Siberia Archivi - OGzero https://ogzero.org/regione/siberia/ geopolitica etc Sun, 01 May 2022 22:55:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Risorse e rotte artiche in tempo di guerra https://ogzero.org/risorse-e-rotte-artiche-in-tempo-di-guerra/ Sun, 01 May 2022 21:58:15 +0000 https://ogzero.org/?p=7227 L’inviato speciale Ue per l’Artico, Michael Mann ha commentato il 30 aprile 2022 le decisioni del Consiglio artico rispetto alla collaborazione con la Russia, ritenendo che nonostante le tensioni, «grazie ai fondi europei l’Artico può diventare un laboratorio di sviluppo di tecnologie e risorse sostenibili con cui vincere la sfida della crisi energetica», però un […]

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L’inviato speciale Ue per l’Artico, Michael Mann ha commentato il 30 aprile 2022 le decisioni del Consiglio artico rispetto alla collaborazione con la Russia, ritenendo che nonostante le tensioni, «grazie ai fondi europei l’Artico può diventare un laboratorio di sviluppo di tecnologie e risorse sostenibili con cui vincere la sfida della crisi energetica», però un sempre maggior numero di navi russe navigano nell’Artico.

L’importanza delle risorse artiche a cui il riscaldamento globale consente di accedere (per le tecnologie e per la transizione energetica – che ridurrebbe la capacità di ricatto russo) e lo scontro per la Northern Sea Route che si va liberando dai ghiacci e che Mosca intende controllare considerandola parte integrante del proprio territorio, producono anche nel Grande Nord ribaltamenti geopolitici e costringono a trovare soluzioni alternative alla cooperazione sostenibile finora perseguita tra le potenze mondiali. Ciò che è destinato a patire di questa contingenza è l’ambiente, l’accesso a energia sostenibile… e gli interessi cinesi. Alessandra Colarizi fornisce qualche elemento per comprendere quali fossero i progetti e la pianificazione di Pechino riguardo al Mar Glaciale Artico e cosa ne rimane dopo la crisi ucraina.


L’“amicizia senza limiti” e le forniture di gas russo. È quanto le cronache internazionali ricordano dell’ultimo – ormai storico – incontro tra Vladimir Putin e il presidente cinese Xi Jinping. Ma, durante quelle ore trascorse insieme a ridisegnare l’ordine internazionale, i due leader si sono soffermati su un’altra questione centrale tanto per la stabilità energetica mondiale, quanto per i futuri assetti geostrategici: la necessità di promuovere una Cooperazione sostenibile e pratica nell’Artico, come recita il motto della presidenza moscovita iniziata nel maggio 2021.

L’estremo Nord rappresenta, insieme all’Asia centrale, lo scacchiere regionale in cui i due giganti collaborano più attivamente. È anche una delle aree più colpite dal colpo di coda della crisi ucraina. Compiendo un passo decisivo, il 24 marzo 2022 i membri del Consiglio Artico (Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Svezia e Stati Uniti) hanno sospeso tutti i colloqui con Mosca. Non una cosa di poco conto: la Russia controlla oltre metà della costa bagnata dall’Oceano Artico ed è al centro delle principali iniziative multilaterali, dalla ricerca scientifica allo sviluppo economico passando per la collaborazione militare. Ora la sua estromissione rischia di paralizzare il funzionamento della principale organizzazione regionale.
Per Pechino, non è una buona notizia.

La Cina un “paese quasi artico”

Geograficamente parlando un outsider, la Cina si definisce un “paese quasi artico”.  Dal 2013 è membro osservatore del Consiglio (paradossalmente, dal punto di vista geografico, lo è anche l’Italia). Ma frequenta la zona addirittura dal 1925, ovvero da quando siglò il trattato delle Svalbard che disciplina le attività commerciali nelle isole a metà strada tra la Norvegia e il Polo Nord. Il perché è spiegato nel libro bianco sull’Artide pubblicato dal governo cinese quattro anni fa (dove si dispiega l’Operazione Dragone Bianco): nonostante la distanza, le «condizioni naturali dell’Artico e i loro cambiamenti hanno un impatto diretto sul sistema climatico e sull’ambiente ecologico della Cina e, a loro volta, sui suoi interessi economici nell’agricoltura, la silvicoltura, la pesca, l’industria marina e altri settori».

Non è quindi solo un fenomeno di interesse scientifico. ll riscaldamento ambientale sta causando un progressivo scioglimento dei ghiacci, rendendo sempre più navigabili acque un tempo impercorribili. Proprio alla creazione di nuove rotte commerciali tra l’Asia orientale, l’Europa e il Nordamerica passando attraverso l’Artide, guarda la cosiddetta “Via della seta polare”, declinazione artica della Belt and Road Initiative, la strategia di politica estera con cui Pechino sostiene la penetrazione internazionale delle aziende statali cinesi e dei suoi standard industriali attraverso la costruzione di grandi vie di comunicazione marittime e terrestri in Eurasia.

I nuovi corridoi settentrionali non solo permetteranno di aggirare “lo stretto di Malacca”, l’impervio passaggio (uno dei chokepoint mondiali) sotto il controllo degli Stati Uniti e dei suoi alleati asiatici. Contribuiranno anche ad accorciare i tempi di percorrenza delle merci tra i porti cinesi e gli scali europei. Passando per Suez oggi una nave che parte da Shanghai diretta a Rotterdam impiega circa 50 giorni; attraverso la rotta nordica e la Via della Seta Polare lo stesso viaggio durerebbe circa 33 giorni. Per il momento la tratta è ancora in fase di test: il colosso cinese China Ocean Shipping Company (Cosco) effettua circa nove spedizioni all’anno. Ma il numero è destinato a salire e alcune società sono già in trattative per garantire un volume di transazioni prestabilito ogni anno.

La Cina come player responsabile

Commercio a parte, gli interessi cinesi nel quadrante includono scopi scientifici, ambientali, e diplomatici. Inserita nell’ultimo “piano quinquennale” 2021-2025, la strategia polare cinese annovera tra gli obiettivi la realizzazione di esplorazioni in acque profonde, la pianificazione di missioni spaziali, e la tutela del diritto internazionale marittimo. Conscia del suo nuovo status internazionale, negli ultimi anni la Cina ha utilizzato il Consiglio Artico per presentare un’immagine di sé più responsabile, soprattutto alla luce delle accuse che dall’altra parte dell’Eurasia accompagnano l’espansionismo cinese nelle acque contese con i vicini rivieraschi.

Nel white paper Pechino spiega che il suo coinvolgimento nel quadrante è teso a «comprendere, proteggere, sviluppare e partecipare alla governance dell’Artico, in modo da salvaguardare gli interessi comuni di tutti i paesi e la comunità internazionale e promuovere lo sviluppo sostenibile» della regione. Ne consegue un’immagine rassicurante ma parziale della Polar Silk Road. A giudicare dai report comparsi sulla stampa cinese, infatti, gli aspetti militari, sebbene mai espliciti, sono altrettanto fondamentali per comprendere la crescente assertività di Pechino nell’area.

La marina cinese vede nel passaggio a Nordest una scorciatoia per spostare truppe dal Pacifico all’Atlantico, in mancanza di basi militari (la più vicina è a Gibuti, nel Corno d’Africa) da cui tenere a tiro la costa americana con i propri bombardieri e missili balistici intercontinentali. Un sogno vagheggiato da Mao nel 1959 e che l’Unione sovietica di Chruščëv congelò per decenni. Secondo il tabloid nazionalista “Huanqiu Shibao”, se i sottomarini cinesi dotati di armi nucleari riuscissero ad accedere indisturbati al Mar Glaciale Artico, i rapporti di forza con gli States e gli alleati Nato cambierebbero radicalmente rendendo la Cina una “potenza militare mondiale”.

Se la Cina perde la Russia

Consapevole dei suoi limiti geografici, fino a oggi la Cina ha puntato a cementare la propria presenza nello scacchiere polare in partnership con Mosca. Passando dentro la zona economica esclusiva russa, la Rotta del Mare del Nord è in balia delle decisioni del Cremlino in termini di tariffe e accesso alle infrastrutture marittime lungocosta. Soprattutto dopo l’occupazione della Crimea e il crescente isolamento internazionale di Mosca, la Cina è riuscita a sfruttare il proprio ascendente su Mosca per ottenere importanti quote di partecipazione nei principali progetti energetici in Siberia. A partire dal 2016 la statale China National Petroleum Corporation (Sinopec) e il Silk Road Fund hanno affiancato la russa Novatek e l’azienda francese Total nello sviluppo di un giacimento di gas naturale liquefatto nella penisola di Yamal. Società petrolifere statali cinesi stanno lavorando all’ultimazione di Arctic LNG-2 e del giacimento di Payakha, mentre Pechino ha già messo gli occhi sulle infrastrutture di trasporto, vero fiore all’occhiello della Silk Road: secondo un accordo del 2016, la costruzione di un porto d’altura vicino ad Arkhangelsk, sul Mar Bianco, doterà Cosco di un’importante base logistica lungo la rotta a Nordest. E, nonostante sia in fase di stallo da circa vent’anni, la Cina ha espresso interesse anche per la ferrovia di Belkomur, con cui le autorità locali puntano a creare un sistema di trasporto unificato nei territori settentrionali.

Non è solo una questione di business. L’allineamento con la Russia è servito, come in altri frangenti, a sostanziare la postura cinese con una visione strategica di più ampio respiro. Senza Mosca la Cina nell’estremo Nord rimane un intruso, anche piuttosto sgradito. In tempi recenti, nel resto dell’Artide, la Via della Seta Polare ha incontrato notevoli ostacoli, spesso a causa delle preoccupazioni di paesi, come Canada e Svezia, con cui Pechino ha rapporti politici tesi. Gli Stati Uniti non hanno nascosto il proprio disagio per le mire del gigante asiatico sull’industria mineraria in Groenlandia – prima che la vittoria nel 2021 della sinistra ambientalista di Inuit Ataqatigiit sospendesse le attività estrattive.

Cosa succederà adesso? 

C’è chi, guardando al passato recente, pronostica un attivismo anche maggiore del gigante asiatico nel quadrante artico. Secondo gli ottimisti, senza alternative, la Russia sarà costretta a darsi mani e piedi alla Cina: gli yuan sostituiranno i capitali sborsati delle multinazionali europee e giapponesi, continuando a foraggiare i piani artici di Mosca. Non tutti concordano, però. Non solo perché, aldilà della sbandierata pseudo-alleanza, dall’introduzione delle misure punitive le aziende cinesi hanno mostrato una maggiore cautela nel fare affari con l’Orso. Lo dimostra il rallentamento delle attività di Sinopec in Russia, nonché il calo delle importazioni di carbone russo nei primi mesi dell’anno.

Mentre, per alcuni esperti cinesi, la rottura tra gli otto stati membri del Consiglio Artico non comprometterà automaticamente la strategia cinese nella regione, le sanzioni internazionali contro Mosca potrebbero eccome. Soprattutto considerati i divieti (diretti e indiretti) sull’export di tecnologia americana, da cui il progetto di Yamal dipende enormemente.

I risvolti politici non sono meno insidiosi. Per l’Artic Institute Pechino pagherà il prezzo di quella che i vertici Ue hanno definito una “neutralità filorussa”: secondo il think tank con base a Washington, infatti, «è difficile immaginare che gli Stati Uniti, il Canada o i cinque paesi nordici del Consiglio acconsentiranno ad approfondire la cooperazione economica o a integrare la Cina nei forum regionali se [Pechino] continuerà a schierarsi con la Russia». Fattore che potrebbe inficiare di riflesso la “diplomazia omnidirezionale” condotta dal governo comunista con Svezia, Finlandia e Norvegia nei settori aerospaziale, dei cambiamenti climatici e dell’esplorazione scientifica. Ora che – contrariamente alle intenzioni di Putin – la crisi ucraina ha intensificato la cooperazione tra la Nato, Helsinki e Stoccolma, separare la ricerca pacifica dalla sicurezza armata risulta sempre più difficile. Collaborando con Mosca nella regione polare, Pechino rischia di dover rispondere ad accuse che trascendono il presunto supporto militare in Ucraina.

C’è poi un problema più profondo, che riguarda la natura stessa della cooperazione sino-russa. Mosca non ha mai visto di buon occhio lo sconfinamento cinese nel proprio cortile di casa. Anche dopo l’ingresso della Cina nel Consiglio Artico, la partnership polare tra i due giganti ha continuato a risentire della diffidenza che storicamente contraddistingue le relazioni sino-russe. Nel 2020 il direttore dell’Arctic Civic Academy di San Pietroburgo è finito agli arresti per aver passato a Pechino informazioni classificate sulla ricerca idroacustica e il rilevamento di sottomarini. L’invasione russa dell’Ucraina irrompe in una crisi di fiducia che il mancato coordinamento dei rispettivi vertici sul fronte europeo rischia persino di esacerbare.

Le considerazioni economiche aggiungono ulteriori incognite all’equazione polare. Perché se è vero che gli investitori cinesi potrebbero trarre benefici dal ripiegamento dei competitor occidentali dai giacimenti russi, la sostenibilità dei finanziamenti nei combustibili fossili è tutt’altro che scontata. Da quando Pechino ha annunciato l’obiettivo emissioni zero entro il 2060, i prestiti cinesi destinati al comparto energetico lungo la Belt and Road sono crollati verticalmente. Nelle terre dei ghiacci prevarranno i calcoli politici o le valutazioni ambientali?

La politica estera o l’agenda interna?

Cambiano gli equilibri mondiali, ma cambiano soprattutto le priorità cinesi. È il grande limite dell’“amicizia senza limiti” tra Cina e Russia.

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Variante turca nella recrudescenza dei bagliori della Guerra Fredda 2.0 https://ogzero.org/variante-turca-in-un-bagliore-di-guerra-fredda-2-0/ Tue, 26 Oct 2021 11:41:13 +0000 https://ogzero.org/?p=5237 Una rinnovata intensa attività dell’intelligence mondiale (con la variante turca) ha allarmato ultimamente gli esperti di spionaggio. In particolare decisioni di pubblico dominio, come il dimezzamento dei rappresentanti russi nell’ufficio di collaborazione tra Nato e Russia – indicati come agenti sotto copertura –, s’intrecciano con manovre più nascoste che preludono a un muscolare confronto militare […]

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Una rinnovata intensa attività dell’intelligence mondiale (con la variante turca) ha allarmato ultimamente gli esperti di spionaggio. In particolare decisioni di pubblico dominio, come il dimezzamento dei rappresentanti russi nell’ufficio di collaborazione tra Nato e Russia – indicati come agenti sotto copertura –, s’intrecciano con manovre più nascoste che preludono a un muscolare confronto militare e dunque a operazioni di spionaggio di cui i più raffinati analisti si stanno occupando per rilevare indiscrezioni e metterle in fila nel tentativo di restituire un quadro più chiaro dell’intricato mosaico che si va disegnando sullo scacchiere internazionale. Tutto ciò capita in occasione dell’uscita del primo volume frutto degli approfondimenti di OGzero, La spada e lo scudo, scritto per noi da Yurii Colombo per tentare di chiarire storia, modalità e tensioni interne ed esterne ai servizi segreti russi.

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Questo articolo va a illustrare il doppio binario su cui si trovano a lavorare i servizi russi: l’offensiva occidentale volta a ridimensionare l’influenza di Mosca sui paesi ai confini europei all’indomani del ritiro dall’Afghanistan sta producendo un piano di contenimento e difesa globale per l’area europea nel caso di attacco russo (il primo dopo la fine della Guerra Fredda). Contemporaneamente i servizi si trovano ad affrontare un rinnovato attivismo del controspionaggio turco che ha a sua volta operato arresti di agenti russi, che tradizionalmente stanziano a Istanbul con l’incarico di individuare ed eliminare i leader ceceni; arresti riconducibili all’epilogo della Guerra siriana con lo sgombero degli alleati turchi da Idlib, ma che collocano i servizi di Ankara in una posizione di battitore semilibero, in opposizione e collegato da accordi sia con l’Occidente (la Nato) sia con la Russia (Astana, non ancora messa in soffitta).


Tensioni tra apparati spionistici, preludio di confronti militari?

Lo scontro tra Russia e i paesi della Nato, con la recentissima sospensione delle reciproche rappresentanze a Mosca e Bruxelles è entrata in una nuova fase. Dal 1° novembre infatti la Federazione ha sospeso ufficialmente la sua rappresentanza presso la Nato e contemporaneamente ha posto sotto sfratto l’ufficio informazioni dell’Alleanza a Mosca. A partire da quella data – come ha ricordato il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov – per i contatti con Mosca, la Nato dovrà rivolgersi all’ambasciatore russo in Belgio. La decisione del Cremlino è giunta come reazione alla decisione della Alleanza Atlantica di ridurre da 20 a 10 i membri della rappresentanza russa a Bruxelles, rendendo impossibile di fatto l’operatività dell’ufficio. La rappresentanza russa era già stata ridotta da 30 a 20 funzionari ai tempi del caso Skripal [il tema è stato sviluppato dall’estensore dell’articolo nel volume La spada e lo scudo]; otto dei dieci funzionari russi rispediti a casa, sarebbero una ritorsione per il presunto coinvolgimento del Gru (i Servizi russi militari per l’attività all’estero) in un attentato contro un deposito di munizioni nella Repubblica Ceca del 2014 [anche per questo episodio si trovano approfondimenti nel volume La spada e lo scudo] anche se il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg ha sostenuto che «non esiste un motivo particolare per le espulsioni dei diplomatici russi», rimandandole semplicemente alla perdurante politica aggressiva russa in Europa.

«La politica della Nato nei confronti della Russia rimane coerente. Abbiamo rafforzato la nostra deterrenza e difesa in risposta alle azioni aggressive della Russia, mentre allo stesso tempo rimaniamo aperti per un dialogo significativo» ha dichiarato a Sky News un funzionario della Nato.

La ricostruzione di Bellingcat dell’attentato del 2014.

Il difficile equilibrio caucasico indispensabile per Mosca

Mosca, dal canto suo, si sente sempre più accerchiata e non si può dire che questa percezione possa essere semplicemente derubricata alla voce “vittimismo” (anche se il Cremlino ha dimostrato di soffrirne talvolta). Le vicende del recente passato, l’addio quasi definitivo della Moldavia dall’area d’influenza russa (il governo filoccidentale di Chişinău comunque è tornato dopo l’esplosione dei prezzi degli idrocarburi di quest’autunno a chiedere con il cappello in mano a Putin gas a prezzi calmierati), la faglia bielorussa e l’instabile alleanza con l’Armenia, impongono alla Russia la massima vigilanza.

Il portavoce presidenziale russo Dmitry Peskov ha affermato con nettezza che la decisione della Nato di espellere i diplomatici russi e le accuse di “attività ostili” hanno completamente minato le prospettive di normalizzazione delle relazioni e di ripresa del dialogo.

Il ministro della difesa russo Sergej Šoigu ha aggiunto – a muso duro – come «l’attuazione del piano di “contenimento” della Nato in Afghanistan è finito in un disastro, che tutto il mondo sta ora affrontando» e ha voluto ricordare a Berlino come andò a finire l’ultima volta che la Germania cercò di trovare uno “spazio vitale” a est.

«Sullo sfondo delle richieste di una deterrenza militare della Russia, la Nato sta costantemente sospingendo le proprie forze verso i nostri confini. Il ministro della difesa tedesco dovrebbe sapere molto bene come nel passato ciò si concluse per la Germania e l’Europa», ha sottolineato il ministro della difesa russo.

Quest’ultima dichiarazione è giunta dopo che il ministro della Difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer, il 21 ottobre, alla domanda se la Nato stesse contemplando scenari di dissuasione della Russia per le regioni del Baltico e del Mar Nero, anche nello spazio aereo con armi nucleari, ha risposto che dovrebbe essere reso molto chiaro alla Russia che anche i paesi occidentali sono pronti a usare tali mezzi. I media tedeschi hanno anche riferito che la Nato si starebbe preparando per un conflitto con la Russia. Il piano di difesa della alleanza occidentale avrebbe definito perimetri e parametri su come replicare a possibili attacchi dalla Russia e alla minaccia terroristica. Un tale piano – se confermato – rappresenterebbe una vera novità visto che tali ipotesi dopo il crollo del muro di Berlino erano stati messi in soffitta, ha fatto rilevare la “Suddeutsche Zeitung”. Del resto come sottolinea il portale russo “Vzglyad” già un mesetto prima, il 22 settembre 2021, i ministri della difesa della Nato avevano firmato un accordo per un fondo tecnologico militare da 1 miliardo di euro. Secondo la Nato questo piano di difesa rappresenta anche una risposta alla decisione di Mosca di mettere in cantiere la produzione di nuove armi nucleari a medio raggio e sviluppare nuovi sistemi d’arma. Le forze armate russe avrebbero persino recentemente testato i robot da combattimento nelle esercitazioni, lavorando all’uso dell’intelligenza artificiale in campo militare e sull’aggiornamento dei sistemi spaziali.

In questo quadro «I ministri della difesa della Nato a Bruxelles hanno adottato giovedì un nuovo piano di difesa globale per l’area europea e nordatlantica dell’alleanza. In esso l’alleanza occidentale definisce come risponderà a possibili attacchi dalla Russia, così come la minaccia del terrorismo in corso. È il primo piano globale di questo tipo dalla fine della Guerra Fredda: copre scenari che vanno da attacchi militari convenzionali e guerra ibrida ad attacchi informatici e disinformazione, così come combinazioni e attacchi simultanei, per esempio nelle regioni del Baltico e del Mar Nero», ha sostenuto Paul-Anton Krueger in un intervento su “RIA Novosti”.

Nave da ricognizione russa nel mar baltico (foto Adriana_R / Shutterstock).

Segnali di riposizionamenti geopolitici dietro il controspionaggio turco

A complicare lo scenario per la Russia, c’è l’attivismo sul piano del confronto spionistico della Turchia, sempre più battitore libero e sempre meno affidabile alleato della Nato. L’8 ottobre a Istanbul (ma la notizia è stata divulgata solo il 22 ottobre) sono state arrestate sei persone accusate di essere agenti dei servizi di intelligence russa. Si tratta di quattro cittadini russi – Abdulla Abdullayev, Ravshan Akhmedov, Beslan Rasaev e Aslanbek Abdulmuslimov – oltre a un cittadino ucraino, Igor Efrim, e un cittadino uzbeko, Amir Yusupov. Il gruppo è accusato di aver violato l’articolo 328 del codice penale turco (“spionaggio politico o militare”), e ora rischiano da 15 a 20 anni di prigionia. Secondo Giancarlo Elia Valori in un articolo pubblicato sul portale “Le Formiche”. L’offensiva ottomana nei confronti della Russia sarebbe da rimandare a un rinnovato asse tra Erdoğan e il consigliere per la sicurezza nazionale degli Emirati arabi uniti, Tahnun bin Zayed al-Nahyan. Secondo Valori, ci sarebbe «voglia di voltare pagina su otto anni di gelide relazioni, cristallizzate dal rovesciamento nel 2013 dell’egiziano Mohamed Morsi, un membro dei Fratelli Musulmani vicino alla Turchia e fermamente osteggiato dagli Emirati Arabi Uniti». In realtà, come rileva il giornale russo “Gazeta.ru”, oggi forse la voce più vicina al Cremlino, il nucleo di intelligence (che sarebbe stato trovato in possesso anche di armi e passaporti falsi) stava lavorando al fine di eliminare alcuni rappresentanti dell’“opposizione cecena” rifugiatisi in Turchia. Ricordiamo che già negli ultimi anni alcuni dei più noti oppositori al regime di Kadyrov a Grozny erano stati oggetti di misteriosi attentati in Germania e in Austria.

Ciò che sorprende in questa vicenda è che per ora il governo di Ankara non ha confermato la notizia e tutte le informazioni provengono dall’agenzia “Anadolu”, anche se il ministero degli esteri russo ha di fatto confermato gli arresti. Una fonte anonima di “Gazeta.ru” sostiene che al centro dell’operazione del controspionaggio turco ci sarebbe in realtà il tentativo della Russia, dopo le sconfitte micidiali degli armeni nei cieli durante la guerra con gli azeri dello scorso anno, di raccogliere informazioni dettagliate sui droni Bayraktar TB2, così come altri nuovi progetti riguardanti altri tipi di armi avanzate. Va ricordato però che questa crisi tra i due paesi non è un temporale scoppiato a ciel sereno. Come abbiamo già rilevato in altri nostri pezzi scritti per OGzero, dopo Astana i rapporti tra Russia e Turchia hanno continuato a volgere al brutto. All’inizio di ottobre, il capo della diplomazia turca Mevlüt Çavuşoğlu è intervenuto al Forum sulla sicurezza di Varsavia ribadendo necessità di sostenere l’Ucraina nel suo tentativo di entrare nella Nato. Inoltre, si è venuto a sapere in quell’occasione che i militari turchi starebbero addestrando i loro colleghi ucraini in tattiche di guerriglia urbana e secondo l’agenzia di stampa siriana “Sana”, ulteriori unità dell’esercito turco sono state spostate nella provincia siriana di Idlib e si parla insistentemente di una possibile operazione militare contro i paramilitari curdi a Tel Rifat.

I droniBayractar TB2

«A causa di ciò che sta accadendo a Idlib, Turchia e Russia stanno iniziando ad avere ulteriori attriti, ulteriori problemi». Questo è già successo in passato, ha commentato l’analista politico Yashar Niyazbayev: i rapporti dei media turchi «inizialmente suonavano – ha dichiarato – più come una gaffe informativa che come spiegazioni intelligibili in relazione alle spie russe».

La versione che l’arresto dei sei a Istanbul sia da rimandare a possibili omicidi politici contro ex oppositori ceceni è messa in discussione da Ivan Starodubtsev, un esperto di Turchia, autore del libro Russia-Turchia: 500 anni di vicinato tormentato il quale sul suo canale Telegram ha affermato: «deve essere innanzitutto una questione di possesso illegale di armi». Starodubtsev si dice convinto che la mafia cecena e, più in generale quella caucasica, opera attivamente a Istanbul da tempo immemore, e le “rese dei conti” criminali al loro interno sarebbero abbastanza frequenti. Del resto casi di morte di vari boss criminali caucasici per mano dei loro complici e concorrenti non sono rari a Istanbul. Si tratta di una tesi – da non escludere – che però è stata più volte usata dal Fsb ceceno per allontanare da sé accuse e sospetti.

In passato, al contrario, i servizi segreti turchi hanno ripetutamente collegato l’uccisione di ex comandanti di campo e militanti ceceni a Istanbul alle attività dei servizi di sicurezza russi che avrebbero “vendicato” la loro partecipazione a bande e attacchi terroristici dei primi anni Duemila, quando la guerriglia indipendentista raggiunse il suo apice.

Uno dei primi omicidi di più alto profilo ebbe luogo nel dicembre 2008, quando l’ex signore della guerra Islam Dzhanibekov fu ucciso sulla soglia della sua casa nel quartiere Ümraniye di Istanbul. Il killer in quel caso aveva usato una pistola con il silenziatore a doppia canna “Groza”. Nel 2009, l’ex signore della guerra Musa Asayev fu anch’egli ucciso a Istanbul. A quel tempo era noto per essere un rappresentante del terrorista Doku Umarov, coinvolto nella raccolta di denaro per i militanti del radicalismo musulmano.

Infine, nel 2011, tre membri della diaspora cecena, Berg-Khazh Musayev, Rustam Altemirov e Zaurbek Amriyev, erano stati associati al terrorista Doku Umarov e successivamente erano stati uccisi sempre a Istanbul. In Russia, però i tre erano a quell’epoca ricercati in quanto sospettati di aver organizzato un attacco terroristico all’aeroporto internazionale Domodedovo nel gennaio dello stesso anno.

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La spada e lo scudo https://ogzero.org/studium/la-spada-e-lo-scudo/ Tue, 28 Sep 2021 15:02:46 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=5024 L'articolo La spada e lo scudo proviene da OGzero.

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I servizi segreti dal Kgb a Putin

I servizi segreti russi, assieme a quelli americani e israeliani, sono probabilmente i più famosi del mondo. E lo sono per molti motivi. Per quanto riguarda la Russia alcune ragioni sono evidenti: resta anche dopo il crollo dell’Urss il paese con i più estesi confini del globo che si allungano dalla Crimea fino a Vladivostok. La Russia è anche quel paese dove nel xx secolo nel giro di dodici anni si consumarono ben tre rivoluzioni e la cui reazione termidoriana interna produsse, tra le altre cose, la costituzione della più ampia rete di campi di concentramento che l’umanità abbia mai visto. Sorvegliare, colpire, punire era già stata del resto in epoca zarista, uno dei refrain della politica interna e internazionale dell’Impero. In epoca staliniana la sindrome di accerchiamento assunse dei contorni surreali. Mentre all’interno si organizzava la caccia sistematica a chiunque potesse essere solo vagamente un “nemico del popolo” (Nepmen, Bianco, trotskista, anarchico o Vecchio Credente) all’esterno agivano delle squadre di killer pronte a eliminare gli avversari che si erano rifugiati all’estero.
Dopo il 1956, con il disgelo krusceviano, la morsa repressiva si allentò, ma all’esterno con lo scatenamento della Guerra Fredda da parte delle potenze occidentali e l’espansione della buffer zone in Europa orientale, i compiti dei servizi sovietici si ampliarono. La loro leggenda nasce lì, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta e diventa oggetto anche di letteratura gialla e cinema d’evasione. Il mondo delle spie, del resto, è indubbiamente affascinante. È un mondo dove si sommano intrigo, eros, avventura, soldi, psicologia, tecnologia. Ciò ha condotto alcuni a sovrastimare il ruolo dello spionaggio fino a perdere di vista che i servizi segreti in tutto mondo, Russia compresa ovviamente, sono ancelle della politica e non il contrario. Nelle diverse fasi storiche, e contingenze politiche, essi possono svolgere un ruolo più o meno preminente che comunque resta accessorio. Anche in Russia: le strutture della “forza” dopo il movimento decabrista del 1825 non hanno mai svolto un ruolo politico autonomo e ciò si dimostrò ancora una volta plasticamente evidentemente durante il fallito putsch del 1991 quando il Kgb dimostrò totale incapacità ad avere propria visione degli avvenimenti e delle dinamiche sociali. Potrà cambiare in era putiniana? La Russia potrà diventare un paese a “trazione Fsb”? Si tratta di un’ipotesi da tenere a mente e valutare ma su cui dovrebbe essere proibito fantasticare. In generale ci sembra valida la riflessione generale che fece Lucio Caracciolo nel presentare qualche anno fa un numero speciale di Limes dedicato proprio ai servizi e che qui riportiamo per esteso: «Oggi nell’universo delle tenebre tutto sembra ruotare intorno alla collazione/protezione di dati. Mentre si discetta di ciberspazio e d’alfabeti digitali, e qualcuno financo pretende di assimilare l’elettronica all’anima grazie al cognitive computing, vale rammentare che qualsiasi analisi comincia e finisce con l’uomo. In senso funzionale: è fatta da umani (agenti d’intelligenza) per altri umani (decisori politici, ma anche economici o criminali). E per via tecnica: l’intelligence presuppone il riduttore umano della complessità, lo stratega che indichi al collettore d’informazioni (vulgo: spia) quali campi esplorare, quali trascurare, in vista di quali scopi. Solo la mania classificatoria delle tecnocrazie può concepire la humint (human intelligence) come arte specifica, sezione a sé nei servizi segreti, quasi possano darsi modi e usi d’analisi perfettamente disumani. Al contrario, senza human factor le discariche di dati “oggettivi” affastellati dai rami imint (immagini), masint (misure) e sigint (segnali) resterebbero materia inerte. O peggio serbatoi cui attingere per manipolazioni a fini impropri».
Questa non è una storia generale dei servizi segreti russi (la materia è talmente estesa che gli unici seri tentativi fatti in questo campo sono di tipo enciclopedico) ma è forse il primo tentativo, almeno in Italia, di fornire un quadro della struttura, del ruolo politico, delle controversie e degli scandali in cui l’Fsb e le organizzazioni a essa collegata sono coinvolte dall’ascesa di Putin in poi. Con alcuni raid però nel passato sovietico: dalla caccia internazionale ai trotskisti fino alla crisi dei missili di Cuba; dalla deportazione e repressione dei Testimoni di Geova fino al ruolo che le donne-agenti, le Mata Hari rosse, ebbero nell’attività di spionaggio durante la Guerra Fredda.
In questo volume troverete anche un capitolo sul fenomeno Bellingcat, il portale che con le sue inchieste sui casi Skripal e Naval’nij ha avuto un ruolo fondamentale nell’acutizzare la crisi tra Federazione Russa e mondo occidentale. L’irruzione di Bellingcat indubbiamente ha segnato una nuova frontiera nel giornalismo investigativo e potrebbe condizionare nel futuro le stesse relazioni tra stati nel quadro di quella che è stata sintetizzata come public intelligence.
Infine abbiamo dedicato uno spazio corposo alla querelle delle relazioni tra Brigate Rosse e Kgb. Non crediamo di aver detto la parola fine sulla questione ma crediamo che l’ampia panoramica qui fornita e la documentazione acclusa (in buona parte inedita in Occidente) possano già per molti versi dare la possibilità di misurare un giudizio storico e politico sereno anche in relazione ai “misteri” del caso Moro.

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Avanzamento


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“Dalla Siberia al Caucaso. Periferia, confini e Servizi segreti russi”.
Storia, retroscena e veleni sullo sfondo di un secolo e mezzo di spie russe che si aggirano per il mondo


“La nascita della prima “guardia scelta” agli ordini di Ivan il Terribile nel 1565 fino alla Ceka-Gpu-Nkvd alle soglie della Guerra Fredda”.
Gli inizi del controllo.


“Yurii Colombo, intervistato da Antonio Moscato, per la seconda diretta dedicata alla Russia e ai servizisegreti russi, tema balzato all’attenzione pubblica in questo periodo a causa del caso Biot.”.
In questa puntata: la Guerra Fredda incombe sul mondo come la paura del nucleare. Nasce il Kgb, si moltiplicano le figure di spie e agenti doppiogiochisti che si infiltrano nei meccanismi di potere tra Occidente e Oriente. L’Europa ne è coinvolta, come molti altri paesi; e si arriva all’altro capo del mondo, quando i servizi russi sono messi a dura prova durante la crisi missilistica cubana – un anno dopo l’infelice (per gli Usa) episodio della Baia dei Porci – e Kennedy è in diretto contatto con Khrushev attraverso la famosa “linea rossa”.


“Yurii Colombo ospita #BrunelloMantelli per approfondire questo periodo storico in relazione all’attuale situazione politica (interna ed estera) russa”.

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]]> La lenta decadenza dello zar tecnologico https://ogzero.org/la-lenta-decadenza-dello-zar-tecnologico/ Thu, 23 Sep 2021 18:05:30 +0000 https://ogzero.org/?p=4958 Malgrado è la congiunzione più usata in questo articolo che Yurii Colombo ha fortemente voluto, perché ha risvolti senz’altro sugli equilibri geopolitici, anche se non sono né evidenti ancora, né gli analisti internazionali che non vivono a Mosca hanno potuto annusare il cambiamento, una lenta decadenza dello zar. Stavolta è iniziato davvero il declino del […]

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Malgrado è la congiunzione più usata in questo articolo che Yurii Colombo ha fortemente voluto, perché ha risvolti senz’altro sugli equilibri geopolitici, anche se non sono né evidenti ancora, né gli analisti internazionali che non vivono a Mosca hanno potuto annusare il cambiamento, una lenta decadenza dello zar. Stavolta è iniziato davvero il declino del suo sistema, le elezioni ne hanno dato la stura e se si assisterà alla differenziazione economica indispensabile per evitare il tracollo, a un’emersione di una nuova leadership e a nuovi gruppi di potere nei gangli dello stato, molto probabilmente le scelte strategiche internazionali fissate dal ventennio putiniano vedranno una transizione verso strategie geopolitiche che ancora non si possono nemmeno ipotizzare, ma saranno molto diverse da quanto abbiamo conosciuto finora. Malgrado l’apparato abbia fatto di tutto per fissare lo status quo ante, non è bastato per stoppare l’avvio del declino e l’analisi delle urne è impietosa: lo scollamento della società civile, in particolare giovanile, dal sistema di potere. Malgrado ufficialmente l’apparato tecnologico sia riuscito a mantenere il consenso nelle mani di questa oligarchia, allestendo una nuova vittoria del putinismo a cui nessuno crede nella realtà fuori dalle urne digitali.


Cedimento strutturale: scricchiolii nel sistema di potere

Alla fine anche i media che si erano ostinatamente rifiutati di riconoscere che le elezioni per il rinnovo dei deputati della Duma di stato avrebbero potuto condurre a dei mutamenti profondi del quadro politico interno e quindi, inevitabilmente, visto il peso specifico della Russia nel Vecchio Continente, si sono dovuti arrendere: l’arretramento di Russia Unita è irrevocabile. Il partito padre-padrone dello stato russo da due decenni mostra chiari segni di cedimento strutturale mentre il profondo disagio della società russa profonda trova il modo di canalizzarsi, almeno per ora nel voto per il Partito Comunista. Si apre quindi una nuova inedita fase politica segnata dal lento ma inesorabile declino della stella di Putin, già iniziato in realtà da almeno tre anni.

I numeri che parlano del partito-regime ancora vicino al 50% dei suffragi e la maggioranza assoluta dei seggi non devono trarre in inganno. Se formalmente non cambia un granché nel nuovo emiciclo russo con Russia Unita che passa dai 343 deputati del parlamento precedente agli attuali 324 e i comunisti crescono da 42 a 57, il messaggio che arriva dalle urne è chiaro: soprattutto nelle grandi città i russi esigono un cambiamento del personale politico dirigente.

Propaganda drogata e brogli digitali non bastano più

Malgrado le frodi (una normalità per la Federazione), malgrado si sia allungata la possibilità di votare a ben tre giorni, malgrado si sia aggiunto il voto elettronico a quello tradizionale nelle scuole in cui i partiti di opposizione non hanno possibilità di realizzare alcun controllo, il meno 6% per Russia Unita è ben più che un campanello d’allarme: evidentemente l’oliata macchina della raccolta del consenso pilotato si è inceppata.

Non è bastata l’estrazione di premi (appartamenti, automobili, buoni-acquisto nei supermercati) finanziata dalle grandi imprese russe per chi avesse deciso di votare elettronicamente; non è bastato un assegno una-tantum a militari, poliziotti e pensionati di quasi 200 euro; non è bastata la giornata libera del venerdì per i lavoratori dei municipi, per dare l’impressione che tutto stesse andando come al solito, con una squillante vittoria putiniana. E non è bastato neppure mettere alla testa delle liste di Russia Unita candidati civetta – che mai si presenteranno in parlamento come i popolari ministri della Difesa (Sergey Shougu) e quello degli Esteri (Sergey Lavrov). I russi seppur compassati sufficientemente dal non credere che il voto sia sufficiente a far cambiare qualcosa, hanno voluto comunque evidenziare che il corso dell’attuale amministrazione a loro non piace.

Mosca - elezioni 2021, risultati variabili

La grafica riportata qui sopra mostra come sarebbero andate le cose nei collegi uninominali di Mosca (il 50% dei deputati vengono eletti così mentre il restante 50% su base proporzionale con lo sbarramento del 5%) se non fosse intervenuto l’“aiutino” del voto elettronico ad aggiustare il responso. A sinistra i risultati delle circoscrizioni prima dell’aggiunta dei voti elettronici (dove con il colore verde si indica dove il partito comunista avrebbe preso la maggioranza e in blu dove l’avrebbe preso Russia Unita) e a destra quello venuto fuori una volta aggiunti i voti elettronici. Nella quota proporzionale il trend della capitale è lo stesso: il partito di Putin al 36,7% e i comunisti al 22,7% mentre il complesso delle liste di opposizione si colloca intorno al 40% dei suffragi. In Siberia come nella Jacuzia, dove la crisi economica e il disfacimento sociale sono elementi caratterizzanti e persistenti e dove l’egemonia comunista era troppo evidente, i comunisti superano spesso agevolmente Russia Unita anche nei collegi uninominali.

Si è trattato delle elezioni più manipolate della storia russa come ha voluto sottolineare qualcuno? Difficile dirlo, ma la percezione è che nelle scorse tornate il fenomeno dei brogli più classici (la manomissione dell’urna da parte della commissione elettorale) era stato più accentuato. Il dato essenziale e più interessante è un altro: malgrado i brogli milioni di russi continuano comunque ad andare alle urne.

Il voto è intelligente, non nostalgico

Il partito comunista quindi è diventato come catalizzatore del disagio quando non della protesta. Come è possibile che un partito che ancora rivendica la continuità del “programma di Lenin e di Stalin” sia riuscito a invertire un declino che da 20 anni era sembrato a tutti inesorabile? Come è possibile che un partito che alle amministrative di Mosca superava a stento il 5%, sia diventato il vincitore (perlomeno morale) delle elezioni per la Duma? I motivi sono molteplici. In primo luogo il partito di Zyuganov, è stato quello che – con maggiore enfasi – si è opposto alla controriforma delle pensioni del 2018 che ha innalzato per la prima volta l’età pensionabile in Russia (gradualmente innalzata da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 63 per le donne). E in linea generale è stata la formazione politica che ha votato alla Duma contro tutte le misure antisociali promosse dal governo negli ultimi anni. Malgrado le timidezze (i comunisti avevano promesso che sulla previdenza avrebbero raccolto le firme per un referendum, ma alle parole poi non sono seguiti i fatti), malgrado troppe volte – soprattutto in politica estera – non si sia mai distinto strategicamente dal corso putiniano, si tratta comunque del partito che parla di quello che sta più a cuore a milioni di russi: ovvero della disastrosa distruzione del welfare iniziata da Eltsin e proseguita nei decenni turboliberisti di zar Putin.

A ciò si deve aggiungere la tattica del “voto intelligente” scelta da quel che rimane del gruppo dirigente del partito Navalny che non si trova ancora in prigione o in esilio. Schiacciata dalla repressione (in questi mesi sono proseguiti selettivamente arresti, fermi, condanne e chiusure di siti internet) quella vasta galassia di opposizione “liberal” (cioè giovanile e residente nelle grandi città che la stampa occidentale fa coincidere superficialmente tout-court con Navalny) nei social network ha iniziato il tam tam per il voto ai comunisti come unica arma per incalzare il Cremlino (una tattica a cui si è unita la rarefatta area della “sinistra alternativa”).

La lunga marcia verso il 2024

Era inevitabile che con il “paziente berlinese” in prigione (e lo resterà ancora per almeno due anni) il pallino del gioco di chi deve dirigere l’opposizione sarebbe spettato ad altri e così è stato. Ora toccherà ai comunisti decidere se mettersi in gioco e diventare un ampio polo di riferimento per chi vuole mettere fine a un regime in affanno, o ripetere alla Duma la tattica accorta dell’opposizione “costruttiva” delle scorse legislature. Nel primo caso non potrebbe essere un’operazione di maquillage, ma dovrebbe essere la trasformazione di un partito, percepito come poco più che una reliquia nostalgica dell’Unione Sovietica, in un organismo “moderno”, di impianto socialdemocratico come invocano soprattutto i suoi nuovi quadri emergenti che punti direttamente – nelle prossime elezioni presidenziali del 2024 – a contendere seriamente la presidenza a Putin. Sotto questo profilo gli impazienti dovranno rassegnarsi: la lotta dell’opposizione russa non è una gara di velocità ma piuttosto una maratona.

Nuove Persone, un embrione per nuovi oligarchi?

In questa tornata Putin ha riconfermato di avere un approccio “tecnologico” alla politica. I risultati delle elezioni erano stati “disegnati” in modo da garantire il controllo assoluto di Russia Unita sul parlamento ma con un’allusione al pluralismo. “C’è più scontento, ecco vedete, faccio avanzare un po’ i comunisti”. “Si vogliono più libertà? Ecco per voi il nuovo partito Nuove Persone”. Questa formazione, di ispirazione vagamente liberale, che riesce alla sua prima apparizione nell’agone politico a superare lo sbarramento del 5% e a entrare alla Duma, è la quintessenza di ciò che al Cremlino si immagina debba essere il “quadro politico nazionale”. Movimento fondato poco più di un anno fa, Nuove Persone dice di far riferimento alle teorie interdisciplinari del filosofo sovietico (dissidente) Georgy Shchedrovitsky, scomparso nel 1994. Dietro però ci sono corposi interessi che hanno permesso alla lista di spendere almeno 20 milioni di rubli nella campagna elettorale. In primo luogo il patrimonio del proprietario dell’azienda di cosmetica Faberlic Alexey Necaev ma anche secondo il portale sempre ben informato “The Bell”, di Yuri Kovalchuk, comproprietario di Rossiya Bank e ben piazzato ai vertici nella classifica dei più ricchi uomini del paese di “Forbes Russia. Un partito non putiniano ma non avverso al potere che ha raccolto il voto soprattutto nella fascia demografica che va dai 18 ai 30 anni.

Cedimento strutturale: scricchiolii nel sistema economico

Congiuntura economica: una differenziazione in ritardo

Del resto nella lettura della società del capo del Cremlino non c’è spazio per l’alternanza al potere e men che meno, per i movimenti e le aspirazioni delle classi sociali: queste possono essere sempre manipolate e incanalate grazie proprio a quelle tecnologie politiche create ad hoc. Oggi chi lavora su questo aspetto è principalmente Sergey Kirienko, nello staff della segretaria presidenziale già dal 2016.

Tuttavia le cose, piaccia o meno alla presidenza russa, dal punto di vista “oggettivo” – materialistico – gli equilibri stanno cambiando in fretta nel mondo e metteranno ancora più in crisi l’approccio tecnocratica che piace tanto allo “Zar”. Da qualche mese il prezzo del petrolio è tornato a galleggiare verso l’alto, stabilmente sopra i 75 dollari al barile dopo i lunghi mesi di magra della pandemia. Ciò ha dato, e darà ancora, una boccata d’aria all’economia russa, ma gli effetti non si sono visti né nelle entrate delle famiglie né sul rublo che resta ben oltre gli 85 rubli contro euro, schiacciando così importazioni e consumi. I veri problemi dell’economia russa però non sono neppure congiunturali ma strutturali. Si tratta di capire, in primo luogo, come un paese che ha prosperato sull’esportazione degli idrocarburi potrà affrontare la sfida della green economy che in prospettiva dovrebbe rendere l’Europa indipendente dalle forniture di gas e petrolio russo. Una sfida decisiva per la Federazione che solo ora sta iniziando a ragionare in termini di differenziazione dell’economia (dopo averci già provato durante la presidenza Medvedev). A cui si collega il problema di un saldo demografico disastroso destinato a peggiorare in conseguenza di un covid-19 che in Russia non cessa di mordere (da oltre due mesi i casi di contagio sono rimasti intorno ai 20.000 al giorno con una media di 800 morti).

Le elezioni hanno avviato il cambiamento, malgrado i risultati

Ecco, dentro questa dinamica profonda, probabilmente il dibattito delle oligarchie e i gruppi di potere del capitalismo di stato russo è già iniziato e l’emergere di un partito come Nuove Persone potrebbe non essere un fuoco di paglia. In alcuni circoli russi si dubita già che l’ex direttore del Fsb ormai quasi settantenne, sempre meno popolare e senza una grande formazione economica potrà gestire la sfida del prossimo decennio.

La soluzione non è a portata di mano visto che per ora non si vede all’orizzonte un leader o una nuova classe dirigente che possa garantire una transizione morbida o permetta a Putin se non di andare in pensione almeno di tirare le fila politiche russe da una posizione defilata. Per storia e tradizione tutti i cambi di regime in Russia sono stati complessi e spesso segnati da fortissime fibrillazioni e c’è ragione di pensare che anche questa volta possa essere così: Putin è stato – ed è ancora – il punto di equilibrio tra un complesso di poteri e interessi che verosimilmente faranno molto fatica a trovare una mediazione stabilizzante.

Del resto, a ben vedere, si tratta di una questione che va ben oltre le camarille moscovite e investe tutte le grandi capitali europee se è vero, come è vero, che l’Europa potrà affrancarsi dall’abbraccio americano solo se troverà una sponda in Russia. Sullo sfondo potrebbe tornare in auge persino il vecchio dilemma russo: slavofili o occidentalisti?

Se proiettato su scala internazionale il voto russo ha prodotto un paradosso politico che le cancellerie dei paesi occidentali stenteranno a comprendere: il loro sostegno a Navalny ha determinato per ora il rafforzamento dei comunisti. Né Merkel,né Macron, né Biden, avrebbero immaginato che i loro sforzi per sostenere l’opposizione “liberale” avrebbero potuto avere un simile sviluppo. Nei prossimi mesi potremmo avere persino un’Europa che si riappacifica con Putin. Una svolta “comunista” nel paese, sarebbe ancora più nazionalista e statalista (e sicuramente filo-cinese) di quanto a Bruxelles e a Washington si possano permettere.

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1991, allarme a Mosca: da nomenklatura sovietica a oligarchia russa https://ogzero.org/30-anni-fa-in-unione-sovietica-il-putsch-agostano/ Mon, 16 Aug 2021 08:51:28 +0000 https://ogzero.org/?p=4462 Il 13 agosto 1961 a Berlino veniva eretto un muro 60 anni fa il cui crollo avrebbe frantumato l’impero sovietico 30 anni dopo, il 19 agosto 1991. Attorno a quel muro costruito in un giorno si crearono i più appassionanti plot spionistici (Checkpoint Charlie era un luogo topico, abitato da spie nei film e nella […]

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Il 13 agosto 1961 a Berlino veniva eretto un muro 60 anni fa il cui crollo avrebbe frantumato l’impero sovietico 30 anni dopo, il 19 agosto 1991. Attorno a quel muro costruito in un giorno si crearono i più appassionanti plot spionistici (Checkpoint Charlie era un luogo topico, abitato da spie nei film e nella realtà); la contrapposizione del 1961 non lasciava certo presagire la fine dell’Unione Sovietica, sancita 30 anni fa da un Putsch agostano non del tutto trasparente allora, in epoca di perestrojka, negli intenti, nell’abilità e nella scarsa determinazione dei protagonisti.

In appendice dello studio che vede impegnato Yurii Colombo ad analizzare la storia dei servizi segreti russi, ci propone questa ricostruzione senza dare spazio a dietrologie complottiste: è sufficiente riandare all’atmosfera della primavera 1991 per trovare le spiegazioni e i prodromi di quello Stato di emergenza che pose fine all’era di Gorbaciov. Ma alla fine della rievocazione nell’anniversario troviamo immarcescibile la stessa oligarchia che esercita il potere in Russia da sempre, il medesimo blocco sociale cementato anche nel putinismo.


Il Kgb nel 1985 e i primi malumori antigorbacioviani

Quando Michail Gorbaciov fu eletto segretario generale del Partito comunista dell’Urss nel 1985, il Kgb era una struttura imponente. Secondo i dati forniti da Vladimir Krjuckov, l’ultimo suo presidente prima del crollo dell’Urss, si trattava di un apparato di spionaggio che contava circa 490.000 membri (220.000 guardie di frontiera e 60.000 agenti effettivi). A dar fede ai dati ufficiali della Cia sui propri agenti (senza considerare quelli dell’Fbi), tre volte tanti gli agenti americani.

Se il nuovo leader sovietico inizialmente fu accettato supinamente e senza tanti problemi dalle strutture della “forza” del paese (anche se il complesso militar-industriale avrebbe preferito l’elezione di Grigory Romanov, il potente segretario del partito di Leningrado) via via che la sua strategia di smantellamento dell’Urss e il suo atteggiamento conciliante con l’Occidente presero forma, crebbero i malumori sia nella gerarchia del partito, sia nella struttura degli organi di sicurezza. Questi erano dirigenti non solo formati all’idea di un’Unione Sovietica potente e temuta, ma soprattutto si trattava di uomini cresciuti all’ombra di Yuri Andropov, il quale aveva promosso ai vertici della struttura della sicurezza uomini della provincia, lontani dal clima di corruzione e lassismo che si era iniziato a respirare a Mosca sin dalla seconda metà degli anni Sessanta quando la burocrazia iniziava ad assaporare, senza più vergognarsene, i propri privilegi.

Domande in sospeso

Di questa filiera faceva parte anche Kravcjuk, classe 1924 e nato nella mitica Stalingrado; si era formato negli anni della riforma kruscioviana ed era stato portato al vertice del Kgb proprio da Gorbaciov nel 1988. Sarà proprio lui una delle pedine chiave dell’organizzazione del famoso “Putsch d’agosto” che terrà con il fiato sospeso tutto il mondo tra il 18 e il 21 agosto 1991.

Il goffo e per certi versi comico tentativo di porre fine al regime gorbacioviano, ha provocato nei decenni molte perplessità e provocato illazioni. Ci si è posti soprattutto molti interrogativi sulle effettive capacità del «Comitato statale per lo stato di emergenza» (così si definì ufficialmente il gruppo che si mise alla testa del fallito golpe): perché i “congiurati” si decisero a un passo così drammatico? Perché Eltsin non fu arrestato, lasciandogli la possibilità di organizzare la resistenza a Mosca? Perché i reparti speciali “Alfa” dei servizi segreti non entrarono in azione per stroncare le manifestazioni di protesta? Sono domande a cui oggi, a 30 anni di distanza, è possibile dare una risposta senza ricorrere a dietrologie “cospirazioniste”. Ma per far ciò sarà necessario tornare alla primavera del 1991.

L’atmosfera dell’epoca

Dualismo e misure emergenziali

Il 17 marzo 1991 con il referendum per il mantenimento di un’“Urss riformata” Gorbaciov aveva messo a segno forse l’unico vero successo della sua breve carriera politica. Oltre il 70% degli elettori sovietici delle repubbliche dove si tenne il plebiscito (non vi parteciparono i paesi baltici, Armenia, Georgia e Moldavia perché già sulla via della secessione) si dichiararono d’accordo a mantenere l’Unione. Divenne però presto evidente che si trattava solo di una mezza vittoria per il presidente dell’Urss, perché Boris Eltsin si stava preparando a vincere le elezioni della presidenza della Federazione russa della primavera e a svuotare dall’interno il governo centrale, avocando a sé il potere della Banca centrale di Mosca e avviando lo smembramento del sistema fiscale federale.

Eltsin durante la campagna elettorale del 1991

Fu in quel momento che quella serie di dirigenti sovietici rimasti fino ad allora, seppur con qualche mal di pancia, fedeli servitori della perestrojka iniziarono ad accarezzare l’idea di introdurre lo stato di emergenza e mettere fine al dualismo di poteri Gorbaciov/Eltsin. I documenti e la memorialistica pubblicate in Russia in questi ultimi 20 anni sono pressoché unanimi nel sostenere che una tale eventualità era stata valutata anche dallo stesso segretario generale. Proprio Vladimir Krjuckov, uno dei principali “congiurati dei Torbidi”, ha dichiarato in seguito che Gorbaciov giunse a dirgli qualche mese prima e senza mezzi termini:

«Prepara i documenti per l’introduzione dello stato di emergenza. Lo introdurremo, perché tutto questo non è più sopportabile!»

Vladimir Krjuckov

Che questi umori circolassero al Cremlino è stato confermato anche dall’allora premier Valentin Pavlov:

«Nel 1991 dopo gli scioperi dei minatori… divennero un’urgente necessità le misure di emergenza. La loro introduzione fu studiata da tre gruppi di specialisti sotto la supervisione generale e la direzione di Gorbaciov».

Voci premonitrici

In realtà anche in quel frangente, l’ultimo segretario del Pcus, come spesso gli era successo nei suoi 6 anni di governo, era incerto sul da farsi.  

Fu in questo quadro che nella prima settimana del luglio del 1991 Krjuckov ricevette nella sua dacia fuori Mosca l’ex capo dei servizi segreti militari italiani, l’ammiraglio Fulvio Martini, e in una conversazione riservata sostenne che l’istituzione di un governo forte in Urss, non importa se guidato da Gorbaciov o meno, stesse diventando inevitabile. Martini immediatamente informò il proprio governo di quanto bolliva in pentola a Mosca e quindi quanto poi avvenne non fu un fulmine al cielo sereno come – poi si volle far credere – per i governi occidentali e per la Nato.

Gran parte dell’entourage di Gorbaciov già allora era giunto alla conclusione che l’idea del Segretario generale di poter diventare l’ago della bilancia tra le Repubbliche nella nuova “Urss riformata” fosse un’illusione e si mise decisamente sulla strada del golpe, una strada che si rivelò però ancora più disastrosa della resistenza passiva del loro capo, facilitando così il compito di Eltsin.

Protagonisti: i vertici delle istituzioni e loro reali intenti

Oltre che sul Kgb il comitato golpista poteva contare su centri di potere estesi: dalla sua parte erano schierati il ministro degli Interni Boris Pugo e quello della difesa il maresciallo Dmitrij Jazov, e last but not least il capo del complesso militar-industriale Oleg Baklanov. L’obiettivo del “Comitato” non era “neostalinista”, come un certo giornalismo internazionale sostenne allora. I suoi protagonisti avevano digerito ben bene il XX Congresso e Krjuckov nella sua autobiografia si è dichiarato perfino sostenitore, seppur tiepido, della Primavera di Praga. Il loro obiettivo era piuttosto quello di realizzare una “Tienanmen russa” per poter poi rilanciare le riforme di mercato sotto la direzione del partito e dello stato centrale. Si trattava in primo luogo di un tentativo di formare un “blocco d’ordine”: sempre nelle sue memorie Krjuckov ha ricordato che egli stesso in quanto capo dei servizi segreti insieme a vari membri del Comitato centrale del partito avevano stretto relazioni, già da qualche mese prima del putsch, con il leader dell’ascendente partito nazionalista e di estrema destra Vladimir Zirinovskij che si era dimostrato interessato all’idea di “stabilizzare” il paese.

I veri registi politici dell’operazione erano il vicepresidente dell’Urss, Gennady Janaev e soprattutto il primo ministro Valentin Pavlov che lavorava a costruire un asse con l’Europa. L’allora capo del Kgb ha anche ricordate che:

«Pavlov ci aveva relazionato sul suo viaggio in un certo numero di paesi dell’Europa occidentale. A suo parere, i paesi europei erano pronti a sviluppare un’ampia cooperazione commerciale ed economica con l’Unione Sovietica… Gorbaciov, tuttavia, aderì ostinatamente a un percorso di sviluppo prioritario delle relazioni con gli Stati Uniti. Si nutriva chiaramente di illusioni sugli Stati Uniti e credeva (in realtà solo lo sosteneva) che solo la direzione americana avrebbe potuto risolvere la maggior parte dei nostri problemi economici…».

Gennady Janaev

Valentin Pavlov

Dilettanti apicali allo sbaraglio

I golpisti quindi si illudevano persino di poter trovare se non sostegno almeno indulgenza nel Vecchio Continente in chiave antiamericana.

Non è un caso che nella conferenza stampa in cui venne annunciata la rimozione del Segretario generale e l’introduzione del coprifuoco, il comitato di “salute pubblica” promise di sostenere anche nel futuro l’iniziativa economica privata in Urss e chiese perfino comprensione da parte dell’Onu.

Quel grado di dilettantismo che dimostrarono non arrestando Eltsin appena rientrato da Alma Ata la sera del 18 agosto, fu un’ulteriore conferma di quanto il loro non fosse un progetto razionale ma una confusa avventura destinata al fallimento. Invece di volerlo arrestare in realtà il gruppo dei “congiurati” era interessato paradossalmente a trattare con Eltsin e il premier Pavlov proprio il 18 agosto iniziò ad avere febbre e pressione alta, una malattia diplomatica che tolse quel poco di testa politica al gruppo dei golpisti.

Ecco come riassunse Krjuckov quello che avvenne: «Non appena Eltsin lasciò Arkhangelskoye e divenne chiaro che a causa della malattia di Pavlov, l’incontro tra noi e lui non avrebbe avuto luogo, l’intera guardia del comitato che lo controllava, incluso il gruppo “Alpha”, fu rimossa. Questo è quanto avvenne. Certo, non sarebbe stato un problema trattenere Eltsin, accompagnarlo, come alcuni sostenevano, in un altro luogo, impedire il suo trasferimento a Mosca e in generale fare qualsiasi cosa. Ma non c’erano tali intenzioni, e qualsiasi ipotesi da questo punto di vista fu pura illazione al fine di presentare il Comitato di emergenza statale come una sorta di mostro, pronto a commettere qualsiasi atrocità».

Il “Comitato di salute pubblica” quindi non era neppure pronto a mettere agli arresti domiciliari il principale capo dell’opposizione del paese! E tanto meno era pronto al massacro di chi tra il 19 e il 21 agosto andò sulle barricate; tanto è vero che i pochi morti degli scontri di piazza furono più frutto del caso che della volontà repressiva dei reparti dell’esercito mobilitati nella capitale.

La completa afasia del Kgb e dell’esercito è dimostrata dal fatto che la situazione era completamente fluida e per certi versi meno complicata di quella che i dirigenti cinesi avevano dovuto affrontare a Pechino l’anno prima. La descrizione che Krjuckov fa della situazione delle “forze in campo” in quei 3 giorni è sufficientemente realistica:

«Le informazioni provenienti dalle regioni in quel momento erano incoraggianti. L’appello a scioperare e organizzare manifestazioni non trovava sostegno. Durante il 19 e 20 agosto, in tutta l’Unione Sovietica su una popolazione di quasi 300 milioni di persone, non più di 150-160.000 presero parte a scioperi e manifestazioni… Il 20 agosto si svolse a Leningrado la manifestazione più grande, a cui parteciparono circa 50.000 persone… Il giorno prima, il 19 agosto, Eltsin aveva pronunciato il famoso discorso che fu pubblicizzato in tutto il mondo da un carro armato vicino alla Casa Bianca [sede del governo russo N. d. R.]. Egli condannò il “Comitato di emergenza”, chiamò alla resistenza per la difesa della Casa Bianca anche se nessuno lo avrebbe attaccato. In momenti diversi si riunirono per difendere la Casa Bianca dalle 3-4000 alle 30-35.000 persone, ma non tutte erano persone che sostenevano attivamente la leadership russa, c’era tanta gente che si era recata lì solo per curiosità».

Krjuckov ammette anche che pure i sostenitori del colpo di stato si dimostrarono passivi, mentre la stragrande maggioranza dei sovietici restava incollata davanti alla Tv in attesa di capire come sarebbe finita.

«Indipendentemente da ciò che è stato detto in seguito – ricorda ancora l’allora capo del Kgb – il Comitato di emergenza statale non esortò i suoi sostenitori a scendere in piazza e, se necessario, a difendere con la forza il regime sovietico. Le organizzazioni locali del Pcus erano in generale confuse, la maggior parte dei comunisti era in uno stato di completa e schiacciante inerzia».

Barricate nell’agosto 1991

Il golpe andò così sgonfiandosi da solo mentre parte dell’esercito decideva di passare con Eltsin, oppure semplicemente restò chiuso nelle caserme in attesa che la situazione si chiarisse. Kravjuck mentre il “Comitato” si sfasciava, tentò persino la carta della mediazione con Eltsin:

«La notte del 21 agosto – testimoniò in seguito Kravcjuk – ebbi due o tre conversazioni con Eltsin. Gli dissi che non prevedevo di dare l’assalto alla Casa Bianca. Le conversazioni erano abbastanza tranquille. Non sentivo in lui alcuna irritazione. Inoltre, Eltsin mi disse che dovevamo cercare una via d’uscita dalla situazione che si era creata, e sarebbe stato bene per lui, poter volare con me a Foros per vedere Gorbaciov».

La resa

La mattina del 21 i golpisti ormai completamente demoralizzati volarono da Gorbaciov in Crimea e si arresero. Il vice di Gorbaciov, Janaev, al momento di essere arrestato nel suo ufficio a Mosca, fu trovato completamente ubriaco.

In realtà Krujckov al momento di entrare a far parte del “Comitato” si era consultato solo con un ristretto gruppo di collaboratori pensando che la catena di comando avrebbe comunque funzionato, in caso di necessità.

«Il “Gruppo “Alpha” – ha testimoniato un funzionario del Kgb di allora a cui era stato assegnato il compito di intraprendere una qualsiasi azione di forza nel caso fosse stato necessario – era pronto per l’operazione di internamento di Eltsin. Mio Dio, però non si sarebbe trattato di ucciderlo, come per esempio Salvador Allende in Cile. Tuttavia Krjuckov non diede neppure l’ordine al comandante del gruppo “Alpha” Karpuchin di agire, e i soldati delle forze speciali restarono sedute lì al loro posto, senza far nulla».

Il corpo delle forze speciali “Alpha”.

Il solito blocco sociale di potere: oligarchia putiniana

Ciò che i putschisti desideravano difendere più di ogni altra cosa, era la posizione economica dei gruppi di interesse che rappresentavano, i servizi di sicurezza, le industrie e l’agricoltura pubblica; ma quel blocco di interessi non poteva che essere sconfitto perché buona parte della nomenklatura aveva da tempo smesso di sostenere le strutture di partito e dello stato: pretendeva a questo punto di diventare proprietaria delle ricchezze del paese grazie alle privatizzazioni, osservando con neutralità come sarebbe finita la contesa politica interna. Ci vorrà un decennio e l’ascesa di Putin perché quel grumo di interessi rappresentato dai golpisti tornasse in auge e riuscisse a cementare un nuovo blocco sociale di potere. Krjuckov e gli altri congiurati, verranno arrestati e resteranno alcuni anni in galera mentre il Kgb, in quanto agenzia ormai solo russa, negli anni Novanta passerà attraverso un doloroso periodo di ristrutturazione e ridefinizione dei propri compiti.

 

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Destini dirottati: equilibri in bilico nella Federazione russa https://ogzero.org/destini-dirottati-gli-equilibri-della-federazione-russa-in-bilico/ Fri, 28 May 2021 17:40:35 +0000 https://ogzero.org/?p=3678 La vicenda del “dirottamento” del volo Ryanair sui cieli della Bielorussia ha riportato in auge il tema del destino del piccolo paese slavo, dopo i tumultuosi mesi seguiti alle presidenziali del 9 agosto scorso che hanno riconfermato – tra violenze della polizia e manifestazioni oceaniche dell’opposizione – Alexander Lukashenko alla presidenza della Repubblica. Il tema […]

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La vicenda del “dirottamento” del volo Ryanair sui cieli della Bielorussia ha riportato in auge il tema del destino del piccolo paese slavo, dopo i tumultuosi mesi seguiti alle presidenziali del 9 agosto scorso che hanno riconfermato – tra violenze della polizia e manifestazioni oceaniche dell’opposizione – Alexander Lukashenko alla presidenza della Repubblica. Il tema è scottante perché già come scrivemmo nel giugno scorso, rimanda alle prospettive non solo per la Bielorussia e per tutte quelle realtà che un tempo si definivano il “Vicino estero” russo ma soprattutto del destino della Federazione russa stessa, ovvero del vero oggetto del contendere.

Il traghettatore filoccidentale o il golpe soft?

Per lungo tempo – almeno dal 2018 – Vladimir Putin è stato tentato da un soft putsch a Minsk che portasse ai vertici dello stato bielorusso Victor Babariko, esperto banchiere con molti agganci a Mosca, soprattutto a Gazprom. Un’incertezza durata fino a dopo il 20 agosto 2020 quando dopo l’avvelenamento di Alexey Navalny, lo “Zar” ha sentito “odore di bruciato” (cioè si è convinto che ci fosse un tentativo dei paesi baltici e della Polonia di imporre una transizione filoccidentale alla Bielorussia, via manifestazioni di massa) e ha riconfermato il pieno endorsement al governo di Minsk, non solo a parole, ma nei fatti, tanto è vero che la stessa operazione dell’arresto del fondatore di “Nexta” sarebbe stata gestita tra Atene e Minsk proprio dai servizi russi. Dopo lo sgonfiamento delle manifestazioni antiregime (in larga parte determinate dall’insipienza del gruppo dirigente dell’opposizione ancor prima che dalla repressione) l’ipotesi di “golpe soft” che porti al governo di Minsk un traghettatore del paese verso una “Nuova Bielorussia” continua a circolare all’interno di molte cancellerie europee come ci ha confermato una nostra autorevole fonte dell’opposizione bielorussa oggi in esilio a Londra. L’idea che circola insistentemente sarebbe quella di proporre un uomo dell’esercito “rinnovatore e filoccidentale” che però non sia inviso (se non addirittura gradito) a Mosca. Si riproporrebbe così – seppur in un contesto diverso – l’accordo sottobanco sulla Polonia post-1981 quando il generale Wojciech Jaruzelski pilotò il colpo di stato del 13 dicembre. Come diventò evidente in seguito la mossa sovietica fu realizzata tenendo conto delle esigenze occidentali e rappresentò il punto di equilibrio tra la Dottrina Breznev e la conferma dell’impegno da parte di Varsavia con il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale a pagare i debiti contratti negli anni Settanta.

Il North Stream 2 a rischio

Una variabile che difficilmente oggi potrebbe andare in porto sia perché Lukashenko non sembra disposto a farsi deporre, sia perché Putin potrebbe accettare di valutare tale possibilità solo nel quadro di una trattativa globale che tenga insieme perlomeno la questione del Donbass ma soprattutto il destino dei gasdotti russi in Europa (e in questo senso andrebbe la disponibilità Usa a congelare le sanzioni contro North Stream 2). Secondo Sofia Solomofova del sempre ben informato portale Vzgljad in questi giorni soprattutto Londra starebbe lavorando per far saltare definitivamente il completamento di North Stream 2. Ma soprattutto Boris Johnson punterebbe a bloccare l’altro grande progetto russo: il gasdotto (che attraverserebbe inevitabilmente la Bielorussia e quindi fonte di finanziamento per il regime di Lukashenko), che dovrebbe portare in Germania dalla Siberia Occidentale materia prima per un volume complessivo di 33 miliardi di metri cubi di gas entro il 2022.

La posa della pipeline del Nord Stream 2 nel Mar Baltico (foto Axel Schmidt / © Nord Stream 2).

L’Europa è alla svolta green: o meglio, cambia fornitori…

Schierata ormai apertamente contro la collaborazione energetica tra Russia e UE c’è ora anche il capo della Commissione europea Ursula von der Leyen la quale in questa fase non vorrebbe dare nessuna boccata di respiro all’economia russa. Quello che sarebbe assolutamente da evitare per von der Leyen è che «la Russia tenti di modernizzare la sua economia con i proventi del settore del petrolio e del gas». L’Unione Europea del resto, nel quadro della svolta verso la green economy ha già dichiarato che smetterà di consumare idrocarburi entro il 2050 e nel frattempo potrebbe fare sempre più a meno dell’energia russa puntando non tanto sul gas americano trasportato via mare (che costa davvero troppo) quanto piuttosto sui giacimenti in Algeria e sulle enormi riserve dell’Azerbaigian.

… e la Russia cambia clienti

Igor Yushkov, esperto dell’Università della Finanza del governo della Federazione russa e del Fondo nazionale per la Sicurezza energetica ritiene che ormai Mosca dovrebbe pensare seriamente ad abbandonare l’idea di restare semplicemente una potenza energetica (che rappresenta ancora oggi il 35% del suo Pil) per puntare a una diversificazione della propria economia che guardi all’Asia. Un processo che sarebbe, seppur forse troppo lentamente, già in corso: la Banca mondiale – non a caso – ha rivisto al rialzo le stime per la crescita economica russa che grazie alla scelta “no-lockdown” durante la pandemia dovrebbe crescere con una media del 2,5%-3,5% malgrado i ricavi russi sugli idrocarburi si siano ridotti del 30% nel  2020, l’annus horribilis per eccellenza dell’economia mondiale del Secondo dopoguerra.

Parola d’ordine: diversificare

Sia chiaro, mancando la Russia di una mercato finanziario adeguato alle sue pretese di potenza regionale petrolio e gas restano per ora, come già successe dopo il crack del 1998  (sperando che il prezzo del petrolio continui a restare stabilmente oltre i 40 dollari al barile) la base per qualsiasi ipotesi di differenziazione della propria economia, ma alcune dinamiche sembrano comunque già visibili. In due settori principalmente: agricoltura e industria metallurgica.

1) Agricoltura

Già da qualche anno la Russia sta conoscendo un vero e proprio boom dell’agricoltura dovuto alla modernizzazione delle aziende agricole che l’hanno riportata a vertici mondiali tra gli esportatori di grano (era stato il grande punto di forza dell’economia zarista e la principale debolezza di tutta l’economia sovietica dopo le collettivizzazioni forzate dell’era staliniana). Ma non solo. La Russia putiniana è diventata autosufficiente dal punto di vista delle esigenze del mercato interno nella produzione di carne di manzo (limitando le importazioni a quote provenienti dall’America Latina) e addirittura ha iniziato a inondare i mercati asiatici di proprio pollame e carne suina. E successi significativi il mondo agricolo russo li sta ottenendo anche nella produzione di zucchero, olio di semi e, parzialmente, anche nella produzione di frutta bio.

2) Industria metallurgica

Negli ultimi anni la Rust Belt russa è stata completamente modernizzata. Un esempio lampante dello sviluppo delle industrie ad alta tecnologia russa è la cantieristica (la Russia è leader nella produzione di navi rompighiaccio) e la costruzione di aeromobili. Stiamo parlando principalmente del progetto All Siberian (progettazione e produzione sono stati realizzati a Irkutsk) dell’innovativo aereo civile di linea Irkut Ms-21 a fusoliera stretta, un bireattore monoplano ad ala bassa che non solo dovrebbe sostituire già quest’anno i desueti Tupolev Tu-154 e Tu-204/2014, ma pure altamente concorrenziale rispetto a Airubus e Boeing (e non a caso tale progetto è finito sotto sanzione Usa già da tempo) sul mercato mondiale.

destini dirottati

Il nuovo velivolo di produzione All Siberian.

Business as usual: la resa dei conti tra Bielorussia e Ucraina

La nuova crisi  tra Russia  e Occidente nella variante bielorussa sarebbe quindi una faccenda di business as usual e di rotte energetiche, e assai meno una “querelle antifascista”.  Solo degli inguaribili ingenui come alcuni rossobruni di casa nostra del resto sono riusciti a vedere dietro l’operazione di pirateria aerea di Lukashenko una “svolta antifascista” di Minsk (il suo appello contro una fantomatica ondata “neonazista” in Bielorussia è apparsa davvero bizzarra) e che avrà come ricaduta inevitabile una resa dei conti, a questo punto definitiva, tra Bielorussia e Ucraina. Non che Roman Protasevich e la sua fidanzata non siano stati realmente in prima fila prima nella fase finale delle manifestazioni armate dell’estrema destra in Piazza Maidan e poi  a combattere nel Battaglione Azov in Ucraina orientale sette anni fa, ma la faccenda – per quanto grave – risale a quando Protasevich aveva poco più di 18 anni e successivamente egli ha ripetutamente affermato di aver rotto ogni relazione con il mondo dell’estrema destra. L’ex neofascista preoccupava Lukashenko per altri motivi. In primo luogo per i suoi rapporti con la Cia, da cui nel 2017 ha ottenuto i finanziamenti per aprire il suo fortunato canale telegram “Nexta (oltre un milione di iscritti) – una vera e propria spina nel fianco per Lukashenko – che ha avuto un ruolo non del tutto marginale nelle mobilitazioni dello scorso autunno.

Roman Protasevich

Giochi regionali

Per capire cosa significa la rottura definitiva tra Zelensky e Lukashenko oggi in corso basterà ricordare due aspetti significativi nelle relazioni tra i due paesi slavi. Dopo il cessate il fuoco del 2014 nel Donbass fu proprio il presidente bielorusso a proporsi come mediatore tra Putin e l’allora presidente ucraino Petr Poroshenko, e non a caso la Bielorussia, in quel contesto, non riconobbe l’annessione russa della Crimea (anche se poi non votò le risoluzioni Onu di condanna della Federazione russa). Ora Minsk non potrà più giocare il ruolo dell’ago della bilancia su questo terreno e ciò implica la rottura verticale delle relazioni anche con Ankara che ancora qualche settimana fa ha dichiarato apertamente di voler essere l’alfiere degli interessi di Kiev nella regione, a prescindere dal ruolo che gli Usa vogliano giocare in Ucraina (dove Monsanto ha messo gli occhi sulle fertilissime terre nere).

Mini-Urss: la svolta occidentale rimarrà una chimera?

L’isolamento internazionale di Lukashenko è ormai pressoché totale  e ciò potrebbe far rinascere le aspirazioni mai sopite di Mosca alla formazione di una Confederazione panrussa (una mini-Urss di cui farebbero sostanzialmente parte solo Russia e Bielorussia), e di conseguenza Lukashenko diverrebbe solo un leader regionale. Se l’operazione andasse in porto ciò dovrà avvenire forzatamente entro il 2024, in occasione della rielezione di Putin alla presidenza fino al 2030 e blinderebbe dal punto di vista politico-militare la Bielorussia. A questo punto la svolta filoccidentale di Minsk diverrebbe una chimera e questo spiega perché Polonia e paesi Baltici insistano per un rapido cambio nei rapporti di forza tra Russia e paesi Nato a Est.

A restare schiacciato in un gioco ormai apertamente geopolitico rischia di restare l’ampio movimento democratico e femminista bielorusso dei mesi scorsi che aveva con intelligenza tentato di sottrarsi dalla scelta di schierarsi al di qua o al di là di quella invisibile cortina di ferro che divide ancora l’Europa nel 2021.

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L’opzione panorientale collegata alla guerra di spie panoccidentale https://ogzero.org/tensioni-diplomatiche-tra-russia-e-repubbliche-ex-sovietiche/ Mon, 10 May 2021 09:14:31 +0000 https://ogzero.org/?p=3401 La Repubblica ceca intende chiedere alla Russia almeno un miliardo di corone (39 milioni di euro), come risarcimento dei danni materiali per l’esplosione in un magazzino di Vrbětice, avvenuto il 16 ottobre 2014; Praga accusa i servizi russi Svr e Gru di essere coinvolti. Il risultato è stata l’espulsione di numerosi diplomatici dai rispettivi paesi. […]

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La Repubblica ceca intende chiedere alla Russia almeno un miliardo di corone (39 milioni di euro), come risarcimento dei danni materiali per l’esplosione in un magazzino di Vrbětice, avvenuto il 16 ottobre 2014; Praga accusa i servizi russi Svr e Gru di essere coinvolti. Il risultato è stata l’espulsione di numerosi diplomatici dai rispettivi paesi. Si tratta dell’episodio più eclatante, ma dal 2014 (piazza Maidan) si stanno moltiplicando le tensioni diplomatiche in particolare con le repubbliche ex sovietiche nell’Intermarium tra Mar Nero e Baltico.

Yurii Colombo tenta di inquadrare questi due fenomeni geopolitici che scorrono paralleli da decenni, spiegandoli strategicamente col fatto che la Russia putiniana si trova a scommettere tra Est e Ovest: la crisi dell’egemonia russa sull’area ex sovietica rappresentata da questi strappi diplomatici capziosi, da un lato; dall’altro il progressivo abbandono della diplomazia verso l’“Europa”. Può trattarsi di una spinta a una forte condivisione di intenti tra Mosca e Pechino? Un potente alleato panasiatico che per ora cerca di mantenere le mani libere per poter perseguire il suo scopo principale: fare affari con tutti. Intanto Mosca scatena una Guerra Fredda di spie… o forse è vittima della diplomazia dell’era Biden? Si tratta di una scelta strategica o un ripiego di fronte a un’implosione del vecchio impero sovietico sullo sfondo di confini porosi che mettono in scena rivalità per pozzi di… acqua, come a Vorukh?


Storiche relazioni diplomatiche tra slavi e ricadute economiche

La recente crisi tra Repubblica Ceca e Russia è stata giudicata da buona parte degli osservatori come una nuova importante tappa della nuova Guerra Fredda che contrappone la Russia ai paesi occidentali. La decisione ceca di ridurre il personale diplomatico a Mosca a soli cinque funzionari segna de facto la rottura delle relazioni diplomatiche tra i due paesi slavi (anche se come già in occasione della crisi sul caso Skrypal nel 2017 abbiamo assistito alla fronda del presidente ceco Miloš Zeman, notoriamente filorusso). Si tratta di una situazione non del tutto inedita visto che, come è stato segnalato, ci sono stati già casi del genere nel dopoguerra. Per esempio quando l’Urss ruppe le relazioni diplomatiche con Tirana ai tempi del duro scontro ideologico per la preminenza sul movimento comunista internazionale. Non si tratta del resto dell’unico caso. La Russia non ebbe relazioni fino al 1973 con l’Irlanda (a causa della cooperazione attiva dell’Irlanda con Hitler durante la Seconda guerra mondiale) con la Spagna (le relazioni diplomatiche furono ristabilite solo dopo la morte di Franco) e con il Vaticano.

 

Tuttavia si tratta di un avvenimento che potrebbe avere delle ricadute significative ed effetti a cascata in tutta l’Europa orientale e in primo luogo nei paesi baltici (dove però a rapporti politici pessimi fanno da contraltare relazioni economiche significative soprattutto nei settori del turismo e alimentare) e soprattutto in Polonia e Bulgaria. del resto le ricadute economiche sono già realtà visto che Rosatom, l’agenzia nucleare russa, è stata ora esclusa ufficialmente dalla gara d’appalto per la costruzione di due centrali in territorio ceco.

Riviste d’inchiesta: esplosione di Vrbětice

Se le accuse che sono state lanciate alla Russia si dimostrassero vere, i motivi di un casus belli ci sarebbero veramente tutti. Qualche settimana fa il portale “Bellingcat” (già noto per le sue inchieste sul caso Skypal e sull’avvelenamento di Aleksey Navalny e che fa con una certa probabilità uso di materiali delle intelligence occidentali) in collaborazione con la rivista ceca “Respekt” ha sostenuto che l’esplosione del deposito di munizioni a Vrbětice il 16 ottobre 2014, sarebbe stata opera russa e avrebbe coinvolto almeno sei agenti dell’Unità 29155 del Gru (Glavnoe razvedyvatel’noe upravlenie, il dipartimento esteri di Fsb). L’ampio articolo è ricco di dettagli. Secondo il sito britannico questa azione di diversione sarebbe stata supervisionata personalmente da uno dei comandanti in capo del Gru, il colonnello generale Andrey Averyanov, che si sarebbe recato sotto copertura in Europa centrale nel momento esatto dell’operazione e sarebbe poi tornato a Mosca poche ore dopo l’esplosione. “Bellingcat” ritiene che il generale Averyanov sarebbe “un ufficiale militare di alto rango” che, sulla base dei registri delle telefonate revisionati dalla testata giornalistica, ha una linea di comunicazione diretta sia con il capo del Gru a Mosca e sia con il Cremlino.

 

L’operazione, secondo quanto si apprende da “Bellingcat”, avrebbe coinvolto anche almeno due ufficiali del Gru che si sono recati sotto copertura diplomatica a Budapest, a circa cinque ore di macchina dal deposito di munizioni, poco prima delle esplosioni. Le informazioni sugli spostamenti degli agenti scoperti da “Bellingcat” dimostrerebbero anche che l’operazione era inizialmente probabilmente pianificata per una data precedente, ma sarebbe stata posticipata di circa una settimana, a causa di circostanze sconosciute. L’operazione sembra aver coinvolto diversi viaggi coordinati di membri dell’unità 29155 in Repubblica Ceca attraverso i paesi vicini, nonché una missione di preparazione in Svizzera.

Il coinvolgimento Fsb si allarga a macchia d’olio nella “sua” buffer-zone

L’inchiesta è particolarmente velenosa perché preannuncia altri scoop sulle presunte azioni del Fsb in Bulgaria, i cui rapporti con la Russia sono anch’essi peggiorati recentemente a causa delle “invadenze” russe mettendo in discussione la possibilità che il paese balcanico acquisti nel futuro gas russo via Turkish-stream, come sembrava possibile solo qualche mese fa.

Tuttavia il peggioramento delle relazioni tra i paesi delle cosiddette ex Repubbliche Popolari – mai stati idilliaci dopo il disfacimento della Cortina di Ferro nel 1989 – non può essere imputata semplicemente a una nuova ondata di azioni spionistiche del Cremlino, anzi rappresenta solo forse un assaggio da dare in pasto a un’opinione pubblica occidentale, pronta a vedere nuovamente nel Cremlino “l’impero del male”. Tale dinamica rimanda piuttosto al dipanarsi di una nuova fase politica lungo la linea dei confini con la Russia che può diventare foriera di rischi per la stabilità di un’intera regione.

In primo luogo si tratta della crisi di egemonia della Russia su tutta un’area iniziata negli anni Ottanta, emersa fragorosamente in Polonia ai tempi dell’ascesa di Solidarność e poi proseguita con la decisione dell’amministrazione Gorbaciov (già presa secondo Shevardnadze nel 1986) di abbandonare al loro destino quei paesi dell’Europa centro-orientale che avevano rappresentato per un trentennio una “buffer-zone” fondamentale per la difesa sovietica. Malgrado ciò, dopo il terremoto politico 1989-1991, alcuni dei paesi ex sovietici erano rimasti nell’orbita russa. In primo luogo politicamente, in modo altalenante, ma sicuramente dal punto di vista economico l’Ucraina e lo stesso si può dire, malgrado la sua associazione all’Unione Europea, della piccola Moldavia. E poi sicuramente – la Cuba d’Europa – la Bielorussia di Alexander Lukashenko che resta il principale alleato nella regione ancora oggi e perfino l’Armenia, seppur in modo più defilato. Si è sempre trattato però di relazioni segnate per questi paesi del “Vicino estero” da due elementi “diplomatici” decisivi: a) dalla necessità di avere un approccio realistico, di buone relazioni, con un vicino più potente che tende in qualche modo a costituire dei propri “confini naturali” (pressappoco quelli dell’Impero zarista); b) gli sconti e i sussidi sui prodotti energetici e tutto ciò che vi è connesso, pipeline… che la Russia può garantire.

Benessere petrolifero, furti presunti e crollo del prezzo: ruolo dell’UE al tempo di Biden

Nel primo decennio degli anni Duemila grazie al boom economico al ritmo medio di crescita del Pil del 8% annuo, determinato in primo luogo dall’esplosione del prezzo del petrolio, la Russia putiniana fu in grado di garantire questo quadro di relazioni e anzi riavvicinare in qualche misura paesi ancora più distanti politicamente (la Bulgaria, la Repubblica ceca e perfino l’ultranazionalista Ungheria di Viktor Orbán). Tuttavia a partire dal 2012 e 2013 la ruota è iniziata a girare in senso opposto e la Russia (che comunque resta inchiodata in dodicesima posizione in termini di ricchezza prodotta, un quarto in meno di quella italiana malgrado abbia due volte e mezza la popolazione dello Stivale), ha mostrato evidentemente di non poter più garantire sussidi e sconti. Le crisi politiche a Kiev e a Minsk, possono essere lette, in questo quadro, in chiave economica ancora prima che in chiave politica. La diatriba sul petrolio e gas rubati dagli ucraini già prima dell’uscita di scena di Yanukovich nel 2014 e il doppio gioco sistematicamente operato da Lukashenko nel secondo decennio dei Duemila, ne furono i chiari sintomi (e di cui le sanzioni e la chiusura semiautarchica della Russia dell’ultimo quinquennio ne rappresenta la ricaduta interna). A cui va aggiunto “il tradimento” dello storico alleato serbo, passato armi e bagagli con gli Usa, proprio a partire dalle priorità economiche ancora prima che strategiche, di ritagliarsi uno spazio in Europa.

Questa evoluzione del quadro generale si è andata a incrociare con la nuova postura di politica estera americana, con l’arrivo sulla scena di Joe Biden e il suo tentativo di “ricondurre all’ovile” un fin troppo intraprendente asse franco-tedesco (almeno nella percezione di Washington) di cui abbiamo già parlato sulle pagine di “Ogzero”.

La Germania, nell’ultima fase, ha messo in guardia gli altri paesi europei dal “clamore conflittuale” sulla Russia e si è espressa a favore dello sviluppo di relazioni di buon vicinato con Mosca per quanto Heiko Maas, ministro degli esteri tedesco targato Spd, abbia riconosciuto che i rapporti bilaterali siano “pessimi”. Tuttavia il politologo tedesco Alexander Rahr ritiene che la leadership tedesca potrebbe prima o poi farsi prendere la mano dal desiderio di alcuni paesi dell’Europa orientale di trascinare la Germania in un duro confronto con la Russia. Le prossime elezioni legislative tedesche se vedranno l’ascesa al governo dei Verdi, da sempre più duri con la Federazione che i socialdemocratici, potrebbero dare indicazioni importanti in questo senso.

Guerra Fredda: sanzioni, minacce… il pendolo oscilla a Oriente?

Che il clima in Europa non tenda al bello non c’è proprio bisogno di un meteorologo, per parafrasare Bob Dylan. Il 23 aprile scorso l’ex premier russo Medvedev, ora passato al ruolo di vice di Putin alla Sicurezza nazionale, ha pubblicato un articolo per “Ria Novosti”, in cui riconosce che «negli ultimi anni le relazioni tra Russia e Stati Uniti sono passate di fatto dalla rivalità allo scontro, sono infatti tornate all’era della Guerra Fredda. La pressione delle sanzioni, delle minacce, del confronto dei conflitti, della protezione dei propri interessi egoistici: tutto questo fa precipitare il mondo in uno stato di instabilità permanente».

Dmitry Medvedev

Ha citato però, promo domo sua, un’interessante analogia storica con la crisi dei missili a Cuba nel 1962 che segnò il punto più basso e pericoloso delle relazioni Est/Ovest nel dopoguerra. Allora come oggi gli Usa avrebbero peccato di miopia e avventurismo.
«La politica estera degli Stati Uniti in quel momento – scrive Medvedev – costrinse il nostro paese a reagire di conseguenza. Alla fine degli anni Cinquanta e all’inizio degli anni Sessanta, ciò si è manifestato nel dispiegamento di missili americani in Turchia, Vietnam del Sud e Libano. E nella maldestra politica a Cuba, che ha generato una rivoluzione, e poi nel tentativo di riprendere il controllo dell’Isola della Libertà. E in molti altri modi».

Secondo Medvedev sessant’anni fa gli Usa erano tuttavia in grado di “razionalizzare” le relazioni internazionali mentre «oggi la situazione è un po’ diversa: gli Stati Uniti sono scivolati in una politica estera instabile. Ciò si è manifestato anche nel rifiuto dell’accordo nucleare con l’Iran e il ritiro dal Trattato sui Cieli Aperti». Si tratta di una tesi di fondo della diplomazia russa, quella di una progressiva “perdita della bussola” da parte americana che a Mosca hanno iniziato a propagandare già nell’era Obama. In questo quadro, per Medvedev, è necessario costruire un contrappeso che abbia come baricentro il quadro asiatico. «Dopo il crollo dell’Urss, la parità è scomparsa per un po’. Gli Stati Uniti, avendo vissuto per un decennio e mezzo in un sistema di coordinate, quando nessun altro paese al mondo non solo non aveva un potere paragonabile, ma nemmeno aveva un ipotetico diritto di avere tale potere, hanno semplicemente perso l’abitudine di un dialogo alla pari.
La nuova amministrazione statunitense, ripristinando la sua posizione di governante mondiale e protettrice dell’Occidente collettivo (e allo stesso tempo convincendosi di questo), non ha la forza di ammettere che qualcuno al mondo possa avere capacità infrastrutturali e politico-militari potenzialmente paragonabili a loro. Per esempio, Cina o Russia. Il mondo è congelato nell’incertezza, ma l’Asia lo aiuterà» ha concluso il delfino di Putin.

Da parte russa tutto questo non è nulla di nuovo, si tratta del rilancio dell’ipotesi dell’alleanza semistrategica tra i due paesi ex comunisti in chiave antiamericana. Per ora a Pechino hanno fatto orecchie da mercante all’appello russo, ma non è detto che a medio termine questa alleanza semistrategica, non possa veramente prendere corpo.

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Alexey Navalny, questo sconosciuto: una prospettiva https://ogzero.org/alexey-navalny-questo-sconosciuto-una-prospettiva/ Wed, 27 Jan 2021 11:16:20 +0000 http://ogzero.org/?p=2312 Il riaffiorare delle proteste antiregime in Russia ripropone il tema dello stato di salute socio-economico del paese, delle prospettive della presidenza Putin e della riemersione di Alexey Navalny (dopo l’avvelenamento con Novichok ad agosto in Siberia e l’arresto al ritorno in patria) come possibile alternativa democratica. Rimandando ad altra occasione l’approfondimento, importante, dei primi due […]

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Il riaffiorare delle proteste antiregime in Russia ripropone il tema dello stato di salute socio-economico del paese, delle prospettive della presidenza Putin e della riemersione di Alexey Navalny (dopo l’avvelenamento con Novichok ad agosto in Siberia e l’arresto al ritorno in patria) come possibile alternativa democratica. Rimandando ad altra occasione l’approfondimento, importante, dei primi due aspetti, vediamo di concentrarci sulla figura del blogger antisistema tanto discussa quanto poco conosciuta anche in Occidente.

Dall’opposizione mainstream a Narod

Navalny muove i suoi primi passi nel mondo politico nei primi anni Duemila nell’universo dell’opposizione “mainstream” di Yabloko di Viktor Yavlinskij uno stimato accademico, vice primo ministro in era gorbacioviana che propone ricette economiche di liberismo temperato sulla falsariga dei cristiano-sociali tedeschi condite con disponibilità e aperture alle questioni dei diritti civili, Lgbt compresi. Ma per Navalny si tratta di un mondo compassato e old fashion che gli sta stretto: il giovane blogger vuole una politica più aggressiva, più militante e costruita sull’uso professionale delle nuove tecnologie. Nel 2007 lascia Yabloko per fondare il Movimento nazional-democratico “Narod” (“Popolo”): un pot-pourri in cui si agglutinano soprattutto gli ex nazional-bolscevichi di Limonov. Controllo rigido della migrazione interna e stato forte caratterizzano una forza politica che non decollerà, anche perché quello spazio politico è ben presidiato da Vladimir Zirinovsky, lo xenofobo leader del Partito liberaldemocratico.

Dal fascino della destra e al maquillage populista

Tre anni dopo, e siamo nel 2010, Navalny prende parte a “Russky Marsh” la manifestazione dell’estrema destra in cui si sprecano le bandiere nere con la celtica, le foto di Ivan Grozny, e i cui partecipanti non si vergognano di dichiararsi antisemiti e omofobi. Ma con la candidatura per sindaco di Mosca, nel 2012, su consiglio dei suoi spin-doctor Navalny “ribrandizza” la sua immagine per intercettare l’elettorato giovanile della capitale, educato al liberalismo di stampo occidentale. Un riposizionamento che gli frutterà il 27,2% dei consensi. Un maquillage populista, il suo programma elettorale alla carica di sindaco, che accanto alla rivendicazione del diritto al matrimonio gay alterna l’attacco a Putin sui temi della corruzione, ma anche una politica sull’immigrazione centroasiatica reazionaria non molto diversa da quella della Lega di Salvini. Nel frattempo parteciperà, in prima fila, alle grandi manifestazioni contro i brogli delle elezioni presidenziali del 2011-2012.

Navalny sconosciuto

Alexey Navalny alla Marcia Russa il 4 novembre a Mosca nel 2011

Una macchina politica fondata sul personaggio

Il riflusso di quelle che per ora restano le più grandi manifestazioni di protesta da quando è nata la Federazione russa lo inducono a riflettere. Da allora in poi inizia a costruire una propria macchina politica centralizzata di stile “leninista” che ruota tutto intorno alla sua persona che cresce negli anni in oltre sessanta provincie in tutto il paese, dimostrando, va detto, notevole coraggio in uno stato dove qualsiasi cosa si muova viene messo subito sotto la lente d’ingrandimento dei servizi segreti e della polizia. Si tratta di un’intuizione forte: per i russi, tradizionalmente, la politica è sempre qualcosa che ruota intorno a un leader carismatico – non importa se si chiami Pietro I o Stalin, Ivan Grozny o Pugacev. Il nome del suo partito cambia spesso, più importanti sono le front organizations di cui la principale è “il centro anticorruzione” (che ha prodotto il recente film – oltre 70 milioni di visualizzazioni – sull’ormai famosa residenza di Putin da 38.000 metri quadrati in Crimea) ma al cui centro c’è sempre e solamente il portale navalny.com. Non a caso quando viene escluso dalla corsa per le presidenziali del 2018 a causa di una condanna penale (un reato fiscale che molti osservatori sostengono sia stato fabbricato dall’Fsb) preferisce non puntare su qualche suo braccio destro ma chiamare al boicottaggio del voto.

Il programma politico neoliberale

È in questo periodo che mette a punto il suo programma politico che non ha mai voluto troppo pubblicizzare, temendo come altri politici populisti in ascesa, i “temi divisivi”. Il suo piano economico per lo sviluppo della Russia è sin troppo semplice: aumento del salario minimo a 25.000 rubli al mese, aumento delle pensioni e dei servizi sociali dalla Sanità all’Istruzione. Da dove reperire queste risorse? Le ricette, neoliberali, non sono molto diverse da quelle attuate in Occidente che si sono dimostrate disastrose per le classi subalterne: «Il nostro programma include un’ampia gamma di misure per liberare gli imprenditori dalla pressione della burocrazia, dei funzionari della sicurezza e dei monopoli. Stiamo implementando un programma per demonopolizzare l’economia e ridurre i prezzi. Ridurremo il numero di organismi di regolamentazione e ne liquideremo alcuni. […] Aboliremo la contabilità fiscale separata e passeremo completamente alla rendicontazione contabile in conformità con gli standard internazionali. Vieteremo l’avvio di procedimenti penali nel caso in cui si consideri lo stesso caso nel quadro di una controversia commerciale, così come mettere in custodia gli imprenditori per reati economici in attesa di una sentenza».

Le sue bordate ovviamente sono contro quella “rinazionalizzazione” dell’economia volta da Putin – una sorta di bicefalo di capitalismo di stato con turboliberismo nel mondo lavorativo – che ha rimesso sotto controllo statale tutti i settori strategici dell’economia, comprese le banche e quello immobiliare. «In Russia ora c’è una sorta di capitalismo incomprensibile, in cui lo stato controlla più della metà dell’economia e domina gli uomini d’affari. Un tale sistema ostacola lo sviluppo del paese», denuncia Navalny, peccato però che buona parte degli oligarchi e dei businessmen a cui si rivolge hanno prosperato sotto l’economia di “pianificazione comandata neoliberale” di Putin: sono ormai cento gli oligarchi miliardari in dollari in un paese dove la forbice della ricchezza è tornata a essere quella dei tempi del 1905 che mise in moto la prima rivoluzione sovietica, come ha dimostrato Thomas Piketty.

La ricetta fiscale: il federalismo nel federalismo

L’uovo di Colombo per l’oppositore sarebbe un’ulteriore riduzione delle tasse – questa volta per il piccolo e medio business – in un paese dove esiste già un prelievo ridottissimo (flat tax al 13-15%). L’oneroso sistema della difesa che assorbe – e siamo ai dati del 2021 – il 14,5% del budget statale verrebbe inoltre ridotto grazie all’introduzione dell’esercito professionale: «la Russia è in grado di permettersi un esercito completamente “a contratto”: 500.000 soldati con uno stipendio medio di 200.000 rubli al mese (il nostro obiettivo) sono 1200 miliardi di rubli all’anno. Il budget militare di oggi è di circa 3 mila miliardi…». Un altro tassello fondamentale della sua amministrazione sarebbe il federalismo fiscale in un paese già federale ma dove troppe risorse finirebbero al centro: «Il nostro programma di riforma del bilancio prevede un aumento della quota di imposte e tasse trattenute nelle regioni. […] Oggi il denaro va avanti e indietro: prima viene prelevato dalle regioni e poi assegnato sotto forma di sussidi. Questo viene fatto per mettere le regioni in una posizione politicamente subordinata. Siamo categoricamente contrari a questo. Una giusta distribuzione del gettito fiscale tra centro e regioni dovrebbe essere di 50/50 in pochi anni (negli ultimi anni si è arrivati a 70/30 a favore del centro)». Null’altro. Davvero troppo per risolvere i problemi di dipendenza dell’economia russa dalla produzione ed esportazione di idrocarburi (che rappresenta il 30% del Pil) dal cronico deficit di capitali e da una valuta fragile e volatile. Per non parlare di un mondo del lavoro in cui la precarietà, l’inesistenza di diritti e tutele, oltre che i bassi salari sono la norma.

La politica nazionalista: il regime dei visti

La riforma del sistema giudiziario e un’organizzazione degli apparati di sicurezza completano il menù “riformista” interno. Allo stesso tempo Navalny non ha mai nascosto di voler perseguire una politica “realmente nazionalista” – sulla falsariga di quella promossa dalle forze sovraniste e di destra nell’Unione Europea – nei confronti delle ondate migratorie dal Centro-Asia. La sua latente posizione xenofoba era già venuta a galla durante la sua campagna elettorale per la carica di sindaco di Mosca nel 2013 quando si era detto favorevole alla deportazione coatta dei migranti illegali e il divieto della costruzione di moschee. Posizione riaffermata in modo più vago anche nel suo programma politico sostenendo la necessità di «introdurre un regime dei visti con i paesi dell’Asia centrale e della Transcaucasia».

Navalny sconosciuto

Mosca 2013, uno striscione pubblicizza la candidatura di Navalny

La minaccia per Putin: la sua politica estera

Ma ciò che rende il suo programma particolarmente insidioso per Putin sono le direttrici della politica estera. Navalny non ha fatto mai mistero di considerare avventurista la politica russa dal 2014 in poi in Ucraina. Più di una volta ha infatti sostenuto che se assumesse il potere chiuderebbe rapidamente il contenzioso nel Donbass e proporrebbe un nuovo referendum per decidere lo status giuridico internazionale della Crimea. E di voler puntare a un’integrazione con l’Unione Europea. «La Russia dovrebbe tornare all’ideologia del partenariato strategico e dell’integrazione con i paesi dell’UE sulla base del concetto di “quattro spazi comuni”, individuando come obiettivo finale la creazione di una zona di libero scambio tra l’UE e l’EurAsEC», sostiene sempre nel suo programma politico. Tutta musica per le orecchie di Bruxelles ancor prima che di Washington, se si aggiunge che Navalny abbandonerebbe al loro destino sia Assad sia Maduro – strategici alleati di Mosca – e rimodulerebbe le relazioni con Erdoğan. Il che rappresenterebbe il ritorno di quell’ipotesi di inserimento della Russia nella Nato che era stata ipotizzata, se non accarezzata, dallo stesso Putin nei suoi primi anni di amministrazione.

L’Europa si allontana da Putin: una partita da giocare

Tuttavia fino a questa estate né la UE né la Casa Bianca (o meglio il Pentagono) avevano considerato seriamente l’ipotesi di sostenere gli sforzi dell’oppositore russo. Poi si sono determinati una serie di fattori che hanno indotto Macron ad archiviare le sue aperture al Cremlino (facendo baluginare più volte l’idea di una versione riveduta e corretta del sogno gollista di un’Europa da Lisbona a Vladivostok) e la Merkel a non portare a compimento la megapipeline North Stream 2 che prevede un raddoppio dell’afflusso di gas russo in Germania. La crisi politica in Bielorussia, l’allontanamento da Putin della storica alleata Serbia in direzione stelle-striscie, il cambio della guardia in Moldavia che ha riportato i filo-UE alla presidenza dopo il mandato di Igor Dodon a cui si aggiunge l’avventuristico uso ormai reiterato da parte dell’Fsb di armi chimiche, ha fatto ritenere alle cancellerie europee che ogni possibilità di dialogo con il regime putiniano – almeno per il momento – siano giunte al capolinea e che si possa tentare di lavorare al fine di provocare il collasso del suo regime in tempi medi, usando appunto anche il cavallo di troia dell’opposizione di Navalny, l’unica oggi strutturata e capace di essere il magnete del variegato scontento che serpeggia nel paese. Una scommessa azzardata perché dovrebbe puntare a una scissione dentro i poteri forti russi: il complesso militar-industriale, i cinovniki degli idrocarburi e i servizi segreti. Forse per questo la partita geopolitica iniziata con il crollo dell’Urss trent’anni fa è ancora in gran parte da giocare.

Dopo le manifestazioni del 31 gennaio Yurii Colombo è intervenuto più volte a commentare la situazione dal suo osservatorio privilegiato:

“I disperati del Putin declinante”.

 

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Navalny: il Cremlino e la Lubyanka, chi decide cosa? https://ogzero.org/il-cremlino-e-la-lubyanca-chi-decide-cosa/ Tue, 15 Dec 2020 18:13:58 +0000 http://ogzero.org/?p=2078 Chi ha avvelenato l’oppositore russo Alexey Navalny – entrato in coma il 20 agosto sul volo Tomsk-Mosca – con un agente nervino denominato dalla stampa Novichok sarebbe stato un reparto specializzato dei servizi russi. È quanto emerge dall’inchiesta condotta dai portali di giornalismo investigativo “Bellingcat” (Gran Bretagna) e “The Insiders” (Russia) con il sostegno di […]

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Chi ha avvelenato l’oppositore russo Alexey Navalny – entrato in coma il 20 agosto sul volo Tomsk-Mosca – con un agente nervino denominato dalla stampa Novichok sarebbe stato un reparto specializzato dei servizi russi.

È quanto emerge dall’inchiesta condotta dai portali di giornalismo investigativo “Bellingcat” (Gran Bretagna) e “The Insiders” (Russia) con il sostegno di “Der Spiegel” e la “Cnn”.

Controlli incrociati

L’inchiesta è particolarmente significativa perché si basa su una massa di prove indiziarie e di concatenazione di fatti così particolari e dettagliati da rendere l’ipotesi della semplice “casualità” assai remota. I due portali sono divenuti particolarmente autorevoli in questo tipo di vicende dopo aver già lavorato in tandem qualche tempo fa, riuscendo a dimostrare fattualmente la responsabilità di due agenti Fsb nell’avvelenamento nel 2018 dell’ex agente russo defected al MI5 Sergey Skripal a Salisbury.

Dopo aver analizzato i database relativi ai voli aerei e ai viaggi in treno (in Russia anche i viaggiatori delle ferrovie vengono registrati con il passaporto) di una serie di persone individuate come agenti Fsb, i giornalisti hanno scoperto i loro spostamenti in dozzine di città russe negli stessi giorni di Navalny sin dal 2017, a partire cioè dal momento in cui quest’ultimo aveva deciso di presentarsi come candidato alle elezioni presidenziali. I metodi e i sistemi con cui gli investigatori sono giunti a ottenere queste informazioni è molto particolare ed esigerà un approfondimento a parte perché dimostra quanto stia mutando il giornalismo d’inchiesta nell’era digitale. Tuttavia si può anticipare qui che il lavoro si è basato su un’analisi degli intrecci tra centinaia di migliaia di tabulati telefonici e dettagli relativi agli spostamenti che fornisce un quadro quasi completo dei legami tra i presunti avvelenatori e che conferma i loro legami con l’Fsb.

Gli otto agenti coinvolti nell’attentato alla vita di Navalny

Non una semplice “opposizione antisistema”

Fino a qui, per tornare al caso in questione, sarebbe possibile asserire che potrebbe trattarsi di semplice sorveglianza dell’attività di uno dei leader di quella che Putin chiama “l’opposizione antisistema”, cioè di qualunque partito o gruppo che non sieda in parlamento. Ma lo screening dei nomi degli agenti coinvolti rivela qualcos’altro. Stanislav Makshakov, Oleg Tayakin (“Tarasov”), Alexey Alexandrov (“Frolov”), Ivan Osipov (“Spiridonov”), Konstantin Kudryavtsev (“Sokolov”), Alexey Krivoshchekov, Mikhail Shvets (“Stepanov”), Vladimir Panyaev sarebbero un “gruppo di fuoco” di specialisti in attentati con armi chimiche. Il ruolo di pivot, secondo gli investigatori, è giocato da Makshakov, chiamato e messaggiato costantemente da tutti i membri del gruppo. Nel passato Makshakov aveva lavorato presso l’Istituto statale di Tecnologia di Sintesi organica, che dirigeva lo sviluppo di nuove forme di armi chimiche fino alla conclusione ufficiale di questi programmi in Russia nel 2017.

Il passo falso di Aleksandrov

In particolare durante il tour elettorale di Navalny in agosto che toccò prima Novosibirsk e poi Tomsk – due grandi città siberiane – e che si concluse con la tragedia sul volo Tomsk-Mosca, il politico fu seguito da Aleksandrov, Osipov e Panyaev. Durante tale viaggio i tre avrebbero – secondo lo studio – utilizzato schede sim usa e getta e quindi gli investigatori non hanno potuto stabilire i loro movimenti esatti. Malgrado ciò per due volte Aleksandrov ha acceso il suo telefono personale per diversi secondi geolocalizzandosi la prima volta vicino a un hotel a Novosibirsk dove la collega di Navalny, Maria Pevchikh, aveva prenotato una stanza, e una seconda volta, non lontano dall’hotel dove si trovava Navalny stesso.

Cambio di programma

Quando la mattina del 20 agosto Navalny fu salvato grazie all’atterraggio di emergenza e il ricovero a Omsk, Aleksandrov, Osipov e Panyaev non ripartirono per Mosca con i biglietti che avevano prenotato in precedenza, ma si trasferirono invece a Gorno-Altaisk, raggiunti nel contempo da Mosca da Tayakin. “The Insiders” e “Bellingcat” presumono che da lì si sarebbero recati all’Istituto per le Tecnologie chimiche ed energetiche, nella vicina Biysk, nella quale si trova anche l’Istituto di Scienze forensi dell’Fsb, al fine di sbarazzarsi degli abiti con le tracce del veleno.

Durante tutti i viaggi dal 2017 in poi, compreso l’ultimo, i membri del gruppo hanno contattato regolarmente per telefono anche il direttore dell’Istituto di Criminalistica, il colonnello generale Kirill Vasiliev e il vicedirettore del servizio tecnico e scientifico dell’Fsb, il generale Vladimir Bogdanov. Inoltre, Zhirov e Makshakov erano in contatto telefonico con Oleg Demidov, uno specialista di armi chimiche che in precedenza aveva lavorato presso il 33° Istituto militare di Shikhany, uno dei presunti luoghi in cui è stato sviluppato il Novichok.

I luoghi visitati da Navalny dal 2017 in cui è stato seguito dagli agenti dell’Fsb

Il terrorismo di stato

Contemporaneamente alla pubblicazione dell’inchiesta, Navalny – dal suo rifugio tedesco – ha messo online un film-documentario reperibile sul suo sito internet con sottotitoli in inglese, aggiungendo alcuni dettagli alla ricostruzione di “Bellingcat” e “The Insiders”. In particolare il blogger anti-Putin ritiene che l’agente nervino gli sarebbe stato somministrato in un cocktail “Negroni” servito nel bar dell’hotel Xander a Tomsk, nella tarda serata del 19 agosto. Navalny sostiene pure di aver subito un altro tentato omicidio a Kaliningrad, il 6 luglio scorso. Tuttavia la parte finale del video, dedicata alla denuncia politica del complotto ai suoi danni, quando parla apertamente di “terrorismo di stato”, è la più significativa dal punto di vista politico. «Quelli che mi hanno perseguitato non sono ficcanaso dell’Fsb che lavorano agli ordini di un oligarca o di un funzionario che ho offeso con le mie denunce. Un intero dipartimento dell’Fsb sotto la guida di alti funzionari ha condotto un’operazione per due anni, durante la quale hanno tentato più volte di uccidere me e i miei familiari ottenendo armi chimiche da un laboratorio statale segreto. Ovviamente un’operazione di questa portata e di questa durata non può essere organizzata da nessuno che non sia il capo dell’Fsb [Alexander] Bortnikov, il quale, a sua volta, non avrebbe mai osato farlo senza l’ordine di Putin», afferma Navalny. Una denuncia non nuova già lanciata dall’oppositore russo il 1° ottobre scorso (a cui aveva replicato piccato il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov accusandolo di essere al servizio della Cia), quando forse aveva già in mano parte del materiale ora pubblicato dai due portali di giornalismo investigativo. Tuttavia, questa denuncia desta qualche perplessità. Quando Navalny il 9 agosto viene avvelenato – i principali laboratori europei lo hanno confermato – si stanno tenendo delle gigantesche manifestazioni e scioperi in Bielorussia contro uno dei più importanti alleati della Federazione russa: Alexander Lukashenko. Risulta difficile pensare, anche se non si può escludere, che in una tale situazione Putin, che è pur sempre un politico guardingo e per certi versi persino cauto, abbia autorizzato alcuni suoi uomini a gettare benzina sul fuoco. Seppure bisogna riconoscere che l’avvelenamento di Skrypal – la cui responsabilità del Fsb è ormai stata provata – avvenne a pochi mesi da quella grande vetrina che era per la Russia l’organizzazione in casa dei mondiali di calcio.

I servizi segreti agiscono autonomamente?

Esiste un’altra ipotesi che Navalny non sembra voler prendere in considerazione, è cioè che l’Fsb possa operare autonomamente dalla presidenza, sia un organo separato con “licenza di uccidere”, per citare un classico della letteratura della Guerra Fredda. Dentro quali dinamiche e per quali fini è in buona parte da capire, ma tutta la storia recente russa va in quella direzione. O magari forse Navalny lo intuisce ma resta schiacciato dalle necessità propagandistiche immediate? Non si può escludere, visto che non a caso nella parte finale della sua videodenuncia, parla inizialmente del fallimento dell’attentato contro di lui come un elemento del degrado del paese: «Tuttavia, nel complesso, è vero, l’operazione è fallita e di ciò ovviamente sono molto contento. Non c’è bisogno di essere sorpresi di questo. Per vent’anni, sotto la guida di Putin, tutto è stato degradato. E se Rogozin è responsabile per la cosmonautica e Chubais è responsabile delle nanotecnologie, allora come è possibile pensare che l’Fsb sia organizzato meglio? Cosa ti fa pensare che il Novichok funzionerà meglio del robot spaziale Fedor? […] Perché tutto è finito in pezzi nel paese e i funzionari pensano solo a dove rubare. Il sistema sta implodendo nel suo insieme, a tutti i livelli».

È un tradimento nazionale: l’appello alla “diserzione”

Navalny, infine, conclude rivolgersi direttamente all’apparato dei servizi segreti: «Vorrei dire qualche parola agli ufficiali dell’Fsb e alle forze dell’ordine in generale. Non vi vergognate di lavorare in questo sistema? Bene, è chiaro che vi siete trasformati in servitori di ladri e traditori. Per vent’anni Putin ha costantemente trasformato sia l’Fsb che il Ministero degli Affari interni in strutture il cui compito principale è aiutare lui e i suoi amici a rubare. E questo è l’unico progetto nazionale che è stato completato perfettamente. Il paese più ricco e con enormi risorse è diventato indigente. […] Non c’è bisogno di partecipare a questo tradimento nazionale. Coloro che sostengono Putin e il suo sistema non sono patrioti, ma traditori. Hanno tradito il popolo russo». Un appello alla “diserzione” – per ora destinato a restare probabilmente senza successo – ma che pone un quesito: quali sono oggi gli equilibri di potere tra Cremlino e Piazza della Lubyanka dove si trova il grande edificio che ospita gli uffici del Fsb?

 

Questo articolo inaugura una serie di articoli che Yurii Colombo produrrà per OGzero riguardanti i rapporti tra Vladimir Putin e i servizi segreti del suo paese, un’interpretazione dei meccanismi e delle strategie di potere che legano Cremlino e Lubyanka. Come si riflette questo rapporto sulle decisioni e sulla politica internazionale?

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