malbork (a un centinaio di chilometri da Kaliningrad) 4 cacciabombardieri Eurofighter dell’Italian Air Force nell’ambito dell’operazione Nato antiRussia…
    • … la Polonia in quei giorni di fine luglio stava siglando accordi con la Corea del Sud che sommavano a circa 14,5 miliardi di dollari di investimenti, per l’acquisto di 1000 carri armati K2 della Hyundai Rotem, 672 obici semoventi K9 della Hanwa Defense e 48 aerei da combattimento leggero Rokaf FA-50. Notizia confermata anche da “Breaking Defense”. Andando ancora più indietro nel tempo, a maggio, la Polonia aveva deciso di investire in nuove dotazioni di M142-Himars e Patriot: infatti prima del 24 febbraio il Dipartimento di Stato aveva concesso di approvvigionare l’esercito polacco per dotazioni pari a 6 miliardi di dollari.
      Contemporaneamente Varsavia aveva avanzato la richiesta a Seul per acquisire altri lanciamissili K239 della Chunmoo (e l’affare si è concluso a metà ottobre con l’acquisto di 300 di queste batterie di artiglieria coreana), omologhi al prodotto della Lockheed (che ha difficoltà a stare dietro alle richieste del mercato di Himars). Infatti la Lituania ha stanziato un budget di 148 milioni di dollari per comprare M142 Himars, droni e Javelin, dopo il successone ucraino
    • Una notizia di “Defense News” del 17 settembre riportava l’esistenza di due contratti per l’acquisto di 48 aerei d’attacco leggero FA-50 dalla Corea del Sud, con i primi 12 jet che saranno consegnati l’anno prossimo e altri 36 negli anni 2025-2028, per abbandonare completamente l’uso degli aerei MiG-29 e Su-22. La Polonia sta aumentando la propria potenza per diventare la potenza di riferimento anche militare dell’area soppiantando la Germania con l’ausilio degli Usa.
    • Politico”ha riassunto alcune delle commesse di acquisto di sistemi di arma da parte del bulimico esercito polacco:
    • «La Polonia ha firmato un accordo da 23 miliardi di złoty (4,9 miliardi di euro) per 250 carri armati Abrams dagli Stati Uniti questa primavera – una rapida sostituzione per i 240 carri armati di epoca sovietica inviati all’Ucraina. La sua aeronautica militare è equipaggiata con F-16 statunitensi e nel 2020 Varsavia ha firmato un accordo da 4,6 miliardi di dollari per 32 caccia F-35.
      Ma il fulcro della sua recente spesa militare è stata la Corea, dove ha firmato una serie di accordi per l’acquisto di carri armati, aerei e altre armi. Finora la Polonia ha ordinato dalla Corea armamenti per un valore compreso tra i 10 e i 12 miliardi di dollari, ha dichiarato Mariusz Cielma, redattore e analista di “Nowa Technika Wojskowa”, un sito web di notizie e analisi sulla tecnologia militare. Gli ordini includono 180 carri armati K2 Black Panther, 200 obici K9 Thunder, 48 aerei d’attacco leggero FA-50 e 218 lanciarazzi K239 Chunmoo. A completamento delle forniture immediate, i coreani dovrebbero fornire un totale di 1000 carri armati K2 e 600 obici K9 entro la metà e la fine degli anni Venti. Varsavia ha ordinato elicotteri italiani Leonardo per 8 miliardi di złoty, ma l’accordo prevedeva che gli elicotteri fossero prodotti in Polonia.».

11 ottobre

  • SHORt Air Defence: Ucraina come banco di sperimentazioni

    L’Esercito degli Stati Uniti ha equipaggiato un plotone del 5° battaglione, 4° reggimento di artiglieria da difesa aerea, in Europa, con quattro dei primi prototipi di Stryker A1 (sviluppato in 19 mesi da Leonardo Drs). L’Esercito è prossimo a schierare il primo battaglione completo entro la fine dell’anno con l’aggiunta di sistemi M-SHORAD (che comprende anche il lanciamissili veicolare Stinger di Raytheon Technologies), ha dichiarato a “DefenseNews” il generale Maurice Barnett, comandante generale del 10° Comando di difesa aerea e missilistica dell’Esercito in Europa, in un’intervista rilasciata all’esposizione annuale dell’Associazione dell’Esercito degli Stati Uniti.
    .

  • E il primo plotone di sistemi Shorad basati su Stryker A1 ha attraversato Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia, arrivando a testare l’impianto di difesa aerea a corto raggio sul Golfo di Finlandia. Il sistema offre una maggiore protezione rispetto ai vecchi Avenger grazie a una incredibile capacità di sparare in movimento, continuando la stessa protezione aerea e missilistica negli spostamenti, anche su distanze notevoli.
  • Nell’ambito di uno sforzo più ampio per rafforzare la capacità di difesa aerea in Europa, il 6 ottobre l’esercito americano ha attivato il quartier generale della 52ª Brigata di artiglieria per la difesa aerea a Sembach, in Germania. Il quartier generale collegherà tutte le forze di difesa aerea e missilistica dell’Esercito e riferirà direttamente al 10° AAMDC, che è stato aggiornato a un comando a una stella nel 2019.

Stryker A1

7 ottobre

  • C-Uas: la necessità di sviluppare il contrasto a ogni drone

    L’Esercito degli Stati Uniti ha creato l’Ufficio congiunto per il contrasto ai piccoli sistemi aerei senza pilota per affrontare la proliferazione dei droni avversari. Il Jco è nato dopo che l’allora Segretario alla Difesa Mark Esper, nel 2019, ha designato l’Esercito come agente esecutivo per le attività di contrasto agli Uas; gli ufficiali del Comando per le operazioni speciali alla Special Operations Forces Industry Conference, ospitata in Florida dalla National Defense Industrial Association. Il tenente colonnello responsabile del programma di controproliferazione del comando aveva dichiarato in maggio a “DefenseNews” che il Socom sta cercando un dispositivo di contromisura elettronica multimissione di prossima generazione. Il bilancio di ricerca dell’Esercito dello scorso anno ha posto l’accento sull’architettura tattica per la guerra elettronica, includendo una richiesta di aumento della spesa per il programma Multi-Function Electronic Warfare, il programma Terrestrial Layer System-Brigade Combat Team, l’Electronic Warfare Planning and Management Tool e il Terrestrial Layer System-Echelons Above Brigade.

  • L’intento è di trovare opzioni per siti di spedizione portatili, smontati e fissi per il dispositivo di contromisura elettronica multimissione di prossima generazione. Il Corpo dei Marines e il Socom dispongono di un sistema esistente chiamato Modi, prodotto dalla Sierra Nevada Corporation e utilizzato dall’esercito e dai Marine (“C4irsnet” riporta questa direzione nella ricerca del contrasto ai droni), il problema è la difficile maneggevolezza (pesa 20 chili) che ha suggerito gli investimenti per la ricerca, vista l’estensione dell’utilizzo di droni in tutti i quadranti.
  • Per ora l’esercito statunitense tiene corsi, i cui moduli consentono di avvalersi di queste armi di difesa da macchine Uas:

 «Non si può avere solo una capacità c-UAS ovunque. Bisogna essere in grado di sfruttare qualsiasi capacità si abbia: abbiamo essenzialmente massimizzato la capacità di quel sistema per dargli un doppio ruolo, sia che si tratti di abbattere razzi o mortai; ora possono abbattere anche i droni.

  • Il dispositivo anti-UAS DroneDefender ha unito una tecnologia innovativa a un design efficiente per una sicurezza sicura, affidabile e comprovata dalle minacce aeree (così il testo promozionale di Battelle). Il dispositivo interrompe rapidamente il controllo remoto del drone aggressore, neutralizzandolo in modo che non possa avvenire alcuna azione a distanza, compresa la detonazione, riducendo al minimo i danni che può provocare il drone e il rischio per la sicurezza pubblica.Il DroneDefender, che utilizza una soluzione non cinetica per difendere lo spazio aereo dagli UAS, come quadcopter ed esacotteri, opera senza compromettere la sicurezza o rischiare danni collaterali. Il sistema, leggero e facile da usare per due ore di seguito e con un peso contenuto sotto gli 8 chili, assicura la distruzione dei droni a controllo remoto e del loro GPS

1°-14 ottobre

  • Teatro No: come adeguare la nuova realtà di guerra a una Costituzione di pace, o viceversa

    Gli Stati Uniti non sono riusciti a trasformare il cosiddetto Quad, che comprende Giappone, Australia e India, in una versione asiatica dell’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico, ma hanno continuato ad allenarsi con molti stati dell’Indo-Pacifico.

  • Stripes” dà notizia che dal 1° al 14 ottobre si sono tenuti gli addestramenti combinati realistici “Rimpac22”con i mitici Himars insieme agli F-35BS in Hokkaido (coinvolte pure le forze militari filippine e coreane). Svolgono il ruolo di esibizione muscolare che s’incunea nelle strategie che regolano gli equilibri nell’Indo-Pacifico.
    Il “Kamandag” – abbreviazione di “Kaagapay Ng Mga Mandirigma Ng Dagat”, ovvero “Cooperazione dei guerrieri del mare” – è iniziato nel 2017 come sostituzione dell’esercitazione di sbarco anfibio su larga scala “Phiblex”. Inizialmente era incentrata sull’assistenza umanitaria e sulla risposta ai disastri.
    L’addestramento ha coinvolto la nave d’assalto anfibio USS “Tripoli” che trasporta i caccia stealth F-35B Lightning II del Marine Fighter Attack Squadron 121
    I Marines hanno anche volato con MV-22 Ospreys, CH-53 Sea Stallions, UH-1Y Venoms, AH-1Z Vipers e KC-130J Super Hercules durante le esercitazioni. L’F-35B è la versione a decollo corto e atterraggio verticale del caccia d’assalto congiunto, progettato per il supporto aereo dei Marines a terra.I Green Knights avevano già schierato 14 jet a bordo della Tripoli durante un pattugliamento del Pacifico quest’estate e inviato altri aerei in Australia per l’esercitazione biennale “Pitch Black”, che ha coinvolto oltre 100 aerei di 17 nazioni in agosto e settembre. Il Giappone è stato coinvolto con 1400 uomini soprattutto per addestramento agli Himars, AT-4 e Javelin, a cui si affiancano sistemi giapponesi di multilancio di razzi (Type 12 Surface-to-Ship Missile – 12SSM della Mitsubishi).
  • Le esercitazioni sono da intendersi in risposta a quelle congiunte operate a luglio dagli eserciti russo e cinese a stringere l’arcipelago nipponico che aveva richiamato “Formiche”, che veva seguito gli spostamenti delle navi russe (il cacciatorpediniere “Marshal Shaposhnikov”, la corvetta “Gremyashchiy” e la nave da supporto “Pechanca”) che avevano avvolto in una tenaglia l’arcipelago, con il supporto della fregata cinese “Jaingwei II”, intorno alle isole Shenkaku/Diayou, contese, come le Paracel. La Russia ha aumentato il livello di ingaggio dei conflitti antinipponici per le altrettanto disputate isole Kurili/Spor e Putin aveva estromesso la Shell e due aziende giapponesi da ogni pretesa di partecipare all’estrazione del gas intorno alle Sakhalin e già a giugno una ventina di navi militari vi erano state mandate in esercitazione prima che il premier nipponico Fumio Kishida prendesse il volo per il vertice Nato di Madrid:
  • In totale si sono mosse venti navi da guerra, di cui 4 cinesi e 16 russe. La crociera cinese è durata dal 12 al 19 giugno, poi le quattro navi (un cacciatorpediniere classe Type 055, uno di classe Type 052D e una nave di rifornimento Type 901 e una nave spia Type 815) hanno preso il largo per il Pacifico. Quelle cinesi si sono mosse in diversi momenti, ma sempre in quegli stessi giorni: tra le corvette e i cacciatorpedinieri impiegati, due di classe Udaloy, insieme ad alcune delle corvette della classe Steregushchiy, e al “Marshal Krylov” ha fatto rifornimento ovest dal Mare di Okhotsk verso il Mar del Giappone, durante esercitazioni nel Mar Cinese Orientale e nel Mar delle Filippine

 «È una dimostrazione di forza che trova due ordini di contesti internazionali come ragione. Il primo è più ampio, generale: il Giappone sta costruendo un proprio standing all’interno dell’Indo Pacifico riscoprendo una dimensione da potenza regionale, mentre sta contemporaneamente integrando sempre di più le sue attività con quelle occidentali. E tutto mentre il Giappone ha una linea sempre più chiara nei confronti della difesa di Taiwan davanti alle ambizioni cinesi».

  • E infatti negli stessi giorni il cacciatorpediniere portaelicotteri “Izumo”, ammiraglio della Flotta di autodifesa di Tokyo, ha condotto un’esercitazione congiunta con il cacciatorpediniere “USS Sampson” e ricevuto rifornimento in mare dalla “USNS Rappahannock“. Contemporaneamente, la fregata della marina indiana “Satpura”, quella filippina “Antonio Luna”, l’indonesiana “Gusti Ngurah Rai”, quella della Repubblica di Singapore “Intrepid” e a la corvetta “Lekir” della Royal Malaysian Navy si sono raggruppate per dirigersi verso le Hawaii, dove si trova il quartier generale dell’Indo Pacific Command americano.

  •  «Kishida ha chiaramente segnalato che il Giappone non rimarrà ai margini delle crisi globali. Più che mai sta dimostrando un impegno diplomatico schierato e e si sforza di proteggere la stabilità regionale e l’ordine internazionale basato sulle regole. Ciò si riflette sulla sua presenza allo Shangri-La Dialogue (evento internazionale organizzato a Singapore dall’IISS dove il premier giapponese ha presentato la sua “Vision for Peace”) e nella prevista partecipazione al vertice Nato di fine giugno. L’alleanza del Giappone con gli Stati Uniti è ancora una volta in primo piano nei calcoli strategici di Tokyo sull’Indo-Pacifico» (Elli Katharina Pohlkamp, European Council on Foreign Relations – Ecfr).

  • E si esplicita in particolare nel ruolo di capofila locale nel contrasto dell’atteggiamento aggressivo di Pechino verso Taipei, come segnalava “Formiche” in settembre agganciando l’impegno al riarmo giapponese – e come già documentato in questo Maxistudium di OGzero a maggio e agosto – e ai budget da capogiro per la Difesa nipponica (più di 40 miliardi su 788 del Bilancio delle spese nazionali) in cui sono inseriti anche capitoli di spesa per missili terra-nave a lungo raggio, o Ssm, dotati di un raggio di tiro di circa mille chilometri ottimo deterrente verso le minacce esterne.Un nuovo giro di boa attende poi una decisione essenziale di Tokyo, che sancirebbe definitivamente il cambio epocale da 70 anni a questa parte, perché è evidente che se si ritiene indispensabile cambiare la Costituzione perché pacifista, significa che in una contingenza storica di guerra si sente il bisogno di passare a una Costituzione bellicosa: una follia che decreterebbe l’ingresso in un’epoca di guerra ed è proprio quello che “AgenziaNova” riporta il 18 novembre. La notizia viene riportata proprio come conseguenza del fatto che il Giappone non ha potuto rifornire Kyiv con i missili anticarro richiesti (Type 12 Surface-to-Ship Missile – 12SSM della Mitsubishi), perché la Costituzione impedisce al Giappone di esportare sistemi e tecnologie di difesa.

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Vecchie e nuove servitù militari: No Trespassing

Stiamo scivolando sempre più in una mentalità che accetta l’orrore di considerare il cambiamento di morale, di narrazione dei rapporti tra “nazioni” e del valore degli aggettivi belligeranti che segnano una cesura… e marcano anche un cambio nel significato e nell’uso di territori strategicamente sottratti al paese su cui insistono per consegnarli a potenze straniere che le rendono off limits (NO TRESPASSING) e proiettate in funzione di aggressione al nemico, riempiendoli di ordigni, macchine belliche, sistemi di controllo e di logistica nelle azioni operative in zona di guerra, come Sigonella che ha partecipato sia nell’episodio che ha visto l’affondamento della Moskva, sia nell’attacco al porto di Sebastopoli del 28 ottobre.
Da settembre e poi anche in ottobre si è resa palese nell’economia della guerra europea l’importanza dello schieramento, delle alleanze e la necessità della potenza globale di riferimento di “occupare” territorio, di “invadere” sovranità, di “ottenere” mezzi adiacenti alla trincea… la servitù in tutte le sue forme.



La servitù nucleare in Italia

Servitù militare e Italia sono quasi una tautologia, visto che dal punto di vista dell’esercito americano si tratta di una enorme portaerei che si allunga nel Mediterraneo e ospita gli ordigni nucleari sia a Ghedi (in provincia di Brescia) che ad Aviano (Pordenone), non a caso dislocate nel Nordest, fin dalla Guerra Fredda considerato un avamposto: Ghedi è dotato di velivoli (Tornado e F-35 italiani), atti a trasportare le bombe nucleari (un centinaio quelle americane già disponibili), mentre ad Aviano sono dislocate le famose bombe nucleari per l’impiego tattico B-61 (da 45-60 kilotoni), che gli americani si trasportano in piena autonomia, imponendo un limite militarmente invalicabile nel territorio italiano


Aviano e Ghedi (il Nord nucleare); contratto milionario a Sigonella per potenziare il Comando della task force aeronavale Usa nel Mediterraneo per Conti Federal Service (il Sud a supporto di missioni fulminee piratesche). Il canale dei Navicelli (il Centro magazzino logistico)


La servitù delle forniture in Italia

Ma oltre a Sigonella (e il Muos) a Sud e le basi delle bombe nucleari a Nord esiste da anni Camp Darby e il Canale cinquecentesco dei Navicelli vi riveste un valore strategico per l fatto che attraversa la base militare che completamente blindato com’è diventa fondamentale per trasportare senza occhi indiscreti e in territorio completamente no trespassing le armi in arrivo al porto di Livorno e da lì alla darsena interna a Camp Darby, allargata permettendo l’incrocio di due navi.
E sono servitù militari anche gli agganci all’industria militare statunitense per esempio con il legame a filo doppio tra Leonardo (industria di stato e ora anche di governo, con la cooptazione di Crosetto al ministero della Difesa) e Lockheed: infatti i vertici dell’esercito scodinzolano al partner americano intravedendo la possibilità di bissare la collaborazione pluriennale sugli F-35 anche per quel che riguarda il nuovo progetto dei nuovi elicotteri a doppio rotore X2


La Sardegna assediata (le esercitazioni nelle Isole); le servitù oceaniche (il Portogallo) e quelle del Mediterraneo orientale:


La servitù delle esercitazioni

Altre servitù possono essere considerate le esercitazioni: infatti Nato decide e per 15 giorni i cieli e i flutti teatro delle “simulazioni” (anche nucleari e annunciate) diventano oggetto di espropriazione e aree pericolose, che poi lasciano residui e radiazioni, un territorio devastato e inquinato.
In questo tempo di guerra le esercitazioni “programmate” fioccano: a metà settembre la Sardegna era circondata come Taiwan un mese prima. Aree di guerra, in mare, in cielo e nei poligoni di Teulada, Quirra e Capo Frasca, esercitazioni speciali, visto che dal 24 febbraio le esercitazioni programmate erano state annullate, tutte tranne quelle collegate al “warfighting”. «Accentrare arsenali aerei, navali e terrestri in Sardegna, per giunta in questo contesto storico, significa proiettarla in uno scenario di provocazioni internazionali pericolose e incontrollabili. Mai come oggi la presenza delle servitù militari trasformano l’Isola in una vera e propria colonia militare».
E quella servitù era contemporanea alla esibizione di muscoli aerei di “Steadfast Noon”, ospitata dal Belgio a Kleine Brogel, una infrastruttura Nato adibita a ospitare armi tattiche B61-12cfino a 50 kilotoni in dotazione a F-35 “Lighting II” (quelli collaudati ad Amendola in provincia di Foggia quest’estate): altri scenari di guerra, esplicitamente nucleari, specularmente riflessi in Grom, l’esercitazione nucleare organizzata dal Cremlino.
Per quel che riguarda la servitù navale il Portogallo ha assistito allo spettacolo del Neptune Strike a Oeiras, quartier generale del Strike Force Nato con a capo la portaerei nucleare George H.W. Bush.
In questa ridda di esercitazioni non poteva mancare il quadrante più sensibile del Mediterraneo orientale e infatti in Grecia, durante un’esercitazione Nato che ha visto la partecipazione di 200 soldati americani e 650 tedeschi, si sono testati i missili tedeschi Patriot Mim-104, un sistema missilistico mobile antiaereo modulare di repentina installazione.
Troviamo questa moltiplicazione di esercitazioni, servitù e riattivazione di quelle esistenti a ridosso del fronte e si aggiunge l’elemento che abbiamo affrontato con Alessandro Ajres nella puntata di Transatlantica24 dedicata alla Polonia nel momento in cui si accredita come potenza locale più affidabile e utile della Germania (che ha dovuto decidere con forte riluttanza un riarmo pesante): ovvero la ricerca di costituire un potente esercito e non ridursi solo a hub per far confluire armi in una nazione-caserma al servizio degli Usa, ancor più che della Nato (avendo già iniziato a dotarsi di un esercito efficiente e moderno fin dalla prima invasione della Crimea). Si assiste a un tentativo di sostituire la capacità militare polacca alle basi tradizionalmente tedesche intese come confini orientali.



La servitù delle collaborazioni produttive

Anche se l’evidente preparazione a un conflitto in territorio europeo predispone il Pentagono a dispiegare armi e truppe, mobilitando tutte le servitù militari preparate nei decenni. E costruendone di nuove, come il nuovo comando a Wiesbaden per supervisionare l’addestramento nei poligoni americani in Germania (dove a gennaio sono state trasferite le reclute ucraine che fin dal 2015 si addestravano sotto il comando Usa al Combat Training Center-Yavoriv vicino a Lviv) e l’approvvigionamento delle truppe (https://www.militarytimes.com/news/your-army/2022/10/03/us-may-establish-new-command-in-germany-to-arm-ukraine-report/)
E sono servitù militari anche gli agganci all’industria militare statunitense per esempio con il legame a filo doppio tra Leonardo (industria di stato e ora anche di governo, con la cooptazione di Crosetto al ministero della Difesa) e Lockheed: infatti i vertici dell’esercito scodinzolano al partner americano intravedendo la possibilità di bissare la collaborazione pluriennale sugli F-35 anche per quel che riguarda il nuovo progetto dei nuovi elicotteri a doppio rotore X2



La servitù a Oriente

Nell’altro campo – con le debite proporzioni (come dice Gabriele Battaglia: «Anche la Cina ha basi militari fuori dai confini, una a Gibuti… rispetto alle decine degli Usa») – bisogna registrare le mire di Pechino sul porto di Ream, in Cambogia, ideale per installare un sistema di controllo radar dual-use, orientato ai traffici ma soprattutto a spiare assetti militari. E i lavori fervono nello scalo: un nuovo molo, un approfondimento del porto, che già registra una parte sotto la sovranità cinese, che potrebbe ospitare un nodo del sistema satellitare BeiDou alla confluenza dell’Oceano Indiano con il Pacifico, controllando così l’intera area (https://formiche.net/2022/10/nel-fragore-di-amburgo-la-cina-in-silenzio-si-prende-un-pezzo-di-cambogia/).
Ma si possono considerare servitù ottenute anche il corollario della militarizzazione di isolotti contesi lungo tutto il Mar cinese meridionale, come le Spratly, o il progetto di collaborazione con le Salomon, persino la più esplicita formula di neutralità costituita dal rifiuto del Vietnam di ospitare basi straniere, senza citare la contesa sulle isole Nansha si può considerare una servitù accettata su territori adiacenti nella guerra del Pacifico con gli Usa (https://www.scmp.com/news/china/diplomacy/article/3198034/china-vietnam-ties-beijing-reassured-hanois-vow-reject-all-military-alliances-say-analysts).


La servitù artica

Ma la servitù più contesa e meno esibita, anzi nascosta da una ipocrita collaborazione sempre più tesa è una sorta di corsa a spartirsi le fette di quel territorio strategico e ricco di minerali preziosi in via di scongelamento: tutti i paesi europei e la Russia (che controlla il 50% del territorio artico) tradizionalmente collaboravano fino alla crisi ucraina; intanto anche gli Usa stanziano 841 milioni di dollari per il 2023 per un terzo Polar Security Cutter e altri 20 milioni di dollari per creare un ufficio per il programma Arctic Security Cutter. completando una strategia durata 10 anni per il circolo polare artico: « La nuova strategia individua quattro pilastri, tra cui una maggiore presenza militare statunitense, l’aumento delle esercitazioni con i paesi partner per “dissuadere l’aggressione nell’Artico, soprattutto da parte della Russia”, l’ammodernamento della difesa aerea del NORAD e l’aggiunta di navi rompighiaccio della Guardia Costiera, nonché una migliore mappatura e cartografia delle acque e delle condizioni meteorologiche della regione». (https://www.defensenews.com/pentagon/2022/10/07/white-house-arctic-strategy-calls-for-enhanced-military-presence/) E proprio questa presenza militare americana surriscalda il clima artico; la seconda squadra Infantry Brigade Combat, 11th Airborne Division, ha iniziato in settembre l’addestramento pratico con l’equipaggiamento Capability Set 21, che ha lo scopo di aumentare la mobilità e rendere più intuitive le comunicazioni sul campo di battaglia (https://www.c4isrnet.com/battlefield-tech/it-networks/2022/08/29/first-arctic-unit-now-training-with-modernized-us-army-networking-gear/). La sezione 7 dell’Artic Commitment Act richiede l’«eliminazione del monopolio russo sulla navigazione artica» (https://pagineesteri.it/2022/09/01/primo-piano/cambiamento-climatico-il-potenziamento-militare-degli-usa-nellartico-pone-nuovi-rischi-geopolitici-e-ambientali/). E Leonardo DRS si è aggiudicata un contratto da circa 50 milioni di dollari per la fornitura di oltre 4600 visori termici per armi alla Svezia, emblematico di come il traffico d’armi possa garantire la differenza nei dettagli per controllare il territorio e assicurare una servitù militare, un’altra forma di imperialismo coloniale.


GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

100 %

Avanzamento



Interessante vedere grafici eloquenti di approvvigionamenti di armi, collocandoli nei vari scacchieri regionali, che corrispondono alle aree che vedono teatri di guerra; ma si vede soprattutto come si ripartiscono gli investimenti: Russia in testa (ma il dato per singoli stati vede gli Usa abbondantemente in testa), Emirati e Maghreb a ruota se il computo viene filtrato dal confronto in percentuale sul Pil. Dei più di 2000 miliardi che sarebbe il fatturato in armi nel 2021, 800 sono stati spesi dagli Usa (e questo si vede bene dalla Top Ten dei contratti firmati dal Dipartimento della difesa americano che abbiamo pubblicato nell’editoriale di agosto), seguiti da Cina, India, GB e solo quinta è la Russia, dimostrando così chi può essere più temibile; anche se il trend vede Cina e India in notevole accelerazione rispetto a un decennio fa – e questo è un dato che sposta in quel quadrante l’attenzione massima per paventare futuri conflitti. Infatti il primo grafico dimostra una corsa agli armamenti che vede l’Asia allargare la forbice della propria fetta di traffici d’armi rispetto al resto del mondo che incrementa progressivamente e nello stesso modo la propria spesa per preparare la guerra.

World military expenditure, by region, 1988–2021. Data and graphic: SIPRI


Il nucleare irrompe di nuovo prepotente nel dibattito mondiale e così abbiamo chiesto a Piergiorgio Pescali di “rassicurarci” di fronte a Zaporizhzhia, alle scelte iraniane, alle minacce neanche velate di Putin. Ricercatore per l’Aiea, Pescali ha visitato tutte le centrali nucleari più famigerate, conosce il mondo del nucleare con obiettiva precisione, riporta dati. Possiamo continuare a preferire un mondo meno nucleare, ma gli argomenti di Pescali provengono da una conoscenza dall’interno degli ambienti saturi di atomi, rimane ampio spazio per preferire soluzioni alternative ma non si può prescindere dalle sue conoscenze che ci illustra in questo podcast proveniente da una puntata di Bastioni di Orione su Radio Blackout, cercheremo di approfondire ulteriormente il côté eminentemente militare dell’applicazione nucleare, che qui trova una ottima introduzione:

Settembre

29 settembre

  • L’obliquo  gioco di Embarghi e Sanzioni

    L’ipocrisia è palese ogni volta che si parla di embarghi che vanno applicati o deroghe agli stessi: diventa un gioco evidente che risponde al bisogno di trovare una spiegazione per una consegna disattesa per dare un segnale di scelta di campo o per sancire un’alleanza rimuovendo sanzioni e rifornendo così stati criminali con armi micidiali.

  • Da un lato si può senz’altro condividere il rifiuto della fornitura di 16 elicotteri Mi-17 da parte del governo Marcos-Duterte appellandosi a sanzioni, che servono per affrancarsi dall’abbraccio russo e schierarsi sul fronte indopacifico dalla parte americana. Ma il vero problema è che comunque finora – e forse sottobanco ancora adesso – i Filippini si approvvigionavano dagli arsenali russi e ora, senza mezzi termini stracciano un contratto con una semplice dichiarazione: «I cambiamenti di priorità resi necessari dagli sviluppi politici globali hanno portato alla cancellazione del progetto da parte della precedente amministrazione» (“BangkokPost”). E comunque gli Usa hanno offerto alternative al bisogno di elicotteri di Manila.
  • Sempre nell’area indopacifica si trovano nei primi giorni di ottobre nuove liste di ditte cinesi sanzionate dal Dipartimento della Difesa (“South China Morning Post”), che colpiscono chirurgicamente imprese produttrici di droni, ma – attenzione! – che si trinceravano dietro la duplice funzione bipolare, dove la vocazione “civile/militare” era una palese foglia di fico, ma in mezzo a tante altre produzioni orientali come occidentali. In questo caso si tratta di DJJ Technology, il più potente costruttore di droni al mondo con sede a Shenzen. Ma la duplice funzione è condivisa da tutte le ditte costruttrici di armi… o altri marchingegni apparentemente innocui come il Parrot Anafi della DJJ.
  • Un’altra richiesta di cancellazione di embargo sulle armi che è un’evidente necessità di alleanza – o almeno neutralità – è quella da parte di Abyi che si fa latore per conto della Somalia di Mohamud (legato mani e piedi al regime di Ankara, ma anche con l’Egitto, che ha un contenzioso pericoloso con Addis Abeba per la diga Gerd) di questa istanza, come riporta “Meridiano42”. Se Abyi riuscisse nell’intento disinnescherebbe una alleanza scomoda di Mogadiscio, soprattutto durante la guerra in corso contro il Tigray. Dunque gli embarghi risultano utili in particolare come merce di scambio e strategie diplomatiche, mentre il regime somalo non riesce ad avere ragione di al-Shabaab.
  • Il fatto che embarghi e sanzioni siano unilaterali li rende un’arma esclusiva dell’Occidente; infatti diventa offensiva la consapevolezza che il paravento delle sanzioni è un gioco affaristico, come quello del governo tedesco di Scholz, che approvando le esportazioni di armi verso Riyad ha interrotto l’embargo deciso nel 2018, a causa del ruolo saudita nella guerra in Yemen (“perplessità sulla vocazione democratica della famiglia saudita poi ribadite con l’assassinio di Khashoggi). Tutto rientra nel bisogno energetico scatenato dalla crisi sarmatica, come scrive “Anbamed” il 30 settembre:

 «L’Arabia Saudita, primo esportatore mondiale di petrolio, ha assunto un ruolo ulteriormente importante nel garantire fonti di energia per i paesi europei, dopo le sanzioni contro la Russia e lo stop di Mosca alle esportazioni di gas e petrolio. Uno dopo l’altro i capi di Stato occidentali si sono prostrati alla corte di Mohammed Bin Salman: prima di Scholz, Biden e Macron».

  • Mediapart” aveva rivelato il 24 settembre i garbugli internazionali che andavano permettendo al colosso di Monaco Hensoldt di aggirare l’embargo attraverso filiali straniere e di un accordo franco-tedesco.
  • Gli Usa avevano già stipulato accordi con la famiglia saudita per realizzare una rete di droni marittimi in funzione anti-iraniana insieme a Israele nel quadro degli Accordi di Abramo trumpiani e sfruttati dalla amministrazione Biden, come riportava il “Wall Street Journal”, un modello che Washington intenderebbe collaudare in Medio Oriente per esportarlo nel resto del mondo: entro la prossima estate US Navy prevede di poter contare su uno stormo di 100 piccoli droni di sorveglianza M5D-Airfox – forniti da vari paesi – che opereranno dal Canale di Suez in Egitto fino alle acque al largo della costa iraniana e forniranno informazioni a un centro di comando in Bahrein, sede della Quinta Flotta degli Stati Uniti. Evidente la necessità di operare un monitoraggio della tecnologia nucleare di Tehran.
    I droni attualmente in fase di test sono disarmati. Ma gli analisti della difesa si aspettano che la Marina si muova verso l’equipaggiamento di alcuni di essi con armi in futuro; tutto ciò nasce dalla preoccupazione per l’espansione dell’influenza dell’Iran in una delle rotte economiche più importanti del mondo. Teheran ha schierato navi e sottomarini equipaggiati con droni aerei.
    Invece la Marina degli Stati Uniti sta testando una serie di imbarcazioni senza pilota, tra cui una che assomiglia a un motoscafo e può raggiungere una velocità di quasi 90 miglia all’ora. Sta anche lavorando con droni aerei tipo Predator e con il Saildrone, che può rimanere in mare per sei mesi.
  • Saildrone

28 settembre

  • Il giro promozionale del sistema di artiglieria più desiderato

    Un sofisticato meccanismo logistico di trasporto “moltiplica” l’utilizzo dei sistemi lanciamissili aviotrasportati Himars, laddove è richiesto l’impiego immediato.
    Sistemi missilistici mobili in uso contemporaneamente grazie al delivery del sistema di arma a cui inneggiano le truppe ucraine per la risoluzione di situazioni difficili. Per ora il sistema di consegna aviotrasportato sta attuando un giro promozionale

  • L’High Mobility Artillery Rocket System (l’ormai mitico Himars) ha sparato martedì 27 settembre nel Grande Nord della Svezia durante una missione di breve durata iniziata ore prima con le truppe che hanno preso il volo a bordo di un C-130 per operazioni speciali partito dalla base aerea di Ramstein, in Germania. La missione è stata simile a quella effettuata giorni prima in Lettonia, dove gli Himars  americani sono stati inviati a sostegno delle esercitazioni di preparazione al combattimento nei paesi baltici. La Lituania  aveva già richiesto (a luglio quando Riga chiese di acquistare sistemi missilistici di difesa costiera e anche l’acquisto di sistemi di difesa aerea a medio raggio, valutando in 763 milioni di dollari gli stanziamenti in spese militari per il 2023).  una fornitura di Himars nel quadro di un cofinanziamento tra i paesi baltici per acquisti dalla Difesa americana; Durante l’estate, gli artiglieri statunitensi hanno fatto lo stesso in Danimarca. Questo ipermovimento è utile anche per lanciare segnali al “nemico”. Questa strategia di dimostrazione di muscoli, promozione commerciale e collaudo per eventuale delivery in situazione di guerra dichiarata è ben descritto da “Stars&Stripes”.

Il Pentagono ha annunciato mercoledì che stipulerà un contratto con l’industria per 1,1 miliardi di dollari in aiuti militari all’Ucraina, compresi 18 sistemi di razzi di artiglieria ad alta mobilità e altre armi per contrastare i droni che la Russia ha usato contro le truppe ucraine. (“DefenseNews”).

Le nuove armi e attrezzature, fornite nell’ambito dell’Iniziativa per l’assistenza alla sicurezza dell’Ucraina, sono destinate a soddisfare le esigenze di Kiev a medio e lungo termine e potrebbero richiedere dai sei ai 24 mesi per arrivare. L’amministrazione Biden, che ha stanziato aiuti per 17 miliardi di dollari per l’Ucraina, ha utilizzato l’autorità presidenziale di drawdown per inviare le armi più rapidamente. L’ultimo contratto comprende 18 Himars della Lockheed Martin, ma anche 12 Titan per il contrasto dei droni di fabbricazione iraniana adottati da Mosca; 20 radar multi-missione in grado di tracciare i colpi di artiglieria e di mortaio, tra gli altri oggetti in volo (l’approvvigionamento di radar è centrale in molti accordi di acquisto); 300 Humvee, i camion per trasporto di attrezzature e ordigni: evidentemente si prevede che la guerra si protrarrà almeno per un paio di anni; gli ucraini hanno ricevuto 16 Himars direttamente dal Pentagono e altri 10 dagli stati europei.

Sfruttando l’intelligenza artificiale e l’apprendimento automatico, il Titan è in grado di operare in modalità opzionale e di aumentare autonomamente le contromisure in qualunque situazione in cui sia individuato un ordigno volante

«Si tratta di un investimento davvero consistente, destinato a far sì che l’Ucraina disponga di ciò che le serve per il lungo periodo, per scoraggiare le minacce future», ha dichiarato un funzionario del Pentagono. «Ma non esclude in alcun modo che continuiamo a investire nelle loro forze attuali con capacità che sono disponibili oggi e che possiamo attingere oggi dalle scorte statunitensi»


  • Il vertice di Bruxelles

  • Nel frattempo a Bruxelles si sono riuniti per la prima volta i Direttori nazionali degli armamenti dei Paesi membri del Gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina, coordinati dal sottosegretario alla Difesa per l’acquisizione e il mantenimento degli Stati Uniti, William A. LaPlante. Alla riunione, a cui ha partecipato anche il Segretario generale della Difesa italiano, generale Luciano Portolano, erano presenti i rappresentanti di 45 nazioni, dell’Unione europea e della Nato, ed è servito ad affrontare le sfide della base industriale della difesa e sulle opportunità di aumentare la produzione di capacità critiche per la difesa a lungo termine dell’Ucraina. Formiche.it riportando la notizia del nuovo coordinamento dei paesi dediti al sostegno di Kyiv, aggiunge anche che lUcraina si rifornirà di sistemi missilistici Himars direttamente dal produttore, quindi trattando direttamente con Lockheed Martin sgravando l Pentagono dal bisogno di fornire con propri sistemi il paese belligerante (non è chiaro chi paghi i sistemi: cioè da dove Zelensky prenda i soldi per onorare tutte queste forniture direttamente dal produttore), permettendo una catena di rifornimenti sostenibile a lungo termine. La decisione, inoltre, riduce lo sforzo imposto agli arsenali Usa per rifornire le difese ucraine ma soprattutto di aggirare la burocrazia (e il controllo) del Congresso.
  • Questo sotterfugio fa parte di un braccio di ferro tra Pentagono e Congresso che si rinnova periodicamente e in periodi di inflazione durante un impegno bellico produce tensioni come quelle descritte da “DefenseNews”, quando le pressioni del Congresso sul Pentagono per mitigare gli effetti dell’inflazione si ritorcono contro i parlamentari (e le loro lobbies in contrasto con il desiderio militarista di una quantità sempre maggiore di giocattoli)

Perché i contratti di appalto pluriennali sono raramente approvati dal Congresso? Il personale addetto agli stanziamenti non vuole rinunciare al potere di mettere in discussione le spese negli anni successivi, e i membri scelgono di non scavalcare il potente personale

  • Il Dipartimento della Difesa americano apparentemente sta proponendo soluzioni per rispondere alla richiesta di fornire “sgravi contrattuali straordinari” alle aziende con contratti a prezzo fisso che stanno subendo l’inflazione al 9%; in realtà sfrutta la situazione perché proprio LaPlante ha invitato a dare ai federali una maggiore autorità per negoziare contratti di approvvigionamento pluriennali per munizioni e sistemi missilistici, eliminando la necessità di negoziare i contratti ogni anno con il Congresso (sottraendogli il controllo sulle forniture), mantenendo le linee di produzione “calde”, migliorando la capacità americana di rifornire le scorte svuotate dalla guerra in Ucraina. Secondo il Pentagono gli appaltatori hanno bisogno di stabilità per produrre sistemi a ritmi significativi per periodi di tempo prolungati. I dollari prevedibili generano stabilità e il modo più facile per ottenerla sarebbero i contratti di approvvigionamento pluriennali nell’ottica guerrafondaia più estremista e che quindi prevede una guerra aperta di lunga durata.
  • Contratti pluriennali: gli appaltatori si assicurano ordini quinquennali

  • Con questa autorità, gli appaltatori hanno una fonte di finanziamento costante, che segnala che i loro prodotti saranno acquistati per anni e crea un incentivo a investire nella forza lavoro, nella ricerca e nello sviluppo e nelle strutture della propria azienda costruttrice di armi, che poi dovranno essere usate e distrutte per continuare a mantenere elevata la richiesta e ottemperare al contratto.
  • Il sommergibile russo Yasen-M è più lungo del Virginia Block ma porta tubi per il lancio verticale di missili più piccoli, così l’imbarcazione americana può trasportare 40 missili Cruise della classe Tomahawk contro i 32 degli avversari russi

  • Un fulgido esempio del giro di affari che può rendere a uno o all’altro dei soggetti in commedia è il missile Tomahawk Block IV. Un contratto di approvvigionamento pluriennale contenuto nella legislazione sugli stanziamenti per l’anno fiscale 2004 ha portato a una produzione di circa 357 missili all’anno, con un prezzo medio di 1,4 milioni di dollari per missile in dollari dell’anno fiscale 2002. Dopo 16 anni, il Pentagono sta nuovamente acquistando lo stesso missile Tomahawk, ma questa volta senza un contratto pluriennale. Dall’anno fiscale 20 all’anno fiscale 22, il Dipartimento della Difesa ha acquistato circa 94 missili all’anno a un prezzo medio di 2,9 milioni di dollari per missile, con un aumento del 107.
  • Per l’anno fiscale 2023 questa procedura è stata approvata solo per il cacciatorpediniere guidato classe Arleigh Burke.
  • Nonostante l’ovvia necessità di acquisti sostenuti di munizioni, nelle tranche di aiuti all’Ucraina approvate dal Congresso dall’inizio della guerra non sono stati approvati appalti pluriennali.

“I dollari prevedibili generano stabilità e i contratti di approvvigionamento pluriennali dovrebbero essere il veicolo per ottenerla”

Costretta a una pianificazione annuale, l’industria della difesa rischia di non fare gli investimenti necessari oltre l’orizzonte di un anno secondo i sostenitori della filiera produttiva, considerando che altrimenti non s’incentiverebbero le aziende a migliorare la capacità e a ridurre i costi. Un modo in cui il Pentagono ha cercato di aggirare questo controllo è stato quello di stipulare contratti per un anno in cui sono stati stanziati dei fondi e poi avere una serie di opzioni per rinnovi automatici di un anno, con l’intento di triplicare la produzione di artiglieria, per le armi che i combattenti usano quotidianamente – le bombe, i missili, i razzi… (praticamente Dr. Strangelove).


Nel corso della riunione di Bruxelles, i direttori degli armamenti sono giunti a indicare la volontà di avviare dei gruppi di lavoro volti a definire strategie multinazionali per risolvere i problemi della catena di approvvigionamento e aumentare la produzione di armi che potrebbero essere inviate in Ucraina. La delegazione statunitense ha illustrato i propri piani per aumentare la produzione di armi a lungo raggio basate a terra, sistemi di difesa aerea, munizioni aria-terra e altre capacità. E così si torna all’inizio della scheda su questi Himars portati in giro come i carri armati di Mussolini: infatti Lockheed Martin non riesce a soddisfare la richiesta di Himars e secondo “BusinessInsider” è in cerca di aziende in grado di costruire più di 100 Himars all’anno: l’Esercito prevede un programma quinquennale che richiede quasi 500 nuovi HIMARS, attualmente costruiti dalla Lockheed Martin. Per gli anni fiscali dal 2024 al 2028, l’Esercito prevede un minimo di 24 nuovi lanciatori all’anno e un massimo di 96, per un totale di 120-480 in cinque anni. L’aggiunta di 480 nuovi lanciatori raddoppierebbe quasi la dotazione mondiale di Himars. L’esercito statunitense ne ha 363 e il Corpo dei Marines altri 47. L’Esercito ha dichiarato nel 2021 – prima che la Russia attaccasse l’Ucraina – che avrebbe cercato di aumentare la sua forza a 547 Himars. La Romania ha 18 Himars e l’approvazione degli Stati Uniti per acquistarne fino a 54. Singapore ha 18 lanciatori e la Giordania 12. Singapore ha 18 lanciatori e la Giordania 12. Oltre all’Ucraina, forse l’acquirente più importante sarebbe Taiwan, che ha in programma di ordinare 29 Himars.

27 settembre

  • Littoral Freedom-variant

  • Fincantieri aveva ottenuto l’appalto per la serie Lcs (Littoral Combat Ships) attraverso la controllata Marinette Marine Corporation, all’interno del consorzio guidato da Lockheed Martin Corporation, la prima nave multiruolo fu la Freedom (che poi ha dato nome alla variante) nel 2008. La consegna approvata dalla Marina militare americana in settembre è la dodicesima fregata, la USS Cooperstown LCS-23, l’importo per la quale si legge su “AdriaEco” del 2015 avrebbe dovuto essere fissato in 279 milioni di dollari, saldati alla consegna… ma ora nessuno ha fatto cenno all’effettiva somma conferita nelle casse di Fincantieri.
  • «Il prossimo passo per Cooperstown è la cerimonia di inaugurazione a New York, seguita dal trasferimento nel suo nuovo homeport di Mayport», questo l’incipit trionfalistico di “ShipMag” nel dare notizia del varo.


  • Scheda tecnica

  • LCS è una nave progettata sia per le attività di sorveglianza e difesa delle coste che per le operazioni in acque profonde, per affrontare minacce asimmetriche quali mine, battelli diesel silenziosi e navi di superficie veloci. Le unità sono allestite in base ad una logica modulare, ed i vari moduli possono essere adattati a seconda del tipo di missione. Le unità della classe LCS hanno una velocità massima di oltre 40 nodi e si configurano come tra le navi militari monoscafo più veloci al mondo.
  • LCS è una piattaforma veloce, agile e focalizzata sulla missione progettata per operare in ambienti costieri e oceanici aperti. Facile immaginare una destinazione d’uso in funzione antiterrorismo, contro i migranti e antinarcos, anche considerando che i porti a cui sono assegnate sono sparsi lungo tutte le coste interne degli Usa, dove dovranno operare queste che sono a tutti gli effetti navi da guerra, come dalle informationi tecniche di Fincantieri:
  • COMBAT SYSTEM

    Capabilities on the LCS in all configurations include self-defense, navigation and C4I.

    SELF-DEFENSE FEATURES INCLUDE:

    • RAM (Rolling-Airframe Missile) Launching System

    • 57 mm Main Gun

    • Mine, Torpedo Detection

    • Decoy System

  • I precedenti
      • USS Minneapolis St. Paul LCS-21 (2021)USS Cooperstown LCS-23 (2021)
      • USS Freedom LCS-1 (2008)USS Fort Worth LCS-3 (2012)USS Milwaukee LCS-5 (2015)USS Detroit LCS-7 (2016)USS Little Rock LCS-9 (2017)USS Sioux City LCS-11 (2018)USS Wichita LCS-13 (2018)

        USS Billings LCS-15 (2019)

        USS Indianapolis LCS-17 (2019)

        USS St. Louis LCS-19 (2020)

        USS Minneapolis St. Paul LCS-21 (2021)

        USS Cooperstown LCS-23 (2021)

        USS Canberra LCS-30 (2022)

        USS Santa Barbara LCS-32 (2022)

    • Interessante notare l’accelerazione nelle consegne e diverse altre varianti Freedom sono in costruzione presso il cantiere navale Fincantieri Marinette Marine, nel Wisconsin. La consegna della futura USS Marinette (LCS 25) è prevista per l’inizio del 2023. Altre navi in ​​varie fasi di costruzione includono le future navi USS Nantucket (LCS 27), USS Beloit (LCS 29) e USS Cleveland (LCS 31). LCS 31 sarà l’ultima LCS variante Freedom informa “AreaDifesa”.

21 settembre

  • Pavloviana reazione alle minacce nucleari del non bluff di Putin

    La reazione immediata del sistema neoliberista di cui fa parte la Russia stessa e il mondo intero alla mobilitazione ordinata dal Cremlino è stata un’immediata ascesa dei titoli legati alla Difesa e Sicurezza nel listini di borsa europei, come riporta “Fta. E in prospettiva il mercato sposterà molte risorse finanziarie a sostegno di titoli collegati alla guerra.
    Era ovvio, ma il riflesso pavloviano a fronte dell’escalation è stato immediato e automatico: la paura nucleare ha fatto scattare i rialzi di Leonardo (5,25%), Thales (5,26%), Bae Systems (4,41%) e Rheinmetall (10,14%).

  • I fantastici quattro

  • Leonardo superando area 8 euro ha completato il piccolo doppio minimo disegnato in area 7,50 dall’8 settembre. La figura si appoggia sul 61,8% di ritracciamento del rialzo dai minimi di novembre 2021, si tratta di un sostegno molto rilevante dal quale è lecito attendersi una reazione consistente. Sopra area 8,30 atteso il test di 8,48, lato alto del gap del 29 agosto, poi resistenza a 9 euro circa.
  • BAE Systems ha disegnato dal top di luglio una figura “triangolo” rialzista. La resistenza da battere è quella degli 810 pence, oltre quei livelli target a 900 circa. Solo sotto la base del “triangolo”, a 750, le prospettive di rialzo verrebbero negate, rischio di cali verso i 650 pence.
  • Thales segue un percorso orizzontale ormai dal massimo di aprile. La rottura (se confermata in chiusura di seduta) di area 119, linea mediana della fascia, permetterebbe il test della parte alta dell’intervallo, in area 128 euro. Resistenza successiva a 140 euro circa. Sotto 115 probabile invece il test della parte bassa del trading range, supporto critico di medio periodo, a 110 euro circa.
  • Rheinmetall ha superato a 158 euro la trend line ribassista disegnata dal top di luglio e sta testando in area 167 la media mobile esponenziale a 50 giorni. Il superamento della media, se confermato in chiusura di seduta, aprirebbe la strada a movimenti verso i 200 euro. Solo con la violazione di area 140 emergerebbe nuovamente il rischio di ribassi (target a 120 almeno). Dal 31 dicembre il titolo tedesco ha guadagnato il 130% del suo valore.

In particolare è quest’ultima a guadagnare di più per la decisione da parte del governo tedesco di investire 100 miliardi di euro che quindi ci si aspetta che sia Bundeswehr a spendere in particolare nel paese buona parte del bottino.

Oltre a Thales e Rheinmetall, anche il produttore di Rafale, Dassault Aviation, il produttore di armi britannico BAE Systems, l’italiana Leonardo (l’unico subappaltatore europeo a gestire una linea di assemblaggio finale per l’F-35 di Lockheed Martin) e la svedese Saab, che sviluppa jet da combattimento (“Gripen”) e droni, sono stati tra i maggiori rialzisti della sessione europea di mercoledì 21 settembre. (“LesEchos”).


  • Parallelismi in Borsa

  • Gli annunci di Mosca hanno avuto un immediato impatto sui prezzi del petrolio che «sono tornati a salire portando il Brent a 93 dollari al barile e il Wti sopra 86 dollari al barile e favorendo anche gli acquisti sui titoli dell’industria petrolifera: a Milano in evidenza Tenaris (+3,7%) e Eni (+2,5%) ma anche nel resto d’Europa Total (10,5% al Cac40), Bp, Repsol sono tra i migliori».

MQ-Reaper

3 settembre

  • A un mese dalla “bomba” Nancy sganciata nel Pacifico

    L’ebdomadario di Lorenzo Lamperti da Taipei per China files ha subito un climax qualitativo e quantitativo di notizie sempre più collegate a strategie belliche e produzioni di armi a partire dall’invasione russa dell’Ucraina, per le evidenti analogie, ma anche le differenze che Lamperti in un pezzo di fine aprile (dove già si citava un invito americano ad aumentare il Budget militare) – riprendendo “The Economist” – enumera insieme alle affinità: con la sua guida ricostruiamo il riarmo nell’Indopacifico nelle ultime settimane.
    Procedendo a ritroso troviamo nella rassegna del 3 settembre situazioni ricorrenti da aprile e che hanno registrato una escalation dopo il provocatorio viaggio di Nancy Pelosi, su cui qualche settimana fa Lamperti nel suo “Taipei Files” registrava l’irritazione dei taiwanesi, che avevano ascritto alla strategia statunitense per alzare deliberatamente la tensione.

  • Stanziamenti e budget

  • Una delle ricorrenze è la richiesta al Congresso da parte della Casa Bianca di approvare la vendita di un pacchetto di armi destinato a Taipei dell’ammontare di 1,1 miliardi di dollari; con il corollario di polemiche, perché tra gli annunci e le consegne passano molti anni. «Il pacchetto, comprende secondo “Politico” 60 missili AGM-84L Harpoon Block II per 355 milioni di dollari, 100 missili tattici aria-aria AIM-9X Block II Sidewinder per dotare gli F-16 per 85,6 milioni di dollari e 655,4 milioni di dollari per l’estensione del contratto per un radar di sorveglianza».
AGM-84L Harpoon Block II

Harpoon Block II è un missile antinave over-the-horizon prodotto da Boeing Defence, Space & Security

  • Soprattutto questa voce relativa ai radar è particolarmente sensibile, come documentato da un dossier pubblicato dal Project2049 Institute ad aprile che sottolinea l’importanza di poter contare su una immediata allerta a fronte di incursioni improvvise. “Formiche.net” segnala che secondo il Dipartimento della Difesa Usa «l’attrezzatura è necessaria per Taiwan per “mantenere una sufficiente capacità di autodifesa” a Taiwan» e corrisponde esattamente alla fornitura che Washington ha assicurato a Kyiv. Infatti, come riporta “Scmp”, il ministro della difesa taiwanese sta cercando 541 milioni di dollari in più per i prossimi 5 anni (guarda caso in linea con gli stanziamenti del Pentagono) per mantenere e sostenere il suo sistema radar di allerta precoce a lungo raggio Pave Paws (Precision Acquisition Vehicle Entry Phased Array Warning System), che secondo il Ministero ha tracciato efficacemente i missili della Pla sparati sopra l’isola il mese scorso; i fondi sono destinati a mantenere le prestazioni operative della stazione radar Leshan dell’aeronautica militare nella contea di Hsinchu, nel nord di Taiwan; ed «è molto importante non solo per dare a Taiwan un tempo di preavviso molto necessario per contrastare gli attacchi missilistici del nemico, ma anche per fornire agli Stati Uniti le informazioni necessarie sui movimenti del Pla».
è un complesso radar di allerta precoce e sistema informatico

Long-range UHF radar di allerta precoce in Leshan.

  • Di recente la stazione ha svolto un ruolo significativo per controllare la traiettoria e i punti di atterraggio degli 11 missili della serie Dongfeng lanciati dall’Esercito Popolare di Liberazione nelle acque su tre lati di Taiwan nel mese di agosto. Costruito dalla Raytheon nel 2003, il sistema di allarme ad arco di fase per l’acquisizione di precisione dei veicoli, del valore di 1,4 miliardi di dollari, è pienamente operativo dal 2013. Situato a un’altitudine di 2600 metri, il gigantesco sistema radar è in grado di rilevare un missile lanciato da una distanza di 5000 chilometri e di seguire i proiettili in movimento in modo estremamente dettagliato, anche da una distanza di 2000 chilometri, un raggio che copre la Cina continentale, il Mar Cinese Meridionale e la Corea del Nord.

Ovvie le rimostranze cinesi per voce di Liu Penguy: «Gli Usa devono smettere di vendere armi a Taiwan poiché qualsiasi contatto militare con l’isola viola il principio di “una sola Cina”». Secondo Pengyu gli Stati Uniti «devono smettere di creare fattori che potrebbero portare a tensioni nello Stretto di Taiwan e dovrebbero dar seguito alla dichiarazione del governo Usa di non sostenere l’“indipendenza di Taiwan”» (RaiNews).

  • Il portavoce dell’Ambasciata cinese ha anche affermato che Pechino continuerà ad adottare misure molto determinate per difendere fermamente la sovranità cinese e gli interessi di sicurezza. A Pechino il Dipartimento di Stato statunitense ha risposto che le vendite sono in linea con la politica statunitense di lunga data di fornire armi difensive all’isola in rispetto della “One China” e ha descritto la «rapida fornitura di tali armi come essenziale per la sicurezza di Taiwan» (Cnn). Proprio l’aggettivo “rapida” è motivo di polemica: infatti i miliardi per approvvigionare con le armi promesse, approvate dal Congresso, prodotte, stanziate… poi vedono una data di consegna procrastinata nel tempo, come nel caso del contratto firmato il 24 agosto per la dotazione di 4 droni, la cui operatività nello Stretto di Taiwan è prevista per il… 2029 (“FocusTaiwan”, 30 agosto).E allora viene da pensare che si tratti di una messinscena – per ora – che intende contenere da parte americana una Cina che sarebbe più ostile se indebolita politicamente ed economicamente e se Xi dovesse perdere la leadership al congresso di ottobre che sta preparando da un paio di anni, ma che sarebbe altrettanto aggressiva se molto ringalluzzita da strumenti di guerra incontrastabili, mancanza di reazioni o di provocazioni mal recitate (stile Pelosi) e potendo contare su alleanze importanti

  • Droni e sistemi per difendersi da incursioni Uav

  • Un altro tassello collocato dall’industria delle armi a Taiwan è la corsa ai sistemi di difesa dai droni più sofisticati (persino ipersonici).
  • Il governo di Taipei ha deciso di incrementare la propria spesa militare del 14 per cento, arrivando al 2,4 per cento del Pil (“Scmp”). Taiwan infatti è indotta a stanziare anche un proprio budget nel settore della Difesa, parallelo a quello imposto dalle forniture Usa: giunge infatti notizia di un sistema di produzione propria. Secondo “Scmp” Taiwan ha in programma di dispiegare un sistema di difesa contro i droni da 143 milioni di dollari sulle sue 45 isole offshore per evitare le frequenti incursioni da parte dei droni della Cina continentale, una mossa sottolineata dall’abbattimento di un drone non identificato il 1° settembre; finora si tratta di droni non militari, «senza logo identificativo», come riporta Lamperti su “il manifesto”, spiegando la situazione sulle isole più vicine al Fujian (arcipelago di Kinmen, a una ventina di chilometri dalla costa cinese), dove sempre più spesso volano questi disarmati droni ambigui, perché ufficialmente non si sa a chi appartengano: « Un’ambiguità sulla quale l’altra sponda dello Stretto sembra voglia giocare, in accordo con la strategia d’estensione dell’area grigia. Obiettivo: degradare i sistemi di difesa e disturbarne il contingente militare, esercitando pressione psicologica sull’opinione pubblica. E, ovviamente, presentare un rebus sui protocolli di risposta. Un conto cosa sarebbe abbattere un drone civile e un’altra abbatterne uno militare».
    Il sistema di difesa con veicoli aerei senza pilota controllati a distanza (Uav) è stato sviluppato dal National Chung-Shan Institute of Science and Technology (Ncsist), il principale ente di ricerca e sviluppo militare dell’isola, i cui altri prodotti includono i missili di difesa aerea Sky Bow e i missili antinave Hsiung Feng. Il radar di ricerca del drone è in grado di rilevare un Uav in avvicinamento identificandolo grazie a una telecamera e al rilevamento delle frequenze. Quando è chiaro che l’intruso è un drone nemico, un sistema di disturbo elettronico ne interrompe i comandi prima che un drone di recupero Asrd catturi l’invasore con una rete.
MU-1612 Uav taiwanese

I prototipi di Teng Yun, contrassegnati con le sigle MU-1611 e MU-1612, ognuno dei quali misura 8 metri di lunghezza con un’apertura alare di 18 metri, possiedono specifiche ufficiali che indicano come i veicoli aerei hanno un raggio d’azione superiore a 1000 chilometri, una durata di volo di 24 ore e un tetto massimo di 7620 metri.

  • A maggio il ministero ha firmato un accordo con l’Ncsist per il primo lotto di sistemi di difesa al costo di 657 milioni di dollari; dovrebbero essere installati nel 2023 dando priorità alle postazioni nelle isole offshore per affrontare le “minacce della zona grigia”.
  • Un altro approccio diffuso è quello di utilizzare i droni per contrastare altri droni. Il Coyote di Raytheon ne è un esempio. Quando vola vicino al suo bersaglio, fa esplodere la sua testata per distruggere il bersaglio o lo colpisce per annientarlo senza esplodere.
  • Con l’intensificarsi della propria presenza intorno a Taiwan, il Pla ha aumentato la frequenza dei voli Uav nell’area. In un caso recente, il Ministero della Difesa giapponese ha riferito di aver avvistato un drone da combattimento e ricognizione TB-001 a media altitudine e lungo raggio (Male) al largo della costa orientale di Taiwan.

  • Il TB-001 Twin-Tailed Scorpion ha una velocità massima di oltre 300 km/h, un tetto massimo di 8000 metri, un raggio d’azione di 3000 chilometri e una autonomia di 35 ore.
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Fiera dell’usato, basi e magazzini

Anche questo mese va rubricata una fiera tenutasi dal 14 al 20 agosto ad Armiya, significativa perché, come scrive l’“Atlante delle Guerre”, pur se emblema del degrado del complesso militare-industriale della Federazione russa e disorganizzata come l’esercito russo, avrebbe realizzato ricavi per 7 miliardi e 1500 espositori, riprendendo i numeri di “Kommersant”. Certo che anche il sito ufficiale non riporta immagini, video, articoli, articoli esibiti… la splash page usa immagini del 2021 e per il resto si lancia l’edizione 2023. Una fiera fantasma, da cui però sono trapelate alcune agghiaccianti particolarità nella stringata cronaca di “Diritti Globali”: i numerosi ospiti in arrivo da trentadue paesi sono seguiti da un sofisticato dispositivo di sorveglianza e possono osservare i tremendi progressi raggiunti attraverso il conflitto. La Russia è il secondo produttore di armi del pianeta dietro agli Stati uniti. L’export vale quindici miliardi di dollari all’anno. Dopo il discorso di Putin, Shoigu ha “rassicurato” i presenti sulla possibilità di usare in Ucraina armi nucleari: «Da un punto di vista strategico non è necessario farlo per raggiungere i nostro obiettivi». Infatti la reginetta di questa fiera, in base alle illustrazioni e agli articoli dedicati è un “nuovo” carrarmato ottenuto con un restyling di un blindato di epoca brezneviana: il T-62M, nuovamente modernizzato; “Defense Express” ipotizza un impiego adatto nei contesti siriani e libici: proxy war d’altri tempi.

A latere di Armiya si registrano gli interessi per il gas del Mediterraneo orientale con gli schieramenti contrapposti, le cui ripercussioni si avvertono in ambito militare con moltiplicazione di fronti: cioè da un lato la nuova fornitura di S-400 schierati dalla Turchia “a difesa” del fronte mediterraneo del gas – contesto in cui è esplicitamente alleata di Mosca (pur confinante con la Mesopotamia che vede i due alleati di Astana in reciproca tensione); i russi in cambio dell’operazione di intelligence attraverso gli S-400 (che i turchi schierano contro i greci, alleati nella Nato) pagano con Rosatom la nuova centrale atomica di Akkuyu, versando altri 15 miliardi che, insieme ai 20 promessi dai sauditi nell’inedita convergenza di interessi con Mbs, faranno vincere le elezioni a Erdogan, per continuare a fare affari, anche e soprattutto nel traffico di armi e infrastrutture. “Formiche” dà conto di questa fornitura russa per il secondo esercito della Nato, mettendola in relazione appunto con la corsa al riarmo greco.
Infatti dall’altro lato si assiste alla conseguente ulteriore spirale di armamenti greci con l’aereo spia EMB-145H AEW&C, ma anche e soprattutto con pressioni per il potenziamento di basi a Creta (Souda bay verrà raddoppiata per incrementare il numero di sommergibili) e a Cipro (Akrotiri); a questo proposito gli Usa hanno persino tolto l’embargo sulle armi per Nicosia, imposto nel 1987 per facilitare l’unificazione dell’isola, innescando così la corsa agli armamenti tra le due amministrazioni dell’isola; come se si perseguisse l’accensione di ogni minimo focolaio di guerra che contrappone gli schieramenti.
Questo ci ha spinto a dedicare l’attenzione dell’editoriale di agosto alla profusione e proliferazione di basi, una vera rincorsa in questo periodo in ogni quadrante, in preparazione di probabili interventi repentini in zone di improvvisa crisi. Il “New York Times” dà notizia sempre nell’Ellade di un ripristino dell’hub finora in sonno ad Alexandroupoli, riattivazione che ha scatenato le reazioni di Turchia e Russia.
Ma anche nel braccio di ferro Indopacifico spicca l’annuncio formulato su “Nikkei” dall’ambasciatore filippino di una nuova serie di basi americane nell’arcipelago di Manila, perché è evidente che si inserisce nelle tensioni relative alle esercitazioni del Pla attorno a Taiwan; da quando le forze armate statunitensi cercano di distribuire le forze lungo la cosiddetta prima catena di isole che si estende dal Giappone al Sudest asiatico, l’importanza geopolitica delle Filippine va crescendo e la prospettiva è che entro i prossimi 3 anni gli Usa possano contare su 8 nuove basi nelle Filippine, secondo “Stars and Stripes”.
Ma con la guerra scatenata in Europa orientale le basi assumono il ruolo di deposito e smistamento armi, oltre che di posizionamento al fronte come per i bombardieri Eurofighter italiani dislocati il 29 luglio a Malbork in Polonia a meno di 130 chilometri da Kaliningrad (come informa Antonio Mazzeo). E allora vanno ricordati i campi di smistamento di armi stoccate in Germania, Polonia e in Ucraina stessa, dove il 60 per cento delle forniture non sono arrivate in prima linea perché bloccate – o più spesso – scomparse, come denuncia “Armi e Tiro”. Questo perché la Germania intende mantenere il controllo diretto su sufficienti materiali bellici e non esacerbare ancora di più i rapporti con la Russia.
Ma è soprattutto il territorio polacco che si va trasformando in un magazzino di armi provenienti da tutti i 40 paesi che partecipano al rifornimento antirusso: il 3 agosto i russi hanno distrutto un magazzino di armi destinate all’Ucraina, stoccati a Radejiv nella regione di Lviv; la cellula nevralgica della distribuzione delle armi è il Centro di coordinamento internazionale dei donatori descritta dal “NYT”. Le spedizioni iniziali di armi, tra cui missili antiaerei Stinger e anticarro Javelin, sono arrivate in Polonia e sono state trasportate rapidamente oltre il confine. Ma man mano che vengono donate armi più grandi, pesanti e complesse, i pianificatori militari inviano le spedizioni anche via mare, ferrovia e camion.
A fine luglio il centro aveva spostato più di 78.000 tonnellate di armi, munizioni e attrezzature per un valore di oltre 10 miliardi di dollari, secondo i funzionari militari statunitensi e occidentali. Il centro organizza anche l’addestramento dei soldati ucraini all’uso e alla manutenzione delle armi, come l’HIMARS, che richiede almeno due settimane di addestramento.
Intanto Kiyv ha ricevuto 230 tank da Polonia e Repubblica ceca, provenienti dal Patto di Varsavia, dunque non necessitano di addestramento per ufficiali ucraini, e questo chiude il cerchio con la fiera di Armiya, che dimostra come quella in corso sia una guerra fatta con armi obsolete. Infatti i 250 carri armati Abrams in gran spolvero nel loro ultimissimo modello rimarranno all’esercito di Varsavia in cambio di 1,2 miliardi di dollari versati alla General Dynamics Land Systems (“DefenseNews”); ma sono in consegna per il 2025 – per la prossima guerra, più moderna dopo lo svuotamento degli arsenali.


General Dynamics M1A2 SEPv3 Abrams tank

Siti consultati:

  • Armiya: sito ufficiale della fiera russa delle armi
  • Atlante delle Guerre: Fiera delle armi russe: impantanata nel web (17 agosto)
  • Diritti Globali”: A Mosca la fiera delle armi, Putin fa affari: «Così libero il Donbass» (17 agosto)
  • Defense Express”: Armiya-2022: russia’s T-62M Tank Latest Modernization (18 agosto)
  • Breaking Defense”: A second S-400 deal with Turkey? Not so fast, insiders say (12 settembre)
  • Formiche”: Le conseguenze (serie) dell’arrivo di altri S-400 russi alla Turchia  (17 agosto)
  • Formiche”: Cipro, perché la decisione Usa sull’embargo fa indignare la Turchia (17 settembre)
  • New York Times”: Sleepy Greek Port Becomes U.S. Arms Hub, as Ukraine War Reshapes Region (18 agosto)
  • Nikkei”: Philippines may allow U.S. military access during Taiwan crisis (5 settembre)
  • Taiwan News”: Philippines could allow US troops access to military bases during Taiwan conflict (5 settembre)
  • Armi e Tiro”: Usa: il 70 per cento delle armi non ha raggiunto l’Ucraina? (14 agosto)
  • New York Times”: Special Military Cell Flows Weapons and Equipment Into Ukraine (27 luglio)
  • DefenseNews”: Abrams-maker GDLS announces $1.1 billion tank deal for Poland (25 agosto)

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100 %

Avanzamento



La Top Ten dei contratti del Dipartimento americano della Difesa in agosto

La rivista “ClearanceJobs” ogni mese elenca in ordine per importo i contratti di fornitura per il Dipartimento della Difesa americano con la distinzione del corpo dell’esercito e specifica dell’azienda produttrice che incassa cifre da capogiro; è una lettura interessante che vi sintetizziamo per avere un ordine di idee dell’enorme giro di affari, di produzione legata al comparto difensivo e di soggetti coinvolti (Agenzie, enti, aziende e poi logistica e magazzini, stoccaggio… ma soprattutto Università e laboratori di ricerca).

  1. US Navy il 12 agosto ha stipulato un contratto del valore di 7.630.940.571 con Lockhheed Martin Corp. di Fort Worth, Texas;
    l’accordo riguarda l’acquisto di 129 aerei del Lotto 15, come segue: 49 velivoli F-35A per l’Aeronautica; tre velivoli F-35B e 10 velivoli F-35C per il Corpo dei Marines; 15 velivoli F-35C per la Marina; 32 velivoli F-35A e quattro velivoli F-35B per i partecipanti non appartenenti al Dipartimento della Difesa (DOD) degli Stati Uniti; e sedici velivoli F-35A per i clienti delle Vendite militari estere, oltre a 69 kit di hardware tecnico.
  2. US Air Force il 30 agosto ha stipulato un contratto del valore di 5.712.635.494 con CACI NSS LLC, Chantilly, Virginia;
    l’Enterprise Information Technology fornisce servizi IT aziendali che dovranno essere conclusi entro il 2032.
  3. Missile Defense Agency il 30 agosto ha stipulato un contratto del valore di 5,021.000.000 con Boeing Co., Huntsville, Alabama;
    per l’integrazione, il collaudo e la preparazione del sistema (SITR), dell’ingegneria complessiva dell’elemento GMD (Ground-Based Midcourse Defense) e dell’integrazione del GMD con il sistema di difesa missilistica.
  4. US Navy il 22 agosto ha stipulato un contratto del valore di 4.396.000.000 con Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory, Laurel, Maryland;
    per la ricerca, lo sviluppo, l’ingegneria, il collaudo e la valutazione per i programmi del Dipartimento della Difesa nell’ambito delle sue aree di competenza principali, tra cui il collaudo e la valutazione dei sistemi strategici; sicurezza e sopravvivenza dei sottomarini; scienza e ingegneria spaziale; sistemi di combattimento e missili guidati; difesa aerea e missilistica e proiezione di potenza; tecnologia dell’informazione, simulazione, modellazione e analisi delle operazioni; ricerca, sviluppo, test e valutazione relativi alle missioni. Questo contratto include opzioni che, se esercitate, porterebbero il valore cumulativo del contratto a 10.600.000.000 di dollari. Il lavoro sarà svolto a Laurel, nel Maryland, e dovrebbe essere completato entro agosto 2027.
  5. US Special Operation Command il 1° agosto ha stipulato un contratto del valore di 3.000.000.000 con L3 Communications Integrated Systems, Greenville, Texas;
    la consociata Armed Overwatch fornirà alle Forze per le Operazioni Speciali sistemi di velivoli che soddisfino i requisiti di supporto aereo ravvicinato, attacco di precisione e intelligence armata, sorveglianza e ricognizione, per l’uso in operazioni di guerra irregolare a sostegno della Strategia di Difesa Nazionale
  6. US Air Force il 31 agosto ha stipulato un contratto del valore di 2.214.952.163 con Boeing Co., Defense, Space & Security, Seattle, Washington;
    per gli abbonamenti e licenze relativi agli aerei KC-46A Air Force Production Lot 8,. Il contratto prevede l’esercizio di un’opzione per un’ulteriore quantità di 15 aerei KC-46A. Il lavoro sarà svolto a Seattle, Washington, e si prevede che sarà completato entro il 30 novembre 2025
  7. US Transportation Command il 22 agosto ha stipulato un contratto del valore di 1.630.630.000 con Federal Express Team, Memphis, Tennessee;
    per la continuazione dei servizi di trasporto aereo charter internazionali a lungo e corto raggio per il Dipartimento della Difesa. Il periodo di opzione va dal 1° ottobre 2022 al 30 settembre 2024.
  8. La Disa il 2 agosto ha stipulato un contratto del valore di 1.500.000.000 con Lumen Technologies Government Solutions Inc., Herndon, Virginia;
    per fornire servizi e capacità di trasmissione end-to-end essenziali per la Defense Information System Network (DISN) Indo-Pacific, l’infrastruttura di telecomunicazioni consolidata a livello aziendale del Dipartimento della Difesa per l’area di responsabilità del Comando indopacifico degli Stati Uniti, che include l’Alaska. Il contratto prevede un periodo di esecuzione di 10 anni.
  9. US Transportation Command il 2 agosto ha stipulato un contratto del valore di 1.447.524.000 con Patriot Team, Tulsa, Oklahoma;
    per la continuazione dei servizi di trasporto aereo charter internazionali a lungo e corto raggio per il Dipartimento della Difesa. Il periodo di opzione va dal 1° ottobre 2022 al 30 settembre 2024. Il lavoro sarà svolto a livello globale.
  10. US Navy il 12 agosto ha stipulato un contratto del valore di 1.013.571.576 con Rolls-Royce Corp., Indianapolis, Indiana;
    Il contratto prevede la manutenzione intermedia a livello di deposito e il relativo supporto logistico per circa 210 motori T-45 F405-RR-401 Adour in servizio a supporto della Marina.

Agosto

31 agosto

  • Il risveglio del più militarista degli imperi

  • Budget e ipersonici

  • Oltre alla cifra record richiesta per il budget della Difesa di Taiwan, nell’Indopacifico l’altro budget di spesa militare con incrementi stellari è quello giapponese: «Il Giappone rafforzerà drasticamente le proprie capacità di difesa grazie a un forte aumento delle spese destinate al settore per fronteggiare il contesto di sicurezza globale deteriorato a partire dall’invasione russa dell’Ucraina», ha spiegato il premier Fumio Kishida. Si tratta dell’undicesimo aumento di seguito delle spese militari nipponiche richiesto dal partito liberal democratico al potere dettagliando un centinaio di voci di spesa, secondo “The Diplomat”, che aggiunge alla cifra diffusa durante il G7 dal primo ministro altri 10,3 miliardi richiesti dall’Atla, l’agenzia ministeriale per l’acquisizione tecnologica, per procedere nel suo programma di caccia di prossima generazione in collaborazione con il Regno Unito. Questo progetto non prevede la rinuncia all’acquisto di altri 6 Lockheed Martin F-35A Lightning II, su cui montare i missili norvegesi Joint Strike della Kongsberg (un’integrazione che proviene dal contratto stipulato da Kongsberg con Lockheed Martin che ha ricevuto 57,3 milioni per la certificazione, da quanto trapelato su “AreaDifesa” di un anno fa).

    La lista della spesa

    Ma le aggiunte non si fermano qui, perché la marina pretende come stanziamento a parte 3,6 miliardi per continuare a trasformare le sue due portaelicotteri di classe Izumo – JS Izumo e JS Kaga – in portaerei in grado di operare con i caccia F-35B Lightning multirole fighter, il cui numero dovrebbe essere incrementato (sempre fuori budget) di 6 apparecchi.

    A questi si aggiungerebbero 6 elicotteri da pattugliamento antisommergibile SH-60L, una variante aggiornata dell’elicottero navale multiruolo SH-60K sviluppato dall’ATLA e dalla società giapponese Mitsubishi Heavy Industries e 6 pattugliatori d’altura (OPV) di nuova generazione da 1920 tonnellate, che prevedono un equipaggio ridotto a un terzo delle vecchie fregate della classe Mogami. Una vera e propria lista della spesa che procede di mezza dozzina in mezza dozzina spizzando tra i banchetti del mercato delle armi, mossi dalla ossessione di difendere le isole agli estremi dell’arcipelago: le Nansei nel profondo sud e le contrastate Senkaku/Diaoyu, rivendicate da Pechino.

  • Anche “Formiche.net” ha ripreso la notizia, focalizzandosi sul fatto che a fronte di una richiesta di bilancio per il prossimo anno che ha raggiunto la cifra record – per l’undicesimo anno consecutivo – di oltre 788 miliardi di euro, per il ministero della Difesa sono stati preventivati più di 40 miliardi di euro. I fondi verrebbero destinati al riarmo e all’implementazione di misure di sicurezza per fronteggiare le minacce crescenti del panorama geopolitico, in particolare sarebbero possibili acquisti di missili terra-nave a lungo raggio, o Ssm, dotati di un raggio di tiro di circa mille chilometri ottimo deterrente verso le minacce esterne. “Stars&Stripes” è più dettagliato nella notizia, sommando al plafond alcuni spiccioli (circa 4 miliardi) che si vanno ad aggiungere al totale: «Tra questi, la produzione massiva di missili terra-nave e di bombe plananti ad alta velocità da utilizzare per la difesa delle isole e la costruzione di nuovi cacciatorpediniere dotati di una migliore capacità di intercettazione dei missili e del sistema di intercettazione missilistica Aegis con una maggiore capacità di abbattere i veicoli plananti ipersonici». Si arriverebbe a 43,2 miliardi, dal calcolo di “Mainichi Shinbun”, secondo il quale in risposta all’aumento delle spese per la difesa e le attività militari cinesi, il ministero avrebbe così elaborato questa dispendiosa strategia per garantire la “superiorità asimmetrica”, ossia impedire l’invasione sfruttando ed esaurendo le debolezze di un nemico temibile; a tale scopo il ministero stanzierà fondi per estendere il raggio d’azione dei missili guidati terra-nave Type-12 della Forza di autodifesa terrestre, mirando a difendersi dalla flotta di navi in affiancamento al sistema Aegis, che ha nel mirino i droni ipersonici.
  • I veicoli ipersonici sono la nuova ossessione occidentale nel Pacifico: “The Diplomat” riportava la richiesta di fondi giapponesi per continuare a condurre ricerche sia sul proiettile planante iperveloce, per la difesa di isole remote, sia sui missili ipersonici, che possono raggiungere velocità ipersoniche, oltre cinque volte la velocità del suono, come quelli cinesi, che tanto hanno impaurito il Giappone.
  • XAC X-20 al plasma, invisibile e ipersonico

  • Gli scienziati cinesi hanno utilizzato una galleria del vento per testare un dispositivo al plasma: una striscia di membrana gialla e luminosa che copre la parte anteriore dell’aereo. Secondo “Scmp” il dispositivo è in grado di stimolare il flusso d’aria e di aumentare il coefficiente di portanza di un aereo di quasi un terzo, impedendogli di stallare. Un bombardiere Stealth utilizza una cellula piatta senza coda per ridurre le possibilità di rilevamento radar. Tuttavia, questa configurazione del corpo alare rende più difficile il controllo del volo, soprattutto a bassa velocità.
  • Ma, riporta “NewsTrackLive.com” la Cina sta sviluppando la tecnologia al plasma proprio per il controllo dell’assetto degli aerei ipersonici e per migliorare l’invisibilità ai radar. Il dispositivo è una sottile striscia di membrana che copre la parte anteriore di un aereo con un’ala volante. La membrana rileva il pericolo in anticipo e ionizza le molecole d’aria con l’elettricità ad alto voltaggio, provocando una pioggia di plasma – o particelle elettricamente cariche – sulle ali quando la velocità del vento che soffia sopra le ali raggiunge un punto. Le docce al plasma possono aumentare il flusso d’aria e il coefficiente di portanza dell’aereo di circa un terzo. Secondo i ricercatori, questo potrebbe evitare uno stallo anche se l’aereo cadesse con il muso inclinato a una velocità insolitamente bassa (108 km/h), come è avvenuto nel 2008 a un B2 Stealth della base di Guam. Gli esperimenti nella galleria del vento del professor Niu Zhongguo paiono soddisfacenti; la Cina compete sugli stessi temi con la ricerca che si svolge nelle gallerie degli Usa, in Europa (secondo fonti di “DefenseNews” riguardante il progetto da 110 milioni European Hypersonic Defence Interceptor – EU HYDEF) e… in Giappone. Ma i loro dispositivi devono essere accesi o spenti manualmente: di qui il bisogno di correre ai ripari con affanno, visto che secondo alcuni esperti militari, lo XAC H-20 – che indiscrezioni (“GlobalTimes”) danno in procinto di essere collaudato – consentirà alla Cina di sfidare il dominio militare degli Stati Uniti in molte aree del mondo, poiché può percorrere lunghe distanze trasportando testate nucleari e missili ipersonici. Gli aerei ipersonici possono viaggiare a cinque volte la velocità del suono; un “mantello plasmatico” sarebbe in grado di migliorare l’invisibilità dei radar e un'”antenna al plasma” di formato più piccolo potrebbe captare segnali anche deboli.
  • Anche dallo Xinjiang fa capolino il pericolo che preoccupa americani e loro alleati del Pacifico: il Comando militare dello Xinjiang dell’esercito popolare ha testato un missile di difesa terra-aria di ultima generazione nell’altopiano della regione, come riferito dall’emittente statale CCTV, mentre gli Stati Uniti e l’India si preparano per le esercitazioni militari congiunte sull’Himalaya in ottobre.
  • Gli osservatori militari sentiti da “Scmp” hanno detto che dalle riprese sembravano essere missili di difesa aerea HQ-17A, parte di un sistema integrato che può stare in un singolo veicolo ed è considerato molto mobile e preciso. Uno di loro ha detto che i test nello Xinjiang erano una dimostrazione di deterrenza nel conto alla rovescia per le esercitazioni India-USA vicino al confine conteso tra India e Cina.
  • Esercitazioni

  • Preludio all’enorme stanziamento di miliardi da parte di Tokyo per le spese militari dei prossimi mesi è stato il primo lancio di un missile da parte dell’esercito americano sul territorio giapponese; la descrizione delle richieste di spesa del governo vedranno voci esclusivamente dedicate all’aeronautica e marina giapponese. Forse non si prevede alcuna possibilità di una possibile invasione da affrontare con truppe di terra, ma comincia a serpeggiare il bisogno di esercitazioni per la difesa di terra.

Infatti “Stars&Stripes” il giorno prima dell’annuncio di Kishida sulla richiesta di budget per la Difesa 2023 ha dato conto di una messinscena molto fotografata dalla stampa specializzata durante esercitazioni insieme all’esercito giapponese a Kumamoto a documentare il primo lancio di Javelin, che richiama potentemente i successi della difesa ucraina. Oltre ai Javelin sparati dalla 11ª Divisione aviotrasportata di Fort Wainwright, la Forza di autodifesa terrestre nipponica ha lanciato quattro dei suoi missili anticarro portatili, i Type 01 LMAT 01, durante le esercitazioni congiunte. Orient Shield è un’operazione speciale che ha preso il via quest’anno quando le tensioni nella regione hanno raggiunto i livelli più alti degli ultimi anni dopo la visita di Nancy Pelosi al parlamento di Taipei.

Le esercitazioni occupano in questo stadio di tensione e di misurazione tra contendenti ogni quadrante, ogni miglio marino e soprattutto i territori di frontiera sono i più ambiti per addestramenti congiunti e prove di invasione realizzate da eserciti che sanciscono o promuovono così alleanze, che nell’ondivago schieramento delle strategie geopolitiche attuali ritagliano i campi contrapposti nel presente prossimo.

Izumo

28 agosto

  • Italian early warning. Gli acquisti esclusivi presso Israel Aerospace Industry

    IAI ha venduto all’esercito italiano due altri CAEW G550 Gulfstream, velivoli ad allerta precoce (eufemismo per aerei spia) che l’Italia possiede in esclusiva all’interno delle forze armate europee, per 550 milioni di dollari. La notizia diffusa da “Haaretz” è sorprendente soprattutto perché è ufficializzata da Israele, mentre era stata mantenuta segreta da mesi; forse perché i due altri aerei-spia della stessa fattura in dotazione all’esercito italiano hanno sorvolato lo spazio romeno in funzione antirussa già l’8 marzo:

  • L’Aeronautica militare italiana schiera due G550 Caew, acquisiti da Israel Aerospace Industries, in linea ed operativi dal 2016/17. L’ordine fa parte di un accordo militare tra Italia e Israele del 2003. Quest’ultimo prevedeva due velivoli G550 Caew e un satellite di osservazione e controllo OPSAT 3000 a fronte della fornitura di 30 velivoli d’addestramento avanzato Leonardo M-346 alla Israeli Air Force (“StartMag”, 18 marzo).

  • G550

    La traccia che il satellite Perseo71 ha rilevato l’8 marzo del volo del CAEW G550 italiano partito dall’aeroporto di Pratica di Mare

  • I Gulfstream hanno poi partecipato ufficialmente all’esercitazione “Mare Aperto” sempre a marzo e poi alla sua seconda edizione di ottobre (come attestato da “Analisi Difesa”).

    Vocazione italiana all’intelligence militare nel Mediterraneo

    Proprio il 7 marzo l’Aeronautica ha ricevuto presso la base aerea di Pratica di Mare il primo degli 8 velivoli Gulfstream G550 versione green Jamms, ordinati dal governo Conte.
    A luglio di quest’anno IAI aveva annunciato di essersi aggiudicata un contratto di oltre 200 milioni di dollari per quella che descriveva come la fornitura di aerei da missione speciale a un paese europeo membro della Nato, senza però rivelare quale fosse, ma un’indagine di Haaretz ha rivelato che si tratta dell’Italia – e che l’aeronautica militare italiana è anche il cliente di un altro enorme accordo annunciato da IAI nel 2020

  • Il velivolo italiano G550 a missione speciale si aggiunge a una squadra di mezzi Nato – scrive “The Aviationist” –, tra cui gli E-8 JSTARS e gli RC-135V/W statunitensi e gli Airseeker ISR (Intelligence Surveillance Reconnaissance) britannici, che monitorano quasi costantemente la situazione a terra e in aria in Ucraina e lungo i confini con Bielorussia e Moldavia. Il 7 marzo 2022, inoltre, un’aerocisterna KC-767A dell’Aeronautica Militare Italiana ha effettuato la prima missione del tipo sull’Europa dell’Est a supporto dei jet da combattimento impegnati nella missione Nato di Air Policing rafforzata.
  • Intorno al 2005 l’aeronautica israeliana ha acquistato cinque velivoli Eitam basati su Gulfstream G550 per fungere da nuova piattaforma IDF per la nuova generazione di sistemi AEW. I nuovi velivoli utilizzano la suite di sensori a doppia banda EL/W-2085 e sono più capaci e meno costosi da utilizzare rispetto ai vecchi Boeing 707 basati su EL/M-2075. IAI ha apportato ampie modifiche alla fusoliera del Gulfstream, come l’aggiunta di radome sporgenti in materiale composito, per alloggiare le antenne radar in modifiche conformi al corpo. Basato presso la base aerea di Nevatim.
    Nel 2007, quattro velivoli simili al G550-EL/W-2085 sono stati acquistati dalla Republic of Singapore Air Force per sostituire i suoi E-2C Hawkeyes aggiornati. I nuovi G550 sono entrati in servizio il 13 aprile 2012, l’altro acquirente dell’articolo  di IAI, secondo “Thai Military and Asian Region”.

24 agosto

  • Medio Oriente. L’impiego di determinate armi a sostegno di strategie di accordi

    Una scheda difficile da strutturare sui movimenti di armi in Mena, perché deve raccogliere e far dialogare dati, schede tecniche, strategie e alleanze attorno a Jcpoa, nuove tecnologie di sperimentazione per droni iraniani, embrionali scudi protettivi ebraico-statunitensi… macchine belliche e diplomatiche, collegate tra loro perché in preparazione di rivolgimenti; attive – e anche un po’ a “fine vita” – invece le armi occidentali inviate in Ucraina e ritrovate in Palestina, più piccole e adatte per i conflitti a bassa intensità nella continuità tradizionale della proxy war locale. E sempre tra quelle sperimentati vanno annoverati i sistemi in uso nuovamente in Siria, dove va in scena una nuova tensione fatta di classici mortai e jet.

    Il campo siro-libanese

    E proprio da un paio di fronti mesopotamici traiamo alcuni spunti per mostrare come il conflitto in corso richieda quel tipo di armi in uso – per una volta non ordinato, o messo a bilancio in previsione di future battaglie.

  • Forse è utile cominciare inquadrando l’inspiegabile scontro armato tra Usa/Iran in Siria, se non collocato nella – appunto – più ampia trattativa che tenta di sottrarre Tehran all’abbraccio di Astana: gli accordi Jcpoa furono gestiti da Biden già da vicepresidente e ora silenziosamente, attraverso una raffinata diplomazia – che rassicura Israele con i miliardi per IronBeam –, concede e consente ai turbanti di spacciare per successo un accordo win-win. Forse ci sono le condizioni perché le parti si accordino sulla cancellazione di sanzioni all’Iran se disponibile a consentire le ispezioni Aiea.
    Questo avviene confrontandosi con prove di forza prima dei tavoli di trattativa in tutti quei panorami esterni al territorio iraniano ma controllati da Tehran. In particolare quella Siria su cui preme a Nord Erdoğan e a Sud si registrano bombardamenti di Tel Aviv («Il generale iraniano Abul-Fadhel ‘Yejeilan è stato ucciso all’alba del 22 agosto da bombardamenti israeliani») in risposta agli attacchi di droni delle milizie sciite su piattaforme di gas israeliane di Karish, , in una area di 860 chilometri quadrati del Mediterraneo disputata tra Israele e Libano: Omer Dostri, stratega militare del Jerusalem Post valuta le dotazioni di Hezbollah in 45.000 razzi a corto raggio che possono percorrere distanze fino a 40 km, escluse le bombe da mortaio, oltre a circa 80.000 razzi a medio e lungo raggio, decine dei quali sono precisi e circa 1500 sono i razzi lanciati ogni giorno. Quali droni sta adottando hezbollah verso le piattaforme israeliane? Il più efficace è Ayub, basato sull’iraniano Shahed 129, un modello “ispirato” al modello israeliano “Hermes 450” caduto a Beirut durante la Seconda guerra del Libano nell’estate del 2006; poi il Mirsad 1, basato sul Mohajer 2 iraniano, tranne che per alcune differenze esterne; ma soprattutto il Ma’arab, sul modello del Yasser iraniano. Inoltre Hezbollah può contare su droni di fabbricazione cinese
  • Israele contrappone sensori speciali per proteggere da azioni ostili non meglio definiti da Idf, probabilmente alternativi e meno costosi dei più sofisticati sistemi dell’IronDome e IronBeam: infatti già il 7 marzo 2022 riportando le reazioni per l’incursione dimostrativa di 3 droni sciiti proprio verso le piattaforme di Karish si poteva leggere su “Ynetnews”:
  • ««Con sede in Israele, Skylock Systems è specializzata nella progettazione e produzione di tecnologie per il rilevamento, la verifica e la neutralizzazione di droni non autorizzati. La tecnologia dell’azienda è stata impiegata in 31 paesi». Secondo Itzik Huber (Ceo della Skylock), «Israele deve adattare i sistemi di difesa missilistica esistenti per contrastare efficacemente i droni, anziché affidarsi ai costosi intercettori Iron Dome. Poiché questi piccoli velivoli sono diventati così facilmente disponibili, il problema diventerà sempre più pressante con il passare del tempo»

    • I sistemi speciali orientati ai droni sono dotati di sensori ottici in grado di identificare il tipo di veicolo aereo senza pilota in volo, il tipo di carico utile trasportato e altro ancora.

    «I droni richiedono attrezzature speciali e soluzioni speciali perché sono piccoli e i normali sistemi radar non li vedono; non sono un classico bersaglio aereo. Si possono disturbare le comunicazioni; si può sparare a un drone attivo per attaccare l’altro drone».

    Ma ci son anche altri leader del settore della rilevazione di incursioni dei droni. Per esempio Lior Segal, Ceo di ThirdEye Systems, ha affermato che un sistema di difesa laser come quello che l’Idf sta attualmente sviluppando potrebbe essere un buon modo per difendersi da un piccolo drone, ma ha notato che la tecnologia è ancora lontana da applicazioni pratiche. Per questo motivo, ritiene che l’Idf debba ricorrere a metodi antiaerei più tradizionali. Il mercato dei radar per il rilevamento dei droni sarà in costante espansione spiega “Jeunesexpress”, pubblicando un rapporto sul periodo 2022-2028.


  • Scontri che non inficiano la tendenza a ridimensionare le tensioni nell’area, che farebbero solo il gioco di Erdoğan?
    Il traffico di armi vede addirittura, come riporta Matrioska di Yurii Colombo, la cooperazione tra Mossad e Cremlino dove i servizi israeliani confermano la consegna di armi di provenienza occidentale da Kyiv a Gaza e la distruzione di 22 tonnellate di armi da parte dell’Idf; ma anche in questo caso è evidente che il traffico nell’area è quello di armi leggere, munizioni e giubbotti antiproiettile, che viaggiano in parallelo con i traffici di droga. Tanto che le consegne sarebbero passate attraverso il territorio giordano e le armi sarebbero arrivate dalla Romania; il presidente israeliano e russo hanno discusso le possibili opzioni di cooperazione per eliminare il contrabbando di droga e armi dall’Ucraina verso il Medio Oriente e il Sudest asiatico e hanno deciso di rafforzare la cooperazione tra i servizi speciali e l’intelligence militare

  • La Russia non ha poi mancato di rimarcare la sua presenza in Siria, schierandosi contro le provocazioni israelo-americane nel Sud controllato da hezbollah. Infatti anche gli Usa hanno “risposto” ad attacchi, come scrive “Anbamed”; la difficoltà a comporre un quadro attraverso la lente dello studio dei movimenti di armi proviene dal bisogno delle parti in campo di mostrare sistemi di difesa per cui Biden ha intrapreso il viaggio del 14 luglio a Tel Aviv
  • La potenza di fuoco israeliana
  • Questi muscoli van mostrati in schermaglie, che sono di preparazione per arrivare agli accordi da posizioni di forza; in quest’ottica vanno inseriti gli scontri tra Usa e Hezbollah nel sud della Siria e in questo caso gli ordigni usati sono diversi dagli Ayub che nella stessa area vedono contrapposti israeliani e Hezbollah. Gli americani hanno sfoderato elicotteri Apache, cannoniere volanti AC-130 e obici M777 – armi non propriamente tecnologicamente avanzate, ma utili per quella guerriglia di provocazione innescata da americani e milizie a metà agosto, per innescare la reazione e quindi alzare il costo delle trattative e evidenziare schieramenti.

«Gli Stati Uniti hanno iniziato a colpire il 24 agosto postazioni di milizie nella provincia di Deir Azzour, al confine con l’Iraq: una rappresaglia dopo l’attacco con razzi subito dalla base Usa. In risposta le milizie sciite hanno colpito con due razzi la base Usa all’interno del campo petrolifero di Coneco, di conseguenza caccia e elicotteri statunitensi hanno preso a sorvolare la zona, colpendo le basi delle milizie sciite per tre giorni consecutivamente, uccidendo 3 miliziani che stavano caricando un lanciarazzi mobile. Fajr-3 di produzione iraniana, la gittata di questo razzo terra-terra è di 45 chilometri e il peso della testata è di 45 chili. La Casa Bianca sostiene di aver colpito milizie filo iraniane, mentre il ministero degli esteri di Teheran ha negato qualsiasi legame con le milizie colpite» (“Anbamed”, 26 agosto 2022).

Negli stessi tre giorni si registrano i bombardamenti quotidiani israeliani nella zona Nordoccidentale della Siria, presso Hama e Tartous

A Sud anche hezbollah contro la base americana di At-Tanf con 900 truppe schierate a difesa dei campi petroliferi orientali del paese, adotta UAV diversi dagli Ayub che li contrappongono a Israele sulla costa: altri droni iraniani – che sono quelli adoperati come disturbo per la presenza americana nell’Oriente siriano.

L’Iran ha una flotta tra le più tecnologicamente avanzate e diversificate al mondo nella categoria MALE (European Council on Foreign Relations fornisce un completo elenco di medium altitude long endurance di produzione iraniana) e sembra in procinto di fornire anche l’esercito russo proprio con quei droni testati in Siria: i  Mohajer-6 e i Shahed-129, basati sul modello americano UAV RQ-170 catturato nel 2011. La base sotterranea sui monti Zagros al confine con l’Iraq è la più dotata di velivoli senza pilota, comprendente anche i nuovi Ababil 2, costruiti da Tehran in Tajikistan. L’Iran si aggiunge con forza alle altre forze regionali che fanno sempre più affidamento sui droni in diversi teatri, tra cui lo Yemen, l’Iraq, la Siria e lo Stretto di Hormuz. In questi ultimi giorni di agosto 2022 l’industria bellica iraniana sta testando le capacità di ricognizione e combattimento di 150 droni di sua produzione dal Golfo Persico a quello di Oman, come riporta “Formiche.net”.

Tutte strategie della tensione per preparare il terreno a quell’accordo per il nucleare iraniano che potrebbe spostare il mondo sciita se non sull’altro lato dello scacchiere, almeno non consegnarlo allo schieramento autocratico sino-russo; pur mantenendo una presenza nella regione a difesa del petrolio (o gas), caratterizzata da questo tipo di armi sul campo?

13 agosto

  • Ucraina. Metodi di intermediazione e sostegno bellico governativo

  • «Impossibile sapere quante e quali armi abbiamo inviato alle forze armate ucraine dopo l’invasione russa del 24 febbraio; è certo però che nel sanguinoso conflitto nell’Europa orientale Mosca e Kiev impiegano sistemi bellici prodotti in Italia»

      • Antonio Mazzeo aveva già ripetutamente rintracciato le innumerevoli vie (secretate dal Copasir presieduto dalla fiamma tricolore di D’Urso) di forniture belliche all’Ucraina da parte italiana – d’altra parte (come da modello turco) il rifornimento di armi non è negato nemmeno all’altro belligerante moscovita. Spesso si perdono in sentieri poco tracciati e rivoli infiniti, triangolazioni e consegne 🚛 🚚 fumose, per evitare tracciamenti e supervisione democratica da parte dei sudditi.
      • Oltre alla spedizione direttamente alle ong di Poroshenko documentate dal tweet, i mezzi corazzati di tipo LAV con cui alimentare la guerra di Zelensky seguono la via della triangolazione con la Norvegia, che inoltra verso Kiyv le abbondanti forniture degli anni scorsi (non tutti gli aiuti agli ucraini sono previsti dall’Agenda Draghi: fin dallo scoppio della guerra in Donbass Renzi si era premunito di rifornire con 90 blindati e corazzati Iveco italiani l’allora belligerante premier ucraino Poroshenko, lo stesso delle ong oggetto dell’elargizione odierna).
      • La via seguita da Poroshenko è molto battuta, quella del fondo su cui piovono soldi raccolti con lo scopo di rifornire le truppe antirusse: su “TopWar” si legge che il suo fondo ha raccolto 50 milioni di grivna e altri 45 si sono materializzati per l’acquisto di 11 veicoli blindati MLS SHIELD di fabbricazione italiana, l’ex presidente si vanta di aver ottenuto
        • «una licenza per l’acquisto di equipaggiamento militare della NATO a spese private. Secondo lui, questa è la prima volta che accade. Risultato: questi nuovissimi veicoli blindati MLS SHIELD di fabbricazione italiana imbottiti con le ultime tecnologie andranno presto in prima linea»

          • Corazzati Iveco made in Russia vs corazzati Iveco made in Italy via Norge

          • Tra i sistemi bellici più noti ci sono i carri Ariete e Centauro, i blindati Puma e Lince, i veicoli da combattimento della fanteria Dardo e diverse versioni di camion pesanti a quattro, sei e otto ruote motrici per il trasporto truppe e il supporto logistico alle unità. Recentemente sono stati prodotti camion Trakker dotati di “protezione balistica e antimine permanente”, mentre degli Eurocargo viene fornita una versione “militarizzata” a trazione integrale da 15 tonnellate con motore sino a 300 cavalli.
          • I mezzi corazzati LMV come quelli donati dalla Norvegia all’Ucraina sono stati esportati anche ad Albania, Austria, Belgio, Croazia, Repubblica ceca, Libano, Slovacchia, Spagna, Tunisia e Stati Uniti d’America. Dal 2012 ben 358 LMV sono in dotazione dell’esercito della Federazione Russa e alcuni di essi sono stati impiegati in Siria dopo il 2015 e in Ucraina dopo l’invasione del febbraio 2022. Secondo quanto aveva riportato “Analisi Difesa” nel 2014, la fornitura dei corazzati seguiva il contratto siglato nel giugno 2011 tra Iveco Defence Vehicles e Oboronservis, la controllata del ministero della Difesa russo responsabile per gli approvvigionamenti.

        • I fondi di investimento in grande stile

  • Ben altre cifre sono state stanziate in un solo incontro tra la Nato del Pacifico riunita straordinariamente a Copenhagen con i partner dell’Europa settentrionale. Un miliardo e mezzo per l’Ucraina è la cifra che secondo “EuroNews” è stata collocata su un fondo dai 26 paesi occidentali (tra cui Ue, Usa, Canada, Australia, Nuova Zelanda e Giappone) aperto per dare supporto militare all’Ucraina; il ministro della Difesa danese, Morten Bodskov ha poi annunciato. La creazione in Gran Bretagna del fondo International Fund for Ukraine (IFU) con la missione di aumentare la produzione di armi destinate a Kiyv; in quello stesso Regno unito che ha già donato all’Ucraina sistemi di armamento avanzati si è impegnata contestualmente a stanziare altri 300 milioni di euro in armi, tra cui sistemi missilistici a lancio multiplo e missili M31A1 a guida di precisione che possono colpire bersagli distanti fino a 80 km.E poi si stanno ammassando specialisti per addestrare truppe di questa che è sempre più evidentemente una proxy war come tante altre disseminate nel mondo. La produzione di armi innescherà una spirale “virtuosa” per i paesi che forniranno le nuove produzioni, spartendosi gli investimenti: Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca hanno segnalato la volontà di espandere la produzione di sistemi di artiglieria, munizioni e altre attrezzature.
  • «Da febbraio abbiamo fornito all’Ucraina oltre 600 milioni di dollari in aiuti militari completi, compreso il dispiegamento questa settimana di personale delle forze armate canadesi nel Regno Unito nell’ambito dell’operazione UNIFIER, e 39 veicoli corazzati di supporto al combattimento costruiti dall’industria canadese che inizieranno ad arrivare in Ucraina nelle prossime settimane» (Anita Anand, ministro della Difesa canadese – “Army Technology“)


11 agosto

    • Myanmar. Metodi di intermediazione e aggiramento degli embarghi

        • Justice For Myanmar ha identificato 116 società del Myanmar e di Singapore amministrate da 262 dirigenti e azionisti che hanno fatto da intermediari nella fornitura di armi e attrezzature militari per un valore di molti milioni di dollari all’esercito del Myanmar, anche dopo il colpo di stato del 1° febbraio 2021.Tra gli intermediari risultano 31 società gestite da 77 amministratori e azionisti che intrattengono rapporti commerciali con l’esercito dal tentativo di colpo di stato; a queste si aggiungono 27 società e i loro 51 amministratori e azionisti che hanno intermediato armi ed equipaggiamenti all’esercito del Myanmar dal 2017, anno del genocidio dei Rohingya, prima del colpo di stato. Dal colpo di stato, l’esercito ha effettuato bombardamenti e attacchi aerei indiscriminati, ha ucciso gli abitanti dei villaggi, ha commesso stupri, ha distrutto case e coltivazioni e ha sfollato con la forza circa 866.400 persone.Secondo il Trattato sul commercio delle armi, di cui fanno parte 111 Stati, è vietato trasferire armi sapendo che verrebbero usate per commettere genocidi, crimini contro l’umanità o crimini di guerra. L’Accordo di Wassenaar sul controllo delle esportazioni di armi convenzionali e di beni e tecnologie “dual” (cioè applicabili a duplice uso, civile e militare) mira a prevenirne il trasferimento a paesi sospettati di genocidio. Gli stati aderenti all’Accordo di Wassenaar sono 42, tuttavia tra questi non si annovera Singapore e nemmeno fa parte del Trattato sul commercio delle armi e quindi viene utilizzato come collettore dei prodotti sotto embargo.

          Il sistema di intermediazione

          • Per avere un’idea del sistema diffuso globalmente si può pescare a caso dal report e vedere come funziona il meccanismo di fornitura di elicotteri Mi-17, che coinvolge molti soggetti nel mondo:
            • «Dynasty Group of Companies ha svolto attività commerciali nell’Unione Europea (UE), fornendo aerei e pezzi di ricambio prodotti dall’azienda tedesca Grob all’aeronautica militare di Myanmar. Dynasty International Company Limited, è un’azienda sussidiaria di Dynasty Group e anche un importante fornitore di armi all’esercito del Myanmar, con legami con aziende in Russia, Bielorussia e Germania. Questa ha importato parti per gli elicotteri Mi-17 dopo il colpo di stato, secondo i dati del database commerciale ImportGenius; il direttore del gruppo, il dottor Aung Moe Myint, è il console onorario bielorusso in Myanmar. È molto probabile che la sua unità commerciale registrata a Singapore, Dynasty Excellency Pte Ltd, sia stata utilizzata per facilitare le transazioni di armi verso il Myanmar» (ulteriori dettagli si trovano qui).

              Oppure, per avere un’idea del sistema di intermediazione si può accedere alla documentazione di Justice for Myanmar riguardo al ruolo di Miya Win International, che ha acquistato droni di fabbricazione austriaca Schiebel Camcopter S-100 per l’esercito del Myanmar, in violazione dell’embargo sulle armi imposto dall’UE. E poi l’Asia Golden Phoenix Consultancy ha acquistato un simulatore di volo ATR dall’azienda austriaca Axis Simulation e lo ha registrato presso l’Autorità europea per la sicurezza aerea.


              Particolarmente significativo il caso della Myanmar Chemical & Machinery Company Ltd (MCM), di di proprietà del trafficante di armi Aung Hlaing Oo. Le filiali dell’azienda sono fornitori di armi e materiale correlato alle forze armate del Myanmar e sono anche coinvolte nella produzione di armi e in un progetto di trasferimento tecnico per la produzione di jet addestratori K-8 in Myanmar con l’azienda statale cinese CATIC, apparsi durante le celebrazioni per l’anniversario dell’aeronautica militare della giunta nel dicembre 2021.

          • MCM ha fatto parte di un progetto con il produttore statale ucraino di armi Ukroboronprom e la Direzione delle Industrie della Difesa dell’esercito per la produzione di veicoli corazzati BTR-4, carri armati leggeri MMT-40 e obici semoventi 2SIU. MCM ha fornito parti di ricambio, strumenti e accessori per i carri armati T-72 al Comandante in Capo della Direzione dell’Artiglieria e dei Corpi Armati dell’esercito di Myanmar.MCM ha anche acquistato armi dalla Serbia per l’esercito di Myanmar. Una proposta di MCM del 2019 per l’aeronautica militare di Myanmar descrive dettagliatamente lanciarazzi montati su aerei, razzi, bombe a caduta libera, un lanciatore di bombe multiple da usare “su grandi superfici” e spolette. Una filiale di Singapore della MCM Pacific Pte Ltd ha fornito parti di ricambio per elicotteri Mi-2, Mi-17 e Bell 206 alla Myanmar Air Force.L’azienda ha anche importato parti di ricambio per un motore diesel marino MTU12V 331TC 92, oltre a un’unità di visualizzazione del motore, un sistema di propulsione, un’attrezzatura di salvataggio e una sistemazione di poppa per un valore di milioni di dollari USA per la Marina Militare del Myanmar.MCM Pacific Pte Ltd ha fornito parti di veicoli blindati BTR-3U alla Direzione dell’artiglieria e dei corpi corazzati dell’esercito di Myanmar per un valore di milioni di euro
            • Insomma tutti sono coinvolti nell’ausilio alla repressione della giunta golpista di Naypyidaw

              Justice for Myanmar mette a disposizione una lista degli intermediari di armi verso Tatmadaw aggiornata all’11 agosto 2022, scaricabile qui.

              Il rapporto si basa su documenti trapelati dal dipartimento acquisti del Ministero della Difesa, oltre che su fonti industriali e su altre informazioni disponibili online e lo ha ripreso “The Diplomat”, che sottolinea come l’esercito abbia una lunga esperienza nel resistere all’isolamento internazionale e possa contare su vicini accomodanti, come Cina, India e Thailandia, per non parlare di Singapore, che ha a lungo resistito alle richieste degli attivisti di sequestrare il denaro sporco del Myanmar parcheggiato nel suo sistema bancario.

MI-17

4 agosto

    • Strategie e affari dietro a esibizioni muscolari e bluff a Taiwan

        • Oggi Nancy Pelosi arriva a Seul, da Taipei. Le famose rotte commerciali nel Mar Cinese, motivo essenziale della battaglia di Taiwan nella guerra dell’Indopacifico per l’egemonia commerciale e del controllo dei microchip e dei semiconduttori.
        • La missione che – un po’ superficialmente – secondo “Formiche” avrebbe mostrato il bluff di Xi, la cui “mancata” reazione alla visita dello speaker della Camera statunitense al parlamento della Cina nazionalista a ridosso del Congresso del partito comunista lo porrebbe nell’angolo, prosegue indomita toccando le capitali che contrastano il controllo cinese sull’area. Invece gli analisti dell’“Ispi” temono che se la visita di Pelosi non provocherà uno scontro diretto (e in ogni caso l’embargo della sabbia colpisce proprio l’industria dei microchip per cui Formosa è contesa) potrebbe comunque innescare un’escalation militare, potenzialmente distruttiva (“The Guardian”).
        • Va comunque registrata una ritorsione anche militare non così lasca come si è cercato di raccontare forse troppo precocemente dai media americani: secondo quanto riportato da “The Guardian” il Pla ha lanciato 11 missili DongFeng nelle acque di Taiwan tutt’intorno all’isola da nord-est a sud-ovest, intensificando le “esercitazioni” in un gioco di guerra che fa uso di proiettili e missili “veri” e non a salve, in modo che il blocco dell’isola è totale.

    • Il coinvolgimento coreano

      • Allora diamo uno sguardo agli ammodernamenti degli arsenali della Corea del Sud in funzione anticinese:
    • DefenseNews” riferisce che il 15 luglio il comitato di promozione del Defense Acquisition Program Administration, guidato dal Ministro della Difesa Jong-sup Lee, ha deciso formalmente di acquistare altri 20 F-35A per 3900 miliardi di won (quasi 3 miliardi di dollari) arrivando così a contare su 60 velivoli. La Corea del Sud prevede di acquistarli a cominciare da ora fino al 2028.
    • A questo il “South China Morning News” aggiunge il prototipo di un KF-21 “Boramae” o “Hawk” che avrebbe completato un volo di prova di 30 minuti dalla città meridionale di Sacheon, ma gli osservatori militari ritengono che questo nuovo caccia sia ben lungi dall’essere paragonabile ai caccia avanzati di quinta generazione come il Chengdu J-20 cinese. Tuttavia, se venisse impiegato in massa, il KF-21 potrebbe comunque alterare l’equilibrio di potenza delle forze aeree regionali, oltre ad avere il potenziale per diventare un forte concorrente nel mercato globale, ha affermato un analista di Macao.
        • «Durante il recente incontro trilaterale, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden si è detto “profondamente preoccupato” per i continui test di missili balistici della Corea del Nord e per l’apparente intenzione di condurre un test nucleare. Il presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol ha dichiarato che l’importanza della cooperazione trilaterale è cresciuta di fronte al programma nucleare avanzato della Corea del Nord, mentre il primo ministro giapponese Fumio Kishida ha affermato che le esercitazioni antimissile congiunte sarebbero importanti per scoraggiare le minacce nordcoreane» (“MilitaryTimes”).

          Il coinvolgimento giapponese

        • Infatti il rivale di Seul è Pyongyang, ma è soprattutto il Giappone l’alleato che sembra incaricato di guidare il fronte liberaldemocratico anticinese nel Pacifico e Tokyo sta bruciando le tappe per ammodernare l’esercito, cambiare la Costituzione pacifista e rafforzare la partnershiip con gli europei, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina.
      • Come ha ricordato “DefenseNews”, il Giappone prevede inoltre di acquisire 147 F-35, di cui 42 nella variante F-35B. Certo, come ha sottolineato il “Telegraph”, proseguire con il progetto di un caccia di prossima generazione a guida nazionale rafforzerebbe il settore della difesa del Giappone e ridurrebbe la dipendenza da altri paesi, dando a Tokyo la libertà di azione.

        Ma lavorare insieme potrebbe ridurre i costi

      • L’adesione della giapponese F-X (Mitsubishi) al progetto per il caccia stealth di sesta generazione Tempest, che vede coinvolte Rolls-Royce, il consorzio europeo MBDA e Leonardo, è, secondo “Formiche”, un tassello nel puzzle che internazionalizza il programma del caccia di sesta generazione che così permette agli europei di accedere a un mercato, quello giapponese, in piena crescita per l’aumento delle spese militari voluto da Abe Shinzo. La spinta a combinare i due programmi sarebbe guidata da Mitsubishi Heavy Industries, responsabile dell’F-X, e la britannica BAE Systems. Anche la Svezia e il produttore di caccia Gripen Saab AB rimangono coinvolti nel programma Tempest, in cui Londra ha già stanziato un budget di 2 miliardi di sterline.
        L’autorevolezza del progetto emerge anche dalla presentazione effettuata alla apertura – inaugurata da Boris Johnson in persona – del Farnborough International Airshow, come descritto da “Startmag”: «Si tratterà di un velivolo supersonico pilotato che testerà una serie di nuove tecnologie, tra cui l’integrazione di caratteristiche compatibili con lo stealth», ha aggiunto Bae Sistems durante la fiera. L’elemento comune tra UK, Giappone e Italia è l’uso degli F-35, in dotazione a tutt’e tre gli eserciti.

        «Sempre durante la prima giornata della fiera di Farnborough, Leonardo UK e Mitsubishi Electric hanno annunciato di aver raggiunto un accordo sul concept per il dimostratore di tecnologia radar Jaguar, presentato per la prima volta a febbraio scorso. Come sottolinea la nota del gruppo guidato da Alessandro Profumo: “Jaguar rappresenta il primo grande elemento di un programma radar internazionale che soddisfa gli ambiziosi requisiti espressi da Giappone e Regno Unito nell’ambito dei programmi F-X/Fcas”».




3 agosto

    • I bombardamenti sono dovunque terrorismo di stato

        • Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov è arrivato a Naypyidaw per una visita in cui ha affrontato con il suo omologo Wunna Maung Lwin temi relativi a sicurezza e scambi economici. La nota della Tass aggiunge che successivamente sarebbe ancora andato in Cambogia per partecipare al vertice Russia-Asean ed era reduce da un lungo tour volto a intessere una fitta rete di legami in funzione antioccidentale

      • Riportando la medesima notizia Associated Press sottolinea come la Russia sia il partner principale della giunta militare golpista e che nonostante l’embargo imposto dopo il golpe i rapporti tra i due governi non siano mutati.
        • «Abbiamo una base molto solida per sviluppare la cooperazione in un’ampia gamma di settori. Apprezziamo la natura tradizionalmente amichevole del nostro partenariato, che non è influenzato da alcun processo opportunistico», ha detto Lavrov (Associated Press).

      • Gli esperti delle Nazioni Unite hanno descritto il paese infitto in una guerra civile. E proprio 3 giorni prima dell’arrivo di Lavrov in Myanmar al-Jazeera aveva accusato Tatmadaw, l’esercito birmano, di usare gli Yak 130 di fabbricazione russa contro la popolazione civile, come documentato da un collettivo che monitora gli abusi in Myanmar:
      • «Myanmar Witness ha verificato il ripetuto impiego dello Yak-130 – un sofisticato jet da addestramento biposto di fabbricazione russa con una documentata capacità di attacco al suolo – in Myanmar. Durante questa indagine, rapporti credibili e la geolocalizzazione hanno rivelato l’uso dello Yak-130 all’interno di aree civili popolate».

        Un video condiviso su Facebook di Myanmar Witness il mese scorso ha mostrato uno Yak-130 eseguire due passaggi e lanciare diverse salve di razzi non guidati verso il suolo; un altro video ha mostrato uno Yak-130 eseguire cinque passaggi e sparare 18 salve di razzi non guidati. Myanmar Witness ha geolocalizzato i due video a 200 metri dal confine tra Thailandia e Myanmar, a sud di Myawaddy, nel Karen, dove i gruppi armati etnici da tempo combattono per l’autonomia e forniscono addestramento e sostegno alle milizie civili costituite per contrastare il colpo di stato del febbraio 2021.

Gli Yak 130 sono il risultato di una collaborazione tra Yakovlev e Aermacchi per la realizzazione di un addestratore avanzato, che è stato inaugurato nel 2009. In realtà è spesso usato come jet d’attacco leggero: quella forma light adatta a intimorire popolazioni riottose. Il velivolo è in dotazione degli eserciti di Russia, Algeria, Bangladesh, Bielorussia, Laos, Libia, Siria, Vietnam e… ovviamente Myanmar.

Yak-130

GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

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]]> Ucraina. Chiavi di lettura dal Latinoamerica https://ogzero.org/ucraina-chiavi-di-lettura-dal-latinoamerica/ Sun, 04 Sep 2022 00:00:38 +0000 https://ogzero.org/?p=8732 Senza attrarre la doverosa attenzione internazionale i giganti del Latinoamerica sono stati teatro di alcuni episodi e appuntamenti inconsueti tra fine agosto e inizio settembre, inquietanti ma forse il continente stesso ci può dotare di chiavi geopolitiche di lettura per spiegare i rivolgimenti derivanti dalla lenta distribuzione degli schieramenti entro cui vanno configurandosi i due […]

L'articolo Ucraina. Chiavi di lettura dal Latinoamerica proviene da OGzero.

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Senza attrarre la doverosa attenzione internazionale i giganti del Latinoamerica sono stati teatro di alcuni episodi e appuntamenti inconsueti tra fine agosto e inizio settembre, inquietanti ma forse il continente stesso ci può dotare di chiavi geopolitiche di lettura per spiegare i rivolgimenti derivanti dalla lenta distribuzione degli schieramenti entro cui vanno configurandosi i due fronti destinati a contrapporsi in ogni ambito del conflitto globale, che i traffici di armi dimostrano essere realmente tale, visto che il mondo partecipa alla corsa al riarmo… per poi andare a definire le sfere di influenza in punta di baionetta.

Avevamo chiesto a Diego Battistessa questo sguardo dall’altro lato dell’Atlantico sulle conseguenze del conflitto in Ucraina prima che venisse alla luce lo sventato golpe militare in Brasile – preventivo, orchestrato negli ambienti fascisti vicini al presidente in carica – volto a contrastare la probabile vittoria di Lula alle elezioni di ottobre; e non era ancora avvenuto il fallito attentato a Cristina Kirchner in Argentina; e nemmeno si era svolto il referendum sulla Costituzione cilena che doveva scardinare il lascito di Pinochet. Ma forse anche questi avvenimenti, dopo aver letto questa ricostruzione ragionata degli eventi collegabili al mondo latinoamericano, possono venire letti con lo scopo di schierare il Cono Sur – o sue parti –, da un lato o dall’altro.

OGzero


Sei mesi di guerra in Ucraina

Chiavi di lettura dell’approccio sudamericano

A sei mesi dall’invasione russa dell’Ucraina, oltre al tragico costo umano della guerra, molti degli equilibri geopolitici e geoeconomici sono stati scossi, ridisegnando una nuova normalità fatta di impennate dell’inflazione, costi esorbitanti dell’energia, nuove alleanze politiche e movimenti nello scacchiere mondiale. Cosa è successo in America Latina e nei Caraibi in questi sei mesi e come hanno reagito i leader politici del subcontinente latinoamericano di fronte all’attacco di Putin all’integrità dell’Ucraina? Ecco qui una dettagliata cronistoria che ci porta passo dopo passo a creare un mosaico fatto di molte sfumature e paesaggi ancora in definizione.

Febbraio – Marzo

Il movimento tellurico avvenuto dentro la comunità internazionale subito dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio 2022 ha portato decine di paesi e organismi multilaterali a condannare immediatamente e con veemenza quanto stava accadendo.

Prime scelte di campo

Un primo grande passo è stato quello preso dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu che in una risoluzione del 25 febbraio ha provato a fermare sul nascere l’invasione. Dobbiamo qui ricordare che il Consiglio di Sicurezza è uno degli organi principali dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ed è composto di 15 membri, di cui 5 permanenti (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti d’America) e 10 eletti ogni due anni dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. I 5 membri permanenti sono i vincitori della Seconda guerra mondiale e su ogni votazione hanno la possibilità di veto: veto che annulla di fatto le conseguenze della votazione. In questo caso era già previsto che la Russia avrebbe posto il veto alla mozione, impedendo all’Onu di poter prendere in considerazione misure militari di dissuasione contro l’esercito di Putin. Interessante però, per ciò che ci riguarda in questo articolo, è il comportamento degli altri 14 membri, in particolare di Messico e Brasile che siedono come membri “transitori” per questo periodo. Dei 15 aventi diritto al voto, 11 hanno votato a favore della risoluzione che imponeva alla Russia di fermare l’offensiva, ritirare completamente e incondizionatamente le sue truppe dai confini internazionalmente riconosciuti e astenersi da qualsiasi nuova minaccia e uso illegale della forza contro qualsiasi stato che faccia parte delle Nazioni Unite. Tra questi stati firmatari troviamo proprio Messico e Brasile. La Russia come detto ha posto il veto alla risoluzione, di fatto annullandola, mentre si sono astenute Cina, India e gli Emirati Arabi.

In questo caso dunque l’America Latina, rappresentata da Messico e Brasile ha fatto parte del coro di voci che condannavano l’invasione in Ucraina ma la questione era tutt’altro che priva di sfumature, perché solo poche ore dopo l’inizio delle ostilità, è arrivata la notizia ufficiale di un comunicato da parte della Oea (Organizzazione degli Stati Americani), che in una sessione straordinaria esprimeva una dura condanna verso un’invasione definita «illegale, ingiustificata e non provocata», chiedendo «l’immediato ritiro della presenza militare russa» dall’Ucraina. Se però andiamo a leggere i firmatari di tale documento scopriamo che hanno ratificato la “condanna” dell’Oea: Antigua e Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Giamaica, Granada, Guatemala, Guyana, Haiti, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Domenicana, Suriname, Trinidad e Tobago, Usa e Venezuela (quest’ultimo rappresentato da un delegato del leader dell’opposizione Juan Guaidó dopo l’uscita dall’organismo multilaterale del governo di Nicolás Maduro nel 2019). Leggendo questi nomi scopriamo delle assenze di prim’ordine come Argentina, Brasile, Uruguay, Bolivia e Nicaragua. (Da ricordare che Cuba fu espulsa dalla Oea nel 1962).

2 marzo 2022

A sei giorni dall’inizio dell’invasione russa in territorio ucraino, l’Assemblea Generale dell’Onu emette una risoluzione che condanna le azioni dell’esercito di Putin. Si tratta di una risoluzione che non ha carattere vincolante e che viene appoggiata da 141 dei 193 Stati che siedono nell’Assemblea. Dei 52 restanti, ben 12 decidono di non partecipare alla votazione (tra questi il Venezuela di Maduro) e solo 5 votano contro: Bielorussia, Corea del Nord, Eritrea, Russia e Siria. Le astensioni sono 35 e tra queste si trovano Bolivia, Cuba, Nicaragua e il Salvador. Insomma, la settimana dopo l’inizio della guerra, l’America Latina mostra una netta divisione tra il gruppo dell’antimperialismo statunitense sorretto dall’asse La Avana – Caracas ed esteso a Managua e La Paz, con l’aggiunta del Salvador guidato da Nayib Bukele (sempre più solo per le sue politiche quantomeno discutibili in termini di libertà e democrazia) e il resto del subcontinente che condanna ufficialmente l’invasione. Una divisione comprensibile se vista dall’alto delle relazioni diplomatiche, economiche e di supporto militare che la Russia ha fornito negli ultimi anni in particolare a tre paesi latinoamericani sempre più isolati dalla comunità internazionale occidentale, quali sono Cuba, Nicaragua e Venezuela.

Figura 1 – Dettaglio voto del 2 marzo 2022

La risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu viene in soccorso a una tergiversazione che come abbiamo visto in precedenza aveva caratterizzato buona parte delle cancellerie latinoamericane tra il 24 e il 25 febbraio, a poche ora dalla notizia che le truppe russe erano entrate in territorio ucraino. Nel mio articolo del 25 febbraio comparso su “Il Fatto Quotidiano” davo appunto conto da San Paolo in Brasile, di come la regione latinoamericana stava reagendo alle ferali notizie che arrivavano dall’Est europeo. I portavoce di Bolivia, Messico e Perù non avevano condannato esplicitamente l’invasione, chiedendo piuttosto l’apertura immediata di un dialogo. Cuba, Nicaragua e Venezuela, paesi notoriamente vicini alle politiche di Mosca, si erano preoccupate fin da subito invece di difendere l’azione militare di Putin anche se con un tenore diverso a seconda dei casi.

Il più veemente era stato Nicolás Maduro, che in un messaggio del 24 febbraio aveva dichiarato: «Cosa si aspetta il mondo? Che il presidente Putin se ne stia con le braccia incrociate e non agisca in difesa del suo popolo?».

Nel discorso non sono poi mancate le accuse alla Nato e all’imperialismo statunitense, additati come principali responsabili di quanto sta succedendo. Daniel Ortega dal Nicaragua aveva difeso il riconoscimento della repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk condannando con forza l’applicazione di sanzioni economiche contro la Russia. Toni diversi da Cuba, dove proprio mentre Putin lanciava il suo attacco all’Ucraina (la sera di mercoledì 23 febbraio in America Latina) il presidente cubano Miguel Diaz-Canel era riunito con Viacheslav Volodin, il presidente della Duma russa (il parlamento russo). Diaz-Canel aveva espresso la sua solidarietà alla Federazione Russa di fronte all’imposizione di sanzioni e all’allargamento della Nato verso i suoi confini, evitando però di fare riferimento all’incursione militare russa in Ucraina. Dall’altro lato, forti invece erano giunte le condanne da parte di Cile, Ecuador, Uruguay, Paraguay, Colombia e del Caricom (la comunità caraibica, organizzazione internazionale che riunisce 15 membri con pieno diritto, oltre a 5 associati e 8 membri osservatori).

Camminavano “sulle uova” Argentina e Brasile, presi alla sprovvista da un’azione militare che li poneva in serie difficoltà di fronte alla comunità internazionale. Sì, perché da un lato, proprio all’inizio di febbraio, il presidente argentino Alberto Fernández aveva offerto il suo paese come “porta di accesso” della Russia all’America Latina durante un incontro molto discusso con Vladimir Putin al Cremlino. Solo di fronte a intense critiche e pressioni sia interne che esterne al suo governo, Fernández era stato costretto a rilasciare una dichiarazione in cui lamentava la situazione in Ucraina, rifiutando l’uso della forza e chiedendo alla Russia di «cessare l’azione militare in Ucraina», ribadendo però che «nessuna delle parti doveva usare la forza». Dall’altro lato il Brasile del presidente Jair Bolsonaro che, la settimana prima dell’inizio della guerra, si trovava in visita ufficiale proprio a Mosca. Un viaggio che, viste le ripetute avvisaglie di Washington sull’imminente invasione russa dell’Ucraina, aveva creato non poche polemiche e tensioni. Dopo il 24 febbraio sono arrivate da Brasilia delle dichiarazioni tiepide che esprimevano preoccupazione per le operazioni militari lanciate dalla Russia contro il territorio dell’Ucraina senza però condannare esplicitamente l’operato di Putin.

La lista dei paesi ostili a Mosca

La lista dei paesi ostili a Mosca fu creata per la prima volta nel maggio del 2021 e annoverava solo due nomi: Stati Uniti d’America e Repubblica Ceca. Si tratta di un documento pubblicato dal governo della Federazione Russa nel quale sono ascritti quegli stati, territori, regioni ed entità sovranazionali che sono coinvolti in attività che il Cremlino considera “ostili” o “aggressive” nei confronti della Russia. La lista è stata ampliata a inizio marzo 2022, pochi giorni dopo la risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu e dopo l’applicazione di forti sanzioni da parte dell’Unione Europea e degli Usa contro la Federazione Russa. Oggi il documento conta al suo interno 56 stati o dipendenze territoriali e l’essere menzionati in questa lista comporta l’applicazione di restrizioni rispetto alle relazioni commerciali, valutarie e diplomatiche con Mosca.

Anche questa lista però ci aiuta a capire che la Russia vuole mantenere aperta la porta all’America Latina visto che nessuno dei paesi di questo subcontinente è menzionato nel documento (fatto salvo per la Guyana francese e le Bahamas, quest’ultima aggiunta alla lista il 24 luglio). Le sanzioni infatti colpiscono la quasi totalità del continente europeo, ad eccezione di Bielorussia, Bosnia ed Erzegovina, Moldova e Serbia; in Asia troviamo Giappone, Corea del Sud, Micronesia, Taiwan, Australia e Nuova Zelanda e nella Americhe (a parte le già menzionate) solo Canada e Stati Uniti d’America. Non viene menzionato nessuno Stato africano o latinoamericano.

Aprile

Il 7 di aprile, sempre all’interno dell’Assemblea Generale dell’Onu, è andato in scena il voto per estromettere la Russia dal consiglio dei diritti umani (decisione straordinaria applicata in passata solo nel marzo 2011 alla Libia). Anche questa volta la comunità internazionale si è trovata divisa, ancora più divisa del voto del 2 marzo, chiaro segnale che la macchina diplomatica del Cremlino è riuscita a ampliare la sua sfera di influenza. Sebbene infatti la votazione abbia ufficialmente comportato la sospensione della Russia dal consiglio dei diritti umani dell’Onu, questa volta i voti a favore sono stati “solo” 93 (contro i 141 di marzo), 24 contrari e 58 astensioni: da notare che ben 18 stati non hanno votato tra cui ancora il Venezuela e in questa occasione anche Bolivia, Cuba, Nicaragua e Suriname, che si erano astenute il 2 marzo, hanno invece votato contro questa risoluzione mentre il Salvador ha confermato la sua astensione. Tra gli astenuti fano però il loro ingresso il Belize, Trinidad e Tobago ma soprattutto il Brasile di Bolsonaro e il Messico di Andrés Manuel Lopéz Obrador. Questione geopolitica non di poco conto se si considera che questi due giganti latinoamericani sono la prima (Brasile) e la seconda (Messico), economia del subcontinente.

Figura 2 – dettaglio del voto del 7 Aprile 2022

Maggio

Brasile di Lula

Il mese di maggio si apre con il clamore provocato dalle parole dell’ex presidente del Brasile, Lula Ignacio da Silva, favorito per le prossime elezioni presidenziali di ottobre nella quali affronterà Jair Bolsonaro (presidente uscente).

Lula, in una lunga intervista realizzata da Time e pubblicata mercoledì 4 maggio ha dichiarato:

«Vedo il presidente dell’Ucraina in televisione come se stesse festeggiando, applaudito in piedi da tutti i parlamenti (del mondo). Lui è responsabile quanto Putin. Perché in una guerra non c’è un solo colpevole», ha detto Lula aggiungendo poi che «Voleva la guerra (Zelenski). Se non avesse voluto la guerra, avrebbe negoziato un po’ di più».

Tra i passaggi salienti dell’intervista troviamo poi anche questo:

«Ho criticato Putin quando ero a Città del Messico, dicendo che è stato un errore invadere, ma penso che nessuno stia cercando di contribuire alla pace. Le persone stanno stimolando l’odio contro Putin. Questo non lo risolverà! Dobbiamo stimolare un accordo. Ma c’è un incoraggiamento (al confronto)!».

Infine, nella sua critica a tutto tondo, Lula non ha risparmiato attacchi agli Stati Uniti d’America e all’Onu, specificando

«gli Stati Uniti hanno un peso molto grande e lui (Biden) potrebbe evitarlo (il conflitto), invece di stimolarlo. Avrebbe potuto dialogare di più, partecipare di più, Biden avrebbe potuto prendere un aereo per Mosca per parlare con Putin. Quello è l’atteggiamento che ci si aspetta da un leader».

Rispetto all’Onu invece il 76enne politico brasiliano ha affermato che «è urgente e necessario creare una nuova governance mondiale. L’Onu di oggi non rappresenta più nulla, non è presa sul serio dai governanti. Ognuno prende decisioni senza rispettare l’Onu. Putin ha invaso l’Ucraina unilateralmente, senza consultare l’Onu».

Giugno

Le alleanze si cercano al Vertice

Il mese di giugno è stato il mese dei vertici internazionali: la Cumbre (in presenza) delle Americhe, celebrato a Los Angeles tra il 6 e il 10 giugno, la riunione dei Brics celebrata in forma virtuale a Beijing il 23 giugno e il vertice (presenziale) del G7 di Schloss Elmau in Germania tra il 26 e il 28 giugno. In tutti e tre i vertici si è parlato della guerra della Russia all’Ucraina ma il peso, la presenza e la visibilità dei paesi latinoamericani sono stati molto eterogenei in questi spazi di dialogo e di decisione. Da un lato, il vertice delle Americhe, ospitato quest’anno dagli Usa, ha mostrato la grande frattura esistente nel continente visto e considerato che su 35 stati possibili partecipanti alla fine sono intervenuti solo 26 paesi: con il Brasile arrivato in extremis per la soluzione all’ultimo minuto di un disaccordo tra Biden e Bolsonaro. Cuba, Nicaragua e Venezuela non sono stati invitati e per solidarietà con questi tre paesi non sono intervenuti neanche i presidenti di Bolivia, Honduras e Messico. Dall’altro lato Salvador e Guatemala sono in rapporti molto aridi con l’amministrazione Biden e hanno declinato l’invito, mentre il presidente dell’Uruguay non ha potuto partecipare perché positivo al Covid-19. Un vertice dunque “azzoppato” che ha mostrato l’isolamento Usa nel subcontinente latinoamericano riaffermando la distanza delle politiche e delle visioni di Washington da molte delle amministrazioni latinoamericane. Questo è sicuramente un elemento ad appannaggio di Mosca che, non ha partecipato “fisicamente” al successivo G7 in Germania ma che è stata il centro del dibattito dei 7 “big” presenti: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America (oltre a una rappresentanza politica della UE).

Da ricordare che quello che oggi è il G7 era in precedenza il G8 e includeva anche la Russia. La Federazione russa fu espulsa dal gruppo a seguito della crisi in Ucraina del 2014 che portò all’annessione della penisola di Crimea da parte del presidente russo Vladimir Putin.

Schloss Elmau, G7 del 26 giugno 2022

Al vertice tedesco ha partecipato come invitato il presidente argentino Alberto Fernández, in veste di rappresentante della Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi (Celac). Fernández in questa occasione ha condannato dalle Alpi bavaresi l’operato della Russia in Ucraina, dando un segnale importante di allineamento con le politiche di Washington e della UE.

Solo alcuni giorni prima del G7 però (il 23 giugno) la Russia era stata protagonista del vertice dei Brics, acronimo coniato per associare cinque grandi economie emergenti: Brasile, Cina, India, Russia e Sud Africa. Questo gruppo, che si riunisce dal giugno del 2009, ha rappresentato per anni il paradigma della cooperazione Sud-Sud ed è visto come un’alternativa alle politiche di influenza statunitensi o anche “occidentalocentriche” a livello globale. Tra questi 5 paesi spicca il Brasile, come detto la più grande economia latinoamericana che, per bocca di Jair Bolsonaro, ha detto di voler rafforzare e ampliare la collaborazione commerciale con Mosca. Anche qui troviamo però ancora una volta l’Argentina, paese candidato a un prossimo ingresso nel gruppo, come ricordato proprio nei giorni del suddetto vertice dal ministro degli esteri russo Sergéi Lavrov, in un annuncio nel quale sembrava dire che l’ingresso di Buenos Aires nei Brics potrebbe essere prossimo.

Luglio

Latenti manovre rendono ondivaga la posizione continentale

A inizio luglio si manifesta un segnale inequivocabile rispetto alle profonde divisioni generate dall’invasione russa in Ucraina in America Latina e alle correnti di pensiero a questo riguardo. Il presidente ucraino Volodímir Zelensky fa richiesta ufficiale al Paraguay di poter essere presente in videoconferenza nel prossimo vertice del Mercosur (Mercato Comune del Sud) che sarebbe stato celebrato appunto ad Asunción, capitale del paese sudamericano giovedì 21 luglio. Zelensky, forte dei precedenti discorsi realizzati in svariati forum e vertici internazionali come quello della Nato, del G7, alle Nazioni Unite e nel Forum Economico Mondiale vuole ripetere l’impresa, magari proponendo uno “speech” cucito ad hoc per l’occasione, così come ha fatto in diversi parlamenti in giro per il mondo. In quei giorni è lo stesso ministro degli esteri del Paraguay, Julio Cesar Arriola, a dare la notizia della richiesta che il presidente ucraino ha presentato direttamente a Mario Adbo Benítez (presidente del Paraguay), spiegando però che la domanda verrà sottoposta al vaglio di tutte le parti interessate. Sembrava un puro rito diplomatico e invece arriva il colpo di scena: dopo una votazione interna e segreta del blocco commerciale composto da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay arriva il diniego. Zelenski non parlerà al vertice Mercosur, e a dirlo in una conferenza stampa è questa volta il viceministro degli esteri paraguaiano, Raúl Cano Ricciardi, che però non svela quale paese o quali paesi abbiano votato contro la richiesta del presidente ucraino.

L’America Latina ci ha però abituato a continui colpi di scena e solo 4 giorni dopo il mancato appuntamento di Zelenski con il vertice del Mercosur di Asunción succede qualcosa che ancora una volta muove le carte in tavola. Si perché il 25 luglio arriva la prima visita di un presidente Latinoamericano a Kyiv: si tratta di Alejandro Giammattei, presidente del Guatemala dal 14 gennaio 2020. Questa visita è la prima di un presidente dell’America Latina dal 24 febbraio (data dell’inizio dell’invasione russa) ma è anche la prima in generale degli ultimi 12 anni. Giammattei che aveva ricevuto l’invito a recarsi in Ucraina nel giugno scorso proprio da Zelenski, ha visitato le oramai tristemente famose città di Bucha, Irpin e Borodianka, assicurando che il suo paese non lascerà solo il popolo ucraino nel momento della ricostruzione.

Agosto

Ad agosto, a sei mesi dall’inizio dell’invasione ci troviamo di fronte a un altro “coup de théâtre” questa volta organizzato dall’asse Caracas-Mosca. Infatti il Venezuela di Maduro è diventato il 13 agosto il primo paese latinoamericano a ospitare come anfitrione le “Army Games”, anche chiamate “Olimpiadi della Guerra”. Ovvero delle competizioni militari organizzate proprio dal ministero della Difesa della Russia dal 2015. Ai “giochi” hanno partecipato 270 squadre provenienti da 37 paesi e le gare hanno avuto luogo tra il 13 e il 27 agosto, in 36 modalità di competizione (in Venezuela hanno gareggiato i cecchini). Oltre a Venezuela e Russia, anche Algeria, Bielorussia, Cina, India, Iran, Kazakistan e Vietnam sono state le sedi secondarie dell’edizione di quest’anno. L’alto comando militare venezuelano ha mantenuto un certo riserbo sull’evento, che ovviamente ha risvegliato l’interesse e la preoccupazione degli Usa, visto che la competizione ha comportato l’arrivo di centinaia di militari stranieri in Venezuela. Soldati provenienti da Abcasia, Bielorussia, Cina, Iran, Myanmar, Russia e Uzbekistan: paesi che in molti casi sono colpiti dalle sanzioni degli Stati Uniti d’America.

Ad aumentare la tensione anche una “coincidenza”, se tale si vuole considerare. Infatti le “Olimpiadi della guerra” sono iniziate proprio mentre si concludevano le operazioni militari annuali organizzate dal comando sud degli Stati Uniti d’America: operazioni battezzate PanamaX 2022. A questa importante esercitazione, svoltasi tra il 1° e il 12 agosto, hanno partecipato le forze armate di Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Repubblica Domenicana, Giamaica, Guatemala, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Perù Salvador e Spagna.

Proprio mentre si svolgevano le “Olimpiadi della Guerra” in Venezuela con la benedizione del Cremlino, avviene però un altro colpo di scena. Zelenski riguadagna lo spazio che gli era stato negato al vertice del Mercosur e mercoledì 17 agosto, questa volta nelle aule della Pontificia Universidad Católica de Chile (Puc) riesce a parlare in videoconferenza mandando un messaggio ai presidenti della regione e a tutto il popolo latinoamericano, al quale ha chiesto di cessare il commercio con la Russia.

Ha poi aggiunto: «Per credere a quello che sta succedendo, è importante vederlo. Voglio che i vostri leader, i giovani, vengano in Ucraina. Per noi è importante che l’America Latina conosca la verità», apparendo per la prima volta su uno schermo latinoamericano a 175 giorni dall’inizio della guerra.

Un messaggio seminato in Cile, paese dove il giovane presidente Gabriel Boric aveva da subito dato il suo appoggio, in termini umanitari, verso il popolo ucraino.

Di fronte a tutto questo rimante difficile decifrare le vere intenzioni di Putin in America Latina, dove però sicuramente le sue alleanze con Cuba, Venezuela e Nicaragua e i suoi ammiccamenti ad Argentina e Brasile hanno complicato la risposta dell’Occidente alla sua invasione dell’Ucraina. Non sono da sottovalutare però le agende dei singoli paesi latinoamericani che dal canto loro potrebbero “usare” Putin come “spauracchio” da giocare nell’infinita partita a scacchi con Washington e Beijing, i due poli che continuano a oggi a esercitare comunque la maggiore influenza nella regione.

Conseguenza economiche della guerra nell’area Cono Sur

Chiavi di lettura delle alleanze globali

Per dare uno sguardo in chiave economica di come quanto sta succedendo in Ucraina abbia un riflesso diretto sulle società nazionali della regione latinoamericana, possiamo fare riferimento a un’analisi realizzata dal Real Instituto Elcano di Madrid, elaborata da Carlos Malamud e Rogelio Nuñez Castellano dal titolo L’America Latina e l’invasione dell’Ucraina: il suo impatto sull’economia, la geopolitica e la politica interna.

Spiegano Malamud e Nuñez Castellano che i paesi dell’America Latina, seppur in posizione periferica si vedono influenzati in modo importante dalla crisi in Ucraina. Economicamente, l’aumento dei ricavi per i paesi produttori di materie prime, in particolare idrocarburi, ha convissuto con il rimbalzo inflazionistico causato dall’aumento dei prezzi dell’energia e dalla scarsità di importazioni dalla Russia (fertilizzanti) e dall’Ucraina (cereali). Ci sono stati notevoli disaccordi all’interno di ciascun paese sulla posizione di fronte al conflitto, questione che rende ancora più difficile la politica interna in mezzo alla crescente incertezza sul futuro dell’economia mondiale e regionale, con un possibile aumento dei disordini sociali (vedi il caso delle recenti proteste a Panama). Inoltre la lotta geopolitica globale per il controllo e l’accesso alle risorse energetiche, ha rilanciato alcune potenze petrolifere regionali (come il Venezuela) e ha favorito alcuni spazi commerciali in termini di esportazioni (per esempio quelli argentini con l’esportazione di cereali).

Un’altalena di costi e benefici che però se vista nella foto regionale porta delle cifre tutt’altro che ottimistiche. Secondo i dati della Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (Cepal) resi noti a fine aprile scorso, il conflitto in Ucraina ha esacerbato i problemi di inflazione, aumentando la volatilità dei costi finanziari abbassando le stime di crescita regionale da 2,1% (gennaio 2022) a 1,8% (aprile 2022). Le economie del Sud America cresceranno dell’1,5%, quelle del Centro America e del Messico del 2,3%, mentre quelle dei Caraibi cresceranno del 4,7% (esclusa la Guyana).

Sempre la Cepal, nel volume Ripercussioni in America Latina e Caraibi della guerra in Ucraina: come affrontare questa nuova crisi? pubblicato a giugno, parla anche di un lento e incompleto recupero del mercato del lavoro dopo il Covid-19, prevedendo che la povertà e la povertà estrema supereranno i livelli stimati per il 2021.

«L’incidenza della povertà regionale raggiungerà il 33,7% – 1,6 punti percentuali in più rispetto alle proiezioni per il 2021- mentre la povertà estrema raggiungerà il 14,9% – 1,1 punti percentuali in più rispetto a nel 2021».

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Brecce nei modelli dello status quo https://ogzero.org/brecce-nei-modelli-dello-status-quo/ Fri, 12 Aug 2022 08:53:28 +0000 https://ogzero.org/?p=8520 Si stanno indubbiamente aprendo brecce nell’equilibrio mondiale a cui s’ispira il modello che ha consentito finora all’Occidente di imporre la propria impronta sul mondo. Il multilateralismo faceva perno su una potenza globale come quella americana che assicurava la possibilità di intessere relazioni multilaterali, ora quel sistema vede erodere la propria incontrastata egemonia in particolare dalla […]

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Si stanno indubbiamente aprendo brecce nell’equilibrio mondiale a cui s’ispira il modello che ha consentito finora all’Occidente di imporre la propria impronta sul mondo. Il multilateralismo faceva perno su una potenza globale come quella americana che assicurava la possibilità di intessere relazioni multilaterali, ora quel sistema vede erodere la propria incontrastata egemonia in particolare dalla Cina e dal corredo di potenze locali in grado di portare sfide in aree specifiche. Nell’ultimo anno, dopo la caduta di Kabul il 15 agosto 2021, si è assistito a un’accelerazione inarrestabile della messa in discussione della globalizzazione e alla proposta di modelli socio-politici autocratici che si contrappongono alla “rassicurante” liberal-democrazia.
Era un sogno della sinistra libertaria aprire brecce nel capitalismo liberal-democratico per scardinarne il sistema, e ora chi metterebbe al centro l’emancipazione antitotalitaria dei popoli non riesce a interpretare l’attacco allo strapotere americano come una rivoluzione imposta dall’alto e realizzata dal nazionalismo autoritario, militarista e tecno-finanziario come quello statunitense. Infatti non sortisce di meglio che accettare la narrazione che vede ancora due blocchi contrapposti, da cui non si riesce a prescindere… né a evitare di schierarsi, non riconoscendo che si tratta della riproposta di schieramenti ottocenteschi: il superamento del “secolo breve” sta avvenendo, sì… ma in senso contrario, nel passato di oligarchie imperiali ottocentesche che controllano i propri territori, rinverdendo tradizioni culturali che si appropriano della critica alla globalizzazione.

Dopo un anno il regime talebano consegue il riconoscimento da parte di Cina e Russia. Quella capitolazione di Kabul alla più vieta e arcaica concezione religiosa e culturale locale del Waziristan ha dato la stura alla spartizione del mondo in aree di riferimento. OGzero ha pensato che ci fosse la necessità di ipotizzare e far dialogare processi in corso e possibili strategie adottate dai protagonisti del rivolgimento epocale, sperando così di avviare un dibattito che descriva la situazione prescindendo dalla versione parziale che scaturisce da un sistema in mutazione e quindi non in grado di fotografare il cambiamento che sta subendo.


Sostituzioni di modelli

Nelle infinite analisi del ribaltamento in corso di quell’equilibrato sistema di relazioni internazionali sancito da Yalta – e mantenuto invariato perché a nessuna delle potenze andava stretto o non avevano l’opportunità di imporre finora alcun rilievo – esistono un paio di elementi che sembrano non venir evidenziati a sufficienza nelle disamine della situazione geopolitica attuale: la rivoluzione è imposta dall’alto, è un pranzo di gala esclusivo dove gli invitati giocano a Risiko – e infatti si punta su una comunicazione che fondi la legittimità delle mosse sul confronto nazionalista; e al contrario di quel che avviene di solito in caso di conflitti, il contenzioso non coinvolge il Sud del mondo, sconvolgendolo. Le popolazioni alle quali ci si riferiva come Terzo mondo, ai tempi in cui lo spunto per molte speculazioni proveniva dall’internazionalismo non solo ora non si schierano a favore della “democrazia”, ma cominciano a considerare l’occasione ghiotta per ridimensionare la presenza e il condizionamento di un sistema, forgiato su un modello culturale ed economico sviluppato da una cultura estranea come quella europea, esportato in forma coloniale.

«Noi giovani abbiamo organizzato questa manifestazione per il ritiro delle forze armate francesi dal territorio nazionale del Mali. Vogliamo dare un contributo alla soluzione definitiva della crisi e ripristinare i valori della sovranità della nostra nazione. Non nascondiamo e riaffermiamo la nostra comune disponibilità con le nuove autorità di transizione a dare priorità alla cooperazione militare con la Russia per il rapido ripristino della Repubblica, in modo da poter lottare per la stabilità a lungo termine, che porterà alla nostra sovranità assoluta» (appello ad Assimi Goita pubblicato dalla piattaforma Debout sur les remparts, Yerewolo: giovani maliani, settembre 2021)

Ecco: un primo errore nella narrazione e nell’approccio al rivolgimento epocale sta nel vizio occidentale di voler imporre il proprio sguardo etico-politico anche sull’interpretazione dei conflitti globali, senza considerare le narrazioni sviluppate da altre tradizioni politico-culturali. Geopolitica chiederebbe di attenersi all’analisi di strategie messe in atto a seguito di bisogni e presunta potenza; invece la propaganda sia dal punto di vista liberal-capitalista, sia nell’ambito autocratico-capitalista sfrutta le spinte nazionaliste identitarie, inanellando tutti i più vieti luoghi comuni per salvaguardare la propria sussistenza entro i confini di riferimento di stati consorziati militarmente a fare da scudo al proprio ordine socio-culturale. Persino l’internazionalismo era caduto nella stessa trappola di avanzare una filosofia di emancipazione comunque sviluppata all’interno della cultura occidentale, nonostante l’intento meritevole di liberazione dell’Altro.

Vecchi sogni antimperialisti offuscati da modelli di imperialismi contrapposti

Infatti la sfida in corso al predominio americano e al suo sistema di sfruttamento mondiale era il sogno di ogni rivoluzionario degli anni Sessanta-Ottanta. Al contrario vediamo i regimi autocratici intenti a scalfire il potere americano, avendo ipotizzato, dopo la disfatta di Kabul, che si sia avviato allo stesso declino subito dall’Urss dopo il pantano afgano. Ma forse si tratta soltanto di una speculare reazione al pressing statunitense sui russi, volto a togliere alla potenza locale il terreno sotto i piedi; e questo cominciò con l’amministrazione Obama. In particolare l’esecuzione di Gheddafi ha suggestionato il capo del Cremlino: infatti dal 2011 Putin ha cambiato strategia geopolitica, convinto nel suo sospetto dalla costante cooptazione nel campo filoamericano di molte nazioni ex sovietiche, sottratte alla influenza russa; questo ha giocato un ruolo rilevante di intenzionale provocazione per la potenza militare moscovita.

Un po’ tutti hanno impugnato quelle forbici, che hanno innescato il cambiamento, tagliando i fili del multilateralismo che erano in tensione già da tempo.
Putin è stato forse indotto a credere nella possibilità di costituire un fronte antiamericano sufficientemente ampio e militarmente sostenibile: potrebbe essere credibile una sorta di accordo tacito di non belligeranza se non di reciproco sostegno con altre grandi potenze, come la Cina che invece – a cominciare dall’amministrazione Trump – è stata messa sotto pressione dal punto di vista economico. Si potrebbe adottare uno sguardo capace di spiegare le indubbie provocazioni americane (l’ultimo episodio è quello che ha visto protagonista Pelosi a Taiwan, imbarazzante per gli alleati coreano e giapponese, come si è visto nelle tappe successive del viaggio) per arrivare a un confronto di intensità variabile che consenta a Washington di ridimensionare gli sfidanti quando ancora gli Usa detengono la preminenza nei mezzi sia militari che economici (il “momento tucidideo” di cui parla Streeck su “New Left Review”, ripreso da “Internazionale”). I rivali non hanno potuto evitare di rispondere alle provocazioni e mettersi in gioco quando ancora gli Usa sono in grado di fronteggiarli.

«Gli Stati Uniti si stanno comportando da stupidi, ed effettivamente lo sono. Fingendo di esserlo significa che sanno quali sono gli interessi della Cina sulla questione di Taiwan e la sua linea rossa. Ma, nonostante questo, la calpestano ripetutamente» (Wang Wen dell’Università Renmin)

Si è arrivati alla guerra aperta perché a quel risultato erano improntati i piani strategici di tutti i protagonisti per rispondere all’esigenza da parte di potenze nucleari energivore di espandere il controllo di risorse e mercati e in nome di quelle dinamiche dominanti si sta tentando la scalata all’egemonia, la stessa che gli Usa intendono mantenere ancora per alcuni decenni, com’è avvenuto 30 anni fa quando a crescere al punto da sfidare la preminenza tecnologico-finanziaria fu il Giappone simboleggiato da Goldrake, allora detentore delle maggiori conoscenze sui semiconduttori e ora investito da Blinken del ruolo di gendarme del Pacifico; la sfida di Tokyo fu ridimensionata proprio con l’avvento della globalizzazione e agevolando la crescita della Cina ispirata a Deng in grado di eclissare prima e surclassare nel 2010 l’ascesa del Giappone – isolato e costituzionalmente privo di deterrenza militare; ora il conflitto appena scatenato rappresenta la fine della globalizzazione e l’industria nipponica torna a fare da testa di ponte per conservare al campo “occidentale” il controllo dei microchip, collaborando con le maggiori fabbriche di Taiwan. Premendo così in ambito tecnologico sulla possibilità di sviluppo dell’economia cinese, costretta a mostrare i muscoli a Nancy Pelosi (per uso interno, ma anche più pragmaticamente per salvaguardare le forniture tecnologiche di Formosa), come il pressing e la cooptazione degli stati satelliti dell’ex Urss lasciava poche chance alla sicurezza russa.

«Putin ha lanciato un’invasione per eliminare la minaccia che vedeva, perché la questione non è cosa dicono i leader occidentali sui propositi o le intenzioni della Nato: è come Mosca vede le azioni della Nato. la politica occidentale sta esacerbando i rischi di un conflitto allargato. Per i russi, l’Ucraina non è tanto importante perché ostacola le loro ambizioni imperiali, ma perché un suo distacco dalla sfera d’influenza di Mosca è “una minaccia diretta al futuro della Russia”» (John Mearsheimer da “The Economist”).
«Molti tendono a equiparare egemonia e imperialismo. In realtà imperialismo è una nazione che ne forza altre a entrare nella sua sfera, mentre egemonia è più una condizione che un proposito. Il problema di Putin e di coloro che sostengono l’esistenza di sfere d’influenza russa e cinese è che “tali sfere non sono ereditate, né sono create dalla geografia, dalla storia o dalla ‘tradizione’. Sono acquisite dal potere economico, politico e militare” che gli Stati Uniti possiedono più della Cina e che la Russia non ha» (Robert Kagan, “Foreign Affairs”).
(Ugo Tramballi, Ispi).

Conflitti collaterali e proxy wars

Ormai appare evidente che l’escalation di tensione costringe il mondo a uno stretto passaggio tramite il quale ogni area dello scacchiere internazionale è costretta a transitare, ovvero locali confronti tra protagonisti per definire gli schieramenti attraverso innumerevoli conflitti ristretti che ambiscono al controllo di territorio, risorse, commodities e mercati a cui attingere quando lo sforzo bellico sarà globale e a tutti i livelli.

Di tutti il confronto che maggiormente ha costituito la consapevolezza che si stava andando verso un rivolgimento globale è la crisi sarmatico-pontica, usata come grimaldello per coinvolgere anche l’Occidente europeo nel processo di trasformazione degli equilibri e delle supremazie su zone di influenza che si è innescato con l’attacco di Sarkozy a Gheddafi. Di lì discende la nuova strategia russa da un lato (innescata come già spiegò Bagnoli dalla paura di Putin di fare la stessa fine) e dall’altro la pulsione all’affrancamento nel Mediterraneo dei satrapi che nel 2011 erano ancora al guinzaglio di potenze globali e da allora invece sempre più autonomi e spregiudicati, come la Turchia, l’Arabia Saudita, gli Emirati… che hanno cominciato a sgomitare perseguendo strategie, alleanze, riarmo, penetrazioni in territori colonizzati proprio da quell’Occidente europeo da cui gli Usa si allontanavano, non avendo più interesse energetico derivante dal Mena, essendo divenuto autosufficiente durante l’amministrazione Obama con lo shale oil, e che ha optato in quel quadrante per la delega alle autocrazie locali. Si è venuta così a creare una pulsione all’autodeterminazione, all’affrancamento e all’autoaffermazione che passa attraverso un forte impulso al nazionalismo e al militarismo. Altra benzina sul fuoco.

Modelli sovranisti stanziano ad Astana

In questo quadro van rivisti a livello di potenze locali, tendenzialmente non più tali, la guerra siriana e i conseguenti accordi di Astana… Si sono svolti nelle ultime due settimane due atti di questo canovaccio, uno a Tehran e uno a Soci, di quest’ultimo Yurii Colombo ha parlato nel suo canale telegram Matrioska.info, sottolineando i due aspetti richiamati dal viceprimoministro Alexander Novak che rinsaldano i legami tra i due autocrati: le forniture di 26 miliardi di metri cubi annui di gas alla Turchia – il cui Turkish Stream diviene un hub del gas russo ad aggirare gli embarghi – e gli scambi in valuta nazionale: lira e rubli, entrambe in sofferenza. L’incontro in Iran è stato affiancato dall’Ispi agli sviluppi dell’attività diplomatica di Lavrov:

«A pochi giorni dall’incontro del terzetto di Astana dove oltre a Ebrahim Reisi Putin ha incontrato anche l’omologo turco Recep Tayyip Erdoğan, la visita di Lavrov sembra anche voler ribadire che la Russia non è isolata sulla scena internazionale. Al termine dell’incontro con il presidente egiziano Abdelfattah al Sisi e con il segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit, il ministro ha esortato il mondo arabo a sostenere la Russia “contro i tentativi palesi degli Stati Uniti e dei loro satelliti europei di prendere il sopravvento e di imporre un ordine mondiale unipolare”. Non è detto che in paesi in cui il sentimento antiamericano è forte (corroborato dall’invasione in Afghanistan e Iraq e dal sostegno storico a Israele) i suoi argomenti non facciano presa» (Alessia De Luca, Ispi).

Mosca è tutt’altro che isolata, se si ripensa al voto di marzo all’Onu sulla risoluzione di condanna dell’invasione ucraina.

Tutti contro tutti appassionatamente insieme

Ankara contemporaneamente è un nodo della gestione per procura americana del Medio Oriente insieme a Tel Aviv (il giorno dopo l’incontro con Herzog, Hamas è stato cacciato da Ankara, come avvenne ad Arafat a Beirut) – però Israele è schierato con Egitto, Cipro e Grecia per controllare il Mediterraneo orientale in contrasto con Ankara – e Riad, gradualmente disciogliendo il contenzioso yemenita come il corpo di Kasshoggi nell’abbraccio tra Erdoğan e Mbs (con sullo sfondo gli Accordi di Abramo voluti da Kushner e proseguiti da Blinken).  A maggio persino sauditi e iraniani hanno ripreso relazioni diplomatiche. Evoluzioni tutte previste da Antonella De Biasi in Astana e i 7 mari.

“Astana prepara crepe nell’asse mondiale sparigliando le polarità”.

Risulta sempre più importante districarsi tra alleanze interstatali, che in ogni caso – siano regimi liberal-democratici o democrature rette da autocrati e oligarchi, dinastie, latifondi o gruppi economico-industriali – soffocano le libertà civili e il controllo dei media impedisce ai sudditi di riconoscersi come tali e proporre una coalizione dei sottomessi che si sottraggano e levino il consenso alle istituzioni militari assassine.

Questa ricostruzione permane all’interno di un quadro a blocchi, ma lo fa diversamente dal rimpianto che si affaccia presso alcuni vecchi rivoluzionari per quella condizione semplice da leggere costituita da due imperi anche geograficamente divisi per blocchi contigui. Invece in realtà lo sconquasso operato con l’invasione ucraina ha sconvolto ogni possibile lettura di strategie e mosse sullo scacchiere internazionale, che va componendosi all’interno di quel quadro in una serie di alleanze militari (Quad, Aukus), cooptazioni (gli stati africani controllati da Wagner e quelli inseriti negli accordi di Abramo), scelte di campo fondate sui nemici dei nemici (Etiopia), attendismo neutralista (eclatante in questo senso la posizione dell’India), ambigue mediazioni (il ruolo che si è conferito Erdoğan).

Il rivolgimento globale registra soprattutto in Mena e in Europa (e nelle sue colonie africane) il rimescolamento di alleanze, controllo di risorse e sfere di influenza, mentre nell’Indopacifico si assiste a viaggi diplomatici che si inseguono per creare coalizioni in vista del confronto.

Orizzonti senza gloria

Però quei vecchi rivoluzionari ormai incanutiti dovrebbero leggere il presente con occhiali diversi da quelli adottati negli anni Settanta e proporre un pensiero estraneo all’ottica meramente mercantile di un capitalismo ancora più feroce di allora che permea tutte le innumerevoli parti in causa, le quali infatti si confrontano con i mezzi previsti dal Finanzcapitalismo (non a caso Gallino lo scrisse nel 2011, l’anno del tracollo libico, durante le Primavere arabe).

Un modello che sconfigga il sovranismo neototalitario non può certo affidarsi al nazionalismo dell’imperialismo di stampo americano in contrapposizione a quelli irricevibili di stampo cinese o russo o neo-ottomano o saudita, o viceversa: rispondono tutti ai medesimi criteri ed è come rivelare l’acqua calda la denuncia che la barbarie dell’esercito russo è identica a quella delle invasioni americane di Vietnam, Somalia, Iraq… Afghanistan. Quest’ultima, emblematicamente comune a quella sovietica, dovrebbe anche simbolicamente chiudere il cerchio e l’epoca.

Allora bisognerebbe riuscire a fabbricare una chiave per attribuire il fulcro delle strategie che regolano i rapporti nel mondo a valori diversi, esterni al capitalismo – o alla identità nazionale o religiosa. Per farlo andrebbe forse messa al centro della proposta di ricostruzione dei modelli mondiali l’emancipazione dei popoli e la loro difesa dagli imperi sovranisti che non solo ripropongono l’idea degli imperi ma anche la loro considerazione della carne da cannone, contrapponendogli quel ripudio delle guerre, militari o economiche che siano, sicuramente diffuso come all’inizio della Prima guerra mondiale su cui potrebbe costruirsi un modello che si sottrae agli interessi imperialistici.

Quindi innanzitutto vanno smontati i meccanismi e gli interessi militari che stanno informando le cancellerie del mondo. E per farlo vanno individuati e descritti nei particolari quegli stessi meccanismi per disinnescarli, come la bomba che gli imperialismi, cambiando gli equilibri di sistema dall’interno e ponendosi fuori dai blocchi, stanno preparando, intessendo l’ordito di trame e temporanei accordi che sfoceranno in nuovi focolai di guerra funzionali a uno di quei modello di mondo.

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La guerra viene con le armi lo spaccio a giugno https://ogzero.org/studium/traffico-di-armi-lo-spaccio-a-giugno/ Fri, 08 Jul 2022 22:24:13 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=8138 L'articolo La guerra viene con le armi lo spaccio a giugno proviene da OGzero.

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Non siamo responsabili dell’uso delle armi che vendiamo

A inizio giugno “AnalisiDifesa” titolava Segreti di Pulcinella l’articolo in cui si sbertucciava il Copasir che manteneva il segreto sulle armi donate agli ucraini dall’esercito italiano, le stesse documentate da video diffusi dai russi: «obici da 155 mm FH-70 in azione, proiettili da mortaio da 120 mm, munizioni calibro 7,62 per mitragliatrici MG42 e missili anticarro Milan, tutti surplus dell’Esercito Italiano trasferiti agli ucraini e poi caduti in mano al nemico» (inteso come russo, ma tanto sarebbero state in mano ai non meno inquietanti combattenti del battaglione Azov).
Seguendo spedizioni e trasferimenti di ordigni – ma anche esercitazioni congiunte e collaborazioni in missioni – si può redigere una mappa delle aree a rischio: scontato il corso del Don, e poi il mar Cinese meridionale, gli stretti delle Molucche e di Hormuz (Emasoh: esercitazioni antiraniane a guida italiana), completamento del muro antipolisario con la missione congiunta al largo del confine tra Marocco e Mauritania con la US Air, ma soprattutto gli equilibri di un mar Mediterraneo attraversato da traffici di umani, droga e armi; come capita in tutti i mari, visto che US Navy è disposta a versare una taglia di 100.000 dollari a chiunque fornisca informazioni relative a traffici di armi e droga nei pressi del Golfo di Aden, dove nel 2021 la marina americana ha sequestrato 9000 ordigni (il triplo del 2020) e parallelamente il corrispondente di 500 milioni in droga.
Sono 57 i conflitti già esplosi in corso nel mondo. E forse non è un caso che il 6 luglio sia stato ucciso con modalità da intelligence Hashi Omar Hassan, il capro espiatorio per la morte di Ilaria Alpi, causata dalla sua inchiesta sul traffico di armi legato al cargo Shifco carico di militari italo-croati; e, come rileva Michele Giorgio: «anche le violazioni dell’embargo sulle armi non trovano un epilogo. È del 5 luglio la notizia dell’emittente televisivo somalo “Al-Arabya”, dove si denunciava il sequestro di due barche yemenite che trasportavano armi al gruppo terroristico “Al-Shabaab”. Le barche sarebbero risultate di proprietà di un contrabbandiere somalo, Ahmed Matan, che già in passato avrebbe fornito materiale esplosivo allo stesso gruppo terroristico probabilmente direzionandole al Golfo di Aden».
In un mondo sempre meno neutrale persino due vascelli militari giapponesi si sono avventurati nel Mediterraneo, interconnettendo ancora di più i conflitti dell’Indo-Pacifico con quelli mediterranei e lo hanno fatto all’inizio di giugno nell’ambito di una cooperazione che sancisce l’allargamento della Nato al Pacifico conferendo a Tokyo la direzione di quella che si può chiamare “Nato dell’Est”, affidata alla terza più potente flotta al mondo. Questa cooperazione è significativo si sia manifestata attraverso le esercitazioni delle “JS Kashima” e “JS Shimakaz” insieme alla fregata antisommergibili italiana “Nave Margottini” (strategicamente disposta contro il nemico russo che infesta il Mediterraneo con sommergibili dotati di missili Kalib) e la fregata “Salihreis” della marina turca che ha raddoppiato le proprie unità. Un’integrazione operativa che arriva nel giorno in cui il capo di stato maggiore della Difesa giapponese, il generale Koji Yamazaki, che aveva partecipato all’incontro tra gli omologhi dell’alleanza a maggio, ha ospitato a Tokyo l’ammiraglio Rob Bauer, presidente del comitato militare della Nato. Tutto a poche settimane dalla partecipazione di Tokyo — con il premier Fumio Kishida — al vertice Nato di Madrid; e dopo che ad aprile il ministro della Difesa Yoshimasa Hayashi aveva preso parte al vertice ministeriale dell’Alleanza Atlantica.
Questo allargamento della Nato sta costruendo un bipolarismo militare scollato dal multipolarismo geoeconomico, ma che invece risponde agli interessi contrapposti della geopolitica, che agevolano la liquidità dei confini delle scelte di campo; gli schieramenti poi non tengono conto del traffico d’armi. Gli acquisti degli ordigni non tengono conto dei campi avversi; pur di piazzare qualche affare miliardario si corre il rischio di vendere armi a chi potrebbe puntarle contro chi le vende. Sembra assurdo, ma risponde alla logica per cui il costruttore vende un prodotto del cui uso non si sente corresponsabile, per questo il banchiere Draghi può scambiare contenimento di migranti in cambio di miliardi utili per pagare gli elicotteri Agusta utilizzati nello sterminio dei curdi, rimanendo oltretutto all’interno della medesima coalizione, cosa che comunque non spaventa il leader turco che vende droni in entrambi i campi e acquista aerei e sistemi antimissile contrapposti da entrambi i rivali.
E questo mese abbiamo assistito anche alla fiera dell’industria bellica parigina Eurosatory, a tre mesi dal suo omologo Word Defense Show tenuto a Riyadh; anche qui un dato interessante è quello sulla provenienza degli espositori, che registra un aumento di quelli dell’Est e del Nord europei: «i soldati e le delegazioni ufficiali non sono qui per guardare ma per fare acquisti. In funzione di bisogni concreti e a medio termine ma senza preoccuparsi dei prezzi, che anche in questo settore subiscono l’impennata del costo delle materie prime. Perché sanno che oggi, per i loro governi, la difesa e la sicurezza sono settori in cui non si bada a spese» (“Radiopopolare”)
E l’articolo più gettonato è l’Intelligenza Artificiale e la guerra del microchip.

Approfondimenti



Ospitati dall’Eirenefest abbiamo potuto raccogliere alcune idee sul traffico d’armi e su questo dossier in preparazione con Emanuele Giordana e Alessandro De Pascale: ne è scaturito un intenso racconto di alcune delle motivazioni che ci hanno spinto a raccogliere questi dati che gradualmente pubblichiamo lungo tutto questo anno fatale, mentre i nostri amici di “Atlante delle Guerre” hanno fornito analisi e dati provenienti dalle loro inchieste

GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

Giugno

30 giugno

    • F-35: un intero squadrone greco entro il decennio. Come se si sentisse il bisogno… oppure no? “Formiche.net” ne dà notizia attribuendo a Kyriakos Mitsotakis la richiesta di 20 caccia della quinta generazione Lockheed, a cui si potrebbe aggiungere una seconda opzione su un numero imprecisato di jet in seguito – sempre che esista ancora il Mediterraneo orientale dopo il 2030.L’anno scorso Atene ha ordinato dalla Francia 24 jet Dassault Rafale, per due miliardi e mezzo di euro, e tre fregate per la sua Marina militare, con un’opzione per una quarta fregata, per circa tre miliardi di euro. Il ministero della Difesa greco ha inoltre dichiarato la propria volontà di procedere all’aggiornamento dei suoi 38 caccia F-16: forse che il quadrante orientale del Mediterraneo è interessato a qualche sconquasso bellico prossimo venturo e i greci rispolverano il baluardo orientalista attraverso l’adesione al programma Joint strike fighter per la loro Polemikí aeroporía? Quali informazioni di intelligence allarmano le autorità elleniche? Quanto è semplice precauzione rispetto alla potenziale ambizione di Erdoğan e quanto è invece una prospettiva probabile di scontro tra potenze del quadrante che si stanno schierando attraverso serie di apparentamenti, accordi, scambi commerciali e interazioni militari (agganciandosi a una fazione, immaginando ribaltamenti indotti dagli inneschi bellici sparsi nel mondo).“Kathimerini” ritiene che l’acquisto degli F-35 «rafforzerebbe le capacità di difesa della Grecia e approfondirebbe l’interoperabilità tra Stati Uniti e Grecia nell’ambito della NATO, garantendo la stabilità regionale», ha dichiarato in un tweet l’ambasciatore statunitense in Grecia George Tsunis, a seguito di un incontro avvenuto la scorsa settimana tra Panagiotopoulos e i funzionari del Joint Strike Fighter Program Office, a cui Tsunis ha partecipato.Le autorità turche accusano secondo “Defensepost” la Grecia di stazionare truppe sulle isole dell’Egeo in violazione dei trattati di pace seguiti alla prima e alla seconda guerra mondiale.
      Atene ribatte che le truppe sono stanziate in risposta alla presenza di unità militari, aerei e mezzi da sbarco turchi sulla costa opposta [prove tecniche di belligeranza]

I caccia F35 Lightning II - Lockheed-Martin

25 giugno

        • DefenseNews” informa del fatto che Putin ha dichiarato che la Russia fornirà missili Iskander-M a capacità nucleare alla Bielorussia e modificherà i jet da combattimento del paese per consentire loro di trasportare armi atomiche tattiche. Evidente la prospettiva di un prossimo maggiore coinvolgimento di Minsk nei conflitti di Mosca.
          La decisione è stata presa unilateralmente dal Cremlino e comunicata da Putin il 25 giugno dopo un incontro con Lukashenka.
        • traffico di armi
        • Durante lo stesso incontro, il presidente bielorusso ha chiesto al premier russo di aggiornare i caccia Sukhoi Su-25 a sua disposizione per consentire il trasporto di armi nucleari, sostenendo che questo consentirebbe alle forze aeree bielorusse di monitorare le esercitazioni della Nato che si esercitano a trasportare testate e armi nucleari.
          Sottolineando – come riporta una nota dell’Agi – che nei magazzini di 6 stati europei sono stivate 200 armi nucleari tattiche con 257 aerei pronti ad armarsene, Putin ha ribadito che i jet da combattimento bielorussi potrebbero essere dotati di equipaggiamenti supplementari presso gli stabilimenti aeronautici russi e che le forze armate russe potrebbero fornire addestramento ai loro piloti.
      • I missili Iskander-M sono una variante del sistema balistico mobile a corto raggio utilizzato dalle forze armate russe in Ucraina con una “misteriosa” peculiarità tradotta da “Fanpage” e ripresa dal “New York Times” che cita fonti dell’intelligence statunitense: oltre ad effettuare manovre evasive nella fase terminale del volo, sarebbero in grado di rilasciare dispositivi di 30 centimetri (9B899) in grado di eludere i sistemi radar e antimissilistici, simili alle esche anti-radar della Guerra Fredda.

      • Ogni dispositivo produrrebbe «segnali radio in grado di confondere i radar che tentano di localizzare l’Iskander-M e conterrebbero una fonte di calore in grado di attirare i missili in arrivo».



20 giugno

        • Bacini di carenaggio e basi per la marina militare; con la nuova corsa al riarmo si stanno moltiplicando i cantieri navali, qui un paio di esempi nel quadrante indopacifico.il 20 giugno stripes.com riprende un annuncio di Austal Usa di un contratto da 128 milioni di dollari per il bacino di carenaggio galleggiante ausiliario (AFDM) della Marina degli Stati Uniti per vascelli snelli, che sarà costruito a Mobile, Alabama.
          L’AFDM ha una capacità di sollevamento di 18.000 tonnellate e un’area di lavoro libera sul ponte di 90.800 piedi quadrati.
        • traffico di armi
          Notizia significativa per portare un nuovo tassello alla costruzione del mosaico che descrive la stretta collaborazione militare tra Usa e Australia, soprattutto se si accede al sito di Austal e la descrizione che l’azienda di Perth dà di se stessa:«Austal da oltre 30 anni è un costruttore navale globale, capocommessa nel settore della difesa e partner di riferimento per le tecnologie marittime; progetta, costruisce e supporta navi rivoluzionarie per la difesa e il commercio per i principali operatori mondiali.
          Austal progetta e costruisce più di 300 navi per oltre 100 operatori in 54 paesi in cantieri navali sicuri e moderni situati in Australia, negli Stati Uniti d’America e nelle Filippine».
        • Questa commessa va ad aggiungersi all’acquisto – di cui accenna Rusty Murdaugh – per 145 milioni da parte della US Navy di due vascelli di classe T-ATS (Towing, Salvage, and Rescue Ship) in costruzione da Austal nel nuovo stabilimento all’avanguardia di produzione di navi in acciaio inaugurato in aprile.

      • Nello stesso ambito e nell’altro campo va registrata la consueta guerra satellitare volta a dimostrare come i sospetti sulla costruzione da parte cinese di una base navale a Ream in Cambogia siano fondati. Come sottolinea “Formiche.net” sarebbe il secondo avamposto di Pechino dopo la imponente presenza a Gibuti, nodi di una rete destinata ad ampliarsi. Significativi entrambi i chokepoint: uno all’imbocco del Mar Rosso e l’altro nei pressi dello stretto di Malacca, gli snodi più critici sui percorsi delle navi di Cosco, come scriveva “Nikkei Asia” il 13 maggio scorso.

      • Il governo di Phnom Penn ha subito smentito  le indiscrezioni che il “Wahington Post” aveva pubblicato il 6 giugno, sottolineando la folta presenza di personale cinese senza divisa dell’esercito popolare cinese e metteva in relazione anche l’interesse per le isole Salomone: tutto inquadrabile in un intento di ampliare la propria influenza regionale.
        Ma il Pla non sarebbe il fruitore finale della base militare che la Cina finanzia e costruisce.Infatti il “South China Morning Post” scrive che la Cina può anche contribuire al potenziamento della più grande base navale della Cambogia, ma questo non significa che le navi da guerra e le forze dell’Esercito Popolare di Liberazione vi saranno sistemate di routine, riprendendo le parole dell’ambasciatore cinese Wang Wentian: «Il progetto della base navale di Ream non è rivolto a terzi», sottolineando la ferma opposizione di Pechino ai tentativi di alcuni paesi di infangare i normali scambi con Phnom Penh. «Il progetto è un simbolo di rispetto reciproco e di comunicazione paritaria tra la Cina e la Cambogia», ha dichiarato Wang l’8 giugno durante la cerimonia di inaugurazione della base.
  • Anche questi sono traffici di dispositivi bellici, non solo le consuete armi fornite dalla industria bellica.





18 giugno

        • Fincantieri Marinette Marine, consociata americana della produttrice di navi da guerra di stato italiana, ha annunciato la costruzione della terza fregata lanciamissili della classe Constellation, la Chesapeake (FFG-64), per un valore di 536 milioni di dollari. L’AgenziaNova descrive nei particolari il programma “Constellation”: è stato assegnato nel 2020 a Fmm, con un contratto per la prima fregata con l’opzione per 9 ulteriori navi, oltre al supporto postvendita e l’addestramento degli equipaggi, del valore complessivo di circa 5,5 miliardi di dollari. Nell’ambito del programma, la US Navy prevede la costruzione di ulteriori 10 unità, per un totale di 20.Il contratto è tanto succulento che Fincantieri ha aggiornato appositamente i suoi cantieri – negli Usa, assicurando così occupazione alle maestranze oltreoceano (Fincantieri Bay Shipbuilding e Fincantieri Ace Marine, siti nel Winsconsin), per quanto dovunque siano solo braccia al soldo dei guerrafondai – per arrivare a costruire 2 fregate all’anno, dimostrando così l’imminenza della necessità di potersi avvalere di questi strumenti per una guerra alle viste.

          Esaltato il sito guerrafondaio “aresdifesa”: L’USS Chesapeake (FFG-64), terza unità dopo l’USS Constellation (FFG-62) e l’USS Congress (FFG-63), raggiungerà una velocità massima di 26 nodi e 6000 miglia nautiche di autonomia a 16 nodi.
          L’armamento della classe Constellation sarà costituito da un cannone BAE/Bofors Mk 110 da 57 mm, un sistema VLS Mk 41 a 32 celle per missili RIM-66 Standard SM2 Block IIIC, RIM-162 ESSM Block 2 e/o RIM-174 Standard ERAM, 16 lanciatori per missili antinave (Naval Strike Missile) e un sistema RIM-116 RAM a 21 celle per la difesa di punto ravvicinata. Inoltre, è prevista la predisposizione per un’arma laser fino a 150 kW di potenza.
          La dotazione elettronica sarà composta da un sistema di gestione del combattimento del tipo AEGIS Baseline 10 compatibile con il radar AN/SPY-6(V)3 Enterprise Air Surveillance Radar (EASR), un radar AN/SPS-73(V)18 di ricerca di superficie di nuova generazione, un sonar leggero trainato AN/SLQ-61, un sonar a profondità variabile AN/SQS-62 ed un sistema AN / SQQ-89F per la lotta antisommergibile, oltre la suite di guerra elettronica AN/SLQ-32(V)6 Block 2 e sistemi Mk 53 per il lancio di inganni Nulka.
          Le unità del tipo Constellation avranno a disposizione hangar e ponte di volo per un elicottero multiruolo MH-60R Seahawk e un UAS rotorcraft MQ-8C Firescout.

          Fmm è impegnata anche nei programmi Littoral Combat Ships (che vede pure Lockheed-Martin impegnata), sempre per la US Navy, e nel suo derivato sempre con Lockheed per i sauditi, la Multi-Mission Surface Combatants (Mmsc), nell’ambito del piano Foreign Military Sales degli Stati Uniti, il più imponente programma di trasferimento di armi e tecnologie belliche

17 giugno

Pressenza” ha segnalato in concomitanza con la fiera Eurosatory il numero di Alternatives Non-Violentes volto a ricordare che «le armi non sono merci come tutte le altre. Non sono beni di consumo, ma beni di distruzione. Vendere armi non è altro che esportare la guerra e aumentare la minaccia di guerra ai quattro angoli del pianeta. Significa alimentare, indefinitamente, i conflitti regionali con armi sempre più sofisticate, a scapito dei bisogni reali delle popolazioni che sono le prime vittime di queste esportazioni di armi».

Eurosatory 2022 chiude e dà appuntamento per il 2024. Non ha avuto la medesima visibilità di altre fiere, come per esempio Farnborough.
Si possono però individuare 3 ambiti precipui in cui la fiera parigina funge da levatrice a proposte letalmente rivoluzionarie in tre campi, dichiarati nel video promozionale della rassegna francese:

  1. il primo è il dominio della connettività c4sr
  2. il secondo quello dei sistemi per veicoli
  3. e poi le soluzioni per le armi intelligenti

Dei tre dominii quello che sembra al centro dell’attenzione di una guerra europea improntata ancora agli stilemi novecentisti è quello legato ai veicoli sul terreno, a giudicare dalle molte vendite e acquisizioni di carri armati denunciate nei giorni successivi; ciò nondimeno le attrezzature fondamentali sono quelle che consentono la trasmissione, meno appariscenti, ma le radio sono in grado di dare quelle informazioni per gli attacchi mirati che fanno la differenza. Ma è soprattutto il sistema della Collins Aerospace a costituire la curiosità degli addetti per gli ausili degli smartweapon: questo sistema è stato presentato per la prima volta all’Eurosatory  2022 a evidenziare una soluzione che è un’integrazione che può andarsi a coordinare con parecchie costellazioni, principalmente Leonardo allo scopo di condurre le munizioni tattiche, strategiche e Uavs sull’obiettivo. Di nuovo un sistema di navigazione compatibile con il codice M per veicoli militari terrestri, il primo disponibile in Europa: il NavHub™-200M.

NavHub-200M offre capacità di posizionamento, navigazione e temporizzazione assicurati (Apnt), migliorando al contempo la resistenza complessiva alle minacce esistenti ed emergenti ai sistemi di posizionamento globale (Gps), come il jamming e lo spoofing; include anche gli standard di interfaccia aperti e le capacità di fusione dei sensori necessarie per un percorso di aggiornamento del sistema globale di navigazione satellitare (Gnss), come quello per la costellazione europea Galileo, nonché l’interfacciamento con i principali sensori del veicolo, come l’unità di misura inerziale (Imu)

    1. Dunque si è trattato di una fiera con ogni evidenza incentrata su apparati che operano a terra, eurocentrica e con uno sguardo verso l’Ucraina.

La presenza della Francia, padrona di casa

Ancora su “Pressenza” si legge: «La Francia vende armi all’Arabia Saudita, all’Egitto, all’India, al Qatar, al Brasile e agli Emirati Arabi Uniti, paesi “dalla dubbia fama in fatto di violazioni dei diritti umani”, afferma Alice Privey, ricercatrice dell’associazione Stop Fuelling War. Apprendiamo dal suo articolo che le esportazioni di armi francesi hanno fatto un balzo del 59% dal 2012. Ci ricorda i processi di autorizzazione per la vendita di armi all’estero, sottolineando la mancanza di trasparenza e l’assenza di controllo del parlamento. Ufficialmente, l’esportazione di armi e materiale bellico è proibita in Francia… Per essere autorizzate, queste vendite devono passare attraverso il filtro di una commissione chiamata Cieemg (Commissione interministeriale per lo studio delle esportazioni di materiali bellici), composta da diversi rappresentanti dei ministeri e dell’ufficio del primo ministro. Né il parlamento né la società civile hanno accesso alle informazioni e alle decisioni di questa commissione».

La presenza dell’Italia, produttrice ed esportatrice di primo piano

AreaDifesa” ha prodotto una velina in cui è palese che le «40 realtà imprenditoriali italiane, tra le quali Fincantieri, Leonardo, Elettronica, Mbda, Iveco Defence Vehicles, Intermarine, Gem Elettronica, Rina, Polo Marconi, Beretta ed altri nonché la Federazione delle Aziende Italiane Aerospazio, Difesa e Sicurezza (Aiad)» hanno potuto avvalersi degli spazi organizzata all’Eurosatory dal governo, infatti: «Per l’Italia, le istituzioni nazionali sono rappresentate dal Sottosegretario alla Difesa, Senatore Stefania Pucciarelli, dall’Ambasciatore italiana a Parigi, Teresa Castaldo, e da una delegazione del Segretariato Generale della Difesa e Direzione Nazionale degli Armamenti, presieduta dal Generale di Divisione Rodolfo Sganga, Capo del III Reparto».

16 giugno

        • Scatenando il conflitto nell’Europa orientale si è ovviamente dato luogo a innumerevoli profitti derivanti dalla quantità di armi che senza criterio l’Occidente etichettato come liberal-democratico ha riversato, originando traffici illeciti e incontrollabili anche per le mafie di quell’area geografica. Tra le innumerevoli filiere “Left” denuncia la consegna di munizioni al torio e all’uranio impoverito provenienti da Francia – alla luce del sole – e dall’Italia, nel segreto del Copasir a guida fascista di D’Urso, per nulla all’opposizione di un governo che ha nel suo primo ministro (senza mandato elettorale, ma indicato dal presidente della repubblica rieletto) il massimo sostenitore dell’impegno bellico… e dell’approvvigionamento di armi.

        • L’abnorme quantità di armi che circola in Ucraina sta già diventando oggetto di un traffico criminale e mafioso: il mercato globalizzato dei proiettili radioattivi. Tra le armi partite dagli arsenali di parecchi paesi della Nato verso l’Ucraina (e che potremmo ritrovarci nelle nostre strade) ci sono anche i missili anticarro portatili Milan, di produzione franco-tedesca.

          I vecchi modelli di questi missili, oggetto dei trasferimenti in questione, hanno un sistema di puntamento che contiene e rilascia torio, un metallo pesante altamente radioattivo, come si sono accorti i militari esposti all’uranio impoverito della dimenticata guerra balcanica, che ha coinvolto nell’oblio anche le loro morti, e anche i sardi che vivevano nei pressi dei poligoni di Capo Teulada e Quirra, per le conseguenze devastanti dei tiri sono stati mandati a processo diversi generali, uno dei quali (Claudio Graziano) per questo è stato ad aprile promosso da Draghi alla guida di Fincantieri, industria di morte all’avanguardia in Italia.


14 giugno

        • Eurosatory 2022, risposta parigina al World Defense Show svoltosi a Riyad dal 6 al 9 marzo, si manifesta come la fiera in cui si possono ammirare i sistemi creati in contrapposizione delle potenziali nocività provenienti da quei marchingegni che hanno avuto enorme successo nei teatri di guerra ultimamente. (i droni) e che più si sono esibiti nelle altre fiere di ordigni
          In occasione di Eurosatory Leonardo presenta per la prima volta il nuovo radar multi-missione di ridotte dimensioni e pesi per impiego tattico denominato TMMR (Tactical Multi Mission Radar). Infatti TMMR è un sensore multidominio, una soluzione valida in molti scenari, come il radar israeliano DaiR, presentato nella medesima kermesse francese. “ReportDifesa” esplicita meglio l’utilizzo dell’antenna AESA e della camera elettro-ottica NERIO: soluzioni efficaci antidrone e che richiedono mobilità e rapidità di dispiegamento, ma anche per la difesa aerea a corto raggio, per la sorveglianza e protezione di piattaforme e veicoli, confini, territori e infrastrutture critiche


        • Nel linguaggio criptico degli addetti ai lavori “AnalisiDifesa” spiega con tecnicismi di cosa si tratta:  una soluzione ‘all-in-one’ costituita da un radar completamente digitale (fully digital) e ‘software defined’ in banda ‘C’ con antenna, processing ed elettronica in un solo modulo o pannello dalle ridotte dimensioni, pesi e consumi che, sfruttando le più avanzate tecnologie del settore e concezione modulare può essere impiegato come singolo modulo o diversi insieme per assicurare una completa copertura del mezzo o sito da proteggere. TMMR presenta la microelettronica applicata di ultima generazione, un’architettura d’antenna a scansione elettronica attiva (AESA, Active Electronically Scanned Array) completamente digitale con campionamento del segnale direttamente all’antenna che utilizza la tecnologia dei moduli trasmettitori-ricevitori di ultima generazione al Nitruro di Gallio (GaN, Gallium Nitride).

          Un aspetto interessante e che può gettare una nuova luce sui motivi per cui certi paesi (Kazakhstan e Ucraina) siano oggetto di attenzioni maggiori di altri (Armenia) è che i principali paesi produttori di gallio sono la Repubblica Popolare Cinese, la Germania, il Kazakistan e l’Ucraina, per il riciclaggio del gallio anche Stati Uniti, Giappone e Regno Unito.

        • Tra i radar Leonardo presenta anche il Kronos nelle versioni fissa e mobile, punto di riferimento per la sorveglianza e difesa aerea, con circa 50 unità attualmente in servizio nel mondo. Il Kronos Land è più piccolo e viene gestito da un sistema di Comando e Controllo dentro uno shelter. Può arrivare fino a 16 metri. L’altro è il Kronos Mobile Hp è più avanzato dal punto di vista tecnologico in quanto il radar ha una tecnologia GaN.

9 giugno

        • Mentre molti giustamente riprendono dal “Fatto Quotidiano” l’infamante notizia che «L’Italia diserta il meeting mondiale sull’abolizione delle armi atomiche. E riceve il primo F35 che sgancia le nuove bombe nucleari B61-12» e che di bombe nucleari B-61 gli Usa ne hanno circa 150 stanziate in 5 nazioni Nato, oltre a quelle a disposizione di Francia, GB, Usa in grado di portare attacchi nucleari a lunga gittata; “heritage” informa che la Russia ha un vantaggio di 10 a 1 sulle forze nucleari occidentali nell’ambito dei missili non strategici nucleari (NSNWs). Nel contempo di questa dimostrazione muscolare che cancellerebbe intere aree geografiche, “Defensehere” informa che l’aeronautica militare statunitense ha assegnato a Lockheed Martin, Northrop Grumman e L3Harris Technologies 2 milioni di dollari a testa per  la progettazione di una nuova arma da installare sugli F-35 in grado di distruggere i sistemi antiaerei (area denial), come lanciatori di missili balistici o da crociera, jammer di segnali satellitari, armi anti-satellite (Asat) e in generale i sistemi integrati di difesa aerea e impedire al nemico di garantirsi delle zone aeree sicure (“Formiche.net”). E questo è semplicemente prepararsi al confronto tradizionale con russi e cinesi, adoperando quegli stessi velivoli, centrali in ogni transazione (che sempre sanciscono l’alleanza stretta con gli Usa: l’oggetto del patto col diavolo) e che l’Italia sta acquistando nella loro quinta generazione per allestirli anche con quelle armi nucleari di cui parla “Il Fatto Quotidiano”. Ma un classico esempio di come si approntino armi micidiali è l’altro approccio dell’F-35, che si troverebbe a utilizzare la nuova arma Siaw solo dopo aver penetrato lo spazio aereo nemico ed essersi avvicinato all’obiettivo, sfruttando le capacità stealth proprie del caccia della Lockheed, andando a colpire quei mezzi semoventi dotati di molteplici testate lanciamissili, tipicamente da crociera e da offesa e che quindi richiamano l’impegno della ricerca per annientarli, innescando un ingaggio che si avvale di mezzi costruiti apposta per contrastare le ricerche messe in campo per costruire i mezzi di difesa a ordigni a loro volta da offesa: la spirale perfetta per la corsa al riarmo.

          Il progetto dell’Usaf era in realtà in cantiere già da tempo, ed è supportato dalle previsioni di bilancio per l’anno fiscale per il 2023 che ha stanziato, come richiesto dal Pentagono, 78 milioni di dollari per l’acquisizione di 42 sistemi d’arma; un nuovo segnale di come si stia modificando l’industria bellica, da specializzata in lotta al terrorismo in una industria in grado di fornire mezzi da adottare contro avversari considerati “near-peer” come Russia e, soprattutto, Cina

          .

9 giugno

        • Cominciano a configurarsi i contorni di una Nato meridionale: il Patto di Baghdad – che però tiene fuori proprio l’Iraq – sancisce il vecchio sogno statunitense come spiega bene “Anbamed”: «Tutto nel nome del contrasto ad eventuale lancio di missili dall’Iran», dove il paese dei turbanti svolge il ruolo di spauracchio scatenante che per la Nato storica è stato interpretato da Mosca. La cooperazione militare antimissilistica è già in atto da mesi, – i prodromi sono negli accordi di Abraham – ed è stata utile per il preavviso del lancio di un drone iraniano contro Israele che è stato intercettato e abbattuto nei cieli dell’Iraq. I radar sofisticati saranno installati negli Emirati, Bahrein e in altri paesi che non hanno ancora relazioni diplomatiche con Tel Aviv.
          Sbrigativo “Tellereport” annuncia uno dei primi prodotti di questi accordi arabo-israeliani: «Il primo ministro israeliano ha concluso una breve visita negli Emirati Arabi Uniti, durante la quale ha incontrato il presidente Mohammed bin Zayed. L’Iran è stato uno dei dossier discussi dalle due parti, mentre i media israeliani hanno riferito che Tel Aviv ha dispiegato un sistema radar nei paesi del Golfo». Si tratta del sistema ELM 2084 MMR, prodotto dall’azienda israeliana ELTA, che è parte del sistema di difesa missilistica David’s Sling.


Il tema è ovviamente legato alla questione del nucleare iraniano, ma soprattutto risponde alle richieste americane di creare un fronte antiraniano delle forze mediorientali, nascondendolo dietro la foglia di fico della «cooperazione bilaterale, soprattutto per quanto riguarda gli investimenti e gli aspetti economici, la sicurezza alimentare e la salute». Il dato però proviene dai dati di navigazione che hanno rivelato 5 voli cargo di due aerei “Ilyushin” di proprietà della “Fly Sky Airlines” tra gli Emirati e Israele.

L’israeliano “Channel 12” ha rivelato che l’esercito israeliano ha dispiegato un sistema radar in diversi paesi mediorientali, tra cui gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, nell’ambito di una visione di cooperazione. Il canale ha sottolineato che questo sistema è riuscito a fornire un preavviso alcuni mesi fa, quando l’Iran ha lanciato droni con trappole esplosive verso Israele, che sono stati abbattuti nello spazio aereo iracheno.

In questo contesto, il “Wall Street Journal” ha riferito che i legislatori statunitensi dei partiti democratico e repubblicano hanno presentato al Congresso una proposta di legge che prevede che il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti (Pentagono) collabori con Israele e alcuni paesi arabi per integrare le difese al fine di contrastare quelle che ha descritto come minacce iraniane.

  • Il produttore israeliano di armi Elbit Systems il 12 giugno ha inoltre presentato all’Eurosatory parigino il suo nuovo radar tattico che si avvale di intelligenza artificiale, algoritmi sofisticati e centinaia di ricevitori digitali. DaiR è in grado di tracciare migliaia di bersagli di diverse dimensioni e a diverse velocità a chilometri di distanza.

6 giugno

        • La guerra dei droni prosegue nella preparazione al confronto bellico esteso. La parte del leone è svolta da Ankara che li vende anche ai finlandesi ai quali sta minacciando di impedire l’ingresso nella Nato – si configura come estorsione –, ma oltre all’uso spregiudicato di velivoli senza pilota a basso costo per legittimare una politica aggressiva e “comprare” il silenzio riguardo al piegare a proprio vantaggio, sterminando i curdi siriani, una guerra mediatica che serve da preludio ad altre correlate anche – per ora – dalla tipologia di arma, poiché si immagina che pure in altri teatri di guerra si seguirà lo stesso canovaccio per evitare di usare quelle letali, limitandosi a massacri ristretti alle aree volta per volta interessate.
          Notando l’efficacia della flotta di droni dell’Ucraina nel contrastare l’invasione russa, il presidente taiwanese Tsai Ing-wen ha chiesto un più rapido sviluppo degli UAV sia civili che militari. Le tensioni sono in aumento perché negli ultimi mesi l’esercito di liberazione popolare cinese ha intensificato le esercitazioni militari nella regione e si sono registrate numerose sortite di jet da combattimento nella zona di difesa aerea di Taiwan.Il “South China Morning Post” ci informa che l’esercito taiwanese riceverà la prima serie di droni a corto raggio di produzione locale. Il National Chung-Shan Institute of Science and Technology, il principale produttore di armi di Taiwan, dovrebbe consegnare 14 set di veicoli aerei tattici a corto raggio senza equipaggio (UAV) nel corso dell’anno, secondo un rapporto di revisione del bilancio del ministero della Difesa recentemente inviato al legislatore. I restanti 36 sets arriveranno l’anno prossimo, consentendo la formazione di divisioni di droni per aumentare la capacità di ricognizione e di risposta in battaglia. Ogni battaglione sarà dotato di un reparto UAV di quattro persone e l’Istituto Chung-Shan sarà incaricato di contribuire alla formazione degli operatori di droni per questo ruolo.
          Il governo ha indicato un budget di 779,9 milioni di dollari taiwanesi (26,5 milioni di dollari) per l’acquisto di 50 set di droni per i suoi 23 battaglioni di armi combinate. La consegna prevista arriva mentre le forze armate taiwanesi cercano di aumentare le capacità di ricognizione e di risposta alle battaglie di fronte alle crescenti minacce di Pechino. Gli esperti di Taiwan e degli Stati Uniti, il principale fornitore di armi dell’isola, sostengono che gli UAV armati – la cui tecnologia proviene probabilmente da scambi tra le due industrie belliche – potrebbero rivelarsi efficaci nel respingere un attacco dalla Cina continentale. Ed è un piano che procede dal giugno 2019 con una previsione di spesa denunciata da “Taiwan News” di 2 miliardi e mezzo di dollari in 5 anni
        • traffico di armi

          Teng Yun 2 Cloudrider

        • La collaborazione è evidente se si pensa che Il 17 maggio l’Istituto Chung-Shan ha anche testato le capacità di volo a medio e lungo raggio del drone Teng Yun 2 (Cloudrider), in grado di essere utilizzato sia in modalità di sorveglianza che di attacco e dovrà unirsi agli MQ-9B Sea Guardian di produzione statunitense per formare una forza di combattimento a più lungo raggio. Gli Stati Uniti hanno approvato la vendita a Taiwan di quattro droni armati MQ-9B e delle relative attrezzature per un valore di 600 milioni di dollari nel novembre 2020. E infatti il Teng Yun assomiglia al drone statunitense MQ-1 Predator e può utilizzare gli stessi missili AGM-114 Hellfire da esso impiegati..




6 giugno

          • Nel momento in cui Boris Johnson affrontava il giudizio della House of Commons, i media britannici più autorevoli (Bbc e “The Guardian”) diffondevano la notizia che Londra era in procinto di inviare inizialmente 3 sistemi di rampe missilistiche multilancio di ultima generazione di produzione statunitense M270 a Kiyv, complete di corso di addestramento per le truppe ucraine; evidentemente la guerra serve anche per difendersi da tracolli interni, assumendo il ruolo del Comander in Chief.Sembra che nel gioco delle parti si alzi a turno il livello di provocazione per innescare una “escalation controllata” per arrivare a una guerra semifredda di lunga durata con focolai di battaglie aspre volte a ridisegnare le sfere di influenza e a misurare il reale peso specifico delle singole potenze: infatti questa è una consegna che fa seguito a quella già effettuata dagli Usa la scorsa settimana del proprio sistema di artiglieria a razzo ad alta mobilità (HIMARS) M142 (gli stessi per i quali l’Australia ha ottenuto dal Dipartimento di stato americano il permesso alla vendita il 7 giugno secondo “19fortyfive”, che adduce le stesse spiegazioni valide per l’integrazione di questi lanciarazzi tra le forniture dell’esercito ucraino) ha già irritato Mosca e domenica il presidente russo Vladimir Putin ha minacciato dalla Tv di stato di ampliare l’elenco degli obiettivi che la Russia attaccherà in Ucraina in risposta a questi approvvigionamenti.

      • Il sistema di razzi a lancio multiplo può sparare 12 missili terra-superficie in un minuto e può colpire bersagli nel raggio di 80 km con precisione millimetrica, molto più lontano dell’artiglieria attualmente in possesso dell’Ucraina.
        Secondo il sito di notizie americano “Politico”, l’amministrazione Biden stava ritardando il trasferimento dell’artiglieria missilistica all’Ucraina, temendo che potesse essere utilizzata per lanciare attacchi all’interno della Russia e questo interpretato dal Cremlino come una “escalation”. Questo porterebbe presumibilmente all’espansione o al prolungamento della guerra o «al ricorso da parte della Russia all’uso di armi chimiche o di altre armi di distruzione di massa». Ma con giugno ogni remora è caduta, come dopo l’affondamento della Moskva il 12 aprile l’ipotesi di prevalere sull’esercito russo può aver convinto il Pentagono a estendere il conflitto: infatti il 14 aprile alla Casa Bianca le industrie belliche coinvolte sono anche quelle che producono missili a lungo raggio, non solo quelli di una guerra localmente ristretta.

2 giugno

        • Scacchiere indopacifico, caldissimo: cantieri navali Jaingan. Immagini satellitari scattate da Planet Labs il 31 maggio e confrontate da “Center for Strategic & International Studies” dimostrano che la nuova ammiraglia (320 x 78 metri) della marina cinese è pronta al varo, nonostante i ritardi dovuti al lockdown da pandemia che ha coinvolto anche l’area di Shangai (“Scmp”, 17 aprile).
          traffico di armi

Le indicazioni per le operazioni di attracco sullo Yangtze segnalano che il 31 maggio la foce doveva essere liberata per il transito della terza portaerei in dotazione all’Esercito polare di classe Type 003 dotata nella descrizione di “InsideOver” del sistema Catobar (Catapult Assisted Take Off Barrier Arrested Recovery) costituito da 3 catapulte Emals per aerei di tipo elettromagnetico – non nucleare come le omologhe statunitensi; le due precedenti portaerei sono la Shandong (varata nel 2017) e la Liaoning (2016). In prospettiva si legge su “InsideOver” che la marina cinese – già più numerosa come unità navali – ha nei piani di sviluppo la prossima presenza di due unità a propulsione nucleare Type004.

  • Il varo è avvenuto due settimane dopo, come da questo video attestato.

1° giugno

        • Il traffico di elicotteri sembra aver avuto un exploit negli ultimi tempi: riguardo ai Chinook “AgenziaNova” riporta una doppia notizia: il Regno Unito ritarda l’acquisto da Boeing di 14 elicotteri CH-47 Chinook per risparmiare e la polemica minacciosa è che costerà ai contribuenti 300 milioni di sterline (circa 352,6 milioni di euro) perché in seguito saranno più costosi. Proprio come nelle fiere quando si lascia velatamente intuire che i prezzi lieviteranno e di cogliere le offerte speciali, solo che in questo caso si tratta dell’ufficialità proveniente da un rapporto del National Audit Office, secondo cui il ministero della Difesa starebbe peccando di “compiacimento” nella gestione del bilancio.
        • traffico di armi

          Forse per questo motivo la Bundeswehr si è fatta attirare ad acquistare 60 CH-47 al prezzo di 5 dei 100 miliardi dello stanziamento speciale del nuovo governo a guida Spd, come anticipato da “Frankfurter Allgemeine Zeitung“. Questi elicotteri sostituiranno i CH-53 che, prodotti dall’azienda aerospaziale statunitense Sikorsky (ora Lockheed), sono in servizio nella Bundeswehr dal 1972. Alle forze aeree sonbo destinati 40,9 miliardi di euro dei 100 stanziati per la guerra tedesca. Questo include l’acquisto dell’aereo americano F-35 come successore del Tornado, nonché lo sviluppo e l’acquisizione dell’Eurofighter ECR.

        • Gli elicotteri sono considerati cavalli di battaglia per il trasporto aereo rapido di veicoli, materiale e soldati e sono importanti per la difesa nazionale e dell’alleanza, ma anche per le missioni all’estero. Il CH nella denominazione del modello sta per “elicottero da carico”. Il CH-47 è facilmente riconoscibile per la sua caratteristica forma a banana e due rotori principali.


GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

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]]> LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A MAGGIO https://ogzero.org/studium/7813/ Fri, 03 Jun 2022 19:29:08 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7813 L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A MAGGIO proviene da OGzero.

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Rimangono 8 secondi per non sbagliare

I famosi Javelin americani in dotazione degli ucraini stanno scarseggiando, i baraktyar tb2 turchi vengono usati da tutti i coinvolti anche in campi avversi, la logistica ha ricevuto anche un’impennata di richieste come dimostrano le tante notizie relative a compravendite di elicotteri (soprattutto da trasporto truppe, come quelli per il posizionamento dei militari che hanno incrementato gli ordini per mezzi d’assalto e di sbarco)

L’occasione ghiotta di una vera guerra, con morti e coinvolgimento di civili e distruzione reale di armamenti e scambi di tecnologie e know-how tra nazioni oltre a aumentare fortemente la richiesta di costruzione e vendita di armi, ha dato una spinta ai più avanzati laboratori scientifici: abbiamo documentato in maggio anche e soprattutto l’avanzamento della ricerca applicata in particolare ai velivoli ipersonici. Che vede contrapposti gli scienziati delle due superpotenze nella costruzione dei missili che superano il muro del suono 5 volte, ma ora spunta la notizia che – come sempre nella corsa agli armamenti –, ottenuto il risultato di spingere un propulsore al punto di portare un qualsiasi ordigno da una parte all’altra del mondo in meno di un’ora, si è ricercato da parte degli scienziati del Air Force Early Warning Academy l’antidoto nella possibilità di stimare la traiettoria di un missile ipersonico a planata mentre si dirige verso un bersaglio a una velocità superiore a cinque volte quella del suono, sviluppando una tecnologia di intelligenza artificiale in grado di avviare una risposta di contrasto con un anticipo di tre minuti. Rimangono 8 secondi per non sbagliare l’intercettazione.

Neutralismo: Giappone, Svezia, Finlandia… Svizzera! Abbandonano il proverbiale neutralismo, sancendo un coinvolgimento di parte che solo la volontà di nascondersi dietro l’ipocrisia di facciata aveva salvaguardato finora e che la guerra dichiarata ha frantumato: vero cambio epocale dal 24 febbraio. Puramente mediatico, perché lo sbandierato neutralismo era solo una facciata che salvaguardava l’immagine di un mondo congelato in uno specchio ormai in frantumi da tempo e i cui frammenti non sono più in grado di restituire una visione unica per quanto multilaterale. La consapevolezza di questa quinta scenica che si dissolve ha mostrato le strategie belliche che erano in atto consentendo ai protagonisti di cercare alleanze stipulate anche attraverso l’adozione di armi di produzione nazionale che possono agevolare scelte di campo nella grande campagna acquisti in atto sullo scacchiere internazionale. Si vedano in particolare gli arcipelaghi del Pacifico meridionale o le manovre intorno all’Artico e l’estensione dell’ombrello Nato agli Scandinavi e le industrie militari coinvolte dalla Casa Bianca il 14 aprile: una riunione che prelude a guerre di più vasta portata, se richiedono i servigi di costruttori di testate a medio e lungo raggio.
E ogni protagonista recita un ruolo, corrispondente alle caratteristiche e alle ambizioni di ognuno ma uguale per tutti rispetto al carattere che sostiene ciascuno dei potenti mossi al riarmo: la hybris.

90 %

Avanzamento



Monica Quirico ci ha aiutato nella puntata di Transatlantica24 di maggio per fare il punto sul presunto neutralismo ormai sfumato nei bastioni scandinavi del non allineamento.

GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

Maggio

29 maggio

        • Mettendo in gioco notizie diverse provenienti da fonti diverse si possono ricostruire scambi e giri di soldi e traffici tra singoli stati che vedono nella guerra in Ucraina un’opportunità di rammodernamento delle risorse militari e finanziamenti. Questo è il caso della Polonia dell’accoglienza esclusiva per migranti bianchi, in cambio per esempio di 18 obici semoventi Krab, come rende noto l’agenzia di stampa “Iar”. Secondo le fonti governative polacche consultate dall’agenzia, Varsavia ha anche addestrato cento artiglieri ucraini al loro uso. Grazie all’assistenza polacca l’Ucraina dispone attualmente di almeno 24 obici semoventi occidentali. Altri sei Caesar sono stati infatti forniti dalla Francia; Germania e Paesi Bassi hanno inoltre annunciato l’invio di altri 12.
        • Sempre un’emittente polacca, “Polsat News”, il 24 maggio aveva dato notizia di una richiesta di Varsavia di altri 6 missili Patriot, confermata dal dipartimento della Difesa americana e ripresa da “AgenziaNova“:
          «Non parlerò dei dettagli, ma occorre che Kiev, possa resistere efficacemente all’invasione russa», così ha esordito il ministro della Difesa polacco, Mariusz Blaszczak, e subito dopo ha aggiunto – mettendo lui stesso in relazione la resistenza ucraina (e dunque le forniture di obici polacchi) – con le richieste di Varsavia: «è stata firmata una lettera di intenti ma questa rappresenta solo l’inizio di una trattativa nella quale “i termini di consegna devono essere ancora discussi”. Confiniamo con Kaliningrad, e quindi con la Russia, a nordest, mentre la Bielorussia è di fatto una parte della Russia. La garanzia della nostra sicurezza e ragion di Stato è che il confine sudoccidentale sia con l’Ucraina e non con la Russia”.

25 maggio

        • “Procurement militaire”: interessante il pudore che traspare dall’uso dell’espressione inglese da parte di “Insidertrend” (ripresa dalla evidente velina del ministero della Difesa), anziché il tecnico “approvvigionamenti”, o meglio ancora l’esplicito “traffico d’armi”. Quest’ultimo caso riguarda l’ineffabile generale Luciano Portolano, comandante di Segredifesa, che ha incontrato Venance Salvatori Mabeyo, comandante in capo della Tanzanian People’s Defence Force (TPDF), ovviamente «nel quadro dei consolidati rapporti bilaterali di amicizia e cooperazione tra i due paesi»: infatti, come attesta “ReportDifesa”, una volta delineato il ruolo geopolitico svolto dal porto di Dar es Salaam: «discussione si è poi incentrata sull’interesse della nazione dell’Africa orientale per il velivolo M-345, in sostituzione dei velivoli K-8, gli aeromobili C-27J e gli elicotteri AW139 e AW109».
        • AW-139 in volo in una sua funzione antincendio

        • Si tratta di prodotti di Leonardo.spa, la controllata dello stato italiano che consentirà di aumentare le sporadiche relazioni tra le due nazioni: evidente per Antonio Mazzeo su “Africa Express” l’intenzione «di inserire il governo di Dar Es Salaam tra i partner-chiave con cui rafforzare la penetrazione del Sistema Italia nel continente africano».  Infatti un paio di mesi fa l’ambasciatore italiano a Dodoma, Marco Lombardi diceva: «Grazie alla sua strategica posizione geografica ed alla sua sostenuta crescita economica, la Tanzania sta continuando ad acquisire un ruolo di rilievo nella Regione». Ecco allora che potrebbero arrivare redditizie commesse per le maggiori holding nazionali, soprattutto quelle armiere a capitale statale come Leonardo e Fincantieri SpA, chiosa Mazzeo.


25 maggio

        • Kongsberg Aviation Maintenance Services (KAMS) ha esteso il contratto in corso con l’Agenzia norvegese per i materiali della difesa (NDMA) per la revisione e la messa in vendita di un ulteriore lotto di velivoli F-16. “ADSNews” informa che il contratto di 200 milioni di corone norvegesi (circa 19 milioni di euro) comprende anche la revisione dei motori da effettuarsi presso le strutture del KAMS per garantire il mantenimento delle competenze in Norvegia.
          Questo contratto è conseguente a quello stipulato dall’Agenzia norvegese per i materiali di difesa con Draken International per la vendita di 12 ex F-16 norvegesi e sta completando la vendita di altri 32 velivoli alla Romania. In attesa dell’approvazione ufficiale delle autorità norvegesi e americane, si prevede che i primi velivoli saranno consegnati a Draken quest’anno e alla Romania nel 2023. Non è nemmeno casuale che questi accordi siano intercorsi in questo periodo in cui la Romania assume un ruolo particolare.
        • «I nostri aerei da combattimento sono tra i meglio mantenuti al mondo e la manutenzione continua e gli aggiornamenti forniti da KAMS sono stati fondamentali per questo lavoro. Sono quindi fiducioso che i nostri aerei serviranno bene Draken e la Romania per molti anni a venire. Inoltre, questo contratto contribuisce a mantenere l’esperienza industriale norvegese nella manutenzione dei velivoli da combattimento», afferma Magnus Hansvold, direttore dell’Agenzia norvegese per lo smaltimento dei materiali della Difesa.

25 maggio

        • Le esercitazioni navali cinesi attorno a Taiwan effettuate il 24 maggio insieme alla Russia (coinvolti bombardieri strategici russi Tu-95Ms e cinesi Xian H-6K, scortati da caccia Su-30 Sm russi), effettuando un pattugliamento sul Mar del Giappone in concomitanza con il vertice Quad, sono il corollario del programma di riarmo della marina, in particolare anfibio. Secondo quanto pubblicato dal sito ufficiale delle forze armate cinesi, “China Military Online”, Pechino avrebbe messo in servizio una nuova unità da trasporto militare semisommergibile capace di lanciare dei mezzi da sbarco marittimo. Secondo il sito cinese, l’unità, identificata come Hull 834 (Yinmahu), stava trasportando un hovercraft anfibio Type 958, inserito nelle unità del Comando del teatro meridionale dell’Esercito popolare di liberazione, come la maggior parte delle moderne unità della flotta anfibia di Pechino.
          Yinmahu, di classe “Hansa Sonderberg modificata”, pesa 20.000 tonnellate, misura 175,5 metri per 32,4 e trasporta mezzi da sbarco Type 958, pensati per permettere operazioni da sbarco in aree prive di strutture portuali: le dimensioni sono 57 x 25,6 metri per un peso di 555 tonnellate. I mezzi sono stati acquistati da Pechino all’inizio dall’Ucraina (Project 1232.2 della classe russa Zubr), ma dal 2014, dopo l’annessione russa della Crimea dov’erano prodotti, il contratto è passato a Mosca. Questi natanti sono in grado di portare a pieno carico tre carri armati da battaglia o 500 soldati, più o meno un battaglione. La Cina è dotata di una mezza dozzina di questi super-mezzi da sbarco.


23 maggio

        • Circa 20 paesi, tra cui l’Italia, hanno annunciato nuovi pacchetti di armi e assistenza alla sicurezza in favore dell’Ucraina. Lo ha annunciato il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin, parlando in conferenza stampa a margine della riunione virtuale del Gruppo di contatto con l’Ucraina, tenutasi virtualmente oggi a quasi tre mesi dall’inizio della guerra in Ucraina. Oltre all’Italia, tra i paesi che hanno annunciato ulteriori aiuti ci sono Danimarca, Grecia, Norvegia e Polonia, ha detto Austin, precisando che la Danimarca fornirà un lanciatore di arpioni e missili per difendere la costa ucraina.
        • DefenseNews” precisa meglio i contorni dell’operazione, proprio a cominciare dagli arpioni (RGM-84L-4 Harpoon Block IIs), che non solo sono in grado di colpire vascelli in navigazione, ma anche in porto con un aggiornamento fornito dalla Boeing Advanced Harpoon Weapon Control System. Questo ulteriore palese coinvolgimento delle nazioni scandinave, oltre a dimostrare l’intensità e l’importanza del Mar Nero, dove questi arpioni sono essenziali, perché l’Ucraina, un importante produttore di grano, non ha potuto utilizzare Odessa come punto di transito per 90 giorni a causa della flotta russa.
        • «Questo blocco ha tagliato l’accesso dell’Ucraina al Mar Nero, bloccando le esportazioni di grano ucraine, soffocando la principale industria di esportazione del Paese e portando i prezzi globali dei prodotti alimentari a livelli record», ha scritto Tayfun Ozberk per Naval News.«Se l’Ucraina fosse in grado di stabilire una negazione dell’area di accesso in quest’area con missili antinave terrestri e di condurre ingaggi di successo contro le forze navali russe che entrano nella zona A2/AD, il blocco russo probabilmente finirebbe e i corridoi di trasporto verrebbero aperti».

        • Ma gli Usa non intendono intervenire direttamente. Così Mark Milley, capo di stato maggiore americano ha dichiarato: «Per quanto riguarda le nostre azioni, al momento non abbiamo mezzi navali nel Mar Nero e non intendiamo spostarceli. Ora c’è una situazione di stallo tra gli ucraini che vogliono assicurarsi che non ci sia uno sbarco anfibio intorno a Odessa e un impedimento della navigazione commerciale».
          Tuttavia oltre a questo si vuole evidentemente allargare il conflitto a latitudini baltiche (più palesemente domestiche per il Cremlino): infatti è la provenienza di questi Harpoon danesi a lasciar immaginare che la provocazione stia nel portare il conflitto nel Nord, quello che era feudo glaciale russo e invece a cominciare dal mar Baltico ormai è diventato un lago Otan e in prospettiva con la liberazione dai ghiacci delle rotte artiche si sta trasformando in zona militare presidiata, da zona della collaborazione internazionale di pace che era.
        • La quantità di armi riversate dall’occidente in Ucraina e contenute in quell’articolo di “DefenseNews”non riesce a stare in questa scheda, ma invitiamo a consultare l’articolo per la dovizia di informazioni fornite e che vengono condensate nella prossima scheda.


23 maggio

        • Riprendiamo dunque l’articolo di “DefenseNews” con l’elenco stilato dal segretario alla Difesa Lloyd Austin dei trasferimenti di armi all’esercito per procura ucraino: Italia, Grecia, Norvegia e Polonia starebbero donando sistemi di artiglieria e munizioni, ma summa cum laude è la Repubblica Ceca per il trasferimento di elicotteri d’attacco, carri armati e sistemi missilistici a Kyiv.
          La scorsa settimana il ministro ucraino della Difesa Reznikov ha dichiarato che l’Ucraina ha bisogno di carri armati e veicoli corazzati, nonché di sistemi missilistici a lancio multiplo, artiglieria pesante, aerei e missili. La lista della spesa continua con proiettili a lunga gittata, blindature e capacità aeree senza pilota. A Ramstein, il mese scorso, Australia e Canada si sono impegnati a fornire obici M777, che sono stati poi consegnati alle forze ucraine. Il Regno Unito ha consegnato missili Brimstone e un sistema di difesa aerea a corto raggio.
        • Nei giorni scorsi Biden ha firmato un pacchetto di aiuti all’Ucraina da 40 miliardi di dollari e ha inviato gli ultimi 100 milioni di dollari di obici e altre armi del precedente pacchetto da 13,6 miliardi di dollari approvato dal Congresso a marzo. Si tratta della decima tranche di aiuti statunitensi. Il pacchetto è l’equivalente dell’artiglieria di un battaglione americano – 18 obici da 155 mm, 18 veicoli tattici per trainarli e 18 tubi d’artiglieria – insieme a tre radar di contro artiglieria AN/TPQ-36, ha dichiarato il segretario stampa del Pentagono John Kirby.


20 maggio

        • Il protagonismo di Erdoğan dal 24 febbraio si è orientato verso il tentativo di ottenere il massimo di visibilità, di riconoscimenti e alzare le richieste, come quelle imposte ai paesi scandinavi; intanto ha dato prova di essere il leader più in grado di ottemperare alle richieste occidentali – come la chiusura del Bosforo come da Trattato di Montreux – ma anche senza dispiacere troppo al compare di tanti accordi di Astana, presentandosi come il più titolato a fungere da mediatore tra i belligeranti (intanto si annette altro Rojava nel silenzio di chi scambia L’adesione di Svezia e Finlandia con il territorio curdo in Siria), con uno dei quali spartisce l’area con accordi bilaterali ventennali, come pubblica “Le Point” il 3 giugno.
        • Ma soprattutto vende droni a tutti: ucraini e non… il “Centro Studi Internazionali” rileva che diversi Stati dell’Asia centrale, stanno aumentando sempre di più le proprie richieste di acquisizione per droni turchi di ultima generazione. L’anno scorso, il Kirghizistan ha firmato un accordo per l’acquisto di droni armati, diventando il primo paese dell’Asia centrale ad acquistare il sistema militare turco. In base all’accordo, il governo di Biškek ha ordinato droni Bayraktar Tb2 prodotti dall’azienda del genero del presidente turco.
          Inoltre, la Turchia e il Kazakhstan hanno concordato di avviare una coproduzione di droni turchi: il modello è il drone Anka, che sarà prodotto congiuntamente da esperti turchi e kazaki in un impianto di prossima apertura in Kazakhstan, secondo quanto dichiarato l’11 maggio dalla Turkish Aerospace Industries (Tai), produttrice dell’Anka e ripreso da “Daily Sabah”. L’azienda turca ha firmato un memorandum d’intesa con la società statale Kazakhstan Engineering per il trasferimento di tecnologia, comprese le operazioni di manutenzione e di riparazione. L’accordo farà del Kazakistan la prima base produttiva di droni Anka al di fuori della Turchia. Lo scorso novembre, il governo di Nur-Sultan ha acquistato tre unità di droni a media altitudine e lunga resistenza (Male) in seguito a un accordo stipulato a ottobre. Il drone in questione può condurre una serie di missioni, tra cui operazioni di sorveglianza, ricognizione, trasmissione di comunicazioni, acquisizione di obiettivi e tracciamento.


18 maggio

        • Esistono altre forme di fornitura per paesi magari sotto embargo. Per esempio l’Iran rifornisce la famigerata Guardia Rivoluzionaria ristrutturando vascelli adibiti ad altri compiti. Secondo l’analista della difesa Aurora Intel, l’IRGC (Guardia Rivoluzionaria Islamica), che ha una propria marina parallela a quella regolare, sta commissionando una nuova nave. L’I.R.I.S. Shahid Mahdavi (110-3) è nata come grande nave container. Ora sta subendo un refit che le conferirà un ruolo logistico bellico. Questa nave portacontainer battente bandiera iraniana era in precedenza la Dandle. È stata costruita nel 2000 e misura 240,2 metri fuori tutto e 32,2 metri di larghezza. In base all’analisi delle immagini, sembra che si trovasse fuori dalla base navale di Bandar Abbas, nell’ancoraggio civile, dalla metà del 2019. Si trovava nel suo posto definitivo dal marzo 2021. In base all’analisi delle immagini satellitari, la nave è stata portata in cantiere alla fine di gennaio 2022. I lavori sono probabilmente iniziati poco dopo.
        • La conversione prevede l’aggiunta di cannoni antiaerei con equipaggio. Si noti la bandiera dell’IRGC sulla sovrastruttura durante i lavori.

          Il blogger H.I.Sutton ha studiato a fondo le ristrutturazioni di navi iraniane viene effettuato nello stesso cantiere in cui era stata convertita la nave da base avanzata della Marina militare iraniana, l’I.R.I.N.S. Makran (441), che in origine era una nave cisterna. L’IRGC ha già tre navi da base avanzata. La I.R.I.S. Shahid-Roudaki è la più piccola, con una lunghezza di 150 metri. Le altre due sono più nascoste, la Saviz e la Behshad, e sono utilizzate come navi base nel Mar Rosso. La Behshad ha sostituito la Saviz dopo che quest’ultima è stata minata nel 2021.
          Wikiwand esibisce un elenco delle navi a disposizione della Guardia Rivoluzionaria.

16 maggio

        • La propaganda delle industrie belliche nazionali trova in India una delle manifestazioni più smaccate e che si tratti di una velina dei servizi militari indiani è dimostrato dal fatto che il medesimo testo si trova anche su “The IgMp”, dove la fonte viene dichiarata: Indo-Asian News Service (IANS). A ridosso delle elezioni vinte a Manila da Ferdinand “Bongbong” Marcos, il giorno stesso dei risultati elettorali l’“Indian Defence Research Wing” annuncia (con lo stesso testo di “India’s growing Military power”) un accordo che le Filippine avevano preso e che l’India spera venga mantenuto dal “nuovo” presidente; il memorandum era stato firmato all’indomani di un contratto da 368 milioni di dollari per i missili antinave supersonici Brahmos (come specifica “Aerotime Hub”). L’accordo tra India e Filippine è stato firmato nel gennaio 2022. Dopo l’acquisto dei missili antinave Brahmos – che l’estensore dell’articolo dichiara essere «l’arma che la Cina teme maggiormente, essendo considerato il più letale al mondo» – il governo delle Filippine sembrerebbe interessato a potenziare la propria flotta di aerei militari con l’aiuto della Hindustan Aeronautics Ltd, che aveva firmato ad aprile un Memorandum of Understanding (MoU) con la Philippine Aerospace Development Corporation (PADC) – pacta servanda sunt anche in sanscrito – che potrebbe portare all’esportazione dei velivoli leggeri: da combattimento (LCA), elicotteri da combattimento (LCH), elicotteri avanzati (ALH) e utilitari (LUH) indiani.

          Come viene spiegato da Sabrina Moles in questo podcast, la situazione si fa complessa nel Mar cinese meridionale e anche le alleanze sono in bilico, tanto che Xi è stato il primo a congratularsi con il figlio di Marcos, nonostante la Cina si opponga al riconoscimento della sentenza arbitrale che concede alle Filippine la sovranità sul Mar delle Filippine occidentali (considerandolo Zee filippina), lo stesso tratto di oceano che Pechino chiama Mar cinese meridionale.

    “A volte tornano. Marcos 2 l’amnesia”.

          • L’organo di propaganda indiano giunge a minacciare di rappresaglia interna alle Filippine un’eventuale rinuncia di Marcos; e suggerisce al neoeletto di onorare gli impegni di riarmo. Non è strano questo accanimento, perché se si proseguirà in questa direzione, si tratterà del primo ordine di esportazione del Tejas. Numerosi paesi hanno preso in considerazione l’acquisto del Tejas, in particolare la Malesia – riferisce “Aerotime Hub” – che avrebbe ricevuto l’offerta di HAL nella gara d’appalto in corso per i caccia leggeri. Ma attualmente l’aeronautica indiana rimane l’unico operatore del Tejas.
            In campagna elettorale Marcos aveva dichiarato l’intento di risolvere la diatriba con il dialogo, ma l’organo indiano gli ricorda che non è intervenuto a favore della Cina, anche se non ha aderito al Quad (di cui invece l’India è parte, proprio in funzione anticinese), che ha inviato navi da guerra per stabilire i diritti di passaggio in quella lingua di mare contesa.
            La maestria “diplomatica” dei piazzisti di armi è ancora più evidente nel sottolineare la valutazione delle antiquate armi fornite alle Filippine dalla Corea del Sud (gli FA-50PH) o gli obsoleti elicotteri turchi, con il velenoso confronto con il Pakistan che ha acquisito armamenti cinesi per contrapporsi all’esercito indiano, che si proporrebbe come terzo affidabile fornitore rispetto a Nato e Rpc.

14 maggio

      • Boeing CH-47 Chinook sono elicotteri da guerra per trasporto truppe che sono transitati dal porto di Genova tentando di mantenere l’incognito. Si trovavano sulla Bahri Houf, nave saudita e la destinazione di questi aerei costruiti dalla Boeing negli Usa era proprio l’Arabia saudita.
      • «La banchina è un’area off-limits, e il guardiano dell’agenzia marittima Delta, la società che detiene il contratto con Bahri, alza la sbarra solo per chi ha il permesso di entrare. Bahri è una società controllata dal governo saudita. Fondata nel 1978 come National Shipping Company of Saudi Arabia, è il più grande proprietario e operatore di grandi petroliere al mondo. Sebbene la sua attività principale sia il trasporto di petrolio, dal 2014 gestisce il monopolio della logistica militare di Riyadh. Delle sue 90 navi, sei sono utilizzate per il trasporto di armi. Fanno sempre la stessa rotta, dagli Stati Uniti all’Arabia Saudita, passando per l’Italia e, più raramente, per la Spagna. Un viaggio che richiede due mesi per arrivare e due mesi per tornare. Ciascuna delle navi porta il nome di una città saudita: Abha, Hofuf, Jazan, Jeddah, Tabuk e Yanbu.
        Le esportazioni di armi non sono illegali. Ma i trattati internazionali vietano i trasferimenti internazionali di armi che potrebbero essere utilizzate per commettere crimini di guerra, come gli attacchi diretti alla popolazione civile. L’Arabia Saudita è profondamente coinvolta nella guerra nel vicino Yemen. Questo conflitto rimane una delle più grandi crisi umanitarie del mondo. L’economia è stata distrutta e le infrastrutture civili distrutte. Alla fine dello scorso anno, le Nazioni Unite hanno previsto che entro la fine dell’anno sarebbero state uccise 377.000 persone, direttamente e indirettamente a causa della guerra. Otto yemeniti su dieci hanno bisogno di aiuti d’emergenza e la carestia è imminente, secondo Oxfam»(“Investigate Europe“).

      • «È facile capire quando arriverà la prossima nave Bahri. Basta guardare la fila di camionette della polizia davanti alla banchina, che sono lì per evitare proteste e occhi indiscreti», dice un camallo. Si tratterebbe di proteste contro il carico della nave: carri armati, veicoli blindati, elicotteri Apache ed esplosivi
      • Contropiano” nel darne notizia aggiunge che dopo segnalazioni e richieste di accesso agli atti, gli attivisti di Calp (@CalpGe Porto), Usb e The Weapon Watch si sono rivolti alla magistratura con un esposto

    • L’elicottero Boeing CH-47 Chinook è un elicottero per il trasporto pesante con due motori e rotori in tandem, creato dall’azienda americana di rotorcraft Vertol e prodotto da Boeing Vertol.
      Può viaggiare a 315 km/h trasportando anche 55 militari 


11 maggio

    • South China Morning Post” ha dato notizia dei test su un motore per velivoli ipersonici con propulsione esplosiva di un motore a soffio d’aria, azionato dall’esplosione di un combustibile idrocarburico a basso costo: ha raggiunto un funzionamento stabile.
      Utilizzando un carburante economico a base di idrocarburi, i ricercatori del China Aerodynamics Research and Development Center di Mianyang (nel Sichuan) affermano che il motore che produce migliaia di esplosioni controllate al secondo ha raggiunto un funzionamento stabile durante una simulazione di volo a bassa quota, sostenendo che il loro motore a detonazione rotante potrebbe alimentare un aereo o un missile a una velocità cinque volte superiore a quella del suono o più veloce, consentendo il trasporto di persone o mezzi da una parte all’altra del globo in un’ora.

11 maggio

    • Airbus Helicopters è in trattativa con l’Iraq per la vendita di 12 elicotteri H225M anche se il ministero dell’Economia di Parigi è scettico. Lo scrive in anteprima il quotidiano “La Tribune”. Secondo quanto riferisce la testata economica, il bilancio del ministero della Difesa di Baghdad non è in grado di ottemperare a un simile esborso. Nel primo trimestre del 2022 Airbus Helicopters ha registrato 56 commesse contro le 40 dei primi tre mesi dell’anno precedente: alla fine del 2021 erano stati venduti 12 Caracal agli Emirati.
    • H225M può essere equipaggiato con il sistema di armamento HForce. Quattro diversi pacchetti offrono ai combattenti una scelta di armamenti per espandere la capacità del velivolo da quella delle armi balistiche all’uso di munizioni guidate con sparo attraverso il sistema elettro-ottico (EOS) o l’helmet mounted sight display (HMSD)

10 maggio

    • Si trova su “Le Point” la conferma che l’esercito francese ha dato luogo all’acquisto di 3000 droni annunciato dal generale Hervé Gomart il 7 febbraio 2022 durante una conferenza stampa all’Association des journalistes de défense (come riportava la testata specializzata Enderi). Il costo dell’equipaggiamento di 6 unità antidroni è previsto intorno ai 33 milioni di euro per microdroni del peso inferiore a 800 grammi e minidroni da 25 chili; i droni tattici del tipo Patroller arriveranno entro la fine dell’anno.
      Si tratta di velivoli di piccolo taglio già largamente utilizzati dall’Armée de Terre e lungamente testati in Sahel nel quadro della operazione Barkhane. Il modello SMDR per i minidroni e dl NX70 per i microdroni; altri modelli, come i droni quasi-consumabili, dovrebbero anche ingrossare le fila di questi dispositivi progettati per fornire ai fanti una visione globale del campo di battaglia in pochi minuti.


7 maggio

    • Il nome adottato è inquietante: Gladius evoca un’epoca eversiva del sistema golpista massonico-istituzionale che a livello internazionale ordiva piani di attacco all’impianto liberal-democratico dell’Occidente dal suo interno (Kossiga ne era un fervido sostenitore) che avevano tutto sommato gli stessi intenti della attuale strategia bellica sovranista – in fondo sempre di fascismo si tratta. Nel caso della notizia annunciata da “AresDifesa” si tratta di un sistema di ricerca e attacco a pilotaggio remoto CUAS Gladius che verrà fornito all’esercito polacco (non a caso in prima linea al confine ucraino, dove verranno dislocati questi droni); il ministro della Difesa nazionale Mariusz Błaszczak ha approvato il contratto con WB Electronics (produttrice del Gladius) e Agenzia degli Armamenti italiana. Un accordo che prevede la consegna entro l’anno all’artiglieria polacca di 4 moduli per sistemi di ricerca e attacco costituiti da droni FT-5 dotati di teste optoelettroniche che consentono la registrazione dell’immagine, sia alla luce del giorno che in termografia – i bersagli così individuati sono attaccati dalle loitering munitions di cui l’Esercito Polacco si sta dotando.


6 maggio

    • Analisi Difesa” annuncia che Leonardo è stata scelta per gestire e monitorare la cybersicurezza dei sistemi informatici di Eu-Lisa, l’agenzia europea responsabile della gestione operativa dei sistemi IT su larga scala negli ambiti della sicurezza e della giustizia. L’agenzia, in particolare, gestisce la sicurezza interna e alle frontiere dell’area Schengen, oltre che i flussi migratori all’interno dell’Ue, comprese le politiche di asilo europee.
      Il contratto prevede la fornitura dei servizi di cybersecurity integrati per proteggere tutte le diverse sedi di Eu-Lisa, dal quartier generale di Tallin al centro operativo di Strasburgo, dal sito per la business continuity di Sankt Johann im Pongau (Austria) all’ufficio di collegamento con le altre istituzioni europee di Bruxelles.
    • Sarà il Global security operation center di Leonardo a Chieti a tenere sotto costante controllo le vulnerabilità e le minacce per anticipare gli attacchi, identificare il responsabile e rispondere agli incidenti in modo efficace, cercando di mitigarne gli impatti. I ricavi del Cyber and security academy di Genova ammontano a 3 miliardi annui.

cyber

4 maggio

    • Spizzando “Nova News” (agenzia giornalistica sempre molto ben informata in materia di “sicurezza”) si può scoprire come il ministro della Difesa giapponese Kishi ha menzionato piani di maggior coinvolgimento del Giappone rispetto alle priorità di sicurezza degli Stati Uniti, spianando la strada per una cooperazione più stretta nel campo della sicurezza informatica e di altri comparti emergenti della sicurezza nazionale. In primis droni da guerra inquadrati nelle dinamiche operative delle Forze di autodifesa, a cui l’esercito di Tokyo dovrebbe essere limitato. Infatti il Giappone ha adottato il drone di sorveglianza RQ-4B Global Hawk, ma si è tenuto lontano dai droni da combattimento; nel bilancio dell’anno fiscale 2022 ha stanziato solo 30 milioni di yen (231.000 dollari) per la ricerca su questi dispositivi. Ma in questo periodo di stravolgimenti epocali – e la contingenza sta restituendo al Giappone un nuovo ruolo nell’Indopacifico – anche il Giappone sancisce uno stato di potenziale belligerante non ufficiale e i droni sono un’opzione relativamente comoda ed economica rispetto ai jet da combattimento e ai carri armati, potendo venire utilizzati in aree troppo rischiose per i tradizionali velivoli pilotati.

      Il Giappone sta accelerando il processo di superamento del pacifismo sancito dall’art.9 della sua Costituzione postbellica. Tale processo, perseguito con convinzione dall’ex primo ministro Abe Shinzo, ha avuto un impulso dal peggioramento del quadro di sicurezza regionale e globale, e con le crescenti tensioni che oppongono il Giappone a Cina, Corea del Nord e Russia. Il governo del premier Kishida è attualmente impegnato a studiare una riforma della Strategia di sicurezza nazionale, che includerà anche la controversa proposta di dotare il Paese di sistemi d’arma per la proiezione offensiva della forza, come i missili da crociera, e potrebbe prevedere persino il raddoppio del bilancio della difesa al 2 per cento del Pil, sul modello dei paesi membri della Nato, partecipando agli ultimi due summit della Nato.
    • il Giappone ha siglato infatti un accordo col Regno Unito per lo sviluppo congiunto di motori a reazione per aerei da combattimento di nuova generazione: Tokyo è entrata così indirettamente nel novero dei paesi che partecipano allo sviluppo del caccia Tempest, un programma aerospaziale all’avanguardia che vede protagonista anche l’Italia.

RQ-4B

GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

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Congelamento di beni di individui e aziende, diniego di visti, divieto di importazione ed esportazione, embargo commerciale, restrizioni finanziarie, nonché sanzioni secondarie e “indirette” come la chiusura di conti bancari… ma le sanzioni – oltre a portare alla fame le popolazioni civili – possono davvero spingere il governante di turno a cambiare la sua politica? Vari studi e rapporti dimostrano di no. Inoltre, perché le sanzioni abbiano legittimità devono discendere dalla condanna espressa dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ed è qui che generalmente si inceppa il meccanismo – come ha spiegato alcuni mesi fa Alfredo Somoza nel suo ultimo volume – «perché il suo statuto prevede che Usa, Russia, Cina, Francia, Regno Unito siano membri permanenti e abbiano potere di veto su qualsiasi argomento discusso dal Consiglio. Questo meccanismo “truccato”, che fu pensato nella logica della Guerra Fredda, impedisce che il Consiglio di Sicurezza sia davvero una guida del diritto internazionale. Lo si è ancora verificato dopo il sanguinoso colpo di stato in Myanmar, non condannato a causa del veto russo e cinese».

E qui, in questo saggio, Giulia Della Michelina ci fornisce, dati alla mano, qualche strumento in più per capire i contorni di quest’arma a doppio taglio che rimane lo strumento punitivo di deterrenza più utilizzato dall’Occidente, mentre il podcast di Raffaele Sciortino fornisce un quadro degli sconvolgimenti sul sistema economico a livello globale e del ridimensionamento del ruolo di ciascuna delle grandi potenze, nonché di un loro potenziamento sotto nuova forma e sviluppo.


Negli ultimi mesi il dibattito attorno alle sanzioni e alla loro efficacia è tornato di attualità a causa delle tensioni tra Ucraina e Russia e alla guerra scatenata da quest’ultima. Si sta discutendo molto di “sanzioni senza precedenti”, embargo, restrizioni finanziarie e commerciali, e delle conseguenze economiche e politiche scatenate da queste misure, anche sui paesi che le impongono. A più di due mesi dall’inizio dell’invasione russa è lecito porsi una serie di domande: le sanzioni contro Mosca stanno avendo successo? Le misure adottate sono adeguate all’intento di sperare in un risultato positivo? E in quanto tempo? Più in generale ci si potrebbe domandare se lo strumento delle sanzioni funzioni davvero nelle controversie internazionali. Si tratta di questioni complesse, in cui oltre a considerazioni economiche e diplomatiche intervengono anche riflessioni di ordine morale e su cui analisti ed esperti non hanno un parere univoco. I dati a disposizione possono però aiutare a fare chiarezza e sembrano mostrare che, nella maggioranza dei casi, le sanzioni non funzionano.

Cosa sono le sanzioni

Come spiega Francesco Giumelli, professore associato al Dipartimento di Relazioni internazionali e Organizzazione internazionale (Irio) dell’Università di Groningen, le sanzioni sono provvedimenti di varia natura (complessive o mirate) solitamente adottati da uno o più stati (o organismi internazionali) che le impongono contro un soggetto (stato, azienda, persona) con lo scopo di modificarne un comportamento. Nel rapporto intitolato Quando sono utili le sanzioni internazionali? dell’Osservatorio di Politica internazionale, Giumelli individua tre sostanziali obiettivi dietro l’imposizione di sanzioni: coercizione, contenimento e segnalazione/ammonimento. Le sanzioni mirate (come restrizioni finanziarie, al commercio di armi, allo scambio di prodotti specifici e alla limitazione del movimento di persone), si legge nel rapporto, sono ormai prevalenti perché dovrebbero limitare i loro effetti agli attori responsabili dei comportamenti che si vorrebbero disincentivare, risparmiando quindi le conseguenze sulla popolazione.

Gli effetti sulle popolazioni

Eppure i dati rivelano che le ripercussioni delle sanzioni hanno un impatto importante, talora devastante, anche sui cittadini degli stati che si intende colpire. Secondo uno studio del “Journal of Development Studies” effettuato su 98 paesi per un periodo di 35 anni (dal 1977 al 2012) le sanzioni economiche riducono l’aspettativa di vita di 1,2-1,4 anni delle popolazioni e in particolare le donne risultano essere i soggetti maggiormente colpiti. In alcuni casi, le sanzioni comportano difficoltà nell’approvvigionamento di medicinali o presidi sanitari di base, come documentato da uno studio di Oxfam sugli effetti dell’embargo contro Cuba. In questo paese e negli altri stati più duramente sanzionati (Iran, Venezuela, Siria) secondo quattro esperti dell’Onu le sanzioni stanno impedendo il diritto allo sviluppo e aumentando il tasso di povertà, rendendo inaccessibili servizi essenziali come acqua, elettricità, gas, cibo e medicine. In Venezuela, le sanzioni hanno contribuito al più grave crollo del Pil nella storia dell’America Latina (74,3%).

Uno dei più drammatici esempi del costo umanitario derivante dalle sanzioni è il caso dell’Iraq, sottoposto nel 1990 a un durissimo regime sanzionatorio in seguito all’invasione del Kuwait. Già nel 1993 un report della Fao e del Wfp sottolineava come queste misure avessero causato «persistenti privazioni, fame e malnutrizione per una vasta maggioranza della popolazione irachena» e l’impossibilità di continuare con le sanzioni «senza aggravare la già drammatica situazione dei rifornimenti di cibo in Iraq».
Poche settimane fa diversi gruppi di attivisti hanno inviato una lettera al presidente Biden in cui si sottolinea il paradosso delle sanzioni, usate come strumento alternativo all’offensiva militare e tuttavia capaci di provocare vittime civili innocenti, e si richiede di rivedere radicalmente l’utilizzo di queste misure.

Le sanzioni funzionano solo nel 30% dei casi

Uno studio della Drexel University di Filadelfia riporta un drastico calo nell’efficacia delle sanzioni a partire dal 1995 e afferma che il tasso medio di successo si attesta al 30%. Inoltre negli ultimi due decenni si è riscontrata la tendenza al perdurare di sanzioni per anni, senza che il loro obiettivo venga considerato né soddisfatto né disatteso. Le sanzioni continuano semplicemente a restare in vigore, quasi per inerzia. Secondo lo studio questo sarebbe dovuto alla crescente complessità delle sanzioni e alla compresenza di target diversificati e spesso non chiaramente delineati.

Il fattore temporale non è un aspetto secondario perché, come ha dichiarato Benn Steil del think tank Council on Foreign Relations al “New Yorker”, «le sanzioni funzionano raramente e quando funzionano tendono a metterci molto tempo». E non a costo zero, si potrebbe aggiungere. Come per esempio nel caso della Rhodesia (attuale Zimbawe), che ha subito 10 anni di sanzioni e 20.000 morti per arrivare a un cambio di regime.

Le sanzioni secondarie

A tutto ciò si aggiungono le conseguenze “indirette” delle sanzioni, come nel caso che ha riguardato diversi cittadini iraniani residenti in Europa a cui è stato chiuso il conto corrente da un momento all’altro e senza spiegazioni da parte delle banche. Ciò si è verificato in seguito alla reintroduzione delle cosiddette sanzioni secondarie da parte dell’allora presidente degli Usa Donald Trump, ovvero quelle sanzioni che penalizzano indirettamente un soggetto colpendo chi fa affari con lui. In questi casi è molto costoso per le banche compiere verifiche per non incorrere nelle sanzioni, perché alcuni soggetti si avvalgono di prestanome o altri stratagemmi per aggirare il meccanismo. L’ipotesi è che ad alcune banche sia bastato accertare la nazionalità iraniana dei correntisti per chiudere arbitrariamente i loro conti: una piccola perdita incomparabile rispetto alle multe comminate in violazione delle sanzioni.

L’effetto rally-around-the-flag

Questi sono solo alcuni esempi di come le sanzioni agiscono e si ripercuotono concretamente sulla vita delle persone comuni. C’è chi sostiene che l’impatto di queste misure sui cittadini possa rivelarsi positivo e renderle più efficaci.

Una popolazione strangolata economicamente dal giogo delle sanzioni sarebbe più incline a protestare e a richiedere alla classe politica di conformarsi alle richieste esterne. Tuttavia non sempre questa tesi risulta veritiera.

In presenza di regimi autoritari, abituati a reprimere o a gestire il dissenso, è raro che le pressioni della cittadinanza apportino cambiamenti sostanziali alla linea governativa. Il rovescio della medaglia è il cosiddetto effetto rally-around-the-flag, ovvero la possibilità che la popolazione faccia fronte comune con i suoi leader contro i paesi sanzionatori, percepiti come i responsabili delle privazioni e delle difficoltà in cui si trovano. In questi casi la posizione dei governanti del paese sanzionato può addirittura rafforzarsi, compromettendo di conseguenza l’efficacia delle sanzioni. Questo effetto è stato riscontrato anche in Russia dopo le sanzioni imposte nel 2014 in seguito all’annessione della Crimea, percepite dal 71% della popolazione come un tentativo di “indebolire e umiliare” il paese.

Uno strumento essenziale di politica estera

Il passaggio alle sanzioni mirate a discapito di quelle complessive ha incentivato notevolmente l’uso di questo strumento, diventato ormai tutt’altro che eccezionale. Il rapporto dell’Osservatorio di Politica internazionale ricorda infatti che «la Carta delle Nazioni Unite indica le condizioni entro le quali è possibile ricorrere alla forza nelle relazioni fra stati, per esempio per legittima difesa o se autorizzata dal Consiglio di sicurezza come indicato dall’articolo 39 del capitolo VII, ma non pone condizioni per l’utilizzo delle sanzioni». L’articolo 41 prevede la sospensione delle relazioni economiche tra le misure che non implicano l’uso della forza, ma la vaghezza dei regolamenti ha di fatto portato le sanzioni a diventare uno strumento essenziale di politica estera per gli stati occidentali.

È bene sottolineare quest’ultimo aggettivo, poiché le sanzioni sono state finora appannaggio di questi paesi, che se ne sono serviti contro i nemici per le più svariate ragioni: pressioni diplomatiche, rivalità economiche, scontri ideologici, deterrenti per futuri attacchi. Le sanzioni sono molto più facilmente giustificabili di un’operazione militare davanti all’opinione pubblica e assicurano allo stesso tempo l’impressione di una presa di iniziativa rispetto a una situazione conflittuale.

Monopolio occidentale

Gli Usa sono il paese che impone il maggior numero di sanzioni: attualmente sono 37 i programmi attivi, alcuni dei quali in corso da decenni, e i paesi coinvolti sono una ventina. Una tendenza che negli ultimi anni, e in particolare dopo l’11 settembre 2001, risulta in crescita: da circa 6000 soggetti nel 2014 a quasi 10.000 del 2021. L’amministrazione Trump ha imposto il doppio delle sanzioni rispetto al predecessore Barack Obama e l’attuale presidente Joe Biden ha confermato finora questa inclinazione. Anche l’Unione Europea ha attivato decine di programmi di misure restrittive in 34 paesi, e le ha definite uno «strumento essenziale della politica estera e di sicurezza comune». Vi sono infine le sanzioni imposte dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu che, dal 1966, ha stabilito 30 regimi di sanzioni. Attualmente sono in vigore 14 programmi, focalizzati sulla risoluzione dei conflitti territoriali, la non-proliferazione del nucleare e l’antiterrorismo.

 

Il monopolio occidentale dello strumento sanzionatorio è legato a una delle condizioni della sua efficacia, ovvero il controllo sul sistema economico e finanziario globale. In altre parole il ruolo di primo piano nell’economia globale dei paesi occidentali, e in particolare degli Usa, renderebbe più efficace l’utilizzo delle sanzioni. Tuttavia, negli ultimi decenni il dominio economico e finanziario occidentale si sta sgretolando a favore di altri attori e ciò contribuisce a erodere anche l’efficacia delle sanzioni.

Paesi come Cina e Russia si stanno attrezzando da diversi anni a reggere il colpo delle sanzioni adottando diverse misure, come l’accumulo di riserve economiche (per esempio di oro) o con altri sistemi volti ad aumentare l’autosufficienza economica.

La Cina sta fortemente puntando sul decoupling (disaccoppiamento, su cui si intreccia un approfondimento di Raffaele Sciortino), rilocalizzando la produzione delle imprese americane fuori dal paese in settori strategici, e sul rafforzamento dell’autosufficienza nel ciclo produttivo.

Ascolta “Il grumo di contraddizioni verso la fine della globalizzazione” su Spreaker.

In aggiunta, l’interdipendenza delle economie porta alla luce un’obiezione non secondaria, ovvero le ripercussioni delle sanzioni sugli stessi paesi che le impongono. Questione che è stata ampiamente dibattuta nel caso della dipendenza dal petrolio e dal gas russi.

Le sanzioni contro la Russia nel 2014

In seguito all’invasione dell’Ucraina la Russia è diventato il paese più sanzionato al mondo, passando da 2754 tipi di sanzioni a oltre 10.000. A partire dal 2014, in seguito all’annessione russa della regione ucraina della Crimea, sono state imposte le prime sanzioni contro Mosca: congelamento di beni di individui e aziende, diniego di visti, divieto di importazione ed esportazione di armi in Russia, embargo commerciale sulla Crimea. Gli effetti delle sanzioni hanno fatto traballare l’economia russa per almeno due anni, facendo scendere il valore del rublo e aumentare i prezzi di molti beni per aziende e consumatori. Nonostante qualcuno le abbia ritenute troppo timide, le sanzioni del 2014 hanno giocato un ruolo di deterrenza nell’immediato, considerando che, secondo un report dell’Atlantic Council, l’invasione dell’Ucraina sarebbe già stata pianificata per quell’anno.le sanzioni internazionali funzionano?Se le sanzioni hanno potuto arginare le azioni della Russia per un certo periodo, e avvalorare così le posizioni dei sostenitori di questo strumento, oggi possiamo dare una lettura diversa.

Dal 2014 la Russia si è adoperata per rendere la propria economia più resiliente di fronte alle pressioni esterne, accumulando circa 630 miliardi di dollari in riserve internazionali, il 50% in più rispetto al 2017.

Le ultime sanzioni hanno certamente scosso l’economia di Mosca, oltre ad aver gettato nel panico i russi, che hanno svuotato gli scaffali dei supermercati e si sono messi in coda davanti ai bancomat. Ma le manovre della Banca centrale russa hanno evitato il collasso e il rublo è ritornato al valore precedente alla guerra. Alcuni economisti, come Elina Ribakova dell’Institute of International Finance, sostengono che questi siano indicatori superficiali, utili alla propaganda del presidente russo Vladimir Putin. Le difficoltà nel reperire materie prime, la chiusura o la delocalizzazione di molte aziende e l’aumento dell’inflazione stanno già provocando effetti diretti sulla popolazione e, secondo le stime, sono già 200.000 le persone che rischiano di perdere il lavoro. L’impatto sul lungo termine sarà probabilmente devastante in termini di crescita, disoccupazione e abbassamento del livello di vita dei cittadini russi.

Ma come insegnano le esperienze precedenti di sanzioni, che le sofferenze della popolazione portino a dissuadere un leader dai propri criminali progetti è ancora tutto da dimostrare.

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LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO AD APRILE https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-ad-aprile/ Mon, 09 May 2022 09:22:59 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7408 L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO AD APRILE proviene da OGzero.

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Deterrenza integrata nello cyberspazio bellico

La cyberwar è il panorama che in Ucraina ha sostituito i carri armati usati in Afghanistan 40 anni fa; è avvenuto con l’affondamento della Moskva, l’ammiraglia della flotta russa del Mar Nero, episodio ricostruito da “The Times” (e ripreso da Antonio Mazzeo) durante il quale è sempre più evidente l’apporto delle tecnologie sofisticate di scambio di dati tattici (L16). Ma non è solo lo scambio di informazioni multifunzionale tra entità belliche o la presenza dei Poseidon decollati da Sigonella che non ci vengono documentate – e anzi sono secretate dal governo Draghi, seguendo protocolli atlantici, non repubblicani –: infatti trapela da articoli di analisti entusiasti l’accelerazione degli investimenti in tecnologie emergenti basate su 5G, intelligenza artificiale, blockchain (registro digitale con voci raggruppate in blocchi e crittografate), cloud computing «per generare nuove capacità di combattimento»; su “Formiche.net” si può leggere la descrizione dettagliata delle filosofie sottese all’avanzata del processo decisionale nell’intervento militare grazie alla compenetrazione della “collaborazione uomo-macchina”. Insomma il parterre di armati in combattimento si va componendo di brutali mercenari tagliagole contrapposti o sommati a professionisti guidati e condizionati dai dati forniti sui loro display.
Per estendere e rendere efficace questa rete informatica di dati a disposizione della guerra degli alleati, la Nato sta cooptando e creando centri di ricerca in tecnologie di frontiera attraverso il programma Diana, che – apprendiamo da “Wired” – nel 2021 ha sviluppato strategie relative all’intelligenza artificiale, il 2022 è dedicato allo sviluppo dei computer quantistici e il 2023 alle biotecnologie e all’ingegneria applicata all’uomo.
Un nodo delle reti di acceleratori è stato individuato nello stabilimento Alenia di corso Marche a Torino. “Difesa.it” descrive pudicamente l’operazione come “Sinergia per l’innovazione tra Industria Mondo Accademico e Difesa”. E prosegue: «L’offerta nazionale per la partecipazione all’iniziativa, lanciata dai capi di Stato e di Governo al summit di Bruxelles del giugno 2021 nell’ambito dell’agenda NATO 2030, consiste nella realizzazione di una rete federata di centri di sperimentazione e acceleratori d’innovazione con il compito di supportare la NATO e i paesi alleati nel proprio processo di innovazione, sostenendo le start-up a sviluppare le tecnologie necessarie a preservare la superiorità tecnologica e facilitando la cooperazione tra settore privato e realtà militari.
L’Italia propone di ospitare il Regional Office presso le strutture nella costituenda Città dello Spazio, dove si insedierà, a fianco dei laboratori e degli spazi per le start-up, il Business Incubation Centre dell’Agenzia Spaziale Europea. Nelle more del completamento della Città dello Spazio, saranno comunque disponibili per l’immediato degli uffici presso le Officine Grandi Riparazioni di Torino.
Lo stesso generale Portolano ha ribadito a fine aprile l’importanza di Diana, confermando la candidatura del Piemonte, del suo Politecnico e l’industria bellica già strettamente interconnessi (come puntualmente stigmatizzato da “Umanità Nova”) a e ha confermato anche la denuncia di co-belligeranza di Antonio Mazzeo, relativa a quel coinvolgimento di Sigonella nelle operazioni di guerra nel Mar Nero, che nelle parole del generale di corpo d’armata riportate da “AnalisiDifesa” diventa: « il forte impegno dell’Italia nel sostenere il programma Air Ground Surveillance (AGS), evidenziando quanto esso sia indispensabile per l’Alleanza, poiché permette di espletare le fondamentali attività interforze di intelligence, surveillance e reconnaisance sia al livello strategico che operativo. Ciò assume una rilevanza ancora maggiore in questo momento storico con l’attuale conflitto in Ucraina».

100 %

Avanzamento



Approfondimenti


Neutralismo annientato dalle armi

Il triste caso della capitolazione scandinava nella delusione di Monica Quirico:
“Fine di un mito: la neutralità scandinava”.


Excusatio non petita, la debolezza di un destino presunto

Il tentativo di essere catalizzatore di ogni forma nazionalista e sovranista esibisce una parodia di parata sulla Piazza Rossa, cercando di spiegare cosa ci fa l’esercito d’occupazione russo in Ucraina:

GENNAIO FEBBRAIO MARZO MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

Aprile

28 aprile

    • Gaia Ravazzolo su “Formiche.net” ha descritto la consegna della seconda corvetta (la Damsah) delle 4 ordinate nel 2016 dal Qatar a Fincantieri. L’accordo prevedeva la costruzione secondo le regole Rinamil di altri 2 pattugliatori d’altura (Opv) e 1 nave anfibia (Lpd) per un controvalore di 4 miliardi di euro.
      Le corvette possono ospitare 112 militari d’equipaggio e un elicottero NH90.

Tra le attività a supporto del programma addestrativo a favore degli equipaggi delle QENF, previsto nel contratto, rientra la costruzione di un simulatore navale integrato preposto ad integrare le lezioni di carattere teorico previste per i frequentatori; il SiNaI.

23 aprile

  • Focus.de” informa che il cancelliere Olaf Scholz, insieme al ministero della difesa, ha deciso di acquistare elicotteri da trasporto pesanti per la Bundeswehr. Per cinque miliardi di euro, l’esercito tedesco riceverà 60 elicotteri da trasporto pesante CH-47F Chinook dal produttore americano Boeing, che rifornisce quasi tutti i paesi aderenti al patto atlantico; il costo stimato è di circa 5 miliardi di euro. Gli elicotteri saranno finanziati dal pacchetto di 100 miliardi per la Bundeswehr. La prossima settimana, il parlamento sarà informato dal ministro Christine Lambrecht (Spd); l’agenzia Reuters informa che gli elicotteri saranno finanziati dal fondo speciale previsto di 100 miliardi di euro per i militari che il cancelliere Olaf Scholz ha annunciato a seguito dell’invasione della Russia in Ucraina, ha detto il giornale. Gli elicotteri Chinook potrebbero essere consegnati al più presto nel 2025 e sostituiranno gli elicotteri CH-53G del produttore americano Sikorsky, che hanno circa 50 anniLa decisione pone fine a una disputa durata anni sul fatto che le truppe debbano ottenere il Chinook o il modello Sikorsky CH-53K, più nuovo ma anche più costoso. Secondo le informazioni di “Bild am Sonntag”, il prezzo ha fatto pendere la bilancia a favore di Boeing. Per la stessa somma di denaro, l’aviazione tedesca avrebbe ricevuto solo 40 aerei Sikorsky.


22 aprile

  • Da “ArmadaInternational” apprendiamo che il nuovo governo cileno del presidente Gabriel Boric ha acquistato 22 veicoli anfibi d’assalto modello AAV7 per trasporto truppe dall’esercito neozelandese al costo di 19,8 milioni di dollari. L’intento è di rafforzare le capacità di spedizione e di spiegamento rapido della brigata di spedizione anfibia della marina cilena, forte di 1200 uomini.
    La Nuova Zelanda aveva offerto il suo surplus di veicoli corazzati leggeri neozelandesi nel 2020. Dopo aver identificato il NZLAV come la soluzione più conveniente, il Cile ha iniziato i negoziati nel 2021.Si tratta di un derivato della serie LAV III di General Dynamics, il NZLAV è un veicolo da 17 tonnellate, a otto ruote motrici, tutto fuoristrada e corazzato. Armato con un cannone automatico Bushmaster da 25 mm, mitragliatrici secondarie e lanciagranate, ogni NZLAV può trasportare un equipaggio di tre persone e può ospitare e trasportare sette fucilieri. L’acquisizione di questo tipo di anfibio per il trasporto truppe prevede anche la spesa per 4 nuove navi da 9800 tonnellate.


22 aprile

  • Global Times” ha annunciato l’acquisizione da parte dell’esercito cinese di 2 cacciatorpediniere di classe 055 Renhai da 10.000 tonnellate equipaggiate con il missile balistico antinave ipersonico YJ-21 (testato in aprile dal People’s Liberation Army Navy nel report del Centro Studi Internazionali), costituito di 112 celle missilistiche a lancio verticale a bordo (un connubio difensivo efficace secondo “Agenzia Nova” per contenere l’egemonia Usa e scoraggiare un eventuale intervento a sostegno di Taiwan, dotata a sua volta di missili Hsiung Feng 3, inquadrata nel sistema Harpoon), 1 lanciamissili 052D e una nave d’assalto anfibia di classe 075, dichiarando esplicitamente che verranno dislocate nell’Indopacifico a causa della pressante rivalità statunitense nell’area, che però (secondo il “South China Morning Post”) non trova nessun alleato nella regione – Australia, Giappone, Filippine, Corea del Sud e Thailandia – disposto a ospitare missili a medio raggio con una portata fino a 5000 km con base a terra.


21 aprile

  • Triangolazioni del governo Usa per trasferire articoli e servizi di Difesa ai paesi alleati: l’holding italiana Leonardo vende a Tzahal, l’esercito israeliano, una fornitura di elicotteri da guerra AW119Kx della classe “Koala” fabbricati a Philadelphia (Penn.) attraverso il Dipartimento della Difesa americano (Foreign Military Sales) per 29 milioni di dollari; la notizia diffusa dalla rivista specializzata “Helis” è stata ripresa da Antonio Mazzeo nel suo blog, aggiungendo che «nel settembre 2020 il gruppo italiano e le forze armate israeliane avevano avviato una trattativa per la fornitura di altri elicotteri modello “Koala” e di due simulatori per la Scuola di Volo dell’Aeronautica militare ospitata nella base aerea di Hatzerim, nel deserto del Negev». Ma Israele è già cliente di Agusta Westland dal 2019, quando ne aveva acquisiti 7 per un controvalore di 350 milioni di dollari con compiti di sicurezza.

    Formiche.net” spiega che «tramite questi accordi l’acquirente non tratta direttamente con le industrie appaltatrici, ed è invece la Defense security cooperation agency americana a fungere da intermediario, gestendo l’approvvigionamento, la logistica e la consegna. Dal punto di vista contrattuale, saranno responsabili le Forze armate Usa», che hanno adottato questi elicotteri sulle unità navali della US Navy, sulle guardie costiere e per il corpo dei Marines; e sono già 104 i velivoli operativi nelle forze armate statunitensi e 470 sono i “Koala” venduti agli eserciti di Algeria, Bangladesh, Ecuador, Portogallo e Stati Uniti d’America; alla polizia della Corea del Sud e di tre stati brasiliani (Goias, Santa Catarina e Rio Grande do Sul); oltreché alle unità di controllo delle frontiere della Finlandia e della Lettonia. L’elenco è desunto dal blog di Antonio Mazzeo, che aggiunge: «Quello degli elicotteri “Koala” non è l’unico grande affare degli ultimi anni in Israele del gruppo militare-industriale italiano. Nel maggio 2020 Leonardo ha concluso un accordo con l’holding israeliana Rafael Advanced Defense Systems Ltd., per acquisire le tecnologie per il funzionamento dei sistemi d’arma e la ricerca dei bersagli dei nuovi aerei da combattimento leggero M-346FA, la variante di combattimento multi-ruolo dell’addestratore già in servizio con le forze armate di Italia, Polonia, Singapore e Israele. Nello specifico gli israeliani si sono impegnati a fornire i pod di quinta generazione Litening-5 e RecceLite per consentire ai caccia di Leonardo “di eseguire la ricerca del bersaglio utilizzando l’intelligenza artificiale per il suo rilevamento e tracciamento automatico”, secondo quanto dichiarato dai dirigenti di Rafael Advanced Defense Systems».

19 aprile

    • L’esercito americano ha annunciato che SIG Sauer  ha vinto il contratto per fornire le armi dei soldati statunitensi per il prossimo decennio; “DefenseNews” riporta che il fucile mitragliatore NGSW anche nella versione automatica è stato scelto dopo 27 mesi di valutazioni e test. È stato assegnato un contratto di ordine di consegna iniziale del valore di 20,4 milioni di dollari. L’MCX 6.8 Spear di SIG sarà designato come “XM5 Rifle” e l’LMG-6.8 belt-fed sarà designato come “XM250” – designazioni che seguono direttamente la M4/M4A1 Carbine e la M249 SAW che le nuove armi sostituiranno. Entrambe le armi sparano munizioni comuni da 6,8 millimetri utilizzando proiettili forniti dal governo e cartucce progettate dal fornitore. Le nuove munizioni includono diversi tipi di proiettili tattici e da addestramento che aumentano la precisione e sono più letali: infatti il nuovo proiettile da 6,8 mm dell’esercito americano sarà basato su un bossolo metallico ibrido, non sul design basato sui polimeri sviluppato da True Velocity.

Il sito specializzato “ModernFireArms” specifica che la mitragliatrice SIG SAUER NGSW-AR usa il blocco dell’otturatore rotante, e l’otturatore si aggancia all’estensione della canna. La pistola spara dall’otturatore aperto e, insolitamente per armi di questa classe, può sparare sia raffiche continue che colpi singoli. Il sistema a gas si trova sotto la canna e dispone di un pistone a corsa breve con un regolatore di gas manuale. La canna raffreddata ad aria può essere rapidamente sostituita se surriscaldata o usurata. Nella maggior parte dei casi, le canne sono dotate di soppressori di suono e flash rimovibili (moderatori), che sono necessari a causa delle alte pressioni delle munizioni militari da 6,8 mm.

La SIG Sauer ha sviluppato un proiettile con bossolo ibrido 6,8x51mm, commercializzato per i civili come 277 Fury, la munizione ha un corpo in ottone e una base in acciaio. Nel gennaio 2022, SIG ha annunciato che il fucile MCX SPEAR sarebbe stato disponibile sul mercato civile nel prossimo futuro.

19 aprile

  • Il Dipartimento di stato americano evidenzia sempre nei dispacci del Defense security cooperation agency che le forniture di armi sono proposte di vendita sono a sostegno della politica estera e degli obiettivi di sicurezza nazionale degli Usa. Nel caso della vendita per 42 milioni di dollari di articoli relativi al sistema di distribuzione delle informazioni multifunzionale Joint Tactical Radio Systems e relative attrezzature servirà per interoperare con le forze degli Stati Uniti e scambiare i dati tattici sicuri e avrà funzioni di deterrenza alle minacce regionali e rafforzerà la sua difesa interna. Tutti dati essenziali per rendere la transazione allineata con gli interessi americani e quindi ottenere il via libera da parte del Dipartimento di difesa, e sarebbero gli stessi criteri per ottenere dal Congresso permessi per eventuali acquisti di armi da parte degli americani.In questo caso le ditte coinvolte sono la californiana Viasat, Carlsbad e la Data Link Solutions, Cedar Rapids, una joint venture tra BAE Systems and Collins Aerospace di stanza in Iowa. Il governo australiano ha richiesto l’acquisto di 106 terminali MIDS JTRS; 15 terminali MIDS JTRS 6; e 7 kit di retrofit MIDS-Low Volume Terminal (MIDS-LVT); 4 Block Upgrade Two (BU2) del Multifunctional Information Distribution System. Sono inclusi anche i moduli crittografici (LCM) del terminale a basso volume (LVT). MIDS JTRS sostituisce numerose radio legacy, riducendo la necessità di ricambi eccessivi e di supporto logistico. Il MIDS JTRS è una radio a 4 canali progettata per eseguire la complessa forma d’onda Link 16, che consente una maggiore efficacia operativa senza consumare spazio, peso o potenza aggiuntivi. Aerei come caccia, petroliere, trasporto, comando e controllo e ala rotante, insieme a siti marittimi e fissi, possono tutti avvalersi dell’ottimizzazione offerta dal nuovo terminale di comunicazione e collegamento dati.

14 aprile

  • Venduti 12 elicotteri d’attacco AH-1 Cobra tutto compreso per 1 miliardo di dollari. La rivista “Nigrizia” riprendendo la notizia ricorda che 25 milioni del pacchetto comprendono una formazione sui Diritti umani (impartita dagli americani!!!): infatti a luglio “Foreign Policy” il Congresso aveva ritardato la vendita perché il governo Buhari stava intraprendendo una china autoritaria; ma ora è considerato un partner affidabile nella lotta contro il terrorismo. La vendita – riporta “DefenseNews” – include i Cobra prodotti dalla Bell; 28 motori T700-401C prodotti dalla General Electric; 2mila sistemi di armi di precisione avanzata usati per convertire missili non guidati, in missili a guida di precisione; e sistemi di visione notturna, puntamento e navigazione.
    Il nuovo elicottero va ad aggiungersi ai russi Mil Mu-24/35 “Hind” e agli italiani Agusta A109 power light attack helicopters.


13 aprile

  • L’altro Ouattara, Téné Birahima (il fratello che per ora fa il ministro della Difesa), ha dotato – secondo “Jeune Afrique” – l’esercito ivoriano di 10 nuovi elicotteri, 3 dei quali in consegna dopo pasqua: già alla fine del 2021 si sarebbe conclusa l’intermediazione eseguita attraverso un faccendiere maliano un contratto con l’azienda israeliana TAR Ideal Concepts per 5 MD-500 e 5 Agusta, a cui si aggiungerebbero alcuni droni; la C4 System assicurerebbe la formazione degli operatori dei velivoli senza pilota a bordo.
    Il paese tenta così di evitare l’insediamento di basi jihadiste nel Nord al confine con il Mali e il Burkina. Una base militare ivoriana è stata insediata a Tengrela.


11 aprile

  • Non si era ancora arrivati a richiedere l’ingresso nella Nato, ma già fughe di notizie (“Militaryleak”) riportavano la volontà anche della ancora neutrale Svezia di rammodernare la flotta aerea.
    La Saab si è aggiudicata un contratto dalla Defence Materiel Administration svedese per modernizzare il caccia JAS 39 Gripen C/D dell’aeronautica militare svedese: «fornirà miglioramenti di capacità» per estendere la vita utile del velivolo fino al 2035. L’ordine ha un valore di 52 milioni di dollari.Il JAS 39 Gripen è un caccia leggero multiruolo sviluppato dal costruttore svedese Saab. Oltre al Gripen C/D, l’aeronautica svedese dovrebbe ricevere 60 JAS 39 E/F, l’ultima variante del caccia, entro il 2027. Le consegne di serie sono iniziate il 24 novembre 2021.
    Il Gripen ha una configurazione ad ala a delta e canard con un design a stabilità rilassata e controlli di volo fly-by-wire. I velivoli successivi sono completamente interoperabili con la NATO. Nel 2006 infatti gli aerei Gripen svedesi hanno partecipato a Red Flag – Alaska, un’esercitazione multinazionale di combattimento aereo ospitata dall’Aeronautica degli Stati Uniti. I Gripen hanno effettuato sortite di combattimento simulato contro F-16 Block 50, Eurofighter Typhoon e F-15C, ottenendo dieci uccisioni senza subire perdite.


10 aprile

  • La Serbia di Vucic ha ribadito la sua intenzione di acquisire droni da combattimento turchi; secondo “klix.ba” il suo presidente ha promesso di rafforzare ulteriormente le difese del paese, tra le tensioni nei Balcani e l’invasione russa dell’Ucraina. Quando Erdoğan ha telefonato al presidente serbo per complimentarsi per la rielezione Vucic gli ha ricordato la promessa di forniture di droni Bayraktar Tb2, ottenendo assicurazioni che sarebbe stato accontentato. Gli stessi velivoli senza pilota venduti dalla Turchia a tutti i belligeranti del mondo, dagli alleati azeri agli ucraini, dal Marocco al Qatar, Polonia… e ad un’altra decina di paesi.

    Non è casuale poi che dopo l’acquisto di 12 Rafale da parte croata nel novembre 2021, Vucic ha annunciato nella stessa occasione che pure la Serbia è interessata all’acquisto di 12 velivoli della Dassault Aviation, anzi…

drone turco

8-9 aprile

  • Il 14 aprile il governo filoatlantista di Mitsotakis, tra i più impegnati a stanziare fondi in bilancio nell’acquisto di armi, ha fatto sapere (“EuropaToday ha diffuso la notizia) che sospende le forniture belliche a Kyiv, a cui sono già stati inviati due C-130 carichi di Kalashnikov e lanciarazzi. Questo perché ritiene di non poter sguarnire le proprie difese nel momento in cui la Turchia ha violato lo spazio aereo greco 11 volte in un solo giorno, come riferisce il ministro della Difesa greco, Nikos Panagiotopoulos.
    Già il 4 aprile secondo “GreekcityTimes” il 66% dei greci erano contrari all’invio di armi in Ucraina e i macchinisti ferrovieri di Trainose (proprietà di FS italiane) railway workers si rifiutavano di trasportare ordigni statunitensi e della Nato dal porto di Alexandropoulis.
    Dall’inizio degli eventi militari in Ucraina, più di 3000 soldati statunitensi e centinaia di veicoli corazzati e carri armati sono arrivati al porto greco di Alessandropoli. Da lì continuano in treno verso la Romania e altri paesi dell’Europa dell’Est membri della NATO: «I carri armati statunitensi appartenenti alle forze NATO, scaricati dall’enorme traghetto “Liberty Passion” nel porto di Alessandropoli, sono stati trasportati con la ferrovia attraverso la prefettura di Evros verso i paesi dell’Europa dell’Est. I carri armati delle forze NATO sono stati trasportati con la ferrovia da Alessandroupolis alla Romania attraverso la Bulgaria» (“in”).
  • Altro episodio di “resistenza” in terra ellenica contro la consegna di armi agli ucraini è avvenuto al porto di Thessaloniki, da dove provengono notizie (riprese da Osservatorio Repressione) di pressioni sui lavoratori perché si spostino ad Alexandropoulis a fare i crumiri al posto dei colleghi in mobilitazione


8-9 aprile

  • Come parte della cooperazione annuale tra i due paesi aerei dell’Esercito Popolare di Liberazione è stato effettuato un ponte aereo di due giorni (Pechino-Baku-Istanbul-Belgrado) con 6 pesanti Xi’an Y-20 della People’s Liberation Army Air Force per consegnare alla Serbia missili antiaerei a medio raggio cinesi HQ-22/FK-3 come parte di un contratto che Belgrado ha firmato con la Cina e che comprende anche droni CH-92 della China Aerospace Science and Technology Corporation, lo ha riferito “Defense news”.

    Un aereo da trasporto militare Y20 usato per il ponte aereo tra Pechino e Belgrado

    Il sistema (assimilabile ai Patriot americani e agli S-300 russi) è dotato di un nuovo missile ha una velocità di mach 6, può ingaggiare aerei, elicotteri, missili balistici e da crociera essendo condotto da un veicolo radar accoppiato a 3 veicoli lanciarazzi dotati di 4 missili a testa, quindi possono essere inquadrati 6 obiettivi in volo contemporaneamente

    Il neo rieletto presidente serbo Aleksandar Vučić ha respinto in un video sul  suo sito ufficiale le preoccupazioni dei paesi limitrofi per il “nuovo gioiello” dell’esercito serbo: «Non sono in grado di dire come li minacciamo con le armi difensive, perché è un sistema che serve a difendere dai missili da crociera e dagli aerei che violerebbero lo spazio aereo della Serbia».
    Montenegro e Kosovo sono molto preoccupati.
    Ma comunque non è il primo paese in Europa a dotarsi di missili cinesi: già in Turchia e Bulgaria sono state effettuate consegne, “Agenzia Nova” ritiene che si tratti di una dimostrazione di forza cinese nell’attuale contesto geopolitico balcanico, dove si stanno accumulando enormi quantità di armi .


8 aprile

  • Un programma di sostituzione del sistema missilistico di difesa americano Fim-92 Stinger  Reprogrammable Microprocessor (RMP) è stato avviato e si è ipotizzata la disponibilità per US Army e alleati di missili Maneuver-Short Range Air Defense (M-SHORAD Increment 3) operativi entro il 2027 quando ne saranno sfornati 10.000, secondo le informazioni di “Formiche.net”.
    Ma già il 23 aprile 2021 “Defense News” aveva dato notizia che i primi sistemi Shorad erano stati consegnati al battaglione dislocato ad Ansbach in Germania per testarne l’affidabilità.

    Nonostante il massivo utilizzo di Stinger nelle operazioni di guerra in Ucraina – o forse proprio in seguito a quell’esaurimento di fondi di magazzino – i missili spalleggiabili entrati nell’immaginario bellico delle milizie di Kyiv sono giudicati ormai obsoleti e quindi è automatico per il sistema di approvvigionamento mettere in cantiere il nuovo prodotto, i cui obiettivi da neutralizzare saranno aerei del tipo Rotary Wing (RW), Group 2-3 Unmanned Aircraft Systems (UAS) e velivoli da attacco al suolo Fixed Wing (FW); dovranno essere trasportabili dai soliti Stinger Vehicle Universal Launcher (SVUL) e comunque lanciabili da un solo uomo. Solo che, come riportato da “AresDifesa” ci sarà una maggiore precisione e intervalli di lancio più ravvicinati.
    Leonardo era già capofila per queste forniture del sistema di difesa antiaereo: l’M-SHORAD Mission Equipment Package (MEP) di Leonardo DRS è un sistema basato su un veicolo da combattimento Stryker A1 che include un pacchetto di attrezzature di missione progettato da Leonardo Drs. A settembre aveva conseguito un contratto da General Dynamics per fornire nuovi Mission Equipment Packages per M-Shorad a fronte di un ricavo di 204 milioni di dollari.


7 aprile

  • Una struttura di formazione sulla sicurezza finanziata dagli Stati Uniti per il Mediterraneo orientale, il Cyprus Centre for Land, Open-seas, and Port Security (CyCLOPS) è stata inaugurata a Larnaca. Secondo l’agenzia di France Press ripreso da “al-MonitorIl centro di alta formazione ispirato dagli Usa nasce per preparare in materia di controlli doganali, di sicurezza portuale, marittima e informatica e si rivolge a funzionari di stati dell’Unione Europea e del Mena; è fornito di piattaforme per la formazione, tra cui un finto passaggio di frontiera terrestre, un’area di screening dei passeggeri e un laboratorio mobile di formazione sulla cybersicurezza.

    Avviato dal Dipartimento di Stato americano ai tempi di Mike Pompeo, nel 2019, che scelse Cipro per incentivare il partenariato energetico con Grecia, Egitto, Israele e perché la posizione può difendere l’intera area del Mediterraneo orientale, inserendo nell’accordo anche la revoca di un embargo di 33 anni sulle armi degli Stati Uniti a Cipro per permettere l’esportazione di hardware militare “non letale”.


5 aprile

  • Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia si accordano per una collaborazione per creare armi ipersoniche (a Mach5) e anti-ipersoniche chiamata SCIFiRE (Southern Cross Integrated Flight Research Experiment) a sottolineare il patto di difesa che ha dato luogo all’Aukus. Si tratta di un lancio della Reuters, ripreso da “Infobae” e il sito delle forze armate aeree statunitensi rimarca i 15 anni di collaborazioni tra Usa e Australia per arrivare a jet ipersonici, motori a razzo, sensori… la nuova arma di precisione ipersonica, lanciata a propulsione e alimentata da un motore scramjet a soffio d’aria. Questa tecnologia, sviluppata dall’onnipresente Raytheon, sarà in grado di essere trasportato da aerei da combattimento tattici come l’F/A-18F Super Hornet, EA-18G Growler e F-35A Lightning II, così come l’aereo di sorveglianza marittima P-8A Poseidon.

    L’etichetta conferita a questi accordi è Air Warfare, Global.



5 aprile

  • Il 5 aprile l’Agenzia per la cooperazione di difesa e sicurezza del Dipartimento della Difesa degli Usa ha approvato una nuova vendita di armi a Taiwan per un valore di 95 milioni di dollari in attrezzature relative al sistema di difesa aerea Patriot, compreso l’addestramento. Infatti l’Ufficio di Rappresentanza Economica e Culturale di Taipei negli Stati Uniti (Tecro). ha richiesto l’acquisto del Contractor Technical Assistance, ovvero di addestramento, pianificazione, messa in campo, dispiegamento, funzionamento, manutenzione e sostegno del sistema di difesa aerea Patriot, delle attrezzature associate e degli elementi di supporto logistico. Oltre a questo Taiwan ha anche richiesto il Patriot Ground Support Equipment, pezzi di ricambio e materiali di consumo necessari a supporto delle attività di assistenza tecnica. L’appaltatore principale sarà Raytheon Technologies.

    Il Dipartimento degli Esteri taiwanese ha ringraziato gli Usa, sottolineando che si è trattato della terza volta in cui l’amministrazione del presidente Joe Biden, in carica dal 21 gennaio 2021, ha approvato vendite di armi a Taiwan.



5 aprile

  • L’Australia accelera i piani per l’acquisto di missili d’attacco a lungo raggio anni prima del previsto a causa delle crescenti minacce poste da Russia e Cina. L’“Associated Press” lo conferma con il fatto che i caccia FA-18F Super Hornet della Boeing sarebbero armati con missili aria-superficie JASSM-ER prodotti negli Stati Uniti da Lockheed entro il 2024, tre anni prima del previsto.
    Questi missili migliorati permetterebbero ai caccia di ingaggiare obiettivi a una distanza di 900 chilometri (560 miglia). Inoltre le fregate australiane di classe ANZAC e i cacciatorpediniere di classe Hobart è stato annunciato che saranno dotati di missili di fabbricazione norvegese Kongsberg NSM, che raddoppiano il raggio d’azione, entro il 2024, cinque anni prima del previsto.
    Il riarmo accelerato dei jet da combattimento e delle navi da guerra costerebbe 3,5 miliardi di dollari australiani (2,6 miliardi di dollari) e aumenterebbe la deterrenza dell’Australia nei confronti dei potenziali avversari: infatti il nuovo calendario di riarmo arriva dopo che le Isole Salomone hanno annunciato un progetto di patto di sicurezza con la Cina. Secondo i suoi termini, la Cina potrebbe inviare personale militare nelle isole del Sud Pacifico, per aiutare a mantenere l’ordine e per altre ragioni, anche navi da guerra per scali e rifornimenti, il che ha portato a immaginare la costruzione di una base navale cinese lì.

JASSM-ER

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]]> Barriere https://ogzero.org/studium/barriere-e-ostacoli-impediscono-il-libero-movimento-delle-persone/ Tue, 03 May 2022 15:50:06 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7240 L'articolo Barriere proviene da OGzero.

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Ostacolato movimento

In un mondo che vive di relazioni impostate sul confine, abbiamo la necessità di parlare di come il confine stesso si evolve, e come viene vissuto da chi lo rafforza, da chi lo combatte, da chi lo rende fluido, da chi se ne appropria facendone una parte di sé.

Abbiamo la necessità di raccontare che, mentre l’interconnessione globale permette di portare i confini della propria comunità di appartenenza come parte del bagaglio di viaggio, con i migranti che in tutto il mondo possono continuare a vivere attivamente più luoghi (se non fisici, sicuramente culturali e politici), assistiamo ancora alla tendenza a rafforzare, militarizzare e brutalizzare linee di demarcazione che dovrebbero e potrebbero essere ogni giorno meno visibili.

Abbiamo la necessità di raccontare le barriere e i muri che impediscono fisicamente il movimento, la migrazione, l’accesso alle risorse e la sostenibilità sociale.

Abbiamo scelto di raccontare il muro della vergogna di Lima, barriera tutta interna a una città e a un paese in cui la sperequazione sociale ed economica bolla, spesso incondizionatamente, la vita di migliaia e milioni di persone. Abbiamo scelto di raccontare le barriere tra Botswana e Zimbabwe, caso non isolato nella regione, che bloccano il movimento di animali e persone migranti, in controtendenza con l’integrazione di territori naturali da proteggere per il bene di tutti e tutte. Abbiamo scelto di raccontare il muro della Cisgiordania, da anni strumento di separazione e colonizzazione nei confronti di un popolo che si vede limitare l’accesso alle risorse naturali.

Abbiamo scelto di raccontare i muri e le barriere del mondo, per sostenere le pratiche e le esperienze reali che seguono processi sociali, economici e storici opposti a quelli che vedono e vogliono l’esistenza di quei muri.

(Testi di Piero Grippa, mappe di Luigi Giroldo)

25%

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Lima – Muro della vergogna

43 distretti, 10 milioni di abitanti, e un muro di 10 chilometri che se ci sbatti il muso non ti permette più – se mai ci fossi riuscito – di far finta di non vederlo, quel confine evidente in tutta la metropoli. Lima, il miraggio di una vita più serena, la grande città dove trovare lavoro e costruirsi un’esistenza per qualcuno impossibile da immaginare nei villaggi di provincia. La provincia, prima invasa e saccheggiata dagli imperi europei, oggi stritolata da compagnie minerarie. In mezzo, il periodo En la boca del lobo – come recita uno dei film più importanti prodotti in Perù nel 1988 per la regia di Francisco Lombardi – tra le minacce dei guerriglieri terroristi di Sendero Luminoso e della repressione governativa che non guardava in faccia a nessuno.


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Botswana-Zimbabwe: l’uomo e l’ambiente

Due storie diverse, separate da una linea – una tra le tante che segnano le mappe del continente – che arbitrariamente attraversa territori comuni agli allevatori e, soprattutto, al bestiame. E sono proprio gli animali – il bestiame da reddito destinato alle esportazioni, così come la fauna che popola gli ambienti naturali – che sembrano essere al centro di questa vicenda: per raccontare la gestione delle zone di confine tra Botswana e Zimbabwe (ma anche, ampliando lo sguardo, Namibia, Zambia e Sudafrica) non si possono non tenere in conto le relazioni tra bestiame allevato e selvatico, e tra uomo e ambiente, insieme alle dinamiche migratorie prettamente umane. Parliamo infatti di una regione caratterizzata dalla presenza (e dall’ampliamento) di parchi naturali e zone protette transfrontaliere, tra cui quella dell’Okavango-Zambesi. Ampie zone, quindi, in cui la protezione delle specie animali selvatiche da un lato, e dei bovini allevati per l’esportazione dall’altro, rappresenta evidentemente una priorità politica.


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Palestina – Mauer macht frei

Oltre 700 chilometri per separare, segnare una distinzione netta tra un noi e un loro, ma anche per separare città, villaggi e comunità più o meno grandi le une dalle altre, e ognuna dalle proprie risorse idriche e agricole. Checkpoint, torrette, filo spinato e otto metri di cemento per proteggere quel noi dagli attacchi di quel loro, un confine militarizzato la cui necessità di protezione nasce con la sua stessa costruzione, in quello che potrebbe sembrare un paradosso politico, ma che rappresenta uno dei concetti chiave nella sostanza delle relazioni internazionali dalla guerra fredda in giù.


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]]> LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A MARZO https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-a-marzo/ Sun, 03 Apr 2022 22:32:23 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=6957 L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A MARZO proviene da OGzero.

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  • David di ArmaLite

Il marketing di Marzo eccitato dallo svuotamento degli arsenali. Sfilate primavera-estate

Se per l’editoriale di febbraio la notizia di punta era l’invasione dell’Ukraina, per quello di marzo l’evento emblematico è stata la fiera di Riyad, dove tutti gli stati che si sentono sotto attacco (ovvero l’unanimità, perché altrimenti non legittimano la spesa pubblica per i dispositivi militari) si possono riarmare. Ed è emblematico che l’esercito ucraino in questi 8 anni si sia attrezzato al punto da resistere ai carri armati mal organizzati di Mosca: non c’è da stupirsi. L’Ucraina è il nono esportatore di armi (soprattutto leggere), in particolare in Africa, dove fa da triangolazione per conto della produzione polacca che è costretta dalle regole comunitarie a non procurare armi a paesi belligeranti, ma Kyiv può – finché non entra nella EU (e forse non gli conviene); e attraverso quelle triangolazioni ha potuto riarmarsi con ordigni micidiali come i droni turchi – già risolutori in Nagorno – o sofisticati come gli Stinger americani.
La moltiplicazione di Fiere di ordigni in tutto il mondo (e a Riyadh in particolare) non può che terrorizzarci, perché è un segnale che… c’è mercato e la richiesta aumenta, come prima di ogni conflitto mondiale.
Il marketing militare poi non ha limitazioni, perché proprio l’attributo testosteronico “militare” sfonda tutte le porte e penetra qualsiasi pudore, persino quelli dell’altrimenti sacro diritto d’autore: l’immagine in copertina proviene da un articolo de “Il giornale dell’arte” (8 marzo 2022), giustamente perplesso per il fatto che si possa trascendere dalle normative che regolano l’uso delle riproduzioni artistiche (ricordate Walter Benjamin, un altro che, preconizzando il disastro nazista precedente, preferì farsi fuori da solo): quell’immagine del David “influencer” attrezzato con la protesi fallica di ArmaLite per poter essere usata ha sicuramente pagato tantissime royalties – e quelle provengono dai cadaveri che tanto sensibilizzano le coscienze – ma soprattutto quei soldi hanno pagato l’autorizzazione degli Uffizi.


Come i soldi sauditi hanno imposto l’ennesima sagra dello strumento di morte violenta: dal 6 al 9 marzo si è svolta a Riyadh la prima edizione del World Defense Show (Wds), fiera biennale internazionale in più del settore militare di cui non si sentiva l’esigenza diretta da Andrew Pearcey: 590 aziende di 42 paesi diversi. Gami, l’Autorità Generale per le industrie militari del Regno saudita, è la sigla che ha patrocinato la kermesse con i ministeri della Difesa e dell’Interno, la Guardia Nazionale e l’intelligence saudita. Mbs in persona – Mohammed bin Salman al-Saud, primo viceministro e ministro della Difesa – ha sovrinteso ai lavori che puntano a competere con altri appuntamenti dell’industria militare, della sicurezza e spaziale, come il Farnborough International Airshow o il Paris Air Show.

«Ci sono esposizioni militari in tutto il mondo e l’Arabia Saudita ha pensato bene che fosse giunto il momento di portare uno di quegli eventi qui in Arabia. Vogliamo rappresentare l’intero ecosistema della filiera militare, dalle piccole aziende che forniscono le medie aziende alle medie realtà che forniscono le grandi corporations. Ci aspettiamo di vedere ordini dai grandi player del settore, ma ci aspettiamo anche risultati entusiasmanti dai competitors più piccoli», ha detto Andrew Pearcey.

Il budget per la difesa dell’Arabia Saudita quest’anno è stato di 171 miliardi riyal (46 miliardi di dollari circa), con una diminuzione del 10% rispetto al 2021, ma è una cifra che si colloca ancora tra le prime dieci spese militari al mondo. I vertici militari sauditi, che hanno voluto appositamente l’organizzazione in terra saudita perché hanno annusato il momento propizio e il fatto che chi ospita è privilegiato nei traffici. Sia di acquisto che di vendita: 23 contratti sono stati firmati da Riyadh per 3,4 miliardi di dollari.

“I nuovi sistemi d’arma rafforzeranno la prontezza delle forze armate e i sistemi di difesa e ci saranno ricadute importanti per le industrie militari nazionali», ha commentato Khaled Al-Biyariresponsabile del settore acquisizioni del ministero della Difesa saudita«I contratti stipulati rispondono all’ambiziosa visione della leadership del Regno di rafforzamento della produzione e dell’efficienza industriale e del settore militare, nota come Vision 2030».

Lanciata dalla casa regnante con il fine di diversificare l’economia e renderla sempre meno dipendente dall’estrazione petrolifera, Vision 2030 punta in particolare a destinare entro la fine del decennio la metà della spesa militare all’acquisto di sistemi e apparecchiature prodotti da industrie localizzate nel territorio saudita. Nel corso del World Defense Show, il ministero per gli investimenti del paese mediorientale ha firmato 12 memorandum di collaborazione con altrettante aziende internazionali per promuovere progetti di ricerca e sviluppo nel settore industriale aerospaziale e militare. «Le attività di business saranno sviluppate grazie alla partnership con alcuni importanti gruppi, come Hanwha Corporation (sudcoreana)Expal Milkor (spagnola), Naval Group (francese) e  Leonardo (italiana)», riferisce “Arabnews.

Dal sito della Luiss ricaviamo poi che 2 contratti sono stati conclusi con la statunitense Raytheon Company, per 533 milioni di dollari, per rafforzare le capacità dell’aviazione del Regno. Altri due accordi, per un valore di 400 milioni di dollari, sono stati poi stretti con Thales Group, una società francese che fornisce servizi per i mercati della difesa e della sicurezza.

Tra gli altri partner riportati da “al-Arabiya” con cui il Ministero della Difesa di Riad ha stretto accordi vi è il conglomerato sudcoreano Hanwha, con il quale è stato stipulato un contratto da circa 800 milioni di dollari, per rafforzare le capacità di difesa del Regno e le catene di approvvigionamento.Un’altra intesa da 114 milioni è stata invece firmata con la cinese China North Industries Corporation Limited (Norinco) e altri due, del valore di 122 milioni, sono stati firmati con la sudcoreana Poongsan Corporation.

Antonio Mazzeo ha riepilogato tutte le armi esibite da Leonardo in quell’occasione in un articolo su “Stampalibera.it” aggiungendo che per sapere se e cosa Leonardo riuscirà poi realmente a vendere agli organizzatori e ai visitatori del World Defense Show bisognerà attendere ancora del tempo. Di certo è che proprio alla vigila della kermesse il gruppo italiano ha ottenuto due importanti successi con le autorità saudite. Il 7 febbraio, in occasione del meeting organizzato ancora dall’Autorità Generale per le industrie militari (Gapi) per lanciare la Roadmap di promozione del capitale umano dell’industria bellica nell’ambito di Vision 2030, Leonardo ha firmato con i sauditi un accordo di collaborazione nel settore della ricerca e dello scambio di know how.

Infine notazioni interessanti provengono da un articolo di “AfricaExpress”, dove si leggono nomi ricorrenti nel mondo della produzione delle armi (come si può rilevare dalla lista riprodotta qui di seguito che riporta nomi che in questo testo sono tutti citati), ed è straniante rilevare come Russia e Ucraina si trovino fianco a fianco in questa rassegna di “sporchi affari”, in quanto due tra i massimi produttori di armi al mondo:

«Tra le aziende blue chip presenti al Wds ci sono il gruppo brasiliano aerospaziale e della difesa Embraer, i giganti statunitensi Raytheon, General Dynamics e Lockheed Martin (che ha già annunciato di voler investire in Arabia Saudita più di 1 miliardo di dollari nella produzione militare) e il produttore britannico Rolls Royce. Tra i tanti espositori a contendersi la clientela anche aziende militari Russe (Almaz, IBZ, Rostec, Technodinamika, Rosoboroneexport, Russian Defence Export) e aziende miliari Ukraine (STM, STE, Progress)».

100%

Avanzamento



Die letzten Tage der Menschheit

Leader mondiali e nazionali del traffico di armi.

La corsa agli armamenti e i sistemi di addestramento. La sofisticazione della millenaria Arte della Guerra trasformata in Guerra di Robot attraverso il coinvolgimento di laboratori di ricerca… attenzione “Guerra di Robot” non “Guerra tra Robot”: i droni uccidono umani. Alcuni di questi punti si trovano in questo intervento di Antonio Mazzeo su Radio Blackout:

“Utopia del contingente da disarmare”.

GENNAIO FEBBRAIO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

Marzo

29 marzo

  • Secondo “Athens News” la Grecia ha firmato un’alleanza difensiva con la Francia, in base alla quale ha acquistato 24 aerei (diciotto+6) Rafale di quinta generazione e 6 navi da guerra: 3 fregate Belharra e 3 corvette classe Gowind. I primi 6 aerei sono già arrivati in Grecia. La commessa è di 4 miliardi che si vanno ad aggiungere ai 3,4 miliardi dell’accordo di gennaio per la fornitura di altri 18 Rafale.
    L’incrociatore corazzato Georgios Averof è la nave più gloriosa della flotta greca, attualmente una nave museo nel parcheggio eterno di Paleon-Faliron nel sud di Atene, teatro di questa lugubre pantomima della firma.

    Battleship Averof, nave museo

    Battleship Averof è il luogo in cui sono state apposte le firme dei ministri della difesa greco Nikos Panagiotopoulos e francese Florence Parly

    L’intesa arriva mentre Atene rafforza le sue Forze Armate in risposta alle tensioni con la vicina Turchia. I caccia Rafale saranno venduti dalla società Dassault Aviation e saranno consegnati a partire dall’estate del 2024, portando la flotta dell’aeronautica militare ellenica a 24 Rafale; inoltre la marina greca acquista con questo stesso contratto tre fregate francesi Belharra di classe FDI, che saranno costruite dall’appaltatore della difesa Naval Group a Lorient, nella Francia Occidentale. La consegna è prevista entro il 2026.


26 marzo

  • “The Economist” ha annunciato il prossimo utilizzo in Ucraina di bombe volanti delle dimensioni di una baguette.
    I machisti sarmatici potranno applicarsi a una nuova canzone sciovinista, inneggiante stavolta agli Switchblade, i missili suicidi inclusi tra gli ordigni che gli Usa stanno inviando a Kyiv, dopo l’annuncio fatto da Biden il 16 marzo, relativo alla spedizione di 100 droni utili per il contenimento dell’avanzata delle truppe di terra.
    Si tratta dei droni prodotti da AeroVironment, con una precisione millimetrica e molto più sottili dei Javelin della canzone.

    La differenza tra Javelin e Switchblade è data dal fatto che il primo viene programmato per colpire un bersaglio, mentre la nuova fornitura riguarda missili che possono volare verso una pletora di potenziali bersagli e l’operatore può scegliere il più appetitoso da distruggere attraverso telecamere e rilevatori termici all’infrarosso che trasmettono via Gps le immagini. Ci sono due modelli di queste “munizioni predatrici”, entrambi in grado di confondere i radar, di interfacciarsi con altri droni e sono configurabili in pochi minuti attraverso un tablet. Rispetto ai Bayrakhtar TB2 turchi la differenza è nelle dimensioni e nel bisogno di piste di atterraggio dei velivoli costruiti ad Ankara.

    Lo Switchblade 300 è il più piccolo. Misura circa 30 centimetri e pesa quasi 2 chili e mezzo, vengono lanciati da un piccolo tubo simile a un mortaio. Con un attacco di precisione e munizioni avanzate; hanno una portata di 10 chilometri e un’autonomia di 15 minuti. La loro velocità di crociera è di 101 chilometri all’ora e la loro velocità operativa è di 161 chilometri all’ora. Volano a un’altitudine inferiore ai 152 metri. La loro testata, delle dimensioni di una granata, è efficace contro i veicoli non corazzati e i gruppi di truppe; non può penetrare la corazza dei carri armati.

    lo Switchblade 600 è più grande e più efficace contro bersagli corazzati: pesa 10 volte tanto e misura 1,3 metri; dotati di un attacco di precisione con una testata anticarro, l’altitudine operativa è meno di 200 metri,con una portata di 40 chilometri e un’autonomia di volo di 40 minuti. Le velocità di crociera e di corsa sono 113 e 185 chilometri all’ora, rispettivamente.


25 marzo

  • L’improvvisamente atlantista Erdoğan, nel pieno della sua trasfigurazione diplomatica: globale sull’Ucraina come emissario degli interessi Nato; medio orientale della normalizzazione con i paesi del golfo; le nuove relazioni distese con Israele e la riconciliazione con gli Emirati per spartirsi Libia e Corno d’Africa. In una fase simile non si possono non riallacciare gli accordi firmati nel 2018 per acquisire il sistema franco-italiano di difesa aerea e missilistica a lungo raggio SAMP/T, che erano stati interrotti per l’ostilità francese nei confronti di Ankara. E infatti “Daily Sabah” riferisce della ripresa degli incontri per l’acquisto. Il sistema è particolarmente versato nell’annientamento di Stealth, droni e missili; basato sul nuovo missile intercettore ASTER 30 B1NT, con capacità d’ingaggio anche di missili balistici a medio raggio, categoria NODONG/SHAHAAB-3, e sul nuovo radar ci sarà il Thales GF-300 della Dassault Aviation.

    Samp/NT

    Il consorzio Eurosam è composto dal produttore europeo di missili MBDA, a sua volta una joint venture tra l’Airbus e l’italiana Leonardo e la britannica BAE Systems, e l’appaltatore francese della difesa Thales, i cui principali azionisti sono lo stato francese e il produttore di jet da combattimento Dassault Aviation.


24 marzo

  • In Cina, con l’avanzamento della ricerca ipersonica a Mach 8 e oltre, la quantità di dati sperimentali da elaborare e analizzare è aumentata significativamente, Quindi i ricercatori stanno costruendo un sistema di intelligenza artificiale (AI) che può progettare nuove armi ipersoniche da solo, identificando le onde d’urto che si verificano nei test della galleria del vento per simulare le condizioni di volo estreme, anche se non hanno ricevuto istruzioni su cosa cercare.

    Secondo il team di ricerca guidato dal professor Le Jialing del China Aerodynamics Research and Development Centre di Mianyang, nel Sichuan, che ha pubblicato i suoi risultati il 16 marzo nel “Journal of Propulsion Technology”, una pubblicazione peer-reviewed gestita dall’industria cinese della difesa aerospaziale, senza intervento umano, la loro macchina AI, basata su una scheda grafica a basso costo di tre anni fa, ha impiegato circa 9 secondi per elaborare un’immagine e ha costruito una base di conoscenza propria per aiutare lo sviluppo di nuovi motori per missili ipersonici o aerei che potrebbero percorrere distanze maggiori a velocità molto più elevate.

    L’informazione del “South China Morning Post” del 24 marzo è stata ripresa dalla rivista “AI Supremacy” 4 giorni dopo. Questa conoscenza permetterebbe all’AI di prevedere il verificarsi di onde d’urto e di elaborare progetti di armi ipersoniche per controllare meglio il flusso d’aria: la precisione delle armi ipersoniche potrebbe essere migliorata di più di 10 volte se il controllo venisse tolto dalle mani dell’uomo e dato a una macchina. A.I. come ingegnere capo, generale capo e capo delle comunicazioni alla fine per “programmi speciali militari”, proprio alla fine diventa un gioco da ragazzi. Ciò significa che l’I.A., man mano che diventa più sofisticata, diventa anche esponenzialmente più pericolosa per il mondo.

    L'Intelligenza artficiale soppianta i tecnici e può accelerare di 10 volte l'analisi delle sperimentazioni nella galleria del vento

18 marzo

  • Janes” ha annunciato che il Niger ha ordinato veicoli corazzati APC dalla Nurol Makina da aggiungersi ai droni Bayraktar TB2 e agli aerei d’addestramento e attacco leggero Hurkus. Mohamed Bazoum, il presidente del Niger era stato in Turchia all’inizio di marzo visitando gli stabilimenti Baykar, che fabbricano i TB2, e poi alla Havelsan, alla Turkish Aerospace, alla Aselsan, e anche Roketsan, specializzato nella fabbricazione di missili e razzi intelligenti.

    Il Niger è la terra dei traffici illeciti: denaro, droga, armi, esseri umani. Un paese che ha fatto dell’illecito la ragione dei propri guadagni; il paese più povero al mondo, ma, Mohammadou Issoufou, ex presidente nigerino aveva speso milioni e milioni di dollari per acquistare armi, elicotteri e aerei da combattimento russi e francesi, tradendo la sua piattaforma elettorale di stampo progressista che lo ha portato al vertice dello stato, impoverendo ancora di più la sua gente. Il neoeletto Mohamed Bazoum va nella stessa direzione, non a caso sul finire del 2021 ha acquistato dalla Turchia nuovi droni. L’impegno e le spese militari prevalgono su tutto, pur di mantenere i privilegi ereditati dal suo predecessore e allora si aggiungono altri denari sperperati in questo Apc.

    APC-Nurol

    Bazoum mentre ispeziona gli Ejder Yalçin dotati di stazioni d’arma Aselsan Serdar, ma dipinti con la mimetica usata dal Comando congiunto delle forze speciali del Qatar, che ne ha fatto un grosso ordine.

17 marzo

  • Il “Daily Sabah” ha scritto che l’esercito indonesiano ha ricevuto dalla Turchia il primo lotto di Kaplan MT/Harimau Hitam medium weight tank prodotto congiuntamente da FNSS Savunma Sistemleri di Ankara e dall’indonesiana PT Pindad, con la collaborazione dell’azienda belga costruttrice della CMI Defence Cockerill® 3105, una torretta integrata sul blindato ed equipaggiata con un cannone ad alta pressione da 105 millimetri Cockerill® CT-CV 105HP; è anche dotato di un sistema IFF, Hunter Killer System per la selezione del bersaglio, e Auto Target Locking System per assistere il puntatore, inoltre il serbatoio può resistere a proiettili AP 14,5×114mm a 200 metri con 911 m/s di velocità. Il ventre del serbatoio utilizza lo scafo a V, in grado di resistere a 10 kg di mine AT sotto i cingoli e sotto il centro.
    Kaplan in turco è sinonimo di Harimau che in indonesiano significa “Tigre”.
    Si tratta della prima esportazione di carri armati dalla repubblica di Turchia dopo l’embargo tedesco sui cingolati di Ankara dovuto alle operazioni belliche in Rojava: infatti in precedenza l’industria bellica FNSS montava sul carro armato MBT motori diesel da 1500 cavalli della MTU Friedrichshafen GmbH, ora sostituito dal motore della sudcoreana Defense Industries (SSB).


15 marzo

  • “DefenseNews” dà notizia che il Dipartimento di Stato approva la possibile vendita di 8 elicotteri MH-60R prodotti dalla Lockheed Martin Rotary and Mission Systems alla Marina spagnola a fronte di un preventivo di spesa di 950 milioni di dollari. La vendita includerebbe anche una gamma di armi e sistemi – missili Hellfire aria-superficie, 100 sezioni di guida WGU-59/B Advanced Precision Kill Weapon System (APKWS) II, apparecchiature di comunicazione, 4 sonar a bassa frequenza (ALFS), radar multimodo APS-153, boe soniche e 20 motori T-700-GE-401C – per consentire la guerra di superficie, la guerra antisommergibile e la guerra elettronica da questi elicotteri già basati sulle navi della US Navy, della Royal Danish Navy, della Royal Australian Navy, della Royal Saudi Naval Forces, della Marina ellenica. Nel 2021 anche la Corea del Sud e l’India hanno opzionato questo MH-60R-Romeo, che sarebbe particolarmente adatto al sistema di combattimento Aegis della Lockheed-Martin in dotazione alla fregata di difesa aerea della classe Álvaro de Bazán in forza alla Marina spagnola.



14 marzo

  • Scholz continua a far discendere le scelte tedesche da quelle della Nato. L’agenzia Reuters ha annunciato che la Luftwaffe adotterà gli F35 di quinta generazione in sostituzione dei vecchi Tornado: la Bundeswehr – secondo quanto riportato da “Aviation Report” possiede ancora 93 Tornado, dopo aver ricevuto originariamente un totale di 357 unità, dei quali 83 sono ancora operativi ma il loro utilizzo sta diventando sempre più costoso. Infatti l’opzione americana ha avuto successo in quanto il caccia della Lockheed-Martin è più adatto in uno scenario di “nuclear sharing”, in base a quanto previsto dalla “condivisione nucleare” tra paesi della Nato: cioè sono predisposti a caricare ordigni nucleari.
    E questo acquisto di 35 velivoli (secondo il calcolo di “Deutsche Welle”)  fa seguito all’innalzamento del budget degli stanziamenti per la Difesa tedesca, innalzati a 70 miliardi di euro (il 2 per cento del pil annuo), a cui si aggiungono 100 miliardi di fondo speciale. Con questa potenza armata Berlino si prospetta come base per il costruendo esercito europeo comunitario. E cominciano dagli F-35 assemblati a Cameri (Novara).


I caccia F35 Lightning II - Lockheed-Martin

9 marzo

  • La Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha superato il 9 marzo le controversie politiche che avevano ritardato l’approvazione del finanziamento del sistema di difesa missilistica israeliano Iron Dome per una somma di 1 miliardo di dollari. A riferirlo con soddisfazione è stato il giorno successivo “The Times of Israel”. Il denaro finanzierà missili intercettori per quel sistema difensivo che si è contrapposto ai 4300 razzi sparati da Hamas in 11 giorni nel 2021, annientandone il 90 per cento.

    Il governo di Zhelensky aveva chiesto a più riprese il sistema in previsione dell’invasione russa, ma senza successo per il timore di Bennett che si potessero danneggiare le relazioni israeliane con Mosca: infatti “EurasianTimes” riporta che fu Tel Aviv a fermare un tentativo degli Stati Uniti di trasferire batterie di missili Iron Dome all’Ucraina.

    Agenzia Nova” fornisce le specifiche tecniche del sistema: creato dalle aziende israeliane, Rafael Advanced Defense Systems e Israel Aerospace Industries, con il sostegno degli Stati Uniti, l’Iron Dome è diventato operativo nel 2011. Israele ha ora dieci batterie dispiegate in tutto il paese, ciascuna con tre o quattro lanciatori in grado di sparare 20 missili intercettori. Il sistema ha poi subito evoluzioni fino ad essere adattabile alle operazioni navali.

    La Camera statunitense ha inoltre approvato un finanziamento annuale alla difesa israeliana di 3,8 miliardi di dollari per la sicurezza senza scopo di lucro.


Iron Dome, sistema di protezione missilistica in dotazione a Tzahal, pagato dal governo americano

7 marzo

  • Il 7 marzo a Sidney il governo australiano ha annunciato un preventivo di spesa di almeno 7,4 miliardi di dollari americani per la costruzione di una nuova base sulla costa orientale che possa ospitare la nuova flotta di sottomarini a propulsione nucleare, frutto dell’accordo Aukus, che il 15 settembre aveva spinto gli australiani a stracciare il contratto siglato con Parigi per la fornitura di 12 sommergibili Barracuda a propulsione diesel/elettrica del costo di 56 miliardi per mettere in conto l’acquisto dagli Usa (o dalla Gran Bretagna) di 8 sottomarini a propulsione nucleare nell’ambito dell’accordo trilaterale Aukus (Australia, Uk, Usa).

    Ne dà notizia South China Morning Post; l’esistenza della nuova base prevista per il 2040 non contempla la chiusura di quella occidentale nei pressi di Perth che ospita i vecchi SSK Collins (varati nel 1996), per i quali è previsto uno stanziamento per l’ammodernamento. A breve la Royal Australian Navy comunicherà se la scelta sarà caduta su gli Astute della Royal Navy, oppure i Virginia in servizio presso la US Navy.
    Il motivo per la scelta di tempi per l’annuncio è rivelato indirettamente dalle parole del premier australiano Scott Morrison per il quale la
    guerra in Ucraina si estenderà inevitabilmente all’Indopacifico: «Stanno crescendo la militarizzazione dell’area e gli attacchi alle democrazie liberali nella regione Asia-Pacifico e l’Australia deve affrontare l’ambiente di sicurezza più difficile e pericoloso degli ultimi 80 anni. Ci saranno anche vantaggi significativi per l’industria locale e nazionale nel supportare la nuova base e la flotta di sottomarini a propulsione nucleare». A lui fa eco Andrew Shearer con l’affermazione che il presidente cinese Xi Jinping sembra pianificare di dominare la regione Indo-Pacifica e usarla per dare luogo a un “arco di autocrazia” che sta rimodellando il mondo.



6 marzo

  • La KCNA, agenzia nordcoreana di informazione annuncia che sabato 5 marzo è avvenuto un secondo test di lancio di razzi in una settimana. L’esperimento si colloca nell’ambito dei sistemi satellitari di ricognizione per nascondere il collaudo di missili balistici vietati dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. L’esercito sudcoreano ha affermato che il missile nordcoreano lanciato da Sunan ha raggiunto un’altezza di circa 560 km e ha volato per 270 km verso il mar del Giappone. “South China Morning Post” ricorda che questi blitz di test di armi riprendono dopo un mese di relativa calma durante le Olimpiadi invernali di Pechino, e mentre il mondo sta concentrando sull’Ucraina ogni attenzione. Il lancio di domenica è il nono di Pyongyang finora quest’anno, compreso il test del suo missile più potente dai negoziati del 2017.
    La Corea del Nord, inoltre, continua presumibilmente a produrre materiali fissili per armi nucleari nel suo principale Centro di ricerca scientifica nucleare di Yongbyon. È quanto ritiene il sito web di monitoraggio statunitense “38 North”: «Le recenti immagini satellitari commerciali del Centro indicano la produzione in corso di materiale fissile, sia plutonio che uranio arricchito; queste attività, così come la graduale espansione e l’evidente occupazione di alloggi per il personale negli ultimi anni, suggeriscono tutte che il complesso è pronto per l’espansione».



4 marzo

  • Il servizio di notizie di difesa internazionale “Battlespace” annuncia l’attesa scelta della marina polacca che aveva indetto una gara per l’acquisto di una nuova classe di fregate. Se l’è aggiudicata il progetto britannico Arrowhead 140 di Babcock International.

    L’azienda londinese ha detto di aver concluso una serie di accordi di partenariato di cooperazione strategica con il consorzio PGZ-Miecznik responsabile della consegna di tre fregate dai cantieri navali della città portuale polacca di Gdynia. Anche i fornitori di sistemi chiave nel programma Miecznik sono coinvolti: Thales UK, insieme al suo partner locale OBR CTM, fornirà il sistema di gestione del combattimento Tacticos, mentre il missile Sea Ceptor di MBDA UK fornirà capacità antiaeree.
    La decisione a favore di Babcock significa che è stata declinata la proposta Meko A-300PL di ThyssenKrupp Marine Systems. Un segnale di rivalità tra le due nazioni mitteleuropee, che affonda nella storia di infiniti conflitti tra nazionalismi locali durante i quali le popolazioni sarmatiche, dei Carpazi e anche dei Sudeti si sono sempre sentite schiacciate tra Prussia e Russia.


Babcock sta costruendo cinque fregate di tipo 31 per la Royal Navy britannica utilizzando la piattaforma Arrowhead 140. E l'anno scorso pure l'Indonesia ha selezionato la Arrowhead 140 per il prossimo programma di fregate

3 marzo

  • Moses Khanyile, coordinatore del Consiglio Nazionale dell’Industria della Difesa sudafricano (Ndic), ha informato il 3 marzo il Comitato Permanente Congiunto sulla Difesa che erano state superate le remore morali alla vendita di armi verso alcuni paesi del Medio Oriente (Eau, Turchia, Oman, Arabia saudita) per i quali le consegne erano bloccate dal 2019, quando il National Conventional Arms Control Committee (Ncacc, l’organismo di controllo che il Sudafrica di Mandela si è dato a causa della tradizionale esportazione di armi immorali dell’epoca dell’apartheid) insisteva nella pretesa di verificare che i compratori non vendessero le armi a terzi belligeranti (per esempio in Yemen); il sito “Defenceweb”, vicino al ministero della Difesa sudafricano, compiaciuto ha dato notizia che sono stati così subito sbloccati 5,5 miliardi di rand in prodotti bellici da consegnare a emiratini e sauditi e altri 21 miliardi di euro di armi devono ancora essere destinati.
    Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti rappresentano almeno un terzo delle esportazioni di armi del Sudafrica e avevano rifiutato le ispezioni considerandole una violazione della loro sovranità e anche l’Oman e l’Algeria le avevano rifiutato, trovandosi con le importazioni bloccate. Contemporaneamente Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania hanno esportato in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, tra il 2016 e il 2020, attrezzature per un valore di 135 miliardi.
    C’è stato un forte calo in termini di consumo locale di difesa, ora l’industria bellica di Pretoria può tornare a fare affidamento sulle esportazioni… in Yemen, senza infingimenti.

Mortaio 120 mm Rheinmetall - Pretoria

Mortaio 120 mm Rheinmetall – azienda tedesca sussidiaria italiana su brevetto sudafricano; l’arma usata dai miliziani antihouthi nella strage dell’ospedale di Hodeida



3 marzo

  • Primo carico di armi consegnato dall’Italia all’Ucraina: tracciato da Italmiradar, il decollo di un C-130 dell’Aeronautica Militare italiana dallo scalo di Pisa e atterrato all’hub Nato in Polonia di Rzeszow Jasionka. A più riprese “PagineEsteri” ha portato l’attenzione su questa consegna a domicilio conto terzi. Nonostante i fumosi tentativi del ministero della Difesa italiano di occultare o perlomeno secretare l’entità e il dettaglio della spedizione di armi, Antonio Mazzeo già il 1° marzo aveva ricostruito almeno la tipologia, se non la quantità: missili terra-aria Stinger; missili Spike anticarro e elicotteri; missili antitank Milan e lanciarazzi tedeschi Dynamit-Nobel Panzerfaust 3; mitragliatrici MG 42/59 e Browing cal. 12,7; munizioni calibro 7,62 Nato; sofisticati apparati elettronici “anti-IED” per individuare ordigni nascosti.
    Questi ultimi – palesemente gli unici materiali bellici non letali – sono gli unici equipaggiamenti in consegna denunciati ufficialmente dal documento della Camera che autorizzava il 25 febbraio una spesa di 12 milioni di euro, messi a disposizione dal sito “Starmag

    Documenti ufficiali Camera deputati per le armi non letali

    Documenti ufficiali Camera deputati per le armi non letali consegnate al paese belligerante Ucraina

    Per il decreto del 28 febbraio – che estende anche lo stato di emergenza a fine anno – che stanzia 110 milioni non sono stati divulgati documenti in cui si specifichi di preciso quali armi letali invece vengono regalate a una nazione impegnata in un conflitto.
    Si era spergiurato nei giorni scorsi che nessun militare italiano avrebbe messo gli stivali sul terreno. Infatti “Il Sole 24 ore” informa che 500 unità di personale altamente addestrato scelto dal Comando operativo Forze speciali appartenenti agli incursori della Marina (Comsubin), Col Moschin, alle Forze speciali dell’Aeronautica e alla Task Force 45 si vanno ad aggiungere ai 400 uomini già impiegati sul fronte Est della Nato, ossia i 240 alpini in Lettonia e i 138 uomini dell’Aeronautica in Romania


2 marzo

  • Africa-Express” dà notizia che il 2 marzo si è tenuto il dodicesimo Comitato bilaterale Italia-Algeria del settore della difesa, il direttore nazionale degli Armamenti italiani generale di corpo d’armata Luciano Portolano, insieme all’omologo algerino, generale Mohamed Salah Benbicha, il cui scopo principale era la firma su un protocollo di intenti per una joint venture tra Leonardo e l’azienda algerina Establissement Public de Caractère Industriel/Establissement de Developement des Industries Aeronautiques (Epic/Edia) per la realizzazione di uno stabilimento di elicotteri da guerra a Aïn Arnat, nella provincia di Sétif.Il Comitato bilaterale trae origine dall’accordo nel settore della Difesa tra il governo della Repubblica Italiana e il governo della Repubblica algerina democratica e popolare, firmato a Roma il 15 maggio 2003. L’incontro ha anche avuto un momento di confronto sul conflitto in Ucraina (che ha visto l’astensione dell’Algeria). L’Algeria vede l’Italia come un importante partner di riferimento, dal punto di vista degli equipaggiamenti militari, sia per l’elevata affidabilità dei prodotti italiani e sia per la disponibilità delle industrie italiane ad avviare collaborazioni che prevedano la cooperazione mediante l’interscambio, il trasferimento di tecnologie e la formazione di equipaggi, di personale tecnico e delle maestranze in Algeria…. Invece l’Italia vede l’Algeria come una prateria di gas alternativo alle pipeline che riforniscono di gas russo i serbatoi italiani, forse in cambio di tecnologie belliche (eventualmente utili per un’ipotetica guerra contro il Marocco per la questione del Saharawi)?

1° marzo

  • L’esercito statunitense aveva stanziato 50 milioni di dollari nel progetto dell’anno fiscale 2022 avviato per sviluppare una tecnologia da integrare negli armamenti in dotazione dell’esercito entro il 2023, basata sullo sviluppo e integrazione di un emettitore di microonde ad alta potenza (High-power Microwaves – HPM) in grado di neutralizzare droni in volo singolo o in stormo. Il prototipo aveva evidenziato problemi nel contenimento degli effetti collaterali di questi intercettori.

    L’arma conosciuta come THOR – ovvero Tactical High Power Operational Responder – era stata presentata già alla Kirtland Air Force Base, New Mexico, nel febbraio 2021: un’arma contraerea specificamente indirizzata all’annientamento di droni attraverso onde elettromagnetiche. “The Defense Post” ne aveva accennato nel giugno 2021,

    Il 1° marzo 2022 sempre “The Defense Post“, ha dato notizia che l’Air Force Research Laboratory ha assegnato a Leidos Inc. un contratto da 26 milioni di dollari per la prossima generazione di controdroni, chiamato da Adrian Lucero (il responsabile del progetto per Afrl) significativamente Mjölnir, che sarebbe il mitico martello di Thor nella saga scandinava, questo sistema userà la tecnologia di THOR, con miglioramenti che secondo l’AFRL lo renderanno più capace e affidabile: con una gamma migliorata e una tecnologia per rilevare e seguire i droni: i militari abbatterebbero i droni anche con pallottole tradizionali, ma le raffiche radio hanno un raggio d’azione più ampio, sono silenziose e istantanee.


GENNAIO FEBBRAIO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

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L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A MARZO proviene da OGzero.

]]> Il “nuovo” ordine mondiale e il gioco delle parti da Astana a Kyiv https://ogzero.org/il-gioco-delle-parti-e-il-nuovo-ordine-mondiale/ Sun, 27 Mar 2022 21:52:07 +0000 https://ogzero.org/?p=6901 Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 […]

L'articolo Il “nuovo” ordine mondiale e il gioco delle parti da Astana a Kyiv proviene da OGzero.

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Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 spunti offerti da Eric Salerno e Sabrina Moles, che ci hanno rievocato le intuizioni messe in gioco in Astana e i 7 mari di Antonella De Biasi. Così “OGzero” nel momento dell’annuncio di un tavolo di pace imbandito a Istanbul comincia a credere che lo spirito di Astana non è sfumato del tutto e su questo dubbio ha cercato di ricostruire i cocci prodotti dall’esplosione del multilateralismo nei rapporti tra stati, dallo scardinamento di alleanze esili, dalla individuazione del momento in cui il Cremlino ha pensato che fosse più opportuno far saltare gli equilibri. Un istante che Antonella nel suo scritto, steso a ottobre, preconizzava individuando nella ignominiosa ritirata americana dall’Afghanistan il segnale della debolezza per cui era possibile azzardare il morso del serpente.

Salvo poi accorgerci che ciascuno ha tratto vantaggio o imponendo spese militari, o annettendosi nuovi territori rivieraschi, o soffiando su un nazionalismo sovranista, cancellando piani ecologisti e ridistribuendo energia con un maggior profitto per i produttori. Distribuito sciovinismo e testosterone in tutti i paesi del primo mondo.

Perciò a partire dalla chiosa del libro, proviamo con questo editoriale a mettere in fila gli eventi di queste ultime 5 settimane sulla scorta di quello che il volume di Antonella De Biasi aveva già individuati come potenziali snodi critici; andremo a trovare nel libro verifiche delle analisi prodotte a posteriori dagli equilibri scaturiti dalla “spezial operazy” di Putin, così da inserirla nell’annoso flusso geopolitico senza gli isterismi cavalcati dal profitto guerrafondaio. Infatti il volume si chiude con una frase emblematica: «Il gioco di Astana, seppur precario, in fondo è anche un gioco delle parti» e le dichiarazioni e le mosse diplomatiche di fine marzo seguono il canovaccio.


Il conflitto in corso è figlio della interpretazione data da una nazione come la Russia al periodo governato da una sorta di multilateralismo: se ne riconoscono i metodi inseguendo i gangli della dottrina Gerasimov (mai realmente scritta o teorizzata, ma resa evidente dalla prassi bellica russa), il cui scopo principale era quello di spezzare l’unilateralismo derivato dalla fine della Prima guerra fredda, in particolare: la soluzione cecena, da cui deriva la carriera del generale; Georgia e Crimea, rimaste senza risposta da parte delle altre potenze… ancora più palese l’uso strumentale del Donbass oggi, come 8 anni fa a suffragio della considerazione dei territori a est del Dnepr come giardino di casa.

Nel caso del conflitto in Nagorno-Karabakh gli armeni hanno pensato erroneamente che Mosca li avrebbe difesi “contro una minaccia turca e musulmana”, come sostiene il professore francese esperto di islam Olivier Roy. Così non è stato perché in fondo l’immagine di una Russia cristiana, ultimo argine all’islam di cui l’Armenia si sente avamposto, serve solo a intermittenza e sempre più raramente come topic/pedina intercambiabile per la personale partita a scacchi di Putin, per ristabilire la grandezza della Russia agli occhi degli occidentali e dei paesi rappresentati dalle economie emergenti. Alcune reazioni caute e sottotono lasciano pensare che Putin non solo fosse al corrente dell’offensiva azera ma che ne abbia addirittura discusso i limiti con il regime di Aliyev così da riprendere solo i territori che, secondo il diritto internazionale, sono azeri. L’estrema destra occidentale ha sempre visto la Russia di Putin, costruita a sua immagine e somiglianza negli ultimi vent’anni, come il baluardo dei valori cristiani minacciati dall’islam. Il Cremlino sfrutta quando servono queste simpatie da sempliciotti. L’obiettivo di Putin è riprendersi e controllare his back-yard.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 49)

Ma anche e soprattutto andava preso nella giusta considerazione l’interventismo in Siria. E in Libia: non si dimentichi il voto del 3 marzo all’Onu che ha visto la metà di paesi africani compromessi per armi, sicurezza e traffici con la Russia compattamente astenuti, in particolare allarmanti le astensioni dei paesi maghrebini fornitori di gas e con interessi – anche militari – intrecciati con il Sud dell’Europa; tutto questo dinamismo del Volga sullo scacchiere internazionale è un prodotto degli accordi di Astana, che è l’altro snodo diplomatico-pragmatico attraverso cui passa la strategia russa di questo periodo e che ha finora imposto i dossier al mondo.

Ma la preparazione alla guerra classica, dotandosi di armi sofisticate, da parte dell’Ucraina attraverso gli stessi meccanismi di alleanze e accordi ibridi con ciascuna potenza locale (e talvolta globale, ma cambiando ogni volta campo contrapposto) ha scombinato il disegno di Shoigu, Gerasimov e Putin. Questa si può considerare una conseguenza del fatto che la Nato si è risvegliata dal coma (indotto da Trump, sodale della deriva reazionaria putiniana mondiale) di cui parlava Macron, ma lo ha fatto predisponendosi a rispondere alla guerra che Bruxelles (e soprattutto Arlington e Langley) sapeva sarebbe stata scatenata: in che modo si preparava? armando gli ucraini con ogni ordigno convenzionale o meno, sia attraverso le armi in dotazione agli alleati europei (baltici in primis), sia con i droni turchi, che con alcune armi di fabbricazione israeliana – ma non tutte, come vedremo – e producendo una propaganda nazionalista identitaria per sollevare lo spirito bellico dell’Europa. Addirittura gli S-400 che furono motivo di sanzioni americane contro la Turchia potrebbero diventare paradossalmente strumenti di difesa per gli ucraini se Ankara si farà convincere a passarle a Zelensky, o le porrà sulla bilancia della trattativa: la tecnologia di cui sono dotate sicuramente è efficace contro le macchine belliche del cui impianto sono parte.

L’amministrazione Biden è ben consapevole che deve tenere la Turchia dentro l’asse Nato per impedire che passi nell’orbita russo-cinese. Così Erdoğan userà questo punto per ottenere vantaggi almeno nelle relazioni bilaterali. La questione critica più importante per gli Usa è il sistema missilistico S-400 che Erdoğan ha acquistato da Putin, non compatibile con quello Nato

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 84).

Si può dunque parlare di una proxy war combattuta in territorio europeo e con obiettivi gli interessi europei, che vede gli Usa defilati e non interventisti, ma guerrafondai e impegnati a far esporre l’UE, tagliando così tutti i ponti (e gli oleodotti) euro-russi che in particolare la Germania merkeliana (e di Schroeder) avevano costruito: doppio risultato per gli americani che vendono all’altra sponda atlantica il loro gas poco ambientalista, piazzando (o affittando a caro prezzo) anche le navi che trasportano i rigasificatori.

Ora che gli altri protagonisti in commedia hanno appreso come prendere le misure al sistema bellico ordito da Mosca dalla Cecenia in avanti, accettando una vera e propria guerra con migliaia di morti e smaltimento di magazzini di armi novecentesche; ora che si è dimostrata la marginalità della UE e la sua riduzione a mera potenza locale succube della Nato, mentre la Russia – pur non sfondando e rimettendoci in immagine guerresca e di efficienza militare, piangendo molti più morti e dissanguandosi in spese  – si prende tutte le coste del Mar Nero settentrionale e del mar d’Azov; ora rimane in piedi il modello di rapporti e accordi spartitori; scambi e traffici multilaterali che han funzionato per spartirsi territori di confine, operazioni militari e aree di riferimento tra potenze locali: quel sistema di accordi, che Antonella De Biasi ha correttamente descritto nel suo testo dedicato agli Accordi di Astana, e dove si possono rintracciare in nuce le dinamiche e gli equilibri che ora dopo la guerra spiccano nella narrazione della resistenza ucraina, trova una riproposizione nella fornitura di armi e nelle candidature alla composizione del conflitto da parte di potenze “locali”. Insomma: gli Accordi di Astana vedono trasformati gradualmente i ruoli dei singoli attori e la chiave che ne promana vede protagonisti Turchia (che ospita sia gli yacht degli oligarchi – magari sfuggiti al Novichok dell’Fsb –, sia le denunce dei dissidenti) e Israele (che accoglie ebrei russi e ebrei ucraini), nella totale assenza di strategia Usa/EU.

In fondo la prospettiva di incontri bilaterali russo-ucraini riferita da David Arakhamia, leader parlamentare ucraino e partecipante ai negoziati, previsti per il 28-30 marzo a Istanbul (e/o successivamente a Gerusalemme, probabilmente) con padrini gli equidistanti Turchia e Israele che stanno facendo avance l’un l’altro per ritessere reciproci rapporti diplomatici dopo l’incidente della Mavi Marmara evocato da Murat Cinar nel suo articolo, appare come i memoranda d’intesa stipulati durante il vuoto trumpiano riempito ad Astana, evocati da Antonella De Biasi:

Erdoğan e Putin per primi, e a seguire l’appena eletto Raisi, cercheranno di mantenere l’influenza guadagnata negli ultimi quattro anni della presidenza Trump facendo buon viso a cattivo gioco. Si sa che le alleanze non sono per sempre – anche e soprattutto tra leader autoritari e populisti –, ma ogni volta che ci sarà una crisi, e quindi anche un’occasione per aumentare l’influenza nello scacchiere internazionale, si farà sempre in tempo a scrivere inediti memorandum d’intesa e scegliere una nuova suggestiva località per sottoscriverli.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85)

 

E il terzo protagonista degli Accordi di Astana, l’Iran, che vi ha partecipato da potenza locale impegnata a mantenere la preminenza sulla mezzaluna sciita e con l’intento di contribuire alla marginalizzazione delle potenze europee, non ha avuto reazioni dopo la crisi afgana e non prende posizione in quella attuale: è apparso chiaro che la repubblica islamica viene tenuta in sospeso per il fatto proprio che a Putin serve l’appoggio di Bennett e quindi potrebbe far pesare un veto alla ripresa degli accordi Jcpoa, nel momento in cui pare che l’amministrazione Biden sarebbe invece disponibile a riprendere i negoziati sul nucleare iraniano, per focalizzarsi sull’indo-pacifico. Come per gli altri teatri delle guerre scatenate e composte ad Astana, il ruolo iraniano è stato in genere di supporto non attivo agli accordi: una sorta di notaio che assicura il proprio assenso in cambio della non intromissione nei propri affari.

Gilles Kepel su “Le Grand Continent” anticipando stralci del suo ultimo libro: «L’amministrazione Biden, il cui primo impulso diplomatico è consistito nel relativizzare il peso del Medio Oriente nella sua agenda politica estera a favore delle questioni cinesi e russe, e nel far prevalere nella regione la riattivazione del Jcpoa sull’antagonismo israelo-palestinese, le cui asperità si pensava fossero state cancellate dagli Accordi di Abramo, si trova così costretta a giocare dietro le quinte durante la guerra del maggio 2021», chiamata dal professore francese “la guerra degli undici giorni”. In questo nuovo caos con gli smottamenti nei paesi dell’area mediorientale, caucasica e mediterranea la Libia e quel che accadrà a cavallo del nuovo anno, determineranno i confini geopolitici degli attori di Astana, nello specifico la Turchia e la Russia.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85).

Applicazione di un modello

Qui infatti ritroviamo attivo come sempre il compare di Putin di tanti incontri ad Astana: Erdoğan ha mantenuto lo stesso atteggiamento ambiguo che lo ha contraddistinto in Siria, in Libia, in Nagorno-Karabakh – non a caso di nuovo gli azeri stanno sfruttando l’occasione che impedisce a Mosca di difendere l’alleato armeno – quando ha sostenuto in genere la parte avversa al fantoccio locale di Putin, salvo poi comporre ogni questione attraverso una spartizione de facto di territori, interessi, occupazioni. Anche in questo caso Erdoğan ha fornito a Zelensky armi e sostegno da appartenente alla Nato, ha mantenuto un ruolo ambiguo sui Dardanelli e sull’accesso al Mar Nero in relazione alla Convenzione di Montreux – e anche in questo caso la sottolineatura di Antonella De Biasi di p. 48 di Astana e i 7 mari, relativa all’appoggio russo ad abkhazi e agiari che solleva questioni ataviche in contrapposizione russi e turchi, sostenitori dell’etnia tatara, poneva già il problema di schieramenti – ma poi non aderisce a sanzioni ed embarghi… e questo consente ad Ankara di proseguire la diplomazia di Astana verso Mosca e di proporsi come mediatore, forse per la sua esperienza di occupazione del Rojava e strage di curdi. Ruolo che è in grado di svolgere l’altro campione di democrazia: Israele che da 55 anni occupa territorio palestinese e applica l’apartheid. Anche Israele compare 49 volte nel libro di Antonella De Biasi, pur non essendo tra gli ospiti di Astana, se non in veste di Convitato di Pietra: infatti Tel Aviv ha mantenuto un profilo basso, senza contrariare il Cremlino, sia per i milioni di russi e ucraini immigrati in Israele, sia per gli innumerevoli interessi che legano i due paesi; peraltro ha fornito qualche ordigno a Kyiv, senza consentire l’uso di Pegasus o di Blue Wolf, e tantomeno Iron Dome, sistema di difesa antiaerea richiesto dall’Ucraina fin dal 2019 (per dire da quanto si stavano preparando alla “sorprendente” aggressione russa). E soprattutto, come dice Eric Salerno: «Israele ha bisogno di alleati» e questo è reso ancora più evidente dall’accoglienza per gli Accordi di Abramo che ha stipulato prontamente con alcuni paesi arabi.

Israele e Turchia evidenziano il proseguimento sotto altre forme del multilateralismo sotto il cappello della crisi russo-ucraina: come ci ha detto Eric Salerno nella puntata di Transatlantica24 per quanto riguarda Tel Aviv – ma vale anche per Ankara, nonostante il disastro economico: se va in porto l’occupazione coloniale di tutte le zone in cui la Turchia è impegnata, il colonialismo predatorio può rimpinguare le casse. A entrambe il ruolo di potenze locali va stretto e sia nell’area interessata dalle operazioni belliche, sia nel resto dei 7 mari presi in considerazione nel volume dedicato da OGzero ad Astana, si propongono come interlocutori privilegiati, spesso in sostituzione degli interessi delle potenze coloniali europee classiche, assurgendo a un ruolo di potenze più ampia di quella locale mediterranea.

Il ridimensionamento del ruolo dell’Occidente nel panorama internazionale è determinato soprattutto dalla radicale contestazione del suo modello politico, economico e culturale attuata dalla Cina e in secondo luogo dalla Russia. Non è un caso che Cina e Russia siano tra i principali sostenitori di due organizzazioni multilaterali come i Brics e la Shangai Cooperation Organization (Sco). Di recente i due paesi hanno iniziato a collaborare per ridurre la loro dipendenza dal dollaro.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Dunque di nuovo le potenze asiatiche evidenziano la inadeguatezza della prosopopea dell’UE, che preferisce riarmarsi, dissanguandosi e riducendo a nulla il sistema welfare liberal-democratico, pur di rincorrere sul piano militare le altre potenze guerrafondaie e venditrici di tecnologie militari per sostenere le industrie belliche anche europee, ringalluzzite dalla guerra per procura al confine eurasiatico, evocativo di altre invasioni, ma che sembra preludere a un ridimensionamento tanto dell’Europa, quanto della Russia stessa, ridotti a belligeranti locali di una guerra a cui stanno alla finestra le due vere potenze globali, che preparano il confronto in ambito indo-pacifico. Gli Usa ottengono – dopo che da due amministrazioni lo richiedono – che tutti gli europei destinino il 2% del pil alla “sicurezza”, sgravando gli americani di parte della spesa militare; la Cina – come ci spiegava Sabrina Moles nell’incontro di Transatlantica24 – senza schierarsi, ma lanciando segnali di propensione per l’invasore, pur facendo attenzione a non confondersi con una potenza sull’orlo del fallimento come la Russia che ha il pil di una provincia cinese (il Guandong), può trarre vantaggi, se non si prolunga troppo la crisi e se non si propone come mediatrice, perché rischierebbe di venire degradata al rango di potenza intermedia come appunto Turchia e Israele. I mediatori nel gioco delle parti.

Dopo la normalizzazione delle relazioni sino-russe alla fine della Guerra Fredda, la Russia è emersa come un importante fornitore di armi e tecnologia per la Cina. Quella relazione era un’ancora di salvezza finanziaria per l’industria della difesa russa in un momento in cui gli ordini di approvvigionamento nazionali si erano prosciugati. Ma da allora le vendite russe alla Cina sono diminuite man mano che l’industria della difesa cinese è maturata «in misura significativa grazie al trasferimento di tecnologia e al furto dalla Russia», commentano Eugene Rumer e Richard Sokolski sul sito di Carnegie Endowment for international peace. La Cina ora compete con la Russia nei mercati delle armi. Attualmente le vendite di armi dalla Russia alla Cina rappresentano solo il 3% del commercio totale annuo dei due paesi, che supera i 100 miliardi di dollari. Con l’accesso alla tecnologia occidentale tagliato a causa delle sanzioni, l’industria della difesa russa ha guardato alla Cina come una fonte alternativa di innovazione che non ha la capacità di sviluppare a livello locale.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Può essere che il prossimo teatro di questo “Risiko per procura” torni in zona balcanico-caucasica (Nagorno Karabakh ed enclave etniche della Repubblika Srpska, oppure le tensioni panslavistein Bosnia); può darsi si inaspriscano le dispute che in Africa vedono impegnati militari turchi e miliziani della Wagner in contrasto – soprattutto in Françafrique – con gli eserciti coloniali classici; sicuramente Russia e Cina stanno collaborando assiduamente per spartirsi il Sudamerica, grazie alla distrazione di Biden che prosegue il disimpegno del suo predecessore.

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Ma in Russia… a che punto è la notte? https://ogzero.org/la-crisi-economica-in-russia-a-che-punto-e-la-notte/ Fri, 11 Mar 2022 17:07:54 +0000 https://ogzero.org/?p=6723 La crisi economica in Russia abbraccia nella stretta mortifera delle sanzioni la popolazione e le aziende che finora hanno investito nel paese. Mosca studia mosse difensive che non sono contro-sanzioni e il rublo si svaluta sempre più. Il cauto alleato cinese pensa agli affari e molti attori economici di tutto il mondo si ritirano dalla […]

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La crisi economica in Russia abbraccia nella stretta mortifera delle sanzioni la popolazione e le aziende che finora hanno investito nel paese. Mosca studia mosse difensive che non sono contro-sanzioni e il rublo si svaluta sempre più. Il cauto alleato cinese pensa agli affari e molti attori economici di tutto il mondo si ritirano dalla piazza russa. Migliaia di posti di lavoro in fumo, esportazioni bloccate verso i paesi non amici, soldati di leva spediti al fronte e fatti prigionieri non ammansiscono certo l’opinione pubblica che – vedendo lo spettro di un ritorno all’era sovietica – non segue il suo presidente, nonostante il bombardamento propagandistico dei media. Ma esiste un piano B?

[fin qui OGzero…  Ora Yurii Colombo prosegue fornendo una analisi della situazione economica russa in questo tempo] 


Import-export: le contro-sanzioni?

Non è ancora panico ma ora i russi sono davvero preoccupati. La messe delle sanzioni occidentali, come ha dovuto riconoscere lo stesso portavoce di Putin Dmitry Peskov, sono veramente pesanti e rischiano di essere un colpo di maglio insostenibile per l’economia del paese. «Ora bisogna agire e in fretta», ha detto Peskov anche se per ora le decisioni assunte dalla presidenza e dal gabinetto russo appaiono poco chiare e incerte. Il governo ha definito una lista di beni temporaneamente vietati per l’esportazione dalla Russia per tutto il 2022. Un totale di 200 articoli tra cui attrezzature tecnologiche, apparecchiature per telecomunicazione, attrezzature mediche, veicoli di qualsiasi tipo, attrezzature agricole, attrezzature elettriche. A ben vedere si tratta di una mossa difensiva e non di contro-sanzioni. Di queste si è parlato dei primi giorni della spez operazy (in Russia il termine più prosaico per definire ciò che succede in Ucraina è vietato e può costare fino a 15 anni di reclusione a chi lo usa) ma poi è stato deciso di derubricare visto che perlopiù avrebbero un effetto boomerang. Del resto, è vero, si potrebbe vietare l’importazione di vino italiano o gin, ma questi beni a breve avranno dei prezzi tali che i russi stessi li toglieranno dalle loro tavole senza dover essere soggetti a imposizioni dall’alto. In realtà resta poco chiaro in quale direzione voglia spingere Putin dopo aver limitato a 5000 dollari i versamenti all’estero di valuta pregiata.

Cambio, insolvenza e titoli di stato: lo spettro del default

Da quando dai bancomat sono spariti dollari ed euro (il loro cambio è tassato al 30% per tentare di frenarne l’ascesa) si fanno ora lunghe file – prima e dopo il lavoro – per ritirare anche rubli. Non certo per tesaurizzarli ma per acquistare immediatamente soprattutto beni durevoli. Giovedì l’agenzia di statistica ufficiale Rosstat ha confermato un tasso d’inflazione settimanale del 2,2%, che in linea di tendenza sarebbe intorno al 100% annuo, ma nessuno sa quali saranno gli effetti delle sanzioni tra 3 o 6 mesi.

Le pagine di internet e dei blog in lingua russa sono piene di titoli sulla possibile insolvenza russa, il che rende nervosi i possessori di titoli di stato e spaventa la gente comune sopravvissuta al crack del 1998 che non vorrebbe ripetere l’esperienza di vedere andare in fumo i propri risparmi da un giorno dall’altro.

Secondo Morgan Stanley si può prevedere il default già il 15 aprile, data in cui terminerà il periodo di grazia di 30 giorni dalla scadenza degli eurobond russi per un valore di 117 milioni di dollari. Certo non pagare più i paesi ormai considerati “non amici” attira il Cremlino. Tecnicamente come spiega il canale Telegram moscovita “L’ufficio dell’investitore”, «il ministero delle Finanze onorerà gli obblighi di pagamento, ma a causa delle restrizioni imposte, la Banca Centrale russa non trasferirà le cedole dovute ai detentori stranieri dei titoli». Ma anche questa variabile appare poco potabile. I creditori della Russia e dei paesi che non hanno aderito alle sanzioni non sono interessati da questo “regolamento di conti” politico. Tanto è vero che i produttori cinesi di tecnologia di consumo come Huawei e Xiaomi si sono autoridotti le esportazioni di telefonini e Pc del 60% in Russia temendo di non essere più pagati dagli importatori o rischiare di ricevere sui conti rubli in rapida svalutazione.

Gli amici cinesi: business as usual

Insomma “l’alleato cinese” pensa più al business as usual che alle romanticherie “antimperialiste” di Sergey Lavrov che ha tuonato dalla Turchia: «Non saremo più in ginocchio di fronte allo Zio Sam». Laconicamente una agenzia Tass ha dovuto però registrare che «La Cina ha rifiutato di fornire alle compagnie aeree russe pezzi di aerei, ma la Russia cercherà opportunità di fornitura in altri paesi, tra cui Turchia e India, ha sostenuto il portavoce di Rosaviatsiya». Se però non si parlerà di biglietti verdi difficile che anche questi due paesi possano commuoversi più di tanto.

Le aziende straniere abbandonano il mercato

In questi giorni è fuga dal mercato russo anche per gli attori economici che non avrebbero voluto lasciare una piazza di 145 milioni di consumatori ma che le prospettive dell’insolvenza e delle ridotte capacità di pagamento è considerato “poco attraente”. Ha iniziato Ikea svendendo i mobili stoccati nei depositi di Mosca e San Pietroburgo e chiudendo in fretta e furia. Seguiti dai giganti dell’automobile come Ford, Volkswagen e Porsche. “Pausa di riflessione” anche per Nissan e Toyota.

Secondo quanto riporta “Japan News”, la Panasonic ha smesso di fornire prodotti da fuori della Russia al suo distributore russo a Mosca: «Abbiamo preso in considerazione le difficoltà economiche e logistiche», ha detto un portavoce della compagnia.
Out anche la Komatsu, produttore leader di macchinari per l’edilizia, come anche la Hitachi Construction Machinery che smetterà di esportare escavatori idraulici in Russia. L’azienda prevede anche di cessare la produzione locale a metà aprile. Sempre nello stesso settore, il produttore di gru mobili Tadano ha sospeso le spedizioni in Russia e Bielorussia venerdì per la preoccupazione che le sanzioni finanziarie ostacolino i pagamenti.
Yamaha Motor, che vende motociclette e motori fuoribordo in Russia, ha anche sospeso le esportazioni dal Giappone e da altri paesi verso la Russia.

Disoccupazione, antimperialismo e autarchia: una soluzione?

Migliaia e migliaia di posti lavoro che stanno andando in fumo in un mondo dove il mercato del lavoro – per usare un eufemismo – è sempre stato “volatile”. I comunisti di Zjuganov hanno chiesto a gran voce la «nazionalizzazione delle imprese capitaliste», ma non si capisce bene cosa si potrebbe mai produrre alle condizioni attuali.

Una postura “antimperialista” che piace anche al sindaco di Mosca Sergey Sobjanin che ha promesso di sostituire a breve tutti i McDonald’s con dei fast food russi. L’investimento per ora è limitato (500 milioni di  rubli, al cambio attuale poco più di 3 milioni di euro) ma è il segnale di una chiusura a riccio semiautarchica che ricorda l’Unione Sovietica e che non può piacere soprattutto alle nuove generazioni della capitale.

Il fronte più specificatamente militare lascia più che fredda l’opinione pubblica russa, bombardata da un lato sulle Tv che insistono con messaggi rassicuranti secondo cui «tutto sta andando secondo i piani» e dall’altro dalla macchina delle fake news occidentali che vedono bombardamenti di centrali nucleari dell’esercito russo a ogni piè sospinto.

I “volontari” siriani e le perdite russe (ammesse)

L’impressione – dalla Russia – è che Putin abbia ordinato ai suoi generali di non calcare la mano e di usare il “guanto di velluto” (nella misura in cui si possa fare in una operazione del genere). I russi – anche quelli più convinti delle tesi del Cremlino – difficilmente accetterebbe bombardamenti a tappeto sulla popolazione civile. Ma le difficoltà dell’esercito ad avanzare, malgrado la superiorità tecnica e numerica – appare evidente ai più. Tanto è vero che Putin ha autorizzato perfino la mobilitazione di 16000 “volontari” provenienti dal Medio Oriente, in particolare dalla Siria.

Se si eccettua il Donbass il livello motivazionale a combattere appare scarso mentre lo stato maggiore di Mosca sembra voler evitare lo scontro nelle grandi città e affrontare il pericolo della guerriglia. Secondo Sergey Kirchuk, un attivista comunista ucraino emigrato in Russia e non certo simpatizzante per il regime di Volodymir Zelensky, «l’esercito russo non è riuscito a prendere nessuna grande città ucraina in quindici giorni di combattimenti, a eccezione di Kherson, dove l’insubordinazione locale e la guerriglia sono però già iniziate. I territori degli oblast di Luhansk e Donetsk non sono stati completamente posti sotto controllo. Ci sono battaglie a Kharkiv, Mykolaiv, Sumy, Marjupol e Kyiv. E l’esercito russo sta subendo pesanti perdite. I soldati di leva russi sono coinvolti nell’invasione russa, e molti di loro sono stati fatti prigionieri dall’esercito ucraino. Il ministero della Difesa russo ha confermato questi fatti. L’esercito ucraino sta respingendo con forza l’attacco. Non ci sono stati casi di abbandono di massa delle posizioni o di resa, né di comandanti di formazioni che si sono consegnati al nemico (come successe in Crimea nel 2014). La Russia continua a ridispiegare truppe dall’Estremo Oriente, poiché le attuali forze sono insufficienti per prendere l’Ucraina».

Il piano B è il governo “non ostile”: un film già visto

Si tratta di una interpretazione – quella secondo cui Mosca vorrebbe occupare tutta l’Ucraina – respinta dai vertici del Cremlino e che resterebbe assai onerosa da ogni punto di vista ma che potrebbe diventare un “piano B” se non si riuscisse a trovare la quadra con Kiev. A questo punto il problema sarebbe comunque la formazione di un governo “non ostile” alla Russia.

La vecchia leadership del “Partito delle regioni” di Viktor Janukovich (ora ridenominatasi “Ucraina, casa nostra”) non sembra per ora disponibile all’operazione. L’unico uomo di quell’area che sembra spendibile sarebbe Oleg Zariov, classe 1970, già deputato alla Rada, piccolo businessman tra Mosca e il Donbass. Tuttavia più di un osservatore ritiene che non abbia lo spessore e l’esperienza per prendersi simili responsabilità.

Le trattative di Antalya tra il ministro della Difesa ucraino Dmytro Kuleba e il capo della diplomazia russa Sergey Lavrov sono, come era prevedibile, fallite. Per ora l’argine ucraino non è crollato e la Russia non può tornare a casa senza aver realizzato alcun obiettivo tra quelli apertamente dichiarati, per cui la situazione appare bloccata. Alla fine il Cremlino potrebbe puntare perlomeno a sottomettere Marjupol e aggiungere lo sbocco al mar d’Azov al bottino.

«La Nato non è pronta a garantire la sicurezza dell’Ucraina», ha protestato Kuleba dalla Turchia, senza però citare proprio Erdoǧan che tra i paesi dell’Alleanza è quello che più sta facendo il doppio gioco. Una pressione sull’opinione pubblica occidentale che può far comodo, ma che non sposterà di un millimetro la posizione della UE e degli Usa. Si tratta di un refrain agitato ormai spesso da Zelensky nei suoi quotidiani interventi. Il quale entrato nella crisi con rating bassissimi di consenso e a rischio di essere travolto dalla corruzione che impera nel suo entourage ora si trova a essere “eroe per caso” di un paese che necessita di una qualsiasi leadership per continuare a resistere.

Ascolta “Tutto secondo i piani” su Spreaker.

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LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A FEBBRAIO https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-a-febbraio/ Wed, 02 Mar 2022 18:16:02 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=6583 L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A FEBBRAIO proviene da OGzero.

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La guerra è venuta con le armi: 24 febbraio 2022 invasione dell’Ucraina

Era nell’aria come un drone, la preparazione dell’aggressione della Russia ai danni dell’Ucraina erano chiari; forse i calcoli geopolitici sono stati sbagliati, non considerando il fattore umano o l’improvviso interesse pretestuoso dell’Occidente a cavalcare l’opportunità di smerciare armi e fondare l’esercito europeo, sottraendo risorse allo stato sociale.
Certo invece che chi ha scatenato il delirio bellico contava su numeri ben precisi di ordigni e sistemi di offesa per una guerra novecentesca, fatta di blindati, tank, mezzi di trasporto truppe (un esercito ben equipaggiato di 150.000 uomini) risalenti ancora all’Urss, la cui linea cupa e inquietante è inconfondibile. Però l’armata russa può contare su armi di fattura recentissima, dotate di tecnologie sofisticate, come il Sukhoi-57 “Felon”, un caccia invisibile multiruolo di V generazione con cannoncino frontale, usato in Siria, integrato dal drone da combattimento S-70 Okhotnik. E poi ci sono i missili ipersonici Zircon (in dotazione sui sottomarini con una gittata di 620 miglia) e Kinzhal (montati sui Mig-16), che volano a una velocità superiore a Mach 5 (cioè 9 volte più veloce del suono) e i razzi termobarici TOS-1, che contengono solo carburante e sfruttano l’ossigeno dell’atmosfera come ossidante; il TOS-1 opera in due fasi: nella prima, l’ordigno disperde idrocarburi affinché si crei una miscela nell’aria; una volta innescata, avviene la seconda fase per cui l’aerosol infiammabile brucia rapidamente e crea una violenta corrente d’aria diretta verso il centro di una depressione creata proprio dall’ordigno. Sono sufficienti pochi millisecondi per fare sì che la nuvola si incendi, crei l’esplosione e la conseguente onda d’urto; e riesce a infiltrarsi in ripari e tunnel.
I sistemi balistici lanciati da terra, da sottomarini vanno a unirsi ai bombardieri strategici come unico strumento di deterrenza che ha Mosca: l’RS-28 Sarmat.

100%

Avanzamento

GENNAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

Febbraio

24 febbraio

  • Oltre alle sanzioni sbandierate reciprocamente nel contesto della Guerra ucraina nello scacchiere indopacifico quelle registrate da “The Defense Post” che sono state imposte dalla Cina a Lockheed Martin e Raytheon Technologies per aver venduto a Taiwan manutenzione e supporto alle batterie missilistiche di difesa anitiaerea Patriot e per la proroga della manutenzione dei missili antinave a volo radente del sistema di difesa costiera Harpoon, secondo una discussa interpretazione dell’accordo del 1979 (Taiwan Relations Act) che regola la fornitura di armi al governo di Taipei. Un contratto da 100 milioni di dollari ratificato dal Dipartimento americano il 7 febbraio.

    Scaramucce, punte di spillo in un’area dove l’accumulo di armi, interessi e rapporti di forza hanno una portata ben maggiore del Risiko carpatico, a cui però si possono correlare attraverso la corsa al riarmo globale.


24 febbraio

  • Il portavoce di Umex e Simtex, Abdulnaser Al Humeidi (colonnello delle forze aeree degli Emirati) ha informato “Breaking Defenseche il ministro della difesa emiratino ha annunciato  durante la quinta edizione di Umex – la fiera delle armi di Abu Dhabi – l’acquisto di 12  addestratori avanzati L-15 della cinese Chinese National Aero-Technology Imports and Export Corporation (Catic), che si possono convertire in velivoli per combattimento leggero, con l’opzione per altri 36; con un carico utile di 3000 chilogrammi, l’aereo L15 ha sei punti di attacco per armi e può trasportare esternamente anche missili aria-aria, missili aria-superficie e bombe a guida di precisione.
    Gli Emirati avevano già interrotto l’esclusività occidentale delle forniture belliche nel 2017, quando gli Usa rifiutarono la consegna di Ucav perché Abu Dhabi li impegnava nella guerra in Yemen. Anche allora si erano rivolti a Pechino (comprando droni da combattimento Wing Loong II del gruppo cinese Chengdu Aircraft Industry Group) e a maggior ragione si ripetono stavolta che Biden ha subordinato la vendita di F-35 e MQ-9B alla cancellazione della rete 5G di Huawei.




21 febbraio

  • Il Marocco ha acquisito un nuovo sistema di difesa aerea che svolge funzioni di antimissile nel raggio di 150 chilometri. Riportato da molte testate giornalistiche, sia internazionali – come l’interessato “Globes, Israel business news”– che spagnofone (“El Espagnol”), anche perché si è scatenato un dibattito nel parlamento madrileno, visto che la collocazione del Barak MX è nei pressi dell’enclave di Ceuta, minacciando il territorio spagnolo. l paese maghrebino avrebbe investito più di mezzo miliardo di dollari nel sistema israeliano di difesa da qualsiasi minaccia aerea, dunque anche efficace contro i droni; si compone di tre parti. Nella cupola del sistema si trova la prima che gestisce una immagine aerea multispettro, coordinando le reti di operazione, impostando il lancio; la seconda parte del sistema è l’intera matrice di radar incorporati, a cui è demandato il compito di individuare la minaccia aerea; infine la componente deterrente fornita da Israel Aerospace Industries è costituita da missili a lancio verticale con copertura a 360 gradi, a intervento rapido e un radar di radiofrequenza in grado di cogliere anche oggetti in volo radente: il Barak MRAD può colpire nel raggio di 35 chilometri, il Barak LRAD arriva a 70 e infine il Barak ER colpisce a 150 chilometri di distanza (valido contro aerei da caccia, o missili da crociera come balistici).

    La collaborazione tra Israele e Marocco si allarga alla fabbricazione di droni suicidi in territorio marocchino, che si va ad aggiungere agli impianti per lo IAI Heron, un drone di spionaggio già operativo dal 2020: cioè da quando sono riprese le tensioni con l’Algeria, tanto che in febbraio la frontiera è stata militarizzata da ambo i lati. Le Forze armate reali (Far) hanno recentemente inaugurato la “Zona Est”, perché sia consentita una maggiore fluidità e libertà d’azione all’esercito (“Jeune Afrique”)




20 febbraio

  • Secondo un’agenzia “Reuters” del 20 febbraio il Dipartimento di stato statunitense ha chiarito che è consentito alle repubbliche baltiche trasferire missili e altri ordigni all’Ucraina; l’accordo per consegnare a paesi terzi armamenti permette alla Estonia di rifornire i missili anticarro a guida infrarossi FGM-148F Javelin, mentre alla Lituania di trasferire i missili Stinger all’Ucraina. Le repubbliche baltiche hanno recentemente visitato Kiev promettendo armi e il governo di Biden ha approvato a dicembre 200 ulteriori milioni di dollari per l’assistenza militare all’Ucraina da estrarre dai magazzini statunitensi (le guerre servono per smaltire gli arsenali.

    Il 21 dicembre 2021 il Dipartimento di stato statunitense aveva approvato la potenziale vendita di 30 sistemi anticarro Javelin e 341 missili FGM-148F alla Lituania per un valore di 125 milioni di dollari in previsione della crisi russo/ucraina.



FGM-148 Javelin della Lockheed Martin (LMT.N) e Raytheon Technologies (RTX.N)

18 febbraio

  • DefenseNews” ha riportato dal Singapore Airshow che si prospettano nuovi affari per il C-130J Super Hercules della Lockheed, che nella sua ultima versione ottiene una promettente attenzione in particolare da parte di potenze regionali come Indonesia (che ha appena fatto incetta di attrezzature belliche da Francia e Usa) e Nuova Zelanda: 5 apparecchi a testa sarebbero gli ordini che si vanno ad aggiungere ai 495 velivoli consegnati negli ultimi 6 decenni. A questi si vanno ad aggiungere altre potenze locali interessate all’acquisto: Bangladesh, India, Corea del Sud e Australia; quest’ultima avrebbe avviato una trattativa per 24 C-130J e anche per 6 carri armati KC-130J, sempre di fabbricazione Lockheed. La Thailandia avrebbe opzionato 3 tranche di 4 aerei ciascuna da qui al 2029.
    La domanda che sorge spontanea è a cosa si stano preparando i paesi dell’Indopacifico?



C-130J super Hercules

16 febbraio

  • Il 16 febbraio durante un’apparizione in video in occasione di una cerimonia religiosa il leader libanese di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha dichiarato che il gruppo sta producendo droni ed è in grado di trasformare migliaia di razzi in missili di precisione. La produzione sarebbe in risposta al crescente uso della tecnologia dei droni da parte di Israele, che ha spesso rivendicato l’abbattimento di droni di Hezbollah, l’ultimo episodio risaliva al 4 gennaio.
    Il 17 febbraio 2022
    un nuovo episodio della guerra di droni tra Libano e Israele: per 40 minuti un drone destinato a operazioni di spionaggio lanciato da Hezbollah sul nord di Israele è riuscito a dribblare il sistema di difesa, la cosiddetta cupola d’acciaio, ed è tornato alla base. In un tweet di Avichay Adraee, il portavoce militare dell’organizzazione sciita il drone ha le apparenze di un quadrirotore commercializzato dall’azienda cinese DJI Air 2S



Il drone di Hezbollah che il 17 febbraio ha aggirato la cupola di difesa di Israele, tornando poi alla base indenne

16 febbraio

  • Asia Times” ha lanciato l’allarme per un cargo della Qeshm Fars Airlines, una compagnia iraniana legata ai Guardiani della Rivoluzione sotto embargo decollato da Mashhad, che avrebbe di nuovo scaricato armi a Naypyidaw, dove è atterrato il 16 febbraio alle 9,24; era già stata segnalata una consegna il 21 gennaio per un altro carico di dotazioni belliche per Tatmadaw; il canale in lingua farsi “Tazheit Nizami” su Telegram paventava che si potesse trattare di una partita dei nuovi droni Qods Mohajer 6, utilizzati contro le milizie etniche.

  • Si tratterebbe soltanto di un’ulteriore aggiunta di forniture e tipologie di ordigno rispetto a questa solo parziale carrellata di sistemi di offesa acquistata dai militari birmani.

    Le forniture di varia provenienza in dotazione a Tatmadaw fino dal 2018 nella ricostruzione ufficiale dell’Ohchr, redatta dopo un anno dal golpe



15 febbraio

  • Martin Sonderegger è il capo dell’armamento della Federazione svizzera che ha guidato la delegazione di Armasuisse giunta a Cameri per incontrare l’omologo responsabile dell’approvvigionamento per l’esercito italiano, Luciano Portolano, in vista della dotazione di 36 F-35 Lightning II per l’Aeronautica di Berna per il valore di 7 miliardi, secondo le indiscrezioni di “Formiche”.
    Dopo l’Olanda sarebbe il secondo paese europeo a produrre i propri caccia su licenza della Lockheed-Martin nello stabilimento novarese, dove il valore del programma F-35 è stato ribadito anche dal Documento programmatico pluriennale (Dpp) della Difesa per il triennio 2021-2023, firmato ad agosto del 2021 dal ministro Lorenzo Guerini.

I caccia F35 Lightning II - Lockheed-Martin

13 febbraio

  • Una fornitura di missili antiaerei Stinger dalla Lituania ha raggiunto l’Ukraina; si aggiunge nelle agenzie che il ministero della Difesa ucraino consiglia di circumnavigare il Mar Nero, attribuendo la cautela alle esercitazioni navali russe che si svolgono lì. La premier lituana Ingrida Simonyte ha fatto una conferenza stampa al confine con la Bielorussia (Kapciamiestis), mentre sui palazzi di Vilnius garrivano le bandiere della Nato, la cui posizione non risulta comunque univoca. La consegna era annunciata dal 10 febbraio su “U.S.News
    «Se la Russia invadesse l’Ucraina, i lituani sarebbero costretti a chiedersi: siamo noi i prossimi? Nel 2008 il governo lituano aveva abolito la leva obbligatoria, ma nel 2015, un anno dopo l’invasione della Crimea da parte della Russia, l’ha reintrodotta. La bandiera blu con la rosa dei venti bianca dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del Nord sventola davanti al palazzo del presidente Gitanas Nauseda». (Giulia Pompili, Ai confini della Democrazia, “Il Foglio”, 14 febbraio 2022: un articolo che rilancia il parallelismo tra Taipei e Vilnius nel quadro della guerra della Nato ai regimi autocratici)

Missile manuale terra-aria Stinger antiaereo fornito dal membro Nato Lituania all'Ukraina

10 febbraio

  • «C’est officiel: l’Indonésie commande 42 Rafale»


    Rilanciato da “l’Usine Nouvelle”, il tweet proviene dalla ministra della Difesa francese che poi ha proseguito precisando che si è avviata una cooperazione con Giacarta, che ha ordinato 42 aerei da caccia multiruolo Rafele e 2 sottomarini convenzionali d’attacco Scorpène del costo totale di 8,1 miliardi. L’accordo annunciato sui social a così alto livello è stato firmato dall’Amministratore delegato di Dassault Aviation, Eric Trappier, e prevede una consegna chiavi in mano, comprensiva di un sostegno logistico e un centro di addestramento attrezzato con due simulatori. L’accordo arriva quando Parigi, che si considera una potenza marittima globale, cerca di espandere i suoi legami geopolitici nell’Indo-Pacifico per reagire alla creazione della nuova alleanza strategica tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia; per questo la ministra Parly ha sottolineato l’accordo anche sui sommergibili ed Emanuele Giordana ha iniziato il suo articolo su “L’Atlante delle Guerre” proprio rievocando l’Aukus e spiegando come mai Subianto intenda triplicare la sua dotazione di sottomarini, nonostante Widodo propenda all’’equidistanza tra i contendenti nell’Indopacifico.

Sottomarino convenzionale francese Scorpène

10 febbraio

  • Reuters annuncia che il Dipartimento di stato degli Usa ha approvato la potenziale vendita di velivoli F-15ID e delle relative apparecchiature all’Indonesia, il 10 febbraio, in un accordo per un valore di 13,9 miliardi di dollari dove Boeing sarà l’appaltatore principale per gli F-15 e il pacchetto includerebbe 36 velivoli, motori di riserva, radar, addestramento per visori notturni e supporto tecnico. Come lo stesso giorno la ministra della Difesa francese annunciava la vendita di 6 Rafale, gli Usa rincorrono affermando che la proposta di vendita sosterrà gli obiettivi di politica estera e di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, migliorando la sicurezza di un importante partner regionale, ritenuto una forza per la stabilità politica e il progresso economico in un quadro aereo e marittimo molto complesso. Ma perché l’Indonesia ha bisogno di tutti questi ordigni? 

F15ID per l'Indonesia Boeing ne costruirà 16, ma perché l'Indonesia compra tutti questi ordigni volanti?

9 febbraio

  • Le Guardie rivoluzionarie iraniane (Irgc) hanno presentato il missile balistico strategico a lunga gettata, a combustibile solido, Khaybar Shekan. La notizia è stata annunciata dall’agenzia stampa “Tansim” non a caso alla vigilia della ripresa degli incontri per i negoziati di Vienna sul nucleare e durante i festeggiamenti per il 43esimo anniversario della vittoria della rivoluzione iraniana alla presenza del capo di stato maggiore delle FFAA, gen. Mohammad Baqeri. Il nuovo missile è in grado di mettere sotto tiro Israele e anche le basi americane nella regione, avendo una gettata di 1450 chilometri; il missile balistico ha una sua traiettoria predeterminata e un suo obiettivo, che possono essere guidati durante il volo per avvicinarsi il più possibile al bersaglio.




6 febbraio

  • Daily Sabah” ha ripreso una notizia diffusa da Anadolu News Agency: secondo quanto affermato da İsmail Demir, il presidente delle industrie della difesa turca (Ssb), questa ha consegnato al comando delle forze terrestri turche una nuova fornitura di droni Bayraktar-TB2 Sịha equipaggiati con il Common Aperture Targeting System (Cats), sviluppato dalla principale società di difesa Aselsan. La rilevanza è data dal fatto che il Cats è un sistema di ricognizione, sorveglianza e puntamento elettro-ottico ad alte prestazioni progettato per piattaforme aeree ad ala fissa e ad ala rotante, inclusi sistemi aerei senza pilota (Uas), elicotteri e aeromobili. In precedenza, i droni turchi utilizzavano sistemi elettro-ottici acquistati dall’estero, ma i relativi embarghi su tali esportazioni hanno portato le aziende del settore della difesa turca a sviluppare le apparecchiature con risorse locali all’interno del paese, secondo quanto affermato dal presidente delle industrie della difesa (Ssb) Ismail Demir.

4 febbraio

  • Il gruppo industriale Leonardo S.p.A. ha confermato al sito specializzato “Defense News” la consegna, pochi mesi fa, di sei caccia addestratori avanzati M-346 “Master” all’Aeronautica militare qatarina (a gennaio la notizia dell’addestramento su M-346 prodotti da Leonardo riguardava la messa a disposizione degli stessi per ufficiali egiziani). Leonardo aveva mantenuto segreta la vendita all’emirato, impegnato nella guerra yemenita.L’accordo tecnico Italia-Qatar è stato stipulato a Doha il 10 novembre 2020 e prevede la formazione dei qatarioti per i prossimi cinque anni nelle maggiori basi aeree italiane: Galatina, Decimomannu, Salto di Quirra.

3 febbraio

  • Il ministro della Difesa ucraino Oleksii Reznikov ha annunciato che è prevista la firma di un accordo per impiantare una fabbrica in territorio ucraino dove saranno prodotti motori per velivoli senza pilota di fabbricazione turca. Droni Bayraktar SİHA che Kiev aveva già acquistato e usato contro i separatisti filo-russi nell’Est.

Droni Bayraktar Siha turchi venduti all'Ukraina

3 febbraio

  • Il network qatariota Al-Arabiya ha reso noto che il Dipartimento di stato degli Usa ha approvato la vendita di 12 caccia F-16 C Block 70 della Lockheed Martin, tecnologie connesse e componenti di munizioni, compresi i kit di coda di missili guidati e relative attrezzature alla Giordania per un costo stimato di 4,21 miliardi di dollari; 31 terminali multifunzionali per sistemi di distribuzione di informazioni a basso volume (Mids-Lvt) per un massimo di 23,7 milioni di dollari sarebbero destinati all’Arabia Saudita per aggiornare i suoi sistemi di difesa missilistica; agli Emirati Arabi Uniti è stato approvato l’acquisto per 30 milioni di dollari di pezzi di ricambio e di riparazione per i suoi sistemi di difesa missilistica Homing All the Way Killer (Hawk).

terminali multifunzionali per sistemi di distribuzione di informazioni a basso volume (MIDS-LVT)

2 febbraio

  • L’Egitto acquista 200 obici semoventi K9, insieme a decine di veicoli di supporto – come i mezzi per il trasporto e rifornimento di munizioni K10 e veicoli K11 per il controllo della direzione di fuoco – dalla sudcoreana Hanwha Defense, gruppo numero uno dell’industria militare di Seul: l’accordo del valore di 1,7 miliardi di dollari è considerato storico, ma nasconde anche dinamiche politiche internazionali per evitare che il Cairo scivoli verso Cina e Russia nei giorni in cui Il Cairo si è visto bloccare una parte simbolica degli aiuti militari ricevuti annualmente dagli Stati Uniti. Ne ha dato notizia DefenseNews. L’artiglieria sudcorena è accettata negli standard Nato, di cui sia Egitto che Corea del Sud sono “major ally”, secondo la definizione della dottrina strategica del Pentagono – entrambi nominati nel 1987 da Ronald Reagan.

Obici semoventi K9 della sudcoreana Hanwa venduti all'Egitto di Al-Sisi

1° febbraio

  • A Muggiano, La Spezia Fincantieri spa consegna alla Marina Militare del Qatar il primo pattugliatore OPV – Offshore Patrol Vessel Musherib nell’ambito della commessa da 4 miliardi di euro che prevede anche un’altra unità gemella, 4 corvette e una nave d’assalto anfibia (fonte Analisi Difesa). Il Musherib ha una lunghezza di circa 63 metri, una larghezza di 9,2 metri, una velocità massima di 30 nodi, e può ospitare a bordo 38 persone di equipaggio.

  • Sempre a La Spezia giunge notizia dal parlamento che stanzierà 13,5 miliardi di euro per la realizzazione di una piattaforma galleggiante di 1300 metri quadrati  per l’addestramento dei baschi verdi alle incursioni marittime e subacquee all’estero del Comsubin della Marina militare

Il pattugliatore Musherib consegnato al Qatar da Fincantieri

GENNAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

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]]> Bit & Coin: la geostrategia criptata https://ogzero.org/il-bitcoin-divide-la-geostrategia-criptata/ Fri, 18 Feb 2022 22:15:02 +0000 https://ogzero.org/?p=6301 Una cosa è certa: il Bitcoin divide. Da una parte ci sono quelli, come la Banca Centrale Russa, che vogliono bandire la criptovaluta per il rischio di forte instabilità finanziaria che ne scaturirebbe, rendendo fragile la sovranità del paese e vanificando le sue politiche monetarie. Dall’altra quelli, come El Salvador, che l’hanno addirittura adottata come moneta in […]

L'articolo Bit & Coin: la geostrategia criptata proviene da OGzero.

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Una cosa è certa: il Bitcoin divide. Da una parte ci sono quelli, come la Banca Centrale Russa, che vogliono bandire la criptovaluta per il rischio di forte instabilità finanziaria che ne scaturirebbe, rendendo fragile la sovranità del paese e vanificando le sue politiche monetarie. Dall’altra quelli, come El Salvador, che l’hanno addirittura adottata come moneta in corso legale: il primo paese al mondo a consentire ai cittadini di fare acquisti in tutti i negozi e di pagare le tasse tramite Bitcoin. A discapito di una crescente preoccupazione della propria popolazione, nonché del FMI, che in un comunicato del 25 gennaio scorso ha espressamente chiesto al paese di rinunciare alla criptomoneta. Ben lungi dal voler essere esaustivi di un argomento oltremodo complesso, cerchiamo di fare luce sulle due decisioni.

Questo era l’incipit di un bell’articolo di Marco Grisenti apparso su “Atlante delle Guerre”, quando l’ultimo rapporto del Financial Stability Board avvertiva che le criptovalute «presto potrebbero mettere in pericolo la stabilità finanziaria globale»; e allora Joe Biden sta per firmare un decreto presidenziale sulle blockchain, per mobilitare le istituzioni (gli Usa sono il primo paese al mondo per attività di mining, si stima che circa 60 milioni di americani detengano delle criptovalute) e portare il braccio della legge nell’anarchica frontiera digitale, che nel 2021 è giunta a valere 2600 miliardi di dollari. La Cina ha completamente bandito pure il mining per concentrarsi sulla diffusione dello Yuan digitale. La Russia sta decidendo se bandire o regolamentare (Vladimir Putin propende per la seconda). L’India tassa i cripto-profitti al 30%, legittimando le valute digitali e scatenando un’ondata di entusiasmo

(fin qui OGzero… )

Claudio Canal ci fornisce un punto di vista che approfondisce in modo suggestivo e originale gli “indici” del Bitcoin. 


In principio era un mistero: chi è Satoshi Nakamoto il creatore di Bitcoin? È lui, il nippo-americano della California. No, è l’ingegnere svizzero. Che dici? Satoshi è un team di persone. È Elon Musk. È l’australiano Craig Steve Wright. Chi, l’impostore? Mio cuggino dice di conoscere Satoshi. Gli hanno anche dedicato un busto a Budapest.

il Bitcoin divide

Il busto dedicato al fantomatico Satoshi Nakamoto a Budapest.

Sono trascorsi quattordici anni e il famoso capitalismo della sorveglianza non è riuscito a scoprire chi stia dietro allo pseudonimo Satoshi Nakamoto che nel 2008 ha pubblicato un paper in cui spiega cosa intende per e come si può costruire una moneta virtuale crittografica peer-to-peer governata da algoritmi e senza intermediari, cioè Bitcoin.

Il fantasma in questione dalla quarta o quinta dimensione in cui dimora stabilmente può prendersi le sue soddisfazioni rimirando il pianeta Terra e il videogioco geopolitico in atto.

I paradisi dei minatori

Il Kazakhstan, un sandwich tra Cina e Russia, al momento è scomparso ai nostri videocchi, ma alcune evidenze si sono manifestate oltre alle proteste, i morti e la brutalità poliziesca: siamo nel secondo produttore al mondo di moneta digitale, dietro solo agli Stati Uniti. Dopo la proibizione di Bitcoin da parte del governo cinese, il Kazakhstan ne era diventato un santuario: 90.000 società di estrattori di criptovaluta, i famosi miners, erano emigrate nel paese caucasico. Il clima freddo che evita le spese dei refrigeratori per i computers sempre al massimo dei giri e il basso costo dell’energia – prodotta dal carbone! – ne avevano fatto il paradiso del Bitcoin, convenzionalmente indicato come BTC.

Non si surriscaldano solo i computers, ma anche le società e il governo ha bloccato per sei giorni le connessioni internet nel riuscito tentativo di fermare la protesta dando però una severa mazzata anche alla rete di minatori. Molte imprese restano incerte sul da farsi. Il deserto gelido o nuovi lidi?

BTC si rivela non così svincolato e affrancato dal potere dello stato come sostengono i suoi predicatori e lo scorso 2021 ha visto una bella miscela di segnali contrastanti, che è un po’ il distintivo di fondo di un’innovazione sociotecnica come questa:

  • gli Stati Uniti hanno approvato gli investimenti in BTC sui fondi ETS,
  • è stato realizzato un fondamentale aggiornamento tecnico detto Taproot che consente maggiore privacy, scalabilità, cioè aumento di scala secondo le necessità, e sicurezza,
  • la Nigeria ha posto severe restrizioni alle banche commerciali di trattare criptovalute, la Turchia ha proibito i pagamenti, anche l’Iran ha tentato a più riprese qualcosa di simile
  • salgono a 8 i paesi che, con tempistiche diverse, hanno vietato di trattare in BTC, tra cui la Cina ovviamente.
  • El Salvador, il pulgarcito-pollicino dell’America Latina, adotta BTC come moneta ufficiale e progetta una città dedita alla moneta virtuale alimentata dalla energia geotermica dei vulcani. Ho, addirittura, coltivato anteriore intimità con questo paese, il cui brillante presidente, Nayib Bukele, si autoqualifica sull’amatissimo Twitter come Amministratore Delegato [CEO] di El Salvador.

il Bitcoin divide

Bitcoin City (fonte: Architectura viva).

Roba per cuori forti

Nel radioso 2022 appena avviato si è di nuovo manifestata un’altra delle caratteristiche strutturali di BTC: ama il dondolo, su e giù su e giù,  ovvero spiccata volatilità. Da novembre ad oggi, fine gennaio 2022, ha perso più del 50%, trascinandosi dietro anche le altre numerose criptovalute. Chi ha investito ed è debole di cuore, oggi non riesce a frenare le sue palpitazioni. Ieri era Paperone, oggi non riesce a fare il pieno di benzina. Ogni stormir di fronde mette in moto inarrestabili montagne russe degli indici. A proposito. La Russia ha appena posto forti restrizioni alle transazioni in cripto e il paese non sta alla periferia della rete globale criptovalute, ma viene subito dopo i già nominati Stati Uniti e Kazakhstan. Infatti, per dirla in dialetto bitcoinico, ha un elevato hashrate, che indica l’unità di misura di potenza di elaborazione della rete BTC. Un hash rate di 10 Th/s, indica che il network è in grado di realizzare un trilione di calcoli al secondo. La Russia di Putin detiene l’11,2% della potenza globale. Non bruscoletti.

Il gioco, che già non era uno scherzo, si fa durissimo. Narendra Modi, primo ministro dell’India, in video conferenza al Forum Economico Mondiale di Davos ha invitato le nazioni a far qualcosa in comune e in fretta per affrontare il problema delle criptovalute. Non si era ancora ripreso dal fatto che un mese fa il suo canale Twitter ufficiale era stato hackerato e aveva prodotto per i suoi 73 milioni di followers la seguente solenne dichiarazione: «In India la valuta ufficiale ora è il Bitcoin».

Dopodiché Modi si è barcamenato tra banno o non banno le cripto? Nel frattempo, come negli Stati Uniti, da metà gennaio è possibile investire in Bitcoin sui fondi ETS e il primo ministro vagheggia una CBDC, che al momento resta un brusio su cui si dirà più avanti.

Primo: BTC non piace agli stati, soprattutto se autoritari

È decentralizzata, non ha bisogno di Banche Centrali, non consente controlli statali. Consuma troppa energia. C’è chi la considera uno strumento contro il colonialismo monetario. C’è chi la considera per quello che è, un gigante della speculazione.

Ci sono stati che invece ne incentivano l’uso, come l’Uruguay, che ha appena installato un “bancomat” per criptovalute. In Italia ce ne sono una settantina e complessivamente la crescita degli impianti si sta incrementando:

Fonte Cointamtradar.

Gli corrisponde in rete una profusione di blog, siti, guru, illusionisti, riviste e piattaforme, in ogni lingua immaginabile che, mentre addestrano alla terminologia e ai “segreti” del BTC e della blockchain che gli sottostà, propongono e facilitano investimenti da fiaba.  Torna l’imperituro mantra: Arricchitevi!

Non è mai stato facile distinguere la retorica dalla realtà. In America latina poi il realismo magico sprizza dappertutto. Le magagne  e i pregi delle criptovalute si affastellano aggrovigliandosi e tutti ci provano: Venezuela, Cuba, Argentina, ColombiaCripto alle masse! È la parola d’ordine.

  • Le cripto facilitano l’invio delle rimesse degli emigrati, che sono il salvagente di svariati paesi.
  • Si svincolano, almeno in parte, dal dominio del dollaro, non a caso il Fondo Monetario Internazionale bacchetta El Salvador sulla legalizzazione della criptomoneta e lo fa adesso [fine gennaio 2022], quando BTC sta scivolando ai minimi rischiando di diventare merdomoneta.
  • Le cripto permettono un libero accesso alla finanza a milioni di persone che non hanno un conto in banca. La definiscono inclusione finanziaria ed è una tappa dell’incessante processo di finanziarizzazione/valorizzazione dell’umanità che il capitalismo da mo’ persegue con metodica determinazione. Anche tu, piccolo indigeno Aymara delle montagne boliviane potrai finalmente acquistare il forno a microonde su Amazon con due clic senza passare per banche e società come Mastercard Tu e Jeff Bezos, faccia a faccia.
  • Permettono l’indipendenza finanziaria delle donne. Forse. Si dice. Parrebbe.
  • Le criptomonete non sono così virtuali come sembra, ingurgitano energia senza pudore. Se il loro uso continuasse a espandersi dovremmo ricorrere alle candele e alla legna da ardere. Queste fondamenta materialisticamente reali potrebbero in tempi per niente geologici pericolosamente sprofondare.

L’Assoluto Mistico della crescita illimitata e perpetua sembra non accorgersi che le emissioni di carbonio di un anno di BTC sono pari a quelle della Nuova Zelanda, per ora.

Con lo stesso entusiasmo c’è chi guarda all’Africa dove nel 2020 il mercato delle cripto è cresciuto nel 1200%  e nel 2021 è andata ancora meglio, tanto che l’ultimo rapporto di ChainalysisAnalysis of Geographic Trends Cryptocurrency Adoption and Usage October 2021 ne parla (a p. 108), in questi termini accalorati [grassetto mio]:

Africa has the smallest cryptocurrency economy of any region we study, having received $105.6 billion worth of cryptocurrency between July 2020 and June 2021, but despite that it’s also one of the most dynamic and exciting. Not only has Africa’s cryptocurrency market grown over 1200% by value received in the last year, but the region also has some of the highest grassroots adoption in the world, with Kenya, Nigeria, South Africa, and Tanzania all ranking in the top 20 of our Global Crypto Adoption Index. In addition to being the third-fastest growing cryptocurrency economy, Africa also has a bigger share of its overall transaction volume made up of retail-sized transfers than any other region at just over 7%, versus the global average of 5.5%.

il Bitcoin divide

Se dici moneta dici scambi commerciali, investimenti, territori, politiche economico-sociali, sovranità.

Uno spettro si aggira per il mondo. La moneta è un modo di governare il mondo.
Tutte le monete sono spettri. [sillogismo sgangherato]

  • Tutte le monete sono virtuali, anche il dollaro,  essendo segni del denaro che è una riserva di valore che si basa su… [citare D. Ricardo, K. Marx, G. Simmel, J.M. Keynes, F. Hayek…].
  • Alcune sono digitali [per esempio, Visa…]
  • Alcune digitali sono criptate, cioè “nascoste”, visibili/utilizzabili solo conoscendo un determinato codice informatico. Entità governate algoritmicamente da un grande registro di scambi detto “Blockchain”, in cui la conservazione e lo scambio è regolato e certificato per condivisione [per esempio BTC e tutte le altre, Ethereum…].

Dopo una fatica bestiale di scavo, i miners-minatori devono portare i loro sudati bitcoin alla cassa [Coinbase, Kraken, Local Bitcoins], se intendono ottenere moneta spendibile fuori del mondo cripto. Ciò che fa l’habitué di un qualsiasi Casino con le fiches che ha vinto. Ottenere moneta vera, quella che ha una Banca Centrale alle spalle, uno stato.

Non è tutto oro ciò che luccica. Saluti e baci a Libra o Diem, la criptovaluta che era stata pomposamente lanciata nel 2019 da Facebook, nella forma di stablecoin, cioè ancorata a un’attività di riserva stabile come il dollaro statunitense o l’oro. FB l’ha venduta al miglior offerente.

Secondo: sono digitali le central bank digital currency

CBDC, come Petro del Venezuela, lanciata nel 2018,  che usa blockchain o lo Yuan elettronico della Cina atteso prossimamente. Sono digitali, ma seguono una logica opposta a BTC e affini perché sono o saranno gestite da autorità governative e dalle banche centrali che sono anche prestatori e garanti di ultima istanza. Stesse tecnologie, finalità incompatibili.

il BItcoin divide

Dove la criptopolitica diventa geopolitica

E qui giochiamo in casa. La geopolitica trova la sua grammatica e può cantare i suoi ritornelli. Gli attori del contendere sono i ben visibili e consolidati stati e non ectoplasmi monetari come le criptovalute con cui il nostro comprendonio suda le note camicie.

La spettro-valuta chiamata $

C’è qualcuno che domina la finanza mondiale con uno spettro-valuta che si chiama $, qualcun altro vuole sottrarsi a questa egemonia, che sia una riconosciuta, temuta Grande Potenza o uno stato malandrino o ancora una combriccola di stati denominata UE momentaneamente fuori stanza. Si tratta anche qui di una guerra già guerreggiata assai che meriterebbe inviati speciali più attenti perché ne va del futuro. Come non bastasse tutto il rimanente.

eNaria

La primizia della Nigeria, che aveva lanciato nell’ottobre scorso la propria moneta digitale eNaria, adesso sta zoppicando ed è molto curioso che a cimentarsi con questi esperimenti di fintech [Finance e Technology] siano microstati come Le Bahamas, Antigua e Barbuda, Grenada, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia e colossi come Nigeria e Cina. Disposti su un atlante darebbero filo da torcere anche al più navigato geopolitico e tuttavia sono il sintomo di una trasformazione globale in corso.

Tether

E gli USA, gli USA cosa fanno? Temporeggiano, studiano, discutono. Il dollaro digitale non è alle porte anche se induce in tentazione. D’altra parte la terza più grande, discussa e discutibile, criptovaluta, Tether, è ancorata al dollaro, è cioè una stablecoin, ha una capitalizzazione di 98 miliardi di dollari, come dichiarano i suoi dirigenti, senza che nessuno l’abbia mai verificato, e la sua moneta è nominata USDT. Funge da banca centrale delle cripto e affronta gagliarda i processi che le vengono intentati.

Una interessante conversazione in video con l’amministratore delegato di Tether, Paolo Alboino, la si può trovare qui.

Euro digitale

Per l’euro digitale non c’è fretta. È allo studio, i dibattiti si infittiscono, il prototipo fra tre o quattro anni, poi fase di sperimentazione e finalmente…

Pausa di riflessione

C’è un libro importante, curato da due studiosi italiani, Nicola Bilotta e Fabrizio Botti, che fa il punto su quest’ultimo tipo di monete: The (Near) Future of Central Bank Digital Currencies, Risks and Opportunities for the Global Economy and Society (Peter Lang, 2021), che, udite udite, è liberamente scaricabile qui. In italiano N. Bilotta ha scritto un report dell’IAI [Istituto Affari Internazionali] confidenzialmente intitolato Cbdc per principianti. Tutto quello che c’è da sapere sulla moneta digitale della banca centrale (e perché non dovrebbe far paura) come in un film della compianta Lina Wertmüller.

Resterebbe da sciogliere il dilemma quantistico: che fine ha fatto il gatto di Schrödinger contemporaneamente vivo e morto? Ovvero: le monete digitali nelle loro diverse incarnazioni sono contemporaneamente di destra e di sinistra?

Lascio a chi se ne intende la soluzione del quesito, rimando ad altra occasione l’eventuale discussione di piccole esperienze locali non trite e ritrite, come The Socialist Blockchain, Trustlines, Aleeza Howitt  e molte altre che non conosco.

Io mi posiziono su questi appoggi

  • La rivista statunitenseJacobindel 21 gennaio 2022 titola un articolo:
  • La criptomoneta è un gigantesco schema Ponzi, di Sohale Andrus Mortazavi. La prima frase dell’articolo è: La criptomoneta è una truffa.   Per chi l’avesse dimenticato lo schema Ponzi consisteva nel promettere fraudolentemente agli investitori alti guadagni, pagando gli interessi maturati dai vecchi investitori con i soldi dei nuovi investitori. Non fa male ricordare che Bernard Madoff con la sua truffa tra i 50/65 miliardi di dollari in stile Ponzi coinvolse i più pregiati istituti finanziari mondiali, tra cui molti italiani [ad esempio Unicredit].
    È morto in carcere il 14 aprile del 2021.
    Jacobin argomenta anche tecnicamente una interpretazione radicale. Mi auguro segua un’ampia discussione.
  • Edemilson Paraná un giovane e brillante ricercatore brasiliano, già autore di Digitalized Finance: financial capitalism and informational revolution (Brill, 2019); Haymarket, 2020, ha pubblicato Bitcoin: a utopia tecnocrática do dinheiro apolítico (Autonomia Literária, 2020) [acquistabile su Kindle, € 6,49]. Non mi sogno di riassumerlo qui. Segnalo alcuni spunti che mi hanno interessato:
    → BTC pone sfide interessanti alle grandi banche, alle istituzioni finanziarie internazionali, ai governi. Va preso sul serio questo paradosso, senza prostrarsi ai santoni del criptoevangelismo che ne decantano le virtù terapeutiche universali
    → BTC chiede al neoliberismo, di cui è figlio ribelle,  di realizzare le sue promesse: competere per promuovere innovazione, incoraggiare mercificazione e privatizzazione, esasperare la turbotendenza a trasformare qualsiasi cosa in un generatore di reddito, in una risorsa scambiabile: assetisation of everything [com’è già che la chiamava il barbone di Treviri?]
    → nonostante il radicalismo libertario, BTC e consanguinei sono interni all’ortodossia dominante per cui la moneta è una cosa, quando invece è una relazione sociale. I miliardi messi in movimento sono tutti “depositati” in una stratosfera magica ed eterea [… Ethereum] che ha vita solo sui monitor luccicanti e letteralmente muore con il loro spegnimento. La metafora dominante delle criptovalute è invece, non a caso, ipermaterialistica: a far funzionare la cortina fumogena è l’epica dei minatori che scavano alla ricerca dell’oro.

Conclusione filmica

In rete pullulano Predicatori del culto Bitcoin con centinaia di migliaia di fedeli.

Proposta n. 1: avviare un’analisi dei contenuti, delle tecniche espositive, dell’antropologia visuale, della maschilità dilagante, dei commenti ecc.

Proposta 2: montare un docu di spassosa rappresentazione dello zombie capitalismo imperante.

Assaggi: qui, qui, qui, qui  …   …   …   …

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LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A GENNAIO https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-a-gennaio/ Sun, 06 Feb 2022 17:27:31 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=6181 L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A GENNAIO proviene da OGzero.

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«Il segmento dei missili è proiettato verso un enorme incremento»

Nel gennaio del 2022 è stato pubblicato il rapporto relativo al mercato dei missili e razzi per velocità (subsonica, supersonica, ipersonica), produzione, tipo di propulsione (solida, liquida, ibrida, dinamoreattore, turbogetto e statoreattore), meccanismi di guida (con o senza pilota); e la proiezione verso il 2026 prevede un incremento di 4,8 per cento degli affari che passerebbero dai 58,3 miliardi di dollari del 2021 ai 73,8 del 2026

100%

Avanzamento

FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

Gennaio

31 gennaio

  • La formazione dei piloti di elicottero delle forze armate israeliane si svolgerà a bordo dei velivoli Agusta Westland AW119KX Koala prodotti nello stabilimento di Filadelfia (Usa) di Leonardo; in cambio dei mezzi di guerra di Leonardo, le forze armate italiane si sono impegnate ad acquistare tecnologia militare di produzione israeliana per lo stesso valore (molto probabilmente due aerei per le operazioni di intelligence e la guerra elettronica). Nello specifico gli israeliani doteranno i velivoli di produzione italiana con i pod di quinta generazione Litening-5 e RecceLite. L’annuncio è di “Italian Defense Technologies”, ripreso da Antonio Mazzeo sul suo blog.

    Ulteriori affari in Israele potrebbero arrivare in casa Leonardo dopo l’acquisizione del 25,1% del pacchetto azionario della società Hensoldt GmbH con sede a Monaco di Baviera, completata a inizio 2022. Hensoldt è una delle maggiori produttrici in Europa di sensori per missioni di sorveglianza, apparati d’intelligence e sistemi interamente automatizzati in campo terrestre, navale e aereo e vanta una lunga e consolidata cooperazione con IAI



30 gennaio

  • La Korean Central News Agency ha riferito di aver lanciato un missile balistico terra-terra Hwasong-12 “a medio e lungo raggio”. Il settimo test condotto nell’arco del mese di gennaio avviene dopo che lo scorso 19 gennaio  è stato deciso di riprendere «tutte le attività temporaneamente sospese», riferendosi apparentemente ai programmi per armi nucleari e missili balistici intercontinentali (Icbm) di Pyongyang. Si tratta del maggior numero di lanci missilistici nordcoreani in un solo mese, da quando Kim ha preso il potere alla fine del 2011. 

    Lo Hwasong-12 è stato classificato come un missile balistico a raggio intermedio (Irbm) con una portata di 3000-5500 km dalle autorità militari sudcoreane e statunitensi ed era già stato lanciato a settembre 2017. L’esercito sudcoreano ha detto che la prova è avvenuta nello Jagang, al confine con la Cina, e che ha volato per circa 800 km a un’altitudine massima di 2000 km prima di atterrare nel Mare Orientale


Scaduta la moratoria missilistica di Pyongyang: riprendono i test sui missili balistici: lanciati 7 Hwasong-12 in gennaio

28 gennaio

  • La cerimonia di consegna al Kuwait dei primi due cacciabombardieri Eurofighter Typhoon prodotti dal consorzio europeo Eurofighter GmbH (formato dalle holding Leonardo, BAE Systems e Airbus Defence & Space) si è svolta a Caselle il 9 dicembre 2021. Il mese successivo “Defensenews” riporta la notizia di un grosso scandalo scoppiato nel paese arabo per i prezzi gonfiati della fornitura di 28 caccia acquistati nel 2016 per 6,9 miliardi, quando i sauditi ne hanno comprati 72 per una cifra simile. L’addestramento di allievi piloti kuwaitiani sul caccia Eurofighter avviene presso il 4° Stormo di Grosseto, come informa l’articolo di Antonio Mazzeo per “Africa Express”

La corruzione nella vendita degli Eurofighter Typhoon al Kuwait da parte di Leonardo spa

25 gennaio

  • Il Dipartimento di stato americano ha approvato una possibile vendita al governo dell’Egitto di aerei C-130J-30 Super Hercules (capofila del contratto è Lockheed Martin) e relative attrezzature per un costo stimato di 2,2 miliardi di dollari. La Defense Security Cooperation Agency ha consegnato il 25 gennaio la certificazione richiesta che notifica al Congresso questa possibile vendita. E “Anbamed” informa che questa proposta di vendita è stata recepita dal Congresso l’11 marzo 2022. Un gruppo di senatori democratici avevano chiesto di condizionare le esportazioni di armi al rispetto dei diritti umani al Cairo. La vendita – comprensiva anche di 12 motori a turboelica Rolls Royce AE-2100D, 30 Embedded GPS/INS, 7 sistemi di distribuzione delle informazioni multifunzionali e altre attrezzature ed elementi di supporto logistico e di programma –è stata autorizzata con i voti di 81 senatori a favore e 18 contro.
    Nello stesso giorno, le autorità carcerarie egiziane hanno eseguito 7 condanne a morte, ma l’Egitto ha una lunga tradizione di acquisto di jet russi Sukhoi SU-35, Mikoyan MiG-29M, il Ka-52 Alligator e l’S-300VM “Antey-2500”, gli ultimi dei quali consegnati nel luglio 2021, rischiando sanzioni americane, nell’ottica di supremazia nei cieli libici al fianco del parlamento filorusso di Bengasi.

    La repentina approvazione della vendita degli Hercules ha probabilmente l’intento di sottrarre un potenziale alleato di Mosca nel Mediterraneo orientale in un momento di crisi bellica mondiale.

C-130J-Super-hercules

21 gennaio

  • Il 10 gennaio al porto di La Spezia era transitata la nave cargo saudita Bahri Yanbu, nota per portare alla petromonarchia le armi acquistate negli Stati uniti e in Europa. Cosa fosse salito a bordo della Bahri durante lo scalo spezzino non era stato possibile accertarlo. Ma il 19 gennaio la dogana senegalese ha sequestrato tre container a bordo della nave Eolika, battente bandiera della Guyana, e probabilmente diretti nella Repubblica Dominicana: conferma che dal porto dell’hub industrial-militare ligure partono armi poco trasparenti, come i tre container di munizioni per armi leggere, cal.. 9 e cal. 5.56, dalla Fiocchi Munizioni spa di Lecco, azienda di rinomanza mondiale e tra i maggiori esportatori militari italiani, oltre 140 milioni di euro di fatturato, oltre 700 dipendenti in Italia e due stabilimenti negli Stati Uniti

Il caso Eolika con i proiettili occultati della Fiocchi Munizioni ricorda il caso delle mine della Valsella Meccanotecnica

18 gennaio

  • Uno studio dell’Osservatorio Mil€x  rivela che nel 2022 la spesa militare italiana tocca la cifra di 25,8 miliardi di euro. I nuovi armamenti segnano il record di 8,3 miliardi: dai fondi per il nuovo caccia Tempest (2 miliardi), che si aggiungerà agli F-35 e ai nuovi eurodroni classe Male; dagli aerei Gulfstream per la guerra elettronica alle nuove aerocisterne per il rifornimento in volo. Una grossa fetta della torta è destinata alle nuove batterie missilistiche antiaeree per missili Aster (2,3 miliardi di euro) e ai nuovi blindati Lince: ben 3.600 rimpiazzeranno i 1.700 già in dotazione all’esercito. E poi due nuovi cacciatorpedinieri lanciamissili classe Orizzonte da circa 1,2 miliardi l’uno che saranno prodotti da Fincantieri; a questi si aggiungono una trentina di blindati anfibi 8×8 da sbarco di Iveco e Oto Melara da 10 milioni l’uno e altrettanti gommoni armati da sbarco. Lo ha rivelato “Osservatorio diritti” con un intervento di Giorgio Beretta

Il nuovo caccia di Leonardo in dotazione all'esercito italiano: avanguardia della tecnologia di guerra

17 gennaio

  • Svolta nella guerra in Yemen: gli Houthi lanciano un attacco con droni iraniani colpendo ad Abu Dhabi lo stabilimento della compagnia petrolifera Adnoc come ritorsione per una strage perpetrata da mercenari ermiratini inquadrati nelle Brigate Al Amaleqa. La situazione è descritta con precisione da Michele Giorgio per “PagineEsteri”

Qasef 2k, il drone in dotazione ai ribelli Houthi utilizzato per colpire obiettivi sauditi ed emiratini

13 gennaio

  • Viaggio africano del piazzista Erdoğan. Troviamo i dati salienti (conosciuti) di questa riunione – avvenuta il 18 dicembre –  di potentati di tutto il continente alla corte dell’autocrate turco nell’illustrazione fatta da Emanuele Giordana per “Atlante delle Guerre”

drone turco

7 gennaio

  • Velivoli M346 venduti da Leonardo per Addestramento di piloti egiziani che si troveranno a pilotare i cacciabombardieri Rafale francesi; rivelazioni tratte da “Africa Intelligence” e riportate da Antonio Mazzeo per “Pagine Esteri”

M 346FA - Aermacchi Fighters Attack (Leonardo)

5 gennaio

  • Il Marocco da alcuni mesi sta preparandosi a rinvigorire i consueti conflitti con la rivale storica Algeria, rinfocolati dal riconoscimento di Trump della giurisdizione sul territorio del popolo saharawi; un episodio di questa escalation proviene dalla nuova fornitura di droni Harop e missili Barak 8, facilitata dalla distensione tra i due paesi in seguito agli Abraham Accords, voluti da Kushner, il genero di Trump; ne dà notizia “Israel Defense”, commentato da Antonio Mazzeo, che sottolinea anche come siano inquietanti pure le relazioni tra Rabat e Tel Aviv nel settore della sorveglianza e dello spionaggio militare. Il Marocco è uno dei maggiori clienti della compagnia di cyber security and intelligence Nso Group Technology realizzatrice dello spyware Pegasus che consente di sorvegliare da remoto gli smartphone.

Barak 8 missile Sam della israeliana Iai

2 gennaio

  • Il 2 gennaio gli Houthi hanno sequestrato a 23 miglia nautiche a ovest del terminal marittimo di Ras Isa, la Rwabee, nave battente bandiera emiratina diretta in Arabia saudita e salpata da Socotra, isola controllata dagli Emirates, che attraverso al Arabiya asseriscono fosse carica di medicinali. I ribelli sostengono invece che il mercantile aveva a bordo un carico di armi e hanno diffuso alcuni video per dimostrarlo. E tutte le agenzie internazionali lo hanno rilanciato, qui il pezzo di France24


Bloccati undici marinai della ciurma della Rwabee, nave emiratina sequestrata dagli Houti a Ras Isa carica di armi per i sauditi

FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE Traffico 2022

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100 %

Avanzamento


La guerra viene con le armi: lo spaccio nel 2022

L’anno si inaugura con la paura di una guerra che avrebbe potuto essere nucleare in Europa col confronto diretto tra potenze globali, o presunte tali… e lo sviluppo di quella guerra più prossima alla sensibilità occidentale delle “proxy war” fatte combattere lontano procede tra il grottesco delle scenografie imperiali otto-novecentesche e le stragi chirurgiche di armi strategicamente digitali, fino alla “arma segreta” che non può mancare nel delirio dei guerrafondai di ogni secolo.
E infatti questo dossier nasce da un’idea di ricostruzione à rebour: monitorando il bisogno – e dunque l’acquisto – di un’arma si può ricostruire la nascita e l’area che può interessare la prossima guerra, il futuro dissidio, l’ennesimo scoppio di un conflitto.
Nel mondo infinite sono le proxy war, combattute per procura da quelle stesse potenze o altre regionali; molti sono i conflitti a sfondo religioso, che coprono la rapacità di multinazionali che affidano i loro interessi a milizie, o a stati impegnati in scontri con i vicini, o a soffocare secessioni su base coloniale; altrettante sono le lotte contro il neocolonialismo predatore.
Questi bombardamenti, le conseguenti battaglie e stragi… sono rese possibili dallo spaccio di armi: il traffico, ma anche gli accordi tra stati, gli scambi con la droga, o di favori geopolitici. Le fiere che espongono, propongono e vendono ordigni.
Abbiamo pensato di inaugurare l’anno cercando di raccogliere tutte le notizie, le inchieste, gli svelamenti che nell’anno 2022 stanno avvenendo, cercando quanti più dati possibile relativi al traffico di armi mondiale.



GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE NOVEMBRE




Lo spettacolo può cominciare


Il monitoraggio lungo un anno si è concluso, ottenendo una messe di dati, analisi, considerazioni che abbiamo già proposti in questo dossier, mantenendo come stella polare l’intuizione che ci aveva spinti a tentare di seguire i flussi di armi (quelli denunciati) per vedere dove confluivano e quindi dimostrare che le guerre si preparano industrialmente con largo anticipo sui pretesti politici in base a una strategia. Avevamo pensato di avviare questa attività nel novembre 2021, tre mesi prima che si manifestasse l’innesco del rivolgimento degli equilibri globali con l’“Operazione militare speciale” a rivendicare militarmente un multilateralismo effettivo con lo scopo di informare l’Occidente che la sua centralità è perduta, o almeno messa in discussione. Sicuramente è stato un anno particolare per operare questo monitoraggio, ma – andando a rileggere le schede di questi mesi – risulta palesemente emblematico di come funziona la filiera delle armi e come si concatena con le strategie geopolitiche, in funzione dei bisogni politico-militari, e con una ricerca scientifica sempre più ““dual”, a sancire una sempre maggiore militarizzazione della società civile.

Tutto questo ha fornito basi utili per passare alla consueta seconda fase degli Studium: l’approfondimento che prende corpo in un volume di più ampio respiro, realizzato in collaborazione con l’Atlante dei Conflitti  e delle Guerre del Mondo. Con questo intento OGzero ha affidato ad alcuni complici-esperti la disamina della condizione del mercato delle armi nelle singole aree, o negli aspetti legati a ricerca, logistica, produzione… strategie belliche. Gli estensori dei singoli paper sono Gabriele Battaglia, Roberto Bonadeo, Murat Cinar, Raffaele Crocco, Marco Cuccu, Alessandro De Pascale, Angelo Ferrari, Emanuele Giordana, Antonio Mazzeo, Alice Pistolesi, Eric Salerno, Carlo Tombola, Massimo Zaurrini.

Il dato che spicca rispetto alla motivazione iniziale del monitoraggio è che gli spostamenti di armi hanno assunto un movimento centrifugo di diffusione capillare con una richiesta sempre maggiore e globale (segno che il presente o probabile coinvolgimento è percepito come urgente approvvigionamento da parte di ogni area), e anche centripeto rispetto alle aree in cui è già esploso il conflitto (e dove si concentrano maggiormente le armi, sempre però seguendo un criterio che informa il singolo conflitto, sempre mantenuto nei canoni che i contendenti decidono – altro aspetto rilevato dal percorso operato in questo focus annuale).

Tuttavia non è più la fase in cui si segue il traffico per trovare un nuovo conflitto, ma la “guerra” è già dovunque e sempre di più è richiesto l’allineamento a uno schieramento… e ciascuno è tenuto all’interno del suo campo a riarmarsi e assorbire la sua parte di prodotti bellici. Questo è lo sfondo su cui sono andati a incastonarsi i preziosi contributi degli autori sopraelencati, che vanno a comporre il volume di 264 pagine dense di informazioni e analisi,  a cui corrisponde un e-pub che contiene il valore aggiunto di numerosi collegamenti interattivi.



Dicembre

21 dicembre

  • La vocazione  israeliana al controllo della Sicurezza globale

Intense relazioni tra esercito, università e aziende italiane con le tecnologie di guerra israeliane

AresDifesa” comincia a parlare il 4 settembre di questa sorta di “droni kamikaze” chiamati Hero-30, facendo illazioni sulla costruzione per forze speciali di un paese occidentale di flotte di queste “munizioni orbitanti”. Ancora non si capiva quale fosse mai il paese occidentale; il 21 dicembre Antonio Mazzeo ci informava che:

«I dirigenti di Leonardo DRS (Arlington, Virginia) hanno reso noto che l’unità commerciale dei sistemi terrestri di St. Louis, Missouri, ha stipulato il 6 ottobre un accordo con la SpearUAV Ltd. di Tel Aviv per sviluppare una versione delle munizioni aeree Viper su scala nanometrica “per andare incontro alle richieste emergenti di molteplici clienti militari statunitensi”» (Antonio Mazzeo blog).

ma a ottobre ancora non era uscita la notizia che dava continuità alla rivelazione sulla classe Hero di settembre. Infatti l’idra multiteste dell’industria dei droni israeliani faceva spuntare una nuova esportazione della tecnologia e della cooperazione con le aziende italiane: i mini-droni kamikaze sono stati lanciati ufficialmente all’inizio di ottobre quasi in contemporanea all’accordo tra Leonardo e SpearUAV. Una ventina di giorni dopo il ministro della difesa dell’Azerbaijan, Madat Guliyev, ha incontrato l’amministratore dell’azienda Gadi Kuperman per discutere sulla possibilità di rifornire le forze armate azere proprio con le nuove munizioni circuitanti Viper (“Israeldefence”).

Ma nello stesso articolo di Mazzeo si annunciava già la fusione delle due teste (o testate) israeliane: infatti faceva capolino l’accordo italo-tedesco che sarebbe sfociato nella produzione in Italia di loitering munitions su brevetto Uvision; Spear aveva rastrellato finanziamenti per 17 milioni da UVision, che è una macchina da guerra con sedi in India e negli Usa… e sempre a ottobre ha sottoscritto una partnership con la tedesca Rheinmetall per produrre unità autoesplodenti del tipo Hero, perché sono compatibili con mezzi prodotti dall’azienda di Düsseldorf (Boxer, Lynx, Mission Master). E l’accordo coinvolge RWM Italia, preposta a produrre per l’Europa i sistemi Hero (“FightGlobal“).

Già in questo articolo si faceva accenno allo stabilimento di Domusnovas e alla spesa di 4 miliardi stanziati dall’esercito italiano per il munizionamento con Hero-30. Il 23 gennaio “DefenseNews” trova un Avviso di aggiudicazione di appalti nel settore della difesa e della sicurezza per

«acquisizione del Sistema di Munizioni a guida remota, denominato «Loitering Ammunition» (LA) HERO-30 e relativo supporto tecnico-logistico, a soddisfacimento delle esigenze operative urgenti (Mission Need Urgent Requirement, MNUR) del Comparto Forze Speciali» (MINISTERO DELLA DIFESA – SGD/DNA- DIREZIONE DEGLI ARMAMENTI AERONAUTICI E PER L’AERONAVIGABILITÀ)

Il bando indica come vincitore dell’appalto RWM Italia S.p.A con sede a Ghedi, nel Bresciano. Nel 2021, UVision ha firmato un accordo strategico con l’entità italiana per la produzione su licenza e lo sviluppo di munizioni vaganti di tipo Hero. La partnership vede RWM Italia in qualità di prime contractor per il mercato europeo, fornendo e producendo alcuni componenti di munizioni, sistemi di assemblaggio e gestendo il supporto logistico.

Ma le partnership italo-israeliane hanno una lunga tradizione, soprattutto in rifornimenti da parte israeliana, intensificati dal 24 febbraio in funzione antirussa. Come il caso dei due sofisticati aerei di pronto allarme e intelligence da destinare alle cosiddette «missioni speciali» dell’Aeronautica militare CAEW (Conformal Airborne Early Warning & Control System) basati sulla piattaforma del jet Gulfstream G550 sviluppato dall’azienda statunitense Gulfstream Aerospace, appositamente modificato e potenziato dalla israeliana Elta Systems Ltd, società del gruppo IAI, acquistati il 13 settembre 2022 dal dimissionario Mario Draghi per 550 milioni di euro, come ricordava “il manifesto”; questi due velivoli si vanno ad aggiungere agli 8 aerei spia acquistati per quasi un miliardo e mezzo nel 2020 sempre da Elta.

Il soldato e la sua macchina: l’estensione del fantaccino con la sua protesi kamikaze

Ma la spesa era già lievitata l’anno precedente: infatti la notizia sull’ennesimo folle progetto bellicista del governo e delle autorità militari è stata data da “Milex”, l’Osservatorio sulle spese militari nel novembre 2021: il costo complessivo del programma è stimato in 3,878 milioni di euro in cinque anni, ma il ministero della Difesa ha voluto precisare che in sede di negoziazione del contratto «sarà ritenuta ammissibile una deviazione negli oneri del 10%”. Come dire che alla fine, se tutto andrà bene, i contribuenti italiani si faranno carico di 4,266 milioni di euro».

L’ultima notizia in ordine di tempo  – raccapricciante perché coinvolge accademia (università di Bari), enti locali (comune di Bari) – ripresa da “PagineEsteri”: un classico esempio di dual use questo progetto “Drone-Tech”, che prevede l’uso di droni israeliani per la ricerca di discariche abusive… che poi potrà svolgere le medesime funzioni di controllo e missione in territorio di guerra. Partner sarebbero il Distretto Tecnologico Aerospaziale pugliese (in cui spiccano le Università del Salento-Lecce e “Aldo Moro” di Bari, il Politecnico di Bari, l’Enea, il Cnr, Leonardo SpA, Avio Aereo, IDS – Ingegneria dei Sistemi) e High Lander Aviation Ltd, società con sede nella cittadina israeliana di Ra’anana, nei pressi di Tel Aviv, tra i collaboratori della quale si annovera il gruppo Sightec che ha fornito al colosso industriale IAI – Israel Aerospace Industries – le tecnologie di scansione impiegate a bordo di “MultiFlyer”, il nuovo piccolo drone-elicottero immesso nel mercato per svolgere un largo numero di operazioni dual, civili e militari-securitarie, come ha serenamente riferito all’Ansa il presidente del Distretto Aerospaziale Giuseppe Acierno:

«Siamo contenti di essere stati ritenuti idonei al programma di cooperazione industriale italo-israeliano sostenuto dal ministero degli Esteri. Il consolidamento della nostra collaborazione con i partner israeliani ci aiuta a stare vicino ai livelli più alti di innovazione e ci permette di rafforzare collaborazioni con un Paese che rappresenta l’eccellenza mondiale nel campo dei droni. Il progetto continua nello sforzo di rafforzare ed internazionalizzare le conoscenze e le capacità che il Distretto Tecnologico sta capitalizzando nella sperimentazione di servizi innovativi con droni per Bari Smart City e avvicina il sistema aerospaziale israeliano, tra i più avanzati e dinamici, a quello pugliese, per generare nuove opportunità per lo sviluppo di competenze e nuove forme di imprenditorialità».


  • Israele è comunque al centro di tutto il traffico d’armi in Europa e Medio Oriente

  • La Germania ha iniziato a settembre (si evince da un agenzia della Reuters) trattative per acquistare il sistema di difesa missilistico Arrow 3 da Israele, una parte dei 100 miliardi stanziati da Berlino per ammodernare la Wehrmacht dopo l’invasione dell’Ucraina. Gli intercettori Arrow 3 sono progettati per volare oltre l’atmosfera terrestre, lì le loro testate si staccano per trasformarsi in satelliti che inseguono e colpiscono i loro bersagli. Questi abbattimenti ad alta quota hanno lo scopo di distruggere in modo sicuro i missili nucleari, biologici o chimici in arrivo
  • E gli Usa triangolano con Israele per far pervenire armi all’Ucraina, come esposto dal “NYT“: il Pentagono sta attingendo a una vasta ma poco conosciuta scorta di munizioni americane in Israele, accumulata nelle molte missioni “umanitarie” mediorientali. Israele ha costantemente rifiutato di fornire armi all’Ucraina per paura di danneggiare le relazioni con Mosca: un rapporto di interesse per Israele che porta dal 2013 raid aerei all’interno della Siria per bloccare il passaggio di armi con cui i pasdaran riforniscono gruppi armati come Hezbollah o quelli palestinesi. Sorvola così i cieli di Damasco sotto il controllo russo; la Russia non vedrebbe questa recente mossa come un cambiamento di politica da parte di Israele, perché non si tratta di munizioni israeliane.
  • Un dato significativo in ambito mediorientale è quello della vendita agli Emirati del sistema di difesa aerea israeliano Barak. I primi abboccamenti erano avvenuti a gennaio in seguito agli attacchi con droni Houthi. Gli Emirati Arabi Uniti si erano cominciati a rivolgere a gennaio 2022 a Israele in seguito agli attacchi Houthi portati con i Qasef 2K di fabbricazione iraniana, come avevamo già riportato nella scheda del 17 gennaio). Non è chiaro quale versione del Barack sia stata impiegata, poiché Israel Aerospace Industries produce una famiglia di sistemi moderni basati sul Barak-8 originale. Originariamente progettato e coprodotto con l’India per essere un sistema navale, il Barak è stato modificato e aggiornato per funzionare con le forze terrestri. La IAI ha rifiutato di commentare questo rapporto. Una versione potenziale, il Barak-MX, è stata recentemente acquistata dal Marocco. Secondo IAI, si tratta di un sistema di difesa cinetica progettato per difendere da una serie di minacce aeree di giorno e di notte e in tutte le condizioni atmosferiche; può essere utilizzato con una serie di intercettori diversi la cui gittata va da 35 chilometri a 150 chilometri.
  • Dalla firma degli Accordi di Abraham nel 2020, che hanno normalizzato le relazioni tra Israele, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Marocco, le aziende israeliane del settore della difesa hanno cercato di scoprire i nuovi potenziali clienti.
  • «Sono già stati conclusi oltre 3 miliardi di dollari di nuovi affari nella regione» (“BreakingDefense”)

    Il cliente più recente di Uvision è l’Argentina, il primo paese latinoamericano ad acquistare le munizioni Hero-120 e Hero-30.


  • Ma è soprattutto l’aspetto di sperimentazione e messa in pratica che Tsahal mette a disposizione, fedele alla regola per cui si vendono solo macchine sperimentate sul campo: questa è testimoniata dalla nuova vita degli Apache, elicotteri per il prossimo quarto di secolo, la modernizzazione eseguita dalla Boeing, come rivelato a ottobre da “BreakingDefense“, dotati di missili Spike, sperimentati da Israele (ma con interessi anche francesi) nella esposizione di “DefenseNews” si assiste a una collaborazione tra Lockheed Martin e Rafael Advanced Defense Systems che hanno recentemente completato dei voli di prova in Israele per prepararsi a uno scontro a fuoco; queste esercitazioni permetteranno di scegliere l’arma di precisione a lungo raggio da montare sugli AH64-E Apache.

    Le munizioni a lungo raggio per i futuri velivoli dell’esercito saranno fondamentali per impegnare le posizioni difensive del nemico da una distanza confortevole, ovvero al di là del raggio di rilevamento del nemico e lo Spike Non-Line-of-Sight è stato reso compatibile con il lancio dal Modular Effects Launcher, in ase di sviluppo per l’esercito statunitense.

tayfun


Sulla base dell’Accordo di Cooperazione nel campo della Ricerca e dello Sviluppo Industriale, Scientifico e Tecnologico tra Italia e Israele, nel corso del 2022 sono stati individuati i seguenti progetti ammessi a ricevere un sostegno finanziario da parte del Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale:

  • Drone Tech – partner: Distretto Tecnologico Aerospaziale e High Lander Aviation Ltd.
  • ASTI Auto System THA Insertion – partner: Politecnico di Torino/Intrauma S.p.A. e Value Forces Ltd.
  • We –CAT – partner: Università di Milano Bicocca e Bar Ilan University.
  • GreenH2 – partner: Politecnico di Milano e The Hebrew University of Jerusalem.
  • Hydrogen Sensors – partner: Università degli Studi dell’Aquila e Tel Aviv University.
  • IVANHOE – partner: Università degli Studi dell’Aquila e Ben Gurion University of the Negev.
  • Bio-SoRo – partner: Sapienza Università di Roma e Ben Gurion University of the Negev.
  • F2SMP – partner: Università degli Studi di Pavia e Technion Israel Institute of Technology.
  • C-IGrip – partner: Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia e The Hebrew University of Jerusalem.
  • BIONiCS – partner: Università degli Studi di Genova e Tel Aviv University.

11 dicembre

      • Tayfun e le ambizioni neo-ottomane di uno stato militarista

            • Qualche anno fa si è cominciato a mettere in dubbio il concordato mondiale che vedeva l’Onu come il luogo dove arginare la possibilità che un autocrate potesse scatenare una nuova guerra mondiale. Le picconate conclusive su quel poco di autorevolezza che l’Onu aveva ancora fino a pochi lustri fa sono arrivate da Trump e da lì è come se tutte le democrature avessero capito che era saltato il tappo che doveva aiutare a comporre i conflitti riducendo (se non annullando, come nel primo dopoguerra) l’importanza della forza bruta.
              Tra chi ha sfruttato maggiormente questo nuovo modo di affrontare i conflitti e le dispute mondiali ci sono i paesi che animano quello che si può ormai definire il Protocollo di Astana, periodico incontro tra potenze locali, per regolare una sorta di paradossale alleanza spartitoria tra la Russia, l’Iran e la Turchia. Se la prima si è lanciata nell’avventura ucraina che procede innanzitutto facendo carta straccia della diplomazia dell’Onu, la Turchia ha già assestato qualche colpo alla Nato, l’altro apparato militare occidentale, annunciando l’offensiva sia verso il Rojava, sia verso la Grecia: l’11 dicembre “Ekatimerini” riporta la consueta serie di bellicose dichiarazioni elettoralistiche del bullo Erdoğan contro la Grecia (altro membro Nato), minacciando di colpire Atene con un missile Tayfun, «se non rimarrete calmi». Qualche giorno prima il ministro degli Esteri turco Mevlut Čavusoglu ha minacciato la Grecia di invaderla se non smilitarizzerà le sue isole del Mar Egeo, ha detto che la Turchia «arriverebbe all’improvviso da un giorno all’altro», un’espressione che i funzionari turchi amano usare spesso.Il problema è che il bullo dispone già del secondo esercito più potente della Nato e il tredicesimo per forza armata attiva disponibile. E sta riarmandosi a ritmi forsennati, procurandosi ogni tipo di armi e «dato che l’anno prossimo la Grecia dovrà affrontare una doppia elezione, in cui è probabile che tra le due tornate elettorali si insedi un governo di transizione, i funzionari governativi temono che Erdogan possa far coincidere l’incidente con questo periodo di minore stabilità della politica greca».

              • “Future Defense” ha lanciato una serie di video su YouTube per avvertire dell’iperattivismo turco:

              .

              Si comincia con il 14 ottobre: nel video si assiste alle mirabolanti imprese del quadruplo missile da crociera turco da imbarcare su fregate

              • Roketsan, continua a lavorare sul Sistema di Lancio Verticale Nazionale, chiamato Mildas, e sui missili di difesa aerea che saranno utilizzati in esso; l’obiettivo finale è quello di integrare il Quad-Pack funzionale, con la capacità di lanciare più missili da crociera. Le fregate della classe Istif, o TCG Istanbul, avranno un sistema di lancio verticale a 16 celle. e Se il pacchetto funzionale Quad-Pack sarà integrato nel sistema di lancio verticale, ogni cella potrà essere equipaggiata con 4 missili di difesa aerea.
                In questo modo, invece di 16 missili pronti a sparare, il sistema avrà 64 missili di difesa aerea.

                • Altro prodotto Roketsan è il missile Sungur, mostrato in questo video del 10 dicembre 2022 di “Military Coverage”:
                • Il Sungur Air Defense System è un sistema missilistico di difesa aerea a corto raggio integrato nel veicolo blindato tattico a ruote Vuran, ha 8 chilometri di gittata; se da un lato il sistema missilistico aumenta l’accuratezza nel colpire i bersagli grazie alla tecnologia Imaging Infrared Seeker (IIR), dall’altro presenta un importante vantaggio nella distruzione dei bersagli aerei grazie alla sua testata, che ha una potenza esplosiva superiore a quella dei sistemi simili disponibili nell’arsenale di Ankara.
                • E non poteva mancare il nuovo gioiello Baraktar: Kızılelma il regalo di Natale per i vicini ellenici: un caccia senza pilota supersonico, descritto su “DefenseNews“:
              • Il Kızılelma può rimanere in volo fino a 4-5 ore, controllato via satellite attraverso l’antenna Satcom. È alimentato da motori turbofan AI-322F dell’azienda ucraina Ivchenko-Progress.
                Il jet è dotato di un radar Aesa costruito da Aselsan e sarà in grado di lanciare missili aria-aria Bozdogan e Gokdogan. Per la guerra di superficie, il futuro aereo senza pilota sarà armato con missili da crociera SOM-J con una gittata di oltre 250 km e bombe guidate della famiglia MAM, prodotte da Roketsan, per missioni di piccolo attacco
              • Di questi droni supersonici è dotata la nave d’assalto Anadolou una nave strategicamente diventata portadroni quando gli Usa vietarono l’acquisto di F35 alla Turchia, questa ammiraglia vanta a bordo anche elicotteri d’attacco AH-1W SuperCobra e S-70 Seahawk.

          • A cui si aggiunge Anka-3, presentato all’“INDO Defense Expo & Forum 2022” di Jakarta, tenutosi a novembre e illustrato in questo video natalizio:
        • Il sistema, sviluppato sulla base dell’esperienza acquisita con i droni della classe Anka, è stato presentato in anticipo sulle previsioni (e non è una buona notizia): con un motore a reazione turbofan, il drone avrà un peso massimo al decollo di 7000 chili e sarà in grado di trasportare non solo sensori per la sorveglianza, ma anche armi. Il vicepresidente turco Fuat Oktay ha dichiarato che l’Anka-3 sarà in grado di colpire i sistemi di difesa aerea nemici. L’Anka-3 assomiglia al drone multiuso X-47B di Northrop Grumman, che ha volato per la prima volta quasi 12 anni fa e ha una velocità di crociera di quasi 1000 km/h.
          Una delle aspettative per l’ANKA-3 è che sia in grado di operare in tandem con il futuro caccia turco TF-X, un’altra piattaforma prodotta da TAI.

    La Turchia a novembre aveva messo in servizio dalla Marina turca il suo nuovissimo Ucav Aksungur Male nell’ambito dell’esercitazione navale “Mavi Vatan 2022”, caricando munizioni teleguidate Mam-L di produzione nazionale su un bersaglio di superficie, una nave militare. L’Aksungur può svolgere missioni di intelligence, sorveglianza, ricognizione e attacco in tutte le condizioni atmosferiche, di giorno e di notte, con un’elevata capacità di carico utile di 750 kg, può rimanere in volo per 60 ore.

      • Risale al 6 dicembre il lancio di “NavalNews” relativo ai sottomarini nucleari targati Type 214TN, Nell’ambito del progetto, il primo sottomarino, il Piri Reis, in costruzione presso il cantiere navale di Golcuk, è stato varato nel 2019 e ha galleggiato in acqua nel marzo 2021. Il secondo sottomarino Hizir Reis, entrato in bacino di carenaggio il 24 maggio 2022, dovrebbe entrare in servizio nel 2023. A partire da quest’anno, sarà commissionato un sottomarino all’anno e 6 sottomarini della classe Reis saranno consegnati alla Marina turca entro il 2027. La Marina turca dispone di una flotta di 12 sottomarini composta da quattro classe Ay (Tipo 209/1200), quattro classe Preveze (Tipo 209T/1400) e quattro classe Gür (Tipo 209T2/1400), tutti sottomarini d’attacco a propulsione convenzionale (diesel-elettrica). Entro il 2027, la Turchia opererà con sei sottomarini AIP classe Reis.
      • La classe Reis porterà benefici non solo alla Marina turca, ma anche alla base tecnologica e industriale della difesa turca. Il know-how e l’esperienza acquisiti con il progetto del sottomarino classe Reis saranno un forte riferimento per i sottomarini indigeni che saranno costruiti nell’ambito del progetto del sottomarino nazionale (Milden), attualmente in fase di progettazione e la cui costruzione è prevista per il 2030. Molti subappaltatori turchi, tra cui ASELSAN, HAVELSAN, MilSOFT, Defense Technologies Engineering and Trade Inc. (STM), Koç Information and Defense, Scientific and Technological Research Council of Turkey (TÜBİTAK) e AYESAŞ, stanno lavorando ai sottosistemi dei sottomarini della classe Reis, come il sistema di navigazione e gestione dei dati, il collegamento dati, il sistema di contromisure per i siluri.I sottomarini della classe Reis di tecnologia tedesca sono caratterizzati da un sistema di propulsione basato sulla cella a combustibile di Howaldswerke-Deutsche Werft (HDW). I sottomarini hanno una lunghezza di 68,35 metri, un diametro esterno di 6,3 metri, un dislocamento di 1850 tonnellate e una capacità di 40 persone. ThyssenKrupp Marine Systems ha costruito i sottomarini della classe Reis nel cantiere turco di Golcuk, come da contratto del 2009. Il sottomarino è in grado di effettuare dispiegamenti di lunga durata senza dover fare snorkeling. Sono dotati di siluri pesanti (MK48 Mod 6AT e DM2A4), missili antinave (Sub-Harpoon) e mine. Il siluro pesante turco Akya e il missile antinave Atmaca dovrebbero essere montati sui prossimi sottomarini del progetto. I sottomarini della classe Reis saranno in grado di svolgere missioni come operazioni in acque litoranee e pattugliamenti oceanici, comprese operazioni antisuperficie e antisommergibile, compiti ISR e operazioni di forze speciali; sembrano fatti apposta per il controllo delle acque greche.
      • E ciliegina finale su questa torta di miliardi e arsenali micidiali, il missile balistico alluso da Čavusoglu all’inizio di questa scheda: il nuovo missile balistico con una portata di 1000 chilometri: il Tayfun

tayfun


La Grecia dal canto suo nell’ultimo anno ha principalmente posto la sua attenzione su Corvette (in acquisto da Fincantieri), ma partecipa anche all’accordo europeo tra Francia, Germania, Italia, Olanda e Gran Bretagna per lo stanziamento di 28 milioni di dollari per il progetto Next-Generation Rotorcraft Capability (NGRC) per la produzione di un elicottero le cui caratteristiche dovranno essere definite dai committenti: «In collaborazione con l’industria, i partecipanti partiranno da zero per esplorare come abbinare le loro esigenze con le più recenti tecnologie sul mercato, esaminando opzioni come la propulsione ibrida ed elettrica, un’architettura di sistema aperta e sistematica e la fornitura di caratteristiche di volo radicalmente migliorate», si legge nel comunicato della presentazione a Eurosatory.

NGRC

La Grecia ha presentato Archytas, il suo drone dual use all’expo di Salonicco, una macchina dedita al pattugliamento di confini di mare e di terra.
Rispetto ai caccia: alla Turchia non sono concessi quelli più performativi e schierano “soltanto” gli F-16, invece i greci fanno parte del progetto F-35, lo stesso che dopo l’incidente di natale ha spinto American Aircraft Production Administration a lasciare a terra i velivoli in attesa di accertamenti.

5 dicembre

    • Licenza di (contro)spionaggio per DigitalPlatforms: il certificato TEMPEST

      • Formiche” informa che il gruppo industriale italiano DigitalPlatforms è entrato nell’elenco delle aziende classificate e abilitate come produttori TEMPEST sia dal Consiglio dell’Unione europea sia dalla Nato. Gli apparati Tempest consentono una difesa totale da attacchi elettromagnetici; è una sigla della Nsa (National Security Agency) statunitense. TEMPEST ((Telecommunications Electronics Material Protected from Emanating Spurious Transmissions) riguarda sia i metodi per spiare gli altri sia le modalità di schermatura delle apparecchiature contro tale spionaggio. Gli sforzi di protezione sono noti anche come sicurezza delle emissioni (EMSEC), che è un sottoinsieme della sicurezza delle comunicazioni (COMSEC).
        I servizi TEMPEST e di Sicurezza Elettromagnetica supportano i clienti nella comprensione e nella gestione del livello di segnali emessi dalle apparecchiature che possono rivelare dati sensibili: cioè TEMPEST rileva attraverso standard di certificazione quanto sia vulnerabile il sistema informatico-comunicativo di cui ci si avvale e mette in atto contromisure al rischio di trasmettere involontariamente informazioni.
        Gli standard TEMPEST prescrivono elementi quali la distanza delle apparecchiature dalle pareti, la quantità di schermatura negli edifici e nelle apparecchiature e la distanza che separa i cavi che trasportano materiali classificati da quelli non classificati (Nsa).
      • La Fondazione ICSA , di cui è presidente il generale Leonardo Tricarico, ha organizzato sempre per il 5 dicembre 2022 l’evento “Difesa della sovranità digitale ed elettromagnetica. La tecnologia TEMPEST per la protezione dei sistemi informatici da interferenze ed intercettazioni elettromagnetiche
    • «L’iniziativa nasce dalla considerazione che l’esito degli ultimi conflitti bellici globali e, soprattutto, il protrarsi della guerra russo-ucraina nel cuore dell’Europa, impongono un urgente aggiornamento della dottrina militare e dei modelli di intervento in direzione di un significativo irrobustimento dell’approccio multidominio MDO (Multi Domain Operations) e delle attività CEMA (Cyber Electromagnetic Activities) per la sicurezza militare e nazionale» (gen. Leonardo Tricarico, “SNews”).

      L’evento Icsa intendeva incrementare la conoscenza e la diffusione della cultura del TEMPEST ed è interessante notare la coincidenza dell’evento con la certificazione attribuita a DigitalPlatforms

  • Il target dei servizi TEMPEST è rivolto a clienti che sono forze armate nell’ambito Nato. Un fornitore di prodotti TEMPEST ha dimostrato di aver soddisfatto una serie di criteri per ottenere la certificazione del proprio prodotto. Questo dà agli utenti finali la certezza che i prodotti soddisfino i requisiti TEMPEST. Tra questi spiccano gli elicotteri AW149 di Leonardo UK
  • , come attesta il National Cyber Security Centre britannico (macchina da guerra in gara per una fornitura di 44 esemplari al governo britannico per 1,2 miliardi).
  • Il 5 e 6 gennaio 2023 si terrà a Shanghai il quarto appuntamento dell’Asia Cybersecurity Innovation Summit che intende monitorare gli investimenti nella sicurezza in rete: la previsione è che l’investimento totale in hardware, software e servizi legati alla sicurezza di rete a livello globale aumenterà fino a 223,34 miliardi di dollari nel 2025, con un tasso di crescita composto (CAGR) quinquennale del 10,4%. La stima della spesa cinese sarà di 21,46 miliardi di dollari, crescendo del 20,5%. Questo evento combinerà in modo completo politiche e normative per fornire una piattaforma completa di apprendimento e comunicazione per i professionisti della tecnologia della sicurezza di rete e delle normative.

5 dicembre

    • Il mercato si spartisce

      • Di nuovo come per gli ultimi anni si assiste a un incremento degli investimenti per costruire e dotarsi di armi nel bilancio della difesa italiana, parallelo aumento a quello della vendita mondiale di ordigni. Si ricava dai dati dell’Osservatorio Milex e dal rapporto annuale del Sipri svedese, alle cui informazioni avevamo già attinto per l’editoriale di ottobre riguardo all’import/export tra il 2017 e il 2021.

        «Il rapporto del Sipri, l’istituto svedese che monitora il commercio mondiale delle armi, è dedicato alle  “Top 100 arms companies” ed è stato reso pubblico il 5 dicembre. Dice che le vendite di armi e servizi militari da parte delle 100 più grandi aziende del settore hanno raggiunto 592 miliardi di fatturato nel 2021, un aumento dell’1,9 per cento rispetto al 2020 in termini reali. Aggiunge che l’aumento segna il settimo anno consecutivo nella crescita globale della vendita di armi. I dati sono di prima della guerra in Ucraina».

    • così sintetizza Emanuele Giordana sull’“Atlante delle Guerre”, che nell’occhiello riassume: «A causa della pandemia e della crisi nella logistica rallenta la produzione ma il saldo del commercio mondiale delle armi continua ad aumentare. L’Italia conquista posizioni nel Top 100 dei produttori».
      Il rapporto Sipri ci racconta che le vendite di armi e servizi militari da parte delle 100 più grandi aziende del settore hanno raggiunto 592 miliardi di fatturato nel 2021, un aumento dell’1,9 per cento rispetto al 2020 in termini reali e negli ultimi vent’anni l’incremento del valore è stato del 174%, passando dai 201 miliardi del 2002 ai 592 del 2021 e vede Lockheed con profitti doppi (più di 50 miliardi annui) rispetto ai secondi classificati (Boeing e Northrop – circa 30 miliardi a testa) di questa classifica di mercanti di morte, che li vede incalzati a poca distanza da Raytheon, General Dynamics e BAE; dopo il pantheon Usa si trovano 4 marchi cinesi tra 15 e 20 miliardi (Avic, Norinco, Cetc, Casc); poi di nuovo poco sotto le statunitensi L3Harris e United Technologies, di nuovo Casic cinese e 14esima la prima ditta europea (Airbus) con 15 miliardi – azienda transeuropea – subito incalzata dall’italiana Leonardo con un miliardo in meno (13,9). Seguono sotto ai 10 miliardi la russa Almaz-Antey e la francese Thales.
    • Alfonso Navarra (“DisarmistiEsigenti”) scrive che dalle tabelle del ministero della Difesa, del Mise, del Mef riassunte dall’Osservatorio Milex l’incremento della spesa militare italiana raggiunge gli 800 milioni di euro, raggiungendo in previsione per il 2023 i 26,5 miliardi; la spesa per il riarmo italiano del prossimo anno supererà gli 8 miliardi. Esalta il dato con orgoglio “Formiche”:
    • «Le realtà industriali italiane hanno registrato un incremento percentuale nelle vendite militari del 15%, un risultato superiore a quello di tutte le altre regioni (eguagliato solo da Parigi). L’Italia da sola copre il 2,8% delle vendite globali del 2021. Nel dettaglio, nel 2021 Leonardo ha aumentato le sue vendite di difesa del 18%». L’exploit ha una ricaduta non solo a livello globale, dove l’Italia gioca da protagonista, ma anche sull’intero sistema economico, di cui il settore aerospazio, sicurezza e difesa rappresenta un segmento cruciale, anche per i ritorni in termini di tecnologia e innovazione. La crescita delle esportazioni segnala come la bilancia commerciale sia positiva per il comparto Difesa; nonostante la guerra in Ucraina, se da una parte ha innalzato la domanda, abbia avuto anche effetti importanti sulle supply chain di diverse realtà industriali, dato che la Russia è sempre stata un importante fornitore di materie prime necessarie per la produzione».

  • Questa valanga di miliardi ci travolge e lascia attoniti e non si riesce nemmeno a conferirgli una dimensione reale; ma forse il mercato va letto a comparti e allora si riuscirebbe a capire più facilmente come si muove e quali sono le correnti che lo animano: le alleanze tra ditte apparentemente concorrenti, che invece stipulano accordi spartitori per alternare i prodotti proposti ai potenziali clienti, consentono di collocare sul mercato, in tempi regolati dalle aziende stesse, articoli simili con alcune differenze, appetibili da tutti, per poter usufruire dell’intera gamma.Allora alla luce di quella classifica diventa emblematica la vicenda narrata da “BreakingDefense” di L3Harris – 5 posizioni sopra a Leonardo – che nella joint venture per fabbricare aerei da rifornimento con la brasiliana Embraer (il vero outsider, che coglie l’affare) aggira le guerre tra aziende per spartirsi i contratti, concordando due prodotti di scala diversa e prodotti da concorrenti che si spartiscono il mercato, raddoppiando le vendite.
  • Tra il 2012-16 e il 2017-21 si sono verificate diminuzioni complessive delle importazioni di armi in tre regioni del mondo: Americhe (-36%), Africa (-34%) e Asia e Oceania (-4,7%). Nel 2017-21 le importazioni di armi da parte degli stati sudamericani sono state inferiori rispetto a qualsiasi quinquennio degli ultimi cinquant’anni. In controtendenza solo il Brasile, unico stato del Sud America ad avere ingenti consegne di armi in sospeso.
    • Infatti ascrivendo l’Embraer KC-390 alla serie di aerocisterne più piccole e “tattiche” vuol dire escluderlo dal programma KC-Y, il “bridge tanker” che dovrebbe colmare le potenziali lacune tra il momento in cui la parabola dell’imponente KC-46 sarà conclusa e il prodotto della Boeing sarà pronto all’avvicendamento con il suo successore, chiamato KC-Z – dopo il breve interregno del KC-Y, per il quale si sono già schierate le ditte che troviamo in testa alla classifica pubblicata dal Sipri: Boeing, il cui KC-46A aveva vinto la medesima battaglia una decina di anni fa sui rifornimenti – che sono essenziali, e i generali in quiescenza (preposti dovunque alla fureria) ne sono consapevoli –, e un team di Lockheed Martin (primo in assoluto tra i fornitori di armi) e Airbus (prima azienda europea), che sta offrendo una versione dell’A330 MRTT prodotto dal marchio europeo, denominata LMXT per il consumo nazionale – bimotore turboventola multiruolo da trasporto militare e rifornimento in volo, come indicato dalla sigla MRTT, derivato dall’aereo di linea Airbus A330-200.

      In realtà si tratta di un avvicendamento: l’A330 era risultato secondo classificato rispetto al KC-46, e Northrop Grumman è stato il primo contraente statunitense (a completare il gotha delle aziende più importanti del settore bellico). E il “piccolo” KC-390 non è un prodotto in concorrenza, ma complementare, come spiega Kubasik, ceo di L3Harris, il colosso di media caratura che ha fatto l’affare con Embraer, che sta attualmente producendo un totale di 22 KC-390 per le forze aeree brasiliane, e anche Portogallo, Olanda e Ungheria hanno firmato per l’acquisto del velivolo:

    «Penso che il punto chiave che abbiamo detto ai nostri clienti è che questo è complementare, giusto? Voglio dire, avete queste grandi petroliere strategiche molto critiche che trasportano il doppio del carburante, – ha proseguito. – Il carburante è la sfida logistica numero uno per gli aerei, quindi perché non volere più capacità di rifornimento, di dimensioni e forme diverse? Penso che non siamo in competizione con nessun altro. Siamo complementari. Credo che i due strateghi avranno il loro solito botta e risposta. Penso che questo sia – non voglio dire che sia irrilevante per Usaf, ma penso che sia semplicemente “Ok, questo riempie il vuoto”».

  • Nel settore meno spettacolare, ma più sensibile della guerra dei cieli in questo appalto sta la dimostrazione di come quella classifica Sipri rispecchia solo il peso specifico e il potere contrattuale nelle trattative tra le ditte produttrici che si spartiscono e creano il mercato. Alleandosi per una spartizione della torta “senza guerre” (tra loro).

29 novembre

    • I coyotes mondiali

      • Il 29 novembre Defense Security Cooperation Agency pubblicava la notizia della concessione da parte del Dipartimento di stato americano della vendita di sistemi di difesa antidrone per una spesa pari a un miliardo di dollari in cambio di 10 Fixed Site-Low, Slow, Small Unmanned Aircraft System Integrated Defeat System (FS-LIDS) System of Systems, includendo 200 Coyote Block 2 interceptors; e poi Counter Unmanned Electronic Warfare System (CUAEWS); Coyote launchers; Ku Band Multi-function Radio Frequency System (KuMRFS) radars; Forward Area Air Defense Command e Control (FAAD C2); Counter Unmanned Electronic Warfare Systems (CUAEWS).
      • Lo riportava “BreakingDefense” sottolineava come i principali contractor Raytheon, Northrop Grumman and R&D company SRC.A Marzo si leggeva nel rapporto Sipri del confronto tra il 2017-2021 con il decennio precedente e riprendiamo da lì per inquadrare questa notizia novembrina in omaggio all’esiziale mondiale di calcio ottenuto da Doha (che secondo quel dossier aveva incrementato la spesa del 227% rispetto al lustro precedente) con la corruzione di Sarkozy, Platini e Guéant prima e poi con il sostegno di parlamentari europei di sinistra che negano l’evidenza del sistema omicida e criminale del Qatar (ci limitiamo a suggerire che Messi e Mbappé giocano entrambi nel Psg, che è di proprietà dell’emiro di Doha, un caso che la finale sia per magia tra le loro due compagini?): infatti l’Atlante delle guerre riassumeva così la situazione del Medio Oriente a marzo:

        «Si stabilizzano le importazioni di armi in Medio Oriente. Dopo il forte aumento registrato nel decennio precedente (86% in più tra il 2007-11 e il 2012-16) gli stati mediorientali hanno importato ‘solo’ il 2,8% di armi in più nel 2017-21 rispetto a quello precedente. Il conflitto in Yemen e le tensioni tra l’Iran e altri stati della regione restano alla base delle importazioni di armi nell’area. L’Arabia Saudita si conferma un grande importatore, il secondo al mondo, con un 27% in più investito in armi nel periodo 2012-16, rispetto al precedente.
        Le importazioni di armi del Qatar sono cresciute del 227%, spingendolo dal 22esimo importatore di armi al sesto. Al contrario, le importazioni di armi degli Emirati Arabi Uniti sono diminuite del 41%, passando così dal terzo al nono posto. Tutti e tre questi stati, insieme al Kuwait hanno poi effettuato ingenti ordini che prevedono la consegna nei prossimi anni. Nell’area, poi, Israele ha aumentato le importazioni di armi del 19%».

    • E poi le esportazioni statunitensi verso Riyad sono aumentate del 106%. Ma a cosa serve l’enorme quantità di armi, le più disparate per ogni tipo di guerra, sparpagliate per tutta la penisola araba?

Novembre

19 novembre

  • La guerra dei droni da Astana

    • La notizia in autunno sul fronte dell’approvvigionamento dei droni per le attività dell’aviazione russa è che si è raggiunto un accordo per impiantare in tempi brevi  uno stabilimento con la tecnologia iraniana direttamente in territorio russo; a rivelarlo il Washington Post, successivamente rilanciato da tutte le testate del mondo. Come sottolinea “DroneBlog”:

      questo accordo oltre che essere strategico mette in luce ancora di più il rapporto e la cooperazione militare fra Iran e Russia, che sta svolgendo un ruolo chiave in Ucraina. Se il nuovo accordo sarà pienamente realizzato, significherebbe un ulteriore rafforzamento dell’alleanza russo-iraniana. Questo accordo, oltre a migliorare la disponibilità di armi all’esercito russo, toglierebbe dall’isolamento l’Iran, dando una nuova spinta economica a un sistema interno collassato ormai da anni e alle prese con una rivoluzione in atto

  • In piena continuità con gli accordi di Astana, che tanto abbiamo analizzato in OGzero.
    E sempre “DroneBlog” scrive che «finora Teheran ha cercato di presentarsi come neutrale nel conflitto ucraino , ma si scopre che sempre più droni di fabbricazione iraniana vengono utilizzati per attaccare le città ucraine, innescando minacce di nuove sanzioni economiche dall’Occidente». E si insinua una scommessa iraniana sul sostegno che deriverebbe dall’alleanza con Mosca per ricavare valore contrattuale per gli accordi sul nucleare
  •  Peraltro l’industria iraniana dei droni si sta già diffondendo in altri paesi. L’Iran ha aperto a maggio una fabbrica in Tagikistan, che produce il drone Ababil-2, secondo l’Eurasia Times: è stato Zelensky stesso a indicare la strategia di avvicinamento a Mosca da parte di Ankara con fini collegati al Jcpoa.
  • The Guardian” il 10 novembre accusava l’Iran di aver sostenuto militarmente fin dal 24 febbraio l’alleato russo, ma ancora prima “Wired” riportava un sistema rudimentale – ma efficace – di aggiramento delle sanzioni: contanti e baratto.
  • In estate il baratto sarebbe dimostrato dall’atterraggio il 20 agosto di 2 Ilyushin IL-76 arrivati e ripartiti da Mehrabad (la città del kurdistan iraniano martirizzata il 19 novembre dalle guardie della rivoluzione): trasportava in cambio di droni armi occidentali sottratte agli ucraini, necessarie agli ingegneri persiani per carpire le tecnologie. Ipotesi suffragate da immagini satellitari diffuse da SkyNews e da dichiarazioni rilasciate al Washington Post il 29 agosto da funzionari statunitensi.

Un ultima notazione sull’asse russo/iraniano: i droni iraniani Mohajer-6 contengono molte componenti provenienti dalla tecnologia occidentale (in particolare giapponesi,  secondo James D. Brown) – quindi senza che si debbano trasferire ordigni catturati per studio – stando alle rivelazioni di “la Repubblica”; ma, a dimostrazione che lo spargimento di morte tra civili attraverso macchine a controllo remoto non comporta scelte di campo, il Blog di Antonio Mazzeo riporta un’informazione raccolta da “DefenseNews”:

    • «Il regime turco di Recep Tayyp Erdogan finanzierà la produzione di droni-elicotteri e droni-kamikaze per il mercato nazionale e l’esportazione, decisione che non potrà non essere accolta con favore anche in Italia. La società di engineering aerospaziale Titra Technoloji, con quartier generale ad Ankara, riceverà sussidi economici governativi per realizzare il primo modello di elicottero a pilotaggio remoto in Turchia. Denominato “Alpin”, il drone-elicottero sarà prodotto in dieci esemplari all’anno, “in aggiunta a 250 droni kamikaze”».

    • La Malesia ha scelto la Turkish Aerospace Industries per la fornitura di tre velivoli senza pilota, secondo quanto dichiarato dal ministro della Difesa della nazione del Sudest asiatico e ripreso da “DefenseNews”.
      TAI aveva presentato il suo Anka, un sistema di velivoli senza pilota a media altitudine e lunga resistenza, alla fiera della difesa e dell’aerospazio LIMA nel 2019. Il 18 agosto 2022 il re malese Al-Sultan Abdullah ha visitato le strutture di TAI ad Ankara, in Turchia. Il 7 ottobre TAI ha annunciato un memorandum d’intesa per una collaborazione con il MIMOS, il centro di ricerca e sviluppo della Malesia. Ma perché la Malesia è alla ricerca di queste macchine da guerra? Le forze armate e la Guardia Costiera della Malesia sono impegnate nella lotta alla pirateria lungo le sue coste, inoltre è loro demandato a livello internazionale il controllo e l’antiterrorismo nel Mare di Sulu (tra la Malesia orientale e le Filippine meridionali, dunque all’interno del quadro anticinese del noto contenzioso nel mar cinese meridionale sulle Spratly Island e nello strategico controllo dello Stretto di Malacca).
  • La famiglia di droni Anka è in grado di svolgere missioni di ricognizione, acquisizione e identificazione di obiettivi e raccolta di informazioni. È dotata di tecnologie elettro-ottiche/infrarosse e radar ad apertura sintetica. Il produttore afferma che i velivoli hanno capacità di volo autonomo e possono decollare e atterrare da soli.La famiglia di UAV ha un’apertura alare di 17,5 metri e una lunghezza di 8,6 metri, e ha un tetto di servizio di 30.000 piedi. Possono rimanere in volo all’altitudine operativa di 18.000-23.000 piedi per più di 30 ore.
    • A metà ottobre il Kazakistan e la Turchia hanno annunciato l’intenzione di sviluppare una “cooperazione strategica a lungo termine” che preveda la coproduzione di satelliti e altri sistemi spaziali.
    • «Questo è il primo passo di una forte cooperazione con il Kazakistan nel campo dello spazio. Il memorandum d’intesa che abbiamo firmato con le società Kazsat e Ghalam sulla creazione di una cooperazione strategica a lungo termine nei settori dei satelliti e dello spazio sarà vantaggioso per il nostro paese e la nostra nazione» (Ismail Demir, Tai)

    • Infatti in maggio, secondo le informazioni di “DefenseNews“, era stato firmato un protocollo tra Kazakhstan e Turchia per la coproduzione di droni da gettare sul mercato Asean e produrre in quella che è la prima fabbrica di Bayraktar fuori dai confini turchi, con contratto che prevede anche manutenzione e riparazione. E quell’accordo faceva seguito a quello di aprile con il Kirghizistan che aveva firmato per primo un accordo per l’acquisto di un numero imprecisato di droni armati: infatti  Bishkek aveva pregato Ankara di soprassedere alla vendita dei letali droni a Dushanbe, alla luce delle tensioni sul confine (e questo spiega la rincorsa al riarmo dei due paesi dell’Asia centrale, sfruttata da Ankara per raddoppiare le vendite).
  • Il drone può essere equipaggiato con armi come il lanciamissili a lancio aereo Roketsan Smart Micro Munition e la capsula missilistica guidata Cirit da 2,75 pollici nelle due stazioni d’armamento sotto l’ala per ingaggiare veicoli leggermente corazzati, personale, rifugi militari e stazioni radar a terra. Un evidente monito per le mire espansionistiche di Mosca.
    • L’aggressività non solo verso il mercato della industria bellica turca si appropria anche di ricerche straniere, come quelle che consentono al criminale Erdoğan di arrivare al drone-elicottero: infatti Antonio Mazzeo spiega che questo velivolo è un sistema a pilotaggio remoto che potrà essere impiegato a fini civili ma soprattutto per missioni bellico-militari di intelligence e ricerca e soccorso. Il prototipo del drone-elicottero è lungo 7 metri, alto 2,35 e ha un diametro del rotore di 6,28 metri; ciò gli consente di essere trasportato in veicoli di medie dimensioni. Il suo peso non supera i 540 kg compresi apparecchiature elettroniche e carburante. L’”Alpin” ha una velocità di crociera di 160 km/h e può coprire un raggio d’azione fino a 840 km di distanza, a un’altitudine di 5000 m. L’autonomia di volo varia dalle due alle nove ore, secondo la portata del carico a bordo.
      Ma perché abbiamo usato il verbo “appropriarsi”? La risposta è nel Blog di Antonio Mazzeo (che cita “DefenseNews”):
    • «L’Alpin è basato sull’elicottero italiano ultraleggero con equipaggio umano Heli-Sport CH-7». Il CH-7 è realizzato infatti dalla Heli-Sport S.r.l. di Torino, azienda fondata dai fratelli Igo, Josy e Charlie Barbaro e specializzata nel design e produzione di velivoli ad ala rotante di ridotte dimensioni. La società si dichiara però del tutto estranea dalla vicenda.

    • In effetti l’Alpin nasce da un accordo tra la Titra turca e la Uavos californiana per convertire il CH-7 in elicottero a pilotaggio remoto: la trasformazione dei velivoli italiani in droni-elicotteri è stata avviata dalla statunitense Uavos, mentre il primo test di volo è stato effettuato nel dicembre del 2020 nei cieli della Turchia.

«L’Alpin è stato progettato per andare incontro alle richieste specifiche ed uniche della Turchia e agli interessi speciali della sua industria nazionale per operare come sistema a pilotaggio remoto in una varietà di scenari complessi nei campi civili e della sicurezza», riporta la nota emessa da Uavos a conclusione delle attività sperimentali in territorio turco. «L’elicottero convertito è indispensabile per l’industria logistica dei velivoli senza pilota per trasportare carichi in zone difficili da raggiungere e sfornite di campi di atterraggio». E viene subito in mente la configurazione del Rojava.

La Turchia – benché socio alla pari nelle concertazioni strategiche di Astana – produrrà entro due anni i tanto decantati Bayraktar TB2 in Ucraina: benché più leggeri e meno efficienti nel contrasto di un attacco aereo, i droni turchi secondo l’Agi saranno già in grado di contrastare quelli iraniani.

    • «l’Ucraina ha un ruolo di primo piano nella catena di approvvigionamento di Baykar, in particolare con il nuovo drone pesante Akinci e il jet da combattimento senza pilota Kizilelma, attualmente in fase di sviluppo, montano entrambi motori ucraini MotorSich» (“Analisi Difesa”).

Secondo Barayktar molto presto i droni turchi TB2 e Akinci potranno colpire con buona efficacia oggetti in volo grazie all’integrazione del sistema di difesa Sungur prodotto da Roketsan, mentre i droni iraniani sono pesanti e rumorosi, sono obiettivi facili perché volano a bassa quota.

Invece quelli turchi sono stati opzionati anche dal governo polacco, che ha ricevuto a ottobre 6 dei 24 TB2 comprati.

19 novembre

    • Comprare gas dalla Tunisia con veicoli militari antimigranti

      • LaLa Francia ha portato a Djerba 200 milioni di prestiti in occasione della Organisation internationale de la Francophonie; ma ha anche consegnato alla Tunisia il primo lotto di una donazione comprendente cento veicoli militari fuoristrada Masstech T4 prodotti da Technam in occasione della ventinovesima sessione della Commissione militare franco-tunisina svoltasi dal 15 al 17 novembre nella capitale del paese nordafricano e documentata da “Tuniscope”; i veicoli sono palesemente utili nel contenimento dei migranti. L’ambasciata di Francia a Tunisi sulla propria pagina Facebook ha precisato che durante i lavori della commissione è stato tratto “un bilancio molto soddisfacente” in termini di cooperazione bilaterale per il 2022. In particolare, sono state svolte 60 attività in Francia o Tunisia.Ma quella più interessante è volta a ristabilire l’asse militare tra le due sponde mediterranee:

        «Per Saied – afferma il politologo francese Vincent Geisser rilanciato da “Africanews” – ospitare questo vertice è “un successo” perché lo porterà fuori dal suo isolamento almeno temporaneamente. È una sorta di pacificazione nei suoi rapporti con i suoi principali partner occidentali, userà questo evento per legittimare una svolta autoritaria fortemente criticata».

    • In cambio la Francia cerca di comprarsi gas in quella che era la sua casa coloniale.

  • Questo veicolo, costruito a partire da un telaio Toyota Land Cruiser HZJ76, è blindato, dotato di griglie di protezione contro le proiezioni e di cinque punti di armamento. È in servizio con l’esercito francese sul territorio francese e in OPEX nel Sahel. Viene utilizzato anche dall’esercito reale giordano (“MenaDefense”)

10 novembre

  • Corsa al riarmo in Africa

    • Nel dossier dell’“Atlante delle guerre” a marzo si leggeva: «In Africa subsahariana i cinque maggiori importatori di armi sono stati Angola, Nigeria, Etiopia, Mali e Botswana. Resta un grande importatore l’Egitto che con il più 73% diventa il terzo importatore di armi a livello globale».

    • L’Etiopia ha usato abbondantemente le sue dotazioni prima di arrivare agli accordi di metà novembre: dopo due anni e un numero imprecisato di morti compreso tra mezzo milione e un milione di vittime (qui un intervento di Matteo Palamidessa raccolto da Radio Blackout).

    “Il genocidio atroce e diffuso nel Corno d’Africa”.

  • Il Mali (e il Sahel nella sua integrità) è alle prese con la necessità di difendersi dai tagliagole jihadisti dotati di armi sofisticate e dunque gli eserciti – affrancatisi da operazioni coloniali francesi, ma così indeboliti – cercano di procurarsi strumenti per liberarsi dalla tenaglia dell’insorgenza, come ci ha raccontato Edoardo Baldaro:
  • Collegata a questa situazione è la notizia lanciata da un tweet postato il 5 novembre da “Spoutenik en Français” (palese indirizzo filorusso) relativa alla richiesta a Mosca per l’acquisto di due elicotteri da parte del Burkina di Ibrahim Traoré nel quadro di un trattato di cooperazione con la Russia di Putin (che affonda le radici nei legami intrecciati tra paesi africani che hanno avviato il proprio distacco dall’Occidente con l’appoggio dell’Urss).

Gli elicotteri sono tra le macchine a uso bellico più ambite nel continente, come documenta Antonio Mazzeo nel suo blog il 10 novembre facendo cenno a una triangolazione di 6 velivoli T-129 “Atak” prodotti in Turchia da Turkish Aerospace Industries su licenza di AgustaWestland (della infinita galassia Leonardo spa) per il governo nigeriano al costo di 61 milioni di dollari. Come sottolinea Mazzeo, la versione turca dell’“Atak” (in uso in Siria, Iraq, Filippine e in futuro in Pakistan) sfodera nuovi sistemi di individuazione e tracciamento dei bersagli ed è dotato di razzi non guidati da 70 mm e missili anticarro L-Umtas.

  • «Nel bilancio della difesa nigeriano per il 2023 è previsto anche uno stanziamento di 4,5 milioni di dollari per l’acquisto di due elicotteri AW109 “Trekker, prodotti in Italia da Leonardo SpA. nel corso di un seminario delle forze armate nigeriane tenutosi a Ibom lo scorso 27 ottobre, il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica Oladayo Amao avrebbe confermato l’intenzione di acquisire 24 caccia bimotori M-346 “Master” realizzati negli stabilimenti di Varese-Venegono di Leonardo» (“DefenceWeb”).

  • L’AW109 aveva già riscosso un enorme successo ad agosto al Labace brasiliano:
  • «L’AW109 Trekker, il primo gemello leggero di Leonardo a offrire un carrello di atterraggio a pattino, mantiene la cellula dell’AW109 Grand, l’ampia cabina e le prestazioni di prim’ordine, offrendo al contempo un maggiore carico utile a un costo competitivo, dimostrando così di essere perfettamente in grado di soddisfare i severi requisiti degli operatori in termini di capacità ed economicità. L’AW109 Trekker è dotato di una cabina di pilotaggio in vetro di ultima generazione di Genesys Aerosystems che può essere configurata in base alle esigenze del cliente» (“DGualdo”, un sito evidentemente promozionale di Leonardo)

  • Oltre all’indubbio affare per Leonardo, si può ipotizzare che il gigante africano immagini un innesco di conflitti nell’area… e forse l’odore di bruciato comincia a farsi più forte nella situazione del Nord Kivu, come illustrato in questo intervento di Massimo Zaurrini:
  • “Rischio di Terza guerra mondiale africana dei Grandi Laghi?”.
  • Dunque la Nigeria si sta riarmando potentemente, è sufficiente elencare i prodotti opzionati, prenotati, comprati, acquisiti che riporta “DefenceWeb”, oltre ai T-129 citati da Mazzeo e ai due AW109: gli Stati Uniti hanno approvato la possibile vendita di 12 AH-1Z alla Nigeria nell’ambito di un potenziale accordo da 997 milioni di dollari che include armi ed equipaggiamenti (nonostante i forti dubbi riguardo il mancato rispetto dei diritti umani del regime di Abuja); riceverà due aerei da trasporto C295 da Airbus, agognati dal 2016. La proposta di bilancio della Difesa nigeriana per il 2023 include finanziamenti per la manutenzione degli L-39ZA, degli Alpha Jet e propone 2,7 miliardi di dollari per tre aerei da sorveglianza/attacco MF 212 costruito dalla Magnus Aircraft nella Repubblica Ceca e 3 miliardi (6,8 milioni di dollari) per tre elicotteri Bell UH-1D.
    La BVST ((Belspetsvneshtechnika, ditta bielorussa) ha già collaborato con l’aeronautica nigeriana, fornendo la manutenzione degli elicotteri Mi-35 e l’addestramento; ora ha trasformato gli MF212 in velivoli armati ideali per compiti di sicurezza interna, sorveglianza e pattugliamento. A quanto pare, può essere equipaggiato con un gimbal elettro-ottico iSKY-30 HD e con missili R-60-NT-L o R-60-NT-T-2. In Ottobre il capo di stato maggiore Odalayo Amao aveva già dichiarato che l’Aeronautica militare nigeriana prenderà in consegna due turboelica Beechcraft King Air 360, quattro aerei di sorveglianza Diamond DA 62 e tre veicoli aerei senza pilota (UAV) Wing Loong II. Oltre a dozzine di velivoli ordinati tra il 2016 e il 2021.

Peraltro il mercato africano – ovviamente con le sue richieste. Le disponibilità di spesa e i bisogni commisurati alla tipologia di conflitti che nell’enormemente vasto territorio che costituisce condizioni di combattimento differenti – mette sul piatto finanziamenti corrispondenti alla percezione di pericolo o di preparazione di guerre e quindi mette in piedi una propria frequentata fiera. La biennale Africa Aerospace and Defense Expo di Centurion in Gauteng (Sudafrica) si è tenuta a fine settembre, proiettando in questi ultimi mesi di 2022 le prospettive di collocazione su piazza del nuovo bombardiere B-21 Northtorpe, forse non a caso presentato in Sudafrica per le sue prerogative di deterrenza, come spiega “BreakingDefense” nelle parole del generale dell’aeronautica Jason Armagost riguardo il sistema Sentinel di cui il bombardiere è parte: « Sentinel sarà altamente resiliente e flessibile. Non solo per la nostra sicurezza, ma anche per garantire i nostri partner e alleati in tutto il mondo. Si tratta di una capacità evolutiva e sono state prese decisioni deliberate su come renderla efficiente con l’infrastruttura che abbiamo, e su come modernizzare la capacità per rimanere flessibile con sistemi di missione aperti e un’architettura digitale per evolvere con ambienti di minaccia in evoluzione», sembra la descrizione del panorama fluido africano. Il B-21 verrà definitivamente svelato il 2 dicembre assicura “MilitaryTimes”: probabilmente i paesi del continente africano non si potranno permettere questo bombardiere presentato a casa loro, ma potranno svuotare gli arsenali dei bombardieri che diventeranno obsoleti dopo l’avvento di questa macchina.

Più alla portata delle casse africane è il drone greco Archytas e soprattutto il Mwari aircraft con scopi multipli e infatti già venduto a molti paesi africani; e di quei paesi elencati all’inizio di questa scheda il Botswana probabilmente prenoterà i suoi droni in funzione antimigratoria, e allo scopo i droni presentati alla fiera sudafricana descritta nel video della scheda di ottobre fanno al caso.

AW109 Trekker

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]]> Geova: repressione organizzata, discriminazione e pugno di ferro https://ogzero.org/la-situazione-contraddittoria-dei-testimoni-di-geova/ Fri, 19 Nov 2021 10:56:47 +0000 https://ogzero.org/?p=5380 La situazione contraddittoria dei Testimoni di Geova tra persecuzioni, assurde accuse, repressione e resistenza nel mondo, in particolare nell’ex Urss, nella Federazione russa, in Bielorussia e nelle repubbliche separatiste, raccontata da Yurii Colombo qui e in un ampio capitolo del suo nuovo libro pubblicato da OGzero, La spada e lo scudo.  I Testimoni di Geova […]

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La situazione contraddittoria dei Testimoni di Geova tra persecuzioni, assurde accuse, repressione e resistenza nel mondo, in particolare nell’ex Urss, nella Federazione russa, in Bielorussia e nelle repubbliche separatiste, raccontata da Yurii Colombo qui e in un ampio capitolo del suo nuovo libro pubblicato da OGzero, La spada e lo scudo


I Testimoni di Geova sono  stati spesso al centro delle polemiche in tutto mondo. I loro metodi di proselitismo, la forte coesione interna dei credenti, le prescrizioni e i divieti (come per esempio alla trasfusione), il loro rifiuto ostinato di esercitare il servizio militare hanno spinto talvolta alcuni paesi autoritari se non apertamente dittatoriali a reprimere i suoi aderenti. È abbastanza nota la vicenda della repressione dei Testimoni nella Germania nazista. Nell’ormai classico studio di Detlef Garbe del Between Resistance and Martyrdom: Jehovah’s Witnesses in the Third Reich è stato raccontato nel dettaglio come fu che a partire dal 1935 oltre 10.000 Testimoni di Geova, per la maggior parte di nazionalità tedesca, venissero imprigionati nei campi di concentramento hitleriani. Divennero riconoscibili nei lager tedeschi con l’infame segno sulle casacche di un triangolo viola. In seguito a partire dal 1939 una parte di loro furono deportati in altri paesi del Centro Europa e si stima che circa 5000 credenti perirono nelle prigioni e nei campi nazisti.

I Testimoni nel mondo

Durante il conflitto i Testimoni subirono persecuzioni anche negli Stati Uniti d’America. Successivamente vennero attaccati e subirono una significativa riduzione dei propri diritti in paesi autoritari come la Cina e Cuba (fuorilegge dal 1° luglio 1974 ma la misura è stata successivamente annullata), o come il Sud Africa; ma anche da paesi che si professano campioni della democrazia e dei diritti umani come la Francia. Oggi sono decine ancora i paesi del mondo che vietano il culto della religione avventista, mentre in molti altri la loro attività è appena tollerata.

Il caso più tragico resta quello dell’Eritrea. Qui tutti i cittadini tra i 18 e i 50 anni sono tenuti per legge a servire nell’esercito per 18 mesi. A causa del loro rifiuto di servire sulla base del loro credo religioso, i Testimoni di Geova sono stati privati nel paese africano della cittadinanza, è stato negato l’accesso alle opportunità di lavoro e ai benefici governativi, e sono stati arbitrariamente imprigionati in cattive condizioni.

A novembre 2020, c’erano in Eritrea 52 Testimoni di Geova imprigionati per aver partecipato a riunioni o cerimonie religiose, alla predicazione e all’obiezione di coscienza al servizio militare. Alcuni di questi Testimoni sono stati imprigionati per più di 20 anni. Secondo i rapporti forniti dalla congregazione, quattro Testimoni di Geova sono morti in prigione e tre anziani sono morti poco dopo il loro rilascio, a causa delle cattive condizioni di detenzione e dei maltrattamenti da parte delle autorità carcerarie.

 

In Russia la situazione è appena migliore

La tragica epopea sotto lo stalinismo dei credenti in Geova in Urss e la reiterazione di misure repressive nei loro confronti a partire dal 2017 anche nella Federazione russa è già stata descritta in un capitolo del mio libro La spada e lo scudo pubblicato da OGzero.

Negli ultimi mesi la situazione è restata comunque complessa: sono 73 i seguaci di Geova a oggi in prigione, 31 quelli agli arresti domiciliari mentre i casi penali che li riguardano sono oltre mille.

E a fronte della determinazione dei “fratelli” di proseguire le loro attività di culto, sono frequentissimi le perquisizioni in case private.

Come abbiamo già sottolineato il divieto della pratica e dell’attività di proselitismo della “Torre di Guardia” in Russia non può essere ricondotto alla posizione di fatto preferenziale data alla Chiesa ortodossa, visto che la sproporzione tra le due religioni in termini di influenza culturale e disponibilità economiche è abissale e il culto della religione musulmana in repubbliche autonome come il Tatarstan è ampiamente tutelato. Si tratta piuttosto della convergenza di almeno tre fattori e rimandi.

Il primo è il rifiuto dei Testimoni a prestare il servizio militare.

In un paese in cui con l’esplosione della Guerra Fredda 2.0 il confronto con l’Occidente è tornato a essere un elemento fondante della narrazione propagandistica e dove il complesso militar-industriale resta uno dei pilastri dell’economia, l’esistenza di un settore – seppur minuscolo – della popolazione che ostinatamente si dichiara contro qualsiasi collaborazione quando si tratta di imbracciare le armi rappresenta potenzialmente un pericolo per la coesione sociale. Tanto è vero che i credenti vengono perseguitati formalmente non per l’attività di proselitismo quanto per “estremismo”.

Questo aspetto si collega al secondo: il timore o la percezione degli organi dell’intelligence russa che la fede in Geova sia in realtà un cavallo di Troia del governo americano per fomentare dissidenza e opposizione in Russia.

Negli anni Cinquanta del XX secolo la denuncia dei Testimoni negli Stati Uniti delle persecuzioni subite in Urss qua e là assunse i toni – secondo alcuni studiosi – della propaganda anticomunista e anche oggi il governo americano ha fatto da megafono spesso alle denunce dei Testimoni, alimentando fobie e sospetti. I Testimoni però, da parte loro, hanno sempre negato qualsiasi legame con la Casa Bianca o la Cia: «Siamo apolitici e non interferiamo negli affari interni di qualsiasi paese in cui facciamo opera di proselitismo», sostengono i vertici dell’organizzazione religiosa.

Il terzo aspetto è la compattezza solidaristica interna dei nuclei del Testimoni, un elemento in controtendenza in una società russa sempre più atomizzata.

Tuttavia un piccolo  spiraglio ultimamente sembra essersi aperto.

Si apre uno spiraglio contraddittorio

Il 28 ottobre 2021, il plenum della Corte Suprema della Federazione russa ha stabilito che i servizi divini dei Testimoni di Geova, i loro rituali e cerimonie congiunti non costituiscono di per sé un crimine ai sensi dell’art. 282.2 del Codice penale della Federazione Russa, nonostante la liquidazione delle loro persone giuridiche. Durante la riunione della sessione plenaria, il giudice relatore Elena Peisikova ha osservato che erano emersi nuovi chiarimenti in esecuzione delle istruzioni del presidente della Russia (segnali di apertura erano venuti da Putin  già nel 2018). Inoltre, durante la riunione della Plenaria, è stato osservato che i nuovi chiarimenti sono stati ripetutamente discussi nelle riunioni del gruppo di lavoro allargato con la partecipazione dell’Fsb (i servizi segreti russi). «Sembra – ha concluso il giudice relatore – che tale spiegazione consentirà di unificare la prassi esistente di applicazione dell’articolo 282.2 del Codice penale ed evitare casi di irragionevole perseguimento delle persone unicamente in relazione alla manifestazione esterna del loro atteggiamento nei confronti della religione». Un’apertura che va in controtendenza con il rigetto delle domande dei condannati della revisione dei processi e nelle colonie penali. Ultimamente le sentenze di 11 credenti condannati sono già state esaminate nei tribunali di Cassazione, ma la legislazione russa si riserva il diritto di presentare un secondo ricorso per Cassazione – alla Corte suprema della Federazione russa. La settantenne Valentina Baranovskaya inoltre, che, nonostante un ictus subito durante le indagini, si trova in una colonia, sta preparando un ricorso per cassazione alla Corte Suprema della Federazione russa, per poter essere liberata per motivi umanitari.

Valentina Baranovskaya, la Testimone di Geova che si appella alla liberazione per motivi umanitari.

 

Dennis Christensen, cittadino danese e membro dei Testimoni di Geova, colpevole di “organizzare l’attività di un’organizzazione estremista” in Russia che è stato condannato a sei anni di carcere. Christensen, pur detenendo il passaporto danese, risiede in Russia dal 1999. È stato arrestato a Oryol nel maggio 2017, un mese dopo che il gruppo religioso era stato bandito.

Fuorilegge nell’ex Urss…

Contraddittoria appare complessivamente la situazione dei Testimoni in tutta l’ex Urss. Se in Turkmenistan e Tagikistan i seguaci di Geova sono fuorilegge e rischiano sanzioni penali e amministrative, anche in Georgia la situazione resta delicata dopo che la Corte europea dei Diritti dell’Uomo aveva denunciato una decina di anni fa una strisciante discriminazione nei confronti dei Testimoni. Non appare brillante il quadro neppure in Ucraina malgrado questo paese abbia chiesto di entrare nell’Unione Europea e di voler rispettare i diritti umani. A Kryvyj Rih, nell’Ucraina orientale, dopo che le autorità avevano rifiutato di assegnare alla chiesa un terreno per costruire un tempio la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha ordinato a Kiev, nel  2019, di pagare un risarcimento alla chiesa dei Testimoni di Geova.

… e accusati di essere nazisti…

Di totale chiusura verso i Testimoni è invece l’atteggiamento dei separatisti delle Repubbliche popolari di Lugansk e di Donetsk accusata di «fornire assistenza all’Sbu (i servizi segreti ucraini N.d.R.) e ai gruppi neonazisti», come ha affermato Aleksandr Basov, uno dei responsabili della sicurezza di Lugansk. «Durante l’ispezione dei locali appartenenti all’organizzazione religiosa dei Testimoni di Geova nella città di Lugansk e nella città di Alchevsk, sono stati trovati e sequestrati materiali di propaganda contenenti simboli e attributi nazisti, così come volantini che invitano alla cooperazione con i servizi speciali ucraini», ha sottolineato Basov.

… ma liberi a Minsk

Di tutt’altro segno invece, paradossalmente, la situazione in Bielorussia. Malgrado il governo di Alexander Lukashenko resti sotto la lente d’ingrandimento delle istituzioni internazionali e dei diritti dell’uomo dopo la violenta repressione delle manifestazioni antiregime dell’estate del 2020, a Minsk e nelle altre città del piccolo paese slavo i cristiani avventisti svolgono le loro attività regolarmente, compresi i battesimi di massa negli stadi. Anzi, molti Testimoni russi, sono emigrati proprio in Bielorussia e godono della protezione del governo. Nell’aprile del 2020 il tribunale bielorusso ha rifiutato l’estradizione di un Testimone richiesta dalla polizia di San Pietroburgo che lo ricercava da tempo. E non si tratta di un’eccezione. A Brest e in altre città della Bielorussia molti russi credenti in Geova sono stati rilasciati dalla polizia dopo normali controlli e continuano la loro vita di ospiti-esuli del paese senza problemi particolari. Non si può prevedere quale sarà l’atteggiamento di Minsk nei confronti della piccola organizzazione religiosa nel futuro visti i legami politici oltre che economici sempre più stretti tra la Russia e la Bielorussia, ma a oggi l’atteggiamento delle autorità bielorusse resta quello della prudente apertura.

Pavel Yadlovsky, il presidente dell’organizzazione bielorussa dei Testimoni di Geova, attribuisce il rifiuto dell’estradizione al fatto che i Testimoni di Geova operano legalmente in Bielorussia. Sono registrati come un’organizzazione nazionale autogestita con 27 gruppi a livello di comunità in varie città. «È difficile dire [perché le richieste di estradizione sono state negate]. Forse ci sono differenze nella formulazione degli articoli sull’estremismo nella legislazione russa e bielorussa che hanno permesso all’ufficio del procuratore di prendere una tale decisione», suggerisce Yadlovsky.

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Siamo già oltre? La globalizzazione tra fake e smart https://ogzero.org/studium/siamo-gia-oltre-la-globalizzazione-tra-fake-e-smart/ Fri, 08 Oct 2021 15:11:42 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=5118 L'articolo Siamo già oltre? La globalizzazione tra fake e smart proviene da OGzero.

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Siamo già oltre?

Il libro di Alfredo Somoza, “Siamo già oltre? La globalizzazione tra fake e smart”è uno strumento gradevole e prezioso per conoscere e interpretare le dinamiche della globalizzazione in modo puntuale e documentato.
Smascherando le fake news, ma anche andando a indagare sui reali vantaggi della civiltà smart. Uno sguardo critico che vada oltre la retorica trionfalistica sul futuro dell’umanità. La globalizzazione è un fenomeno che ha cambiato la nostra vita con dinamiche nuove e riproposto in veste moderna altre molto antiche.
Il libro racconta gli scenari dell’economia mondiale, della lotta per la terra e l’ambiente, dei diritti ottenuti e negati, del gioco delle potenze. Senza ideologismi né compromessi. Quel mondo nel quale siamo già immersi, anche se ancora non ci è stato del tutto svelato.

Qui abbiamo costituito una sezione audio con podcast e video di approfondimento dedicati e testi di accompagnamento alla produzione del libro in uscita a fine autunno.
Il libro offrirà chiavi di lettura utili per interpretare il mondo che ci circonda, spesso a partire da notizie che non riescono a guadagnare i titoli dei giornali, talvolta per conflitto di interessi. Il progetto non comprende solo il libro, ma uno sguardo continuativo delle dinamiche globali e delle loro conseguenze. Una specie di osservatorio che l’autore cura da 20 anni con aggiornamenti settimanali radiofonici che si potranno continuare a seguire nel tempo. Molte cose che troverete in questo libro sarebbero censurate in diverse parti del mondo. Perché una delle vittime eccellenti della pandemia – e dalla globalizzazione – è stata la democrazia e di conseguenza la libertà di stampa.

100%

Avanzamento




Dal golpe alla Moneda al nuovo ordine mondiale

Un anno dopo il libro di Diego riprendiamo in altro modo, con Alfredo, la domanda relativa al luogo da cui si arriva e dove si continua ad andare: stavolta il libro che ci guida nell’eterno ritorno ciclico che tiene congelato il Sudamerica all’altalena tra vagiti di speranze di emancipazione e reazione populista che difende i privilegi imposti dalle dittature, che hanno (avuto) a modello il regime di Pinochet.

Alfredo è stato intervistato da Rete Capodistria il 17 novembre 2023 e il suo intervento si può sentire dal minuto 1:25:15

https://www.rtvslo.si/rtv365/arhiv/175001870?s=radio_ita

L’interesse per il Sudamerica in questo periodo è catalizzato in particolare dalle elezioni presidenziali argentine, che vedono al ballottaggio due contendenti pessimi, risultato di populismo e turbocapitalismo che hanno nuovamente innescato il solito ciclo perverso di emancipazione e speranza vs ferocia e liberalismo. L’amico Alberto Da Rin ha coinvolto Alfredo Somoza nella composizione della pagina che “Il Sole24Ore” dedica alle elezioni di domani:

Milei: le prime mosse scompostamente menemiste

Alfredo è stato intervistato da Roberto Da Rin subito dopo i primi provvedimenti annunciati da Javier “el Loco” Milei, sconcertanti come prevedibile.

Da ”Il Sole 24 Ore”di venerdì 22 dicembre 2023:

:

Ora gli 11 del Sud globale rappresentano il 36 % del pil e il 47 % della popolazione mondiale

Un’occasione unica per individuare obiettivi comuni per un gruppo molto eterogeneo da cui può emergere un sistema mondiale diverso, alternativo al neoliberismo americano imperante da 40 anni, accantonando rivalità storiche (Xi si complimenta con Modi per il successo spaziale, proponendo collaborazioni! – accantonando gli screzi himalayani). A seconda di quali spinte prevarranno tra i 5 Brics (+6, tra cui acerrimi nemici come Iran e Sauditi, che avevano già preparato il terreno con abboccamenti preliminari) le istanze potranno essere più populiste, monetariste o repressive, oligarchiche… certo che i nuovi ingressi confermano che il mondo là fuori non prevede antitotalitarismo, nonostante la radice anticoloniale che pervade gli accoliti dei Brics+6. Infatti l’aspetto che spiazza un analista occidentale è l’accantonamento di impostazioni ideologiche: improntato al pragmatismo, il summit di Johannesburg ottiene i risultati prefissi… ma da chi?

«Come Brics, siamo pronti a esplorare le opportunità per migliorare la stabilità, l’affidabilità e l’equità dell’architettura finanziaria globale»
«una transizione giusta, accessibile e sostenibile verso un’economia a basse emissioni di anidride carbonica»
«soluzioni africane ai problemi africani»
«un partenariato paritario tra paesi che hanno punti di vista diversi ma una visione condivisa per un mondo migliore»

Dedollarizzazione in fondo è l’auspicio che vede unanimi i 5 Grossi di Johannesburg per superare l’ottuagenario Bretton Woods, per il resto mossi da interessi diversi… ma non divergenti.

Il petrodollaro è nel mirino al punto che tra i 6 nuovi membri sono stati pescati nel mazzo Emirati (MbZ) e Sauditi (MbS) – entrambi perni nel sistema del dollaro sostenuto dal petrolio, per cui se dovessero inverosimilmente abbandonarlo, scardinerebbero l’economia mondiale –, senza contare che la presenza dell’Iran incide pesantemente sul controllo delle risorse petrolifere rappresentate nel gruppo direttamente dai più importanti paesi dell’Opec: una dimostrazione in più che i Brics hanno inquadrato come obiettivo principale da destabilizzare il sistema fondato sull’intreccio dello strapotere del dollaro e il controllo delle risorse energetiche da parte delle multinazionali nordamericane. E lo perseguono, perché è giunto il momento di sostituire l’unilateralismo egemonico con un multilateralismo; che diventa possibile se si propone un’alternativa al Nord globale dei G7, imposto dall’epoca reaganiana: non una specchiata democrazia, bensì un sistema ideologico fondato sulle nefandezze neoliberiste dei Chicago Boys, esaltate nella macelleria sbirresca di Genova 2001 («Voi G7, noi 7 miliardi», ricordate?). Anche in questo caso non sono specchiate democrazie a contrapporsi all’ingiustizia del “sistema dollaro”, ma trattandosi di stati non possono esulare dall’autoritarismo repressivo insito nel concetto; l’unica possibilità di affrancamento dal colonialismo per le genti del Sud Globale è che si proponga una coalizione alternativa, costretta per diventare concorrenziale a offrire servizi per sottrarre clienti al G7. Infatti Xi ha proposto di stanziare il corrispondente di 100 miliardi di dollari alla New Development Bank e subito Biden in risposta ha chiesto ai suoi partner di costituire una borsa di 200 miliardi nel Fmi. Infatti il dominio della moneta americana non è mai disgiunto dai diktat di Fmi e Banca mondiale:

«stabilito attraverso istituzioni come Fondo monetario e Banca Mondiale, è sempre più visto come una reliquia di un’epoca passata, fuori dal contatto con le realtà di un mondo multipolare e la graduale erosione dell’egemonia del dollaro è innegabile»

Probabilmente non si arriverà in tempi brevi a scalzare il dollaro come riferimento, perché la maggior parte del debito globale è espressa in dollari e per ripagarla è necessario avere accesso ai dollari americani; e la potenza militare e le industrie belliche in maggioranza sono americane. Ma forse sottrargli parte dei ricavi derivanti dai traffici che media può essere alla portata del gruppo; e quindi potrebbe cominciare a indebolire il suo sistema. Difficilmente si conierà una moneta, anche solo di conto come fu l’Ecu, ma può darsi si assista a una prassi comune di scambi tra i paesi del club regolati secondo le loro valute.

Multilateralismo inclusivo

Brasile cerca un’incoronazione a paese guida dei latinos – e ottiene l’ingresso dell’altro gigante sudamericano (l’Argentina) – anche questo dipendente da Huawei per la rete telefonica –, essendoci presidente il sindacalista Lula e non il militarista Bolsonaro, ma tra pochi mesi potrebbe venire eletto il clone di Menem alla Casa Rosada; Lula lo fa immaginando di poter inventare (attraverso Dilma Rousseff neodirettrice di turno della banca dei Brics) un istituto finanziario che presti agli stati svuotati e predati dall’Occidente o dal suo cambiamento climatico, senza i ricatti e l’affossamento a cui ci ha abituato l’organismo iperneoliberista complice della Banca mondiale. E questo volano del nuovo blocco, che è innanzitutto economico, è un dato che consolida l’attenzione al superamento della egemonia del dollaro, tentando di risolvere la sudditanza del Sud globale (e in particolare il Cono Sur) all’approccio neoliberista: un altro fronte finanziario che si aggiunge al superamento del (petro)dollaro come riferimento mondiale per le transazioni tra i partner del club a 5 costituito nel 2010. L’alleanza con la Cina è resa naturale dal costante incremento dei rapporti sino-latini dal 2001 con l’ingresso di Pechino nel Wto, tanto che con l’ingresso dell’Argentina nel 2022 nel novero dei paesi aderenti al Bri ha raggiunto il totale di 21.

Russia non può contendere alla Cina la conduzione del gruppo – ma neanche all’India (in prospettiva il paese con maggiori atout di sviluppo futuri) –, trovandosi alle prese con contrasti interni, esterni e misteri sui condizionamenti di alcuni servizi sulla leadership; però svolge il lavoro sporco (quello militare), soprattutto in Africa – con o senza Wagner (sono tante le Pmc russe) – e quindi si allinea alle scelte, sottolineando quanto sia aggregante il contrasto alla pretesa egemonica occidentale e, proponendo l’unione attorno al tema della creazione di un polo alternativo all’unilateralismo, legittima se stessa e conferisce un ruolo agli alleati all’interno dell’intesa. Ma la sua debolezza è palese quando vengono tenuti fuori dal cerchio magico i paesi più apertamente alleati come Nicaragua, Cuba, o l’Algeria.

India ha intrapreso uno sviluppo legato al suo neutralismo, alla dimensione e alla demografia, alla collocazione negli snodi geografici. E si propone come probabile locomotiva sia demografica, sia per lo sviluppo, che va dotandosi di tecnologie all’avanguardia; non intende sganciarsi dall’Occidente, ma è attirata dalla possibilità di essere trainante e questo dà a Brasilia la possibilità di fare da tramite tra i vari mondi, di cui si propone come cerniera. In questo caso sarebbero le due “democrazie” più collegate con l’occidente nel gruppo iniziale a costituire un diverso nocciolo a fianco ai regimi totalitari eredi delle rivoluzioni marxiste dell’altro secolo.

Cina ed Etiopia con l’Egitto (divisi solo dal Sudan di al-Buhran, che 2 giorni dopo la fine del summit – che ha sancito l’ingresso di sauditi e egiziani tra i Brics – è andato a negoziare con MbS e al-Sisi) costituiscono parte essenziale della Belt road initiative assicurata nei suoi passaggi attraverso il choke point costituito dal Mar Rosso. Si può creare un bel sconquasso… e l’ingresso solo di quegli africani (non l’Algeria antineoliberista di cui si era parlato) dimostrano quello che si diceva dell’interesse cinese per il continente (l’Algeria poi è già un forte partner dell’economia cinese, che un mese fa ha avviato investimenti per 36 miliardi nel paese maghrebino). Geograficamente e strategicamente l’allargamento è stato realizzato su misura dei traffici cinesi, ma il cortile di casa del Sudest asiatico non è stato portato in dote (come nemmeno gli “stan”, satelliti centrasiatici dell’impero russo), che continuano a essere gestiti in modo unilaterale.

Sudafrica rappresenta gli interessi del continente australe, un’area che interessa meno di quella che si trova a nord della Rift Valley e che è terreno di scontro e controllo tra grandi potenze in questo snodo epocale. La posizione di Ramaphosa guarda sicuramente meno agli Usa, anche perché il sistema di governance attuale che s’incentra sul dollaro è stato creato nell’immediato dopoguerra, quando i paesi africani erano sottoposti al colonialismo occidentale e invece nei Brics+6 tre paesi sono forti baricentri del nord (Egitto), centro (Etiopia) e sud del continente, dove dopo la liberazione dall’apartheid già Mandela privilegiava il dialogo con i paesi “non capitalisti”. L’Etiopia è entrata nel club (condivide con il Sudafrica il tentativo di mantenere un’equidistanza tra le superpotenze), nonostante il suo Pil sia una frazione di quello dell’Egitto e i conflitti che la stanno scuotendo all’interno, mentre l’occidente africano non ha rappresentanti tra i Brics, probabilmente perché è un accordo innanzitutto economico e la presa francese si è attenuata come occupazione militare e istituzionale sulla Françafrique, ma non economica, tanto che il franco Cfa continua ad avere corso legale, nonostante i molti tentativi anche di aggancio al renminbi, sempre rintuzzati dall’Eliseo. Peraltro anche Ruto, presidente del Kenya, in una delle sue prime uscite aveva esortato a utilizzare il sistema di pagamenti panafricano (Papss) della Afreximbank, abbandonando il dollaro. E probabilmente proprio il suo eccessivo panafricanismo (come quello Nigeriano) hanno convinto Ramaphosa e gli altri Brics a lasciar cadere le loro candidature.

Brics populism

Quello che potrà fare la differenza è il fatto che i Brics spingono sull’ineguaglianza e ingiustizia del sistema occidentale: «È inaccettabile che la spesa militare globale in un anno superi i 2000 miliardi di dollari mentre la Fao dice che 735 milioni di persone soffrono la fame nel mondo. La ricerca della pace è un imperativo per lo sviluppo giusto e sostenibile», ha detto Lula, che appare come il leader che può mediare tra tutti all’interno e all’esterno dei Brics. Ma senza cadere nella trappola dei non allineati di Bandung, che si erano sbilanciati in senso “comunista” (perciò Cuba, Nicaragua rimangono a ’sto giro fuori dal novero degli aspiranti a far parte del club), questa rimane un’alternativa all’idea egemonica ma cercando di non far crescere una potenza unica alternativa agli Usa, perciò la scelta dei 6 nuovi partner tiene fuori quelle realtà più esplicitamente antiliberiste: la campagna quindi si mantiene all’interno di quella dottrina.

Break the Brics

Dunque non è un sovvertimento, piuttosto una rivendicazione dei principi che proprio il G7 ha sempre sbandierato: la libera concorrenza; i Brics purtroppo non sono bricconi anarchici, però propongono un’attenuazione della ferocia del Nord globale attraverso una concorrenza alla pari tra un Sud globalmente populista (a cui si ascrivono come potenze solidali), non mosso da umanitarismo, ma proponendosi come meno intrusivi – anzi! – sul piano dei diritti civili, però alternativi a un colonialismo conosciuto come rapace. Non è certo la rivoluzione che auspichiamo, però induce a un sorriso compiaciuto la sfida all’arroganza dell’Occidente, che supera le storiche divisioni per operare un cambio di governance… che non soddisferà le istanze dal basso e di diritti sociali, ma inscenerà l’ennesimo teatrino secolare di rivalità/avvicendamento di poteri “diversamente autocratici”.

Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento prima del 24 febbraio e che sono periodiche le rivolte del pane (anche dopo il 2011 dei gelsomini).
La guerra è stata solo il la ciliegina su una torta immangiabile per i 20 milioni di potenziali morti per fame che la contingenza può creare e i due autocrati di Astana si stanno mettendo d’accordo anche in questo caso per spartirsi guadagni e prestigio nei paesi africani sbloccando la situazione del Mar Nero con il blocco delle tonnellate di grano ammassato nei silos ucraini che rappresentano comunque soltanto l’8 per cento del prodotto annuale mondiale. Un’arma ibrida come le bombe di migranti gettate ai confini, che si produrranno anche attraverso questa nuova fame indotta dalla guerra sarmatica. Ma non solo: Alfredo Somoza ha colto i vari collegamenti che portano alle scelte strategiche dei singoli stati vincolati in qualche modo ai prodotti russi (per esempio il Brasile) e il ritorno d’immagine per i popoli affamati in Africa che si troveranno a ringraziare i garanti russo-turchi delle forniture alimentari che sono i responsabili dell’improvvisa carenza; senza contare la stagflazione ormai globale e l’indebitamento generalizzato.

Alfredo – nell’intervista a Radio Blackout del 9 giugno 2022 – ha fatto dunque il punto attribuendo a ogni fattore la giusta responsabilità nella emergenza della carestia, guardando al sistema di produzione e distribuzione del cibo, il saccheggio e la colonizzazione dei territori, la pianificazione selvaggia e monocolturale: speculazione, latifondo senza collegamento con il territorio, landgrabbing, sistemi di produzione malati, diserbanti e ogm, concentrazioni di colture; la superficie coltivabile è diminuita con la globalizzazione, le colture per il foraggio o per i biocombustibili sono sempre più estese, il cambiamento climatico, la siccità avevano già innescato la speculazione sulle commodities dei futures che è strabordata con la scusa del conflitto raddoppiando il prezzo del grano; l’occupazione di terre africane da cui saccheggiare i prodotti da importare in madre Cina, o da esportare in paesi ricchi, sottraendo cibo potenziale agli autoctoni.

Nel suo libro “Siamo già Oltre?” Alfredo descriveva così il sistema su cui è intervenuto il conflitto in Ucraina, scompigliandolo e paradossalmente rendendo ancora più il cibo un’arma ricattatoria di consumi – anche indotti dal colonialismo – da brandire contro i poveri: «Nei paesi nei quali si è spinto l’acceleratore del moderno agribusiness, dove spesso si produce non solo di più ma anche male, la produzione non serve per soddisfare il bisogno dei consumatori ma per incassare sovvenzioni, fare guerre commerciali, imporre mode alimentari. Difficilmente in Africa, Asia meridionale o America centrale si produce più di quanto si consuma. Anzi, lì spesso si produce molto di meno, dato che una parte crescente delle loro terre agricole viene utilizzata per produrre alimenti e biocombustibili destinati al mondo ricco: che poi non riesce nemmeno a consumarli tutti. Distogliendo l’attenzione dalle cause per concentrarsi solo sugli effetti si arriva a soluzioni “umanitarie”, di buon senso, che però non risolveranno mai il problema a monte. Non porteranno, cioè, a una politica mondiale che stabilisca le priorità nella produzione di cibo, che imponga regole precise sul suo costo e sui suoi impatti. Non è sostenibile, per esempio, il mercato delle primizie che viaggiano in aereo da un angolo del mondo all’altro per garantire pere, ciliegie o mirtilli dodici mesi all’anno per il desco dei consumatori ricchi. Non è possibile che, quando un paese dà in concessione terreni agricoli a soggetti esteri, la Fao non intervenga a certificare che la sicurezza alimentare di quel paese sia comunque garantita, e che le concessioni non la mettano a rischio. Non è sensato che il consumatore, quando compra prodotti provenienti da migliaia di chilometri di distanza, non sia chiamato a pagare il costo ambientale di quella merce. Sono tanti i nodi irrisolti e i problemi in via di peggioramento, quando si pensa al tema del cibo… Ma ci raccontano che basta il riciclo degli sprechi per porvi rimedio. Una versione di comodo per le multinazionali del cibo e dell’agricoltura, proprio quelle che occuparono gli spazi più in vista all’Expo milanese. Imprese che si accaparrano licenze sulle sementi, sono grandi gestori dell’acqua, impongono modelli di consumo basati sulla carne rossa, la più dannosa per la salute e la più “costosa” per l’ambiente, anche se italiana. Questi gruppi oggi tengono in pugno l’agenda del cibo e buona parte della politica accetta la loro narrazione. È questo il segreto (di Pulcinella) da non far sapere al contadino».

Ringraziamo “Amistades” per l’organizzazione dell’incontro tra Alfredo Somoza e Diego Battistessa, uno argentino ormai italo-argentino e l’altro di cittadinanza italiana ormai cittadino sudamericano, attorno al libro di Alfredo che congloba una visione del mondo comunque in qualche modo influenzato dalla consapevolezza di essere in qualche modo figli del Latinamerica.

È comparsa una recensione di Siamo già oltre? su “Le Monde Diplomatique” firmata da Daniele Barbieri (@bottegabarbieri). Ne siamo particolarmente contenti perché si comprende come l’estensore abbia colto le sfumature, gli intenti, l’impianto, la struttura; ma anche la radicalità e lucidità dell’analisi di Alfredo e la profondità derivante dai tanti decenni di impegno altermondista, che nell’articolo emergono con alcuni tratti (il “terricidio green“), i riferimenti forti (Frantz Fanon!) e l’impellente bisogno di contrapporsi a un ordine liberticida e censore. Esattamente lo spirito che pervade il lavoro di Alfredo.

Daniele Barbieri parla di Siamo già oltre? di Alfredo Somoza

Il 15 febbraio 2022 Alfredo Somoza è intervenuto nella trasmissione Prisma di Radio Popolare (@radiopopmilano) e prendendo spunto dalla vicenda della proibizione sanitaria dell’avocado negli Usa ha toccato i molti temi che si trovano in Siamo già oltre? perché è uno degli innumerevoli ingressi alle storture (fake e smart) della globalizzazione

Radio Popolare e la sua trasmissione dedicata a questioni internazionali, Esteri, hanno voluto fare un omaggio al loro redattore Alfredo Somoza, leggendo in diretta il 4 febbraio 2022 la prefazione al suo libro Siamo già oltre? scritta da Chawki Senouci. Ecco la lettura, resa ancora più piacevole dalla voce di Martina Stefanoni:

Radiolombardia ha dedicato un’ora ad Alfredo Somoza prendendo a spunto Siamo già oltre?. Ne è scaturita una intelligente esplorazione a tutto campo di argomenti di stretta attualità, tutti riconducibili a spunti già presenti nel libro, estratti con sagacia da Nicoletta Prandi nella sua trasmissione “Pane al pane”. Ecco la diretta facebook del 28 gennaio 2022:

L’intervista di Nicoletta Prandi ad Alfredo Somoza riprende dai timori portati dalla globalizzazione spinta a quella che è sempre stata la sfida della tecnologia:

Prosegue la diretta di Radiolombardia con Alfredo Somoza a partire dalla pubblicazione di Siamo già oltre?: Nicoletta Prandi sottolinea che il libro contiene diversi temi scottanti e questi avrebbero impedito la sua pubblicazioni presso realtà editoriali mainstream o in paesi dove la libertà di stampa è un’utopia

Nella parte finale Alfredo Somoza ha affrontato argomenti di stretta attualità italiana, ma anche in questo ambito si percepiva sotto traccia la lucida interpretazione della realtà che si sente scorrere nelle pagine di Siamo già oltre?

Il lavoro di Alfredo Somoza è ispirato all’idea che un altro mondo migliore sia possibile, idea che lo accompagna dai tempi in cui partecipò al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre esattamente 20 anni fa.

Un dibattito sulla globalizzazione ed i suoi effetti. Quali sono stati i grandi cambiamenti degli ultimi 20 anni, e in particolar modo durante la pandemia? Come sono stati raccontati? Quante fake girano sulla globalizzazione? Quanto è smart il futuro? Partecipano: Alfredo Somoza, giornalista e scrittore. Chawki Senouci, caposervizio esteri di Radio Popolare, Marta Gatti, esperta di land grabbing e di agricoltura.

Moderano Murat Cinar e Adriano Boano.

Il criptobiscazziere mesoamericano

Ormai è risaputo che in Salvador si è adottata come denaro corrente una criptovaluta, la più famosa: il bitcoin.
Il Salvador non potrà regolare in bitcoin le importazioni, né pretendere “chivo” a pagamento dei beni eventualmente esportati. Non ci possono essere riserve di bitcoin, né una banca centrale che li emetta. Non esiste nemmeno l’obbligo di accettare un pagamento in criptovalute
Ma molti hanno cominciato a farsi un’idea di chi sia Nayib Bukele e di come si muova senza regole, fondando il suo potere sui giovani che ne seguono l’avventurismo tecnologico, manipolati dalla sua spregiudicata propaganda mirata a modificare la Costituzione per essere rieletto.
La mossa dell’adozione della criptomoneta si spaccia come agevolazione per le rimesse dei migranti (quasi un terzo dei cittadini salvadoregni); ma è soprattutto il grande mercato del riciclaggio di denaro sporco che si trova a ringraziare il presidente.
Poi si registrano le apparenti contraddizioni di affidare l’interfaccia e la sicurezza di Chivo (il wallet è stato battezzato così, ovvero “figo”) alla statunitense BitGo controllata dalla Galaxy Digital di Mike Novogratz, proveniente da Goldman Sachs nel momento in cui si sfida l’amministrazione Biden: cioè si spaccia populisticamente come grimaldello dei poveri ma si affida il funzionamento ai maneggi misteriosi della finanza; i commercianti non sapranno in realtà se avranno guadagnato realmente il denaro necessario per reinvestire nell’impresa, ma la finanza avrà altro denaro fresco da far sparire nel criptogioco. In compenso le istituzioni come Fmi hanno declassato ulteriormente il rating del paese per l’estrema volatilità.

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Incauto accordo: era già tutto scritto a Doha

Rassicuranti non lo sono mai stati. Ma ora sono cambiati: i Talebani hanno imparato soprattutto il modo di promuoversi e quanto sia importante la comunicazione in un mondo mediatico, dove persino l’impressione levantina dei capi e orrifica dei tagliagole nei loro stracci e barboni vecchi di due millenni nell’iconografia stantia e un po’ razzista diventa folklore, se fanno la parte a loro assegnata da Trump risultano credibili a Doha, perché svolgono il ruolo di negoziatori, che la loro cultura riconosce ai capiclan maschi e che è quella ricercata dalla controparte fatta di maschi americani. Ciò che li ha accomunati è l’appartenenza al più vieto conservatorismo di entrambe le società.

La solita eccezione culturale francese si chiede se sia possibile confrontarsi, e quindi riconoscere, con le posizioni talebane senza venir meno ai propri principi. Una posizione palesemente ancora fondamentalmente colonialista perché connota il gruppo in senso razzista e prevede una superiorità di principi da esportare: in realtà quei principi dovrebbero riuscire a comprendere come ragiona la controparte per poter individuare i punti su cui avviare la trattativa, perché senza il confronto non c’è che la soluzione di forza, visto che non si è potuta creare una alternativa nazionale credibile riconosciuta dagli afgani, visto che si sono volute imporre figure – corrotte e inconsistenti – ritagliate sul modello occidentale.

Alfredo Somoza ha colto tutte queste contraddizioni che mettono all’angolo gli europei, le rassicurazioni atlantiste e conferiscono nuova linfa a un jihadismo che si va diffondendo in Asia e Africa…

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Negare la cultura del diverso, annientandolo

Uomini di serie A e di serie B, C… Z. È il principio alla base di ogni razzismo, che immagina un mondo senza diversità e quando la incrocia cerca di assorbirla, introiettarla… integrarla; quando non riesce elimina il diverso, cancellandone ogni espressione, a cominciare dalla cultura che lo esprime.
Alfredo Somoza prende spunto dalla notizia di fosse comuni per bambini, rapiti da comunità cattoliche alle loro famiglie indigene in Canada con lo scopo di eliminare ogni traccia di cultura, religione, costumi “alieni”, avversati fino alla soppressione dei giovani, favorendo il genocidio e l’estinzione di quelle tradizionali tribù.
L’intolleranza si fonda su teorie che imperversarono al tempo del Positivismo, utilizzando teorie prive di fondamento che infestano menti deboli che si credono superiori; ma il vero problema è la capacità di diffusione di quelle teorie che fanno leva sulla supponenza della cultura occidentale industriale di proporsi come unica forma di cultura accettabile.

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L’illusione del bollino: un menu di batterie e semafori

Alfredo Somoza si cimenta con l’adozione di bollini nutrizionali molto burocatizzati dall’UE, che vedono due concetti di cultura dell’alimentazione retti su filiere di affari antagoniste, ma entrambe figlie della guerra al cibo sano.
Nutri-score, ideato in Francia, è un semaforo che indica con 5 sfumature tra il rosso e il verde la ricaduta sulla salute di ogni singolo alimento: il colore viene elaborato da un algoritmo che prende in esame parametri quali l’apporto calorico e il contenuto di grassi saturi, zuccheri e sale. Oltre ai francesi sostengono Nutri-score anche belgi e tedeschi. Diversi paesi dell’Est e del Sud del continente, Italia e Grecia in primis, invece lo criticano perché penalizzerebbe i prodotti ultraprocessati e diversi alimenti tipici della tradizione mediterranea e rilanciano proponendo Nutrinform Battery. Si tratta di un bollino a forma di batteria che indica non se il cibo sia da considerarsi buono o cattivo in sé, bensì quanto pesa percentualmente una singola porzione di quell’alimento sulla quantità totale di calorie, zuccheri, grassi, grassi saturi e sale che è consigliabile assumere in un giorno. Un meccanismo di difficile lettura, meno immediato del semaforo del concorrente. La tesi di Nutrinform Battery è che nessun alimento in commercio è dannoso, tutto dipende dalle quantità assunte. Per Nutri-score, invece, esistono cibi dannosi che restano tali a prescindere dal contesto.
Diverse aziende multinazionali hanno già preventivamente annunciato che si adegueranno: ci si accorge che la logica del bollino non spaventa nessuno. sarà l’ennesima informazione che andrà ad aggiungersi a etichette già cariche di parole e numeri, magari in più lingue, ma anche di simboli, bolli di certificazione e codici a barre, il tutto in caratteri sempre più piccoli e illeggibili. L’eccesso di informazioni, alla fine, sta producendo l’effetto contrario rispetto a quello auspicato: il mondo del consumo è ormai diviso nettamente in due, una minoranza informata che spende tempo per studiare l’etichetta e una maggioranza che la ignora, anche per mancanza di tempo.
È in questa seconda, grande categoria che si collocano i consumatori di trash food: non compiono una scelta ponderata ma acquistano ciò che costa poco e disconoscono o ignorano le controindicazioni. Il problema non è solo economico ma anche culturale. La dieta basata su cibi processati e da consumare rapidamente, come i wurstel o le patatine fritte, ma anche su specialità – per guardare all’Italia – come i salumi e i formaggi. E il cortocircuito si verifica qui: i produttori di alimenti tradizionali ricchi di grassi e sale, come gli insaccati, si rivolgono a un cliente che potrebbe rivelarsi sensibile al richiamo salutista, mentre i produttori di trash food non se ne preoccupano affatto, perché i loro consumatori ignorano i bollini; il cibo è cultura e disponibilità economica. La questione vera sta a monte, ed è che anche nell’Europa mediterranea, dove ieri i poveri vivevano mangiando soprattutto pesce, olio d’oliva, pane, verdura e frutta, oggi hamburger, merendine e patatine fritte possono farsi beffe di qualsiasi bollino.

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La Seconda Guerra Fredda: l’ipocrisia neoliberista sui diritti umani

La Guerra Fredda che si sta preparando è molto diversa dalla precedente per protagonisti, interessi economici, ambiti ideologici, schieramenti, alleanze porose come i confini entro cui agisce la contesa.
Alfredo Somoza (@alfredosomoza) prende spunto dal recente G7 di St Ives per cogliere le molte contraddizioni che ne sono emerse e la strabicità di visioni tra gli antagonisti: da un lato la “cordata occidentale” dell’“America is Back” (https://ogzero.org/america-is-back-la-regia-del-road-movie-di-biden/) e dall’altra il costruendo asse Mosca-Pechino con le potenze locali costituite dagli strategici regimi di Tehran e Ankara a svolgere il ruolo di comprimari con sceicchi, emirati e la potenza militare israeliana.
Le differenze tra le due epoche sono nel fatto che sul sistema economico le leadership mondiali si sono attestate tutte su diversi livelli di una stessa dottrina, il neoliberismo; la sensazione è che i diritti umani siano merce di scambio, da mettere sul piatto della bilancia commerciale, il vero centro dello scontro.
Quando il gioco si fa duro, i Grandi ripristinano il G7 per dimostrare che comandano ancora loro. Ma è davvero così? Oggi la forza dei Paesi del G7 non è il loro arsenale militare, imbattibile e costoso, ma la ricchezza dei loro mercati. Si tratta però di una ricchezza che scorre sempre di più verso altri paesi, dispersa in milioni di rivoli, lasciando ai Grandi sempre di meno in termini di entrate fiscali e creazione di impiego. Il drenaggio economico favorisce chi possiede materie prime e, soprattutto, chi le trasforma, ed è destinato a tradursi anche in potere politico.
L’impero Françafrique si sta sfaldando e infrastrutture e stakeholder cinesi lo sostituiscono, mentre turchi e russi subentrano nel controllo militare del territorio; in Mesoamerica non si tollera più l’ipocrisia della retorica democratica di chi in passato copriva i colpi di stato, la fame alimenta i populismi di ogni segno, e la ferocia repressiva dei narcoregimi producono insurrezioni come in Colombia.
Un tratto è fondamentale nella analisi della nuova Guerra Fredda: i grandi avversari di oggi sono legati indissolubilmente tra loro nella costruzione e nella gestione della globalizzazione. Dove conta di più chi vende una pera argentina, impacchettata in Thailandia per distribuirla in quegli Usa che possiedono gli inutili missili intercontinentali.

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La chimera della ridistribuzione

Un tema complesso quello delle diseguaglianze, che secondo la scuola liberale non dovrebbero nemmeno esistere come categoria, in quanto deriverebbero soltanto dall’impossibilità di concorrere liberamente in un mercato svincolato da ogni controllo pubblico.
Opposta è la visione delle socialdemocrazie, che credono in un mercato regolato dallo stato e considerano le diseguaglianze come “anomalie” da combattere attraverso il welfare e la tassazione progressiva sui redditi. Cioè ridistribuendo la ricchezza.
Il punto è che questi problemi non riguardano solo la ridistribuzione del reddito. Siamo alle soglie di una rivoluzione industriale senza paragoni, quella dell’intelligenza artificiale applicata alla robotica, potenzialmente destinata a eliminare una quantità enorme di lavoro: che i robot che svolgono lavoro umano dovrebbero essere tassati, per assicurare il mantenimento del livello di welfare.
Secondo l’istituto di ricerche globali sull’economia McKinsey, il 45% dei posti di lavoro oggi remunerati potrebbe essere sostituito in tempi brevi da tecnologie già attualmente in sperimentazione.

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I forzieri della filibusta fiscale

Nei fondamentali della liberalismo inglese il fatto di pagare le tasse diventa una parte dei binomi fondativi della appartenenza alla comunità data da tasse e cittadinanza, tasse e responsabilità sociale, tasse e giustizia. Oggi si parla invece di “erosione della base imponibile”, il trucco legale che permette alle grandi multinazionali di trasferire all’estero i profitti onde evitare la tassazione nei paesi dove gli stessi profitti sono stati generati.
Secondo un report di Citizen for Tax Justice, le principali 500 aziende statunitensi avrebbero parcheggiato in paradisi fiscali 2100 miliardi di dollari che, se dovessero rientrare negli Usa, lascerebbero allo stato 600 miliardi di dollari; la pratica innocentemente chiamata “di ottimizzazione fiscale” è a portata soltanto delle grandi multinazionali. Per un produttore locale europeo, questo vuol dire avere un gap rispetto al suo concorrente pari a circa il 30-35 per cento sul guadagno atteso. Evidente concorrenza sleale alla base della globalizzazione che ha moltiplicato le opportunità di produrre e di vendere a un mercato sempre più grande, senza ridistribuire i proventi.

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]]> Esternalizzare le frontiere: è legittimo o opportunista? https://ogzero.org/lesternalizzazione-delle-frontiere-e-le-politiche-europee/ Tue, 31 Aug 2021 14:54:56 +0000 https://ogzero.org/?p=4758 Riprendiamo con Fabiana Triburgo il focus sulle rotte migratorie introducendo il tema dell’esternalizzazione delle frontiere, ossia quella politica europea e degli stati membri dell’Unione, contraddistinta da un insieme di azioni giuridiche, militari e finanziarie – spesso di dubbia legittimità – che ha come fine ultimo quello di ostacolare l’ingresso dei migranti all’interno del territorio dell’UE. […]

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Riprendiamo con Fabiana Triburgo il focus sulle rotte migratorie introducendo il tema dell’esternalizzazione delle frontiere, ossia quella politica europea e degli stati membri dell’Unione, contraddistinta da un insieme di azioni giuridiche, militari e finanziarie – spesso di dubbia legittimità – che ha come fine ultimo quello di ostacolare l’ingresso dei migranti all’interno del territorio dell’UE. Ecco il contesto giuridico.


Le politiche di esternalizzazione: introduzione alle nuove rotte migratorie

Corridoi umanitari, mediante visti di ingresso, reinsediamenti e ricollocamenti automatici, e non volontari, dei migranti attraverso un’equa distribuzione dei medesimi all’interno dei territori dei paesi UE, sulla base del principio di solidarietà sancito dall’articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, sono di recente gli ultimi disperati appelli che la società civile, in particolare le associazioni del Terzo Settore, rivolgono alla politica europea e a quella degli stati membri improntata sull’esternalizzazione delle frontiere. Tale espressione risuona invero in più contesti giuridici e mediatici.

L’esternalizzazione delle frontiere, ossia quella politica europea e degli stati membri dell’Unione, contraddistinta da un insieme di azioni giuridiche, militari e finanziarie – spesso di dubbia legittimità – che ha come fine ultimo quello di ostacolare l’ingresso dei migranti all’interno del territorio dell’UE, tra i quali i richiedenti asilo, comporta l’impossibilità aprioristicamente, per loro determinata, di esercitare i propri diritti e godere delle tutele giurisdizionali garantite per legge. Già, perché questo godimento ed esercizio non è un’opinione ma si evince da quel “Sistema comune d’Asilo europeo”, stabilito dal paragrafo 1 dell’art. 78 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea,  del quale a partire dagli anni Novanta l’Europa stessa ha voluto dotarsi, ma che dal 2015 l’Unione (anche prima, con riferimento alle legislazioni nazionali di alcuni paesi UE, tra cui l’Italia), dato l’aumento sostanziale dei flussi migratori, ha riadattato, modificato a più riprese ma sul quale non ha trovato ancora oggi una soluzione condivisa.

Potremmo così affermare:

fin quando l’Unione attua le pratiche di esternalizzazione dimostra la sua incapacità a rendere effettiva una politica migratoria comune a tutti i paesi che ne fanno parte,

ma tale politica in realtà è già puntualmente regolamentata da disposizioni normative alle quali hanno aderito volontariamente tutti i paesi dell’UE, in senso opposto alle prassi dei respingimenti ancora oggi messe in atto. Le esternalizzazioni vengono realizzate infatti sia dall’UE sia dai singoli paesi membri in collaborazione con paesi terzi extra-UE – quasi sempre in via di sviluppo e spesso definiti “sicuri” per ragioni di opportunismo – attraverso accordi bilaterali o multilaterali, piani d’azione, il cui testo normativo è difficilmente accessibile da parte della società civile. Tuttavia, tali atti normativi di consueto contraddistinti da una sezione relativa allo sviluppo economico – che l’UE o il paese membro garantisce a favore del paese terzo parte dell’accordo o dell’Azione Comune – sono anche connaturati da una sezione dedicata all’accoglienza e alla gestione dei flussi migratori attraverso il finanziamento di programmi di addestramento e di equipaggiamento militare delle forze armate del paese terzo per il contrasto dell’immigrazione definita irregolare.

Campo di Sanliurfa in Turchia (foto Thomas Koch / Shutterstock)

Le responsabilità

Opinabile la portata del termine “irregolare”, essendo la singola valutazione dei motivi per il quale un individuo ha posto in essere il proprio percorso migratorio, attuabile perlopiù quando la persona ha fatto già ingresso nel territorio dell’UE. È noto infatti che le pratiche di esternalizzazione sono concepite, per definizione, al fine di eludere l’applicazione della normativa europea sulla migrazione e l’asilo mediante la delega a paesi terzi di attività che se venissero compiute dagli stati membri o dall’UE senza “l’aiuto” di questi, sarebbero sottoponibili a procedimenti giurisdizionali anche internazionali per l’accertamento delle loro responsabilità. Con tali prassi vengono a ogni modo violati i principi contenuti nelle norme di diritto internazionale alle quali l’Unione Europea ha deciso di adeguarsi. Non solo infatti tutti gli stati dell’UE, facenti parte anche del Consiglio d’Europa, hanno sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951, ma secondo le norme del diritto dell’Unione, in particolare conformemente al succitato punto 1 dell’art. 78 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea,

«la politica comune in materia di asilo, protezione sussidiaria e temporanea deve essere volta a garantire il principio di non respingimento in conformità non solo all’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 (principio di non refoulement) e del suo Protocollo del 1967 ma anche dei trattati internazionali pertinenti in materia»,

quali in particolare la Convenzione Cedu sui diritti umani del 1950, la Convenzione Onu contro la tortura e i trattamenti inumani o degradanti del 1975, il Patto internazionale sui diritti economici sociali e culturali del 1966, nonché la Convenzione Onu sui diritti dei fanciulli del 1989.

Per quanto riguarda il diritto internazionale infatti il “principio del non respingimento” si applica oltre che secondo l’art. 4 e l’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e in conformità all’art. 33 della Convenzione di Ginevra, anche sulla base dell’art. 3 della Convenzione internazionale contro la tortura, nonché secondo l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Strasburgo ossia la Corte europea sui diritti dell’uomo in merito all’art. 3 Cedu

che sancisce il divieto assoluto di allontanare lo straniero qualora lo stesso allontanamento costituisca una forma di trattamento inumano o degradante o nell’ipotesi in cui lo straniero rischi di subire trattamenti inumani e degradanti nello stato di destinazione.

Ne discende pertanto che tale principio debba essere applicato non solo ai migranti potenzialmente dichiarabili rifugiati – in base ai requisiti stabiliti della Convenzione di Ginevra – ma a qualunque individuo che rischia di subire un trattamento inumano e degradante. I respingimenti inoltre vengono attuati non solo direttamente ma anche indirettamente. Questi ultimi in particolare sono caratterizzati – come quelli “a catena” nella Rotta balcanica – dalle riammissioni informali, rispetto alle quali si è pronunciato il Tribunale di Roma con l’ordinanza dell’8 gennaio del 2021 nei confronti dell’Italia per quelle attuate in cooperazione con la Slovenia.

Dicembre 2020: incendio nel campo profughi di Lipa, a una ventina di chilometri da Bihać, nel nordovest della Bosnia-Erzegovina al confine con la Croazia

Violazioni e controllo effettivo su un altro stato

Tuttavia, va detto che in base all’art. 1 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo l’esercizio della giurisdizione da parte di uno stato su un territorio è il principio fondamentale per attribuire a esso responsabilità rispetto ad azioni compiute in violazione della Convenzione.

Come si concilia dunque tale interpretazione con quella di una responsabilità statale o sovrastatale, quale quella dell’UE, per trattamenti inumani e degradanti causati in un contesto “extraterritoriale”, in particolare per atti inumani e degradanti che sono stati agevolati indirettamente ma consapevolmente da stati membri dell’UE e/o dall’UE stessa ma eseguiti da paesi terzi?

È chiaro infatti che i paesi terzi quali per esempio Libia e Sudan, nei quali centri detentivi si attua la tipologia di trattamenti di cui sopra, non hanno aderito alle convenzioni internazionali succitate e dunque non possono essere ritenuti responsabili di tali pratiche. A ogni modo sussistono però secondo la Corte di Strasburgo circostanze secondo le quali è consentito derogare eccezionalmente al principio della sovranità territoriale o sovraterritoriale comportando l’attribuzione di responsabilità a uno stato contraente della Cedu, per la violazione dei principi della Convenzione in particolare dell’art. 3 e 5, nell’ipotesi in cui esso abbia un “controllo effettivo” sul territorio di un altro stato.

Sulla base di ciò si può interpretare che i cosiddetti “aiuti” che gli stati dell’Unione finalizzano con gli accordi e i piani di azione attraverso i  finanziamenti per gli addestramenti e gli equipaggiamenti militari – in particolare droni, elicotteri e visori notturni –, nonché la donazione di proprie imbarcazioni per il controllo dei flussi migratori ai paesi terzi, possano essere qualificabili come strumenti che denotano un’ingerenza talmente rilevante, rispetto al territorio di quel paese, da far superare il vincolo della giurisdizione territoriale strettamente concepita dall’art. 1 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo, fatta salva ovviamente la produzione di prove del nesso di causalità tra il danno subito dal migrante e l’azione compiuta dall’UE o da uno stato membro del Consiglio d’Europa. In conformità a tale interpretazione si pone anche la Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite che ha approvato norme riguardanti il cosiddetto “illecito internazionale” ossia l’attribuzione di responsabilità a uno stato aderente alla Cedu dinanzi alla Corte di Strasburgo che si sia reso artefice, anche indirettamente, di azioni riconducibili alla violazione degli artt. 2, 3, 4, 5 della Convenzione.

I numeri

Al riguardo è necessario fornire alcuni dati in merito agli effetti che tale fenomeno dell’esternalizzazione delle frontiere sta causando. Il numero dei richiedenti asilo in Europa è crollato sensibilmente, ossia di circa il 34% nel 2020 rispetto all’anno precedente: in proporzione vi sono 931 richiedenti asilo in Europa ogni milione di abitanti, per cui ci si chiede se questa sia “un’invasione” tale da scaturire un “allarme sicurezza”. Occorre piuttosto rilevare che ci sono paesi quali Romania, Irlanda, Danimarca, Finlandia, Lituania, Portogallo, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia nei quali non si è registrata rispetto al 2020 la presenza di alcun richiedente asilo. Solo cinque paesi su 27 membri dell’UE infatti hanno accolto i richiedenti quali Germania, Francia, Spagna, Grecia e infine l’Italia che tuttavia registra una media dell’accoglienza dei richiedenti asilo, rispetto alla propria popolazione, due terzi più bassa dell’intera media europea: all’interno del nostro territorio con riferimento al 2020 si sono registrati circa 355 richiedenti asilo ogni milione di abitanti.

Tali dati uniti alle riflessioni di cui sopra sulle attività poste in essere dall’UE stessa e dai paesi membri nel tentativo di eludere la propria responsabilità rispetto alla normativa europea in materia d’asilo, delegando a paesi terzi l’onere dei respingimenti, delle riammissioni informali e delle detenzioni arbitrarie, fanno intuire il fallimento del Sistema comune di Asilo (Ceas) di cui l’UE ha deciso di dotarsi in passato a partire dal Consiglio europeo di Tampere nel 1999, ma ancora prima con la firma nel 1990 sia della Convenzione Shengen sulla libera circolazione nel territorio europeo nonché della Convenzione di Dublino riguardante la definizione dei criteri per l’individuazione dello stato competente a trattare di volta in volta le domande di protezione internazionale.

Con il Consiglio di Tampere del 1999 l’inserimento della materia d’asilo dal Terzo al Primo pilastro sui quali si fonda l’UE contribuì a implementare la materia con strumenti propri dell’Unione quali direttive e regolamenti, per cui vale la pena ricordare la direttiva 2001/55/CE sulla protezione temporanea ideata per accogliere profughi provenienti dai conflitti del Ruanda e dell’ex Jugoslavia, il Regolamento Dublino II n. 343 del 2003, la direttiva accoglienza dei richiedenti asilo del 2003, la direttiva qualifiche del 2004, con la quale è stata inserita un’ulteriore forma europea di protezione, ossia quella sussidiaria, da applicare in via residuale nei casi in cui non ricorrano i requisiti relativi allo status di rifugiato, la direttiva Procedure del 2005 sul riconoscimento e la revoca dello status di rifugiato, nonché la contestata direttiva Rimpatri 2008/115/CE.

Dublino III

Nel periodo dal 2010 al 2014 invece con la decisione 281/2012/UE è stato istituito il Programma di reinsediamento europeo; inoltre nello stesso periodo è stata attuata la riforma delle direttive qualifiche, procedura e accoglienza ed è stato approvato il regolamento n. 604/2013 detto Dublino III, tuttora vigente.

L’incapacità del Sistema comune di Asilo a regolamentare i flussi migratori si palesò in modo lampante nel 2015 quando alcuni stati vennero messi a dura prova per un incremento sostanziale del numero dei migranti che fecero ingresso nell’Unione. Tuttavia, come vedremo nell’ambito della sezione dedicata al Mediterraneo centrale, analizzando anche il memorandum Italia-Libia, si può agevolmente affermare che il fenomeno dell’esternalizzazione non sia recente ma già compiuto prima della “crisi migratoria” del 2015. Quali sono dunque le politiche che a partire dal 2015 l’UE e i singoli stati membri hanno deciso di mettere in atto per contrastare i cosiddetti flussi dei “migranti irregolari” che tuttora dispiegano i loro effetti e sono ampiamente contestati dalle Associazione giuridiche e del Terzo Settore che si occupano di migrazioni? Sicuramente, il vertice della Valletta del 2015, l’accordo UE-Turchia nel 2016 e lo stesso memorandum del 2017 Italia-Libia, al quale si è unito il Piano d’Azione europeo sempre nel 2017 per sostenere l’Italia nel fronteggiare la questione migratoria, sono stati i primi importanti passi verso l’implementazione delle prassi di esternalizzazione dei confini, a discapito di quei principi di accoglienza e del rispetto dei diritti dei migranti tanto agognati nel trentennio precedente. Oggi tali politiche si realizzano per lo più con fondi europei (l’European Trust Fund) e nazionali (il cosiddetto Fondo Africa) nei quali sono coinvolte anche organizzazioni internazionali quali Unhcr e Oim strumentalizzate per fornire una parvenza di rispetto dei diritti umani in contesti in cui questi sono totalmente ignorati come nel caso dei centri detentivi libici le cui condizioni disumane già sono state evidenziate in precedenza.

Il male minore

In quest’ottica anche le pratiche di reinsediamento portate avanti prevalentemente dall’Unhcr spesso sono considerate “il male minore” poiché, essendo attuate in paesi non firmatari della Convenzione di Ginevra, come avviene in Niger, finiscono per essere sottoposte a una forte discrezionalità che differisce molto dalla puntualità dei diritti di cui beneficiano i richiedenti che si trovano nel territorio dell’UE. Inoltre, il nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo del 23 settembre del 2020 – ossia il documento programmatico della Commissione Europea che tenta di istituzionalizzare tali prassi illegittime, di cui ci occuperemo in seguito – e la reticenza al superamento del criterio del primo paese di arrivo, con riferimento al Regolamento Dublino che resta pressoché immutato, non lasciano presagire un cambiamento nel breve periodo di tali politiche. Non resta dunque che analizzare i mutamenti geografici delle attuali correnti umane – nelle diverse rotte migratorie e nei differenti contesti geopolitici in cui essi si determinano – causati proprio da tali politiche.

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Il trailer del kolossal hollywoodiano “America is back” https://ogzero.org/america-is-back-la-regia-del-road-movie-di-biden/ Sun, 20 Jun 2021 01:34:58 +0000 https://ogzero.org/?p=3925 «America is back» in Europe, but… Biden torna a proporre la politica multipolare americana, che mira a presentare gli Stati Uniti come riferimento di un’ampia alleanza in cui si distribuiscono patenti di democrazia a tutti, tollerando in parte anche il regime putiniano (o comunque mostrando di voler aprire un dialogo), purché si adotti un profilo […]

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«America is back» in Europe, but… Biden torna a proporre la politica multipolare americana, che mira a presentare gli Stati Uniti come riferimento di un’ampia alleanza in cui si distribuiscono patenti di democrazia a tutti, tollerando in parte anche il regime putiniano (o comunque mostrando di voler aprire un dialogo), purché si adotti un profilo intransigente verso Pechino o si rendano meno stretti legami e partnership con l’unico rivale riconosciuto. Infatti la regia raffinata ha dapprima restituito una riunione di famiglia nella verde Cornovaglia, dove il vecchio patriarca è venuto in Europa a cercare location adatte per una ridistribuzione dei ruoli all’interno del consesso europeo, lanciando segnali distensivi di collaborazione che superassero l’isolazionismo dell’amministrazione precedente – di cui si sono frettolosamente cancellati gli sgarbi –, ma sancendo la globalizzazione e lo spostamento dal marcato eurocentrismo, già abbandonato da Obama, all’asse indopacifico.

America is back

Ripulitura preventiva delle deiezioni trumpiane

E di nuovo la trama del film lascia trasparire il messaggio anticinese dell’intreccio.

Il Convitato di Pietra

E allora scomponendo il film del viaggio di formazione della presidenza Biden nei suoi duetti, cominceremmo con quello non ancora avvenuto tra Xi Jinping e Biden – ma di cui c’è già stata una prolessi nei titoli di coda, immaginandolo nella cornice del G20 italiano, in scena esattamente vent’anni dopo quello tragico genovese. Ci pare che cominciare l’analisi dei fotogrammi del road-movie europeo di Biden dal fuoricampo in cui è rimasto collocato per tutto il tempo il co-protagonista principale sia l’ottica attraverso cui assistere almeno a una sequenza della pellicola. Quella che consideriamo centrale e che ci sforziamo di inquadrare come nel film Dark Passage con Humphrey Bogart (regia di Delmer Davies per un titolo perfetto nel 1947 come per sottotitolare l’attuale film di Biden), in cui Vincent non viene inquadrato se non con particolari degli occhi e invece la cinecamera coincide con il suo sguardo, cercando di restituire l’ottica della soggettiva fuori scena di Xi Jinping, il controcampo del Convitato.

Don Giovanni 1979, di Joseph Losey

Per quanto sommessa, accennata e rimasta impigliata nel resto della trama, fatta invece di spettacolari palcoscenici e forti illuminazioni (quasi a voler spostare l’attenzione su episodi collaterali, come avviene spesso nei road-movie); la mano tesa del Convitato di pietra ha preso il fuoriscena come nel finale del Don Giovanni, relegando l’annuncio di un percorso delle merci alternativo a quello promosso dalla Bri, la nuova Via della seta, al rango del catalogo di Leporello: una smargiassata fin dall’allitterazione del nome Build Back Better World.

Il messaggio principale del film, sempre sottotraccia, è che vanno ridimensionati innanzitutto i rapporti commerciali con i cinesi, ma fingendo che si tratti di una guerra morale alle violazioni dei diritti civili.

E parlando di questa sequenza con Sabrina Moles (@moles_sabrina), il film si è trasformato in un viaggio interstellare, con al centro la nuova piattaforma spaziale cinese, che ha costretto Biden a un aggiornamento dell’articolo 5 dell’accordo Nato, estendendolo al dominio spaziale:

“La pantomima globalizzata della Guerra morale alla Cina”.

Il servo di due padroni

Di tutta la pantomima messa in scena nel viaggio di formazione del mondo di Biden infatti, riconsiderando il tourbillon dei messaggi mediatici, una volta conclusa la kermesse e lasciate decantare le dichiarazioni, spenti i riflettori, a posteriori nel consuntivo non si annoverano risultati apparentemente tangibili, ma è stata come una proiezione di slide della sceneggiatura da recitare nei prossimi anni della serie-tv che potrebbe intitolarsi The Great Game. The Revenge, la cui regia è affidata a Biden, con Blinken aiutoregista nelle sequenze del ritiro da Kabul, quindi al di là di ogni simulacro simbolico – che non avrà mai lo stesso impatto dell’ultimo elicottero che il 1° maggio 1975 lasciava l’ambasciata americana in Vietnam, anche se si tratta proprio di quel remake – offerto in pasto alle telecamere i nodi del film vero ruotano ancora attorno a Donbass e Crimea – come ci racconterà Yurii Colombo alla fine di questo articolo – e di conseguenza alle ex repubbliche sovietiche, che ritroviamo nel discorso di Baku, pronunciato da Erdoğan guarda caso proprio il giorno dopo il ritorno nell’alveo della Nato, con il compito speciale di andarsi a immolare in Afghanistan, come già avvenne quando la Turchia dovette pagare l’ingresso nella Nato dissanguandosi nella Guerra di Corea.

M.A.S.H., 1970, regia di Robert Altman

Stavolta il presidente turco di buon grado allunga i suoi tentacoli anche verso il Khorasan con la benevolenza degli Usa, che gli delegano così controllo militare, sfruttamento e ricostruzione di un’area fondamentale per il passaggio di merci tra XInjiang uyguro, Karakum turkmeno, Pamir tajiko, HinduKush multitribale, Karakorum e pianure indo-pakistane… monti e pianure persiane. Nomi evocativi di pellicole in costumi di mercanti: l’autentica antica Via della seta – il copyright – da contrapporre alla Belt Road Initiative per conto americano.

D’altronde nel duetto realmente interpretato con Putin si è giunti a una comunità di intenti («un dialogo bilaterale sulla “stabilità strategica”») su quel territorio che ha visto i due imperialismi rimanere impantanati nella Campagna d’Afghanistan.  Come riporta l’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della Luiss: «Nella conferenza stampa tenuta da Biden, a seguito dell’incontro che è durato circa 3 ore, il presidente ha affermato di aver discusso dell’interesse condiviso di Stati Uniti e Russia nel prevenire «una recrudescenza del terrorismo in Afghanistan»; [anche se ci sono prove del “Times” di aiuti economici e in armi elargiti da Mosca ai Talebani, ai quali erano anche state promesse taglie dal Cremlino per ogni soldato statunitense ucciso]. Un giornalista gli ha quindi chiesto se avesse fatto qualche domanda a Putin al riguardo. «No, è stato lui a chiedere dell’Afghanistan. Ha detto che spera che saremo in grado di mantenere un po’ di pace e sicurezza, e io ho detto: “questo dipende molto da voi”».

Dunque si direbbe che entrambe le potenze appaltino a Erdoğan il vuoto lasciato dal ritiro, ma poi gli affari azeri hanno inebriato il presidente turco spingendolo a parlare di imminente unità d’intenti tra 6 nazioni, tra queste le tre che hanno animato i protocolli di Astana e che si inserivano nella assenza trumpiana per spartirsi l’area (Russia, Turchia, Iran). Il colpo di scena turco di Baku allarga il novero a Georgia, Azerbaijan e… Armenia (!), dichiarando nella composizione dell’accordo quanto sia centrale proprio l’area caucasica, un’area che Putin non si può permettere sia sotto il controllo occidentale. E in questo caso l’ottica adottata nelle proiezioni della trama del film imbastita a Bruxelles, a cui hanno assistito Biden e Erdoğan alterna quello del documentario in stile Settimana Incom, con la promozione delle prodezze dei droni Bayraktar in Caucaso; mentre l’altro stile retorico utile per inquadrare lo sforzo richiesto alla Turchia in territorio libico non è più quello del materiale mediatico per l’arruolamento nelle Private military and security companies, quanto la brochure patinata delle imprese edili per la ricostruzione con l’imprimatur di Biden.

Illuminante risulta cercare di adottare lo sguardo di Ankara sull’incontro di Bruxelles, il primo tra Biden e Erdoğan, usando la lucida ironia di Murat Cinar (@muratcinar):
“Finto multilateralismo al servizio di reali democrature affaristiche”.

Il Terzo Uomo

Dunque in qualche modo Erdoğan dimostra ambiguità anche genuflettendosi a Bruxelles il giorno prima da Biden e quello successivo intraprendendo anche lui un road-movie interno all’Azerbaijan per controllare appalti e rilanciare l’alleanza di Astana allargata a un’area limitrofa e complementare a quella che coinvolge l’Afghanistan… e che è fondamentale per la politica di Putin, di cui il presidente turco rimane alleato. 

Proprio del terzo incontro del Gran Tour bideniano rimane da parlare, dopo la presenza inquietante del Convitato ingombrante Xi e l’infido Erdoğan, la scena madre e l’epilogo del viaggio di formazione vedeva la compresenza nell’inquadratura del “Killer dagli occhi di ghiaccio e senz’anima”, come lo stesso Biden aveva definito Putin

America is back

L’occhio che uccide, 1960, di Powell e Pressburger

Il consumato stratega aveva organizzato la sfida non tanto come nel torneo di The Quick and the Dead (Sam Raimi, 1995), piuttosto spingendo sull’atmosfera da spy story, per evocare i giornalisti uccisi e i dissidenti avvelenati, senza con questo appendere il Cremlino al cappio dei diritti umani e quindi cambiando registro narrativo l’incontro non ha risolto i veri nodi che rappresentano il dissidio tra Russia e Stati Uniti, ma si è trasformato in una partita a scacchi in stallo… riguardo al possibile  scacco di uno dei due contendenti possiamo seguire lo sguardo moscovita di Yurii Colombo (@matrioska2021):

“Le relazioni insolubili”.

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La geopolitica di Sedat Peker. 2: il convitato di pietra al vertice Nato https://ogzero.org/la-geopolitica-di-peker-il-convitato-di-pietra-al-vertice-nato/ Tue, 15 Jun 2021 11:25:51 +0000 https://ogzero.org/?p=3859 Prosegue la serie di interventi a cura di Murat Cinar sulle videorivelazioni di Sedat Peker: in questo secondo articolo veniamo trasportati dal racconto a spot nelle più disparate aree sullo scacchiere internazionale, scoperchiando affari di ogni tipo che scaturiscono dai dossier in possesso di questo mafioso fino a qualche mese fa al servizio dell’Akp. Questa […]

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Prosegue la serie di interventi a cura di Murat Cinar sulle videorivelazioni di Sedat Peker: in questo secondo articolo veniamo trasportati dal racconto a spot nelle più disparate aree sullo scacchiere internazionale, scoperchiando affari di ogni tipo che scaturiscono dai dossier in possesso di questo mafioso fino a qualche mese fa al servizio dell’Akp. Questa puntata cerca di dare un’interpretazione della politica estera di Erdogan nel momento del suo primo incontro con Biden e capita in un momento di incertezza sulla sorte di Sedat Peker negli Emirati, perché ha mancato un appuntamento e non si è più palesato con quei tweet – che invece cadenzavano le sue esternazioni con annunci quotidiani; voci lo davano come catturato o dai servizi emiratini, o addirittura vittima di un blitz di quelli turchi. Nella mattinata del 15 giugno il suo addetto stampa ha diramato un comunicato in cui si annuncia che è stato convocato dalle autorità emiratine e anche privato del cellulare, probabilmente si tratta di una sorta di detenzione provvisoria per accertamenti. Dopodiché è rientrato e ha prontamente ripreso a utilizzare Twitter e a preannunciare ai suoi fan rivelazioni da fascicoli e cartelle che sta ricevendo e studiando.  

Nel primo articolo avevamo inquadrato il funambolico autore e interprete di questi appuntamenti su YouTube, il contesto in cui è cresciuto il suo potere, la palude che ha permesso si creasse una rete di collusioni tra organizzazioni mafiose, traffici d’armi e droghe e il sistema di potere, i partiti della destra nazionalista, il clan del presidente della repubblica turca. Il prossimo articolo di questa serie affronterà la maniera in cui il governo centrale ha approfittato dell’occasione per colpire la stampa indipendente e i partiti dell’opposizione. E infine, l’ultima puntata prevista si occuperà della vicenda dei tre giornalisti la cui uccisione avvenne agli inizi della carriera del mafioso al servizio del regime e che trovano spazio nelle videorivelazioni; i video di Peker hanno influenzato l’andamento dei processi per la loro morte.


Politica estera panturchista

La telenovela mafiosa sta facendo discutere ancora la Turchia, anche se Sedat Peker aveva smesso di pubblicare video. Secondo i tweet di Peker, dopo il nono video, sembra che sia stata identificata la location in cui si trovava. Dunque pareva che Peker dovesse mettersi alla ricerca di un nuovo rifugio, dopo l’odissea che lo aveva visto abbandonare il Mediterraneo. Vedremo in occasione delle prossime puntate in che modo riuscirà a sottrarsi alla caccia dei servizi di Ankara.

Intanto ci occupiamo delle componenti internazionali presenti nei videomessaggi registrati e trasmessi dal personaggio di spicco del movimento panturchista: infatti riguardano anche una serie di elementi importanti legati alla politica estera dell’attuale governo in Turchia.

I paesi della fuga di Peker

Balcani

Tra i paesi citati nei video di Peker troviamo prima di tutto alcuni paesi balcanici. Si tratta di una zona in cui Peker si sarebbe recato per trovare rifugio circa due anni fa, dopo aver lasciato la Turchia: Albania, Macedonia, Kosovo, Montenegro, Serbia e Bosnia Erzegovina. Peker quando parla di questi paesi si riferisce a delle zone in cui trova una risposta politica e una collaborazione diretta. Addirittura nel caso macedone e nel caso kosovaro parla dei rapporti diretti che ha avuto con gli alti esponenti dei governi e dei servizi segreti. È ormai palese, evidente e conosciuta la presenza economica, politica, religiosa e anche criminale di Ankara nei Balcani.

Il 24 aprile 2020 veniva ratificato l’accordo militare tra il ministro della Difesa turco Hulusi Akar e quella albanese Olta Xhachka, che si andava ad aggiungere all’impegno nelle infrastrutture del paese delle aquile e nel sostegno della cultura islamica nei Balcani

Maghreb

Sempre seguendo la via di fuga di Peker scopriamo alcuni dettagli legati al Marocco. In questo paese pare che il boss mafioso abbia potuto fermarsi solo per due giorni. Secondo le dichiarazioni di Peker, avrebbe dovuto lasciare il paese nordafricano nell’arco di due giorni perché la pressione da parte di Ankara è stata molto forte. In un suo video Peker parla della vendita di droni armati da parte della Turchia verso il Marocco a prezzo dimezzato. Infatti nel mese di aprile del 2021 Ankara ha venduto 13 droni al Marocco per 70 milioni di dollari statunitensi. Soltanto un anno fa aveva venduto per lo stesso prezzo solamente sette droni al Marocco. Molto probabilmente il paese maghrebino sta utilizzando questi droni, e non solo, nelle sue operazioni militari nel deserto contro il Polisario. Non sappiamo se è stato questo rapporto commerciale a essere un elemento chiave per la fuga di Peker dal Marocco, o meno. Tuttavia una certezza l’abbiamo: il fatto che uno dei generi del presidente della repubblica di Turchia detiene l’esclusiva per la produzione dei droni armati per l’esercito turco, perciò la Turchia è diventata in pochi anni una produttrice massiccia di questi mezzi militari vendendoli in svariati paesi nel mondo. Sottolineiamo che la Turchia sta producendo questi droni con l’ausilio tecnologico di Inghilterra, Germania e Canada.

13 droni Bayraktar TB2 svenduti a Mohammed VI del Marocco

Caucaso

Se si dovesse passare a un altro paese in cui i droni di Ankara hanno fatto vincere una guerra, ovviamente dovremmo parlare dell’Azerbaijan. Nei suoi video Peker si riferisce diverse volte a questo paese confinante con la Turchia. Peker in generale specifica come in Azerbaijan sia molto presente l’imprenditoria turca e stia giocando sporco con l’intento di diventare un vero monopolio economico sul territorio. Mubariz Mansimov, è un nome che Peker cita spesso nei suoi video. L’imprenditore azero presente in Turchia, secondo diversi leaks svelati in questi anni, sembra che sia stato un vero aiuto per la realizzazione dei progetti economici di Erdogan e la sua famiglia. I conti nel paradiso fiscale dell’isola di Man, oppure le diverse aziende petrolifere sono soltanto due elementi di cui si parla da tempo quando si cita il cognome Mansimov. L’imprenditore azero è stato arrestato con l’accusa di appartenere alla comunità di Gülen, accusa avanzata da due suoi ex soci nell’ambito del processo in cui lo stesso imprenditore si lamentava per una truffa pianificata contro di lui con l’intento di sottrargli tutti i suoi beni. In questo contesto subentrano i video del boss mafioso. Secondo Peker, l’ex ministro degli interni, Mehemet Ağar, personaggio molto discutibile degli anni Novanta, si sarebbe appropriato dei beni di Mansimov in modo mafioso e forse anche illegale. Nei suoi video Peker quando parla dell’Azerbaijan rileva una grande ipocrisia nel sostegno di Ankara e secondo lui il racconto dei rapporti tra Ankara e Baku è improntato a una grande bugia di fondo.

Mübariz Mansimov, l’imprenditore azero implicato in affari non del tutto chiari con il clan di Erdoğan

Cipro

Un altro paese citato dal personaggio di spicco della criminalità organizzata è Cipro. L’isola da anni in grande difficoltà politica, divisa in due parti, è anche una scatola nera. Dal traffico delle armi fino al riciclaggio di denaro, dalla tratta di persone fino al traffico di droga le trame riconducono a Cipro da quando la guerra tra Atene e Ankara si è conclusa. Infatti in uno dei suoi video Peker parla dell’uccisione del giornalista turco-cipriota Kutlu Adali, giornalista assassinato nel 1996, e la parte turca della capitale dell’isola Nicosia è diventa uno degli sfondi preferiti dal nostro personaggio. Per quanto riporta nei suoi video Peker, l’assassinio del giornalista sarebbe il risultato di una collaborazione tra l’ex ministro degli interni Ağar e un ex membro dei servizi segreti turchi, Korkut Eken. Peker specifica che in quel periodo è stato contattato da questi due personaggi che gli diedero l’incarico di assassinare il giornalista, e questo compito venne affidato da lui a suo fratello Attila Peker. Infatti in seguito al video in cui si parlava dell’assassinio del giornalista suo fratello è andato a depositare la sua testimonianza presso la procura di Fethiye. Secondo le dichiarazioni del fratello è stato proprio l’ex membro dei servizi segreti Eken a portare Peker sull’isola con l’intento di assassinare il giornalista. Pochi giorni dopo Korkut Eken, chiamato in causa, non ha smentito di conoscere Attila Peker e nemmeno il fatto che siano andati sull’isola. Tuttavia secondo Eken, erano andati sull’isola con l’intento di effettuare indagini sui feriti del Pkk portati nell’isola e successivamente trasferiti in Grecia. Pochi giorni dopo le dichiarazioni del fratello uno dei procuratori di Anadolu ha aperto un’inchiesta per approfondire le informazioni sull’assassinio del giornalista. Tuttavia va sottolineato il fatto che la Turchia sia stata condannata a 95.000 euro di risarcimenti nel 2005 dalla Cedu per non aver aperto un’inchiesta approfondita volta a chiarire l’assassinio del giornalista.

Venezuela

Oltre a queste nazioni, la telenovela mafiosa si occupa anche di un paese sudamericano esportatore di petrolio molto importante. Secondo Peker proprio il figlio dell’ex primo ministro Binali Yıldırım sarebbe arrivato a controllare un traffico di droga che coinvolge una serie di paesi tra cui anche il Venezuela dove, secondo Peker, proprio durante la pandemia il figlio di Yıldırım si è recato andato con l’intento di disegnare e coordinare la nuova rotta. Il viaggio della droga prevede il passaggio dalla Colombia, poi passando in Italia proseguirebbe successivamente in Turchia con l’obiettivo di finire in Siria. Secondo Peker in questo giro sono coinvolti in qualche maniera l’attuale ministro degli interni Süleyman Soylu e l’ex ministro dell’interni Mehemet Ağar. Pochi giorni dopo Yıldırım senior si è presentato davanti alle telecamere e ha smentito tutto dicendo che suo figlio era andato in Venezuela sì, ma per portare degli aiuti necessari nell’ambito della lotta contro la pandemia. Tuttavia finora non è stata dimostrato nessun registro doganale che documenta questa transazione. Anche se successivamente alcuni giornalisti allineati con il governo hanno riferito che gli aiuti in questione erano trasportabili in una valigia, ma le spiegazioni finora rilasciate non hanno soddisfatto l’opinione pubblica.

Il ministro degi Esteri Cavusoglu saluta Maduro a Caracas il 18 agosto 2020

Dal punto di vista geopolitico i video di Peker riaprono un capitolo molto particolare e poco chiaro che riguarda il rapporto tra Venezuela e Turchia. Negli anni precedenti il presidente Nicolás Maduro aveva visitato diverse volte la Turchia e durante le sue visite alcuni giornalisti turchi vociferavano di un eventuale trasferimento di lingotti d’oro dalla banca centrale venezuelana verso la banca centrale turca. Magari non sotto forma di lingotti d’oro ma il commercio dell’oro tra questi due paesi è diventata una notizia importante anche per l’agenzia di notizie internazionali Reuters. In conclusione va ricordato che il primo leader mondiale a congratularsi con Erdoğan per il successo nell’ultima tornata elettorale è stato Maduro.

Siria

Ovviamente il paese citato di più da Peker nei suoi video è quello che costituisce il problema maggiore nel rapporto tra Washington e Ankara. Ovviamente stiamo parlando della Siria. In uno dei suoi video Peker racconta che nel 2014 aveva deciso di trasportare aiuti umanitari con propri tir dalla Turchia verso la Siria; l’iniziativa era diventata un fatto mediatico poiché quel trasferimento è stato spettacolarizzato dal capo mafioso.

Traffici d’armi e aiuti agli jihadisti

Peker è un esponente importante del movimento panturchista e dunque ovviamente aveva deciso di aiutare le brigate armate turcomanne presenti in Siria; le brigate di cui si parla avevano imbracciato le armi per difendere in teoria la loro autonomia e – sempre in teoria – per lottare contro il regime centrale, tuttavia sta di fatto che diverse organizzazioni non governative hanno testimoniato che alcune brigate turcomanne avevano collaborato con le organizzazioni jihadiste e perciò sono state definite terroristiche. Nel suo video Peker specifica che due tir mandati da lui sono stati caricati di armi a sua insaputa dalla compagnia militare di sicurezza privata Sadat. Peker dice che queste erano armi non registrate messe a sua insaputa dentro i suoi tir da questa ditta di contractor. Il capo dell’azienda Sadat, Adnan Tanriverdi, attualmente è il capo consulente del presidente della repubblica turca. Secondo alcuni giornalisti l’azienda Sadat è stata protagonista durante il fallito golpe del 15 luglio 2016. La Sadat dichiara ufficialmente sul proprio sito che addestra diverse forze militari in svariati paesi musulmani con l’intento di creare una forza militare unita e forte. Secondo la leader del terzo partito di opposizione, Meral Aksener, la Sadat ha diversi centri di addestramento illegali sulle coste turche del Mar Nero. Ovviamente in questo va ricordato il fatto che due giornalisti del quotidiano nazionale “Cumhuriyet” abbiano raccontato in modo approfondito di questo traffico di armi dalla Turchia verso la Siria. Proprio nel 2014 questi due tir erano stati fermati dalla gendarmeria turca a due passi dal confine siriano e alla guida dei tir c’erano alcuni agenti dei servizi segreti. La notizia in realtà è stata svelata e trasmessa anche da altri giornali tuttavia a pagare i conti sono stati Can Dündar e il suo collega Erdem Gül. Dopo la diffusione della notizia dapprima il governo con tutti i suoi componenti ha smentito i fatti e successivamente proprio il presidente della repubblica ha ammesso il traffico d’armi, dicendo però che questo era un segreto di stato e non poteva essere assolutamente messo in discussione. In seguito Dündar finì nel mirino del governo e ora è esiliato a Berlino. Dopo tre mesi di carcere e un attentato evitato davanti al palazzo di giustizia a Istanbul, i giornalisti citati sono stati definiti come dei traditori della patria e collaboratori di terroristi.

In merito ai rapporti tra l’Isis anche un parlamentare dell’opposizione Eren Erdem aveva fatto un lungo intervento in aula documentando la sua tesi relativa all’esistenza di una forte negligenza da parte dei servizi segreti e della magistratura in merito alle attività dell’Isis in Turchia. Questo fatto era stato smentito sistematicamente da tutti i componenti del governo. Oltre i video classici di ogni domenica, il nostro personaggio panturchista ha anche diffuso sul suo account Twitter una breve videochiamata realizzata col marito della cugina di Erdoğan il 3 giugno di quest’anno. In questo video Serdar Ekşioğlu ammetteva che nei tir di Peker erano state caricate delle armi a sua insaputa dall’azienda Sadat.

Dissapori tra Washington e Ankara sulla Guerra siriana

Le scelte del governo turco nella guerra siriana sono state questioni di discussione tra Washington e Ankara. L’amministrazione Obama e successivamente quella di Trump non hanno mai accettato le scelte di Ankara in Siria. La stessa cosa vale ovviamente anche per Ankara. In cima alla lista delle cose che hanno creato il conflitto vediamo senz’altro le parti che sostengono questi due paesi sul territorio siriano. Mentre per l’amministrazione statunitense gli alleati erano inquadrati nelle unità di difesa popolari (Sdf); per Ankara invece l’unico alleato sul territorio è stato la formazione armata composta dagli oppositori moderati ossia l’esercito libero siriano (Esl), definito da diverse organizzazioni non governative come un esercito armato jihadista. Questa diversità di posizione e di alleati ha fatto sì che Washington e Ankara si allontanassero di più tra di loro nella Guerra siriana, e dopo un breve periodo di conflitto con Mosca, Ankara si è avvicinata sempre di più al polo composto da Russia, Iran e indirettamente Siria.

In pieno conflitto con la Russia il vice del ministro della Difesa, Anatoly Antonov, aveva dimostrato in diretta a tutto il mondo, nel dicembre 2015, che alcuni tir pieni di petrolio controllati dall’Isis entravano in Turchia e secondo Antonov era la famiglia di Erdoğan a comprare questo petrolio clandestino. Dopo la rappacificazione con Mosca a questo discorso è stata messa la sordina. Ma è rimasto sempre presente come punto dolente tra gli alleati in ambito Nato. Nei suoi video anche Peker parla del traffico dil petrolio clandestino tra Isis e Turchia.

Il conflitto politico in atto tra questi due alleati in merito alla guerra civile in Siria ha fatto sì che soprattutto Ankara si sbottonasse tramite le dichiarazioni del presidente della repubblica, diverse volte in vari comizi pubblici. Ankara non ha esitato a descrivere sia l’amministrazione Obama che quella Trump come due amministrazioni traditrici e sostenitrici di formazioni terroristiche sul territorio siriano. In questa fase di grande allontanamento tra i due alleati l’amministrazione statunitense ha deciso di prendere posizioni come sanzioni economiche oppure militari contro Ankara. A questo punto nasce lo scandalo legato al sistema di protezione aerea S-400 che Ankara decise di comprare da Mosca. La scelta molto radicale e non comune tra gli alleati della Nato giustificata da Ankara dicendo che gli Stati Uniti non vendevano quello che la Turchia desiderava acquistare come protezione aerea. Le diversità politiche e di scelta tra questi due paesi si concentrano anche sulle richieste storiche di Ankara. Mentre la Turchia chiedeva una no-fly zone e una zona cuscinetto nel Nord della Siria l’amministrazione statunitense non è mai stata a favore di questa richiesta. Dunque Ankara col passare del tempo ha giustificato le sue operazioni militari sul territorio siriano senza il suo alleato basandosi su questo conflitto in cui si sente lasciata sola.

Insomma la patata bollente siriana continua essere il punto di maggior contrasto nella relazione tra Washington e Ankara. Le scelte radicali, solitarie e spesso complici con Mosca sono la linea rossa di Ankara. Dunque coloro che criticano le scelte del governo centrale nella guerra siriana, all’interno della Turchia, hanno sempre ricevuto minacce, linciaggio mediatico e politico e anche conseguenze legali.

L’incontro al vertice Nato tra Biden e Erdoğan

Il 14 giugno a Bruxelles nell’ambito dell’incontro G7, Biden e Erdoğan si sono visti e hanno parlato per la prima volta di persona dopo la vittoria elettorale del presidente statunitense. Si sarà discusso di Siria e Azerbaijan e poi anche di Libia. La Casa Bianca sottolinea che la discussione ha compreso anche i comportamenti degli alleati della Nato.

Mentre negli ultimi giorni arrivano nuove dichiarazioni da diversi esponenti del governo, come il ministro degli affari esteri, da tempo la posizione di Washington sul sistema S-400 è rigida. Ovvero Ankara sembra che sia sempre più disposta ad accettare nuove proposte per ricucire il suo rapporto con Washington invece l’amministrazione statunitense non ha nessun intenzione di fare un passo indietro.

Preparazione all’incontro al vertice: due schiaffoni a Erdoğan

In quest’ottica è molto importante la visita effettuata da Wendy Sherman il 29 maggio di quest’anno. La viceministro degli esteri dell’amministrazione statunitense ha incontrato diverse organizzazioni non governative delle donne, ha parlato dei diritti umani limitati e negati in Turchia e all’interno del consolato statunitense a Istanbul si è fatta fotografare con la mascherina sulla quale c’era scritto “Convenzione di Istanbul”. Ha poi incontrato il mondo dell’imprenditoria e dopo questo incontro ha sottolineato che anche quel mondo è preoccupato del fatto che siano limitati e negati i diritti umani in Turchia, e infine ha incontrato il patriarca Bartolomeo della Chiesa ortodossa orientale.

Un’altra visita importante di questi ultimi giorni è stata quella di Linda Thomas Greenfield avvenuta il 4 giugno di quest’anno in Turchia. Anche l’ambasciatrice permanente degli Usa all’Onu nella sua visita ha esternato la preoccupazione dell’amministrazione statunitense in merito ai diritti umani negati in Turchia. Inoltre Greenfield ha sottolineato che la gestione dei rifugiati è un tema molto importante dunque è essenziale riaprire le dogane con la Siria con l’intento di portare in questo paese gli aiuti umanitari necessari.

“La geopolitica di Sedat Peker: camion pieni di… traffici, droni, appalti”.

In un intervento su Radio Blackout Murat riassume le rivelazioni di politica internazionale di Sedat Peker

Già queste anticipazioni lasciavano intendere che Biden intendeva incentrare l’incontro con Erdogan sui diritti umani, sulla posizione di Ankara in Siria e sul futuro del sistema di protezione aerea S-400. Ovviamente molto probabilmente Erdogan avrà chiesto a Biden di sospendere il processo Halkbank. Un processo in cui è coinvolta quella banca statale all’interno di un grande progetto di riciclaggio di denaro, evasione fiscale e di aver ignorato l’embargo emesso nei confronti dell’Iran. Il processo in atto da quasi tre anni ha fatto sì che alcuni imputati dichiarassero apertamente con prove quanto il presidente della repubblica di Turchia fosse coinvolto in questo enorme scandalo. Si è scoperto successivamente come l’amministrazione Trump a seguito della richiesta di Erdoğan abbia fatto tutto il possibile perché questo processo procedesse a rilento.

Tutti e due gli alleati si sentono offesi e traditi, tutti e due posseggono delle carte importanti per ricattare l’altro e non sembra abbiano una determinata intenzione e volontà di fare un passo indietro. Però chi è uscito da una vittoria elettorale è Biden e chi risulta essere storicamente in una posizione molto debole è Erdoğan, dunque il 14 potrebbe essere stato un momento veramente importante e, all’interno di questo quadro molto particolare, le rivelazioni di Peker potrebbe avere inciso notevolmente per una posizione di difesa attendista da parte di Erdoğan. In conclusione va ricordato che sia Ankara che Washington tuttora si trovano come due alleati all’interno della Nato e Peker da un momento all’altro potrebbe essere arrestato.

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Global tax: come difendersi dalla Filibusta fiscale? https://ogzero.org/una-tassa-mondiale-per-gestire-la-globalizzazione/ Fri, 11 Jun 2021 11:19:01 +0000 https://ogzero.org/?p=3802 La proposta di introduzione di una tassa mondiale che sia gestita multilateralmente è uno dei tanti temi – insieme alla redistribuzione e all’impatto sociale della globalizzazione, all’ambiente e ai diritti dell’Uomo – trattati nell’osservatorio curato negli ultimi vent’anni da Alfredo Somoza, dal quale partiamo per sviluppare un nuovo progetto editoriale pubblicato nei primi giorni di […]

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La proposta di introduzione di una tassa mondiale che sia gestita multilateralmente è uno dei tanti temi – insieme alla redistribuzione e all’impatto sociale della globalizzazione, all’ambiente e ai diritti dell’Uomo – trattati nell’osservatorio curato negli ultimi vent’anni da Alfredo Somoza, dal quale partiamo per sviluppare un nuovo progetto editoriale pubblicato nei primi giorni di dicembre del 2021: “Siamo già oltre? La globalizzazione tra fake e smart”. I testi sono accompagnati nella versione digitale da una sezione audio con podcast di approfondimento dedicati, come questo che riassume degnamente il metodo espositivo adottato da Alfredo Somoza che mette insieme dialetticamente la catena di eventi che costituiscono la sua analisi geopolitica.


“La nuova mappa del tesoro sotto il permafrost”.


Governare la globalizzazione

Evento epocale o solo un primo passo? I giudizi sulla proposta di introdurre una global tax sui profitti aziendali che i ministri dell’Economia del G7 hanno presentato al G20 e all’Ocse sono diversi. Andando per ordine, da un lato è vero che si introduce il concetto di “tassa mondiale” prendendo atto, in grande ritardo, che la globalizzazione non può essere governata da un singolo stato ma deve essere gestita in modo multilaterale. E questo dato è senza dubbio epocale.

Pro e contro

Dall’altro lato, i critici mettono in discussione l’aliquota al 15% della tassazione, considerata un compromesso al ribasso rispetto al 21% proposto da Joe Biden. In effetti, il 15% si avvicina molto al 12,5% applicato dall’Irlanda, che è uno dei paesi con la tassazione corporate più bassa.

 

a proposito di “paradisi fiscali”, Alfredo già nell’aprile 2016 aveva trattato l’argomento nella sua rubrica interna al magazine “Esteri” di Radio Popolare:

“I forzieri della filibusta fiscale”.

 

Inoltre c’è da considerare che poi bisognerà trovare una formula che permetta di varare in contemporanea la stessa legge almeno nei 38 paesi dell’Ocse. Soprattutto, rimane aperta una questione tecnica di portata gigantesca che riguarda la soglia dell’area “no tax”. Nella sua formulazione attuale, infatti, la tassa si applicherebbe solo alle aziende con margini di profitto sopra il 10% rispetto al fatturato: una soglia che raramente le grandi multinazionali superano. Per esempio Amazon nel 2020, il suo anno “straordinario”, ha registrato un margine di profitto pari al 6,2%: ad anni luce dalla soglia minima. E le pochissime imprese che oggi superano la soglia del 10% lavorerebbero con i consulenti fiscali per “limarla”, così da restare nell’area “no tax”.

Il problema vero, quindi, non è l’aliquota del 15%, ma il fatto che i grandi gruppi – quelli che si vorrebbe colpire – raramente ufficializzano percentuali di redditività tali da far entrare in gioco la global tax, almeno così com’è prevista. Un pronostico semplice è che alla fine, se dopo il lungo iter questa proposta sarà approvata, i soldi veri che entreranno nelle casse degli stati dove le multinazionali producono reddito saranno molto pochi, quasi nulla. Eppure il segnale dato dal G7 è importante lo stesso, perché suona come una sorta di avvertimento ai grandi operatori economici. Soprattutto, è importante perché arriva dal paese che fino a pochi mesi fa, con la presidenza Trump, sabotava tutti gli organismi multilaterali e qualsiasi tentativo di intesa tra stati. Se gli Stati Uniti decidono che la globalizzazione va governata, ci sono buone chances che qualcosa succeda.

Il precedente inedito

Simbolicamente si segna un precedente inedito, che oggi vale per il fisco e domani potrebbe valere per l’ambiente, l’altro grande fronte sul quale l’azione isolata dei singoli stati non può portare ad alcun effetto. Anche sul cambiamento climatico poco si è fatto negli ultimi quattro anni perché gli Usa “negazionisti” di Donald Trump hanno boicottato qualsiasi iniziativa multilaterale. Uno scossone unitario su questo tema potrebbe, almeno a livello simbolico, far capire che si vuole voltare pagina anche qui. Per non parlare di democrazia e diritti umani, ma ora scivoliamo nell’utopia.

Comunque sia, la proposta del G7 sulla global tax non è “epocale”, ma nemmeno “poca cosa”. È un segnale di un nuovo approccio alla globalizzazione, accelerato dalla pandemia. Gli stati si sono indebitati, hanno finanziato la ricerca e acquistato apparecchiature mediche, hanno firmato contratti a scatola chiusa per miliardi di dosi di vaccini, si sono fatti carico dei lavoratori e delle aziende costrette alla chiusura: ora hanno bisogno di presentare il conto. Per necessità, si arriva a imporre regole fiscali anche a chi finora ne era stato esentato. Qualcosa che doveva succedere da tempo, ma che la pandemia ha reso urgente, fornendo alla politica l’alibi per riprendersi qualcuno dei poteri che aveva man mano abbandonati negli anni, e anche per recuperare il suo ruolo ridistributivo.

E della redistribuzione Alfredo si era già occupato nel 2018 a partire dalle teorie sulle diseguaglianze di Piketty; ma non solo relativamente alle redistribuzioni del reddito, perché il discorso si allarga alla Rivoluzione industriale legata all’Intelligenza Artificiale, alla robotica e al mondo del lavoro che va ripensato, in modo che i ricavi legati al lavoro dei robot vadano a creare la raccolta fiscale che assicuri il livello attuale di welfare:

“La chimera della ridistribuzione”.

 

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Lotte armate: il rapporto (freddo) tra il Kgb e gli “anni di piombo” https://ogzero.org/lotte-armate-e-kgb-negli-anni-di-piombo/ Mon, 07 Jun 2021 21:07:03 +0000 https://ogzero.org/?p=3773 La quarta puntata della serie dedicata da Yurii Colombo ai servizi di intelligence russi si incentra sul rapporto tra le lotte armate nel mondo e il Kgb nei cosiddetti “anni di piombo”. Anche per questo contributo è prevista una diretta streaming di approfondimento dei contenuti; in autunno, una pubblicazione in cui confluiranno testi inediti a […]

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La quarta puntata della serie dedicata da Yurii Colombo ai servizi di intelligence russi si incentra sul rapporto tra le lotte armate nel mondo e il Kgb nei cosiddetti “anni di piombo”. Anche per questo contributo è prevista una diretta streaming di approfondimento dei contenuti; in autunno, una pubblicazione in cui confluiranno testi inediti a cura dell’autore a completamento delle analisi proposte nel nostro sito in questi mesi. Presto tutti i dettagli.


Raf, Ira, Fplp

In molti si sono esercitati nel compito di verificare se tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta ci furono delle relazioni tra organizzazioni europee dell’estrema sinistra che praticavano la lotta armata e il Kgb; o addirittura potessero essere state eterodirette o controllate. Il materiale su cui tentare di capire cosa sia successo realmente resta però assai limitato se si vuole evitare ogni tipo di dietrologia o di operare solo su ipotesi fantasiose. Credibili, in buona parte, sono i materiali raccolti nel cosiddetto Archivio Mitrokhin, gli archivi della Stasi che sono stati resi disponibili da qualche anno e ben poco altro. Per quanto riguarda gli archivi sovietici, invece, questi restano ancora oggi in buona parte non disponibili ai ricercatori.

Su queste basi e su parte della memorialistica in circolazione è possibile sicuramente sostenere che per quanto riguarda la Raf tedesca (Rote Armee Fraktion, ai più conosciuta come banda Baader-Meinhof), il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (Fplp) di George Habash (sostanzialmente l’ala marxista dell’Olp negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso) e varie organizzazioni rivoluzionarie irlandesi che praticavano il terrorismo in Gran Bretagna ci furono rapporti con i servizi sovietici – per certi significativi – ma non furono comunque mai eterodirette o controllate dal Kgb.

Né col Sessantotto, né con le BR

Per quanto riguarda le Brigate Rosse o altri gruppi italiani che praticarono la guerriglia allo stato dell’arte non si può che confermare le tesi del principale dirigente delle BR nella fase di più ampio sviluppo dell’organizzazione, Mario Moretti, che ha sempre negato qualsiasi relazione con il Kgb o comunque con servizi dei paesi dell’Est Europa.

I limitati o inesistenti rapporti tra Urss e formazioni di estrema sinistra italiana che praticavano la lotta armata avevano del resto prima di tutto un fondamento politico. Gruppi come le Brigate rosse e affini in Europa erano sorti sul mito del “foco” guerrigliero latinoamericano che era stato contrastato nettamente dai partiti comunisti sudamericani legati a Mosca da sempre su posizioni moderate (al punto di giungere in Argentina perfino a sostenere la Giunta Videla). La simpatia dei gruppi della lotta armata europea andava in primo luogo piuttosto verso il maoismo, malgrado la freddezza di Pechino per qualsiasi ipotesi di lotta armata. Tale diffidenza era condivisa da Mosca che vedeva oltretutto questi gruppi come un ricettacolo di ribelli, omosessuali e tossicodipendenti sorti sostanzialmente sull’onda della controcultura e in seguito al Sessantotto.

Tuttavia soprattutto nella fase in cui alla testa del Kgb si trovò Yuri Andropov, dei rapporti effettivamente ci furono in particolar modo con i palestinesi e gli irlandesi e, in misura minore, con i tedeschi.

Palestina libera, Palestina rosso-bruna

Il principale agente operativo sovietico nel movimento palestinese a partire dal 1968-1969 fu Wadi Haddad, che era il vice di Habash e si occupava in primo luogo di azioni di diversione in Europa. Tutti i tre dirottamenti aerei organizzati dal Fplp nel 1970 furono realizzati sotto la direzione del Kgb secondo l’ex agente Mitrokhin, una rivelazione confermata anche dal dissidente Vladimir Bukovskij, nel suo documentatissimo Gli archivi segreti di Mosca. L’autorizzazione a sostenere Haddad, documentata da una serie di minute, fu data ad Andropov direttamente dal segretario del Pcus Leonid Breznev, che diede persino l’approvazione a realizzare per mezzo del Fplp il rapimento del vice ambasciatore americano in Libano dell’epoca. Furono consegnate all’uopo dal Kgb ai palestinesi 5 lanciagranate anticarro portatili Rpg-7, 50 pistole di produzione tedesco occidentale e 5000 munizioni; 50 mitragliatrici MG-21, 5 mitragliatori automatici Sterling di fabbricazione britannica, 50 fucili automatici americani AR-16 e 5 mine oltre che una limitata quantità di danaro.

L’operazione non andò poi in porto, ma ovviamente i palestinesi si tennero armi e soldi.

 

Tripoli 1977: Yasser Arafat, Muammar Gaddafi, Nayef Hawatmeh e George Habash.

You may bill the revolutionary, but never the Revolution

Andropov si dimostrò disponibile anche a dare una mano al movimento irlandese nell’Ulster. Il 6 novembre 1969 il segretario generale del Partito comunista irlandese, Michael O’Riordan, si fece latore all’allora capo del Kgb di una richiesta diretta di armi proveniente da Seamus Costello che dirigeva l’ala marxista dell’Irish Republican Army (Ira) che poi darà vita all’Ira Officials. L’operazione aveva un aspetto politico di lotta interna all’Ira dove i marxisti ortodossi sostenevano che i futuri e più celebri Provisionals non sarebbero stati in grado di condurre la lotta armata e la ribellione dell’Irlanda del Nord in modo coerente e alle sue estreme conseguenze rivoluzionarie. Dopo molti tentennamenti, nel 1972, Andropov decise di iniziare a consegnare agli Officials partite di armi. Secondo quanto riportato da Mitrokhin, «il 21 agosto 1972, Andropov presentò i dettagli del piano Splash al Comitato Centrale del Pcus, ovvero il piano per l’operazione di una spedizione di armi agli amici irlandesi», che prevedeva la consegna da parte dei servizi russi di armi all’Ira Officials, che Mosca considerava ancora sufficientemente marxista, nella prospettiva di una scissione dell’Ira che avverrà alla fine di quell’anno. Dopo l’approvazione del Partito, i cosiddetti “specialisti tecnici” del Kgb assemblarono una spedizione composta da due mitragliatrici, 70 fucili automatici, 10 pistole Walther, 41.600 cartucce, tutte di fabbricazione non sovietica. Inoltre, le pistole Walther sono state lubrificate con olio della Germania occidentale mentre gli imballaggi sono stati raccolti da diversi punti del mondo dagli agenti del Kgb.

«Mosca non voleva che le armi venissero rintracciate come proprie nel caso fossero cadute nelle mani delle forze di sicurezza britanniche», ha raccontato Mitrokhin.

Diverse ulteriori spedizioni di armi sovietiche all’Ira Official vennero fatte via mare, probabilmente fino alla fine degli anni Settanta quando i Provisionals ebbero infine la meglio nella lotta per l’egemonia nel movimento nordirlandese.

Della Stasi era il proiettile

Il rapporto tra Kgb e Raf fu invece assai più indiretto e si realizzò essenzialmente attraverso la Stasi. Sicuramente i vertici “benedirono” le relazioni dei servizi tedesco-orientali con la Raf, e avendo dei database informativi comuni con tutti gli altri servizi del Patto di Varsavia i russi erano sicuramente a conoscenza di quanto succedeva in Germania, tuttavia restarono comunque “freddi” con la guerriglia tedesca di estrema sinistra. Alla base c’era una riluttanza dei sovietici a sviluppare relazioni con un gruppo che comunque era sorto a partire da tesi vagamente marcusiane della Raf che consideravano la classe operaia tradizionale occidentale “imborghesita” e incapace di giocare un ruolo politico rivoluzionario, una tesi che per cultura politica era estremamente lontana dall’approccio del Cremlino.

I rapporti tra Stasi e Raf si svilupparono essenzialmente dopo la catastrofe del 1977 quando tutto il gruppo dirigente del gruppo armato trovò la morte nel carcere di Stammheim e in seguito varie azioni armate non andarono a buon fine.

Grazie ai servizi tedeschi di Berlino Est negli anni Ottanta la Raf fu in grado di avere una certa ripresa organizzativa anche se in un quadro politico per possibilità di reclutamento e sviluppo dell’attività armata ormai ridotto al lumicino dopo il riflusso dei movimenti giovanili degli anni precedenti in Europa.

Come ha riportato Mitrokhin comunque la Raf fu in grado prima di spegnersi di realizzare «nell’agosto 1981 un attentato con un’autobomba al quartier generale europeo dell’aviazione americana a Ramstein, nella Germania occidentale in cui restarono ferite diciassette persone; un mese dopo, i terroristi della Raf effettuarono un attacco missilistico senza successo a Heidelberg contro l’auto del generale Frederick Kroesen».

L’attentato a Ramstein nel 1981.

Durante il biennio 1984-85, la Raf tentò anche di far saltare in aria la scuola della Nato a Oberammergau, bombardò la base aerea americana di Francoforte e attaccò i soldati americani a Wiesbaden. La Stasi fu complice nell’attentato dei rivoluzionari tedesco-occidentali alla discoteca La Belle di Berlino Ovest, favorendo il trasporto degli esplosivi che uccisero un sergente americano e una donna turca e ferirono 230 persone, tra cui una cinquantina di militari statunitensi.

La dietrologia del Pci rivoltata contro se stessa

Per quanto riguarda le Brigate rosse, non sono mai state portate prove o indizi significativi di loro rapporti né con i servizi cecoslovacchi (di cui tanto si parlò a un certo punto) né con la Stasi né tanto meno con il Kgb. Durante la commissione parlamentare di inchiesta ad hoc che si formò non emerse di fatto nulla. La commissione lavorò essenzialmente sull’archivio Mitrokhin nella sua interezza (circa 6 casse di materiali) e sulla base di audizioni, ma le informazioni che riuscì a produrre furono assai scarse: non venne alla luce più di quanto si sapesse e cioè che probabilmente tra gruppi armati europei si parlò e si era a conoscenza di alcune relazioni di alcuni di essi con i sovietici; ma per quanto si è potuto appurare fino a oggi, le BR non ebbero alcun rapporto con servizi orientali. Recentemente l’ex presidente di quella commissione Paolo Guzzanti ha sostenuto che in Ungheria ci sarebbero le prove dei rapporti tra Urss e Brigate rosse ma l’ex deputato berlusconiano non è riuscito a produrre o a farsi consegnare alcun documento a Budapest che provasse le “relazioni pericolose”.

Inoltre Antonio Selvatici ha pubblicato un libro (Chi spiava i terroristi. KGB, STASI – BR, RAF. I documenti negli archivi dei servizi segreti dell’Europa «comunista») che prometteva molto dal titolo ma è risultato assai deludente. Anzi ciò che emerge dal libro è tutto il contrario di quello che si vorrebbe provare, ovvero lo stretto legame politico ed economico che il Pci mantenne con Mosca fino al 1991, il quale a tutto era interessato meno che allo sviluppo delle formazioni armate in Italia.

Berlinguer incontra Breznev nel 1973.

Che l’approccio del Pci fosse del resto ben poco accondiscendente verso la lotta armata anche sotterraneamente lo intendevano anche i brigatisti stessi. In un ampio documento di bilancio storico della loro attività, appena pubblicato da alcuni militanti delle BR, si afferma che «già alla metà degli anni Settanta il “nucleo storico” era giunto alla conclusione che “l’intera area socialimperialista”, cioè l’Urss e i suoi alleati – e i paesi non allineati –, fosse contraria allo sviluppo sul teatro europeo di un processo rivoluzionario armato che mettesse in discussione l’equilibrio tra i due blocchi» ed evidentemente non potesse aspettarsi aiuti particolari dall’Est europeo. Ciò è confermato dall’atteggiamento completamente passivo che il Kgb ebbe durante il periodo del rapimento Moro nel 1978. Sembra che Giorgio Amendola fosse preoccupato in quel periodo che potessero emergere relazioni tra BR e servizi cecoslovacchi ma anche qui non emerse mai niente di consistente.

Ciò che era noto a tutti invece è che esisteva una fronda “filosovietica” nel Pci guidata da Armando Cossutta e sostenuta in parte dal quotidiano “Paese Sera” che come emerge dall’archivio Mitrokhin, anche attraverso il Kgb, riceveva del denaro da Mosca.

All’atto pratico però si trattò sempre di “spiccioli”: 700.000 dollari nel 1985, 600.000 dollari nel 1986 e 630.000 dollari nel 1987. La corrente berlingueriana malgrado si lamentasse di possibili interferenze del Kgb e di altri servizi segreti orientali nella sua attività (come per quanto riguarda il caso del presunto attentato a Enrico Berlinguer a Sofia nel 1973 da parte dei servizi bulgari), in realtà anche dopo la propria adesione alla Nato e la denuncia del golpe in Polonia del 1981 mantenne stretti legami con Mosca, ben più importanti di quelli che poteva vantare la corrente Cossutta.

Nel 1983 in uno dei pochi documenti affiorati dagli archivi sovietici nei primissimi anni Novanta emerge che il Pci, malgrado le divergenze con Mosca, continuava a ricevere soldi dai russi a profusione: «Richiesta degli amici italiani. Incaricare il Ministero per il commercio estero (compagno [Nikolaj] Patolicev) di vendere alla ditta Interexpo (presidente, compagno L.[uigi] Remigio), sulla base commerciale abituale, 600mila tonnellate di petrolio e 150mila tonnellate di carburante diesel a condizioni di favore tali che, abbassando il prezzo dell’1% circa e dilazionando il pagamento di tre-quattro mesi, i nostri amici possano ricavare da questa operazione commerciale attorno ai 4 milioni di dollari», è scritto in un documento del Comitato centrale del Pcus reso pubblico una ventina di anni fa. Insomma se qualcuno fu aiutato in Italia dall’Urss fu chi, come il Pci, combatté strenuamente il brigatismo e non il contrario. A volte la dietrologia può fare veramente brutti scherzi.

Se interesse ci fu in Italia da parte del Kgb, fu soprattutto in relazione al ruolo che avrebbe potuto giocare – e che giocò – la Chiesa cattolica dopo l’elezione di Giovanni Paolo II a papa nel tentare di destabilizzare la situazione nei paesi socialisti e non solo in Polonia ma anche nelle zone sovietiche a maggior insediamento cattolico come l’Ucraina, la Bielorussia e la Lituania.

Giovanni Paolo II in visita in Lituania, sulla Collina delle Croci, nel 1993.

 

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Oltre i confini e nel cuore dell’Europa: il Kgb e la Guerra Fredda https://ogzero.org/influenza-dei-servizi-russi-il-kgb-fuori-dall-urss/ Fri, 23 Apr 2021 09:21:27 +0000 https://ogzero.org/?p=3220 Pubblichiamo la terza puntata della serie dedicata da Yurii Colombo ai servizi di intelligence russi. L’attenzione dell’autore questa volta si concentra sul rapporto tra il Kgb e la Stasi, sull’influenza dei servizi segreti russi sulla politica cecoslovacca, e  su come il Kgb cercò di condizionare le mosse di Nehru e Indira Gandhi. Non mancano accenni […]

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Pubblichiamo la terza puntata della serie dedicata da Yurii Colombo ai servizi di intelligence russi. L’attenzione dell’autore questa volta si concentra sul rapporto tra il Kgb e la Stasi, sull’influenza dei servizi segreti russi sulla politica cecoslovacca, e  su come il Kgb cercò di condizionare le mosse di Nehru e Indira Gandhi. Non mancano accenni alla figura di Harvey Lee Oswald e alla sua posizione rispetto ai sovietici e agli sviluppi che dopo l’uscita di scena di Kruscev portarono a una sorta di “pace sociale” durante la quale l’Urss dovette fare i conti con un ampio movimento di dissidenza. Questo articolo è accompagnato da una diretta streaming che sarà trasmessa domenica 2 maggio alle 18, appuntamento durante il quale Yurii Colombo ospiterà Brunello Mantelli per approfondire questo periodo storico in relazione all’attuale situazione politica (interna ed estera) russa.


Kgb e MfS: l’Accordo per la cooperazione

Da quando nel 2018 l’amburghese “Bild” ha pubblicato la tessera identificativa della Stasi del giovane Vladimir Putin (datata 1985) è ripreso il dibattito su quali fossero le relazioni tra Kgb e servizi tedeschi dopo la guerra.

La Stasi non ebbe infatti mai una reale autonomia organizzativa e politica anche se sarebbe riduttivo sostenere che fu una semplice struttura ausiliaria dei servizi del suo più “Grande Fratello”. Tuttavia a seconda delle fasi politiche e del suo  grado di sviluppo i servizi segreti tedeschi godettero della possibilità di operare in modo indipendente, soprattutto quando ciò concerneva l’attività sui pericoli interni. In particolare «la subordinazione del MfS  [acronimo dei servizi tedesco-orientali prima della riorganizzazione in Stasi, N.d.R.] si allentò un po’ a metà degli anni Cinquanta, quando il Pcus e il Partito comunista della Germania orientale, la Sed, cercarono di migliorare lo status della Repubblica Democratica Tedesca (Rdt) nel diritto internazionale. Nel 1957, i “consiglieri” sovietici assegnati al MfS furono ufficialmente ribattezzati “ufficiali di collegamento” e il 30 ottobre 1959 fu firmato un accordo ufficiale che regolò le relazioni tra il Kgb e il MfS», hanno precisato Walter Süß e Douglas Selvage. Successivamente L’Accordo di cooperazione tra il Kgb e il MfS del 1973 estese quello del 1959, citando gli obiettivi specifici della collaborazione come combattere la «sovversione ideologica», «scoprire e contrastare i piani ostili del nemico», «i preparativi immediati del nemico per l’attacco militare».

L’insurrezione operaia di Berlino (1953)

La questione di come gestire da parte sovietica una situazione incandescente e complessa come quella della Germania divisa in due stati indipendenti si pose in maniera urgente dopo gli eventi del giugno del 1953 quando erano dovute intervenire direttamente le truppe russe per stroncare a Berlino Est un’estesa insurrezione operaia.

L’insurrezione operaia di Berlino nel 1953

Secondo Andrew e Gordevskij nella loro classica storia del Kgb, a Mosca un tale disastro d’immagine per un paese che si proclamava socialista era stato principalmente «dovuto al caos prodotto dalla riorganizzazione del ministero degli Interni tedesco» (è noto che Beria, avesse una pessima opinione degli alleati tedesco-orientali al punto che in una riunione si spinse a darne una valutazione sarcastica: «La Rdt? Che cos’è questa Rdt? Non è nemmeno un vero stato. Sono le truppe sovietiche a tenerla in piedi», ricordò in seguito un Andrey Gromiko ancora in erba).

Cia e Kgb nel cuore dell’Europa

Da allora in poi – e soprattutto dopo  la decisione di Nikita Kruscev di costruire il muro che divise Berlino tra il 1961 e il 1989 – la Germania occidentale e quella orientale divennero nel cuore dell’Europa il ring per eccellenza in cui Cia e Kgb si scontrarono con maggiore accanimento.

Nel luglio 1954 Otto John, il capo del servizio di sicurezza della Rft, il Bundesamt für Verfassungsschutz (BfV), scomparve da Berlino Ovest. Riapparve pochi giorni dopo in una conferenza stampa in Germania orientale nel corso della quale denunciò la «rinascita del nazismo nella Germania Ovest», una defezione gravissima dal punto di vista dell’immagine ancora di più delle informazioni che avrebbe presumibilmente fornito al governo di Walter Ulbricht. Personaggio instabile, John poi nel 1955 tornò a Bonn sostenendo che era stato drogato da Wolfgang Wohlgemuth, un medico del Kgb, cosa che però non impedì comunque ai giudici di condannarlo a quattro anni di detenzione. La talpa tedesco-occidentale più produttiva dei sovietici fu però Heinz Felfe che, nel 1958, divenne capo della sezione sovietica del servizio di controspionaggio dei servizi tedesco-occidentali. Felfe riuscì per molti anni a fornire al quartier generale del Kgb nella zona di Karlshorst a Berlino Est, le copie di quasi tutti i documenti importanti dei servizi tedeschi. Come nei migliori romanzi del genere, i rapporti urgenti venivano trasmessi via radio, il resto seguiva in doppi fondi di valigie, in pellicole nascoste nelle scatolette di alimenti per bambini e poi veniva depositato in posti convenuti o inviati tramite un corriere. Secondo la Cia i danni provocati da Felfe alle strutture di spionaggio della Germania Ovest furono enormi.

Guillaume, la talpa che mandò in crisi Brandt

Un’altra talpa importantissima per i russi fu Günther Guillaume, figlio di un medico tedesco che aveva curato e nascosto in casa il socialista Willy Brandt, quando era stato braccato dalla Gestapo. Nel 1955, Guillaume, istruito dai russi, scrisse a Brandt allora sindaco di Berlino Ovest, chiedendogli di dare una mano a suo figlio che era oggetto di discriminazione in Germania orientale. Fin dal primo incontro Brandt si affezionò a Günther e si sentì in dovere di aiutarlo. Nel 1956 Guillaume e sua moglie, ambedue agenti dei servizi orientali, furono accolti in Germania occidentale come profughi politici. Nel giro di pochi anni furono assunti entrambi a tempo pieno come funzionari del partito socialdemocratico tedesco (Spd). L’ascesa al potere di una coalizione diretta dall’Spd, con Brandt come Cancelliere, nel 1969, offrì a Guillaume un’occasione straordinaria: diventare suo segretario alla Cancelleria di Bonn. Nel gran numero di informazioni ad alto livello che Guillaume poté fornire ai servizi tedeschi e, tramite questi al Kgb, vi furono le istruzioni dettagliate per la nuova Ostpolitik della Rft, che tentava di stabilire allora i primi contatti ufficiali con la Rdt e gli altri stati oltrecortina. Lo scandalo causato, nel 1974, dalla scoperta del vero ruolo di Guillaume fu così grave da provocare una grave crisi politica e le dimissioni dello stesso Brandt.

influenza dei servizi segreti russi

Günther Guillaume e Willy Brandt

“L’offensiva delle segretarie”

Guillaume fu la punta di diamante di una massiccia incursione di talpe tedesco-orientali nella Repubblica Federale. Un disertore dei servizi tedesco-orientali ha calcolato che nel 1958 vi fossero oltre 2000 agenti infiltrati in varie strutture dello stato tedesco occidentale e il loro  numero costantemente si accrebbe negli anni Sessanta e Settanta. Uno dei maggiori strumenti strategici dei servizi di Berlino Est per  infiltrarsi negli apparati statali di Bonn fu la cosiddetta “offensiva delle segretarie” ideata a Mosca dagli uffici esteri del Kgb. Una serie di agenti della Germania comunista infatti riuscirono a sedurre delle impiegate governative di Bonn che avevano accesso a informazioni riservate. Una delle principali vittime di questa iniziativa, fu Irmgard Römer, quarantenne, segretaria al ministero degli Esteri, che si occupava delle comunicazioni con le ambasciate all’estero. Ella fornì copie in carta carbone a Carl Helmers, un agente della Hauptverwaltung Aufklärung (Hva, l’agenzia tedesco-orientale per lo spionaggio all’estero) a cui, dopo l’arresto, fu affibbiato il soprannome di “Casanova rosso”. Nei vent’anni successivi il suo ruolo fu svolto con successo anche maggiore da altri “Casanova rossi” inviati da Markus Wolf, il vicedirettore della Hva nella “Germania capitalista”.

Markus Wolf

La tattica dell’“offensiva delle segretarie” continuò con ottimo risultati ancora a lungo.

Nel 1967 Leonore Sütterlein, impiegata al ministero degli Esteri di Bonn, fu condannata per avere consegnato, tramite suo marito Heinz, 3500 documenti segreti al Kgb. La vicenda si concluse tragicamente: quando Leonore scoprì che Heinz era un agente dello spionaggio russo e l’aveva circuita soltanto per assicurarsi la sua collaborazione, si suicidò in carcere. Altre segretarie vennero condannate come spie dell’Hva, nella prima metà degli anni Settanta, fra cui Irene Schultz, funzionaria del ministero delle Scienze, e Gerda Schröte, impiegata dell’ambasciata tedesco-occidentale a Varsavia. Anche alcuni funzionari della Spd finirono in quell’epoca per incontrarsi regolarmente con un ufficiale del Kgb operante sotto copertura diplomatica, convinti che il fornire informazione su quanto succedeva ad Ovest potesse spianare la strada della Ostpolitik.

Il Kgb in Usa: l’ombra su Oswald

Contemporaneamente l’attività del Kgb procedeva anche negli Usa. Non è un caso che sul misterioso caso dell’omicidio di John F. Kennedy – malgrado non sia l’ipotesi principale – si stenda ancora oggi l’ombra che un qualche ruolo nel piano ideato da Lee Harvey Oswald sia stato giocato dai servizi russi. Nel 2017 il governo americano ha declassificato un’ingente quantità di documenti (circa 3000) relativi all’assassinio nel 1963 del presidente Kennedy in cui sono emerse prove di contatti tra Lee Harvey Oswald e gli ufficiali dell’intelligence sovietica in Messico, due mesi prima dell’omicidio. Secondo i documenti Usa uno di quegli ufficiali, Valery Kostikov, avrebbe avuto una lunga telefonata con Oswald qualche settimana prima dell’attentato.

La notizia che Kostikov fosse stato in relazione con Oswald è assai curiosa visto che quest’ultimo aveva rotto formalmente le relazioni con l’Urss al momento di lasciare l’Unione Sovietica l’anno precedente.

Oswald infatti dopo aver chiesto asilo politico in Urss, aveva vissuto e lavorato a Minsk tra il 1959 e il 1962, e perfino sposato una cittadina della capitale bielorussa prima di richiedere al governo sovietico di poter rientrare in Usa (e sorprendentemente avere tale deroga senza problemi) dove ebbe ancora rapporti saltuari con formazioni della sinistra americana.

influenza dei servizi segreti russi

Lee Harvey Oswald, foto del 1959 che forniscono diverse versioni della sua immagine, messe a confronto in una ricostruzione di Jack White per la John F. Kennedy Assassination Collection, University of Texas at Arlington Libraries – Identifier: 2012-043.

L’intelligence e la crisi politica di Praga

Dal punto di vista dell’intelligence, qualche anno dopo all’interno del quadro dei “rapporti fraterni di internazionalismo” tra stati socialisti  ebbero grande importanza gli avvenimenti in Cecoslovacchia nel 1968, dove venne sospesa la norma che vietava al Kgb lo spionaggio all’interno dei paesi aderenti al Patto di Varsavia. Il generale Alexander Kotov, consigliere capo del Kgb a Praga, sospettando che presto sarebbe stato necessario entrare in azione, ottenne qualche tempo prima dell’invasione, da Josef Houska esponente della “linea dura” dei servizi cecoslovacchi, copie delle fotografie di tutti gli ufficiali del servizio di sicurezza. Tuttavia malgrado poi venissero spedite a Praga alcune decine dei migliori agenti sovietici per gestire la crisi politica, la struttura stessa dell’organizzazione comunista non fu in grado di operare al meglio perché non in grado di capire quanto stesse avvenendo, cogliendo nei riformatori di Dubcek solo dei “pericolosi controrivoluzionari”. Secondo alcuni storici russi come Rudolf Picharya furono proprio le informazioni eccessivamente allarmistiche sui “complotti  imperialisti” di Yuri Andropov allora a capo del Kgb, a far propendere l’ago della bilancia di un incerto Politiburo verso l’intervento dell’agosto.

influenza dei servizi segreti russi

L’invasione di Praga da parte dei sovietici nel 1968

Per ironia della storia secondo Gordevskij «nel corso dell’invasione, il Kgb operò meno bene dell’Armata Rossa. I suoi reparti armati, che accompagnavano le forze regolari sovietiche con il compito di eseguire operazioni del tipo Smers per identificare e neutralizzare l’eventuale opposizione controrivoluzionaria, erano male addestrati e furono poco efficienti».

Chandra ed Erokin: la politica russa in Asia meridionale

Il paese dell’allora cosiddetto “Terzo Mondo” in cui il Kgb finì per investire i maggiori sforzi fu l’India non tanto al fine di spiare un paese che per lungo tempo fu molto vicino all’Urss (una vera e propria bilancia tra gli appetiti russi, americani e cinesi) sia ai tempi di Nehru sia in quelli di Indira Gandhi, ma al fine di tentare di condizionarne le mosse.

La figura di maggiore spicco nell’organizzazione dei “fronti” sovietici durante l’era di Breznev fu il comunista indiano Romesh Chandra, il cui entusiasmo per la causa sovietica risaliva ai tempi in cui aveva studiato all’Università di Cambridge.

Alla fine degli anni Sessanta egli spinse Breznev a fare dei rapporti speciali con l’India la base della propria politica nell’Asia meridionale.

I successi sembra furono tali che Dmitry Erokin, l’uomo di punta dei servizi russi a Nuova Delhi, tornò a Mosca nel 1970, con una promozione che fece di lui il più giovane maggior generale del Kgb in attività. Malgrado ciò, più recentemente l’India ha iniziato a guardare agli Usa come principale partner internazionale, anche se ancora oggi i rapporti tra Putin e Modi sono ottimi soprattutto in alcuni settori strategici come quello energetico e militare.

“Pace sociale”, dissidenti e oppositori

Sul piano interno dopo l’uscita di scena di Nikita Kruscev e l’ascesa della “direzione collegiale” brezneviana si assistette alla più lunga fase di controllo sociale e di gestione dell’ordine pubblico più moderata e pacifica di tutta la storia sovietica e il ruolo del Kgb si limitò quasi al livello della routine. Tale “pace sociale” fu la conseguenza prima di tutto di una crescita economica e del tenore di vita significativo un po’ in tutta l’Urss. Il problema centrale per il Kgb restò il movimento della dissidenza. Secondo una valutazione degli stessi servizi sovietici, alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, nel paese esistevano circa 8,5 milioni di oppositori o potenzialmente tali. Si trattava di una stima al contempo esagerata e riduttiva: questi settori della società erano, è vero, solo del 5% della popolazione adulta del periodo, ma anche quelli a più alto grado di formazione intellettuale. Questa caratteristica rendeva questi strati sociali poco propensi a organizzare attività violente e illegali e i servizi si limitarono per molti anni a gestire il problema spedendo in esilio, al confino o negli ospedali psichiatrici i suoi più riottosi rappresentanti di cui l’accademico Andrey Sakharov fu il più celebre (curioso il caso dello scrittore Eduard Limonov che sostenne al suo rientro in Russia negli anni Novanta, dopo esserne stato espulso nel 1975, di essere uscito dal paese in qualità di agente Kgb).

Bibliografia consigliata
  • Il Wilson Center ha pubblicato un’interessante selezione di documenti riguardanti la relazione tra servizi sovietici e tedesco-orientali durante la Guerra Fredda consultabili sulla sua pagina web.
  • David E. Murphy, Sergei A. Kondrashev, George Bailey, Battleground Berlin: CIA vs. KGB in the Cold War, London, Yale University Press, New edition, 1999.

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La guerra cambia https://ogzero.org/la-guerra-cambia-o-no/ Wed, 14 Apr 2021 07:14:44 +0000 https://ogzero.org/?p=3072 Blinken annuncia per il September/Eleven 2021 la fine del conflitto più lungo nella storia degli Usa. Con il ritiro degli ultimi 2000 boots on the ground dall’Afghanistan si concludono vent’anni di guerra che sono costati più di 100.000 morti civili e qualche migliaio di combattenti solo nel conflitto afgano. Dove sono stati utilizzati massicciamente quei […]

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Blinken annuncia per il September/Eleven 2021 la fine del conflitto più lungo nella storia degli Usa. Con il ritiro degli ultimi 2000 boots on the ground dall’Afghanistan si concludono vent’anni di guerra che sono costati più di 100.000 morti civili e qualche migliaio di combattenti solo nel conflitto afgano. Dove sono stati utilizzati massicciamente quei militari professionali appartenenti ad agenzie che forniscono servizi, anche e soprattutto bellici (ma pure logistici) in ogni situazione di conflitto: i “contractor”, quei prezzolati che seguono regole di ingaggio specificate nei contratti – spiegati con precisione da Stefano Ruzza nel video inserito nell’articolo – stipulati anche con governi, che non si possono permettere le “spese” di una guerra o di apparire come invasori. “La guerra cambia” è il titolo di questo splendido contributo di Eric Salerno, che descrive il mondo di questi militari di professione a partire da una sua intervista di sessant’anni fa a un soldato di ventura tedesco, impegnato nell’operazione coloniale contro il Congo di Lumumba… e così si insuffla il dubbio che la trasformazione della forma in cui si presenta la “Guerra” sia reale. Il discorso poi si dipana in giro per tutto il mondo e in ogni guerra più o meno dichiarata, mentre in parallelo scorrono racconti e figure inquietanti del passato, come il racconto dell’incontro vecchio di 50 anni di Roman Gary con un ex agente dell’Oas impazzito nella sua tana a Gibuti. E allora il dubbio su quanto sia cambiata la guerra diventa certezza in questa carrellata degna di Ermanno Olmi e del suo Il mestiere delle armi… che non cambia mai a dispetto di quanto sia cangiante l’idea di guerra.


Mercenari, legionari, contractors e… droni

La verità sulla morte di Lumumba

«I am a mercenary coming from the Congo. I want to tell you how Lumumba was killed». Così Gerd Arnim Katz – il suo nome dichiarato – si presentò alla redazione di “Paese Sera” una mattina del febbraio 1961. Ascoltai la sua storia (in parte vera in parte fantasia) e il quotidiano romano di sinistra uscì con un titolo a piena prima pagina sulla morte del leader africano, trucidato per ordine della Cia. Katz era una pedina minore in un campo di battaglia vasto come sta tornando a essere l’Africa di oggi.

"Paese Sera" - 23 e 24 febbraio 1961

Intervista a Gerd Arnim Katz, testimone dell’assassinio di Patrice Lumumba nella sede di “Paese Sera”

Non era certo un Mike Hoare, il più celebre dei mercenari del Novecento, che nel 1964 ebbe da Moise Ciombe, presidente dell’autoproclamato stato di Katanga, una provincia del Congo, l’incarico di reprimere la rivolta dei Simba, un esercito popolare di liberazione di ispirazione maoista che era riuscito a conquistare l’importante città di Stanleyville, prendendo in ostaggio oltre 1500 cittadini europei. E tanto meno poteva, quel mercenario approdato al quotidiano romano, essere paragonato a Rolf Steiner, ex legionario, ex capo dei mercenari in Biafra, ingaggiato come consulente militare dai ribelli cristiani Anya Nya impegnati con l’aiuto del Mossad israeliano nella guerra secessionista nel Sudan meridionale e finito in carcere dopo un lungo processo a Khartoum.

Legionari resi folli dall’inaccettabile fine dell’impero coloniale…

Katz fu, però, il primo di non pochi soldati di ventura che incontrai nei miei giri per l’Africa e altrove dove oggi, nel continente nero come nel resto del mondo, la guerra sta assumendo nuove forme e impiega nuovi-vecchi attori. I mercenari si chiamano contractors (suona meglio) ma spesso sono quelli di sempre; i drone operators si chiamano piloti anche se stanno seduti per ore davanti a uno schermo ben distante dal campo di battaglia. I fanti del prossimo futuro sono robot sofisticati come quelli di cui leggevo da bambino nei racconti di fantascienza di Isaac Asimov o Ray Bradbury. La guerra cambia. «In meglio!», asserisce chi ha investito nella nuova faccia del military-industrial complex, come lindustria degli armamenti o, diciamo, della guerra fu definita dal generale poi presidente degli Usa Eisenhower. «In peggio!», sostengono coloro che trovano difficile pensare a un robot o a un pilota della nuova generazione e tanto meno all’amministratore delegato di una società, che offre manodopera armata come se fossero colf, badanti o operatori del sesso, trascinato sul banco degli imputati per crimini di guerra.

Il mercato del lavoro a disposizione del quale si era messo quel Katz con cui parlai sessanta anni fa era ben diverso da ciò che offre il mondo d’oggi. All’epoca molti sbandati o pregiudicati come lui trovavano spazio nella vecchia Legione straniera francese, una specie di esercito parallelo a quello ufficiale di Parigi, formalmente sottoposto alle medesime regole di comportamento ma, come si vide nelle sue avventure in Vietnam o in Algeria, molto più elastico, per usare un eufemismo, nel trattamento del nemico.

Imaginez le drapeau tricolore sortant de ce nulle part. Un autre traîne sans vie au-dessus dune tour de guet que je reconnais immédiatement: cest celle des postes isolés en territoire viet. Une cabane de pierres entassées et autour Eh bien, oui: des sacs de sable contre les balles et une mitrailleuse qui pointe

Vous ne me croyez pas. Tant mieux. Je garderai mieux pour moi cette pierre qui brille de tous les éclats dune belle et pure folie Un homme vit là-dedans depuis six ans: lex capitaine Machonnard. Je dix ex: privé de son grade pour son action dans lOas. Devenu fou: cest ainsi quon appelle ceux qui ne peuvent se faire à la réalité. Un an dinternement. Un Homme pur qui le temps sest arrêté et ne se remettra plus jamais en marche : vous comprendrez dans un istant

Le capitaine sort une bouteille de champagne de sa serviette.

– Pour célébrer la victoire de Dien Bien Phu

[…]

Car, vous lignorez peut-être, mais Machonnard vous le dira : lIndochine et lAlgerie sont toujours françaises, le général Salan est président de la République, dans tout lAfrique  française les enfants noirs continuent à apprendre en chœur les premières lignes dIsaac et Malet : «Nos ancêtres les Gaulois avaient de longues moustaches blondes…»

(Roman Gary, Les Trésors de la mer Rouge, Gallimard-Folio, Paris, 1971)

… e i crimini incarnati in una figura di mercenario

Rolf Steiner

Ritratto di un mercenario realizzato da Eric Salerno il 21 agosto 1971 per “Il Messaggero”

Le nuove compagnie di ventura

Oggi la legislazione a livello internazionale distingue tra i mercenaries – tutti fuorilegge – e i contractors, ossia dipendenti delle numerose società private o semigovernative che operano saltellando da un conflitto a un altro. Certamente l’esempio più clamoroso risale ai momenti più caldi delle guerre in Iraq e in Afghanistan quando gli Usa impiegarono oltre 260.000 di questi contractors, in gran parte ex militari o ex agenti di polizia. Spesso erano più dei militari stelle e strisce schierati nei due fronti. I loro compiti andavano dalla costruzione delle basi e dei campi rifugiati al servizio mensa e al mantenimento delle armi; dalla sicurezza degli impianti a quella dei diplomatici. E anche all’interrogatorio dei detenuti non sempre condotto con il rispetto delle convenzioni internazionali sul trattamento riservato ai prigionieri di guerra.

I due fronti, afgano e iracheno, sono ancora vitali per l’industria militare (anche come testing ground per armi e sistemi) e ai contractors Usa si sono aggiunti molti altri. La famosa – o infame – Blackwater fondata nel 1997 da Erik Prince, un ex Navy Seal con un grande patrimonio di famiglia fu costretta a cambiare nome nel 2011 dopo numerosi scandali che coinvolgevano loro operativi e almeno un processo. L’incidente più clamoroso risale al 16 settembre 2007 quando a Baghdad 17 iracheni, di cui almeno 14 civili, rimasero uccisi dal fuoco dai contractors della compagnia militare privata: la Blackwater ora si chiama Academi. Ed è sempre la prima per importanza di un lungo elenco.

Erik Prince

Forze militari in affitto: Erik Prince, fondatore della Blackwater-Academi

Dall’altro lato di quella che era la cortina di ferro negli anni della contrapposizione Usa-Urss, gli fa concorrenza la misteriosa Wagner Group, una organizzazione paramilitare che secondo alcuni farebbe capo al ministero della difesa di Mosca. Formalmente, per quanto si riesce a capire, è di proprietà di un uomo d’affari (Yevgeny Prigozhin) con legami con il presidente russo Putin. Seppure a distanza (relativa) quelli di Academi e di Wagner si scontrano-sfiorano nel vasto, complicato, scacchiere della guerra in Siria la cui popolazione, peraltro, è diventata un grande serbatoio di reclutamento di mercenari. Il gruppo privato russo li usa sia nei conflitti indiretti non solo in Siria ma anche nella guerra in Donbass in Ucraina e in Libia. E secondo molte fonti anche in Sudan, Repubblica centroafricana, Zimbabwe, Angola, Madagascar, Guinea, Guinea Bissau, Mozambique e forse nella Repubblica democratica del Congo.

Sudan 1971

Mercenari già allora russi nel conflitto sudanese 1971 in un articolo di Eric Salerno per “il Messaggero” del 21 giugno 1971

Un altro esercito di mercenari (soprattutto ma non solo siriani) è quello creato dalla Turchia nel quadro dei suoi progetti egemonici. Almeno quattromila sono in Libia e altri furono utilizzati da Ankara a sostegno dell’Azerbaijan nel conflitto con gli armeni sul Nagorno-Karabakh. Questi i grandi attori ma non gli unici. Gli Emirati si sono serviti di mercenari provenienti dalla Colombia (addestrati dagli Usa) e da alcuni stati africani per la loro guerra a fianco dell’Arabia saudita in Yemen. Rifugiati afghani furono utilizzati dall’Iran in Siria a fianco di Assad. Lo stesso Gheddafi reclutava mercenari nei paesi africani a sud della Libia.

Mercenari subsahariani di Gheddafi

Gheddafi reclutava mercenari nelle zone dell’Africa subsahariana.

Milizie private, dunque, milizie al servizio di stati che cercano di nascondere il loro coinvolgimento ufficiale nei conflitti oppure ridurre-nascondere l’impatto economico o in termini di costo umano delle imprese volute dai rispettivi governi. Ma a parte queste considerazioni che riguardano la legalità dei contractors rispetto alle convenzioni internazionali viene da chiedersi cosa faranno questi mercenari quando non serviranno più ai loro committenti. Dove andranno a lavorare? Per chi?

Nuovi prodotti bellici e nuova carne da cannone

Quando l’industria della guerra riuscirà a sfornare i suoi nuovi prodotti quei mercenari sfruttati e mandati al macello non serviranno più. Nei campi di battaglia attuali si sperimentano gli eserciti del futuro. Stati Uniti, Russia e Israele sono all’avanguardia nello sviluppo di Sistemi d’Arma Autonomi Letali (Laws) che consentiranno di togliere gli esseri umani dai campi di battaglia. Recentemente uno dei responsabili del ministero della difesa di Londra si è detto convinto che nel giro di pochi anni il grosso delle forze armate del suo paese sarà rappresentato da robot-fanti in grado di uccidere in base all’input della loro intelligenza artificiale. Si parla di un’autonomia – con tutto quello che implica anche dal punto di vista legale – superiore a quella dei droni-suicida già operativi come l’Harop israeliano usato dall’Azerbaijan ripreso mentre distruggeva una batteria anti-missile russo in Armenia.

Harop Drone

Il drone suicida di fabbricazione israeliana Harop è utilizzato in ogni scenario di guerra

E qui vale la pena tornare ai contractors, a quanto possono essere considerati responsabili delle loro azioni e del controllo sui mezzi autonomi. Oggi mantenere in azione per 24 ore una pattuglia di droni armati Predator e Reaper delle forze armate americane richiede la “presenza” di 350 esseri umani molti dei quali dipendenti delle società militari private. La legislazione introdotta per
regolamentare il comportamento dei contractors Usa viene considerata da molti esperti di diritto internazionale insufficiente.

Negli altri stati che si servono di personale civile (non necessariamente cittadini di quei paesi) per operazioni militari la questione è ancora più complessa e controversa. E ci mette di fronte al futuro, quello in cui si vorrebbe affidare a un algoritmo il compito di cercare, identificare e uccidere il bersaglio giusto (umano o non) in un campo di battaglia complesso alla presenza di civili non combattenti. «Non bisogna dare retta a coloro che garantiscono che queste armi saranno intelligenti», il commento preoccupato di Noel Sharkey, presidente del Comitato internazionale per il controllo delle armi robotiche. Altri come lui sottolineano come queste nuove tecnologie sono tutte soggette a hacking e dunque possono sfuggire al controllo del committente. Un tentativo di studiare il fenomeno e creare una serie di regole d’uso è stato compiuto dal Sipri (2020). «Vi sono imperativi legali, etici e operazioni per il controllo umano dell’uso della forza e, dunque, sui sistemi di armamenti autonomi», si legge nelle conclusioni di Limits on Autonomy in Weapon Systems. Identifying Practical Elements of Human Control.

Tutto questo per quanto riguarda il mondo, diciamo, delle Nazioni disposte ad assumersi le proprie responsabilità in tempo di guerra. Pochi, finora, hanno voluto addentrarsi nel reame sempre più fluido dei conflitti per procura e degli eserciti di mercenari. Per non parlare del mondo parallelo della criminalità organizzata che oggi ancora più di ieri attinge al vasto mercato libero delle armi siano convenzionali che del futuro. Droni di fabbricazione israeliana sono stati segnalati sia nelle mani della polizia messicana che a disposizione dei grandi cartelli dei narcotrafficanti (trasporto di cocaina e altro). E le stesse organizzazioni si fronteggiano spesso grazie ai servizi di società private (molte di quelle israeliane formati da ex delle forze armate e dei servizi segreti sono sotto inchiesta a Tel Aviv) capeggiate da esperti nel mondo della cibernetica e dell’Intelligenza artificiale.

Paramilitari in Mexico

 

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Materia della rete – rete della Materia https://ogzero.org/la-perenne-trasformazione-della-terra/ Tue, 30 Mar 2021 22:48:19 +0000 https://ogzero.org/?p=2764 Geopolitica materialistica Preludio Intelligenza artificiale, Commercio Elettronico, Smart City, Deep Learning, Clouds… sono tra le più diffuse metafore impiegate nel sistema tecnologico. Impalpabili, eteree, quasi spirituali. Come tutte le metafore un po’ illuminano, un po’ nascondono. Come nella lingua del marketing, sottolineano aspettative e oscurano realtà. È più la nebbia che la trasparenza. Se si […]

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Geopolitica materialistica

Preludio

Intelligenza artificiale, Commercio Elettronico, Smart City, Deep Learning, Clouds… sono tra le più diffuse metafore impiegate nel sistema tecnologico. Impalpabili, eteree, quasi spirituali. Come tutte le metafore un po’ illuminano, un po’ nascondono. Come nella lingua del marketing, sottolineano aspettative e oscurano realtà. È più la nebbia che la trasparenza. Se si scende dalla metafora per approssimare una definizione attendibile di ciascuna si precipita in un marasma semantico. Se dico tecnologie digitali, mi viene un’immagine che si smaterializza seduta stante. Un mondo virtuale mi appare alla mente, non il potenziale, il possibile, da secoli suggerito dal greco Aristotele, ma l’incorporeo, l’immateriale, ciò che è sconnesso dalla materia (bruta).

Contribuiscono alla dematerializzazione almeno due processi:

1] la miniaturizzazione incalzante dei dispositivi ha cambiato la nostra percezione in modo tale che la materialità o, se vogliamo, la fisicità, è diventa spettrale e i suoi rapporti col potere si sono eclissati. Questo lo sosteneva già trent’anni fa Donna Haraway [pag. 153].

2] mentre noi siamo sempre più tracciati, osservati, analizzati, resi visibili, visitabili e mercanteggiabili, si va esponenzialmente oscurando la tangibile durezza della nascita, vita e morte dei congegni digitali, degli apparati e delle reti.

È un’operazione quasi magica, meraviglia numinosa, che avvicina la tecnica alla religione o, almeno, al vangelo del nostro tempo.

 

Si può rendere riconoscibile il complesso industrial-digitale in cui siamo immersi?

Materie prime e seconde, forza lavoro (corpi, esistenze), produzione, conflitti, politica, economia.

Nelle righe che seguono, qualche spiraglio.

Dalla Terra

Una cosa buona | è che la roccia | può accucciarsi nel palmo | della mano, e sentire | i segni precari | dell’incisione nettissima, |
taglio, abisso, o quel che | costò anche alla roccia la sua | esistenza, come massa, anelante | concentrazione
Douglas Messerli, 1998 [trad. Federica Santini]

È un ciclo dalle molte ramificazioni.

La tecnologia in genere e quella digitale in modo speciale – Internet e web – praticano una dieta onnivora. Si nutrono di molti tipi di minerali, faticano a farsi bastare la tavola periodica degli elementi.

Qui le metafore scarseggiano. La lingua si fa meno evanescente e allusiva:

3TG [Tin/stagno, Tantalio, Tungsteno, Gold/oro], Conflict resources / Strategic minerals,
CRW [Critical Raw Minerals / Materials-Materie Prime critiche], Terre Rare / REE.

Queste ultime non sono per niente rare, soprattutto in Cina, che ne detiene i due terzi mondiali. Si chiamano così perché in passato si pensava fossero presenti solo in pochissimi minerali. Non ci sono però giacimenti di terre r. perché sono “incastonate” in altri minerali a bassissime concentrazioni. A leggere sulla tavola periodica le canoniche 17 terre r. le diresti battezzate dal principe De Curtis alias Totò: Europio, Gadolinio, Promezio, Tulio, Lutezio, Disprosio, Neodimio, Praseodimio

La perenne trasformazione della Terra

La geopolitica degli elementi: Terre rare

I minerali catalogati come conflict/ strategic/ critical vengono affannosamente ricercati per mezzo dell’esplorazione dei territori, che è il primo passo del ciclo. Spesso si traduce nell’esproprio/acquisto di terre e nell’allontanamento di popolazioni. Non semplice perlustrazione. Scavi, sbancamenti, perforazioni, prospezioni, trivellazioni, deforestazioni. Geologia e imperialismo sono sempre andati a braccetto.

Il secondo passo è l’estrazione, impresa molto più complessa di quanto dica la parola. Si tratta di separare gli elementi tra di loro, che mai si presentano allo stadio puro, ma solo come sottoprodotti. E poi raffinarli. Per farlo si richiedono macchinari ad alta tecnologia o il palmo della mano, oltre a solventi di grande potenza che si trasformano in grandi inquinatori dei suoli e delle falde acquifere. I minerali in questione non sono rinnovabili.

Tutta la Terra è una silicon valley, essendo il silicio l’elemento più diffuso, dopo l’ossigeno, ma in sregolata e inquietante riduzione. Prima di diventare il centro operativo di un computer in forma di chip o di cella solare di un pannello fotovoltaico deve tuttavia subire trattamenti molto diversi fra di loro, impegnativi industrialmente ed economicamente.

Dietro al silicio, alla columbite/tantalite nota come coltan, dietro allo stagno, al litio e alle altre sono incastrate:

  • aziende piccole e multinazionali, che raffinano, producono, assemblano, forniscono, distribuiscono;
  • mercati legali, illegali e così così;
  • persone vive, cioè forza lavoro formale, informale, manageriale, a lavoro coatto, indentured dicono gli anglosassoni, a servitù e paraschiavistica;
  • sfruttamenti estremi e ricchezze smisurate;
  • listini di borsa, banche, criptomonete e fondi finanziari;
  • organizzazioni paramilitari di controllo e organismi di tutela;
  • geopolitica spicciola e altolocata, alleanze insospettabili e venti di guerra, supremazia e sudditanza.

Trump voleva comprarsela la Groenlandia.

Tutte le fasi storiche del capitalismo pressate come un sandwich in mala convivenza.

Materia prima indispensabile

1] Materialità a vista del complesso industrial digitale

 

Cava di silicio

Cava di silicio in Australia

 

La perenne trasformazione della Terra

Minatori indiani esposti alla polvere di silicio a Jamshedpur

 

La perenne trasformazione della Terra

Miniera di terre rare a Bayan Obo, nella Mongolia interna

 

La perenne trasformazione della Terra

Evaporazione litio a Salar de Uyuni, Bolivia

 

Con la Terra

Ho ingoiato una luna fatta d’acciaio | ne parlano come se fosse un’unghia
Ho ingoiato queste acque di scolo industriali, | queste carte di disoccupazione
La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo
Ho ingoiato il trambusto e l’indigenza | ingoiato ponti pedonali, vita coperta di ruggine
Non posso ingoiare altro | E tutto ciò che ho ingoiato | ora rigurgita | dalla mia gola
spandendosi sulla terra dei miei avi | in un ignominioso poema
Xu Lizhi, operaio Foxconn, 2013

Il silicio diventa principe dei semiconduttori (e signore della silicosi), il litio re delle batterie, il tantalio il califfo dei condensatori…

È la perenne trasformazione della Terra. Una alchimia materialistica detta anche hardware- dura materia, alla cui realizzazione partecipa una moltitudine di esseri umani, corpi e vite variamente inquadrate in strutture inventate qualche secolo fa durante la rivoluzione industriale: fabbriche e macchine, che via via si sono adeguate ai tempi.

 

Mercato spasmodico. Ragguardevole conflittualità, presente e soprattutto futura, tra Grandi Potenze e Potenze Intermedie. Servitù delle Potenze Nonpotenze.

Dopo il trattamento, dopo l’assemblaggio dei componenti i dispositivi digitali entrano nella supply chaine – la catena distributiva che impiega tutti i mezzi di trasporto immaginabili, terrestri, aerei, marittimi, che si muovono lungo una rete worldwide/mondiale che arriva puntualmente ovunque, addirittura anche a me. Tutto il trasportato e tutti i trasportanti sono composti da peso, massa, spessore, densità, volume, inclusi i numerosi umani che vi si affaccendano allegri o malinconici.

Materia seconda indispensabile.

2] Materialità a vista del complesso industrial-digitale

 

La perenne trasformazione della Terra

Stabilimenti Foxconn in Cina: assemblaggio apparecchi Apple

 

Intel in Hillsboro (Oregon)

Lavoratori impegnati presso Intel di Hillsboro alla produzione del chip D1D/D1X

 

Cargo Charter Transport

 

Il corriere Arvato, Bertelsmann, Duren

Informazione satellitare della disposizione delle imbarcazioni tra il Mediterraneo orientale, il Mar Rosso, il golfo di Oman e il Golfo Persico il 25 marzo 2021, quando la portacontainer Ever Given bloccava il Canale di Suez

Sulla Terra

Soft è soft perché è malleabile. Un programma, un codice, si può correggere e riscrivere. Come qualsiasi cosa nel nostro universo, è limitato dalle condizioni materiali, cioè dall’hard.

In questa fase del ciclo la materia si esprime soprattutto come materia cerebrale. Nugoli di uomini e donne informaticƏ, ingegnerƏ elettronicƏ, programmatorƏ, hackers … costruiscono, inventano, elaborano, aggiornano i programmi che permettono ai dispositivi digitali di funzionare. Procedimento di scrittura logica, l’algoritmo, fatto di istruzioni e comandi che nel gioco input/output consente a me, che sono un mortivo digitale, di scrivere qui sopra, di cercare un’immagine e tutte le altre cose complicate che non so fare. Grazie alle notti in bianco che programmatorƏ hanno passato per montare il codice. Spesso appartenenti al proletariato cognitivo.

Anche in questa fase, apparentemente del tutto virtuale, c’è invece una miriade di esseri umani, qualche milione, che addestrano gli algoritmi per migliorarne la “intelligenza”. Una manovalanza globale di lavoratrici e lavoratori parcellizzati che svezzano le macchine, cioè i programmi di machine learning, di “intelligenza artificiale” e sue applicazioni. A nutrirli ci pensiamo noi attraverso le nostre quotidiane interazioni con le “piattaforme sociali” oppure le vere e proprie fabbriche di click.

Megaziende, come Amazon Mechanical Turk, materialisticamente ci sguazzano.

Viene chiamato digital labor questo lavoro invisibile in cui la manodopera dispiega la sua energia fisica e mentale. È inutile che intraprenda una lunga variazione quasi una fantasia sul tema, dal momento che sta in libreria il testo imprescindibile per chi abbia interesse a questa articolazione del capitalismo contemporaneo: Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo? di Antonio Casilli, Feltrinelli, 2020 [ho presentato, si fa per dire, l’edizione originale in francese qui. Qualche osservazione sparsa qui]

Materia evanescente indispensabile.

3] Materialità a vista del complesso industrial-digitale

 

Click Farms. Centinaia di mobile che scaricano applicazioni per migliorare i loro rankings

 

Click Farms. Virtual Stacks System

Microworkers

 

Microlavori

 

Sopra e sotto la Terra

Siete tutti così intelligenti, così attivi. | Qui è scena muta, è scena | da poco. Si depongono |
le attitudini come chi preferisce | mancare lo scopo e ama solo | i tempi morti.
Nicoletta Bidoia, Scena muta, Dueville, Ronzani, 2020

Internet e il web sono una rete di reti con punti nodali di incrocio, di scambio e di immagazzinamento. Reti locali e transcontinentali. Non esistono solo – ontologicamente, si direbbe in filosofia – nella loro architettura logica e informatica. Esistono materialisticamente come ambienti fisici e fasci di cavi. Per la connettività sono fondamentali gli Internet Exchange Point (IXP), o punti di interscambio, che sono ospitati in una struttura edilizia, con personale, hardware, manutenzione, sono sottoposti a logiche di mercato e strategiche, finanziarie e politiche. Così empiricamente esistenti che si possono individuare su una mappa.

Idem per il Content Delivery Network-CND, rete per la distribuzione dei contenuti, ancora più sottoposta al mercato. Qui la mappa della Akamai Technologies, potente società globale tra le tante.

Eccetera eccetera eccetera…

Per fare un cavo ci vuole la fibra di vetro, tra l’altro, per fare la fibra di vetro ci vuole la silice, per la silice il silicio, ognuno lavorato come si deve, così posso connettermi con ogni luogo del pianeta e godermi film e conoscenze. Se esistono è perché qualcuno li costruisce, i cavi. Un comparto industriale di grandissimo rilievo. Cavocrazia è stata definita: 750.000 chilometri di cavi sottomarini, vulnerabili, sabotabili, spiabili, manipolabili, appetibili, guerreggiabili. Cosa ne pensano i pesci non si sa. Cavo rotto, ciao Internet, come dimostra la solita densa mappa.

Il content che trasmettono sono i dati, che poi toccano terra nei Data Centers depositandosi, megacapannoni industriali che consumano più energia di molte città e più acqua di diverse piscine olimpiche, emissioni di C02 che non so dire. Si conosce invece la smisurata produzione che ne fa la blockchain per gestire le criptovalute.

Attraversando terre e oceani i dati riferiscono che cosa ho scritto su questa pagina, con quali caratteri, i siti consultati, le immagini e i video, da quale luogo scrivo, con che aggeggio, a che ora – si scopre che sono un tiratardi, se leggo l’inglese, quanto tempo impiego ad approfondire un sito, con quale sistema operativo, se ho cliccato o respinto qualche pubblicità, se scrivendo ascolto Brahms o Willie Peyote (l’uno e l’altro)…

Miliardi di dati ogni minuto secondo. Sistema di magazzini sempre sull’orlo della saturazione. Occorre costruirne altri. Ma tutto si surriscalda, non basta l’acqua, mettiamoli al fresco sott’acqua, dice Microsoft, facciamoli al Circolo Polare Artico, dice un altro. Detto fatto.

Nuove Frontiere da raggiungere di corsa e valicare con impeto, come ai bei tempi. La Terra è al servizio dello sviluppo a briglia sciolta del genere umano.

Ed ecco tornare imperativa e bugiarda la metafora con M maiuscola. I dati vivono tra le nuvole, clouds, là dove svolazzano cherubini e serafini, non sulla Terra, sporca e materiale, tanto meno sott’acqua, buia e misteriosa.

In base alla millenaria e ferrea accoppiata Cielo e Terra, Spirito e Materia.

 

Immancabile Mappa dei Data Centers.

Materia cablata indispensabile.

4] Materialità a vista del complesso industrial-digitale

 

Milan internet eXchange – Centro elaborazione dati interno al campus di via Caldera (zona Nordovest – Milano)

 

Prysmian’s HD Power Cable plough (built by Soil Machine Dynamics) on Normandy Beach

 

La perenne trasformazione della Terra

Project Natick (7 luglio 2020), Microsoft riporta in superficie il proprio datacenter subacqueo posato a 35 metri nei fondali di Stromness, Orkney nel 2018.

 

Luleå. Data Center di Facebook in Lapponia

Alla Terra

La discarica gli mostrava senza mezzi termini come finiva il torrente dei rifiuti,
dove sfociavano tutti gli appetiti e le brame, i grevi ripensamenti,
le cose che si desideravano ardentemente e poi non si volevano più
Don DeLillo, Underworld, Torino, Einaudi, 1997 [trad. Delfina Vezzoli]

Come ogni sistema industriale anche quello digitale genera scarti e rifiuti, non c’è da stupirsi, sono parte integrante del ciclo produttivo: dalla Terra alla Terra. Molti autorevoli reports dichiarano che all’anno produciamo globalmente quasi 50 milioni di tonnellate di rifiuti “elettronici”, e-waste. Non so come ricavino questa spaventosa cifra. La prendo provvisoriamente per buona. Da questa più che materialistica realtà si sviluppa un consistente e complesso subsistema industriale molto gerarchico: in cima, tecnologiche aziende del riciclo tirate a lucido, da basso, tecnologie corporee fatte di occhi, mani, braccia, respiro. Come già i minerali all’origine, entrambe in lotta con una materia sempre più amalgamata, difficile da disassemblare e scomporre.

Si progetta un prodotto e lo si pensa già come rifiuto. Non succede solo nel comparto industrial-digitale. I dispositivi appena fanno capolino sul mercato risultano ormai “vecchi”, incalzati dal nuovo prototipo che riscalda i muscoli negli stessi ambienti che hanno partorito il precedente. In gergo si dice obsolescenza programmata che, tradotto, significa che devono guastarsi il più presto possibile, che la riparazione sia antieconomica, che vengano sottoposti all’implacabile ciclo della moda / fashion circle, che subiscano un precoce invecchiamento a causa di una incombente “novità” tecnologica, spesso marginale e superflua. La sostituzione è garantita, lo scarto/scoria anche e il mercato sempre su di giri. Ne parlava già Vance Packard ne I persuasori occulti più di sessant’anni fa.

Come ci insegna la storia della medicina, l’analisi delle feci e delle urine è uno strumento diagnostico autorevole per conoscere lo stato di salute di un organismo. L’analisi dei rifiuti, scorie deriva dal greco skṓr/escrementi, non è tanto benevola e rassicurante verso il nostro sistema produttivo e di vita, presente e futuro.

Materia riciclata fatalmente indispensabile.

5] Materialità a vista del complesso industrial-digitale

Il ricondizionamento di apparecchi elettronici anima il mercato del riciclaggio

 

La perenne trasformazione della Terra

Il piano Dell per il recupero di 900 mila tonnellate di scarti tecnologici

 

A Terra

E non soltanto si pretendeva che la terra, nella sua ricchezza, desse messi e alimenti,
ma si discese nelle sue viscere, e ci si mise a scavare i tesori, stimoli al male

 

Ovidio, Metamorfosi, I, 136/38, [trad. Piero Bernardini Mazzolla]

Estrazione non è un simbolo e capitalismo estrattivo non è una metafora. Estrazione dalla Terra, estrazione dai Dati, estrazione dai Corpi. Materia, Conoscenza, Valore. Il Capitalismo è animista, estrae valore da qualsiasi entità, viva o morta.

Riuscire a pensare assieme risorse, dati, lavoro, soft e hard, non è una perdita di tempo, è una conquista. Si guadagna in profondità e in lungimiranza, in senso del limite e della vulnerabilità. Digitale e Media come estensione della Terra e non del soggetto umano (McLuhan).

Questo è il materialismo che mi ha proposto Jussi Parikka [A Geology of Media, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2015].

Pacchetto di documentazione:

Per approfondire, qualche suggerimento bibliografico minimale:

in generale

-L. Parks, N. Starosielski [ed.], Signal Traffic. Critical Studies of Media Infrastructures, Illinois Un. Press, 2015

sull’uso delle metafore:

M. Lindh,and J.M.Nolin, GAFA speaks: metaphors in the promotion of cloud technology, “Journal of Documentation”, 2017

geologia e imperialismo:

A (Partial) Reading List of Papers & Perspectives Relevant to Geology & Colonialism, 2020

S. Popperl, Terra Infirma – Dead Sea Sinkholes – A Photo Essay, “Middle East Research and Information Project”, n. 26 (autunno 2020)

minerali critici, Terre Rare…:

Terre rare. Il “nuovo oro” onnipresente e insostituibile;

– G. Pitron, La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica e digitale, Luiss Un. Press, 2019

– D. S. Abraham, The Elements of Power. Gadgets, Guns, and the Struggle for a Sustainable Future in the Rare Metal Age, Yale Un. Press, 2015

– S. Kalantzakos, The Race for Critical Minerals in an Era of Geopolitical Realignments, 2020;
– J. M. Klinger, Rare Earth Frontiers. From Terrestrial Subsoils to Lunar Landscapes,  Ithaca, Cornell Un.Press, 2017

– M. Hall, A new Cold War: mining geopolitics in the Arctic Circle, “Mine”, November 2020
The Geopolitics of Semiconductors, Eurasia Group, September 2020

digital labor:

Oltre al fondamentale testo di A. Casilli citato nel testo:

– U. Huws, Labor in the Global Digital Economy. The Cybertariat Comes of Age, New York Un., 2014;

L’enigma del valore. Il digital Labour e la nuova rivoluzione tecnologica, Effimera, 2019

– M. Gregg and R. Andrijasevic, Virtually Absent: the gendered histories and economies of digital labour, “Feminist Review”, 2019

– A. Gillwald, O. Mothobi, A. Schoentgen, What is the state of microwork in Africa? A view from seven countries, 2017

IXP, cavi, clouds:

– Joerg Bonarius, Internet Exchange Point (IXP) Traffic Continues to Grow, “Extreme”, 2020

Best Content Delivery Network (CDN) Software, 2021

– Nicole Starosielski, The Undersea Network, Duke Un. Press, 2015

– Adam Satariano, How the Internet Travels Across Oceans, “New York Times“, 2019

Doug Brake, Submarine Cables: Critical Infrastructure for Global Communications, 11 marzo, 2019

I cavi sottomarini: infrastruttura chiave per internet e la sicurezza dei dati, “BizDigital”, gennaio 2021

– Jianyin Roachell, Cloud Colonialism: How the U.S. and China are “dual-using” the Cloud for Geopolitical Competition, “China&US Focus”, 20 novembre 2020

rifiuti, e-waste:

The Global E-Waste Monitor, 2020,

Electronic Waste and the Circular Economy Contents, Parliament UK, 2020

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Popoli oppressi vs cinismo tattico: quale soluzione? https://ogzero.org/il-diritto-dei-popoli-all-autodeterminazione-le-lotte-comuni/ Fri, 26 Feb 2021 12:26:50 +0000 https://ogzero.org/?p=2482 Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano […]

L'articolo Popoli oppressi vs cinismo tattico: quale soluzione? proviene da OGzero.

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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano – al di là delle istanze religiose o nazionaliste – per la propria identità, con la volontà di liberare dal controllo dall’esterno di un territorio e delle genti che lo abitano.


Una premessa. Personalmente considero l’indipendentismo come uno degli aspetti assunti dalle lotte per i diritti e per l’autodeterminazione dei popoli. E l’indipendenza uno sbocco possibile, non un destino necessario.

Alla richiesta di analizzare la possibilità di un rapporto organico, stabile e strutturale tra anarchismo e indipendentismo di sinistra, ho sempre risposto con una buona dose di scetticismo.
Tuttavia, dato che le circostanze e le scelte mi avevano portato a solidarizzare con irlandesi, baschi, corsi, curdi e altri (in quanto vittime di una forma di oppressione, una delle tante che devastano questa “valle di lacrime”), senza mai rinnegare i miei trascorsi giovanili inequivocabilmente libertari, ho cercato di vivere dentro questa contraddizione. Per quanto mi è stato possibile, in base al principio della makhnovsina: «Con gli oppressi contro gli oppressori, sempre».
Che poi ci sia anche riuscito, questo è un altro paio di maniche.

L’apparato statale è indispensabile?

In una fase precedente, evidentemente in preda all’ecumenismo, mi ero spinto oltre, scrivendo che «lottare per il superamento della forma-stato a favore dell’autorganizzazione totale delle classi subalterne deriva da una concezione del mondo non dissimile da quella di chi teorizza il superamento dello stato-nazione per l’autorganizzazione della comunità popolare» 1). E mi salvavo l’anima aggiungendo un indispensabile “Forse”. Del resto le “nazioni senza stato” che hanno saputo sopravvivere, conservare tradizioni e linguaggi, combattere l’oppressione e lo sfruttamento e talvolta anche difendere la propria terra dal degrado, non dimostrano, magari senza volerlo, che l’apparato statale non è poi così indispensabile?
Penso quindi che tra libertari e indipendentisti di sinistra (“nazionalisti”? “nazionalitari”? “abertzale”?) ci si possa comunque sopportare, si possa convivere. E talvolta, di fronte al comune nemico del momento, solidarizzare, lottare insieme 2).

Lotte comuni e condivisione

La Storia infatti ha registrato lotte comuni contro capitalismo, fascismo e imperialismo, contro il nucleare e in difesa dell’ambiente, dei diritti umani e dei prigionieri…. Oltre naturalmente alla condivisione di repressione, galera, esilio. Non sono poi mancate reciproche contaminazioni, biografie familiari e personali che si sovrappongono, osmosi tra gruppi libertari e indipendentisti di sinistra.

[…]

Popoli manovrati

Ma negli ultimi anni lo scenario sembra essersi ulteriormente complicato. Non tanto per la possibilità, comunque scarse, di coniugare in maniera duratura le istanze libertarie con quelle indipendentiste. E nemmeno perché questi “nazionalisti” siano cambiati in peggio. Da parte mia mantengo un profondo rispetto per tutti quei militanti baschi, catalani, irlandesi o curdi (da Bobby Sands al Txiki) che hanno perso la vita cercando di coniugare liberazione nazionale e sociale.

Quello che è cambiato, sicuramente in peggio, è l’accresciuta capacità del sistema tecno-industriale-militare dominante (il “caro”, vecchio imperialismo, fase suprema eccetera eccetera) di strumentalizzare i movimenti di liberazione. Anche questo un “effetto collaterale” della globalizzazione? L’autodeterminazione rischia davvero di ridursi, come avvertiva il sociologo catalano Manuel Castells, a una variabile che si usa o si getta a seconda del caso?
Una questione che ovviamente non riguarda soltanto gli anarchici, ma tutta quella sinistra antagonista, non omologata e non addomesticata che ancora si confronta con il diritto dei popoli all’autodeterminazione.
Certo, per i colonizzatori il divide et impera non è una novità. Viene praticato con successo almeno dai tempi di Giulio Cesare.
Le milizie curde alleate della Turchia che (come ha riconosciuto il Parlamento curdo in esilio) parteciparono al massacro degli armeni durante il genocidio del 1915 possono aver fornito un protocollo per l’utilizzo da parte della Francia, e in seguito degli Usa, di alcune minoranze indocinesi contro la resistenza vietnamita. In Irlanda del Nord era il proletariato protestante, maggiormente garantito, a condurre la “guerra sporca” (omicidi settari, spesso indiscriminati) contro gli abitanti dei ghetti cattolici. Da sottolineare che entrambi, indigeni irlandesi e coloni scozzesi, erano di origine celtica (non germanica, come gli inglesi, angli e sassoni). Un elemento in più per sottolineare l’artificiosità e la strumentalità, a tutto vantaggio dell’imperialismo di Londra, della divisione in due comunità reciprocamente ostili.
Putin ha potuto “pacificare” la Cecenia con il ferro e con il fuoco, utilizzando anche bande di ex guerriglieri indipendentisti divenuti collaborazionisti. Sul piano religioso, sciiti e sunniti, a fasi alterne, vengono strumentalizzati in Medio Oriente. Lo stesso avviene con le popolazioni minorizzate – curdi, beluci, turcomanni – alimentando e armando le loro aspirazioni a una maggiore autonomia o all’indipendenza.

Contraddizioni e guerre tra poveri

Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e al-Da’wa, notoriamente filoiraniani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente gli Usa avrebbero utilizzato in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad al-Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?
Anche le “guerre tra poveri” che hanno insanguinato il subcontinente indiano danno l’impressione di essere state in parte manovrate. Nel 2007 alcuni gravi attentati compiuti in occasione di feste nazionali e anniversari dell’India, vennero inizialmente attribuiti ai gruppi islamici. Successivamente emerse la pista dei separatisti del nord-est (bodo, naga…). Nel secolo scorso lo scontro era stato particolarmente duro nell’Assam, dove la maggioranza della popolazione è induista. Dal 1989 al 1996 la guerriglia dei bodo (in maggioranza cristiani) avrebbe causato la morte di migliaia di persone. Nel dicembre 1996 un attentato al Brahamaputra Express, mentre attraversava l’Assam, provocò più di trecento morti. Ancora prima delle rivendicazioni, l’atto terroristico venne attribuito ai bodo che due giorni prima avevano fatto saltare un ponte ferroviario.

Strategia della tensione mascherata da lotta per l’autodeterminazione?

Molto probabilmente in alto loco qualcuno pensa che è “sempre meglio che si ammazzino tra di loro”, purché il controllo del territorio e delle risorse rimanga saldamente nelle mani di chi detiene il potere. Si tratti di un esercito di occupazione, di una multinazionale o di criminalità organizzata come nei pogrom di Ponticelli. E naturalmente anche l’oppresso, il diseredato di turno ci metterà “del suo”.
Un caso limite, a mio avviso, quello dei karen, in perenne fuga tra Birmania e Thailandia e che da qualche tempo verrebbero sostenuti da gruppi neofascisti europei.
Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale e di quelli autonomistici non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Non a caso Manuel Castells ha parlato di «indipendenze a geometria variabile», denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese «a seconda di chi, del come e del quando». Ricordava che osseti e abkhazi si erano ribellati contro la Georgia nello stesso periodo in cui i ceceni si sollevavano contro la Russia. Inizialmente gli Usa appoggiarono l’insurrezione cecena, ma tollerarono facilmente la repressione da parte della Georgia. Analogamente nel caso del Kosovo (dove è stata poi costruita un’immensa base statunitense) si è invocato il diritto all’autodeterminazione, mentre per il Tibet non si va oltre qualche protesta simbolica. Quanto agli uiguri, sembra quasi che non esistano come popolo.

Il cinismo tattico caso per caso

«Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione – ha scritto il sociologo catalano – sono frutto di un cinismo tattico» e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno «strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente». Gli esempi si sprecano. Pensiamo al diverso trattamento riservato ai curdi in Iraq, già praticamente autonomi (e alleati degli Usa a cui hanno consentito di installare alcune basi militari), mentre quelli della Turchia continuavano a essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, grande alleato degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. Nel 2010, dopo una serie di impiccagioni di militanti curdi che l’opinione pubblica mondiale aveva completamente ignorato, i curdi dell’Iran (Partito per una vita libera in Kurdistan, Pjak, considerato il ramo iraniano del Pkk attivo in Turchia) sembravano essersi rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva rivelato “Le Monde”, ma poi la situazione sembra essere cambiata).
Nel caso di Timor Est, la popolazione subì per anni un vero e proprio genocidio nell’indifferenza dell’opinione pubblica. Tra le poche eccezioni, negli anni Settanta, Noam Chomski e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip). Solo di fronte al rischio concreto di una dissoluzione dell’Indonesia intervennero le forze internazionali, ripescando l’ex guerrigliero Gusmão, leader del Frente revolucionària de Timor-Leste independente (Fretilin) per farne il presidente. Pare che inizialmente non ne fosse particolarmente entusiasta, dato che aspirava a ritirarsi dalla vita politica e darsi all’agricoltura. Paradossale che per garantire l’indipendenza di Timor Est venissero impiegati anche soldati inglesi provenienti dalle caserme di Belfast.
E a proposito di Belfast, due situazioni molto simili come l’Irlanda del Nord e il Paese basco negli ultimi anni sembravano aver imboccato strade antitetiche. Soluzione politica, abbandono della lotta armata da parte di Ira, Inla e delle principali milizie lealiste, liberazione dei prigionieri politici e cogestione del governo locale a Belfast e Derry.

Repressione, ancora casi di tortura, tregue effimere, illegalizzazione di partiti (Herri Batasuna, Batasuna, Bildu, Sortu…), associazioni ( Jarrai, Haika, Segi, Gestoras pro Amnistia, Askatasuna…) e giornali (“Egin”, “Egunkaria”) a Bilbo, Donosti e Gasteiz. Solo nel 2012, con la definitiva rinuncia alle armi di Eta e la possibilità per la “sinistra abertzale” di partecipare alle elezioni (con Sortu), si è riaperta la possibilità di una soluzione politica del conflitto. Ma al momento Arnaldo Otegi e altri esponenti indipendentisti rimangono ancora in galera (come se durante le trattative Blair avesse fatto arrestare Gerry Adams) e per i prigionieri politici baschi, in particolare per gli etarras, la situazione rimane molto difficile 3).
La mia ipotesi è che negli anni Novanta il «grande laboratorio a cielo aperto per la controinsurrezione» dell’Irlanda del Nord dovesse chiudere in vista della partecipazione britannica alle guerre in Afghanistan-Iraq e del ruolo fondamentale assunto da Londra. Meno convincente la tesi della conversione di Blair al cattolicesimo, anche se non si può mai dire. Quanto agli Usa, Clinton avrebbe agito per conservare il voto dei cittadini statunitensi di origine irlandese che solitamente votano per i Democratici.

L’ombra dei poteri globali

È ipotizzabile che in Irlanda del Nord la stessa Cia abbia dato una mano per togliere di mezzo qualche capo delle milizie lealiste (filobritanniche) che non aveva compreso la nuova situazione. Ipotesi formulata anche dal compianto Stefano Chiarini. Al contrario, già negli anni Novanta Washington inviava agenti della Cia nel Paese basco per coadiuvare l’apparato repressivo.
Il problema di “quale autodeterminazione” si pone soprattutto nel caso di stati nati dalla colonizzazione, dato che le loro frontiere sono state stabilite in base a trattati europei con cui si decideva arbitrariamente il destino delle popolazioni. I poteri globali reali (economici, militari, tecnologici) stabiliscono caso per caso, di volta in volta, se appoggiare una lotta di liberazione, legittimarne la repressione o anche inventarne una di sana pianta. Al limite della farsa l’episodio che ha visto un gruppo di aspiranti golpisti (quasi tutti membri di una loggia massonica) arruolare mercenari per sobillare la rivolta secessionista nel Cabinda, regione angolana ricca di petrolio. Episodio da segnalare per l’uso spregiudicato di due onlus (Freedom for Cabinda e Freedom for Cabinda Confederation) create appositamente per ricevere donazioni.

Alcuni casi esemplari, storici, di separatismo a puro uso e consumo di qualche potenza coloniale (come il Katanga di Tshombe nell’ex Congo belga) potrebbero tornare di attualità. Per esempio in Bolivia con Santa Cruz, capoluogo di una regione ricca, abitata prevalentemente da discendenti dei colonizzatori, che ha spinto per l’indipendenza. Chissà? Forse Evo Morales (il presidente boliviano esponente del Ma, Movimento al socialismo) ha rischiato davvero di finire come Lumumba, il presidente progressista del Congo, assassinato nel 1961 dagli sgherri di Tshombe al servizio dell’imperialismo belga.
E forse non è un caso che nel 2008, dopo anni di impegno a fianco dei popoli oppressi, la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip), riconosciuta dall’Onu e dall’Unesco, abbia definitivamente sospeso le sue attività. Fondata da Lelio Basso, la Lidlip è stata per trent’anni portavoce delle minoranze, delle popolazioni perseguitate, dei movimenti di liberazione dal colonialismo.

 

NOTE

1) Gianni Sartori, Catalogna – Storia di una nazione senza stato, ed. Scantabauchi, 2007.
2) Ovviamente mi riferisco all’indipendenza come sbocco di una lotta di liberazione, dall’oppressione coloniale classica, “da manuale”. Come nel caso di Algeria, Guinea Bissau, Mozambico, Angola, Irlanda… o dal “colonialismo interno” come potrebbe essere per i Paesi baschi, il Tibet e la Cecenia. A mio avviso si può legittimamente parlare di movimenti di liberazione quando la lotta è anche contro il sistema economico responsabile dell’oppressione (capitalismo, neoliberismo, capitalismo di stato…). Escludendo, per quanto mi riguarda, dall’interessante dibattito partiti come l’Adsav bretone, la Lega Nord o alcuni indipendentisti fiamminghi nostalgici del nazismo.
3) Ma l’auspicata soluzione politica del conflitto è tornata nuovamente al palo dopo la retata del 1° ottobre 2013 contro 18 esponenti di Herrira (tra cui il portavoce Benat Zarrabeitia). Il giudice Eloy Velasco ha accusato l’associazione basca per i diritti umani dei prigionieri politici di essere “un tentacolo di Eta” in quanto avrebbe organizzato manifestazioni di “esaltazione” dei prigionieri baschi.

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