Sahel Archivi - OGzero https://ogzero.org/regione/sahel/ geopolitica etc Sun, 15 Sep 2024 22:17:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Bobo-Dioulasso https://ogzero.org/studium/bobo-dioulasso/ Mon, 01 Apr 2024 14:59:10 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12491 L'articolo Bobo-Dioulasso proviene da OGzero.

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Bobo Break!

Bobo-Dioulasso, una città africana di media grandezza, si manifesta attraverso la sua oralità e l’arte dei griots, non solo agli occhi di chi la osserva ma anche nella memoria di chi ascolta le sue storie. Non si può raccontare senza passare attraverso i suoi canti e le sue danze. È un luogo dove la parola modella l’argilla nelle zone rurali durante i lunghi sei mesi della stagione secca, da novembre a maggio, e dove la musica dà vita agli spazi urbani durante i matrimoni e le celebrazioni di quartiere. Il ritmo quotidiano è scandito dal suono delle donne che preparano il to’, la polenta, dall’intensa attività dei mercati mattutini e infine dalle storie narrate nei maquis serali. In questo libro mi propongo di narrare le storie che ho ascoltato e i significativi cambiamenti che hanno interessato sia le aree rurali che urbane di Bobo in un determinato arco temporale, a partire da un periodo di stabilità politica che è durato 27 anni, dal 1987 al 2014. Durante questi anni, il Burkina Faso è stato governato da un uomo controverso, temuto e ammirato, che ha compiaciuto alcuni ma dimenticato altri, portando Bobo-Dioulasso a distaccarsi dalle politiche centrali. Tuttavia, il delicato equilibrio cominciò a incrinarsi nel 2002 con la guerra civile in Costa d’Avorio e divenne ancora più instabile con la scoperta di grandi risorse auree nel Burkina Faso nel 2006, trasformando il Sahel in un Eldorado poi dimenticato.

«Questo libro è nato dalla mia necessità di aprire un dialogo con altri curiosi abitanti delle città, con altri cittadini cosmopoliti, sull’esistenza di un’anima non umana, sull’anima del mondo, sulla percezione della città da un punto di vista frontale e vissuto – come sperimentato da tutti i sensi –, e che ho vissuto nel fare architettura a Bobo, cambiando il mio modo di ascoltare la natura e il territorio».

Chiara Rigotti



Il libro come si può leggere ora è cominciato con alcune elucubrazioni dell’Autrice nell’agosto 2023, che ha condiviso con OGzero e che cominciamo a proporvi, questa volta inserendo a posteriori i testi preparatori di un libro già uscito e disponibile, che si può così ricostruire negli intenti e nella fattura.

Racconta Chiara Rigotti, architetta a lungo vissuta e operante in Burkina Faso: «Ho conosciuto un Burkina che presto non esisterà più, ho assistito a molti rituali invitata dai capi villaggi, ho creato cantieri-scuola seguendo i principi di Thomas Sankara usando solo materiali locali e formando i giovani di almeno due generazioni. Insegno nelle Università Burkinabé dal 2002.
Ho vissuto la rivoluzione del 2014 che ha cambiato tutto e ho assistito agli ultimi due colpi di stato. Ho lavorato 6 anni nei villaggi prima di aprire il mio studio in città, ho avuto molti clienti diversi: istituzioni pubbliche e private, parrocchie, ong, privati e anche i ministeri.
Il mio impegno nell’architettura sostenibile e socialmente responsabile in Burkina Faso è stato guidato dalla convinzione che l’architettura non debba solo rispondere a esigenze funzionali ed estetiche, ma debba anche essere un motore per il progresso sociale e culturale. Ogni comunità ha una storia, una cultura e un contesto unici che devono essere rispettati e integrati nella progettazione degli spazi che abitano. La sfida sta nel trovare il giusto equilibrio tra innovazione e tradizione, tra esigenze moderne e radici culturali».

Uno degli intenti principali è quello di riuscire a trasmettere l’aspetto spesso invisibile di questa cultura rurale, che ha rinunciato a favorire una forma architettonica in favore di uno stile che si integri con il paesaggio circostante e rispetti l’ambiente naturale; non bastano dunque competenze tecniche per operare senza fare danni in una realtà così complessa, ma sono richieste anche capacità psicologiche per comprendere le esigenze dei committenti, sensibilità antropologica per comprendere i simboli e i segni culturali, nonché una visione futuristica per creare in armonia con gli usi e le tradizioni locali, facendo tesoro di un mosaico di storie di vita vissuta che si intrecciano in un racconto cronologico unito dal filo rosso di un’architettura consapevole dei luoghi e delle comunità a cui essa è destinata.
In questa prospettiva grandi architetti africani come Francis Keré hanno potuto costruire architetture ecologiche e socialmente rilevanti grazie al supporto consolidato nel tempo di leader visionari come Thomas Sankara, che diceva «Osez inventer l’avenir».

La storia del Burkina Faso è caratterizzata da scambi culturali e commerciali che affondano le radici nell’epoca medievale e da grandi imperi, come l’Impero del Mali Malinké e l’Impero Shongai del Ghana, che hanno cercato spesso di conquistare la città di Bobo-Dioulasso senza mai riuscirci e di recente pure la grandeur francese è stata ridimensionata fino a venire estromessa dal paese. Il Burkina Faso è uno dei paesi più densamente popolati dell’Africa occidentale. Secondo le stime delle Nazioni Unite la popolazione è di circa 21,4 milioni di persone su un territorio di 330 chilometri quadrati.

L’urbanizzazione è in costante aumento, con un tasso di urbanizzazione stimato al 33,6% nel 2021. Questo indica che circa un terzo della popolazione vive in aree urbane. Le città principali, come la capitale Ouagadougou e Bobo-Dioulasso, hanno sperimentato un rapido aumento della popolazione e dell’urbanizzazione a causa della migrazione rurale e dell’aumento delle opportunità economiche nelle aree urbane.
Nel corso degli ultimi quattro anni, le migrazioni verso le aree urbane sono state innescate dalla confisca delle terre settentrionali da parte dei gruppi terroristici. Il numero dei deplacées interni è aumentato in modo significativo, ponendo una pressione urgente sulle città per affrontare l’emergente povertà. Un considerevole numero di individui nelle aree urbane vive in insediamenti informali, affrontando sfide legate all’alloggio, all’igiene e all’accesso all’acqua potabile.

La popolazione giovanile gioca un ruolo significativo in tutto il continente. La maggior parte della popolazione è composta da giovani sotto i 25 anni. Questa giovane popolazione rappresenta sia una risorsa che una sfida per il Burkina Faso. Da un lato, offre il potenziale per lo sviluppo economico e sociale, ma dall’altro lato, richiede opportunità educative, formazione professionale e opportunità di lavoro per evitare problemi di disoccupazione giovanile.
Inoltre, la crescente urbanizzazione richiede una pianificazione urbana e un’infrastruttura adeguata per sostenere le esigenze della popolazione urbana in crescita. Il governo e le organizzazioni internazionali stanno lavorando per affrontare queste sfide e migliorare la qualità della vita nelle città medie oltre che nelle capitali. Nell’attuale contesto, l’approccio degli urbanisti deve adottare una prospettiva olistica che tenga conto della storia e delle dinamiche della popolazione.

La città di Bobo-Dioulasso ha una storia leggendaria che riflette l’interazione di diverse etnie come i bobo e i dioula, ognuna con la propria cultura e tradizioni. I bobo sono una popolazione sedentaria, principalmente animista, che non si spostò mai dalla regione delle grandi pianure e dei grandi bacini d’acqua, una zona molto fertile e ricca di vegetazione che occupa la parte ovest del Burkina Faso fino al sud del Mali, mentre i dioula sono commercianti, spesso musulmani, che si spostano per i loro commerci dal Sud del Senegal e della Guinea fino alla Costa d’Avorio, passando per il Mali. Bobo-Dioulasso nella lingua locale significa la casa (so) dei bobo e dei dioula.

Caratterizzata da una stretta interazione tra gli edifici e il territorio, l’architettura soudano-saheliana è spesso realizzata utilizzando materiali locali come la terra cruda, la paglia e il legno. Uno dei principali elementi distintivi di questo stile è l’uso di tecniche di costruzione ancestrale, locali, come la “boule di terra” o “pisé”, che coinvolgono la creazione di pareti solide in terra compattata. Questo metodo consente un buon isolamento termico, mantenendo gli interni freschi durante le calde giornate e limitando i cambiamenti di temperatura.

Le abitazioni soudano-saheliane spesso presentano forme compatte con tetti spioventi che favoriscono il deflusso delle piogge. Le finestre sono progettate per consentire una buona ventilazione naturale e l’ingresso di luce, ma al contempo limitano l’irradiazione solare diretta durante le ore più calde della giornata.
Un altro aspetto importante dell’architettura tradizionale di questi luoghi è la possibilità di ampliare gli edifici in base alle esigenze. Questo permette di adattare le strutture agli sviluppi familiari o alle nuove attività, senza dover demolire o modificare l’intero edificio.

L’importazione indiscriminata di materiali da costruzione “stranieri” negli ultimi 50 anni, come il cemento e la lamiera, ha avuto un impatto negativo sull’architettura tradizionale e sostenibile dell’Africa occidentale, in particolare nella regione del Burkina Faso. Questi materiali, sebbene possano sembrare moderni e convenienti, spesso non sono adeguati alle condizioni climatiche e alle risorse locali, portando a conseguenze nefaste per l’ambiente e per la cultura architettonica.
Il cemento è diventato un materiale molto popolare nell’edilizia, ma la sua produzione richiede grandi quantità di energia e risorse naturali, contribuendo all’emissione di gas serra e all’alterazione dell’equilibrio ecologico. Inoltre, gli edifici in cemento tendono a trattenere il calore e a provocare sbalzi termici significativi, causando disagi termici all’interno delle abitazioni.
La lamiera, sebbene possa sembrare una soluzione economica per i tetti, crea un serio problema di surriscaldamento. Le temperature sotto la lamiera possono diventare insopportabilmente alte durante la stagione calda, rendendo gli spazi abitativi inospitali e poco confortevoli.


L’abbandono dei materiali locali e delle tecniche tradizionali è stato spesso guidato da un desiderio di modernità e di adottare ciò che è percepito come “moderno” o “occidentale”. Questo cambiamento di mentalità è spesso incoraggiato dalla pubblicità, dai media e dalla percezione che l’uso di materiali di importazione sia sinonimo di progresso.
La deforestazione ha ulteriormente aggravato la situazione, poiché la mancanza di legno ha spinto le persone a cercare alternative ai tetti tradizionali. I blocchi di cemento e la lamiera sono diventati le opzioni preferite per costruire più rapidamente e a un costo inferiore, nonostante i loro svantaggi in termini di efficienza energetica e comfort.
Tuttavia, negli ultimi anni, c’è stata una crescente consapevolezza dei danni causati da queste pratiche e un ritorno alla valorizzazione dei materiali locali e delle tecniche tradizionali. Gli architetti e gli urbanisti stanno lavorando per sviluppare soluzioni che combinino l’uso di materiali locali con approcci moderni e sostenibili. Ciò include la promozione di tecniche di costruzione bioclimatiche, l’uso di materiali naturali come la terra cruda e la paglia e la reintroduzione di tecniche tradizionali di raffreddamento passivo.





Chiara Rigotti è architetto e consulente internazionale, da più di 20 anni svolge un lavoro di progettazione e ricerca nell’architettura ecologica e sociale. Nel 2002, il suo percorso l’ha portata in Burkina Faso con Arquitectos sin Fronteras – Barcelona, dove si è dedicata alla costruzione di infrastrutture e alla formazione di maestranze locali tessendo un dialogo costruttivo tra la pratica architettonica e le sapienti tecniche tradizionali, imparando e insegnando al contempo. Ha realizzato diversi progetti in Burkina Faso e in molti altri paesi africani tenendo sempre uno sguardo attento sulla natura del luogo e le sue potenzialità. Il suo studio di bioarchitettura nasce nel 2014, e dopo qualche anno ottiene il Terra Sahel Award 2019. Scrive e coordina progetti di cooperazione locale e internazionale, ha co-fondato Architettura senza Frontiere – Piemonte e ha deciso di trasmettere attraverso l’insegnamento quello che ha imparato nei suoi viaggi.


La ricca sezione delle città africane pensata e inserita nella collana dietro indicazione, selezione e cura di Angelo Ferrari è ora nelle capaci mani di Federico Monica, architetto specializzato nell’analisi dei fenomeni urbani in Africa, ha accettato l’impegnativo compito di ereditare e proseguire il suo impegno a partire da qui…

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]]> Sudan: cinque mesi di inutile sofferenza https://ogzero.org/sudan-cinque-mesi-di-inutile-sofferenza/ Sat, 16 Sep 2023 16:47:40 +0000 https://ogzero.org/?p=11593 Quando il Fmi diventa “modello di solidarietà” significa che la situazione è ormai oltre ogni accettabilità e a nessuno importa di una condizione infernale. Distratti da altre guerre, da altre bombe su mercati, i 46 morti del mercato di May a Khartoum non meritano un trafiletto, laddove invece Angelo Ferrari va oltre l’orrore per uno […]

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Quando il Fmi diventa “modello di solidarietà” significa che la situazione è ormai oltre ogni accettabilità e a nessuno importa di una condizione infernale. Distratti da altre guerre, da altre bombe su mercati, i 46 morti del mercato di May a Khartoum non meritano un trafiletto, laddove invece Angelo Ferrari va oltre l’orrore per uno scontro tra Signori della Guerra che produce cadaveri civili ancora una volta trasportati dal Nilo a valle con il poco limo residuo dalle barriere a monte della Gerd il cui riempimento dell’invaso è stato terminato in questi giorni: infatti metà dell’intervento dell’africanista è dedicato al vicino Ciad, già in “cattive acque”, che si sobbarca la fuga dei profughi di guerra.


La tradizionale arroganza di entrambi i militari…

La guerra in Sudan non si ferma. Le sofferenze, numero di morti e sfollati, si moltiplicano in un insensato scontro tra due generali che hanno solo a cuore la conquista del potere. Ma non si vedono, nemmeno, spiragli per una soluzione negoziata. Il generale Abdelfattah al-Burhan, a capo dell’esercito regolare, e le Forze di supporto rapido di Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, non hanno nessuna intenzione di sedersi a un tavolo negoziale per risolvere la crisi. Anzi, negli ultimi giorni i combattimenti si sono intensificati, si sono fatti, se è possibile, ancora più cruenti estendendosi a molte regioni del paese. Entrambi vogliono arrivare alla vittoria “assoluta” in Sudan. Per che cosa? Difendere interessi economici da sempre nelle mani dei militari. Ogni attività, infatti, è governata dall’esercito e dalle milizie armate: dalle banche alle materie prime, in una suddivisione, tra i due uomini forti che, evidentemente, non bastava più a entrambi. I due generali vogliono mettere mano su tutto e non importa se la gente soffre.

… diventa massacro

Il 13 settembre sono trascorsi cinque mesi di guerra e di inutile sofferenza, morte, perdita e distruzione.

L’Alto commissario delle Nazioni Unite, Volker Turk, ha spiegato che non c’è alcuna tregua in vista: «Il mio staff si è recato in Ciad e Etiopia tra giugno e luglio per raccogliere informazioni di prima mano dalle persone fuggite dalle violenze in Sudan. Le loro testimonianze evidenziano le informazioni che il mio ufficio ha ottenuto sulla portata e sulla brutalità di questo conflitto. Abbiamo ascoltato storie di familiari uccisi o violentati. Storie di parenti arrestati senza motivo. Di pile di corpi abbandonati nelle strade. Di una fame disperata e persistente».

Il conflitto, come prevedibile, ha paralizzato l’economia, spingendo milioni di persone sull’orlo della povertà, i servizi essenziali sono sull’orlo del collasso, quasi bloccati, come istruzione e assistenza sanitaria. Più di 7,4 milioni di bambini sono privi di acqua potabile e almeno in 700.000 sono a rischio malnutrizione grave.

Il Ciad nella morsa

Sul fronte dei profughi a subire pesanti conseguenze è soprattutto il Ciad, un paese che è preso a tenaglia a suoi confini, oltre alla crisi sudanese, il colpo di stato in Niger è la chiusura dei corridoi commerciali, sta provocando notevoli problemi di approvvigionamento di materie prime. E la situazione dei profughi che arrivano dal Sudan sta aggravando ulteriormente la situazione. Stando ai dati riportati delle Nazioni Unite, in Ciad sono arrivate 418.000 persone tra rifugiati e ciadiani che hanno deciso di ritornare a case. Circa l’85% dei profughi sudanesi e il 93% delle persone ritornate in patria sono donne e bambine. In questo contesto, la Banca mondiale ha annunciato una tranche di aiuti da 340 milioni di dollari per sostenere N’Djamena nella gestione dell’accoglienza, nonostante le Ong denuncino che solo il 34% degli aiuti richiesti è arrivato per sostenere gli aiuti umanitari.
Anna Bjerde, direttrice generale per le operazioni della Banca mondiale, ha annunciato il pacchetto di sostegni economici da un campo profughi nel Ciad orientale durante una due giorni di visita congiunta con l’Alto commissario per i rifugiati delle Nazioni Unite, Filippo Grandi.

Secondo Bjerde, «la crisi dei rifugiati nell’Est del paese sta aggiungendo ulteriore pressione alla fornitura di servizi sociali e alle risorse naturali. Collaborando con l’Unhcr e altri partner, restiamo impegnati ad aiutare le persone più bisognose e a sostenere la ripresa economica a lungo termine e la resilienza della regione».

Grandi, che a N’Djamena è stato ricevuto da diversi ministri del governo di transizione militare retto dal presidente Mahamat Idriss Déby Itno, si è augurato che «l’esempio della Banca Mondiale ispiri altri attori dello sviluppo a intensificare i loro interventi, poiché il Ciad non può essere lasciato solo ad affrontare questa grave crisi».

Aiutare il Ciad, per la comunità internazionale, dovrebbe essere prioritario. In una regione martoriata da guerre, colpi di stato e cambio di regimi. L’opinione pubblica ciadiana sta già soffrendo ed è in subbuglio. Difficoltà a reperire le materie prime, crisi dei profughi sudanesi, inoltre, potrebbe avere ripercussioni sull’inflazione del paese, già elevata. L’ultimo dato disponibile – riferito ad aprile 2023 – parla di un +12,5%, e di quella alimentare che è arrivata al 18,8% in aumento rispetto al dato precedente, +16%. Le difficolta di approvvigionamento delle merci, dunque, potrebbe pesare ulteriormente sulle entrate dello Stato, ma soprattutto già provata per via di un potere di acquisto che sta progressivamente diminuendo e, quindi, esacerbare ulteriormente gli animi di una società civile che non vede di buon occhio l’attuale regime “ereditato” dopo la morte di Deby padre, dal figlio.

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Niger: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace https://ogzero.org/niger-la-diplomazia-al-lavoro-mentre-niamey-tace/ Sat, 02 Sep 2023 22:17:57 +0000 https://ogzero.org/?p=11535 Niger, un aggiornamento: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace. Nelle ultime ore si sono accavallate numerose proposte di transizione rivolte al regime di Tchiani,. Un’azione diplomatica che, inoltre, ha il significato di scongiurare un intervento armato nel paese che infiammerebbe tutta l’Africa Occidentale. Di questo ne sono consapevoli sia i leader africani sia i […]

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Niger, un aggiornamento: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace. Nelle ultime ore si sono accavallate numerose proposte di transizione rivolte al regime di Tchiani,. Un’azione diplomatica che, inoltre, ha il significato di scongiurare un intervento armato nel paese che infiammerebbe tutta l’Africa Occidentale. Di questo ne sono consapevoli sia i leader africani sia i ministri degli Esteri dell’Unione europea che, infatti, invocano prudenza. Ma le proposte di transizione, formulate da Algeria e Nigeria, per ora rimangono lettera morta e quella nigeriana viene bollata dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) come una fake news. Ecowas, infatti, ribadisce, che la soluzione è il ripristino dell’ordine costituzionale e la reintegrazione del deposto presidente Mohamed Bazoum, che diventa una figura simbolica, insieme all’ambasciatore francese: due paradigmi del sistema coloniale utili per aizzare contro la percezione di ogni grandeur (e saccheggio) francese. Poi è facile su questa ondata antifrancese trovare le corde giuste per rovesciare  gli amici dei francesi, ma una volta giunti al potere – a parte resistere alla stigmatizzazione internazionale – non ci sono piani per gestirlo al meglio. Si direbbe non sia chiaro in che direzione andare una volta rimossi i fantocci di poteri altri e le mosse per fare gli interessi della popolazione civile non siano state insegnate nelle scuole militari frequentate dai golpisti.


La proposta nigeriana

Il presidente nigeriano Bola Tinubu, che è anche l’attuale presidente dell’Ecowas, giovedì ha citato come esempio la transizione di nove mesi avvenuta nel suo paese nel 1999. «Il presidente non vede alcun motivo per cui ciò non possa accadere di nuovo in Niger, se le autorità militari sono sincere», si legge in un comunicato della presidenza nigeriana. Più che una proposta è un suggerimento e Tinubu l’avrebbe espresso ricevendo presso la State House di Abuja (capitale della Nigeria) una delegazione guidata dal sultano di Sokoto, Muhammad Sa’ad Abubakar III, personalità molto influente anche in Niger. «Il presidente Tinubu ha osservato che la Nigeria, sotto il generale Abdulsalami Abubakar, ha istituito un programma di transizione di nove mesi nel 1998, che si è rivelato un grande successo, portando il paese in una nuova era di governo democratico», si legge nella nota emessa dalla presidenza nigeriana al termine dell’incontro. Un suggerimento, quindi, non una proposta ufficiale da parte dell’Ecowas che comunque ha tenuto a chiarire la sua posizione, definendola una fake news e comunque non una posizione dell’organizzazione sovranazionale africana anche se Tinubu ne è il presidente di turno.

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La proposta algerina

All’inizio della settimana, l’Algeria, un altro influente vicino del Niger, è stata ancora più specifica nell’offrire al regime militare un “piano di transizione di sei mesi” sotto la supervisione di una “autorità civile”. Per il momento, i generali al potere a Niamey non hanno reagito a queste proposte e il loro unico intervento sull’argomento risale al 19 agosto, quando il nuovo uomo forte del paese, il generale Abdourahamane Tchiani, aveva indicato di volere una transizione da tre anni al massimo. Molti giudicano poco credibile, o troppo lungo, questo periodo di transizione e, dopo i colpi di stato in Mali e Burkina Faso, ma anche in Guinea, le transizioni annunciate, per arrivare a nuove elezioni e il ripristino di un governo democraticamente eletto si sono allungate nel tempo, allontanando il ritorno dell’ordine democratico.

Ultimatum e tensioni diplomatiche

Resta, poi, alta la tensione anche tra il regime di Nimaey e la Francia, ex potenza coloniale e partner del Niger soprattutto nella lotta antijihadista e con numerosi interessi economici nel paese. Le autorità hanno revocato l’immunità e il visto diplomatico all’ambasciatore francese e hanno annunciato l’intenzione di espellerlo in una lettera inviata martedì a Parigi. Venerdì scorso avevano inizialmente concesso 48 ore a Sylvain Itté per lasciare il territorio, ultimatum respinto da Parigi che ritiene questo governo illegittimo e quindi non ha l’autorità per fondare una simile richiesta. E la giunta militare sta facendo molta pressione sull’ambasciata, tanto che, secondo testimonianze raccolte sul luogo, le auto in uscita dall’ambasciata francese sono state perquisite sistematicamente dalla polizia. Un altro ultimatum potrebbe scadere nel finesettimana. Le autorità militari hanno minacciato di accompagnare l’ambasciatore in maniera coatta fuori dal paese.

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La piazza si muove

La tensione cresce anche nelle piazze. L’M62, una coalizione della società civile contraria alla presenza militare francese, ha lanciato un appello per un “sit-in popolare” nel centro di Niamey, già a partire da ieri e per tutto il finesettimana, per chiedere la “partenza delle forze francesi”. Un’altra organizzazione della società civile, il Fronte patriottico per la Sovranità del Niger (Fpsn), dal canto suo ha chiesto un “sit in permanente” da oggi “fino alla partenza di tutti i soldati francesi”. La presenza militare francese in Niger, infatti, è massiccia: 1500 militari, oltre a mezzi e intelligence. Senza contare la presenza americana e italiana, che vanno ad aggiungersi al contingente militare che ha come missione il contrasto al jihadismo e alla tratta di essere umani, per fermare le migrazioni verso il Mediterraneo. Da diversi anni il Niger si trova ad affrontare una violenza jihadista mortale che colpisce la parte sudoccidentale del paese, ai confini del Burkina Faso e del Mali – la cosiddetta area dei Tre Confini – e la sua parte sudorientale vicino al bacino del Lago Ciad e al confine con la Nigeria.

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Attività sospese e diplomazia al lavoro

Infine, le autorità hanno annunciato la sospensione delle attività delle Ong, delle organizzazioni internazionali e delle agenzie delle Nazioni Unite nelle aree delle operazioni militari «a causa dell’attuale situazione di sicurezza». Le zone interessate non sono state specificate, ma secondo l’ufficio locale dell’agenzia umanitaria dell’Onu (Ocha), sarebbero prese di mira le località attorno a Banibangou, Sanam, Anzourou e Bankilaré, tutte situate nella regione di Tillabéri (Sud-ovest), a causa la «recrudescenza della presenza e delle attività» dei gruppi jihadisti. Le Nazioni Unite hanno annunciato di voler contattare i militari dopo questa decisione per «comprendere meglio cosa significa e quali sono le conseguenze per l’attività umanitaria».

Insomma permane una situazione di stallo. Ma le diplomazie sono continuamente al lavoro per scongiurare ogni possibile innalzamento della tensione che potrebbe portare a un intervento armato che infiammerebbe tutta l’Africa occidentale, e non solo, e in prima linea su questo fronte diplomatico c’è la nuova ambasciatrice americana a Niamey che, pur non presentando le sue credenziali alla giunta perché Washington non la riconosce, ha presso possesso della rappresentanza diplomatica.

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Il Sahelistan dall’Atlantico al Mar Rosso https://ogzero.org/il-sahelistan-dallatlantico-al-mar-rosso/ Mon, 21 Aug 2023 20:51:37 +0000 https://ogzero.org/?p=11453 La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da […]

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La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da Sarkozy) che furono alleati del jihad che imperversa nel territorio su cui sono segnati i confini tra Mali, Burkina e Niger – ha assistito alla penetrazione di nuove potenze (in particolare Russia con la presenza di Wagner e Cina che ha aperto una sede per manutenzione di veicoli della Norinco a Dakar – pronta a difendere i vasti interessi di Pechino nei tre paesi dei golpe, ma operativa anche in Senegal, Costa d’Avorio –, ma anche Turchia e paesi della penisola araba), che hanno sfruttato dispute interne, sentimenti antifrancesi, insorgere del jihad per piegare a loro favore lo sfruttamento delle risorse del territorio e la collocazione strategica di cerniera tra Africa centrale (e Corno d’Africa) e Mediterraneo da sud a nord; tra l’Oceano e l’importantissimo corridoio del Mar Rosso sul classico asse ovest/est. L’incendio si va estendendo ormai da quel Triangolo di paesi attualmente retti da giunte militari golpiste fino a legarsi al sanguinoso conflitto sudanese ormai impossibile da comporre (che sta causando nuovi esodi di massa, coinvolgendo in questo modo altri paesi in sofferenza, perché non più in grado di accogliere profughi, creando così nuovi motivi di tensione nell’area dopo quelli che hanno scosso l’Etiopia negli ultimi due anni).
A chi serve creare un’area a forte instabilità sul modello afgano di dimensioni così enormi? è tutto parte di un disegno globale di ridimensionamento del predominio dell’Occidente, oppure è un percorso senza alternative di decolonizzazione, che fa della Realpolitik l’accettazione di potenze alternative, pur di disfarsi del giogo classicamente coloniale? le reazioni interventiste dei paesi limitrofi sono ispirate dalla paura dell’epidemia; oppure dagli sponsor europei, come il solito Eliseo (Adamu Garba, esponente dell’Apc ha accusato Usa e Francia di aver voluto mandare avanti l’Ecowas per innescare una guerra regionale e recuperare posizioni “coloniali”, sfruttando l’instabilità e l’ennesima guerra per procura che finirebbe con il distruggere l’Africa occidentale)
?  Oppure nascono dalla consapevolezza che la regione è stata integralmente posta in un caos per cui nulla sarà più come prima? Sicuramente si sta spostando in campo africano lo scontro anche militare che contrappone gli interessi dei Brics allargati all’egemonia occidentale.
Angelo Ferrari ha cercato di fare il punto mettendo in relazione tutti gli elementi in campo per dipanare l’ingarbugliata matassa.


Il golpe nigerino sblocca definitivamente il modello afgano per l’intero Sahel?

A ovest del lago Ciad

Rulli di tamburi…

Tutti i riflettori della diplomazia internazionale sono puntati sul Niger, dopo il colpo di stato del 26 luglio. Mentre ciò accade il Sahel rischia di piombare in un caos senza precedenti che potrebbe coinvolgere tutta l’Africa occidentale e non solo: l’intera  striscia saheliana è attraversata da tensioni che vanno dal sentimento antifrancese e antioccidentale, che sta montando un po’ ovunque, a una crisi politica, umanitaria e di sicurezza senza precedenti. La decisione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) di intervenire militarmente in Niger sta esacerbando ulteriormente le opinioni pubbliche di diversi stati della regione; non più, dunque, una minaccia, ma un piano militare messo a punto dopo due giorni di vertice ad Accra, capitale del Ghana. Non si conoscono i dettagli dell’operazione, si sa solo che dovrebbe essere “lampo” perché nel Sahel c’è stato “un colpo di stato militare di troppo”, a detta dei generali riuniti ad Accra. Intervento armato, tuttavia, che non avrebbe alcuna legittimità internazionale: l’Unione africana infatti ha già detto il suo no e le Nazioni Unite non hanno nessuna intenzione di autorizzarlo.

… timide mosse diplomatiche…

Mentre si parla di piani militari, la diplomazia è ancora al lavoro. Una delegazione dell’Ecowas è arrivata a Niamey dove ha potuto incontrare il presidente destituito, Mohamed Bazoum; non solo, a Niamey è arrivata anche la nuova ambasciatrice degli Stati Uniti, Kathleen FitzGibbon, anche se non presenterà le credenziali alla giunta militare – perché Washington non la riconosce – esprimendo tuttavia l’intenzione americana di perseguire la via diplomatica e «per sostenere gli sforzi che aiutino a risolvere la crisi politica in questo momento». Un segno, dunque, che la giunta militare non respinge del tutto il dialogo.
tanto che in un discorso alla televisione pubblica nigerina, Télé Sahel, il generale Abdourahamane Tchiani, a capo della giunta militare, ha annunciato l’istituzione di un «dialogo nazionale inclusivo» entro 30 giorni e ha annunciato una transizione che «non può durare oltre i tre anni». L’obiettivo è formulare «proposte concrete per porre le basi di una nuova vita costituzionale».
Un mantra, quest’ultimo, che ha precedenti in Mali, Burkina Faso e Guinea, paesi che sono stati teatro di colpi di stato negli ultimi due anni e dove le transizioni si prolungano senza che vengano convocate elezioni per un ritorno dei civili al governo di questi paesi. Il generale Tchiani, tuttavia, non accetta la minaccia dell’Ecowas di un intervento militare e rilancia: «L’Ecowas si prepara ad attaccare il Niger allestendo un esercito di occupazione in collaborazione con un esercito straniero», ha detto Tchiani senza citare il paese “straniero”, ma in molti pensano alla Francia.

… esibizione di muscoli

«Né il Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria né il popolo del Niger vogliono la guerra, ma se dovesse essere intrapresa un’aggressione, non sarà la svolta in cui alcuni credono» e ha ammonito: «Le forze di difesa del Niger non si tireranno indietro», sostenute da Burkina Faso, Mali e Guinea, ha detto. «La nostra ambizione non è quella di confiscare il potere», ha anche promesso.

A est del lago Ciad

Il conflitto tra al-Burhan e Hemedti si estende a tutti i Signori della guerra

Mentre ciò accade nell’estremo ovest della striscia saheliana, il Sudan è entrato nel quinto mese di guerra senza che si intraveda all’orizzonte una soluzione. Anzi, sembra proprio che i contendenti vogliano arrivare alle estreme conseguenze. Intanto il conflitto si è esteso, impantanato, aggravato provocando un dramma umanitario che nemmeno l’Onu è in grado di affrontare. La guerra contrappone l’esercito regolare del generale al-Burhan alle Forze di supporto rapido (Fsr) dei paramilitari guidati dal generale Hemedti. Il conflitto ha causato più di quattromila morti, anche se la cifra delle vittime è sottostimata, e milioni tra profughi e sfollati interni. Quando la guerra è scoppiata, il 15 aprile 2023, il generale al-Burhan ha detto che sarebbe finita in due settimane, mentre Hemedti prometteva la vittoria. Oggi nessuna delle due parti sembra prendere un vantaggio decisivo. I militari dominano ancora lo spazio aereo, mentre soffrono la debolezza della loro fanteria, un compito, ironia della sorte, che avevano affidato proprio alle Fsr. L’esercito ha subito battute d’arresto nel Sud Kordofan, nel Nilo Azzurro e nel Darfur, le Forze di supporto rapido sembrano avere nelle mani la maggior parte del territorio di Khartoum, la capitale.
Il conflitto dunque, anziché attenuarsi, si intensifica è sta coinvolgendo altri movimenti armati che partecipano ai combattimenti. Insomma, questo conflitto, iniziato tra due generali, rischia di trasformarsi in una vera e propria guerra civile, secondo l’Onu, volgendo verso una situazione di anarchia totale. I negoziati, inoltre, non sono mai decollati e sono in una fase di stallo e i cessate il fuoco non sono mai durati.

S’intrecciano le crisi umanitarie regionali

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Nilo

Sul versante umanitario le cifre sono da capogiro con oltre 3 milioni di sfollati e quasi 1 milione di rifugiati. Inoltre, entro settembre si prevede che il 40% della popolazione soffrirà di insicurezza alimentare. Le organizzazioni umanitarie stanno affrontando una situazione a dir poco scoraggiante con una mancanza allarmante di fondi, all’appello mancano due miliardi di dollari per far fronte alla crisi. Le donne sono particolarmente colpite, sono vittime di violenze e stupri perpetrati dai combattenti e private di un’adeguata assistenza psicologica e medica, hanno spiegato i portavoce delle agenzie umanitarie durante una riunione a Ginevra. Le agenzie possono aiutare circa 19 milioni di persone in Sudan e nei paesi limitrofi, tuttavia gli interventi sono finanziati solo al 27%. Le Nazioni Unite hanno lanciato due appelli, uno per finanziare gli aiuti all’interno del paese per un totale di 2,57 miliardi di dollari e l’altro per i rifugiati fuggiti dal Sudan per un importo di 566,4 milioni di dollari. Ma dopo la crisi innescata dal colpo di stato in Niger, del Sudan sembra si siano dimenticati tutti e ciò rischia di aggiungere catastrofe a catastrofe.

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Niger

Le conseguenze di un intervento militare dell’Ecowas a Niamey sarebbero devastanti sia sul piano umanitario sia sul piano della sicurezza dell’intera regione. Già si vedono spostamenti di persone sul fiume Niger nella parte che confina con il Benin, considerato, ancora, uno stato sicuro. Nel paese la crisi umanitaria si sta già manifestando. Le frontiere chiuse impediscono il passaggio di merci necessarie alla sopravvivenza della popolazione, così come l’elettricità scarseggia in più parti del paese per via delle interruzioni delle forniture che arrivano dall’estero. Una guerra, per quanto lampo sia, aggraverebbe ulteriormente la situazione umanitaria.

A Ovest (speriamo) niente di nuovo

Una guerra, che potrebbe estendersi a buona parte del Sahel – Mali e Burkina Faso hanno già assicurato il loro appoggio al Niger – avrebbe ripercussioni preoccupanti sul fronte della lotta al terrorismo e ai gruppi jihadisti che imperversano nell’area, in particolare nella regione dei tre confini – Niger (Tilaberi), Mali (Tessit) e Burkina Faso (Tamba), dove storicamente la pastorizia nomade si scontra con coltivatori stanziali – ma anche sulla capacità dei paesi del Golfo di Guinea, già colpiti dal terrorismo a nord dei loro confini – Costa d’Avorio, Benin e Togo – di farvi fronte. Una situazione, dunque, esplosiva.

Recrudescenza jihadista dopo Barkhane

Dal colpo di stato in Niger di fine luglio, infatti, sono stati registrati nove attacchi jihadisti. Una tendenza che preoccupa gli osservatori. Con la recrudescenza degli attacchi islamisti, il timore è di “un rapido deterioramento della situazione”, in primo luogo perché Parigi ha sospeso la sua cooperazione militare con il Niger. L’esercito nazionale quindi non beneficia più dell’appoggio dell’esercito francese. Non ci sono più operazioni congiunte, aerei e droni non danno più supporto e i terroristi approfittano del vuoto. Poi, le minacce di intervento armato dell’Ecowas hanno portato a una riduzione del sistema militare occidentale, che hanno sospeso le loro attività ai confini. Ciò potrebbe portare un calo della reattività dell’esercito nigerino e i gruppi jihadisti potrebbero approfittarne riconquistando la loro libertà di manovra con un radicamento dello Stato Islamico proprio nell’area dei tre confini. Le preoccupazioni vanno ancora oltre, con la possibile creazione di zone grigie, in parte controllate da gruppi armati, in Mali, Burkina, Niger, persino Sudan, che potrebbero destabilizzare il vicino Ciad. Il Ciad, pur non essendo membro dell’Ecowas, condivide con il Niger 1200 chilometri di confine e dispone, oltre ad avere solidi rapporti con la Francia, di un esercito tra i più potenti dell’area. Quindi il Niger ha necessità di assicurarsi rapporti di buon vicinato – il primo ministro nigerino, nominato dalla giunta militare, ha fatto visita al presidente ciadiano Mahamat Idriss Deby – anche se N’Djamena è alle prese con una crisi interna di legittimità del potere e con l’emergenza profughi che arrivano a decine di migliaia dal Sudan.

A rischio sconfinamenti i paesi del Golfo

Si teme, inoltre, che i gruppi jihadisti possano contagiare anche i paesi del Golfo di Guinea. Questa è la maggior preoccupazione della Costa d’Avorio che è già alle prese con sconfinamenti dal Burkina Faso e con centinaia di profughi burkinabé che cercano rifugio nel nord del Paese. Ciò, inoltre, potrebbe spiegare la ferma posizione del presidente ivoriano, Alassane Ouattara, che si è schierato con decisione per un intervento militare in Niger, dicendosi disponibile a fornire un battaglione del suo esercito al contingente dell’Ecowas. Occorre ricordare che Ouattara è uno dei pochi “fedeli” alla Francia rimasti nella regione. E il presidente ivoriano è preoccupato che anche nel suo paese possa montare un sentimento antifrancese alimentato, soprattutto, dal suo rivale di sempre l’ex presidente Laurent Gbagbo, 78 anni, che non nasconde le sue velleità di tornare alla presidenza della Costa d’Avorio, nel 2025, con il suo nuovo Partito dei popoli africani-Costa d’Avorio (Ppa-Ci), di ispirazione e orientamento socialista e panafricanista, nemmeno troppo velatamente antifrancese.

Scosso anche il gigante Senegal da sommovimenti interni

Non meno turbolenta appare la situazione nell’estremo ovest della striscia saheliana, in un Senegal che vive un periodo di forte crisi politica e di legittimità democratica, soprattutto dopo l’arresto dell’oppositore Ousmane Sonko, uno dei leader politici più amati dai giovani senegalesi. Arresto che ha provocato manifestazioni di piazza violente, che hanno lasciato sulle strade numerosi feriti ma anche morti. In conseguenza di queste proteste il ministro dell’interno senegalese, Antoine Diome, ha annunciato lo scioglimento proprio del partito di Sonko, il Pastef – Les patriotes. Il leader dei “giovani senegalesi” è stato condannato per diffamazione e per corruzione giovanile. Secondo le opposizioni queste condanne non hanno altro significato che escludere Sonko, che gode di un buon seguito, dalle elezioni presidenziali del 2024. Il Senegal è un altro paese in forte ebollizione e non è bastata la decisone di Macky Sall, attuale presidente, di non candidarsi per un terzo mandato alle presidenziali a inizio luglio per stemperare la tensione nel paese. In punta di diritto potrebbe farlo, anche se la Costituzione prevede solo due mandati, ma è stata riformata, con una rimodulazione della lunghezza del mandato, proprio sotto la presidenza Sall. Le opposizioni, infatti, si rammaricano del fatto che il presidente Sall e il suo governo rimangano sordi alle richieste di allentamento, pacificazione e fine delle restrizioni agli spazi di libertà. I mesi, dunque, che separano il Senegal alle presidenziali del febbraio 2024 saranno particolarmente difficili. Non è un caso, inoltre, che le opposizioni senegalesi si siano schierate contro l’intervento militare dell’Ecowas in Niger.
Sono molte le ragioni che dovrebbero dissuadere dal mettere in atto lo scenario peggiore per il Sahel e per l’intera Africa occidentale. Un conflitto armato su vasta scala potrebbe scatenare reazioni non proprio prevedibili e trasformare il Sahel in un “Sahelistan” di afgana memoria.

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L’ancora irrisolto colpo di stato in Niger https://ogzero.org/lancora-irrisolto-colpo-di-stato-in-niger/ Sun, 30 Jul 2023 22:51:19 +0000 https://ogzero.org/?p=11387 Intanto i differenti militari hanno sollevato il presidente, il potere però sembra sia gestito da svariati uomini forti a cominciare dal capo della Guardia presidenziale Tchiani e ora sembrano essere in attesa di capire in che modo schierarsi nelle relazioni internazionali; come se fossero sulla piazza, al miglior offerente… ma probabilmente divisi tra diverse forze […]

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Intanto i differenti militari hanno sollevato il presidente, il potere però sembra sia gestito da svariati uomini forti a cominciare dal capo della Guardia presidenziale Tchiani e ora sembrano essere in attesa di capire in che modo schierarsi nelle relazioni internazionali; come se fossero sulla piazza, al miglior offerente… ma probabilmente divisi tra diverse forze armate e le differenti “scuole d’armi” frequentate. Forse Bazoum aveva dato l’impressione di non voler mettere in discussione minimamente lo schieramento con la parte dell’Occidente e quindi il rischio per chi intendeva omogeneizzare le scelte antiatlantiste del resto del Sahel era quello di essere esautorati dagli incarichi autorevoli che ricoprivano. Forse ha prevalso l’idea che nel gran rivolgimento dell’intero continente risultasse perdente per la nazione non operare alcun cambiamento. Forse il timore che si mancasse anche stavolta la partecipazione all’ondata di rigetto antifrancese (molto popolare presso i giovani potrebbe aver spinto alla rimozione dell’ostacolo presidenziale… di certo l’incertezza sulla affidabilità e collocazione di uno stato chiave, l’ultimo nel Sahel ancora sotto l’egida di una Francia affamata di uranio, produce fibrillazioni in seno all’intera comunità internazionale, motivo per cui – al contrario del solito – abbiamo pensato fosse il caso di occuparsene quando ancora non si è depositato il polverone di ipotesi suscitate dal golpe. … Intanto Parigi ha dichiarato che – rispetto agli altri paesi sahelini (che non sono cassaforte di uranio) – da Niamey sarà più difficile cacciarli, però il governo golpista ha sospeso le forniture di oro e uranio alla Francia. E comunque sul territorio c’è il più grosso contingente americano in Africa e gli addestratori italiani (più di 300 giovani e forti, 13 mezzi terrestri e 5 aerei, inquadrati nella Misin che opera agli ordini del Comando operativo di vertice interforze (Covi), guidato dal generale di Corpo d’armata Francesco Paolo Figliuolo, sempre lui). Il blocco dell’Africa occidentale riunito a Abuja (Cedeao), ha dichiarato la sospensione delle relazioni con il Niger autorizzando l’uso della forza se il presidente non verrà reintegrato entro una settimana: l’emissario del messaggio è il non-allineato Déby (in carica dinasticamente per volontà dell’Eliseo), un pessimo segnale in una fase di rivolgimento totale, che la paura dell’epidemia si diffonda in tutta l’Africa occidentale, mettendo le premesse perché divampi una guerra estesa, concede pericolosi spazi per una nuova guerra per procura in terra africana.
Angelo Ferrari affronta l’evento cercando di districarsi tra le notizie ancora contraddittorie, analizzandole per capire almeno le intenzioni di ciascun protagonista, in primis i generali nigerini, ma poi anche le diplomazie mondiali e la manipolazione mediatica delle piazze locali, lasciando solo trapelare il malcontento giovanile
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Sbalorditivi risultati dopo il vertice di San Pietroburgo?

Una vicenda ancora dai contorni pochi chiari – non potevano mancare le affermazioni del capo dei mercenari della Wagner che ha applaudito alla presa di potere dei militari. Parole piene di retorica anticoloniale:

«Quello che è successo in Niger non è altro che la lotta del popolo nigerino contro i colonizzatori che stanno cercando di imporre loro le loro regole di vita”, ha detto Evgenij Prigožin in un messaggio a lui attribuito.

Parole che fanno intendere che la Wagner, qualora i golpisti lo volessero, è pronta a entrare nello scenario nigerino con un ruolo di primo piano. Non ci sono, per ora, segnali che dietro il golpe ci siano gli uomini della Wagner. Se fosse così sarebbe un doppio schiaffo per l’occidente che, è bene dirlo, si è fatto sorprendere proprio nell’ultima roccaforte della lotta antijihadista dopo l’uscita di scena dal Mali e dal Burkina Faso. Le domande sono molte.

 

La prima: come è stato possibile che nessuna cancelleria occidentale avesse avuto un sentore di ciò che sarebbe potuto accadere?

Non c’è una risposta e se c’è nessuno la vuole dare, forse perché sarebbe troppo imbarazzante. Sta di fatto che in Niger sono presenti migliaia di militari stranieri: 1500 francesi, più di mille americani e oltre trecento italiani, oltre ai mezzi militari, molti di questi di stanza a Niamey, la capitale. Di certo, nei prossimi giorni si chiariranno molte cose. Secondo i francesi il colpo di stato “non è definitivo”. Il presidente Emmanuel Macron ha parlato in più occasioni con il suo omologo destituito, Mohamed Bazoum. Forse da queste telefonate deduce che ci sia ancora uno spiraglio di trattativa tra il capo di stato democraticamente eletto e i golpisti che, intanto, hanno messo a guida del paese il capo della guardia presidenziale, il generale Abdourahamane Tchiani, in qualità di “presidente del Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria”, la giunta che ha rovesciato il presidente eletto. Il capo della guardia presidenziale, il generale Tchiani, nuovo uomo forte del Niger, ha giustificato il golpe con “il deterioramento della situazione della sicurezza” nel paese minato dalla violenza dei gruppi jihadisti. Il presidente Bazoum, a detta sua, voleva far credere che “va tutto bene”, mentre c’è

«la dura realtà con la sua quota di morti, sfollati, umiliazioni e frustrazioni». Secondo Tchiani «l’attuale approccio di sicurezza non ha permesso di mettere in sicurezza il paese nonostante i pesanti sacrifici compiuti dai nigerini e l’apprezzabile e apprezzato supporto dei nostri partner esterni».

Rassicurazioni da militare

A ogni insorgenza si sentono sempre queste parole. Sono una consuetudine vissuta anche in altri scenari del Sahel: il Mali e il Burkina Faso, paesi governati da giunte militari frutto di 4 colpi di stato. Tutte le giunte militari, inoltre, si affrettano a sostenere che gli impegni presi dal paese non cambieranno e verranno rispettati. Un tentativo di rassicurare gli alleati, ed è capitato anche in Niger, per poi fare retromarce clamorose. In Mali – la nuova Costituzione stabilisce che il francese non è più la lingua ufficiale – come in Burkina Faso, hanno “cacciato” la Francia per mettersi totalmente nelle mani della Russia, affidandosi alla Compagnia Wagner per la lotta ai gruppi jihadisti che imperversano nel Sahel. Hanno preoccupato le manifestazioni, a Niamey, a sostegno dei golpisti, con la gente che sventolava le bandiere russe, per altro subito disperse dalla giunta miliare. I timori, dunque, delle cancellerie occidentali sono più che fondati. E la “guerra economica e diplomatica” tra Ovest ed Est del mondo sembra proprio essersi trasferita in Africa. I segnali ci sono tutti.

Il Sahel ha sancito la fine di un’epoca?

Dopo il Mali e il Burkina Faso, dunque, anche il Niger è caduto sotto il controllo di un regime militare che potrebbe sconvolgere la lotta contro i gruppi armati jihadisti nel Sahel. Di fronte all’avanzata dei terroristi, le giunte militari hanno preso il sopravvento su democrazie ritenute inefficienti e corrotte da parte delle popolazioni saheliane. I militari che hanno, infatti, preso il potere in Niger hanno già annunciato un nuovo orientamento strategico.

«L’attuale approccio non ha permesso di mettere in sicurezza il Paese nonostante i pesanti sacrifici compiuti dai nigerini», ha detto il generale Tchiani.

Il Niger e il suo presidente, eletto democraticamente, erano i principali alleati dei paesi occidentali nel Sahel travolto dalla violenza jihadista e da un’ondata di autoritarismo venato di sovranità russofila. Bamako si è rivolto ai mercenari della Wagner per far fronte ai gruppi jihadisti, provocando la partenza delle truppe francesi nel 2022. Le autorità di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, hanno optato per la mobilitazione di cittadini armati e hanno chiesto il ritiro delle forze speciali francesi nel paese, non senza l’appoggio della Wagner. Il presidente nigerino, invece, aveva scelto di mantenere sul suo territorio la presenza di soldati francesi, americani e italiani, temendo di essere coinvolto nel divorzio tra l’occidente e le giunte saheliane.
Queste giunte «tendono naturalmente ad addossare la responsabilità del deterioramento della sicurezza agli alleati dei regimi che hanno rovesciato. Questi colpi di stato sono sostenuti da una parte della popolazione che ha già mostrato un atteggiamento ostile nei confronti dei francesi o degli occidentali presenti nel Sahel», spiega Ibrahim Yahaya Ibrahim, ricercatore dell’International Crisis Group.
Fin dal suo primo intervento, il generale Tchiani ha preferito rivolgersi ai suoi omologhi saheliani, interrogandosi «sul senso e sulla portata di un approccio securitario alla lotta al terrorismo che escluda ogni reale collaborazione con Burkina Faso e Mali» nell’area nota come i tre confini.

L’auspicata cooperazione tra sahelini… ma antifrancese

A causa delle tensioni diplomatiche, i militari nigerini e francesi non hanno potuto operare liberamente contro le basi dello Stato Islamico dall’altra parte del confine con il Mali, dove l’organizzazione compie attacchi sul territorio nigerino. Questa crisi non potrebbe essere risolta senza la cooperazione con il Mali, secondo il generale Tchiani. Insomma, è facile prevedere che vi sia un “miglioramento” delle relazioni e una maggiore cooperazione tra i paesi vicini.
Dal lato dei partner occidentali le prospettive sono più fosche: l’Unione europea ha annunciato la sospensione di tutti gli aiuti di bilancio e le azioni di cooperazione nel campo della sicurezza. Le sanzioni internazionali potrebbero colpire il regime come nel vicino Mali. Una possibile partenza delle forze francesi, americane e italiane lascerebbe un vuoto in una regione particolarmente travagliata, secondo gli analisti.
Il Niger confina con il caos libico, la Nigeria con Boko Haram e Iswap, il nord del Benin molto colpito dal jihadismo e ovviamente Mali e Burkina Faso.

Niamey era un polo di stabilità nonostante i problemi di sicurezza sul territorio.

Il Niger sta vivendo un afflusso di rifugiati dal Mali e dalla Nigeria in preda alla violenza, stimato in 255.000 nel 2022 dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unchr). Bazoum incarnava un modello di cooperazione in materia di sicurezza per le democrazie occidentali e i loro donatori. Il mantra del presidente nigerino era la “stabilizzazione” delle comunità prese di mira dal reclutamento jihadista e la reintegrazione dei loro combattenti, soprattutto i giovani. Il governo di Niamey stava attuando programmi in gran parte finanziati da partner internazionali, il cui futuro è ora sospeso. Contrariamente al potere civile che ha accettato di dialogare con alcuni leader di gruppi armati, il generale Tchiani ha denunciato nel suo discorso di “insediamento” la “liberazione extragiudiziale” di “capi terroristi” da parte del regime di Mohamed Bazoum. In Mali e Burkina Faso i militari al potere hanno optato per una strategia ultraoffensiva contro i gruppi jihadisti, viziata da accuse di abusi ricorrenti contro la popolazione. E a pagarne il maggior peso sono i civili.

Recrudescenza jihadista

Una strategia che contribuisce alla destabilizzazione e può alimentare tensioni intercomunitarie e intracomunitarie. Un approccio, inoltre, che non ha avuto l’esito sperato. Gli attacchi jihadisti in questa regione, ma anche nell’Africa occidentale, si sono moltiplicati. Solo nei primi sei mesi del 2023 si sono registrati più di 1800 attacchi di matrice terroristica, nei quali hanno perso la vita quasi 4600 persone e che hanno avuto conseguenze umanitarie disastrose. A riferirlo è Omar Touray, presidente della Commissione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) intervenendo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Delle circa 4600 persone uccise in questi attacchi terroristici tra gennaio e la fine di giugno, 2725 morti sono avvenute in Burkina Faso, 844 in Mali, 77 in Niger e 70 in Nigeria. Touray ha citato anche il Benin e il Togo, due paesi della subregione storicamente risparmiati dagli attacchi terroristici ma che oggi vivono, invece, grandi preoccupazioni per la sicurezza. Questi paesi sono stati presi di mira, di recente, da una serie di attacchi, che Touray ha descritto come

«un’indicazione lampante della diffusione del terrorismo negli stati» del Golfo di Guinea, «una situazione che rappresenta un’ulteriore minaccia per la regione».

Touray ha detto anche che l’insicurezza continua a infliggere dolore e sofferenza a milioni di persone, con conseguenze di vasta portata: questi attacchi terroristici hanno provocato lo sfollamento di mezzo milione di rifugiati e quasi 6,2 milioni di sfollati interni. La Costa d’Avorio, solo per fare un esempio, ha già predisposto campi per l’accoglienza dei profughi provenienti dal Burkina Faso. Il numero di persone con necessità di sicurezza e assistenza, poi, salirà a 42 milioni «se non ci sarà un’adeguata risposta internazionale ai 30 milioni di persone attualmente bisognose di cibo».


I francesi e l’Occidente non si possono permettere di perdere il Niger: passa dalla soluzione di questa crisi il definitivo declino dell’Occidente, oppure la contrapposizione allo scacco del blocco antiatlantico… l’incrocio tra Sahel e l’area centrafricana è uno snodo essenziale, ben più critico del corridoio polacco verso Kaliningrad. E forse per evitare il contagio può essere un’interpretazione valida quella avanzata da Angelo Ferrari e Marco Trovato in un visdeo di “AfricaRivista”riguardo al successivo “golpe” con caratteristiche del tutto differenti che ha colpito il Gabon, stato quasi monarchico che la repubblica francese ha dato in affido alla famiglia Bongo da 57 anni e che avrebbe rischiato maggiormente se le sommosse per il malcontento nei confronti della cleptocrazia non fossero venute dalla guardia presidenziale, ma dai cittadini ridotti in miseria dal sistema neocoloniale – e c’erano tutti i prodromi di una reazione violenta ai brogli delle elezioni tenutesi senza internet funzionante e in stato di emergenza, senza osservatori. Invece Brice Clotaire Oligui Nguema, nuovo uomo forte – senza bandiere russe o stemmi con il teschio della fantasmatica Wagner – ha assegnato ad Ali Bongo Ondimba quella retraite per la difesa della quale i cittadini francesi sono scesi nelle piazze per mesi. Ma qui non siamo in Sahel, non si è ancora affacciato il pericolo jihadista, la Francia non si può permettere di perdere un alleato così fedele.

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A chi è utile la Wagner? https://ogzero.org/a-chi-e-utile-la-wagner/ Tue, 27 Jun 2023 16:00:14 +0000 https://ogzero.org/?p=11209 Che fine farà la Wagner? A chi è utile? Il continente africano è utile alla Russia come fonte di approvvigionamenti e di nuovi mercati alternativi a quello europeo, e la milizia capeggiata da Prigozhin era la testa di ponte russa che serviva allo scopo per militarizzare le risorse ottenute e controllare i territori che le […]

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Che fine farà la Wagner? A chi è utile? Il continente africano è utile alla Russia come fonte di approvvigionamenti e di nuovi mercati alternativi a quello europeo, e la milizia capeggiata da Prigozhin era la testa di ponte russa che serviva allo scopo per militarizzare le risorse ottenute e controllare i territori che le ospitano (senza contare l’utilizzo anti-jihad fattone da parte dei numerosi dittatori o golpisti africani). In Occidente non se ne è parlato molto in questi giorni in cui si è assistito ai fatti avvenuti in Casa Russia, ma è bene che se ne tenga conto, per capire gli sviluppi negli equilibri futuri del continente e degli investimenti che lì sono in corso. Angelo Ferrari ne parla qui e nel podcast dedicato al neocolonialismo africano, un’intervista per la trasmissione “I bastioni di Orione” di Radio Blackout.


La Wagner si sfalderà in Africa o verrà riassorbita nei ranghi ufficiali russi? È quello che si stanno chiedendo molti dittatori o golpisti africani che fanno ricorso ai mercenari della Compagnia Wagner per “sistemare” le questioni interne dei loro paesi, in particolare la lotta al jihadismo come nel Sahel. Di sicuro, fino a ora, la Wagner è la testa di ponte di Mosca per riaffermare la sua influenza su parte del continente africano. La Russia ha bisogno dell’Africa per due motivi: il primo perché deve trovare nuovi partner, nuove fonti di approvvigionamento, e nuovi mercati alternativi a quello europeo; il secondo luogo perché il sogno della Russia è quello di rafforzare il suo ruolo di gigante minerario per poi cercare di militarizzare le risorse, sviluppando tecnologia bellica. Per queste ragioni Vladimir Putin ha utilizzato la Wagner come forza di sfondamento nel continente africano. Questo, inoltre, ha fatto sì che la base operativa economica della Wagner sia diventata l’Africa. Un aspetto che l’Occidente non deve sottovalutare come gli avvenimenti dei giorni scorsi in Russia.

Dove opera la Wagner

L’attività del gruppo Wagner si svolge in tredici paesi diversi: Libia, Eritrea, Sudan, Algeria, Mali, Burkina Faso, Camerun, Sud Sudan, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Madagascar, Mozambico e Zimbabwe. Tutti paesi ricchi di risorse naturali di cui Mosca ha bisogno e sulle quali si è sviluppata la forza della Wagner, non solo militare, ma economica. La Repubblica Centrafricana, per esempio, è diventata per la Wagner un partner privilegiato – ha 13 basi militari – ha prestato i suoi servigi militari a difesa del governo del presidente Faustin-Archange Touderà, minacciato dai ribelli e da una guerra civile, avendo in cambio un accesso privilegiato alle miniere d’oro e di diamanti, oltre ad avere il controllo di alcuni ministeri. Significativo, da questo punto di vista, Il divieto di sorvolo dei droni, deciso a febbraio dal governo centrafricano, proprio per tutelare le attività di Wagner nella miniera d’oro di Ndassima, recentemente ampliata e messa in sicurezza.

Una situazione simile si sta verificando in Mali e in Burkina Faso. Con il fallimento dell’operazione antiterrorismo Barkhane e il conseguente ritiro dei francesi, il campo si è aperto ai russi e alla Compagnia Wagner – nonostante i governi di questi paesi neghino – che è passata all’incasso. Secondo un recente rapporto dell’Africa Command degli Stati Uniti, il Mali paga Wagner il corrispettivo di 10 milioni di dollari al mese, sotto forma di risorse naturali come oro e pietre preziose.

Il forziere economico della Wagner: contratti, armi e potere

E poi c’è il Sudan. La guerra tra l’esercito regolare del generale Abdel Fattah al Burhan e il capo delle Forze di supporto rapido (Fsr), Mohammed Hamdane Dagalo, detto Hemedti, continua senza tregua. E la Wagner, pur sostenendo le milizie Fsr, è rimasta defilata, si è occupata solo del trasferimento di armi dalla sua base in Cirenaica, in Libia, è ha privilegiato i suoi interessi economici che sono indipendenti da chi prevarrà sul campo. I rapporti tra Mosca e Kharthoum sono di lunga data. Il Sudan è ricco di metalli preziosi, la stragrande maggioranza dei quali viene esportata illegalmente. Molte miniere sono nelle mani di Hemedti. In questo settore la Wagner agisce attraverso la società M Invest di Yevgeny Prigozhin e la sua controllata Meroe Gold, che si è trasferita in Sudan nel 2017 e lavora con Aswar, una società controllata dall’intelligence militare sudanese. Il gruppo di giornalisti del Progetto di segnalazione di criminalità organizzata e corruzione (Occrp) è riuscita a raccogliere prove di un contratto tra Meroe Gold e Aswar. La società russa, inoltre, è esentata dal 2018 dalla tassa del 30% imposta dalla legge sudanese alle società aurifere. Anche per queste ragioni Wagner in Sudan ha assunto un profilo opportunista piuttosto che fedele a una particolare fazione. Questo ha permesso a Prigozhin di proseguire le sue attività economiche anche dopo la caduta del dittatore Omar al-Bashir e anche dopo il golpe del 2021, messo in atto proprio da chi ora si combatte per il potere. Dunque, il vero forziere economico della Wagner è in Africa. E tutto ciò fa gola anche a Putin.

Ascolta “Neocolonialismo africano: la trappola dietro allo sforzo di affrancamento” su Spreaker.

Le “fattorie di troll”

Dopo la “tentata marcia” su Mosca da parte della Wagner, nel continente africano non si segnalano particolari movimenti del gruppo. I mercenari, abituati a lavorare in autonomia, continuano le loro attività: sicurezza, sfruttamento delle risorse naturali e manovre di disinformazione con lo scopo di avvicinare le opinioni pubbliche alle ragioni della Russia. La compagnia Wagner, già dal 2017, ha utilizzato campagne per destabilizzare e manipolare le opinioni pubbliche attraverso le sue “fattorie di troll” sia in Sudan così come nel Sahel.

I due possibili sbocchi

Molti analisti concordano che Wagner non può fare a meno del supporto logistico dell’esercito russo nelle sue operazioni in Africa. Mosca fornisce armi e istruttori a molti paesi. Ma, anche in caso di smantellamento del gruppo Wagner, la Russia non lascerà il terreno non “occupato”. Le conquiste politiche, economiche e diplomatiche dell’ultimo decennio sono vitali per Mosca. I leader africani, che si avvalgono dei servizi dei mercenari russi, devono necessariamente interrogarsi anche sui rapporti di forza in Russia, soprattutto se i contrasti dovessero durare, potrebbero trovarsi di fronte a un conflitto di lealtà. I leader africani, così come molte cancellerie occidentali e asiatiche, stanno aspettando che la “polvere si depositi”. Di certo se la Wagner viene riassorbita nei ranghi dell’esercito di Mosca, il problema non si pone. I leader africani potranno continuare a trattare con questa compagnia senza il timore di scatenare conflitti di fedeltà con la Russia. Altro se Prigozhin rimarrà a capo della Wagner “africana”. Allora si entrerebbe in una zona grigia, senza dimenticare che la gran parte del personale russo schierato in Africa appartiene alla Wagner.

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Africa Day: le sfide anticoloniali sono sempre attuali https://ogzero.org/africa-day-le-sfide-anticoloniali-sono-sempre-attuali/ Thu, 25 May 2023 21:40:42 +0000 https://ogzero.org/?p=11124 Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale. Eppure l’Africa è […]

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Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale.
Eppure l’Africa è al centro di ogni affare (Descalzi incontra Nguesso per inaugurare il “Congo Lng”), interesse (Kuleba incontra i leader dell’UA in vista di mediazione sulla guerra), ricchezza (Tshisekedi – nato nel 1963, come l’UA – si accorda sul cobalto con Xi)… queste solo alcune delle notizie odierne. In Ghana Gold Fields e AngloGold Ashanti si uniscono per creare la più grande miniera d’oro africana e contemporaneamente un tornado sradica l’albero della libertà… ci sarà una qualche correlazione?


Dopo il colonialismo… 60 anni di neocolonialismo

Le celebrazioni, in Africa, hanno sempre un valore simbolico. Ricche di retorica ma anche di auspici. Appartengono alla vita delle comunità e degli stati. Anche in questo giorno, in cui si celebra l’Africa Day, il continente si è mobilitato.
Oggi si ricordava la fondazione dell’Organizzazione dell’Unità africana (Oua), che avvenne il 25 maggio del 1963, sessant’anni fa. In alcuni paesi prende il sopravvento la retorica condita di anticolonialismo. In altri, invece, si guarda al futuro e alle sfide, che retoriche non sono, che attendono un continente provato dalla pandemia di Covid, dall’inflazione dei prezzi dei generi energetici e, soprattutto, alimentari dovuto alla situazione economica globale aggravata dalla guerra in Ucraina.

Le sfide del continente

Ma sono anche altre le sfide. Il terrorismo, per esempio, e tutt’altro che sconfitto anzi, dilaga in molti paesi come il Mali, Il Burkina Faso, che sembrano essere incapaci di farvi fronte nonostante i paesi siano stati squassati da colpi di stato. Dall’arrivo dei militari al potere la situazione, se possibile, si è ancora aggravata e nulla ha potuto la retorica anticoloniale, in particolare il sentimento antifrancese che pervade le popolazioni di questi due paesi, ma anche la simpatia, che è diventata rapporto strutturale con la Russia, che fornisce armi e mercenari della Compagnia Wagner. Tutto il Sahel è pervaso da una ondata jihadista senza precedenti, con le cancellerie internazionali preoccupate per la possibile saldatura con le organizzazioni criminali internazionali.  Cancellerie che, tuttavia, non sono state in grado di risolvere il problema perché hanno privilegiato l’intervento securitario – necessario – alla cooperazione allo sviluppo. Il terrorismo nel Sahel, così come in Somalia, si alimenta della povertà dilagante, dell’incapacità degli stati di far fronte ai bisogni della popolazione. Verrebbe da dire che l’arma più efficace per combattere i terroristi sarebbe mettere in campo riforme economiche e un welfare state degno di questo nome, così da togliere da sotto i piedi dei terroristi il loro terreno privilegiato, cioè la povertà. Lavoro non da poco.
Ma sono molte altre le sfide che attendono il continente, soprattutto economiche. L’intera Africa deve avere come faro la diversificazione economica, non può affidarsi, solo, alle materie prime, pur preziose per avere le risorse per creare un tessuto industriale manifatturiero. Significativo da questo punto di vista lo sbilanciamento delle relazioni con la Cina, il primo partner commerciale del continente. Nei primi quattro mesi del 2023 le esportazioni cinesi verso i paesi africani sono cresciute del 26,9%, mentre quelle dell’Africa verso la Cina sono diminuite dell’11,8%. Uno squilibrio evidente, aggravato dal fatto che Pechino esporta in Africa prodotti finiti – tessile, abbigliamento, macchinari, elettronica – mentre le esportazioni africane verso la Cina sono dominate da materie prime come petrolio greggio, rame, cobalto e minerale di ferro, di cui il Dragone ha estremamente bisogno. Proprio per queste ragioni il continente deve lavorare con più determinazione per la costruzione di un tessuto produttivo manifatturiero.
Questa, inoltre, è la grande sfida che attende l’Area di libero scambio continentale africana (Afcta) – entrata in vigore nel gennaio del 2021 – un mercato di 1,2 miliardi di persone e di un Pil combinato di circa 3,4 trilioni di dollari. Un’area commerciale che stenta a decollare per la mancanza di infrastrutture sicure, capaci di collegare gli stati ma soprattutto per la risibilità della manifattura africana. Tra i paesi del continente non possono circolare, solo, le materie prime, queste se le accaparrano le multinazionali e portano beneficio a pochi. L’Africa vive un paradosso: è ricca di risorse, ma, per fare un esempio, i due colossi nella produzione di petrolio in Africa subsahariana – Angola e Nigeria – importano circa l’80% del loro fabbisogno in carburante. Da non trascurare che le materie prime sono soggette alle oscillazioni dei mercati internazionali.
Altra sfida è quella dell’energia elettrica. Ancora nel 2023 milioni di africani rimangono al buio, e anche questo è un paradosso viste le potenzialità del continente: solare, idroelettrico, geotermico, eolico, energie pulite come l’idrogeno verde. Mettere a sistema tutto ciò darebbe un impulso al mercato unico e quindi a uno sviluppo sostenibile ma, soprattutto durabile.  Questione che solo un’organizzazione sovranazionale, come l’Unione Africana, può affrontare.

Oligarchie dinastiche senza fine…

Poi ci sono questioni puramente politiche. Lasciamo da parte i presidenti africani che durano in eterno senza produrre benefici per le popolazioni ma solo animati da bulimia di potere e, spesso, sostenuti dallo stesso occidente così attento allo stato di diritto. Il punto, per rimanere alle celebrazioni di oggi, sarebbe l’attribuzione di un ruolo da pari nei consessi internazionali all’Unione africana.

vs un seggio permanente all’Onu

Un’ipotesi che si sta materializzando e potrebbe diventare concreta: un seggio, per così dire, permanente, non solo da osservatore, come spesso è capitato nei vari G20 o G7 che siano, dove di volta in volta, veniva invitato qualche presidente africano o gli stessi esponenti dell’Unione africana. Così come soddisfare la richiesta dell’Unione africana di occupare un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Formalizzare e concretizzare una presenza “permanente” avrebbe il significato di trasformare il continente africano in potenza che decide, non più, dunque, con un ruolo subalterno che ogni volta negozia con questo o quello stato occidentale, ma protagonista del proprio futuro di fronte alle potenze internazionali. Tutto ciò sarebbe un cambio di paradigma perché porterebbe l’Africa a discutere, da pari, del proprio sviluppo sia economico sia politico e sociale, con l’occidente sviluppato.

Non è una cosa qualunque, sarebbe epocale.


Come epocale è l’espianto del Freetown Cotton Tree in questa data simbolica

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Una moneta unica per l’Africa… naturalmente parla cinese https://ogzero.org/una-moneta-unica-per-lafrica-naturalmente-parla-cinese/ Thu, 23 Mar 2023 00:55:28 +0000 https://ogzero.org/?p=10557 Proponiamo una Analisi dell’agenzia Agi, un po’ perché il chiacchiericcio sull’incontro di Xi a Mosca con Putin si è fermato alla scenografia che serviva ad amplificare il messaggio senza cogliere i dettagli – e la sostanza si trova nei particolari – e quelli meno evidenti ma più esibiti, come la lettera rubata di Poe, si […]

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Proponiamo una Analisi dell’agenzia Agi, un po’ perché il chiacchiericcio sull’incontro di Xi a Mosca con Putin si è fermato alla scenografia che serviva ad amplificare il messaggio senza cogliere i dettagli – e la sostanza si trova nei particolari – e quelli meno evidenti ma più esibiti, come la lettera rubata di Poe, si racchiudevano nell’intenzione di adottare lo yuan come moneta corrente per i paesi più contesi tra i contendenti. Un po’ perché quell’area dello scacchiere mondiale dopo questo vertice tra le due potenze che rivendicano il riconoscimento del multilateralismo diventa il fulcro dello scontro e ogni centimetro o infrastruttura africani, ciascun scambio commerciale difeso da un apparato militare, qualunque sistema economico diventa tassello strategico della competizione globale.
Il territorio in cui una scelta di questo tipo può spostare gli equilibri precari tra i sistemi politico-economici è l’Africa. Lo ha compreso persino “MilanoFinanza”, potente testata che si è appropriata del pezzo proposto da Agi, imponendo la “riproduzione riservata” e attribuendo a Marcello Bussi l’intuizione scritta invece da Angelo Ferrari, che ha ricondotto la proposta dell’incontro moscovita a conseguenza dei molti episodi che negli ultimi anni si sono riproposti di sostituire lo status quo attraverso il grimaldello monetarista per legare stati e territori a nuove valute; situazioni già da Ferrari analizzate in molti suoi scritti.


Lo yuan va a sud dopo gli accordi al Cremlino

Cina e Russia si accordano per un partenariato fino al 2030 che ha l’obiettivo di ridisegnare l’ordine mondiale. Tra i piani della Russia c’è, anche, quello di «utilizzare lo yuan cinese nei pagamenti con paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina».

Il presidente russo, Vladimir Putin, si dice sicuro che queste «forme di pagamento saranno sviluppate tra la Russia e i partner e colleghi di paesi terzi».

Tutto ciò fa tornare alla memoria un progetto, sponsorizzato dal Ghana, paese anglofono dell’Africa occidentale, per arrivare alla creazione di una moneta unica, chiamata eco, con lo scopo di superare la moneta cosiddetta coloniale, il franco Cfa, adottata da molte ex colonie francesi, e allargarla ad altri, come appunto il Ghana e Nigeria, e legare la sua stabilità proprio allo yuan cinese. Un progetto ambizioso.
A oggi il franco Cfa è legato all’euro. Dunque una partita che potrebbe riaprirsi.

Un bacino enorme da cui l’Occidente è vieppiù estromesso

La nuova moneta dovrebbe essere adottata da 15 paesi e da circa 350 milioni di persone e nelle intenzioni della Cina dovrebbe decretare la fine del predominio francese in quell’area. Non è chiaro se la Nigeria, prima economia del continente, aderirà al progetto. Di certo il cambio della moneta è stato voluto – in maniera insistente – dal Ghana, paese anglofono che ha una sua moneta (il cedi ghanese) e da alcuni stati che gradualmente stanno cercando di affrancarsi da Parigi o che sono, anche se non in maniera dichiarata, “ostili” alla Francia. Ma ciò che colpisce di più – ogni paese e ogni comunità economica ha il pieno diritto di decidere le proprie politiche monetarie – è che la nuova moneta, l’eco, potrebbe essere ancorato allo yuan cinese, per evitare oscillazioni pericolose per i mercati. Ciò che accade ancora oggi con il franco Cfa ancorato all’euro. Il progetto di moneta unica della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Cedeao) è fortemente voluto dal Ghana, paese con una moneta instabile. Se si guarda ai dati sull’inflazione e si paragonano economie simili dell’area, cioè Costa d’Avorio e Ghana, quest’ultimo paese ha visto l’inflazione raggiungere livelli insostenibili, mentre in Costa d’Avorio, che adotta il franco Cfa, è rimasta abbastanza stabile, pur in una fase di congiuntura negativa.

«Se per la sicurezza e le armi il riferimento preferito sono gli Usa, l’economia e lo scambio sono ancora privilegi della Francia, che tenta di mantenere almeno nel Golfo gli scampoli di un colonialismo in rovina nel resto della Françafrique; lo fa mantenendo in piedi le strutture ormai minate come il Franc Cfa, pur promettendo di agevolare il passaggio all’Eco, un progetto perseguito da Ouattara, che doveva vedere la luce nel giugno 2020; il leader ivoriano aveva individuato alcuni criteri base perché i paesi africani potessero aderirvi (bassa inflazione e rapporto deficit/pil sotto al 70% – metà di quello italiano) e Macron aveva appoggiato l’iniziativa per sfilarla ai cinesi, che si erano dichiarati disponibili a sostenerla, ma l’Eliseo aveva il preciso intento di procrastinarne il varo. Infatti il 2020 è passato e l’Eco non c’è. Troppe le incognite, tanto che il lancio della nuova moneta è slittato ulteriormente ma, questa volta, a data da destinarsi, in un futuro non ben precisato. La ragione: non sono pronti gli aspetti tecnici necessari al lancio della nuova moneta, dalla fabbricazione delle banconote, agli aggiornamenti informatici e amministrativi, alla banca federale regionale. Ma la questione è più complicata di quel che vogliono far credere. Prosegue, infatti, il braccio di ferro tra paesi francofoni e anglofoni. Questi ultimi vorrebbero una moneta ancorata a quella cinese. Dall’altra parte non ci stanno ma, soprattutto, non ci sentono. Un dialogo tra sordi. In ogni caso, il cambio della moneta – se mai avverrà – sarà accompagnato da due importanti riforme tecniche: l’estinzione del conto operativo (il 50% delle riserve in valuta estera) depositato presso la Banca di Francia e il ritiro dei rappresentanti francesi presenti negli organi della Banca centrale degli stati dell’Africa occidentale»
(Angelo Ferrari, Raffaele Masto, Africa Bazaar, Rosenberg & Sellier, maggio 2022, p 164).

Da Parigi a Pechino

Se tutto ciò dovesse avvenire, l’Africa occidentale potrebbe passare dalla tutela francese a quella cinese. Ciò dimostra, inoltre, che per questi paesi non è pensabile garantire la stabilità monetaria senza un ancoraggio a una moneta forte. Il franco Cfa, negli anni, ha garantito proprio questo: stabilità e bassa inflazione. Ma c’è stato un però che ha interrotto il processo.

Per scongiurare questo progetto è intervenuto, a sorpresa, il presidente francese Emmanuel Macron, durante una visita in Costa d’Avorio a fine 2019, durante la quale è stata annunciata la fine del dominio del franco Cfa, aprendo la strada alla nuova moneta, ma ancora collegata all’euro.

Questa ipotesi è stata abbracciata dalla Costa d’Avorio e la nuova moneta, nelle intenzioni di Abidjan, verrebbe adottata da Benin, Burkina Faso, Mali, Guinea-Bissau, Niger, Senegal, Togo e Costa d’Avorio. Moneta, tuttavia, che non verrebbe adottata dai paesi dell’Africa centrale legati al franco Cfa, cioè: Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana e Repubblica del Congo.

Un annuncio, come era prevedibile, che ha gettato lo scompiglio tra i paesi anglofoni dell’Africa occidentale: Nigeria, Sierra Leone, Ghana, Liberia e Gambia oltre che la Guinea (paese francofono ma fuori dal circuito del franco Cfa). Una mossa, quella di Macron, che letta alla luce della mossa moscovita, aveva più il sapore di interrompere il progetto del Ghana e quindi della Cina. Come era prevedibile l’ipotesi della moneta unica è naufragato nelle acque del Golfo di Guinea.

Presenza militare russa in moneta cinese: il cerchio si stringe

Ecco allora, che il progetto e l’intesa tra Russia – che ha acquisito nuovi partner scelti tra i vecchi alleati della Francia proprio in Africa occidentale – e la Cina che ha una presenza commerciale consolidata in Africa e che non teme rivali, potrebbe riportare in auge il progetto della moneta unica, tuttavia legata allo yuan. Così sarebbe più “facile”, almeno nelle intenzioni di Pechino e Mosca, per questa regione dell’Africa, utilizzare la moneta cinese nei pagamenti. Ma ciò avrebbe un altissimo impatto sull’intero continente: la Cina, così, potrebbe consolidare la sua influenza e aggiungerebbe un pilastro fondamentale nella sua politica espansionistica nel continente.

Ma rimane un però: i paesi africani saranno così convinti di mettersi totalmente nelle braccia di Pechino? La risposta non può che venire da Stati uniti e Unione europea.


Da ascoltare anche la puntata di radio3mondo del 22 marzo 2023 condotta da Luigi Spinola con l’intervento di Alessandra Colarizi, autrice di “Africa rossa. Il modello cinese e il continente del futuro”, e Alberto Zanconato: dalla mediazione di Xi nella guerra ucraina alle sanzioni condivise si finisce comunque a sottolineare la centralità del continente africano, dove la competizione corrisponde agli interessi di tutti contro tutti, sotto forme diverse, come ben descritto dalla caporedatrice di “China Files”.

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Come uscire dalla Françafrique e rimanere buoni amici, però? https://ogzero.org/come-uscire-dalla-francafrique-e-rimanere-buoni-amici-pero/ Fri, 03 Mar 2023 13:57:56 +0000 https://ogzero.org/?p=10429 Una scommessa impossibile, dopo l’arroganza plurisecolare della potenza coloniale francese. Macron, presidente dimezzato in patria, si sottrae all’ira sulla riforma delle pensioni proseguendo il tentativo di recuperare un rapporto postcoloniale con il continente africano. Dall’inizio del suo primo mandato – va riconosciuto – ha tentato di mutare l’atteggiamento gaullista, ma non ha un paradigma scevro […]

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Una scommessa impossibile, dopo l’arroganza plurisecolare della potenza coloniale francese. Macron, presidente dimezzato in patria, si sottrae all’ira sulla riforma delle pensioni proseguendo il tentativo di recuperare un rapporto postcoloniale con il continente africano. Dall’inizio del suo primo mandato – va riconosciuto – ha tentato di mutare l’atteggiamento gaullista, ma non ha un paradigma scevro da ogni possibile idea coloniale: non è nei cromosomi francesi, tanto che non sono riusciti a cogliere il momento giusto per tagliare i cordoni con le colonie, riuscendo a renderle autonome e un embrione di politica macroniana per il continente vede gli africani francesi fare da ponte. Il presidente francese ha dovuto registrare la sostituzione da parte dei russi sul piano militare (rimangono truppe francesi in Gabon, Niger, Senegal, Ciad… ma è proprio la loro figura a restituire quel feedback che procura un rigurgito antifrancese) e dei cinesi in economia, che hanno acquisito larghe fette del mercato della Françafrique (ma il ritorno per l’economia francese è ormai ridotto all’osso), prima di avventurarsi nel viaggio tra le foreste gabonesi, i Congo e l’Angola.

Un passato che sembra non passare mai. Infatti il tour di Macron comincia dal vicino Gabon della dinastia Bongo (emblematico del sistema “francese” di rapportarsi all’Africa attraverso famiglie fedeli che gestiscono il paese con corruzione e centri di potere), e poi si concentrerà su quelli più a rischio di sfuggire al controllo (Congo Kinshasa – dove sventola già la bandiera russa come “bienvenue” e l’ex luso-cinese Angola). Angelo Ferrari si lascia ispirare dal viaggio disperato dell’inquilino dell’Eliseo, cacciato dal Sahel occidentale e contestato per la mancata difesa del Congo dall’aggressione ruandese, per augurarsi che gli africani trovino la forza di liberarsi dei coloni di qualsiasi colore (ma con scarse speranze che cambi qualcosa); Macron si trova vituperato in patria dai nostalgici della grandeur d’outre-mer e destinato a risultare il presidente che “perderà” il controllo delle colonie, forse proprio in virtù dell’approccio iniziale di riconoscimento della brutalità dell’occupazione coloniale; ed è svillaneggiato in Françafrique, dove prova il grimaldello spuntato dell’approccio green per organizzare il tour elettorale a sostegno di regimi autocratici… e degli interessi petroliferi di Total (il green-paradox).


Macron l’Africano… ingombrante

Proteste a Kinshasa

La missione africana del presidente francese Emmanuel Macron non è iniziata nel migliore dei modi. Mentre il suo aereo arrivava in Gabon, prima tappa della sua visita in Africa, nella capitale della Repubblica democratica del Congo, Kinshasa – ultima fermata del suo viaggio – decine di giovani congolesi manifestavano contro di lui davanti all’Ambasciata di Francia. Brandendo bandiere russe, questi giovani lo accusavano di sostenere il Ruanda a spese del loro paese. “Macron assassino, Putin in soccorso”, questi gli slogan scanditi in piazza e su alcuni cartelli e striscioni si leggevano accuse ancore peggiori: “Macron padrino della balcanizzazione della Rdc”, “I congolesi dicono no alla politica della Francia” o anche “Macron indesiderabile in Rdc”. La Repubblica Democratica del Congo (Rdc), dove nel fine settimana è atteso il presidente francese, accusa il vicino Ruanda di sostenere una ribellione attiva nell’est – confermata dagli esperti Onu nonostante le smentite di Kigali – e si aspetta una chiara condanna di questa “aggressione” da parte della comunità internazionale.

«Siamo qui per dire no all’arrivo di Emmanuel Macron perché la Francia è complice della nostra disgrazia», ha dichiarato davanti ai giornalisti Josue Bung, del movimento cittadino Sang-Lumumba, sfoggiando la tipica acconciatura dell’eroe dell’indipendenza congolese Patrice Lumumba (1925-1961).

Lunedì scorso Emmanuel Macron ha presentato a Parigi la sua strategia africana per i prossimi anni e, rispondendo a una domanda sulla Rdc, ha sostenuto che la sovranità e l’integrità territoriale del paese «non possono essere discusse». Ma “non ha menzionato il Ruanda, che è il nostro aggressore”, gli hanno rimproverato i manifestanti.

Le bandiere russe significano «che non abbiamo più bisogno della Francia, vogliamo collaborare con partner affidabili, come la Russia o la Cina», ha sostenuto Bruno Mimbenga, altro organizzatore delle proteste davanti all’ambasciata francese, in un momento in cui la Russia è sempre più in competizione con la Francia nella sua storica sfera di influenza in Africa.

I giovani congolesi hanno ribadito quello che è un sentimento diffuso sia in Africa centrale sia nel Sahel e cioè che “la comunità internazionale non ci serve”. La Rdc sarà questa settimana l’ultima tappa di un viaggio di Emmanuel Macron in Centrafrica, che lo porterà anche in Gabon per un vertice sulle foreste, in Angola e in Congo-Brazzaville.

La dinastia Bongo e la foglia di fico delle foreste

Il diciottesimo viaggio nel continente è iniziato, quindi, a Libreville, dove Emmanuel Macron vuole dare nuovo impulso al rapporto tra i due paesi. Sono passati 13 anni da quando un presidente francese ha fatto un viaggio in Gabon. L’ultimo è stato Nicolas Sarkozy, nel febbraio 2010. Nel frattempo, la contestata rielezione del presidente Ali Bongo e la crisi elettorale del 2016 sono passate attraverso aspre tensioni tra i due paesi. Poi c’è stata la crisi sanitaria, e la lite è continuata fino a un inizio di riavvicinamento dal 2021. Questo viaggio per Macron era, secondo una fonte vicina all’Eliseo, diventato essenziale. Era già in lavorazione da diversi mesi, ed è stato nell’estate del 2022 che è stata presa in considerazione l’idea di usare il One Forest Summit e di focalizzare il viaggio sulla protezione delle foreste, per fugare ogni dubbio sulla natura della visita che arriva nell’anno elettorale del Gabon, con le elezioni presidenziali previste per la prossima estate. Una tempistica che ha fato sobbalzare la società civile e l’opposizione gabonese:

«È venuto per lanciare la campagna elettorale del suo amico», ha detto l’ambientalista Marc Ona.

Perplessità espresse anche dall’opposizione a Macron a Parigi. Un gruppo di parlamentari del gruppo Lfi-Nupes della Commissione Affari Esteri ha infatti scritto alla ministra degli Esteri, Catherine Colonna, facendo notare che due dei paesi visitati terranno fra pochi mesi le elezioni presidenziali, il Gabon e la Repubblica democratica del Congo. «In un tale contesto, questa visita potrebbe essere interpretata come un sostegno politico da parte dell’esecutivo francese a governi o regimi le cui derive autoritarie, persino autocratiche» sono evidenti, si legge nella nota.

La lettera ricorda che in Gabon, dove nessun presidente francese si recava da 13 anni, le elezioni si terranno fra cinque mesi. La visita, secondo i deputati d’opposizione, “offre una legittimità internazionale” a un regime, quello della famiglia Bongo, al potere dal 1967. Sottolinea inoltre che è stato negato un visto a una giornalista di “Liberation” per seguire il One Forest Summit – co-organizzato dalla Francia – lasciando intendere che si vuole coprire l’evento in un’ottica solo positiva per il regime, mentre molti osservatori temono che si tratterà di un’operazione di greenwashing.

I deputati di La France insoumise et Nouvelle union populaire écologique et sociale evidenziano anche dubbi sulla sincerità che circonda le prossime elezioni in Congo-Kinshasa, nonché la repressione di manifestazioni dell’opposizione in Angola nei mesi scorsi.

«Il carattere a volte selettivo e contraddittorio delle posizioni del governo francese sulla natura e le pratiche dei regimi e dei governi, in particolare in Africa, lascia spazio alle critiche, sincere o pilotate da altre potenze, che indeboliscono le nostre relazioni strategiche con i paesi del continente» africano, stigmatizzano gli autori della lettera.

Arginare il legittimo sentimento antifrancese: safari impossibile

Un viaggio, inoltre, che arriva a pochi giorni da una lunghissima conferenza stampa nella quale Macron ha voluto ridisegnare la politica francese nei confronti del continente africano. Un tentativo legittimo, visto il dilagare del sentimento antifrancese in buona parte dell’Africa centrale e del Sahel. Per Macron è necessario un nuovo rapporto “equilibrato, reciproco e responsabile”. Questo il mantra presidenziale. Ma ancora:

«L’Africa non è terra di competizione», ha detto Macron durante la conferenza stampa all’Eliseo, invitando a «passare da una logica degli aiuti a quella degli investimenti».

Ha, inoltre, affermato di aver mostrato «profonda umiltà di fronte a quanto si sta svolgendo nel continente africano, una situazione senza precedenti nella storia», con «una somma di sfide vertiginose. Dalla sfida della sicurezza climatica alla sfida demografica con i giovani ai quali dobbiamo offrire un futuro in ognuno degli stati africani», invitando a «consolidare stati e amministrazioni, investendo in modo massiccio in istruzione, salute, lavoro, formazione, transizione energetica».

L’inquilino dell’Eliseo ha voluto anche sottolineare che la Francia «sta chiudendo un ciclo segnato dalla centralità della questione militare e della sicurezza», annunciando una “riduzione visibile” del personale militare francese in Africa e un “nuovo modello di partenariato” che prevede un “aumento del potere degli africani”. Tutto ciò segna un cambio di paradigma nella politica dell’Eliseo? Per ora sono solo parole a cui devono seguire dei fatti concreti, anche perché la riduzione del personale militare più che una scelta è stata una via obbligata visto il ritiro dal Mali, dal Burkina Faso e dalla Repubblica Centrafricana, tre roccaforti dell’influenza parigina in Africa. Paesi che, dopo la “cacciata” dei francesi si sono affidati in maniera decisa proprio alla Russia, dimostrando che l’Africa è, ancora, una terra dove la competizione tra potenze internazionali è viva più che mai, a differenza di ciò che sostiene Macron e lui stesso ne è complice.

Da ultimo occorre ricordare che nei paesi visitati dal presidente francese – Gabon, Angola, Repubblica del Congo e Repubblica democratica del Congo – la Francia ha enormi interessi economici soprattutto nel settore petrolifero.

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La “Grande sostituzione” si estende al Maghreb https://ogzero.org/saied-la-grande-sostituzione-si-estende-al-maghreb/ Mon, 27 Feb 2023 11:43:33 +0000 https://ogzero.org/?p=10397 Il contagio del razzismo a supporto della governance di despoti e democrature è l’unico pensiero che può attraversare frontiere. L’Unione africana, dopo la conferma delle sanzioni ai danni del Mali, Burkina e Guinea equatoriale per i golpe filorussi, si è trovata a dover difendere le genti provenienti proprio dal Sahel e dal resto del continente […]

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Il contagio del razzismo a supporto della governance di despoti e democrature è l’unico pensiero che può attraversare frontiere. L’Unione africana, dopo la conferma delle sanzioni ai danni del Mali, Burkina e Guinea equatoriale per i golpe filorussi, si è trovata a dover difendere le genti provenienti proprio dal Sahel e dal resto del continente subsahariano da attacchi che provengono dall’interno dello stesso continente ai massimi livelli delle istituzioni di un paese africano. Lo ha fatto condannando le parole “scioccanti” del “pallido” presidente della Tunisia sui migranti più “scuri” provenienti dall’Africa subsahariana e ha richiamato i suoi stati membri ad «astenersi da qualsiasi discorso di odio e di natura razzista, che danneggiano le persone». In trasparenza si possono riconoscere i contorni delle richieste italiane, sicuramente avanzate – perseguendo l’intento di esternalizzare le frontiere – proprio con gli stessi argomenti razzisti, che facilmente non si sbaglia ad attribuire al viaggio di Meloni in Maghreb, andata a procurarsi gas e soprattutto a perorare il blocco della rotta dei migranti; peraltro un perfetto argomento – in tutto uguale al disgustoso tentativo di Erdogan di scaricare sui migranti la colpa della corruzione del suo sistema di potere in buona parte responsabile del disastro del terremoto per le sue dimensioni – che offre il destro a Saïed per trovare un capro espiatorio su cui far convergere l’odio per il disastro economico e sociale tunisino.

Una grande manifestazione contro il razzismo e la xenofobia si è svolta a Tunisi il 26 febbraio 2023, per dire no alle parole di Saïed e per cambiare rotta al governo sul trattamento riservato ai migranti dai paesi africani subsahariani. Le organizzazioni della società civile hanno assunto una posizione di principio netta e determinata contro l’idea nazista del complotto per la sostituzione etnica mediata dal presidente autocrate prendendo a prestito gli slogan delle destre europee. Il corteo è partito dalla sede del sindacato dei giornalisti, uno dei promotori, per raggiungere il centro città coinvolgendo nel percorso l’aggregazione di migliaia di altri cittadini. Il portavoce del “Forum per i Diritti Sociali ed Economici” ha affermato che il discorso dell’odio non sarà mai accettato in una società come quella tunisina, perché è contro natura: «Quando quel discorso proviene dal capo dello Stato, rischia di sdoganare atti violenti contro i nostri fratelli migranti, che vivono condizioni di emarginazione economica tra di noi». Angelo Ferrari aveva già rilevato l’enormità di un leader africano che esplicitamente prende a prestito il razzismo europeo, adattando “Le Grand Remplacement” di Renaud Camus alle fobie arabe verso le culture subsahariane, in un intervento che proponiamo qui.


Saïed sdogana il razzismo serpeggiante concordato con Roma

Montano le polemiche in Tunisia dopo le parole del presidente Kaïs Saïed che ha invocato “misure urgenti” contro l’immigrazione clandestina di africani subsahariani nel suo paese, sostenendo che la loro presenza è fonte di «violenze, crimini e atti inaccettabili». Ma Saïed si è spinto anche oltre, sostenendo che l’immigrazione dall’Africa subsahariana fa parte di una «impresa criminale ordita all’alba di questo secolo per modificare la composizione demografica della Tunisia», in modo che potesse essere considerata un paese “solo africano” e offuscarne il suo carattere “arabo-musulmano”. Date queste premesse, per Saïed è necessario «porre fine in fretta» a questa immigrazione invocando misure urgenti.

Reazioni dell’Unione africana

Con una nota, il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki Mahamat, ha condannato «fermamente le dichiarazioni scioccanti fatte dalle autorità tunisine contro i connazionali africani, che vanno contro la lettera e lo spirito della nostra organizzazione e i nostri principi fondatori». Faki Mahamat ha ricordato a «tutti i paesi, in particolare agli stati membri dell’Unione Africana, che devono onorare gli obblighi ai sensi del diritto internazionale, vale a dire trattare tutti i migranti con dignità, da qualsiasi parte provengano, astenersi da qualsiasi discorso di odio con natura razzista, che probabilmente danneggerà le persone e dà la priorità alla loro sicurezza e ai loro diritti fondamentali».

Moussa Faki Mahamat ribadisce «l’impegno del comitato a sostenere le autorità tunisine al fine di risolvere i problemi di migrazione e rendere la migrazione sicura, degna e regolare».

Proprio il Mali – paese che al suo interno vive da anni profondi travagli sfociati nell’apertura ai “servizi” dei contractors della Wagner – in una nota dell’ambasciata tunisina ha dichiarato di aver seguito «con la massima preoccupazione la situazione dei maliani» nel paese. Riferendosi a “momenti molto inquietanti”, e ha invitato i suoi cittadini “a essere vigili” e ha chiesto a «coloro che desiderano di registrarsi per un ritorno volontario».

La crisi tunisina e il facile capro espiatorio “nero”

Il discorso di Saïed, che ha concentrato su di sé tutti i poteri dopo aver sospeso nel luglio 2021 il parlamento e licenziato il governo, si è verificato mentre il paese sta attraversando una grave crisi economica contrassegnata da carenze ricorrenti di prodotti di base, in un contesto di forti tensioni politiche.
Secondo i dati ufficiali citati dal Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes) la Tunisia, un paese di circa 12 milioni di abitanti, conta più di 21.000 africani subsahariani, la maggior parte dei quali è irregolarmente nel paese. Molti di loro, la maggioranza, arriva in Tunisia per poi tentare di immigrare illegalmente in Europa via mare. Alcuni tratti della costa tunisina sono a meno di 150 chilometri dall’isola italiana di Lampedusa. Secondo i dati ufficiali italiani, nel 2022 sono arrivati in Italia clandestinamente dalla Tunisia oltre 32.000 migranti, di cui 18.000 tunisini.
La Tunisia sta attraversando una grave crisi economica caratterizzata da ricorrenti carenze di beni di prima necessità, in un contesto di tensioni politiche, e molti analisti e attivisti ritengono che il presidente stia strumentalizzando la crisi dei migranti per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle questioni economiche e sociali “inventando un nuovo pericolo”. Altri ritengono che Saïed stia cedendo alle pressioni dell’Italia per ottenere lo stop dei flussi migratori.

Reazioni della società civile tunisina

Le sue parole dunque hanno gettato benzina sul fuoco delle incarcerazioni degli oppositori, dei giornalisti e delle proteste di piazza per il referendum andato deserto nelle urne, indignando buona parte delle organizzazioni non governative, parte della classe politica ma anche gli intellettuali. Su Twitter, hanno reagito alcuni analisti politici. Amine Snoussi (@amin_snoussi), autore di libri sulla politica tunisina e giornalista, scrive:

«Il presidente della Repubblica tunisina ha appena convalidato la tesi del grande ricambio. Abbiamo un dittatore razzista che arresta i suoi oppositori e incolpa gli immigrati subsahariani per i nostri problemi. È il peggior regime nella storia di questo paese».

Mohamed Dhia Hammam (@MedDhiaH), ricercatore in scienze politiche alla Maxwell School, definisce le parole di Saïed disgustose, e parla di una “campagna fascista contro i neri”:

«L’oltraggiosa dichiarazione della presidenza sulla riunione del Consiglio di sicurezza nazionale, durante la quale Saïed ha deciso di usare tutte le forze, compresi i militari, per prendere di mira gli immigrati neri, arriva nel bel mezzo di una odiosa campagna mediatica. La logica del complotto messa in atto dal governo fa eco alle teorie del complotto diffuse sia nei media mainstream che nei social media pro- Saïed», twitta l’analista.

«Questo discorso non ha alcuna somiglianza con la Tunisia. La posizione internazionale della Tunisia e la sua storia umanitaria sono molto più grandi di questo discorso», ha reagito su Facebook il presidente dell’Osservatorio tunisino per i diritti umani, Mostafa Abdelkebir. Anche Mnemty, associazione che si batte contro la discriminazione, ha condannato il comunicato stampa della presidenza tunisina, definendolo un «discorso di razzismo e odio e incitamento alla violenza contro i migranti subsahariani».

Le dichiarazioni di Saïed sull’esistenza di una “impresa criminale” volta a cambiare la composizione demografica della Tunisia assomigliano alla teoria del complotto della “grande sostituzione” sostenuta in Francia dal polemista di estrema destra Eric Zemmour che, infatti, reagisce immediatamente alle parole di Saïed: «Gli stessi paesi del Maghreb iniziano a lanciare l’allarme di fronte all’impennata migratoria. Qui, è la Tunisia che vuole adottare misure urgenti per proteggere la sua gente. Cosa aspettiamo a lottare contro la Grande Sostituzione?», ha commentato Zemmour su Twitter condividendo un articolo di stampa sulle osservazioni fatte da Saïed.


A completamento proponiamo questa bella discussione tra Arianna Poletti da Tunisi e Karim Metref, algerino-torinese di origine berbera, entrambi raffinati analisti della situazione e società nordafricana; troverete preoccupazioni inusitate e interpretazioni  di situazioni che danno il quadro di una trasformazione repressiva epocale:


“Tutto il Maghreb sta filando cattivo cotone”.
 

L'articolo La “Grande sostituzione” si estende al Maghreb proviene da OGzero.

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LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A NOVEMBRE https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-a-novembre/ Thu, 05 Jan 2023 09:28:05 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=9930 L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A NOVEMBRE proviene da OGzero.

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Miniere di guerra di prossimità africana

In Africa subsahariana i cinque maggiori importatori di armi sono stati Angola, Nigeria, Etiopia, Mali e Botswana. Resta un grande importatore l’Egitto che con il più 73% diventa il terzo importatore di armi a livello globale (Focus di “Atlante delle Guerre”, 29 marzo 2022).

Gianni Sartori ci ha fornito un testo foriero di molteplici spunti di lettura paralleli: a cavallo tra risorse africane, compagnie minerarie, approvvigionamenti di armi e conflitti, presenti e futuri.
Alle tradizionali estrazioni del continente (oro, argento, diamanti, rame, manganese) si aggiungono le basi dei nuovi oggetti: coltan, cobalto, grafite, litio… e gli scenari sono quelli ad alta tensione di Zimbabwe, Sudafrica, Marocco, Mali, Burkina Faso, Congo…


E PER LE GRANDI COMPAGNIE GLI AFFARI VANNO A GONFIE VELE
PREANNUNCIANDO FUTURI CONFLITTI

di Gianni Sartori

Se, come recitava negli anni settanta la rivista “Hérodote” (di cui conservo gelosamente due-tre numeri dell’edizione italiana pubblicati dal mai dimenticato Bertani): «La geografia serve a fare la guerra», parafrasando possiamo aggiungere che “la geologia la determina”. O quantomeno la indirizza e alimenta.
Per cui volendo azzardare ipotesi sui futuri conflitti sarebbe opportuno munirsi di aggiornate carte minerarie.

Litio, cobalto, stagno, rame, grafite, nickel… risultano indispensabili per quella fantomatica “transizione energetica” (dove l’unico verde identificabile sembra quello dei dollari, quelli di una volta almeno) a cui tendono in maniera talvolta spasmodica compagnie minerarie e produttori di automobili. Con il continente africano che al momento sembra essere quello più ambito.

Secondo le compagnie minerarie e alcuni governi (africani e non) molte risorse minerarie (litio, rame, stagno, cobalto…) finora sarebbero state non adeguatamente sfruttate (o addirittura “trascurate”). Oggi si intende rimediare riattivando antiche miniere e aprendone di nuove (e pazienza per l’ambiente e le popolazioni indigene, ovviamente).


ZIMBABWE E LITIO

Pare che l’ex Rhodesia, oggi Zimbabwe, sia uno dei pochi paesi africani dotati di vaste riserve di Lithium. Nel senso di “litio”, il minerale (simbolo Li, numero atomico 3, peso atomico 6,94; nessun riferimento ai Nirvana quindi) essenziale per le batterie dei veicoli elettrici.
E se questo ha già scatenato le comprensibili brame delle grandi compagnie minerarie, finora aveva mobilitato soprattutto schiere di minatori individuali (“artigianali”). Sui quali tuttavia stanno calando pesanti restrizioni ministeriali. In pratica non potranno più esportare il materiale grezzo estratto, spesso fortunosamente, da terreni non necessariamente di loro proprietà e da miniere abbandonate.

Una restrizione che non dovrà interessare le miniere di livello industriale in quanto dovrebbero esportare solo materiale trattato, un “concentrato di litio”. Miniere comunque ancora in fase di realizzazione, dato che l’unica importante produttrice di litio è quella di Bikita. Nello stesso tempo il governo di Harare intende favorire aziende locali per la trasformazione in loco del minerale così che possa venir utilizzato direttamente dall’industria dei veicoli elettrici. Risale a novembre l’accordo firmato con la TsingShan Holding per un impianto in grado di produrre il concentrato di litio (“AgenziaNova”). 


100 %

Avanzamento



GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE Traffico 2022


Ventotto i Paesi in cui Wagner avrebbe operato, diciotto dei quali africani: Libia, Repubblica Centrafricana, Mozambico, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Mali, Madagascar e Zimbabwe tanto per citarne alcuni (“AnalisiDifesa”). E Wagner è lì solo per curare gli interessi minerari di Mosca

Il primo vertice Russia-Africa, tenutosi nel 2019, ha fatto parlare di “ritorno della Russia in Africa” dopo anni di disimpegno a sud del Sahara. Il rinvio del secondo vertice, che avrebbe dovuto tenersi alla fine del 2022 in Africa, ha apparentemente messo in luce le vulnerabilità economiche e politiche della Russia alla luce della sua guerra di aggressione contro l’Ucraina. Eppure, l’impegno diplomatico e di sicurezza della Russia in Africa sembra continuare senza sosta. Che impatto ha la guerra in Ucraina sulle relazioni della Russia con i Paesi africani? Come stanno reagendo alla guerra? Cosa possiamo aspettarci dal futuro ruolo e dalla presenza della Russia nel continente? (ISPI)

Per l’Africa, con una perdita annua di quattro milioni di ettari di foreste, questo è “mal comune” (ma senza “gaudio” ovviamente). In base agli atti recentemente pubblicati dalla National Academy of Sciences, l’aumento esponenziale delle attività estrattive in aree forestali costituisce il 47% (oltre tremila e duecento chilometri quadrati) della distruzione delle foreste tropicali dal 2000 a oggi. Soprattutto in Ghana, Tanzania, Zimbabwe e Costa d’Avorio.

Contemporaneamente anche Biden ha rivolto l’attenzione degli Usa all’Africa abbandonata da Trump (e in parte prima da Obama), convocando un summit di metà dicembre per contrastare la presenza sinorussa nel continente (ISPI): Guinea, Sudan, Mali, Zimbabwe, Burkina Faso ed Eritrea sono rimaste fouri dalla lista degli invitati. Invece Teodoro Obiang, l’autocrate guineano più longevo al mondo, risultava tra gli invitati: la Guinea equatoriale è tra i porti nevralgici per ogni tipo di merci, legali o meno.

Tutti paesi dove la tensione per il controllo di queste risorse si fa più forte, creando strategie esterne e appoggi da potenze locali. Smerci di armi… ma gli stati che intendono proteggere i loro minerali “rari” e preziosi non si dotano di armi che possono competere con le potenze interessate allo sfruttamento dele miniere, o per avversare le milizie che fanno gli interessi di quegli stati, piuttosto si dotano di elicotteri per il controllo delle rivolte della popolazione, indignata dalla corruzione e dal saccheggio di risorse nazionali.



In Zimbbwe è operativo il MiG21 nella versione J7, copia non autorizzata del Fishbed realizzata in Cina (“AnalisiDifesa”)

Nel gennaio 2022, lo Zimbabwe era al 93° posto sui 142 paesi considerati nella classifica annuale della GFP con PwrIndx di 2,2498 (laddove lo zero sarebbe “perfetto”).
Il Generale di Brigata Mike Nicholas Sango, ambasciatore dello Zimbabwe presso la Federazione Russa, ha detto che «la politica della Russia nei confronti dello Zimbabwe negli ultimi anni si è evoluta in modo positivo. L’impegno del Governo dello Zimbabwe con la Federazione Russa è storicamente radicato nel contributo del nuovo stato al raggiungimento della libertà e della nazione da parte dello Zimbabwe nel 1980» (“Africa24”).
Secondo lui, il presidente della Repubblica dello Zimbabwe, Emmerson Dambudzo Mnangagwa, ha visitato Mosca nel 2019. Da allora, ci sono state visite reciproche di ministri e parlamentari. All’inizio di giugno 2022, la presidente del Consiglio Federale, Valentina Matviyenko, ha visitato lo Zimbabwe. I militari dello Zimbabwe hanno partecipato ai Giochi dell’Esercito nel corso degli anni e ai Giochi dell’Esercito di metà agosto 2022.
E non a caso i russi hanno voluto scambiare Viktor Bout, il mercante di armi.

Russia
Mentre Washington domina il mercato globale delle armi di alta gamma e ad alta tecnologia, la Russia si è ritagliata un posto di primo piano come fornitore mondiale di armi economiche, ma a bassa tecnologia, talvolta descritte come “armi di valore”. Queste includono nuove varianti di equipaggiamenti sovietici e russi come i carri armati T-72 e T-80, pezzi di artiglieria trainati come il D-30, obici semoventi come il 2S1 Gvozdika e il 2S19 Msta, lanciarazzi multipli semoventi come il BM-27 Uragan e il BM-30 Smerch, il sistema di difesa missilistica S-300 e i veicoli corazzati per il trasporto di personale come il BMP-3 e il BTR-70.

Cina
Sebbene i paesi a basso reddito come Myanmar, Zambia e Zimbabwe acquistino solo armi di questa categoria, anche i paesi a medio reddito come Brasile, India e Thailandia, che partecipano a segmenti del mercato di fascia alta, acquistano grandi forniture di armi di valore. Nel 2022, la spesa per la difesa dei paesi principalmente africani, asiatici e latinoamericani che compongono il mercato di valore ammonterà a 246 miliardi di dollari. Dal momento che le aziende americane di solito non competono nel mercato delle armi di valore, le difficoltà della Russia hanno creato un vuoto. E il paese pronto a riempirlo è la Cina. Se non controllata, Pechino potrebbe utilizzare le vendite di attrezzature per la difesa per costruire relazioni più forti con le élite al potere e per assicurarsi basi all’estero, limitando potenzialmente la capacità di manovra delle forze armate statunitensi in tutto il mondo. L’espansione delle vendite di armi cinesi minerebbe l’influenza degli Stati Uniti nella competizione geostrategica in corso. Ma questo esito non è ancora inevitabile. Gli Stati Uniti e i loro alleati sono ancora in tempo per fornire sostituti alle armi russe a prezzi accessibili e contrastare così le ambizioni della Cina. La Cina vanta sei delle 25 maggiori aziende di difesa del mondo. Sebbene l’attuale quota del cinque per cento del mercato globale degli armamenti sia significativamente inferiore al 19 per cento della Russia, ciò indica il potenziale della Cina di espandere la propria quota di mercato. La Cina ha diversi vantaggi distinti che potrebbero permetterle di dominare il mercato del valore.
L’approccio cinese all’esportazione di armi è transazionale, libero da preoccupazioni sui diritti umani o sulla stabilità del regime. La Cina scambia armi non solo in cambio di un compenso finanziario, ma anche per l’accesso ai porti e alle risorse naturali degli stati destinatari. In parte, fornendo armi di valore come radar, missili e veicoli blindati al Venezuela e all’Iran, per esempio, Pechino si è assicurata un accesso costante al petrolio di quei Paesi. La maggior parte dei paesi dell’Africa subsahariana utilizza armi cinesi, ma le vendite alla regione rappresentano solo il 19% delle esportazioni cinesi. Oltre il 75% delle esportazioni cinesi è destinato ai paesi asiatici dove la Cina ha iniziato a espandere la propria rete di produzione industriale. Il Pakistan, per esempio, ora coproduce molti sistemi d’arma cinesi, come il carro armato Al-Khalid e il caccia JF-17 Thunder. Più di recente, oltre alle armi di valore, la Cina ha iniziato a vendere sistemi d’arma di fascia più alta a clienti importanti: ad aprile ha iniziato a vendere missili antiaerei alla Serbia e a giugno l’Argentina ha segnalato interesse per i jet da combattimento JF-17. La Cina è ora il più grande esportatore di droni al mondo e ha iniziato a vendere i suoi Wing Loong e i modelli CH-4 a clienti che prima acquistavano droni britannici, francesi, russi e statunitensi: un elenco di paesi che comprende Egitto, Iraq, Giordania e Arabia Saudita. (“ForeignAffairs”)
Secondo il “Jane’s Defence Weekly”, quasi il 70% dei veicoli militari blindati presenti in tutti i 54 paesi africani sono di origine cinese, mentre quasi il 20% di tutti i veicoli militari del continente sono stati forniti dalla Cina.
Citando un rapporto dell’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), l’outlet ha sottolineato che, emergendo come quarto fornitore globale di armi, la Cina ha rappresentato il 4,6% del totale delle esportazioni di armi globali tra il 2017 e il 2021.
Di questo totale di esportazioni di armi globali, il 10% è stato destinato a paesi africani. Etiopia, Sudan, Nigeria, Tanzania, Camerun, Zimbabwe, Zambia, Gabon, Algeria, Namibia, Ghana, Burundi, Kenya e Mozambico sono stati i principali importatori di armi cinesi negli ultimi cinque anni (“Asia News International”).

Zimbabwe

«Lo Zimbabwe è forse il più longevo beneficiario africano dell’assistenza alle forze di sicurezza (SFA) da parte della Cina», affermano due ricercatori senior del Peace Research Institute di Oslo, Ilaria Carrozza e Nicholas Marsh, nello studio pubblicato sul Journal of Global Security Studies.

La Cina ha fornito addestramento militare ai membri del Fronte patriottico dell’Unione nazionale africana dello Zimbabwe, guidato da Mugabe, durante la sua lotta per la liberazione. Tra le persone addestrate c’era anche il presidente Emmerson Mnangagwa, salito al potere cinque anni fa dopo il colpo di stato che ha spodestato Mugabe.

«Questo sostegno ha contribuito a suggellare un rapporto di sicurezza tra la Cina e la leadership dello Zimbabwe che dura tuttora», si legge nello studio.

L’assistenza alle forze di sicurezza comprende donazioni, in genere di attrezzature militari e di addestramento, che mirano a migliorare la capacità delle forze di sicurezza di un paese beneficiario, ha affermato Carrozza.
Lo Zimbabwe è stato tagliato fuori dai mercati globali dei capitali nei due decenni trascorsi da quando gli Stati Uniti e altri paesi occidentali hanno imposto sanzioni ad Harare per le violazioni dei diritti umani e la confisca delle terre agli agricoltori bianchi, lasciando a Pechino il ruolo di principale finanziatore di progetti infrastrutturali come dighe idroelettriche, aeroporti e strade (SCMP).

SUDAFRICA: MEGLIO IL LITIO DEL CARBONE? DIPENDE…

di Gianni Sartori

Dal 2023 (stando a una recente dichiarazione) la Compagnia mineraria Marula Mining (All Star Minerals) darà il via alla vendita di litio a una filiale della lussemburghese Traxys. Quanto alla provenienza del minerale, sarebbe la miniera di Blesberg, in disuso da tempo e riaperta nel dicembre 2022. Anche se per ora i lavori proseguono lentamente e su piccola scala, in attesa di ulteriori perforazioni e carotaggi.

Oltre al litio (sotto forma di spodumene che qui lo contiene con percentuali tra il 6 e il 7 %), la miniera sarebbe in grado di fornire anche tantalio.

Ma in materia di miniere non son tutte rose e fiori per il Sudafrica. Le miniere abbandonate di carbone, per esempio, rappresentano – oltre che un potenziale pericolo – una documentata fonte di inquinamento per le sorgenti e le falde acquifere, una grave minaccia per la salute delle popolazioni. O almeno questo è quanto sostiene Human Rights Watch in un suo recente rapporto (The Forever Mines : Perpetual Rights Risks from Unrehabilitated Coal Mines in Mpumalanga, South Africa ) con cui accusa il governo sudafricano di non garantire la bonifica, il risanamento delle miniere abbandonate. Di non aver fatto nulla per rimediare a tale “eredità tossica”.

E ovviamente vengono messe sotto accusa anche le compagnie minerarie che «per anni hanno tratto profitti dallo sfruttamento del carbone, ignorando però le proprie responsabilità al momento di ripulire, bonificare il degrado, l’inquinamento che si sono lasciate alle spalle».

Lasciando sovente alle comunità locali l’onere di rimediare ai danni.

  1. Alla realizzazione del dossier di Human Rights Watch hanno contribuito decine di esponenti delle comunità locali (compresi i genitori dei numerosi bambini che hanno perso la vita precipitando in pozzi a cielo aperto), rappresentanti di associazioni locali e di ong, ricercatori universitari e personale sanitario. E anche molti “minatori individuali” o che operavano comunque a livello artigianale, al di fuori delle compagnie minerarie. In genere tra i residui di quelle abbandonate con gravi conseguenze per la salute. Come ha ben documentato Human Rights Watch riportando oltre 300 decessi di questi “zama – zama”. Deceduti in gran parte per il crollo dei tunnel, in minor misura per intossicazione da gas o incidenti con esplosivi). Inevitabile un raffronto con i garimpeiros di Brasile e dintorni o con i minatori (in genera persone anziane o giovanissime) che scavano (scavano?!) tra i residui, gli scarti delle miniere boliviane.

Su 2300 miniere prese in esame e classificate “ad alto rischio” (tra cui sono centinaia quelle di carbone), soltanto 27 sono state bonificate in Sudafrica. Si tratta di quelle da cui si ricavava l’amianto (in genere “amianto nero”, più nocivo, ma meno costoso da estrarre e che ha distrutto la salute di migliaia e migliaia di minatori neri).

Specificatamente per quelle di carbone, si è potuto documentare come i residui minerari esposti alle intemperie contribuiscano ad aumentare notevolmente l’acidità dell’acqua e dei terreni. Il fenomeno conosciuto come ”drenaggio minerario acido” provoca sia l’inquinamento delle acque che la sterilizzazione dei terreni, oltre a corrodere e danneggiare irreparabilmente le infrastrutture di approvvigionamento dell’acqua potabile.

Se l’UE è il principale partner commerciale del paese, la Cina è presente in misura sempre maggiore con investimenti di varia natura

Decine di compagnie minerarie sudafricane si rifiutano di rendere pubblici i loro piani sociali e di lavoro, o SLP, come richiesto dalla legge. Senza l’accesso a questi documenti, le comunità hanno difficoltà a valutare gli impegni sociali delle compagnie minerarie o a ritenerle responsabili. Questi piani dovrebbero descrivere in dettaglio come le aziende sosterranno la creazione di posti di lavoro e il miglioramento dei servizi nelle città in cui estraggono. L’organizzazione no-profit Mining Affected Communities United in Action (MACUA) stima che tra il 70 e il 90% delle miniere in Sudafrica non pubblichino i loro piani.

Fondata nel 2011, la miniera di Kolomela, a 22 chilometri dalla città di Postmasburg, nella provincia di Northern Cape, produce ogni anno oltre 9 milioni di tonnellate di minerale di ferro. Dal 2021, Kolomela, che è di proprietà della filiale locale del gigante minerario Anglo American, Kumba Iron Ore, ha respinto gli sforzi del MACUA e dei membri della comunità per ottenere una copia dello SLP 2020-2024 della miniera (“Mongabay”).

Oggi il Sudafrica non è più leader mondiale della produzione dell’oro, sebbene secondo le stime dell’US Geological Survey detenga il 50% delle risorse aurifere del pianeta, ma è ancora in testa a livello continentale. Le riserve però iniziano ad esaurirsi e il paese è passato dal 15% della produzione mondiale al 12%.

Questa situazione, con la diminuzione delle miniere e la perdita del lavoro, non ha fatto che peggiorare le condizioni di vita e di lavoro dei minatori, uomini, donne e bambini che accettano condizioni lavorative degradanti e rischiano di morire per poter sopravvivere. Una miniera dismessa è terreno fertile per minatori illegali che cercano l’ultimo filone in autonomia o con l’aiuto degli ultimi tra i disperati. Tra il 2004 e il 2015 un terzo delle 180.000 persone che lavoravano nel settore minerario sudafricano sono state licenziate. Molte sono tornate alle miniere da sole, illegalmente (“Orovilla”). Imponenti e ricorrenti scioperi hanno prodotto scontri e massacri della polizia a difesa di istituzioni e investitori cinesi ed europei, che hanno chiesto all’ex sindacalista compagno di Mandela Ramaphosa di eliminare tasse e promesse di maggiori diritti per i lavoratori: «Le lotte che lo attraversano, tanto dei minatori neri e spesso migranti quanto delle popolazioni nere locali, trascendono il più delle volte i confini nazionali, proprio a causa del carattere non-nazionale dei bersagli e delle rivendicazioni in reazione al Trade, Development and Co-operation Agreement: il piano di liberalizzazioni previsto dall’accordo ha infatti imposto leggi sul lavoro, riduzione dei salari, privatizzazione delle aziende statali, leggi sull’immigrazione e tagli alla spesa pubblica in nome di un “rilancio” dell’economia sudafricana. instaurando un regime commerciale preferenziale tra l’UE e il Sudafrica, con la creazione progressiva di zone di libero scambio (ZLS) per la libera circolazione delle merci. Questo vale sia per gli scambi commerciali, sia per gli investimenti, definendo di fatto l’UE come principale partner economico del Sudafrica. Secondo un modello ormai diffuso su scala globale e di cui l’Ue si fa promotrice, le zone economiche… Se l’UE è il principale partner commerciale del paese, la Cina è presente in misura sempre maggiore con investimenti di varia natura. Come si legge sul sito di Taung Gold, una delle principali società finanziarie cinesi attiva principalmente nel settore minerario, la Cina “è profondamente consapevole dell’importanza degli investimenti cinesi in Sudafrica”. Taung Gold è da oltre un decennio una delle molte imprese della Repubblica Popolare che investono in Sud Africa, soprattutto nel settore minerario. Tra gli esempi più significativi vi è l’acquisizione da parte del Gruppo Jinchuan e del China-Africa Development Fund del 45% di Wesizwe Platinum, una junior mining company» (“ConnessioniPrecarie”). E allora, come riportava “Il Post” nel luglio 2019, i vertici militari sudafricani avevano deciso di usare l’esercito per reprimere le proteste e gli scontri iniziati dopo che l’ex presidente Jacob Zuma era stato incarcerato nel luglio per un episodio di corruzione da parte della francese Thales: una tangente relativa all’acquisto di una partita di armi nel 1999. La difesa dell’ex presidente e del suo sistema di corruzione è solo la miccia che ha fatto esplodere la rabbia, temuta da Pretoria, ma anche da UE e Cina: «Le rivolte sono il prodotto delle disuguaglianze crescenti che la fine dell’apartheid non ha saputo ridurre, e di rivalità politiche all’interno del partito al potere, l’African national congress (Anc)»; Zuma è un populista zulu, eroico combattente da giovane, e anche questi elementi sono alla base delle rivolte contro le barriere sociali sostituite dagli stranieri al posto di quelle razziali. Alla fine si sono visti anche i carri armati Olifant e sono arrivati 25.000 soldati ad appoggiare le forze di polizia. L’ultimo bilancio avrebbe parlato di 212 vititme e migliaia di feriti e arresti.

Perciò le necessità di armi dell’esercito sudafricano deve rispondere al contenimento di rivolte interne: infatti nella più imponente esercitazione militare dell’esercito sudafricano tenutasi nel novembre 2022 (Vuk’uhlome – “alzati e armati” in lingua zulu) ha testato la capacità e lo stato di preparazione della forza terrestre, supportata dalle Forze Speciali SA, dall’Aeronautica Militare SA (SAAF), dal Servizio Sanitario Militare SA (SAMHS), dalla Divisione di Polizia Militare e dalla Divisione Servizi Legali. Durante il Distinguished Visitors’ Day dell’esercitazione sono state dimostrate numerose capacità, che vanno dalla gestione dei disordini civili al lancio di forze aeree con il paracadute, agli attacchi di precisione con razzi e artiglieria, alle operazioni di controinsurrezione, agli attacchi di fanteria… Le Forze speciali, con le loro armi e i loro veicoli, hanno svolto un ruolo importante nella battaglia simulata, che ha visto il coinvolgimento di veicoli corazzati, tra cui i carri armati Olifant.

L’Aeronautica militare ha sostenuto l’esercitazione con aerei da trasporto Cessna Caravan e C212, elicotteri da trasporto/utilità Oryx e A109 e un elicottero d’attacco Rooivalk. Quest’ultimo non ha sparato, ma due caccia-addestratori Hawk Mk 120 hanno sganciato bombe sul poligono di Lohatla. La SANDF è penalizzata da un massiccio sottofinanziamento aggravato da una lista crescente di compiti, oltre che dall’invecchiamento dell’equipaggiamento – non è chiaro quando riceverà i nuovi veicoli da combattimento di fanteria Badger da Denel. Tra le recenti acquisizioni figurano i fucili di precisione Truvelo, i lanciagranate da 40 mm Milkor, i fucili senza rinculo Carl Gustaf Saab, i veicoli con cannone antiaereo ZSU-23-2 montati su Land Cruiser e i veicoli con mortaio Scorpion da 60/80 millimetri (tutti con ogni evidenza sistemi di contenimento interni e non di difesa da potenze straniere). Una grande esposizione dell’industria della difesa ha fatto parte dell’esercitazione Vuk’uhlome, con più di mezza dozzina di aziende che hanno esposto i loro prodotti. Tra queste, Reutech (radar e torrette d’arma), Canvas and Tent (alloggi da campo), Rheinmetall Denel Munition (energia verde), Global Command and Control Technologies (soluzioni di comando e controllo), Dinkwanyana Aerospace (veicoli aerei senza pilota), OTT Solutions (veicoli corazzati, tra cui il dimostratore Ratel Service Life Extension) e Denel. Quest’ultima ha presentato i suoi veicoli da combattimento per la fanteria Badger e RG41, i veicoli corazzati per il trasporto di personale RG21 e RG31 e l’obice semovente T5-52. SVI Engineering ha portato nell’area espositiva due dei suoi veicoli blindati (Max 3 e Max 9). L’azienda ha anche fornito veicoli da mortaio Scorpion alla SANDF (“DefenceWeb”). Ma i 9 velivoli C-47TP in servizio con il 35° Squadron della South Africa Air Force sarebbero quasi tutti a terra in attesa che la società Armscor reperisca sul mercato pezzi di ricambio; le difficoltà economiche della Difesa sudafricana si riflettono pesantemente sulle capacità della SAAF che da mesi tiene a terra per mancanza di ricambi e assistenza l’intera flotta di 26 velivoli da combattimento SAAB Jas 39 Gripen (“AnalisiDifesa”).

LA COMPAGNIA MAROCCHINA MANAGEM FARA’ AFFARI D’“ORO”

di Gianni Sartori

Novità rilevanti anche dal Marocco con l’ormai centenaria compagnia Managem sempre più “leader regionale” (ma con aspirazioni evidentemente “continentali”) nell’industria mineraria africana. Da circa vent’anni va ampliando il suo raggio d’intervento in Sudan (oro), Gabon, RdC (sarà mica per il coltan?) e Guinea (ancora per l’oro).

Verso la fine di dicembre il direttore generale di Managem ha annunciato di aver sottoscritto un accordo (una transazione del valore di circa 280 milioni di dollari) con la canadese Iamgold Corporation per acquisire la proprietà di alcuni progetti di estrazione aurifera in Mali (progetto Diakha-Siribaya), Senegal (progetti Boto, Boto ovest, Daorala, Senala ovest) e Guinea (progetto Karita): una striscia unica di territorio conteso tra Senegal, Mali e Guinea: Bambouk Assets che il Marocco si è attribuito con la dichiarata intenzione di aumentare la propria produzione di oro dato che finora si era posizionata ben lontana dai livelli di produzione di compagnie come Iamgold, Endeavoure, B2Gold o Kinross Gold.

ESCALATION MAGHREBINA

A questi territori, per quanto contigui, va assicurata la sicurezza, perciò il Marocco si riarma e si fa forte delle alleanze strette con Usa e Israele.

Per un controllo capillare della sicurezza nell’estrazione mineraria la prima mossa fondamentale è il controllo dall’alto del territorio e infatti in combutta con Sabca (l’impresa marocchina dell’aerospaziale) troviamo Sabena– di Blueberry Group – e Lockhead impegnatee nel progetto di realizzare la prima officin di manutenzione dei C130, essenziale per la sovranità del Marocco. I media riferiscono di piani marocchini per l’acquisto di 22 elicotteri T129 ATAK per un valore di 1,3 miliardi di dollari. L’accordo si aggiungerebbe a un ordine per 36 elicotteri d’attacco AH-64E Apache e relative attrezzature, per un costo stimato di 4,25 miliardi di dollari. Riconoscendo l’importanza della superiorità aerea nel contrastare qualsiasi minaccia alla sicurezza nazionale che possa derivare dalla crescente instabilità del Sahel e dell’Algeria, il Marocco ha anche ordinato altre 25 unità di caccia F-16C/D Block 72, che porteranno il numero totale della flotta di F-16 del Marocco a 48 unità. L’evoluzione della strategia militare del Marocco pone inoltre particolare enfasi sulla guerra con i droni, utilizzata contro la resistenza saharawi; e proprio in seguito allo strappo di Trump con l’imposizione degli Accordi di Abraham in cambio del riconoscimento della occupazione illegittima del Sahara occidentale da parte di Rabat è stata agevolata la partnership con Israele, il cui capo di stato maggiore a luglio fece la prima visita a Rabat, secondo Reuter per rafforzare la cooperazione militare e quindi “AnalisiDifesa” informava in ottobre che l’esercito del Marocco aveva acquistato 150 UAV WanderB e ThunderB dall’israeliana BlueBird Aero Systems.
La Reuters ha riferito che gli Stati Uniti hanno proceduto con la vendita al Marocco di quattro droni MQ-9B SeaGuardian e di armi a guida di precisione per un valore di 1 miliardo di dollari. I media israeliani hanno anche riferito che il Marocco sta cercando il sistema di difesa aerea e missilistica Barak MX in un accordo del valore di oltre 500 milioni di dollari. Il Marocco ha già acquistato indirettamente gli UAV Heron di IAI e altri UAV dell’unità Bluebird di IAI, oltre a sistemi di veicoli robotici di pattugliamento di Elbit Systems e intercettatori di droni di Skylock. Negli ultimi due anni, il Marocco ha aumentato le importazioni di droni. Li ha acquistati da diversi paesi come Cina, Turchia, Francia e Israele, costituendo così una vera e propria flotta, probabilmente la più sviluppata del Nordafrica, secondo gli specialisti. (“Challenge”).

Il Marocco intende mettere in produzione droni di fabbricazione propria con tecnologia israeliana e perciò ha realizzato un partenariato con i belgi di Orizio, gruppo aerospaziale che costruirà un centro di manutenzione per F-16 e elicotteri a Benslimane. La spesa per la Difesa ha raggiunto il 5,2% del pil marocchino.


L’operazione di addestramento “Desert Shield”, svoltasi a novembre con forze congiunte russe e algerine al confine con il Marocco, coincide con un’escalation del riarmo regionale. L’Algeria ha annunciato che aumenterà a 23 miliardi di dollari il suo budget militare del 130 per cento nel 2023 per raggiungere il 12 per cento del suo prodotto interno lordo grazie all’aumento dei prezzi del gas e del petrolio. Di questi, 5 miliardi sono destinati a operazioni fuori dai confini in seguito all’estinzione dell’Operazione Barkhane nel vicino Mali a supporto della milizia Wagner. Mosca è il maggior fornitore di armi di Algeri (in particolare i carri armati T-90M, nuova versione di quelli datati 1993 e usati ancora in Siria dall’esercito russo; i missili terra-aria S-350 e Buk-M2, corrispondenti ai Barak-8 israeliani in dotazione a Rabat), che partecipa a tutte le manovre congiunte dell’esercito russo. Algeri ha stipulato un contratto di 12 miliardi di dollari per l’acquisto di caccia Sukhoi SU-75 “Checkmate” Viste le debacle delle armi russe (proprio quei residuati bellici dei BMP-1 e 2 in dotazione all’esercito algerino) può darsi che il budget sproporzionato sia volto a differenziare le fonti di approvvigionamento, ipotizza Abdelhak Bassou a “Le360”: «Questo aumento del budget potrebbe essere spiegato dal desiderio del governo algerino di calmare gli occidentali acquistando armi da loro. Un modo per soddisfare tutti. Ma è ovvio che più la Russia si isola sulla scena internazionale, più i suoi satelliti si isolano. A meno che non ci sia una svolta e l’Algeria cambi le carte in tavola».
Ad alimentare le tensioni nella regione si aggiunge anche l’Iran, alleato di Putin, che ha confermato ufficialmente la fornitura dei suoi droni all’esercito algerino e al gruppo separatista del Polisario, gli stessi usati dalla Russia nella sua guerra contro l’Ucraina (“l’Opinione”).

I due paesi sono divisi non solo dai. Fosfati saharawi, ma anche dai percorsi di gasdotti: quello algerino interrotto nell’ottobre 2021 (al momento del riconoscimento di Madrid della sovranità spagnola sul Sahara occidentale) e che transitava dal Marocco per convogliare gas in Spagna; e quello che dalla Nigeria, lungo tutta la costa atlantica, porterebbe off-shore fino in Spagna la pipeline (“JeuneAfrique”).

Dunque di nuovo sono i minerali dietro a un consistente riarmo… Come in Sahel e Centrafrica.

ESTRAZIONE ED ESPORTAZIONE IN SAHEL.
MINERALI DI VALORE DOPO L’USCITA DAI CONFINI

di Gianni Sartori
IL MALI VERSO LA LIBERALIZZAZIONE DEL SETTORE?

Mentre il regime militare del Mali annunciava la creazione di una compagnia mineraria nazionale, quasi contemporaneamente (ai primi di dicembre), dal ministero delle Miniere arrivava un comunicato con cui sostanzialmente si apriva la strada a ulteriori liberalizzazioni in materia di “permessi di esplorazione e permessi di sfruttamento minerario”.
Con ogni probabilità, viste le recenti difficoltà incontrate nel settore, lo stato ritiene così di attrarre investimenti stranieri nello sfruttamento delle risorse minerarie.

Ma non tutti esultano, ovviamente. Per esempio i portavoce del Consiglio locale della gioventù della zona aurifera di Kenieba (regione di Kayes, dove già sono attive una mezza dozzina di società minerarie) hanno protestato vigorosamente in quanto «prima di concedere i permessi di esplorazione e di sfruttamento, si deve consultare la popolazione». Soprattutto per “valutare l’impatto ambientale” e sapendo che «verranno espropriate terre coltivabili per cui alla popolazione si dovranno quantomeno offrire delle adeguate compensazioni».
Attualmente tra i minerali estratti in Mali, l’oro rappresenta il 10% del pil e circa l’80% delle esportazioni.

STERILI POLEMICHE SUL BURKINA FASO?

Da segnalare anche la polemica (strumentale?) scatenata dal presidente del Ghana Nana Akufo-Addo mentre si trovava (guarda caso) a Washington, accusando il Burkina Faso di aver ceduto alla compagnia russa Wagner una miniera d’oro a pagamento dell’intervento militare contro l’insorgenza jihadista.
Notizia immediatamente smentita da Simon Pierre Boussim, ministro di Energia, Miniere e Cave, nella conferenza stampa del 20 dicembre, organizzata con l’ITIE-Burkina (Comitato per la Trasparenza nelle Industrie Estrattive) nella capitale Ouagadougou dell’ex Alto Volta.

In realtà in Burkina Faso esiste già una presenza russa in campo minerario (si parla di tre miniere sfruttate da Nordgold). Ma qui operativa da oltre dieci anni
(“Acled”).

ESCALATION SAHELIANA

Paradossalmente la strategia di influenza della Russia in Africa si basa su interessi economici relativamente minori. Il commercio della Russia con l’Africa non supera i 30 miliardi di dollari, il che non la colloca tra i primi venti partner del continente. Quest’ultima, ricca di materie prime, non è molto complementare alla Russia. «La Russia ha firmato molti accordi di cooperazione economica dal 2014, ma pochi sono stati attuati», ha dichiarato Thierry Vircoulon, per il quale «stiamo anche aspettando di vedere se il suo ruolo nel traffico d’oro in Africa aumenterà e se le promesse forniture di petrolio si concretizzeranno».
Per Maxime Audinet: «nell’Africa subsahariana, la posta in gioco economica è secondaria per Mosca, rispetto alla posta in gioco simbolica della proiezione di potenza, anche se le sue leve, come Wagner, sono pagate a peso d’oro in cambio della loro fornitura di sicurezza attraverso l’estrazione di materie prime come oro, diamanti o legni pregiati» (“LesEchos”).

E infatti le armi presenti sul territorio sono sistemi di lancio di multimissili Aml e Sam SA-7°; elicotteri Mi-17 e siste i di difesa antiaerea ZPU-4: tutte tecnologie belliche utili per il contrasto al terrorismo jihadista e per la difesa delle miniere d’oro.

Lo stato russo cerca di estendere la propria influenza attraverso la vendita di armi: è il principale fornitore dei paesi dell’Africa subsahariana, oltre ad avere importanti contratti con Algeria ed Egitto. Poi Wagner assicura la protezione di leader o addestra soldati in molti paesi: Mali, Libia, Madagascar, Sudan, Mozambico, Repubblica Centrafricana (dove è accusato dalle Nazioni Unite di racket, stupri e torture), e probabilmente anche Burkina Faso.

Tuttavia, i mercenari hanno subito sanguinose battute d’arresto in Libia e Mozambico e il Mali sembra ora deluso dal loro coinvolgimento. Come i suoi rivali, anche lo stato russo ha firmato accordi ufficiali di cooperazione militare con una trentina di paesi, che sulla carta sono vantsggiosi ma spesso corrispondono a qualche esercitazione congiunta, senza garanzie di sicurezza reciproca. La Russia non ha ancora una base militare permanente nel continente, nonostante un progetto in Sudan.

In Sahel, ritirata Barkhane, rimangono le milizie jihadiste e la Wagner, il cui armamento sul terreno fornisce risorse alle esigenze dell’occupazione. Dal 2020 tra Libia, Mali, Burkina la Wagner ha dispiegato i caccia Mig-29 e i Su-24, ma questi non sono l’unico equipaggiamento pesante in dotazione: la Pmc russa ha ricevuto anche almeno un veicolo di difesa aerea Pantsir S1, diverso da quelli utilizzati dall’Lna e da Wagner e “prestato” dagli Emirati Arabi Uniti. Per proteggere i suoi aerei, Wagner ha utilizzato radar P-18 Spoonrest oltre a quelli dell’Lna.

Per i loro movimenti i “musicisti” di Wagner utilizzano veicoli blindati prodotti in Russia da un’azienda appartenente al gruppo di società Yevgeny Pirigozhin. Il veicolo è chiamato Valchiria, Chekan, Shchuka o Wagner Wagon[13], ed è un MRAP costruito su un telaio URAL dalla società EVRO POLIS LLC. Tra le armi importate da Wagner ci sono MRAP GAZ Tigr-M, cannoni D-30 da 122 mm e obici MSTA da 152 mm. Per quanto riguarda le armi leggere, le truppe di Wagner utilizzano AK-103 e soprattutto il fucile da cecchino Osiris T-5000. Wagner ha utilizzato alcuni droni durante le sue operazioni, in particolare Zala 421-16E e Orlan 10s. E quando si ritirano i miliziani spargono mine antiuomo MON-50, 90 e 100 (Rosa Luxemburg Stiftung).

MATERIALI GREZZI LAVORATI IN LOCO…
MA CON INVESTIMENTI STRATEGICI AMERICANI

di Gianni Sartori

LA ZLECA SI VA ESPANDENDO?

Risaliva a tre anni fa l’annuncio da parte di Albert Muchanga (commissario allo Sviluppo economico, al Commercio, all’Industria e all’Attività minerarie dell’Unione africana) di consultazioni amichevoli tra due delle maggiori entità minerarie dell’Africa: il Congo e lo Zambia. Nazioni nei cui territori sono sepolte ingenti quantità di minerali fondamentali per la produzione delle batterie per i veicoli elettrici e che ora, in base ai futuri accordi, dovrebbero poterle produrre autonomamente e direttamente.

A suo tempo per esporre i progressi di tale progetto Muchanga aveva scelto l’occasione del Mining Indaba, il maggior meeting del settore minerario africano; e fondamentale era stato l’anno scorso il ruolo di Muchanga nel veder ratificare l’Accordo sulla Zona di libero-scambio continentale africano (Zleca).


E GLI USA? DIVERSAMENTE DALLE STELLE DI CRONIN NON STANNO A GUARDARE

Gli Stati Uniti non stanno a guardare naturalmente. Firmato recentemente da Washington un accordo (un memorandum d’intesa) con Repubblica democratica del Congo e Zambia (con i maggiori giacimenti di cobalto e rame) sui metalli per le batterie.
Nell’accordo è previsto un investimento da 55 miliardi di dollari nel giro di tre anni.
Fondi elargiti dalla Minerals Security Partnership (vi aderiscono Corea del Sud, Canada, Australia, Regno Unito, Giappone, Regno Unito…) a sostegno dei sistemi sanitari, per la tutela del lavoro femminile, nella lotta ai cambiamenti climatici…
Ma anche, o soprattutto, per investire nei progetti per le auto elettriche. Allo scopo dichiarato di contrastare l’egemonia cinese (visto che Pechino, a titolo di esempio, controlla già gran parte delle miniere di cobalto nella Repubblica democratica del Congo).
Come ha preannunciato il segretario di Stato Antony Blinken: «Washington esplorerà meccanismi di finanziamento e di sostegno agli investimenti nelle catene africane dei veicoli elettrici».

In pratica verranno finanziate sia le estrazioni minerarie che la lavorazione dei metalli estratti (raffinerie e affini). Oltre alle operazioni di riciclaggio. Alla vasta operazione partecipano alcune case automobilistiche (General Motors, Ford, Tesla…) e le compagnie minerarie Albemarle e Piedmont Lithium.

ENNESIMO ECOCIDIO NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO?

Suscita preoccupazione questo ulteriore coinvolgimento della Rd C in progetti estrattivi di rilevanza internazionale.

Sia per la drammatica situazione in cui versano le popolazioni del Nordest del paese (sotto accusa l’estrazione del coltan e le milizie di M23 sostenute dal Ruanda), sia per il già bistrattato ecosistema naturale. Ça va sans dire, soprattutto nelle zone sottoposte a estrazioni petrolifere o minerarie e alla deforestazione. Anche per diretta responsabilità del governo congolese che «svende le foreste che dovrebbe proteggere» (come denunciava un portavoce di Greenpeace).

Governo e ministri sotto accusa non soltanto da parte dei “soliti” ambientalisti, ma anche da associazioni di studiosi e scienziati. Come il Consiglio per la difesa ambientale attraverso la legalità e la tracciabilità (Codelt) e l’Acedh (una Ong regionale) che hanno condotto studi approfonditi sulla foresta pluviale della Cuvette Centrale (provincia di Ituri, sotto stretto controllo militare dal maggio del 2021). Dove appunto si estrae gas, petrolio e oro. Sarebbero soprattutto le miniere aurifere, in continua espansione anche nelle aree protette, a contaminare, distruggere gli ultimi lembi di foresta pluviale dove sopravvive un mammifero raro (da “Lista rossa”), a rischio estinzione, come l’okapi. Oltre ad abbattere le piante e dragare illegalmente i fiumi, i minatori si dedicherebbero al bracconaggio.

Da quasi un decennio l’area viene sfruttata – previo accordo col governo – dalla compagnia Kimia Mining. L’anno scorso ben 205 ong locali, a cui si associava Greenpeace, avevano chiesto al governo della RdC di ritirare le concessioni minerarie alla società cinese. O almeno quelle all’interno della riserva naturale per le okapi.

ENNESIMA GUERRA MONDIALE AFRICANA

Come scrivono anche Marco Dell’Aguzzo e Giuseppe Gagliano l’intervento degli Usa va inquadrato nella necessità di disturbare gli affari minerari cinesi in Africa, in vista della produzione massiva di auto elettriche e dunque del bisogno di Litio e Cobalto: la supply chain africana derivante dall’interdizione finalmente dell’esportazione di litio non lavorato (una mossa dal sapore anticoloniale, che potrebbe, se la stesa misura venisse adottata da molti altri paesi del continente, cominciare uno sviluppo industriale – e di mercato interno – invece di essere solo suolo da depredare).

Dovranno dare lavoro in loco: potrebbe essere un passo avanti. Peccato che gli Usa si propongano essenzialmente per contrastare la penetrazione di Pechino in Africa: le aziende cinesi possiedono la maggioranza delle miniere di terre rare africane e così gli americani si frappongono, impiantando quelle industrie in loco richieste da governi che cercano così di arginare il saccheggio… il problema è che se gli americani cederanno la tecnologia per la lavorazione, si prenderanno una larga fetta del prodotto finale (una mossa essenziale per approvvigionarsi senza arricchire l’avversario) e i cinesi si faranno pagare l’estrazione dei minerali grezzi, agli africani non rimane di nuovo nulla, se non la parvenza di essere entrati a far parte del mercato e non più solo merce – nel caso venga adottata una parte di manodopera locale (che non potrà essere giocoforza specializzata). E così si torna allo Zimbabwe, da cui avevamo cominciato questo safari africano.

Ma il Congo è teatro di scontri e riedizioni di conflitti (la Guerra mondiale africana risale a pochi lustri fa e sembra prepararsi in Kivu di nuovo) che vedono contrapposte le milizie armate da Kigali (come l’M23) all’esercito di Kinshasa e alle truppe di Nairobi –ultimamente – o dell’Uganda.


I gruppi della società civile hanno condannato l’estrazione illegale di oro nella riserva naturale di Okapi, nella Repubblica Democratica del Congo. Da diversi anni, una società di proprietà cinese, la Kimia Mining, ha una concessione all’interno della riserva, rilasciata irregolarmente dal governo della RDC. I gruppi chiedono l’immediata revoca della concessione per proteggere la riserva

In una conferenza stampa tenutasi il 18 ottobre, hanno accusato la Kimia di aver ridotto la copertura forestale, inquinato i fiumi e compromesso l’habitat forestale della riserva. La riserva, inserita dall’Unesco nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità in pericolo, si estende per circa 13.700 chilometri quadrati della foresta pluviale dell’Ituri.  È anche la casa dei nomadi indigeni Efe e Mbuti, che dipendono dai fiumi che nascono nella riserva, ha dichiarato Gabriel Nenungo, coordinatore dei geologi della provincia di Ituri: «Abbiamo osservato le draghe gestite dai cinesi nel fiume Ituri e le fosse di mercurio aperte sono visibili dall’alto». L’attività mineraria ha attirato gruppi armati che trafficano in pelli di okapi e avorio.

L’esercito della RDC fornisce servizi di sicurezza alla Kimia Mining, nonostante le leggi vietino di associarlo alle operazioni minerarie. (“Mongabay”).

Novembre

29 novembre

    • I coyotes mondiali

      • Il 29 novembre Defense Security Cooperation Agency pubblicava la notizia della concessione da parte del Dipartimento di stato americano della vendita di sistemi di difesa antidrone per una spesa pari a un miliardo di dollari in cambio di 10 Fixed Site-Low, Slow, Small Unmanned Aircraft System Integrated Defeat System (FS-LIDS) System of Systems, includendo 200 Coyote Block 2 interceptors; e poi Counter Unmanned Electronic Warfare System (CUAEWS); Coyote launchers; Ku Band Multi-function Radio Frequency System (KuMRFS) radars; Forward Area Air Defense Command e Control (FAAD C2); Counter Unmanned Electronic Warfare Systems (CUAEWS).
      • Lo riportava “BreakingDefense” sottolineava come i principali contractor Raytheon, Northrop Grumman and R&D company SRC.A Marzo si leggeva nel rapporto Sipri del confronto tra il 2017-2021 con il decennio precedente e riprendiamo da lì per inquadrare questa notizia novembrina in omaggio all’esiziale mondiale di calcio ottenuto da Doha (che secondo quel dossier aveva incrementato la spesa del 227% rispetto al lustro precedente) con la corruzione di Sarkozy, Platini e Guéant prima e poi con il sostegno di parlamentari europei di sinistra che negano l’evidenza del sistema omicida e criminale del Qatar (ci limitiamo a suggerire che Messi e Mbappé giocano entrambi nel Psg, che è di proprietà dell’emiro di Doha, un caso che la finale sia per magia tra le loro due compagini?): infatti l’Atlante delle guerre riassumeva così la situazione del Medio Oriente a marzo:

        «Si stabilizzano le importazioni di armi in Medio Oriente. Dopo il forte aumento registrato nel decennio precedente (86% in più tra il 2007-11 e il 2012-16) gli stati mediorientali hanno importato ‘solo’ il 2,8% di armi in più nel 2017-21 rispetto a quello precedente. Il conflitto in Yemen e le tensioni tra l’Iran e altri stati della regione restano alla base delle importazioni di armi nell’area. L’Arabia Saudita si conferma un grande importatore, il secondo al mondo, con un 27% in più investito in armi nel periodo 2012-16, rispetto al precedente.
        Le importazioni di armi del Qatar sono cresciute del 227%, spingendolo dal 22esimo importatore di armi al sesto. Al contrario, le importazioni di armi degli Emirati Arabi Uniti sono diminuite del 41%, passando così dal terzo al nono posto. Tutti e tre questi stati, insieme al Kuwait hanno poi effettuato ingenti ordini che prevedono la consegna nei prossimi anni. Nell’area, poi, Israele ha aumentato le importazioni di armi del 19%».

    • E poi le esportazioni statunitensi verso Riyad sono aumentate del 106%. Ma a cosa serve l’enorme quantità di armi, le più disparate per ogni tipo di guerra, sparpagliate per tutta la penisola araba?

19 novembre

  • La guerra dei droni da Astana

    • La notizia in autunno sul fronte dell’approvvigionamento dei droni per le attività dell’aviazione russa è che si è raggiunto un accordo per impiantare in tempi brevi  uno stabilimento con la tecnologia iraniana direttamente in territorio russo; a rivelarlo il Washington Post, successivamente rilanciato da tutte le testate del mondo. Come sottolinea “DroneBlog”:

      questo accordo oltre che essere strategico mette in luce ancora di più il rapporto e la cooperazione militare fra Iran e Russia, che sta svolgendo un ruolo chiave in Ucraina. Se il nuovo accordo sarà pienamente realizzato, significherebbe un ulteriore rafforzamento dell’alleanza russo-iraniana. Questo accordo, oltre a migliorare la disponibilità di armi all’esercito russo, toglierebbe dall’isolamento l’Iran, dando una nuova spinta economica a un sistema interno collassato ormai da anni e alle prese con una rivoluzione in atto

  • In piena continuità con gli accordi di Astana, che tanto abbiamo analizzato in OGzero.
    E sempre “DroneBlog” scrive che «finora Teheran ha cercato di presentarsi come neutrale nel conflitto ucraino , ma si scopre che sempre più droni di fabbricazione iraniana vengono utilizzati per attaccare le città ucraine, innescando minacce di nuove sanzioni economiche dall’Occidente». E si insinua una scommessa iraniana sul sostegno che deriverebbe dall’alleanza con Mosca per ricavare valore contrattuale per gli accordi sul nucleare
  •  Peraltro l’industria iraniana dei droni si sta già diffondendo in altri paesi. L’Iran ha aperto a maggio una fabbrica in Tagikistan, che produce il drone Ababil-2, secondo l’Eurasia Times: è stato Zelensky stesso a indicare la strategia di avvicinamento a Mosca da parte di Ankara con fini collegati al Jcpoa.
  • The Guardian” il 10 novembre accusava l’Iran di aver sostenuto militarmente fin dal 24 febbraio l’alleato russo, ma ancora prima “Wired” riportava un sistema rudimentale – ma efficace – di aggiramento delle sanzioni: contanti e baratto.
  • In estate il baratto sarebbe dimostrato dall’atterraggio il 20 agosto di 2 Ilyushin IL-76 arrivati e ripartiti da Mehrabad (la città del kurdistan iraniano martirizzata il 19 novembre dalle guardie della rivoluzione): trasportava in cambio di droni armi occidentali sottratte agli ucraini, necessarie agli ingegneri persiani per carpire le tecnologie. Ipotesi suffragate da immagini satellitari diffuse da SkyNews e da dichiarazioni rilasciate al Washington Post il 29 agosto da funzionari statunitensi.

Un ultima notazione sull’asse russo/iraniano: i droni iraniani Mohajer-6 contengono molte componenti provenienti dalla tecnologia occidentale (in particolare giapponesi,  secondo James D. Brown) – quindi senza che si debbano trasferire ordigni catturati per studio – stando alle rivelazioni di “la Repubblica”; ma, a dimostrazione che lo spargimento di morte tra civili attraverso macchine a controllo remoto non comporta scelte di campo, il Blog di Antonio Mazzeo riporta un’informazione raccolta da “DefenseNews”:

    • «Il regime turco di Recep Tayyp Erdogan finanzierà la produzione di droni-elicotteri e droni-kamikaze per il mercato nazionale e l’esportazione, decisione che non potrà non essere accolta con favore anche in Italia. La società di engineering aerospaziale Titra Technoloji, con quartier generale ad Ankara, riceverà sussidi economici governativi per realizzare il primo modello di elicottero a pilotaggio remoto in Turchia. Denominato “Alpin”, il drone-elicottero sarà prodotto in dieci esemplari all’anno, “in aggiunta a 250 droni kamikaze”».

    • La Malesia ha scelto la Turkish Aerospace Industries per la fornitura di tre velivoli senza pilota, secondo quanto dichiarato dal ministro della Difesa della nazione del Sudest asiatico e ripreso da “DefenseNews”.
      TAI aveva presentato il suo Anka, un sistema di velivoli senza pilota a media altitudine e lunga resistenza, alla fiera della difesa e dell’aerospazio LIMA nel 2019. Il 18 agosto 2022 il re malese Al-Sultan Abdullah ha visitato le strutture di TAI ad Ankara, in Turchia. Il 7 ottobre TAI ha annunciato un memorandum d’intesa per una collaborazione con il MIMOS, il centro di ricerca e sviluppo della Malesia. Ma perché la Malesia è alla ricerca di queste macchine da guerra? Le forze armate e la Guardia Costiera della Malesia sono impegnate nella lotta alla pirateria lungo le sue coste, inoltre è loro demandato a livello internazionale il controllo e l’antiterrorismo nel Mare di Sulu (tra la Malesia orientale e le Filippine meridionali, dunque all’interno del quadro anticinese del noto contenzioso nel mar cinese meridionale sulle Spratly Island e nello strategico controllo dello Stretto di Malacca).
  • La famiglia di droni Anka è in grado di svolgere missioni di ricognizione, acquisizione e identificazione di obiettivi e raccolta di informazioni. È dotata di tecnologie elettro-ottiche/infrarosse e radar ad apertura sintetica. Il produttore afferma che i velivoli hanno capacità di volo autonomo e possono decollare e atterrare da soli.La famiglia di UAV ha un’apertura alare di 17,5 metri e una lunghezza di 8,6 metri, e ha un tetto di servizio di 30.000 piedi. Possono rimanere in volo all’altitudine operativa di 18.000-23.000 piedi per più di 30 ore.
    • A metà ottobre il Kazakistan e la Turchia hanno annunciato l’intenzione di sviluppare una “cooperazione strategica a lungo termine” che preveda la coproduzione di satelliti e altri sistemi spaziali.
    • «Questo è il primo passo di una forte cooperazione con il Kazakistan nel campo dello spazio. Il memorandum d’intesa che abbiamo firmato con le società Kazsat e Ghalam sulla creazione di una cooperazione strategica a lungo termine nei settori dei satelliti e dello spazio sarà vantaggioso per il nostro paese e la nostra nazione» (Ismail Demir, Tai)

    • Infatti in maggio, secondo le informazioni di “DefenseNews“, era stato firmato un protocollo tra Kazakhstan e Turchia per la coproduzione di droni da gettare sul mercato Asean e produrre in quella che è la prima fabbrica di Bayraktar fuori dai confini turchi, con contratto che prevede anche manutenzione e riparazione. E quell’accordo faceva seguito a quello di aprile con il Kirghizistan che aveva firmato per primo un accordo per l’acquisto di un numero imprecisato di droni armati: infatti  Bishkek aveva pregato Ankara di soprassedere alla vendita dei letali droni a Dushanbe, alla luce delle tensioni sul confine (e questo spiega la rincorsa al riarmo dei due paesi dell’Asia centrale, sfruttata da Ankara per raddoppiare le vendite).
  • Il drone può essere equipaggiato con armi come il lanciamissili a lancio aereo Roketsan Smart Micro Munition e la capsula missilistica guidata Cirit da 2,75 pollici nelle due stazioni d’armamento sotto l’ala per ingaggiare veicoli leggermente corazzati, personale, rifugi militari e stazioni radar a terra. Un evidente monito per le mire espansionistiche di Mosca.
    • L’aggressività non solo verso il mercato della industria bellica turca si appropria anche di ricerche straniere, come quelle che consentono al criminale Erdoğan di arrivare al drone-elicottero: infatti Antonio Mazzeo spiega che questo velivolo è un sistema a pilotaggio remoto che potrà essere impiegato a fini civili ma soprattutto per missioni bellico-militari di intelligence e ricerca e soccorso. Il prototipo del drone-elicottero è lungo 7 metri, alto 2,35 e ha un diametro del rotore di 6,28 metri; ciò gli consente di essere trasportato in veicoli di medie dimensioni. Il suo peso non supera i 540 kg compresi apparecchiature elettroniche e carburante. L’”Alpin” ha una velocità di crociera di 160 km/h e può coprire un raggio d’azione fino a 840 km di distanza, a un’altitudine di 5000 m. L’autonomia di volo varia dalle due alle nove ore, secondo la portata del carico a bordo.
      Ma perché abbiamo usato il verbo “appropriarsi”? La risposta è nel Blog di Antonio Mazzeo (che cita “DefenseNews”):
    • «L’Alpin è basato sull’elicottero italiano ultraleggero con equipaggio umano Heli-Sport CH-7». Il CH-7 è realizzato infatti dalla Heli-Sport S.r.l. di Torino, azienda fondata dai fratelli Igo, Josy e Charlie Barbaro e specializzata nel design e produzione di velivoli ad ala rotante di ridotte dimensioni. La società si dichiara però del tutto estranea dalla vicenda.

    • In effetti l’Alpin nasce da un accordo tra la Titra turca e la Uavos californiana per convertire il CH-7 in elicottero a pilotaggio remoto: la trasformazione dei velivoli italiani in droni-elicotteri è stata avviata dalla statunitense Uavos, mentre il primo test di volo è stato effettuato nel dicembre del 2020 nei cieli della Turchia.

«L’Alpin è stato progettato per andare incontro alle richieste specifiche ed uniche della Turchia e agli interessi speciali della sua industria nazionale per operare come sistema a pilotaggio remoto in una varietà di scenari complessi nei campi civili e della sicurezza», riporta la nota emessa da Uavos a conclusione delle attività sperimentali in territorio turco. «L’elicottero convertito è indispensabile per l’industria logistica dei velivoli senza pilota per trasportare carichi in zone difficili da raggiungere e sfornite di campi di atterraggio». E viene subito in mente la configurazione del Rojava.

La Turchia – benché socio alla pari nelle concertazioni strategiche di Astana – produrrà entro due anni i tanto decantati Bayraktar TB2 in Ucraina: benché più leggeri e meno efficienti nel contrasto di un attacco aereo, i droni turchi secondo l’Agi saranno già in grado di contrastare quelli iraniani.

    • «l’Ucraina ha un ruolo di primo piano nella catena di approvvigionamento di Baykar, in particolare con il nuovo drone pesante Akinci e il jet da combattimento senza pilota Kizilelma, attualmente in fase di sviluppo, montano entrambi motori ucraini MotorSich» (“Analisi Difesa”).

Secondo Barayktar molto presto i droni turchi TB2 e Akinci potranno colpire con buona efficacia oggetti in volo grazie all’integrazione del sistema di difesa Sungur prodotto da Roketsan, mentre i droni iraniani sono pesanti e rumorosi, sono obiettivi facili perché volano a bassa quota.

Invece quelli turchi sono stati opzionati anche dal governo polacco, che ha ricevuto a ottobre 6 dei 24 TB2 comprati.

19 novembre

    • Comprare gas dalla Tunisia con veicoli militari antimigranti

      • LaLa Francia ha portato a Djerba 200 milioni di prestiti in occasione della Organisation internationale de la Francophonie; ma ha anche consegnato alla Tunisia il primo lotto di una donazione comprendente cento veicoli militari fuoristrada Masstech T4 prodotti da Technam in occasione della ventinovesima sessione della Commissione militare franco-tunisina svoltasi dal 15 al 17 novembre nella capitale del paese nordafricano e documentata da “Tuniscope”; i veicoli sono palesemente utili nel contenimento dei migranti. L’ambasciata di Francia a Tunisi sulla propria pagina Facebook ha precisato che durante i lavori della commissione è stato tratto “un bilancio molto soddisfacente” in termini di cooperazione bilaterale per il 2022. In particolare, sono state svolte 60 attività in Francia o Tunisia.Ma quella più interessante è volta a ristabilire l’asse militare tra le due sponde mediterranee:

        «Per Saied – afferma il politologo francese Vincent Geisser rilanciato da “Africanews” – ospitare questo vertice è “un successo” perché lo porterà fuori dal suo isolamento almeno temporaneamente. È una sorta di pacificazione nei suoi rapporti con i suoi principali partner occidentali, userà questo evento per legittimare una svolta autoritaria fortemente criticata».

    • In cambio la Francia cerca di comprarsi gas in quella che era la sua casa coloniale.

  • Questo veicolo, costruito a partire da un telaio Toyota Land Cruiser HZJ76, è blindato, dotato di griglie di protezione contro le proiezioni e di cinque punti di armamento. È in servizio con l’esercito francese sul territorio francese e in OPEX nel Sahel. Viene utilizzato anche dall’esercito reale giordano (“MenaDefense”)

10 novembre

  • Corsa al riarmo in Africa

    • Nel dossier dell’“Atlante delle guerre” a marzo si leggeva: «In Africa subsahariana i cinque maggiori importatori di armi sono stati Angola, Nigeria, Etiopia, Mali e Botswana. Resta un grande importatore l’Egitto che con il più 73% diventa il terzo importatore di armi a livello globale».

    • L’Etiopia ha usato abbondantemente le sue dotazioni prima di arrivare agli accordi di metà novembre: dopo due anni e un numero imprecisato di morti compreso tra mezzo milione e un milione di vittime (qui un intervento di Matteo Palamidessa raccolto da Radio Blackout).

    “Il genocidio atroce e diffuso nel Corno d’Africa”.

  • Il Mali (e il Sahel nella sua integrità) è alle prese con la necessità di difendersi dai tagliagole jihadisti dotati di armi sofisticate e dunque gli eserciti – affrancatisi da operazioni coloniali francesi, ma così indeboliti – cercano di procurarsi strumenti per liberarsi dalla tenaglia dell’insorgenza, come ci ha raccontato Edoardo Baldaro:
  • Collegata a questa situazione è la notizia lanciata da un tweet postato il 5 novembre da “Spoutenik en Français” (palese indirizzo filorusso) relativa alla richiesta a Mosca per l’acquisto di due elicotteri da parte del Burkina di Ibrahim Traoré nel quadro di un trattato di cooperazione con la Russia di Putin (che affonda le radici nei legami intrecciati tra paesi africani che hanno avviato il proprio distacco dall’Occidente con l’appoggio dell’Urss).

Gli elicotteri sono tra le macchine a uso bellico più ambite nel continente, come documenta Antonio Mazzeo nel suo blog il 10 novembre facendo cenno a una triangolazione di 6 velivoli T-129 “Atak” prodotti in Turchia da Turkish Aerospace Industries su licenza di AgustaWestland (della infinita galassia Leonardo spa) per il governo nigeriano al costo di 61 milioni di dollari. Come sottolinea Mazzeo, la versione turca dell’“Atak” (in uso in Siria, Iraq, Filippine e in futuro in Pakistan) sfodera nuovi sistemi di individuazione e tracciamento dei bersagli ed è dotato di razzi non guidati da 70 mm e missili anticarro L-Umtas.

  • «Nel bilancio della difesa nigeriano per il 2023 è previsto anche uno stanziamento di 4,5 milioni di dollari per l’acquisto di due elicotteri AW109 “Trekker, prodotti in Italia da Leonardo SpA. nel corso di un seminario delle forze armate nigeriane tenutosi a Ibom lo scorso 27 ottobre, il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica Oladayo Amao avrebbe confermato l’intenzione di acquisire 24 caccia bimotori M-346 “Master” realizzati negli stabilimenti di Varese-Venegono di Leonardo» (“DefenceWeb”).

  • L’AW109 aveva già riscosso un enorme successo ad agosto al Labace brasiliano:
  • «L’AW109 Trekker, il primo gemello leggero di Leonardo a offrire un carrello di atterraggio a pattino, mantiene la cellula dell’AW109 Grand, l’ampia cabina e le prestazioni di prim’ordine, offrendo al contempo un maggiore carico utile a un costo competitivo, dimostrando così di essere perfettamente in grado di soddisfare i severi requisiti degli operatori in termini di capacità ed economicità. L’AW109 Trekker è dotato di una cabina di pilotaggio in vetro di ultima generazione di Genesys Aerosystems che può essere configurata in base alle esigenze del cliente» (“DGualdo”, un sito evidentemente promozionale di Leonardo)

  • Oltre all’indubbio affare per Leonardo, si può ipotizzare che il gigante africano immagini un innesco di conflitti nell’area… e forse l’odore di bruciato comincia a farsi più forte nella situazione del Nord Kivu, come illustrato in questo intervento di Massimo Zaurrini:
  • “Rischio di Terza guerra mondiale africana dei Grandi Laghi?”.
  • Dunque la Nigeria si sta riarmando potentemente, è sufficiente elencare i prodotti opzionati, prenotati, comprati, acquisiti che riporta “DefenceWeb”, oltre ai T-129 citati da Mazzeo e ai due AW109: gli Stati Uniti hanno approvato la possibile vendita di 12 AH-1Z alla Nigeria nell’ambito di un potenziale accordo da 997 milioni di dollari che include armi ed equipaggiamenti (nonostante i forti dubbi riguardo il mancato rispetto dei diritti umani del regime di Abuja); riceverà due aerei da trasporto C295 da Airbus, agognati dal 2016. La proposta di bilancio della Difesa nigeriana per il 2023 include finanziamenti per la manutenzione degli L-39ZA, degli Alpha Jet e propone 2,7 miliardi di dollari per tre aerei da sorveglianza/attacco MF 212 costruito dalla Magnus Aircraft nella Repubblica Ceca e 3 miliardi (6,8 milioni di dollari) per tre elicotteri Bell UH-1D.
    La BVST ((Belspetsvneshtechnika, ditta bielorussa) ha già collaborato con l’aeronautica nigeriana, fornendo la manutenzione degli elicotteri Mi-35 e l’addestramento; ora ha trasformato gli MF212 in velivoli armati ideali per compiti di sicurezza interna, sorveglianza e pattugliamento. A quanto pare, può essere equipaggiato con un gimbal elettro-ottico iSKY-30 HD e con missili R-60-NT-L o R-60-NT-T-2. In Ottobre il capo di stato maggiore Odalayo Amao aveva già dichiarato che l’Aeronautica militare nigeriana prenderà in consegna due turboelica Beechcraft King Air 360, quattro aerei di sorveglianza Diamond DA 62 e tre veicoli aerei senza pilota (UAV) Wing Loong II. Oltre a dozzine di velivoli ordinati tra il 2016 e il 2021.

Peraltro il mercato africano – ovviamente con le sue richieste. Le disponibilità di spesa e i bisogni commisurati alla tipologia di conflitti che nell’enormemente vasto territorio che costituisce condizioni di combattimento differenti – mette sul piatto finanziamenti corrispondenti alla percezione di pericolo o di preparazione di guerre e quindi mette in piedi una propria frequentata fiera. La biennale Africa Aerospace and Defense Expo di Centurion in Gauteng (Sudafrica) si è tenuta a fine settembre, proiettando in questi ultimi mesi di 2022 le prospettive di collocazione su piazza del nuovo bombardiere B-21 Northtorpe, forse non a caso presentato in Sudafrica per le sue prerogative di deterrenza, come spiega “BreakingDefense” nelle parole del generale dell’aeronautica Jason Armagost riguardo il sistema Sentinel di cui il bombardiere è parte: « Sentinel sarà altamente resiliente e flessibile. Non solo per la nostra sicurezza, ma anche per garantire i nostri partner e alleati in tutto il mondo. Si tratta di una capacità evolutiva e sono state prese decisioni deliberate su come renderla efficiente con l’infrastruttura che abbiamo, e su come modernizzare la capacità per rimanere flessibile con sistemi di missione aperti e un’architettura digitale per evolvere con ambienti di minaccia in evoluzione», sembra la descrizione del panorama fluido africano. Il B-21 verrà definitivamente svelato il 2 dicembre assicura “MilitaryTimes”: probabilmente i paesi del continente africano non si potranno permettere questo bombardiere presentato a casa loro, ma potranno svuotare gli arsenali dei bombardieri che diventeranno obsoleti dopo l’avvento di questa macchina.

Più alla portata delle casse africane è il drone greco Archytas e soprattutto il Mwari aircraft con scopi multipli e infatti già venduto a molti paesi africani; e di quei paesi elencati all’inizio di questa scheda il Botswana probabilmente prenoterà i suoi droni in funzione antimigratoria, e allo scopo i droni presentati alla fiera sudafricana descritta nel video della scheda di ottobre fanno al caso.

AW109 Trekker

GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE Traffico 2022

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]]> Chi specula sulla questione Saharawi? https://ogzero.org/progressiva-annessione-del-sahara-occidentale/ Sat, 17 Dec 2022 22:08:28 +0000 https://ogzero.org/?p=9799 La diplomazia di Rabat nell’ultimo anno ha ottenuto risultati importanti in vista della progressiva annessione del Sahara Occidentale, anche grazie ai ritorni derivanti dalla guerra in Ukraina: il ricatto nei confronti della Spagna sulla concessione riguardo al passaggio di oleodotti ha drasticamente azzerato la simpatia tra la Spagna e il Saharawi, vista la fame di […]

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La diplomazia di Rabat nell’ultimo anno ha ottenuto risultati importanti in vista della progressiva annessione del Sahara Occidentale, anche grazie ai ritorni derivanti dalla guerra in Ukraina: il ricatto nei confronti della Spagna sulla concessione riguardo al passaggio di oleodotti ha drasticamente azzerato la simpatia tra la Spagna e il Saharawi, vista la fame di gas di Madrid; ma aveva cominciato a ottenere risultati già con la presidenza Trump che ne aveva riconosciuto le pretese di controllo sull’ex Sahara spagnolo, in cambio degli Accordi di Abraham con Israele, che sancivano solamente una collaborazione ormai annosa soprattutto sul piano militare (infatti si sono viste sventolare bandiere palestinesi e algerine dopo la sconfitta dei “Leoni” in semifinale dei mondiali di football a Doha – nonostante l’eliminazione provenisse per mano dell’odiata potenza francese).

Il risultato ai mondiali qatarini è comunque spendibile dal regime per una nuova autorevolezza nel mondo arabo, spostando a ovest gli equilibri disputati con i sauditi; il fatto che sia stato relegato nei giochi della Fifa al quarto posto allargando a orologeria anche al Marocco lo scandalo della corruzione riuscita con il lobbismo dei commissari socialisti europei non può che giocare a favore di Rabat, perché colloca il Marocco tra le nazioni che si accreditano per un lavoro di “convincimento” credibile (e può anche richiamarsi a una sorta di discriminazione dell’ultimo paese africano in lizza).
Per questo ci sembra opportuno rendere pubblico l’articolo di Gianni Sartori che vi proponiamo a poche ore dalla sconfitta della nazionale marocchina nella disputa per il terzo posto con una Croazia, che contemporaneamente rifiuta l’accoglienza a soldati ucraini da addestrare in ambito Nato (“Le Parisien”), temendo di farsi coinvolgere nel conflitto.

OGzero


Corruttori ed eurocorrotti

Stando alle notizie riportate da“Le Soir”, da “Knack” e da “il manifesto”, l’ex deputato europeo Panzeri a Strasburgo si sarebbe occupato soprattutto di “diritti umani e del Maghreb”. Oltre ad aver fondato nel 2019 una ong (Fight Impunity), avrebbe intrattenuto rapporti amichevoli con l’esponente marocchino Abderrahim Atmoun (dal 2019 ambasciatore in Polonia).

Sempre nel 2019, Panzeri figurava tra gli oltre 400 deputati europei che avevano votato a favore di un accordo di pesca che interessava anche le coste del Sahara Occidentale. A tutto vantaggio di Rabat, ma naturalmente senza il consenso del popolo saharawi e del Fronte Polisario. Va sottolineato che questo mare molto pescoso è una delle due principali risorse (l’altra è rappresentata dai fosfati) in grado di garantire la futura sopravvivenza della popolazione saharawi e della Rasd.
Fortunatamente tale accordo iniquo venne poi annullato (ma solo nel 2021) dalla Corte di Giustizia europea in quanto

«sancirebbe il diritto di sfruttamento di uno stato occupante in un territorio riconosciuto internazionalmente come “non autonomo”».

Congiurati socialisti in combutta con Mohammed VI contro il Polisario

Annessione del Sahara Occidentale camuffata

Pressanti le ricorrenti richieste di Rabat all’Unione europea di allinearsi con le posizioni di Washington (nel 2020 con Trump) che di fatto sottoscrivevano quelle marocchine in merito a una non meglio definita (ma comunque limitata) “autonomia del Sahara Occidentale all’interno dei confini del regno del Marocco” – in pratica l’ufficializzazione dell’annessione del Sahara Occidentale.
La proposta risaliva all’aprile 2007: presentata dal Marocco come una

«risposta alle richieste del Consiglio di Sicurezza alle parti per porre fine alla situazione di stallo politico» e rivolta direttamente al Segretario Generale, venne descritta come «l’iniziativa marocchina di negoziazione di uno status d’autonomia per la regione del Sahara».

Scontato che ai saharawi apparisse come una mossa propedeutica alla completa assimilazione.

Recentemente tale prospettiva sembra aver raccolto il favore sia del governo madrileno, sia di alcuni ex esponenti del Polisario, dissidenti nei confronti del Fronte (ma non per questo collaborazionisti del Marocco).

Il dovere della memoria come garanzia della non ripetizione

Sul ruolo sempre più “conciliante” (eufemismo) assunto da Madrid nei confronti di Rabat, era intervenuto Luis Portillo Pasqual del Riquelme (“Etnie”).

Per il docente di scienze economiche alla madrilena Università Complutense, il leader socialista Pedro Sánchez avrebbe «ceduto vergognosamente alle richieste di Mohamed VI perpetrando un secondo tradimento del popolo saharawi». Anzi, aggiungeva, «stando ai miei calcoli addirittura il terzo» (il secondo sarebbe quello operato da Felipe Gonzalez, precedente leader socialista, che già nel 2008 Luis Portillo stigmatizzava su “Rebellion”, sottolineando il lobbismo spinto di Rabat).
L’illustre accademico ricordava come Félix Bolaños, ministro della Presidenza, Relazioni con le Cortes e Memoria Democratica, aveva affermato nel suo intervento che

«la memoria è un diritto, un diritto della cittadinanza e soprattutto un diritto delle vittime».

In sintesi: “Il dovere della memoria come garanzia della non ripetizione”. In riferimento soprattutto alle violazioni dei diritti umani e del diritto dei popoli perpetrate dal franchismo, una questione con cui la Spagna non aveva fatto i conti a momento debito.

Ma questa legge, continuava Bolaños, per quanto riguardava la questione del Sahara Occidentale e del popolo saharawi risultava quantomeno “insoddisfacente”. Nonostante costituisse l’estrema colpa dell’ultimo governo della dittatura fascista.

 

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Il dazio dell’inondazione pakistana sulle tavole africane https://ogzero.org/il-dazio-dellinondazione-pakistana-sulle-tavole-africane/ Thu, 29 Sep 2022 13:56:07 +0000 https://ogzero.org/?p=9038 Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo […]

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Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo il paese il quinto produttore di cotone e il quarto di riso, l’impatto di questa perdita sarà sicuramente globale.
Di qui prendeva spunto l’articolo che abbiamo pubblicato di Masha Hassan sull’inondazione pakistana; l’autrice del pezzo ha poi approfondito gli addentellati collegati alla filiera del cotone, più che quella del riso, seguita invece dall’attenzione di Angelo Ferrari (già in luglio un suo intervento lanciava l’allarme alimentare, prima della guerra in Ucraina e dei disastri climatici) per le ripercussioni sull’alimentazione dell’Africa, riproponiamo qui il pezzo ripreso da “AfricaRivista” per completare l’analisi del cataclisma poco seguito dai media occidentali miopi di fronte alle conseguenze del cambiamento climatico subito nei disastri dal Sud del Mondo, ma prodotto soprattutto dal mondo industrializzato.


Secondo gli analisti molti governi dovranno far fronte all’aumento dei prezzi di mercato del riso, un alimento base per gli africani, dovuto alle catastrofi naturali che stanno colpendo l’Asia e alle nuove strette sulle esportazioni imposte da India, Vietnam e Thailandia.

L’Africa non ha pace. La sicurezza è messa a rischio dall’aumento dei prezzi delle materie prime e ora potrebbe aggravarsi ulteriormente per le inondazioni che hanno investito il Pakistan. Il continente africano deve far fronte all’aumento dei prezzi del grano e del mais a causa della guerra in Ucraina, ma, secondo molti analisti economici, dovrà far fronte anche all’aumento dei prezzi di mercato del riso, un alimento base per gli africani, a causa delle inondazioni che hanno investito il Pakistan e alla decisione dell’India di limitare le sue esportazioni.

L’accaparramento asiatico

L’India ha vietato le esportazioni di riso spezzato (frammenti di chicchi rotti) dopo l’inondazione e ha imposto un dazio del 20% sulle esportazioni di riso di qualità superiore. Con questa misura, il più grande esportatore mondiale cerca di abbassare i prezzi a livello locale, dopo che le piogge monsoniche sono state inferiori alla media. Le esportazioni potrebbero, grazie a questa misura, crollare del 25% nei prossimi mesi.

«Tutti i cereali sono aumentati, tranne il riso, ma ora si unirà a questa tendenza», ha spiegato Himanshu Agarwal, direttore di Satyam Balajee – il principale esportatore di riso indiano – sentito dalla Reuters.

Contemporaneamente Thailandia e Vietnam hanno deciso di aumentare i prezzi per remunerare meglio i loro agricoltori. Secondo Phin Zinell, economista alimentare presso la National Australia Bank, ci «saranno tensioni significative sulla sicurezza alimentare in molti paesi». E a farne maggiormente le spese, sarà l’Africa, tanto più che la situazione in Pakistan di fronte alle alluvioni che lo hanno investito potrebbe pesare sui prezzi mondiali.

«Il Pakistan è un grande esportatore di riso, ma un terzo del paese è sott’acqua e quindi il rischio, a lungo termine, è un aumento del prezzo del riso sul mercato internazionale», ha spiegato Nicolas Bricas, titolare della Cattedra mondiale dell’alimentazione dell’Unesco, sentito da France24.

Un altro fattore rischia di aggravare ulteriormente la situazione: la forte domanda cinese di rotture di riso per sostituire il mais, diventato troppo costoso per nutrire il bestiame, ha provocato un innalzamento dei prezzi.

Il fabbisogno africano

Tutto ciò, evidentemente, rappresenta una brutta notizia sul fronte della sicurezza alimentare nell’Africa subsahariana, che dipende in larga misura dalle importazioni di cereali bianchi dall’Asia. L’Africa, quest’anno, potrebbe assorbire il 40% del commercio mondiale di riso, ovvero 20 milioni di tonnellate, un vero e proprio record.

La dipendenza dalle importazioni di riso è cronica e durerà nel tempo, anche perché la produzione locale non è in grado di seguire la curva dei bisogni che cresce con la crescita demografica urbana. In Africa il riso è l’alimento preferito dagli abitanti delle città perché è un prodotto pronto all’uso a differenza dei tradizionali cereali, come il miglio e il sorgo, che hanno bisogni di una preparazione.

Se la sicurezza alimentare in Africa subsahariana non si base esclusivamente sul riso, come in altri continenti, questo rimane il secondo cereale più consumato dopo il mais. Un’impennata dei prezzi rappresenterebbe un nuovo colpo per le popolazioni africane, già indebolite dai prezzi dei generi di prima necessità, soprattutto quelli agricoli. La situazione è particolarmente critica nel Corno d’Africa, che sta attraversando una siccità mai vista negli ultimi quarant’anni. Secondo le Nazioni Unite, dall’Etiopia meridionale al Kenya settentrionale fino alla Somalia, 36 milioni di persone sono a rischio fame.

«Con l’aggravarsi della situazione della sicurezza alimentare in Etiopia, siamo particolarmente preoccupati per l’impatto che sta avendo su donne e ragazze. Anche se CARE è intervenuta tempestivamente con distribuzioni di cibo per alcune comunità colpite, oltre che con interventi nel settore agricolo, trasferimenti di denaro, salute e nutrizione e WASH, il bisogno insoddisfatto rimane sconcertante».

L’aumento del prezzo del riso è, dunque, atteso, ma secondo molti analisti dovrebbe rimanere contenuto e di breve durata. Di sicuro è un azzardo, anche se il raccolto dei principali paesi produttori ed esportatori – India, Thailandia e Vietnam – inizierà tra poche settimane. Questo riso dovrà andare ad aggiungersi alle scorte, già al massimo, e quindi dovrebbe spingere questi paesi a vendere il vecchio raccolto, allentando la pressione sul mercato. Ma bisognerà capire se i maggiori esportatori di riso applicheranno misure di protezionismo del proprio mercato interno.

Di sicuro gli effetti maggiori si vedranno nei primi mesi dell’anno prossimo. Occorre ricordare, infine, che il Pakistan esporta 4 milioni di tonnellate di riso all’anno, contro i 21 milioni dell’India. La domanda è: il mercato sarà in grado di resistere allo shock anche se il Pakistan, come è prevedibile, limiterà le sue esportazioni e l’India manterrà i dazi e il tetto alle esportazioni di riso?

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Dalla Perestrojka al Commonwealth in Africa https://ogzero.org/dalla-perestrojka-al-commonwealth-in-africa/ Sat, 17 Sep 2022 23:23:21 +0000 https://ogzero.org/?p=8921 Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche […]

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Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi

Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche di periodi storici rendono conto di un passaggio epocale, scandito simbolicamente dalla morte di due ultranovantenni protagonisti della politica degli anni Ottanta: Michail Sergeevič Gorbačëv ha incarnato la fine della Guerra Fredda – con tutto ciò che la sua archiviazione ha significato per la spartizione di tasselli sullo scacchiere internazionale che facevano rigidamente riferimento all’una o all’altra grande potenza. La contrapposizione per blocchi è apparentemente un modello di rapporti tra grandi potenze che torna a riconfigurarsi, e di cui dovremmo analizzare cosa può riproporsi e in quali modalità, considerando anche il progresso delle comunità da depredare a trent’anni dalla caduta del muro e dalla trasformazione dei regimi marxisti-leninisti sostenuti dall’Urss in Africa.
Elisabeth Windsor-Mountbatten è stata la più rigida conservatrice dell’impero britannico così come le era stato consegnato, opprimendo con brutalità (fin dall’inizio soffocando le richieste di emancipazione dei Mau-Mau in Kenya); la spasmodica attenzione dei media francesi per le sue esequie è una buona cartina al tornasole, perché evidenzia la sensazione dei regicidi francesi che i destini delle due ex potenze coloniali siano strettamente correlati, angosciando gli ancora tanti nostalgici della grandeur, ma anche galvanizzando gli anticolonialisti come “Mediapart”, che preconizzano che, dopo il bagno di folla ebete dei funerali «Con la morte della regina Elisabetta II, il velo di oblio o di cecità intenzionale che ha coperto la mente pubblica britannica sul suo passato imperiale e coloniale scomparirà. I dannati della memoria si alzeranno in piedi e parleranno». E dopo il processo indipendentista a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta – che ha richiesto la trasformazione dell’approccio e dei processi di occupazione di territori, il loro saccheggio e il condizionamento economico –, ora non è l’emancipazione delle comunità autoctone ma la ripresa dell’espansione di quel colonialismo russo nel Continente nero (che i processi di apertura di Nikita Sergeevič Chruščëv prima e poi di Gorbačëv avevano trasformato, ridimensionandolo) a premere sulle acciaccate potenze coloniali europee.
E di nuovo l’impegno di Mosca sorge nel momento in cui la tensione ha il sopravvento sul multilateralismo. Queste pulsioni, assimilabili alle esigenze che spingono la Realpolitik turca a espandere la propria sfera di influenza su alcuni angoli africani, aggiungono un elemento che configura il neoimperialismo, echeggiando altri momenti epocali in cui si è assistito a conflitti di blocchi contrapposti: neo-ottomanesimo e neozarismo possono sperare che la divisione europea ridimensioni l’egemonia occidentale, approfittando di una nuova Guerra Fredda da cui trae linfa l’espansionismo autocratico nella realtà africana.
Fin qui OGzero, ma questo sproloquio attinge alle suggestioni e ai dati esibiti da Angelo Ferrari nei suoi due originali obituary. E non a caso iniziamo dallo studio sul rilancio del Commonwealth (l’espressione imperiale britannica rivale di quella zarista e dei sultani) che paradossalmente ottiene nuovo slancio dalla morte della simbolica depositaria per 70 anni della potenza inglese, dacché era già sovrana – ingombrante figura difficile da adeguare alle istanze indipendentiste dell’impero senza modificarne l’icona (interessante come nell’articolo di Angelo non venga citata, ma aleggi il venir meno di una prassi pluridecennale caratteristica del suo lungo regno) – quando gli stati decolonizzati entrarono nell’organizzazione grazie alla Dichiarazione di Londra che riformava il vecchio Commonwealth con un compromesso costituzionale, proprio in quegli stessi primi anni Sessanta che costrinsero alla apertura con la prima parziale sospensione della Guerra Fredda.

Ora il Commonwealth rappresenta una valida alternativa per la cooperazione economica tendente a 2 trilioni di scambi. Per gli altri c’è l’“amicizia” predona della Wagner, che non chiede conto alle leadership cresciute militarmente a Rostov (o disposte a scommettere di restituire i prestiti ai cravattari cinesi), di certo non è l’epilogo immaginato dalla perestrojka africana.


Il Commonwealth sempre più africano

Londra sta intensificando la sua presenza nel continente africano attraverso rapporti bilaterali, vuole – è stata la promessa fatta da BoJo nell’ultimo vertice afro-britannico a Londra il 20 gennaio 2020 – incrementare i suoi investimenti ed espandere il suo mercato. Vuole diventare il maggior investitore sul continente africano e superare gli altri membri del G7 e stiamo parlando di Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Giappone e mettiamoci anche l’Italia.

Carta d’identità dell’organizzazione

Il Commonwealth è il più grande gruppo di nazioni che non coinvolge la Russia o la Cina e gli conferisce, sono parole della Truss, «un peso crescente sulla scena mondiale». Quanto può valere entrare nell’ormai grande famiglia? Secondo Patricia Scotland, segretario generale dell’organizzazione nata sulle ceneri dell’impero britannico e andata ormai oltre le ex colonie di Londra, già oggi il commercio tra i paesi membri vale 700 miliardi di dollari. Ma l’obiettivo, anche guardando gli ultimi ingressi, Togo e Gabon, è di superare i 2 trilioni di dollari entro il 2030.
Il Commonwealth è un’organizzazione che conta 56 nazioni per un totale di 2,5 miliardi di abitanti, con un Prodotto interno lordo che si prevede salirà a 19,5 trilioni di dollari nei prossimi cinque anni.


Il Gabon, che si affaccia sul Golfo di Guinea, ultimo arrivato nell’organizzazione è un paese con una superficie boscosa molto rilevante ed è destinato a svolgere un ruolo importante nel commercio dei crediti di carbonio per combattere il cambiamento climatico. E questo, per Londra, è un vantaggio non da poco.

Strategia in chiave anticinese

Londra vuole aprire le sue porte all’Africa e il Commonwealth (oggi conta 21 paesi africani: Sudafrica, Ghana, Nigeria, Sierra Leone, Uganda, Kenya, Malawi, Tanzania, Zambia, Gambia, Botswana, Lesotho, eSwatini, Seychelles, Namibia, Camerun, Mozambico, Nauru, Ruanda, Gabon, Togo) potrebbe diventare la chiave di volta. Ma non solo. Nelle strategie di Londra rientra anche il contrasto alla Cina e in Africa la sfida sembra quasi improba. Ciò era negli intenti dell’ex premier Boris Johnson, ma ribaditi dall’attuale prima ministra, Liz Truss, che è stata molto chiara.

Il Regno Unito deve aumentare l’interscambio commerciale con i paesi del Commonwealth per contrastare la «grave minaccia della Cina ai nostri valori e al nostro modo di vivere, e firmare accordi commerciali con procedure accelerate con gli stati così da aiutare il Regno Unito e altre democrazie a vincere la lotta contro gli stati autoritari».

Truss ritiene che legami economici più stretti aiuteranno ad annullare lo schema della Belt Road Initiative della Cina in base alla quale Pechino ha finanziato progetti in dozzine di paesi in via di sviluppo che si sono rivelati come una “coercizione economica”.

Per allargare il mercato cade la pregiudiziale democratica

Tutti vogliono entrare nel Commonwealth e Londra apre le porte a chiunque, rinunciando anche ai principi fondativi dell’organizzazione delle ex colonie britanniche. Non guarda se è un paese è democratico, se rispetta i diritti fondamentali delle persone. Tutto questo, dopo la Brexit, non conta. Londra sembra avere mani libere, tanto da accettare nell’organizzazione membri che non hanno legami storici con il Regno Unito. Contano gli investimenti e le potenzialità di mercato che offre chi entra nell’organizzazione.

«In passato alcuni paesi africani non avevano relazioni con i paesi del Pacifico o con i paesi anglofoni», ha spiegato il ministro degli Esteri del Gabon – ex colonia francese – Michael Moussa-Adamo, ma ora «ci stiamo allargando e stiamo ottenendo nuovi partner internazionali, rafforzando la nostra economia».

Dinastie africane nell’organizzazione della dinastia britannica

Dati gli obiettivi che si prefigge è evidente che qualsiasi stato è ben accetto. «Il Commonwealth – ha spiegato Scotland – ha iniziato con otto nazioni nel 1949, è cresciuta fino a raggiungere 56 nazioni. La nostra continua crescita, al di là della nostra storia, riflette i vantaggi dell’appartenenza al Commonwealth e la forza della nostra nazione. Sono entusiasta di vedere questi vivaci paesi unirsi alla famiglia e dedicarsi ai valori e alle aspirazioni della nostra Carta» (“360Mozambique”).

È del tutto evidente che la “Carta”, oggi, conta ben poco. Se l’organizzazione dovesse tenere fede ai suoi principi non potrebbe accettare nelle sue file paesi come il Gabon e il Togo che non hanno nulla a che fare con una democrazia moderna.
Il Gabon più che uno stato è una monarchia governata da sempre dalla dinastia dei Bongo Ondimba, padre e figlio, stiamo parlando di oltre cinquant’anni di regno (però i Windsor sono avvezzi a questo tipo di regime, ma proprio il Gabon può rappresentare un ponte tra gli imperi, visto che era in quota sovietica fino al crollo del Pcus). E anche il Togo non è da meno: l’attuale presidente, Faure Gnassingbé detiene il potere dal 2005, ma lo ha ereditato dal padre che lo gestiva in maniera dittatoriale dal colpo di stato del 1967.
Ma anche il Ruanda, che ha ospitato l’ultimo vertice del Commonwealth a fine giugno 2022, non sarebbe un paese “idoneo”, perché nelle sue carceri sono ancora detenuti oppositori, giornalisti indipendenti e youtuber critici con le autorità ruandesi.

Centro congressi di Kigali, sede della convention del Commonwealth 2022

Paul Kagame è presidente del Ruanda dal 1994 quando entrò a Kigali da trionfatore e liberatore, ha modificato la Costituzione così da permettergli di governare il paese fino al 2034. Per non parlare di un altro membro del Commonwealth, il Camerun. Il paese è “guidato” dal 1982 da Paul Biya, ma se aggiungiamo i sette anni da primo ministro, 1975-1982, è al potere da 47 anni.


Le aree di interesse evidenziate dalle citazioni di paesi aderenti alla sfera britannica, poste a confronto con quelle evocate dal mondo sovietico africano, mostrano una vera e propria spartizione tra i due imperialismi che non sovrapponevano i domini. Le incursioni russe e turche in Sahel, Centrafrica e Corno d’Africa entrano in diretta concorrenza soprattutto con l’imperialismo francese, quello più debole e impreparato, perché ancora troppo fondato sull’occupazione militare, ambito in cui i contractor russi e i miliziani turchi sono più efficaci su quel terreno.


Con la fine dell’Urss cambiarono i giochi di potere in Africa… erano solo sospesi?

Cosa ha comportato la scomparsa dell’Urss e quali le conseguenze per chi deteneva il potere? I regimi alleati del blocco orientale, per esempio, furono costretti a riformarsi o cadere.
L’opera intrapresa da Michail Gorbačëv di riforma del sistema sovietico negli anni Ottanta e di disgelo delle relazioni internazionali, cambiando radicalmente la situazione internazionale, ha avuto ripercussioni ed effetti importanti anche per il continente africano. La scomparsa dell’Urss dallo scacchiere africano ha costretto i regimi alleati del blocco orientale a riformarsi o cadere. Nella prima categoria, Angola e Mozambico sono stati costretti a entrare in processi di democratizzazione che hanno posto fine alle guerre civili, prima Maputo e poi Luanda.

Superamento del colonialismo lusitano

Frelimo/Renamo

In Mozambico il sostegno dell’Unione Sovietica si è rivelato fondamentale per la sopravvivenza del paese negli anni Ottanta del secolo scorso. Le spinte anticoloniali portarono i movimenti indipendentisti a coalizzarsi nel movimento armato Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico) e dopo dieci anni di guerriglia contro i coloni portoghesi, il paese ottiene l’indipendenza nel 1975. Iniziò una campagna di nazionalizzazione delle piantagioni e furono costruite scuole e ospedali per i contadini. Una rivoluzione di stampo sovietico. Il Frelimo sostenne le forze rivoluzionarie in Rhodesia e Sudafrica. I governi di questi paesi, appartenenti al blocco occidentale, risposero sostenendo i ribelli mozambicani della Renamo. Ne scaturì un’atroce guerra civile che terminò con gli accordi di pace di Roma del 1992 da cui nacque una nuova costituzione di stampo multipartitico. Il Frelimo, nelle elezioni libere tenute negli anni successivi si confermò sempre il primo partito del Mozambico.

Mpla/Unita

In Angola la situazione era abbastanza simile. Il Movimento per la liberazione dell’Angola, che lottò con determinazione contro i colonizzatori portoghesi, ottenendo l’indipendenza nel 1975, portò il paese nell’orbita sovietica e instaurò un regime totalitario. Di contro il blocco occidentale, per far valere i suoi interessi, sosteneva un gruppo di ribelli sotto il nome di Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola.
Da questo scontro iniziò una guerra civile durata oltre un ventennio al termine della quale vennero firmati gli accordi di pace che portarono alle prime elezioni nel 1992. Le ostilità, tuttavia, continuarono e terminarono solo dopo l’uccisione del leader dell’Unita, Jonas Savimbi, nel 2002. Il paese, dall’indipendenza è sempre stato governato dall’Mpla e l’Unita ha sempre svolto un ruolo di opposizione. Ma il padre della patria, Eduardo dos Santos, si è trasformato presto in un cleptocrate, governando il paese con pugno di ferro fino al 2017.

Il passaggio dalla geopolitica alla geoeconomia

In Mozambico e Angola i regimi, riformati, sono sopravvissuti, mentre in Etiopia, nel 1991, Menghistu, soprannominato il “Negus rosso”, viene estromesso dal potere.

Mandela/Mobutu

Proprio in quegli anni anche il Sudafrica è costretto a riformarsi ed è nel contesto della fine della Guerra Fredda che cade l’apartheid, che porta alle prime elezioni multirazziali del 1994 e la Namibia trova l’indipendenza. Anche gli interessi degli Stati Uniti per l’Africa cambiano di conseguenza, meno legati alla geopolitica e più all’economia. Il loro grande alleato nell’Africa centrale, Mobuto Sese Seko, dittatore dello Zaire, è costretto ad aprire il sistema politico e cedere, su pressione degli Stati Uniti, al multipartitismo. Soluzione che non porta alcun beneficio al paese, perché è sempre il dittatore che muove i fili, ma il paese crolla nel giro di pochi anni e si apre una fase di guerra permanente.

La perestroika africana

Benin, Congo, Mali, Niger…

Nel mondo francofono, sempre in quegli anni, soffia un vento di libertà. Era l’epoca delle Conferenze nazionali che avevano lo scopo di creare un clima democratico con la partecipazione di tutti. Il Benin fu il precursore nel 1990, il marxista Mathieu Keredoku fu sconfitto alle elezioni e si ritirò. Ma non andò così nella Repubblica del Congo, dove il presidente di allora, Denis Sassou Nguesso, continua a governare il paese. Fasi alterne vivono i paesi come il Mali, il Niger. Ma hanno una caratteristica comune: sono regimi poco democratici e accentratori del potere. La “perestrojka africana” che si poteva leggere tra le righe delle Conferenze nazionali non ha mai attecchito, anche se aveva suscitato molte speranze nelle popolazioni di questi paesi.

Rimane, tuttavia, il fatto che Gorbačëv si era adoperato per porre fine al mondo bipolare in cui l’Africa era alla mercè del gioco strategico di Washington e Mosca.

Secondo lo scrittore Vladimir Fedorovski, molto vicino all’ultimo leader sovietico, ai paesi africani mancherà il suo messaggio a favore di un mondo equilibrato: «Aveva un grande rispetto per il continente africano, che considerava il continente del futuro. Gorbačëv diceva che bisognava tener conto degli interessi delle diverse nazioni e trovare equilibri, e anche e forse essere prima di tutto africani. Sprecheremo somme da capogiro per la guerra, dimenticando che l’Africa è minacciata dalla carestia».

I primi a dimenticarsi delle parole di Gorbačëv sono stati proprio quei presidenti africani che si ispiravano all’Unione Sovietica. La Guerra Fredda non c’era più, ma le contrapposizioni rimangono e diventano sempre più complesse. Da una parte il mondo occidentale che cerca di frenare le aspirazioni di Mosca che, piano piano, sta rosicchiando pezzi di influenza occidentale. Il messaggio di Gorbačëv vale ancora oggi.

Dal 24 al 27 luglio, il ministro degli Esteri della Federazione russa, Sergej Lavrov, ha visitato quattro stati africani: Egitto, Repubblica del Congo, Uganda ed Etiopia. Non ha parlato di progetti o interventi. La sua missione era chiedere agli africani di schierarsi con la Russia contro l’Occidente, con un unico argomento: l’Occidente ha un passato coloniale e ha tuttora delle mire coloniali e imperiali.

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Mediterranean Shield: espansione Nato a sud https://ogzero.org/mediterranean-shield-espansione-nato-a-sud/ Fri, 08 Jul 2022 08:05:03 +0000 https://ogzero.org/?p=8103 Riprendiamo due articoli scritti da Angelo Ferrari per l’agenzia Agi correlati alla corsa al controllo del territorio saheliano, a partire dall’esigenza di contrastare l’avanzata di potenze coloniali alternative a quelle occidentali con la perentoria reazione di un’espansione Nato in epoca globalizzata: la sua estensione oltre le sponde meridionali del Mediterraneo attraverso accordi con potenze locali […]

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Riprendiamo due articoli scritti da Angelo Ferrari per l’agenzia Agi correlati alla corsa al controllo del territorio saheliano, a partire dall’esigenza di contrastare l’avanzata di potenze coloniali alternative a quelle occidentali con la perentoria reazione di un’espansione Nato in epoca globalizzata: la sua estensione oltre le sponde meridionali del Mediterraneo attraverso accordi con potenze locali a fungere da satrapi ma sotto l’egida di un’alleanza che si estende sull’intero pianeta. Il vecchio approccio francese che fino a pochi mesi fa non poteva immaginare qualunque forma di autonomia locale va cestinato e ripensato completamente. Ma da nuovi protagonisti. 


Lo Scudo Nato a Sud

La Nato volge il suo sguardo anche a sud del Mediterraneo, in particolare verso il Sahel. E questa sembrerebbe una novità se non fosse che già nel passato la Nato è intervenuta nella gestione delle crisi su richiesta dell’Unione Africana (Ua). L’esordio è del 2005 quando, con l’acuirsi della crisi del Darfur, la Nato ha accolto la richiesta della Ua di supportare la sua missione di peacekeeping in Sudan. Poi nel 2009 la richiesta, sempre da parte della Ua di sostenere la missione in Somalia. Poi nel 2009 con l’operazione “Ocean Shield” per la lotta contro la pirateria nel Corno d’Africa. Per non dimenticare ciò che è successo in Libia a partire dal 2011. Sono solo alcuni esempi.

Con l’ultimo vertice della Nato a Madrid, che ha ridisegnato la postura dell’Allenza a livello globale puntando con più forza alla deterrenza e alla difesa collettiva, resta l’impegno verso la prevenzione e la gestione delle crisi con un focus significativo sul Nordafrica e il Sahel. Di sicuro l’Italia può dirsi soddisfatta del linguaggio usato nel nuovo Concetto strategico – come scrive su “Affarinternazionali.it”, Elio Calcagno – rispetto a una regione di primario interesse per il paese. Tuttavia il capitale politico, militare ed economico dell’Allenza verrà inevitabilmente incanalato verso est e verso la minaccia russa. L’Italia, dunque, dovrà giocare un ruolo più propositivo e concreto sul fianco sud in ambito Nato di quanto abbia fatto fino a oggi. Roma non può permettersi di stare a guardare e non può essere uno spettatore passivo come in Libia.

Necessari nuovi approcci alle crisi nelle marcoaree

La gestione e la prevenzione delle crisi, in particolare nel Sahel, dovranno necessariamente passare attraverso una “richiesta” dell’Unione africana e il consenso dei paesi coinvolti. E visto il clima antioccidentale che regna in questa regione dell’Africa è abbastanza complesso che i governi saheliani si affidino all’Alleanza per risolvere le crisi interne, senza dimenticare, poi, la forte presenza della Russia in quell’area.

Detta in parole povere la lotta al terrorismo nel Sahel non può essere camuffata come deterrenza nei confronti della minaccia russa. Insomma, i paesi dell’area saheliana hanno dimostrato, finora, di privilegiare il rapporto con Mosca. Un esempio eclatante è il ritiro dal Mali dei francesi con l’operazione Barkhane e di quella europea Takuba. Un bel rompicapo.

Soldati dell’operazione Barkhane in Mali (foto Fred Marie / Shutterstock)

Fino ad ora tutto è sulla carta ma alcune fughe in avanti di qualche ministro degli Esteri europeo, fanno già discutere nel Sahel. In particolare in Mali dove l’ambasciatore spagnolo a Bamako, Romero Gomez, è stato convocato dal ministro degli Esteri maliano, Abdoulaye Diop, dopo le parole del suo omologo spagnolo, Manuel Alvares che in una dichiarazione non escludeva un possibile intervento della Nato in Mali.

Diop non le ha mandate a dire e in un’intervista ha spiegato: «Oggi abbiamo convocato l’ambasciatore spagnolo per sollevare una forte protesta contro queste affermazioni. L’espansione del terrorismo nel Sahel è principalmente legata all’intervento della Nato in Libia, le cui conseguenze stiamo ancora pagando».

Parole dure, ma Diop non si ferma qui, ha infatti definito le affermazioni del suo omologo spagnolo “ostili, gravi e inaccettabili”, perché «tendono a incoraggiare l’aggressione contro un paese indipendente e sovrano». L’ambasciata spagnola, in un tweet, ha cercato di smorzare i toni spiegando che la «Spagna non ha richiesto, durante il vertice della Nato o in un qualsiasi altro momento, un intervento, una missione o qualsiasi azione dell’Alleanza in Mali». L’occidente dovrà abituarsi a questa ostilità che, in parte, è persino giustificata dalle missioni militari francesi ed europee nell’area.

Secondo il direttore del Centro studi sulla sicurezza dell’Istituto francese di relazioni internazionali (Ifri), Elie Tenenbaum, la Francia, ma anche l’Occidente nel suo insieme, deve “pensare” una nuova strategia, perché attualmente la «dinamica strategica produce l’opposto di ciò che si è prefissa». L’analista sostiene che i tentativi di entrare in partenariato con gli attori locali ha prodotto attriti – il Mali ne è un esempio –: i francesi hanno cercato di arginare il deterioramento della sicurezza in Sahel ma non ci sono riusciti. Nel difendere i propri interessi la Francia non ha fatto altro che alimentare un sentimento antifrancese.

Ma il problema su tutti è quello di avere trascurato le ambizioni russe, turche e cinesi

Attori nello scacchiere africano molto più spregiudicati e soprattutto meno interessati alle politiche interne dei paesi con cui diventano partner. La Francia, invece, non ha fatto altro che continuare, anche “sottobanco”, a determinare le politiche interne delle ex colonie, a “scegliere” chi di volta in volta avrebbe governato. Insomma, un’ingerenza inizialmente mal sopportata e ora totalmente avversata da buona parte delle popolazioni saheliane, certo con gradazioni diverse, ma pur sempre penetrante.

È chiaro che l’occidente dovrà ripensare completamente la sua strategia globale nel Sahel e nell’Africa occidentale se non vuole essere “sfrattato”. Ciò lo chiedono anche le opinioni pubbliche, in particolare quella francese, che cominciano a non capire più le politiche postcoloniali della Francia e quelle dell’Europa che sembra avere come unico obiettivo quello di spostare sempre più a sud il confine del Mediterraneo per arginare i flussi migratori.

Parigi vs Mosca in Françafrique

In Niger per rendere meno urticante la presenza francese in Sahel

La Francia cambia strategia nel Sahel, almeno ci prova. Dopo il ritiro dal Mali, che dovrebbe completarsi entro l’estate, Parigi trasferisce la sua presenza in Niger, paese diventato strategico per tutta la comunità occidentale. La sfida di Parigi è quella di mantenere una presenza nell’area per non vanificare la sua influenza storica, anche se è ormai messa a repentaglio da un sentimento antifrancese diffuso e alimentato ad arte dalla Russia, che esprime nella regione una politica molto aggressiva.

Dunque, un cambio di passo. L’esercito francese intende intervenire a “sostegno” e non più in sostituzione degli eserciti locali. Ma questo dipenderà, soprattutto, dalla volontà degli stati africani. Sono frenetiche le consultazioni e gli scambi tra capitali saheliane, Parigi e le capitali europee. Francesi ed europei si stanno muovendo in direzione di una maggiore cooperazione a seconda delle richieste dei paesi africani.

Dopo lo schiaffo maliano, Parigi intende operare non più da “protagonista” ma in seconda linea. Un modo per ridurre la visibilità della sua azione che finora ha dimostrato di essere un “irritante” per le opinioni pubbliche africane, ma di certo manterrà una presenza nella regione di influenza storica. L’attenzione si concentrerà in Niger, nuovo partner privilegiato, dove i francesi manterranno una presenza con circa mille uomini e capacità aeree. Quindi verrà avviato un partenariato strategico spiegato dal comandante del quartier generale, Hervé Pierre:

«Oggi invertiamo completamente il rapporto di partnership: è il partner che decide cosa vuole fare, le capacità di cui ha bisogno e controlla lui stesso le operazioni svolte con il nostro supporto. È il modo migliore per continuare ad agire efficacemente al loro fianco».

L’obiettivo di Parigi sarebbe quello di non irritare i partner e operare con discrezione, ma occorre anche sottolineare una mancanza di direttive chiare dell’esecutivo francese sulla prosecuzione delle operazioni. Si attendono “ordini” dalla politica in un quadro interno, dopo le legislative, molto complicato. L’opinione pubblica d’oltralpe non comprende più la politica postcoloniale della Francia.

Ciad, Burkina e sospettosamente il Golfo

Il quartier generale francese dell’operazione che succederà all’estinta Barkhane sarà mantenuto, per il momento, a N’Djamena, in Ciad, con cui la Francia ha un accordo di difesa. Ma la sua forza lavoro sarà ridotta. Per quando riguarda il Burkina Faso, dove altri civili sono stati uccisi per mano dei jihadisti nel fine settimana, sta ricevendo l’aiuto francese ma rimane perplesso sul fatto di una intensificazione della presenza sul terreno. Anche qui la propaganda antifrancese, ma soprattutto il sentimento che ne deriva, hanno attecchito molto bene.
Oltre a contribuire a contenere la violenza jihadista che minaccia di diffondersi nel Golfo di Guinea, la sfida per Parigi nel mantenere una sua presenza militare è quella di evitare un declassamento strategico, in un momento di accresciuta competizione sulla scena internazionale. In Africa occidentale i russi stanno perseguendo una strategia di influenza aggressiva, anche attraverso massicce campagne di disinformazione antifrancesi.

Le mosse Wagner

L’intelligence, infatti, sta monitorando gli attacchi compiuti da Wagner sui i social network che hanno superato i confini del Mali, e si stanno diffondendo in Africa. Un’ossessione francese? Non proprio, perché Mosca è riuscita a strappare all’impero d’oltralpe il Mali, si appresta a fare altrettanto in Burkina Faso, la Repubblica Centrafricana è saldamente nelle mani dei russi, e si stanno moltiplicando gli accordi militari con molti stati dell’area. Una penetrazione, tuttavia, che non è dell’ultima ora. È tempo che i russi stanno cercando di tornare ad avere un ruolo decisivo e strategico in Africa, dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, consapevoli che non hanno molto da offrire sul piano commerciale ed economico, ma su quello militare e degli armamenti sì.

L’irritazione di Parigi è evidente. I nervi sono scoperti e lo chiarisce bene, in un’intervista a Radio France International, l’attuale comandante dell’operazione Barkhane, il generale Laurent Michon:

«La manipolazione della popolazione esiste, si diffondono enormi bugie sul fatto che armiamo gruppi terroristici, rapiamo bambini, lasciamo fosse comuni. È facile fare da capro espiatorio a persone che stanno attraversando situazioni umanitarie e di sicurezza estremamente difficili. C’è stata una manovra di disinformazione sulle reti, con mercenari Wagner che seppellivano cadaveri a Gossi, per accusare i francesi. Per la prima volta l’esercito francese ha deciso di spiegare come si fanno le cose nella vita reale, declassificando e mostrando le immagini dei droni. Vivono nel paese (i Wagner, N. d. A.), depredano, commettono abusi, hanno le mani sull’apparato di comando dell’esercito maliano e fanno le cose alle spalle dei leader. La reazione migliore è rispettare i nostri valori, essere chiari su ciò che stiamo facendo e lasciare che i giornalisti africani ed europei vengano a vedere, fare qualche verifica sui fatti. L’arma migliore è l’informazione verificata e sottoposta a controlli incrociati».

Approccio militare o cooperazione: il dilemma dell’Eliseo

La confusione regna sovrana e Parigi, anche senza ammetterlo, si rende conto che un declassamento strategico è in atto, ciò che si chiede è se è un fatto inesorabile oppure si possono, ancora, recuperare posizioni e, soprattutto mantenere una presenza che salvaguardi i propri interessi. L’operazione Barkhane, per essere gentili, è stata un fallimento. La Francia, invece, dovrebbe chiedersi se la strategia militare, che prevale su quella della cooperazione allo sviluppo, sia vincente.

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La strategia del grano https://ogzero.org/la-strategia-del-grano/ Fri, 10 Jun 2022 16:01:50 +0000 https://ogzero.org/?p=7867 Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento […]

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Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento prima del 24 febbraio e che sono periodiche le rivolte del pane (anche dopo il 2011 delle Primavere arabe).
La guerra è stata solo il la ciliegina su una torta immangiabile per i 20 milioni di potenziali morti per fame che la contingenza può creare e i due autocrati di Astana si stanno mettendo d’accordo anche in questo caso per spartirsi guadagni e prestigio nei paesi africani sbloccando la situazione del Mar Nero con il blocco delle tonnellate di grano ammassato nei silos ucraini che rappresentano comunque soltanto l’8 per cento del prodotto annuale mondiale. Un’arma ibrida come le bombe di migranti gettate ai confini, che si produrranno anche attraverso questa nuova fame indotta dalla guerra sarmatica. Ma non solo: esistono infinite esponenziali conseguenze al conflitto (e allo scellerato agribusiness, all’intollerabile landgrabbing, allo sfruttamento coloniale, che hanno preparato il terreno alla fame globale) che portano alle scelte strategiche dei singoli stati vincolati in qualche modo ai prodotti russi (per esempio il Brasile) e il ritorno d’immagine per i popoli affamati d’Africa che si troveranno a ringraziare i garanti russo-turchi delle forniture alimentari di cui sono responsabili per l’improvvisa carenza; senza contare la stagflazione ormai globale e l’indebitamento generalizzato.
Per questo riprendiamo, con l’accordo dell’autore – che ringraziamo –, un pezzo di Angelo Ferrari scritto per l’Agi sul ritorno delle mosse russo-turche nei paesi africani a rischio di carestia per la carenza di approvvigionamenti di cereali, a cui alleghiamo il podcast di un intervento di Alfredo Somoza su Radio Blackout a proposito delle cause globali della carestia.


La guerra del grano deve essere risolta nel più breve tempo possibile e vincerla non è solo una questione di “buon cuore”, ma anche strategica. I numeri dimostrano che la carestia potrebbe colpire oltre 400 milioni di persone. A questi si debbono aggiungere tutti coloro che vivono con gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite. Il Corno d’Africa e gran parte del Sahel si apprestano ad affrontare una carestia senza precedenti (Human rights watch) che, indubbiamente, sarà aggravata dalla guerra in Ucraina. Sbloccare centinaia di milioni di tonnellate di grano nei silos nei porti ucraini è dunque una priorità per scongiurare una catastrofe umanitaria che avrà ripercussioni globali che potrebbero durare anni. Molto attivi su questo fronte sono i turchi e i russi, anche se un accordo chiaro che garantisca tutti, in primo luogo gli ucraini, sembra lontano dall’essere siglato.

La penetrazione russa

La Russia, come stiamo vedendo in questi giorni, ha tutto l’interesse a scaricare sull’Occidente la responsabilità di una possibile crisi alimentare globale. Un interesse che non deve stupire. Di sicuro, come è già avvenuto, farà partire le sue navi cariche di grano dai porti ucraini conquistati sul mar d’Azov. Grano rubato, secondo gli ucraini. Grano di loro proprietà secondo Mosca. Al di là di chi abbia ragione questa è la realtà. Le navi hanno fatto rotta verso l’Africa dove la presenza russa si fa sempre più penetrante.
Il caso del Mali, nel Sahel, è l’aspetto più eclatante. È riuscita a “cacciare” la Francia da un’ex colonia. Poi c’è la Repubblica Centrafricana, anch’essa ex colonia francese. Qui la presenza russa è ancora più evidente. Senza dimenticare il Burkina Faso e ancora i recenti accordi militari e di sicurezza tra il Camerun e Mosca. Nel mirino di Putin c’è anche il Ciad, dove nella capitale N’Djamena ci sono state manifestazioni antifrancesi molto violente. Il sentimento antifrancese e antioccidentale sta dilagando in gran parte del Sahel e Mosca lo cavalca e incoraggia abilmente.

L’attivismo turco

Dall’altra parte del tavolo negoziale c’è la Turchia, il sultano Recep Erdoğan, che non fa nulla senza che ne abbia un tornaconto significativo. Anche Ankara ha interessi diffusi in Africa. Oramai è un po’ ovunque, ha stretto accordi commerciali, di fornitura di armi, ma anche si sta impegnando molto sul fronte dell’aiuto alimentare, come in Somalia. La forza della Turchia in Africa è assai maggiore di quella russa. Dal 2004 Erdoğan ha fatto più di 50 viaggi nel continente africano e visitato oltre 30 nazioni. Solo nell’ottobre del 2021 il capo di stato turco ha visitato Angola, Nigeria e Togo e nello stesso mese, Istanbul ha ospitato leader aziendali e dozzine di ministri degli stati africani per un vertice volto specificatamente ad aumentare il commercio. Nei primi mesi del 2021 il commercio bilaterale Turchia-Africa ha raggiunto i 30 miliardi di dollari e l’obiettivo della Turchia è di aumentarlo ad almeno 50-75 miliardi di dollari nei prossimi anni. Inoltre circa 25.000 lavoratori africani sono attualmente impiegati nel continente da aziende turche in progetti del valore di 78 miliardi di dollari e più di 14.000 studenti africani hanno studiato in Turchia. Il numero degli ambasciatori turchi distaccati nel continente è passato dai 12 del 2005 ai 43 nel 2021, mentre il numero degli ambasciatori africani ad Ankara è passato da 10 a 37. «Miriamo ad aumentare il numero dei nostri ambasciatori fino a 49», ha detto Erdoğan, affermando che il vertice di Istanbul ha dato luogo a sessioni congiunte a livello ministeriale nei settori della sanità, dell’istruzione, dell’agricoltura e della difesa. Turkish Airlines vola verso 61 destinazioni in Africa, l’Agenzia turca di cooperazione e coordinamento (Tika) ha 22 uffici locali, la Fondazione Maarif gestisce 175 scuole in 16 paesi e la presidenza dei turchi all’estero e delle comunità correlate offre borse di studio a oltre 5000 studenti africani. Una potenza di fuoco enorme che ha anche lo scopo di ottenere il sostegno africano per un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.Per Ankara, dunque, arrivare a una soluzione negoziata sul grano ucraino sarebbe un grande successo e rafforzerebbe i legami già molto stretti con l’intero continente. Obiettivo che ha anche lo zar di Mosca. Putin e Erdoğan, su questa partita si intendono benissimo. Tutto ciò avrebbe, inoltre, anche lo scopo di allontanare sempre di più il continente africano dall’influenza occidentale, sostituendola con quella turca e russa. La Cina, vera padrona del continente, sta a guardare anche perché non ha competitor. Vincere la guerra del grano non è solo una questione di buon cuore, ma ha una valenza strategica tale da spostare gli equilibri anche in Africa, dove quasi la metà degli stati non ha votato o si è astenuta per la risoluzione delle Nazioni Unite di condanna all’invasione russa dell’Ucraina. Di sicuro, se Erdoğan avrà ragione in questa partita, sarebbe la sconfitta dell’occidente – oltre che quella dell’Onu – la cui diplomazia non fa altro che accusare Mosca della catastrofe alimentare. Non basta. Agli africani di certo non basta.

Ascolta “Dormi sepolto in un campo di grano” su Spreaker.

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Le città visibili https://ogzero.org/studium/le-citta-visibili/ Fri, 29 Apr 2022 16:47:51 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7172 L'articolo Le città visibili proviene da OGzero.

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OGzero nelle città

È possibile individuare un genius loci che rappresenti una costante nel tempo e negli spazi urbani utilizzati? Nella collana “Le città visibili”, sì.

Città rese visibili attraverso la narrazione dell’esperienza personale degli autori, coadiuvati dalle voci dei testimoni e degli abitanti che forniranno un’interpretazione del territorio, della sua trasformazione e degli elementi alieni che proliferano tramite flussi di merci e di persone a provocare le contrazioni di spazi, come le loro estensioni, urbane e demografiche. Autori che esamineranno le strategie di conservazione monumentale e di “reinterpretazione delle rovine” viaggiando tra smart cities, improntate alla sicurezza digitale, che accentuano – costituendosi come ascensori e discensori sociali – la differenza nella struttura e nella mobilità urbana tra periferie e downtown. Esploreranno i luoghi di aggregazione attorno allo scambio di merci, come i mercati popolari e i centri della grande distribuzione, cercheranno di illustrare il cambio di destinazioni d’uso che prelude ai grandi progetti di infrastrutture e di conseguenza l’impatto sul tessuto urbano. Impossibile non collegare a tutto ciò i flussi migratori, con l’inclusione di nuovi arrivi e l’evoluzione della loro tipologia e l’eventuale marginalizzazione dei migranti – interni o esterni che siano; a cui si correlano anche l’esclusione di massa e lo svuotamento di aree, le ghost-town e i quartieri già progettati e costruiti come ghetti, o la gentrificazione causata da interessi immobiliari.
Gli autori di questa serie ci porteranno per mano nei loro luoghi del cuore, come guide capaci di farci sentire l’atmosfera delle città, permettendoci di intuirne realmente le attuali peculiarità senza dimenticare la Storia passata per quelle strade.

Clicca qui sotto sul nome della città per approfondire



Già Visibili in libreria


GERUSALEMME NAIROBI FREETOWN LUSAKA BANGKOK BRAZZAVILLE BOBO-DIOULASSO

In questa sezione venite indirizzati a materiali e indicazioni inerenti ai volumi già pubblicati nella collana dedicata alle città rese visibili attraverso la penna e gli occhi di autori che conoscono bene il genius loci di ciascuno di quei territori che han dato luogo a quella realtà urbana identificata dal nome della città in copertina.



Visibilità ancora in preparazione


ISTANBUL BEIRUT BUENOS AIRES BAMAKO PECHINO KIGALI PANAMÁ y COLÓN

La produzione di un libro proviene da un lungo percorso di individuazione della città che può suscitare interesse all’interno della collana, del suo potenziale autore e poi lo sviluppo del testo a seguito della raccolta degli argomenti e delle testimonianze, delle immagini e delle mappe da integrare. Ma anche del confronto e della elaborazione della sostanza che sta costituendo la base del futuro volume in via di realizzazione. Queste sono per ora le città su cui abbiamo cominciato a focalizzare la nostra attenzione e che sono già state affidate alla penna di esperti conoscitori di quelle comunità urbane.

Intanto traspaiono potenziali visibilità altrove…


Esistono poi situazioni urbanistiche e di agglomerazione umana particolarmente interessanti e che non riusciamo ancora a ricondurre a un formato editoriale di pubblicazione da proporre in libreria. Però assumono già una forma tale che… racchiudono già in embrione una… svolgono una narrazione riconducibile a… colgono una particolare situazione metropolitana che… riteniamo abbiano diritto a venire divulgate in questa sezione delle nostre proposte. Insomma finiscono con l’essere tutte collegate dal filo rosso della abitabilità di un territorio, dallo sviluppo della forma “città” e potrebbero contenere in sé un’idea che informa l’intera superficie metropolitana a cui ricondurre magari una nuova impresa libraria.

Per ora aggiungiamo queste suggestioni al dossier dedicato alle comunità urbane, come proposte di lettura collaterali ai volumi:

_ L’ultimo racconto di Diego Battistessa si dipana tra Savador de Bahia, Liverpool/Mancheser e prende spunto da Gorée/Saint-Louis. Il Triangolo del Mercantilismo

_ Avevamo cominciato con le favelas brasiliane. Il racconto di Diego Battistessa si dipana tra Rio de Janeiro, São Paulo e Brasilia

_ E proseguito con il 40ennale della costituzione di Yamoussoukro, la capitale della Costa d’Avorio, descritta da Angelo Ferrari e fortemente voluta da Boigny

400 anni di modello geopolitico schiavista

_ Per fondare un Capitalismo duraturo bisogna “scoprire” territori da “colonizzare” esterni al mondo regolato da diritti, i cui abitanti vanno deumanizzati per motivare la loro schiavizzazione.
E questo è stato perpetuato dal sistema negli ultimi secoli con poche varianti, dettate soprattutto dalle esigenze della tecnologia e dalle richieste di beni da depredare e di genti da sfruttare.

_ La terra dei caporali: dovunque lo schiavismo perpetua il suo orrore c’è un Eichmann che obbedisce?
Quando Diego ci ha proposto di analizzare questa triangolazione di porti nel colonialismo storico abbiamo pensato che poteva essere utile individuare in quali meccanismi il capitalismo si è andato perpetuando fin dalle sue basi date dall’allargamento dei potenziali mercati di merci e braccia con le scoperte geografiche della modernità (che non a caso viene datata da quel periodo di nuove tecnologie come la polvere da sparo, e le nuove rotte marittime più convenienti), adattandoli via-via alla “tecnologia” più attuale che sostiene la logistica da un lato – tracciando le rotte –, e quali organizzazioni possono sovrintendere all’approvvigionamento di manodopera schiavizzata nell’interno, che si avvale di percorsi paralleli o subalterni alle stesse vie battute da armi, droga, merci grezze dall’altro. Questi sono i meccanismi innaturali che tengono in piedi il capitalismo, senza i quali quel sistema energivoro e oligarchico non potrebbe reggersi. E l’operazione di Diego funge molto bene da memoria di quel che è stata la culla dell’attuale sfruttamento globale della migrazione, ma anche a rievocare quegli stessi meccanismi inventati con il mercantilismo e che regolano tutt’ora economia, politica e morale.
Ovviamente maggiore è l’investimento e la conseguente copertura degli stati-nazione, più ampi sono gli interessi e più si allarga il coinvolgimento finanziario, incontrastabile anche se nocivo quando la soglia del capitale profuso supera il livello di rischio di rientro qualora l’operazione fallisse: sia essa incentrata su estrazione, sfruttamento, riduzione in schiavitù, saccheggio e occupazione di territorio, ammantato da regole di controllo commerciale adattate agli stati più potenti. E tuttora diversamente – ma non meno ferocemente – coloniali, a cominciare dall’apartheid israeliano.

_ Saccheggio e debito infrastrutturale: le triangolazioni imperialiste descritte dal presidente del Burkina Faso Ibrahim Traoré sembrano – nel tentativo di collegarsi all’insegnamento anticoloniale di Sankara – ricalcare le stesse impronte triangolari su cui si fonda il capitalismo dal mercantilismo Secentesco in poi, che è l’argomento di questa serie di articoli di Diego Battistessa attorno a tre città: Salvador de Bahia, Gorée/Saint-Louis, Liverpool/Manchester.
La triangolazione si ripete identica con i medesimi meccanismi del mercantilismo emerso con la nascita dell’epoca industriale, perché il depauperamento dei territori di provenienza è prodotto dal saccheggio delle risorse da parte del capitalismo globale che attinge ai beni africani attraverso l’estrattivismo e impone infrastrutture che creano debito per paesi che sono così schiacciati dalla finanza mondiale; attraverso l’ipocrisia della Comunità europea che stanzia fondi contro la fame e poi sottrae ai pescatori proprio di Saint-Louis i prodotti dell’Oceano per farne mangimi per salmoni destinati a tavole non esattamente affamate (film di Francesco De Agustinis, Until the end of the world); lasciando “sgocciolare” soltanto la gestione della manodopera ai livelli inferiori di mera manovalanza mantenuta nella miseria e marginalità – e in alcuni casi nemmeno quella –, in modo da essere spinta a emigrare nella terra dei caporali dove il marchio “clandestino” cancella i diritti, riproponendo il modello dell’apartheid; e dovunque abbassa i livelli di contrattazione delle classi lavoratrici. Una migrazione gestita attraverso le organizzazioni di intermediazione che usano gommoni quando va bene, se non scafi assemblati con saldature di pezzi di acciaio, imbarcazioni assimilabili alle galere dello schiavismo seicentesco. Ma più pericolose.

_ Meglio le stive delle galere di quelle dei barconi? Una tratta gestita da scafisti africani, ma organizzata grazie alle leggi degli europei che realizzano le condizioni perché i padroni possano usufruire di manodopera schiava a basso o nullo costo, facendo finta di chiudere le frontiere per lasciar passare solo i sopravvissuti tra i disperati pronti a tutto e privi di diritti, senza documenti e quindi inesistenti come umani: non pesano in nessun bilancio di spesa e nella stessa condizione degli africani deportati in America sulle galere.

_ Capitali europei, merci esotiche… schiavi africani. Forse per seguire il bandolo storico della matassa ordita da Diego Battistessa si può partire da Liverpool, dove si sono stanziati i denari per armare i vascelli, usando i proventi derivanti dal commercio di schiavi – e, se ci si chiede ancora come sia stato possibile che una cultura come quella inglese (in grado di pensare di ripulirsi la coscienza riconoscendo in un museo le sue colpe, esibendole e così annientando nuovamente la cultura africana, collocata in bacheca e resa innocua) abbia potuto ordire una tratta così razzista, bastano le immagini di agosto 2024 che ritraggono i fanatici sovranisti britannici impegnati nel loro sport preferito, la caccia all’emigrato.


Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

Anche se, mettendo al centro la manovalanza, salpare da Gorée (o meglio Saint-Louis) è probabilmente il moto più immediato, perché viene umanamente spontaneo seguire il destino dei deportati africani.


Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

O piuttosto considerare centrale Bahia, dove si assorbiva la manodopera schiavizzata e si caricavano preziose merci per i porti occidentali… Liverpool/Manchester in testa, a chiudere il cerchio di The Birth of a Capitalism (per parafrasare il film di Griffith, forse il più nazionalista, e razzista, della storia del cinema).


Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

Sta di fatto che l’importanza dei porti lievita con l’apertura di rotte commerciali globali che spostano sugli oceani gran parte del commercio dell’interno, che si configura come percorso per raggiungere il porto attrezzato più vicino e competitivo. Infatti questa triangolazione documentata da Diego Battistessa si inserisce in un sistema che creò molte altre triangolazioni e tutte si vanno conglobando all’interno di un unico sistema che sullo Schiavismo costituì (e continua a costituire) l’embrione dello sfruttamento globale chiamato Capitalismo.


Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

Le grandi capitali senza storia 

Capitali: sono le città che ospitano le sedi del governo di uno stato. Spesso sono rappresentative anche dello spirito del paese che le ospita, quando non capita è perché sono frutto di una operazione artificiale. Abbiamo già considerato l’atto di erigere capitali dal nulla, in particolare dando un quadro del sistema di potere militare birmano con la capitale Naypyidaw; oppure con la altrettanto spettacolare Brasilia –  comunque in questi 60 anni di “vita” maggiormente percorsa dalla Storia, non foss’altro perché il visionario che le ha insufflato lo spirito si chiamava Niemeyer.

Tutti esempi accomunati dalla pretesa di imporre una agglomerazione dove manca la comunità, tenuta insieme da cultura, storia, riconoscimento nazionale, riferimento amministrativo e commerciale, vie e snodo di traffici… tutte prerogative mancanti a Yamoussoukro

Tutto questo è sviluppato da Angelo Ferrari che coglie l’occasione del quarantesimo anniversario della hybris di Boigny, che volle far assurgere il suo villayet avito al rango di grande capitale. Ma ciò che non può vantare una grande tradizione, non è stata attraversata dalla storia o non può vantare grandi produzioni culturali è destinato a trasmettere un senso di vacuità, di artificioso e una freddezza che deriva dalla mancanza di sostrato culturale e di storie. Oltre che di Storia. Questa la descrizione di una capitale – Yamoussoukro – voluta dal dispotico padre della patria ivoriana.  


Yamoussoukro

Favelas nelle città

Favela: una parola brasiliana che oramai è entrata nel nostro lessico e nell’immaginario collettivo. Sei lettere che descrivono un luogo che abita una dimensione marginale, periferica e volontariamente dimenticata dallo stato. Favelado/a colui o colei che è costretto a una (non) vita nella favela.
La spinta all’industrializzazione dell’Estado Novo di Getúlio Vargas trascinò centinaia di migliaia di migranti nell’ex Distretto Federale all’interno del disegno del Estado Novo, creando un’esplosione delle baraccopoli, il cui nome istituzionale era ormai diventato favelas.

La sconfitta delle elite pauliste a livello nazionale con la dittatura di Getulio Vargas non portò però a uno stop di quell’impulso che trasformò completamente il volto urbano di São Paulo, coprendo i terreni delle vecchie fazendas con nuovi e moderni quartieri e proiettandosi verso un grande salto industriale che si sarebbe pienamente compiuto durante la Seconda guerra mondiale. São Paulo aveva già iniziato dunque quel cammino che l’ha portata oggi a essere la città più popolosa del Brasile e suo vero centro economico e finanziario. Negli stessi anni in cui a Rio de Janeiro, l’amministrazione pubblica istituzionalizzava le favelas, a São Paulo entrava in scena il futuro, sotto forma di un edificio oggi iconico, Esther…

Negli anni Quaranta su Rio si riversò un potente flusso migratorio. Su questi migranti stava però per abbattersi una nuova grande “disgrazia” economica, manifestatasi sotto il nome di Brasilia. Progettata infatti come una metropoli futuristica nel mezzo della pianura dello stato del Goiás, Brasilia fu inaugurata il 21 aprile 1960 dall’allora presidente Juscelino Kubitschek.

Un Brasile che viaggiava dunque a due velocità e che negli anni Settanta, con la dittatura militare, inaugurò un progetto politico di sradicamento della favela: furono cacciati fisicamente dalle loro case centinaia di migliaia di residenti. Durante l’amministrazione di Carlos Lacerda, molti furono trasferiti in progetti di edilizia popolare come Cidade de Deus.

Negli anni Ottanta si assistette invece allo scoppio della violenza associata al fiorente commercio di droga, che aveva fatto diventare le metropoli snodi logistici molto importanti per i carichi di cocaina destinati all’Europa. Le favelas, luoghi nei quali lo stato non esisteva, si riempirono di armi e lo spazio lasciato vuoto dalle istituzioni venne presto riempito da gruppi criminali.

Le favelas in Brasile, possono essere caratterizzate con ordini di grandezza diversi a seconda per esempio della densità demografica o dello sviluppo urbano delle stesse: in estensione verticale sulle colline (come quella di Vidigal a Rio de Janeiro) o in estensione orizzontale (come Cidade de Deus a Rio de Janeiro o Paraisópolis a São Paulo, in modo paradossale perché a ridosso di un’estensione verticale di un grattacielo di lusso al di là del muro – apparentando questo dossier con quello che OGzero va sviluppando sulle Barriere).

La tensione tra le due dimensioni abitative della città, quella delle favelas e quella “ordinata” del Brasile proiettato nel futuro, rimane alta. Un esempio di questo è il Parco Nazionale di Tijuca, situato nella zona Sud di Rio de Janeiro, considerato la più grande “foresta urbana” del mondo e dichiarata Riserva della Biosfera dall’Unesco nel 1991. L’integrità di quest’area è stata minacciata dall’avanzare degli insediamenti informali, che sono cresciuti esponenzialmente sulle pendici delle montagne e delle colline che formano il Parco Nazionale.

Il 19 novembre 2008 nella città di Rio de Janeiro venne installata la prima UPP – Unità di Polizia di Pacificazione, il germe di un nuovo paradigma di presenza militare del governo in aeree fino a quel momento completamente dimenticate. Da quella cultura repressiva sono usciti quelli che hanno ucciso Marielle Franco, filha da Maré (figlia carioca della favela Maré). Marielle come Carolina Maria de Jesús, voce afrobrasiliana delle favelas paulista che negli anni Sessanta prese letteralmente “a pugni” il Brasile e il mondo squarciando il velo che copriva le reali condizioni di vita dei favelados.

Tutto questo è sviluppato da Diego Battistessa in un flusso analitico e narrativo che abbiamo cadenzato nelle 6 pagine accessibili attraverso i pulsanti che trovate qui


RIO DE JANEIRO SÃO PAULO BRASILIA CIUDADE DE DEUS PARAISÓPOLIS ROCINHA MARÉ GÁVEA CANINDÉ RECIFE

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]]> Cambi della guardia in Africa, e la Russia suona Wagner https://ogzero.org/cambi-della-guardia-in-africa-e-la-russia-suona-wagner/ Thu, 24 Feb 2022 08:45:35 +0000 https://ogzero.org/?p=6471 In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari […]

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In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari in un paese stabile, l’indigenza delle popolazioni è funzionale all’assoggettamento del tessuto sociale, basta frenare le partenze per oltremare… con le buone (accordi capestro e che calpestano i diritti umani) o con le cattive (presenza militare mercenaria ben pagata).

[fin qui… OGzero]

Qui una rielaborazione di due articoli di Angelo Ferrari pubblicati su Africa Rivista e Agi, ampliati per OGzero. Aggiungiamo un podcast realizzato con Edoardo Baldaro (ricercatore alla Scuola Sant’Anna di Pisa, esperto di Sahel) e Stefano Ruzza (professore associato in Scienze politiche all’Università di Torino, responsabile di T.wai – Torino, esperto di agenzie di sicurezza).


Spostare il confine del Mediterraneo

Il Niger è e diventerà sempre di più il bastione italiano nel Sahel. L’Italia, nel suo piccolo – sia geografico sia diplomatico – ha deciso di rilanciare la sua presenza nel continente africano proprio privilegiando il rafforzamento di quella militare in parte a scapito della cooperazione allo sviluppo, soprattutto in chiave anti-immigrazione. L’obiettivo è fermare i flussi proprio alle porte della Libia, cioè in Niger, con la presunzione e l’illusione che blindando i confini i problemi possano restare dall’altra parte. Spostare, dunque, più a Sud il confine del Mediterraneo. Ci riuscirà? Non è del tutto scontato.

In Niger la presenza militare è rilevante. Si tratta di 290 militari, 160 mezzi terrestri e 5 aerei. Mentre il rapporto tra spese militari e cooperazione allo sviluppo è di 10 a 1. Un po’ quello che è successo in Afghanistan, con le conseguenze, dopo il ritiro occidentale, che sono sotto gli occhi di tutti dal punto di vista umanitario. Tutto ciò, evidentemente, confligge con un principio che dovrebbe accompagnare le missioni militari all’estero in generale, e in particolare in Africa, è cioè quello per cui creare le condizioni di sicurezza nelle aree di crisi è indispensabile per poter realizzare anche le missioni civili e di sostegno socio-economico che aiutino i paesi interessati a costruire o ricostruire i loro apparati pubblici e a sviluppare le loro economie, a loro volta premessa indispensabile per migliorare le condizioni di vita della popolazione e stabilizzare il contesto locale e regionale.

Il Mali lasciato dagli occidentali

Il sentimento antifrancese che è montato in buona parte del Sahel deriva proprio da questo. Cioè le popolazioni hanno visto un gran numero di militari occidentali, ma nessun cambiamento sostanziale, non solo nella sicurezza, ma soprattutto nelle condizioni di vita reale. La precarietà “umanitaria” si è aggravata. La lezione del Mali dovrebbe insegnare qualcosa anche a noi italiani. Non a caso il presidente del Niger, Mohamed Bazoum, si è detto molto “preoccupato” per il ritiro dei francesi e degli occidentali in generale dal Mali.

A questo punto può risultare utile ascoltare le considerazioni sulla situazione dopo la chiusura di Barkhane e il subentro conseguente dei contractor russi, oltre al confronto tra le diverse reazioni nei paesi subsahariani, con Stefano Ruzza ed @EdoardoBaldaro

 “Il senso di Wagner per le crepe: le interconnessioni con le giunte del Sahel?”.

La “fortuna” del Niger, il paese più povero al mondo

Il Niger, tuttavia, interessa moltissimo all’Italia e non si tira indietro, lo ha dimostrato nel recente passato aprendo un’ambasciata nel 2017 e dal 2018 con la “Missione bilaterale di supporto” – militare. Il Niger, dunque, è un partner strategico e, nelle intenzioni del governo italiano, può rappresentare un’opportunità di business per l’Italia. L’Italia è tra quei paesi che guardano con interesse al crescere di questo mercato e in generale a quello di tutta l’area saheliana e la presenza dell’ambasciata italiana a Niamey ha anche il significato di voler accompagnare quanto più possibile le imprese italiane che vorranno avviare affari in questo contesto relativamente ancora incontaminato. Queste le intenzioni del governo italiano. Ma, diciamo noi, occorre arrivare per tempo. Per l’Italia, dunque, il Niger è un paese stabile – e questo aiuta – ma non si può dimenticare il passato recente. Il paese è sempre stato il crocevia di traffici illeciti, dalla droga alle armi, dal riciclaggio dei soldi sporchi alla tratta degli esseri umani.

Le fortune del Niger – se così si può dire – e dei suoi governanti, sono derivate proprio da questo. Un paese che ha fatto dell’illecito la ragione dei propri guadagni.

È il paese più povero al mondo, ma, Mohammad Issoufou, ex presidente nigerino – ha governato il paese per dieci anni fino al 2021 – ha speso milioni e milioni di dollari per acquistare armi, elicotteri e aerei da combattimento russi e francesi, tradendo la sua piattaforma elettorale di stampo socialista-progressista, che lo ha portato al vertice dello stato, impoverendo ancora di più la sua gente. Il suo successore, Bazoum, va nella stessa direzione, non a caso sul finire del 2021 ha acquistato dalla Turchia nuovi droni. L’impegno e le spese militari prevalgono su tutte, pur di mantenere i privilegi ereditati dal suo predecessore. Le cancellerie di tutto il mondo conoscono a perfezione i due burattinai nigerini, sanno perfettamente con chi hanno a che fare, ma hanno deciso che del Niger si possono fidare. Ma alcune domande, tra le tante, vengono spontanee: per quale ragione le varie milizie e fazioni che controllano il territorio dovrebbero abbandonare i lauti profitti che arrivano dai traffici illeciti che siano di esseri umani, droga, armi o denaro? Quali garanzie sono state fornite? Quali accordi stipulati?

Il governo italiano dovrebbe rispondere a queste domande con il linguaggio schietto della politica e non con quello della diplomazia. Occorre, dunque, fare attenzione. Ma le parole chiave sono “arrivare in tempo”. Non possiamo dimenticare che il paese saheliano è strategico anche per la Francia che è ormai una presenza organica, ma sul quale Parigi rivolge lo sguardo, soprattutto ora che si è ritirata dal Mali. L’intenzione francese è proprio quella di rafforzare la sua presenza in Niger e sul fronte Sud del Sahel, paesi come Costa d’Avorio, Togo e Benin. Gli interessi strategici di Parigi sono noti: l’estrazione dell’uranio è fondamentale per un paese che vive di centrali nucleari. Il Niger è il quarto produttore di uranio al mondo e il sesto per riserve.

L’Italia, dunque, deve adottare una via pragmatica e diplomatica per non andare a cozzare con gli interessi di altri paesi che hanno radici solide in quel pezzetto di deserto.

Wagner: gli strumenti “non convenzionali ” della Russia

In Africa, per esempio, la Russia suona la musica di Wagner. La presenza dei mercenari di Mosca rappresenta per Vladimir Putin la guarnigione di “sfondamento” nella sua politica di espansione in Africa. Non è un mistero che la Russia stia cercando di tornare agli antichi fasti dell’Unione Sovietica e non lo fa impegnandosi direttamente sul campo militare, quello dove si combatte, ma inviando la Wagner che per Mosca fa il lavoro sporco. Lo si vede in maniera evidente, per esempio, nella Repubblica Centrafricana, che è diventata la base operativa russa in Africa centrale. Lì i mercenari combattono a fianco delle truppe regolari e sostengono il regime. La guardia presidenziale è tutta nelle mani del Cremlino, così come i consiglieri del ministero della Difesa. Il Centrafrica è diventata una sorta di portaerei nel mezzo dell’Africa che funziona come trampolino di lancio per l’espansionismo russo. Già nel passato questo paese ha avuto questa funzione, con la presenza di numerose basi della Francia, ex potenza coloniale, almeno fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso. Ora la storia è molto diversa e, come è normale che sia, Putin nega tutto. Si limita a spiegare che l’intervento russo in Africa riguarda la fornitura di armi e l’addestramento militare. Ma ogni evidenza porta da un’altra parte. Lo si sta vedendo in maniera plastica in Mali, dove il sentimento prevalente è quello filorusso. Così come in Burkina Faso dove si sono viste manifestazioni a sostegno dei golpisti, con la gente in piazza che sventolava le bandiere di Mosca.

L’Africa, per Putin, è diventato uno degli scenari privilegiati della sua competizione con il mondo occidentale.

Lo fa, appunto, attraverso la fornitura di armi e con il sostegno dell’industria bellica, come in Sudan terzo produttore di armi nel continente africano dopo Egitto e Sudafrica. Per raggiungere i suoi obiettivi, il Cremlino utilizza non solo i normali canali diplomatici ma anche strumenti non “convenzionali”: i famigerati mercenari della Wagner e la propaganda attraverso i social network, come accade in altre parti del mondo. E funziona.

L’impegno italiano: ridurre le partenze

Il governo italiano sta mettendo in atto un cambio di paradigma nel guardare a questo paese e alla regione del Sahel nel suo insieme, cercando di colmare la sua lacuna di presenza, intercettando in maniera tempestiva il crescere dell’attenzione internazionale. Il Niger guarda ormai all’Italia come un “partner di riferimento”, soprattutto nella gestione delle migrazioni, nella lotta all’avanzamento del terrorismo jihadista, nel contenimento delle sfide ambientali e nello sviluppo. Se sul piano militare l’Italia è ben posizionata e il rinnovo delle missioni all’estero voluto dal governo Draghi va proprio in questa direzione. L’Africa si conferma il continente in cui l’Italia è maggiormente coinvolta, con 17 missioni in corso. Tra quelle più rilevanti in termini di unità impiegate e risorse economiche c’è la Task Force Takouba, per il contrasto della minaccia terroristica nel Sahel, e l’impiego di un dispositivo aeronavale nazionale nel Golfo di Guinea in funzione antipirateria.

Le forze della missione Takouba si preparano a lasciare il paese (fonte Africa Rivista).

Sul piano, invece, della cooperazione allo sviluppo fa segnare il passo. Non si può dimenticare che oltre il 40 per cento della popolazione nigerina vive sotto la soglia di povertà e il paese si colloca in fondo alla ben poco onorevole classifica dell’indice di sviluppo umano. C’è da augurarsi, dunque, che il rinnovato impegno in Niger e in tutta la regione sia teso, anche, al rafforzamento di un impegno umanitario. L’impegno italiano è concentrato – almeno così sembra – alla riduzione delle partenze dei migranti (come racconta qui Fabiana Triburgo). Rimane, tuttavia, la domanda: “È sufficiente la cooperazione militare per impedire le partenze?”. È lecito chiedersi se controllo del territorio di questi paesi e lotta al terrorismo non passino anche e soprattutto attraverso politiche di sviluppo: cioè alla creazione di un welfare state che manca totalmente in questi paesi. Non si considera infatti che la maggior parte delle persone che fuggono da quelle situazioni lo fanno perché manca totalmente la percezione della possibilità di costruirsi un futuro solido per sé e la propria famiglia. Non è solo mancanza di cibo, spesso è la mancanza di welfare state, cioè di una rete sanitaria adeguata e di una rete scolastica capace di formare.

In quei paesi dove la cooperazione militare è importante, gli apparati di governo sacrificano, già di loro, gli investimenti per il welfare a scapito di una crescente spesa militare. Tutto ciò dovrebbe far riflettere.

L’impegno russo: fornire armi e sfruttare le risorse

L’arrivo in Centrafrica, tuttavia, rappresenta, uno spartiacque per Mosca. Le armi russe fanno gola un po’ a tutti: Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania hanno lanciato appelli a Mosca perché aiuti le loro forze di sicurezza a combattere il terrorismo, appelli che hanno avuto risposte positive. Tutto ciò piace molto al Cremlino e preoccupa enormemente l’occidente che sta perdendo posizioni strategiche. L’opzione di Mosca è quella di rafforzare la presenza militare per poi passare all’incasso, anche in termini di risorse naturali. L’interesse militare si giustifica, inoltre, con il fatto che il Cremlino è consapevole della sua marginalità nei mercati africani e di non poter competere con l’espansionismo cinese. Le armi, quelle vere, per Mosca, tuttavia, funzionano ancora. Ma è del tutto evidente che l’aiuto militare è subordinato, nel futuro, ad avere un ruolo anche nello sfruttamento delle materie prime.

Non a caso il paradigma di collaborazione con l’Unione africana – emerso nel forum Russia-Africa – che Putin vuole, mira a migliorare i rapporti esistenti, rafforzare i legami diplomatici e aumentare la sua presenza economica nel continente, per avvicinarsi agli elevati livelli di scambi commerciali che già caratterizzano Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Turchia, Europa e Stati Uniti.

La presenza russa in Africa (fonte Ispi).

La retorica di Putin definisce la sua agenda per l’Africa “positiva” e si contrappone, a detta sua, ai “giochi geopolitici” degli altri, spiegando che la Russia non è interessata a depredare la ricchezza dell’Africa, ma a lavorare a favore di una cooperazione “civilizzata”. Parola, questa, già usata da coloro che hanno colonizzato il continente.

Dal punto di vista economico, non è da trascurare la presenza in Namibia dove la Russia è impegnata nell’estrazione dell’uranio e in Angola nel settore diamantifero. Da qui, dall’Africa, Putin vuole ripartire per lanciare la sua sfida e tornare a vantare il ruolo di potenza mondiale. Ma la “prudenza” sta caratterizzando la presenza russa. Putin non arriverà a schierare l’esercito regolare e per questo si avvale di mercenari della Wagner, che fa il bello e cattivo tempo un po’ ovunque, in particolare nella Repubblica Centrafricana che, di fatto, è governata proprio dai russi. Il Mali, dopo il ritiro delle truppe occidentali, rappresenta una vittoria significativa per Putin che è riuscito a ridimensionare l’impero francese.

Attività russe in Africa nel 2019 (Fonte ISW).


Gruppo Wagner: un po’ di storia

Sul Gruppo Wagner, ovviamente, sono più le supposizioni che le certezze. Ciò che si sa è che nasce intorno al 2013 con il nome di Corpi Slavi. Il loro fondatore è l’ex colonnello dei servizi segreti militari Dmitry Utkin. Insieme a un piccolo contingente di ex appartenenti alle forze speciali russe, Utkin si schiera in Siria a protezione delle infrastrutture strategiche per la Russia e per il governo siriano di Bashar al-Assad. I mercenari non ottengono grandi risultati e ben presto rientrano in patria. Qui Utkin rifonda l’organizzazione ribattezzandola Gruppo Wagner in onore del compositore tedesco (Utkin ha forti simpatie naziste). È l’incontro con Yevgeny Prigozhin, oligarca con interessi nei comparti dell’alimentazione, dell’estrazione mineraria e nel mondo della gestione dei dati informatici, che fa compiere al Gruppo Wagner il salto di qualità. Prigozhin è legato a doppio filo a Putin che lo utilizza per portare a termine “operazioni delicate”. I mercenari di Utkin vengono quindi impiegati in Ucraina e a sostegno dei separatisti della Repubblica separatista di Lugansk. Poi di nuovo in Siria, dove si affiancano alle forze di Bashar al-Assad. Il momento più tragico avviene nel febbraio 2018 a Deir ez-Zor, quando un centinaio di uomini viene ucciso in un raid americano nei pressi del villaggio di al-Isba durante gli scontri con le forze curde dell’Sdf. Le imprese compiute in tre anni di guerra, permettono a Prigozhin di passare all’incasso. Un incasso chiamato Africa, dove, nel frattempo, la Russia sta conducendo una delicata partita per recuperare spazi di influenza. Mosca cerca di stringere rapporti con numerosi paesi offrendo assistenza militare in cambio di risorse minerarie. Ma in modo informale. Un gruppo di uomini viene quindi inviato in Sudan. Vengono schierati a protezione del presidente Omar al-Bashir e come presidio sul confine con il Sud Sudan. In cambio, i mercenari russi ricevono la gestione di alcuni impianti minerari. Un’operazione molto simile avviene anche nella Repubblica Centrafricana, dove nel luglio 2018 vengono uccisi tre giornalisti russi che indagavano proprio sulle operazioni di Prigozhin. Il magnate russo farebbe affari con almeno dieci paesi, tra i quali Repubblica democratica del Congo, Madagascar, Angola, Guinea, Guinea-Bissau, Mozambico e Zimbabwe. Uomini del Gruppo Wagner sono stati incorporati nelle milizie di Khalifa Haftar in Libia. Il resto è storia recente.


Per rinfrescarvi la memoria su come operano i contractors o le milizie mercenarie e su come funzionano le regole di ingaggio e quali sono i rapporti di forza con gli stati che li “assumono” guardate questa intervista di OGzero a Stefano Ruzza, regia di Murat Cinar.


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Le divergenze parallele nei piani sino/russi per l’Africa https://ogzero.org/le-divergenze-parallele-nei-piani-sino-russi-per-lafrica/ Fri, 18 Feb 2022 09:21:43 +0000 https://ogzero.org/?p=6384 I rapporti tra le potenze globali s’improntano alla “differenziazione” a seconda degli svariati livelli di confronto e a seconda della complementarietà dell’offerta e della richiesta della zona interessata alle manovre sociali, economiche, politiche, culturali… Il continente africano è sempre più complesso e gli attori in commedia sono sempre di più; e le comunità non sono […]

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I rapporti tra le potenze globali s’improntano alla “differenziazione” a seconda degli svariati livelli di confronto e a seconda della complementarietà dell’offerta e della richiesta della zona interessata alle manovre sociali, economiche, politiche, culturali… Il continente africano è sempre più complesso e gli attori in commedia sono sempre di più; e le comunità non sono rappresentabili con la logora narrativa neocoloniale. Gli osservatori più attenti ritengono che in Africa l’intento cinese è quello di cementare il proprio ruolo di partner a lungo termine e di principale protagonista del suo sviluppo. Per esempio a Lusaka si sta completando una delle 4000 infrastrutture costruite dalla Cina dal 2020: un centro per conferenze in tempo per ospitare il summit dei capi di stato africani. Come riferito da Andrea Spinelli Barrile la Cina ha investito più del doppio in infrastrutture africane (23 miliardi di dollari) rispetto al resto del mondo; e anche i prestiti cinesi sono un quinto di tutti quelli erogati al mondo.

Mentre altrove gli interessi sino-russi possono stridere, in Africa, come nell’area eurasiatica la cooperazione in funzione antioccidentale può raggiungere buoni risultati, offrendo servizi diversi: la Russia si propone come fornitrice di armi, mercenari e addestratori e il Sahel appare come l’area più sensibile da accogliere quel tipo di sicurezza che 9 anni di Barkhane e Takuba non hanno saputo o voluto risolvere: infatti la popolazione di Mali e Burkina hanno cominciato a pensare che gli europei avessero interesse a non debellare definitivamente le milizie jihadiste, pur di avere un pretesto per occupare militarmente la zona. Altro impegno russo è quello applicato all’estrattivismo delle molte risorse africane.

Mentre “Deutsche Welle” dà conto di un summit tra Unione europea e Unione africana per proporre il Global Gateway Project su investimenti (300 miliardi in 7 anni), salute, sicurezza e migrazione in alternativa alla Belt and Road cinese nel momento in cui la Russia diventa riferimento principale della sicurezza per gli stati del Sahel, approfittiamo di un saggio scritto da Alessandra Colarizi per l’e-book numero 10 di China Files su questi argomenti per aggiungere suggestioni a integrazione dell’articolo di Angelo Ferrari, scritto a caldo a commento dell’annuncio parigino con il G5 del Sahel del ritiro delle missioni militari.


Semplici amici, avversari, alleati? Come altrove, anche in Africa, le relazioni tra Cina e Russia sfuggono all’imposizione di categorie precostituite. Rivali al tempo della Guerra Fredda, durante la crisi sino-sovietica i due giganti sostennero partiti e movimenti di liberazione nazionale, aiutando le fazioni alleate nelle guerre civili in Zimbabwe, Angola e Mozambico. Poi nel corso dei decenni Pechino e Mosca si sono spartite ruoli e competenze, seguendo un copione già utilizzato in Asia centrale.

Belt and Road cinese: finanziatori

La Cina, fedele al principio cardine della non ingerenza, si è perlopiù dedicata agli affari economici: primo partner commerciale del continente dal 2009, è da oltre dieci anni il principale investitore nella regione subsahariana. Una tendenza rafforzata dal lancio della Belt and Road, la strategia di politica estera con cui Pechino sostiene la penetrazione internazionale delle aziende statali cinesi attraverso la costruzione di grandi vie di comunicazione marittime e terrestri in Eurasia, e presto estesa all’Africa.

Armi e mercenari russi: risolutori

Mosca, invece, dopo la dissoluzione dell’Urss ha riacquistato il terreno perso grazie alla sua industria bellica: ha continuato a supportare le capitali africane con la vendita di armamenti e altre forme di assistenza militare; complice la minaccia del terrorismo islamico. Nel 2018, cinque paesi dell’Africa subsahariana – Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania – hanno fatto esplicitamente appello a Mosca per ottenere sostegno nella guerra contro Isis e al-Qaeda. In Libia, l’appoggio fornito dai mercenari russi al generale Khalifa Haftar (affiancato militarmente nell’assedio di Tripoli), anziché al governo riconosciuto dalla comunità internazionale – come spiega il Csis –, ha permesso di rafforzare “la posizione geostrategica e l’influenza diplomatica russa” nel Nordafrica, rendendo Mosca un interlocutore imprescindibile in qualsiasi tentativo di soluzione al conflitto.

Spartizione delle risorse africane

Negli ultimi tempi però, pur partendo da percorsi opposti, gli interessi dei due giganti hanno intrapreso traiettorie convergenti. Gli scambi commerciali tra la Russia e il continente sono raddoppiati nel giro di sei anni. Adocchiando ulteriori potenzialità economiche, nel novembre 2019 la città di Soči ha ospitato il primo forum russo dedicato all’Africa, di cui la seconda edizione è prevista per quest’anno. La nascita delle prime piattaforme istituzionali è stata accompagnata dalla fioritura parallela di canali informali.

Secondo Heidi Berg, direttore dell’intelligence presso il United States Africa Command Africom (Africom), «l’impegno militare russo e l’uso di contractor militari privati in Mozambico sono progettati per aumentare l’influenza [di Mosca] nell’Africa meridionale e per consentire l’accesso russo alle risorse naturali locali, inclusi gas naturale, carbone e petrolio».

Qualcosa di simile sta avvenendo nella Repubblica Centrafricana, dove militari russi sono stati nominati consiglieri per la sicurezza nazionale del presidente Faustin-Archange Touadéra, e il governo sta vendendo diritti minerari per oro e diamanti a una frazione del loro valore in cambio di armi.

Riposizionamento olimpionico: colmare un vuoto con un sodalizio a tutto campo?

Da parte sua, dopo aver privilegiato per tre decenni le sinergie economiche, la Cina sente necessità esattamente opposte. Sente di dover difendere i propri asset strategici nel continente e ricoprire un ruolo più proattivo in materia di sicurezza, come si addice a una superpotenza. Nel 2017 il porto di Gibuti, nel Corno d’Africa, è stato scelto come sede della prima base militare cinese all’estero.  La recente nomina di un inviato speciale per il Corno d’Africa sembra confermare questa nuova vocazione cinese per il mantenimento della stabilità, oltre il tradizionale impegno nelle operazioni internazionali di peacekeeping e lotta alla pirateria. Notizia che certamente non rallegrerà Mosca: secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), il continente è diventata una delle prime destinazioni dell’export di armi cinesi, pari al 17% delle forniture ottenute dalle capitali africane tra il 2012 e il 2017 e il 55% in più rispetto ai cinque anni precedenti.

È lecito, quindi, chiedersi se questo reciproco riposizionamento avvicinerà ancora di più o finirà invece per dividere Pechino e Mosca. Se anche in Africa, come nei rispettivi cortili di casa, i due vecchi rivali saranno capaci di muoversi in sincrono. Se, insomma, saranno semplici amici, avversari, o alleati. Entrambi i giganti stanno beneficiando della rapida perdita di influenza delle vecchie potenze imperialiste, di cui il ritiro francese dal Sahel è il segno più lampante. Alla vigilia delle Olimpiadi invernali di Pechino, Putin ha rimarcato come gli sforzi di Cina e Russia siano tesi alla promozione di una democratizzazione delle relazioni internazionali basata sui valori di “eguaglianza e inclusività”. Un messaggio che strizza l’occhio al Sud globale, sempre più emarginato dai sodalizi occidentali tra “like-minded country”. Siamo di fronte a un “gran plan”? Difficile a dirsi. Negli Stati uniti però i recenti sviluppi hanno già alzato il livello di allarme.

Secondo il senatore dell’Oklahoma, Jim Inhofe: «Cina e Russia stanno usando l’Africa per espandere la loro influenza [internazionale] e la loro estensione militare».

Il vantaggio di Pechino si misura in decenni di investimenti

“L’unione fa la forza”, dicevano gli antichi. D’altronde, l’arrivo tardivo dei capitali russi difficilmente rappresenterà una minaccia per gli interessi cinesi. Con venti anni di vantaggio, oggi la presenza del gigante asiatico beneficia della messa a sistema di una strategia di soft power che spazia dagli investimenti nei media, all’assistenza sanitaria passando per gli scambi people-to-people. Nei piani africani del Cremlino non sembra esserci nulla di lontanamente paragonabile.

Allo stesso tempo, sebbene le operazioni mercenarie di Mosca rischino di destabilizzare ulteriormente il continente, la preannunciata apertura di basi militari russe nella regione (ben sei) potrebbe persino tornar utile alla Cina. Come ammesso nell’ultimo libro bianco sulla Difesa pubblicato dal Consiglio di stato, l’esercito cinese non è ancora in grado di proteggere pienamente gli interessi nazionali oltremare a causa delle carenze logistiche e dell’insufficienza dei mezzi difensivi navali e aerei. Secondo il documento, alcuni di questi impedimenti sono aggirabili coltivando rapporti sinergici con altri paesi. Dalla crisi di Crimea, Cina e Russia hanno cementato le relazioni bilaterali con un focus militare molto forte. Sebbene dagli anni Ottanta Pechino rifugga le alleanze in senso proprio, il partenariato con Mosca sembra un gradino sopra le usuali consorterie cinesi per uniformità di interessi e visione globale.

La partnership competitiva, ma globale… dunque anche africana

L’instabilità politica in Africa apre uno spiraglio per la definizione di una “strategia” di sicurezza sino-russa nei paesi terzi. Un segno in questa direzione arriva dalla risposta concertata di Mosca e Pechino in sede Onu alla crisi del Tigray, così come ai colpi di stato in Sudan e Mali.

Dopo il ritiro americano in Afghanistan il coordinamento militare con Putin è diventato sempre più centrale per Xi. Lo è anche nel continente oltre l’Oceano indiano, dove Mosca può mettere a frutto l’esperienza militare maturata in Medio Oriente, un’area con profondi legami economici e culturali all’Africa. Le manovre aeree e marittime eseguite congiuntamente dai due giganti nell’Indopacifico, nel Mediterraneo e nel Mar arabico, costituiscono un precedente duplicabile nei teatri africani. Ma fino a che punto? Samuel Ramani, ricercatore della Oxford University, evidenzia diversi ostacoli: la storica diffidenza reciproca, la sovrapposizione tra interessi regionali spesso contrastanti, e la mancanza di un coordinamento sul campo ancora limitato ai tavoli multilaterali. È indicativo che, posizionati su fronti opposti in Libia e Sudan, Pechino e Mosca non abbiano mai tenuto colloqui bilaterali specifici sul continente. Nemmeno il tema del terrorismo è riuscito a ispirare una reazione pianificata in tandem.

Sono tutti aspetti che sommati compongono una sagoma dai contorni sfumati. Quella che Ramani definisce una “partnership competitiva” tra aspiranti grandi potenze. Non semplici amici, né avversari e nemmeno alleati. Almeno per ora.

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Убирайся est le mot pour: “dégage!“ https://ogzero.org/%d1%83%d0%b1%d0%b8%d1%80%d0%b0%d0%b9%d1%81%d1%8f-est-le-mot-pour-degage/ Fri, 18 Feb 2022 09:20:30 +0000 https://ogzero.org/?p=6378 Rimuginando in quell’angolo estremo del lungo tavolo moscovita dove lo ha relegato Putin, Macron è forse riuscito a cogliere le sfumature della traduzione dalla lingua che il leader maliano Goïta ha indicato come insegnamento scolastico a Bamako: in russo ubirájsja suona persino meno apodittica e definitiva, ma è l’espressione che i golpisti filorussi maliani hanno […]

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Rimuginando in quell’angolo estremo del lungo tavolo moscovita dove lo ha relegato Putin, Macron è forse riuscito a cogliere le sfumature della traduzione dalla lingua che il leader maliano Goïta ha indicato come insegnamento scolastico a Bamako: in russo ubirájsja suona persino meno apodittica e definitiva, ma è l’espressione che i golpisti filorussi maliani hanno rivolto all’ambasciatore francese senza mezze misure: “Vattene, indesiderato!”.

Il capitolo neocoloniale iniziato da Hollande si chiude repentinamente alle porte delle elezioni francesi ritirando la presenza europea dal Sahel il più repentinamente possibile, mantenendo degli avamposti in Ciad (dove il golpista Déby risulta buono, perché non ha abbracciato Mosca o Pechino) e in Niger con truppe internazionali troppo interessate a bloccare i flussi migratori, sovranisti italiani in testa. L’avventura coloniale di Parigi ha subito un vero tracollo (peraltro annunciato, benché repentino), solo parzialmente schermato dall’intento di evitare che il moto antifrancese si estenda all’area atlantica; nel momento in cui il jihad comincia a infiltrare Benin e Togo. Non a caso si parla di Afghanistan francese. E non solo, perché il fallimento di Barkhane con l’insurrezione dei saheliani coinvolge ogni aspetto: dalla missione Onu Minusma che viene almeno ridimensionata, agli interessi economici dell’intero fronte occidentale, che come ben documentato da Alessandra Colarizi trovano nell’offerta russo-cinese le risposte alle richieste del territorio, sostituendo una forma di colonizzazione, vetusta perché interessata a predare in modo classico e secondo prassi novecentesche, con un’altra, più innovativa (si pensi a Wagner), ma altrettanto rapace.

Mentre “Libération” esplicita bene la pretestuosità ipocrita della scelta elettorale di Macron di pretendere dalla giunta golpista maliana elezioni mai richieste ai fantocci installati al potere proprio dalla grandeur parigina, proponiamo un’istantanea scattata da un conoscitore della realtà continentale come Angelo Ferrari


Il ritiro, minacciato, è diventato realtà. La Francia e l’occidente hanno deciso di lasciare il Mali. Dopo nove anni di intervento militare contro il terrorismo jihadista, Parigi ha deciso di “abbandonare” il paese. Una resa inevitabile per il progressivo esacerbarsi dei rapporti con la giunta golpista di Bamako, il cui culmine è stata la cacciata dell’ambasciatore francese dalla capitale maliana.

Effetto domino

La decisione arriva, inoltre, in un momento delicato per il presidente francese Emmanuel Macron, che dovrebbe annunciare la sua candidatura per un secondo mandato. Arriva in un momento di crescenti tensioni antifrancesi in tutta l’area del Sahel che sono state la spinta – anche se non quella decisiva – per un cambio di regime in Mali e anche nel vicino Burkina Faso. Bamako, da tempo, ha chiamato i mercenari russi della Wagner, che già operano sul terreno, per proseguire la lotta al terrorismo. Una decisione che ha irritato i francesi e tutto l’occidente impegnato nel paese anche se sempre negata dal Cremlino. Sono circa 25.000 gli uomini dispiegati nel Sahel, di cui circa 4300 francesi – 2400 in Mali nell’ambito dell’operazione antijihadista Barkhane. Un ritiro, si sono affrettati a sottolineare l’Eliseo e i partner europei, che non significa abbandonare il Sahel, ma sicuramente Parigi e l’Unione Europea dovranno reinventare il partenariato con i paesi saheliani. Ciò non significherà spostare altrove ciò che fino ad ora è stato fatto in Mali, ma rafforzare la presenza in Niger e sul versante meridionale. E tutto ciò dovrà essere coordinato con la missione delle Nazioni Unite. Un ritiro, inoltre, che solleva molti dubbi sul futuro proprio della missione Onu che conta 15.000 uomini, creata nel 2013 per sostenere il processo politico maliano. La fine dell’operazione Berkhane (francese) e Takuba (forze speciali dell’Unione europea) potrebbe portare al ritiro anche dei contingenti di Germania e Inghilterra impegnati nella forza Onu.

Barkhane, Takuba, Minusma... effetto domino che crea il vuoto

Meglio che una struttura fallimentare in piedi per perpetuare se stessa mantenendo vivo il jihadismo contro cui è nata si sciolga; la piazza sceglie il cavallo dello zar

Il disastroso bilancio di un’occupazione old fashioned

Il Sahel, tuttavia, rimane una priorità e una regione strategica per l’intera Unione europea, proprio per gli enormi investimenti sul piano militare e su quelli della cooperazione – anche se meno – più squisitamente economica. Intervento militare che, in nove anni, non ha portato a significativi successi nella lotta al terrorismo, per certi versi è stata disastrosa.

La realtà dei fatti: la debolezza dei governi, l’insicurezza e il disastro umanitario sono peggiorati nell’ultimo anno e le prospettive di pace duratura rimangono deboli. La regione ha subito colpi di stato militari – Mali e Burkina Faso – e “costituzionali” – Ciad – oltre all’avanzare, sempre più insidioso, del terrorismo jihadista. Se si guarda alle morti violente, queste sono cresciute del 20% nel 2021 rispetto all’anno precedente, nonostante le imponenti missioni militari, francese e europea – che operano sul campo. Le Nazioni Unite, inoltre, hanno stimato che almeno 36 milioni di saheliani sono sull’orlo dell’insicurezza alimentare.

Il teatro saheliano è estremamente complesso anche sul piano geopolitico internazionale. Il ritiro della missione francese Barkhane e la “sindrome Afghanistan”, stanno lasciando spazio, dal punto di vista militare, ad altre potenze internazionali. La Francia, in un primo momento ha ridimensionato il suo contingente, e ora lo ha ritirato dal Mali, facendo affidamento sulla forza europea tentando, in questo modo, di rassicurare che ciò non corrisponde alla fine dell’impegno francese nel Sahel. Nella regione, tuttavia, sta montando un forte sentimento antifrancese e, pure, antioccidentale. Parigi ha faticato, negli ultimi mesi, a giustificare il mantenimento della missione di fronte alla sua opinione pubblica.

Il dito nella piaga: Wagner è più professionale

Hervé Morin, l’ex ministro della Difesa del governo dell’ex presidente Nicolas Sarkozy, non ha usato mezze parole, anzi è stato netto: «Abbiamo uno scenario che si avvicina ogni giorno di più a quello che abbiamo visto in Afghanistan. Siamo arrivati per combattere il terrorismo e ricostruire uno stato (si riferisce al Mali, N.d.R.) su un accordo politico e sembriamo sempre più una forza di occupazione».

Truppe d’occupazione più o meno legittimate; Macron ammette al G5 Sahel che è venuta a mancare la giustificazione per la presenza di un esercito inadeguato al compito

E l’ex ministro ha aggiunto che la Francia non è riuscita nel suo obiettivo bellico e quindi «non può rimanere in Mali contro il parere delle autorità locali». Stessa sorte è capitata all’operazione Takuba. Con il ritiro dal Mali l’attenzione si concentrerà sul Niger, dove l’Italia ha una presenza significativa.

Le autorità di Bamako subito dopo il colpo di stato, non sapendo bene cosa fare e per scongiurare l’effetto Afghanistan, sono “volate” a Mosca, invitandola, quasi supplicandola, ad aiutare il paese a garantire sicurezza e a difenderne l’unità, l’integrità e la sovranità.

La risposta del Cremlino non si è fatta attendere ed è arrivata per bocca del ministro degli Esteri, Sergey Lavrov: «Il mio paese farà tutto il possibile per evitare che la minaccia terroristica gravi sulla struttura dello Stato del Mali».

E sul terreno maliano sono già arrivati i mercenari della famigerata Wagner, che per conto della Russia fanno il lavoro sporco sul campo, anche se tutti negano.

Anche il Ciad, che possiede l’esercito più armato ed efficiente dell’area, ha deciso di dimezzare il suo contingente nell’ambito dell’operazione G5 Sahel, in particolare nella zona delle tre frontiere – Mali, Niger, Burkina Faso – passando da 1200 a 600 effettivi.

Il portavoce del governo ciadiano ha spiegato così la decisione: «La scelta di alleggerire il dispositivo è stata concertata con il comando del G5. In rapporto alla situazione che c’è sul campo è necessario avere una forza mobile più capace di adattarsi alle modalità di azione attuate dai terroristi. Rimane intatta la nostra volontà di far fronte ai jihadisti».

Strategia vincente di Putin in Mali…

Un incubo per molti paesi, in particolare per il Burkina Faso e il Mali che non riescono a far fronte e nemmeno ad arginare la minaccia terroristica che ha paralizzato la vita di intere comunità minacciate e tenute in ostaggio dai jihadisti. Un fattore degno di nota, inoltre, è il fatto che i golpisti dei due paesi saheliani, appena preso il potere hanno subito rivolto il loro sguardo al Cremlino, innescando una crisi diplomatica proprio con il principale interlocutore occidentale dell’area, Parigi.

Insomma l’occidente lascia il Mali e apre, anzi “spalanca” le porte alla Russia. È innegabile che la decisione di Macron e dei leader occidentali di “abbandonare” Bamako, è una vittoria per Putin. In poco meno di un anno si è preso – o la Francia ha perso – mezzo impero francofono: Mali, Burkina Faso e Repubblica Centrafricana.

… e in Burkina di Xi Jinping

E poi c’è la Cina che è stata invocata a gran voce dal Burkina Faso, chiedendo il sostegno di Pechino nella lotta contro il terrorismo, accogliendo l’impegno e le assicurazioni della sua controparte cinese per accelerare la spedizione di attrezzature militari promesse al Paese. Richiesta rafforzata anche dal capo della diplomazia senegalese, la ministra Aissata Tall Sall, durante l’ultimo vertice Africa-Cina – che si è svolto a Dakar nel novembre dello scorso anno. Nel documento finale del summit si è messa nero su bianco la Cooperazione nell’ambito della sicurezza, vista come un “punto focale” delle relazioni sino-africane. Sono state annunciate, e questa è una novità, esercitazioni congiunte per operazioni di mantenimento della pace, nella lotta al terrorismo, al traffico di stupefacenti e alla pirateria. Pechino mette gli scarponi sul terreno.

E il 16 febbraio 2022 il direttore generale della polizia del Mali, Soulimane Traoré, ha ricevuto l’ambasciatore cinese, Chen Zhihong. Il diplomatico ha ribadito che la Cina si impegnerà «nel rafforzare gli equipaggiamenti delle forze di sicurezza del Mali nel quadro di una cooperazione dinamica e reciprocamente vantaggiosa».

Souleyman traoré_Bamako

L’asse che si è creato tra Cina e Russia sul fronte della crisi ucraina, si potrebbe ripresentare anche in Africa, in particolare in quella parte di Sahel abbandonato dall’Occidente. Entrambi i paesi potrebbero avere vantaggi da questo legame. La Russia ha poco da offrire sul piano economico, ma molto su quello militare, la Cina è una presenza consolidata, ma sempre attenta a non interferire negli affari interni dei paesi dove fa affari. La sinergia Pechino-Mosca potrebbe avere vantaggi per entrambi. Di sicuro, nonostante il ritiro occidentale, l’incubo Afghanistan è stato spazzato via e nel Sahel si parla sempre di più russo e mandarino.

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Un Sahel di spine per Macron. Mali e Françafrique https://ogzero.org/un-sahel-di-spine-per-macron-mali-e-francafrique/ Fri, 21 Jan 2022 01:11:24 +0000 https://ogzero.org/?p=5902 Il Sahel in generale e il Mali in particolare è un’espressione della Françafrique da cui trarre indizi utili sulla reale influenza neocoloniale francese. L’impegno di Macron, all’inizio come alla fine del suo settennato, ha usato ogni arma nell’area pur di mantenere il proprio suggello: contingenti di occupazione militare con un tributo di sangue e denaro […]

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Il Sahel in generale e il Mali in particolare è un’espressione della Françafrique da cui trarre indizi utili sulla reale influenza neocoloniale francese. L’impegno di Macron, all’inizio come alla fine del suo settennato, ha usato ogni arma nell’area pur di mantenere il proprio suggello: contingenti di occupazione militare con un tributo di sangue e denaro non indifferente; elargizioni per blandire le oligarchie locali, sistematicamente eliminate fisicamente o esautorate; investimenti attraverso multinazionali, sostituite da potenze emergenti come Turchia – sulla cui penetrazione del mercato africano riprendiamo un articolo di Emanuele Giordana per “Atlante delle Guerre” e Cina, oppure scalzate dalla presenza politico-militare dei filoputiniani…

Uno degli spunti a cui teniamo dall’inizio della avventura di OGzero è quello relativo al neocolonialismo e stiamo cercando di accumulare materiali per avviare uno Studium relativo che possa sfociare in una produzione dedicata. L’articolo pubblicato il 16 gennaio dagli amici di “AfricaRivista”, che ringraziamo per averci consentito di riprenderlo, fa parte  di questo novero di analisi, interpretazioni, testi… che ritroverete assemblati in un dossier ora in embrione.


Lenta dissoluzione degli asset francesi in Mali

Con le elezioni presidenziali alle porte in Francia, il Mali rimane una spina nel fianco per il presidente Macron. L’operazione militare Barkhane non ha sortito gli effetti sperati. Se si vuole fare un bilancio, questo è del tutto negativo. Sulla Francia incombe lo spettro Afghanistan. Che fare? è la domanda già di Černyševskij attorno alla quale Angelo Ferrari gira per inserire alcuni degli elementi in gioco.

L’occupazione militare: il Mali apre alla Russia

Il Mali è una spina nel fianco del presidente francese, Emmanuel Macron, e lo sarà anche per chi verrà dopo di lui all’Eliseo, ammesso che perda le elezioni. Rimane, tuttavia, una patata bollente da gestire, anche in prospettiva delle presidenziali francesi. Se il Mali, e in pratica in tutti i paesi francofoni del Sahel, è uno degli stati più “ostili” alla Francia, l’opinione transalpina non è certo morbida nel giudicare la presenza francese in quell’area. Il ritiro di parte degli effettivi francesi impegnati nell’operazione Barkhane è dovuto all’impasse in cui si è ficcata Parigi proprio con quell’operazione. Il bilancio di 9 anni di presenza nell’area – prima con l’operazione Serval voluta dall’ex presidente François Hollande all’inizio del 2013, diventata Barkhane l’anno successivo, con l’estensione al G5 Sahel (Ciad, Niger Burkina Faso e Mauritania) – sembra essere fallimentare o, quantomeno, poco convincente. Intervento militare, per altro, lasciato in eredità a Macron. Risultati reali e concreti sono poco visibili, soprattutto per la popolazione locale che negli anni ha visto un peggioramento della sicurezza interna ma anche di quella economica e sociale.

L’obiettivo dell’operazione militare francese in Mali – richiesta dall’allora governo di Ibrahim Boubacar Keita – era quello di impedire ai gruppi jihadisti di prendere il potere ed evitare il crollo dello stato. I gruppi terroristici non hanno preso il potere, ma hanno allargato le loro aree di influenza rendendo lo stato – così come altri nell’area del Sahel – oltre che instabile, ostaggio delle loro scorribande. Se si vuole fare un bilancio, questo è del tutto negativo.

Il presidente francese, dovendo gestire un’opinione pubblica interna ostile, è riuscito a ridimensionare l’operazione militare, coinvolgendo gli stati della regione ma, soprattutto, ha convinto l’Europa della necessità di un intervento diretto perché la questione terrorismo, e quella dei flussi migratori, riguarda tutti. Nasce così la task force Takuba. Ma rimane l’imbarazzo e l’impasse. A maggior ragione oggi visto che il potere in Mali è nelle mani dei militari che hanno sovvertito il governo civile con ben due colpi di stato. Il paese è ancora più debole e il presidente francese non può prendere decisioni nette, vista la campagna elettorale in corso per le presidenziali. A Macron è stato facile annullare la visita ufficiale a Bamako del 20 e 21 dicembre scorso. La scusa, la nuova ondata di Covid. Sarebbe stato particolarmente imbarazzante per l’inquilino dell’Eliseo dover giustificare un viaggio nella capitale maliana dove avrebbe dovuto incontrare un capo di stato golpista e non eletto, il colonnello Assimi Goita. Non solo. La transizione voluta dai golpisti è ancora lontana dal terminare e la promessa di elezioni per un ritorno dei civili alla guida del paese, a oggi, pare un miraggio. Non ci sono date precise, si sa solo che la transizione, e quindi il potere di Goita, durerà ancora a lungo.

L’impasse rimane mentre gli affari parlano ormai russo

I francesi, tuttavia, sono ancora presenti nel centro del paese, nonostante le basi di Kidal, Tessalit e Timbuctu siano state riconsegnate all’esercito maliano. L’impasse rimane e potrebbe durare a lungo. Sulla Francia incombe lo spettro Afghanistan. Cosa fare? Seguire l’esempio americano, cioè un ritiro rapido e completo delle truppe? Gli scenari che si potrebbero verificare sono identici, se non peggiori, di quelli che si sono avuti in Afghanistan, con l’aggravante che il contraccolpo si sentirebbe in tutto il Sahel. Le “postazioni” non rimarrebbero sguarnite, ma verrebbero riempite da forze ostili a Parigi. Una su tutte: la Russia. Il Cremlino, a differenza dell’Eliseo, non sta a guardare. Interviene, non certo direttamente, ma attraverso la milizia di mercenari Wagner che, nonostante quello che possa affermare il governo di Bamako, sono già presenti nel paese. I maliani passerebbero dalla padella alla brace? Forse. Di sicuro hanno più “stima” dei russi che dei francesi. Il passato coloniale di Parigi è un macigno non rimosso. I russi, invece, hanno gioco facile visto che si presentano come un paese che non è stato una potenza coloniale e non ha nessuna intenzione di interferire nelle questioni politiche interne della nazione e vuole solo fare affari. I russi, poi, usano ad arte la propaganda sui social, estremamente efficace per manipolare le opinioni pubbliche a loro favore e non mettono gli scarponi direttamente sul terreno, ma facendo fare il lavoro sporco, appunto, ai mercenari della Wagner. L’espansione della propria presenza in Africa è uno degli intenti evidenti, usando l’arma che gli è più congeniale: armi, addestramento militare, lasciando l’intervento diretto ai mercenari; l’altro obiettivo è rappresentato dalla crescita della presenza russa nelle aziende minerarie, così da garantirsi l’approvvigionamento di materie prime strategiche. Quest’ultima è la vera moneta di scambio. Quindi, poco importa se devono trattare con governi legittimi o meno, purché si facciano affari.

Macron, dunque, sembra essere sotto scacco. Non può fare nulla, nuocerebbe alla sua campagna elettorale per le presidenziali, ma non può nemmeno permettersi di lasciare le cose così come stanno, il danno economico sarebbe maggiore rispetto ai benefici che potrebbe avere sulla sua opinione pubblica. Dunque, il Mali rimane una spina nel fianco e lo rimarrà anche dopo le presidenziali francesi, chiunque vinca. Poi c’è il Mali, inteso come golpisti, non certo la popolazione. Quest’ultima vorrebbe arrivare, e molto presto, a elezioni libere che restituiscano il potere ai civili. La giunta militare alla guida del paese no, nonostante le parole di circostanza. Anzi. Il governo fa affidamento sulla presenza dei paramilitari russi della Wagner per mantenersi al potere a qualunque costo, qualsiasi cosa accada, e alimentando la retorica antifrancese.

Ma tutta questa vicenda dimostra anche un’altra cosa: l’opzione militare non è l’unica via, anzi non è la strada da percorrere per la costruzione di uno stato solido capace di rispondere ai bisogni reali della popolazione: salute, educazione, lavoro. Un minimo di benessere oltre che di sicurezza.

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n. 15 – Rotta atlantica: patti scellerati e muri invalicabili https://ogzero.org/rotta-atlantica-patti-scellerati-e-muri-invalicabili/ Thu, 18 Nov 2021 16:28:22 +0000 https://ogzero.org/?p=5362 Il Mediterraneo occidentale è il teatro naturale della rotta atlantica, via percorsa dai migranti obbligati a sfidare l’Oceano Atlantico invece del Mediterraneo per approdare alle sponde europee da accordi economico-politici tra l’Europa e i loro paesi. Dal Plan de Canarias agli Accordi di Abramo, sulla pelle dei migranti si consuma il crimine dei potenti che […]

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Il Mediterraneo occidentale è il teatro naturale della rotta atlantica, via percorsa dai migranti obbligati a sfidare l’Oceano Atlantico invece del Mediterraneo per approdare alle sponde europee da accordi economico-politici tra l’Europa e i loro paesi. Dal Plan de Canarias agli Accordi di Abramo, sulla pelle dei migranti si consuma il crimine dei potenti che erigono muri invalicabili e respingono, confinano e segregano, calpestando i diritti umani, approfittando della povertà e dell’instabilità politica dei paesi africani con cui stipulano scellerati trattati bilaterali.

Fabiana Triburgo analizza i meccanismi geopolitici alla base di questa rotta riaperta negli ultimi due anni prima di spostare lo sguardo, prossimamente, sull’ultimo percorso che riguarda le sponde europee, il Mediterraneo centrale.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Vecchi e nuovi approdi del Mediterraneo occidentale

L’espressione ripetuta più volte nel 2020 e nel 2021 “riapertura della rotta atlantica” nasconde fenomeni molto complessi sul piano geopolitico rispetto ai quali la questione migratoria è soltanto la loro inevitabile propagazione. Invero la riapertura di tale rotta non è semplicemente legata alle dinamiche politiche che hanno interessato negli ultimi anni le altre rotte, come quella dell’Egeo, del Mediterraneo centrale o ancor di più, come vedremo, quella del Mediterraneo occidentale, ma il gioco forza di rilievo internazionale, nel quale sono protagonisti Spagna, Marocco, Unione Europea, Algeria, Stati Uniti e diversi paesi dell’Africa subsahariana tra cui Senegal, Mauritania e Gambia, per citarne alcuni. La rotta venne attraversata per la prima volta nel 1994 da due migranti provenienti dal Sahara occidentale ma viene ricordata ancora oggi, negli ambienti competenti in materia di migrazione, per la grande crisi umanitaria dei “cayucos” –  le piccole imbarcazioni dei pescatori simili a canoe – a bordo delle quali, tra il 2005 e il 2006, circa 36.000 migranti provenienti dall’Africa, nello specifico dal Senegal e dalla Mauritania, cercarono di raggiungere le isole Canarie.

Le ragioni di ieri rispetto a tale flusso migratorio sono quelle di oggi, almeno in parte.

In quella circostanza le politiche nazionali, fortemente repressive rispetto al fenomeno migratorio – portate avanti all’inizio del 2000 tramite il Sive – ossia il Servizio Integrale di Vigilanza Esterna dell’esecutivo spagnolo dotato di radar e di strumenti tecnologici avanzati per l’identificazione dei migranti – vennero dispiegate soprattutto sulla rotta del Mediterraneo occidentale che ha ancora oggi come tappe di transizione/destinazione le enclavi spagnole di Ceuta e Melilla distanti rispettivamente 182 e 270 chilometri da Malaga, al confine con il Marocco. Esse sono le uniche frontiere terrestri dell’UE in Africa. Tra il 1995 e il 2005 di fatti si iniziò la progettazione delle prime due barriere terrestri, alte circa tre metri ciascuna a protezione delle due enclavi, finalizzate all’impedimento di ogni spinta migratoria indirizzata verso le medesime.

I primi muri

Tali barriere vennero successivamente innalzate fino a 7 metri grazie ai finanziamenti dell’Europa, sostituendo le lame alla sommità, con un’ulteriore barriera di cemento. Vale la pena sottolineare che i due muri furono i primi a essere eretti dopo la caduta del muro di Berlino, dimostrando come la storia spesso conceda spazi di regressione più avanzati di quelli di evoluzione che tra l’altro sembrano non avere argine, dato che nel 2020 si è giunti al terzo innalzamento dei muri fino a 10 metri ossia alla creazione della recinzione più alta al mondo che circonda Ceuta per 8 km e Melilla per 12 km ipocritamente annunciata come un mezzo per eliminare l’odioso filo spinato.

Peccato che al suo posto è stato previsto un cilindro di acciaio che rende impossibile la presa da parte dei migranti, il tutto costato soltanto 17 milioni di euro!

Proprio in tale ultimo dato è da rinvenirsi, come si accennava, una delle cause della cosiddetta riapertura della rotta atlantica: la decisione dei migranti di attraversare un’area marittima molto più pericolosa ossia quella dell’Oceano Atlantico – sottoposta a numerose quanto imponenti correnti – in luogo del Mar Mediterraneo, non è certo spontanea. Questa infatti è stata imposta dalla chiusura pericolosa talvolta mortifera, ostinata e triplicemente rinnovata, con l’innalzamento dei muri da gli anni Novanta del Novecento al 2020, in prossimità del percorso più sicuro al confine con il Marocco nel quale le enclavi di Ceuta e Melilla sarebbero più che luoghi di destinazione dei migranti – pur essendo territorio spagnolo a tutti gli effetti – meri punti di transito per accedere alla penisola iberica, mediante l’attraversamento dello stretto di Gibilterra.

Va registrato poi il fenomeno delle “porteadoras de Melilla” (le donne-mulo), che camminano per giorni e aspettano in fila con grosse merci caricate sulle spalle senza potersi sedere ne accedere ai servizi igienici e vengono fatte passare a Ceuta e Melilla in ragione delle merci che interessano alla Spagna

Patti scellerati

Da menzionare inoltre è anche la repressione attuata nella rotta denominata “El Corredor”, corridoio del Mar Mediterraneo tra l’Algeria occidentale e la penisola iberica, percorso prevalentemente da algerini nel quale si registra una attività di criminalizzazione del fenomeno migratorio e di intercettazione da parte delle autorità algerine. Non è solo questo tuttavia ad aver lasciato ai migranti come ultima sponda tra le rotte marittime quella più ad ovest per il raggiungimento dei confini europei ma anche la chiusura sancita nel 2016 della rotta dell’Egeo e soprattutto quella del Mediterraneo centrale bloccata dall’accordo Italia-Libia del 2017.

Anche la rotta del Mediterraneo occidentale tuttavia, in una logica di pericolosa emulazione, registra un’importante recente chiusura, come se già non fosse stata sufficientemente blindata – determinata da un ulteriore accordo, uno dei tanti presumibilmente siglato a dicembre del 2020 tra Marocco e Spagna, in base al quale la monarchia magrebina di Mohamed VI si sarebbe impegnata a riammettere dalla Spagna circa 80 persone a settimana tramite l’Air Maroc Royal. A tale accordo vanno aggiunti quelli siglati con la Mauritania disposta ad accogliere i migranti rimpatriati dalla Spagna non solo mauritani ma cittadini di qualsiasi altro paese dell’Africa subsahariana e occidentale. Infine, si registrano accordi bilaterali tra Spagna e Senegal. Come è facilmente intuibile anche in questo caso le riammissioni vengono implicitamente legittimate sulla base della nozione di paese terzo sicuro assegnata ai paesi africani come lo stesso Marocco.

Tale importante e “prestigioso” titolo di riconoscimento assegnato alla Libia per il Mediterraneo centrale e alla Turchia per l’Egeo è solo uno stratagemma politico per non entrare in contrasto con la propria coscienza almeno davanti all’opinione pubblica.

Un po’ di numeri

Si arriva così all’impressionante numero di 23.000 persone che tentano di raggiungere le isole Canarie nel 2020 rispetto ai 2557 arrivi registrati nel 2019. Per il 2021 i dati sono in ulteriore peggioramento: nei primi 6 mesi sono circa 7000 le persone che hanno già tentato di raggiungere le Canarie e 50 i morti ufficiali, con un gran numero di dispersi senza nome ottenibile soltanto grazie alle testimonianze dei familiari dei naufraghi. Occorre inoltre tener presente che, secondo i dati relativi al 2020 e al 2021, la rotta presenta specifiche caratteristiche: è percorsa da uomini, adulti o minori stranieri non accompagnati principalmente provenienti da Marocco, Mauritania, Senegal, Gambia.

Dai molteplici punti di partenza si riesce dunque a intuire come il viaggio lungo l’oceano Atlantico possa durare 24 ore come 10 giorni.

Oltre tuttavia alla blindatura delle rotte del Mediterraneo occidentale e del Mediterraneo centrale, in ragione della quale i migranti pur di non soffocare nelle sabbie del deserto del Sahara in Niger o per non finire nei lager libici, sono stati costretti a deviare verso le coste del Senegal o della Mauritania, nelle quali è comunque quasi sempre presente Frontex accanto alla Guardia Civil, vi è un’ulteriore concausa della riapertura della rotta atlantica ossia quella della pandemia. Con la diffusione del virus da Covid-19 è stata adottata da quasi ogni paese la chiusura delle frontiere terrestri, marittime e aeroportuali per cui i migranti si sono diretti dove minori erano i controlli ossia verso le coste dei paesi dell’Africa occidentale dai quali con delle imbarcazioni di fortuna hanno cercato di raggiungere le isole Canarie. A ciò deve essere aggiunto l’effetto collaterale della crisi economica determinata dalla pandemia – in ragione delle misure di lockdown e di distanziamento sociale – che ha messo ulteriormente in ginocchio paesi africani già a basso reddito e caratterizzati da una forte instabilità politica che hanno subito anche il forte crollo delle rimesse provenienti dall’estero. Infine, non si può ignorare l’accordo sulla pesca tra Senegal e Unione europea in vigore dal 1979 e costantemente rinnovato che ha tolto ancor di più lo scorso anno un mezzo di sussistenza essenziale, quale quello del mercato ittico, al paese già in una drammatica situazione di indigenza economica. Alla depredazione delle risorse derivanti dalla pesca nelle acque e dei fondali senegalesi si ricorda anche la partecipazione della Cina.

Punto d’arrivo: il molo di Arguineguìn

A partire da agosto fino a novembre del 2020, la situazione degli sbarchi nelle isole Canarie diventa esponenziale: nello specifico nel molo di Arguineguìn, nell’Isola di Gran Canaria, nell’estate del 2020 sono giunti in un campo allestito dalla Croce Rossa, destinato ad accogliere 400 persone, 2600 migranti senza l’applicazione di alcuna forma di distanziamento sociale o di controllo dell’eventuale trasmissibilità del virus mediante tamponi.

Successivamente i migranti sono stati trasferiti in strutture alberghiere preesistenti e ivi trattenuti per oltre 72 ore contrariamente a qualsiasi normativa nazionale, europea e internazionale, in merito alla libera circolazione delle persone.

La risposta dell’esecutivo spagnolo in conseguenza di tale scenario è stata, oltre come detto alla sigla di un accordo a fine dicembre dello scorso anno con il Marocco, il dispiegamento del Plan Canarias il terzo piano di accoglienza applicato nel contesto della migrazione attraverso l’Atlantico da parte della Spagna. Ecco che in tale sistema organizzato, ritroviamo il medesimo approccio riscontrato nella rotta dell’Egeo con un confinamento illegittimo dei migranti nelle isole e con la conseguente impossibilità di giungere alla piattaforma continentale, in quel caso quella ellenica in questo quella iberica.

Hotspot = centri detentivi

Come se ciò non bastasse si sono messe in atto vere e proprie politiche discriminatorie nella zona di transito aeroportuale dell’isola di Gran Canaria con impedimento a raggiungere la Spagna continentale per coloro che non fossero turisti o comunque dotati di un passaporto comunitario. Ciò sarebbe avvenuto in conseguenza di un’istruzione da parte del ministero degli Interni spagnolo che ha stabilito che nessuna persona migrante, anche dotata di passaporto, presente nell’isola potesse proseguire il proprio viaggio liberamente verso altre città spagnole. Con il Plan Canarias del 2020 dunque si conferma la politica sistemica dell’Unione e dei paesi che ne fanno parte della creazione di grandi hotspot nelle isole europee che, per modalità assomigliano a veri e propri centri detentivi, schermati dietro la dizione di “Centri temporanei di accoglienza” e strategicamente accompagnati all’intenzione, semplicemente dichiarata e mai attuata, di trasformarli in “Centri di integrazione”. Tali centri – in spagnolo detti Cate – previsti dal Plan Canarias, sono come al solito sottoposti a un costante controllo poliziesco, situati in luoghi di difficile accesso, con limitazione della libertà di movimento e dei diritti di assistenza legale e sanitaria, in ambienti gravemente insalubri come ha testimoniato Human Rights Watch in un recente rapporto. I centri a Gran Canaria quasi tutti ricavati da ex strutture carcerarie o da basi militari e riconvertiti in centri di accoglienza sono: il “Canaria 50”, il “Collegio Leon”, il Cate di “Barranco Seco” e quello di “Bankia” ricavato da un ex poligono. Per quanto riguarda Tenerife invece i Cate sono quello di “Las Raíces” e “Las Canteras” mentre a Fuerteventura si registra la presenza di un solo Cate quello di “El Matorral”.

Al proposito una testimonianza di Mirca Leccese, attivista di Un ponte per Moria, in questo novembre 2021 complice proprio a Tenerife delle persone “custodite” nei campi delle Canarie:

“Lo snodo di Tenerife sulla rotta atlantica”.

Soccorso in mare militarizzato

A peggiorare ulteriormente la situazione in tale rotta è il mutamento del sistema di salvataggio in mare nel 2018, anno in cui con l’istituzione del comando unico in Spagna sì è passati a una militarizzazione del soccorso in mare. Infatti, prima del 2018 l’attività di soccorso marino veniva ordinata da un pubblico impiegato o da un vice delegato del governo ossia da un civile, mentre con l’istituzione del comando unico al vertice delle attività di salvataggio vi è un organismo che dipende dalla Guardia Civil che è un corpo militarizzato dipendente a sua volta dal ministero degli Interni che coordina tutte le operazioni di soccorso in mare. Tale comando unico pur includendo al di sotto, come con il comando civile – secondo un ordine gerarchico il capitano di marina, una torre di controllo e l’imbarcazione di salvataggio – non prevede più la localizzazione fisica del barcone sul quale transitano i migranti e quindi, l’attività di salvataggio non parte secondo gli stessi tempi di allora.

Attualmente infatti, occorrono circa quattro ore per raggiungere i migranti in mare quando prima invece si riusciva a raggiungere i naufraghi in 30/40 minuti: è agevole intuire come il tempo abbia un ruolo determinante in tale attività rappresentando la maggiore rapidità dei soccorsi una maggiore probabilità che delle vite vengano salvate.

Occorre dunque ora analizzare alcuni aspetti geopolitici alla base della dura repressione della rotta del Mediterraneo occidentale che, come detto, impone ai migranti di optare per la mortifera rotta atlantica. il Marocco infatti viene comunemente definito il gendarme di Europa per l’impedimento imposto ai migranti dell’Africa occidentale e subsahariana ad accedere al territorio delle enclavi di Ceuta e Melilla ma non possiamo ignorare l’evento eccezionale avvenuto a Ceuta nel maggio scorso, quando circa 8000 migranti sono stati fatti passare nel territorio spagnolo dell’enclave senza alcuna forma di controllo da parte delle forze di polizia marocchina.

Il dossier del Sahara occidentale

Per capire le ragioni di tale insolito approccio della monarchia è necessario far riferimento al dossier del Sahara occidentale: su tale territorio dopo il cessate il fuoco del 1991 il Marocco ha sempre rivendicato la propria autorità nazionale, mentre il Fronte Polisario che invece rivendica con la Rasd l’indipendenza della Repubblica araba democratica dei Sahrawi, appoggiata dall’Algeria e sostenuta dalle risoluzioni delle Nazioni Unite si oppone a tale posizione di forza da parte del Marocco.

Le terre del Sahara occidentale interessano al Marocco perché il territorio è ricco di fosfati allo stesso tempo per l’Algeria l’alleanza con il Fronte Polisario garantisce quell’eventuale sbocco sull’oceano Atlantico che geograficamente, diversamente dal Marocco, non detiene.

Quando dunque la monarchia di Mohamed VI è venuta a conoscenza che la Spagna ad aprile del 2021, su pressione dell’Algeria, suo principale fornitore di gas, ha accolto il leader del Fronte Polisario Ghali “per ragioni umanitarie”, in quanto malato di cancro e contagiato dal Covid-19 in una forma grave, il Marocco per ritorsione ha deciso di aprire il “rubinetto dei migranti”.  Va specificato in ogni caso che la pretesa di un riconoscimento da parte della Spagna e dell’Europa tutta della propria sovranità da parte del Marocco sui territori del Sahara occidentale, giunge all’indomani del riconoscimento concesso in tal senso da parte dell’amministrazione Trump, in esito alla firma degli Accordi di Abramo nel 2020, con i quali Rabat ha sancito il proprio sostegno allo Stato di Israele. La questione migratoria è stata rapidamente risolta come al solito con un accordo tra Marocco e Spagna nel 2021 con il quale si è stabilito il rimpatrio di circa 40 migranti stranieri ogni due ore al giorno, per cui nei giorni successivi allo sbarco degli 8.000 migranti, 5.000 già erano stati rimpatri in Marocco.

Madrid. Manifestazioni in favore del popolo saharawi (foto Valentin Sama-Rojo / Shutterstock)

Marocco: il ricatto sulla pelle dei migranti

Tuttavia, anche nel 2018 il Marocco – che in realtà vorrebbe la sovranità sulle due enclavi o comunque una cogestione delle stesse con la Spagna – ha fatto pressione strumentalizzando i migranti facendo salire il numero degli sbarchi nella penisola iberica a circa 56.000 mediante proprio il passaggio nelle due enclavi. In quel caso infatti la Monarchia marocchina consapevole dell’accordo UE-Turchia e del pagamento a favore di quest’ultima di 3 miliardi di euro per la gestione dei flussi migratori del levante e dei circa 130 milioni elargiti alla Libia nell’anno successivo da parte dell’UE (per la gestione di quelli del Mediterraneo centrale) ha preteso, alla stregua di un ricatto, un ingente finanziamento dall’Europa che non ha tardato ad arrivare:

il Marocco si è aggiudicato così la cifra di 140 milioni di euro nel 2018 per il confinamento e la segregazione dei migranti perfino di quelli con cittadinanza marocchina.

È facile dunque intuire come il Marocco in Africa rispetto alla questione migratoria si stia atteggiando come la Turchia in Medio Oriente, facendo leva però sull’appoggio degli Stati Uniti e sugli ottimi rapporti di partenariato con quasi tutti i paesi dell’Africa subsahriana, nonché del ruolo fondamentale che detiene, data la propria posizione geopolitica come potenziale freno degli intenti terroristici provenienti dalla parte sud del continente africano. Tutto ciò fa emergere come l’area del Maghreb sia tutt’altro che unita, se si fa riferimento al rapporto di forte opposizione che intercorre tra Marocco e Algeria, dovuto non solo al dossier del Sahara occidentale ma anche al ruolo delle due potenze rispetto al Mediterraneo. Si ricorda in tal senso che, con la recente rivendicazione unilaterale della propria Zee nel Mediterraneo, l’Algeria è arrivata a sfiorare anche le coste marocchine. Vale la pena inoltre ricordare che lo scorso 3 novembre vi è stato un presunto assalto delle autorità marocchine a mezzi di trasporto algerini che transitavano in Mauritania dopo che, qualche mese prima, l’Algeria aveva dichiarato ufficialmente e unilateralmente chiusi i rapporti diplomatici con il Marocco.

Il rapporto Algeria-Libia

Ciò è particolarmente rilevante rispetto al conflitto libico – momentaneamente sospeso – e dagli effetti che esso propaga sulla questione migratoria, con i lager e le morti nel Mediterraneo centrale. Vale la pena ricordare come l’Algeria infatti si sia sempre posta, rispetto al conflitto libico, come paese non allineato astenendosi innanzitutto dall’appoggio all’intervento Nato che ha portato alla caduta del regime di Gheddafi. D’altra parte l’Algeria che confina con la Libia rappresenta la prima potenza militare africana, armata dalla Russia che invece in Libia ha un ruolo rilevante nella regione della Cirenaica in cui da anni – come già analizzato in precedenza – foraggia la presa di potere sull’intero territorio libico da parte di Haftar. Analizzeremo come tutto ciò abbia un effetto sull’(in)stabilità del governo ad interim libico e sulla questione migratoria addentrandoci nell’ultima delle rotte marittime che coinvolgono il territorio dell’Unione.

L'articolo n. 15 – Rotta atlantica: patti scellerati e muri invalicabili proviene da OGzero.

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«Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo». E il colonialismo lo uccise https://ogzero.org/le-origini-del-debito-risalgono-alle-origini-del-colonialismo-e-il-colonialismo-lo-uccise/ Mon, 18 Oct 2021 23:32:42 +0000 https://ogzero.org/?p=5223 Un pallino di OGzero è pensare che le radici della geopolitica moderna affondino nel colonialismo e uno dei crimini più efferati del neocolonialismo fu l’uccisione di Thomas Sankara, una speranza per l’emancipazione dei diseredati e per l’Africa in generale. A distanza di 34 anni dalla strage del presidente burkinabé e dei suoi 12 collaboratori si […]

L'articolo «Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo». E il colonialismo lo uccise proviene da OGzero.

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Un pallino di OGzero è pensare che le radici della geopolitica moderna affondino nel colonialismo e uno dei crimini più efferati del neocolonialismo fu l’uccisione di Thomas Sankara, una speranza per l’emancipazione dei diseredati e per l’Africa in generale. A distanza di 34 anni dalla strage del presidente burkinabé e dei suoi 12 collaboratori si apre la prima udienza del processo contro gli esecutori, nemmeno tutti alla sbarra – visto che Compaoré, cittadino ormai ivoriano, è sfuggito al giudizio. Ma il giudizio in questo caso è quello della Storia e coinvolge anche i mandanti: le potenze occidentali che continuano a saccheggiare il Sahel. Riproponiamo in questo articolo un bell’intervento di Valeria Cagnazzo, pubblicato l’11 ottobre 2021 da “PagineEsteri“, assemblandovi anche un’intervista a Yakouba, militante sankarista, realizzata da Radio Blackout il 14 ottobre.  


Si inaugura l’11 ottobre il processo per l’omicidio del presidente Sankara, ucciso esattamente trentaquattro anni fa, il 15 ottobre del 1987. Tre anni prima, le parole scagliate con il suo storico discorso contro i membri delle Nazioni Unite avevano infuocato l’aula e segnato per sempre un prima e un dopo nella storia della rivoluzione del Burkina Faso e nella sua breve vita. Ed è forse analizzando quel suo intervento pronunciato il 4 ottobre del 1984 nella 39° sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York che si possono rintracciare molte delle motivazioni che procurarono al giovane leader tante antipatie, e vi si possono al tempo stesso cogliere molti dei semi della sua fugace ma straordinaria rivoluzione.

Una rivoluzione di un paese poverissimo e sconosciuto dell’Africa sub-occidentale che per la prima volta, e davanti alle superpotenze mondiali, si scontrava apertamente con il concetto di terzomondismo e di assistenza umanitaria, caposaldi, allora come adesso, di un Occidente dalla coscienza smacchiata.

«È al di là di ogni immaginazione la quantità di “derrate dei poveri” che sono andate a nutrire il bestiame dei nostri ricchi! Naturalmente incoraggiamo l’aiuto che ci aiuta a superare la necessità di aiuti. Ma in generale, la politica dell’aiuto e dell’assistenza internazionale non ha prodotto altro che disorganizzazione e schiavitù permanente, e ci ha derubati del senso di responsabilità per il nostro territorio economico, politico e culturale».

Sankara alzava la sua voce in quell’aula di New York per dichiarare al resto del mondo che quel paese dell’Africa subsahariana non aveva più al potere un presidente fantoccio dell’Europa e degli Stati Uniti, come tanti altri Stati del suo continente, e che il suo popolo era pronto a prendere in mano il proprio destino, ad affrontare la lotta per l’autodeterminazione.

«Promettiamo solennemente che d’ora in avanti nulla in Burkina Faso sarà portato avanti senza la partecipazione dei burkinabé. D’ora in avanti, saremo tutti noi a ideare e decidere tutto. Non permetteremo altri attentati al nostro pudore e alla nostra dignità».

Così quell’incauto presidente nero definiva gli interventi occidentali mascherati da aiuti umanitari: degli attentati al pudore e alla dignità del suo popolo.

Il discorso di Sankara fu anche un attacco spietato all’Occidente dell’opulenza, della ricchezza fine a se stessa, dell’ingordigia senza limiti: «Parlo in nome delle madri dei nostri paesi impoveriti che vedono i loro bambini morire di malaria o di diarrea e che ignorano che esistono per salvarli dei mezzi semplici che la scienza delle multinazionali non offre loro, preferendo piuttosto investire nei laboratori cosmetici, nella chirurgia estetica a beneficio dei capricci di pochi uomini e donne il cui fascino è minacciato dagli eccessi di calorie nei pasti, così abbondanti e regolari da dare le vertigini a noi del Sahel. Parlo, anche, in nome dei bambini. Di quel figlio di poveri che ha fame e guarda furtivo l’abbondanza accumulata in una bottega dei ricchi».

La formula del “parlare in nome di” qualcuno si ripete per tutta l’orazione di Sankara: colpisce, e divertì probabilmente il suo uditorio, che un minuscolo Stato dimenticato volesse farsi carico delle voci di tutti i diseredati e degli oppressi del pianeta. Ma in questo consisteva il sogno di Sankara: che i più piccoli del mondo unissero le loro voci e finalmente dimostrassero che il loro coro era molto più potente di quello dei pochi nelle cui mani fino a quel momento si erano tenute le loro sorti. La rivoluzione di Sankara era umana oltre che politica, o meglio era politica proprio perché profondamente umana. «Parlo non solo in nome del mio Burkina Faso, tanto amato, ma anche di tutti coloro che soffrono in ogni angolo del mondo». E citò tutti i diversi, i reietti, i neri discriminati nei paesi dei bianchi, gli Indiani d’America condannati all’estinzione, il popolo del Sahel a cui era negata l’indipendenza dal Marocco, il popolo palestinese «che un’umanità disumana ha scelto di sostituire con un altro popolo». Condannò l’invasione militare dell’Afghanistan, così come l’apartheid in Sudafrica. Le sue parole percorrevano tutto il planisfero con accuratezza, come un dito che lento si muovesse sui confini di tutti gli Stati a interrogarne le storie e i dolori, per soffermarsi su ogni ingiustizia e denunciarla con fervore, come se si svolgesse in Burkina Faso. Fu un discorso drammatico, capace di muovere alle lacrime: «Vorrei parlare in nome di tutti gli abbandonati del mondo, perché sono un uomo e niente di quello che è umano mi è estraneo». Ma in nessun momento si trasformò in un discorso “lacrimoso”: quel giovane presidente non voleva più che gli oppressi suscitassero compassione. Proponeva delle soluzioni, drammatiche, rivoluzionarie, naturalmente destinate a scatenare reazioni di gelo e di paura in chi lo stava ascoltando, come la proposta di espellere Israele e il Sudafrica dalle Nazioni Unite.

Il suo programma antiterzomondista e socialista era anche profondamente femminista e antimilitarista, e anche su questi due punti il suo discorso all’Onu fu troppo cristallino e pragmatico per non risultare quasi indecente. «Parlo in nome delle donne del mondo intero, che soffrono sotto un sistema maschilista che le sfrutta», disse, sottolineando la violenza globale di condannare la donna a un ruolo di sudditanza all’uomo, sia segregandola al focolare e all’ignoranza che vincolandola agli ideali di bellezza delle ragazze immagine immortalate mezze nude nelle pubblicità. Il suo programma non prevedeva solo un coinvolgimento egualitario di uomini e donne nella ricostruzione del paese, ma anche un nuovo apparato statale che passava anche per la riorganizzazione dell’esercito, fornendo a ogni soldato un’educazione politica e culturale, consapevole che un militare ignorante e ciecamente obbediente ai suoi comandanti «non è nient’altro che un potenziale criminale». Militari visti come individui, dunque, non più come pedine, e la proposta della “lotta per il disarmo” come “obiettivo permanente”.

E, ancora, il suo discorso annunciava una rivoluzione che avrebbe privilegiato anche l’arte e la libertà di espressione:

«Parlo in nome degli artisti – poeti, pittori, scultori, musicisti, attori – che vedono la propria arte prostituita per le alchimie dei businessmen dello spettacolo. Grido in nome dei giornalisti ridotti sia al silenzio che alla menzogna per sfuggire alla dura legge della disoccupazione».

Una rivoluzione, tra l’altro, che passava necessariamente anche attraverso le parole per realizzarsi, una trasformazione linguistica suggerita dal presidente che al suo insediamento cambiò il nome del suo paese: non più Alto Volta, come i colonialisti, tratteggiandone i confini con un righello, avevano imposto, ma Burkina Faso: “il paese degli uomini integri”. Non solo, neanche la definizione di Terzo Mondo poteva continuare ad esistere: “Terzo mondo, una parola inventata dal resto del mondo al momento dell’indipendenza formale per assicurarsi meglio l’alienazione sulla nostra vita intellettuale, culturale, economica e politica”. Una rivoluzione delle parole: quelle del “grande popolo dei diseredati” non potevano che essere “parole semplici, con il linguaggio dei fatti e della chiarezza”. Questo fu il linguaggio del discorso di Thomas Sankara, e altrettanto stravolgente fu la sua declinazione nei fatti.

“Quando il popolo si solleva l’imperialismo trema”.

Un sogno di felicità – Nato in quel paese che egli stesso definì “la quintessenza di tutte le disgrazie dei popoli” nel 1949, fallito il tentativo di studiare medicina ricevette una formazione militare in Madagascar, dove ebbe modo di assistere alle rivolte popolari contro il Presidente Tsiranana e di avvicinarsi alle teorie leniniste e marxiste del Partito africano dell’Indipendenza. Al ritorno nel suo paese, entrò in politica e fu tra i fondatori del Gruppo degli Ufficiali Comunisti. Segretario di stato, poi primo ministro, la sua figura affascinava e conquistava seguaci per il suo stile di vita morigerato o meglio stoico, per il suo interesse costante per gli ultimi, che andava a trovare a bordo della sua sgangherata bicicletta, e per il coraggio con cui sferzava attacchi violenti all’Occidente e alla Francia di Mitterand. Con un colpo di Stato sostenuto dalla Libia e capeggiato da quello che all’epoca era un suo amico, Blaise Compaoré, nell’agosto del 1983 Thomas Sankara divenne Presidente dell’Alto Volta all’età di trentacinque anni. Poteva finalmente prendere forma la rivoluzione che aveva sognato per il suo paese: «Abbiamo scelto di rischiare nuove vie per giungere ad una maggiore felicità». Questo fu il suo obiettivo: non era il mito del “progresso” che trascinava già i Paesi occidentali in una deriva di sfruttamento e ineguaglianza sociale a guidarlo, ma il sogno di regalare per la prima volta ai suoi connazionali e ai loro eredi un bene più raro e audace, la felicità.

Non si trattava di un sogno semplice da realizzare: «Eravamo l’incredibile concentrato, l’essenza di tutte le tragedie che da sempre colpiscono i cosiddetti paesi in via di Sviluppo», come ammise lo stesso Sankara. I numeri lo confermavano: una mortalità infantile del 180 per mille e un’aspettativa di vita che non superava i 40 anni, in un paese di 7 milioni di abitanti, quasi per la totalità contadini. Un tasso di analfabetismo del 98% e un medico ogni 50.000 abitanti. Un prodotto interno lordo di circa 100 dollari pro capite.

Dal suo insediamento, Sankara si decurtò lo stipendio e lo stesso fece per i suoi ministri, tra i quali si contavano molte donne. Le Mercedes dei funzionari pubblici furono sostituite con delle economiche Renault 5 e i voli per motivi politici potevano da quel momento in poi essere fatti solo in classe turistica. L’obiettivo di assicurare almeno 2 pasti e 5 litri d’acqua a ogni Burkinabé fu raggiunto grazie a una massiva rivoluzione economica che non riguardò soltanto politici e funzionari amministrativi, ma tutto l’apparato produttivo e militare del paese. L’operazione di demilitarizzazione del paese e di riorganizzazione dell’esercito fu funzionale a combattere la piaga della fame dei Burkinabé: l’addestramento militare prevedeva adesso in gran parte l’allevamento di pollame e la coltivazione di ortaggi e di patate, con delle soglie minime di produzione, come almeno un quarto di pollo per soldato prodotto a settimana. Il ricavato era destinato interamente alla popolazione.

Le importazioni di beni inutili dall’estero furono disincentivate. Il mercato di cosmetici, di bibite e alimenti prodotti dalle multinazionali occidentali, dei capi di abbigliamento dei grandi marchi europei, non faceva, infatti, che ingrossare in maniera sempre più drammatica il debito pubblico di un paese già spremuto dalla fame. Incoraggiò pertanto le imprese locali, la produzione autoctona di abiti tradizionali che lui stesso amava sfoggiare nelle occasioni pubbliche, l’acquisto nelle botteghe locali e dai piccoli artigiani burkinabé. Chiuse i locali notturni dove insieme alla dipendenza dalle abitudini occidentali ai Burkinabé venivano vendute lattine di Coca-Cola a prezzi esorbitanti e li convertì in balere diurne alle quali chiunque poteva accedere con una minima offerta e dove si sorseggiavano solo economiche bibite artigianali.

Furono scavati circa 1000 pozzi e realizzati oltre 250 bacini d’acqua. Fu costruita la ferrovia del Sahel per collegare il paese al Niger e nel Sahel furono piantati oltre 10.000 alberi per frenare l’avanzata del deserto. Oltre 330 scuole furono costruite, insieme a un numero simile di dispensari per la salute materno-infantile. In quasi tutti i villaggi del paese fu aperto un centro per la Salute primaria – e anche un campo sportivo. Con il ricavato dei tagli agli stipendi e agli sprechi, Sankara lanciò, inoltre, una campagna di vaccinazione, grazie alla quale oltre 2 milioni e mezzo di bambini furono vaccinati contro il tifo, il morbillo, la rosolia e la febbre gialla. Nel paese si iniziò a promuovere in quegli anni l’utilizzo di contraccettivi per contrastare la diffusione dell’HIV, e furono vietate la poligamia e l’infibulazione. Tra le priorità dell’agenda di governo, anche il lavoro alle donne e il reinserimento in società delle ex prostitute alle quali furono offerti nuovi impieghi. Nel sogno di felicità di Sankara, infine, nelle radio del paese veniva quotidianamente mandata in onda la voce dei Burkinabé, che potevano tutte le mattine intervenire nei programmi radiofonici per esprimere le loro critiche al governo e argomentare le loro proposte. Sempre attraverso un circuito radio, si cercava di diffondere l’alfabetizzazione anche nelle capanne delle più remote comunità rurali.

Riguardo al debito maturato dagli Stati africani nei confronti dei creditori stranieri, inoltre, Sankara era convinto che dovesse essere cancellato, e che i paesi africani dovessero coalizzarsi per questo scopo: come spiegò due mesi e mezzo prima di essere ucciso, il 29 luglio 1987durante la riunione ad Addisa Abeba dell’Organizzazione per l’Unità Africana,

«Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro, sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo».

Un atto di insubordinazione troppo grande nei confronti della Francia di Mitterand e dei suoi alleati occidentali.

Il 15 ottobre un commando armato irruppe nel palazzo in cui si stava svolgendo una riunione di gabinetto del Consiglio Nazionale della Rivoluzione e aprì il fuoco su Sankara e sui suoi uomini, finché i loro tredici corpi esangui non rimasero accatastati gli uni sugli altri.

Un processo e un anniversario – Annunciato ufficialmente il 12 aprile scorso, inizierà lunedì 11 ottobre, soli quattro giorni prima del trentaquattresimo anniversario della sua uccisione, il processo per l’omicidio di Sankara.  A confermarlo un comunicato emanato dalla procura di Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, dove si svolgerà l’udienza a porte aperte. Molti degli indiziati per l’attentato sono venuti a mancare nel corso degli anni, ma insieme ad altri 12 accusati è ancora in vita l’imputato più illustre, Blaise Compaoré. Salito al potere dopo la morte di Sankara, del quale sotto il suo governo fu portata avanti un’intransigente operazione di damnatio memoriae, l’ex Presidente del Burkina Faso è stato da sempre considerato il principale mandante dell’omicidio. Potrà, però, sedere al banco degli imputati soltanto in senso metaforico: Compaoré vive in Costa d’Avorio da quando un colpo di stato nel 2014 ha rovesciato il suo governo quasi trentennale, e lì resterà, a meno che non decida volontariamente di ritornare nel suo paese per presenziare in aula all’udienza. È difficile immaginare che in caso di condanna uscirà dal paese che lo ha accolto per andare a scontare la sua pena nel paese burkinabé. Oltre a Compaoré, tra gli accusati c’è anche il generale Diendéré, all’epoca capo dell’esercito e suo ex braccio destro, attualmente già in carcere a scontare una condanna a 20 anni per un tentativo di colpo di stato del 2015: la sentenza gli sarà probabilmente indifferente.

Certamente le assenze più pesanti al banco degli imputati saranno quelle dei mandanti internazionali di quest’omicidio, che da oltre trent’anni vengono chiamati in causa nella narrazione della morte di Sankara. La Francia di cui il Burkina Faso era ex colonia e con la quale il paese di Sankara voleva interrompere ogni rapporto economico, ad esempio: solo nel 2017 Macron ha desecretato i documenti ufficiali sulla morte di Sankara, fino a quel momento inaccessibili agli investigatori. Gli Stati Uniti, che in quel piccolo leader vicino alla Russia e a Fidel Castro in piena Guerra Fredda vedevano un nemico comunista pericoloso per il favore panafricano che stava catalizzando. E poi le ombre, documentate anche dal reportage di Silvestro Montanaro “E quel giorno uccisero la felicità”, su personaggi come Charles Taylor, fuggito, come da lui stesso successivamente ammesso con il favore degli Stati Uniti, da un carcere di massima sicurezza in Massachussetts per tornare in Liberia e organizzare una guerriglia con armi illegali e uomini addestrati in Libia dalla Cia: tra gli obiettivi del politico liberiano ci sarebbe stata anche la realizzazione dell’assassinio di Sankara. Una trama fitta di intrecci internazionali per soffocare il sogno di felicità burkinabé.


Viste le condizioni degli ormai anzianissimi indiziati e l’assenza per il momento di imputati internazionali agli atti dell’accusa, è improbabile che con questo processo giustizia venga fatta. Ma fare giustizia, e il giornalista Silvestro Montanaro, scomparso un anno fa, ce lo ha insegnato, spendendosi fino all’ultimo per portare in giro per l’Italia la storia di Sankara, è anche questo: continuare a raccontarci la sua lezione. Continuare a raccontare di Thomas Sankara, di come grazie al suo coraggio un paese poverissimo e sconosciuto dell’Africa nera fermò il tempo e provò a riscrivere da capo la sua storia, e di come le rivoluzioni di felicità qualche volta, incredibilmente, si possono realizzare. E si potrebbero replicare.

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Non ci si salva da soli nella Guerra dei vaccini https://ogzero.org/la-guerra-dei-vaccini-nessuno-si-salva-da-solo/ Sat, 29 May 2021 08:17:40 +0000 https://ogzero.org/?p=3676 La Guerra dei vaccini è iniziata. Sotto il benevolo ombrello “non ci si salva da soli”, le potenze occidentali hanno cominciato a capire che uno strumento diplomatico fondamentale per riconquistare mercati, prestigio e influenza in Africa passa, appunto, dai vaccini. Russia e Cina hanno cominciato la loro sfida da molti mesi. L’Occidente l’ha lanciata prima, […]

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La Guerra dei vaccini è iniziata. Sotto il benevolo ombrello “non ci si salva da soli”, le potenze occidentali hanno cominciato a capire che uno strumento diplomatico fondamentale per riconquistare mercati, prestigio e influenza in Africa passa, appunto, dai vaccini. Russia e Cina hanno cominciato la loro sfida da molti mesi. L’Occidente l’ha lanciata prima, durante il minivertice africano di Parigi e poi con il Global Health Summit di Roma.

La sfida dietro ai brevetti

Washington

Pregevole, e per nulla scontata, l’iniziativa del presidente americano Joe Biden di “sospendere i brevetti” e trasferire tecnologie per la produzione dei vaccini nel continente africano.

 

La Direttrice Generale della World Trade Organization (WTO), Ngozi Okonjo-Iweala, ha dichiarato che sospendere i brevetti sui vaccini garantirebbe ai paesi in via di sviluppo un accesso equo alla vaccinazione il più rapidamente possibile.

Immediatamente gli ha fatto eco il suo omologo francese, Emmanuel Macron, e poi la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. Parole importanti, piene di significato politico, forse anche umanitario, ma non può sfuggire che la mossa occidentale ha più il sapore della sfida a Russia e Cina che un vero e pregevole impegno per aiutare l’Africa a vaccinarsi. Ma andiamo per ordine.

Parigi

Oltre alle questioni legate al finanziamento delle economie africane, i partecipanti al vertice di Parigi, che si è tenuto sul tema il 18 e il 19 maggio, hanno affrontato le problematiche relative alla distribuzione dei vaccini anti-Covid-19 in Africa.

La richiesta, arrivata da un po’ tutte le parti in causa, è, appunto, l’eliminazione dei brevetti “per consentirne la produzione in Africa”.

Di questo si è fatto portavoce il presidente francese Emmanuel Macron che nella conferenza stampa finale ha aggiunto: «Chiediamo all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) e al Medicines patent pool di rimuovere tutti i vincoli in termini di proprietà intellettuale che bloccano la produzione di alcuni tipi di vaccini».

La paura delle potenziali varianti

Macron, dopo aver citato la lentezza della vaccinazione come uno dei principali problemi del continente, ha quindi fissato l’obiettivo di vaccinare il 40 per cento delle persone in Africa entro la fine del 2021, sottolineando che «la situazione attuale non è sostenibile, è ingiusta e inefficiente». Secondo il presidente francese infatti «non riuscendo a vaccinare gli africani si rischia di far emergere nel continente varianti di Covid-19 potenzialmente pericolose che poi potrebbero diffondersi in tutto il mondo». La direttrice del Fondo monetario internazionale (Fmi) Kristalina Georgieva ha avvertito che la mancata accelerazione del lancio del vaccino in Africa avrebbe anche conseguenze economiche: «È chiaro che non c’è un’uscita duratura dalla crisi economica se non si esce dalla crisi sanitaria». «Dobbiamo sostenere l’Africa nella costruzione delle proprie industrie e infrastrutture sanitarie.

«Il Team Europe lancerà un’iniziativa per aiutare a potenziare la produzione di vaccini in Africa, trasferendo le tecnologie necessarie», questo l’impegno preso dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen.

Roma

Durante il vertice di Roma l’Unione europea, infatti, ha promesso di impegnarsi per creare capacità produttiva nei paesi africani. Il continente, oggi, importa il 99 per cento dei vaccini.

L’iniziativa è a tutto tondo: investimenti in infrastrutture e impianti di produzione, sostegno alla gestione e la definizione del quadro normativo.

L’idea di fondo è quella di creare degli hub regionali così da dare impulso al trasferimento di tecnologie per la produzione di vaccini, ma anche di altro materiale sanitario.

Covax delay

Oltre alle difficoltà nella produzione locale, ad avere un impatto negativo nella copertura vaccinale dell’Africa sono i ritardi nelle consegne dei lotti. Dall’arrivo delle prime dosi di vaccino previste dal programma Covax dell’Oms, molti paesi africani hanno segnalato, nelle ultime settimane, ritardi nella consegna dei secondi lotti. A confermarlo a metà aprile è stato John Nkengasong, direttore dell’agenzia Africa Centres for disease control and prevention (Africa Cdc). E il Ruanda ha dovuto interrompere la vaccinazione contro il coronavirus a causa dei ritardi nelle consegne. A Roma, poi, si sono registrate promesse di nuovi finanziamenti per il programma Covax sia da parte di governi sia di case farmaceutiche.

In ogni caso, allo stato attuale, il programma è ampiamente sottofinanziato.

L’obiettivo dichiarato al termine del Glogal health summit è quello di arrivare a un accordo entro il vertice del G20 che si terrà alla fine di ottobre. Insomma, i negoziati, se mai inizieranno, saranno lunghi.

Ankara

All’appuntamento con la storia, poi, non poteva mancare il sultano di Ankara, che di affari in Africa ne ha molti ed è tutto teso ad ampliare la sua sfera di influenza sul continente. Anche lui ha chiesto un accesso equo per tutti i paesi. «Ci sono gravi ingiustizie nell’acquisizione dei vaccini», ha detto Recep Tayyip Erdoğan, e l’80 per cento di essi sono stati acquistati dai paesi ad alto o medio reddito. «Sebbene la maggior parte della popolazione nei paesi sviluppati sia stata vaccinata almeno con una dose, questo tasso non ha nemmeno raggiunto l’1 per cento nell’Africa subsahariana».

Iniziative sanitarie e finanziarie

Dosi gratis subito

Non vi è dubbio che tutte queste iniziative siano lodevoli. Macron chiede che venga vaccinato il 40 per cento della popolazione africana, ciò significa, grosso modo, 600 milioni di persone entro il 2021. Per raggiungere l’obiettivo, oltre a un’imponente macchina logistica, occorre fornire al continente più di un miliardo di dosi. Sospendere i brevetti e trasferire tecnologie servirà per il futuro, non certo per il presente. Sicuramente porterà sviluppo. Ma per raggiungere l’obiettivo fissato dal presidente Macron si deve fare uno sforzo in più e subito:

donare le dosi in eccesso prodotte dai paesi occidentali. Non si può aspettare che l’Africa sia in grado da sola di produrre vaccini. Donare dosi o, come intende fare Big Pharma, venderle a un prezzo calmierato, senza guadagno.

Vedremo se sarà in grado di farlo.

Finanziamenti gratis subito

G20

Al vertice di Parigi, poi, si è discusso di finanziamenti per sostenere le economie africane. Una decisione è stata presa. È stata confermata l’emissione di Diritti speciali di prelievo (Dsp) per un importo di 33 miliardi di dollari per l’intero continente, di cui 24 per l’Africa subsahariana. Il Dsp non è altro che una sorta di assegno convertibile in dollari, distribuito in proporzione al peso specifico dei paesi e al loro contributo alle risorse. In molti considerano il Dsp come una moneta del Fondo monetario internazionale. Denari concessi a prestito e a tasso zero. Comunque, da restituire. Il G20, tuttavia, si era detto favorevole all’emissione di diritti speciali fino a 650 miliardi di dollari.

La società civile, invece, proponeva di emettere diritti per almeno 3000 miliardi di dollari, così da creare una massa di liquidità considerevole per rilanciare le economie africane.

Nella dichiarazione finale i partecipanti al minivertice di Parigi hanno detto di fare affidamento sul sistema finanziario internazionale. È necessaria «una decisione rapida su un’assegnazione generale di Dsp per un importo senza precedenti, che dovrebbe raggiungere 650 miliardi di dollari, di cui quasi 33 miliardi destinati ad aumentare le attività di riserva dei paesi africani e a implementarlo appena possibile, e chiediamo ai paesi di utilizzare queste nuove risorse in modo trasparente ed efficiente», si legge nella nota finale.

Abidjan

Uno sforzo multilaterale che coinvolgerà la rete di Banche pubbliche di sviluppo africane, che coinvolgono la Banca africana per lo sviluppo (Afdb) – con sede ad Abidjan – e istituzioni finanziarie pubbliche nazionali e regionali. «Per alleviare le economie africane che soffrono di vulnerabilità legate al loro debito pubblico estero, i creditori del G20 e del Club di Parigi agiscono come concordato nel comunicato stampa dei ministri delle Finanze e dei governatori delle banche Centrali del G20 ad aprile e il quadro comune per i trattamenti del debito oltre la Debt service suspension initiative (Issd) adottata nel novembre 2020», hanno approvato i firmatari. Tradotto in soldoni significa moratoria del debito per il 2020 e il 2021. Per promuovere la crescita e la creazione di posti di lavoro, i partecipanti hanno espresso sostegno alle strategie nazionali africane accogliendo con favore l’ambizione di sviluppare un’alleanza per l’imprenditorialità in Africa, che avrà un’ampia portata panafricana e garantirà un posto preponderante per le aziende.

Questa alleanza, nelle intenzioni, renderà possibile mobilitare tutti i partner che desiderano mettere risorse finanziarie e tecniche al servizio dello sviluppo del settore privato in Africa.

Pieno appoggio all’iniziativa del G20 sul sostegno all’industrializzazione in Africa e nei paesi meno sviluppati, del partenariato del G20 con l’Africa, Compact with Africa.

Parole importanti e belle. Anche qui i tempi non sono propriamente brevi. Nelle prossime settimane verranno avviati i lavori tecnici, che dovrebbero sfociare in un accordo politico tra giugno e ottobre. Buon per loro. Insomma, un New Deal per l’Africa attraverso la creazione di nuove linee di credito. Anche qui staremo a vedere come e quando questi pronunciamenti si tradurranno in fatti concreti.

ReleaseG20: riconvertire il pagamento del debito in investimento

Roma

Insomma, timidi passi in avanti. Anche la rete di ong Link2007 giudica positivamente, almeno vede nelle affermazioni finali un passo in avanti per l’Africa. Il presidente della rete di ong, Roberto Ridolfi, spiega a “InfoAfrica”, che ci sono diversi punti da evidenziare: «Il primo è che al vertice non hanno partecipato tutti i paesi africani e non hanno partecipato tutti i paesi del G20, una partecipazione significativa, ma non massiccia». Per Ridolfi ci sono stati alcuni messaggi importanti, come quello sui diritti speciali di prelievo, che, tuttavia, «non bastano. Parliamo di 33 miliardi per tutta l’Africa su un totale sollecitato di 650». E poi c’è la questione che riguarda la vulnerabilità dei paesi africani. «Questa richiede un’attitudine diversa delle banche di sviluppo, più propensa al rischio. Le banche di sviluppo devono essere capaci di prenderlo questo rischio». C’è poi la sospensione dei pagamenti dei debiti: «Non è sufficiente, noi di Link2007 lo abbiamo detto più volte ed è ciò che portiamo avanti con la nostra proposta ReleaseG20, che il gruppo di lavoro e sviluppo del G20 mi sembra stia prendendo in considerazione: cancellare laddove possibile ma in larga parte riconvertire il pagamento del debito in un’azione di investimento verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile», una sorta di recovery fund per i paesi fragili. «Si menziona poi un’alleanza con il settore privato, che va alimentata e per questo torno sul fondo di riconversione del debito – conclude Ridolfi – che può essere costituito a livello nazionale e diventare un fondo Sdgs (Sustainable development goals founds, un meccanismo di cooperazione internazionale a favore dello sviluppo sostenibile) per alimentare e proteggere gli investimenti privati».

Durante il vertice francese la parola sostenibilità non è stata mai menzionata.

Parigi, Africa

Al vertice di Parigi non hanno partecipato tutti i paesi africani e nemmeno tutti quelli del G20, ma quelli che contano sì: dalla Cina all’Arabia Saudita, dagli Stati Uniti agli Emirati, dal Giappone al Portogallo, dalla Germania all’Italia e altre ex potenze coloniali. Per quando riguarda l’Africa i paesi strategici c’erano tutti: dal Sudafrica all’Angola, dal Congo alla Costa d’Avorio, dall’Egitto al Kenya, dalla Nigeria al Ruanda.

Situazioni ufficiali, parate e discorsi…

… In coda per ricevere il vaccino…

 

 

 

 

 

 

 

 

… o per ricevere aiuti alimentari…

Un minivertice, dunque, con il quale Parigi intende riaffermare e sviluppare la sua presenza nel Continente, nonché la sua influenza.

All’Africa, tuttavia, non servono parole. E non ha bisogno nemmeno che diventi terreno fertile per un’altra guerra diplomatica tra potenze occidentali. Servono fatti e subito. In cinque parole: l’Africa-ha-bisogno-di-giustizia.

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I francesi non se ne sono mai andati dal Sahel. Parte 1 – Il Ciad prima di Déby https://ogzero.org/il-sahel-e-in-ebollizione-i-francesi-non-se-ne-sono-mai-andati-dal-sahel-parte-1-il-ciad-prima-di-deby/ Mon, 03 May 2021 08:56:24 +0000 https://ogzero.org/?p=3299 Inauguriamo con questo intervento di Eric Salerno, e con il successivo di Angelo Ferrari, cui si aggiunge un podcast finale che raccoglie un’analisi di Luca Raineri, una serie di articoli imperniati sul Ciad e la sua importanza per la regione del Sahel.  Le strategie neocoloniali si sono adeguate subito all’emancipazione africana che nel 1960 portò […]

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Inauguriamo con questo intervento di Eric Salerno, e con il successivo di Angelo Ferrari, cui si aggiunge un podcast finale che raccoglie un’analisi di Luca Raineri, una serie di articoli imperniati sul Ciad e la sua importanza per la regione del Sahel. 

Le strategie neocoloniali si sono adeguate subito all’emancipazione africana che nel 1960 portò all’indipendenza di 17 nazioni, dopo il processo di decolonizzazione seguito alla Seconda guerra mondiale. A sessant’anni di distanza la reazione alle richieste di autodeterminazione rimangono invariate: repressione attraverso governi-fantoccio di leader militari addestrati in accademie, installati al potere con lo scopo di depredare le risorse del territorio; appoggio dei conflitti etnici, che spesso nascondono strutture economiche in competizione per le stesse risorse della terra. Il Sahel è in ebollizione e la morte improvvisa di Idriss Déby, il gendarme di Francia usato negli ultimi 30 anni da tutti gli inquilini dell’Eliseo per interventi militari in tutta l’area, crea ulteriori tensioni, ribellioni e istanze anticoloniali. 


Il cuore della Françafrique

Tessalit è adagiato su un pendio che dal Sahara algerino scivola dolcemente verso il cuore del Mali. Nel 1969 le poche casupole di fango impastato circondate dalle acacie in fiore (mimose che si difendono con spine capaci di forare pneumatici) ruotavano attorno alla vecchia caserma della Legione straniera francese. Il suo comandante, un giovane ufficiale, ci accolse con tè e biscotti, un giradischi impolverato, tanti 33 giri di musica classica e la realtà di un mondo in transizione. Mezzo secolo dopo, quel mondo è ancora alla ricerca della sua vera identità. È Storia o soltanto cronaca quella degli ultimi cinquanta anni che si ripete mentre la maggioranza degli osservatori si concentra sul presente e guarda nell’attesa del nuovo il futuro sempre incerto? La scienza ha fatto balzi incredibili. Il mondo si è aperto come mai nella storia dell’umanità era accaduto. E, purtroppo, sbagliamo se crediamo che vecchie abitudini possano sparire con la stessa velocità.

Tissalit 1969

Dall’emancipazione panafricanista dei padri dell’indipendentismo (1960)…

Quellufficiale era arrivato a bordo di un fuoristrada di fabbricazione sovietica ad accogliere i quattro viaggiatori italiani che attendevano davanti al suo ufficio che era anche il suo domicilio. Era tirato a lucido. Indossava una divisa appena stirata. Lui, il capitano, era responsabile del “governatorato” nel quale ci trovavamo. Il suo francese era perfetto. Aveva studiato a Bamako, la capitale. Poi il servizio militare e l’accademia militare di St. Cyr in Francia, il luogo in cui i colonialisti, un po’ snob, avevano forgiato gli uomini in divisa che avrebbero dovuto guidare l’Impero. Il Mali, però, aveva scelto una strada autonoma. Il suo leader, Modibo Keïta, come molti altri padri della nuova Africa indipendente, si era appoggiato a sinistra, prima all’Urss, infine alla Cina. Lui, il capitano, era appena tornato da Mosca, l’ultima tappa nel suo percorso ma, ci confidò, preferiva St.Cyr. Si parlò più dell’Europa che del Mali e l’indomani ci chiedemmo per quale motivo l’ufficiale era sembrato restio a discutere le vicende del proprio paese. Qualche settimana dopo il nostro rientro in Italia, viaggio di piacere non di lavoro, lo ritrovai fotografato su un’altra jeep mentre sfilava a Bamako, la capitale del Mali. Un colpo di stato militare, caldeggiato da Parigi, aveva cambiato le carte in tavola.

… alle controrivoluzioni fomentate nelle accademie militari neocoloniali (fine anni Sessanta)

Sono oltre trenta le nazioni africane che hanno avuto, o hanno ancora, leader usciti dai ranghi delle forze armate. St. Cyr, era l’accademia dei francofoni; Sandhurst quella per la formazione iniziale degli ufficiali dell’esercito britannico. Felix Malloum, presidente e primo ministro del Ciad dal 1975 al 1978, era un prodotto dell’accademia militare francese, il suo “vicino” a nord, Muammar el Gheddafi di quello britannico. Jean-Bedel Bokassa, uno dei peggiori dittatori nella storia del continente, imperatore della Repubblica centrafricana, a sud del Ciad, aveva alle spalle una lunga carriera militare con le forze armate francesi. E merita di essere ricordato il sottufficiale Idi Amin Dada, che grazie a Gran Bretagna e Israele rovesciò con un golpe il progressista Milton Obote. Amin e Bokassa, re e imperatore, vengono spacciati per espressioni di unAfrica senza cultura. Invece sonoFigli della vecchia Europa: il titolo su un mio articolo del dicembre 1976 che cito solo per sottolineare come il mondo allora era consapevole dei giochi delle vecchie potenze. Tanto che a Parigi due anni dopo, Germania, Belgio e Gran Bretagna – ex potenze coloniali –- e Stati Uniti fecero capire senza mezzi termini che non si fidavano della politica di Valéry Giscard d’Estaing, come se loro fossero espressione di un mondo migliore.

Il conflitto etnico: l’altra faccia del neocolonialismo

Il Sahel è in ebollizione

Goukouni Ouaddei, presidente del Ciad dal marzo all’aprile 1979 e dal settembre 1979 al giugno 1982 non ha mai indossato la divisa. Rappresentava, però, un’altra realtà fondamentale del continente africano: il conflitto etnico, risultato in gran parte della politica coloniale e dai confini decisi a tavolino in Europa.

La prima volta che lo incontrai fu in una camera buia di un albergo di Tripoli dove godeva della protezione del leader libico e si preparava a tornare in patria. Aveva appeso alla parete una cartina del suo paese e mi spiegò la complessità della situazione geopolitica.

Il Sahel è in ebollizione

Goukouni Ouaddei illustra mappe rappresentanti le spartizioni del Sahel nel 1981. Non cambia molto

La geografia di ieri è la stessa di oggi. La politica, in qualche modo, pure. L’avrei rivisto, quel “protetto” del leader libico, a N’djamena dove nel 1981, ero arrivato dalla capitale libica a bordo di un aereo su cui avevano preso posto una manciata di giornalisti e una delegazione del governo di Tripoli che andava a festeggiare, diciamo così, il ritiro delle forze armate libiche dalla capitale ciadiana devastata dalla guerra.

“Il Messaggero”, 12 aprile 1981

Resistenza del Tibesti contro le appropriazioni coloniali: dai Senoussi (1935) ai Toubou (1973)

Per cercare di comprendere il passato, il presente e probabilmente il futuro, è fondamentale quella cartina appesa da Ouaddei alla parete della sua camera d’albergo. Lui, come mi raccontò allora, era figlio di Ouaddei Kichidemi, derde, ossia la maggiore autorità religiosa e politica dei Toubou del Tibesti, la vasta, impervia catena montagnosa che cavalca il confine tra Ciad e Libia. Là nacque l’ordine religioso dei Senoussi, la stessa che guidò la rivolta della Cirenaica contro il colonialismo italiano e che soffrì maggiormente per la violenza della repressione – genocidio – ordinata da Mussolini e perpetrata dal generale Graziani, criminale di guerra italiano.


Lo sceicco sulla forca

Si calcola che all’incirca ottantamila libici siano costretti a lasciare i loro villaggi per arrivare dopo una lunga peregrinazione, scortati dall’esercito, nei baraccamenti costruiti in pieno deserto, cinti di filo spinato e vigilati da postazioni armate. Le condizioni igieniche nei campi sono terribili, inoltre scarseggiano l’acqua e il cibo, tutto questo determina fra i deportati un altissimo tasso di mortalità. Alcune altre decine di migliaia di libici riescono a sottrarsi alla deportazione e si rifugiano in Egitto. La crudele strategia di Graziani funziona a meraviglia, alla fine della campagna “pacificatrice” la popolazione della Cirenaica si sarà ridotta di oltre un quarto.

Troncato con le reclusioni nei campi il nesso vitale fra i guerriglieri e la loro gente, Graziani può condurre la sua feroce offensiva. I reparti italiani e coloniali possono finalmente scorrazzare lungo le piste del deserto, sorvolate e sorvegliate, mitragliate e bombardate dall’aeronautica. Le oasi della resistenza vengono occupate l’una dopo l’altra. Eppure la resistenza rimane agguerrita e determinata. Di fronte allo spietato generale italiano si erge una figura destinata a entrare nella leggenda, quella di Omar al-Mukhtar, uno sceicco aderente alla confraternita senussita che comanda l’insurrezione armata in Cirenaica e si ritaglierà nella storia libica il ruolo di eroe nazionale.

Ma la sua determinazione non basta, le bande di al-Mukhtar possono ben poco contro un nemico che alla moderna organizzazione militare associa una brutalità medievale, un nemico che incendia i villaggi, avvelena i pozzi, sequestra i beni dei capi senussiti, bombarda l’oasi di Cufra, nido dei ribelli, ricorrendo addirittura a quegli stessi aggressivi chimici che pochi anni prima, sottoscrivendo un solenne patto internazionale, l’Italia si è impegnata a mettere al bando. Per impedire i contatti della guerriglia con il santuario egiziano, dove si rifugiano i ribelli e da dove arrivano aiuti e rifornimenti, viene costruita lungo la frontiera, nel deserto fra il mare e l’oasi di Giarabub, una barriera di filo spinato lunga 270 chilometri.

[Alfredo Venturi, Il casco di sughero, p. 80, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020]

 

Nel 1935, come al solito, i padroni di allora – Italia e Francia – giocarono una piccola partita a Monopoli con la terra degli altri. Con un trattato che prese nome dai suoi firmatari, Mussolini e Laval, la Francia cedette all’Italia un pezzo della terra dei Toubou come premio per la partecipazione di Roma alla Prima guerra mondiale e, ancora più importante, alla rinuncia italiana a rivendicare come propria la colonia francese della Tunisia abitata da molti italiani. Nel 1955 re Idriss I “restituì” il territorio (114.000 kmq) alla Francia. Nel 1973, la Libia di Gheddafi pensando ai giacimenti di uranio e altri minerali rari nella striscia invase quel territorio e citando laccordo Mussolini-Laval, lo annesse nel 1976. Curiosamente tutte le fazioni ciadiane, per contestare le pretese libico, citarono il più vecchio accordo (1899) tra Francia e Regno Unito.

Il Sahel è in ebollizione

Fazioni ciadiane in Guerra per l’uranio delle potenze occidentali (1975)

E qui dobbiamo ritornare, appunto, alle fazioni ciadiane, alla decolonizzazione, alle rivendicazioni tribali e regionali, alle alleanze interne ed esterne. E al bottino. Goukouni Ouaddei entrò nel mondo politico come militante del Fronte nazionale di liberazione del Ciad (Frolinat) che rappresentava le istanze delle popolazioni delle zone centrali e nordiche contro la dominazione dei sudisti rappresentati dal presidente Francois Tombalbaye, considerato uno strumento dellegemonia politica di Parigi nel paese. Il suo assassinio nel corso di un golpe militare nel 1975 aprì ufficialmente, si potrebbe dire, la guerra per le risorse – ingenti depositi di petrolio e uranio – che avrebbero dovuto trasformare radicalmente l’economia del paese e le condizioni della sua popolazione.

Il Sahel è in ebollizione

Eric Salerno, L’intervento libico in Ciad, “Il Messaggero”, 16 gennaio 1981

Da allora gli attori esterni hanno dominato la scena in una competizione che ha visto anni di guerra civile e gli interventi diretti della Libia di Gheddafi e della Francia spesso a sostegno alternato dei medesimi attori interni.

Teatrino di fantocci incrociati (primi anni Ottanta)

Così nell’aprile 1981 ritrovai Goukouni Ouaddei in una N’Djamena devastata dalla guerra civile dove era tornato a riprendere il potere grazie all’apparato militare libico che aveva invaso il paese. L’altalena delle alleanze incrociate e degli interventi armati per “stabilizzare il Ciad”, come spiegarono Parigi e i suoi alleati occidentali e non solo, non si è mai fermata da allora.

Il Sahel è in ebollizione

“Il Messaggero”, 16 aprile 1981

 

Nel giugno 1982 senza le truppe libiche a sostegno, Ouaddei fu costretto (da vecchi alleati come Hissene Habrè, l’uomo su cui per un certo periodo la Francia aveva puntato) a tornare al suo albergo tripolino e ripresero i giochi. Nel 1984, per 48 ore, ci fu una nuova sceneggiata nella capitale libica. Gheddafi e un inviato speciale di Mitterand si misero alla ricerca di un “terzo uomo” da sostituire ai due vecchi attori. La cronaca di quegli anni è solo storia di scontri armati, follie politiche e diplomatiche e di una popolazione divisa dalle radici tribali, religiose ed economiche (pastori contro agricoltori) a cui non viene consentito di trovare una via pacifica verso il futuro.

Il Sahel è in ebollizione

Un paese poverissimo, gendarme francese: la caserma Ciad

Il Ciad oggi è ancora uno dei paesi più poveri del mondo. Il 42 percento della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e secondo l’International Crisis Group, tra il 30 e il 40 per cento del bilancio annuale del paese viene destinato, guarda caso, alle spese militari. In questi giorni, dopo la morte di Idriss Déby Into, il cui ruolo di presidente è stato, per proclama dei militari, ereditato dal figlio, c’è un tentativo di mediazione da parte degli altri quattro paesi del Sahel (Mauritania, Burkina Faso, Mali e Niger) per trovare un punto d’incontro tra le tre correnti politico-militari su un possibile governo di unità nazionale. Un compito oggi probabilmente più difficile e complesso di ieri. Quella fascia del continente africano, come altre più a sud, è presa tra vari conflitti incrociati dove mai come prima l’Islam viene usato come arma di conquista e distruzione e nuovi attori, come la Cina e soprattutto la Turchia, guadagnano nuovi spazi e alleanze economiche e politiche.

 

L'articolo I francesi non se ne sono mai andati dal Sahel. Parte 1 – Il Ciad prima di Déby proviene da OGzero.

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I francesi non se ne sono mai andati dal Sahel. Parte 2 – Il Ciad dopo Déby https://ogzero.org/l-immediato-futuro-del-ciad-i-francesi-non-se-ne-sono-mai-andati-dal-sahel-parte-2-il-ciad-dopo-deby/ Mon, 03 May 2021 08:55:10 +0000 https://ogzero.org/?p=3334 Proseguiamo dopo l’articolo di Eric Salerno con cui abbiamo inaugurato questa particolare attenzione sul passato, il presente e l’immediato futuro del Ciad, con questo punto sui dilemmi legati alla regione del Sahel redatto da Angelo Ferrari, con un podcast finale che raccoglie un’analisi di Luca Raineri.  Il Primo Maggio a Sarah, a 550 km dalla […]

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Proseguiamo dopo l’articolo di Eric Salerno con cui abbiamo inaugurato questa particolare attenzione sul passato, il presente e l’immediato futuro del Ciad, con questo punto sui dilemmi legati alla regione del Sahel redatto da Angelo Ferrari, con un podcast finale che raccoglie un’analisi di Luca Raineri. 

Il Primo Maggio a Sarah, a 550 km dalla capitale, le forze di sicurezza hanno sparato contro una folla di manifestanti che stava protestando contro il Consiglio militare di transizione (Cmt) al potere in Ciad dalla morte del presidente Idriss Deby, uccidendo almeno 4 persone. La repressione violenta delle manifestazioni è stata criticata da alcuni tra i maggiori sostenitori del Ciad: la Francia, gli Stati Uniti e l’Unione africana (AU). Come già era successo in Sudan dopo la fine di al-Bashir, i ciadiani, stufi dell’arroganza dinastica dei militari filofrancesi, si sono ribellati  e le loro parole sono state raccolte da “AfricaNews”: «Non vogliamo che il nostro Paese diventi una monarchia», ha dichiarato un manifestante di 34 anni, Mbaidiguim Marabel. «I militari devono tornare in caserma per far posto a una transizione civile», ha aggiunto. «La polizia è arrivata, ha sparato gas lacrimogeni, ma noi non abbiamo paura», ha affermato Timothy Betouge, 70 anni. Ma il ruolo dell’unica nazione stabilizzata dall’autocrazia di Déby, fondata sull’esercito, è quello di gendarme per conto della Francia; mentre il suo destino è da sempre legato a quello della Libia e un accordo nel paese maghrebino può provocare squilibrio in Ciad, travasando ribelli e milizie.


Le Carte costituzionali della Françafrique

La democrazia in Africa balbetta. Non è certo una novità e molte repubbliche assomigliano sempre di più a delle monarchie dove il potere lo si assume per successione dinastica. L’ultimo caso è quello del Ciad. Nel giorno della proclamazione dell’ennesima vittoria – la sesta – alle presidenziali del padre padrone del paese, Idriss Déby, segue immediatamente l’annuncio della sua morte sul campo di battaglia. Il presidente-guerriero era al fronte per combattere i ribelli provenienti dalla Libia, il Front pour l’alternance et la concorde au Tchad (Fact). Una versione poco credibile, ma è quella ufficiale. Immediatamente viene formato il Consiglio militare di transizione (Cmt) al cui vertice sale, guarda caso, il figlio di Déby, Mahamat Idriss Déby. Già militare di carriera a capo della guardia presidenziale con esperienza di guerra in Mali, dove ha svolto l’incarico di secondo in comando delle forze speciali impegnate nel conflitto in Azawad. La presa di potere del figlio di Déby – perché di questo si tratta – viene giustificata per «assicurare la difesa del paese in situazioni di guerra contro il terrorismo e le forze del male, e garantire la continuità dello stato». La Costituzione del Ciad, così, diventa carta straccia. La Carta fondamentale prevede, infatti, che sia il presidente dell’Assemblea nazionale a dover subentrare al capo dello stato defunto e non il figlio. Le costituzioni in Africa hanno un valore relativo: si cambiano, si modificano o si stracciano a seconda delle esigenze del momento di chi governa. L’alternanza al potere, come si vede in maniera plastica in Ciad, risponde più al mantenimento di delicati equilibri politici e, a volte, etnici, ma anche internazionali. Il Ciad è considerato un alleato fondamentale della Francia – e dell’intero occidente – nella lotta al terrorismo che sta infestando l’intero Sahel. Quello ciadiano è l’unico esercito dell’area degno di questo nome. Déby padre – dopo la scoperta del petrolio – ha investito tutto sulla sicurezza costruendo un esercito efficiente con lui comandante in capo. Per la Francia perdere un alleato così prezioso nell’ambito dei paesi del G5 Sahel, sarebbe una catastrofe.

L’esercito più addestrato del Sahel sotto scacco di un gruppo ribelle del Tibesti

La morte di Déby, tuttavia, avrà delle conseguenze concrete su tutta l’area. Un Ciad instabile non giova a nessuno. E quindi si spiega un’alternanza al potere così forzata da scatenare le proteste della popolazione, che vive in condizioni molto precarie, e il silenzio della Francia. Non a caso il Ciad è da sempre considerato il braccio armato dell’occidente in un contesto tremendamente instabile come quello saheliano. Secondo Giovanni Carbone, responsabile del Programma Africa dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), ancora una volta, «così come era avvenuto per lo stesso Déby quando arrivò al potere nel 1990, è stato un movimento ribelle proveniente dal nord a cambiare le carte del potere a N’Djamena. Il Ciad è attorniato da contesti di instabilità e benché non fosse il fulcro della regione era un partner ricercato in virtù di una tradizione di impegno militare e di efficienza del proprio esercito. Il paradosso è che mentre N’Djamena è stata chiamata come elemento capace di contrastare Boko Haram e di sostenere il G5 Sahel, non è stata in grado di fermare questo gruppo ribelle», il Fact.

L'immediato futuro del Ciad

L’11 aprile, infatti – giorno delle elezioni presidenziali – il gruppo armato Fact ha attraversato il confine libico, entrando nel Nord del paese con un obiettivo chiaro: liberare il paese dalla dittatura di Déby. Il governo di N’Djamena ha riferito di «un’incursione di diverse colonne di veicoli pesantemente armati», respinta dall’aviazione ciadiana. Governo che ha condannato l’ennesimo tentativo «di destabilizzare il Ciad dalla Libia». Cosa analoga era accaduta all’inizio del 2019, quando i ribelli dell’Unione delle forze della resistenza (Ufr) lasciarono il Fezzan e, avanzando da nord, hanno cercato di arrivare alle porte della capitale del Ciad. A circa mille chilometri di distanza da N’Djamena, vennero fermati dai caccia dell’aviazione francese nell’ambito dell’operazione Barkhane. Oggi, tuttavia, occorre constatare che la Francia non ha intenzione di intervenire direttamente, almeno per ora.

Dirette conseguenze della smobilitazione annunciata delle milizie libiche?

Rimane l’incognita libica. La tregua raggiunta in Libia e il previsto ritiro dal paese di tutti i combattenti stranieri, solleva interrogativi sul futuro dei mercenari africani impegnati da anni nel conflitto libico. Secondo Claudia Gazzini, analista dell’International Crisis Group, sentita da “InfoAfrica”, sono «quattro i gruppi armati dell’opposizione ciadiana in Libia», complessivamente duemila uomini, «di cui più della metà ha combattuto per il generale Khalifa Haftar». Il Fact è in Libia da tanti anni, spiega Gazzini, e «tra fine 2018 e inizio 2019, quando Haftar è entrato nel sud della Libia, è passato dalla sua parte. La sua base era nella zona di Jufra, nel Sudovest libico». L’analista del Crisis Group, spiega che il Fact «ha attraversato il confine libico, è entrato nel Nord del Ciad, è arrivato a Zouarké e li si è fermato. I miliziani non sono entrati nelle cittadine dove ci sono le basi militari, non sono entrati a Wour, e quindi la forza militare ciadiana non è intervenuta».

L'immediato futuro del Ciad

Haftar, Emirates, Wagner: la smobilitazione spinge il Fact in Ciad

Ci sono stati due raid aerei e i ribelli hanno detto di non aver subito perdite, ma qui è difficile distinguere tra realtà e propaganda. Di sicuro, secondo Gazzini, «nessuno sembra particolarmente allarmato da questa avanzata, a differenza del 2019, quando ci fu l’incursione francese». Quale sia lo scopo del Fact, non è ancora chiaro. Rimane un’incognita. Di certo i combattenti di questo gruppo sono ben armati e con molta probabilità le armi sono di provenienza russa ed emiratina, non è un mistero, infatti, che a fianco di Haftar si sono schierati gli Emirati e il gruppo di mercenari russi della Wagner.

Il tema del rimpatrio dei mercenari africani, che hanno combattuto in Libia, nei paesi di origine non è da trascurare. L’incursione del Fact potrebbe avere il significato di contare, in futuro, nel riassetto del Ciad così da poter comprendere anche le milizie ribelli. Ma è solo un’ipotesi. Il non intervento occidentale, poi, potrebbe far pensare che si voglia aprire un negoziato, appunto, per includere i gruppi armati nel futuro Ciad, favorendo la smobilitazione degli stessi dalla Libia. Quindi un’incursione, in un qualche modo, se non incoraggiata, ma tollerata dall’occidente. La morte di Déby apre scenari, per ora, ancora sconosciuti. In questo quadro la smobilitazione dei mercenari sudanesi, presenti in Libia, sembra essere più concreto, e già sta avvenendo, ma in Sudan è stato avviato un processo “democratico” che il Ciad non sta vivendo e, soprattutto, Déby ha sempre considerato i gruppi ciadiani in Libia e gli oppositori come dei veri e propri terroristi. Infatti, il Consiglio militare si è rifiutato di negoziare con il Fact. Insomma, un bel rompicapo.

L'immediato futuro del Ciad

In questa fase transitoria non potevano mancare le proteste per quello che in molti definiscono un colpo di stato, nonostante il figlio di Déby si affanni a parlare al paese e a nominare un primo ministro “laico”. Le proteste si sono concentrate, soprattutto, sul fatto che la Costituzione del paese sia stata completamente aggirata e poi, ovviamente, contro l’ingerenza della Francia negli affari del Ciad e contro la transizione. Mahamat Idriss Déby, intanto, ha nominato un primo ministro “civile”, Albert Pahimi Padacké, che è stato l’ultimo primo ministro del maresciallo Déby tra il 2016 e il 2018, poi si è dissociato dalla maggioranza e si è candidato come rivale, indipendente, del capo dello stato alle presidenziali dell’11 aprile. A Radio France International ha spiegato così questo cambio di rotta e l’accettazione dell’incarico: «Ci ho pensato – ha detto – ho esaminato le questioni che il nostro paese deve affrontare oggi. E mi sono detto che ci sono momenti della vita in cui devi accettare le sfide per il bene della tua gente». Di sicuro la nomina di Padacké, da parte del Cmt, dovrebbe servire a placare le proteste. Ma non è così. C’è da chiedersi se le manifestazioni – che hanno già provocato diversi morti, feriti e arresti arbitrari – si estenderanno anche in zone remote del paese e non solo nelle aree urbane.

A gettare scompiglio, poi, è arrivata la nomina, sempre da parte del Cmt, di un segretario personale di Mahamat. Si tratta di Idriss Youssouf Boy, un membro della stretta cerchia familiare. Militare, vicedirettore dell’Agenzia nazionale per la sicurezza e da poco nominato console in Camerun. Insomma, gli affari del Ciad si giocano tutti in famiglia.

Il giovane Déby, durante un messaggio rivolto alla nazione, ha giustificato la creazione dello stesso Cmt adducendo come principale motivazione le dimissioni del presidente dell’Assemblea nazionale che in base alla Costituzione avrebbe dovuto assumere le funzioni di capo dello stato.

Al di là della retorica contro i ribelli, definiti “forze del male”, Déby ha sostenuto che la preoccupazione principale del Cmt sarà quella di garantire la sicurezza e la coesione nazionale nella fase di transizione perché «la guerra non è finita e permane la minaccia di attacchi da parte di altri gruppi armati all’estero». Secondo Déby, il Consiglio militare di transizione non ha altro obiettivo «che garantire la continuità dello Stato, la sopravvivenza della nazione e impedire che sprofondi nel nulla, nella violenza e nell’anarchia». I membri della Cmt sono soldati «che non hanno altra ambizione che servire la loro patria lealmente e con onore».

Mahamat Deby ha poi ricordato la scelta di affidare il governo a una personalità civile, che guiderà un esecutivo di transizione che porterà avanti un’agenda imperniata su riconciliazione nazionale, pace, unità e solidarietà. «Questi valori così cari al nostro defunto presidente saranno testati e sanciti in un dialogo nazionale inclusivo che sarà organizzato durante questo periodo di transizione». Deby ha poi detto di aver assunto il ruolo di “garante” di questo dialogo, secondo «un preciso calendario che il governo sarà chiamato a elaborare». Nel suo discorso il nuovo leader del paese ha annunciato la creazione di un Consiglio nazionale di transizione, rappresentativo di tutte le province e di tutte le forze vive della nazione «per consentire il supporto legislativo dell’azione governativa e dare al paese le basi per una nuova Costituzione». L’obiettivo del processo «è consentire di organizzare quanto prima elezioni democratiche, libere e trasparenti. La democrazia e la libertà introdotte in Ciad nel 1990 sono e rimarranno valori irreversibili». Insomma, tutta retorica, per ora, e di certo la Costituzione non è più un riferimento per il rampollo di Déby padre.

Poi c’è il paese vero

L'immediato futuro del Ciad

Tessalit, 1969. Scatto di Eric Salerno

Poi c’è il paese vero. Quello che dagli equilibrismi internazionali non guadagna nulla, anzi. Il popolo, come spesso accade, è solo sullo sfondo. I dati non sono certo confortanti: l’indice di sviluppo umano è pari a 0,328, molto basso, e colloca il paese al 183esimo posto al mondo, il Pil pro capite è 709 dollari, il tasso di analfabetismo è del 65 per cento. La maggioranza di quasi 16 milioni di abitanti vive in condizione di povertà. Tutto ciò nonostante il paese viva, di fatto, sull’estrazione petrolifera. Un consorzio guidato dalla statunitense ExxonMobil ha investito 3,7 miliardi di dollari per sviluppare le riserve di petrolio a 1 miliardo di barili. Ma poi c’è Idjélé, una donna “robot”, con lo sguardo perso nel vuoto che per dodici ore al giorno, per miseri guadagni, colpisce con un pesante martello un pezzo di cemento per sminuzzarlo e poi rivenderlo. Questo avviene sotto il solo cocente con temperature che superano i 40 gradi.

Nel cuore di N’Djamena, lungo una strada senza ombra ai piedi dei moderni edifici della Cité internationale des affaires, decine di donne spaccano per 12 ore al giorno blocchi di cemento. Idjélé, 38 anni, ma ne dimostra 20-30 in più, ha il viso ricoperto da una polvere biancastra che arrossisce gli occhi, le labbra gonfie e screpolate per l’estrema stanchezza, le dita deformate e graffiate dalla sabbia che raschiano e setacciano per recuperare ogni sassolino ricavato dal blocco di cemento. Queste donne sono al centro di un circolo vizioso, se non tragico, dell’economia sommersa di questo Ciad classificato dall’Onu come il terzo paese meno sviluppato al mondo. Gli uomini comprano macerie nei cantieri demoliti e le rivendono a queste donne che si preoccupano di sbriciolarli per poi rivendere i sassolini ricavati a chi non può permettersi cemento puro o cemento armato, costoro li trasformano in mattoni e con un po’ di fango o cemento vi costruiscono i muri di una nuova casa. Idjélé, guadagna pochi centesimi di euro per ogni sacco di sassolini. Dare dignità a queste donne, tuttavia, non sembra essere nei piani del giovane Déby. Alla comunità internazionale interessa di più che il Ciad continui a svolgere il suo ruolo di stato forte nella regione del Sahel, il resto sono affari interni, compresa Idjélé.

L'immediato futuro del Ciad

N’Djamena, 2015

Proponiamo infine un intervento di Luca Raineri a Bastioni di Orione, trasmissione di Radio Blackout , del 24 aprile 2021, che analizza a sua volta la situazione geopolitica del Sahel, sottolineando le derivazioni economiche dei conflitti etnici e l’incremento della presenza militare europea nella regione – e italiana con il coinvolgimento in forze nella missione Takuba.

“Idriss Déby, un fils de pute, mais notre fils de pute”.

 

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n. 6 – Primavere, rivolte e rivoluzioni: dieci anni di utili contaminazioni https://ogzero.org/l-eredita-delle-primavere-arabe-e-le-rivoluzioni-di-oggi/ Sun, 02 May 2021 09:50:35 +0000 https://ogzero.org/?p=3244 Questo articolo introduce una sezione nuova della raccolta di articoli di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria: analizzeremo le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medioriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe, e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative […]

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Questo articolo introduce una sezione nuova della raccolta di articoli di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria: analizzeremo le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medioriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe, e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti.


n. 6

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Correnti umane da un Medio Oriente interconnesso

L’area del Medio Oriente è particolarmente rilevante per l’analisi delle situazioni di instabilità politica o di perdurante conflitto dei paesi d’origine dei migranti che sfociano o che potrebbero presto sfociare, come nel caso del Libano, in correnti umane lungo la rotta dell’Egeo e lungo quella balcanica, per approdare in prossimità dei confini europei.

Dalla Rivoluzione dei Gelsomini alla fuga di Saleh

Al riguardo occorre sottolineare che difficilmente la precarietà istituzionale o gli episodi di violenza presenti in uno dei paesi mediorientali non va a dispiegare i propri effetti su un altro paese appartenente alla medesima area, anche se in modalità diverse e con diversa intensità. Se è vero, tuttavia, che l’onda propulsiva degli eventi che interessano i paesi del Medio Oriente è caratterizzata dalla contaminazione di un paese con l’altro, va altresì riconosciuto che l’area nell’ultimo decennio ha subito il contraccolpo degli effetti politici e sociali che dieci anni fa si sono generati mediante le cosiddette Primavere arabe – termine coniato dai media occidentali – a loro volta conseguenza delle proteste popolari contro le autorità dittatoriali allora detentrici del potere. Infatti, nel dicembre 2010 un venditore ambulante in Tunisia, Mohamed Bouazizi, si diede fuoco davanti al municipio della città di Sidi Bouzid come tragico simbolo di protesta contro il perdurante eccesso dell’impiego della violenza e della repressione delle forze di polizia fedeli al regime di Zine El-Abidine Ben Ali, a quel tempo da 23 anni al potere, nei confronti della popolazione civile. Nel caso specifico di Mohamed Bouazizi la polizia tunisina aveva sequestrato arbitrariamente il suo banco di vendita del pesce dinanzi all’assoluta indifferenza delle autorità. Da quel momento la Tunisia s’incendiò in tumulti popolari definiti come la “Rivoluzione dei Gelsomini” che portarono il presidente-dittatore all’esilio e al primo innesto di un processo democratico nel paese. Invece il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh fuggì in esilio in Arabia Saudita rassegnando le dimissioni e lasciando il paese in una situazione di completa instabilità. Le immagini di tale gesto di immolazione in Tunisia arrivarono negli altri paesi del Medio Oriente grazie all’emittente Al-Jazeera. Nel corso di qualche mese l’ondata di proteste si dispiegò in altri paesi dell’area del Nord Africa e in alcuni del Medio Oriente che progressivamente videro i vari regimi crollare uno a uno come le tessere di un domino: ciò avvenne in primo luogo in Egitto con le celebri proteste del 25 gennaio 2011 in piazza Tahrir. Non solo, se monarchie quali Giordania, Marocco resistettero a tali tumulti attraverso concessioni alle richieste del popolo grazie a esigue modifiche delle rispettive costituzioni, in altri paesi le proteste mutarono rapidamente in sanguinosi conflitti civili non ancora del tutto risolti, come avvenne in Siria contro il regime di Bashar al-Assad, in Libia durante la dittatura di Gheddafi e infine nello Yemen contro Ali Abdullah Saleh che nel 2012 lasciò il potere.

L'eredità delle Primavere arabe

Campo di ribelli della coalizione anti-Gaddafi, Ajdabiya in Libia, aprile 2011 (foto Rosen Ivanov Iliev).

In tutti i paesi interessati da tali reazioni popolari sono rintracciabili tre elementi comuni qualificabili quali: il disagio economico, la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi individui, quasi in una sorta di oligarchia economica ravvisabile in particolar modo nella cerchia di soggetti affiliati al regime di Ben Ali in Tunisia o quello di Bashar al-Assad in Siria e, infine, il controllo fortemente repressivo e autoritario della vita pubblica.

Le Primavere arabe sono davvero fallite?

Ad ogni modo, guardando alla situazione attuale degli stessi stati, tra cui l’Egitto retto oggi dal presidente dittatore Abdel Fattah al-Sisi, paese nel quale dieci anni fa i poteri autoritari erano stati sovvertiti dal popolo, si parla spesso di un fallimento di tali “primavere” e dell’incompiutezza del sistema democratico al quale esse stesse miravano attraverso l’affermazione di principi di libertà e di uguaglianza e la rivendicazione dei diritti civili, ma è realmente così?

Il dubbio tuttavia che un fenomeno importante – seppur incompiuto – si determinò a partire dalla fine del 2010 attraverso le cosiddette Primavere arabe, proviene proprio dall’analisi dei movimenti  di protesta che si sono dispiegati nel decennio successivo allo scoppio delle rivolte e che da ultimo, nel 2019,  hanno condotto alle dimissioni il presidente dell’Algeria Abdelaziz Bouteflika, e alla destituzione di Omar Hasan Ahmad al-Bashir in Sudan, nonché l’ondata di disperate proteste iniziate negli scorsi anni da parte della popolazione irachena e di quella libanese.

Ascolta “Lo stallo ad Algeri e la resistenza del movimento Hirak: un sistema da sovvertire” su Spreaker.

In particolare, in Libano gli scontri nell’ottobre del 2019 si sono verificati contro l’élite politica da sempre contraddistinta per la sua corruzione ed emersa con evidenza con la dichiarazione da parte del governo del default finanziario nel marzo del 2019 del quale ci occuperemo più specificamente in seguito. Con riferimento a tali paesi oggi si parla più che di “primavere” di vere e proprie “rivolte arabe” o di “rivoluzioni arabe”. Le proteste in Iraq e in Libano si muovono oltretutto in modo più maturo e consapevole dimostrando capacità di resistenza popolare alle provocazioni istituzionali durante gli scontri, nonché capacità dei manifestanti di riorganizzarsi e di essere costantemente presenti nonostante le misure anti-Covid-19 imposte dal governo, e purtroppo spesso da questo strumentalizzate con un fine chiaramente repressivo volto al mantenimento del proprio status quo.

Cosa quindi possiamo dire si sia generato con quelle controreazioni del popolo rispetto agli abusi dei poteri istituzionali, cosa è andato rompendosi in modo definitivo allora, nonostante dalle macerie ancora oggi non risorga in quei paesi la fenice di uno stato democratico?  Occorre fare una riflessione preliminare: i moti di protesta detti Primavere arabe, non sono altro che un fenomeno che rappresenta solamente la punta dell’icerberg di un malessere profondo e generalizzato per anni covato negli animi della popolazione civile di diversi paesi impossibilitata a vivere in stati non rispettosi dei propri diritti e delle proprie libertà non riconosciute a causa dei regimi totalitari presenti in essi.

Prestiti in cambio di una politica liberista

I primi accenni del malcontento popolare in realtà si devono ricercare nel fallimento economico degli anni Ottanta e Novanta che ha interessato molti paesi arabi. I sistemi di questi paesi negli anni Settanta si contraddistinguevano per essere delle economie socialiste mentre nei decenni successivi sono passati a un sistema di libero mercato che non ha avvantaggiato la popolazione ma esclusivamente l’élite al potere. Negli anni Ottanta in particolare si determinò la crisi del sistema economico e iniziarono le proteste da parte del popolo che non beneficiava del medesimo benessere e che invece veniva ostentato dalla classe politica. I paesi arabi negli anni accumularono infatti ingenti debiti pubblici che li portarono a negoziare nuovamente con la Banca mondiale i fondi internazionali ricevuti, promettendo in cambio un approccio neoliberista delle proprie economie che come detto determinò una disparità sociale con un peggioramento della condizione popolare. Ciò avvenne in primo luogo in Algeria nel 1988 con il crollo dei prezzi del petrolio. Ci si rese ben presto conto tuttavia che le egemonie allora al potere in molti paesi arabi non avevano alcun interesse alla promozione di un sistema democratico che resta ancora oggi un’utopia in quest’area. La società invece era retta sempre da un sistema di forte repressione e di controllo della popolazione civile. L’errore in quel caso fu anche da parte dell’Occidente, illuso di poter negoziare con gli autoritarismi arabi, dandone per scontata la stabilità politica e la loro condizione di immobilismo, preoccupati dell’instaurazione di un sistema di privatizzazione economica da parte dei regimi islamici.

Il popolo anestetizzato e oggetto passivo della politica

Nel 2011 la natura dei poteri contestati dalla popolazione furono monarchie come Marocco, Giordania e Arabia Saudita che legittimano il loro potere nell’appartenenza a clan familiari o le repubbliche nazionaliste dittatoriali come l’Egitto che dichiaravano di assicurare una sorta di welfare generalizzato dei servizi pubblici per la popolazione, tuttavia senza mai dotarsi di un apparato per la loro erogazione. La narrazione infatti da parte delle autorità politiche delle repubbliche nazionaliste in questo caso si concentrò sulla costante minaccia di qualche potere esterno finalizzata al rafforzamento politico interno della loro condizione e anestetizzando il popolo con tale retorica per diversi anni rispetto a quanto stava realmente accadendo. Infine, il Libano invece costituiva in quegli anni un unicum rispetto al sistema statale, essendo contraddistinto da un sistema confessionale del potere al quale passò anche l’Iraq dopo il 2003.  A crollare, come detto sopra, nel 2011 furono soprattutto le egemonie nazionaliste venendo messo in discussione per la prima volta in modo propulsivo il patto sociale tra la popolazione civile e le autorità al potere. Infatti, a parte le specificità di ogni singolo paese, ciò che emerse già negli anni Ottanta e Novanta così come nei primi anni del Duemila fu la volontà del popolo arabo di affermare la propria cittadinanza attiva che si manifestò proprio in quei paesi nei quali il potere non investiva sul protagonismo e sulla volontà popolare come in Algeria o in Egitto. In questi paesi, già allora e successivamente mediante le primavere arabe, e ancora oggi, il popolo richiede il riconoscimento da parte delle istituzioni della società da esso costituita e contraddistinta e di tutte le sue articolazioni, stanco ormai di essere mero oggetto passivo della politica. A distanza di anni, proprio alla luce di valutazioni che affermano il fallimento di tali moti rispetto al processo di democratizzazione, si deve dunque riflettere se semplicemente nel 2011 non sia stata maturata la capacità di operare una precisa e corretta individuazione, da parte del popolo, della causa della mancanza di riconoscimento delle libertà civili e dei diritti politici. Infatti, come si comprende meglio dopo dieci anni, tale mancanza di riconoscimento non è tanto da rinvenirsi nelle figure autoritarie, allora al potere, come per esempio Hosni Mubarak e Abdelaziz Bouteflika, quanto piuttosto nel sistema a esse sottostante, ossia quello di regimi che come vediamo non sono mutati ma piuttosto peggiorati.

Non a caso, nonostante il colpo di stato, ancora oggi, con la salita al potere del presidente al-Sisi, l’Egitto rimane oggetto di numerose contestazioni popolari alle quali il governo risponde con l’applicazione di una forza militare altamente repressiva. Di fatti i manifestanti egiziani oggi dirigono le loro proteste non più verso lo stato civile quanto piuttosto contro il regime militare.

I malcontenti sono gli stessi…

Tornando poi al malcontento popolare, manifestato più specificamente dal 2018 al 2020 in Algeria, Iraq e Libano, vi è da sottolineare che le primavere arabe dispiegarono i loro effetti in parte, senza essere sovversive del sistema politico allora al potere, o per nulla in questi paesi, diversamente da quanto avvenne in altri, sia del Nord Africa che del Medio Oriente, come già evidenziato sopra. In Libano, in Iraq o in Algeria sono emersi comunque oggi gli stessi malcontenti di allora: in Algeria ancora una volta contro il presidente Abdelaziz Bouteflika, costretto a dimettersi il 2 aprile del 2019.

L'eredità delle Primavere arabe

Algeri, 5 aprile 2019: Rachid Nekkaz, attivista fondatore del Mouvement de Jeune et Changement (MJC), dopo la cacciata di Bouteflika (foto Soheib Mehdaoui). Si trova in isolamento in carcere dal dicembre 2019.

Migliaia di manifestanti tunisini, algerini, come in passato e iracheni e libanesi per la prima volta, sono scesi negli ultimi anni in strada accusando le forze di sicurezza e l’élite al potere di corruzione e di gravi violazioni dei diritti umani. Questo aiuta a comprendere oggi come alcuni fenomeni rimandino più all’idea che le Primavere arabe furono la manifestazione di una “malattia cronica” e non “semplicemente acuta”. I ragazzi che oggi manifestano hanno vissuto la dittatura durante la loro infanzia e vivono la condizione di una democrazia sospesa, a questo va aggiunto il ruolo delle forze del sedicente Stato Islamico che hanno portato un aggravio di situazioni sociali e politiche già logorate.

L'eredità delle Primavere arabe

Proteste a Beirut (foto alichehade).

… ma è aumentata la povertà

Si può dunque ipotizzare che le primavere del 2011 abbiano cambiato solo la facciata dei sistemi politici allora al potere, ma ne sono rimaste per decenni intatte le loro dinamiche. Inoltre, con riferimento ai recenti tumulti che hanno interessato Algeria, Iraq e Libano va detto che la pandemia diffusasi nello scorso anno non ha fatto altro che accelerare ed esacerbare tali dinamiche legate ai poteri di sempre e che portano tuttora i giovani a manifestare per l’acquisizione degli stessi diritti, ma in una condizione di povertà senza precedenti.

In conclusione, quindi si può affermare che anche se le richieste politiche economiche e sociali sono ancora disattese – nonostante le Primavere arabe e le rivoluzioni arabe verificatesi negli ultimi anni – occorre forse che trascorra ancora del tempo affinché tali istanze civili possano effettivamente determinarsi con un conseguente cambiamento del sistema politico e del ruolo della società civile. Sarà tuttavia il popolo capace di resistere ancora una volta?

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n. 2 – Mali e Niger: conflitti e instabilità nel Sahel https://ogzero.org/n-2-mali-e-niger-conflitti-e-instabilita-nel-sahel/ Sun, 11 Apr 2021 08:22:10 +0000 https://ogzero.org/?p=2912 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

L'articolo n. 2 – Mali e Niger: conflitti e instabilità nel Sahel proviene da OGzero.

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il secondo contributo, focalizzato sulla regione del Sahel.


n. 2

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


Sahel: estrema povertà, crescita demografica e marginalità delle comunità periferiche

Secondo l’interpretazione dell’Unione Europea a far parte di quest’area sono i cosiddetti paesi del G5, ossia Mali, Mauritania, Burkina Faso, Ciad e Niger. Nell’area è presente un forte attivismo dei gruppi armati jihadisti in particolare nei territori del Mali, Niger e Mauritania, favoriti anche dai confini estremamente porosi tra i tre paesi. Ad ogni modo tutti gli stati appartenenti all’area del Sahel sono oggi interessati da traffici illeciti di armi, droga e di uomini nonché da massicci fenomeni migratori che spingono l’Europa a esternalizzare nella regione le sue frontiere, come vedremo in seguito. I paesi del Sahel infatti si trovano in una condizione di instabilità dalla caduta del regime di Gheddafi in Libia. Già nel 2014 emergeva la drammatica condizione del Sahel: estrema povertà dell’area, forte crescita demografica e marginalità delle comunità periferiche. Questi fenomeni sono stati acuiti proprio dalla caduta di Gheddafi, dalle Primavere Arabe determinate nel Nord del continente africano, e dalla diffusione degli estremisti di matrice fondamentalista.

Le missioni Onu

Soprattutto in ragione della presenza di gruppi terroristi nei territori del Sahel è dovuto l’intervento di forze internazionali ed europee nell’area con la missione Onu Minusma, missione di pace nella regione del Mali, e rispettivamente con le missioni europee: Eucap in Niger per fornire assistenza alle forze di sicurezza interne al paese e per un maggiore coordinamento con altri paesi del Sahel, in particolare con Mali e Mauritania, Eucap in Mali con lo scopo di difendere la democrazia già flebile per ristabilire l’autorità di uno stato in un territorio dove le forze jihadiste sembrano inarrestabili. Infine, si segnalano l’Eutm, ossia la missione europea per fornire assistenza e mentoring alle forze armate maliane, e la Racc missione europea per consentire in Mauritania e in Ciad una maggiore e più stabile presenza europea.

Missione Minusma in Mali (foto del Ministero della Difesa dei Paesi Bassi)

Il mese di marzo è stato interessato da diversi scontri tra le ramificazioni di al-Qaeda e l’Isis nel Sahel, nella regione delle tre frontiere tra Burkina Faso, Mali e Niger. Il conflitto si è verificato da ultimo tra il gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani ossia lo Jnim affiliato ad al-Qaeda e l’Isgs ossia lo Stato Islamico nel grande Sahara. Secondo l’istituto per gli studi di politica internazionale tale conflitto può essere legittimamente qualificato come uno dei più cruenti al mondo.

Conflitti e instabilità nel Sahel

Video propagandistico rilasciato dalle milizie Jnim (foto Menastream)

Jnim e Isgs condividono origini comuni nella rete di al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi). Tra i due gruppi infatti vi erano legami personali e di lungo periodo basati anche su azioni coordinate per affrontare nemici che allora erano comuni, contraddistinti dalla mancanza assoluta di lotte intestine jihadiste tra loro.

Tuttavia, negli ultimi anni si sono strutturati in maniera diversa: l’Isgs si è fondato nel 2015 dopo essersi separato da al-Mourabiton, movimento affiliato ad al-Qaeda. Tuttavia, il suo rapporto con al-Qaeda non è mai terminato e anzi, ancora oggi, si riscontrano tra loro accordi, collusioni e relazioni di coesistenza nel territorio.  Lo Jnim, fondato invece nel 2017, ha riunito diversi gruppi jihadisti disparati in diverse aree, tra cui proprio il gruppo al-Mourabiton e il gruppo jihadista burkinabè Ansarul Islam.

L’Isgs, gruppo piccolo e oscuro, dotato di una rudimentale infrastruttura multimediale ha saputo sfruttare l’assenza dello stato nelle comunità remote, intercettando le sensazioni di abbandono della popolazione civile e gli interessi delle comunità pastorali presenti nell’area, al contempo non ha dimostrato alcuna reticenza a incorporare anche unità dello Jnim, indebolite o marginalizzate. Lo Jnim nello stesso periodo ha preferito maggiormente rafforzare il suo processo d’integrazione nell’Isis. Nel 2019 con un’azione simultanea le due forze jihadiste hanno preso possesso della regione al confine dei tre stati costringendo al ritiro gli eserciti locali. Oggi l’Isgs sfida apertamente lo Jnim vantandosi delle sue vittorie su questo. Lo Jnim scredita apertamente l’Isgs per le vittime civili a causa dei suoi militanti.  A questa situazione si aggiunge la pressione delle forze militari contro il terrorismo, guidate dalla Francia nella missione Barkhane. È necessario quindi interrogarsi come sia nata tale missione e a che punto si trovi oggi rispetto ai fini precostituiti in passato e che legittimano la sua esistenza nella regione del Sahel.

I francesi nel Sahel: i movimenti in Azawad

La Francia era stata già presente militarmente nell’area del Sahel con la missione Serval. Il presidente Hollande nel 2013 è intervenuto con tale operazione in esito ad alcuni accadimenti di particolare rilievo che avevano interessato il Mali. Dopo la caduta di Gheddafi, infatti, la maggiore instabilità del Sahel si era riscontrata nei territori sahariani del Nord del Mali, nella regione dell’Azawad, che dopo l’indipendenza dalla Francia nel 1960, sono passati a Bamako.

La caduta del regime dittatoriale libico infatti ha provocato la formazione di movimenti filoindipendentisti tuareg nei quali militavano non solo cittadini maliani, ma anche altri cittadini africani con un background militare non indifferente. Alcuni di loro provenivano proprio dalle fila militari lealiste di Gheddafi. Tali militanti insieme hanno fondato l’Mnla, ossia il Movimento di Liberazione dell’Azawad. Questo fenomeno e la concomitante condizione di malcontento nelle caserme militari e l’incapacità delle forze militari maliane di fermare gli stessi movimenti filo-indipendentisti, nonché l’appoggio fornito ai tuareg da parte di al-Qaeda, hanno contribuito in modo fondamentale alla determinazione del colpo di stato nel dicembre 2012 in Mali. Il colpo di stato è stato infatti condotto dai tuareg e dai gruppi estremisti islamici. Tuttavia, dopo il colpo di stato, i gruppi estremisti hanno sempre più limitato la presenza dei tuareg negli interventi militari e hanno portato il conflitto sempre più a sud del paese fino ad arrivare a Konna, località non lontana dalla capitale Bamako. A questo punto il governo maliano ha chiesto aiuto e supporto a Parigi e alle forze militari francesi, in accordo con la comunità economica degli stati dell’Africa occidentale.

Dall’operazione Serval a Barkhane

L’operazione Serval, quindi, prima attraverso dei bombardamenti aerei, poi con dei gruppi militari di terra, costringendo i ribelli a fuggire nuovamente a Nord, ha consentito che Bamako riacquisisse il controllo di quasi tutto il territorio del Mali. In seguito a tale operazione, nel 2014, i francesi con l’operazione Barkhane, sono intervenuti nuovamente a livello militare in Africa, non solo in Mali, ma anche in tutta la regione del Sahel comprendente i cinque stati sopracitati. L’operazione Serval, quindi, è stata ristrutturata e rinominata.

I colpi di stato

In ogni caso questa volta, nonostante la presenza militare della Francia, ad agosto del 2020, si è verificato un nuovo colpo di stato simile a quello del 2012. Infatti, vi è stato l’ammutinamento della base militare a Katim e il presidente Ibrahim Boubacar Keita è stato rimosso. Ritorna l’elemento comune al colpo di stato del 2012 del malcontento delle Forze armate del Mali rispetto al governo centrale.  Ad agosto del 2020 Amnesty International con un comunicato si è detta estremamente preoccupata per l’arresto dell’ormai ex presidente del Mali, Ibrahim Boubacar Keita, dell’ex primo ministro Boubou Cissé e di altri esponenti del deposto governo a opera del Comitato nazionale per la Salvezza del Popolo, autore del colpo di stato del 18 agosto 2020. L’organizzazione ha chiesto alla giunta militare che ha assunto il potere di liberare tutte le persone arrestate – tranne quelle per cui possono provare che siano state autrici di crimini riconosciuti dal diritto internazionale – e di impegnarsi a rispettare i diritti umani. Amnesty International ha espresso preoccupazione anche per la notizia riguardante la morte di 4 persone e il ferimento di 15 colpite da armi da fuoco in circostanze ancora poco chiare. Il colpo di stato si è verificato, come specifica l’organizzazione umanitaria, in un contesto di forte crisi politica, nata in seguito alla proclamazione dei risultati delle elezioni legislative dell’aprile del 2020 e acuitasi durante le proteste di massa, promosse e dirette, dal mese di giugno, dal Movimento 5 giugno Fronte patriottico di resistenza. Il 10 luglio scorso le proteste, infatti, ricorda Amnesty erano state soppresse dalle forze di sicurezza con estrema brutalità. Alla fine della giornata i morti erano stati almeno 14 e i feriti 300. La crisi istituzionale, infatti, è stata esacerbata dalla questione Covid, che ha provocato numerosi scioperi e un peggioramento del sistema educativo. Per tali motivi il presidente ha deciso il rinvio delle elezioni legislative in Mali e, in seguito, i giudici della Corte Costituzionale in Mali hanno accolto il ricorso dell’ex presidente Boubacar Keita assegnandogli 8 seggi in più rispetto a quanti ne risultavano dall’esito delle votazioni. Questo è stato uno degli elementi che ha portato al colpo di stato questa estate.

Milizie e gruppi terroristici

In tutta l’area del Sahel, ad ogni modo, si rileva la presenza costante di gruppi terroristi ed è per questo che molte forze internazionali ed europee hanno deciso di intervenire negli ultimi anni nella regione. Tra tali gruppi terroristici, tuttavia, ci sono state molte tensioni negli ultimi anni come tra al-Qaeda e Stato Islamico nel Sahel, per cui oggi, con riferimento alla regione, si parla di “terrorismo non unitario”. Tuttavia, vi sono anche moltissimi gruppi armati non terroristici (groupes armés non identifiès) che sono da considerarsi comunque pericolosi come quelli terroristici e così anche le forze armate maliane autrici di molteplici abusi che rappresentano un terzo delle violenze perpetrate nell’area. È bene, tuttavia, soffermarsi sui gruppi non terroristici presenti nell’area. La proliferazione di gruppi non statali armati nel Sahel ha determinato violenza e insicurezza nella regione; tali gruppi, come visto, oltre a quelli estremisti violenti, sono gruppi armati politicamente motivati, le milizie di autodifesa, i gruppi di sicurezza locali. L’aumento di tutti i gruppi armati presenti nella regione riflette in ogni caso l’incapacità degli stati del Sahel di esercitare il monopolio della forza in modo da proteggere efficacemente i loro cittadini e preservare l’integrità del territorio. Gli attori non statali infatti operano in modo scioccante in spazi in cui la presenza dello stato è debole o contestata, come per esempio le aree rurali e di confine, così come le aree maggiormente periferiche. Il Niger – nonostante una politica che afferma “tolleranza zero” verso le milizie locali e i gruppi di autodifesa – non è stato risparmiato dai gruppi estremistici violenti che stanno guadagnando sempre più terreno nel territorio nigerino. In Mali, invece, le regioni di Mopti e di Segon, interessate da conflitti secolari, da una limitata presenza delle forze di sicurezza dello stato e da un facile accesso alle armi, hanno condotto alla creazione di gruppi locali di autodifesa su base comunitaria e di milizie locali.

Ascolta “Le frontiere liquide del Sahel” su Spreaker.

I gruppi armati non violenti ed estremisti, ma politicamente motivati, invece in Mali sono stati ritenuti ufficialmente partner legittimi per lo stato con cui lavorare, come è avvenuto con gli accordi di pace e di riconciliazione del 2015.

Barkhane: una missione controversa

In questo scenario è importante capire quali siano dunque le prospettive per l’operazione Barkhane nel Sahel. Macron, infatti, ha ribadito l’impegno della Francia nell’area del Sahel con la missione, senza una diminuzione delle forze armate militari impiegate nell’area. L’obiettivo principale di Macron è quello di annientare militarmente i principali gruppi terroristi jihadisti che hanno fatto del Sahel la propria roccaforte. Barkhane è la più ingente missione europea su suolo africano e fornisce training, mentoring, supporto logistico ed intelligence alle forze armate e all’intelligence dei paesi del G5, in un’ottica di cooperazione governativa della politica di sicurezza contro il terrorismo. Tale ultima dichiarazione del presidente francese ha destato non poco stupore in ambito internazionale poiché Macron aveva precedentemente comunicato la volontà di ritirare circa 600 uomini facenti parte dell’unità di supporto in Burkhinabé, facendo trapelare l’intento di rimodulazione dell’intervento del contingente, in linea con parte dell’opinione pubblica francese che ha assunto opinioni critiche sulla missione.

Takouba: quando Barkhane non basta

Infatti, la Francia nella missione ha visto il verificarsi di molteplici incidenti e 55 vittime tra i militari francesi nonostante con Barkhane si siano riportati dei “successi” come l’uccisione di Abdelmalek Proukdel, il leader di al-Qaeda nel Maghreb islamico. La missione viene criticata perché concepita solo sotto il profilo militare e diversa dagli approcci degli stati G5 e delle Nazioni Unite che concepiscono come strumento utile per lo state-building, la riduzione dei conflitti e la capacità di negoziare con i principali gruppi insorgenti nell’area in quanto darebbe a Parigi la possibilità di strutturarsi come presenza di medio-lungo periodo nella regione del Sahel.

Conflitti e instabilità nel Sahel

Operazioni della Missione Takouba

Su queste basi infatti sembrerebbe nata l’idea della missione francese Takouba, ossia una missione che implicherebbe il coinvolgimento di altri paesi in sostegno alla propria attività militare nel Sahel alla quale hanno già aderito, a livello intenzionale, Belgio, Danimarca, Italia, Estonia, Olanda e Repubblica Ceca. Tuttavia, la missione Takouba sembra fondarsi più su un approccio massimalista che riflessivo, ossia poiché Barkhane non sta funzionando come previsto, occorre aggiungere altro supporto militare e quindi chiedere ad altri paesi europei di partecipare alla propria missione militare con forze congiunte.

Al proposito Antonio Mazzeo può approfondire l’aspetto relativo all’impegno militare, estendendo il discorso a strategie neocolonialiste

Ascolta “Missioni coloniali in Sahel: tassello della guerra globale e della spartizione del mercato africano” su Spreaker.

Le armi come aiuti umanitari

I conflitti armati nel Sahel hanno coinciso con un aumento di importazione delle armi da parte dei paesi G5, in particolare Mali e Burkina Faso. Alcuni di questi trasferimenti sono stati finanziati dall’Unione Europea o sono stati consegnati come aiuti umanitari da parte della Francia, del Qatar o degli Emirati Arabi Uniti. Secondo il Sipri, infatti, diverse grandi potenze stanno usando le forniture di armi come uno strumento di politica estera per aumentare l’influenza nell’area.

Inoltre, in Niger si è registrata negli ultimi giorni una recrudescenza dei conflitti che desta grande preoccupazione a livello internazionale. Il 15 marzo 2021 sono rimaste uccise 58 persone e si registrano molti feriti in seguito all’attacco sferrato contro gli abitanti dei villaggi che facevano ritorno dal mercato settimanale di Banibangou, nella regione di Tilabèri, in prossimità del confine con il Mali.

Insicurezza interna

Gli autori di questa strage anche in questa circostanza sono ritenuti “gruppi armati non identificati”; il medesimo giorno i gruppi hanno attaccato anche il villaggio di Darey Dey nel quale sono rimasti uccisi tutti gli abitanti e si sono verificati episodi di saccheggio, devastazioni e incendi. Lo scopo di tali attacchi è quello di costringere la popolazione locale, attraverso atti violenti e vandalici, a lasciare i territori di appartenenza. La sessa zona di Tilabèri, tra l’altro, era stata interessata a gennaio del 2020, da un’uccisione di massa rivendicata, in questo caso, dallo Stato Islamico nel Grande Sahara.

Ancora, il 21 marzo 2021 sono stati uccisi 40 civili nei villaggi di Intazayene, Bakorat, e AkiFakit nel distretto di Tillia, nella regione di Tahoua, sempre in prossimità del confine con il Mali. La regione stessa ospita diversi rifugiati maliani. In questa zona di confine normalmente operano diversi gruppi terroristi, in particolare lo Stato Islamico nel Grande Sahara. Anche la responsabilità di questo ulteriore drammatico evento viene attribuita a “non meglio identificati individui armati”.  In realtà, a causa dell’attacco nel distretto di Tillia, di domenica 21 marzo, è salito a 137 il bilancio delle vittime.

Tra dicembre 2020 e marzo 2021, mentre in Niger erano in corso le elezioni, infatti, sono state uccise complessivamente circa 262 persone, tutte civili, la maggior parte proprio da gruppi armati non identificati. La questione si incardina proprio nell’impossibilità di comprendere il fenomeno alla base di tali attacchi poiché quasi nessuno di essi è stato rivendicato. La tesi prevalente è quella, al momento, che tali gruppi armati non identificati vogliano operare, attraverso le proprie attività criminali, una sorta di pulizia etnica.

In questo momento storico dunque il Niger si trova ad affrontare, oltre agli atti di natura terroristica anche gli scontri politici determinati dagli esiti delle votazioni elettorali del 21 febbraio del 2021 che hanno decretato la vittoria ufficiale di Mahamane Bazoum, contestata fortemente dall’altro candidato, Mahamane Ousmane che ha denunciato brogli e ha promesso forti proteste nel paese. Per Bazoum, quindi, che assumerà la carica il prossimo, 2 aprile 2021, la questione securitaria è certamente la prima da affrontare.

Fonti:

L'articolo n. 2 – Mali e Niger: conflitti e instabilità nel Sahel proviene da OGzero.

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n. 3 – Nigeria: la natura ibrida delle minacce https://ogzero.org/n-3-nigeria-la-natura-ibrida-delle-minacce/ Sun, 11 Apr 2021 08:21:46 +0000 https://ogzero.org/?p=2918 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

L'articolo n. 3 – Nigeria: la natura ibrida delle minacce proviene da OGzero.

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il terzo contributo, focalizzato sulla Nigeria.


n. 3

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


L’importanza degli attori non statali

La proliferazione di attori non statali in grado di acquisire sempre un ruolo di maggior potere rispetto alle istituzioni, ossia le propagazioni del governo centrale democraticamente eletto, riscontrata nella zona del Sahel, è altresì presente in Nigeria, in particolare, per quanto riguarda i gruppi jihadisti, nell’area nordest del paese, ossia negli stati di Adamawa, Bauchi, Borno, Gombe, Taraba e Yobe e in tutto il territorio nazionale per quanto riguarda le bande criminali.

La causa di tale fenomeno si può individuare, come nel caso del Sahel, nell’assenza di un potere del governo centrale incapace di intercettare i bisogni socio-economici della nazione e che mostra un deficit dal punto di vista securitario. Questo pone la Nigeria nella difficile e drammatica condizione, visti i recenti e i meno recenti episodi di rapimenti e uccisioni ai danni di civili, di dover ricorrere a banditi locali e vigilantes per poter assicurare il pieno soddisfacimento delle istanze securitarie in alcune realtà rurali periferiche e di sottomettersi alla presenza dei movimenti estremisti jihadisti ai quali non riesce più a far fronte.

Infatti, nonostante gli aiuti anche da parte della comunità internazionale per la lotta al terrorismo jihadista, il sistema militare e quello delle forze di sicurezza speciali si dimostrano da anni fallimentari fino ad arrivare essi stessi a costituire un pericolo per la sicurezza e la vita della popolazione civile che è la prima vittima di questa condizione.

Corruzione e insicurezza alimentare

A ciò si aggiungono i problemi di corruzione che interessano il paese, soprattutto per quanto riguarda il sistema giudiziario, per cui è vana la perseguibilità giuridica di alcuni atti contro i civili da parte delle forze armate e di polizia, e la vendita illecita di armi che sta divenendo sempre più esponenziale, data la permanente situazione di belligeranza all’interno del paese, così come quella dell’insicurezza alimentare.

Makoko (foto Dan Ikpoyi)

Per quanto riguarda l’aumento della presenza e del ruolo degli attori non statali in Nigeria, rispetto all’attuale potere del governo di Abuja, occorre soffermarsi in primo luogo sul ruolo delle “milizie popolari di autodifesa”.  Il 17 febbraio 2021, infatti, il ministro della Difesa nigeriano Bashir Salihi Magashi ha dichiarato che è necessaria la mobilitazione dei cittadini per fronteggiare con successo le attività di contrabbando, estorsione, saccheggio, rapimenti, furti, sfruttamento della prostituzione, nonché di traffico di migranti che stanno coinvolgendo tutte le aree della Nigeria.

Il ministro in questa circostanza si riferiva particolarmente al fenomeno del banditismo e della criminalità organizzata, più che a quello del terrorismo jihadista, anche se entrambi i fenomeni sono fonte di seria preoccupazione da parte del governo guidato del presidente Muhammadu Buhari.

Criminalità di stato e “milizie di autodifesa popolare”

Lo scenario in cui si trova infatti il paese è altamente complesso: da una parte vi sono tali gruppi di banditi criminali, dall’altra si riscontra, ormai da anni, la presenza di jihadisti legati all’islam dell’area mediorientale e del Maghreb con lotte interne e separatismi come è avvenuto nel caso dell’Iswap.

Da un altro lato ancora, vi sono gli atti criminali compiuti dagli stessi militari e dalle forze speciali di polizia, le Sars, contro i civili proprio nella lotta al banditismo e al terrorismo di stampo jihadista. Il Tribunale penale internazionale permanente ha confermato, infatti, a conclusione delle indagini preliminari avviate nel 2010, che sia Boko Haram sia le forze armate nigeriane hanno commesso gravi crimini di diritto internazionale contro la popolazione civile.

È chiaro, quindi, che lo stato nigeriano al momento si trovi in una situazione di difficoltà e che, almeno per quanto riguarda le bande criminali, ha lasciato intendere che non è in grado di fronteggiare il problema attraverso le proprie forze militari, di sicurezza e di polizia e sta chiamando sorprendentemente lo stesso popolo in suo aiuto. Le mancanze strutturali di uomini e di mezzi nell’esercito e nelle forze di polizia è ormai noto e per questo spesso il ministero della Difesa e dell’Interno affidano i servizi di sicurezza a organizzazioni locali, ossia ad altre bande armate reclutate su base geografica o etnico-tribale, chiamate appunto “milizie di autodifesa popolare”.

Nelle regioni meridionali la criminalità si contraddistingue per la presenza di confraternite pari alle cosiddette mafie internazionali e, sempre a sud, nella regione del Delta del Niger vi sono elementi armati indipendentisti, bande di pirati, contrabbandieri di carburanti e ladri di petrolio. Nella fascia centrale invece si rilevano molteplici scontri tra le comunità nomadi pastorali e quelle sedentarie rurali sempre per l’accesso alle risorse del suolo.

Il jihadismo e le differenze etniche

A ciò si aggiunge, come già accennato, a nord della Nigeria, il fenomeno dei jihadisti, primi fra tutti Boko Haram e lo Stato Islamico in Africa Occidentale. Il problema, quindi, è che non è di facile individuazione la provenienza di determinati atti criminali, come stiamo vedendo per i recenti rapimenti nel paese, non essendoci una linea netta in grado di dividere criminalità, insorgenza etnica e terrorismo a livello locale.

Per questo il governo nigeriano, date le aree di promiscuità di tali gruppi e la natura ibrida delle minacce, ha deciso di delegare le funzioni di sicurezza alle milizie popolari di autodifesa dei villaggi che già combattono da tempo in prima linea.

Tuttavia, tale fenomeno, lungi dall’essere risolutore del problema securitario nel paese, può costituire esso stesso un’ulteriore condizione di instabilità come è avvenuto, nella zona centrale della Nigeria, con i gruppi di autodifesa Ya sa kai di etnia hausa, muniti di rudimentali armi di difesa e dei gruppi armati di autodifesa di etnia fulani, muniti di armi maggiormente sofisticate, sovvenzionate con attività criminali come i rapimenti.

Inoltre, data la presenza dell’etnia fulani, anche nel Nord del paese all’interno delle organizzazioni terroristiche jihadiste, queste milizie di autodifesa spesso sono state sfruttate dagli stessi jihadisti beneficiando del loro supporto logistico e di addestramento. In questo modo lo stato, che in questa circostanza già era in difficoltà proprio per la creazione di milizie di autodifesa, si è trovato ancora più incapace di gestire lo scontro tra l’etnia hausa e quella fulani.

Negli ultimi dieci anni le violenze dei gruppi di autodifesa hanno creato più di 15.000 vittime, numero più elevato di quello dei movimenti terroristi; quasi ogni tentativo di dialogo con questi gruppi armati è stato fallimentare in quanto questi sono privi di una struttura unitaria e divisi al loro interno a seconda del capo villaggio o il capo tribù.

La “protezione” delle milizie di autodifesa

Inoltre, deve essere sottolineata la proliferazione di armi di cui questi gruppi si sono nel tempo dotati ossia soprattutto fucili d’assalto. Chiaramente, rileggendo le dichiarazioni del ministro della Difesa nigeriano, alla luce di quanto finora esposto, è legittimo chiedersi se questa tattica politica, nell’ipotesi in cui le milizie di difesa fossero percepite dal governo come efficaci a proteggere le popolazioni locali, sarebbe realmente opportuna in uno stato, come quello nigeriano, nel quale  le istituzioni statali sono già al collasso o se invece creerebbe uno scontro ancora maggiore tra esso  e le singole comunità locali.

La soluzione migliore sarebbe quella di integrarle in strutture nazionali ufficiali che ne possano facilitare l’addestramento e soprattutto il loro controllo, senza venir meno all’impegno primario del governo a implementare e migliorare le proprie forze armate e quelle di polizia nel paese.

“End Sars”

A conferma della necessità di migliorare le forze armate e di polizia occorre ricordare l’ondata di proteste avvenute lo scorso 7 ottobre 2020, contro le Sars (Special Anti Robbery Squad), ossia le forze speciali di polizia, che ha interessato la Nigeria con una nuova eco anche fuori dal territorio nazionale e con una forza propulsiva che ha investito profondamente  il paese al suo interno.

L’evento scatenante si è verificato il 4 ottobre 2020: è stato divulgato in rete un video di un uomo innocente ucciso dalle Unità speciali della polizia nigeriana. Le proteste sono state portate avanti spontaneamente soprattutto da ragazzi con un’età compresa tra i 20 e i 30 anni con grande eterogeneità della classe di appartenenza, di religione e di provenienza. I giovani, in tale occasione, hanno chiesto una vera riforma delle forze di polizia in Nigeria in modo particolare il riconoscimento delle responsabilità delle azioni da queste compiute mediante una riforma del sistema giudiziario che possa essere in grado di promuovere e sostenere un’azione legale nei confronti degli appartenenti alle Sars che hanno compiuto atti violenti senza ragione a danno di civili.

Le Sars, infatti, costituite nel 1992 con l’intento di creare un corpo specializzato per il contrasto delle rapine e di crimini nel paese, sono oggi accusate di abusi, di prevaricazioni, di esecuzioni extragiudiziarie. Amnesty International ha stimato che dal 2017 al 2020 sono state 82 le vittime di esecuzioni extragiudiziali da loro commesse.

La reazione del governo in seguito alle proteste è stata considerata insoddisfacente dai manifestanti. Il presidente Muhammadu Buhari ha ordinato infatti lo scioglimento delle Sars, ma a buona parte della popolazione è sembrata un’operazione fittizia in quanto anche in passato era stato promesso il loro scioglimento senza mai realizzarlo. Poiché le proteste si sono esacerbate con il passare dei giorni, il governo ha optato per una forte repressione popolare tanto che Amnesty International ha stimato che siano circa 50 le vittime in conseguenza di tali manifestazioni anti-Sars. Anche per questo l’attuale presidente viene considerato da molti nigeriani incapace di governare, pur se non considerato “corruttibile” come altri politici, un paese così complesso e dinamico come la Nigeria.

Pressioni al governo di Abuja sono state rivolte anche da attori internazionali come Joe Biden, Clinton, il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres e da parte dell’Unione Europea. Infine, rispetto a quanto detto sinora va segnalato il rapporto di Amnesty International My heart is in pain, in cui la nota organizzazione internazionale accusa i militari nigeriani di violazioni dei diritti umani a danno dei civili proprio nel combattere il pericoloso gruppo jihadista presente da diversi anni in Nigeria.

Boko Haram: la trasformazione

Infatti, l’altro attore non statale, autore di molteplici atti criminali e di conflitti armati in Nigeria, è il gruppo terroristico jihadista Boko Haram. Come accennato in principio la zona del Nord della Nigeria e gli stati che ne fanno parte hanno subito principalmente le attività del gruppo jihadista con un conseguente peggioramento della situazione di insicurezza e di arresto di ogni potenziale attività di sviluppo nell’area.

Il termine Boko Haram significa “proibizione dell’educazione occidentale”. In particolare, la parola del dialetto hausa “Boko” sta per libro o educazione occidentale, mentre “Haram” sta per proibita o per peccato. Questa infatti era l’idea della setta (cui nome tradotto è “persone impegnate nella diffusione degli insegnamenti della jihad del profeta”) che ha dato origine al gruppo terroristico nel 2002 a Maiduguri nello stato di Borno, nella parte nordoccidentale del paese, non lontano dai confini con il Niger, il Ciad e il Camerun.

Il gruppo viene costituito in ragione di una delusione percepita da parte di alcuni nigeriani delle forme occidentali di governo, responsabili di ingiustizie, corruzioni, malversazioni. L’imam Mohamed Youssuf che fondò Boko Haram nel 2002, anche per costruire la sua moschea, ottenne finanziamenti dal governatore dello stato di Kano e da quello dello stato di Borno. All’epoca la creazione del gruppo non fece notizia neanche in Nigeria e il gruppo tra il 2002 e il 2009 aveva adottato modalità d’azione pacifiche. Nel 2009, invece, l’imam Mohamed Youssuf fu arrestato e ucciso in carcere dopo una presunta insurrezione da lui guidata nella città di Maiduguri, capitale dello stato di Borno. Sia l’arresto sia l’uccisione del predicatore hanno determinato un punto di svolta per il gruppo: fino allora, infatti, Boko Haram era stato un gruppo di integralisti che protestavano pubblicamente in modo minaccioso con bastoni e machete, contro le scuole di tipo occidentale a causa, a loro dire, del progressivo allentamento dei costumi, contro la polizia che non puniva malavitosi e commercianti di alcol e, infine contro la dilagante corruzione dei politici e dei militari. Nel 2009, però, dopo l’uccisione, Mohammed Youssuf è stato sostituito da Abubakar Shekau e Boko Haram ha cambiato strategia provocando morti, sia avvalendosi progressivamente di un uso più indistinto della violenza per perseguire i suoi obiettivi, sia impiegando armi pericolose, come missili, granate, ordigni esplosivi improvvisati, carri armati, machete e pugnali. Gli obiettivi del gruppo erano semplici individui, istituzioni statali e religiose, polizia, esercito, scuole non solo nel nord-est della Nigeria ma anche in Camerun, Ciad e Niger. Il gruppo si è reso autore anche di incendi di case, di mercati, di attentati suicidi, e di rapimenti ed uccisioni di operatori umanitari, predicatori, viaggiatori, scolari e donne nonché di stupri.  Quindi già nel 2014, Boko Haram aveva acquisito all’interno del gruppo oltre ad armi più sofisticate, un buon numero di combattenti esperti, una buona capacità logistica, enormi riserve di esplosivo e militanti in grado di utilizzarlo con estrema perizia.

Le pressioni jihadiste esterne

Infatti, era intuibile che interessi locali, sia politici che economici, traevano profitto dall’esistenza del gruppo jihadista e in particolare su Boko Haram si avvertirono anche pressioni esterne provenienti dal jihadismo mediorientale e maghrebino dello Stato Islamico di al-Baghdadi che vedevano nei territori della Nigeria del Nord un califfato con il cuore nell’Africa.

Nel rapporto pubblicato da Amnesty International nel 2015 si denuncia l’efferatezza del regno del terrore imposto da Boko Haram nel contesto della Nigeria. Infatti, l’anno precedente, nel 2014, si era verificato il rapimento di 276 studentesse a Chibok, nello stato di Borno. Tuttavia, le studentesse rapite nel 2014 sono solo una piccola parte delle donne, delle bambine, degli uomini e dei bambini rapiti da Boko Haram. Delle duemila donne e bambine rapite dal 2014 molte sono state ridotte in schiavitù sessuale e addestrate a combattere. Nel rapporto Il regno del terrore di Boko Haram si documentano almeno 3000 raid e attacchi compiuti dal gruppo contro i civili e che, dopo il rapimento delle studentesse, sempre nel 2014, il 6 agosto a Gwozwa, ha ucciso 600 persone. Nel rapporto si leggono anche i tratti distintivi del regno del terrore imposto da Boko Haram: appena conquistato un centro il gruppo armato raduna la popolazione per annunciare le limitazioni dei movimenti, specialmente per le donne. Le famiglie a quel punto dipendono dai bambini che possono uscire a cercare cibo o se fortunate durante le visite del gruppo terrorista possono ricevere da questo del cibo saccheggiato altrove. A questo punto chi non prende parte alle preghiere rischia le frustate in pubblico. Nello stesso anno in cui è uscito tale rapporto, la setta ha giurato fedeltà allo Stato Islamico in Iraq e ha cambiato il suo nome in Stato Islamico nella Provincia dell’Africa Occidentale (Iswap). Tuttavia, sempre nel 2015, il gruppo ha subito una scissione per cui una fazione ha continuato a usare il nome di Boko Haram e un’altra ha mantenuto quella di Iswap.

Le cause economiche, politiche e religiose

Le principali cause degli incessanti conflitti nel paese e dell’insurrezione nella parte nordoccidentale della Nigeria sono di tipo economico, politico e religioso. Gli elementi economici sono da individuarsi nella povertà, nella diseguaglianza, nella disoccupazione o nel basso livello di istruzione. Le cause politiche devono invece essere attribuite alla cattiva governance, all’elevato livello di corruzione e all’utilizzo e poi all’abbandono di bande armate e infine all’impiego di armi.

La componente religiosa, invece, alla base del conflitto, è correlata all’estremismo e alle ideologie tramandate e radicate nelle comunità nel tempo. Inoltre, altro aspetto da sottolineare è che il reclutamento all’interno del gruppo jihadista comporta una notevole assistenza sotto forma di denaro, cibo, riparo e abbigliamento che, in un paese in cui il livello di povertà è molto alto, costituisce una forte attrazione all’arruolamento. Chiaramente, tuttavia, l’idea del benessere percepita da alcuni giovani che si inseriscono tra i militanti del gruppo jihadista è una mera illusione: il terrorismo in Nigeria non ha fatto altro che aumentare il livello di insicurezza, di povertà, il tasso di analfabetismo, così come la delocalizzazione delle imprese, con una conseguente diminuzione anche dei progetti di sviluppo pubblico e privato così come dei finanziamenti a favore del paese.

Nel corso degli anni, varie strategie sono state messe in atto senza successo dal governo, con l’intento di negoziare con la setta e, nel 2017 è stata istituita la Commissione dello Sviluppo del Nordest con l’obiettivo di stanziare i fondi internazionali e dei governi federali per riabilitare l’area spesso oggetto di distruzione e con l’intento di affrontare povertà e diminuzione dell’alfabetizzazione provocate dallo stesso terrorismo. Le iniziative poste in essere per il contrasto al terrorismo, in un primo momento, sembravano avessero prodotto alcuni risultati positivi. Ciò è avvenuto con il passaggio nel 2015 dall’amministrazione di Jonathan Goodluck a Buhari che aveva promesso di sconfiggere il gruppo terrorista in sei mesi. L’esercito in quell’occasione aveva ricevuto un migliore addestramento grazie anche ad Usa e Regno Unito e aveva cooptato un gruppo di vigilantes locali e una task force civile. Infatti, vennero liberati diversi ostaggi sia nel 2015 che nel 2017 e nel 2018. Tuttavia, molti ostaggi a oggi non sono stati ancora liberati e attualmente si registra una recrudescenza dell’attività della setta che sembrerebbe da attribuire proprio al coinvolgimento del gruppo internazionale jihadista Iswap.

Tra il 2018 e il 2020 il gruppo ha ucciso diverse persone tra cui civili e operatori umanitari. Da qui la richiesta dell’Assemblea nazionale nigeriana di licenziare i vertici militari e di nominarne di nuovi come il presidente Buhari, all’inizio reticente, cosa che ha fatto il 26 gennaio del 2021.

In questi ultimi anni Boko Haram ha messo in atto diversi tipi di attacchi tra cui la guerriglia, il posizionamento di mine terrestri contro i militari e la raccolta di informazioni di intelligence tra le truppe militari. Non si intravede quindi la fine del conflitto dell’autorità statale contro il gruppo terroristico che sta continuando a intensificarsi ed è ancora molto attivo nel Nord del paese. La pandemia, che in Nigeria si è diffusa alla fine del 2019, ha peggiorato la situazione in un paese che, già in lotta contro il terrorismo, ora deve lottare anche contro la propagazione di un virus.

I recenti tragici eventi, soprattutto rapimenti, che hanno interessato la Nigeria in modo particolare dalla fine del 2020 a oggi, sono espressioni proprio della presenza dei due attori non statali precedentemente descritti: il terrorismo di stampo jihadista – anche con la sua ala scissionista – e i gruppi di banditi, fortemente armati e violenti, appartenenti a determinati gruppi etnici. Di seguito si segnalano alcuni dei più recenti e importanti accadimenti.

Gli eventi più recenti

Il 16 dicembre del 2020 sono stati sequestrati nello stato nordoccidentale di Katsina circa 800 studenti. Il rapimento ha subito rimandato in mente, per modalità e strategia, al rapimento del 2014, nella stessa regione, a danno delle 276 ragazze nigeriane.

Tuttavia, questa volta, nonostante la rivendicazione da parte di Boko Haram, le autorità nigeriane hanno parlato piuttosto di un rapimento eseguito da banditi locali, fenomeno, come già detto, spesso attiguo alle violenze dei jihadisti nel Nordest del paese.

I sequestri in quest’ottica sono compiuti dai gruppi di banditi violenti per ottenere visibilità e riscatti. Alla base c’è la nota competizione, di lungo periodo, tra i pastori nomadi di etnia fulani e gli agricoltori di etnia hausa, protetti costantemente da banditi e vigilantes. L’attacco e il rapimento degli studenti a Kankara è avvenuto durante una visita del presidente nigeriano Buhari, originario proprio della regione di Katsina.

È del 25 novembre 2020 la notizia del rapimento, confermato anche dall’Unicef, di 317 studentesse nello stato nordoccidentale di Zamfara, anche questa volta compiuto da gruppi armati non identificati. Si tratta del secondo sequestro di questo tipo in poco più di una settimana.

Nello stesso periodo, inoltre, uomini armati probabilmente affiliati a Boko Haram o a qualcuno dei suoi gruppi terroristi satelliti avrebbero rapito, secondo “Africa ExPress”, più di 400 studentesse in un college statale situato sempre nello stato nigeriano di Zamfara.

Il 2 marzo del 2021, tuttavia, le circa 300 giovani rapite il 27 novembre 2020 sono state liberate. Secondo il governatore dello stato di Zamfara, il rilascio sarebbe stato frutto di un negoziato con i rapitori ma non è stato pagato alcun riscatto. Il numero effettivo delle ragazze liberate è di 279 perché, nelle ore successive al rapimento, alcune di loro sono riuscite a fuggire.

Quello degli attacchi e dei rapimenti nelle scuole è ormai un fenomeno persistente: negli ultimi dieci anni, nel Nord della Nigeria, circa 1500 scuole sono state distrutte, un migliaio di studenti sono stati rapiti e 2300 insegnanti sono rimasti uccisi.

Il 15 marzo si è verificato un nuovo rapimento in Nigeria: questa volta le vittime sono bambini che frequentavano una scuola primaria di Birnin Gwari nello stato di Kaduna e al momento sono trapelate pochissime informazioni: «Il governo dello stato di Kaduna sta attualmente provando a ottenere dettagli sull’effettivo numero di alunni ed insegnanti che si dice siano stati rapiti e rilascerà una dichiarazione esauriente il prima possibile», ha dichiarato il commissario statale per la sicurezza interna e gli affari esterni. I bambini, secondo il professor Hakeem Onapajo, docente a contratto presso il Dipartimento di Scienze politiche e Relazioni internazionali alla Nile University di Abuja, sono strategicamente importanti e interessanti sia per i terroristi, sia per le forze di sicurezza dello stato. Alla loro sicurezza non è stata prestata sufficiente attenzione dal governo nigeriano.

La questione è divenuta rilevante a partire dal 2013, anno in cui Boko Haram ha iniziato ad attaccare oltre che ospedali e centri per sfollati, anche scuole, come è avvenuto proprio in quell’anno con un raid lanciato contro un dormitorio notturno nello stato di Yobe in conseguenza del quale sono morti 44 scolari.

Negli ultimi cinque anni, tuttavia, l’ascesa del banditismo e, quindi non più soltanto l’intervento violento del gruppo jihadista Boko Haram, ha aggiunto una nuova e pericolosa dimensione degli attacchi contro i bambini: oltre a quelli già citati, sono da segnalare il rapimento dell’11 dicembre del 2020 di 333 studenti nello stato di Katsina e quello del 20 dicembre 2020 di 80 studenti sempre nello stesso stato.

Il rapimento di bambini, secondo il professor Onapajo, è diventato “strategico” per diverse drammatiche ragioni: sono uno strumento efficace per negoziare il rilascio dei membri di un gruppo in prigione e con il loro riscatto è possibile acquistare nuove armi; servono a ottenere maggiore visibilità internazionale e quindi l’alleanza di altri gruppi violenti presenti in Africa; i bambini possono essere utili in certe operazioni militari, come per esempio nel piazzare mine e, infine, le ragazze interessano per lo sfruttamento sessuale. Inoltre, il rapimento di bambini o bambine in età scolare, nel caso di attacchi da parte di Boko Haram, si allinea perfettamente al divieto della “cattiva educazione occidentale” da cui prende il proprio nome.

Gli attacchi all’Onu

Per quanto riguarda invece gli attacchi propriamente e indubbiamente jihadisti si segnala che nella notte del primo marzo 2021 due distinti gruppi hanno attaccato un campo militare e una base delle Nazioni Unite a Dikwa una città nello stato del Borno nella Nigeria settentrionale. Il conflitto, protrattosi per tutta la notte fino alla mattina del 2 marzo, non ha causato vittime nel personale grazie ai rinforzi militari giunti con uomini e mezzi dalle città vicine. L’operazione è stata rivendicata dall’Iswap, ossia lo Stato Islamico della Provincia dell’Africa occidentale, la nota fazione secessionista di Boko Haram, che come si riscontra dall’analisi dei recenti accadimenti, da circa due anni, opera nel Nordest del paese con azioni molto violente che riguardano non più solo le scuole ma, come detto in precedenza, anche militari e funzionari dell’Onu.

Fonti:

L'articolo n. 3 – Nigeria: la natura ibrida delle minacce proviene da OGzero.

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Terre (r)esistenti https://ogzero.org/studium/terre-resistenti/ Sun, 07 Feb 2021 16:18:16 +0000 http://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=2340 L'articolo Terre (r)esistenti proviene da OGzero.

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Terre (r)esistenti

L’ambizione all’autonomia e all’indipendenza del popolo saharawi, di quello curdo e di quello palestinese li accomuna nell’impronta laica e progressista e nella persistenza dell’occupazione da parte di soggetti coloniali emanazione dei vecchi imperi ottocenteschi.
La Francia protegge e collabora con il regno marocchino per approvvigionarsi dei fosfati della regione dei saharawi; Israele occupa i territori della vecchia colonia britannica sottraendo le terre ai palestinesi; i curdi sono passati dall’oppressione ottomana al controllo da parte di quattro potenze locali. Tutte queste sono terre (r)esistenti.
Questi tre popoli hanno adottato nel tempo strategie diverse che contemplano anche la lotta armata, ma parzialmente diversi sono i modelli di convivenza che vorrebbero sviluppare, pur partendo da strutture comunitarie abbastanza assimilabili.
Il confederalismo democratico curdo appare come il più avanzato per superare il concetto di stato-nazione; l’attenzione alla democrazia partecipativa del Polisario si ispira a una sorta di socialismo reale fondato anche sulle rimesse della diaspora; la sovrastruttura oligarchica palestinese è infitta nel gioco dell’occupante al punto da rendere ancora più lontana la soluzione del problema.
In tutti e tre i casi è comunque vivace il confronto su una nuova idea di comunità e in tutti e tre i casi le loro disgrazie discendono da trattati disattesi, vulnus del diritto internazionale, che ha prodotto campi profughi per intere esistenze.

60%

Avanzamento

Saharawi. E da dove arriva questo conflitto

A ridosso del rinnovo della missione Onu Minurso, da sempre bloccata dal veto francese nel suo intento di organizzare il referendum i giovani saharawi avevano cominciato a mobilitarsi per richiedere un cambiamento sfociando a fine novembre in un blocco dell’unica strada che consente il passaggio di merci e uomini tra Maghreb e il Sahel occidentale. È stato l’intervento dell’esercito marocchino che ha imposto la riapertura della via di comunicazione a riaccendere gli scontri armati.

Qualche settimana dopo l’amministrazione Trump usa il contenzioso sul territorio del Sahara occidentale per comprare l’adesione del Marocco agli Abraham Accords e infatti il re Mohammed VI ha riconosciuto Israele, ma questa è un’altra storia che è raccontata dalla serie di documentari di Tullio Togni che trovate qui di seguito.


La ricchezza che impedisce la libertà

Giacimenti di fosfati, uranio, petrolio, e la costa di questa terra tra le più pescose del mondo fanno gola da sempre: la lotta per la libertà di questa terra si è scontrata negli ultimi decenni con i trafficanti di morte (armamenti, cacciatori di risorse…) di paesi europei come l’Italia e la Francia e ora il popolo saharawi si ribella al destino e rifiuta di essere semplice merce di scambio tra le potenze internazionali.


Scongelato un conflitto postcoloniale

Le interviste a El Ajun, Sahara occidentale, a pochi chilometri dal confine con il Marocco costano l’espulsione a Tullio Togni e ai suoi compagni seguiti e fermati dai servizi marocchini. L’attività giornalistica non embedded è un reato gravissimo nel territorio riconosciuto dagli Usa di Trump.
Il dibattito politico è intenso nella democrazia partecipativa della repubblica araba Saharawi, complessa realtà riconosciuta dall’Onu e del tutto simile a una qualunque agglomerazione comunitaria di altre società, locate in territori più ospitali. Qui potete ascoltare interviste a persone che animano queste realtà di servizi gratuiti.

La libertà nelle parole degli anziani che ricordano la loro terra, le loro case e le loro capre: un concetto di ricchezza diverso e perduto per finire sudditi di un regno alieno, perdendo le radici, i sepolcri dei propri cari. Da stabili, autonomi, indipendenti improvvisamente si diventa sottomessi da un invasore che arriva con l’intenzione di commettere un genocidio. E si diventa hijos de las nubes, figli delle nuvole, oppressi.
Gli anni di cessate il fuoco hanno solo congelato una situazione favorevole al Marocco e poi è bastato un presidente suprematista a Washington per far pendere la bilancia in bilico da 28 anni. Ma già prima i giovani saharawi erano spazientiti dalla complicità dell’Onu, e il Fronte Polisario deve seguire le indicazioni del suo popolo, in maggioranza fatto da giovani, colti e preparati, senza prospettive e proiettati verso la piena indipendenza, da conseguire anche con la Guerra, perché un altro proverbio recita: «Non si gioca con la pace».

A partire dall’intervento di Trump che riconosce la sovranità marocchina sul territorio delimitato dal suo stesso muro, costruito da Israele, a cui si aggiunge il dato che vede rapporti commerciali e militari tra il regno alawida e lo stato di apartheid di Tel Aviv, si è ragionato con Tullio Togni riguardo a potenziali comunanze – evidenziando anche le eventuali differenze – tra lotte di autonomia e indipendenza che combattono da più di 40 anni per raggiungere affrancamento da colonialismo e occupazione: saharawi, curdi e palestinesi hanno molti tratti che assimilano le loro vicende.

Rifugiati Saharawi Unhcr


Trump e Biden per la Palestina pari son

Nei suoi anni di mandato presidenziale, Trump ha ascoltato e assecondato tutti i sogni della destra israeliana, ignorando del tutto il diritto internazionale, tagliando gli aiuti all’Autorità nazionale palestinese e all’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati e infine ha affermato, come Israele, che non vanno più considerati tali. Ha proposto il cosiddetto “accordo del secolo”, che ignora praticamente ogni rivendicazione dei palestinesi. Esso prevede per loro uno stato frammentato, su modello dei bantustan sudafricani, ossia la formalizzazione dell’attuale situazione sul terreno, e quindi della colonizzazione israeliana dei territori palestinesi occupati.
Ma la propensione a votare Biden da parte della comunità ebraica americana non significa di per sé un allontanamento da Israele, anche se la spudorata identificazione di Netanyahu con Trump ha alienato almeno in parte le simpatie nei confronti dell’attuale governo israeliano. Nonostante le note differenze tra i due candidati alla Casa Bianca, sulla questione del conflitto israelo-palestinese c’è un sostanziale accordo. Le differenze sono più di metodo che di merito. Su pressione della lobby israeliana, dal programma elettorale del partito democratico è stata tolta la definizione di Israele come “potenza occupante”. Inoltre il candidato democratico ha dichiarato che manterrà l’ambasciata americana a Gerusalemme occupata e appoggerà l’accordo di Abramo promosso da Trump tra Israele e alcuni paesi arabi. Pur affermando di essere a favore della soluzione a due stati (ormai di fatto impraticabile), ha dichiarato che si opporrà in tutti i modi a ogni risoluzione dell’Onu che condanni le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele.



Antiche strade che decidono il destino

Quaranta anni fa la colonizzazione ebraica in Palestina, a macchia di leopardo e apparentemente senza coordinamento, appariva ancora un fenomeno destinato a soccombere presto.

Architetti e strateghi militari, gli stessi pianificatori urbanistici della Gerusalemme moderna dopo la guerra del 1967 e degli insediamenti in Cisgiordania, studiarono a fondo la storia della vasta rete stradale, non soltanto regionale, degli antichi romani, che a loro volta avevano avuto come insegnanti egizi, etruschi, greci. I nuovi conquistatori (all’inizio circondati da paesi nemici) avevano bisogno di vie capaci di consentire uno spostamento rapido di truppe e mezzi militari, spesso da un fronte all’altro. Dal Sinai al Golan o viceversa. Nei territori occupati la rete, oltre a garantire il rapido schieramento di soldati e polizia, ha il compito di facilitare il movimento dei coloni e ridurre al massimo il contatto tra loro e la popolazione palestinese. Le strade, ormai autostrade, sono così diventate strumento di occupazione e di strisciante annessione



Tuareg, i curdi dell’Africa

Il cammino intrapreso dal Pkk (fino ad approdare – nel 1998 – al Confederalismo democratico) era iniziato nei primi anni Novanta (quindi prima della cattura di Öcalan) in coincidenza con la caduta del socialismo reale. Una nuova strategia che rifletteva – tra l’altro – i cambiamenti demografici avvenuti nella società curda. Dei tredici milioni di abitanti di Istanbul, ricorda la giornalista «sei milioni sono curdi» e altri quattro milioni sarebbero i curdi emigrati in Europa. Al punto che ormai, secondo Debbie Bookchin «la maggior parte dei curdi non vive in Kurdistan». Ne consegue pertanto che «la lotta principale non è più nazionale, ma sociale». In qualche modo “più attraente” anche per tutti quei soggetti oppressi e sfruttati, umiliati e offesi che – senza esser curdi – subiscono comunque il tallone di ferro dell’imperialismo e dei vari regimi.
Purtroppo le circostanze sfavorevoli non consentirono un incontro di persona tra Bookchin, già anziano e con problemi di salute, e Öcalan in carcere, spesso sottoposto a lunghi periodi di isolamento. Per cui i loro contatti si limitarono a uno scambio epistolare.
Non abbiamo a che fare soltanto con una o più organizzazioni (Ypg, Jpg, Pkk…), ma anche – soprattutto – con un popolo. Un popolo che – come altre comunità minoritarie o minorizzate (in quanto separate da artificiosi confini statali) presenti in quei territori – rischia periodicamente, se non il vero e proprio genocidio, quantomeno l’etnocidio o l’assimilazione (forzata e non). Non solo quindi i popoli presi in considerazione direttamente in questo studium ma anche le comunità limitrofe subiscono la stessa sorte, in particolare gli azawad stanziali dall’Atlante alla Tripolitania e dal Lago Chad alle dune del Ouagadou.

Il mare di Astana: il Mediterraneo


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]]> Racconto di Natale: linee cancellate e riemerse dal suolo d’Africa https://ogzero.org/africa-un-continente-non-un-paese-racconto-di-natale-di-eric-salerno/ Thu, 24 Dec 2020 08:21:58 +0000 http://ogzero.org/?p=2114 In questo anno difficile che si chiude con uno “strano” Natale abbiamo pensato di condividere con voi lettori un racconto che racchiude un mondo perduto: quello che un tempo scaturiva dai reportage di viaggio. Ecco, ci piacerebbe che un po’ di quello spirito passasse attraverso questo scritto di un giornalista-autore che ha accettato di accompagnarci […]

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In questo anno difficile che si chiude con uno “strano” Natale abbiamo pensato di condividere con voi lettori un racconto che racchiude un mondo perduto: quello che un tempo scaturiva dai reportage di viaggio. Ecco, ci piacerebbe che un po’ di quello spirito passasse attraverso questo scritto di un giornalista-autore che ha accettato di accompagnarci nell’impresa in cui ci siamo gettati pochi mesi fa, per festeggiare il primo Natale insieme. In attesa di poter nuovamente viaggiare davvero, leggetelo, gustatevelo, immaginate di percorrere strade ferrate in un continente in perenne fermento, e di conoscere il mondo!


Un continente, non un paese

«I problemi dellAfrica». «Quegli africani tutti uguali…». «Andiamo in vacanza in Africa». Quante volte ci si riferisce a quel luogo a sud del Mediterraneo – hic sunt leones – come un solo paese, non il terzo continente per grandezza della Terra. Gli studiosi più cauti al massimo guardano a quel pezzo di mondo come se fossero due: in alto Marocco, Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto che considerano estensione del Medio Oriente; a sud del Sahara altre quarantotto nazioni o territori dove vivono – o sopravvivono – ben oltre un miliardo di persone. Uniti, più o meno, dal colore della pelle. Divisi da duemila lingue, da una moltitudine di credenze e religioni, dalle rivalità tipiche del genere umano. Popoli con radici antiche e storie ancora in parte sconosciute, sicuramente sottovalutate. Popoli che gli insegnamenti ereditati dal passato ci fanno chiamare tribù (termine poi usato dagli stessi africani) per indurci a non capire che molti dei conflitti armati che tormentano il continente hanno radici nei confini tracciati con noncuranza dalle potenze coloniali europee in una conferenza a Berlino (1894-95) e alla fine della Prima guerra mondiale.

I confini: un tracciato incerto

Tra la fine degli anni Sessanta e nel decade successivo, con la decolonizzazione ancora in corso, sono stato tre volte nel Camerun: 475.442 chilometri quadrati, oltre 100 più dell’Italia. A guardarli sulla carta, i suoi confini sembrano opera di un bambino di due anni a cui i genitori hanno chiesto di disegnare un animale preistorico. Dal Golfo di Guinea si allungano come un serpente in movimento nel cuore del continente, a ridosso del lago Ciad: un tracciato sempre incerto. Come oggi è incerto il futuro del paese, bacino apparentemente interminabile di un flusso migratorio versa la speranza. E come per motivi simili è incerto il futuro di altre realtà del continente dove si combatte e si muore e dove forze estranee, vecchie e nuove, sono sempre più protagoniste di un grande gioco. O, meglio, di più giochi. Nel maggio 1963, gli stati africani indipendenti, in una conferenza ad Addis Abeba, fondarono l’Organizzazione per l’Unità africana. Il panafricanista Kwame Nkrumah (rivoluzionario e primo presidente del Ghana) voleva veder nascere nel suo continente quello che sognava Altiero Spinelli per l’Europa ma si dovette accontentare di uno statuto meno ambizioso e che, comunque, metteva in primo piano la necessità di non mettere in dubbio le frontiere uscite dal colonialismo. La parola d’ordine per tutti: evitiamo la balcanizzazione del continente.

Camerun

Dal “Messaggero” del 3 agosto 1969 il racconto di Eric Salerno della costruzione della Transcamerunense, le prospettive (tradite?) di ricchezza e di progresso in Africa Equatoriale

Diversi Camerun in un solo paese

Quei tre viaggi in Camerun offrivano all’osservatore dosi calcolate di ottimismo dove oggi – e anche allora – è guerra. Cominciamo questo percorso da Douala, un grande porto dove in un ristorante francese, retaggio positivo del colonialismo, assaggiai per la prima volta le cosce di rana e dove uno chef parigino di nascita preparò un incredibile soufflé di cioccolato per coronare un pasto di gran livello. Mangiai dei crostacei raffinatissimi quasi d’obbligo perché è da loro che il paese prese il suo nome. Gli esploratori portoghesi che nel XV secolo approdarono da quelle parti non avevano dubbi: il delta del Wouri, ricco di quegli animali acquatici, divenne Rio dos Camarãos (“Fiume dei gamberi”); il paese, con il passare del tempo, Camerun.

Insegne nel Camerun francofono… (foto di Eric Salerno)

Erano alcuni giorni che ero costretto a rispolverare il mio francese, lingua comune per le molte etnie di quella parte del paese, ed ebbi quasi un sussulto quando, usciti da Douala e arrivati dopo non molto quasi alla base del Monte Camerun mi accorsi che le insegne delle botteghe erano improvvisamente tutte in inglese. Avevamo attraversato una frontiera che era stata cancellata e che oggi, mezzo secolo dopo quel viaggio, segna la linea di confronto tra due mondi in contrapposizione. In un posto di ristoro a Buea, il capoluogo della regione del Sudovest, 870 metri di altitudine sulle pendici meridionali del monte più alto (4040 m) di tutta l’Africa centrale (è un vulcano attivo), mi offrirono un muffin, retaggio non proprio sofisticato della breve presenza degli inglesi.

insegna inglese

Foto di Eric Salerno

La Repubblica federale che (non)unisce del tutto

Trovai, in quella e nelle altre visite, poco o nulla degli anni in cui questo lembo d’Africa si chiamava Kamerun, i suoi padroni parlavano il tedesco, ed era ancora più grande grazie a uno scambio territorio-favori (il trattato Marocco-Congo del 1911) tra Berlino e Francia. Una mossa sulla plancia della Monopoli africana simile ad altre tra le potenze colonialiste. Londra e Parigi, dopo la sconfitta della Germania, si divisero il bottino africano della Grande Guerra. Passarono di mano anche il Tanganika, oggi Tanzania dopo una non sempre tranquilla unione con Zanzibar; il Togo dove lotta un movimento separatista nel West Togoland, quella parte dell’ex colonia tedesca che dopo la decolonizzazione divenne una provincia del Ghana. Il Kamerun fu diviso in due: Camerun inglese, accanto alla vasta colonia britannica della Nigeria, Camerun francese, appoggiato agli ex possedimenti di Parigi a nord e a est. Poi dopo varie fasi incerte nacque la Repubblica federale che avrebbe dovuto rispettare l’autonomia della popolazione anglofona rispetto alla preponderanza di quella francofona. Non fu così e la spaccatura avvenne proprio sulla questione linguistica, eredità coloniale e fattore unificante di gruppi etnici e popoli non soltanto in questo paese. Tre anni fa, la proclamazione della Repubblica federale di Ambazonia da parte degli anglofoni e la nascita di movimenti separatisti armati ha portato a un conflitto ancora in atto. E che ricorda quello che infuriava nella stessa regione cinquanta anni fa che, come scrissi allora, riguarda la competizione tra i bamiléké (nelle regioni anglofone) e gli altri, e aveva radici profonde ma anche motivazioni, diciamo, aggiornate.

Un reportage di Eric Salerno dal Camerun, apparso su “Il Messaggero”, l’8 agosto 1969: rivalità tribali vs. unità nazionale

“I bamiléké sono progrediti in questi ultimi anni a grandi sbalzi, superando quasi sempre lo sviluppo economico e sociale degli altri gruppi etnici. I sistemi feudali delle loro tribù sono stati aboliti e la società bamiléké ha sostituito le strutture dei villaggi con cooperative, associazioni comunitarie per il commercio. Oggi possiedono piantagioni, ricche e altamente produttive, stabilimenti per il trattamento del caffè, garage e magazzini, e gestiscono la quasi totalità dei servizi di trasporto terrestre del paese”

L’allora presidente Ahidjo, un foulbé (etnia minoritaria, musulmano, del Nord) sosteneva la necessità di raggiungere la non facile unità nazionale prima di impegnarsi nello sviluppo economico del paese. Oggi il paese è tra i più solidi grazie alle risorse naturali, compresi petrolio e gas, legnami pregiati e prodotti agricoli ma la ricchezza è concentrata nelle regioni meridionali. La scena politica è da anni dominata da un partito (Movimento democratico del Popolo camerunese) e dal suo presidente Paul Biya, 85 anni, al potere dal 1982 e al suo settimo mandato dopo le contestate elezioni del 2018.

L’eredità coloniale delle religioni

Credo che sia importante, qui, sottolineare un altro elemento di coesione e in molti casi di tragica lotta fratricida in questo paese come in tutto il continente: le religioni come eredità coloniale. L’islam, arrivato soprattutto nel Sahel, lungo la costa Mediterranea e quella dell’Oceano Indiano ancora prima della conquista europea del continente, è un fattore unificante ma anche di scontro spesso all’interno della sua complessa galassia. Nel suo nome vengono portate avanti crociate che sfruttano contrasti più tradizionali come quelli tra coltivatori e pastori quando, come ora, il clima ha reso più difficile la sopravvivenza delle popolazioni. Gruppi islamisti, finanziati e sostenuti da attori esterni al continente, sono attivi nelle regioni settentrionali del Camerun e in quasi tutta la fascia del Sahel dove i musulmani sono preponderanti. La realtà del Camerun – dal Golfo di Guinea al lago Ciad – deve la sua complessità anche a chi disegnò le sue frontiere. Circa il 70 per cento della sua popolazione è cristiana: la maggioranza cattolica nella parte francofona, i protestanti in quella che fu dominata dalla Gran Bretagna. La gravità della situazione è stata sottolineata a febbraio di quest’anno nella lettera di un gruppo di vescovi che sollecitavano il governo di Yaoundé a rinunciare al centralismo che impone l’identità francofona sugli anglofoni.

La violenza e le atrocità commesse da tutte le parti in conflitto hanno costretto 656.000 camerunesi di lingua inglese a lasciare le loro case, 800.000 bambini a non andare più a scuola (inclusi i 400.000 alunni delle scuole cattoliche), 50.000 persone a fuggire in Nigeria, distrutto centinaia di villaggi e ucciso almeno 2000 persone

Le risorse naturali, vera causa delle guerre civili

Purtroppo l’esempio del Camerun è soltanto uno dei meno noti dei conflitti africani. Del Sudan e del Sud Sudan, paesi indipendenti dopo guerre civili spesso manovrate dall’esterno, ma sempre con “problemi tribali” al loro interno, si parla spesso. Come si è parlato nell’ultimo mese della guerra che rischia di smembrare l’Etiopia, uno dei più antichi paesi del mondo. L’Unione africana, alcuni anni fa, aveva designato il 2020 l’anno della pace nel continente. L’obiettivo, mettere fine a tutti i conflitti. Da quelli di cui si parla sovente – Libia, Sudan, Mali – a quelli poco trattati dai media nella Repubblica democratica del Congo, nella Repubblica Centrafricana, in Somalia, Kenia e, da poco tempo, nel Nord del Mozambico ricco di idrocarburi. Le risorse naturali sono, come sempre, l’interesse principale degli attori esterni. E la causa di molte guerre civili africane. Una per tutte: la guerra del Biafra (una regione della Repubblica federale della Nigeria super-ricca di petrolio) scoppiata pochi anni dopo l’indipendenza (1967-1970). Si preferì parlare, allora, di “rivalità etniche”, che sicuramente esistevano ed esistono ancora oggi in quel vasto paese.

Il fascino del potere

E qui, seppure con cautela per non sottovalutare il passato, è d’obbligo sottolineare che oltre mezzo secolo dopo la decolonizzazione anche l’attuale dirigenza africana deve assumersi le proprie responsabilità. Tra queste, l’incapacità o la mancanza di volontà di modificare le strutture economiche e politiche di sfruttamento dei cittadini e l’attaccamento al potere di molti leader,  uomini politici inizialmente innovatori ormai dittatori attaccati al potere e a tutto ciò che rappresenta. L’impegno di mettere fine a tutte le guerre entro quest’anno era sicuramente irrealistico. Anche perché le rivalità e divergenze tra i leader dei 27 stati dell’Unione europea sono nulla rispetto a quelle che dividono i governi dei 55 paesi africani, alcuni dei quali colpevoli anche di favorire i conflitti civili e i movimenti separatisti nei loro vicini di casa.

La foto utilizzata in copertina è stata esposta alla mostra “A sud del Sahara. Fotoreporters italiani nell’Africa nera 1969/1979”, tenutasi a Palazzo Isimbardi a Milano nel maggio 1980, con opere di Paola Agosti, Romano Cagnoni, Carlo Cisventi, Augusta Conchiglia, Mario Dondero, Fausto Giaccone, Uliano Lucas… Eric Salerno. L’immagine illustra un gruppo di viaggiatori in attesa del treno alla stazione di Nanga-Boko, fine luglio 1969.

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]]> Saharawi. E da dove arriva questo conflitto? https://ogzero.org/il-conflitto-in-stallo-da-50-anni-i-muri-nellultima-colonia-africana/ Sun, 22 Nov 2020 17:43:38 +0000 http://ogzero.org/?p=1808 Venerdì 13 novembre 2020 le agenzie di stampa mondiali hanno riportato notizie su un conflitto tra il Regno del Marocco e una organizzazione chiamata Polisario. Scontri a fuoco, in un’area chiamata Ghergarat. Come al solito i lanci di agenzia riportano un fatto d’attualità che sembra uscito dal nulla. Invece la storia del conflitto del Sahara […]

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Venerdì 13 novembre 2020 le agenzie di stampa mondiali hanno riportato notizie su un conflitto tra il Regno del Marocco e una organizzazione chiamata Polisario. Scontri a fuoco, in un’area chiamata Ghergarat. Come al solito i lanci di agenzia riportano un fatto d’attualità che sembra uscito dal nulla. Invece la storia del conflitto del Sahara Occidentale è vecchia di 50 anni e riguarda l’ultima colonia africana.

Karim Matref ha ripercorso tutte le tappe che hanno condotto a questa situazione in un articolo comparso in “La Bottega del Barbieri“. Ne abbiamo ripreso i brani che analizzano gli aspetti più collegati alla contingenza attuale con il progetto di approfondire ulteriormente gli sviluppi [ringraziamo Karim e Daniele per la disponibilità]. Intanto alcuni podcast ottenuti registrando l’intervento di Karim su Radio Blackout giovedì 26 novembre 2020 approfondiscono taluni aspetti accennati nell’articolo, allargando l’analisi geopolitica dell’influenza sulla regione dell’incancrenito dissidio sul Sahara occidentale.

Ascolta “50 anni di muri di sabbia: gli antefatti della resistenza” su Spreaker.

L’ultima colonia africana

Ghergarat è una piccola località di frontiera, che si trova sul confine tra i territori sotto controllo del Fronte Polisario e la Mauritania. La divisione del territorio del Sahara Occidentale dopo il cessate il fuoco del 1991, ha lasciato i territori sotto controllo del Marocco e quindi anche il Marocco, senza nessun collegamento terrestre con la Mauritania. Per riaprire le rotte commerciali verso la Mauritania, e da lì verso altri paesi subsahariani, il Marocco ha tenuto aperto un corridoio di circa 11 chilometri e ha stabilito un posto di frontiera. Facendo del paesino di Ghergarat, di fatto, una specie di enclave marocchina in territorio controllato dal Polisario.

Nonostante questa anomalia, non contemplata negli accordi di pace, la situazione è rimasta stabile in tutti gli anni in cui si sperava in una risoluzione pacifica della controversia. Anche perché quella apertura era una boccata d’ossigeno per tutti.
Poi negli ultimi anni, l’Onu e la comunità internazionale si sono quasi del tutto dimenticati della questione Saharawi. I profughi scappati dai territori occupati verso il Sud dell’Algeria sono rimasti a marcire per 40 anni in campi profughi piantati in mezzo a una delle zone più aride e più calde del deserto del Sahara. Mentre quelli rimasti sotto il controllo del Marocco vivono in una situazione ultra-militarizzata, dove vengono repressi violentemente a ogni segno di dissenso verso la monarchia.

Muro marocchino nel Sahara Occidentale

Recinzioni successive per annessione di territorio

Ascolta “Il mondo oltre il varco di Ghergarat” su Spreaker.

Verso la fine dell’estate scorsa, dei manifestanti civili, sostenuti dall’Organizzazione del Fronte Polisario, hanno cominciato a organizzare delle proteste davanti al valico di Ghergarat, proteste sporadiche che a partire dal 20 ottobre si è trasformato in un blocco permanente, impedendo il traffico da e verso Marocco e Mauritania, con centinaia di Tir bloccati da una parte e dall’altra del confine. In seguito si è scatenata una guerra diplomatica a livello dell’Onu, dell’Unione africana e della Lega araba. Accompagnata da una guerra mediatica. Il Marocco accusando il Polisario (e l’Algeria) di terrorismo, il Polisario accusando il Marocco di violazione degli accordi di cessate il fuoco con l’apertura del passaggio abusivo.

Nella notte del 12 novembre, l’esercito marocchino ha aperto varie brecce nel muro di separazione e ha effettuato operazioni militari in territorio Polisario, riaprendo così con la forza militare la strada e il valico per la Mauritania. A queste operazioni il Fronte Polisario ha dichiarato di aver risposto “in modo adeguato”, annunciando varie operazioni con armi pesanti su postazioni occupate. Non si hanno per ora notizie affidabili sui numeri di feriti e eventuali morti.

Perché adesso e perché Ghergarat?

Perché adesso…?

I fattori che hanno portato agli scontri di questi giorni sono molti. Da alcuni mesi, si era notata una attività intensa della diplomazia marocchina, che approfittando della debolezza del governo algerino, principale sponsor del Polisario a livello internazionale, messo a dura prova dalle proteste popolari per la democrazia, ha cercato di far crescere il consenso internazionale intorno al suo progetto di annessione. Il Fronte Polisario invece è rimasto vigile. In risposta all’attivismo della diplomazia della monarchia, ha attivato delle proteste di civili nei territori occupati. Una di queste è il blocco del valico di Ghergarat.

Il fatto è che la situazione. sia per i Saharawi profughi in territorio algerino che per quelli costretti a vivere sotto occupazione marocchina, è diventata insopportabile. Sono passati 39 anni dagli accordi di cessate il fuoco e non si riesce a fare un passo avanti. I bambini nati in esilio all’inizio del conflitto, ormai hanno più di 40 anni e sia loro che i loro figli non hanno conosciuto altro che i campi di tende e prefabbricati, costruiti in mezzo al deserto. La misura è colma. E anche per evitare il pericolo di rivolte interne, il Polisario è costretto a dare segni di attività.

… perché Ghergarat?

Il piccolo villaggio di Ghergarat è una località minuscola che si trova a 5 chilometri dall’Oceano Atlantico, a 11 chilometri dal muro di sicurezza marocchino e in prossimità della frontiera con la Mauritania. Ed è questa sua posizione che lo rende importantissimo. Per il Marocco, il valico di Ghergarat è l’unica porta stradale verso la Mauritania e l’Africa Subsahariana. La sua apertura ha permesso la riapertura delle rotte commerciali tra il Regno e il resto del Continente. Per il Fronte Polisario che ha vari accessi sia verso l’Algeria sia verso la Mauritania, il valico del Ghergarat è importante solo perché è l’unico punto debole sul quale può agire per fare pressione sul Marocco.

Blocco del valico di Gergharat

Saharawi bloccano il valico di Ghergarat dal 30 ottobre 2020

Il contesto regionale

Questa riaccensione di un conflitto che sembrava da tempo assopito, arriva in un momento di profonda crisi per tutta la Subregione del Nord Africa. Il caos in Libia e in Mali creano tensioni che in ogni momento possono portare la zona, in modo particolare la Tunisia e l’Algeria, a entrare a pieno piede nel conflitto armato.

Una Algeria debole…

L’Algeria, che è un attore importante in questo conflitto, anche lei vive difficoltà economiche dovute al crollo dei prezzi del petrolio e del gas, e attraversa un lungo periodo di turbolenza politica.

Le dimissioni del vecchio presidente Bouteflika e l’elezione contestata del nuovo presidente, Abdelmadjid Tebboune, dovevano calmare la piazza algerina. Invece il popolo non è soddisfatto e chiede un cambiamento radicale del sistema politico e continua a protestare. È solo grazie alla crisi del Covid 19, se il governo ha avuto una tregua. Ma la protesta continua sui mezzi di comunicazione e la popolazione è decisa a tornare in piazza appena la situazione sanitaria lo permetterà.

Ascolta “Lo stallo ad Algeri e la resistenza del movimento Hirak: un sistema da sovvertire” su Spreaker.
Questa debolezza si nota con la poca convinzione con cui il regime ha organizzato l’ultimo referendum per le riforme costituzionali. La consultazione doveva essere una specie di plebiscito per il governo del neoeletto presidente Tebboune.
Ma la sua organizzazione è stata un fiasco totale. Nemmeno la macchina della falsificazione, di solito molto efficace, ha funzionato molto bene questa volta. Il regime ha dovuto dichiarare una partecipazione di circa 30% (nell’arte della decriptazione dei codici del regime, questo si traduce in meno del 10%). Questo vuol dire che nemmeno il regime stesso è compatto.

La caduta del clan di Abdelaziz Bouteflika ha creato degli sconvolgimenti importanti, tutti i dignitari del sistema prima del 2019 sono in carcere per corruzione. Ma questo non è segno di lotta alla corruzione stessa. Ma segno di guerra interna senza esclusione di colpi. Il presidente Tebboune è malato. Ricoverato in Germania. Voci di corridoio parlano di Covid 19. Altre lasciano capire che potrebbe essere un avvelenamento. Comunicati ufficiali chiari sulla questione non ce ne sono. L’unica istituzione stabile nel paese rimane l’Esercito Nazionale Popolare (Anp). Anche se il nuovo Capo di Stato Maggiore, il Generale Said Changriha non ha la smania del protagonismo come il suo predecessore, Gaid Salah, rimane comunque l’unica autorità incontestata nel paese. E il coinvolgimento del paese in uno scontro (anche se non diretto) porterebbe a rafforzare il posto dell’esercito e a annullare lo sforzo della protesta popolare che chiama da anni a uno Stato Civile, non controllato dai militari.

… e un Marocco malato

Anche la Monarchia Marocchina sta passando momenti difficili. Il Re Mohammed VI anche lui è malato. Probabilmente molto gravemente, viste le tensioni che questa situazione ha creato. È da tempo assente dalla gestione del paese. Sua moglie, Salma, è scomparsa dalla scena pubblica dopo aver chiesto il divorzio. Non si sa se si è nascosta per paura per la propria vita o se è stata “nascosta” per evitare scandali.

Il figlio, Hassan III, è ancora troppo giovane per regnare in caso di dipartita precoce dell’attuale monarca, e quindi ci sono tensioni interne al palazzo. Il fratello del Re, Rachid, è d’accordo con le sorelle a ereditare il trono. Alcuni organi di stampa hanno dato eco persino a una voce che parla di complotto sventato che aveva per obiettivo quello di eliminare il giovane principe. Fake news totale? verità parziale? difficile stabilire la linea tra il vero e il falso in un contesto in cui è tutto segreto di stato. Ma non c’è mai fumo senza almeno un fuocherello. E le tensioni interne al Palazzo quando sono forti si sentono.

Mentre la famiglia reale litiga per il potere, il paese è in gravi difficoltà economiche, il carovita strangola le famiglie e un’orda di affaristi affamati sta saccheggiando il paese. La crisi del Covid ha messo alla luce del giorno la grave situazione della sanità pubblica, e le restrizioni alla circolazione mettono in difficoltà ampie fette della società, soprattutto quelle più fragili.

Se non scoppiano disordini ovunque è, anche qui, merito della crisi sanitaria e dello stato di emergenza imposto ovunque.

Niente di meglio di una crisi con la già odiata popolazione Saharawi e con l’Algeria, il nemico di sempre, per far dimenticare i guai interni.

Ma questa crisi potrebbe anche essere una porta d’uscita

Adesso che la Costituzione è stata cambiata, niente impedisce all’esercito algerino di entrare nelle terre sotto controllo della Rasd per «difendere i limiti designati negli accordi di cessate il fuoco del 1991». Un ingresso dell’esercito algerino in territorio saharawi darebbe finalmente alla monarchia marocchina ragione sul fatto che il nemico algerino (e non i predatori interni) è la causa di tutta l’infelicità del popolo.

Tamburi di guerra vogliono dire limitazione delle libertà, chiusura della poca libertà di espressione presente nei due paesi, più soldi e mezzi per l’esercito, le forze dell’ordine… Militarizzazione dello spazio pubblico. Una manna in tempi di vacche magre.

Ma questa piccola escalation degli ultimi giorni, da un’altra parte,  potrebbe non essere poi così negativa. Anzi, potrebbe essere una opportunità.

Rifugiati Saharawi Unhcr

45 anni di esilio in tenda in mezzo al deserto

La situazione è bloccata in questo stato di non guerra e non pace da ormai 50 anni. La vita dei Saharawi è un inferno ovunque. Ma il conflitto del Sahara Occidentale avvelena la vita di tutto il Nord Africa e anche buona parte del continente. Le rotte tradizionali di scambio tra popoli sono interrotte da decenni. Il confine tra Algeria e Marocco è chiuso da quasi 60 anni, la circolazione tra Marocco e Mauritania è molto difficile.

In epoca coloniale, era possibile viaggiare in treno da Marrakech fino al Mar Rosso. Oggi è impensabile.

Ascolta “Un conflitto che avvelena l’intera regione, un deserto dotato di risorse alternative” su Spreaker.
Le relazioni diplomatiche, già non facili, sono complicate da questo scontro.  Spesso gli stati sono costretti a scegliere una posizione per o contro, in una questione che non tutti riescono a capire. Questa costrizione porta per esempio i lavori delle organizzazioni dell’Unione Africana e della Lega Araba a essere profondamente disturbate dalla tensione che genera il conflitto Marocco/Algeria. E questo impedisce qualsiasi piano di sviluppo integrato tra i paesi del Maghreb e tra questi e i loro vicini del Sahel. Anche gli incontri delle società civili africane, come è stato il caso nei Forum Sociali di Dakar e Tunisi, sono disturbate dagli scontri delle organizzazioni inviate dai Servizi segreti del Fronte Polisario e del Marocco, per creare zizzania e impedire un dibattito sereno sulla questione.

Nonostante i pericoli di escalation, questa mossa da qualsiasi parte venga potrebbe anche essere un passo verso un ulteriore sviluppo e la possibilità, se c’è volontà e buon senso da tutte le parti, di uscire da un fastidioso stato di muro contro muro che dura da più di mezzo secolo e che ha veramente logorato tutti.

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Il vecchio sogno sionista lambisce il Sudan https://ogzero.org/il-vecchio-sogno-sionista-lambisce-il-sudan/ Wed, 28 Oct 2020 16:23:30 +0000 http://ogzero.org/?p=1628 Geopolitica. Termine attorno al quale prolificano think-tank di ogni colore con il compito di spiegare i disastri del nostro mondo: quello di ieri, di oggi e purtroppo del futuro. C’è un altro detto o termine più profondo e analitico, quasi banale, che ci può aiutare a comprendere da dove cominciare quasi ogni analisi. Qualcuno, senza […]

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Geopolitica. Termine attorno al quale prolificano think-tank di ogni colore con il compito di spiegare i disastri del nostro mondo: quello di ieri, di oggi e purtroppo del futuro. C’è un altro detto o termine più profondo e analitico, quasi banale, che ci può aiutare a comprendere da dove cominciare quasi ogni analisi. Qualcuno, senza prove o indizi validi, sostiene che ha origini arabe; altri si rifanno a un trattato di strategia militare di uno scrittore indiano. La verità, probabilmente, coinvolge, come troppi dei disastri del nostro mondo, la Bibbia e i suoi derivati. Nel suo secondo libro (Esodo 23.22), riferendosi a Dio è scritto: «Se tu ascolti la sua voce e fai quanto ti dirò, io sarò il nemico dei tuoi nemici e l’avversario dei tuoi avversari». In italiano, senza troppi fronzoli: «Il nemico del mio nemico è amico mio». Fu, nel 1971, monsignor Ubaldo Calabrese, nunzio apostolico con sede a Kartum a spiegarmi, con un sorriso e le cautele appropriate per un rappresentante ufficiale della Santa Sede, i giochi complessi della guerra civile che da quindici anni tormentava il Sudan meridionale.

La lunga mano del Vaticano

Non mi fece il nome di “Tarzan” (non mi riferisco a quello dei film con Jane e la scimmietta al seguito, ossia il personaggio di Edgar Rice Burroughs) ma tra una forchettata di rigatoni preparati con amore dalle suore che gestivano la nunziatura nella capitale sudanese e un bicchiere di vino, non ebbe difficoltà ad attribuire a Israele e ai suoi servizi segreti esteri – il Mossad – l’addestramento degli anya-anya che lottavano contro gli arabi musulmani del nord. Non andò oltre il sorriso quando gli chiesi se fosse vero, come raccontavano molte fonti (compresi gli stessi israeliani) che a finanziare la rivolta c’era anche la Caritas, lunga mano del Vaticano non sempre controllata dal Papa. Da anni la Chiesa cattolica, attraverso i colti missionari comboniani e altri gruppi religiosi, operava in tutto il paese, ma soprattutto tra i neri delle regioni meridionali quasi tutti animisti, per avvicinarli al Dio di Roma e difenderli contro i musulmani che controllavano le regioni settentrionali di quello che era, allora, lo stato più esteso – e, aggiungo io, più affascinante – del continente africano.

Tel Aviv e Kartum vanno a braccetto: il ricatto americano

Prima di cercare di spiegare i grandi giochi che stanno portando a un accordo di pace (o qualcosa di simile) tra il governo di Kartum e quello di Tel Aviv attraverso la mediazione-ricatto americano, facciamo un passo indietro al 1971 e l’ultimo capoverso di quanto scrissi in un lungo reportage da Juba (o Giuba), capoluogo della regione di Equatoria, per “Il Messaggero”.

«Uno degli elementi che rendono difficile, oggi, una soluzione del problema meridionale è il contesto che esso ha assunto nel quadro della situazione del Medio Oriente e nei rapporti tra le grandi potenze. Nimieiri [allora leader sudanese, N.d.R.] ha firmato accordi con il Ciad e con l’Etiopia cercando così di limitare l’attività dei consiglieri israeliani che operavano da basi in questi paesi. Come contropartita ha dovuto sospendere il suo appoggio al Frolinat, il Fronte di liberazione del Ciad, e al Fle, il fronte di liberazione dell’Eritrea. Dall’altra parte la presenza russa in Sudan e la posizione di questo paese nello schieramento arabo sono tra i fattori che giustificano gli sforzi di Tel Aviv di appoggiare i disordini nelle province meridionali. Potrebbe influire su questa linea di condotta l’eventuale composizione della vertenza meridionale e la svolta a Occidente del governo di Kartum concretizzata nell’ultimo mese con l’arresto di decine di membri del comitato centrale del Partito comunista e con l’invito fatto ad alcuni grandi complessi economici europei di interessarsi direttamente allo sviluppo del paese attraverso grossi investimenti nei settori agricolo e industriale».

Perché da 15 anni il Sudan è lacerato da un conflitto interno che oppone il Nord al Sud

Molta acqua è passata sotto i ponti del Nilo da allora – mezzo secolo di violenza, antagonismo, morte – e dall’altro giorno la Repubblica del Sudan, ormai diviso legalmente dal Sudan del Sud, sembra avviata a un accordo di pace e amicizia con Israele. Si combatte, ancora, in molte regioni delle due nazioni e le incertezze riguardo il futuro dei due stati africani non mancano. Per tentare di comprendere la situazione attuale e la sua, diciamo, politica estera è utile tornare alle origini del Sudan, paese indipendente dal 1956 quando le potenze coloniali – Regno Unito ed Egitto – si ritirarono ufficialmente. Già allora uomini d’affari israeliani e il Mossad si avvicinarono al nuovo governo di Kartum con offerte di aiuti economici e altro con lo scopo evidente di mettere i bastoni tra le ruote delle alleanze panarabe contro Israele.

Gli sforzi di Tel Aviv non furono capaci di vincere sul richiamo del carismatico leader egiziano Nasser e dopo uno dei tanti golpe militari il Sudan si schierò con il resto del blocco nazionalista arabo fino a inviare un minuscolo contingente militare a combattere a fianco dei soldati del Cairo nella Guerra dei sei giorni del 1967. Erano gli anni in cui gli schieramenti locali rispecchiavano lo scontro Usa/Urss e le forze armate sudanesi erano equipaggiate e addestrate da Mosca. Incontrai i loro consiglieri militari nel Sudan meridionale; il ministro della Difesa del Cremlino a Kartum intanto osservava fiero i carristi sudanesi che sfilavano per la festa della rivoluzione. Facevano poco per nascondersi. Tanto chi doveva sapere, sapeva tutto.

Tarzan del Mossad

Fu allora che, con il beneplacito di Washington, entrò in scena “Tarzan”, o meglio David Ben Uziel, con un gruppo scelto di agenti. Il loro compito: aiutare le tribù del Sud Sudan nella loro lotta storica contro il governo centrale di Kartum. Da basi in Kenia e Uganda piloti israeliani paracadutarono armi e munizioni ai ribelli mentre “Tarzan” e i suoi specialisti addestravano i ribelli e li guidavano nei loro attacchi contro le istallazioni militari delle truppe arabe musulmane.

Molte furono le imboscate ed efficace dal punto di vista della guerriglia la distruzione dei pochi ponti sul Nilo bianco. La guerra civile finì entro la metà degli anni Settanta ma il Mossad, come in molti paesi africani, aveva consolidato le sue posizioni in tutto il Sudan. Amicizie e ricatti consentirono agli israeliani di utilizzare conoscenze e basi segrete per far uscire dall’Etiopia gli ebrei neri – i cosiddetti “falascià” – di quel paese. Successivamente, quando il governo di Kartum si era troppo avvicinato all’Iran degli ayatollah, gli agenti segreti di Tel Aviv ormai di casa in Sudan, guidarono i loro cacciabombardieri che colpivano depositi e fabbriche di armi allestiti da o per conto di Teheran. Tutto questo mentre il Sud Sudan, divenuto indipendente, si rivolse a Israele per armarsi e in funzione di un’altra guerra civile tra gruppi tribali rivali in una competizione per il controllo delle risorse petrolifere locali.

Con la deposizione nell’aprile 2019, dopo trent’anni al potere, del generale Omar Hasan Ahmad al-Bashir, le cose cominciarono a cambiare anche nel Sudan (del Nord) non più considerato uno stato canaglia retto da un dittatore colpito da un mandato di cattura dalla Corte internazionale di Giustizia per crimini contro l’umanità. Stati Uniti e Israele avviarono contatti immediati con il nuovo regime, fragile e ancora senza legittimità costituzionale. Da anni, ormai, il nemico principale di Israele e di molti nemici d’Israele era diventato l’Iran. Le divisioni del mondo islamico erano venute al pettine e stavano trascinando soprattutto il Vicino Oriente verso lo scontro armato tra sunniti e sciiti. E così, l’elegante – non meno di James Bond – capo del Mossad, Yossi Cohen, uno 007 con licenza non solo di uccidere ma di fare politica internazionale, va tessendo per volere del premier Netanyahu, le nuove alleanze quanto meno tattiche di Tel Aviv.

Dopo i baci e abbracci tra gli israeliani e i leader degli Emirati e il Bahrein, ministati in cui le famiglie regnanti sono sunnite e la maggioranza delle popolazioni sciita, ora, spronato o meglio ricattato dal presidente americano Trump, anche il governo provvisorio del Sudan si è detto interessato ad avvicinarsi a Israele. Come ha fatto capire anche l’Oman e, con frasi costruite per cercare di non dimenticare la causa palestinese, anche alcuni dei leader dell’Arabia saudita, paese che da anni ha stretti rapporti di collaborazione con le autorità militari israeliane e con il Mossad. Sapremo di più nei prossimi giorni. Ma ci vorrà molto di più per comprendere in quale direzione andranno le cose nel vasto turbolento scacchiere mediorientale dove dominano due elementi: la questione sciita-sunnita da una parte e la consapevolezza che il petrolio, arma economica dei regni totalitari arabi del deserto, sta finendo.

Ascolta “Israele compra a saldo paesi arabi” su Spreaker.

Sarebbe sufficiente la fine del regime degli eredi di Khomeini per sbaragliare il quadro generale. E favorire il ritorno alla vecchia alleanza preferita da Israele: un rapporto privilegiato con l’Iran, paese a maggioranza musulmana che non ha mai partecipato alle guerre arabe contro Tel Aviv. E che negli anni in cui regnava lo Scià, aveva stabilito una forte amicizia anche con il Sudafrica dell’apartheid. Il Mossad, già allora arma letale del giovane stato sionista, addestrava i torturatori iraniani del Savak e quelli non meno feroci dei servizi segreti di Pretoria. Oggi, come sappiamo, il fronte è cambiato nel rispetto dell’equazione “il nemico del mio nemico è amico mio”: Israele e i paesi arabi sunniti contro l’Iran sciita. La loro parola d’ordine: impedire al regime degli ayatollah di ottenere un’arma nucleare. Paradossalmente, poco prima della rivoluzione che portò alla destituzione dello Scià, Israele, per ordine di uno dei suoi più noti leader storici, Shimon Peres padre della tecnologia bellica nucleare israeliana, stava per consegnare all’Iran gli strumenti per la costruzione di uno stabilimento atomico. Furono gli stessi anni in cui Tel Aviv sperimentò nelle acque a sud delle coste del Sudafrica razzista la sua prima bomba, molte volte più potente di quelle lanciate su Hiroshima e Nagasaki. Oggi Israele ha un arsenale stimato in più di cento testate nucleari montate su razzi terra-terra, caricate su bombe pronte a decollare nel giro di pochi minuti e a bordo dei sommergibili di costruzione tedesca che navigano nelle acque del Mediterraneo e dell’Oceano Indiano.

Chiara Cruciati è stata intervistata il 29 ottobre 2020 su Radio BlackOut . Trovate il podcast di approfondimento sugli Abraham Accords nello spreaker inserito in questo punctum.

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Tuareg, i curdi dell’Africa? https://ogzero.org/il-deserto-diventa-pantano-in-libia/ Fri, 02 Oct 2020 11:28:43 +0000 http://ogzero.org/?p=1333 L'indipendenza e autodeterminazione dei popoli del Fezzan e della Nigeria passa attraverso la collaborazione tra tuareg e tebu, ma anche contro il neocolonialismo occidentale, soprattutto francese, che mira a controllare oro, uranio, petrolio, acqua e vuole imporre la sua presenza militare attraverso missioni Onu con il pretesto di combattere il jihadismo, con cui brevemente e riconoscendo l'errore il popolo azawad si era alleato nel 2013

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Se non proprio malevola, almeno superficiale.

Così almeno mi era apparsa la semplificazione mediatica con cui si proiettava lo spettro jihadista sull’ultima – per ora – ribellione tuareg. Arrivando a sostenere che certe etnie del Mali non potevano essere altro che “vittime o complici dell’islamismo più feroce”.

Tertium non datur.

In realtà – credo – la questione è più complessa. Si doveva, almeno, precisare quale fosse – e quale sostanzialmente sia – la condizione in cui versano i tuareg. Quella di una “nazione senza stato” che vive, si sposta e – se del caso – combatte ben oltre i ristretti confini del Mali. Per inciso. Appare evidente l’analogia con la nazione curda, ugualmente frantumata da vari confini statali, più o meno artificiosi, a seguito dei ben noti processi di “decolonizzazione controllata” del secolo scorso.

Invece si è cercato di interpretare la diffusione, il dilagare dell’islamismo radicale come effetto collaterale del “rientro” (in realtà una dispersione) delle “milizie nomadi” (in parte costituite da combattenti tuareg) già “alleate del beduino Gheddafi”. Senza interrogarsi in merito alle ragioni che avevano spinto molti tuareg, legati o meno al Mnla (Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad) in Libia.

Indipendenza e autodeterminazione azawad

Alla fine del Novecento le lotte per l’indipendenza (o almeno per l’autonomia, il decentramento) e gli scontri armati tra le milizie tuareg e gli eserciti di Mali e Niger risultarono deleteri soprattutto per le popolazioni civili, oggetto di repressione e brutali massacri.

Come per esempio nel 1990 a Tchin Tabaraden in Niger.

E forse non è un caso che anche attualmente nel Niger permangano gruppi armati che lottano per l’autodeterminazione. Tra questi il Mnj (Mouvement des Nigériens pour la justice).

Oltre alla liberazione dei prigionieri politici tuareg e alla possibilità di svolgere liberamente attività politica, il Mnj esige dal governo di Niamey la fine dello sfruttamento coloniale dei territori abitati dai tuareg (vedi le miniere di uranio, devastanti per la salute della gente, in mano alle multinazionali straniere come la francese Areva).

Altra organizzazione armata in parte ancora operativa (o almeno nel primo decennio del XXI secolo) il Front des forces de redressement. Avrebbe (meglio il condizionale in attesa di conferme) invece deposto definitivamente le armi il Front patriotique nigérien.

La svolta islamista: faida interna e non conversione religiosa

Comunque, tornando alla caduta di Gheddafi, all’epoca buona parte dei tuareg prese la via del ritorno. Talvolta portandosi appresso una discreta quantità di armamenti sofisticati. Salvo poi – magari incautamente – venderle a gruppi jihadisti ben riforniti di petrodollari. Peggio ancora. Qualche ex esponente del Mnla (vedi Iyad Ag Ghali) si era avvicinato da tempo alle milizie jihadiste, anche in contrapposizione con gli ex compagni di lotta.

Più che una conversione religiosa, la vedrei come il risultato di personalismi, concorrenze e faide interne.

Risaliva al 6 aprile 2012 la dichiarazione unilaterale di indipendenza dell’Azawad che di fatto aveva temporaneamente spaccato il Mali in due. Ma dopo nemmeno venti giorni – forse per inesperienza, stupidità o sotto minaccia come nei matrimoni forzati – alcuni referenti del Mnla presenti sul campo firmavano un accordo-capestro con Ansar al-Din, gruppo islamista finanziato da al-Qaeda nel Maghreb islamico. Con la velleitaria creazione di un Consiglio transitorio dello Stato Islamico dell’Azawad formato da 40 membri, 20 del Mnla e 20 di Ansar al-Din.

Risvolto grave, l’applicazione della sharia e la costituzione della polizia islamica (hisba).

A sua parziale giustificazione Bilal Ag Sherif, segretario del Mnla e firmatario dell’accordo, sosteneva di aver agito per evitare una guerra interna tra tuareg e convincere i fratelli integrati in Ansar al-Din ad abbandonarne i ranghi.

Un accordo che era lecito definire una “mostruosità” e appunto come tale veniva sconfessato dal coordinamento dei responsabili del Mnla.

Il portavoce del Mnla Habaye Ag Mohamed riteneva «inconciliabile con la linea politica del Mnla l’atteggiamento fondamentalista e in particolare il jihadismo salafita portato avanti da Ansar al-Din».

Bilal Ag Sherif, firmatario del documento, veniva richiamato all’ordine e costretto a rompere tale accordo.

Per Nina Valet Intalou, esponente dell’Ufficio esecutivo del Mnla, bisognava «rigettare categoricamente questo accordo, perché cercare di evitare una guerra fratricida non significa accettare il diktat imposto da gruppi oscurantisti».

Il documento, spiegava: «era stato firmato pensando che i nostri fratelli tuareg schierati con Ansar al-Din avrebbero lasciato questa organizzazione terroristica. Avremmo potuto accettare uno Stato islamico democratico, pensando che noi siamo già musulmani. Ma il documento proposto da Iyad Ag Ghali è veramente contrario agli obiettivi del Mnla e alla nostra cultura. Quello che lui vorrebbe è uno stato talebano».

Ovviamente nel 2012 il confronto veniva spontaneo con i talebani. Oggi probabilmente si evocherebbe lo spettro dell’Isis.

Donne e giovani protestano contro i fondamentalisti

A conferma dell’estraneità tra il movimento per l’autodeterminazione tuareg e l’integralismo islamista, già il 5 e il 6 giugno 2012 centinaia di donne e di giovani della città di Kidal scendevano in strada per protestare contro i fondamentalisti. Successivamente, nella notte tra il 7 e l’8 giugno, si registravano scontri armati tra i militanti di Mnla e quelli di Ansar al-Din.

Purtroppo la storia della lotta tuareg per l’autodeterminazione (sia indipendentista che autonomista) è da sempre attraversata da scissioni e conflitti interni.

Lo stesso leader di Ansar al-Din, Iyad Ag Ghali, in precedenza si era distinto come promotore delle rivolte degli anni Novanta del secolo scorso.

Ma, almeno fino al 2012, le istanze dell’islamismo radicale non avevano – pare – trovato spazio significativo all’interno del movimento tuareg, da sempre sostanzialmente laico.

Successivamente, nel giro di qualche mese, il Nord del Mali finiva quasi completamente in mani jihadiste (oltre ad Ansar al-Din, erano entrati in azione anche il Mujao (Movimento unicità e jihad nell’Africa dell’Ovest) e direttamente Aqmi, Al-Qaïda au Maghreb islamique). Ma con la riunione internazionale di Bamako del 19 ottobre 2012 si avviava quel «progetto di intervento militare credibile» richiesto nella settimana precedente alla Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest (Cedao) e all’Unione Africana. La Francia riusciva a coinvolgere i 15 paesi membri del Consiglio di Sicurezza e porre la questione sotto il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite (in quanto la situazione del paese africano costituiva «una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale»). Il resto è cosa nota. Prima l’intervento diretto dell’esercito francese (aviazione, forze speciali…) per riprendere il controllo di Gao, Timbuctù, Kidal, Tessalit… con l’Operazione Serval (dal nome di un felino africano) dal gennaio 2013 alla metà del 2014.

Operativi da gennaio anche alcune centinaia di soldati africani (provenienti da Niger, Benin, Nigeria e Togo) della Missione internazionale di sostegno al Mali (Misma).

Barkhane e Takouba ma la guerra non si ferma

Poi – dopo la costituzione della missione onusiana Minisma (Mission Multidimensionelle Intégrée des Nations Unies pour la Stabilisation au Mali) e una serie di operazioni dai nomi più o meno pittoreschi (Dragon, Constrictor, Centaure, Epervier…) dall’agosto 2014 l’intervento contro le bande salafite assumeva la veste di un dispositivo regionale: l’operazione Barkhane (dal nome di una duna “migrante” nel deserto) a cui partecipavano Mauritania, Burkina Faso, Ciad, Mali e Niger (comunque sottoposti alla direzione dell’Esagono).

Ma la guerra non si è fermata. Nemmeno dopo migliaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati. Un tragico bilancio a cui si deve aggiungere la denuncia di sistematiche violazioni dei diritti umani. Opera soprattutto di soldati africani nei confronti di civili arabi e tuareg (sbrigativamente – e comodamente – identificati come salafiti). Nel frattempo ha visto la luce anche Takouba (“spada di legno” – quella dell’Onore – in tamashek, la lingua dei tuareg), denominazione per le forze speciali europee che dovrebbero sostenere le truppe maliane nella lotta contro il terrorismo jihadista.

Stando alle dichiarazioni della ministra della Difesa francese Florence Parly, Takouba era già stata preannunciata da Macron in occasione dell’incontro di Pau, quello indetto proprio per tacitare le voci sul dissenso africano all’intervento francese.

Quanto al governo di Bamako, va riconosciuto che fin dal 2012 – in prossimità dei territori occupati dalle milizie jihadiste – venivano allestiti alcuni campi di addestramento.

Tuttavia – vuoi per mancanza di mezzi, vuoi per imperizia – risultavano alquanto scadenti. Con i volontari alloggiati in strutture provvisorie, senza armi e addirittura scarsamente riforniti di generi alimentari (letteralmente “alla fame” secondo alcuni visitatori, nemmeno in grado di compiere l’addestramento). Com’era prevedibile, molti disertarono per raggiungere Ansar al-Din e il Mujao, Organizzazioni ben finanziate, in grado di garantire «assistenza economica alle famiglie di ogni combattente vivo o morto e un’abitazione fino al momento in cui i figli saranno in grado di sposarsi».

Un copione che si va ripetendo su larga scala anche in questi giorni.

Contraddizioni in seno ai popoli

Un bel casino, certamente. Senza dimenticare che oltre ai durevoli, tenaci contenziosi tra popolazioni indigene e governi statali ne permangono altri – non meno devastanti – tra le popolazioni stesse.

Troppo spesso strumentalizzati dai governi (e anche in questo Gheddafi aveva fatto scuola) in nome del sempre attuale “divide et impera”.

Come quello tra tuareg e tebu (il “Popolo delle Rocce”) chiamati ikaraden dai tuareg.

Un breve riepilogo

Nei suoi 40 anni di permanenza al potere Gheddafi aveva abilmente alimentato le reciproche ostilità tra le tribù arabe e alcune “minoranze” (in realtà popolazioni minorizzate in quanto separate dai confini statali, come i curdi o anche i baschi) presenti nel Sud della Libia: tebu e tuareg. Utilizzando gli scontri interetnici per controllare, discriminare, emarginare e reprimere. E i tuareg – in particolare nelle zone di frontiera – per far pressione su Algeria, Niger e Mali.

Dopo il 2011, con la caduta del regime, esplodevano le istanze di maggior autonomia politica da parte dei tebu per il controllo delle zone petrolifere e aurifere e delle vie di comunicazione. In particolare dei check-point utilizzati per sfruttare proficuamente i vari traffici legali e illegali (armi, medicinali, derrate alimentari, droga, alcolici e anche esseri umani).

Mentre la Libia sprofondava nel conflitto, in questo decennio i Tebu si sono imposti – talvolta anche violentemente – alle altre tribù (sia arabe che tuareg, se pur in diversa misura e in maniera differenziata) per trarre benefico dalla nuova situazione generatasi con la caduta ingloriosa del Colonnello. Nei territori meridionali della Libia – lì dove coabitano le varie etnie – sono presenti in grande quantità non solo l’ambita risorsa petrolifera, ma anche minerali rari e perfino l’acqua (per la presenza di vaste falde freatiche). Acqua di cui usufruiscono le popolazioni (il 90 per cento dei libici) che vivono nel Nord del paese.

Tuareg e tebu: scontri etnici tra apolidi

Non si deve comunque generalizzare. Occorre valutare la complessità delle relazioni che si vanno instaurando di volta in volta, di luogo in luogo. Relazioni, si diceva, varie e variabili (differenziate, variegate…), sia politicamente che economicamente.

Per esempio nel contenzioso per il controllo delle risorse tra tebu e tuareg nel Fezzan (nel Sudovest del paese) per un certo periodo sembrava prevalere l’aspetto militare, lo scontro armato.

In passato, in quanto minoranze non arabe, sia tebu che tuareg avevano subito evidenti discriminazioni (entrambi manipolati in funzione della politica “panafricana” di Gheddafi), ma in diversa misura.

Così, mentre migliaia sia di tuareg sia di tebu si ritrovavano sostanzialmente nella medesima condizione di apolidi, per i primi esisteva la possibilità di integrarsi vantaggiosamente nel sistema della sicurezza interna. Godendo quindi della possibilità di armarsi adeguatamente e di facilitazioni in campo economico (permessi di lavoro, accesso all’amministrazione…).

Gheddafi il garante dei tuareg

Del resto Gheddafi si presentava talvolta come un “garante”, un “sostegno”, un protettore anche dei tuareg del Mali e del Niger. Perfino nei confronti dei loro governi dai quali effettivamente subivano discriminazioni e repressione.

Questo può spiegare la posizione assunta nel 2011 dai tuareg libici (a cui si aggregarono molti altri provenienti da Mali e Niger) che si schierarono con il regime.

Una scelta che in seguito avrebbero pagato duramente.

Ad aggravare ulteriormente il conflitto tra le due etnie, la chiusura nel 2014 della frontiera tra Libia e Algeria fino ad allora vantaggiosamente controllata dai tuareg. Di colpo questi si scoprivano privati di una preziosa fonte di reddito in quanto flussi commerciali, traffici e contrabbando venivano dirottati sulla frontiera con il Niger, tradizionalmente controllata dai Tebu. L’altra frontiera del Sud della Libia, quella con il Ciad, dal 2013 è interessata da un imponente traffico di oro estratto, spesso artigianalmente, dalle miniere del Fezzan. Anche questo un traffico gestito principalmente dai tebu.

La scelta infelice di una parte dei tuareg (ormai in difficoltà anche sul piano sanitario) di allearsi militarmente con elementi integralisti forniva ai tebu l’occasione per tacciarli di “terrorismo” (assimilandoli ai salafiti) e di presentarsi all’opinione pubblica internazionale come garanti della lotta al medesimo nel Sud della Libia. Così per esempio vennero interpretati gli scontri sanguinosi – con decine di vittime – del settembre 2014 a Ubari (storicamente feudo tuareg del Fezzan, ma con una forte presenza tebu) tra milizie tebu e tuareg. Scontri scoppiati inizialmente non certo per questioni ideologiche o religiose, ma semplicemente per il controllo dei check-point e di una stazione di servizio (oltre che, beninteso, dei cospicui giacimenti petroliferi della zona).

Il paradosso della riconciliazione

Per la cronaca. In un primo momento i tuareg ebbero la meglio, ma successivamente, nel 2019, persero nuovamente il controllo dei giacimenti, stavolta per mano dell’Esercito nazionale libico (Anl).

In questa circostanza le milizie tuareg e tebu si “riconciliarono” e costituirono un fronte comune per combattere contro l’esercito del generale Haftar.

Ennesimo paradosso del conflitto libico (talvolta, benevolmente, definito un ginepraio, ma più spesso un “autentico pantano”)?

Forse non proprio se pensiamo all’accordo di pace faticosamente conseguito e sottoscritto dalle due comunità nel 2015 a Doha.

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Galassia jihadista in Sahel https://ogzero.org/galassia-jihadista-in-sahel/ Mon, 06 Jul 2020 07:30:44 +0000 http://ogzero.org/?p=383 La guerra contro la diversità intraislamica: spettacolarizzazione della violenza tra brand dall’outbidding fino all’uccisione di Droukdel La pandemia di Covid 19 ha colpito il continente africano in modo più contenuto rispetto a gran parte del mondo, anche se non si può certo dire che lo abbia risparmiato. Nel quadrante del Sahel, una fascia di territorio […]

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La guerra contro la diversità intraislamica: spettacolarizzazione della violenza tra brand dall’outbidding fino all’uccisione di Droukdel

La pandemia di Covid 19 ha colpito il continente africano in modo più contenuto rispetto a gran parte del mondo, anche se non si può certo dire che lo abbia risparmiato. Nel quadrante del Sahel, una fascia di territorio dell’Africa subsahariana che comprende o lambisce una decina di paesi – Senegal, Mauritania, Ciad, Mali, Algeria, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Eritrea e Sudan – sono stati finora (a metà giugno) registrati in aggregato circa 60mila casi di Coronavirus, con un numero di decessi superiore ai 2mila. I picchi sono stati registrati prevedibilmente nei paesi più densamente abitati, come la Nigeria (16mila casi) e il Camerun (quasi 10mila).

L’emergenza sanitaria globale ha avuto sul pubblico europeo l’effetto di cristallizzare la percezione degli avvenimenti non correlati al coronavirus, come se sul mondo ci fosse un’unica finestra, affacciata sull’epidemia. È però bene tener presente che la pandemia non ha arrestato alcuni processi in corso, anzi, in alcuni casi li ha rafforzati. È anzi possibile sostenere che se essa non si fosse verificata probabilmente oggi si parlerebbe proprio del Sahel come l’area più calda e instabile del pianeta. È in questa porzione di mondo che la galassia jihadista mostra le evoluzioni e prefigura le prospettive più preoccupanti.

Nel solo mese di marzo, in corrispondenza dell’innalzamento del picco dei contagi in gran parte dei paesi del Sahel, i gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda e all’Isis hanno compiuto attentati sanguinari in Camerun, Nigeria, Burkina Faso (dove alla fine di aprile si contano quasi 900mila sfollati interni, aumentati di quasi 300mila da febbraio), Mali e Ciad, uccidendo centinaia di persone. D’altronde proprio in quei giorni l’Isis aveva diffuso un comunicato in cui invitava i suoi affiliati a «non avere pietà e lanciare attacchi contro gli infedeli durante la pandemia», considerata di per sé dall’organizzazione terroristica come una «punizione divina per i non musulmani».

Il 24 marzo, la fazione di Boko Haram guidata da Abubakar Shekau ha ucciso 94 soldati ciadiani in un’imboscata nei pressi del Lago Ciad, mentre nelle stesse ore perdevano la vita 47 soldati nigeriani in un’altra azione condotta dall’Islamic State in West Africa Province (Iswap), ossia l’organismo affiliato a Daesh in cui è confluita una parte dell’organizzazione Boko Haram. Pochi giorni prima, il 19 marzo, in Mali altri 29 soldati venivano uccisi in un attacco condotto dai miliziani qaedisti di Jama’a Nusrat al Islam wa al Muslimin (Gsim).

Nel mese di febbraio sono stati almeno tre gli attentati terroristici coordinati tra i due gruppi, che nel Levante arabo si fanno la guerra l’uno contro l’altro mentre in Africa occidentale, da qualche mese, sembravano aver iniziato a unire gli sforzi per prendere il controllo del territorio di stati politicamente e militarmente deboli. «I combattenti dei due gruppi sembrano coordinarsi negli attacchi e sembrano dividersi aree di influenza nel Sahel, concludendo accordi», aveva detto a fine febbraio alla Associated Press il generale delle Forze speciali americane, Dagvin Anderson. L’evoluzione del protagonismo operativo e dei rapporti tra al-Qaeda e Isis in questo quadrante sono aspetti che richiedono alcune riflessioni, perché il pesante deterioramento delle condizioni di sicurezza nel Sahel occidentale è in corso almeno da cinque anni, e anche perché potrebbero generare alcuni paradossi. Secondo le stime dell’International Centre for Counter-terrorism, con base in Olanda, solo nel 2019 sono state 4mila le persone che in quest’area hanno perso la vita in attentati condotti da organizzazioni terroristiche locali e transnazionali, riconducibili a Isis o al-Qaeda.

Questo scenario ha incontrato un punto di possibile svolta lo scorso 3 giugno, quando le Forze speciali francesi coinvolte nell’operazione Barkhane (cominciata nel luglio 2014) hanno individuato e ucciso in Mali l’algerino Abdelmalek Droukdel, capo di al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi).

3 giugno 2020: annuncio dell’uccisione di Abdelmalek Droukdel, capo e fondatore di al-Qaeda nel Maghreb islamico, in Mali ad opera della missione Barkhane

Abdelmalek Droukdel, laureato in chimica, ex veterano del Gis algerino, esperto in particolare di esplosivi, non era solo il responsabile della “internazionalizzazione” del jihad nella stessa Algeria e nel Sahel, della saldatura di movimenti di guerriglia locali al più ampio e transnazionale jihadismo globalista di al-Qaeda; era anche l’ultimo leader di etnia araba di al-Qaeda nel Maghreb (Aqmi). La sua morte suggerisce innanzitutto che il jihadismo locale rappresentato ora soprattutto dal Gsim è ben avviato in un processo di “africanizzazione” che passerà per il contestuale sfaldamento di Aqmi, più riconducibile a una leadership militare e a ideologi arabi, spesso legati alle prime generazioni di qaedisti (quelli che hanno combattuto contro i sovietici in Afghanistan).

Come spiega in un report del 2018 Djallil Lounnas, il Gsim è oggi il più potente gruppo jihadista attivo nel Sahel. È stato creato nel marzo 2017, risultato della fusione di quattro formazioni: il ramo saheliano di Aqmi guidato da Yahya Abu Al-Hammam (all’anagrafe Djamel Okacha, anch’esso poi ucciso dai francesi nel febbraio 2019); Al-Mourabitoun, formazione qaedista capeggiata da Mokhtar Belmokhtar; Ansareddine, milizia di ispirazione salafita con a capo Iyad Ag Ghali (sul quale si tornerà più avanti); e la katiba (battaglione) Macina, già precedentemente legata alla stessa Ansareddine, alla cui testa c’è il jihadista maliano di etnia peul-fulani, Amadou Koufa.

La guida del Gsim è stata assunta proprio da Iyad Ag Ghali: di etnia tuareg, Ghali ha lunghi trascorsi tra le fila delle legioni internazionali di Gheddafi. Poi è diventato un contrabbandiere, nemico del governo di Bamako, con cui all’inizio del nuovo millennio si riappacifica fino a ottenere l’incarico di consigliere culturale a Jedda, in Arabia Saudita, da cui sarà però espulso nel 2010 proprio per aver provato ad allacciare contatti con al-Qaeda. Nel 2011 prova a intestarsi la guida del Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (Mnla), una formazione di ribelli laici di etnia tuareg che vorrebbero l’indipendenza della regione, tenendosi ben a distanza da al-Qaeda. Fallisce nel progetto di farsi eleggere alla guida del gruppo e decide di fondare Ansareddine, col sostegno finanziario di al-Qaeda. Nel 2012 una guerra civile si esaurirà con il sostanziale inglobamento dello stesso Mnla nel Consiglio di Transizione dello Stato islamico Azawad.

È proprio ad Abdelmalek Droukdel e al capo di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, che Iyad Ag Ghali, il giorno della dichiarazione ufficiale di istituzione del Gsim, giura fedeltà. Ma non solo. La saldatura del Gsim al network jihadista globale è evidente quando ai nomi dei due terroristi si aggiunge quello di Hibatullah Akhunzada, leader dei Talebani afghani, riconosciuto qualche tempo prima “comandante dei credenti” dai vertici del gruppo fondato da Osama Bin Laden. La decisione di includerlo, inoltre, conferma un altro aspetto importante: il Gsim rigetta l’idea della fedeltà allo Stato Islamico proclamato a Mosul (Iraq) nell’estate 2014 da Abu Bakr al-Baghdadi. Da un punto di vista geopolitico, invece, si tratta di una risposta alla creazione – avvenuta ufficialmente nel 2014 – del G5 Sahel, una piattaforma di coordinamento soprattutto sui temi di sicurezza da parte di Mauritania, Burkina Faso, Ciad, Mali e Niger, sotto la leadership francese.

Parallelamente, nell’Est e nel Sud del Mali, nei pressi dei confini con Burkina Faso e Niger, è nato nel maggio 2015 il meno numeroso (circa 450 combattenti) tra gli “Stati islamici” dichiarati in giro per il mondo dalla comparsa sulla scena di Abu Bakr al-Baghdadi. Lo Stato islamico del Sahara maggiore (Isgs) è il risultato di una scissione all’interno del citato movimento qaedista di al-Murabitoun, che a sua volta è nato nel 2013 come “joint venture” tra il Mujao (Movimento per l’unicità del Jihad in Africa occidentale) e la katiba Mulaththamin (“battaglione degli inturbantati”) di Belmokhtar, separatosi dall’Aqmi. La nascita formale dell’Isgs viene riconosciuta dall’Isis, che ne proclama l’affiliazione ufficiale, oltre un anno dopo, nell’ottobre 2016.

Il motivo risiede nella sua scarsa popolarità locale rapportata a quella del Gsim, ben più radicato, e nel maggiore riguardo che i vertici dello Stato islamico hanno verso un altro Stato islamico, quello delle province dell’Africa occidentale (Iswap), in particolare la Nigeria. Si tratta di Boko Haram, il gruppo attivo dal 2009 e balzato agli orrori delle cronache occidentali soprattutto dopo il rapimento delle 276 ragazze chibok. Nel 2015 si affilia all’Isis, assumendo la denominazione di Iswap e diventando la più numerosa formazione jihadista riconducibile all’Isis di tutta l’Africa (quasi 4mila uomini). La guida nell’estate 2016 è affidata direttamente da al-Baghdadi ad Abu Musab al-Barnawi, figlio del fondatore di Boko Haram, Mohammad Yusuf, mentre una costola dell’Iswap continuerà a operare come Boko Haram, sotto il comando dell’irrequieto Abubakar Shekau (per certi versi marginalizzato dai vertici dell’Isis, anche se formalmente ancora affiliato).

I rapporti tra al-Qaeda e l’Isis sono sempre stati difficili. Se però in Siria e Iraq le battaglie tra i due gruppi (soprattutto nelle espressioni dello Stato islamico del Levante e di Jabhat al Nusra, ramo siriano di al-Qaeda) sono state frequenti e diffuse, nel Sahel c’è stata un’unica battaglia nel giugno 2015 all’interno della regione Gao (Mali), tra Aqmi e Isgs, nella quale il capo di questi ultimi, Adnan Abu Walid al-Sahrawi, venne gravemente ferito. Per il resto, i due gruppi hanno sempre evitato scontri diretti.

Al-Qaeda e Isis differiscono soprattutto negli obiettivi strategici: se per al-Qaeda la creazione di un “Califfato mondiale” è un obiettivo ultimo, quasi filosofico, lontano, sviluppo naturale di una strategia con cui si intende “sfinire” l’Occidente attraverso la realizzazione di attentati, scatenando reazioni militari che poi dovrebbero indurre le popolazioni arabe a insorgere contro quest’ultimo, creando alla fine uno Stato islamico, per l’Isis la fondazione di uno Stato islamico in un dato territorio è un fine concreto, immediato.

Se per al-Qaeda i musulmani dovrebbero colpire gli infedeli ovunque per perseguire una strategia che porti all’istituzione futura di uno Stato islamico, per l’Isis le azioni militari vanno realizzate anche col fine di difendere il territorio già amministrato. Dal punto di vista operativo e strettamente militare, poi, l’Isis rispetto ad al-Qaeda rivendica anche l’uccisione di altri musulmani nelle sue azioni terroristiche, e soprattutto non si limita a esse: gli uomini fedeli al Califfato sono infatti addestrati al combattimento regolare, e partecipano a battaglie convenzionali proprio per conquistare via via porzioni di territorio.

L’Isis ha ancora un suo quartier generale e si finanzia in modo sistematico, anche con la vendita del petrolio, mentre al-Qaeda è ormai frammentata in una miriade di formazioni locali e reperisce risorse soprattutto attraverso i rapimenti. Il fatto che l’Isis abbia creato uno stato, che emetteva addirittura dei passaporti e per un certo periodo è arrivato a battere moneta, spiega anche la sua maggiore capacità di attrazione di “lupi solitari”, di radicalizzati che vengono facilmente coinvolti in una impresa in qualche modo “patriottica”, a difesa di uno stato vero e proprio, anziché di una semplice idea, o promessa.

Nel Sahel, nonostante l’inimicizia ideologica tra Gsim e Isgs, alla fine del 2019 le due formazioni sembravano alle prese con una fase di convergenza tattica, sancita anche dai comunicati stampa diffusi da alcuni loro teologi. Poi, però, è successo qualcosa: i miliziani dell’Isgs, in pieno “stile Isis”, hanno condotto alcune operazioni militari contro soldati nigeriani, ciadiani, maliani e burkinabé, rilasciando i soliti filmati spettacolari a uso propagandistico. Ciò, nell’immediato, ha provocato un’ondata di defezioni dal Gsim allo stesso Isgs. Così, la prospettiva che l’Isgs si saldasse con l’Iswap (che negli ultimi mesi ha marginalizzato i qaedisti di Ansaru), arrivando a controllare potenzialmente un territorio più grande di quello controllato dall’Isis tra Siria e Iraq, ha spinto il Gsim – che rimane il gruppo più potente nell’area – a prendere delle contromisure, sotto forma di un rinnovato protagonismo militare.

L’uccisione di Droukdel arriva in un momento che gli osservatori hanno ragione di ritenere delicatissimo: sembra infatti che l’algerino sia stato eliminato pochi giorni prima di prendere parte a un summit convocato proprio in Mali da Iyad Ag Ghali, capo del Gsim, forse per riorganizzare una strategia contro l’Isis in chiave marcatamente transnazionale, facendola discendere da un coordinamento con i leader arabi di al-Qaeda e cercando di indebolire i leader locali come Amadou Koufa (e come lo stesso Ghali, che ha però rapporti di lungo corso con jihadisti afghani, pakistani e arabi). Secondo altri, invece, Droukdel stava svolgendo un compito speculare: mediare una pace tra l’Isgs di al- Sahrawi (e Iswap) e il Gsim, anche per scongiurare l’ipotesi di un negoziato tra questi ultimi e il governo maliano di Ibrahim Boubakar Keita, alle prese con forti proteste popolari. Come hanno più volte ricordato alcuni report di Amnesty International, solo tra febbraio e aprile del 2020 tra Mali, Burkina Faso e Niger ci sono state circa 200 uccisioni extragiudiziali commesse sui civili dai diversi eserciti locali, con tutto quel che ne consegue in termini di possibilità di reclutamento per i gruppi jihadisti.

Secondo l’analista Colin Clarke sul “Washington post” il motivo principale per cui al-Qaeda e Isis – pur non scontrandosi apertamente e con eguale frequenza nel Sahel, rispetto a quanto fanno in Iraq e in Siria – evitano di sancire forme ufficiali di cooperazione risiede nel timore che rendere pubblico un tale sviluppo possa stimolare un rafforzamento dei dispositivi antiterrorismo e delle risposte militari dei paesi interessati e dell’Occidente.

Seguendo il ragionamento, è possibile sostenere che in Occidente la notizia di una tensione o di un conflitto tra al-Qaeda e l’Isis (nelle loro espressioni locali saheliane) venga accolta positivamente, poiché suggerisce l’idea che combattendosi tra loro i due gruppi finiscano per indebolirsi a vicenda, fino a distruggersi. C’è però un paradosso, spesso sottovalutato, che poggia anche su alcune basi empiriche: per molti versi la competizione locale tra due organizzazioni terroristiche è benefica per queste ultime, al di là degli effettivi sacrificati e delle risorse impiegate, perché rafforza e rende più diffuse le dinamiche di reclutamento, oltre a stimolare l’innovazione e la creatività, attraverso un processo che l’esperta di terrorismo Miriam Bloom ha definito di “outbidding”, teso ad attirare simpatizzanti e affiliati.

In sostanza, se due gruppi terroristici sono nemici tra loro, il protagonismo dell’uno sarà di volta in volta imitato o superato in sofisticazione e letalità dal protagonismo dell’altro, in un circolo vizioso di spettacolarizzazione della violenza finalizzata all’affermazione, del quale ovviamente fanno le spese i civili coinvolti in attentati. Un esempio lo si è avuto lo scorso marzo, quando gli uomini di Abubakar Shekau (Boko Haram) hanno realizzato il più sanguinoso attentato della storia del Ciad, “solo” per rispondere a una analoga azione dell’Iswap. Come ricorda Brian Phillips su “Foreign Policy”, la rivalità tra organizzazioni terroristiche può rafforzare la loro capacità di sopravvivenza, poiché può spingere i civili a prender parte per l’una o per l’altra, stimola l’innovazione (come un’azienda in crisi), fornisce nuovi incentivi e motivazioni agli affiliati, e non ultimo può far deragliare dei processi di pace (come quello che il governo del Mali vorrebbe portare avanti con il Gsim). Questo vale a maggior ragione per gruppi che hanno obiettivi politici diversi, anziché convergenti.

Per questo il caso del Sahel è particolarmente delicato: senza un negoziato di pace è inverosimile la sconfitta delle centinaia di gruppi jihadisti diffusi in un territorio perlopiù ostile, impervio, in cui è difficile condurre operazioni vincenti in modo convenzionale e in cui le rivendicazioni economiche, sociali e umanitarie rendono sempre fertile il terreno del reclutamento. Se la guerra tra Isis e al-Qaeda dovesse esplodere anche nel Sahel, come accaduto in Siria e Iraq, ciò potrebbe indurre l’Isis a giocare la carta del deragliamento programmatico delle prospettive di pace, arrivando a giocare un ruolo via via sempre più centrale, fino a replicare lo scenario del 2012, in cui in Mali venne imposto un regime simil-talebano, dal quale venivano lanciati altri attacchi nella regione. La morte di Droukdel paradossalmente può avere due effetti speculari: finire per rafforzare la prospettiva di un accordo di pace tra governo maliano e Gsim oppure scongiurarlo, favorendo una integrazione tra un Gsim oggi più “africanizzato” e l’universo jihadista dell’Isis.

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Lo Spirito del tempo che percorre il territorio del Sahel https://ogzero.org/lo-spirito-del-tempo-che-percorre-il-territorio-del-sahel/ Mon, 06 Jul 2020 07:28:38 +0000 http://ogzero.org/?p=393 Nei due anni che vanno dal maggio 2018 al giugno 2020 nel territorio del Sahel si sono verificati cambiamenti che forse oltrepassano i rivolgimenti di una pandemia, poiché sta recedendo la graduale estensione del controllo di Aqmi (al-Qaeda del Maghreb islamico), ma con appoggi saharawi laicissimi, tuareg nomadi che combattevano peul stanziali, con cui han […]

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Nei due anni che vanno dal maggio 2018 al giugno 2020 nel territorio del Sahel si sono verificati cambiamenti che forse oltrepassano i rivolgimenti di una pandemia, poiché sta recedendo la graduale estensione del controllo di Aqmi (al-Qaeda del Maghreb islamico), ma con appoggi saharawi laicissimi, tuareg nomadi che combattevano peul stanziali, con cui han finito con il convergere nella lotta contro gli invasori coloniali occidentali, dando una patina di legittimazione religiosa a conflitti le cui motivazioni vanno ricercate tra entità locali divise tradizionalmente, che cercano di controllare le vie dei traffici illeciti (la droga sovvenziona Daesh) e dei migranti, che sostanzialmente coincidono… e dall’altro lato ci sono settori di collaborazionisti con le politiche antiterroriste di potenze europee, in primis la Francia.

Importante è sottolineare che il Sahel comprende un’area periferica tra le più povere al mondo, con scarso accesso all’acqua, soprattutto a seguito del progressivo prosciugamento del lago Ciad, e con nessuna tradizione nazionale, in quanto fino a pochi anni fa molti erano privi di documenti che attestassero l’appartenenza a uno stato.

Il 4 maggio 2018 avevamo registrato un intervento radiofonico lucidissimo e ancora molto illuminante di Luca Raineri che qui trovate inserito in tre parti per avviare un’analisi incentrata sul Sahel nel momento in cui si assiste a frenetiche manovre a più livelli per sostituire le influenze. Qui è descritto il quadro relativo al contesto, fatto di frontiere liquide e guerre a bassa intensità, al contrario della Siria, dove i brand jihadisti si sono combattuti apertamente:

Ascolta “Giochi di influenze nel Sahel” su Spreaker.

Oltre al passaggio di merci tra Africa subsahariana e Maghreb, quali risorse del territorio sono appetibili ora? Luca Raineri parla di Uranio – più che di petrolio i cui giacimenti maliani sono di scarso valore –, una manna per la voracità delle centrali nucleari francesi, ma meno per il Niger dopo il tracollo del prezzo dell’uranio a seguito del disastro di Fukushima, che ha imposto la ricerca di alternative. Per cui va studiata anche la trasformazione di quell’area dedita alla pastorizia e ora crogiolo e snodo degli interessi globali per quel che riguardano i traffici di armi (crocevia delle guerre in Mali e in Libia), droga e migranti (tra i principali affari dei tuareg, alternativamente impegnati nel contenimento dell’espansione dell’Isis e nella alleanza con lo stesso Daesh contro le forze antiterrorismo del Fc-G5s)

 

Ascolta “Quali interessi economici si intersecano nel crocevia di traffici del Sahel?” su Spreaker.

Forse assistiamo ora al ridimensionamento di quell’interventismo del Marocco a cui alludeva nel maggio 2018 Luca Raineri, che vedeva la monarchia alawide contrapporsi all’Iran, che da sempre cerca di fomentare disordini nell’area per destabilizzarla, eversione avversata dal Marocco. Peraltro più che i gruppetti eversivi stavano cominciando a diventare maggioritarie talune fazioni che mirano a imporre la shari’ia per via di una spinta democratica delle popolazioni.

Ascolta “Le frontiere liquide del Sahel” su Spreaker.

Interessante la ricostruzione della storia del jihad in Sahel e della situazione attuale dopo l’eliminazione a Talahandak dell’emiro algerino Abd al-Malik Droukdel (leader di Aqmi, basata sulla promozione di alleanze claniche) e il conseguente rafforzamento della componente saheliana del jihad qaidista e la definitiva africanizzazione del jihad in Sahel (e infatti si stanno ampliando gli attacchi etnici nel Mopti che contrappone dogon e fulani), che Lorenzo Forlani ha fornito a OGzero con questo Punctum.

 

 

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La presenza militare cinese in Africa orientale https://ogzero.org/la-tanzania-tra-risorse-naturali-e-interessi-cinesi/ Sun, 12 Apr 2020 12:21:28 +0000 http://ogzero.org/?p=130 Boots on the ground La guerra fredda è un lontano ricordo. Eppure Russia e Usa hanno ripreso le ostilità, e dove? In Africa. Mosca sta cercando di riprendersi una qualche centralità nel continente africano, favorita, anche, dalle mutate condizioni politiche. Crollato il muro di Berlino, infatti, su tutto il continente si sono scatenate numerose guerre […]

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Boots on the ground

La guerra fredda è un lontano ricordo. Eppure Russia e Usa hanno ripreso le ostilità, e dove? In Africa. Mosca sta cercando di riprendersi una qualche centralità nel continente africano, favorita, anche, dalle mutate condizioni politiche. Crollato il muro di Berlino, infatti, su tutto il continente si sono scatenate numerose guerre che non avevano più nessun legame con gli amici di un tempo – America e Unione Sovietica – ma, semplicemente, rappresentavano il tentativo di riposizionarsi e trovare nuovi amici attraverso l’accaparramento delle risorse naturali. Finito, non del tutto per la verità, quel periodo, ora è “guerra” commerciale, ma anche militare, di tutti contro tutti. L’Occidente ha deciso che è giunto il momento di arginare l’influenza cinese che, ormai, ha le mani su tutto il continente, nessun paese escluso. La Russia non ci sta e non vuole, certo, rimanere ai margini. Mosca sta in maniera sistematica espandendo la sua incidenza militare e strategica nel continente. E tutto ciò allarma, e non poco, le cancellerie occidentali. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno ben marcato il territorio attraverso il comando Africom. Oltre ai 4000 militari di stanza a Gibuti, la missione americana, dispone di 34 siti militari, 14 basi principali e 20 postazioni secondarie a supporto della lotta al terrorismo. In tutto oltre 7000 militari. Le presenze più significative sono in Somalia, Niger, Kenya, Mali e Camerun. 

Tornare a essere protagonisti in Africa, significa anche rafforzare la presenza militare. Un obbligo dettato dal fatto che la Cina ha già messo gli “scarponi” sul terreno attraverso le missioni di peacekeeping. I caschi blu cinesi, tuttavia, dispiegati in Africa – circa 2500 – sono concentrati nelle aeree di particolare interesse per Pechino. Non è un caso che mille di questi siano in Sud Sudan dove la Cina ha investito molto nel petrolio e altri 400 in Mali.

Frag tratto da Mal d’Africa, di Raffaele Masto e Angelo Ferrari, postfazione di Marco Trovato, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

 

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