Rift Valley Archivi - OGzero https://ogzero.org/regione/rift-valley/ geopolitica etc Sun, 15 Sep 2024 22:17:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Brazzaville https://ogzero.org/studium/brazzaville/ Wed, 27 Mar 2024 00:27:20 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12394 L'articolo Brazzaville proviene da OGzero.

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Brazzaville

L’Africa Centrale non ha conosciuto lo sviluppo dell’urbe come l’Africa Occidentale dei grandi regni e degli imperi del Ghana, del Mali o del Songhay. I primi e veri abitanti delle fitte foreste pluviali dell’enorme bacino del fiume Congo sono stati i pigmei, scacciati e segregati dalle popolazioni di lingua Bantu che qui vennero a insediarsi, forse mille anni prima della nascita di Cristo. Questa è una storia antica ma altrettanto attuale: Brazzaville è sorta meno di un secolo e mezzo fa ed è un polo di attrazione per genti che insistono su un bacino geografico enorme. Con Brazzaville abbiamo
dunque la possibilità di osservare – quasi in laboratorio – come avviene la nascita di una città in Africa: ab Urbe condita, sin dalla fondazione della città, che nel nome porta il suo colonizzatore… ma nemmeno così autoritario; nel fiume e nelle merci che trasporta trova la sua ragione di essere, tuttavia poi la città ha nei rapporti interni tra quartieri e rapporti con la natura inurbata il suo fondamento, e la traccia rimane nei mercati in cui riconoscere la propria appartenenza (fino ad arrivare alla guerra civile combattuta tra i quartieri alla fine del millennio); Brazzaville ospita la casa africana di De Gaulle ed è centrale per organizzare la resistenza antinazista, però dopo la Seconda guerra mondiale non trova spazi adeguati per rivendicare una centralità geopolitica globale.
Centrale era anche il ruolo della città nella tratta degli schiavi; e le ferrovie verso l’Oceano anche per quello servivano. E la gentrificazione e l’apartheid ante litteram sono l’espressione in chiave architettonica di questa vocazione a servire il potere, comprendendolo senza avere la forza di contrapporsi, anzi in qualche modo assecondandolo come quelle figure di flaneur dell’Africa centrale chiamati “sapeur”.
E poi le foreste urbane di “Brazza la Verte”. Lorenzo Orioli si appassiona quando descrive il tripudio di natura vegetale, i colori e le diversità delle piante che costituiscono la ricchezza del “caleidoscopio vegetale” della capitale della Repubblica del Congo.




Su “Africa Rivista”, le pagine dedicate a Brazzaville (n. 2 marzo-aprile 2024)





Lorenzo Orioli, orgogliosamente fiorentino, si è dedicato alla cooperazione internazionale e alla salvaguardia dell’ambiente sin dagli anni Novanta. Per più di dieci anni si è spostato tra Africa e Caraibi, specializzandosi nel frattempo in Studi antropologici e geografici. Ha insegnato ecologia degli ambienti tropicali presso l’American University of Caribbean e all’Università di Firenze. Attualmente è funzionario tecnico professionale agronomo presso l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo dove si occupa dei temi legati alle tre Convenzioni di Rio (cambiamenti climatici, biodiversità e desertificazione). Nel 2022 ha fatto parte della delegazione italiana alla Cop 15 sulla Lotta alla desertificazione (Unccd) ad Abidjan. È autore di articoli scientifici e divulgativi in ambito socio-ambientale e agro-forestale. Con Angelo Ferrari ha scritto Le nebbie del Congo (Emi, 2011).



La ricca sezione di città africane era stata pensata e inserita nella collana dietro indicazione, selezione e cura di Angelo Ferrari, scrittore africanista molto attento alle manifestazioni sociali, politiche e culturali del continente, scomparso prematuramente nell’ottobre 2023; il volume dedicato a Brazzaville è l’ultimo di cui ha potuto vistare le prime bozze.

Federico Monica, architetto specializzato nell’analisi dei fenomeni urbani in Africa, ha accettato l’impegnativo compito di ereditare e proseguire il suo impegno a partire da qui…

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]]> Il sovranismo è l’altro colonialismo. Raisi l’Africano https://ogzero.org/il-sovranismo-e-laltro-colonialismo-raisi-lafricano/ Fri, 21 Jul 2023 09:49:29 +0000 https://ogzero.org/?p=11316 Razzisti e colonialisti di radice fascista e reazionaria di ogni latitudine stanno annusando l’aria di affari in un continente in bilico, dove i riferimenti coloniali classici (coperti finora dalla foglia di fico dell’appartenenza ideologica alle democrazie liberali) sono messi in crisi e quindi si propongono con i loro modelli ipocriti di cooperazione stracciona, senza orpelli […]

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Razzisti e colonialisti di radice fascista e reazionaria di ogni latitudine stanno annusando l’aria di affari in un continente in bilico, dove i riferimenti coloniali classici (coperti finora dalla foglia di fico dell’appartenenza ideologica alle democrazie liberali) sono messi in crisi e quindi si propongono con i loro modelli ipocriti di cooperazione stracciona, senza orpelli di richiamo retorica a un presunto riguardo all’umanitarismo. Meloni con Saied, due razzisti a pianificare lo sterminio di africani, Raisi con Museveni, due omofobi in sintonia… tutti, al di là degli accordi sbandierati, trovano terreni comuni in transazioni economiche, inventando fittizie posizioni di cooperazione alla pari.
Proprio quello è il vero interesse: concentrarsi sul continente terreno di scontro e spartizione globale. Ora persino il regime persiano dei turbanti, quasi mai interessato  all’Africa, organizza un viaggio ufficiale in tre stati non casualmente scelti, cercando di piazzare prodotti che non sono petroliferi – in primis i droni… ma per l’agricoltura, ovviamente –, ma soprattutto esportando un modello dittatoriale, come spiega con precisione Angelo Ferrari.


Visite all’Africa bazaar: offerte speciali di aree di influenza

ll presidente iraniano, Ebrahim Raisi, è sbarcato in Africa per un tour storico di tre giorni dove ha visitato il Kenya, poi l’Uganda e, infine, lo Zimbabwe. Il continente africano – e anche questa visita lo dimostra – è diventato il terreno “ideale” per le diplomazie dell’Est del Mondo per contrastare l’Occidente e ridisegnare la geopolitica mondiale. Dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia si è avuta un’accelerazione diplomatica sul continente senza precedenti. Lo scontro tra Occidente e Oriente si è trasferito, anche ma non solo, in Africa e tutti cercano di portare i paesi africani dalla propria parte. Condendo il tutto con la retorica anticoloniale: «Alcuni paesi hanno una visione colonialista dell’Africa, ma la nostra visione verso questo continente si basa sulla dignità umana e sulla sinergia», ha detto Raisi prima di lasciare Teheran.
L’obiettivo che vuole raggiungere Raisi è quello di aprire nuovi canali commerciali, da un lato, e dall’altro aprire vie diplomatiche che gli consentano di sviluppare le esportazioni non petrolifere verso il continente africano. Questo tour riflette il desiderio dichiarato di Teheran di moltiplicare i partner politici ed economici, anche per cercare di aggirare le sanzioni occidentali che le sono state imposte a causa del suo programma nucleare.

Lo spirito di Astana trasferito in Africa: le nuove “guerre siriane” da regolare

Dopo undici anni, dunque, torna sul suolo africano un presidente iraniano così da avviare “un nuovo inizio”, ha spiegato il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Nasser Kanani, con paesi che sono “molto ansiosi” – a detta sua – «di sviluppare le loro relazioni con l’Iran». Ma non solo. Secondo Teheran questo riavvicinamento – che si concretizza dopo il rafforzamento delle relazioni con Cina e Russia nell’ambito di una strategia rivolta a Est – sta avvenendo anche sulla base di “una visione comune”. Non è un caso, inoltre, che l’Iran sia entrato a fare parte della Shanghai Cooperation Organization (Sco), una struttura regionale creata nel 2001 di cui Cina e Russia sono membri fondatori.

Relazioni iraniane globalmente “antimperialiste”

Per cercare di capire questa nuova e quasi inedita offensiva diplomatica non si può non considerare la grave crisi economica che sta attraversando l’Iran e quindi, quel viaggio, si inserisce nella ricerca di nuove vie d’uscita alle numerose sfide che Teheran deve affrontare. La visita, poi, incornicia un quadro che il presidente iraniano Raisi ha spiegato ricevendo il ministro degli Esteri algerino, Ahmed Attaf: sviluppare relazioni politiche ed economiche con Algeri come con le tre capitali africane che ha visitato. E il tour africano si inserisce, inoltre, nel quadro delle visite che Raisi ha effettuato in Indonesia e con i tre “paesi amici” in America Latina, cioè Venezuela, Nicaragua e Cuba. Viaggi che gli hanno dato l’occasione di ribadire l’avversione di Teheran alle “potenze imperialiste”, avendo nel mirino, in particolare, gli Stati Uniti. Ma, durante questi viaggi, ha colto l’occasione per ribadire il suo appello a spezzare l’egemonia del dollaro sull’economia mondiale. Fattore che sta molto a cuore anche ai paesi africani e a quelli del Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – che nel vertice che si svolgerà il prossimo agosto in Sudafrica discuteranno anche di questo e delle richieste di numerosi paesi africani, che vogliono entrare a far parte di questo consesso internazionale.

La prima tappa: il Kenya di Ruto

Raisi, in Kenya ha incontrato, a Nairobi, il suo omologo William Ruto. Dopo un colloquio “cordiale” ha incontrato i giornalisti spiegando la sua visita in Kenya come «un punto di svolta nelle relazioni tra i due paesi», aggiungendo che queste discussioni hanno rispecchiato “la determinazione” dei due paesi a «estendere la loro cooperazione economica, commerciale, politica e culturale». Dal canto suo, Ruto ha descritto l’Iran come «un partner strategico essenziale per il Kenya» e ha annunciato la firma bilaterale di cinque memorandum d’intesa in vari settori tra cui quello tecnologico, la promozione degli investimenti e la pesca. «Questi protocolli», ha spiegato il presidente keniano, «svilupperanno e approfondiranno ulteriormente le nostre relazioni per consentire una crescita e uno sviluppo più sostenuti tra i nostri due paesi». L’Iran, inoltre, ha annunciato la volontà di creare una fabbrica nella città portuale di Mombasa per «produrre un veicolo di fabbricazione iraniana chiamato Kifaru, che in lingua kiswalili significa rinoceronte». I simboli hanno sempre un loro valore e fanno, a volte, più della diplomazia.

Il cuore del viaggio: 21 accordi commerciali

Il tour africano ha consentito di annunciare che la compagnia di navigazione Islamic repubblic of Iran Shipping Lines intende aprire un ufficio regionale nel continente per garantire la continuità delle proprie linee marittime dirette in Africa. Attualmente sono già operative linee di navigazione dirette tra l’Iran e l’Africa settentrionale e orientale, ma la compagnia iraniana prevede di espandere i propri servizi anche in altre regioni del continente.
Gli accordi commerciali sono fondamentali per l’Iran – ne sono stati firmati 21 con i tre paesi che ha visitato – ma Raisi si trova molto a suo agio con omologhi del suo stesso rango. A parte il Kenya, paese che sta cercando, non senza fatica, di far crescere la propria democrazia, consolidandola e riaffermandosi in un ruolo centrale per l’Africa orientale, gli altri paesi visitati – Uganda e Zimbabwe – assomigliano di più a vere e proprie dittature. Raisi, proprio in questi paesi, ha dato il meglio di sé in termini di propaganda e di sostegno ai due dittatori.

Museveni folgorato dal modello iraniano alternativo all’Occidente

Ma il vero affondo nella retorica antioccidentale, Raisi lo ha lanciato in Uganda. «L’imperialismo e l’occidente preferiscono che i paesi esportino petrolio e materie prime, consentendo loro di convertire queste risorse in prodotti a valore aggiunto, i nostri sforzi in Iran si concentrano sulla prevenzione delle esportazione delle materie prime», e ha sottolineato l’importanza di evitare le esportazioni verso l’occidente, «come auspicato dai paesi imperialisti». Museveni, dal canto suo, ha espresso la necessità di imparare dalle preziose «esperienze dell’Iran nel contrastare l’egemonia occidentale».

La seconda tappa: l’Uganda di Museveni

Cominciamo dall’Uganda. Senza troppo girarci intorno, Raisi, incontrando il suo omologo Yoweri Museveni – in quanto a longevità al potere non ha eguali – ha elogiato la legge “antiomosessualità” dell’Uganda, una delle più repressive al mondo che prevede sanzioni che possono arrivare fino alla pena di morte e vieta la “promozione dell’omosessualità”. «L’occidente, – ha detto Raisi, – sta cercando oggi di promuovere l’idea dell’omosessualità e, promuovendola, sta cercando di porre fine alla specie umana». Diversi paesi, tra cui gli Stati Uniti, hanno promesso sanzioni economiche contro l’Uganda. Ma l’Uganda tira dritto: «L’occidente non verrà a governare il nostro paese», parole del presidente del parlamento ugandese. Museveni, accogliendo le parole di Raisi ha spiegato che «i paesi occidentali stanno agendo contro il patrimonio delle culture e delle nazioni». Si può capire quale sia la “visione politica comune” che il presidente iraniano ha evocato prima di lasciare Teheran per recarsi in Africa. E di sicuro Museveni ringrazia.

Mnangagwa, il patriota senza critiche per legge

Poi c’è lo Zimbabwe, che non è secondo a nessuno in termini di repressione di tutto ciò che non è allineato al potere. Rober Mugabe, padre della patria e dittatore insegna. Non solo, prima di lasciare questo mondo aveva giurato che il suo fantasma avrebbe perseguito per sempre il paese.

La terza tappa: lo Zimbabwe di Mnangagwa

Fantasma che si è reincarnato perfettamente nell’attuale dittatore, Emmerson Mnangagwa, salito al potere con un golpe nel 2017 rovesciando proprio Mugabe. Nel paese ogni voce dissenziente è messa a tacere. Ma il presidente iraniano Raisi è arrivato ad Harare in un momento cruciale per il paese: cioè le elezioni per la presidenza che si dovrebbero tenere il 23 agosto e Mnangagwa è candidato. Tra dittatori ci si spalleggia. Ma arrivano in un momento ben preciso: il presidente ha appena firmato una legge “patriottica” che vieta ogni critica al paese. Raisi, c’è da crederci, avrà dato qualche suggerimento, sul tema, al suo amico zimbabwano. Ora, in Zimbabwe, è considerato un crimine “danneggiare deliberatamente la sovranità e l’interesse nazionale” del paese e sarà punito chiunque partecipi a riunioni o incontri con persone che promuovono sanzioni contro lo Zimbabwe. Una legge molto “vaga” che lascia una grande libertà di manovra a chi governa e che può decidere a suo piacimento cosa è male e cosa è bene per il paese. Insomma, una legge “patriottica” che consentirebbe di condannare a morte persone percepite – solo percepite – come critiche nei confronti del governo. Il ministro dell’Informazione, Monica Mutsvangwa, ha spiegato che il «ruolo di questa legge è garantire che i cittadini amino il proprio paese. Bisogna essere patriottici». Più che amare il paese, i sudditi devono amare incondizionatamente il dittatore. Un bel capolavoro.
Questo testo conferma che lo Zimbabwe è una dittatura a tutti gli effetti con un regime peggiore di quello di Robert Mugabe, ha assicurato l’avvocato Fadzayi Mahere, portavoce della Citizens Coalition for Change, un partito fondato nel 2022 e guidato da Nelson Chamisa, avversario numero uno di Mnangagwa nella corsa alle presidenziali. I sodali di questo partito di opposizione hanno già subito ondate di arresti e numerosi procedimenti giudiziari.

Davvero un “nuovo inizio” nelle relazioni tra Iran e continente africano.

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A chi è utile la Wagner? https://ogzero.org/a-chi-e-utile-la-wagner/ Tue, 27 Jun 2023 16:00:14 +0000 https://ogzero.org/?p=11209 Che fine farà la Wagner? A chi è utile? Il continente africano è utile alla Russia come fonte di approvvigionamenti e di nuovi mercati alternativi a quello europeo, e la milizia capeggiata da Prigozhin era la testa di ponte russa che serviva allo scopo per militarizzare le risorse ottenute e controllare i territori che le […]

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Che fine farà la Wagner? A chi è utile? Il continente africano è utile alla Russia come fonte di approvvigionamenti e di nuovi mercati alternativi a quello europeo, e la milizia capeggiata da Prigozhin era la testa di ponte russa che serviva allo scopo per militarizzare le risorse ottenute e controllare i territori che le ospitano (senza contare l’utilizzo anti-jihad fattone da parte dei numerosi dittatori o golpisti africani). In Occidente non se ne è parlato molto in questi giorni in cui si è assistito ai fatti avvenuti in Casa Russia, ma è bene che se ne tenga conto, per capire gli sviluppi negli equilibri futuri del continente e degli investimenti che lì sono in corso. Angelo Ferrari ne parla qui e nel podcast dedicato al neocolonialismo africano, un’intervista per la trasmissione “I bastioni di Orione” di Radio Blackout.


La Wagner si sfalderà in Africa o verrà riassorbita nei ranghi ufficiali russi? È quello che si stanno chiedendo molti dittatori o golpisti africani che fanno ricorso ai mercenari della Compagnia Wagner per “sistemare” le questioni interne dei loro paesi, in particolare la lotta al jihadismo come nel Sahel. Di sicuro, fino a ora, la Wagner è la testa di ponte di Mosca per riaffermare la sua influenza su parte del continente africano. La Russia ha bisogno dell’Africa per due motivi: il primo perché deve trovare nuovi partner, nuove fonti di approvvigionamento, e nuovi mercati alternativi a quello europeo; il secondo luogo perché il sogno della Russia è quello di rafforzare il suo ruolo di gigante minerario per poi cercare di militarizzare le risorse, sviluppando tecnologia bellica. Per queste ragioni Vladimir Putin ha utilizzato la Wagner come forza di sfondamento nel continente africano. Questo, inoltre, ha fatto sì che la base operativa economica della Wagner sia diventata l’Africa. Un aspetto che l’Occidente non deve sottovalutare come gli avvenimenti dei giorni scorsi in Russia.

Dove opera la Wagner

L’attività del gruppo Wagner si svolge in tredici paesi diversi: Libia, Eritrea, Sudan, Algeria, Mali, Burkina Faso, Camerun, Sud Sudan, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Madagascar, Mozambico e Zimbabwe. Tutti paesi ricchi di risorse naturali di cui Mosca ha bisogno e sulle quali si è sviluppata la forza della Wagner, non solo militare, ma economica. La Repubblica Centrafricana, per esempio, è diventata per la Wagner un partner privilegiato – ha 13 basi militari – ha prestato i suoi servigi militari a difesa del governo del presidente Faustin-Archange Touderà, minacciato dai ribelli e da una guerra civile, avendo in cambio un accesso privilegiato alle miniere d’oro e di diamanti, oltre ad avere il controllo di alcuni ministeri. Significativo, da questo punto di vista, Il divieto di sorvolo dei droni, deciso a febbraio dal governo centrafricano, proprio per tutelare le attività di Wagner nella miniera d’oro di Ndassima, recentemente ampliata e messa in sicurezza.

Una situazione simile si sta verificando in Mali e in Burkina Faso. Con il fallimento dell’operazione antiterrorismo Barkhane e il conseguente ritiro dei francesi, il campo si è aperto ai russi e alla Compagnia Wagner – nonostante i governi di questi paesi neghino – che è passata all’incasso. Secondo un recente rapporto dell’Africa Command degli Stati Uniti, il Mali paga Wagner il corrispettivo di 10 milioni di dollari al mese, sotto forma di risorse naturali come oro e pietre preziose.

Il forziere economico della Wagner: contratti, armi e potere

E poi c’è il Sudan. La guerra tra l’esercito regolare del generale Abdel Fattah al Burhan e il capo delle Forze di supporto rapido (Fsr), Mohammed Hamdane Dagalo, detto Hemedti, continua senza tregua. E la Wagner, pur sostenendo le milizie Fsr, è rimasta defilata, si è occupata solo del trasferimento di armi dalla sua base in Cirenaica, in Libia, è ha privilegiato i suoi interessi economici che sono indipendenti da chi prevarrà sul campo. I rapporti tra Mosca e Kharthoum sono di lunga data. Il Sudan è ricco di metalli preziosi, la stragrande maggioranza dei quali viene esportata illegalmente. Molte miniere sono nelle mani di Hemedti. In questo settore la Wagner agisce attraverso la società M Invest di Yevgeny Prigozhin e la sua controllata Meroe Gold, che si è trasferita in Sudan nel 2017 e lavora con Aswar, una società controllata dall’intelligence militare sudanese. Il gruppo di giornalisti del Progetto di segnalazione di criminalità organizzata e corruzione (Occrp) è riuscita a raccogliere prove di un contratto tra Meroe Gold e Aswar. La società russa, inoltre, è esentata dal 2018 dalla tassa del 30% imposta dalla legge sudanese alle società aurifere. Anche per queste ragioni Wagner in Sudan ha assunto un profilo opportunista piuttosto che fedele a una particolare fazione. Questo ha permesso a Prigozhin di proseguire le sue attività economiche anche dopo la caduta del dittatore Omar al-Bashir e anche dopo il golpe del 2021, messo in atto proprio da chi ora si combatte per il potere. Dunque, il vero forziere economico della Wagner è in Africa. E tutto ciò fa gola anche a Putin.

Ascolta “Neocolonialismo africano: la trappola dietro allo sforzo di affrancamento” su Spreaker.

Le “fattorie di troll”

Dopo la “tentata marcia” su Mosca da parte della Wagner, nel continente africano non si segnalano particolari movimenti del gruppo. I mercenari, abituati a lavorare in autonomia, continuano le loro attività: sicurezza, sfruttamento delle risorse naturali e manovre di disinformazione con lo scopo di avvicinare le opinioni pubbliche alle ragioni della Russia. La compagnia Wagner, già dal 2017, ha utilizzato campagne per destabilizzare e manipolare le opinioni pubbliche attraverso le sue “fattorie di troll” sia in Sudan così come nel Sahel.

I due possibili sbocchi

Molti analisti concordano che Wagner non può fare a meno del supporto logistico dell’esercito russo nelle sue operazioni in Africa. Mosca fornisce armi e istruttori a molti paesi. Ma, anche in caso di smantellamento del gruppo Wagner, la Russia non lascerà il terreno non “occupato”. Le conquiste politiche, economiche e diplomatiche dell’ultimo decennio sono vitali per Mosca. I leader africani, che si avvalgono dei servizi dei mercenari russi, devono necessariamente interrogarsi anche sui rapporti di forza in Russia, soprattutto se i contrasti dovessero durare, potrebbero trovarsi di fronte a un conflitto di lealtà. I leader africani, così come molte cancellerie occidentali e asiatiche, stanno aspettando che la “polvere si depositi”. Di certo se la Wagner viene riassorbita nei ranghi dell’esercito di Mosca, il problema non si pone. I leader africani potranno continuare a trattare con questa compagnia senza il timore di scatenare conflitti di fedeltà con la Russia. Altro se Prigozhin rimarrà a capo della Wagner “africana”. Allora si entrerebbe in una zona grigia, senza dimenticare che la gran parte del personale russo schierato in Africa appartiene alla Wagner.

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Africa Day: le sfide anticoloniali sono sempre attuali https://ogzero.org/africa-day-le-sfide-anticoloniali-sono-sempre-attuali/ Thu, 25 May 2023 21:40:42 +0000 https://ogzero.org/?p=11124 Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale. Eppure l’Africa è […]

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Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale.
Eppure l’Africa è al centro di ogni affare (Descalzi incontra Nguesso per inaugurare il “Congo Lng”), interesse (Kuleba incontra i leader dell’UA in vista di mediazione sulla guerra), ricchezza (Tshisekedi – nato nel 1963, come l’UA – si accorda sul cobalto con Xi)… queste solo alcune delle notizie odierne. In Ghana Gold Fields e AngloGold Ashanti si uniscono per creare la più grande miniera d’oro africana e contemporaneamente un tornado sradica l’albero della libertà… ci sarà una qualche correlazione?


Dopo il colonialismo… 60 anni di neocolonialismo

Le celebrazioni, in Africa, hanno sempre un valore simbolico. Ricche di retorica ma anche di auspici. Appartengono alla vita delle comunità e degli stati. Anche in questo giorno, in cui si celebra l’Africa Day, il continente si è mobilitato.
Oggi si ricordava la fondazione dell’Organizzazione dell’Unità africana (Oua), che avvenne il 25 maggio del 1963, sessant’anni fa. In alcuni paesi prende il sopravvento la retorica condita di anticolonialismo. In altri, invece, si guarda al futuro e alle sfide, che retoriche non sono, che attendono un continente provato dalla pandemia di Covid, dall’inflazione dei prezzi dei generi energetici e, soprattutto, alimentari dovuto alla situazione economica globale aggravata dalla guerra in Ucraina.

Le sfide del continente

Ma sono anche altre le sfide. Il terrorismo, per esempio, e tutt’altro che sconfitto anzi, dilaga in molti paesi come il Mali, Il Burkina Faso, che sembrano essere incapaci di farvi fronte nonostante i paesi siano stati squassati da colpi di stato. Dall’arrivo dei militari al potere la situazione, se possibile, si è ancora aggravata e nulla ha potuto la retorica anticoloniale, in particolare il sentimento antifrancese che pervade le popolazioni di questi due paesi, ma anche la simpatia, che è diventata rapporto strutturale con la Russia, che fornisce armi e mercenari della Compagnia Wagner. Tutto il Sahel è pervaso da una ondata jihadista senza precedenti, con le cancellerie internazionali preoccupate per la possibile saldatura con le organizzazioni criminali internazionali.  Cancellerie che, tuttavia, non sono state in grado di risolvere il problema perché hanno privilegiato l’intervento securitario – necessario – alla cooperazione allo sviluppo. Il terrorismo nel Sahel, così come in Somalia, si alimenta della povertà dilagante, dell’incapacità degli stati di far fronte ai bisogni della popolazione. Verrebbe da dire che l’arma più efficace per combattere i terroristi sarebbe mettere in campo riforme economiche e un welfare state degno di questo nome, così da togliere da sotto i piedi dei terroristi il loro terreno privilegiato, cioè la povertà. Lavoro non da poco.
Ma sono molte altre le sfide che attendono il continente, soprattutto economiche. L’intera Africa deve avere come faro la diversificazione economica, non può affidarsi, solo, alle materie prime, pur preziose per avere le risorse per creare un tessuto industriale manifatturiero. Significativo da questo punto di vista lo sbilanciamento delle relazioni con la Cina, il primo partner commerciale del continente. Nei primi quattro mesi del 2023 le esportazioni cinesi verso i paesi africani sono cresciute del 26,9%, mentre quelle dell’Africa verso la Cina sono diminuite dell’11,8%. Uno squilibrio evidente, aggravato dal fatto che Pechino esporta in Africa prodotti finiti – tessile, abbigliamento, macchinari, elettronica – mentre le esportazioni africane verso la Cina sono dominate da materie prime come petrolio greggio, rame, cobalto e minerale di ferro, di cui il Dragone ha estremamente bisogno. Proprio per queste ragioni il continente deve lavorare con più determinazione per la costruzione di un tessuto produttivo manifatturiero.
Questa, inoltre, è la grande sfida che attende l’Area di libero scambio continentale africana (Afcta) – entrata in vigore nel gennaio del 2021 – un mercato di 1,2 miliardi di persone e di un Pil combinato di circa 3,4 trilioni di dollari. Un’area commerciale che stenta a decollare per la mancanza di infrastrutture sicure, capaci di collegare gli stati ma soprattutto per la risibilità della manifattura africana. Tra i paesi del continente non possono circolare, solo, le materie prime, queste se le accaparrano le multinazionali e portano beneficio a pochi. L’Africa vive un paradosso: è ricca di risorse, ma, per fare un esempio, i due colossi nella produzione di petrolio in Africa subsahariana – Angola e Nigeria – importano circa l’80% del loro fabbisogno in carburante. Da non trascurare che le materie prime sono soggette alle oscillazioni dei mercati internazionali.
Altra sfida è quella dell’energia elettrica. Ancora nel 2023 milioni di africani rimangono al buio, e anche questo è un paradosso viste le potenzialità del continente: solare, idroelettrico, geotermico, eolico, energie pulite come l’idrogeno verde. Mettere a sistema tutto ciò darebbe un impulso al mercato unico e quindi a uno sviluppo sostenibile ma, soprattutto durabile.  Questione che solo un’organizzazione sovranazionale, come l’Unione Africana, può affrontare.

Oligarchie dinastiche senza fine…

Poi ci sono questioni puramente politiche. Lasciamo da parte i presidenti africani che durano in eterno senza produrre benefici per le popolazioni ma solo animati da bulimia di potere e, spesso, sostenuti dallo stesso occidente così attento allo stato di diritto. Il punto, per rimanere alle celebrazioni di oggi, sarebbe l’attribuzione di un ruolo da pari nei consessi internazionali all’Unione africana.

vs un seggio permanente all’Onu

Un’ipotesi che si sta materializzando e potrebbe diventare concreta: un seggio, per così dire, permanente, non solo da osservatore, come spesso è capitato nei vari G20 o G7 che siano, dove di volta in volta, veniva invitato qualche presidente africano o gli stessi esponenti dell’Unione africana. Così come soddisfare la richiesta dell’Unione africana di occupare un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Formalizzare e concretizzare una presenza “permanente” avrebbe il significato di trasformare il continente africano in potenza che decide, non più, dunque, con un ruolo subalterno che ogni volta negozia con questo o quello stato occidentale, ma protagonista del proprio futuro di fronte alle potenze internazionali. Tutto ciò sarebbe un cambio di paradigma perché porterebbe l’Africa a discutere, da pari, del proprio sviluppo sia economico sia politico e sociale, con l’occidente sviluppato.

Non è una cosa qualunque, sarebbe epocale.


Come epocale è l’espianto del Freetown Cotton Tree in questa data simbolica

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Etiopia: crimini di guerra, un inciampo per una pace compiuta https://ogzero.org/etiopia-crimini-di-guerra-un-inciampo-per-una-pace-compiuta/ Thu, 30 Mar 2023 16:00:33 +0000 https://ogzero.org/?p=10637 Il Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf) non è più una “formazione” terroristica e il governo di Addis Abeba ha nominato un anziano capo ribelle alla guida della regione del Nord dell’Etiopia, il Tigray. Una svolta conseguenza degli accordi di pace che hanno messo fine a una guerra fratricida. Ma rimangono sul tavolo […]

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Il Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf) non è più una “formazione” terroristica e il governo di Addis Abeba ha nominato un anziano capo ribelle alla guida della regione del Nord dell’Etiopia, il Tigray. Una svolta conseguenza degli accordi di pace che hanno messo fine a una guerra fratricida. Ma rimangono sul tavolo questioni molto importanti come la violazione dei diritti umani e le responsabilità per i crimini di guerra.

In una recente visita nella capitale etiope del segretario di stato americano Antony Blinken, il nodo è stato messo sul tavolo con il disappunto sia dell’Etiopia sia dell’Eritrea, che ha combattuto a fianco di Addis Abeba in questa guerra.

Tplf, non più terroristi

Le decisioni del governo di Addis Abeba, comunque, segnano passi importanti verso l’attuazione dell’accordo di pace che il movimento ribelle ha firmato con il governo etiope lo scorso novembre a Pretoria in Sudafrica. «Il primo ministro Abiy Ahmed ha nominato Getachew Reda presidente ad interim dell’amministrazione regionale del Tigray», ha fatto sapere l’ufficio del primo ministro attraverso Twitter. Gatechew Reda, consigliere del leader del Tplf, Debretsion Gebremichael, era in precedenza il portavoce del movimento. Il dato importante, tuttavia, è la cancellazione del Tplf dalla lista delle formazioni terroristiche, decisione che ha aperto la strada all’istituzione di un’amministrazione ad interim nel Tigray a guida Tplf, come previsto dall’accordo di pace. I tigrini, pur essendo un’etnia minoritaria in Etiopia, hanno governato il paese per tre decenni prima di essere gradualmente emarginati proprio dall’arrivo alla guida del paese dal primo ministro Abiy Ahmed nel 2018. Un fatto mal digerito dal Tplf che è stato inserito nella lista delle formazioni terroristiche dalle autorità etiopi il 6 maggio 2021 a seguito del conflitto armato, iniziato nel novembre del 2020 e terminato oggi con un accordo di pace scaturito dai colloqui di Pretoria. La rimozione dalla “lista nera” del Tplf era la precondizione per l’attuazione degli accordi di pace.
La firma dell’accordo, inoltre, ha consentito di ripristinare i servizi di base – elettricità, telecomunicazioni, banche – ed è stato riaperto l’accesso alla regione, fondamentale per far arrivare gli aiuti a una regione devastata dalla guerra e che ha bisogno di tutto.

 

Sul tavolo rimane da risolvere la violazione dei diritti umani e dei crimini di guerra

Un nodo non da poco per il governo di Addis Abeba. Il segretario di stato americano, Blinken, di ritorno dal suo viaggio in Etiopia, ha accusato tutti i belligeranti – forze filogovernative e ribelli – di aver commesso crimini di guerra, considerando che questi atti non sono stati né «casuali» né «una conseguenza indiretta della guerra» ma «erano calcolati e deliberati». Blinken ha accusato, in particolare, l’esercito federale etiope e i suoi alleati – esercito eritreo e forze e milizie della regione Amhara – di crimini contro l’umanità, tra cui «assassini, stupri e altre forme di violenza sessuale e persecuzione». Accuse molto pesanti – Blinken non ha mai nominato il Tplf – che hanno provocato l’immediata reazione del ministero degli Esteri etiope: «Il governo dell’Etiopia non accetta le condanne generali contenute in questa dichiarazione americana e denuncia un approccio unilaterale e antagonista». La dichiarazione Usa, prosegue il ministero, «è selettiva perché distribuisce le responsabilità in modo iniquo tra le parti. Senza motivo apparente», gli Stati Uniti «sembrano esonerare una delle parti da alcune accuse di violazione dei diritti umani, come lo stupro o la violenza sessuale nonostante le chiare e schiaccianti prove della sua colpevolezza», ha proseguito il ministero, riferendosi alle forze delle autorità ribelli nel Tigray.

EtiopiaIl Tplf e Asmara

Il governo dell’Eritrea, un paese isolato a livello internazionale e governato con il pugno di ferro sin dalla sua indipendenza de facto nel 1991 da Issaias Afeworki, ha ritenuto che queste accuse «non nuove», non siano basate «su alcuna prova fattuale e incontrovertibile» e riflette la continua «ostilità e demonizzazione ingiustificate» di Washington nei confronti di Asmara. Il Tplf è stato il nemico giurato di Asmara sin dalla guerra tra Etiopia ed Eritrea tra il 1998 e il 2000, quando il Tplf governava ad Addis Abeba. Il primo ministro Abiy Ahmed ha ricevuto il premio Nobel per la pace nel 2019 per aver posto fine a 20 anni di guerra aperta o nascosta con l’Eritrea. Ma dopo il conflitto nel Tigray, è passato agli occhi di Washington dallo status di simbolo di una nuova generazione di leader africani moderni a quello di un quasi paria.

Washington influenza l’accordo di pace

L’accordo di pace, firmato il 2 novembre 2022 a Pretoria, ha posto fine al brutale conflitto nel Tigray, ma Asmara non ha partecipato alle discussioni e non è firmataria. La pace è stata negoziata e firmata sotto l’egida dell’Unione Africana, ma nelle trattative, rilevano gli analisti, vi è stata una significativa e cruciale influenza di Washington.
Secondo Addis Abeba le accuse di Washington rivelano una «ingiustificata distribuzione delle responsabilità» che «mina il sostegno degli Stati Uniti a un processo di pace inclusivo in Etiopia» e una «dichiarazione incendiaria» suscettibile di «sollevare le comunità le une contro le altre» in Etiopia. Visitando l’Etiopia il 15 marzo sorso, Blinken ha collegato la ripresa della collaborazione economica con Addis Abeba – interrotta dall’inizio del conflitto nel Tigray – alla «riconciliazione e alla presa di responsabilità» nelle atrocità che vi sono state commesse.

Le relazioni tra Washington e Addis Abeba sono state sempre “privilegiate” in funzione anche della stabilità della regione del Corno d’Africa e quindi arrivare a definire le responsabilità dei crimini di guerra è un passaggio cruciale per la ripresa, a pieno regime, dei rapporti tra le due capitali. Ma non solo, per impedire che anche in Etiopia, così come avvenuto in Eritrea, attecchisca l’influenza russa.

L’Etiopia, dopo aver espresso lo sdegno per le accuse americane, ha assicurato che «continuerà a mettere in atto tutte le misure volte a tenere conto dei responsabili e garantire che sia fatta giustizia per tutte le vittime». Il bilancio esatto delle vittime della guerra è difficile da fare – negli anni è stato impedito a istituzioni terze e indipendenti di entrare nella regione del Tigray – ma gli Stati Uniti stimano che circa 500.000 persone siano morte durante il conflitto.

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Dopo le strade “gli” vogliamo fare anche le dighe https://ogzero.org/dopo-le-strade-gli-vogliamo-fare-anche-le-dighe/ Fri, 17 Mar 2023 23:47:46 +0000 https://ogzero.org/?p=10496 Il secondo habitat più grande per i coccodrilli in Africa si è quasi completamente prosciugato in seguito al fallimento, negli ultimi anni, delle stagioni delle piogge. Si tratta del lago Kamnarok, nella Rift Valley del Kenya, che un tempo ospitava 10.000 coccodrilli, secondo per capacità di contenimento al lago Ciad. Un residente della zona ha […]

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Il secondo habitat più grande per i coccodrilli in Africa si è quasi completamente prosciugato in seguito al fallimento, negli ultimi anni, delle stagioni delle piogge. Si tratta del lago Kamnarok, nella Rift Valley del Kenya, che un tempo ospitava 10.000 coccodrilli, secondo per capacità di contenimento al lago Ciad. Un residente della zona ha dichiarato alla stazione televisiva Ntv che numerose sono le carcasse di coccodrillo visibili nel bacino del lago. Il lago si è ridotto nel corso degli anni a causa dei cambiamenti climatici. Inoltre, secondo i rapporti locali, ha scaricato le sue acque in un fiume vicino attraverso una fessura naturale (“AfricaRivista”).
Poco prima delle elezioni di agosto l’allora candidato William Ruto lamentava che le dighe di Kimwarer e di Arror fossero state cancellate per «punire i miei sostenitori». Il blocco della costruzione era stato adottato per reati di frode, violazioni delle procedure amministrative sugli appalti, corruzione dalla procura generale del Kenya; Ruto era stato coinvolto in diversi scandali keniani per corruzione, furto di terra e persino un omicidio. A commettere i reati sarebbero stati pubblici ufficiali del Kenya e il consorzio di aziende italiane a cui sono stati assegnati i lavori di costruzione: una joint venture tra la Cooperativa Muratori e Cementisti (CMC) di Ravenna e Itinera, società del Gruppo Gavio. Colonialmente gli stessi protagonisti della costruzione della linea ferroviaria per il Tav in Val di Susa.

«A cinque anni dall’inizio dei lavori di Kimwarer e Arror, i misteri intorno a quanto sia davvero successo ai circa 500 milioni di euro destinati alle dighe invece che diradarsi si sono sempre più infittiti». (Irpimedia)

Ora Ruto è presidente e quindi le dighe possono tornare a ergersi sulla valle del Kerio (lungo la faglia della Rift Valley anche questa), percorsa da bande armate che hanno provocato 150 morti solo nel 2022 per il controllo della zona molto ricca di acqua pascoli e terreni fertili. Ma priva di infrastrutture. Ruto, da delfino di Kenyatta, era caduto in disgrazia proprio in seguito all’inchiesta sulle dighe.

Sergio Mattarella è arrivato a Nairobi il 13 marzo in pompa magna con staff quirinalizio, consiglieri e il viceministro degli Esteri con delega all’Africa, Sua Eccellenza il vicerè Edmondo Cirielli (fratello d’Italia), rimanendo in Kenya per 3 giorni (Africarivista). Tra le altre cose è stato firmato un nuovo accordo di cooperazione da 100 milioni di euro, tra crediti e doni, in un piano di programmazione triennale… ecco: con Gianni Sartori vediamo qualche “dono” di questi Re Magi.


Estinguiamoli a casa loro, ma in nome dello Sviluppo

Sinceramente non ho compreso l’entusiasmo con cui alcune riviste e associazioni che si occupano dell’Africa con – diciamo così – “benevolenza” (se poi sia “carità pelosa” o neocolonialismo ricoperto da buonismo non spetta a me stabilirlo) hanno celebrato la recente visita di Mattarella in Kenya. Dove ha confermato e sottoscritto la ripresa dei lavori per la costruzione di alcune grandi dighe nella Kerio Valley (provincia del Rift): Arror, Itare e Kimwarer. La realizzazione di quest’ultima era stata interrotta da un’indagine che l’aveva ritenuta «tecnicamente e finanziariamente irrealizzabile».

Almeno ufficialmente, ma si era parlato anche di mancanza di trasparenza e altre irregolarità. Tanto che erano stati avviati alcuni procedimenti giudiziari per «frode, violazioni delle procedure amministrative sugli appalti, corruzione» nei confronti di pubblici ufficiali del Kenya. Coinvolgendo più o meno indirettamente il consorzio di aziende italiane interessate alla costruzione, una joint venture tra la Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna (ops! Sarà mica quella del Dal Molin?) e Itinera, società del Gruppo Gavio (sempre quelli del Tav in Valsusa).
E in seguito anche la Sace (prendo nota: società assicurativo-finanziaria italiana specializzata nel sostegno alle imprese e al tessuto economico nazionale a sostegno supporto della competitività in Italia e nel mondo) e Banca Intesa Sanpaolo (intervenute per la copertura finanziaria).

La visita di Mattarella è stata l’occasione per il presidente del Kenya William Ruto di annunciare il superamento del contenzioso con Roma, lo sblocco e la ripresa della costruzione delle tre dighe sopracitate. Riconfermando (o forse rinegoziando) la partecipazione di aziende italiane con l’impegno finanziario della Sace e di banche italiane.


Nel comunicato di Ruto e Mattarella si afferma che «il governo keniano e italiano hanno concordato un nuovo processo per appianare le problematiche (…). Sospenderemo la questione giuridica e il governo italiano da parte sua ritirerà i casi di arbitrato, siamo d’accordo che ci sarà un nuovo inizio di questo progetto, urgente e prioritario, necessario, che darà acqua a molti paesi oltre al Kenya, oltre a Baringo e zone circostanti». Aggiungendo che «andremo poi avanti con l’avvio della costruzione nel giro di una manciata di mesi».

Eppure sui danni sociali e ambientali provocati dalle dighe in Africa in generale (e in Kenya e in Etiopia in particolare) non mancavano certo denunce ben documentate.
Anche recentemente (febbraio 2023) un rapporto (Dam and sugar plantations yield starvation and death in Ethiopia’s Lower Amo Valley) diffuso dall’Oakland Institute (attivo nella difesa delle popolazioni indigene), affrontava l’annosa questione dell’impatto negativo delle grandi opere (dighe in primis) sulle popolazioni indigene. Interventi come quello nella valle del fiume Omo in Etiopia. Con la diga Gilgel Gibe III (alta quasi 250 metri, costruita dalla Salini Impregilo – di nuovo protagonista nella impresa trentennale del Tav in Valsusa – e inaugurata nel 2016) ci si riprometteva di aumentare in maniera significativa sia la produzione di energia elettrica che di canna da zucchero. A spese soprattutto di Kwegu, Modi, Mursi e altre minoranze (o meglio: popolazioni minorizzate).
Ancora nel 2015 Survival International denunciava una possibile scomparsa dei Kwegu (ridotti alla fame e nella condizione di profughi interni), vuoi per il disastro socio-ambientale, vuoi per il prevedibile accaparramento di terre (“land grabbing”) nel bacino del fiume Omo. L’anno successivo era stata la sezione locale di SI (“Kenya Survival International) a rivolgersi direttamente all’Ocse per denunciare la Salini Impregilo S.p.a.

Tornando al Kenya, risale al 2017 l’allarme lanciato da Human Rights Watch (Hrw) per l’evidente abbassamento riscontrato nelle acque del lago Turkana. Con gli altrettanto evidenti pericoli sia per l’ecosistema che per la sopravvivenza della popolazione locale.
Una conseguenza (effetto collaterale?) appunto del contestato sistema di dighe Gilgel Gibe (Gibe I, Gibe II, Gibe III, già previste una Gibe IV e Gibe V).
Sgorgando a circa 2500 metri sull’altopiano etiopico, il fiume Omo percorre ben 760 chilometri (con un dislivello di 2000 metri) per poi sfociare nel lago Turkana in Kenya.
È notorio che il bacino dell’Omo con il Turkana rappresentano la principale fonte di vita per almeno 17 gruppi indigeni (oltre 260.000 persone) qui insediati da sempre. Ora con il faraonico sistema di dighe gran parte dell’acqua viene deviata altrove, sia per la produzione di energia elettrica che per irrigare le estese piantagioni a monocoltura (circa 450.000 ettari per ora).

Appare quantomeno contraddittorio, paradossale che le dighe di Arror, Itare e Kimwarer vengano realizzate da imprese italiane quando la carenza d’acqua in Kenya è anche una conseguenza della realizzazione di altre dighe, sempre per mano italica, in Etiopia.

Come sottolineava il compianto André Gorz (alias Gerhart Hirsch, alias Gerhart Horst…): «Il capitalismo cerca il rimedio ai problemi che ha creato, creandone di nuovi e peggiori» (cito a memoria).


A dimostrazione di questa chiosa di Gianni Sartori capita l’articolo con cui “Pagine esteri dà notizia di un rapporto (Northern Kenya Grassland Carbon Project) che di nuovo denuncia l’approccio coloniale di un progetto improntato al greenwashing a detrimento della popolazione del Nord del Kenya. Infatti il progetto gestito dall’organizzazione Northern Rangelands Trust (NRT) insiste su un territorio abitato da oltre 100.000 indigeni tra cui i Samburu, i Borana e i Rendille e prevede un riscontro di 300-500 milioni di dollari. Si tratta di un programma di crediti di carbonio, ottenuti anche da Meta e Netflix, basato sullo smantellamento dei sistemi di pascolo dei popoli indigeni, sostituiti da una sorta di allevamento su larga scala che, eliminando la pratica della migrazione durante la siccità, rischia di estinguere la pastorizia locale tradizionale.

Inoltre «la vendita di crediti di carbonio dalle Aree Protette potrebbe aumentare enormemente il finanziamento delle violazioni dei diritti umani dei popoli indigeni, senza per altro fare nulla per combattere i cambiamenti climatici»: già si hanno notizie di pastori uccisi dai guardaparco mentre portavano al pascolo i loro armenti.

 

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Le nubi etiopi si sono spostate in Oromia https://ogzero.org/le-nubi-etiopi-si-sono-spostate-in-oromia/ Sun, 08 Jan 2023 21:23:35 +0000 https://ogzero.org/?p=10048 Abbiamo ritenuto opportuno riprendere un articolo pubblicato dai complici di “Atlante delle Guerre” che richiama l’interesse sulla area di guerra più micidiale del mondo, dove i conflitti tra comunità diverse non sono mai sopite e quando – dopo centinaia di migliaia di morti – si raggiunge una tregua in un’area come il Tigray nel Nord […]

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Abbiamo ritenuto opportuno riprendere un articolo pubblicato dai complici di “Atlante delle Guerre” che richiama l’interesse sulla area di guerra più micidiale del mondo, dove i conflitti tra comunità diverse non sono mai sopite e quando – dopo centinaia di migliaia di morti – si raggiunge una tregua in un’area come il Tigray nel Nord della Federazione etiope, si riaccende un conflitto nella centrale regione dell’Oromia, dove si scatenano rivalità e contenziosi tra ahmara e oromo, spostando schieramenti (Ola e Tplf) già contrapposti nel distretto tigrino, come potete sentire nel podcast in cui Matteo Palamidesse (@PalaMatteo) spiega con la consueta prudente cognizione di causa cosa muove le istanze dei singoli attori.


Le truppe eritree stanno lentamente abbandonando le principali città del Tigray centrale e occidentale. Una presenza, quella di Asmara, che, nonostante non sia mai stata ufficializzata ha creato non poche complicazioni nel conflitto. Il ritiro arriva in seguito all’accordo di pace mediato dall’Unione Africana e firmato il 2 novembre 2022 a Pretoria dal governo federale dell’Etiopia e dal Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf).

Nei due anni di guerra in Tigray, l’esercito eritreo è stato accusato di aver commesso atrocità su larga scala, tra cui aggressioni sessuali, uccisioni sommarie, stupri, saccheggi di città e distruzione di infrastrutture. L’Eritrea è infatti entrata a più riprese in Etiopia per reprimere i tigrini ed è stata in prima linea nelle stragi e nelle pulizie etniche. Gli eritrei hanno preso di mira anche i campi profughi presenti nel Tigrai che ospitano esuli del regime eritreo. Nonostante questo, mancando un coinvolgimento ufficiale, l’Eritrea non ha preso parte al processo di pacificazione in atto.

Il ritiro delle truppe di Asmara era però una delle principali condizioni definite dall’incontro di Nairobi (Kenya) del 12 novembre. Dopo l’accordo di pace di Pretoria, le autorità del Tigray avevano infatti accusato il governo eritreo di ostacolare il processo di pace e hanno esortato il governo etiope a rispettare i termini dell’accordo del 2 novembre ritirando le forze straniere e non federali. Un altro punto dell’accordo prevedeva il dispiegamento della polizia federale, che dovrà sostituire quella regionale. Le forze di polizia dovranno infatti garantire la sicurezza nella Regione e lavorare insieme all’Unione africana per garantire il rispetto dei termini stabiliti nell’accordo. Intanto altri obiettivi sono quelli di ripristinare i servizi di base nella regione e consentire l’accesso umanitario incondizionato a tutta la regione, il disarmo delle milizie e il ritiro completo delle truppe eritree e delle milizie ahmara ancora presenti nel Tigray. Il conflitto nel Tigray, scoppiato nel novembre 2020, tra le forze del governo federale etiope e il Tplf ha causato la morte di oltre mezzo milione di persone e migliaia di sfollati.

Ma la strada è tutt’altro che in discesa. Kibrom G/Selassie, amministratore delegato dell’ospedale comprensivo di Ayde, il più grande nella regione del Tigray, ha infatti denunciato, come riportato da “Africa Rivista”, di stare ancora aspettando i medicinali per le cure mediche salvavita.

«Nulla è cambiato anche dopo l’accordo di pace; il governo federale non sta fornendo all’ospedale le medicine tanto necessarie, inclusi i reagenti di laboratorio», ha segnalato Kibrom.

Già nel mese di ottobre, Kibrom aveva dichiarato ad Addis Standard che l’ospedale era sull’orlo del collasso a causa dell’esaurimento dei farmaci essenziali, della mancanza di reagenti di laboratorio e di macchinari difettosi. Dall’altro lato il ministero federale della Salute ha affermato, in una relazione resa nota a dicembre, che i medicinali e le forniture mediche essenziali sono stati distribuiti nella regione del Tigray attraverso l’Organizzazione mondiale della sanità e il Comitato internazionale della Croce Rossa.

Oltre ai delicati passi per la risoluzione del conflitto in Tigray, un’altra ondata di violenza preoccupa l’Etiopia. Le due comunità più numerose del paese, infatti, Oromo e Amhara, denunciano da settimane omicidi e si incolpano l’un l’altro. Le forze di sicurezza etiopi, gli insorti oromo e la milizia amhara si stanno infatti combattendo nella Regione di Oromia, la più grande dell’Etiopia. Le forze di sicurezza federali etiopi combattono contro l’Esercito di liberazione dell’Oromo (Ola), che il governo ritiene un gruppo terroristico e pare che anche i residenti di Oromo e Amhara e i loro alleati armati si stiano scontrando.


A questo proposito Matteo Palamidesse a fine dicembre era intervenuto su Radio Blackout nella trasmissione Bastioni di Orione per approfondire come si è venuta sviluppando la situazione in Oromia:
“In Oromia la tensione non si vede, si colgono narrazioni di guerra”.

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LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A NOVEMBRE https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-a-novembre/ Thu, 05 Jan 2023 09:28:05 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=9930 L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A NOVEMBRE proviene da OGzero.

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Miniere di guerra di prossimità africana

In Africa subsahariana i cinque maggiori importatori di armi sono stati Angola, Nigeria, Etiopia, Mali e Botswana. Resta un grande importatore l’Egitto che con il più 73% diventa il terzo importatore di armi a livello globale (Focus di “Atlante delle Guerre”, 29 marzo 2022).

Gianni Sartori ci ha fornito un testo foriero di molteplici spunti di lettura paralleli: a cavallo tra risorse africane, compagnie minerarie, approvvigionamenti di armi e conflitti, presenti e futuri.
Alle tradizionali estrazioni del continente (oro, argento, diamanti, rame, manganese) si aggiungono le basi dei nuovi oggetti: coltan, cobalto, grafite, litio… e gli scenari sono quelli ad alta tensione di Zimbabwe, Sudafrica, Marocco, Mali, Burkina Faso, Congo…


E PER LE GRANDI COMPAGNIE GLI AFFARI VANNO A GONFIE VELE
PREANNUNCIANDO FUTURI CONFLITTI

di Gianni Sartori

Se, come recitava negli anni settanta la rivista “Hérodote” (di cui conservo gelosamente due-tre numeri dell’edizione italiana pubblicati dal mai dimenticato Bertani): «La geografia serve a fare la guerra», parafrasando possiamo aggiungere che “la geologia la determina”. O quantomeno la indirizza e alimenta.
Per cui volendo azzardare ipotesi sui futuri conflitti sarebbe opportuno munirsi di aggiornate carte minerarie.

Litio, cobalto, stagno, rame, grafite, nickel… risultano indispensabili per quella fantomatica “transizione energetica” (dove l’unico verde identificabile sembra quello dei dollari, quelli di una volta almeno) a cui tendono in maniera talvolta spasmodica compagnie minerarie e produttori di automobili. Con il continente africano che al momento sembra essere quello più ambito.

Secondo le compagnie minerarie e alcuni governi (africani e non) molte risorse minerarie (litio, rame, stagno, cobalto…) finora sarebbero state non adeguatamente sfruttate (o addirittura “trascurate”). Oggi si intende rimediare riattivando antiche miniere e aprendone di nuove (e pazienza per l’ambiente e le popolazioni indigene, ovviamente).


ZIMBABWE E LITIO

Pare che l’ex Rhodesia, oggi Zimbabwe, sia uno dei pochi paesi africani dotati di vaste riserve di Lithium. Nel senso di “litio”, il minerale (simbolo Li, numero atomico 3, peso atomico 6,94; nessun riferimento ai Nirvana quindi) essenziale per le batterie dei veicoli elettrici.
E se questo ha già scatenato le comprensibili brame delle grandi compagnie minerarie, finora aveva mobilitato soprattutto schiere di minatori individuali (“artigianali”). Sui quali tuttavia stanno calando pesanti restrizioni ministeriali. In pratica non potranno più esportare il materiale grezzo estratto, spesso fortunosamente, da terreni non necessariamente di loro proprietà e da miniere abbandonate.

Una restrizione che non dovrà interessare le miniere di livello industriale in quanto dovrebbero esportare solo materiale trattato, un “concentrato di litio”. Miniere comunque ancora in fase di realizzazione, dato che l’unica importante produttrice di litio è quella di Bikita. Nello stesso tempo il governo di Harare intende favorire aziende locali per la trasformazione in loco del minerale così che possa venir utilizzato direttamente dall’industria dei veicoli elettrici. Risale a novembre l’accordo firmato con la TsingShan Holding per un impianto in grado di produrre il concentrato di litio (“AgenziaNova”). 


100 %

Avanzamento



GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE Traffico 2022


Ventotto i Paesi in cui Wagner avrebbe operato, diciotto dei quali africani: Libia, Repubblica Centrafricana, Mozambico, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Mali, Madagascar e Zimbabwe tanto per citarne alcuni (“AnalisiDifesa”). E Wagner è lì solo per curare gli interessi minerari di Mosca

Il primo vertice Russia-Africa, tenutosi nel 2019, ha fatto parlare di “ritorno della Russia in Africa” dopo anni di disimpegno a sud del Sahara. Il rinvio del secondo vertice, che avrebbe dovuto tenersi alla fine del 2022 in Africa, ha apparentemente messo in luce le vulnerabilità economiche e politiche della Russia alla luce della sua guerra di aggressione contro l’Ucraina. Eppure, l’impegno diplomatico e di sicurezza della Russia in Africa sembra continuare senza sosta. Che impatto ha la guerra in Ucraina sulle relazioni della Russia con i Paesi africani? Come stanno reagendo alla guerra? Cosa possiamo aspettarci dal futuro ruolo e dalla presenza della Russia nel continente? (ISPI)

Per l’Africa, con una perdita annua di quattro milioni di ettari di foreste, questo è “mal comune” (ma senza “gaudio” ovviamente). In base agli atti recentemente pubblicati dalla National Academy of Sciences, l’aumento esponenziale delle attività estrattive in aree forestali costituisce il 47% (oltre tremila e duecento chilometri quadrati) della distruzione delle foreste tropicali dal 2000 a oggi. Soprattutto in Ghana, Tanzania, Zimbabwe e Costa d’Avorio.

Contemporaneamente anche Biden ha rivolto l’attenzione degli Usa all’Africa abbandonata da Trump (e in parte prima da Obama), convocando un summit di metà dicembre per contrastare la presenza sinorussa nel continente (ISPI): Guinea, Sudan, Mali, Zimbabwe, Burkina Faso ed Eritrea sono rimaste fouri dalla lista degli invitati. Invece Teodoro Obiang, l’autocrate guineano più longevo al mondo, risultava tra gli invitati: la Guinea equatoriale è tra i porti nevralgici per ogni tipo di merci, legali o meno.

Tutti paesi dove la tensione per il controllo di queste risorse si fa più forte, creando strategie esterne e appoggi da potenze locali. Smerci di armi… ma gli stati che intendono proteggere i loro minerali “rari” e preziosi non si dotano di armi che possono competere con le potenze interessate allo sfruttamento dele miniere, o per avversare le milizie che fanno gli interessi di quegli stati, piuttosto si dotano di elicotteri per il controllo delle rivolte della popolazione, indignata dalla corruzione e dal saccheggio di risorse nazionali.



In Zimbbwe è operativo il MiG21 nella versione J7, copia non autorizzata del Fishbed realizzata in Cina (“AnalisiDifesa”)

Nel gennaio 2022, lo Zimbabwe era al 93° posto sui 142 paesi considerati nella classifica annuale della GFP con PwrIndx di 2,2498 (laddove lo zero sarebbe “perfetto”).
Il Generale di Brigata Mike Nicholas Sango, ambasciatore dello Zimbabwe presso la Federazione Russa, ha detto che «la politica della Russia nei confronti dello Zimbabwe negli ultimi anni si è evoluta in modo positivo. L’impegno del Governo dello Zimbabwe con la Federazione Russa è storicamente radicato nel contributo del nuovo stato al raggiungimento della libertà e della nazione da parte dello Zimbabwe nel 1980» (“Africa24”).
Secondo lui, il presidente della Repubblica dello Zimbabwe, Emmerson Dambudzo Mnangagwa, ha visitato Mosca nel 2019. Da allora, ci sono state visite reciproche di ministri e parlamentari. All’inizio di giugno 2022, la presidente del Consiglio Federale, Valentina Matviyenko, ha visitato lo Zimbabwe. I militari dello Zimbabwe hanno partecipato ai Giochi dell’Esercito nel corso degli anni e ai Giochi dell’Esercito di metà agosto 2022.
E non a caso i russi hanno voluto scambiare Viktor Bout, il mercante di armi.

Russia
Mentre Washington domina il mercato globale delle armi di alta gamma e ad alta tecnologia, la Russia si è ritagliata un posto di primo piano come fornitore mondiale di armi economiche, ma a bassa tecnologia, talvolta descritte come “armi di valore”. Queste includono nuove varianti di equipaggiamenti sovietici e russi come i carri armati T-72 e T-80, pezzi di artiglieria trainati come il D-30, obici semoventi come il 2S1 Gvozdika e il 2S19 Msta, lanciarazzi multipli semoventi come il BM-27 Uragan e il BM-30 Smerch, il sistema di difesa missilistica S-300 e i veicoli corazzati per il trasporto di personale come il BMP-3 e il BTR-70.

Cina
Sebbene i paesi a basso reddito come Myanmar, Zambia e Zimbabwe acquistino solo armi di questa categoria, anche i paesi a medio reddito come Brasile, India e Thailandia, che partecipano a segmenti del mercato di fascia alta, acquistano grandi forniture di armi di valore. Nel 2022, la spesa per la difesa dei paesi principalmente africani, asiatici e latinoamericani che compongono il mercato di valore ammonterà a 246 miliardi di dollari. Dal momento che le aziende americane di solito non competono nel mercato delle armi di valore, le difficoltà della Russia hanno creato un vuoto. E il paese pronto a riempirlo è la Cina. Se non controllata, Pechino potrebbe utilizzare le vendite di attrezzature per la difesa per costruire relazioni più forti con le élite al potere e per assicurarsi basi all’estero, limitando potenzialmente la capacità di manovra delle forze armate statunitensi in tutto il mondo. L’espansione delle vendite di armi cinesi minerebbe l’influenza degli Stati Uniti nella competizione geostrategica in corso. Ma questo esito non è ancora inevitabile. Gli Stati Uniti e i loro alleati sono ancora in tempo per fornire sostituti alle armi russe a prezzi accessibili e contrastare così le ambizioni della Cina. La Cina vanta sei delle 25 maggiori aziende di difesa del mondo. Sebbene l’attuale quota del cinque per cento del mercato globale degli armamenti sia significativamente inferiore al 19 per cento della Russia, ciò indica il potenziale della Cina di espandere la propria quota di mercato. La Cina ha diversi vantaggi distinti che potrebbero permetterle di dominare il mercato del valore.
L’approccio cinese all’esportazione di armi è transazionale, libero da preoccupazioni sui diritti umani o sulla stabilità del regime. La Cina scambia armi non solo in cambio di un compenso finanziario, ma anche per l’accesso ai porti e alle risorse naturali degli stati destinatari. In parte, fornendo armi di valore come radar, missili e veicoli blindati al Venezuela e all’Iran, per esempio, Pechino si è assicurata un accesso costante al petrolio di quei Paesi. La maggior parte dei paesi dell’Africa subsahariana utilizza armi cinesi, ma le vendite alla regione rappresentano solo il 19% delle esportazioni cinesi. Oltre il 75% delle esportazioni cinesi è destinato ai paesi asiatici dove la Cina ha iniziato a espandere la propria rete di produzione industriale. Il Pakistan, per esempio, ora coproduce molti sistemi d’arma cinesi, come il carro armato Al-Khalid e il caccia JF-17 Thunder. Più di recente, oltre alle armi di valore, la Cina ha iniziato a vendere sistemi d’arma di fascia più alta a clienti importanti: ad aprile ha iniziato a vendere missili antiaerei alla Serbia e a giugno l’Argentina ha segnalato interesse per i jet da combattimento JF-17. La Cina è ora il più grande esportatore di droni al mondo e ha iniziato a vendere i suoi Wing Loong e i modelli CH-4 a clienti che prima acquistavano droni britannici, francesi, russi e statunitensi: un elenco di paesi che comprende Egitto, Iraq, Giordania e Arabia Saudita. (“ForeignAffairs”)
Secondo il “Jane’s Defence Weekly”, quasi il 70% dei veicoli militari blindati presenti in tutti i 54 paesi africani sono di origine cinese, mentre quasi il 20% di tutti i veicoli militari del continente sono stati forniti dalla Cina.
Citando un rapporto dell’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), l’outlet ha sottolineato che, emergendo come quarto fornitore globale di armi, la Cina ha rappresentato il 4,6% del totale delle esportazioni di armi globali tra il 2017 e il 2021.
Di questo totale di esportazioni di armi globali, il 10% è stato destinato a paesi africani. Etiopia, Sudan, Nigeria, Tanzania, Camerun, Zimbabwe, Zambia, Gabon, Algeria, Namibia, Ghana, Burundi, Kenya e Mozambico sono stati i principali importatori di armi cinesi negli ultimi cinque anni (“Asia News International”).

Zimbabwe

«Lo Zimbabwe è forse il più longevo beneficiario africano dell’assistenza alle forze di sicurezza (SFA) da parte della Cina», affermano due ricercatori senior del Peace Research Institute di Oslo, Ilaria Carrozza e Nicholas Marsh, nello studio pubblicato sul Journal of Global Security Studies.

La Cina ha fornito addestramento militare ai membri del Fronte patriottico dell’Unione nazionale africana dello Zimbabwe, guidato da Mugabe, durante la sua lotta per la liberazione. Tra le persone addestrate c’era anche il presidente Emmerson Mnangagwa, salito al potere cinque anni fa dopo il colpo di stato che ha spodestato Mugabe.

«Questo sostegno ha contribuito a suggellare un rapporto di sicurezza tra la Cina e la leadership dello Zimbabwe che dura tuttora», si legge nello studio.

L’assistenza alle forze di sicurezza comprende donazioni, in genere di attrezzature militari e di addestramento, che mirano a migliorare la capacità delle forze di sicurezza di un paese beneficiario, ha affermato Carrozza.
Lo Zimbabwe è stato tagliato fuori dai mercati globali dei capitali nei due decenni trascorsi da quando gli Stati Uniti e altri paesi occidentali hanno imposto sanzioni ad Harare per le violazioni dei diritti umani e la confisca delle terre agli agricoltori bianchi, lasciando a Pechino il ruolo di principale finanziatore di progetti infrastrutturali come dighe idroelettriche, aeroporti e strade (SCMP).

SUDAFRICA: MEGLIO IL LITIO DEL CARBONE? DIPENDE…

di Gianni Sartori

Dal 2023 (stando a una recente dichiarazione) la Compagnia mineraria Marula Mining (All Star Minerals) darà il via alla vendita di litio a una filiale della lussemburghese Traxys. Quanto alla provenienza del minerale, sarebbe la miniera di Blesberg, in disuso da tempo e riaperta nel dicembre 2022. Anche se per ora i lavori proseguono lentamente e su piccola scala, in attesa di ulteriori perforazioni e carotaggi.

Oltre al litio (sotto forma di spodumene che qui lo contiene con percentuali tra il 6 e il 7 %), la miniera sarebbe in grado di fornire anche tantalio.

Ma in materia di miniere non son tutte rose e fiori per il Sudafrica. Le miniere abbandonate di carbone, per esempio, rappresentano – oltre che un potenziale pericolo – una documentata fonte di inquinamento per le sorgenti e le falde acquifere, una grave minaccia per la salute delle popolazioni. O almeno questo è quanto sostiene Human Rights Watch in un suo recente rapporto (The Forever Mines : Perpetual Rights Risks from Unrehabilitated Coal Mines in Mpumalanga, South Africa ) con cui accusa il governo sudafricano di non garantire la bonifica, il risanamento delle miniere abbandonate. Di non aver fatto nulla per rimediare a tale “eredità tossica”.

E ovviamente vengono messe sotto accusa anche le compagnie minerarie che «per anni hanno tratto profitti dallo sfruttamento del carbone, ignorando però le proprie responsabilità al momento di ripulire, bonificare il degrado, l’inquinamento che si sono lasciate alle spalle».

Lasciando sovente alle comunità locali l’onere di rimediare ai danni.

  1. Alla realizzazione del dossier di Human Rights Watch hanno contribuito decine di esponenti delle comunità locali (compresi i genitori dei numerosi bambini che hanno perso la vita precipitando in pozzi a cielo aperto), rappresentanti di associazioni locali e di ong, ricercatori universitari e personale sanitario. E anche molti “minatori individuali” o che operavano comunque a livello artigianale, al di fuori delle compagnie minerarie. In genere tra i residui di quelle abbandonate con gravi conseguenze per la salute. Come ha ben documentato Human Rights Watch riportando oltre 300 decessi di questi “zama – zama”. Deceduti in gran parte per il crollo dei tunnel, in minor misura per intossicazione da gas o incidenti con esplosivi). Inevitabile un raffronto con i garimpeiros di Brasile e dintorni o con i minatori (in genera persone anziane o giovanissime) che scavano (scavano?!) tra i residui, gli scarti delle miniere boliviane.

Su 2300 miniere prese in esame e classificate “ad alto rischio” (tra cui sono centinaia quelle di carbone), soltanto 27 sono state bonificate in Sudafrica. Si tratta di quelle da cui si ricavava l’amianto (in genere “amianto nero”, più nocivo, ma meno costoso da estrarre e che ha distrutto la salute di migliaia e migliaia di minatori neri).

Specificatamente per quelle di carbone, si è potuto documentare come i residui minerari esposti alle intemperie contribuiscano ad aumentare notevolmente l’acidità dell’acqua e dei terreni. Il fenomeno conosciuto come ”drenaggio minerario acido” provoca sia l’inquinamento delle acque che la sterilizzazione dei terreni, oltre a corrodere e danneggiare irreparabilmente le infrastrutture di approvvigionamento dell’acqua potabile.

Se l’UE è il principale partner commerciale del paese, la Cina è presente in misura sempre maggiore con investimenti di varia natura

Decine di compagnie minerarie sudafricane si rifiutano di rendere pubblici i loro piani sociali e di lavoro, o SLP, come richiesto dalla legge. Senza l’accesso a questi documenti, le comunità hanno difficoltà a valutare gli impegni sociali delle compagnie minerarie o a ritenerle responsabili. Questi piani dovrebbero descrivere in dettaglio come le aziende sosterranno la creazione di posti di lavoro e il miglioramento dei servizi nelle città in cui estraggono. L’organizzazione no-profit Mining Affected Communities United in Action (MACUA) stima che tra il 70 e il 90% delle miniere in Sudafrica non pubblichino i loro piani.

Fondata nel 2011, la miniera di Kolomela, a 22 chilometri dalla città di Postmasburg, nella provincia di Northern Cape, produce ogni anno oltre 9 milioni di tonnellate di minerale di ferro. Dal 2021, Kolomela, che è di proprietà della filiale locale del gigante minerario Anglo American, Kumba Iron Ore, ha respinto gli sforzi del MACUA e dei membri della comunità per ottenere una copia dello SLP 2020-2024 della miniera (“Mongabay”).

Oggi il Sudafrica non è più leader mondiale della produzione dell’oro, sebbene secondo le stime dell’US Geological Survey detenga il 50% delle risorse aurifere del pianeta, ma è ancora in testa a livello continentale. Le riserve però iniziano ad esaurirsi e il paese è passato dal 15% della produzione mondiale al 12%.

Questa situazione, con la diminuzione delle miniere e la perdita del lavoro, non ha fatto che peggiorare le condizioni di vita e di lavoro dei minatori, uomini, donne e bambini che accettano condizioni lavorative degradanti e rischiano di morire per poter sopravvivere. Una miniera dismessa è terreno fertile per minatori illegali che cercano l’ultimo filone in autonomia o con l’aiuto degli ultimi tra i disperati. Tra il 2004 e il 2015 un terzo delle 180.000 persone che lavoravano nel settore minerario sudafricano sono state licenziate. Molte sono tornate alle miniere da sole, illegalmente (“Orovilla”). Imponenti e ricorrenti scioperi hanno prodotto scontri e massacri della polizia a difesa di istituzioni e investitori cinesi ed europei, che hanno chiesto all’ex sindacalista compagno di Mandela Ramaphosa di eliminare tasse e promesse di maggiori diritti per i lavoratori: «Le lotte che lo attraversano, tanto dei minatori neri e spesso migranti quanto delle popolazioni nere locali, trascendono il più delle volte i confini nazionali, proprio a causa del carattere non-nazionale dei bersagli e delle rivendicazioni in reazione al Trade, Development and Co-operation Agreement: il piano di liberalizzazioni previsto dall’accordo ha infatti imposto leggi sul lavoro, riduzione dei salari, privatizzazione delle aziende statali, leggi sull’immigrazione e tagli alla spesa pubblica in nome di un “rilancio” dell’economia sudafricana. instaurando un regime commerciale preferenziale tra l’UE e il Sudafrica, con la creazione progressiva di zone di libero scambio (ZLS) per la libera circolazione delle merci. Questo vale sia per gli scambi commerciali, sia per gli investimenti, definendo di fatto l’UE come principale partner economico del Sudafrica. Secondo un modello ormai diffuso su scala globale e di cui l’Ue si fa promotrice, le zone economiche… Se l’UE è il principale partner commerciale del paese, la Cina è presente in misura sempre maggiore con investimenti di varia natura. Come si legge sul sito di Taung Gold, una delle principali società finanziarie cinesi attiva principalmente nel settore minerario, la Cina “è profondamente consapevole dell’importanza degli investimenti cinesi in Sudafrica”. Taung Gold è da oltre un decennio una delle molte imprese della Repubblica Popolare che investono in Sud Africa, soprattutto nel settore minerario. Tra gli esempi più significativi vi è l’acquisizione da parte del Gruppo Jinchuan e del China-Africa Development Fund del 45% di Wesizwe Platinum, una junior mining company» (“ConnessioniPrecarie”). E allora, come riportava “Il Post” nel luglio 2019, i vertici militari sudafricani avevano deciso di usare l’esercito per reprimere le proteste e gli scontri iniziati dopo che l’ex presidente Jacob Zuma era stato incarcerato nel luglio per un episodio di corruzione da parte della francese Thales: una tangente relativa all’acquisto di una partita di armi nel 1999. La difesa dell’ex presidente e del suo sistema di corruzione è solo la miccia che ha fatto esplodere la rabbia, temuta da Pretoria, ma anche da UE e Cina: «Le rivolte sono il prodotto delle disuguaglianze crescenti che la fine dell’apartheid non ha saputo ridurre, e di rivalità politiche all’interno del partito al potere, l’African national congress (Anc)»; Zuma è un populista zulu, eroico combattente da giovane, e anche questi elementi sono alla base delle rivolte contro le barriere sociali sostituite dagli stranieri al posto di quelle razziali. Alla fine si sono visti anche i carri armati Olifant e sono arrivati 25.000 soldati ad appoggiare le forze di polizia. L’ultimo bilancio avrebbe parlato di 212 vititme e migliaia di feriti e arresti.

Perciò le necessità di armi dell’esercito sudafricano deve rispondere al contenimento di rivolte interne: infatti nella più imponente esercitazione militare dell’esercito sudafricano tenutasi nel novembre 2022 (Vuk’uhlome – “alzati e armati” in lingua zulu) ha testato la capacità e lo stato di preparazione della forza terrestre, supportata dalle Forze Speciali SA, dall’Aeronautica Militare SA (SAAF), dal Servizio Sanitario Militare SA (SAMHS), dalla Divisione di Polizia Militare e dalla Divisione Servizi Legali. Durante il Distinguished Visitors’ Day dell’esercitazione sono state dimostrate numerose capacità, che vanno dalla gestione dei disordini civili al lancio di forze aeree con il paracadute, agli attacchi di precisione con razzi e artiglieria, alle operazioni di controinsurrezione, agli attacchi di fanteria… Le Forze speciali, con le loro armi e i loro veicoli, hanno svolto un ruolo importante nella battaglia simulata, che ha visto il coinvolgimento di veicoli corazzati, tra cui i carri armati Olifant.

L’Aeronautica militare ha sostenuto l’esercitazione con aerei da trasporto Cessna Caravan e C212, elicotteri da trasporto/utilità Oryx e A109 e un elicottero d’attacco Rooivalk. Quest’ultimo non ha sparato, ma due caccia-addestratori Hawk Mk 120 hanno sganciato bombe sul poligono di Lohatla. La SANDF è penalizzata da un massiccio sottofinanziamento aggravato da una lista crescente di compiti, oltre che dall’invecchiamento dell’equipaggiamento – non è chiaro quando riceverà i nuovi veicoli da combattimento di fanteria Badger da Denel. Tra le recenti acquisizioni figurano i fucili di precisione Truvelo, i lanciagranate da 40 mm Milkor, i fucili senza rinculo Carl Gustaf Saab, i veicoli con cannone antiaereo ZSU-23-2 montati su Land Cruiser e i veicoli con mortaio Scorpion da 60/80 millimetri (tutti con ogni evidenza sistemi di contenimento interni e non di difesa da potenze straniere). Una grande esposizione dell’industria della difesa ha fatto parte dell’esercitazione Vuk’uhlome, con più di mezza dozzina di aziende che hanno esposto i loro prodotti. Tra queste, Reutech (radar e torrette d’arma), Canvas and Tent (alloggi da campo), Rheinmetall Denel Munition (energia verde), Global Command and Control Technologies (soluzioni di comando e controllo), Dinkwanyana Aerospace (veicoli aerei senza pilota), OTT Solutions (veicoli corazzati, tra cui il dimostratore Ratel Service Life Extension) e Denel. Quest’ultima ha presentato i suoi veicoli da combattimento per la fanteria Badger e RG41, i veicoli corazzati per il trasporto di personale RG21 e RG31 e l’obice semovente T5-52. SVI Engineering ha portato nell’area espositiva due dei suoi veicoli blindati (Max 3 e Max 9). L’azienda ha anche fornito veicoli da mortaio Scorpion alla SANDF (“DefenceWeb”). Ma i 9 velivoli C-47TP in servizio con il 35° Squadron della South Africa Air Force sarebbero quasi tutti a terra in attesa che la società Armscor reperisca sul mercato pezzi di ricambio; le difficoltà economiche della Difesa sudafricana si riflettono pesantemente sulle capacità della SAAF che da mesi tiene a terra per mancanza di ricambi e assistenza l’intera flotta di 26 velivoli da combattimento SAAB Jas 39 Gripen (“AnalisiDifesa”).

LA COMPAGNIA MAROCCHINA MANAGEM FARA’ AFFARI D’“ORO”

di Gianni Sartori

Novità rilevanti anche dal Marocco con l’ormai centenaria compagnia Managem sempre più “leader regionale” (ma con aspirazioni evidentemente “continentali”) nell’industria mineraria africana. Da circa vent’anni va ampliando il suo raggio d’intervento in Sudan (oro), Gabon, RdC (sarà mica per il coltan?) e Guinea (ancora per l’oro).

Verso la fine di dicembre il direttore generale di Managem ha annunciato di aver sottoscritto un accordo (una transazione del valore di circa 280 milioni di dollari) con la canadese Iamgold Corporation per acquisire la proprietà di alcuni progetti di estrazione aurifera in Mali (progetto Diakha-Siribaya), Senegal (progetti Boto, Boto ovest, Daorala, Senala ovest) e Guinea (progetto Karita): una striscia unica di territorio conteso tra Senegal, Mali e Guinea: Bambouk Assets che il Marocco si è attribuito con la dichiarata intenzione di aumentare la propria produzione di oro dato che finora si era posizionata ben lontana dai livelli di produzione di compagnie come Iamgold, Endeavoure, B2Gold o Kinross Gold.

ESCALATION MAGHREBINA

A questi territori, per quanto contigui, va assicurata la sicurezza, perciò il Marocco si riarma e si fa forte delle alleanze strette con Usa e Israele.

Per un controllo capillare della sicurezza nell’estrazione mineraria la prima mossa fondamentale è il controllo dall’alto del territorio e infatti in combutta con Sabca (l’impresa marocchina dell’aerospaziale) troviamo Sabena– di Blueberry Group – e Lockhead impegnatee nel progetto di realizzare la prima officin di manutenzione dei C130, essenziale per la sovranità del Marocco. I media riferiscono di piani marocchini per l’acquisto di 22 elicotteri T129 ATAK per un valore di 1,3 miliardi di dollari. L’accordo si aggiungerebbe a un ordine per 36 elicotteri d’attacco AH-64E Apache e relative attrezzature, per un costo stimato di 4,25 miliardi di dollari. Riconoscendo l’importanza della superiorità aerea nel contrastare qualsiasi minaccia alla sicurezza nazionale che possa derivare dalla crescente instabilità del Sahel e dell’Algeria, il Marocco ha anche ordinato altre 25 unità di caccia F-16C/D Block 72, che porteranno il numero totale della flotta di F-16 del Marocco a 48 unità. L’evoluzione della strategia militare del Marocco pone inoltre particolare enfasi sulla guerra con i droni, utilizzata contro la resistenza saharawi; e proprio in seguito allo strappo di Trump con l’imposizione degli Accordi di Abraham in cambio del riconoscimento della occupazione illegittima del Sahara occidentale da parte di Rabat è stata agevolata la partnership con Israele, il cui capo di stato maggiore a luglio fece la prima visita a Rabat, secondo Reuter per rafforzare la cooperazione militare e quindi “AnalisiDifesa” informava in ottobre che l’esercito del Marocco aveva acquistato 150 UAV WanderB e ThunderB dall’israeliana BlueBird Aero Systems.
La Reuters ha riferito che gli Stati Uniti hanno proceduto con la vendita al Marocco di quattro droni MQ-9B SeaGuardian e di armi a guida di precisione per un valore di 1 miliardo di dollari. I media israeliani hanno anche riferito che il Marocco sta cercando il sistema di difesa aerea e missilistica Barak MX in un accordo del valore di oltre 500 milioni di dollari. Il Marocco ha già acquistato indirettamente gli UAV Heron di IAI e altri UAV dell’unità Bluebird di IAI, oltre a sistemi di veicoli robotici di pattugliamento di Elbit Systems e intercettatori di droni di Skylock. Negli ultimi due anni, il Marocco ha aumentato le importazioni di droni. Li ha acquistati da diversi paesi come Cina, Turchia, Francia e Israele, costituendo così una vera e propria flotta, probabilmente la più sviluppata del Nordafrica, secondo gli specialisti. (“Challenge”).

Il Marocco intende mettere in produzione droni di fabbricazione propria con tecnologia israeliana e perciò ha realizzato un partenariato con i belgi di Orizio, gruppo aerospaziale che costruirà un centro di manutenzione per F-16 e elicotteri a Benslimane. La spesa per la Difesa ha raggiunto il 5,2% del pil marocchino.


L’operazione di addestramento “Desert Shield”, svoltasi a novembre con forze congiunte russe e algerine al confine con il Marocco, coincide con un’escalation del riarmo regionale. L’Algeria ha annunciato che aumenterà a 23 miliardi di dollari il suo budget militare del 130 per cento nel 2023 per raggiungere il 12 per cento del suo prodotto interno lordo grazie all’aumento dei prezzi del gas e del petrolio. Di questi, 5 miliardi sono destinati a operazioni fuori dai confini in seguito all’estinzione dell’Operazione Barkhane nel vicino Mali a supporto della milizia Wagner. Mosca è il maggior fornitore di armi di Algeri (in particolare i carri armati T-90M, nuova versione di quelli datati 1993 e usati ancora in Siria dall’esercito russo; i missili terra-aria S-350 e Buk-M2, corrispondenti ai Barak-8 israeliani in dotazione a Rabat), che partecipa a tutte le manovre congiunte dell’esercito russo. Algeri ha stipulato un contratto di 12 miliardi di dollari per l’acquisto di caccia Sukhoi SU-75 “Checkmate” Viste le debacle delle armi russe (proprio quei residuati bellici dei BMP-1 e 2 in dotazione all’esercito algerino) può darsi che il budget sproporzionato sia volto a differenziare le fonti di approvvigionamento, ipotizza Abdelhak Bassou a “Le360”: «Questo aumento del budget potrebbe essere spiegato dal desiderio del governo algerino di calmare gli occidentali acquistando armi da loro. Un modo per soddisfare tutti. Ma è ovvio che più la Russia si isola sulla scena internazionale, più i suoi satelliti si isolano. A meno che non ci sia una svolta e l’Algeria cambi le carte in tavola».
Ad alimentare le tensioni nella regione si aggiunge anche l’Iran, alleato di Putin, che ha confermato ufficialmente la fornitura dei suoi droni all’esercito algerino e al gruppo separatista del Polisario, gli stessi usati dalla Russia nella sua guerra contro l’Ucraina (“l’Opinione”).

I due paesi sono divisi non solo dai. Fosfati saharawi, ma anche dai percorsi di gasdotti: quello algerino interrotto nell’ottobre 2021 (al momento del riconoscimento di Madrid della sovranità spagnola sul Sahara occidentale) e che transitava dal Marocco per convogliare gas in Spagna; e quello che dalla Nigeria, lungo tutta la costa atlantica, porterebbe off-shore fino in Spagna la pipeline (“JeuneAfrique”).

Dunque di nuovo sono i minerali dietro a un consistente riarmo… Come in Sahel e Centrafrica.

ESTRAZIONE ED ESPORTAZIONE IN SAHEL.
MINERALI DI VALORE DOPO L’USCITA DAI CONFINI

di Gianni Sartori
IL MALI VERSO LA LIBERALIZZAZIONE DEL SETTORE?

Mentre il regime militare del Mali annunciava la creazione di una compagnia mineraria nazionale, quasi contemporaneamente (ai primi di dicembre), dal ministero delle Miniere arrivava un comunicato con cui sostanzialmente si apriva la strada a ulteriori liberalizzazioni in materia di “permessi di esplorazione e permessi di sfruttamento minerario”.
Con ogni probabilità, viste le recenti difficoltà incontrate nel settore, lo stato ritiene così di attrarre investimenti stranieri nello sfruttamento delle risorse minerarie.

Ma non tutti esultano, ovviamente. Per esempio i portavoce del Consiglio locale della gioventù della zona aurifera di Kenieba (regione di Kayes, dove già sono attive una mezza dozzina di società minerarie) hanno protestato vigorosamente in quanto «prima di concedere i permessi di esplorazione e di sfruttamento, si deve consultare la popolazione». Soprattutto per “valutare l’impatto ambientale” e sapendo che «verranno espropriate terre coltivabili per cui alla popolazione si dovranno quantomeno offrire delle adeguate compensazioni».
Attualmente tra i minerali estratti in Mali, l’oro rappresenta il 10% del pil e circa l’80% delle esportazioni.

STERILI POLEMICHE SUL BURKINA FASO?

Da segnalare anche la polemica (strumentale?) scatenata dal presidente del Ghana Nana Akufo-Addo mentre si trovava (guarda caso) a Washington, accusando il Burkina Faso di aver ceduto alla compagnia russa Wagner una miniera d’oro a pagamento dell’intervento militare contro l’insorgenza jihadista.
Notizia immediatamente smentita da Simon Pierre Boussim, ministro di Energia, Miniere e Cave, nella conferenza stampa del 20 dicembre, organizzata con l’ITIE-Burkina (Comitato per la Trasparenza nelle Industrie Estrattive) nella capitale Ouagadougou dell’ex Alto Volta.

In realtà in Burkina Faso esiste già una presenza russa in campo minerario (si parla di tre miniere sfruttate da Nordgold). Ma qui operativa da oltre dieci anni
(“Acled”).

ESCALATION SAHELIANA

Paradossalmente la strategia di influenza della Russia in Africa si basa su interessi economici relativamente minori. Il commercio della Russia con l’Africa non supera i 30 miliardi di dollari, il che non la colloca tra i primi venti partner del continente. Quest’ultima, ricca di materie prime, non è molto complementare alla Russia. «La Russia ha firmato molti accordi di cooperazione economica dal 2014, ma pochi sono stati attuati», ha dichiarato Thierry Vircoulon, per il quale «stiamo anche aspettando di vedere se il suo ruolo nel traffico d’oro in Africa aumenterà e se le promesse forniture di petrolio si concretizzeranno».
Per Maxime Audinet: «nell’Africa subsahariana, la posta in gioco economica è secondaria per Mosca, rispetto alla posta in gioco simbolica della proiezione di potenza, anche se le sue leve, come Wagner, sono pagate a peso d’oro in cambio della loro fornitura di sicurezza attraverso l’estrazione di materie prime come oro, diamanti o legni pregiati» (“LesEchos”).

E infatti le armi presenti sul territorio sono sistemi di lancio di multimissili Aml e Sam SA-7°; elicotteri Mi-17 e siste i di difesa antiaerea ZPU-4: tutte tecnologie belliche utili per il contrasto al terrorismo jihadista e per la difesa delle miniere d’oro.

Lo stato russo cerca di estendere la propria influenza attraverso la vendita di armi: è il principale fornitore dei paesi dell’Africa subsahariana, oltre ad avere importanti contratti con Algeria ed Egitto. Poi Wagner assicura la protezione di leader o addestra soldati in molti paesi: Mali, Libia, Madagascar, Sudan, Mozambico, Repubblica Centrafricana (dove è accusato dalle Nazioni Unite di racket, stupri e torture), e probabilmente anche Burkina Faso.

Tuttavia, i mercenari hanno subito sanguinose battute d’arresto in Libia e Mozambico e il Mali sembra ora deluso dal loro coinvolgimento. Come i suoi rivali, anche lo stato russo ha firmato accordi ufficiali di cooperazione militare con una trentina di paesi, che sulla carta sono vantsggiosi ma spesso corrispondono a qualche esercitazione congiunta, senza garanzie di sicurezza reciproca. La Russia non ha ancora una base militare permanente nel continente, nonostante un progetto in Sudan.

In Sahel, ritirata Barkhane, rimangono le milizie jihadiste e la Wagner, il cui armamento sul terreno fornisce risorse alle esigenze dell’occupazione. Dal 2020 tra Libia, Mali, Burkina la Wagner ha dispiegato i caccia Mig-29 e i Su-24, ma questi non sono l’unico equipaggiamento pesante in dotazione: la Pmc russa ha ricevuto anche almeno un veicolo di difesa aerea Pantsir S1, diverso da quelli utilizzati dall’Lna e da Wagner e “prestato” dagli Emirati Arabi Uniti. Per proteggere i suoi aerei, Wagner ha utilizzato radar P-18 Spoonrest oltre a quelli dell’Lna.

Per i loro movimenti i “musicisti” di Wagner utilizzano veicoli blindati prodotti in Russia da un’azienda appartenente al gruppo di società Yevgeny Pirigozhin. Il veicolo è chiamato Valchiria, Chekan, Shchuka o Wagner Wagon[13], ed è un MRAP costruito su un telaio URAL dalla società EVRO POLIS LLC. Tra le armi importate da Wagner ci sono MRAP GAZ Tigr-M, cannoni D-30 da 122 mm e obici MSTA da 152 mm. Per quanto riguarda le armi leggere, le truppe di Wagner utilizzano AK-103 e soprattutto il fucile da cecchino Osiris T-5000. Wagner ha utilizzato alcuni droni durante le sue operazioni, in particolare Zala 421-16E e Orlan 10s. E quando si ritirano i miliziani spargono mine antiuomo MON-50, 90 e 100 (Rosa Luxemburg Stiftung).

MATERIALI GREZZI LAVORATI IN LOCO…
MA CON INVESTIMENTI STRATEGICI AMERICANI

di Gianni Sartori

LA ZLECA SI VA ESPANDENDO?

Risaliva a tre anni fa l’annuncio da parte di Albert Muchanga (commissario allo Sviluppo economico, al Commercio, all’Industria e all’Attività minerarie dell’Unione africana) di consultazioni amichevoli tra due delle maggiori entità minerarie dell’Africa: il Congo e lo Zambia. Nazioni nei cui territori sono sepolte ingenti quantità di minerali fondamentali per la produzione delle batterie per i veicoli elettrici e che ora, in base ai futuri accordi, dovrebbero poterle produrre autonomamente e direttamente.

A suo tempo per esporre i progressi di tale progetto Muchanga aveva scelto l’occasione del Mining Indaba, il maggior meeting del settore minerario africano; e fondamentale era stato l’anno scorso il ruolo di Muchanga nel veder ratificare l’Accordo sulla Zona di libero-scambio continentale africano (Zleca).


E GLI USA? DIVERSAMENTE DALLE STELLE DI CRONIN NON STANNO A GUARDARE

Gli Stati Uniti non stanno a guardare naturalmente. Firmato recentemente da Washington un accordo (un memorandum d’intesa) con Repubblica democratica del Congo e Zambia (con i maggiori giacimenti di cobalto e rame) sui metalli per le batterie.
Nell’accordo è previsto un investimento da 55 miliardi di dollari nel giro di tre anni.
Fondi elargiti dalla Minerals Security Partnership (vi aderiscono Corea del Sud, Canada, Australia, Regno Unito, Giappone, Regno Unito…) a sostegno dei sistemi sanitari, per la tutela del lavoro femminile, nella lotta ai cambiamenti climatici…
Ma anche, o soprattutto, per investire nei progetti per le auto elettriche. Allo scopo dichiarato di contrastare l’egemonia cinese (visto che Pechino, a titolo di esempio, controlla già gran parte delle miniere di cobalto nella Repubblica democratica del Congo).
Come ha preannunciato il segretario di Stato Antony Blinken: «Washington esplorerà meccanismi di finanziamento e di sostegno agli investimenti nelle catene africane dei veicoli elettrici».

In pratica verranno finanziate sia le estrazioni minerarie che la lavorazione dei metalli estratti (raffinerie e affini). Oltre alle operazioni di riciclaggio. Alla vasta operazione partecipano alcune case automobilistiche (General Motors, Ford, Tesla…) e le compagnie minerarie Albemarle e Piedmont Lithium.

ENNESIMO ECOCIDIO NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO?

Suscita preoccupazione questo ulteriore coinvolgimento della Rd C in progetti estrattivi di rilevanza internazionale.

Sia per la drammatica situazione in cui versano le popolazioni del Nordest del paese (sotto accusa l’estrazione del coltan e le milizie di M23 sostenute dal Ruanda), sia per il già bistrattato ecosistema naturale. Ça va sans dire, soprattutto nelle zone sottoposte a estrazioni petrolifere o minerarie e alla deforestazione. Anche per diretta responsabilità del governo congolese che «svende le foreste che dovrebbe proteggere» (come denunciava un portavoce di Greenpeace).

Governo e ministri sotto accusa non soltanto da parte dei “soliti” ambientalisti, ma anche da associazioni di studiosi e scienziati. Come il Consiglio per la difesa ambientale attraverso la legalità e la tracciabilità (Codelt) e l’Acedh (una Ong regionale) che hanno condotto studi approfonditi sulla foresta pluviale della Cuvette Centrale (provincia di Ituri, sotto stretto controllo militare dal maggio del 2021). Dove appunto si estrae gas, petrolio e oro. Sarebbero soprattutto le miniere aurifere, in continua espansione anche nelle aree protette, a contaminare, distruggere gli ultimi lembi di foresta pluviale dove sopravvive un mammifero raro (da “Lista rossa”), a rischio estinzione, come l’okapi. Oltre ad abbattere le piante e dragare illegalmente i fiumi, i minatori si dedicherebbero al bracconaggio.

Da quasi un decennio l’area viene sfruttata – previo accordo col governo – dalla compagnia Kimia Mining. L’anno scorso ben 205 ong locali, a cui si associava Greenpeace, avevano chiesto al governo della RdC di ritirare le concessioni minerarie alla società cinese. O almeno quelle all’interno della riserva naturale per le okapi.

ENNESIMA GUERRA MONDIALE AFRICANA

Come scrivono anche Marco Dell’Aguzzo e Giuseppe Gagliano l’intervento degli Usa va inquadrato nella necessità di disturbare gli affari minerari cinesi in Africa, in vista della produzione massiva di auto elettriche e dunque del bisogno di Litio e Cobalto: la supply chain africana derivante dall’interdizione finalmente dell’esportazione di litio non lavorato (una mossa dal sapore anticoloniale, che potrebbe, se la stesa misura venisse adottata da molti altri paesi del continente, cominciare uno sviluppo industriale – e di mercato interno – invece di essere solo suolo da depredare).

Dovranno dare lavoro in loco: potrebbe essere un passo avanti. Peccato che gli Usa si propongano essenzialmente per contrastare la penetrazione di Pechino in Africa: le aziende cinesi possiedono la maggioranza delle miniere di terre rare africane e così gli americani si frappongono, impiantando quelle industrie in loco richieste da governi che cercano così di arginare il saccheggio… il problema è che se gli americani cederanno la tecnologia per la lavorazione, si prenderanno una larga fetta del prodotto finale (una mossa essenziale per approvvigionarsi senza arricchire l’avversario) e i cinesi si faranno pagare l’estrazione dei minerali grezzi, agli africani non rimane di nuovo nulla, se non la parvenza di essere entrati a far parte del mercato e non più solo merce – nel caso venga adottata una parte di manodopera locale (che non potrà essere giocoforza specializzata). E così si torna allo Zimbabwe, da cui avevamo cominciato questo safari africano.

Ma il Congo è teatro di scontri e riedizioni di conflitti (la Guerra mondiale africana risale a pochi lustri fa e sembra prepararsi in Kivu di nuovo) che vedono contrapposte le milizie armate da Kigali (come l’M23) all’esercito di Kinshasa e alle truppe di Nairobi –ultimamente – o dell’Uganda.


I gruppi della società civile hanno condannato l’estrazione illegale di oro nella riserva naturale di Okapi, nella Repubblica Democratica del Congo. Da diversi anni, una società di proprietà cinese, la Kimia Mining, ha una concessione all’interno della riserva, rilasciata irregolarmente dal governo della RDC. I gruppi chiedono l’immediata revoca della concessione per proteggere la riserva

In una conferenza stampa tenutasi il 18 ottobre, hanno accusato la Kimia di aver ridotto la copertura forestale, inquinato i fiumi e compromesso l’habitat forestale della riserva. La riserva, inserita dall’Unesco nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità in pericolo, si estende per circa 13.700 chilometri quadrati della foresta pluviale dell’Ituri.  È anche la casa dei nomadi indigeni Efe e Mbuti, che dipendono dai fiumi che nascono nella riserva, ha dichiarato Gabriel Nenungo, coordinatore dei geologi della provincia di Ituri: «Abbiamo osservato le draghe gestite dai cinesi nel fiume Ituri e le fosse di mercurio aperte sono visibili dall’alto». L’attività mineraria ha attirato gruppi armati che trafficano in pelli di okapi e avorio.

L’esercito della RDC fornisce servizi di sicurezza alla Kimia Mining, nonostante le leggi vietino di associarlo alle operazioni minerarie. (“Mongabay”).

Novembre

29 novembre

    • I coyotes mondiali

      • Il 29 novembre Defense Security Cooperation Agency pubblicava la notizia della concessione da parte del Dipartimento di stato americano della vendita di sistemi di difesa antidrone per una spesa pari a un miliardo di dollari in cambio di 10 Fixed Site-Low, Slow, Small Unmanned Aircraft System Integrated Defeat System (FS-LIDS) System of Systems, includendo 200 Coyote Block 2 interceptors; e poi Counter Unmanned Electronic Warfare System (CUAEWS); Coyote launchers; Ku Band Multi-function Radio Frequency System (KuMRFS) radars; Forward Area Air Defense Command e Control (FAAD C2); Counter Unmanned Electronic Warfare Systems (CUAEWS).
      • Lo riportava “BreakingDefense” sottolineava come i principali contractor Raytheon, Northrop Grumman and R&D company SRC.A Marzo si leggeva nel rapporto Sipri del confronto tra il 2017-2021 con il decennio precedente e riprendiamo da lì per inquadrare questa notizia novembrina in omaggio all’esiziale mondiale di calcio ottenuto da Doha (che secondo quel dossier aveva incrementato la spesa del 227% rispetto al lustro precedente) con la corruzione di Sarkozy, Platini e Guéant prima e poi con il sostegno di parlamentari europei di sinistra che negano l’evidenza del sistema omicida e criminale del Qatar (ci limitiamo a suggerire che Messi e Mbappé giocano entrambi nel Psg, che è di proprietà dell’emiro di Doha, un caso che la finale sia per magia tra le loro due compagini?): infatti l’Atlante delle guerre riassumeva così la situazione del Medio Oriente a marzo:

        «Si stabilizzano le importazioni di armi in Medio Oriente. Dopo il forte aumento registrato nel decennio precedente (86% in più tra il 2007-11 e il 2012-16) gli stati mediorientali hanno importato ‘solo’ il 2,8% di armi in più nel 2017-21 rispetto a quello precedente. Il conflitto in Yemen e le tensioni tra l’Iran e altri stati della regione restano alla base delle importazioni di armi nell’area. L’Arabia Saudita si conferma un grande importatore, il secondo al mondo, con un 27% in più investito in armi nel periodo 2012-16, rispetto al precedente.
        Le importazioni di armi del Qatar sono cresciute del 227%, spingendolo dal 22esimo importatore di armi al sesto. Al contrario, le importazioni di armi degli Emirati Arabi Uniti sono diminuite del 41%, passando così dal terzo al nono posto. Tutti e tre questi stati, insieme al Kuwait hanno poi effettuato ingenti ordini che prevedono la consegna nei prossimi anni. Nell’area, poi, Israele ha aumentato le importazioni di armi del 19%».

    • E poi le esportazioni statunitensi verso Riyad sono aumentate del 106%. Ma a cosa serve l’enorme quantità di armi, le più disparate per ogni tipo di guerra, sparpagliate per tutta la penisola araba?

19 novembre

  • La guerra dei droni da Astana

    • La notizia in autunno sul fronte dell’approvvigionamento dei droni per le attività dell’aviazione russa è che si è raggiunto un accordo per impiantare in tempi brevi  uno stabilimento con la tecnologia iraniana direttamente in territorio russo; a rivelarlo il Washington Post, successivamente rilanciato da tutte le testate del mondo. Come sottolinea “DroneBlog”:

      questo accordo oltre che essere strategico mette in luce ancora di più il rapporto e la cooperazione militare fra Iran e Russia, che sta svolgendo un ruolo chiave in Ucraina. Se il nuovo accordo sarà pienamente realizzato, significherebbe un ulteriore rafforzamento dell’alleanza russo-iraniana. Questo accordo, oltre a migliorare la disponibilità di armi all’esercito russo, toglierebbe dall’isolamento l’Iran, dando una nuova spinta economica a un sistema interno collassato ormai da anni e alle prese con una rivoluzione in atto

  • In piena continuità con gli accordi di Astana, che tanto abbiamo analizzato in OGzero.
    E sempre “DroneBlog” scrive che «finora Teheran ha cercato di presentarsi come neutrale nel conflitto ucraino , ma si scopre che sempre più droni di fabbricazione iraniana vengono utilizzati per attaccare le città ucraine, innescando minacce di nuove sanzioni economiche dall’Occidente». E si insinua una scommessa iraniana sul sostegno che deriverebbe dall’alleanza con Mosca per ricavare valore contrattuale per gli accordi sul nucleare
  •  Peraltro l’industria iraniana dei droni si sta già diffondendo in altri paesi. L’Iran ha aperto a maggio una fabbrica in Tagikistan, che produce il drone Ababil-2, secondo l’Eurasia Times: è stato Zelensky stesso a indicare la strategia di avvicinamento a Mosca da parte di Ankara con fini collegati al Jcpoa.
  • The Guardian” il 10 novembre accusava l’Iran di aver sostenuto militarmente fin dal 24 febbraio l’alleato russo, ma ancora prima “Wired” riportava un sistema rudimentale – ma efficace – di aggiramento delle sanzioni: contanti e baratto.
  • In estate il baratto sarebbe dimostrato dall’atterraggio il 20 agosto di 2 Ilyushin IL-76 arrivati e ripartiti da Mehrabad (la città del kurdistan iraniano martirizzata il 19 novembre dalle guardie della rivoluzione): trasportava in cambio di droni armi occidentali sottratte agli ucraini, necessarie agli ingegneri persiani per carpire le tecnologie. Ipotesi suffragate da immagini satellitari diffuse da SkyNews e da dichiarazioni rilasciate al Washington Post il 29 agosto da funzionari statunitensi.

Un ultima notazione sull’asse russo/iraniano: i droni iraniani Mohajer-6 contengono molte componenti provenienti dalla tecnologia occidentale (in particolare giapponesi,  secondo James D. Brown) – quindi senza che si debbano trasferire ordigni catturati per studio – stando alle rivelazioni di “la Repubblica”; ma, a dimostrazione che lo spargimento di morte tra civili attraverso macchine a controllo remoto non comporta scelte di campo, il Blog di Antonio Mazzeo riporta un’informazione raccolta da “DefenseNews”:

    • «Il regime turco di Recep Tayyp Erdogan finanzierà la produzione di droni-elicotteri e droni-kamikaze per il mercato nazionale e l’esportazione, decisione che non potrà non essere accolta con favore anche in Italia. La società di engineering aerospaziale Titra Technoloji, con quartier generale ad Ankara, riceverà sussidi economici governativi per realizzare il primo modello di elicottero a pilotaggio remoto in Turchia. Denominato “Alpin”, il drone-elicottero sarà prodotto in dieci esemplari all’anno, “in aggiunta a 250 droni kamikaze”».

    • La Malesia ha scelto la Turkish Aerospace Industries per la fornitura di tre velivoli senza pilota, secondo quanto dichiarato dal ministro della Difesa della nazione del Sudest asiatico e ripreso da “DefenseNews”.
      TAI aveva presentato il suo Anka, un sistema di velivoli senza pilota a media altitudine e lunga resistenza, alla fiera della difesa e dell’aerospazio LIMA nel 2019. Il 18 agosto 2022 il re malese Al-Sultan Abdullah ha visitato le strutture di TAI ad Ankara, in Turchia. Il 7 ottobre TAI ha annunciato un memorandum d’intesa per una collaborazione con il MIMOS, il centro di ricerca e sviluppo della Malesia. Ma perché la Malesia è alla ricerca di queste macchine da guerra? Le forze armate e la Guardia Costiera della Malesia sono impegnate nella lotta alla pirateria lungo le sue coste, inoltre è loro demandato a livello internazionale il controllo e l’antiterrorismo nel Mare di Sulu (tra la Malesia orientale e le Filippine meridionali, dunque all’interno del quadro anticinese del noto contenzioso nel mar cinese meridionale sulle Spratly Island e nello strategico controllo dello Stretto di Malacca).
  • La famiglia di droni Anka è in grado di svolgere missioni di ricognizione, acquisizione e identificazione di obiettivi e raccolta di informazioni. È dotata di tecnologie elettro-ottiche/infrarosse e radar ad apertura sintetica. Il produttore afferma che i velivoli hanno capacità di volo autonomo e possono decollare e atterrare da soli.La famiglia di UAV ha un’apertura alare di 17,5 metri e una lunghezza di 8,6 metri, e ha un tetto di servizio di 30.000 piedi. Possono rimanere in volo all’altitudine operativa di 18.000-23.000 piedi per più di 30 ore.
    • A metà ottobre il Kazakistan e la Turchia hanno annunciato l’intenzione di sviluppare una “cooperazione strategica a lungo termine” che preveda la coproduzione di satelliti e altri sistemi spaziali.
    • «Questo è il primo passo di una forte cooperazione con il Kazakistan nel campo dello spazio. Il memorandum d’intesa che abbiamo firmato con le società Kazsat e Ghalam sulla creazione di una cooperazione strategica a lungo termine nei settori dei satelliti e dello spazio sarà vantaggioso per il nostro paese e la nostra nazione» (Ismail Demir, Tai)

    • Infatti in maggio, secondo le informazioni di “DefenseNews“, era stato firmato un protocollo tra Kazakhstan e Turchia per la coproduzione di droni da gettare sul mercato Asean e produrre in quella che è la prima fabbrica di Bayraktar fuori dai confini turchi, con contratto che prevede anche manutenzione e riparazione. E quell’accordo faceva seguito a quello di aprile con il Kirghizistan che aveva firmato per primo un accordo per l’acquisto di un numero imprecisato di droni armati: infatti  Bishkek aveva pregato Ankara di soprassedere alla vendita dei letali droni a Dushanbe, alla luce delle tensioni sul confine (e questo spiega la rincorsa al riarmo dei due paesi dell’Asia centrale, sfruttata da Ankara per raddoppiare le vendite).
  • Il drone può essere equipaggiato con armi come il lanciamissili a lancio aereo Roketsan Smart Micro Munition e la capsula missilistica guidata Cirit da 2,75 pollici nelle due stazioni d’armamento sotto l’ala per ingaggiare veicoli leggermente corazzati, personale, rifugi militari e stazioni radar a terra. Un evidente monito per le mire espansionistiche di Mosca.
    • L’aggressività non solo verso il mercato della industria bellica turca si appropria anche di ricerche straniere, come quelle che consentono al criminale Erdoğan di arrivare al drone-elicottero: infatti Antonio Mazzeo spiega che questo velivolo è un sistema a pilotaggio remoto che potrà essere impiegato a fini civili ma soprattutto per missioni bellico-militari di intelligence e ricerca e soccorso. Il prototipo del drone-elicottero è lungo 7 metri, alto 2,35 e ha un diametro del rotore di 6,28 metri; ciò gli consente di essere trasportato in veicoli di medie dimensioni. Il suo peso non supera i 540 kg compresi apparecchiature elettroniche e carburante. L’”Alpin” ha una velocità di crociera di 160 km/h e può coprire un raggio d’azione fino a 840 km di distanza, a un’altitudine di 5000 m. L’autonomia di volo varia dalle due alle nove ore, secondo la portata del carico a bordo.
      Ma perché abbiamo usato il verbo “appropriarsi”? La risposta è nel Blog di Antonio Mazzeo (che cita “DefenseNews”):
    • «L’Alpin è basato sull’elicottero italiano ultraleggero con equipaggio umano Heli-Sport CH-7». Il CH-7 è realizzato infatti dalla Heli-Sport S.r.l. di Torino, azienda fondata dai fratelli Igo, Josy e Charlie Barbaro e specializzata nel design e produzione di velivoli ad ala rotante di ridotte dimensioni. La società si dichiara però del tutto estranea dalla vicenda.

    • In effetti l’Alpin nasce da un accordo tra la Titra turca e la Uavos californiana per convertire il CH-7 in elicottero a pilotaggio remoto: la trasformazione dei velivoli italiani in droni-elicotteri è stata avviata dalla statunitense Uavos, mentre il primo test di volo è stato effettuato nel dicembre del 2020 nei cieli della Turchia.

«L’Alpin è stato progettato per andare incontro alle richieste specifiche ed uniche della Turchia e agli interessi speciali della sua industria nazionale per operare come sistema a pilotaggio remoto in una varietà di scenari complessi nei campi civili e della sicurezza», riporta la nota emessa da Uavos a conclusione delle attività sperimentali in territorio turco. «L’elicottero convertito è indispensabile per l’industria logistica dei velivoli senza pilota per trasportare carichi in zone difficili da raggiungere e sfornite di campi di atterraggio». E viene subito in mente la configurazione del Rojava.

La Turchia – benché socio alla pari nelle concertazioni strategiche di Astana – produrrà entro due anni i tanto decantati Bayraktar TB2 in Ucraina: benché più leggeri e meno efficienti nel contrasto di un attacco aereo, i droni turchi secondo l’Agi saranno già in grado di contrastare quelli iraniani.

    • «l’Ucraina ha un ruolo di primo piano nella catena di approvvigionamento di Baykar, in particolare con il nuovo drone pesante Akinci e il jet da combattimento senza pilota Kizilelma, attualmente in fase di sviluppo, montano entrambi motori ucraini MotorSich» (“Analisi Difesa”).

Secondo Barayktar molto presto i droni turchi TB2 e Akinci potranno colpire con buona efficacia oggetti in volo grazie all’integrazione del sistema di difesa Sungur prodotto da Roketsan, mentre i droni iraniani sono pesanti e rumorosi, sono obiettivi facili perché volano a bassa quota.

Invece quelli turchi sono stati opzionati anche dal governo polacco, che ha ricevuto a ottobre 6 dei 24 TB2 comprati.

19 novembre

    • Comprare gas dalla Tunisia con veicoli militari antimigranti

      • LaLa Francia ha portato a Djerba 200 milioni di prestiti in occasione della Organisation internationale de la Francophonie; ma ha anche consegnato alla Tunisia il primo lotto di una donazione comprendente cento veicoli militari fuoristrada Masstech T4 prodotti da Technam in occasione della ventinovesima sessione della Commissione militare franco-tunisina svoltasi dal 15 al 17 novembre nella capitale del paese nordafricano e documentata da “Tuniscope”; i veicoli sono palesemente utili nel contenimento dei migranti. L’ambasciata di Francia a Tunisi sulla propria pagina Facebook ha precisato che durante i lavori della commissione è stato tratto “un bilancio molto soddisfacente” in termini di cooperazione bilaterale per il 2022. In particolare, sono state svolte 60 attività in Francia o Tunisia.Ma quella più interessante è volta a ristabilire l’asse militare tra le due sponde mediterranee:

        «Per Saied – afferma il politologo francese Vincent Geisser rilanciato da “Africanews” – ospitare questo vertice è “un successo” perché lo porterà fuori dal suo isolamento almeno temporaneamente. È una sorta di pacificazione nei suoi rapporti con i suoi principali partner occidentali, userà questo evento per legittimare una svolta autoritaria fortemente criticata».

    • In cambio la Francia cerca di comprarsi gas in quella che era la sua casa coloniale.

  • Questo veicolo, costruito a partire da un telaio Toyota Land Cruiser HZJ76, è blindato, dotato di griglie di protezione contro le proiezioni e di cinque punti di armamento. È in servizio con l’esercito francese sul territorio francese e in OPEX nel Sahel. Viene utilizzato anche dall’esercito reale giordano (“MenaDefense”)

10 novembre

  • Corsa al riarmo in Africa

    • Nel dossier dell’“Atlante delle guerre” a marzo si leggeva: «In Africa subsahariana i cinque maggiori importatori di armi sono stati Angola, Nigeria, Etiopia, Mali e Botswana. Resta un grande importatore l’Egitto che con il più 73% diventa il terzo importatore di armi a livello globale».

    • L’Etiopia ha usato abbondantemente le sue dotazioni prima di arrivare agli accordi di metà novembre: dopo due anni e un numero imprecisato di morti compreso tra mezzo milione e un milione di vittime (qui un intervento di Matteo Palamidessa raccolto da Radio Blackout).

    “Il genocidio atroce e diffuso nel Corno d’Africa”.

  • Il Mali (e il Sahel nella sua integrità) è alle prese con la necessità di difendersi dai tagliagole jihadisti dotati di armi sofisticate e dunque gli eserciti – affrancatisi da operazioni coloniali francesi, ma così indeboliti – cercano di procurarsi strumenti per liberarsi dalla tenaglia dell’insorgenza, come ci ha raccontato Edoardo Baldaro:
  • Collegata a questa situazione è la notizia lanciata da un tweet postato il 5 novembre da “Spoutenik en Français” (palese indirizzo filorusso) relativa alla richiesta a Mosca per l’acquisto di due elicotteri da parte del Burkina di Ibrahim Traoré nel quadro di un trattato di cooperazione con la Russia di Putin (che affonda le radici nei legami intrecciati tra paesi africani che hanno avviato il proprio distacco dall’Occidente con l’appoggio dell’Urss).

Gli elicotteri sono tra le macchine a uso bellico più ambite nel continente, come documenta Antonio Mazzeo nel suo blog il 10 novembre facendo cenno a una triangolazione di 6 velivoli T-129 “Atak” prodotti in Turchia da Turkish Aerospace Industries su licenza di AgustaWestland (della infinita galassia Leonardo spa) per il governo nigeriano al costo di 61 milioni di dollari. Come sottolinea Mazzeo, la versione turca dell’“Atak” (in uso in Siria, Iraq, Filippine e in futuro in Pakistan) sfodera nuovi sistemi di individuazione e tracciamento dei bersagli ed è dotato di razzi non guidati da 70 mm e missili anticarro L-Umtas.

  • «Nel bilancio della difesa nigeriano per il 2023 è previsto anche uno stanziamento di 4,5 milioni di dollari per l’acquisto di due elicotteri AW109 “Trekker, prodotti in Italia da Leonardo SpA. nel corso di un seminario delle forze armate nigeriane tenutosi a Ibom lo scorso 27 ottobre, il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica Oladayo Amao avrebbe confermato l’intenzione di acquisire 24 caccia bimotori M-346 “Master” realizzati negli stabilimenti di Varese-Venegono di Leonardo» (“DefenceWeb”).

  • L’AW109 aveva già riscosso un enorme successo ad agosto al Labace brasiliano:
  • «L’AW109 Trekker, il primo gemello leggero di Leonardo a offrire un carrello di atterraggio a pattino, mantiene la cellula dell’AW109 Grand, l’ampia cabina e le prestazioni di prim’ordine, offrendo al contempo un maggiore carico utile a un costo competitivo, dimostrando così di essere perfettamente in grado di soddisfare i severi requisiti degli operatori in termini di capacità ed economicità. L’AW109 Trekker è dotato di una cabina di pilotaggio in vetro di ultima generazione di Genesys Aerosystems che può essere configurata in base alle esigenze del cliente» (“DGualdo”, un sito evidentemente promozionale di Leonardo)

  • Oltre all’indubbio affare per Leonardo, si può ipotizzare che il gigante africano immagini un innesco di conflitti nell’area… e forse l’odore di bruciato comincia a farsi più forte nella situazione del Nord Kivu, come illustrato in questo intervento di Massimo Zaurrini:
  • “Rischio di Terza guerra mondiale africana dei Grandi Laghi?”.
  • Dunque la Nigeria si sta riarmando potentemente, è sufficiente elencare i prodotti opzionati, prenotati, comprati, acquisiti che riporta “DefenceWeb”, oltre ai T-129 citati da Mazzeo e ai due AW109: gli Stati Uniti hanno approvato la possibile vendita di 12 AH-1Z alla Nigeria nell’ambito di un potenziale accordo da 997 milioni di dollari che include armi ed equipaggiamenti (nonostante i forti dubbi riguardo il mancato rispetto dei diritti umani del regime di Abuja); riceverà due aerei da trasporto C295 da Airbus, agognati dal 2016. La proposta di bilancio della Difesa nigeriana per il 2023 include finanziamenti per la manutenzione degli L-39ZA, degli Alpha Jet e propone 2,7 miliardi di dollari per tre aerei da sorveglianza/attacco MF 212 costruito dalla Magnus Aircraft nella Repubblica Ceca e 3 miliardi (6,8 milioni di dollari) per tre elicotteri Bell UH-1D.
    La BVST ((Belspetsvneshtechnika, ditta bielorussa) ha già collaborato con l’aeronautica nigeriana, fornendo la manutenzione degli elicotteri Mi-35 e l’addestramento; ora ha trasformato gli MF212 in velivoli armati ideali per compiti di sicurezza interna, sorveglianza e pattugliamento. A quanto pare, può essere equipaggiato con un gimbal elettro-ottico iSKY-30 HD e con missili R-60-NT-L o R-60-NT-T-2. In Ottobre il capo di stato maggiore Odalayo Amao aveva già dichiarato che l’Aeronautica militare nigeriana prenderà in consegna due turboelica Beechcraft King Air 360, quattro aerei di sorveglianza Diamond DA 62 e tre veicoli aerei senza pilota (UAV) Wing Loong II. Oltre a dozzine di velivoli ordinati tra il 2016 e il 2021.

Peraltro il mercato africano – ovviamente con le sue richieste. Le disponibilità di spesa e i bisogni commisurati alla tipologia di conflitti che nell’enormemente vasto territorio che costituisce condizioni di combattimento differenti – mette sul piatto finanziamenti corrispondenti alla percezione di pericolo o di preparazione di guerre e quindi mette in piedi una propria frequentata fiera. La biennale Africa Aerospace and Defense Expo di Centurion in Gauteng (Sudafrica) si è tenuta a fine settembre, proiettando in questi ultimi mesi di 2022 le prospettive di collocazione su piazza del nuovo bombardiere B-21 Northtorpe, forse non a caso presentato in Sudafrica per le sue prerogative di deterrenza, come spiega “BreakingDefense” nelle parole del generale dell’aeronautica Jason Armagost riguardo il sistema Sentinel di cui il bombardiere è parte: « Sentinel sarà altamente resiliente e flessibile. Non solo per la nostra sicurezza, ma anche per garantire i nostri partner e alleati in tutto il mondo. Si tratta di una capacità evolutiva e sono state prese decisioni deliberate su come renderla efficiente con l’infrastruttura che abbiamo, e su come modernizzare la capacità per rimanere flessibile con sistemi di missione aperti e un’architettura digitale per evolvere con ambienti di minaccia in evoluzione», sembra la descrizione del panorama fluido africano. Il B-21 verrà definitivamente svelato il 2 dicembre assicura “MilitaryTimes”: probabilmente i paesi del continente africano non si potranno permettere questo bombardiere presentato a casa loro, ma potranno svuotare gli arsenali dei bombardieri che diventeranno obsoleti dopo l’avvento di questa macchina.

Più alla portata delle casse africane è il drone greco Archytas e soprattutto il Mwari aircraft con scopi multipli e infatti già venduto a molti paesi africani; e di quei paesi elencati all’inizio di questa scheda il Botswana probabilmente prenoterà i suoi droni in funzione antimigratoria, e allo scopo i droni presentati alla fiera sudafricana descritta nel video della scheda di ottobre fanno al caso.

AW109 Trekker

GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE Traffico 2022

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]]> Mosaico etiope: a Nord guerra, a Sud referendum autonomista https://ogzero.org/mosaico-etiope-a-nord-guerra-a-sud-referendum-autonomista/ Mon, 19 Dec 2022 00:48:32 +0000 https://ogzero.org/?p=9822 Decenni di lotte postcoloniali hanno portato il Corno d’Africa e in particolare l’Etiopia alla condizione attuale di frammentazione di etnie, divergenze di interessi, rivendicazioni di territori e… autonomia. Appunto: a questo snodo si finisce con l’arrivare laddove si innescano guerre sanguinosissime, cambi al vertice di Addis Abeba con il ridimensionamento tigrino all’avvento di Abiy Ahmed […]

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Decenni di lotte postcoloniali hanno portato il Corno d’Africa e in particolare l’Etiopia alla condizione attuale di frammentazione di etnie, divergenze di interessi, rivendicazioni di territori e… autonomia. Appunto: a questo snodo si finisce con l’arrivare laddove si innescano guerre sanguinosissime, cambi al vertice di Addis Abeba con il ridimensionamento tigrino all’avvento di Abiy Ahmed che ha condotto alla guerra scatenata dal premio Nobel per la Pace appoggiato dal despota eritreo Afewerki, da sempre avversario del confinante Tigray; il risultato è stato un conflitto feroce di tutti contro tutti. Le alleanze e le divisioni tra comunità di ceppi diversi od omologhi hanno esacerbato ulteriormente una condizione che era negativamente fluida già quando cercammo di farne il punto all’inizio del conflitto. Per arrivare ai preoccupati interventi su Radio Blackout di Palamidessa.
Ora Gianni Sartori allarga un po’ il grandangolo e dunque vengono comprese anche le comunità del Sud dell’Etiopia, scoperchiando il vaso delle rivendicazioni di autonomia che cominceranno a sfociare in referendum nei primi mesi del 2023, quando il governo centrale vedrà di rafforzare il federalismo; peccato che le spinte centrifughe si moltiplicano anche a Ovest del paese…


A quanto pare in Etiopia va rinforzandosi il federalismo e si opera per il superamento di antichi conflitti etnici attraverso una maggiore autonomia di ciascun gruppo. Soluzione forse inevitabile in un paese costituito da un mosaico di etnie conviventi con quelle dei tre gruppi principali (amhara, oromo e sidama).

Abyi Ahmed

Un primo segnale era giunto nel 2018 con la nomina a primo ministro di Abiy Ahmed di origini miste oromo-amhara e per questo inizialmente ben accetto da entrambi i gruppi etnici (anche se poi gli Oromo lo hanno accusato di “tradimento”).
Abiy Ahmed aveva intrapreso alcune riforme a favore delle storiche rivendicazioni identitarie e territoriali della frammentazione di etnie (in parte conseguenza di non opportune precedenti divisioni amministrative) rimaste irrisolte.

Eterna stagione referendaria

Gli ultimi referendum di questo genere erano stati quelli del 20 novembre 2019 e del 23 novembre 2021 (“Nigrizia”). Avevano rispettivamente sancito la nascita di due nuovi stati federali, Sidama (dove il 99,7% per cento degli aventi diritto si era recato alle urne e il 98,5% aveva votato per l’autonomia) e South West. Separandosi entrambi dal Snnrr (Stato regionale delle nazioni, nazionalità e popoli del sud) già teatro di scontri e conflitti etnici.

Ultima tappa della frammentazione di etnie

Previsto per il 6 febbraio 2023, il nuovo referendum si terrà nella prospettiva della creazione di un dodicesimo stato regionale. Dovrebbe svolgersi in sei zone amministrative (Wolayita, Gamo, Gofa, South Omo, Gedeo e Konso) e cinque distretti speciali (Amaro, Burji, Basketo, Derashe e Alle). Attualmente integrati nel Snnpr.

Federalismo etnico

Risale al 1995 la Costituzione basata sul “federalismo etnico” che formalmente garantiva una relativa autonomia agli oltre 80 ceppi della frammentazione di etnie che comporrebbe il  paese (uno dei più popolati dell’Africa con quasi 120 milioni di abitanti). Possibilità non sempre adeguatamente accolta dagli interessati o rispettata dai governi.
Si consideri a titolo di esempio il conflitto armato nel Nord del paese tra il governo centrale e l’Eprdf, la coalizione guidata dal Fronte di liberazione popolare del Tigray (Tplf).
Anche recentemente, in settembre, si era nuovamente interrotta la tregua durata alcuni mesi nella prospettiva di una adeguata soluzione politica.

“Il genocidio atroce e diffuso nel Corno d’Africa” è un’intervento di Matteo Palamidessa trasmesso su Radio Blackout il 1° ottobre 2022.

Altri conflitti ricorrenti sono quello con l’Esercito di liberazione Oromo e la ribellione del Benishangul (Ovest dell’Etiopia).

Ribellismo e milizie

Ma i problemi dell’Etiopia non riguardano soltanto le questioni etniche. Altre emergenze coinvolgono trasversalmente ogni regione del paese, in particolare le ultime generazioni. Con il 70 per cento della popolazione sotto ai 35 anni (in buona parte disoccupata, emarginata nonostante il notevole incremento della scolarizzazione), manifestazioni, scioperi, rivolte e disordini sono fenomeni ricorrenti (e in genere repressi duramente).

Ma contemporaneamente al contenimento del ribellismo, i governi hanno sviluppato un altro modo per controllare, incanalare le istanze della gioventù etiope: quello di integrarli in formazioni giovanili strutturate su base regionale. Come i Fano per gli Amhara (una delle più consistenti numericamente e ben armata, talora qualificati come “vigilantes”) e i Qerro (sinonimo di “scapoli”, molti legati al sistema tradizionale di autogoverno, democratico e inclusivo) per gli Oromo. In passato alleati dei Fano, erano poi sorti contrasti a causa dell’ideologia panetiopica, egemonica e antifederale, caratteristica degli Amhara.
Consistenti numericamente anche altre organizzazioni giovanili come gli Yelega in Wolayta, gli Ejeetto Sidamo…a cui si sono aggiunti Nebro, Zarma, Aeigo, Dhhaaldiim.

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Da qui il coltan… https://ogzero.org/da-qui-il-coltan/ Fri, 09 Dec 2022 23:45:12 +0000 https://ogzero.org/?p=9746 Bagatelle contrastanti per un massacro Soltanto venti giorni fa, in occasione del 18° vertice della francofonia (Oif, in rappresentanza di una novantina di stati) nell’isola tunisina di Djerba, Louise Mushikiwabo (ministro degli Esteri ruandese dal 2009 al 2018 e segretaria generale dell’Oif, appena rieletta per i prossimi quattro anni) lanciava accuse – se non proprio […]

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Bagatelle contrastanti per un massacro

Soltanto venti giorni fa, in occasione del 18° vertice della francofonia (Oif, in rappresentanza di una novantina di stati) nell’isola tunisina di Djerba, Louise Mushikiwabo (ministro degli Esteri ruandese dal 2009 al 2018 e segretaria generale dell’Oif, appena rieletta per i prossimi quattro anni) lanciava accuse – se non proprio del tutto infondate, perlomeno non documentate – secondo cui ci sarebbero «elementi nella Repubblica democratica del Congo, proprio alla frontiera con il Ruanda, che sono una minaccia per la sicurezza del mio paese».
Quando in realtà – stando ai rapporti onusiani – quello che sta avvenendo sarebbe esattamente il contrario. Basti pensare al sostegno anche di natura militare dato dal governo di Kigali (e dal presidente Kagame di etnia tutsi, quella che subì il genocidio del 1994) al movimento M23 che imperversa nel Nord Kivu, una regione nell’Est della Repubblica democratica del Congo da dove sono fuggiti centinaia di migliaia di sfollati (e dove, ricordo, sono stati assassinati l’ambasciatore Luca Attanasio, l’autista Mustapha Milambo e il carabiniere Vito Iacovacci).

Erano passati soltanto alcuni giorni quando, il 29 novembre, veniva attaccata la città di Kishishe (circa 70 chilometri da Goma, la capitale del Nord Kivu). Se inizialmente si parlava di una cinquantina di vittime, via via che le indagini proseguivano si arrivava alla cifra terribile di oltre 270 civili uccisi (tra cui diversi bambini).
Stando alle fonti ufficiali, il governo e le forze armate congolesi, la responsabilità dell’attacco cruento sarebbe del Movimento 23 marzo (l’M23 però, da parte sua, smentisce). Nella generale costernazione del paese, il presidente della Rdc, Félix Tshisekedi, aveva indetto tre giorni di lutto nazionale.
Significativo che tale strage sia avvenuta (come una provocazione per sabotare gli accordi se non di pace, almeno di non belligeranza attiva) a soli cinque giorni dall’ultima dichiarazione di cessate il fuoco. Anche se, forse inopportunamente, M23 (inattivo dal 2013 al 2021) era rimasto escluso dalle trattative del vertice dei Grandi Laghi (fine di novembre) che si erano svolte a Luanda.
Invitato invece Paul Kagame, pur facendosi sostituire da Biruta, suo ministro degli Esteri.

Milioni al Ruanda… per pagare cosa?

Lotta al terrorismo?

Intanto, dando prova di scarso tempismo, l’Unione Europea approvava il 1° dicembre un ulteriore stanziamento (circa 20 milioni di dollari) per l’esercito ruandese. Ufficialmente per rafforzare la lotta al terrorismo in Mozambico (regione di Cabo Delgado), ma alcuni osservatori non escludono che in parte tali finanziamenti vengano dirottati ad alimentare il conflitto nel Nord Kivu.
Recentemente la politica di Kagame nei confronti del Congo Kinshasa è stata messa in discussione proprio da uno dei principali sostenitori del governo di Kigali. Il segretario di stato statunitense Antony Blinken ha chiesto infatti a Kagame di non sostenere più M23 e di promuovere concretamente “pace e stabilità”.
Critiche che non sarebbero state ben accolte dal presidente del Ruanda.

Soldo per milizie predatrici?

Quanto a M23, sarebbe costituito soprattutto da miliziani ed ex insorti di etnia tutsi (ma spesso di nazionalità congolese) che in parte erano stati integrati nell’esercito congolese. Il tentativo di smantellare le unità formate appunto da tali ex ribelli (o di trasferirli in altre regioni della Rdc) aveva provocato la loro ribellione.
Attualmente chiedono l’amnistia e la possibilità di rientrare dai campi profughi del Ruanda e dell’Uganda per i rifugiati tutsi di nazionalità congolese. Senza escludere la possibilità di essere reintegrati nell’esercito congolese in modo da poter esercitare un maggiore controllo su traffici e commerci nel Nord Kivu. Per esempio quello del cobalto, nella cui estrazione, su un totale di 300.000 minatori, sono coinvolti almeno 35.000 bambini ridotti in schiavitù. Oppure dell’altrettanto famigerato coltan che ugualmente si estrae a mani nude con danni irreparabili per la salute dei giovanissimi minatori. Per non parlare degli abusi sessuali di cui sono vittime.

Subappalti?

Da qui il coltan, attraverso una catena commerciale gestita da bande, milizie e mercenari di varia etnia ed estrazione (a cui le compagnie subappaltano il lavoro sporco), arriva in Ruanda e Uganda. Per essere acquistato dalle compagnie che si occuperanno dell’export, eventualmente della raffinazione. Destinazione finale: le multinazionali in Germania, Usa, Cina…

Di questa crisi avevamo parlato con Massimo Zaurrini a metà novembre, immaginando già scenari apocalittici verso cui ci stiamo avviando, visti gli interessi di tutte le comparse coinvolte: il gigante congolese incapace di controllo, gli esportatori di terre rare ruandesi e ugandesi (senza estrarne, ma controllando), militari di frapposizione (kenioti); le potenze occidentali, interessate a calmierare i prezzi con la schiavitù giovanile…:

“Rischio di Terza guerra mondiale africana dei Grandi Laghi?”.

to be continued

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Il dazio dell’inondazione pakistana sulle tavole africane https://ogzero.org/il-dazio-dellinondazione-pakistana-sulle-tavole-africane/ Thu, 29 Sep 2022 13:56:07 +0000 https://ogzero.org/?p=9038 Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo […]

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Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo il paese il quinto produttore di cotone e il quarto di riso, l’impatto di questa perdita sarà sicuramente globale.
Di qui prendeva spunto l’articolo che abbiamo pubblicato di Masha Hassan sull’inondazione pakistana; l’autrice del pezzo ha poi approfondito gli addentellati collegati alla filiera del cotone, più che quella del riso, seguita invece dall’attenzione di Angelo Ferrari (già in luglio un suo intervento lanciava l’allarme alimentare, prima della guerra in Ucraina e dei disastri climatici) per le ripercussioni sull’alimentazione dell’Africa, riproponiamo qui il pezzo ripreso da “AfricaRivista” per completare l’analisi del cataclisma poco seguito dai media occidentali miopi di fronte alle conseguenze del cambiamento climatico subito nei disastri dal Sud del Mondo, ma prodotto soprattutto dal mondo industrializzato.


Secondo gli analisti molti governi dovranno far fronte all’aumento dei prezzi di mercato del riso, un alimento base per gli africani, dovuto alle catastrofi naturali che stanno colpendo l’Asia e alle nuove strette sulle esportazioni imposte da India, Vietnam e Thailandia.

L’Africa non ha pace. La sicurezza è messa a rischio dall’aumento dei prezzi delle materie prime e ora potrebbe aggravarsi ulteriormente per le inondazioni che hanno investito il Pakistan. Il continente africano deve far fronte all’aumento dei prezzi del grano e del mais a causa della guerra in Ucraina, ma, secondo molti analisti economici, dovrà far fronte anche all’aumento dei prezzi di mercato del riso, un alimento base per gli africani, a causa delle inondazioni che hanno investito il Pakistan e alla decisione dell’India di limitare le sue esportazioni.

L’accaparramento asiatico

L’India ha vietato le esportazioni di riso spezzato (frammenti di chicchi rotti) dopo l’inondazione e ha imposto un dazio del 20% sulle esportazioni di riso di qualità superiore. Con questa misura, il più grande esportatore mondiale cerca di abbassare i prezzi a livello locale, dopo che le piogge monsoniche sono state inferiori alla media. Le esportazioni potrebbero, grazie a questa misura, crollare del 25% nei prossimi mesi.

«Tutti i cereali sono aumentati, tranne il riso, ma ora si unirà a questa tendenza», ha spiegato Himanshu Agarwal, direttore di Satyam Balajee – il principale esportatore di riso indiano – sentito dalla Reuters.

Contemporaneamente Thailandia e Vietnam hanno deciso di aumentare i prezzi per remunerare meglio i loro agricoltori. Secondo Phin Zinell, economista alimentare presso la National Australia Bank, ci «saranno tensioni significative sulla sicurezza alimentare in molti paesi». E a farne maggiormente le spese, sarà l’Africa, tanto più che la situazione in Pakistan di fronte alle alluvioni che lo hanno investito potrebbe pesare sui prezzi mondiali.

«Il Pakistan è un grande esportatore di riso, ma un terzo del paese è sott’acqua e quindi il rischio, a lungo termine, è un aumento del prezzo del riso sul mercato internazionale», ha spiegato Nicolas Bricas, titolare della Cattedra mondiale dell’alimentazione dell’Unesco, sentito da France24.

Un altro fattore rischia di aggravare ulteriormente la situazione: la forte domanda cinese di rotture di riso per sostituire il mais, diventato troppo costoso per nutrire il bestiame, ha provocato un innalzamento dei prezzi.

Il fabbisogno africano

Tutto ciò, evidentemente, rappresenta una brutta notizia sul fronte della sicurezza alimentare nell’Africa subsahariana, che dipende in larga misura dalle importazioni di cereali bianchi dall’Asia. L’Africa, quest’anno, potrebbe assorbire il 40% del commercio mondiale di riso, ovvero 20 milioni di tonnellate, un vero e proprio record.

La dipendenza dalle importazioni di riso è cronica e durerà nel tempo, anche perché la produzione locale non è in grado di seguire la curva dei bisogni che cresce con la crescita demografica urbana. In Africa il riso è l’alimento preferito dagli abitanti delle città perché è un prodotto pronto all’uso a differenza dei tradizionali cereali, come il miglio e il sorgo, che hanno bisogni di una preparazione.

Se la sicurezza alimentare in Africa subsahariana non si base esclusivamente sul riso, come in altri continenti, questo rimane il secondo cereale più consumato dopo il mais. Un’impennata dei prezzi rappresenterebbe un nuovo colpo per le popolazioni africane, già indebolite dai prezzi dei generi di prima necessità, soprattutto quelli agricoli. La situazione è particolarmente critica nel Corno d’Africa, che sta attraversando una siccità mai vista negli ultimi quarant’anni. Secondo le Nazioni Unite, dall’Etiopia meridionale al Kenya settentrionale fino alla Somalia, 36 milioni di persone sono a rischio fame.

«Con l’aggravarsi della situazione della sicurezza alimentare in Etiopia, siamo particolarmente preoccupati per l’impatto che sta avendo su donne e ragazze. Anche se CARE è intervenuta tempestivamente con distribuzioni di cibo per alcune comunità colpite, oltre che con interventi nel settore agricolo, trasferimenti di denaro, salute e nutrizione e WASH, il bisogno insoddisfatto rimane sconcertante».

L’aumento del prezzo del riso è, dunque, atteso, ma secondo molti analisti dovrebbe rimanere contenuto e di breve durata. Di sicuro è un azzardo, anche se il raccolto dei principali paesi produttori ed esportatori – India, Thailandia e Vietnam – inizierà tra poche settimane. Questo riso dovrà andare ad aggiungersi alle scorte, già al massimo, e quindi dovrebbe spingere questi paesi a vendere il vecchio raccolto, allentando la pressione sul mercato. Ma bisognerà capire se i maggiori esportatori di riso applicheranno misure di protezionismo del proprio mercato interno.

Di sicuro gli effetti maggiori si vedranno nei primi mesi dell’anno prossimo. Occorre ricordare, infine, che il Pakistan esporta 4 milioni di tonnellate di riso all’anno, contro i 21 milioni dell’India. La domanda è: il mercato sarà in grado di resistere allo shock anche se il Pakistan, come è prevedibile, limiterà le sue esportazioni e l’India manterrà i dazi e il tetto alle esportazioni di riso?

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Dalla Perestrojka al Commonwealth in Africa https://ogzero.org/dalla-perestrojka-al-commonwealth-in-africa/ Sat, 17 Sep 2022 23:23:21 +0000 https://ogzero.org/?p=8921 Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche […]

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Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi

Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche di periodi storici rendono conto di un passaggio epocale, scandito simbolicamente dalla morte di due ultranovantenni protagonisti della politica degli anni Ottanta: Michail Sergeevič Gorbačëv ha incarnato la fine della Guerra Fredda – con tutto ciò che la sua archiviazione ha significato per la spartizione di tasselli sullo scacchiere internazionale che facevano rigidamente riferimento all’una o all’altra grande potenza. La contrapposizione per blocchi è apparentemente un modello di rapporti tra grandi potenze che torna a riconfigurarsi, e di cui dovremmo analizzare cosa può riproporsi e in quali modalità, considerando anche il progresso delle comunità da depredare a trent’anni dalla caduta del muro e dalla trasformazione dei regimi marxisti-leninisti sostenuti dall’Urss in Africa.
Elisabeth Windsor-Mountbatten è stata la più rigida conservatrice dell’impero britannico così come le era stato consegnato, opprimendo con brutalità (fin dall’inizio soffocando le richieste di emancipazione dei Mau-Mau in Kenya); la spasmodica attenzione dei media francesi per le sue esequie è una buona cartina al tornasole, perché evidenzia la sensazione dei regicidi francesi che i destini delle due ex potenze coloniali siano strettamente correlati, angosciando gli ancora tanti nostalgici della grandeur, ma anche galvanizzando gli anticolonialisti come “Mediapart”, che preconizzano che, dopo il bagno di folla ebete dei funerali «Con la morte della regina Elisabetta II, il velo di oblio o di cecità intenzionale che ha coperto la mente pubblica britannica sul suo passato imperiale e coloniale scomparirà. I dannati della memoria si alzeranno in piedi e parleranno». E dopo il processo indipendentista a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta – che ha richiesto la trasformazione dell’approccio e dei processi di occupazione di territori, il loro saccheggio e il condizionamento economico –, ora non è l’emancipazione delle comunità autoctone ma la ripresa dell’espansione di quel colonialismo russo nel Continente nero (che i processi di apertura di Nikita Sergeevič Chruščëv prima e poi di Gorbačëv avevano trasformato, ridimensionandolo) a premere sulle acciaccate potenze coloniali europee.
E di nuovo l’impegno di Mosca sorge nel momento in cui la tensione ha il sopravvento sul multilateralismo. Queste pulsioni, assimilabili alle esigenze che spingono la Realpolitik turca a espandere la propria sfera di influenza su alcuni angoli africani, aggiungono un elemento che configura il neoimperialismo, echeggiando altri momenti epocali in cui si è assistito a conflitti di blocchi contrapposti: neo-ottomanesimo e neozarismo possono sperare che la divisione europea ridimensioni l’egemonia occidentale, approfittando di una nuova Guerra Fredda da cui trae linfa l’espansionismo autocratico nella realtà africana.
Fin qui OGzero, ma questo sproloquio attinge alle suggestioni e ai dati esibiti da Angelo Ferrari nei suoi due originali obituary. E non a caso iniziamo dallo studio sul rilancio del Commonwealth (l’espressione imperiale britannica rivale di quella zarista e dei sultani) che paradossalmente ottiene nuovo slancio dalla morte della simbolica depositaria per 70 anni della potenza inglese, dacché era già sovrana – ingombrante figura difficile da adeguare alle istanze indipendentiste dell’impero senza modificarne l’icona (interessante come nell’articolo di Angelo non venga citata, ma aleggi il venir meno di una prassi pluridecennale caratteristica del suo lungo regno) – quando gli stati decolonizzati entrarono nell’organizzazione grazie alla Dichiarazione di Londra che riformava il vecchio Commonwealth con un compromesso costituzionale, proprio in quegli stessi primi anni Sessanta che costrinsero alla apertura con la prima parziale sospensione della Guerra Fredda.

Ora il Commonwealth rappresenta una valida alternativa per la cooperazione economica tendente a 2 trilioni di scambi. Per gli altri c’è l’“amicizia” predona della Wagner, che non chiede conto alle leadership cresciute militarmente a Rostov (o disposte a scommettere di restituire i prestiti ai cravattari cinesi), di certo non è l’epilogo immaginato dalla perestrojka africana.


Il Commonwealth sempre più africano

Londra sta intensificando la sua presenza nel continente africano attraverso rapporti bilaterali, vuole – è stata la promessa fatta da BoJo nell’ultimo vertice afro-britannico a Londra il 20 gennaio 2020 – incrementare i suoi investimenti ed espandere il suo mercato. Vuole diventare il maggior investitore sul continente africano e superare gli altri membri del G7 e stiamo parlando di Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Giappone e mettiamoci anche l’Italia.

Carta d’identità dell’organizzazione

Il Commonwealth è il più grande gruppo di nazioni che non coinvolge la Russia o la Cina e gli conferisce, sono parole della Truss, «un peso crescente sulla scena mondiale». Quanto può valere entrare nell’ormai grande famiglia? Secondo Patricia Scotland, segretario generale dell’organizzazione nata sulle ceneri dell’impero britannico e andata ormai oltre le ex colonie di Londra, già oggi il commercio tra i paesi membri vale 700 miliardi di dollari. Ma l’obiettivo, anche guardando gli ultimi ingressi, Togo e Gabon, è di superare i 2 trilioni di dollari entro il 2030.
Il Commonwealth è un’organizzazione che conta 56 nazioni per un totale di 2,5 miliardi di abitanti, con un Prodotto interno lordo che si prevede salirà a 19,5 trilioni di dollari nei prossimi cinque anni.


Il Gabon, che si affaccia sul Golfo di Guinea, ultimo arrivato nell’organizzazione è un paese con una superficie boscosa molto rilevante ed è destinato a svolgere un ruolo importante nel commercio dei crediti di carbonio per combattere il cambiamento climatico. E questo, per Londra, è un vantaggio non da poco.

Strategia in chiave anticinese

Londra vuole aprire le sue porte all’Africa e il Commonwealth (oggi conta 21 paesi africani: Sudafrica, Ghana, Nigeria, Sierra Leone, Uganda, Kenya, Malawi, Tanzania, Zambia, Gambia, Botswana, Lesotho, eSwatini, Seychelles, Namibia, Camerun, Mozambico, Nauru, Ruanda, Gabon, Togo) potrebbe diventare la chiave di volta. Ma non solo. Nelle strategie di Londra rientra anche il contrasto alla Cina e in Africa la sfida sembra quasi improba. Ciò era negli intenti dell’ex premier Boris Johnson, ma ribaditi dall’attuale prima ministra, Liz Truss, che è stata molto chiara.

Il Regno Unito deve aumentare l’interscambio commerciale con i paesi del Commonwealth per contrastare la «grave minaccia della Cina ai nostri valori e al nostro modo di vivere, e firmare accordi commerciali con procedure accelerate con gli stati così da aiutare il Regno Unito e altre democrazie a vincere la lotta contro gli stati autoritari».

Truss ritiene che legami economici più stretti aiuteranno ad annullare lo schema della Belt Road Initiative della Cina in base alla quale Pechino ha finanziato progetti in dozzine di paesi in via di sviluppo che si sono rivelati come una “coercizione economica”.

Per allargare il mercato cade la pregiudiziale democratica

Tutti vogliono entrare nel Commonwealth e Londra apre le porte a chiunque, rinunciando anche ai principi fondativi dell’organizzazione delle ex colonie britanniche. Non guarda se è un paese è democratico, se rispetta i diritti fondamentali delle persone. Tutto questo, dopo la Brexit, non conta. Londra sembra avere mani libere, tanto da accettare nell’organizzazione membri che non hanno legami storici con il Regno Unito. Contano gli investimenti e le potenzialità di mercato che offre chi entra nell’organizzazione.

«In passato alcuni paesi africani non avevano relazioni con i paesi del Pacifico o con i paesi anglofoni», ha spiegato il ministro degli Esteri del Gabon – ex colonia francese – Michael Moussa-Adamo, ma ora «ci stiamo allargando e stiamo ottenendo nuovi partner internazionali, rafforzando la nostra economia».

Dinastie africane nell’organizzazione della dinastia britannica

Dati gli obiettivi che si prefigge è evidente che qualsiasi stato è ben accetto. «Il Commonwealth – ha spiegato Scotland – ha iniziato con otto nazioni nel 1949, è cresciuta fino a raggiungere 56 nazioni. La nostra continua crescita, al di là della nostra storia, riflette i vantaggi dell’appartenenza al Commonwealth e la forza della nostra nazione. Sono entusiasta di vedere questi vivaci paesi unirsi alla famiglia e dedicarsi ai valori e alle aspirazioni della nostra Carta» (“360Mozambique”).

È del tutto evidente che la “Carta”, oggi, conta ben poco. Se l’organizzazione dovesse tenere fede ai suoi principi non potrebbe accettare nelle sue file paesi come il Gabon e il Togo che non hanno nulla a che fare con una democrazia moderna.
Il Gabon più che uno stato è una monarchia governata da sempre dalla dinastia dei Bongo Ondimba, padre e figlio, stiamo parlando di oltre cinquant’anni di regno (però i Windsor sono avvezzi a questo tipo di regime, ma proprio il Gabon può rappresentare un ponte tra gli imperi, visto che era in quota sovietica fino al crollo del Pcus). E anche il Togo non è da meno: l’attuale presidente, Faure Gnassingbé detiene il potere dal 2005, ma lo ha ereditato dal padre che lo gestiva in maniera dittatoriale dal colpo di stato del 1967.
Ma anche il Ruanda, che ha ospitato l’ultimo vertice del Commonwealth a fine giugno 2022, non sarebbe un paese “idoneo”, perché nelle sue carceri sono ancora detenuti oppositori, giornalisti indipendenti e youtuber critici con le autorità ruandesi.

Centro congressi di Kigali, sede della convention del Commonwealth 2022

Paul Kagame è presidente del Ruanda dal 1994 quando entrò a Kigali da trionfatore e liberatore, ha modificato la Costituzione così da permettergli di governare il paese fino al 2034. Per non parlare di un altro membro del Commonwealth, il Camerun. Il paese è “guidato” dal 1982 da Paul Biya, ma se aggiungiamo i sette anni da primo ministro, 1975-1982, è al potere da 47 anni.


Le aree di interesse evidenziate dalle citazioni di paesi aderenti alla sfera britannica, poste a confronto con quelle evocate dal mondo sovietico africano, mostrano una vera e propria spartizione tra i due imperialismi che non sovrapponevano i domini. Le incursioni russe e turche in Sahel, Centrafrica e Corno d’Africa entrano in diretta concorrenza soprattutto con l’imperialismo francese, quello più debole e impreparato, perché ancora troppo fondato sull’occupazione militare, ambito in cui i contractor russi e i miliziani turchi sono più efficaci su quel terreno.


Con la fine dell’Urss cambiarono i giochi di potere in Africa… erano solo sospesi?

Cosa ha comportato la scomparsa dell’Urss e quali le conseguenze per chi deteneva il potere? I regimi alleati del blocco orientale, per esempio, furono costretti a riformarsi o cadere.
L’opera intrapresa da Michail Gorbačëv di riforma del sistema sovietico negli anni Ottanta e di disgelo delle relazioni internazionali, cambiando radicalmente la situazione internazionale, ha avuto ripercussioni ed effetti importanti anche per il continente africano. La scomparsa dell’Urss dallo scacchiere africano ha costretto i regimi alleati del blocco orientale a riformarsi o cadere. Nella prima categoria, Angola e Mozambico sono stati costretti a entrare in processi di democratizzazione che hanno posto fine alle guerre civili, prima Maputo e poi Luanda.

Superamento del colonialismo lusitano

Frelimo/Renamo

In Mozambico il sostegno dell’Unione Sovietica si è rivelato fondamentale per la sopravvivenza del paese negli anni Ottanta del secolo scorso. Le spinte anticoloniali portarono i movimenti indipendentisti a coalizzarsi nel movimento armato Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico) e dopo dieci anni di guerriglia contro i coloni portoghesi, il paese ottiene l’indipendenza nel 1975. Iniziò una campagna di nazionalizzazione delle piantagioni e furono costruite scuole e ospedali per i contadini. Una rivoluzione di stampo sovietico. Il Frelimo sostenne le forze rivoluzionarie in Rhodesia e Sudafrica. I governi di questi paesi, appartenenti al blocco occidentale, risposero sostenendo i ribelli mozambicani della Renamo. Ne scaturì un’atroce guerra civile che terminò con gli accordi di pace di Roma del 1992 da cui nacque una nuova costituzione di stampo multipartitico. Il Frelimo, nelle elezioni libere tenute negli anni successivi si confermò sempre il primo partito del Mozambico.

Mpla/Unita

In Angola la situazione era abbastanza simile. Il Movimento per la liberazione dell’Angola, che lottò con determinazione contro i colonizzatori portoghesi, ottenendo l’indipendenza nel 1975, portò il paese nell’orbita sovietica e instaurò un regime totalitario. Di contro il blocco occidentale, per far valere i suoi interessi, sosteneva un gruppo di ribelli sotto il nome di Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola.
Da questo scontro iniziò una guerra civile durata oltre un ventennio al termine della quale vennero firmati gli accordi di pace che portarono alle prime elezioni nel 1992. Le ostilità, tuttavia, continuarono e terminarono solo dopo l’uccisione del leader dell’Unita, Jonas Savimbi, nel 2002. Il paese, dall’indipendenza è sempre stato governato dall’Mpla e l’Unita ha sempre svolto un ruolo di opposizione. Ma il padre della patria, Eduardo dos Santos, si è trasformato presto in un cleptocrate, governando il paese con pugno di ferro fino al 2017.

Il passaggio dalla geopolitica alla geoeconomia

In Mozambico e Angola i regimi, riformati, sono sopravvissuti, mentre in Etiopia, nel 1991, Menghistu, soprannominato il “Negus rosso”, viene estromesso dal potere.

Mandela/Mobutu

Proprio in quegli anni anche il Sudafrica è costretto a riformarsi ed è nel contesto della fine della Guerra Fredda che cade l’apartheid, che porta alle prime elezioni multirazziali del 1994 e la Namibia trova l’indipendenza. Anche gli interessi degli Stati Uniti per l’Africa cambiano di conseguenza, meno legati alla geopolitica e più all’economia. Il loro grande alleato nell’Africa centrale, Mobuto Sese Seko, dittatore dello Zaire, è costretto ad aprire il sistema politico e cedere, su pressione degli Stati Uniti, al multipartitismo. Soluzione che non porta alcun beneficio al paese, perché è sempre il dittatore che muove i fili, ma il paese crolla nel giro di pochi anni e si apre una fase di guerra permanente.

La perestroika africana

Benin, Congo, Mali, Niger…

Nel mondo francofono, sempre in quegli anni, soffia un vento di libertà. Era l’epoca delle Conferenze nazionali che avevano lo scopo di creare un clima democratico con la partecipazione di tutti. Il Benin fu il precursore nel 1990, il marxista Mathieu Keredoku fu sconfitto alle elezioni e si ritirò. Ma non andò così nella Repubblica del Congo, dove il presidente di allora, Denis Sassou Nguesso, continua a governare il paese. Fasi alterne vivono i paesi come il Mali, il Niger. Ma hanno una caratteristica comune: sono regimi poco democratici e accentratori del potere. La “perestrojka africana” che si poteva leggere tra le righe delle Conferenze nazionali non ha mai attecchito, anche se aveva suscitato molte speranze nelle popolazioni di questi paesi.

Rimane, tuttavia, il fatto che Gorbačëv si era adoperato per porre fine al mondo bipolare in cui l’Africa era alla mercè del gioco strategico di Washington e Mosca.

Secondo lo scrittore Vladimir Fedorovski, molto vicino all’ultimo leader sovietico, ai paesi africani mancherà il suo messaggio a favore di un mondo equilibrato: «Aveva un grande rispetto per il continente africano, che considerava il continente del futuro. Gorbačëv diceva che bisognava tener conto degli interessi delle diverse nazioni e trovare equilibri, e anche e forse essere prima di tutto africani. Sprecheremo somme da capogiro per la guerra, dimenticando che l’Africa è minacciata dalla carestia».

I primi a dimenticarsi delle parole di Gorbačëv sono stati proprio quei presidenti africani che si ispiravano all’Unione Sovietica. La Guerra Fredda non c’era più, ma le contrapposizioni rimangono e diventano sempre più complesse. Da una parte il mondo occidentale che cerca di frenare le aspirazioni di Mosca che, piano piano, sta rosicchiando pezzi di influenza occidentale. Il messaggio di Gorbačëv vale ancora oggi.

Dal 24 al 27 luglio, il ministro degli Esteri della Federazione russa, Sergej Lavrov, ha visitato quattro stati africani: Egitto, Repubblica del Congo, Uganda ed Etiopia. Non ha parlato di progetti o interventi. La sua missione era chiedere agli africani di schierarsi con la Russia contro l’Occidente, con un unico argomento: l’Occidente ha un passato coloniale e ha tuttora delle mire coloniali e imperiali.

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La crisi dissolve il voto tribale e la stabilità del Kenya? https://ogzero.org/la-crisi-dissolve-il-voto-tribale-e-la-stabilita-del-kenya/ Fri, 05 Aug 2022 14:46:33 +0000 https://ogzero.org/?p=8425 Il passaggio elettorale che il 9 agosto attende il Kenya è ancora un voto tribale che capita in uno snodo epocale manifestatosi come tempesta perfetta. Dopo una pandemia, che in Africa ha moltiplicato i suoi effetti per la carenza dei servizi; seguita da una guerra lontana, che ha ripercussioni peggiori di quelle nel medesimo Corno […]

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Il passaggio elettorale che il 9 agosto attende il Kenya è ancora un voto tribale che capita in uno snodo epocale manifestatosi come tempesta perfetta. Dopo una pandemia, che in Africa ha moltiplicato i suoi effetti per la carenza dei servizi; seguita da una guerra lontana, che ha ripercussioni peggiori di quelle nel medesimo Corno d’Africa per la carestia che provoca – con il corredo di shabab che destabilizzano l’intera area; una siccità devastante che sta prostrando il paese. Forse tutto questo può provocare un cambiamento nel sistema del voto tribale che da sempre regola gli equilibri di potere nel paese africano tra i più sviluppati di quelli che si affacciano sull’Oceano Indiano. Riprendiamo per questo il bell’articolo pubblicato sull’Agi da Angelo Ferrari, che è il responsabile della parte africana della nostra collana sulle città e che ha voluto fortemente che Freddie Del Curatolo scrivesse il volume dedicato a Nairobi.    


Gli schieramenti del voto tribale

Mancano pochi giorni alle elezioni presidenziali del 9 agosto in Kenya. La campagna elettorale, tuttavia, si è svolta in un clima di apatia, di disillusione politica e, soprattutto, è stata segnata dalla crisi economica e dall’elevato costo della vita con un’impennata dei prezzi dei generi di prima necessità; mettendo da parte il fattore etnico da sempre determinante nelle elezioni.
Quattro sono i candidati in corsa per la presidenza – in Kenya si voterà anche per le legislative – tra cui il vicepresidente William Ruto e Raila Odinga, ex leader dell’opposizione e ora sostenuto dal presidente uscente Uhuru Kenyatta. A contendersi la poltrona più alta del paese anche gli avvocati David Mwaure e George Wajackoyah – una eccentrica ex spia che vuole legalizzare la cannabis – con pochissime chance di vittoria. Le elezioni si prospettano come un serrato duello tra Ruto e Odinga. Chi vincerà? È difficile dirlo, sembra quasi demandato a un lancio di monetina: tutto si giocherà all’ultimo voto.

Oligarchie e loro interrelazioni malate alle urne

I due favoriti, i cui ritratti campeggiano su enormi cartelloni pubblicitari in tutto il paese, sono volti noti ai keniani. Odinga, 77 anni, è un veterano della lotta democratica, che ha vissuto il carcere prima di diventare primo ministro (2008-2013); si candida alla presidenza per la quinta volta. Ruto, 55 anni, ha ricoperto la carica di vicepresidente per quasi un decennio come delfino del presidente in carica Kenyatta, che lo aveva designato come suo successore. Ma le cose sono poi andate diversamente: un’alleanza inaspettata tra Kenyatta e Odinga lo ha messo da parte già nel 2018. Con un capovolgimento della politica keniana, del resto molto versatile, Odinga è diventato il candidato del presidente uscente; Ruto, da membro del potere, si è trovato a sfidarlo.

«“Evitate di eleggere un ladro”, ha affermato Kenyatta riferendosi chiaramente, pur senza nominarlo, a Ruto. “Non voglio sentirvi piangere e avere rimorsi di coscienza. Ci sono persone che raccontano storie simpatiche, sono dolci come il miele e sanno essere convincenti, ma sono veleno”» (“AfricaRivista”).

Comunque vadano le elezioni si aprirà una nuova pagina dopo oltre vent’anni di presidenze Kikuyu, la prima e molto influente etnia del paese. Infatti Odinga è un Luo e Ruto un Kalenjin, come sentiamo da Freddie Del Curatolo in questo duetto radiofonico con Angelo Ferrar, avvenuto sulle frequenze di Radio Blackout.

Percentuali di tribalità e affarismo sulla bilancia elettorale keniota

Un sistema corrotto, populista ed elitario

La politica keniana degli ultimi anni è stata segnata da manovre di palazzo che non hanno fatto altro che accrescere la disaffezione della popolazione nei confronti della politica. È aumentata l’apatia soprattutto tra i giovani che hanno risposto con meno entusiasmo all’iscrizione nelle liste elettorali. I 22,1 milioni di elettori iscritti dovranno votare per il presidente, ma anche per i parlamentari, i governatori e per circa 1500 funzionari locali elettivi.
C’è disillusione e sono in molti coloro che pensano che la politica non risolverà i problemi della gente, chiunque verrà eletto farà le stesse scelte del suo predecessore. E poi c’è un paese afflitto dalla corruzione che è diventata endemica. Odinga nella sua campagna elettorale ha proprio dato la priorità alla lotta a questo flagello, nominando come vicepresidente l’ex ministro Martha Karu, ritenuta una donna inflessibile proprio sul tema della corruzione, e denunciando i procedimenti legali contro il compagno di corsa di Ruto, Rigathi Gachagua.
Lo sfidante di Odinga ha impostato tutta la campagna elettorale ergendosi a paladino del popolo, promettendo aiuti e lavoro quando tre keniani su dieci vivono con meno di 2 dollari al giorno, secondo la Banca Mondiale…

… e il Fmi “supporta” la crisi

A tenere banco, però, in questa campagna elettorale, è stato il tema del potere di acquisto e la crescita drammatica dei prezzi dei generi di prima necessità.

Eastleigh, Nairobi

Nairobi, Eastleigh in uno scatto di Leni Frau

Un fattore destabilizzante per il Kenya, locomotiva economica dell’Africa orientale, scossa prima dalle conseguenze della pandemia da Covid, poi dalla guerra in Ucraina e infine da una grave siccità che non si vedeva da 40 anni. E a pagarne le conseguenze sono tutti: la gente che acquista sempre meno e i commercianti frustrati dall’innalzamento dei prezzi dei generi alimentari. In questo contesto la questione economica potrebbe soppiantare il voto tribale, da sempre fattore chiave presente nelle cabine elettorali.

Tè, caffè; parchi, spiagge… golf e slum

Nonostante ciò il Kenya è da sempre una delle economie più dinamiche dell’Africa orientale e si è sempre preso cura della sua immagine di hub regionale. Il suo profilo è atipico in Africa: relativamente poche risorse naturali ma un notevole dinamismo economico, in particolare nel settore dei servizi. L’agricoltura è anche uno dei suoi pilastri (22% del Pil) e la principale fonte di esportazione (tè, caffè, fiori). Dopo un calo dello 0,3% correlato alla pandemia del 2020, l’economia del Kenya ha iniziato a riprendersi nel 2021.
Un altro fattore determinante è il turismo, grazie alla cinquantina tra parchi e riserve naturali e alle coste dalle acque cristalline dell’oceano Indiano, che hanno attratto, nel 2021, circa 1,5 milioni di visitatori e che sta crescendo nell’anno in corso. Ma i prezzi del carburante e del cibo sono aumentati vertiginosamente negli ultimi mesi, in particolare quello della farina di mais – cibo base – alimentando così la frustrazione in un paese afflitto dalla corruzione endemica.

Grafico della corruzione percepita nel periodo 2012-2021 in Kenya

Nel 2021 il Kenya è stato classificato al 128esimo posto su 180 paesi da Trasparency International. Le diseguaglianze, inoltre, sono evidenti in Kenya, dove i campi da golf e gli slum possono essere adiacenti e dove il salario minimo mensile è di 15.120 scellini (124 euro). Secondo la ong Oxfam, il patrimonio dei due keniani più ricchi è maggiore del reddito combinato del 30% della popolazione, ovvero 16,5 milioni di persone.

L’impianto tribale di una nazione giovane

La popolazione di circa 50 milioni di persone è per lo più giovane e cristiana. Degli oltre 40 gruppi etnici, i Kikuyu sono il gruppo più numeroso, davanti ai Luhya, ai Kalenjin e ai Luo. Il fattore etnico da sempre gioca un ruolo fondamentale nello stampo elettorale del voto tribale, ma è anche stato un fattore destabilizzante. Sono trascorsi, infatti, quindici anni dalle violenze postelettorali del 2007-2008 che hanno provocato più di 1100 morti, principalmente negli scontri da Kikuyu e Kalenjin. Una ferita mai rimarginata che pesa ancora oggi.

Fotografia del voto tribale: ogni centimetro è coperto dai cartelloni elettorali nel 2017 nella Contea di Nanok, zona Masai

Nel 2017, la contestazione dei risultati elettorali da parte di Odinga ha provocato una severa repressione delle manifestazioni da parte della polizia che ha provocato decine di morti. I risultati elettorali, negli ultimi vent’anni, sono sempre stati contestati, anche davanti alla Corte Suprema nel 2013 e nel 2017, queste ultime presidenziali sono state annullate per “irregolarità” – una prima volta in Africa – e Kenyatta è stato eletto con un nuovo scrutinio.

Lo spettro di possibili violenze incombe anche su queste elezioni presidenziali. La Commissione nazionale per la coesione e l’integrità, un organismo di promozione della pace creato dopo le violenze del 2007-2008, ha stimato in un recente rapporto che la probabilità di violenze nel periodo elettorale è del 53%. L’augurio è che dentro le urne non prevalga il fattore etnico, ma la volontà di rendere stabile la democrazia in Kenya.

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Nord Kivu: la tregua tra Ruanda e Congo resuscita l’M23 https://ogzero.org/nord-kivu-la-tregua-tra-ruanda-e-congo-resuscita-lm23/ Thu, 14 Jul 2022 10:52:21 +0000 https://ogzero.org/?p=8201 La distrazione globale derivata dalla guerra in Europa nasconde ancora di più tensioni, conflitti esplosi o quasi, guerre prolungate e seriali. Lo scontro in Nord Kivu è tra i più annosi e coinvolge diversi interessi, in particolare quelli tra comunità che si contendono interessi e sfruttamento delle risorse della regione. I due protagonisti di questa […]

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La distrazione globale derivata dalla guerra in Europa nasconde ancora di più tensioni, conflitti esplosi o quasi, guerre prolungate e seriali. Lo scontro in Nord Kivu è tra i più annosi e coinvolge diversi interessi, in particolare quelli tra comunità che si contendono interessi e sfruttamento delle risorse della regione. I due protagonisti di questa disputa abitano a Kigali e Kinshasa; si sono scatenate guerre, massacri, sfruttamenti e il controllo di miniere maledette di metalli preziosi legittima il perdurare delle tensioni, che richiedono la presenza di antagonisti, conosciuti e riconoscibili. Il movimento M23 nelle province nordorientali della Repubblica democratica del Congo serve per evitare che sui Grandi Laghi scenda il livello di scontro; un Movimento che si muove sempre più come un esercito regolare con la stessa potenza di fuoco, come sottolinea “Nigrizia”. Angelo Ferrari, contestualizzando gli eventi e segnalando il ruolo autonomo di M23 come attore in commedia, ha scritto per l’agenzia Agi questa breve nota che riprendiamo, lasciando immaginare l’incertezza come sistema per perpetuare lo scontro… e gli affari. 


Cosa sta succedendo nel Nordest della Repubblica democratica del Congo?

Ma, soprattutto, a cosa è servito l’incontro del 6 luglio a Luanda tra il presidente congolese, Felix Tshisekedi e quello ruandese, Paul Kagame, mediato dal loro omologo angolano, João Lourenço? Probabilmente a nulla.
I tre dovevano trovare una soluzione alle crescenti tensioni tra Congo e Ruanda che si sono acuite con l’intensificarsi delle attività nel Nord Kivu del gruppo ribelle M23, che si riteneva sconfitto dal 2013, ma che ha ripreso le sue attività provocando decine di vittime e migliaia di sfollati. Kinshasa sostiene che i ribelli siano sostenuti dal Ruanda, quasi una longa manus di Kigali che, invece, nega in maniera decisa.
Smentite che non hanno fatto calare la tensione che, anzi, si è riaccesa dopo l’annuncio del 13 giugno scorso da parte delle Forze armate della Repubblica del Congo (Fardc) che hanno parlato di «un’occupazione della città di confine di Bunagana» da parte delle Forze di difesa del Ruanda (Rdf). A dimostrazione che non si tratta solo di una disputa tra diplomazie ci sono le manifestazioni della popolazione a Goma: una vera e propria rivolta, una marcia verso il confine con il Ruanda al grido “dateci le armi che sconfiggeremo il nemico”, cioè Kigali. Manifestazioni che sono state sedate dalle forze di polizia del Congo.

Nord Kivu

Cessate il fuoco in Nord Kivu: fare la tregua senza l’oste

I tre presidenti, il 6 luglio, si erano accordati per un “cessate il fuoco”, annunciato in pompa magna dal capo di stato angolano e mediatore tra le parti.

«Sono felice di annunciare che abbiamo compiuto progressi, dal momento che abbiamo concordato un cessate il fuoco», ha detto pomposamente Lourenço.

Il presidente del Congo e quello del Ruanda, dal canto loro, avrebbero anche deciso di «creare un meccanismo di monitoraggio ad hoc», che sarà guidato da un ufficiale dell’esercito angolano. La tensione tra i due paesi è “inutile”, ha spiegato Tshisekedi, perché «costituisce un fattore destabilizzante e non contribuisce allo sviluppo e al benessere dei rispettivi popoli». Kagame, dal canto suo ha ritenuto “soddisfacenti” i risultati del vertice di Luanda che prevede, tra l’altro, l’immediata cessazione delle ostilità e il ritiro immediato e incondizionato dell’M23 dalle sue posizioni.

Il giorno dopo il vertice arrivano le dichiarazioni dell’M23, una doccia fredda sugli accordi. Il portavoce del movimento ribelle, Willy Ngoma, spiega che «l’accordo non coinvolge l’M23. Siamo congolesi, non ruandesi. Se c’è un cessate il fuoco, può essere solo tra noi e il governo congolese, non abbiamo niente a che fare con il Ruanda. Ci viene chiesto di partire da qui, ma per andare dove? È impossibile».

Probabilmente a Luanda si sono dimenticati di invitare il terzo attore delle tensioni in Nord Kivu, oppure credono davvero che i ribelli in questione siano realmente sostenuti da Kagame. Non è una questione da poco. L’M23 è un gruppo ribelle a maggioranza tutsi – la stessa etnia che ha le redini del potere a Kigali – che ha ripreso le ostilità alla fine dell’anno scorso, accusando Kinshasa di non aver rispettato gli accordi sulla smobilitazione e il reinserimento dei suoi combattenti.

Ascolta “Nord Kivu: la consuetudine alla guerra” su Spreaker.

Ma la trama si infittisce

Nessun accordo, nessun cessate il fuoco ma solo una tabella di marcia comune “con obiettivi e attività chiari”, in vista del prossimo vertice a Luanda. Così il 12 luglio il governo di Kigali ha ufficialmente smentito la firma o un qualsiasi accordo di cessate il fuoco nell’Est della Repubblica democratica del Congo, come invece annunciato il 6 luglio. La smentita è stata diffusa dal ministro ruandese degli Esteri e della Cooperazione, Vincent Biruta, che ha poi aggiunto che la «disinformazione e il populismo stanno minando l’obiettivo generale di raggiungere la pace» nella Repubblica democratica del Congo.

Nord Kivu: tutto da rifare?

Pare proprio di sì.
Le schermaglie diplomatiche si aggiungono a quelle sul campo e non fanno altro che surriscaldare gli animi. La contesa armata tra Fardc e M23 continua e a farne le spese, come sempre, la popolazione che si trova tra due fuochi, senza comprenderne bene la ragione, sa solo che deve fuggire dalle proprie case; e sono già 170.000 i profughi di questo ritorno di fiamma del conflitto. Il Nord Kivu continua a essere teatro di scontri e delle scorribande di gruppi armati, ribelli o no che siano, da ormai 25 anni e il governo congolese non riesce a governare il territorio dove ha decretato, l’anno scorso, lo stato di emergenza che consente all’esercito pieni poteri e libertà di azione, con risultati, tuttavia, molto scarsi ed è comprensibile visto che neanche i tre presidenti, quello congolese, quello ruandese e quello angolano, riescono a concordare una dichiarazione comune.

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Nairobi https://ogzero.org/studium/nairobi/ Mon, 04 Jul 2022 13:18:50 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=8055 L'articolo Nairobi proviene da OGzero.

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Nairobi

Una guida virgiliana conduce il lettore per quartieri postcoloniali e bassifondi di Nairobi, dove i grattacieli e la savana coesistono nel traffico. La tutela ambientale sfida i limiti della sopravvivenza, come capita anche agli abitanti della città: i progetti di riciclo dei rifiuti coincidono con il recupero della condizione umana degli stessi raccoglitori, recupero di dignità assimilabile al tentativo di restituire una sana ferinità agli animali ormai urbanizzati.
Attraverso un viaggio negli spazi urbani gli autori scardinano i luoghi comuni dell’immaginario occidentale grazie a visioni di immagini e parole che non lasciano spazio al buonismo e compongono un preciso ritratto socio-antropologico. I testimoni di questa umanità sono calati negli odori, nei gusti, nei colori e nei materiali che costruiscono la città. Grazie a questa matericità non si sente il bisogno di analisi azzardate, ma tutto è sotto gli occhi: è sufficiente leggere i racconti di aneddoti ed eventi alla base della nascita di uno snodo commerciale che trae sviluppo dal crogiolo di comunità eterogenee, che lo rendono quel «bel casino che non cambierà mai».
Gli autori vanno oltre la fascinazione esotica che può averli attratti all’inizio della loro avventura africana e invitano a superare gli stereotipi da “safari cittadino” tipico dello sguardo occidentale.
Le fotografie sono di Leni Frau, coautrice del volume. Le mappe interattive (che compariranno qui nel sito) e quelle statiche negli interni del libro sono di Luigi Giroldo.



Consulta la mappa interattiva

«Nairobi è una capitale d’Africa che si affaccia al 2022 con carattere da vendere e con un guardaroba che risponde alle diverse aspettative del galateo della modernità in una qualunque importante città africana, americana, europea o dell’Asia. A ogni ora del giorno o della notte, crypto-valute, mobile-money e banconote all’antica cambiano rapidamente proprietario a Nairobi.
A prescindere dal volume del portafoglio individuale, i cittadini della capitale sono cittadini del mondo; contribuiscono al processo di emancipazione della città, all’economia del paese e a corroborare un’identità e una cultura che hanno radici sempre più affondate in se stesse, piuttosto che nelle esperienze altrui. Dall’alto del KICC, un tempo l’edificio più elevato del continente e oggi cima minore nello
skyline della città, l’osservatore superficiale potrebbe pensare che a Nairobi sia in vigore quell’apartheid urbano, che separa i ricchi dai poveri. L’orizzonte è infatti interrotto dai grattacieli, tagliato da strade sopraelevate, maculato da ricordi della foresta ancestrale così come da aree residenziali di prim’ordine che si alternano ad altre aree ad altissima densità di popolazione, altrove dette slum. A uno sguardo più attento, queste aree iper-popolate sfuggono alle semplificazioni dello sguardo e custodiscono invece vicende umane e sociali complesse, figlie di un terreno fertile capace di dare frutti. Atrio delle migrazioni interne dai villaggi verso la capitale e viceversa, gli slum ospitano i funzionari dell’economia informale, pilastro sottostimato nelle vicende economiche del paese». [Andrea Bollini, Liaison Officer di Amref Health Italia]

Nairobi

Freddie del Curatolo è giornalista professionista, vive in Kenya dal 2005. Oltre a saggi musicali e romanzi ha pubblicato Malindi Italia, guida semiseria all’ultima colonia italiana d’Africa (2008), il romanzo Safari Bar (2013) e – con Angelo Ferrari – La pandemia in Africa. L’ecatombe che non c’è stata (2021). Dirige dal 2008 Malindikenya.net, il portale degli italiani in Kenya.


nairobi

Leni Frau (nome d’arte di Maddalena Stefanelli) è nata a Cagli (PU) nel 1976. Agente di viaggio e fotografa, vive in Kenya dal 2011. Nel 2013 ha pubblicato il photo-book Sotto una lanterna africana. Nel 2015 ha portato in Italia la mostra itinerante “Mijikenda”. Nel 2018 l’Ambasciata d’Italia in Kenya ha prodotto la sua mostra “Zeinab-Zena”, esposta nel museo di Fort Jesus a Mombasa.



La sezione della serie di città dedicata all’Africa è frutto della cura di un attento africanista, Angelo Ferrari, che ha selezionato autori e aree urbane sulla base di motivazioni che rendono le scelte emblematiche di processi economici, sociali e geopolitici in corso nel continente e che trasformano gli aspetti e la forma di essere comunità urbana attraversata da tutti gli aspetti che rappresentano la storia dell’Africa.

4 ottobre – Incontro con Olympiah Kawira Kathare e Freddie del Curatolo

Il 22 settembre il periodico “Voce&Tempo” ha pubblicato queste due interviste complementari che preludono a un interessante incontro con al centro il Kenya.

30 settembre – Corvetto, Kenya (Centro internazionale di Quartiere)

Elezioni 9 agosto 2022

Vittoria in sospeso in Kenya

Francesca Sibani per la sezione africana de “l’Internazionale” ha riassunto la situazione attuale con sobrietà che manca ad altre testate allarmiste al limite dello scandalismo.
Il suo riassunto della situazione successiva alla proclamazione contrastata del presidente Ruto alle presidenziali keniane riporta i fatti:

«È stato annunciato il 15 agosto il vincitore delle presidenziali keniane svolte sei giorni prima: William Ruto, 55 anni, vicepresidente nell’amministrazione uscente di Uhuru Kenyatta, ha ottenuto il 50,5 per cento dei voti, battendo di stretta misura l’avversario Raila Odinga, al suo quinto tentativo di conquistare la presidenza. Da “venditore di polli al più alto incarico del paese”: molti siti e quotidiani keniani hanno riassunto in questi termini la rapida ascesa politica di Ruto, sotto l’ala protettrice dell’ex presidente Daniel arap Moi (morto nel 2020). Per “The East African” Ruto ha vinto grazie a una campagna populista, indirizzata a quella parte della popolazione che si sente “in fondo alla piramide sociale”, presentandosi come un hustler, uno di quelli che si “arrabattano”. Odinga, oppositore di lunga data e leader della coalizione Azimio la Umoja (di cui fa parte anche Kenyatta), ha respinto il verdetto e ha annunciato che farà ricorso alla corte suprema. Del resto, lo scarto tra Ruto e Odinga è stato di appena 233mila voti, e alla proclamazione dei risultati quattro dei sette componenti della commissione elettorale hanno denunciato l’“opacità” del conteggio finale. Il 16 agosto un funzionario della commissione elettorale è stato trovato morto nella provincia di Kajiado (sud del paese).

Odinga aveva già contestato le presidenziali dell’agosto 2017. Annullato dalla corte suprema per irregolarità, il voto era stato ripetuto a ottobre. Odinga però si era ritirato perché secondo lui non c’erano le condizioni per uno scrutinio trasparente ed equo, e la vittoria era andata a Kenyatta».

Da ultimo Sibani propone un approfondimento da “The Nation” e “The Economist” che tracciano il quadro comunque fosco che vede un self-made man populista il cui vice è palesemente corrotto che si è aggiudicato la vittoria forse con metodi poco trasparenti, coniando un nuovo termine per descrivere il nuovo sistema al potere, la kakistocrazia; e un vecchio protagonista della politica tribale, che ha sempre partecipato all’agone politico in rappresentanza della casta e del sistema dinastico:

  • Per approfondire L’analista politica keniana Nanjala Nyabola pubblica su “The Nation” un commento dai toni personali, in cui spiega perché Ruto è un impresentabile. Allo stesso tempo elenca gli errori di Odinga. Anche l’“Economist” mette in evidenza il passato “problematico” del presidente eletto, paragonandolo ad autocrati come Vladimir Putin e Narendra Modi.

L’“Atlante delle Guerre” ha giustamente segnalato che un primo successo è stata una campagna elettorale pacifica che ha veicolato il dibattito al di là delle divisioni etniche del paese (come si evince dal podcast che segue) e che le contestazioni si risolveranno in tribunale e non in scontri con migliaia di morti in piazza tra kikuyu e e kalenji. L’economia è stato il tema dominante della campagna elettorale. Gli effetti della pandemia e le interruzioni nelle forniture di grano dovute alla guerra in Ucraina hanno inasprito la crisi economica nel paese, aumentando il costo dei generi alimentari, i livelli di disoccupazione e il debito nazionale.

Freddie del Curatolo ha sentito l’esigenza – innanzitutto per salvaguardare gli interessi economici del paese che vive di turismo (e di conseguenza i suoi propri interessi) – di chiarire che questa volta, anche per la prova di responsabilità dello sconfitto, non si assiste a incidenti o massacri come nelle due passate elezioni: il caos esiste solo nei titoloni redatti in Italia per i media mainstream italiani, come descrive in questo clip da Malindi. Si sono registrati alcuni copertoni incendiati a Kibera – slum di Nairobi fedele a Odinga (e leggendo il libro di Freddie potrete orientarvi meglio nella capitale e nei suoi umori) – subito dopo l’annuncio; scarse reazioni violente anche sul lago Vittoria, feudo luo di Odinga… ma tutto rientra nella norma.

18 agosto 2022, Freddie del Curatolo da Malindi, Kenya:

Fin qui la fotografia attuale del paese.

Per il futuro bisognerà forse fare alcune valutazioni sul fatto che il mondo finanziario e il cuore degli affari keniano che ruota attorno al Mount Kenya ha fatto la differenza – dal punto di vista tribale, visto che non aveva candidati in lizza – e ha preferito il corrotto Rigathi Gachagua (il vice di Ruto) alla vice candidata da Odinga – anche lei appartenente ai kikuyu come Gachagua –, Martha Karua, che si presentava come impegnata sul fronte anticorruzione; forse, l’oligarchia finanziaria, in contrasto con i sondaggi di “Afrobarometer“, ha voluto inviare un messaggio relativo al fatto che i processi che regolano l’economia in Kenya non possono trascendere dalla corruzione?

Ma la vera sfida adesso è in politica estera: bisogna vedere se Ruto confermerà i cospicui affari conclusi e sanciti con le aziende cinesi, oppure farà scelte atlantiste… a quel punto si capirà forse quei 233.000 voti da chi sono stati fatti conteggiare da una parte o dall’altra. Tuttavia, se leggerete il libro su Nairobi di Freddie del Curatolo e Leni Frau, potrete non stupirvi se la gestione del potere lascerà spazio anche a Odinga e alla sua fazione e comunità, per uscire da miseria, siccità, pandemia, seguendo linee interne alla nazione e al caos regolato della sua capitale, imperscrutabili ai media occidentali e invece ben chiare ai due autori che vivono in Africa orientale da anni.


Mentre il volume dedicato a Nairobi scritto e illustrato da Freddie e Lena andava componendosi si è consumata la campagna elettorale per l’elezione del presidente del Kenya del 9 agosto. Su Radio Blackout abbiamo registrato durante la trasmissione Bastioni di Orione del 28 luglio questo stimolante duetto tra Freddie del Curatolo e Angelo Ferrari:

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]]> Le città visibili https://ogzero.org/studium/le-citta-visibili/ Fri, 29 Apr 2022 16:47:51 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7172 L'articolo Le città visibili proviene da OGzero.

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OGzero nelle città

È possibile individuare un genius loci che rappresenti una costante nel tempo e negli spazi urbani utilizzati? Nella collana “Le città visibili”, sì.

Città rese visibili attraverso la narrazione dell’esperienza personale degli autori, coadiuvati dalle voci dei testimoni e degli abitanti che forniranno un’interpretazione del territorio, della sua trasformazione e degli elementi alieni che proliferano tramite flussi di merci e di persone a provocare le contrazioni di spazi, come le loro estensioni, urbane e demografiche. Autori che esamineranno le strategie di conservazione monumentale e di “reinterpretazione delle rovine” viaggiando tra smart cities, improntate alla sicurezza digitale, che accentuano – costituendosi come ascensori e discensori sociali – la differenza nella struttura e nella mobilità urbana tra periferie e downtown. Esploreranno i luoghi di aggregazione attorno allo scambio di merci, come i mercati popolari e i centri della grande distribuzione, cercheranno di illustrare il cambio di destinazioni d’uso che prelude ai grandi progetti di infrastrutture e di conseguenza l’impatto sul tessuto urbano. Impossibile non collegare a tutto ciò i flussi migratori, con l’inclusione di nuovi arrivi e l’evoluzione della loro tipologia e l’eventuale marginalizzazione dei migranti – interni o esterni che siano; a cui si correlano anche l’esclusione di massa e lo svuotamento di aree, le ghost-town e i quartieri già progettati e costruiti come ghetti, o la gentrificazione causata da interessi immobiliari.
Gli autori di questa serie ci porteranno per mano nei loro luoghi del cuore, come guide capaci di farci sentire l’atmosfera delle città, permettendoci di intuirne realmente le attuali peculiarità senza dimenticare la Storia passata per quelle strade.

Clicca qui sotto sul nome della città per approfondire



Già Visibili in libreria


GERUSALEMME NAIROBI FREETOWN LUSAKA BANGKOK BRAZZAVILLE BOBO-DIOULASSO

In questa sezione venite indirizzati a materiali e indicazioni inerenti ai volumi già pubblicati nella collana dedicata alle città rese visibili attraverso la penna e gli occhi di autori che conoscono bene il genius loci di ciascuno di quei territori che han dato luogo a quella realtà urbana identificata dal nome della città in copertina.



Visibilità ancora in preparazione


ISTANBUL BEIRUT BUENOS AIRES BAMAKO PECHINO KIGALI PANAMÁ y COLÓN

La produzione di un libro proviene da un lungo percorso di individuazione della città che può suscitare interesse all’interno della collana, del suo potenziale autore e poi lo sviluppo del testo a seguito della raccolta degli argomenti e delle testimonianze, delle immagini e delle mappe da integrare. Ma anche del confronto e della elaborazione della sostanza che sta costituendo la base del futuro volume in via di realizzazione. Queste sono per ora le città su cui abbiamo cominciato a focalizzare la nostra attenzione e che sono già state affidate alla penna di esperti conoscitori di quelle comunità urbane.

Intanto traspaiono potenziali visibilità altrove…


Esistono poi situazioni urbanistiche e di agglomerazione umana particolarmente interessanti e che non riusciamo ancora a ricondurre a un formato editoriale di pubblicazione da proporre in libreria. Però assumono già una forma tale che… racchiudono già in embrione una… svolgono una narrazione riconducibile a… colgono una particolare situazione metropolitana che… riteniamo abbiano diritto a venire divulgate in questa sezione delle nostre proposte. Insomma finiscono con l’essere tutte collegate dal filo rosso della abitabilità di un territorio, dallo sviluppo della forma “città” e potrebbero contenere in sé un’idea che informa l’intera superficie metropolitana a cui ricondurre magari una nuova impresa libraria.

Per ora aggiungiamo queste suggestioni al dossier dedicato alle comunità urbane, come proposte di lettura collaterali ai volumi:

_ L’ultimo racconto di Diego Battistessa si dipana tra Savador de Bahia, Liverpool/Mancheser e prende spunto da Gorée/Saint-Louis. Il Triangolo del Mercantilismo

_ Avevamo cominciato con le favelas brasiliane. Il racconto di Diego Battistessa si dipana tra Rio de Janeiro, São Paulo e Brasilia

_ E proseguito con il 40ennale della costituzione di Yamoussoukro, la capitale della Costa d’Avorio, descritta da Angelo Ferrari e fortemente voluta da Boigny

400 anni di modello geopolitico schiavista

_ Per fondare un Capitalismo duraturo bisogna “scoprire” territori da “colonizzare” esterni al mondo regolato da diritti, i cui abitanti vanno deumanizzati per motivare la loro schiavizzazione.
E questo è stato perpetuato dal sistema negli ultimi secoli con poche varianti, dettate soprattutto dalle esigenze della tecnologia e dalle richieste di beni da depredare e di genti da sfruttare.

_ La terra dei caporali: dovunque lo schiavismo perpetua il suo orrore c’è un Eichmann che obbedisce?
Quando Diego ci ha proposto di analizzare questa triangolazione di porti nel colonialismo storico abbiamo pensato che poteva essere utile individuare in quali meccanismi il capitalismo si è andato perpetuando fin dalle sue basi date dall’allargamento dei potenziali mercati di merci e braccia con le scoperte geografiche della modernità (che non a caso viene datata da quel periodo di nuove tecnologie come la polvere da sparo, e le nuove rotte marittime più convenienti), adattandoli via-via alla “tecnologia” più attuale che sostiene la logistica da un lato – tracciando le rotte –, e quali organizzazioni possono sovrintendere all’approvvigionamento di manodopera schiavizzata nell’interno, che si avvale di percorsi paralleli o subalterni alle stesse vie battute da armi, droga, merci grezze dall’altro. Questi sono i meccanismi innaturali che tengono in piedi il capitalismo, senza i quali quel sistema energivoro e oligarchico non potrebbe reggersi. E l’operazione di Diego funge molto bene da memoria di quel che è stata la culla dell’attuale sfruttamento globale della migrazione, ma anche a rievocare quegli stessi meccanismi inventati con il mercantilismo e che regolano tutt’ora economia, politica e morale.
Ovviamente maggiore è l’investimento e la conseguente copertura degli stati-nazione, più ampi sono gli interessi e più si allarga il coinvolgimento finanziario, incontrastabile anche se nocivo quando la soglia del capitale profuso supera il livello di rischio di rientro qualora l’operazione fallisse: sia essa incentrata su estrazione, sfruttamento, riduzione in schiavitù, saccheggio e occupazione di territorio, ammantato da regole di controllo commerciale adattate agli stati più potenti. E tuttora diversamente – ma non meno ferocemente – coloniali, a cominciare dall’apartheid israeliano.

_ Saccheggio e debito infrastrutturale: le triangolazioni imperialiste descritte dal presidente del Burkina Faso Ibrahim Traoré sembrano – nel tentativo di collegarsi all’insegnamento anticoloniale di Sankara – ricalcare le stesse impronte triangolari su cui si fonda il capitalismo dal mercantilismo Secentesco in poi, che è l’argomento di questa serie di articoli di Diego Battistessa attorno a tre città: Salvador de Bahia, Gorée/Saint-Louis, Liverpool/Manchester.
La triangolazione si ripete identica con i medesimi meccanismi del mercantilismo emerso con la nascita dell’epoca industriale, perché il depauperamento dei territori di provenienza è prodotto dal saccheggio delle risorse da parte del capitalismo globale che attinge ai beni africani attraverso l’estrattivismo e impone infrastrutture che creano debito per paesi che sono così schiacciati dalla finanza mondiale; attraverso l’ipocrisia della Comunità europea che stanzia fondi contro la fame e poi sottrae ai pescatori proprio di Saint-Louis i prodotti dell’Oceano per farne mangimi per salmoni destinati a tavole non esattamente affamate (film di Francesco De Agustinis, Until the end of the world); lasciando “sgocciolare” soltanto la gestione della manodopera ai livelli inferiori di mera manovalanza mantenuta nella miseria e marginalità – e in alcuni casi nemmeno quella –, in modo da essere spinta a emigrare nella terra dei caporali dove il marchio “clandestino” cancella i diritti, riproponendo il modello dell’apartheid; e dovunque abbassa i livelli di contrattazione delle classi lavoratrici. Una migrazione gestita attraverso le organizzazioni di intermediazione che usano gommoni quando va bene, se non scafi assemblati con saldature di pezzi di acciaio, imbarcazioni assimilabili alle galere dello schiavismo seicentesco. Ma più pericolose.

_ Meglio le stive delle galere di quelle dei barconi? Una tratta gestita da scafisti africani, ma organizzata grazie alle leggi degli europei che realizzano le condizioni perché i padroni possano usufruire di manodopera schiava a basso o nullo costo, facendo finta di chiudere le frontiere per lasciar passare solo i sopravvissuti tra i disperati pronti a tutto e privi di diritti, senza documenti e quindi inesistenti come umani: non pesano in nessun bilancio di spesa e nella stessa condizione degli africani deportati in America sulle galere.

_ Capitali europei, merci esotiche… schiavi africani. Forse per seguire il bandolo storico della matassa ordita da Diego Battistessa si può partire da Liverpool, dove si sono stanziati i denari per armare i vascelli, usando i proventi derivanti dal commercio di schiavi – e, se ci si chiede ancora come sia stato possibile che una cultura come quella inglese (in grado di pensare di ripulirsi la coscienza riconoscendo in un museo le sue colpe, esibendole e così annientando nuovamente la cultura africana, collocata in bacheca e resa innocua) abbia potuto ordire una tratta così razzista, bastano le immagini di agosto 2024 che ritraggono i fanatici sovranisti britannici impegnati nel loro sport preferito, la caccia all’emigrato.


Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

Anche se, mettendo al centro la manovalanza, salpare da Gorée (o meglio Saint-Louis) è probabilmente il moto più immediato, perché viene umanamente spontaneo seguire il destino dei deportati africani.


Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

O piuttosto considerare centrale Bahia, dove si assorbiva la manodopera schiavizzata e si caricavano preziose merci per i porti occidentali… Liverpool/Manchester in testa, a chiudere il cerchio di The Birth of a Capitalism (per parafrasare il film di Griffith, forse il più nazionalista, e razzista, della storia del cinema).


Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

Sta di fatto che l’importanza dei porti lievita con l’apertura di rotte commerciali globali che spostano sugli oceani gran parte del commercio dell’interno, che si configura come percorso per raggiungere il porto attrezzato più vicino e competitivo. Infatti questa triangolazione documentata da Diego Battistessa si inserisce in un sistema che creò molte altre triangolazioni e tutte si vanno conglobando all’interno di un unico sistema che sullo Schiavismo costituì (e continua a costituire) l’embrione dello sfruttamento globale chiamato Capitalismo.


Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

Le grandi capitali senza storia 

Capitali: sono le città che ospitano le sedi del governo di uno stato. Spesso sono rappresentative anche dello spirito del paese che le ospita, quando non capita è perché sono frutto di una operazione artificiale. Abbiamo già considerato l’atto di erigere capitali dal nulla, in particolare dando un quadro del sistema di potere militare birmano con la capitale Naypyidaw; oppure con la altrettanto spettacolare Brasilia –  comunque in questi 60 anni di “vita” maggiormente percorsa dalla Storia, non foss’altro perché il visionario che le ha insufflato lo spirito si chiamava Niemeyer.

Tutti esempi accomunati dalla pretesa di imporre una agglomerazione dove manca la comunità, tenuta insieme da cultura, storia, riconoscimento nazionale, riferimento amministrativo e commerciale, vie e snodo di traffici… tutte prerogative mancanti a Yamoussoukro

Tutto questo è sviluppato da Angelo Ferrari che coglie l’occasione del quarantesimo anniversario della hybris di Boigny, che volle far assurgere il suo villayet avito al rango di grande capitale. Ma ciò che non può vantare una grande tradizione, non è stata attraversata dalla storia o non può vantare grandi produzioni culturali è destinato a trasmettere un senso di vacuità, di artificioso e una freddezza che deriva dalla mancanza di sostrato culturale e di storie. Oltre che di Storia. Questa la descrizione di una capitale – Yamoussoukro – voluta dal dispotico padre della patria ivoriana.  


Yamoussoukro

Favelas nelle città

Favela: una parola brasiliana che oramai è entrata nel nostro lessico e nell’immaginario collettivo. Sei lettere che descrivono un luogo che abita una dimensione marginale, periferica e volontariamente dimenticata dallo stato. Favelado/a colui o colei che è costretto a una (non) vita nella favela.
La spinta all’industrializzazione dell’Estado Novo di Getúlio Vargas trascinò centinaia di migliaia di migranti nell’ex Distretto Federale all’interno del disegno del Estado Novo, creando un’esplosione delle baraccopoli, il cui nome istituzionale era ormai diventato favelas.

La sconfitta delle elite pauliste a livello nazionale con la dittatura di Getulio Vargas non portò però a uno stop di quell’impulso che trasformò completamente il volto urbano di São Paulo, coprendo i terreni delle vecchie fazendas con nuovi e moderni quartieri e proiettandosi verso un grande salto industriale che si sarebbe pienamente compiuto durante la Seconda guerra mondiale. São Paulo aveva già iniziato dunque quel cammino che l’ha portata oggi a essere la città più popolosa del Brasile e suo vero centro economico e finanziario. Negli stessi anni in cui a Rio de Janeiro, l’amministrazione pubblica istituzionalizzava le favelas, a São Paulo entrava in scena il futuro, sotto forma di un edificio oggi iconico, Esther…

Negli anni Quaranta su Rio si riversò un potente flusso migratorio. Su questi migranti stava però per abbattersi una nuova grande “disgrazia” economica, manifestatasi sotto il nome di Brasilia. Progettata infatti come una metropoli futuristica nel mezzo della pianura dello stato del Goiás, Brasilia fu inaugurata il 21 aprile 1960 dall’allora presidente Juscelino Kubitschek.

Un Brasile che viaggiava dunque a due velocità e che negli anni Settanta, con la dittatura militare, inaugurò un progetto politico di sradicamento della favela: furono cacciati fisicamente dalle loro case centinaia di migliaia di residenti. Durante l’amministrazione di Carlos Lacerda, molti furono trasferiti in progetti di edilizia popolare come Cidade de Deus.

Negli anni Ottanta si assistette invece allo scoppio della violenza associata al fiorente commercio di droga, che aveva fatto diventare le metropoli snodi logistici molto importanti per i carichi di cocaina destinati all’Europa. Le favelas, luoghi nei quali lo stato non esisteva, si riempirono di armi e lo spazio lasciato vuoto dalle istituzioni venne presto riempito da gruppi criminali.

Le favelas in Brasile, possono essere caratterizzate con ordini di grandezza diversi a seconda per esempio della densità demografica o dello sviluppo urbano delle stesse: in estensione verticale sulle colline (come quella di Vidigal a Rio de Janeiro) o in estensione orizzontale (come Cidade de Deus a Rio de Janeiro o Paraisópolis a São Paulo, in modo paradossale perché a ridosso di un’estensione verticale di un grattacielo di lusso al di là del muro – apparentando questo dossier con quello che OGzero va sviluppando sulle Barriere).

La tensione tra le due dimensioni abitative della città, quella delle favelas e quella “ordinata” del Brasile proiettato nel futuro, rimane alta. Un esempio di questo è il Parco Nazionale di Tijuca, situato nella zona Sud di Rio de Janeiro, considerato la più grande “foresta urbana” del mondo e dichiarata Riserva della Biosfera dall’Unesco nel 1991. L’integrità di quest’area è stata minacciata dall’avanzare degli insediamenti informali, che sono cresciuti esponenzialmente sulle pendici delle montagne e delle colline che formano il Parco Nazionale.

Il 19 novembre 2008 nella città di Rio de Janeiro venne installata la prima UPP – Unità di Polizia di Pacificazione, il germe di un nuovo paradigma di presenza militare del governo in aeree fino a quel momento completamente dimenticate. Da quella cultura repressiva sono usciti quelli che hanno ucciso Marielle Franco, filha da Maré (figlia carioca della favela Maré). Marielle come Carolina Maria de Jesús, voce afrobrasiliana delle favelas paulista che negli anni Sessanta prese letteralmente “a pugni” il Brasile e il mondo squarciando il velo che copriva le reali condizioni di vita dei favelados.

Tutto questo è sviluppato da Diego Battistessa in un flusso analitico e narrativo che abbiamo cadenzato nelle 6 pagine accessibili attraverso i pulsanti che trovate qui


RIO DE JANEIRO SÃO PAULO BRASILIA CIUDADE DE DEUS PARAISÓPOLIS ROCINHA MARÉ GÁVEA CANINDÉ RECIFE

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]]> Cambi della guardia in Africa, e la Russia suona Wagner https://ogzero.org/cambi-della-guardia-in-africa-e-la-russia-suona-wagner/ Thu, 24 Feb 2022 08:45:35 +0000 https://ogzero.org/?p=6471 In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari […]

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In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari in un paese stabile, l’indigenza delle popolazioni è funzionale all’assoggettamento del tessuto sociale, basta frenare le partenze per oltremare… con le buone (accordi capestro e che calpestano i diritti umani) o con le cattive (presenza militare mercenaria ben pagata).

[fin qui… OGzero]

Qui una rielaborazione di due articoli di Angelo Ferrari pubblicati su Africa Rivista e Agi, ampliati per OGzero. Aggiungiamo un podcast realizzato con Edoardo Baldaro (ricercatore alla Scuola Sant’Anna di Pisa, esperto di Sahel) e Stefano Ruzza (professore associato in Scienze politiche all’Università di Torino, responsabile di T.wai – Torino, esperto di agenzie di sicurezza).


Spostare il confine del Mediterraneo

Il Niger è e diventerà sempre di più il bastione italiano nel Sahel. L’Italia, nel suo piccolo – sia geografico sia diplomatico – ha deciso di rilanciare la sua presenza nel continente africano proprio privilegiando il rafforzamento di quella militare in parte a scapito della cooperazione allo sviluppo, soprattutto in chiave anti-immigrazione. L’obiettivo è fermare i flussi proprio alle porte della Libia, cioè in Niger, con la presunzione e l’illusione che blindando i confini i problemi possano restare dall’altra parte. Spostare, dunque, più a Sud il confine del Mediterraneo. Ci riuscirà? Non è del tutto scontato.

In Niger la presenza militare è rilevante. Si tratta di 290 militari, 160 mezzi terrestri e 5 aerei. Mentre il rapporto tra spese militari e cooperazione allo sviluppo è di 10 a 1. Un po’ quello che è successo in Afghanistan, con le conseguenze, dopo il ritiro occidentale, che sono sotto gli occhi di tutti dal punto di vista umanitario. Tutto ciò, evidentemente, confligge con un principio che dovrebbe accompagnare le missioni militari all’estero in generale, e in particolare in Africa, è cioè quello per cui creare le condizioni di sicurezza nelle aree di crisi è indispensabile per poter realizzare anche le missioni civili e di sostegno socio-economico che aiutino i paesi interessati a costruire o ricostruire i loro apparati pubblici e a sviluppare le loro economie, a loro volta premessa indispensabile per migliorare le condizioni di vita della popolazione e stabilizzare il contesto locale e regionale.

Il Mali lasciato dagli occidentali

Il sentimento antifrancese che è montato in buona parte del Sahel deriva proprio da questo. Cioè le popolazioni hanno visto un gran numero di militari occidentali, ma nessun cambiamento sostanziale, non solo nella sicurezza, ma soprattutto nelle condizioni di vita reale. La precarietà “umanitaria” si è aggravata. La lezione del Mali dovrebbe insegnare qualcosa anche a noi italiani. Non a caso il presidente del Niger, Mohamed Bazoum, si è detto molto “preoccupato” per il ritiro dei francesi e degli occidentali in generale dal Mali.

A questo punto può risultare utile ascoltare le considerazioni sulla situazione dopo la chiusura di Barkhane e il subentro conseguente dei contractor russi, oltre al confronto tra le diverse reazioni nei paesi subsahariani, con Stefano Ruzza ed @EdoardoBaldaro

 “Il senso di Wagner per le crepe: le interconnessioni con le giunte del Sahel?”.

La “fortuna” del Niger, il paese più povero al mondo

Il Niger, tuttavia, interessa moltissimo all’Italia e non si tira indietro, lo ha dimostrato nel recente passato aprendo un’ambasciata nel 2017 e dal 2018 con la “Missione bilaterale di supporto” – militare. Il Niger, dunque, è un partner strategico e, nelle intenzioni del governo italiano, può rappresentare un’opportunità di business per l’Italia. L’Italia è tra quei paesi che guardano con interesse al crescere di questo mercato e in generale a quello di tutta l’area saheliana e la presenza dell’ambasciata italiana a Niamey ha anche il significato di voler accompagnare quanto più possibile le imprese italiane che vorranno avviare affari in questo contesto relativamente ancora incontaminato. Queste le intenzioni del governo italiano. Ma, diciamo noi, occorre arrivare per tempo. Per l’Italia, dunque, il Niger è un paese stabile – e questo aiuta – ma non si può dimenticare il passato recente. Il paese è sempre stato il crocevia di traffici illeciti, dalla droga alle armi, dal riciclaggio dei soldi sporchi alla tratta degli esseri umani.

Le fortune del Niger – se così si può dire – e dei suoi governanti, sono derivate proprio da questo. Un paese che ha fatto dell’illecito la ragione dei propri guadagni.

È il paese più povero al mondo, ma, Mohammad Issoufou, ex presidente nigerino – ha governato il paese per dieci anni fino al 2021 – ha speso milioni e milioni di dollari per acquistare armi, elicotteri e aerei da combattimento russi e francesi, tradendo la sua piattaforma elettorale di stampo socialista-progressista, che lo ha portato al vertice dello stato, impoverendo ancora di più la sua gente. Il suo successore, Bazoum, va nella stessa direzione, non a caso sul finire del 2021 ha acquistato dalla Turchia nuovi droni. L’impegno e le spese militari prevalgono su tutte, pur di mantenere i privilegi ereditati dal suo predecessore. Le cancellerie di tutto il mondo conoscono a perfezione i due burattinai nigerini, sanno perfettamente con chi hanno a che fare, ma hanno deciso che del Niger si possono fidare. Ma alcune domande, tra le tante, vengono spontanee: per quale ragione le varie milizie e fazioni che controllano il territorio dovrebbero abbandonare i lauti profitti che arrivano dai traffici illeciti che siano di esseri umani, droga, armi o denaro? Quali garanzie sono state fornite? Quali accordi stipulati?

Il governo italiano dovrebbe rispondere a queste domande con il linguaggio schietto della politica e non con quello della diplomazia. Occorre, dunque, fare attenzione. Ma le parole chiave sono “arrivare in tempo”. Non possiamo dimenticare che il paese saheliano è strategico anche per la Francia che è ormai una presenza organica, ma sul quale Parigi rivolge lo sguardo, soprattutto ora che si è ritirata dal Mali. L’intenzione francese è proprio quella di rafforzare la sua presenza in Niger e sul fronte Sud del Sahel, paesi come Costa d’Avorio, Togo e Benin. Gli interessi strategici di Parigi sono noti: l’estrazione dell’uranio è fondamentale per un paese che vive di centrali nucleari. Il Niger è il quarto produttore di uranio al mondo e il sesto per riserve.

L’Italia, dunque, deve adottare una via pragmatica e diplomatica per non andare a cozzare con gli interessi di altri paesi che hanno radici solide in quel pezzetto di deserto.

Wagner: gli strumenti “non convenzionali ” della Russia

In Africa, per esempio, la Russia suona la musica di Wagner. La presenza dei mercenari di Mosca rappresenta per Vladimir Putin la guarnigione di “sfondamento” nella sua politica di espansione in Africa. Non è un mistero che la Russia stia cercando di tornare agli antichi fasti dell’Unione Sovietica e non lo fa impegnandosi direttamente sul campo militare, quello dove si combatte, ma inviando la Wagner che per Mosca fa il lavoro sporco. Lo si vede in maniera evidente, per esempio, nella Repubblica Centrafricana, che è diventata la base operativa russa in Africa centrale. Lì i mercenari combattono a fianco delle truppe regolari e sostengono il regime. La guardia presidenziale è tutta nelle mani del Cremlino, così come i consiglieri del ministero della Difesa. Il Centrafrica è diventata una sorta di portaerei nel mezzo dell’Africa che funziona come trampolino di lancio per l’espansionismo russo. Già nel passato questo paese ha avuto questa funzione, con la presenza di numerose basi della Francia, ex potenza coloniale, almeno fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso. Ora la storia è molto diversa e, come è normale che sia, Putin nega tutto. Si limita a spiegare che l’intervento russo in Africa riguarda la fornitura di armi e l’addestramento militare. Ma ogni evidenza porta da un’altra parte. Lo si sta vedendo in maniera plastica in Mali, dove il sentimento prevalente è quello filorusso. Così come in Burkina Faso dove si sono viste manifestazioni a sostegno dei golpisti, con la gente in piazza che sventolava le bandiere di Mosca.

L’Africa, per Putin, è diventato uno degli scenari privilegiati della sua competizione con il mondo occidentale.

Lo fa, appunto, attraverso la fornitura di armi e con il sostegno dell’industria bellica, come in Sudan terzo produttore di armi nel continente africano dopo Egitto e Sudafrica. Per raggiungere i suoi obiettivi, il Cremlino utilizza non solo i normali canali diplomatici ma anche strumenti non “convenzionali”: i famigerati mercenari della Wagner e la propaganda attraverso i social network, come accade in altre parti del mondo. E funziona.

L’impegno italiano: ridurre le partenze

Il governo italiano sta mettendo in atto un cambio di paradigma nel guardare a questo paese e alla regione del Sahel nel suo insieme, cercando di colmare la sua lacuna di presenza, intercettando in maniera tempestiva il crescere dell’attenzione internazionale. Il Niger guarda ormai all’Italia come un “partner di riferimento”, soprattutto nella gestione delle migrazioni, nella lotta all’avanzamento del terrorismo jihadista, nel contenimento delle sfide ambientali e nello sviluppo. Se sul piano militare l’Italia è ben posizionata e il rinnovo delle missioni all’estero voluto dal governo Draghi va proprio in questa direzione. L’Africa si conferma il continente in cui l’Italia è maggiormente coinvolta, con 17 missioni in corso. Tra quelle più rilevanti in termini di unità impiegate e risorse economiche c’è la Task Force Takouba, per il contrasto della minaccia terroristica nel Sahel, e l’impiego di un dispositivo aeronavale nazionale nel Golfo di Guinea in funzione antipirateria.

Le forze della missione Takouba si preparano a lasciare il paese (fonte Africa Rivista).

Sul piano, invece, della cooperazione allo sviluppo fa segnare il passo. Non si può dimenticare che oltre il 40 per cento della popolazione nigerina vive sotto la soglia di povertà e il paese si colloca in fondo alla ben poco onorevole classifica dell’indice di sviluppo umano. C’è da augurarsi, dunque, che il rinnovato impegno in Niger e in tutta la regione sia teso, anche, al rafforzamento di un impegno umanitario. L’impegno italiano è concentrato – almeno così sembra – alla riduzione delle partenze dei migranti (come racconta qui Fabiana Triburgo). Rimane, tuttavia, la domanda: “È sufficiente la cooperazione militare per impedire le partenze?”. È lecito chiedersi se controllo del territorio di questi paesi e lotta al terrorismo non passino anche e soprattutto attraverso politiche di sviluppo: cioè alla creazione di un welfare state che manca totalmente in questi paesi. Non si considera infatti che la maggior parte delle persone che fuggono da quelle situazioni lo fanno perché manca totalmente la percezione della possibilità di costruirsi un futuro solido per sé e la propria famiglia. Non è solo mancanza di cibo, spesso è la mancanza di welfare state, cioè di una rete sanitaria adeguata e di una rete scolastica capace di formare.

In quei paesi dove la cooperazione militare è importante, gli apparati di governo sacrificano, già di loro, gli investimenti per il welfare a scapito di una crescente spesa militare. Tutto ciò dovrebbe far riflettere.

L’impegno russo: fornire armi e sfruttare le risorse

L’arrivo in Centrafrica, tuttavia, rappresenta, uno spartiacque per Mosca. Le armi russe fanno gola un po’ a tutti: Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania hanno lanciato appelli a Mosca perché aiuti le loro forze di sicurezza a combattere il terrorismo, appelli che hanno avuto risposte positive. Tutto ciò piace molto al Cremlino e preoccupa enormemente l’occidente che sta perdendo posizioni strategiche. L’opzione di Mosca è quella di rafforzare la presenza militare per poi passare all’incasso, anche in termini di risorse naturali. L’interesse militare si giustifica, inoltre, con il fatto che il Cremlino è consapevole della sua marginalità nei mercati africani e di non poter competere con l’espansionismo cinese. Le armi, quelle vere, per Mosca, tuttavia, funzionano ancora. Ma è del tutto evidente che l’aiuto militare è subordinato, nel futuro, ad avere un ruolo anche nello sfruttamento delle materie prime.

Non a caso il paradigma di collaborazione con l’Unione africana – emerso nel forum Russia-Africa – che Putin vuole, mira a migliorare i rapporti esistenti, rafforzare i legami diplomatici e aumentare la sua presenza economica nel continente, per avvicinarsi agli elevati livelli di scambi commerciali che già caratterizzano Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Turchia, Europa e Stati Uniti.

La presenza russa in Africa (fonte Ispi).

La retorica di Putin definisce la sua agenda per l’Africa “positiva” e si contrappone, a detta sua, ai “giochi geopolitici” degli altri, spiegando che la Russia non è interessata a depredare la ricchezza dell’Africa, ma a lavorare a favore di una cooperazione “civilizzata”. Parola, questa, già usata da coloro che hanno colonizzato il continente.

Dal punto di vista economico, non è da trascurare la presenza in Namibia dove la Russia è impegnata nell’estrazione dell’uranio e in Angola nel settore diamantifero. Da qui, dall’Africa, Putin vuole ripartire per lanciare la sua sfida e tornare a vantare il ruolo di potenza mondiale. Ma la “prudenza” sta caratterizzando la presenza russa. Putin non arriverà a schierare l’esercito regolare e per questo si avvale di mercenari della Wagner, che fa il bello e cattivo tempo un po’ ovunque, in particolare nella Repubblica Centrafricana che, di fatto, è governata proprio dai russi. Il Mali, dopo il ritiro delle truppe occidentali, rappresenta una vittoria significativa per Putin che è riuscito a ridimensionare l’impero francese.

Attività russe in Africa nel 2019 (Fonte ISW).


Gruppo Wagner: un po’ di storia

Sul Gruppo Wagner, ovviamente, sono più le supposizioni che le certezze. Ciò che si sa è che nasce intorno al 2013 con il nome di Corpi Slavi. Il loro fondatore è l’ex colonnello dei servizi segreti militari Dmitry Utkin. Insieme a un piccolo contingente di ex appartenenti alle forze speciali russe, Utkin si schiera in Siria a protezione delle infrastrutture strategiche per la Russia e per il governo siriano di Bashar al-Assad. I mercenari non ottengono grandi risultati e ben presto rientrano in patria. Qui Utkin rifonda l’organizzazione ribattezzandola Gruppo Wagner in onore del compositore tedesco (Utkin ha forti simpatie naziste). È l’incontro con Yevgeny Prigozhin, oligarca con interessi nei comparti dell’alimentazione, dell’estrazione mineraria e nel mondo della gestione dei dati informatici, che fa compiere al Gruppo Wagner il salto di qualità. Prigozhin è legato a doppio filo a Putin che lo utilizza per portare a termine “operazioni delicate”. I mercenari di Utkin vengono quindi impiegati in Ucraina e a sostegno dei separatisti della Repubblica separatista di Lugansk. Poi di nuovo in Siria, dove si affiancano alle forze di Bashar al-Assad. Il momento più tragico avviene nel febbraio 2018 a Deir ez-Zor, quando un centinaio di uomini viene ucciso in un raid americano nei pressi del villaggio di al-Isba durante gli scontri con le forze curde dell’Sdf. Le imprese compiute in tre anni di guerra, permettono a Prigozhin di passare all’incasso. Un incasso chiamato Africa, dove, nel frattempo, la Russia sta conducendo una delicata partita per recuperare spazi di influenza. Mosca cerca di stringere rapporti con numerosi paesi offrendo assistenza militare in cambio di risorse minerarie. Ma in modo informale. Un gruppo di uomini viene quindi inviato in Sudan. Vengono schierati a protezione del presidente Omar al-Bashir e come presidio sul confine con il Sud Sudan. In cambio, i mercenari russi ricevono la gestione di alcuni impianti minerari. Un’operazione molto simile avviene anche nella Repubblica Centrafricana, dove nel luglio 2018 vengono uccisi tre giornalisti russi che indagavano proprio sulle operazioni di Prigozhin. Il magnate russo farebbe affari con almeno dieci paesi, tra i quali Repubblica democratica del Congo, Madagascar, Angola, Guinea, Guinea-Bissau, Mozambico e Zimbabwe. Uomini del Gruppo Wagner sono stati incorporati nelle milizie di Khalifa Haftar in Libia. Il resto è storia recente.


Per rinfrescarvi la memoria su come operano i contractors o le milizie mercenarie e su come funzionano le regole di ingaggio e quali sono i rapporti di forza con gli stati che li “assumono” guardate questa intervista di OGzero a Stefano Ruzza, regia di Murat Cinar.


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Le divergenze parallele nei piani sino/russi per l’Africa https://ogzero.org/le-divergenze-parallele-nei-piani-sino-russi-per-lafrica/ Fri, 18 Feb 2022 09:21:43 +0000 https://ogzero.org/?p=6384 I rapporti tra le potenze globali s’improntano alla “differenziazione” a seconda degli svariati livelli di confronto e a seconda della complementarietà dell’offerta e della richiesta della zona interessata alle manovre sociali, economiche, politiche, culturali… Il continente africano è sempre più complesso e gli attori in commedia sono sempre di più; e le comunità non sono […]

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I rapporti tra le potenze globali s’improntano alla “differenziazione” a seconda degli svariati livelli di confronto e a seconda della complementarietà dell’offerta e della richiesta della zona interessata alle manovre sociali, economiche, politiche, culturali… Il continente africano è sempre più complesso e gli attori in commedia sono sempre di più; e le comunità non sono rappresentabili con la logora narrativa neocoloniale. Gli osservatori più attenti ritengono che in Africa l’intento cinese è quello di cementare il proprio ruolo di partner a lungo termine e di principale protagonista del suo sviluppo. Per esempio a Lusaka si sta completando una delle 4000 infrastrutture costruite dalla Cina dal 2020: un centro per conferenze in tempo per ospitare il summit dei capi di stato africani. Come riferito da Andrea Spinelli Barrile la Cina ha investito più del doppio in infrastrutture africane (23 miliardi di dollari) rispetto al resto del mondo; e anche i prestiti cinesi sono un quinto di tutti quelli erogati al mondo.

Mentre altrove gli interessi sino-russi possono stridere, in Africa, come nell’area eurasiatica la cooperazione in funzione antioccidentale può raggiungere buoni risultati, offrendo servizi diversi: la Russia si propone come fornitrice di armi, mercenari e addestratori e il Sahel appare come l’area più sensibile da accogliere quel tipo di sicurezza che 9 anni di Barkhane e Takuba non hanno saputo o voluto risolvere: infatti la popolazione di Mali e Burkina hanno cominciato a pensare che gli europei avessero interesse a non debellare definitivamente le milizie jihadiste, pur di avere un pretesto per occupare militarmente la zona. Altro impegno russo è quello applicato all’estrattivismo delle molte risorse africane.

Mentre “Deutsche Welle” dà conto di un summit tra Unione europea e Unione africana per proporre il Global Gateway Project su investimenti (300 miliardi in 7 anni), salute, sicurezza e migrazione in alternativa alla Belt and Road cinese nel momento in cui la Russia diventa riferimento principale della sicurezza per gli stati del Sahel, approfittiamo di un saggio scritto da Alessandra Colarizi per l’e-book numero 10 di China Files su questi argomenti per aggiungere suggestioni a integrazione dell’articolo di Angelo Ferrari, scritto a caldo a commento dell’annuncio parigino con il G5 del Sahel del ritiro delle missioni militari.


Semplici amici, avversari, alleati? Come altrove, anche in Africa, le relazioni tra Cina e Russia sfuggono all’imposizione di categorie precostituite. Rivali al tempo della Guerra Fredda, durante la crisi sino-sovietica i due giganti sostennero partiti e movimenti di liberazione nazionale, aiutando le fazioni alleate nelle guerre civili in Zimbabwe, Angola e Mozambico. Poi nel corso dei decenni Pechino e Mosca si sono spartite ruoli e competenze, seguendo un copione già utilizzato in Asia centrale.

Belt and Road cinese: finanziatori

La Cina, fedele al principio cardine della non ingerenza, si è perlopiù dedicata agli affari economici: primo partner commerciale del continente dal 2009, è da oltre dieci anni il principale investitore nella regione subsahariana. Una tendenza rafforzata dal lancio della Belt and Road, la strategia di politica estera con cui Pechino sostiene la penetrazione internazionale delle aziende statali cinesi attraverso la costruzione di grandi vie di comunicazione marittime e terrestri in Eurasia, e presto estesa all’Africa.

Armi e mercenari russi: risolutori

Mosca, invece, dopo la dissoluzione dell’Urss ha riacquistato il terreno perso grazie alla sua industria bellica: ha continuato a supportare le capitali africane con la vendita di armamenti e altre forme di assistenza militare; complice la minaccia del terrorismo islamico. Nel 2018, cinque paesi dell’Africa subsahariana – Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania – hanno fatto esplicitamente appello a Mosca per ottenere sostegno nella guerra contro Isis e al-Qaeda. In Libia, l’appoggio fornito dai mercenari russi al generale Khalifa Haftar (affiancato militarmente nell’assedio di Tripoli), anziché al governo riconosciuto dalla comunità internazionale – come spiega il Csis –, ha permesso di rafforzare “la posizione geostrategica e l’influenza diplomatica russa” nel Nordafrica, rendendo Mosca un interlocutore imprescindibile in qualsiasi tentativo di soluzione al conflitto.

Spartizione delle risorse africane

Negli ultimi tempi però, pur partendo da percorsi opposti, gli interessi dei due giganti hanno intrapreso traiettorie convergenti. Gli scambi commerciali tra la Russia e il continente sono raddoppiati nel giro di sei anni. Adocchiando ulteriori potenzialità economiche, nel novembre 2019 la città di Soči ha ospitato il primo forum russo dedicato all’Africa, di cui la seconda edizione è prevista per quest’anno. La nascita delle prime piattaforme istituzionali è stata accompagnata dalla fioritura parallela di canali informali.

Secondo Heidi Berg, direttore dell’intelligence presso il United States Africa Command Africom (Africom), «l’impegno militare russo e l’uso di contractor militari privati in Mozambico sono progettati per aumentare l’influenza [di Mosca] nell’Africa meridionale e per consentire l’accesso russo alle risorse naturali locali, inclusi gas naturale, carbone e petrolio».

Qualcosa di simile sta avvenendo nella Repubblica Centrafricana, dove militari russi sono stati nominati consiglieri per la sicurezza nazionale del presidente Faustin-Archange Touadéra, e il governo sta vendendo diritti minerari per oro e diamanti a una frazione del loro valore in cambio di armi.

Riposizionamento olimpionico: colmare un vuoto con un sodalizio a tutto campo?

Da parte sua, dopo aver privilegiato per tre decenni le sinergie economiche, la Cina sente necessità esattamente opposte. Sente di dover difendere i propri asset strategici nel continente e ricoprire un ruolo più proattivo in materia di sicurezza, come si addice a una superpotenza. Nel 2017 il porto di Gibuti, nel Corno d’Africa, è stato scelto come sede della prima base militare cinese all’estero.  La recente nomina di un inviato speciale per il Corno d’Africa sembra confermare questa nuova vocazione cinese per il mantenimento della stabilità, oltre il tradizionale impegno nelle operazioni internazionali di peacekeeping e lotta alla pirateria. Notizia che certamente non rallegrerà Mosca: secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), il continente è diventata una delle prime destinazioni dell’export di armi cinesi, pari al 17% delle forniture ottenute dalle capitali africane tra il 2012 e il 2017 e il 55% in più rispetto ai cinque anni precedenti.

È lecito, quindi, chiedersi se questo reciproco riposizionamento avvicinerà ancora di più o finirà invece per dividere Pechino e Mosca. Se anche in Africa, come nei rispettivi cortili di casa, i due vecchi rivali saranno capaci di muoversi in sincrono. Se, insomma, saranno semplici amici, avversari, o alleati. Entrambi i giganti stanno beneficiando della rapida perdita di influenza delle vecchie potenze imperialiste, di cui il ritiro francese dal Sahel è il segno più lampante. Alla vigilia delle Olimpiadi invernali di Pechino, Putin ha rimarcato come gli sforzi di Cina e Russia siano tesi alla promozione di una democratizzazione delle relazioni internazionali basata sui valori di “eguaglianza e inclusività”. Un messaggio che strizza l’occhio al Sud globale, sempre più emarginato dai sodalizi occidentali tra “like-minded country”. Siamo di fronte a un “gran plan”? Difficile a dirsi. Negli Stati uniti però i recenti sviluppi hanno già alzato il livello di allarme.

Secondo il senatore dell’Oklahoma, Jim Inhofe: «Cina e Russia stanno usando l’Africa per espandere la loro influenza [internazionale] e la loro estensione militare».

Il vantaggio di Pechino si misura in decenni di investimenti

“L’unione fa la forza”, dicevano gli antichi. D’altronde, l’arrivo tardivo dei capitali russi difficilmente rappresenterà una minaccia per gli interessi cinesi. Con venti anni di vantaggio, oggi la presenza del gigante asiatico beneficia della messa a sistema di una strategia di soft power che spazia dagli investimenti nei media, all’assistenza sanitaria passando per gli scambi people-to-people. Nei piani africani del Cremlino non sembra esserci nulla di lontanamente paragonabile.

Allo stesso tempo, sebbene le operazioni mercenarie di Mosca rischino di destabilizzare ulteriormente il continente, la preannunciata apertura di basi militari russe nella regione (ben sei) potrebbe persino tornar utile alla Cina. Come ammesso nell’ultimo libro bianco sulla Difesa pubblicato dal Consiglio di stato, l’esercito cinese non è ancora in grado di proteggere pienamente gli interessi nazionali oltremare a causa delle carenze logistiche e dell’insufficienza dei mezzi difensivi navali e aerei. Secondo il documento, alcuni di questi impedimenti sono aggirabili coltivando rapporti sinergici con altri paesi. Dalla crisi di Crimea, Cina e Russia hanno cementato le relazioni bilaterali con un focus militare molto forte. Sebbene dagli anni Ottanta Pechino rifugga le alleanze in senso proprio, il partenariato con Mosca sembra un gradino sopra le usuali consorterie cinesi per uniformità di interessi e visione globale.

La partnership competitiva, ma globale… dunque anche africana

L’instabilità politica in Africa apre uno spiraglio per la definizione di una “strategia” di sicurezza sino-russa nei paesi terzi. Un segno in questa direzione arriva dalla risposta concertata di Mosca e Pechino in sede Onu alla crisi del Tigray, così come ai colpi di stato in Sudan e Mali.

Dopo il ritiro americano in Afghanistan il coordinamento militare con Putin è diventato sempre più centrale per Xi. Lo è anche nel continente oltre l’Oceano indiano, dove Mosca può mettere a frutto l’esperienza militare maturata in Medio Oriente, un’area con profondi legami economici e culturali all’Africa. Le manovre aeree e marittime eseguite congiuntamente dai due giganti nell’Indopacifico, nel Mediterraneo e nel Mar arabico, costituiscono un precedente duplicabile nei teatri africani. Ma fino a che punto? Samuel Ramani, ricercatore della Oxford University, evidenzia diversi ostacoli: la storica diffidenza reciproca, la sovrapposizione tra interessi regionali spesso contrastanti, e la mancanza di un coordinamento sul campo ancora limitato ai tavoli multilaterali. È indicativo che, posizionati su fronti opposti in Libia e Sudan, Pechino e Mosca non abbiano mai tenuto colloqui bilaterali specifici sul continente. Nemmeno il tema del terrorismo è riuscito a ispirare una reazione pianificata in tandem.

Sono tutti aspetti che sommati compongono una sagoma dai contorni sfumati. Quella che Ramani definisce una “partnership competitiva” tra aspiranti grandi potenze. Non semplici amici, né avversari e nemmeno alleati. Almeno per ora.

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E il fiume mormorava in tigrino e amarico https://ogzero.org/tigray-2021-e-il-fiume-mormorava-in-tigrino-e-amarico/ Sun, 29 Aug 2021 07:47:14 +0000 https://ogzero.org/?p=4672 1985, la siccità strema il Corno d’Africa, il fotografo dipinge con quello che ha, i fasci di luce inquadrano un sottobosco di umanità disperata in fuga da fame e guerra. La regione era il Tigray, il fotografo Sebastião Salgado. Allora il celeberrimo scatto del fotografo brasiliano squarciò il velo che nascondeva il quadro dove all’aridità […]

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1985, la siccità strema il Corno d’Africa, il fotografo dipinge con quello che ha, i fasci di luce inquadrano un sottobosco di umanità disperata in fuga da fame e guerra. La regione era il Tigray, il fotografo Sebastião Salgado. Allora il celeberrimo scatto del fotografo brasiliano squarciò il velo che nascondeva il quadro dove all’aridità dei campi tigrini si sommava la guerra portata dagli eritrei filoamericani contro il regime filosovietico di Menghistu, impedendo il transito di aiuti. Si contò un milione di morti alla fine della carestia.

Sebastião Salgado, Kalema Camp – West Tigray, 1985 – mostra di Nice, agosto 2021. Un servizio della Bbc lo definì “la cosa più vicina all’inferno sulla terra”

2021, di nuovo guerra. Anzi, non è mai finita. Di nuovo truppe eritree protagoniste di atrocità in Tigray; ancora deportazioni e campi di concentramento per profughi eritrei fuggiti dal regime di Isaias Afewerki e per tigrini nel mirino della pulizia etnica oromo e ahmara, che vuole vendicare 30 anni di potere tigrino in Etiopia. La differenza sta nell’alleanza inaudita tra Addis Abeba e Asmara, che ha prodotto il consueto corollario di massacri, saccheggi, stupri, torture, esecuzioni e sparatorie; e nell’alleanza stipulata tra Fronti di liberazione tigrino e oromo, che promettono di allargare il conflitto, facendolo diventare Guerra civile di tutta la nazione.

E corpi portati dal Tekezé a valle, in Sudan, dove si chiama Setit.

Tigray 2021

Sponde del Tekezé a Wad el-Hiliou – Kassala, 4 agosto 2021

In questo agosto distratto da conflitti in altre aree strategiche truppe eritree attraversano nuovamente il fiume Tekezé che fa da confine e che ha visto migliaia di morti e 2 milioni di sfollati dall’inizio dell’operazione militare scatenata a novembre da Abiy Ahmed, il presidente etiope. A giugno il Fronte di liberazione del popolo tigrino (Tplf) aveva riconquistato l’intera regione, entrando a Mekallé e costringendo gli etiopi al cessate il fuoco.

Claudio Canal si sofferma brevemente ma efficacemente sugli aspetti che coinvolgono l’umanità oppressa dalla guerra e in particolare le violenze di genere correlate.


Il fiume scorre serafico come sempre.  Il Tekezé è un fiume geopolitico, segna il confine tra l’Etiopia e l’Eritrea e tra Etiopia e Sudan dove cambia nome e diventa Setit. Separa anche l’area delle lingue amarica e tigrina.  Come tutti i torrenti e i fiumi del pianeta trasporta ciò che cade in acqua o vi è gettato. In questi giorni scorrono corpi umani martoriati che dal Tigray [più noto come Tigré nella versione italiana], vasta regione settentrionale dell’Etiopia, galleggiano senza una meta verso il Sudan.

Una guerra la si può vincere o perdere, ma, essendo una macchina di produzione, lascia dietro di sé deiezioni in forma di corpi esanimi. Qualche volta raccolti e sepolti, altre volte lasciati lì a tornare polvere. Salvo che un fiume o un mare li accolga e li smuova secondo le proprie leggi. Fino a questo momento una cinquantina o più. Il fiume racconta che nel suo medio-alto corso è in atto una tragica inimicizia tra esseri umani.

Tigray 2021

Una geopolitica bizzarra ci dice che ex nemici accaniti, che si scontravano da decenni non badando ai morti, Etiopia ed Eritrea, adesso si sono scoperti alleati. Una, con un primo ministro, Abiy Ahmed Ali, laureato Nobel per la pace 2019 e dottorando in guerra; l’altra, con un presidente che si può classicamente definire tiranno. Un ossimoro istituzionale che la realtà però sopporta bene. Un pizzico di accortezza in più ai giurati del Nobel ne consoliderebbe la fama. Ci dice anche, questa geopolitica stravagante, che l’Etiopia è entrata in guerra con se stessa tramite una meno eccentrica e più consolidata forma di guerra civile, iniziata nel novembre scorso. L’obiettivo era ridurre a più miti consigli la leadership del Tigray, che nei decenni passati aveva governato l’Etiopia. Uno scontro di poteri abbastanza tradizionale in cui si è inserita bellicosamente l’Eritrea, in attesa che altri attori dell’area dicano la loro con i propri eserciti. Accendere i motori di una guerra è facilissimo. Difficilissimo anche solo metterla in folle.

Non riassumo i nove mesi di guerra ora in accelerata ripresa. Una aggiornata cronaca si può trovare nella sempre documentata “Nigrizia  e telegraficamente tramite la sintesi della penna di Dave Lawler.

“Tigray nascosto: silenzioso annientamento di una comunità”.

 

Due temi vorrei sottolineare:

  1. se ti arriva la guerra sotto casa o direttamente dentro cosa fai? Cerchi di scappare. È quello che sta massivamente succedendo. Non bastasse, c’era chi già era fuggito dalla confinante Eritrea e stazionava in campi profughi abbastanza improvvisati. Fuggiva dalla, chiamiamola così, antidemocrazia dell’Eritrea, dai suoi soprusi e dalla povertà, e nella tappa in Tigray ritrovava anche una lingua comune, il tigrino [lingua del ceppo semitico come l’amarico, lingua ufficiale dell’Etiopia, preceduta in quanto a numero di parlanti dall’oromonico della nazionalità oromo]. La partecipazione diretta dell’Eritrea alla guerra a fianco dell’Etiopia ha significato per i rifugiati eritrei dover fare i conti, di nuovo, con l’esercito eritreo che non è noto per il rispetto di alcunché. Non è difficile immaginare il disastro della guerra sui loro volti. I superstiti stanno forse sognando un barcone che attraversi il Mediterraneo e li porti in salvo chissà dove.

È il cinismo della geopolitica, che descrive, ma non può render conto dei moti sotterranei delle vite singole e collettive.

        2. «Non so se si sono accorti che ero una persona»

È la dichiarazione di una donna stuprata dai soldati nel Tigray. È anche il titolo del rapporto di Amnesty International e il contenuto di numerose altre inchieste curate dalla Reuters e del Georgetown Institute for Women, Peace and Security e del Kujenga Amani e nuovamente “Nigrizia” e…

Siamo in tempi di turismo, d’arte e d’altro. Passeggiando per Firenze in piazza san Lorenzo è possibile ammirare il monumento che Baccio Bandinelli scolpì nel 1540 per celebrare il condottiero Giovanni della Bande Nere che oggi verrebbe definito contractor e in tempi meno eleganti mercenario.

Le guide descrivono il bassorilievo del basamento come scene di guerra.  Effettivamente. Si vede la cattura di una donna, preludio al suo uso sessuale, come da sempre le regole belliche hanno decretato e che il Novecento ha visto intensificarsi e proliferare fino a oggi. Una terribile ed efficace forma di deterrenza e di intimidazione che si rivolge alle altre donne e ai loro uomini.

Le donne del Tigray gridano che questa storia non è per niente finita, ma dicono anche che da certe orecchie non ci sentiamo. La loro solitudine continua.

Postilla: Eritrea ed Etiopia sono state due colonie italiane. Una, la primigenia, l’altra, l’ultima a essere aggredita dalle truppe del Regio Esercito. Silenzio desertico dalle nostre parti, orfane anche della memoria storica di Angelo Del Boca.


Il Sudan ha convocato l’ambasciatore etiope a Khartoum per informarlo che i 29 cadaveri trovati sulle rive del fiume Setit, al confine con l’Etiopia, tra il 26 luglio e l’8 agosto, erano cittadini di etnia Tigray; i cadaveri sono stati identificati da cittadini etiopi residenti nella zona di Wad al Hulaywah, nel Sudan orientale. Il 5 settembre un reportage della Cnn ha riacceso i riflettori sul Tekezé e sui corpi mutilati che sussurrano nel suo alveo.

Questo scontro diplomatico avviene dopo il ritrovamento e il sequestro, da parte delle autorità sudanesi, di 72 scatole, contenenti armi e binocoli per la visione notturna, arrivate via aereo dall’Etiopia il 4 settembre. Nella serata del 6 settembre, il Ministero degli Interni sudanese ha affermato che la spedizione, che includeva 290 fucili, apparteneva ad un commerciante autorizzato, Wael Shams Eldin, ed era stata controllata e ritenuta in regola. Anche la compagnia aerea etiope ha confermato che le armi erano pistole da caccia che facevano parte di una spedizione verificata. Le armi erano giunte dalla Russia all’Etiopia nel maggio 2019. Le autorità etiopi le avevano tenute ad Addis Abeba negli ultimi due anni, ma, senza preavviso, il 4 settembre, avevano autorizzato il loro trasporto a Khartoum su un aereo civile. I primi sospetti delle autorità sudanesi si erano indirizzati contro i lealisti del governo dell’ex presidente Omar al-Bashir, accusati dai funzionari del Consiglio di transizione di voler minare la svolta democratica del Paese. Le tensioni tra il Sudan e l’Etiopia sono aumentate da quando il conflitto nella regione settentrionale etiope del Tigray si è intensificato e la disputa sulla costruzione della diga Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd) non si è ancora risolta.

La guerra si estende e comprende nuovi motivi di astio…

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Non ci si salva da soli nella Guerra dei vaccini https://ogzero.org/la-guerra-dei-vaccini-nessuno-si-salva-da-solo/ Sat, 29 May 2021 08:17:40 +0000 https://ogzero.org/?p=3676 La Guerra dei vaccini è iniziata. Sotto il benevolo ombrello “non ci si salva da soli”, le potenze occidentali hanno cominciato a capire che uno strumento diplomatico fondamentale per riconquistare mercati, prestigio e influenza in Africa passa, appunto, dai vaccini. Russia e Cina hanno cominciato la loro sfida da molti mesi. L’Occidente l’ha lanciata prima, […]

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La Guerra dei vaccini è iniziata. Sotto il benevolo ombrello “non ci si salva da soli”, le potenze occidentali hanno cominciato a capire che uno strumento diplomatico fondamentale per riconquistare mercati, prestigio e influenza in Africa passa, appunto, dai vaccini. Russia e Cina hanno cominciato la loro sfida da molti mesi. L’Occidente l’ha lanciata prima, durante il minivertice africano di Parigi e poi con il Global Health Summit di Roma.

La sfida dietro ai brevetti

Washington

Pregevole, e per nulla scontata, l’iniziativa del presidente americano Joe Biden di “sospendere i brevetti” e trasferire tecnologie per la produzione dei vaccini nel continente africano.

 

La Direttrice Generale della World Trade Organization (WTO), Ngozi Okonjo-Iweala, ha dichiarato che sospendere i brevetti sui vaccini garantirebbe ai paesi in via di sviluppo un accesso equo alla vaccinazione il più rapidamente possibile.

Immediatamente gli ha fatto eco il suo omologo francese, Emmanuel Macron, e poi la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. Parole importanti, piene di significato politico, forse anche umanitario, ma non può sfuggire che la mossa occidentale ha più il sapore della sfida a Russia e Cina che un vero e pregevole impegno per aiutare l’Africa a vaccinarsi. Ma andiamo per ordine.

Parigi

Oltre alle questioni legate al finanziamento delle economie africane, i partecipanti al vertice di Parigi, che si è tenuto sul tema il 18 e il 19 maggio, hanno affrontato le problematiche relative alla distribuzione dei vaccini anti-Covid-19 in Africa.

La richiesta, arrivata da un po’ tutte le parti in causa, è, appunto, l’eliminazione dei brevetti “per consentirne la produzione in Africa”.

Di questo si è fatto portavoce il presidente francese Emmanuel Macron che nella conferenza stampa finale ha aggiunto: «Chiediamo all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) e al Medicines patent pool di rimuovere tutti i vincoli in termini di proprietà intellettuale che bloccano la produzione di alcuni tipi di vaccini».

La paura delle potenziali varianti

Macron, dopo aver citato la lentezza della vaccinazione come uno dei principali problemi del continente, ha quindi fissato l’obiettivo di vaccinare il 40 per cento delle persone in Africa entro la fine del 2021, sottolineando che «la situazione attuale non è sostenibile, è ingiusta e inefficiente». Secondo il presidente francese infatti «non riuscendo a vaccinare gli africani si rischia di far emergere nel continente varianti di Covid-19 potenzialmente pericolose che poi potrebbero diffondersi in tutto il mondo». La direttrice del Fondo monetario internazionale (Fmi) Kristalina Georgieva ha avvertito che la mancata accelerazione del lancio del vaccino in Africa avrebbe anche conseguenze economiche: «È chiaro che non c’è un’uscita duratura dalla crisi economica se non si esce dalla crisi sanitaria». «Dobbiamo sostenere l’Africa nella costruzione delle proprie industrie e infrastrutture sanitarie.

«Il Team Europe lancerà un’iniziativa per aiutare a potenziare la produzione di vaccini in Africa, trasferendo le tecnologie necessarie», questo l’impegno preso dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen.

Roma

Durante il vertice di Roma l’Unione europea, infatti, ha promesso di impegnarsi per creare capacità produttiva nei paesi africani. Il continente, oggi, importa il 99 per cento dei vaccini.

L’iniziativa è a tutto tondo: investimenti in infrastrutture e impianti di produzione, sostegno alla gestione e la definizione del quadro normativo.

L’idea di fondo è quella di creare degli hub regionali così da dare impulso al trasferimento di tecnologie per la produzione di vaccini, ma anche di altro materiale sanitario.

Covax delay

Oltre alle difficoltà nella produzione locale, ad avere un impatto negativo nella copertura vaccinale dell’Africa sono i ritardi nelle consegne dei lotti. Dall’arrivo delle prime dosi di vaccino previste dal programma Covax dell’Oms, molti paesi africani hanno segnalato, nelle ultime settimane, ritardi nella consegna dei secondi lotti. A confermarlo a metà aprile è stato John Nkengasong, direttore dell’agenzia Africa Centres for disease control and prevention (Africa Cdc). E il Ruanda ha dovuto interrompere la vaccinazione contro il coronavirus a causa dei ritardi nelle consegne. A Roma, poi, si sono registrate promesse di nuovi finanziamenti per il programma Covax sia da parte di governi sia di case farmaceutiche.

In ogni caso, allo stato attuale, il programma è ampiamente sottofinanziato.

L’obiettivo dichiarato al termine del Glogal health summit è quello di arrivare a un accordo entro il vertice del G20 che si terrà alla fine di ottobre. Insomma, i negoziati, se mai inizieranno, saranno lunghi.

Ankara

All’appuntamento con la storia, poi, non poteva mancare il sultano di Ankara, che di affari in Africa ne ha molti ed è tutto teso ad ampliare la sua sfera di influenza sul continente. Anche lui ha chiesto un accesso equo per tutti i paesi. «Ci sono gravi ingiustizie nell’acquisizione dei vaccini», ha detto Recep Tayyip Erdoğan, e l’80 per cento di essi sono stati acquistati dai paesi ad alto o medio reddito. «Sebbene la maggior parte della popolazione nei paesi sviluppati sia stata vaccinata almeno con una dose, questo tasso non ha nemmeno raggiunto l’1 per cento nell’Africa subsahariana».

Iniziative sanitarie e finanziarie

Dosi gratis subito

Non vi è dubbio che tutte queste iniziative siano lodevoli. Macron chiede che venga vaccinato il 40 per cento della popolazione africana, ciò significa, grosso modo, 600 milioni di persone entro il 2021. Per raggiungere l’obiettivo, oltre a un’imponente macchina logistica, occorre fornire al continente più di un miliardo di dosi. Sospendere i brevetti e trasferire tecnologie servirà per il futuro, non certo per il presente. Sicuramente porterà sviluppo. Ma per raggiungere l’obiettivo fissato dal presidente Macron si deve fare uno sforzo in più e subito:

donare le dosi in eccesso prodotte dai paesi occidentali. Non si può aspettare che l’Africa sia in grado da sola di produrre vaccini. Donare dosi o, come intende fare Big Pharma, venderle a un prezzo calmierato, senza guadagno.

Vedremo se sarà in grado di farlo.

Finanziamenti gratis subito

G20

Al vertice di Parigi, poi, si è discusso di finanziamenti per sostenere le economie africane. Una decisione è stata presa. È stata confermata l’emissione di Diritti speciali di prelievo (Dsp) per un importo di 33 miliardi di dollari per l’intero continente, di cui 24 per l’Africa subsahariana. Il Dsp non è altro che una sorta di assegno convertibile in dollari, distribuito in proporzione al peso specifico dei paesi e al loro contributo alle risorse. In molti considerano il Dsp come una moneta del Fondo monetario internazionale. Denari concessi a prestito e a tasso zero. Comunque, da restituire. Il G20, tuttavia, si era detto favorevole all’emissione di diritti speciali fino a 650 miliardi di dollari.

La società civile, invece, proponeva di emettere diritti per almeno 3000 miliardi di dollari, così da creare una massa di liquidità considerevole per rilanciare le economie africane.

Nella dichiarazione finale i partecipanti al minivertice di Parigi hanno detto di fare affidamento sul sistema finanziario internazionale. È necessaria «una decisione rapida su un’assegnazione generale di Dsp per un importo senza precedenti, che dovrebbe raggiungere 650 miliardi di dollari, di cui quasi 33 miliardi destinati ad aumentare le attività di riserva dei paesi africani e a implementarlo appena possibile, e chiediamo ai paesi di utilizzare queste nuove risorse in modo trasparente ed efficiente», si legge nella nota finale.

Abidjan

Uno sforzo multilaterale che coinvolgerà la rete di Banche pubbliche di sviluppo africane, che coinvolgono la Banca africana per lo sviluppo (Afdb) – con sede ad Abidjan – e istituzioni finanziarie pubbliche nazionali e regionali. «Per alleviare le economie africane che soffrono di vulnerabilità legate al loro debito pubblico estero, i creditori del G20 e del Club di Parigi agiscono come concordato nel comunicato stampa dei ministri delle Finanze e dei governatori delle banche Centrali del G20 ad aprile e il quadro comune per i trattamenti del debito oltre la Debt service suspension initiative (Issd) adottata nel novembre 2020», hanno approvato i firmatari. Tradotto in soldoni significa moratoria del debito per il 2020 e il 2021. Per promuovere la crescita e la creazione di posti di lavoro, i partecipanti hanno espresso sostegno alle strategie nazionali africane accogliendo con favore l’ambizione di sviluppare un’alleanza per l’imprenditorialità in Africa, che avrà un’ampia portata panafricana e garantirà un posto preponderante per le aziende.

Questa alleanza, nelle intenzioni, renderà possibile mobilitare tutti i partner che desiderano mettere risorse finanziarie e tecniche al servizio dello sviluppo del settore privato in Africa.

Pieno appoggio all’iniziativa del G20 sul sostegno all’industrializzazione in Africa e nei paesi meno sviluppati, del partenariato del G20 con l’Africa, Compact with Africa.

Parole importanti e belle. Anche qui i tempi non sono propriamente brevi. Nelle prossime settimane verranno avviati i lavori tecnici, che dovrebbero sfociare in un accordo politico tra giugno e ottobre. Buon per loro. Insomma, un New Deal per l’Africa attraverso la creazione di nuove linee di credito. Anche qui staremo a vedere come e quando questi pronunciamenti si tradurranno in fatti concreti.

ReleaseG20: riconvertire il pagamento del debito in investimento

Roma

Insomma, timidi passi in avanti. Anche la rete di ong Link2007 giudica positivamente, almeno vede nelle affermazioni finali un passo in avanti per l’Africa. Il presidente della rete di ong, Roberto Ridolfi, spiega a “InfoAfrica”, che ci sono diversi punti da evidenziare: «Il primo è che al vertice non hanno partecipato tutti i paesi africani e non hanno partecipato tutti i paesi del G20, una partecipazione significativa, ma non massiccia». Per Ridolfi ci sono stati alcuni messaggi importanti, come quello sui diritti speciali di prelievo, che, tuttavia, «non bastano. Parliamo di 33 miliardi per tutta l’Africa su un totale sollecitato di 650». E poi c’è la questione che riguarda la vulnerabilità dei paesi africani. «Questa richiede un’attitudine diversa delle banche di sviluppo, più propensa al rischio. Le banche di sviluppo devono essere capaci di prenderlo questo rischio». C’è poi la sospensione dei pagamenti dei debiti: «Non è sufficiente, noi di Link2007 lo abbiamo detto più volte ed è ciò che portiamo avanti con la nostra proposta ReleaseG20, che il gruppo di lavoro e sviluppo del G20 mi sembra stia prendendo in considerazione: cancellare laddove possibile ma in larga parte riconvertire il pagamento del debito in un’azione di investimento verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile», una sorta di recovery fund per i paesi fragili. «Si menziona poi un’alleanza con il settore privato, che va alimentata e per questo torno sul fondo di riconversione del debito – conclude Ridolfi – che può essere costituito a livello nazionale e diventare un fondo Sdgs (Sustainable development goals founds, un meccanismo di cooperazione internazionale a favore dello sviluppo sostenibile) per alimentare e proteggere gli investimenti privati».

Durante il vertice francese la parola sostenibilità non è stata mai menzionata.

Parigi, Africa

Al vertice di Parigi non hanno partecipato tutti i paesi africani e nemmeno tutti quelli del G20, ma quelli che contano sì: dalla Cina all’Arabia Saudita, dagli Stati Uniti agli Emirati, dal Giappone al Portogallo, dalla Germania all’Italia e altre ex potenze coloniali. Per quando riguarda l’Africa i paesi strategici c’erano tutti: dal Sudafrica all’Angola, dal Congo alla Costa d’Avorio, dall’Egitto al Kenya, dalla Nigeria al Ruanda.

Situazioni ufficiali, parate e discorsi…

… In coda per ricevere il vaccino…

 

 

 

 

 

 

 

 

… o per ricevere aiuti alimentari…

Un minivertice, dunque, con il quale Parigi intende riaffermare e sviluppare la sua presenza nel Continente, nonché la sua influenza.

All’Africa, tuttavia, non servono parole. E non ha bisogno nemmeno che diventi terreno fertile per un’altra guerra diplomatica tra potenze occidentali. Servono fatti e subito. In cinque parole: l’Africa-ha-bisogno-di-giustizia.

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Kivu, un non-luogo: l’habitat autosostenibile di traffici e milizie https://ogzero.org/il-kivu-un-non-luogo-habitat-autosostenibile-di-traffici-e-milizie/ Sun, 14 Mar 2021 15:48:23 +0000 https://ogzero.org/?p=2599 «In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso […]

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«In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso percorso. La rete viaria completamente distrutta. E oggi non è cambiato nulla. Ma alle aziende minerarie non servono le strade, si muovono con aerei ed elicotteri». Riprendiamo da qui il viaggio nella zona dei Grandi Laghi africani, nel Kivu, un non-luogo le cui risorse arricchiscono un mondo già ricco e predatorio, e dove milizie e rivalità si spartiscono il territorio ai danni di una popolazione sempre più povera la cui identità è smarrita e spesso dimenticata.

Il quadro storico e quello dei traffici: guerre mondiali e per procura

La Repubblica democratica del Congo (RdC) è un non-lieux. Un non-luogo che non trova pace, attraversato da conflitti aspri o a bassa intensità, snaturato dalle pressioni da oltreconfine di una nazione devastata e irriconoscibile per gli smarriti autoctoni; nella definizione di Marc Augé “non-luogo” è quello che non riesce a essere identitario (non contrassegna univocamente l’identità di chi lo abita), relazionale (non c’è comune appartenenza nei rapporti tra tutti i soggetti della regione), storico (le singole comunità non si riconducono a comuni radici). Nessuno, fino a ora, è riuscito a dare in sessant’anni una speranza a oltre 84 milioni di abitanti di un paese ridotto a supermercato di risorse da taccheggiare. Anche se le elezioni del 2019, con la vittoria di Felix Tshisekedi, figlio dell’oppositore storico di Mobutu Sese Seko e di Kabila padre, hanno portato il Congo Kinshasa verso una parvenza di stabilità, l’oggetto del contendere rimane, ovvero il paese stesso. Ciò che il suo sottosuolo contiene: tutto quello che il mondo libero desidera.

Non a caso quelle aree sono ricche di risorse minerarie, cambiano nome, affiliazione, ma l’obiettivo è sempre quello: coltan, diamanti, oro, legname, petrolio… e per impossessarsene si è combattuta una guerra che l’ex segretario di stato americano Madeleine Albright definì la “Guerra mondiale africana” (1996-2004). Sul terreno si sono dispiegati gli eserciti di Angola, Burundi, Namibia, Ruanda, Uganda e Zimbabwe; si sono contesi pezzi di territorio e le aeree di più intenso conflitto corrispondevano a quelle più ricche di risorse naturali.

Da quella guerra che vide combattersi 8 eserciti nazionali e 21 milizie sono nate decine di formazioni di guerriglieri al soldo di quelle stesse nazioni o di altre più lontane; nell’area ora si confrontano oltre venti gruppi etnici con propri miliziani che operano tuttora in tutto il paese e in particolare nel Kivu e nel Nordest del paese, continuando a contendersi quella spartizione bellica. Guerre di mercenari per procura, che proseguono (ciascuno cambiando nazioni di riferimento in base al prezzo) quel conflitto panafricano che ha provocato più di 4 milioni di morti, la maggior parte per fame e non per armi da fuoco. Il paese è arretrato di 100 anni: alla fine della guerra la popolazione non aveva nulla e così le ong hanno cominciato a ripristinare, innanzitutto, dispensari e ospedali, ma nessuno vi accedeva: la gente si vergognava ad andare in ospedale perché non aveva di che coprirsi, i vestiti erano un lusso.

Invece paesi come l’Uganda sono diventati improvvisamente esportatori di oro. Il Ruanda del preziosissimo coltan, che si trova solo in Congo nella regione del Kivu dove si muovono milizie e faccendieri spregiudicati che lo trasportano oltre confine e il Pil di Kigali cresce a dismisura.

Per riportare la “pace” è stata istituita una missione dell’Onu composta da oltre 17.000 uomini, Monusco è il tentativo di stabilizzazione di una regione più grande e impegnativo mai messo in campo dalle Nazioni Unite. Oggi la missione è ancora al suo posto (i suoi budget stratosferici di più di un miliardo all’anno fanno parte del sistema economico del Kivu), la guerra non è finita e la pace lontana: spariti gli eserciti stranieri, sono rimasti i guerriglieri che infestano il territorio, lo rendono insicuro e si battono per lobby economiche e politiche, persino di potenze regionali interessate alle risorse.

Contrabbando e saccheggio

Questo paese è un non-lieux. Come per la corsa all’oro, le aree dei ritrovamenti diventano la meta di disperati in cerca di fortuna. Ma non solo. Sono la meta delle multinazionali, degli stati di mezzo mondo che vogliono approfittare delle risorse del Congo.

«Il requisito principale di un non-luogo non è attribuibile a un generico elenco di luoghi progettati, ma dipende dalla percezione collettiva, che gli utenti hanno di quel determinato contesto spaziale» (Paolo Campanella, 2006), perciò riconduciamo quella definizione se non a tutta la repubblica congolese, almeno alla regione del Kivu, una zona di razzia; il luogo delle guerre fratricide, vendute come tribali, ma combattute proprio per le risorse minerarie.

In Rdc si trova di tutto: legno, rame, cobalto, coltan, diamanti, oro, zinco, uranio, stagno, argento, carbone, manganese, tungsteno, cadmio e petrolio. Materie prime che fanno gola a mezzo mondo.

La Repubblica democratica del Congo è lo stato più ricco di risorse naturali dell’Africa, gli oltre 84 milioni di abitanti potrebbero vivere nel benessere, solo se i suoi governanti investissero le royalties ricavate dalle estrazioni minerarie nel paese. Invece no: l’economia del paese è tradizionalmente orientata alle esportazioni, fortemente dipendente dalle commodities primarie. I diamanti hanno sostituito rame e cobalto come principale voce delle esportazioni (un terzo del contrabbando della zona dei Grandi Laghi): il cobalto finisce tutto nelle mani dei cinesi; i diamanti, oltre 22 milioni di carati, sono nelle mani delle multinazionali; il coltan – estratto praticamente solo in Congo – prezioso per l’industria della telefonia mobile e per quella aerospaziale, è gestito dal Ruanda. Il Congo possiede la seconda foresta pluviale al mondo, da cui si ricava legname pregiato. L’autosufficienza alimentare in molte aree del paese è un miraggio. Le terre coltivate rappresentano solo il 4 per cento del totale, nonostante il 75 per cento della popolazione attiva si occupi di agricoltura, per lo più di sussistenza; il Pil pro-capite è di circa 450 dollari, uno tra i più bassi al mondo, e l’indice di sviluppo umano è 0,433 che colloca la Repubblica democratica del Congo al 176° posto al mondo.  E la stragrande maggioranza della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno.

La “fluidità” delle milizie abita territori porosi

Secondo il Gec (Gruppo di studio sul Congo), almeno 125 gruppi armati sono censiti nelle regioni orientali del Nord Kivu e del Sud Kivu, teatro da oltre 20 anni di quello che è stato definito da più fonti un “lento genocidio”, la metà dei quali è tutt’ora in attività.

Nella regione orientale della Repubblica democratica del Congo si muovono decine di milizie. Difficile tracciarne una mappa. La loro ragion d’essere è la fluidità, cambiare “padrone”, seguire gli affari economici e, dunque, concentrarsi sulle risorse minerarie e lì mettere in atto la loro azione di controllo e gestione del territorio. Storicamente nell’area agiscono i miliziani Mayi Mayi – storica formazione nata tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila come sorta di autodifesa dalle truppe ruandesi che per alcuni anni hanno occupato quell’area – sono tornati a essere molto attivi nella regione.

La distribuzione delle milizie nella Regione dei Grandi Laghi (fonte dati Agi rimaneggiata da OGzero)

I Mayi Mayi, tuttavia, sono semplicemente un nome, infatti comprendono milizie guidate dai signori della guerra, dagli anziani delle tribù, dai capi villaggio, da faccendieri economici. I gruppi hanno perso anche la loro aura mistica: un tempo combattevano solo con il machete forti del potere che gli derivava dall’acqua che li proteggeva dalle pallottole. Quell’epoca è finita. E agli inizi degli anni Duemila dalla loro lotta di “autodifesa” dei villaggi sono passati alla difesa del territorio contro l’occupazione ruandese. Occupazione che Kigali ha sempre negato, evidente nei primi anni Duemila proprio nell’area di Goma. L’esempio più eclatante della presenza ruandese e del controllo del territorio era che il prefisso telefonico internazionale per chiamare quelle zone era quello del Ruanda. Un abitante di Kinshasa, la capitale della Repubblica democratica del Congo, per parlare con un parente di Goma doveva comporre il prefisso internazionale del confinante Ruanda e viceversa. Quell’occupazione, giustificata da Kigali con il pretesto della lotta contro le milizie hutu responsabili del genocidio fuggite nel Kivu, si è presto trasformata in un’azione predatoria nei confronti delle risorse della regione, in particolare il coltan di cui Kigali è diventato esportatore. La milizia dei Mayi Mayi si è presto trasformata, data la sua fluidità, in una lobby d’affari armata, partecipando alla cosiddetta “guerra del coltan”. Da mesi il gruppo ha ripreso vigore nella regione. Ai Mayi Mayi è stata attribuita la responsabilità di 82 attacchi, che hanno provocato 81 morti.

Nel Nordest della Repubblica democratica del Congo è stato attivo anche il famigerato movimento, il Lord’s Resistence Army (Lra), esercito di resistenza del Signore, guidato dal famigerato Joseph Koni, che ha fatto della religione la motivazione della sua lotta. Il movimento nato in Uganda si è presto trasformato in gruppo terroristico e ha allargato il suo raggio di azione sconfinando, tra gli altri paesi, nel vicino Congo e le motivazioni religiose sono scomparse. L’Lra ha rapito e costretto più di 60.000 bambini a combattere nelle sue fila. La ferocia di Koni ha trasceso ogni ragione politica e religiosa della sua lotta. Questo movimento, tuttavia, ha ridotto le sue attività, ma non è scomparso. L’Lra è rimasto acefalo per l’incriminazione all’Aia del suo capo e si è diviso in cellule al soldo del miglior offerente.

Gli eredi del genocidio: l’influenza ruandese

In tutto questo disordine e povertà non poteva mancare la penetrazione del terrorismo islamista. I jihadisti vivono di disordine e povertà (forse meno di religione): il loro brodo di coltura. È nato, infatti, l’Islam State Central Africa Province, una sorta di emanazione del Califfato del defunto al-Baghdadi. Ed è proprio nel Nordest della Repubblica democratica del Congo che avvengono la maggior parte degli attentati; svariati gruppi volta per volta li rivendicano, ma la maggior parte di queste azioni criminali sono attribuite al gruppo nato in Uganda e di ispirazione salafita, Allied democratic Forces (Afd). Guidata da Jamil Mukulu, un ex cattolico convertito all’islam, è considerata vicina al movimento sunnita Tablighi Jamat e secondo molte fonti ufficiali è legata all’Isis e alle reti del terrorismo internazionale. Gli attacchi messi in atto da questo gruppo dall’ottobre scorso sono più di una decina e hanno provocato 10 morti, evidenziando l’espansione del terrorismo islamico nella regione dei Grandi Laghi. Azioni che hanno come obiettivo le ricchezze minerarie. Queste milizie, che hanno ripreso vigore proprio grazie alla sua affiliazione all’Isis, sono diventate una sorta di attore “parastatale” creando scuole, ospedali e riscuotendo le tasse. Ma gli introiti maggiori arrivano dal commercio illegale dell’oro e del legno. L’Adf, tuttavia, è molto attento a non entrare in conflitto con i Mayi Mayi e con il Fronte democratico di liberazione del Ruanda.

Ma da dove nasce l’Adf?

Prima guerra africana

Il Fronte democratico di liberazione del Ruanda è nato nel 2000, dopo aver assorbito l’Esercito di liberazione del Ruanda (ALiR), gruppo armato costituito per lo più da ex militari delle Forze armate ruandesi (Far), che difendevano l’ideologia dell’Hutu Power, sconfitte durante il genocidio del 1994 contro i tutsi e gli hutu moderati, che portò al potere il tutsi Kagame. A luglio 1994, dopo l’ascesa al potere di Kagame, l’Esercito patriottico del Ruanda ha sostituito le Far, un gran numero di esponenti del quale ha attraversato il confine, scappando in Congo dove si erano rifugiati decine di migliaia di cittadini hutu. Dal 1995 al 1996 le ex Far si sono riorganizzate per formare l’Esercito di liberazione del Ruanda, il cui obiettivo era quello di riprendere il potere a Kigali, lanciando incursioni in territorio ruandese dalle sue basi congolesi. Per arginare questi ribelli hutu, il presidente Kagame ha fornito armi e fatto addestrare delle milizie tutsi banyamulenge che gravitano nella provincia del Sud Kivu.

In modo concertato con l’Uganda queste milizie si sono amalgamate con militari dell’esercito ruandese e ugandese, formando un movimento ribelle al soldo di Kagame, l’Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo (Afdl), diretta da un gruppo di oppositori all’allora presidente congolese, il dittatore Mobutu.

In un gioco complesso di alleanze incrociate, i due movimenti ribelli ruandesi – quello hutu e quello tutsi – seminarono terrore nel confinante Congo a partire dal 1997, con l’Afdl impegnato in una guerra di invasione delle province orientali dell’ex Zaire, scatenando la Prima guerra del Congo e portando al potere nel mese di luglio 1997 il suo portavoce Laurent Désiré Kabila, autoproclamatosi presidente e ribattezzando il paese in Repubblica democratica del Congo.

Seconda guerra africana

I tutsi ruandesi, alleati con il nuovo presidente, si trovarono in una posizione di forza, spingendo 300.000 rifugiati ruandesi a fuggire in altre regioni del Congo e altre migliaia a fare ritorno in Ruanda. Fu allora che l’Esercito di liberazione del Ruanda (hutu) si rese responsabile del massacro di altre migliaia di civili in una controffensiva nell’Est della Rdc, anche nel Parco nazionale del Virunga, e nel Nord del Ruanda.

Nel 1998 in Rdc scoppiò la Seconda guerra africana, dopo che il presidente Kabila aveva chiesto ai soldati ruandesi e ugandesi, suoi alleati, di uscire dal territorio nazionale, ma questi ultimi crearono un nuovo movimento ribelle, il Raggruppamento congolese per la Democrazia (Rcd) per ribaltare il potere di Kinshasa. Per difendersi Kabila strinse un accordo militare con gli hutu ruandesi dell’ALiR, rifornendoli di armi e munizioni, che alla stregua di altri gruppi armati rivali si resero protagonisti di gravi crimini contro l’umanità sia nell’Est della Rdc che in Ruanda e persino in Uganda.

Dopo l’assassinio del presidente Kabila, il 18 gennaio 2001, e la successione del figlio Joseph, l’ALiR ha consolidato la sua alleanza con l’organizzazione hutu ruandese delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda – basata a Kinshasa, la capitale –, che lo ha progressivamente assorbito. Le Fdlr sono l’emanazione del Comitato di coordinamento della resistenza, un gruppo di esiliati ruandesi hutu, dissidenti dell’Esercito di liberazione del Ruanda, che hanno dato vita al nuovo gruppo nel maggio 2000.

Le guerre, anche a bassa intensità, che si combattono nella regione del Kivu, servono alle varie milizie presenti sul territorio proprio per impadronirsi dei giacimenti di coltan e quindi poter esercitare il monopolio dell’estrazione, (utilizzando manodopera minorile, veri e propri schiavi che muoiono di fatica e malattie portate dal contatto con questo minerale) contrabbandare il minerale nei paesi vicini – come il Ruanda che è diventato uno dei maggiori esportatori, pur non avendone dei giacimenti, per poi venderlo alle industrie produttrici di componenti elettronici. Lo sfruttamento incontrollato di questa risorsa congolese ha costretto l’Onu ad accusare, in un rapporto del 2002, le compagnie impegnate nello sfruttamento delle risorse naturali del Congo – quindi anche il coltan – di favorire indirettamente i conflitti civili nell’area.

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Non spegnete subito i riflettori sul Congo https://ogzero.org/riflettori-sul-congo/ Sat, 06 Mar 2021 09:14:03 +0000 https://ogzero.org/?p=2564 Il 22 febbraio 2021 si accendono i riflettori sul Congo: nel parco del Virunga, in un agguato sulla via che porta a Rutshuru, vengono uccisi l’ambasciatore italiano a Kinshasa Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista del Pam Mustapha Milambo. Angelo Ferrari ricorda il percorso compiuto nella regione nota per la presenza (e la […]

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Il 22 febbraio 2021 si accendono i riflettori sul Congo: nel parco del Virunga, in un agguato sulla via che porta a Rutshuru, vengono uccisi l’ambasciatore italiano a Kinshasa Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista del Pam Mustapha Milambo. Angelo Ferrari ricorda il percorso compiuto nella regione nota per la presenza (e la tutela) dei gorilla quando ancora era in corso la Seconda guerra africana. Ve lo proponiamo prima che i riflettori si spengano nuovamente sulla zona dei Grandi Laghi su cui torneremo presto con una analisi approfondita su milizie, saccheggi di risorse e spartizioni di territori…


Mobutu se ne è andato

In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso percorso. La rete viaria completamente distrutta. E oggi non è cambiato nulla. Ma alle aziende minerarie non servono le strade, si muovono con aerei ed elicotteri.

Una normalità che si accompagna alla rassegnazione. Mobutu se ne è andato, ha terminato la sua marcia alla faccia del nome che si era dato dopo il suo editto di eliminazione dei nomi occidentali per sostituirli con quelli tribali. Lui prese il nome di Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Za Banga, che significa “il guerriero onnipotente che, grazie alla sua resistenza e all’inflessibile volontà di vittoria, passerà di conquista in conquista lasciando una scia di fuoco dietro di sé”. Lui ha lasciato un paese distrutto e depredato.

Una brutta piega: invasioni e fazioni ribelli

Mobutu non c’è più, ma la storia non ha preso la piega che avrebbe dovuto. Quella che il popolo congolese si aspettava, che i padri si auguravano, in cui i figli hanno creduto. Invece nulla di tutto ciò. Nel 1996 il Ruanda ha invaso la Repubblica democratica del Congo e organizzato l’estromissione di Mobutu l’anno seguente, con l’entrata trionfale a Kinshasa di Laurent-Désiré Kabila. Il 1998 gli stessi ruandesi se la prendono con il loro uomo, innescando una guerra che ha causato oltre 4 milioni di morti. Kabila se ne va ucciso dalla sua stessa guardia del corpo. Gli succede il figlio Joseph Kabila, 29 anni, in tutta fretta, nel gennaio del 2001 e i maligni vedono in lui la mente che ha ordito il complotto di cui è rimasto vittima il padre. Dopo intensi negoziati Kabila riesce ad arrivare agli accordi di pace nel 2003 e il nuovo governo riesce a mettere fine alla “grande guerra” che porta al ritiro degli eserciti stranieri alleati con il governo, Angola, Namibia e Zimbabwe, e di quelli che sostenevano i ribelli, Ruanda e Uganda. Finita la grande guerra gli scontri tra le fazioni ribelli, che crescono come funghi, non si placano. Proseguono incessantemente anche oggi, senza sosta per il Congo e la sua gente che vive, ormai, nella rassegnazione, avendo perduto la capacità di progettare un futuro compatibile con la dignità umana. I sogni e le speranze, che maturano oggi, si infrangono, domani, contro la ripresa di azioni violente da parte di un neonato gruppo ribelle. Sembra che gli unici capaci di progettare un futuro siano gli uomini in armi. I congolesi, invece, rassegnati a una comunità internazionale che considera il Congo una causa persa.

2003: un paese distrutto e depredato

E nel 2003, dieci anni dopo il primo viaggio in Zaire, mi si presenta un paese distrutto fino nell’intimo. Una lingua nera attraversa Goma. Il Nyiragongo, colui che vomita, ha riversato migliaia di tonnellate di lava sulla città, spaccandola in due. È passato più di un anno ma i segni della distruzione sono ancora evidenti.

Il cratere del Nyiragongo nel parco del Virunga (foto Marian Galovic)

Destino amaro per questa città del Nord Kivu in Congo. Nel 1994 “l’invasione” dei profughi ruandesi, più di due milioni, nel 1996 l’inizio della guerra di Desiré Kabila, nel 1998 una nuova guerra ha trovato il suo risvolto più cruento proprio in questa città e lungo la dorsale del parco del Virunga al confine con il Ruanda. La lava ha trascinato con sé case, abitanti, una parte dell’aeroporto – dopo sette anni la ferita è ancora aperta e l’ho potuto constatare di persona durante un viaggio a Goma nel 2010 – la cattedrale, la casa dei saveriani, fino a spegnersi nel lago Kivu che ha ribollito per giorni. Ironia della sorte non ha colpito la casa del vecchio e defunto dittatore, Mobutu. Ironia della sorte per una città che non si rassegna al suo destino, che in meno di cinque anni ha visto triplicata la sua popolazione. Una città segnata, fin nel profondo, dai profughi ruandesi, che poi ha visto l’invasione delle truppe del confinante Ruanda.

A Goma l’inizio del viaggio

Goma non si rassegna. Sulla lava i suoi abitanti hanno già ricominciato a costruire case di legno, hanno ridisegnato le strade, le rotonde, un lento ritorno alla normalità di una vita di un paese, il Congo, diviso dalla guerra e dall’odio. Ed è proprio a Goma che inizia il mio viaggio in questo paese ricchissimo e dimenticato dal mondo. Un viaggio per ricordare al mondo che quei 54 milioni di abitanti (nel 2021 hanno superato gli 84 milioni) vivono nella miseria e nel terrore. Un viaggio per rendere memoria a quasi quattro milioni di morti in cinque anni di guerra. Un viaggio per cercare nelle pieghe della disperazione, quei pochi rivoli di speranza e di pace che fanno dire a Bisidi Yalolo, responsabile del Wwf di Goma: «vedete quei fiori che piantiamo… Belli no?». Sì, quei fiori, quelle donne curve sulla lava a piantarli, sono uno dei segni più evidenti di una rinascita di una città che ha deciso di tornare a vivere e di dare un senso anche alla lava che ha bruciato tutto. Bisidi Yalolo la ricorda bene la guerra, ne ha subito le conseguenze, è dovuto scappare nella foresta, è tornato per proseguire un lavoro iniziato nel 1987. Una bomba ha centrato il suo ufficio e allora la fuga disperata. Lo hanno dato per morto finché non l’hanno visto ricomparire a Goma.

«L’epoca era quella della prima guerra di Kabila», mi racconta Bisidi. «Da Goma chiediamo a Nairobi il da farsi. È scoppiata la guerra, dicevo, loro mi hanno risposto, aspettate. Ma una bomba è piovuta diritta sulla nostra sede. Allora sono scappato e ho camminato per giorni percorrendo più di mille chilometri e sono arrivato a Kisangani. A Goma mi davano per morto. Poi sono tornato quando la bufera si è conclusa». È tornato e ha ripreso il suo lavoro di conservazione ambientale, di salvaguardia dei gorilla di montagna. Ma a che serve, quando c’è un intero popolo che muore? «Il problema – continua Bisidi – non è certo quello di interessarsi solo della natura o dei gorilla. Il problema è capire che la natura deve essere protetta ed è una risposta per la gente». I progetti, infatti, del Wwf, sono rivolti alla riduzione dell’impatto dell’uomo sul parco del Virunga. Come? Mettendo in campo progetti di sviluppo sostenibile per la gente del parco.

Rubare: i bambini che cantano

Nel villaggio di Rubare, sulla pista che porta a Rushuru – la stessa maledetta strada dove ha trovato la morte l’ambasciatore italiano Luca Attanasio il 22 febbraio del 2021 – è una festa quando ci vedono arrivare. Per la prima volta negli ultimi cinque anni, dei bianchi si avventurano nella zona. Soldataglia, banditi, retroguardie degli eserciti occupati, quello del Ruanda, imperversano ancora nella zona. Non è più una guerra sistematica, ma saccheggio. Ciò che è accaduto pochi giorni prima del mio arrivo, una ventina di morti, rende ragione di una situazione ancora di tensione. Così come la nutrita scorta armata di militari che mi accompagna e che aumenta di numero man mano che ci addentriamo nella foresta. Io ne ho contati più di una trentina, ma potrebbero essere di più. Ogni tanto vedo facce mai viste che spuntano da dietro le colline. Tutti militari adolescenti. Ma a Rubare, il nostro arrivo, sembra una festa, quasi di liberazione. I bambini ci accolgono con una canzone che, pressappoco, dice così: «Siete venuti in pace, vi accogliamo in pace, tornate a casa e dite a tutti che siamo gente pacifica». Qui a Rubare è in atto un progetto sostenibile a vasto raggio. L’obiettivo è quello di creare una demarcazione tra il parco e la zona agricola, attraverso una serie di attività: produzione di legno per uso energetico alternativo al prelievo del parco, sviluppo di attività agricole per l’arricchimento del suolo e approvvigionamento di generi alimentari, l’allevamento. Ma non solo. Sono stati creati laboratori di sartoria e una scuola di alfabetizzazione frequentata soprattutto da donne. Un modello sperimentale che si sta applicando in molti villaggi.

Sopravvivenza negli insediamenti intorno a Goma (foto Ispencer)

«Abbiamo prodotto e piantato sei milioni di piante», racconta orgoglioso Bisidi. Percorrendo la strada, sinonimo di disperazione e morte, si trovano villaggi che tornano a vivere. Ed è questo che ti capita di vedere mentre ti avvicini al limitare del parco. Vedi le donne, nei campi, chine a zappare una terra fertile che potrebbe dare tanti frutti. Girano appena il capo, non raddrizzano la schiena perché devono continuare a zappare, ma gli occhi raccontano tutto. Tutto il dolore vissuto, tutta la speranza che può dare quel semplice incontro. Mi hanno raccontato che veder dei bianchi, dopo lunghi anni di guerra, gli ha portato un po’ di speranza, anche se è solo un passaggio, un saluto con la mano e un sorriso.

Se hai visto l’Africa, | questo continente gigantesco | che un tempo partorì la stirpe umana, | hai visto anche le donne | con la schiena curva | e le zappe alzate | che cadono e si sollevano | cadono e si sollevano. | La terra turbina | attorno a queste zappe. | Il canto della terra è il canto della zappa. | Il canto della donna. | Il canto della zappa è il canto della vita.      (Henning Mankell, Racconto dalla spiaggia del tempo)

 

“Incontrare” i gorilla nel parco del Virunga:

L’obiettivo del viaggio è, anche, vedere i gorilla di montagna. Farlo da questa parte del parco, nel Congo, ha solo il senso di dimostrare che qualcosa sta cambiando. Che qualche segnale di speranza c’è anche qui, come quei bambini di Rubare che cantano. Ma la stessa speranza rappresentata dalla maestosità della natura, della foresta. Più che “vedere”, la parola giusta è “incontrare” i gorilla di montagna. Entriamo nella foresta vergine, facendoci largo con il machete, aspettiamo un segnale, un richiamo. I militari che ci “accompagnano” restano al limitare della foresta vergine, anche questo per dimostrare che quello spazio deve essere libero e in pace. I gorilla li devi cercare. Ti trovano loro. L’incontro fa tremare le gambe. Una famiglia intera di 14 componenti e i guardiani del parco hanno dato a tutte un nome, quella che incontriamo si chiama Kwitonda. Loro davanti a te, a pochi metri, ti guardano, i piccoli vorrebbero giocare, il dominante, il silverback, invece, non si cura nemmeno di te. Lui è quello che comanda. Ti tremano le gambe quando un gorilla si appoggia al tronco di un albero, incrocia le braccia, e ti guarda, come se volesse entrare in relazione con te, per chiederti «che ci fai tu qui». La paura monta quando uno dei piccoli di tocca un braccio e, come ci hanno spiegato i ranger, abbassi lo sguardo, mai guardarli diritto negli occhi, sarebbe un segno di sfida. La paura passa quando ti prende il berretto e lo porta via.

Gorilla silverback nel parco del Virunga in Congo (foto Photocech)

Sono istanti indimenticabili. Il fremito del corpo, questa volta, non è il sintomo della paura, è piuttosto meraviglia e stupore per essere entrato in relazione con un altro essere vivente e a casa sua. Ecco, la natura ha deciso di renderti partecipe della sua bellezza, come insegna il Wwf di Bisidi nelle scuole di Goma.

In volo: solo un taccuino e la macchina fotografica

Ed è durante una rappresentazione tenutati in onore degli ospiti bianchi, che arriva la telefonata. Dall’altro capo del telefono il generale Roberto Martinelli vicecomandante della Monuc, che ci invita ad andare all’aeroporto di Goma per registrarci su un aereo delle Nazioni Unite diretto a Bunia. I voli commerciali per quella località sono tutti sospesi, troppo pericolo, e allora per poter vedere e documentare ciò che accade in quell’angolo d’Africa non rimaneva altro che chiedere all’Onu. Le probabilità erano poche, ma ora pare che si stia per partire. Di corsa all’aeroporto, ci registriamo su un volo che parte da lì a 15 minuti. Con me non ho nulla, se non la macchina fotografica e il taccuino, ma l’occasione potrebbe non ripetersi e allora si sale sul volo che sta trasportando mezzi blindati e alcuni uomini del contingente uruguaiano dei caschi blu, non c’è tempo per prendere nemmeno lo spazzolino da denti. Dopo uno scalo tecnico per riempire i serbatoi del C-130 a Kigali, si arriva a Bunia.

Bunia: “era una città bellissima”

Disperazione ovunque. Le strade di Bunia, capoluogo dell’Ituri, regione del Nordest del Congo, sono deserte. Si sente solo il rumore sordo delle armi. I colpi dei mortai fanno capire che qui la guerra non è finita. La popolazione si è rassegnata a piangere i morti, a cercare di che sfamarsi. La vita è paralizzata. E nulla possono fare le organizzazioni non governative presenti in città. Riesco a incontrare i volontari di Coopi, Cooperazione Internazionale, che da giorni sono asserragliati in casa. «Nei periodi di calma – dice Silvia Giardino – la gente viene nei nostri centri dove aiutiamo i malnutriti e distribuiamo cibo. Poi cresce la tensione e tutti scappano. Così il nostro lavoro viene vanificato». Coopi si occupa di due centri terapeutici e di otto punti sanitari per combattere la malnutrizione. La popolazione percorre, per raggiungere i centri, anche 60 chilometri a piedi, arriva sfinita. Sono tutti sfollati che non hanno respiro, sono costretti a fuggire di villaggio in villaggio, inseguendo la vita, lasciandosi alle spalle la morte. «La guerra non si è mai interrotta – continua Silvia – si sposta continuamente. Il 70 per cento delle persone vengono nei centri sono sfollati e per questo lavoriamo anche nella distribuzione dei kit cucina. Soffriamo nel vedere la popolazione ridotta in queste condizioni». Dai centri, in momenti di relativa calma, passano tra le 100 e le 150 persone al giorno. Gianni di Mauro, un altro volontario, però ricorda un’altra Bunia, quella di vent’anni fa. «Era una città bellissima – dice – l’ospedale era forse il migliore del Congo. Le strade asfaltate, fiori ovunque. L’economia era fiorente, c’erano addirittura negozi di Armani. In certi alberghi si poteva entrare solo con la cravatta.

Tornare indietro di sessant’anni

La strada Mambasa-Kisangani, lunga 700 chilometri, si percorreva in una giornata, oggi ci vogliono settimane». Bunia è tornata indietro di sessant’anni. Tanta tristezza negli occhi di Gianni. Ma è così, la guerra schiaccia tutto, distrugge. Fuga, disperazione e morte. La città si svuota. Come in ogni guerra. Materassi di gommapiuma sulla testa. Il sole a picco. E rigorosamente in fila indiana lungo la strada che porta all’aeroporto. Bambini per mano con il volto rigato dalla paura. Una processione verso una speranza improbabile. Alle spalle le armi che crepitano. Migliaia cercano rifugio all’aeroporto, chiuso da giorni e diventati ora base militare ugandese, in cerca di una via di fuga dai massacri. La gente di Bunia scappa dai colpi di mortaio che li rincorrono. Sono tutti hema, l’etnia minoritaria della regione, gente orgogliosa, allevatori, nipoti o cugini dei tutsi ruandesi. Dietro di loro i lendu, bantu, figli o cugini degli hutu ruandesi. Sembra un film già visto: quello del genocidio ruandese. Ma questa è realtà. Dura e cruda realtà fatta di morti, massacri, fughe, stupri, rifugiati, contrasti etnici usati ad arte dai ribelli, appoggiati da questo o quest’altro paese in una guerra infinita, quella del Congo, che dura da cinque anni. Gli appetiti dei paesi confinanti, dei ribelli con sigle altisonanti, non si sono arrestati di fronte alle tregue, agli accordi politici che tentano di mettere la parola fine al massacro sistematico.

Ricordare questo viaggio, a distanza di quasi vent’anni, è utile per capire quello che accade oggi. Se allora era guerra piena, ora è a bassa intensità, ma altrettanto feroce. La gente non ha il tempo di riorganizzarsi in un luogo, se deve, nuovamente, più volte all’anno, fare fagotto e scappare altrove. Chi ce la fa. E le milizie, con altri nomi, sono sempre lì a dettare legge. Lo stato lontano e impercettibile.

La speranza (vana) si chiama Uganda

In aeroporto i fuggiaschi si mettono in fila. Dall’altra parte della pista gli ugandesi stanno caricando un aereo: carri armati, blindati e soldati dai volti gentili. Ma anche bambini soldato arruolati per combattere una guerra non loro. Gli hema, in fila, attendono il loro turno. Sperano di salire su quell’aereo che ha come meta Entebbe. Uganda: la salvezza e la certezza di vivere da rifugiati in un paese non loro, in campi fatiscenti, ma lontano dalla sicura morte. I “soldatini” adolescenti scattano all’ordine dei loro comandanti. I rifugiati attendono da giorni di partire. Ecco, vengono chiamati, avanzano. No, tutti indietro. Dietrofront, non è ancora arrivato il momento. E la speranza di sgretola, affonda nell’asfalto bollente della pista.

Gli ugandesi devono lasciare l’aeroporto. La tensione è alta. La Monuc, la missione di osservatori dell’Onu, non ha la forza militare per mantenere il controllo della città, figuriamoci dunque della regione dell’Ituri. Eppure, i compound dell’Onu si riempiono di persone che, qui, si sentono più protette.

È una mattina qualsiasi. La vigilia della partenza delle truppe dell’Uganda, paese occupante, e la tensione si alza. Le strade di Bunia sono deserte, I magazzini chiusi. E non è notte. Tutti aspettano l’offensiva dei lendu. Intanto un plotone di militari congolesi, travestiti da poliziotti, fanno la loro parata, cantando e correndo, mostrando i muscoli per le vie centrali della città. Fanno sapere che ci sono. Sembrerebbero voler rassicurare la popolazione. Ma la gente non sorride. Da lì a poco il plotone cerca rifugio negli uffici della Monuc dove ha trovato riparo anche il capo della polizia locale e dove sono asserragliati i caschi blu uruguaiani. Il plotone si squaglia al primo colpo di mortaio.

Nei palazzi si parla, per strada si muore

Il giorno è arrivato: 6 maggio. Riprendono i combattimenti. È un massacro. Lo scontro è feroce. Si fronteggiano le due fazioni: hema e lendu. È una storia infinita di potere. Tutto questo mentre a Kinshasa sono in corso le trattative per formare il governo di transizione, per definire quanti e quali vicepresidenti affiancheranno il capo dello stato. Nei palazzi del potere, compresi quelli della missione Onu, si discute e intanto per le strade di Bunia si muore. Il gioco politico è chiaro. Il Consiglio di sicurezza ha imposto agli ugandesi di lasciare la regione. L’Uganda ha risposto deciso: lasciamo il Congo in tempo zero. Panico e sconcerto. La Monuc non ha la forza per rimpiazzare militarmente gli ugandesi. E allora si tratta. Il gioco è chiaro. L’Uganda vorrebbe rimanere. La regione è ricca di risorse, il petrolio vorrebbe trovare la luce, e gli ugandesi lo sanno. Per questo lavorano dietro le quinte, sostenendo questa o quest’altra fazione ribelle. All’inizio è l’Unione dei patrioti congolesi (Upc), guidata da Thomas Lubanga di etnia hema, a prendere il potere, ma subito fa l’occhiolino ai ruandesi. Scontenta gli ugandesi e, allora, si va nuovamente alle armi. L’aiuto di Kampala si rivolge ai lendu, nemici giurati dell’Uganda. Insomma, il giochino delle tre carte. In mezzo un contingente di caschi blu uruguaiani che non possono nulla, se non fare da deterrente. Però il mandato è debole. E poi a Bunia non esiste nessuna logistica militare dell’Onu. I primi militari arrivano con due bottiglie d’acqua e due razioni da combattimento. Troppo poco. L’Uganda lo sa. Nei palazzi della Monuc di Kinshasa le trattative di affiancano alla preparazione del contingente militare che dovrebbe sostituire l’esercito di Kampala. Settecento uomini che dovrebbero diventare 2300 entro l’estate. Lo sforzo è enorme. Ma gli ugandesi se ne vanno. È guerra. Sei giorni di battaglia feroce e l’ex amico dell’Uganda, tornato all’ovile, Lubanga torna a controllare Bunia. Viene firmata la tregua. Ma le preoccupazioni rimangono. Gli osservatori sono scettici, se non pessimisti. La parola fine non è stata ancora scritta. All’Uganda, a questo punto, conviene di più il giochino delle tre carte che un intervento diretto.

E l’inferno si scatena

Un giorno carico di tensione. L’obiettivo, tra gli altri, è ancora capire, facendocelo raccontare dai funzionari Onu, cosa sta davvero succedendo nella regione. Ma le riunioni si moltiplicano. L’appuntamento con la funzionaria italiana viene spostato in continuazione, mentre nella stanza, sbattendo porte, si succedono ufficiali di diversi paesi occidentali. Nel compound delle Nazioni Unite gli sfollati crescono, ne arrivano in continuazione, lo pensano un luogo protetto, ma sono anche il segnale che la guerra è alle porte. Decido, insieme a un collega, di mangiare qualcosa. C’è un ristorante, l’unico aperto, proprio lì, ed è lì che attendiamo udienza e la nostra funzionaria. Di cibo poco, qualche spiedino di carne di capra e dell’insalata. Ai tavoli altri bianchi, tutti funzionari di qualche agenzia dell’Onu. Chiediamo la birra, la capra è dura da mandare giù. Non c’è. Solo una bottiglia. Un segno inequivocabile che la guerra è alle porte. Poi cade l’occhio, che esprime tutta la voglia di birra, sotto le sedie dei tavoli occupati: casse di birra portate dagli stessi avventori. Merce preziosa, in tempi di guerra. Chiedo ancora la birra, la stessa risposta: non ce n’è. Suggerisco alla gestrice del ristorante di andare a comprarne almeno una cassa. Gli occhi diventano grandi per la paura: tutti i magazzini sono chiusi. Insisto, con anche un po’ di superbia: impossibile che non si trovi della birra, e alla fine spuntano le bottiglie della preziosa Primus. Con la birra arriva anche la funzionaria che aspettavamo, sono le 23. Ci racconta delle riunioni che devono rimanere segrete, poi ci racconta la realtà. Io e il collega ci guardiamo stupefatti: ma queste cose le sappiamo anche noi. Non c’è bisogno di essere nelle stanze segrete dell’Onu. Lei, la giovane funzionaria, sorride ed è evidente che di segreto non c’è nulla. Ci capiscono poco anche loro. Dal sorriso al saluto e ci lascia il suo pomposo biglietto da visita e sotto il nome – lo tralascio per la privacy e nella speranza, soprattutto, che ora sia un po’ più avveduta e competente di allora – c’è tutta la sua vita: “Master of International Affairs Human Rights and Conflict Resolution”. Un master conseguito alla Columbia University di New York. Ma prima di congedarci le diciamo dei rumors che circolano tra i poveracci assiepati nella sede dell’Onu e cioè, per farla breve, che l’indomani ci sarebbero stati scontri violenti. Lei sorride e liquida le voci così: «Non abbiamo segnali in questo senso». Il giorno dopo si è scatenato l’inferno.

Il ritorno a Goma

Il nostro tempo a Bunia è finito. Le condizioni di sicurezza sono pessime e dunque bisogna partire. All’aeroporto dovrebbe esserci l’areo dell’Onu che ci riporterà a Goma, dopo un passaggio a Kisangani. Arriviamo all’aerostazione e un uomo della sicurezza dell’Onu ci dice che l’areo non c’è. Un guasto o non so che. Dunque, chiediamo all’uomo che dobbiamo fare. «State qui e ammirate il panorama». Sarcasmo, stupidità. Il panorama: la gente che scappa dagli scontri cercando rifugio in Uganda. Una bella prospettiva. Ma, detto questo, l’uomo sale sulla sua jeep e tanti saluti. Da lì a poco scopriamo che sta arrivando un aereo dell’Unione europea, EcoFly, che dà lì tornerà direttamente a Goa, e che fa servizio umanitario nelle zone di guerra trasportando i cooperanti. I giornalisti, però, non sono ammessi. Beh, provarci non guasta. Appena arriva, mostro al funzionario un tesserino che mi identifica come cooperante. Avevo dimenticato di averlo, ma potrebbe essere la mia salvezza. Lui, forse la fretta, controlla appena e mi indica il portellone del velivolo.

Torna il silenzio sulla guerra dimenticata dal mondo

Riesco a salire sull’aereo – sono più fortunato dei congolesi – che mi porta lontano dall’inferno. Un abbraccio frettoloso con le persone conosciute, non c’è tempo per soffermarsi, ma l’abbraccio è caloroso e avvolgente. Indimenticabile. Corre il bimotore sulla pista. Decolla, i rumori della guerra svaniscono. E torna il silenzio su una guerra dimenticata dal mondo. Solo per onore di cronaca: dopo la nostra partenza da Bunia l’areo dell’Onu è arrivato e ripartito per Kisangani. Il generale Martinelli, non avendo nostre notizie, stava lanciando l’allarme: due giornalisti dispersi in Congo. Solo una nostra telefonata al quartier generale delle Nazioni Unite a Kinshasa fa rientrare l’allarme.

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Racconto di Natale: linee cancellate e riemerse dal suolo d’Africa https://ogzero.org/africa-un-continente-non-un-paese-racconto-di-natale-di-eric-salerno/ Thu, 24 Dec 2020 08:21:58 +0000 http://ogzero.org/?p=2114 In questo anno difficile che si chiude con uno “strano” Natale abbiamo pensato di condividere con voi lettori un racconto che racchiude un mondo perduto: quello che un tempo scaturiva dai reportage di viaggio. Ecco, ci piacerebbe che un po’ di quello spirito passasse attraverso questo scritto di un giornalista-autore che ha accettato di accompagnarci […]

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In questo anno difficile che si chiude con uno “strano” Natale abbiamo pensato di condividere con voi lettori un racconto che racchiude un mondo perduto: quello che un tempo scaturiva dai reportage di viaggio. Ecco, ci piacerebbe che un po’ di quello spirito passasse attraverso questo scritto di un giornalista-autore che ha accettato di accompagnarci nell’impresa in cui ci siamo gettati pochi mesi fa, per festeggiare il primo Natale insieme. In attesa di poter nuovamente viaggiare davvero, leggetelo, gustatevelo, immaginate di percorrere strade ferrate in un continente in perenne fermento, e di conoscere il mondo!


Un continente, non un paese

«I problemi dellAfrica». «Quegli africani tutti uguali…». «Andiamo in vacanza in Africa». Quante volte ci si riferisce a quel luogo a sud del Mediterraneo – hic sunt leones – come un solo paese, non il terzo continente per grandezza della Terra. Gli studiosi più cauti al massimo guardano a quel pezzo di mondo come se fossero due: in alto Marocco, Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto che considerano estensione del Medio Oriente; a sud del Sahara altre quarantotto nazioni o territori dove vivono – o sopravvivono – ben oltre un miliardo di persone. Uniti, più o meno, dal colore della pelle. Divisi da duemila lingue, da una moltitudine di credenze e religioni, dalle rivalità tipiche del genere umano. Popoli con radici antiche e storie ancora in parte sconosciute, sicuramente sottovalutate. Popoli che gli insegnamenti ereditati dal passato ci fanno chiamare tribù (termine poi usato dagli stessi africani) per indurci a non capire che molti dei conflitti armati che tormentano il continente hanno radici nei confini tracciati con noncuranza dalle potenze coloniali europee in una conferenza a Berlino (1894-95) e alla fine della Prima guerra mondiale.

I confini: un tracciato incerto

Tra la fine degli anni Sessanta e nel decade successivo, con la decolonizzazione ancora in corso, sono stato tre volte nel Camerun: 475.442 chilometri quadrati, oltre 100 più dell’Italia. A guardarli sulla carta, i suoi confini sembrano opera di un bambino di due anni a cui i genitori hanno chiesto di disegnare un animale preistorico. Dal Golfo di Guinea si allungano come un serpente in movimento nel cuore del continente, a ridosso del lago Ciad: un tracciato sempre incerto. Come oggi è incerto il futuro del paese, bacino apparentemente interminabile di un flusso migratorio versa la speranza. E come per motivi simili è incerto il futuro di altre realtà del continente dove si combatte e si muore e dove forze estranee, vecchie e nuove, sono sempre più protagoniste di un grande gioco. O, meglio, di più giochi. Nel maggio 1963, gli stati africani indipendenti, in una conferenza ad Addis Abeba, fondarono l’Organizzazione per l’Unità africana. Il panafricanista Kwame Nkrumah (rivoluzionario e primo presidente del Ghana) voleva veder nascere nel suo continente quello che sognava Altiero Spinelli per l’Europa ma si dovette accontentare di uno statuto meno ambizioso e che, comunque, metteva in primo piano la necessità di non mettere in dubbio le frontiere uscite dal colonialismo. La parola d’ordine per tutti: evitiamo la balcanizzazione del continente.

Camerun

Dal “Messaggero” del 3 agosto 1969 il racconto di Eric Salerno della costruzione della Transcamerunense, le prospettive (tradite?) di ricchezza e di progresso in Africa Equatoriale

Diversi Camerun in un solo paese

Quei tre viaggi in Camerun offrivano all’osservatore dosi calcolate di ottimismo dove oggi – e anche allora – è guerra. Cominciamo questo percorso da Douala, un grande porto dove in un ristorante francese, retaggio positivo del colonialismo, assaggiai per la prima volta le cosce di rana e dove uno chef parigino di nascita preparò un incredibile soufflé di cioccolato per coronare un pasto di gran livello. Mangiai dei crostacei raffinatissimi quasi d’obbligo perché è da loro che il paese prese il suo nome. Gli esploratori portoghesi che nel XV secolo approdarono da quelle parti non avevano dubbi: il delta del Wouri, ricco di quegli animali acquatici, divenne Rio dos Camarãos (“Fiume dei gamberi”); il paese, con il passare del tempo, Camerun.

Insegne nel Camerun francofono… (foto di Eric Salerno)

Erano alcuni giorni che ero costretto a rispolverare il mio francese, lingua comune per le molte etnie di quella parte del paese, ed ebbi quasi un sussulto quando, usciti da Douala e arrivati dopo non molto quasi alla base del Monte Camerun mi accorsi che le insegne delle botteghe erano improvvisamente tutte in inglese. Avevamo attraversato una frontiera che era stata cancellata e che oggi, mezzo secolo dopo quel viaggio, segna la linea di confronto tra due mondi in contrapposizione. In un posto di ristoro a Buea, il capoluogo della regione del Sudovest, 870 metri di altitudine sulle pendici meridionali del monte più alto (4040 m) di tutta l’Africa centrale (è un vulcano attivo), mi offrirono un muffin, retaggio non proprio sofisticato della breve presenza degli inglesi.

insegna inglese

Foto di Eric Salerno

La Repubblica federale che (non)unisce del tutto

Trovai, in quella e nelle altre visite, poco o nulla degli anni in cui questo lembo d’Africa si chiamava Kamerun, i suoi padroni parlavano il tedesco, ed era ancora più grande grazie a uno scambio territorio-favori (il trattato Marocco-Congo del 1911) tra Berlino e Francia. Una mossa sulla plancia della Monopoli africana simile ad altre tra le potenze colonialiste. Londra e Parigi, dopo la sconfitta della Germania, si divisero il bottino africano della Grande Guerra. Passarono di mano anche il Tanganika, oggi Tanzania dopo una non sempre tranquilla unione con Zanzibar; il Togo dove lotta un movimento separatista nel West Togoland, quella parte dell’ex colonia tedesca che dopo la decolonizzazione divenne una provincia del Ghana. Il Kamerun fu diviso in due: Camerun inglese, accanto alla vasta colonia britannica della Nigeria, Camerun francese, appoggiato agli ex possedimenti di Parigi a nord e a est. Poi dopo varie fasi incerte nacque la Repubblica federale che avrebbe dovuto rispettare l’autonomia della popolazione anglofona rispetto alla preponderanza di quella francofona. Non fu così e la spaccatura avvenne proprio sulla questione linguistica, eredità coloniale e fattore unificante di gruppi etnici e popoli non soltanto in questo paese. Tre anni fa, la proclamazione della Repubblica federale di Ambazonia da parte degli anglofoni e la nascita di movimenti separatisti armati ha portato a un conflitto ancora in atto. E che ricorda quello che infuriava nella stessa regione cinquanta anni fa che, come scrissi allora, riguarda la competizione tra i bamiléké (nelle regioni anglofone) e gli altri, e aveva radici profonde ma anche motivazioni, diciamo, aggiornate.

Un reportage di Eric Salerno dal Camerun, apparso su “Il Messaggero”, l’8 agosto 1969: rivalità tribali vs. unità nazionale

“I bamiléké sono progrediti in questi ultimi anni a grandi sbalzi, superando quasi sempre lo sviluppo economico e sociale degli altri gruppi etnici. I sistemi feudali delle loro tribù sono stati aboliti e la società bamiléké ha sostituito le strutture dei villaggi con cooperative, associazioni comunitarie per il commercio. Oggi possiedono piantagioni, ricche e altamente produttive, stabilimenti per il trattamento del caffè, garage e magazzini, e gestiscono la quasi totalità dei servizi di trasporto terrestre del paese”

L’allora presidente Ahidjo, un foulbé (etnia minoritaria, musulmano, del Nord) sosteneva la necessità di raggiungere la non facile unità nazionale prima di impegnarsi nello sviluppo economico del paese. Oggi il paese è tra i più solidi grazie alle risorse naturali, compresi petrolio e gas, legnami pregiati e prodotti agricoli ma la ricchezza è concentrata nelle regioni meridionali. La scena politica è da anni dominata da un partito (Movimento democratico del Popolo camerunese) e dal suo presidente Paul Biya, 85 anni, al potere dal 1982 e al suo settimo mandato dopo le contestate elezioni del 2018.

L’eredità coloniale delle religioni

Credo che sia importante, qui, sottolineare un altro elemento di coesione e in molti casi di tragica lotta fratricida in questo paese come in tutto il continente: le religioni come eredità coloniale. L’islam, arrivato soprattutto nel Sahel, lungo la costa Mediterranea e quella dell’Oceano Indiano ancora prima della conquista europea del continente, è un fattore unificante ma anche di scontro spesso all’interno della sua complessa galassia. Nel suo nome vengono portate avanti crociate che sfruttano contrasti più tradizionali come quelli tra coltivatori e pastori quando, come ora, il clima ha reso più difficile la sopravvivenza delle popolazioni. Gruppi islamisti, finanziati e sostenuti da attori esterni al continente, sono attivi nelle regioni settentrionali del Camerun e in quasi tutta la fascia del Sahel dove i musulmani sono preponderanti. La realtà del Camerun – dal Golfo di Guinea al lago Ciad – deve la sua complessità anche a chi disegnò le sue frontiere. Circa il 70 per cento della sua popolazione è cristiana: la maggioranza cattolica nella parte francofona, i protestanti in quella che fu dominata dalla Gran Bretagna. La gravità della situazione è stata sottolineata a febbraio di quest’anno nella lettera di un gruppo di vescovi che sollecitavano il governo di Yaoundé a rinunciare al centralismo che impone l’identità francofona sugli anglofoni.

La violenza e le atrocità commesse da tutte le parti in conflitto hanno costretto 656.000 camerunesi di lingua inglese a lasciare le loro case, 800.000 bambini a non andare più a scuola (inclusi i 400.000 alunni delle scuole cattoliche), 50.000 persone a fuggire in Nigeria, distrutto centinaia di villaggi e ucciso almeno 2000 persone

Le risorse naturali, vera causa delle guerre civili

Purtroppo l’esempio del Camerun è soltanto uno dei meno noti dei conflitti africani. Del Sudan e del Sud Sudan, paesi indipendenti dopo guerre civili spesso manovrate dall’esterno, ma sempre con “problemi tribali” al loro interno, si parla spesso. Come si è parlato nell’ultimo mese della guerra che rischia di smembrare l’Etiopia, uno dei più antichi paesi del mondo. L’Unione africana, alcuni anni fa, aveva designato il 2020 l’anno della pace nel continente. L’obiettivo, mettere fine a tutti i conflitti. Da quelli di cui si parla sovente – Libia, Sudan, Mali – a quelli poco trattati dai media nella Repubblica democratica del Congo, nella Repubblica Centrafricana, in Somalia, Kenia e, da poco tempo, nel Nord del Mozambico ricco di idrocarburi. Le risorse naturali sono, come sempre, l’interesse principale degli attori esterni. E la causa di molte guerre civili africane. Una per tutte: la guerra del Biafra (una regione della Repubblica federale della Nigeria super-ricca di petrolio) scoppiata pochi anni dopo l’indipendenza (1967-1970). Si preferì parlare, allora, di “rivalità etniche”, che sicuramente esistevano ed esistono ancora oggi in quel vasto paese.

Il fascino del potere

E qui, seppure con cautela per non sottovalutare il passato, è d’obbligo sottolineare che oltre mezzo secolo dopo la decolonizzazione anche l’attuale dirigenza africana deve assumersi le proprie responsabilità. Tra queste, l’incapacità o la mancanza di volontà di modificare le strutture economiche e politiche di sfruttamento dei cittadini e l’attaccamento al potere di molti leader,  uomini politici inizialmente innovatori ormai dittatori attaccati al potere e a tutto ciò che rappresenta. L’impegno di mettere fine a tutte le guerre entro quest’anno era sicuramente irrealistico. Anche perché le rivalità e divergenze tra i leader dei 27 stati dell’Unione europea sono nulla rispetto a quelle che dividono i governi dei 55 paesi africani, alcuni dei quali colpevoli anche di favorire i conflitti civili e i movimenti separatisti nei loro vicini di casa.

La foto utilizzata in copertina è stata esposta alla mostra “A sud del Sahara. Fotoreporters italiani nell’Africa nera 1969/1979”, tenutasi a Palazzo Isimbardi a Milano nel maggio 1980, con opere di Paola Agosti, Romano Cagnoni, Carlo Cisventi, Augusta Conchiglia, Mario Dondero, Fausto Giaccone, Uliano Lucas… Eric Salerno. L’immagine illustra un gruppo di viaggiatori in attesa del treno alla stazione di Nanga-Boko, fine luglio 1969.

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]]> Spirali destabilizzanti avvolgono Cabo Delgado https://ogzero.org/cabo-delgado-periferie-insorgenti-creano-zone-franche-per-ogni-traffico/ Sun, 06 Dec 2020 09:16:27 +0000 http://ogzero.org/?p=1979 L’opportunismo jihadista sfrutta la pandemia Il terrorismo ha da sempre trovato nei periodi di crisi nuove opportunità per promuovere i propri obiettivi, e il coronavirus, per molti gruppi jihadisti è diventato un alleato fondamentale, quasi essenziale. La crisi economica innescata dalla pandemia, l’immobilismo di molti stati davanti al virus, hanno creato l’ambiente “ideale” nel quale i […]

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L’opportunismo jihadista sfrutta la pandemia

Il terrorismo ha da sempre trovato nei periodi di crisi nuove opportunità per promuovere i propri obiettivi, e il coronavirus, per molti gruppi jihadisti è diventato un alleato fondamentale, quasi essenziale. La crisi economica innescata dalla pandemia, l’immobilismo di molti stati davanti al virus, hanno creato l’ambiente “ideale” nel quale i miliziani di Allah hanno trovato nuovi spazi di movimento. L’Africa non è esente da tutto ciò. Anche se i numeri della pandemia non sono nemmeno paragonabili – per numero di morti e contagi – con quelli occidentali, il virus ha aggravato crisi economiche e sociali già di per sé precarie sulle quali, spesso, il jihadismo costruisce la sua fortuna. Se alcuni analisti si aspettavano un rallentamento della violenza terroristica, sono stati smentiti dai fatti. Anzi c’è stata un’accelerazione e i dati sono lì a dimostrarlo. Ma non solo.

Gli esperti, infatti, sottolineano che questi gruppi legati al terrorismo islamico sanno bene di non essere immuni al pericolo sanitario. Infatti, nell’incitare i propri membri a mettere in atto nuovi attacchi, il leader non mancano di diffondere documenti su come prevenire la diffusione del virus, in alcuni casi utilizzano anche le linee guida ufficiali dell’Organizzazione mondiale della sanità. Insomma, si ergono a difensori delle popolazioni più diseredate e dimenticate dai governi del continente africano. Il coronavirus, dunque, come arma per creare consenso.

Si allarga la spirale del Califfato nero sulle regioni subsahariane

In tutta l’Africa i gruppi che si ispirano all’Isis e ad al-Qaeda sono attivi più che mai, e non solo nella regione del Sahel piombata nel caos con il ripetersi di attentati terroristici per mano di gruppi jihadisti che stanno mettendo fuori controllo paesi come il Mali e il Burkina Faso. Con il rischio concreto che a sud della Libia nasca un Califfato nero. L’attenzione è dunque massima in Sahel, soprattutto da parte delle potenze mondiali che seguono quanto sta succedendo. Il contesto è andato deteriorandosi di mese in mese. Le operazioni militari, in particolare quelle della Francia, sembrano non avere il successo sperato. Di certo, oggi possiamo chiamare questa fascia di territorio che va dalla Somalia alla Mauritania fino al Senegal… Il Sahelistan, per paragonarlo ai grandi spazi dell’Afghanistan e del Pakistan e per il ruolo che gioca il terrorismo internazionale. Un nome non casuale: in questa regione regna il caos.

Il Sahelistan

I jihadisti hanno alzato il livello dello scontro un po’ ovunque, seminano terrore, anche se non controllano concretamente territori – per ora – come hanno fatto in Medio Oriente. Ma molta parte del continente è teatro di scontri e attentati feroci. Nell’Africa Occidentale, nelle regioni a maggioranza musulmana. In Somalia dove al Shabaab terrorizza la popolazione da anni, nell’Est della Repubblica democratica del Congo dove la guerra fa parte della quotidianità e dove le risorse naturali sono enormi. In Nigeria dove Boko Haram ha moltiplicato i suoi attacchi. Nel Nord del Mozambico dove l’islam è radicato da secoli e dove da tre anni imperversa un gruppo affiliato all’Isis. I terroristi sanno approfittare delle debolezze dei governi, che si tratti di stati “falliti” come la Somalia o impotenti come la Nigeria. La pericolosità di questi gruppi, e le conseguenti difficoltà da parte dei governi nazionali e delle coalizioni internazionali nel combatterli, sta proprio nel fatto che non vi è una struttura gerarchica e, dunque, un centro di controllo unico. Piuttosto operano in “franchising” come capita in molti paesi dove, per altro, cambiano persino nome o si appropriano di altre sigle, pur non avendo la stessa matrice di affiliazione. E il caso del jihadismo in Mozambico è emblematico, relativamente giovane, e che già sta varcando i confini lanciando i propri attacchi in Tanzania. Il “caso” Mozambico merita un approfondimento.

Di qua e di là del fiume Ruvuma

La spirale esplosiva della povertà intrecciata a quella jihadista

L’orrore non ha limiti in un Mozambico squassato dal terrorismo jihadista, in particolare nella regione del Nord di Cabo Delgado. Una regione dimenticata dallo stato, dove si fatica a vivere e ad arrivare a fine giornata. La povertà è dilagante. Ma Cabo Delgado è anche una regione ricca di risorse. Qui agisce e opera un gruppo jihadista che inizialmente si faceva chiamare al-Shabaab “i giovani”, come il gruppo jihadista somalo. Non è chiaro, tuttavia, se e quali legami esistano tra i due gruppi. Di certo la versione mozambicana fa riferimento all’Isis, mentre quella somala ad al-Qaeda. Tanto che nel rendere note le sue azioni fa sfoggio di passamontagna e drappi neri tipici dello Stato Islamico. La ferocia, poi, è tipica di questi gruppi. L’affiliazione all’Isis, tuttavia, non è verificabile, potrebbe essere semplicemente emulazione e una sorta di “libero franchising”. L’inizio, anche un po’ sgangherato, delle azioni terroristiche di questo gruppo viene fatto risalire al 5 ottobre del 2017 quando vengono attaccate tre stazioni di polizia nella città di Mocimboa da Praia. Da lì inizia una spirale di violenza in un’area periferica, tradizionalmente tranquilla ed economicamente depressa, tra le più povere del paese.

Cabo Delgado

Zona di attività insurgentes, Nord del Mozambico

La spirale implosiva dell’impotenza mercenaria di fronte al caos assoluto

Il governo, in più riprese, ha sferrato dure offensive contro i gruppi terroristici, ma con successi alterni, riprendendosi territori occupati dai jihadisti, per poi riperderli.  In molte occasioni ha fatto affidamento su mercenari provenienti dall’estero: i Wagner, russi, e mercenari provenienti dal Sudafrica. Operazioni che non hanno avuto grande successo. I mercenari russi, già attivi in Siria, Libano e Repubblica Centrafricana non sono riusciti a venire a capo della ribellione. Non si sa molto, per ovvie ragioni, delle loro attività nel paese, ma di certo hanno subito diverse perdite tra le loro fila. Così come i mercenari sudafricani che avrebbero perso, oltre che uomini anche mezzi. Questi gruppi, ben addestrati e armati, sembrano essere impotenti di fronte al dilagare dell’offensiva jihadista. Questi fatti, inoltre, definiscono un salto di qualità del gruppo terroristico che nel Nord del paese si fa chiamare Ahlus Sunna wal Jamaa, puntando a sconfinare in Tanzania, attraversando e seguendo il corso del fiume Ruvuma.

La spirale di violenza attinge forza da periferie insorgenti e… dal mare

Se i primi attacchi sono stati infatti portati con mezzi di fortuna (coltelli, machete…), quelli organizzati di recente hanno fatto registrare un balzo di qualità. I miliziani sono dotati di armi automatiche nuove ed efficienti. Non solo. Anche il livello di addestramento è cresciuto. Questi gruppi sanno impiegare in modo professionale ed efficace gli armamenti di cui dispongono. Il vescovo cattolico di Pemba, Luiz Fernando Lisboa ha spiegato, recentemente, che questi uomini, che inizialmente si spostavano con vecchie motociclette, «ora hanno armi e veicoli e possono eseguire attacchi su vaste aree».

Gli attacchi non si placano. Dopo aver occupato numerose cittadine e aver terrorizzato migliaia di persone, i miliziani che si rifanno all’Isis, hanno lanciato raid contro alcune isole al largo di Palma e sono rientrati in alcuni centri abitati nel distretto di Muidumbe dove di recente le forze governative erano riuscite a stabilire propri presidi. Non solo i ribelli sono riusciti ad annullare i progressi parziali che erano stati compiuti dalle forze governative ma, ed è un particolare nuovo, hanno dimostrato la capacità di condurre attacchi di un certo rilievo anche via mare. Un fatto che ha messo a rischio collegamenti, fino a poco tempo fa sicuri, e che hanno convinto il governo a sospendere almeno per ora i rifornimenti via mare per la città di Palma.

La spirale speculativa: una zona franca di traffici di persone ed eroina, gas ed estrazionismo, fauna e legname

Lo scopo dichiarato di questi gruppi è voler imporre l’islam radicale. Formalmente, appunto, perché dietro questa dichiarazione di intenti si nasconde il traffico di stupefacenti e lo sfruttamento illegale delle miniere, di cui il Nord del Mozambico è ricco. E si fanno forti della povertà che regna in quel territorio mozambicano. Come se ci fosse una sorta di “islamizzazione della rivolta”. Una reazione alla marginalità e alla povertà profonda in un’area ricca di risorse minerarie e di giacimenti di petrolio.

spirale speculativa

Piattaforme nell’Oceano Indiano

Il fatto che i gruppi islamisti del Mozambico ricevano probabilmente armi, munizioni e attrezzature dall’esterno non è l’unico segnale che li avvicina ad altri gruppi che operano nel continente africano. Eric Morier-Genoud, un accademico di Belfast esperto di Mozambico, sottolinea che esistono forti somiglianze tra l’evoluzione dell’insurrezione in Mozambico e l’emergere di Boko Haram nel Nord della Nigeria.

La spirale di terrore degli sfollati

A farne le spese è, come sempre, la popolazione inerme, che fugge dai villaggi, si nasconde nella boscaglia per non essere sgozzata. Secondo la Displacement Tracking Matrix dell’Oim, almeno 424.000 persone sono sfollate alla fine di settembre, un aumento del 17 per cento rispetto al mese precedente. Sul totale degli sfollati, oltre 144.000 si trovano in aree difficili da raggiungere a causa di problemi di sicurezza. «Abbiamo dovuto lasciare la nostra zona a causa di molteplici attacchi e trasferirci nella città di Pemba – ha detto Nlabite Chafim, una delle otto persone della stessa famiglia che sono fuggite a piedi attraverso le foreste a luglio prima di trovare un mezzo di trasporto per la capitale provinciale –. Mia nipote ha assistito all’uccisione dei suoi genitori, e lei non è più la stessa».

«Sembra stiano cercando di rimuovere l’intera popolazione della parte settentrionale della provincia di Cabo Delgado, cacciando la gente comune senza alcuna pietà», spiega suor Blanca Nubia Zapata, religiosa delle Carmelitane Teresiane di San Giuseppe, in un colloquio con la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS). La religiosa risiede a Pemba, il capoluogo della provincia nel mirino dei terroristi. «Nelle ultime settimane sono arrivate qui oltre 12.000 persone. Alcuni sono morti lungo la strada. Sono 180 chilometri, ma non potete immaginare cosa siano le nostre “strade”, tre o quattro giorni di seguito senza cibo, senza acqua, con bambini sulle spalle. Ci sono donne che hanno partorito per strada. Sono semplicemente terrorizzati. Molte famiglie – prosegue Sister Blanca – ci hanno chiesto aiuto e le abbiamo messe in salvo nella scuola».

Il vescovo di Pemba, Luiz Fernando Lisboa, in un video di Caritas Mozambico inviato ad ACS, descrive la situazione di Paquitequete, un sobborgo della capitale che si affaccia sulla costa: «Sono arrivati già 10000 rifugiati e altri sono in arrivo. Non hanno un luogo in cui dormire, solo coperte e rifugi improvvisati. Alcune persone sono morte durante il tragitto. Si tratta di una situazione umanitaria disperata – prosegue il prelato – per la quale stiamo chiedendo, anzi implorando l’aiuto e la solidarietà della comunità internazionale».

Le testimonianze si moltiplicano e descrivono l’orrore che le popolazioni stanno vivendo. Testimonianze che, in particolare, arrivano da svariate realtà missionarie che operano nell’area e che hanno la possibilità di poterle raccontare perché in contatto costante con le case madri in occidente.

Sfollati Mozambicani

La spirale di un conflitto asimmetrico su base continentale

Il villaggio di Muambula è diventato quasi un luogo fantasma: gli abitanti sono fuggiti tutti, tranne qualche persona molto anziana. Il distretto di Muidumbe, nella provincia di Cabo Delgado, conta circa 80000 abitanti ed è composto da 26 comunità, per la maggior parte di etnia maconde. Si tratta perlopiù di gente dedita all’agricoltura. Qui vive e lavora padre padre Edegard da Silva, missionario brasiliano della congregazione Nostra Signora de La Salette. La sua testimonianza è stata raccolta dalla rivista “Nigrizia”: «Molti ci chiedono il perché di questa guerra che dura ormai da tre anni. Per noi missionari che viviamo con la gente di questi villaggi, l’unica risposta è che questa guerra ha ucciso molte persone innocenti. Sono i poveri che muoiono. E non hanno nulla a che fare con le motivazioni che portano i jihadisti per prendere il controllo della regione. Più di 500000 persone sono state costrette ad abbandonare le loro terre e comunità. Una parte di questi profughi, spesso intere famiglie, sono accolti da amici e parenti nelle altre cittadine della regione; altri vivono, in condizioni precarie, nei campi profughi costruiti dal governo. È una guerra crudele, folle, diabolica, che separa le persone». Il missionario, tuttavia, tiene a specificare che i jihadisti non compiono attacchi mirati contro le missioni cattoliche. Le incursioni hanno lo scopo di destabilizzare l’intera comunità, colpendo i servizi essenziali come gli ospedali, le scuole o le banche. E conclude «Al momento non possiamo contare sulle forze di sicurezza. Non si vede, da parte loro la capacità o la volontà di proteggere questo territorio».

Per affermarsi, questi gruppi sfruttano i risentimenti locali, la miseria, l’abbandono delle popolazioni locali da parte del governo centrale e l’arretratezza economica osservata nello sviluppo della regione. Una volta affermata la loro presenza, i gruppi terrorizzano le comunità per creare un clima di paura ma offrono anche un’alternativa ai giovani disoccupati che accettano di essere arruolati.  Il Nord del Mozambico, infatti, è una regione complessa. Ha sofferto molto durante la guerra di indipendenza (1964-1974) e durante quella civile (1977-1992) ed è una delle aree più trascurate del paese. A livello nazionale, ha i più elevati tassi di analfabetismo, disuguaglianza e malnutrizione infantile. È una delle poche province a maggioranza musulmana – mentre il resto del paese è cristiano – ma è un islam moderato che, da sempre, segue una tradizione sufi moderata. Il Mozambico, dopo aver cercato di minimizzare la minaccia, ha iniziato a schierare un numero maggiore di poliziotti e militari per controllare meglio la regione.  Un’operazione per rassicurare anche gli investitori stranieri che hanno investito milioni di dollari per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel Nord.

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Non di soli contrasti tribali vive lo scontro etiope… https://ogzero.org/dispute-etniche-e-svolte-liberiste-dietro-la-guerra-in-corno-dafrica/ Wed, 18 Nov 2020 01:55:38 +0000 http://ogzero.org/?p=1775 … anzi, il sottile velo delle dispute etniche non riesce a nascondere gli interessi internazionali, il neocolonialismo che muove i protagonisti locali, la spartizione di risorse, territori, infrastrutture. I ribaltamenti dei sistemi politico-economici non possono che passare attraverso crisi apertamente belliche e quindi dal 4 novembre è scoppiata una guerra civile che può estendersi all’intera […]

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… anzi, il sottile velo delle dispute etniche non riesce a nascondere gli interessi internazionali, il neocolonialismo che muove i protagonisti locali, la spartizione di risorse, territori, infrastrutture. I ribaltamenti dei sistemi politico-economici non possono che passare attraverso crisi apertamente belliche e quindi dal 4 novembre è scoppiata una guerra civile che può estendersi all’intera area della Rift Valley.

Redde rationem trentennale nel superamento dell’etnofederalismo

Abiy Ahmed, oromo giunto rocambolescamente al potere etiope in sostituzione del “controllo” trentennale tigrino e al nobel in premio per un accordo storico con l’Eritrea, utile al primo ministro etiope per contare su naturali alleati storicamente interessati a contenere i vicini tigrini di Macallè (fin dai tempi coloniali, agevolando il compito di quelle potenze occidentali), ma indispensabile anche ad Isaias Afewerki, dittatore eritreo, per mantenere il potere concentrato nelle sue mani – ma forse la guerra può aver creato un’alleanza tra tigrini e oppositori eritrei, tanto che pare che alcuni guerriglieri siano penetrati nel territorio eritreo e dal Tigray è stato bombardato l’aeroporto di Asmara. Già due anni fa, al momento dell’accordo fortemente ricercato dai sauditi di Bin Salman, si scaricarono transfughi eritrei al confine tigrino (minato e costellato da campi profughi), folle corrispondenti a quelle che ora premono sulla frontiera che divide Etiopia e Sudan (forse 100.000).

A completare il quadro del rinnovato sciovinismo del Corno d’Africa (una scena che ha come sfondo il controllo del Mar Rosso) c’è il rischio che venga coinvolta la variegata galassia delle Somalie e il Sudan, ancora in procinto di uscire dalla transizione dopo la cacciata di al-Bashir, teatro nella provincia orientale di Cassala al confine con Eritrea ed Etiopia di scontri proprio per rivendicazioni di maggiore rappresentanza tra tribù Juba.

L’economia detta l’agenda nazional-federale

L’etnia oromo è maggioritaria nel paese ma è rimasta marginalizzata per lo strapotere del Nord, che possedendo la maggioranza delle risorse e infrastrutture del paese ed essendo al centro di vie di comunicazione, controllando l’esercito fino all’epurazione del 2018 effettuata da Abiy Ahmed, aveva potuto mantenere un sistema etnofederalista che salvaguardava non solo le componenti minoritarie, ma impediva svolte neoliberiste che invece si sono imposte nel momento in cui Abiy Ahmed ha preso il potere, cominciando a configurarsi come un regime e il timore ha preso a serpeggiare tra i cittadini etiopi.

Il premio Nobel ha ammantato l’archiviazione del sistema economico con la spinta alla riconciliazione nazionale, che vede solo la resistenza del Tigray, un’etnia con una forte percezione di sé (e della sua storia di contrapposizione al saccheggio delle proprie risorse e all’occupazione militare del proprio territorio, fin dai tempi coloniali) che individua nel cambiamento il conseguente ridimensionamento dell’autonomia regionale. Ovviamente le altre etnie, che rappresentano il 94 per cento della popolazione, mal tollerano la resistenza tigrina, perciò le milizie ahmara hanno appoggiato l’esercito di Addis Abeba intervenuto in risposta a una reazione alla provocazione dello stato centrale che ha inviato ingenti truppe in Tigray.

La percezione del momento nella società etiope

Perciò il 10 novembre 2020 durante la trasmissione “I Bastioni di Orione” sulle frequenze di Radio Blackout si è potuta sentire questa ricostruzione degli eventi fatta da un giovane emigrato etiope, evidentemente non tigrino, che sostanzialmente attribuisce alla minoranza la responsabilità della deriva violenta di queste settimane:

Ascolta “Rivolta tigrina contro il superamento dell’etno-nazionalismo di Ahmed” su Spreaker.

La testimonianza, per quanto pacata, palesa la posizione fortemente critica della maggioranza degli etiopi, probabilmente non tanto per lo strappo attuale, ma per i 30 anni di oppressione tigrina, una reazione che ha fatto parlare di rwandizzazione per descrivere la reazione antitigrina. Difficile valutare se si tratta di esagerazioni, perché Abiy Ahmed ha fatto tesoro della esperienza da ministro delle comunicazioni, quando ha imparato a gestire e controllare i flussi di informazioni telematici: infatti trapelano pochissime notizie.

Il primo tassello da cui partire per descrivere la situazione è dunque l’ancora forte determinazione della minoranza tigrina a contrastare il nazionalismo identitario di Abiy – che dapprima ha dovuto fronteggiare per lo stesso motivo le rimostranze della sua stessa etnia oromo, portato a interpretare la propensione a diluire le differenze tribali nella comune “identità” etiope come un tradimento della propria gente; in realtà la scelta è essenzialmente un cambio di orientamento del modello di sviluppo su istanza cinese, che vede nel Corno d’Africa e nel presidio dello stretto di Bab al Mandab (ovvero di Gibuti) uno snodo essenziale per la Belt Road Inititive. Per fare ciò Abiy ha bisogno di poter gestire centralmente le ingenti risorse del Tigray, di abbracciare il neoliberismo e di indicare simboli che possano rappresentare la nazione etiope, stretta attorno a lui e al suo nuovo corso: a questo scopo si presta perfettamente la Diga della Rinascita sul Nilo azzurro.

Neocolonialismo Corno d'Africa 2020

Infrastrutture, basi militari, territori contesi, vie di comunicazione nella Rift Valley

Qualche snodo storico, ma i fattori divisivi sono infiniti

La crisi del Tigray nasce dallo scontro politico con il Tpfl, che è stato a lungo il partito egemone in seno all’Ersdf: i tigrini avevano sconfitto trent’anni fa il regime comunista e deposto Menghistu (l’ultimo a lanciare un escalation militare in Tigray), gestendo il potere da allora in avanti, senza abbracciare pienamente il neoliberismo. Il Fronte tigrino si è sentito più volte preso di mira dalle riforme del nuovo premier, che intanto ha creato una propria formazione politica, il Partito della prosperità.  Nel Tigray le autorità locali hanno deciso di tenere elezioni indipendenti a settembre, quelle che erano state rinviate ad agosto con la scusa della epidemia di SarsCov2 e il Tpfl è stato riconfermato al governo regionale. Ora lo scontro è diventato militare, con il rischio che la rivalità politica si trasformi in conflitto interetnico. Mulu Nega è stato nominato da Ahmed nuovo governatore ad interim per la regione settentrionale del Tigray. Poco prima il parlamento aveva preso la risoluzione di stabilire un’amministrazione provvisoria.

Per dipanare questo groviglio ne abbiamo discusso con Angelo Ferrari all’interno della stessa trasmissione diffusa da Radio Blackout in cui avevamo proposto la ricostruzione del giovane etiope.

Ascolta “Chi sta sabotando la convivenza e l’integrazione etnica?” su Spreaker.

L’apertura liberista al capitale privato crea attriti nell’intera società; nel Tigray ancora di più; la penetrazione di militari nazionali nella regione settentrionale è quindi vista come intrusione e ha fatto esplodere gli attacchi di Macallè. Si rischia l’esatto opposto del tentativo di unificare: la frammentazione perché ciascuno non si sente rappresentato a sufficienza e la repressione di Addis Abeba può incendiare l’intera area. Intanto sono già 25.000 gli sfollati e innumerevoli i morti (si parla di 500 solo nel massacro del 10 novembre a Mai-Kadra, in Tigray).

Ancora uno scambio di opinioni tra i redattori dei “Bastioni di Orione” di Radio Blackout e l’analista di eventi africani Angelo Ferrari

Ascolta “Nazionalismo e svolta liberista di Ahmed” su Spreaker.

Traffici d’armi e colonialismo

Nel 2019 il governo giallo-verde aveva stipulato attraverso la ministra Trenta accordi militari con il presidente-nobel_per_la_pace_Ahmed: «Difesa e sicurezza, formazione e addestramento, assistenza tecnica, operazioni di supporto alla pace… trasferimento di struttura d’arma e apparecchiatura bellica… è auspicata la promozione di iniziative finalizzate a razionalizzare il controllo sui prodotti a uso militare»; lo smercio di armamenti è comune ai precedenti governi italiani, soprattutto di centrosinistra, che avevano appoggiato la parte eritrea, ora già coinvolta con esplosioni all’Asmara perché Macallè accusa il regime di Afewerki di appoggiare Ahmed, inoltre le milizie ahmara si sono schierate subito con Addis Abeba. Duecento ufficiali tigrini inquadrati nell’African Union Mission in Somalia sono stati disarmati; l’isolamento è totale, probabilmente perché tutte le forze che agiscono in quello scacchiere temono si estenda l’incendio e scommettono sul ridimensionamento del peso del Tigray sull’area.

Colonialismo novecentesco in Corno d'Africa

Etnie e date fondamentali nella corsa novecentesca al Posto al sole

Il mai realmente sopito colonialismo italiano sta cercando di tornare a essere protagonista nel Corno d’Africa, perché gli interessi energetici e di appalti per infrastrutture (la Diga della Rinascita vede allignare ditte italiane nella costruzione progetta a Pechino) fanno gola come il Posto al sole di memoria mussoliniana… e quindi soffierà sul fuoco della guerra in un’area popolata dagli apparati militari di tutte le potenze mondiali (a Gibuti sono presenti compound militari di tutte le potenze globali), che si stanno accaparrando fette di un territorio che controlla traffici, merci, risorse. Una vera operazione neocoloniale nascosta sotto la cooperazione allo sviluppo.

Ascolta “Etiopia meta del complesso militar-industriale italiano” su Spreaker.

Le nazioni sono al soldo di potenze straniere per ridisegnare la geopolitica internazionale come avvenne nel periodo coloniale classico: tutte le potenze sono intente a controllare il passaggio del Mar Rosso da Aden a Suez (infatti a Gibuti, snodo essenziale del Belt Road Initiative, sono presenti tutti i contingenti militari) e ogni mossa è un riposizionamento strategico

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Tutti i nodi irrisolti tra Etiopia, Egitto e Sudan riaffiorano sulle acque del Nilo https://ogzero.org/tutti-i-nodi-irrisolti-tra-etiopia-egitto-e-sudan-riaffiorano-sulle-acque-del-nilo/ Fri, 24 Jul 2020 11:35:20 +0000 http://ogzero.org/?p=803 Il premio più ambito per un leader, il premio dei premi, il Nobel per la pace nel 2019 lo ha ricevuto il primo ministro etiope Abiy Ahmed. Un Nobel che premia un processo politico, non solo l’uomo che lo ha avviato. Un processo di riforme che sembrava impossibile e che invece, in appena due anni […]

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Il premio più ambito per un leader, il premio dei premi, il Nobel per la pace nel 2019 lo ha ricevuto il primo ministro etiope Abiy Ahmed. Un Nobel che premia un processo politico, non solo l’uomo che lo ha avviato. Un processo di riforme che sembrava impossibile e che invece, in appena due anni – dal 2 aprile 2018 – ha praticamente rivoltato l’Etiopia, trasformandola dal profondo. Un premio, tuttavia, che non nasconde le difficoltà e le contraddizioni che vive il paese. I nodi da sciogliere, ancora, sono enormi. Scontri etnici, problemi economici, la Grande Diga della Rinascita Etiope. Tutte questioni che rimangono ancora sul tavolo. Ma vi sono questioni politiche che devono essere affrontate, e a breve, per evitare un vuoto di potere, a ottobre, quando il parlamento scadrà. Le elezioni, previste per il 29 agosto, sono state cancellate causa coronavirus. Un appuntamento che, nelle intenzioni del premier, avrebbe dovuto rafforzare e consolidare la sua leadership e dare nuovo impulso alle riforme di cui l’Etiopia ha estremamente bisogno. Ma andiamo per ordine.

Sembrava impossibile che in Etiopia l’etnia minoritaria, ma egemone da sempre sul piano politico – i tigrini –, potesse cedere alcuni cruciali posti di potere, eppure è avvenuto. Sembrava impossibile che il mal sopportato cessate il fuoco con l’Eritrea si potesse trasformare in una vera pace, eppure è avvenuto. Sembrava impossibile che l’economia chiusa dell’Etiopia potesse aprire le porte a veri investitori esterni, eppure è avvenuto. Sembrava impossibile che migliaia di prigionieri potessero essere liberati, eppure è avvenuto. Tutto ciò è merito del premier Ahmed, del suo coraggio e della sua determinazione. Che sia stata un’impresa, che ci siano stati tentativi di resistenza lo testimoniano tre falliti colpi di stato con relativi attentati alla sua persona. Il Nobel è un modo per rafforzarlo, un modo per rendere più difficili e ardui i tentativi di fermarlo. Rimane, però, il fatto che negli ultimi due anni in Etiopia ci sono stati durissimi scontri tra tigrini, oromo, ahmara per la gestione della terra. Abiy Ahmed – un oromo – dovrà trovare un equilibrio e delle leggi democratiche che lo sanciscano. Il Nobel, inoltre, parla a tutta l’Africa, dice che si può cambiare, che ciò che appare impossibile può essere realizzato.

La strada, tuttavia, è ancora in salita. All’indomani dell’assegnazione del premio, si sono verificate rivolte degli oromo, con decine di morti e feriti, frutto dei combattimenti tra membri di vari gruppi etnici nella regione di Oromia. Le rivolte sono scoppiate dopo che l’oppositore Jawar Mohammed ha accusato le forze di sicurezza di aver pianificato un attentato ai suoi danni. Nonostante Abiy e Jawar appartengano alla stessa etnia e siano anche stati alleati prima dell’ascesa al potere dell’attuale premier, tra i due si è aperta una “guerra” molto virulenta. Jawar accusa Abiy di aver sviluppato tendenze autoritarie. Il premier, a detta di Jawar, sta cercando di intimidire i suoi detrattori, compresi gli alleati molto stretti che lo hanno portato al potere. Jawar, tuttavia, non ha mai nascosto l’aspirazione a candidarsi alle elezioni proprio contro il premier. Progetto svanito visto il rinvio delle elezioni a data da “destinarsi” e del tutto sepolto dopo il suo arresto per le rivolte dopo l’uccisione del musicista oromo.

Non si comprende, tuttavia, questa guerra etnica interna al gruppo degli oromo. Una scintilla banale o un omicidio eccellente scatenano una violenza inaudita, come l’uccisione del cantante oromo Hachalu Hundessa. Una rivolta che ha provocato più di 200 morti e oltre 5000 arresti. Il cantante molto popolare tra la popolazione oromo – l’etnia maggioritaria in Etiopia – e che, grazie alle sue canzoni di denuncia contro la presunta emarginazione del gruppo etnico dalla vita politica ed economica del paese, è diventato negli anni uno dei leader delle rivendicazioni. Rivendicazioni che, paradossalmente, si sono intensificate dopo l’entrata in carica del premier Abiy Ahmed: molti nazionalisti lo accusano infatti di non aver fatto abbastanza per difendere gli interessi della sua comunità. Il primo ministro, del resto, ha più volte promesso maggiori libertà politiche e che le prossime elezioni dovranno essere “libere ed eque”, tuttavia il suo nuovo Partito della prosperità (Pp) – nato nel novembre scorso dalla fusione dei partiti che formavano il Fronte democratico rivoluzionario dei popoli etiopi (Eprdf), la coalizione al potere in Etiopia dal 1991, con il preciso obiettivo di superare le divisioni in nome di uno sviluppo condiviso – si basa su una visione “panetiope” che si trova a dover fare i conti con una forte concorrenza da parte di nuovi partiti regionali determinati a sostenere le rivendicazioni delle rispettive etnie di appartenenza dopo decenni di repressione e a inasprire lo scontro interetnico. È proprio alle tensioni settarie e ai ripetuti tentativi di far “deragliare” il percorso di riforme avviato dal suo governo che lo stesso Ahmed ha fatto riferimento nel suo discorso trasmesso in diretta televisiva subito dopo la morte di Hundessa. Ahmed ha infatti sottolineato come la storia recente del paese sia stata minacciata per tre anni consecutivi da tre “inquietanti” episodi avvenuti sempre nel mese di giugno: l’esplosione di una bomba durante un suo comizio ad Addis Abeba il 24 giugno 2018; il tentato golpe del 22 giugno 2019 che causò l’uccisione del capo dell’esercito Seare Mekonnen e del governatore dello stato di Amhara, Ambachew Mekonnen; e ora l’assassinio di Hundessa. In un vago riferimento a un “tentativo organizzato” di ostacolare la sua agenda di riforme, il primo ministro ha quindi puntato il dito contro «agenti interni e stranieri» responsabili di «un atto malvagio» al fine di «destabilizzare la nostra pace e impedirci di conseguire le riforme che abbiamo intrapreso». Ahmed ha quindi accusato non meglio precisati “gruppi” di aver preso di mira non solo Hundessa, ma anche altre personalità di spicco di etnia oromo con l’obiettivo di «istigare ulteriori violenze per far deragliare ciò che abbiamo costruito per il paese», e ha inoltre assicurato che il governo intensificherà le misure per garantire la prevalenza dello stato di diritto in tutto il paese, invitando i cittadini a stare dalla parte del governo. Il premier ha spiegato che questo omicidio verrà “utilizzato” per unificare il paese, «coloro che hanno pianificato il crimine sono gli stessi che non sono contenti dell’attuale cambiamento in atto nel paese. Il loro obiettivo non è uccidere il nostro fratello – ha spiegato Ahmed – ma uccidere l’Etiopia uccidendo Hachalu. Tuttavia, ciò non accadrà e il loro piano non avrà successo». Il rinvio delle elezioni, tuttavia, può logorare il governo e la sua tenuta democratica.

Tutto ciò accade in un paese che, nonostante una rapida crescita economica, rimane una delle nazioni più povere al mondo. Negli anni la violenza etnica in Etiopia, oltre a centinaia di morti, ha costretto oltre due milioni di persone a lasciare le loro case e trovare rifugio altrove.

E poi c’è la Diga della Rinascita a inquietare la scena politica sia interna che esterna dell’Etiopia. E più che una diga della rinascita rischia di diventare, non solo della discordia – quella è un dato di fatto – ma il detonatore di una crisi regionale dagli effetti imprevedibili. I negoziati, fino a ora, tra Etiopia, Egitto e Sudan, non hanno ancora sciolto i nodi. Tutt’e tre i paesi rimangono sulle loro posizioni, senza che vi siano segnali, concreti, che si possa arrivare a un accordo in tempi brevi e condiviso da tutti. Ai nulla di fatto del negoziato si aggiungono dichiarazioni – che probabilmente hanno il solo scopo di irritare i protagonisti del negoziato – come quelle del ministro delle Risorse idriche, dell’irrigazione e dell’energia, Sileshi Bekele, a cui nei giorni scorsi l’emittente di stato etiope Ebc ha attribuito affermazioni circa l’avvio delle operazioni di riempimento del bacino idrico della diga. Lo stesso ministro, poi, ha parzialmente rettificato l’informazione, limitandosi ad affermare che il riempimento è in corso «in conformità con il normale processo di costruzione» della diga.

Gli ultimi colloqui trilaterali che si sono tenuti in videoconferenza dal 3 luglio al 13 alla presenza di undici osservatori – tra cui Unione europea, Stati uniti e Unione africana – si sono conclusi con un nulla di fatto. Colloqui che si ripeteranno nei prossimi giorni. «Le posizioni invariate e le richieste aggiuntive ed eccessive dell’Egitto e del Sudan hanno impedito che questo ciclo di negoziati si concludesse con un accordo», ha dichiarato lo stesso Seleshi, ribadendo al contempo la convinzione che un accordo negoziato sia «l’unica via d’uscita». Nel frattempo nuove immagini satellitari sembrano mostrare un aumento dei livelli delle acque nel bacino idrico della diga costruita sul fiume Nilo. Il governo etiope ha negato di aver deliberatamente iniziato a riempire la diga, anche se il riempimento è il nodo sul quale si arenano i negoziati. Non si capisce se tutto ciò sia tattica o confusione.

La partita è dunque delicatissima e sia l’Egitto sia l’Etiopia hanno tutti i motivi per difendere le loro posizioni. Dall’acqua del Nilo dipende tutto. Il Nilo è l’Egitto. Il paese delle piramidi potrebbe perdere fino a 300 milioni di dollari di elettricità e un miliardo e mezzo di dollari in agricoltura. Il Cairo, inoltre, dovrebbe aumentare le sue importazioni alimentari fino a poco meno di 600 milioni di dollari, con una perdita di circa un milione di posti di lavoro. L’Egitto consuma circa 80 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, di cui 50 provengono dal Nilo. L’Etiopia, invece, potrebbe perdere lo slancio economico che sta mettendo in campo il primo ministro Abyi Ahmed. Il balzo del Pil – attualmente la crescita sfiora le due cifre, ma occorre fare i conti con la pandemia di coronavirus – potrebbe rimane una chimera e deludere l’opinione pubblica interna, con conseguenze imprevedibili, vista l’attuale fragilità del tessuto sociale, spesso squassato da rivalità etniche e religiose. Un Pil, tuttavia, che non si riflette sull’economia reale, sul benessere della popolazione. Addis Abeba ha un gran bisogno di questa diga che, non a caso è stata definita “Diga della Rinascita etiope”. I lavori sono iniziati nel 2011 e affidati all’italiana Salini. L’invaso, inoltre, potrà immagazzinare fino a 74 miliardi di metri cubi di acqua e il riempimento dovrebbe cominciare o è già iniziato, almeno secondo le intenzioni di Addis Abeba, proprio in questo mese. L’oggetto del contendere è, infatti, sui tempi del riempimento che l’Egitto vorrebbe avvenisse in cinque anni mentre l’Etiopia in tre.

Sulla vicenda, inoltre, ci sono contratti milionari. La Cina, infatti, ha annunciato una megapartecipazione proprio in questa infrastruttura. La compagnia Ethiopian Electric Power (Eep) ha firmato un contratto del valore di 40 milioni di dollari con la China Gezhouba Group per la gestione delle attività relative alla diga. Tutto ciò spiega, inoltre, il fatto che l’Egitto boicotti l’iniziativa del bacino del Nilo, istituito con l’accordo di Entebbe firmato da sei paesi: Etiopia, Kenya, Ruanda, Tanzania, Uganda e Burundi. All’accordo non hanno aderito l’Egitto e il Sudan, a causa della riassegnazione delle quote d’acqua del Nilo che sfavorirebbe questi due paesi. Si spiega, dunque, l’asprezza del negoziato che, tutti si augurano, non sfoci nella Prima guerra dell’Acqua del terzo millennio.

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La Somalia abbandonata finisce nella rete del Sultano https://ogzero.org/la-somalia-abbandonata-finisce-nella-rete-del-sultano/ Thu, 09 Jul 2020 10:08:25 +0000 http://ogzero.org/?p=463 Il 9 maggio 2020 la Somalia è tornata con forza sulle prime pagine di tutti i giornali italiani grazie alla notizia della liberazione della cooperante Silvia Romano, sequestrata 18 mesi prima in Kenya. Il 27 maggio 2020, meno di un mese dopo, alcuni uomini armati di AK-47 sono entrati nel villaggio di Galoley, distretto di […]

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Il 9 maggio 2020 la Somalia è tornata con forza sulle prime pagine di tutti i giornali italiani grazie alla notizia della liberazione della cooperante Silvia Romano, sequestrata 18 mesi prima in Kenya. Il 27 maggio 2020, meno di un mese dopo, alcuni uomini armati di AK-47 sono entrati nel villaggio di Galoley, distretto di Gabiley in Somaliland, Somalia, con indosso uniformi militari. Otto dipendenti della ong somala Zamzam, specializzata in sanità e istruzione, sono stati rapiti e i loro corpi ritrovati il giorno dopo, ciascuno con due proiettili in corpo. Uno in testa e uno nel cuore. Galoley, nel cuore dello stato indipendente – e mai riconosciuto – del Somaliland è molto lontano dal luogo dove è stata liberata la cooperante italiana: 1300 chilometri, in un paese come la Somalia, sono un’infinità. Altrettanto vero è che proprio il Somaliland, dal 2007, intrattiene relazioni ufficiali con l’Unione Europea e rappresenta una vera e propria spina nel fianco per il fragile governo di Mogadiscio.

Il territorio somalo è complesso e frammentato, talmente tanto che nel 2020 non ha quasi più senso parlare di Somalia ma piuttosto di “Somalie”. Una frammentazione che arriva da lontano.

Lo scenario

Nel 1941 la Somalia italiana passò sotto l’amministrazione britannica fino al 1949, quando divenne un’amministrazione fiduciaria delle Nazioni Unite gestita dall’Italia dal 1950 fino al 1° luglio 1960, quando si formò la Repubblica Somala. Nel 1969 Siad Barre ne divenne presidente, nel 1986 esplose la guerra civile e nel 1991 Barre fu destituito. Da quel momento, e fino all’aprile 2012, l’Italia decise di ritirare il proprio ambasciatore dal paese africano seguendo l’ultima profezia di Barre: la Somalia, senza di lui, sarebbe stata ingovernabile. A capodanno del 1993 George Bush visitò le truppe americane rimaste in Somalia in quella che fu l’ultima visita in Somalia di un leader mondiale per i successivi 18 anni: cominciava l’epoca dei Signori della guerra. La Repubblica federale di Somalia, il 20 agosto 2012, si è dotata di un governo (il primo governo centrale permanente dall’inizio del conflitto) e di un nuovo presidente ma nel 2020, di fatto, la guerra dei Signori si è solo trasformata in guerra al, e del, terrorismo. Il paese, dal 2017, è politicamente più stabile ed economicamente in ripresa grazie, anche, all’avvento del presidente Mohamed Abdullahi Mohamed Farmajo, ex ambasciatore negli Stati Uniti ed ex primo ministro; nel 2018 gli Stati Uniti hanno ristabilito la propria presenza militare nel paese e nel tardo 2019 riaperto l’ambasciata americana di Mogadiscio, chiusa come quella italiana nel 1991.

L’assenza diplomatica, militare e politica dell’Europa, delle nazioni africane più prossime e degli Stati Uniti ha costretto Mogadiscio, nel periodo più complicato e devastante della propria storia recente, a cercare amici altrove. La società somala, dilaniata dai Signori della guerra, scopertisi più tardi ambasciatori di un Islam “radicalmente puro”, e dalla corruzione di chi non tiene l’AK-47 in mano, è stata costretta a reinventarsi da sola. Il 26 aprile 2017 il presidente somalo Farmajo è volato con il suo ministro degli Esteri ad Ankara per firmare accordi bilaterali, incassare l’amicizia di Recep Erdoğan e la solidarietà dell’ Erdoğan-pensiero, con il presidente turco critico verso la comunità internazionale per non aver fornito sufficiente supporto alla Somalia durante la guerra civile e nel corso delle siccità che l’ha colpita negli ultimi anni. Ma in verità i rapporti tra Turchia e Somalia sono vecchi di decenni: era il 1969 quando i due Paesi co-fondarono l’OIC, l’Organizzazione per la cooperazione islamica, e era il Medioevo quando gli ottomani stringevano relazioni commerciali e belliche con l’Impero di Ajuran e il sultanato di Adal per sopraffare il dominio portoghese nell’Africa orientale e nell’Oceano Indiano.

Nel 1991 anche i turchi, per ragioni di sicurezza, rimossero l’ambasciatore da Mogadiscio ma raddoppiarono gli sforzi (e il personale) all’ambasciata di Addis Abeba, in Etiopia, proseguendo le relazioni con il governo nazionale di transizione somalo e con il successivo governo federale di transizione. Nel 2011 Erdoğan, 18 anni dopo Bush, atterrò a Mogadiscio e l’ambasciata fu riaperta. La Turchia fu tra i primi al mondo a riprendere le relazioni diplomatiche formali con la Somalia: nel 2012 inviò osservatori ed esperti per monitorare e sostenere, anche economicamente, le elezioni presidenziali e nel gennaio 2015 Mahmoud e Erdoğan inaugurarono una serie di nuovi progetti realizzati dai turchi a Mogadiscio. «La Turchia è stata impavida nel suo impegno a sostenere lo sviluppo in Somalia, non ha aspettato le condizioni giuste per investire e i suoi investimenti hanno contribuito a creare le giuste condizioni per la stabilità e la crescita», disse per l’occasione il Presidente somalo. Nel corso di quella visita fu inaugurato il terminal aeroportuale Aden Adde a Mogadiscio che, ancora oggi, è l’unico luogo di tutta la Repubblica federale in cui è garantita la sicurezza agli stranieri. Il primo Somalia-Italia Business Forum del dicembre 2019 si è tenuto proprio nel terminal aeroportuale, che è anche la base delle Nazioni Unite nel paese. Base dalla quale ai funzionari Onu è caldamente sconsigliato di uscire.

Campo Turksom

Tornando alle relazioni tra Somalia e Turchia, il 30 settembre 2017 il primo ministro turco Hassan Ali Khaire e il capo di stato maggiore delle forze armate turche Hulusi Akar inauguravano a Mogadiscio il nido dell’aquila africana della Repubblica di Turchia, il vero cuore pulsante degli interessi turchi in Africa orientale. Si chiama Campo Turksom, copre uno spazio di circa 4 chilometri quadrati, è costata oltre 50 milioni di dollari e per costruirlo sono stati necessari quasi due anni ma la sua storia comincia almeno 11 anni fa, il 17 aprile 2009.

Quel giorno, ad Ankara, Turchia e Somalia siglarono un accordo di cooperazione tecnica, perfezionato poi negli anni, per la formazione, la cooperazione tecnico-scientifica e l’addestramento militare dell’esercito somalo. Il giorno dell’inaugurazione lo stato maggiore della Difesa turco annunciò che al Campo Turksom sarebbero stati addestrati 10000 nuovi militari somali al ritmo di 1500 alla volta. All’interno del Campo vengono addestrati dai turchi gli ufficiali (un addestramento lungo 2 anni) e i sottoufficiali (1 anno) di tutti i rami delle Forze Armate della Somalia: un campus universitario con decine di aule, una sala conferenze da 400 posti, un campo di addestramento, un tribunale militare, laboratori linguistici, sale di simulazione per l’addestramento marittimo ma anche campi di calcio e di basket, Campo Turksom è un compound militare di eccellenza tra i più prestigiosi di tutta l’Africa orientale. Qui vivono stabilmente circa 200 militari turchi e, al 5 marzo 2020, due mesi prima della liberazione della cooperante Silvia Romano, erano 411 i somali diplomatisi al Campo Turksom. Gli avieri somali, per effetto dell’embargo la Somalia non può ricevere aerei da combattimento e velivoli militari di alcun tipo, vengono invece addestrati direttamente in Turchia.

I diplomati, tutti appartenenti al I Battaglione di fanteria dell’esercito della Repubblica di Somalia, sono identificabili da un berretto color blu cielo, proprio come quello dei militari delle Nazioni Unite, recante lo stemma del Campo Turksom e non quello delle Forze armate somale. In questo senso la base turca a Mogadiscio è una proiezione dell’espansione geopolitica di Ankara in Africa orientale, uno dei simboli più prestigiosi utilizzati dalla Turchia per mostrare il proprio potere e la propria espansione economica e politica nell’area.Oggi a Mogadiscio sono due i luoghi considerabili veramente sicuri: l’aeroporto Aden Adde, costruito dagli italiani nel 1926 e dove la sicurezza è garantita agli stranieri in visita nel paese, e il Campo Turksom, dove i non-militari difficilmente hanno accesso. Sin dalla sua apertura, la base turca ha operato in collaborazione con Amisom, la missione dell’Unione Africana in Somalia, ma contrariamente a quest’ultima, che a ogni estensione di mandato veniva ridimensionata, ha intensificato il personale e aumentato i finanziamenti anno dopo anno. La forza di Campo Turksom, in questo caso, è nell’Islam: Amisom infatti, nel corso degli anni, è stata presa di mira dal gruppo islamista al-Shabaab perché la maggior parte del suo personale era composto da non-musulmani (è stato lo stesso gruppo al-Shabaab, nei comunicati di rivendicazione degli attacchi, a spiegarlo) e la Turchia ha offerto un’alternativa più che valida a questa situazione di conflitto. In tal senso il Campo, e l’attività a esso connessa, ha permesso molte volte alla Turchia di rivendicare un ruolo chiave nel garantire la sicurezza in Somalia, non solo dal punto di vista della formazione militare ma anche della capacità di risoluzione delle tensioni e dei conflitti interni al paese. L’Agenzia per la cooperazione turca (Tika) e la Mezzaluna Rossa turca hanno sede nel Campo e forniscono assistenza per lo sviluppo e la sanità alla Somalia e nel 2011 queste sono state tra le principali organizzazioni al mondo a contribuire ad alleviare le sofferenze della popolazione per la carestia che la colpì nel 2011. Quell’anno la Turchia contribuì con 201 milioni di dollari di aiuti umanitari e la costruzione di infrastrutture e ospedali in territorio somalo, consolidando la propria posizione privilegiata nel dialogo con il governo di Mogadiscio.

Le strategie e il neo-ottomanesimo

La scelta turca di stabilire una presenza militare massiccia in Somalia, sia dal punto di vista operativo che infrastrutturale, poggia le sue basi su diverse ragioni pratiche: economicità, perché ospitare in Turchia gli aspiranti ufficiali e sottoufficiali somali in addestramento è oltremodo costoso; geopolitica, perché in questo modo la Turchia stabilisce un primato tra i paesi Nato nel Corno d’Africa costringendo tutti gli altri a rivolgersi ad Ankara per la risoluzione delle più disparate problematiche – come nel caso della liberazione della cooperante Silvia Romano –; commerciali, perché in questo modo la Turchia ha il pieno controllo delle attività antipirateria nel Golfo di Aden; ed economiche, perché sostenere lo sviluppo in quell’area significa necessariamente sostenere e garantire la sicurezza di chi fa impresa; e strategiche. Nello scacchiere mediorientale la presenza militare turca in Somalia rappresenta un pericolo per gli Emirati arabi uniti e l’Arabia saudita e una garanzia per l’asse Turchia-Qatar: sono molti gli esperti che sottolineano la strategia del “neo-ottomanesimo” di Erdoğan nel Corno d’Africa.

Una scelta che tuttavia implica degli sforzi notevoli nel contrasto all’organizzazione terroristica al-Shabaab, che più volte nel corso degli anni ha attaccato obiettivi turchi allo scopo di minacciare le relazioni istituzionali turco-somale e contrastare gli sforzi in materia di ristrutturazione economica, cooperazione allo sviluppo, programmi di aiuti e investimenti privati, oltre che di minare il sostegno turco al rafforzamento delle istituzioni somale e del sistema politico locale.

La visione strategica della Turchia, che punta entro il 2023 ad aprire nuovi mercati in Asia e Africa, si lega a doppio filo con la politica neo-ottomana che il partito Akp del Presidente Erdoğan promuove sin dalla sua fondazione, nel 2001. In questo senso la politica estera punta al rafforzamento dell’influenza turca sui paesi islamici, in Medio Oriente e in tutto il mondo, e l’impegno militare nel Corno d’Africa è uno dei cardini di questa strategia. Dalla salita di Erdoğan al potere la Turchia ha più che triplicato il numero delle proprie ambasciate in tutto il continente africano (12 prima del 2003, 42 a fine 2019), installando infine il suo fiore all’occhiello in Somalia, una delle realtà africane più problematiche ma geograficamente strategiche. Il complesso diplomatico turco da 80.000 metri quadri a Mogadiscio è tra i più imponenti al mondo. Da un lato c’è l’intenzione di mettersi in mostra di fronte a tutto il continente africano e, dall’altro, di curare i propri interessi da una posizione privilegiata: l’egemonia sullo stretto di Bab-el-Mandeb, che divide il Mar Rosso dal Golfo di Aden e dal Mar Arabico, che è una delle principali e più problematiche rotte commerciali al mondo attraverso la quale la Turchia commercializza i propri prodotti più prestigiosi, quelli del comparto difesa, l’accesso alle risorse e alle materie prime di cui la Somalia è ricchissima e la scalata al potere nella regione mediorientale sono i tre cardini della politica estera di Ankara nella regione.

In questa strategia c’è, gioco-forza, anche l’aspetto umanitario. La Somalia è il paese che riceve più aiuti umanitari in assoluto dalla Turchia e questo, in un territorio abbandonato da tutti per quasi un trentennio, costringe il mondo intero a fare i conti con l’azione di Erdoğan nell’area. La Turchia agisce in modo massiccio, ed efficace, laddove tutti hanno fallito e questo non può non essere tenuto in grande considerazione nello scacchiere internazionale e nei rapporti geopolitici tra le nazioni della Nato.

Corno d'Africa

La cooperazione

In seguito agli investimenti governativi turchi volti a rinnovare l’aeroporto Aden Adde di Mogadiscio, Turkish Airlines è stata la prima compagnia aerea commerciale internazionale a riprendere regolarmente i voli da e per la Somalia. In meno di 10 anni l’aeroporto somalo ha aumentato la propria capacità da 15 a 60 aeromobili e grazie alla compagnia turca Kozuva realizzato il nuovo terminal.

Nel 2015 a Mogadiscio è stato inaugurato il Digfer Hospital, ribattezzato Erdoğan Hospital e realizzato dalla Tika: oltre 200 posti letto (14 in terapia intensiva), 13000 metri quadri e un budget operativo da 135 milioni di dollari coperti al 60 per cento dal governo di Ankara. Oggi i due governi discutono su come riformulare l’intera urbanistica della capitale somala e, nel gennaio 2020, la Somalia ha invitato la Turchia a esplorare i propri mari alla ricerca di petrolio. Il porto di Mogadiscio, dal 2013, è gestito completamente dalla società turca Al-Bayrak, che ha investito oltre 100 milioni di dollari per il suo ammodernamento. All’interno del porto opera un’altra azienda turca, la Pgm Inspection, che si occupa di gestire il sistema di controllo qualità delle merci importate ed esportate da e per la Somalia.

Nel 2015 inoltre l’accordo tra la televisione nazionale somala e la radio nazionale turca ha permesso di aumentare e alimentare il palinsesto televisivo e radiofonico somalo, contribuendo alla diffusione massiccia in Somalia della visione turca del mondo.

Sono tutti tasselli che fanno parte di una strategia ampia e ragionata: una strategia che fa del primato turco in Somalia uno dei punti di forza essenziali. La forza turca in Somalia è emersa agli occhi italiani, che pure con il paese africano hanno ottimi rapporti, quando la stampa italiana ha pubblicato la foto della sorridente Silvia Romano mentre indossa un giubbotto antiproiettile con il logo dei servizi segreti turchi. Laddove non arriva nessuno da decenni la Turchia può muoversi agevolmente e senza problemi.

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Approdo africano della Belt Road Initiative: i meccanismi in gioco nella Great Rift Valley https://ogzero.org/approdo-africano-della-belt-road-initiative-great-rift-valley/ Wed, 24 Jun 2020 10:42:00 +0000 http://ogzero.org/?p=122 l’Africa, l’Asia meridionale e il Sud America sembrano, per molti versi, sopravanzare il mondo euro-moderno, forieri della sua storia-in-fieri, anticipando fenomeni e caratteristiche di “sviluppo”. Che la collocazione dell’Africa nella narrazione dominante della Storia universale sia fondamentalmente errata è un punto che non necessita di ulteriori elaborazioni. Anche se l’Euro-America e il Sud del mondo sono, ora […]

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l’Africa, l’Asia meridionale e il Sud America sembrano, per molti versi, sopravanzare il mondo euro-moderno, forieri della sua storia-in-fieri, anticipando fenomeni e caratteristiche di “sviluppo”.

Che la collocazione dell’Africa nella narrazione dominante della Storia universale sia fondamentalmente errata è un punto che non necessita di ulteriori elaborazioni. Anche se l’Euro-America e il Sud del mondo sono, ora come ora, inglobati dagli stessi processi storici mondiali è al Sud che gli effetti di tali fenomeni tendono a manifestarsi in maniera più esplicita. I vecchi margini stanno diventando le nuove frontiere, posti in cui il capitale competitivo a livello globale – sempre più, di questi tempi, asiatico e meridionale – trova zone scarsamente regolate in cui riversare i propri affari; nei quali l’industria manifatturiera apre siti sempre più convenienti; dove economie informali e altamente flessibili fioriscono da sempre; dove questi stessi servizi esternalizzati estremamente efficienti hanno sviluppato imperi info-tecnologici, legali e non, all’avanguardia; nei quali i nuovi e tardomoderni linguaggi del lavoro, del tempo e del valore prendono piede, alterando così le pratiche del resto del mondo. Ecco perché, nella dialettica della storia mondiale contemporanea, il Nord sembra “evolvere” verso il Sud.

Frag tratto da Jean, John L. Comaroff, Teoria dal sud del mondo, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

Episodi e strategie geopolitiche distanti tra loro, ricondotte a evidenti calcoli economici locali, volti a tessere efficacemente le trame pensate e messe in atto a livello macroeconomico, come quelle vissute dalle popolazioni coinvolte nell’evoluzione repentina del continente: infrastrutture, costruite e gestite da potenze extrafricane per il naturale contatto con le potenze asiatiche affacciate al di là dell’Oceano (anche l’India, non solo la Cina) o con l’Occidente, convenzioni e investimenti, metissage e tecnologie, risorse e metropoli, pil e inflazione, invasioni di insetti biblici ed epidemie racchiudono un concentrato di interazioni che stanno producendo conseguenze da analizzare per la loro unicità.

Collaborazioni, partnership, potenze economiche in competizione sul territorio del Rift.

  • l’Africa, l’Asia meridionale e il Sud America sembrano, per molti versi, sopravanzare il mondo euro-moderno, forieri della sua storia-in-fieri, anticipando fenomeni e caratteristiche di “sviluppo” (Comaroff, p. 13).
  • Interessi in contrasto da sempre per attingere a risorse sempre più risicate per i bisogni delle singole nazioni locali; il caso della Diga della Rinascita etiope che rischia di scatenare la guerra del Bacino del Nilo.
  • Caratteristiche del neocolonialismo: Belt Road Iniziative e investimenti indiani.

Piaghe del Rift:

  • Infestazione militare del territorio
  • Infestazione del territorio di locuste

Acque contese del Bacino del Nilo

 

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Parallelismi tra l’evoluzione del SARS-CoV-2 e la diffusione delle locuste in Africa orientale https://ogzero.org/facili-parallelismi-con-levoluzione-del-cosar19-e-la-diffusione-delle-locuste-in-africa-orientale/ Sun, 21 Jun 2020 11:07:19 +0000 http://ogzero.org/?p=124 Risvolti economici del disastro epidemico sommato alla piaga delle locuste e al tracollo dei prezzi dei minerali preziosi Per l’Africa è necessario un piano di sviluppo globale. Un piano fatto insieme all’Africa che dovrà essere in grado di limitare, sempre di più, la bulimia di denaro e potere della stragrande maggioranza di presidenti e governanti […]

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Risvolti economici del disastro epidemico sommato alla piaga delle locuste e al tracollo dei prezzi dei minerali preziosi

Per l’Africa è necessario un piano di sviluppo globale. Un piano fatto insieme all’Africa che dovrà essere in grado di limitare, sempre di più, la bulimia di denaro e potere della stragrande maggioranza di presidenti e governanti africani, che assomigliano sempre di più a dinosauri ancorati al trono, noncuranti del popolo. Se non si ha il coraggio di studiare un piano Marshall per l’Africa e con l’Africa, a pagarne le conseguenze saranno milioni di giovani africani che si accalcheranno alle frontiere del mondo ricco per trovare vie di uscita e dignità dove ora non la trovano. 

L’Africa, tuttavia, rimane un continente molto fragile e soggetta agli shock esterni e si appresta a vivere un grave periodo di recessione. Molti fattori, che si intrecciano fra loro, contribuiranno a un calo della crescita. Alle problematiche endemiche, come la povertà, la corruzione, si aggiungono fattori esterni di notevole impatto sui mercati: shock del prezzo del petrolio, coronavirus che porta con sé un calo della domanda turistica e, non ultimo, l’invasione delle locuste nel Corno d’Africa che sta mettendo in ginocchio intere popolazioni già provate dall’insicurezza alimentare. 

Frag tratto da Mal d’Africa, di Raffaele Masto e Angelo Ferrari, postfazione di Marco Trovato, Torino, Rosenberg & Sellier, aprile 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

Angelo Ferrari, 26 marzo 2020, intervento su Radio Blackout: le piaghe africane tra locuste, eredità economica dell’epidemia covid19 e crisi dei prezzi di minerali: strutture sanitarie, crisi sociale e umana, ma anche economica che si innesta sulla crisi alimentare preesistente alle locuste.

La piaga delle locuste ha falcidiato l’intera Rift Valley. L’invasione si presenta così recrudescente a seguito delle piogge della primavera 2020 nel Corno d’Africa, che hanno permesso una ulteriore schiusa delle uova deposte dallo sciame già imperversante da mesi nei paesi dell’Africa orientale: curve matematiche, come quelle dell’epidemia consentono di relazionare questi con altri fenomeni che sono avvenuti, come la riduzione di suoli coltivabili nel nord del Kenya, a seguito del riscaldamento globale. E la difficoltà di seguire gli effetti del riscaldamento climatico impedisce di prevedere come può evolvere, al punto che paradossalmente si auspica da parte di alcuni un periodo di siccità che blocchi la fertilità degli insetti; inoltre è difficile monitorare lo spostamento degli insetti al di fuori del Kenya e dell’Etiopia.

Intervento di Andrea Spinelli Barrile su Radio Blackout del 9 aprile 2020

Oltre al disastro immediato della devastazione dei campi nel momento in cui le coltivazioni stavano giungendo a maturazione, gli effetti si proietteranno sia sulla carestia che porterà a morte milioni di persone, sia sui prezzi dell’esportazione di prodotti in tutto il mondo, ma soprattutto nel commercio interno al continente, in particolare per quel che concerne Kenya ed Etiopia, per i quali questo export rappresenta una bella fetta del pil. Inoltre con l’imperversare dell’epidemia da covid19, che ha imposto il blocco delle importazioni – in particolare in Uganda – non consente l’accesso ai pesticidi di produzione straniera e quindi sottrae un’arma contro le locuste. 

Il sostegno della Banca nazionale africana è ridotto e si limita a concertare l’azione delle banche nazionali con la volontà di investimento: si può contare sui fondi della Cooperazione, che provengono dall’Europa (Francia, Germania, Italia), dall’Arabia Saudita… dalla Cina

Mentre almeno gli aiuti alimentari provenienti dalla Fao sono già potuti entrare in Kenya e in Etiopia, perché le locuste si possono anche mangiare, ma – per quanto proteica – non può essere una dieta sostitutiva e comunque possono fornire cibo per poche settimane poi la devastazione da loro prodotta permane; senza considerare gli effetti su terreni sottoposti all’uso intensivo di pesticidi e l’assenza di fondi per acquistare sementi, andate perdute con il transito di questi voraci ortotteri. E infatti un’opzione considerata è l’uso di ogm, soprattutto in Kenya, che ha timore si estenda la desertificazione avanzante da nord-est. Invece le locuste si sono spostate anche verso sud-ovest in Tanzania (e hanno devastato il Pakistan, raggiungendo anche l’Afghanistan e l’India).

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L’adesione dell’Africa alla Belt Road Iniziative è stata unanime? https://ogzero.org/la-penetrazione-della-cina-in-tanzania-rispetto-ai-paesi-limitrofi/ Mon, 13 Apr 2020 09:50:20 +0000 http://ogzero.org/?p=142 Grado di penetrazione degli investimenti asiatici in Africa: spartizioni tra India e Cina di OGzero, 21 giugno 2020 La Belt Road Initiative cinese, oltre a essere un’opera di collegamento con l’Europa, privilegia le relazioni con l’Africa orientale, porta di ingresso straordinaria per un’invasione pacifica, ma non senza conseguenze, dell’intero continente. E le porte di accesso […]

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Grado di penetrazione degli investimenti asiatici in Africa: spartizioni tra India e Cina

di OGzero, 21 giugno 2020

La Belt Road Initiative cinese, oltre a essere un’opera di collegamento con l’Europa, privilegia le relazioni con l’Africa orientale, porta di ingresso straordinaria per un’invasione pacifica, ma non senza conseguenze, dell’intero continente. E le porte di accesso sono numerose. L’ultima è rappresentata da Mauritius. Con l’isola nell’Oceano Indiano è stato siglato il primo accordo di libero scambio. L’intesa riguarda il commercio di beni e servizi nonché la cooperazione in materia di investimenti. L’accordo, secondo quel che viene reso noto dal governo cinese, non solo fornirà una più potente garanzia istituzionale per approfondire le relazioni economiche e commerciali bilaterali con Mauritius, ma promuoverà anche la cooperazione economica e commerciale, nonché finanziaria, tra Cina e Africa. La Belt Road Initiative cinese, oltre a essere un’opera di collegamento con l’Europa, privilegia le relazioni con l’Africa orientale, porta di ingresso straordinaria per un’invasione pacifica, ma non senza conseguenze, dell’intero continente. E le porte di accesso sono numerose. L’ultima è rappresentata da Mauritius. Con l’isola nell’Oceano Indiano è stato siglato il primo accordo di libero scambio. L’intesa riguarda il commercio di beni e servizi nonché la cooperazione in materia di investimenti. L’accordo, secondo quel che viene reso noto dal governo cinese, non solo fornirà una più potente garanzia istituzionale per approfondire le relazioni economiche e commerciali bilaterali con Mauritius, ma promuoverà anche la cooperazione economica e commerciale, nonché finanziaria, tra Cina e Africa.

Nel momento in cui si cerca di comprendere lo sviluppo economico e le partnership tra nazioni in via di sviluppo e le potenze economiche che si prefiggono di godere di esclusività nei settori più sensibili e importanti per alcuni stati è indispensabile indossare un paio di occhiali privi di pregiudizi. Vale per tutti i meccanismi di sviluppo globali, ma in particolare per l’immagine deformata delle differenti società africane. Sono situazioni che possono condizionare il mercato mondiale e che vedono in competizione giganti come la Cina, che è molto presente da decenni in Tanzania e che è snodo del Belt Road Iniziative con il porto di Bagamoyo; o l’India che invece ha relazioni privilegiate con Kenya e Sudafrica, anche per la comune tradizione coloniale britannica. Gli investimenti che vengono fatti sono ovviamente sempre comunque mirati a uno sviluppo la cui sostenibilità è sottomessa alla possibilità che consenta ovviamente agli investitori di ottenere profitti

Angelo Ferrari, 23 marzo 2020 su Radio Blackout
© 2015, Railway Gazette

Durante un intervento registrato il 24 novembre 2018 Andrea Spinelli Barrile ha preso spunto dalle infrastrutture per evidenziare la spartizione delle aree tra grandi potenze asiatiche. Del 1964 è il primo progetto cinese per una tratta ferroviaria in Tanzania, una nazione rivolta verso l’Asia che scatena la concorrenza tra Cina e India per soddisfare i loro bisogni (le risorse maggiormente saccheggiate sono legno, petrolio, minerali, gas), arrivando a parlare di investimenti stranieri in Africa orientale e presenza sul territorio anche di maestranze straniere più o meno tollerate in base alle abitudini nazionali.

Andrea Spinelli Barrile, 24 novembre 2018 (Radio Blackout): concorrenza tra grandi potenze asiatiche per controllare le risorse dell’Africa Orientale

L’adesione dell’Africa alla Belt Road Initiative è stata unanime, nessuno escluso. Ma perché attrae tanto la nuova via della seta cinese? I leader africani percepiscono questa iniziativa come una valida e tangibile alternativa agli incerti piani di investimento a lungo periodo proposti da europei e americani. I russi piacciono di più perché offrono su un piatto d’argento armamenti e addestramento militare. Pechino, tuttavia, ha saputo sfruttare la complessità delle garanzie a lungo termine di beni e risorse attraverso un sistema, tanto antico quanto nuovo, di baratto: in cambio del capitale di investimento e dell’infrastruttura, alcuni paesi concedono lo sfruttamento delle proprie risorse e una quota nei progetti infrastrutturali. Insomma, vince il capitalismo di stato. Ma vi è un altro fattore, oltre al denaro, che affascina i governi africani: la politica di non ingerenza negli affari interni ha indotto molti presidenti a individuare nella Cina un partner privilegiato

Andrea Spinelli Barrile descrive lo Zimbabwe in recessione profonda nel 2018, però con una tipologia di formazione educativa molto simile a quella occidentale e quindi con maggiori difficoltà ad avvicinarsi al mondo cinese, più ostico e lontano nell’immaginario e quindi apparentemente in contraddizione con quanto si legge nello stralcio del libro di Masto e Ferrari; in realtà forse è la differenza di accoglienza tra potere economico e politico locale e difficoltà culturale di integrare la presenza cinese. Per esempio la lingua kiswahili si trova arricchita da traslitterazioni cinesi in molte scritte e istruzioni in Tanzania: le lingue avvicinano (i comboniani non a caso hanno traslitterato lo swahili in epoche non recenti, agevolando così i rapporti tra africani e occidentali… che poi questi rapporti evolvano in termini negativi come le conseguenze coloniali, o positivi derivano dall’uso dei mezzi a disposizione), ma in realtà l’approccio dei cinesi che vivono o lavorano in Africa Orientale non concede nulla alle relazioni con le popolazioni locali e si nota anche da come viene percepito il linguaggio.

Andrea Spinelli Barrile su Radio Blackout, 24 novembre 2018: difficile metissage di culture sino-africane

I paesi dell’Africa occidentale – la maggior parte ex colonie francesi e con la famigerata moneta ancorata all’euro e garantita dal tesoro francese – stanno pensando di dotarsi di una moneta propria abbandonando, quindi, il franco Cfa. Tutto ciò è emerso durante una riunione che si è tenuta ad Abidjan tra i ministri delle Finanze e i governatori delle banche centrali dei paesi della Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao); la nuova moneta, l’eco, potrebbe essere ancorato allo yuan cinese, per evitare oscillazioni pericolose per i mercati. Ciò che è accaduto con il franco Cfa ancorato all’euro. Il progetto di moneta unica della Cedeao è fortemente voluto dal Ghana, paese con una moneta abbastanza instabile. Insomma, l’Africa occidentale, se non tutta, vorrebbe passare, con questa decisione, dalla tutela francese a quella cinese. Ciò dimostra, inoltre, che per questi paesi non è pensabile garantire la stabilità monetaria senza un ancoraggio a una moneta forte. Il franco Cfa, negli anni, ha garantito proprio questo: stabilità e bassa inflazione, a differenza di ciò che è accaduto nei paesi dell’area che non avevano adottato quella moneta, il Ghana, ancora, ne è un esempio. Il Ghana è il principale partner commerciale della Cina nell’area: il commercio bilaterale è passato da meno di 100 milioni di dollari nel Duemila a 6,7 miliardi nel 2017. La metà della massa monetaria della comunità economica dell’Africa occidentale circola in Costa d’Avorio e il 40 per cento delle merci viene movimentata attraverso il porto di Abidjan. Nel Duemila il debito nei confronti della Cina era pari a zero, tra il 2010 e il 2015 è diventato di 2,5 miliardi di dollari.

Frags tratti da Mal d’Africa, di Raffaele Masto e Angelo Ferrari, postfazione di Marco Trovato, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

Angelo Ferrari il 26 marzo 2020 su Radio Blackout enumerava quanti e quali paesi africani rischiano la sovranità in cambio degli investimenti cinesi e crisi postepidemia

Anche Andrea Spinelli Barrile si occupava dell’economia, immaginando di poter usare occhiali diversi in grado di adattarsi alle soluzioni parziali connaturate alla struttura economica-finanziaria dell’Africa Orientale. Attrarre capitali stranieri serve per sopperire con quella liquidità alla inflazione; la produttiva o il welfare, la ricchezza si sposano a un approccio forse più umano all’economia delle varie Afriche.

Andrea Spinelli Barrile, 24 novembre 2018: monetarismo e sistemi economico-finanziari in Africa Orientale; intervento registrato su Radio Blackout

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La presenza militare cinese in Africa orientale https://ogzero.org/la-tanzania-tra-risorse-naturali-e-interessi-cinesi/ Sun, 12 Apr 2020 12:21:28 +0000 http://ogzero.org/?p=130 Boots on the ground La guerra fredda è un lontano ricordo. Eppure Russia e Usa hanno ripreso le ostilità, e dove? In Africa. Mosca sta cercando di riprendersi una qualche centralità nel continente africano, favorita, anche, dalle mutate condizioni politiche. Crollato il muro di Berlino, infatti, su tutto il continente si sono scatenate numerose guerre […]

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Boots on the ground

La guerra fredda è un lontano ricordo. Eppure Russia e Usa hanno ripreso le ostilità, e dove? In Africa. Mosca sta cercando di riprendersi una qualche centralità nel continente africano, favorita, anche, dalle mutate condizioni politiche. Crollato il muro di Berlino, infatti, su tutto il continente si sono scatenate numerose guerre che non avevano più nessun legame con gli amici di un tempo – America e Unione Sovietica – ma, semplicemente, rappresentavano il tentativo di riposizionarsi e trovare nuovi amici attraverso l’accaparramento delle risorse naturali. Finito, non del tutto per la verità, quel periodo, ora è “guerra” commerciale, ma anche militare, di tutti contro tutti. L’Occidente ha deciso che è giunto il momento di arginare l’influenza cinese che, ormai, ha le mani su tutto il continente, nessun paese escluso. La Russia non ci sta e non vuole, certo, rimanere ai margini. Mosca sta in maniera sistematica espandendo la sua incidenza militare e strategica nel continente. E tutto ciò allarma, e non poco, le cancellerie occidentali. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno ben marcato il territorio attraverso il comando Africom. Oltre ai 4000 militari di stanza a Gibuti, la missione americana, dispone di 34 siti militari, 14 basi principali e 20 postazioni secondarie a supporto della lotta al terrorismo. In tutto oltre 7000 militari. Le presenze più significative sono in Somalia, Niger, Kenya, Mali e Camerun. 

Tornare a essere protagonisti in Africa, significa anche rafforzare la presenza militare. Un obbligo dettato dal fatto che la Cina ha già messo gli “scarponi” sul terreno attraverso le missioni di peacekeeping. I caschi blu cinesi, tuttavia, dispiegati in Africa – circa 2500 – sono concentrati nelle aeree di particolare interesse per Pechino. Non è un caso che mille di questi siano in Sud Sudan dove la Cina ha investito molto nel petrolio e altri 400 in Mali.

Frag tratto da Mal d’Africa, di Raffaele Masto e Angelo Ferrari, postfazione di Marco Trovato, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

 

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La contesa per l’acqua del Nilo https://ogzero.org/la-contesa-per-lacqua-del-nilo/ Thu, 02 Apr 2020 14:16:11 +0000 http://ogzero.org/?p=112 Raffaele Masto, Angelo Ferrari, 2020 Per l’Etiopia la decisione di cercare la pace con l’Eritrea fa parte di una svolta profonda anche nella politica interna. Il comitato esecutivo del partito al potere in una coalizione nella quale rappresenta la grande maggioranza ha anche annunciato la liberalizzazione dei settori delle telecomunicazioni, dell’energia e del trasporto aereo, […]

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Raffaele Masto, Angelo Ferrari, 2020

Per l’Etiopia la decisione di cercare la pace con l’Eritrea fa parte di una svolta profonda anche nella politica interna. Il comitato esecutivo del partito al potere in una coalizione nella quale rappresenta la grande maggioranza ha anche annunciato la liberalizzazione dei settori delle telecomunicazioni, dell’energia e del trasporto aereo, aprendoli a investimenti privati e interni, con l’obiettivo di allentare la presa dello stato sull’economia, una delle più chiuse e controllate del continente africano ma anche una delle più dinamiche e in crescita. Si tratta di riforme promesse dal nuovo premier Abiy Ahmed subentrato al dimissionario Hailemariam Dessalegn che, pur appartenendo a una minoranza etnica, rappresentava gli interessi dell’etnia tigrina al potere dalla cacciata, nei primi anni Novanta, del dittatore Menghistu. In questa svolta la potenziale guerra mai conclusa con l’Eritrea era un impiccio. Discorso diverso per l’Eritrea. Questo paese si è progressivamente chiuso anche grazie al pretesto della guerra con il grande vicino etiopico. Ora che questo spettro non c’è più Isaias Afewerki si trova a doversi riposizionare, sia sul piano esterno che su quello interno. Sulla carta vengono meno i motivi per non applicare la Costituzione, per evitare elezioni e per mantenere decine di migliaia di giovani nelle caserme.

La pace con l’Eritrea avrà delle conseguenze economiche. Stando alle parole dei due leader «verranno ripristinati i legami nei trasporti, nel commercio e nelle telecomunicazioni e rinnovati i legami e le attività diplomatiche». L’Etiopia aveva, proprio per ovviare al suo mancato sbocco sul mare, puntato sulla ferrovia e sulla strada per Gibuti costruite dai cinesi. Gibuti era praticamente diventato il porto dell’Etiopia sul Mar Rosso. Ora però la pace dovrebbe offrire di nuovo ad Addis Abeba i porti di Assab e Massaua. O meglio, si dovrà stare a vedere perché secondo molti analisti la guerra era proprio scoppiata non tanto per le pietraie di Badame, a 2400 metri di quota che ora l’Etiopia ha riconosciuto all’Eritrea, ma proprio perché l’Eritrea aveva richiesto i pagamenti dei diritti portuali in dollari e non più in nakfa, la valuta eritrea.

La pace avrà anche conseguenze regionali e internazionali. Sempre secondo quanto affermano i due leader «entrambi i paesi lavoreranno insieme per assicurare la pace regionale, lo sviluppo e la cooperazione». Questi venti anni di non-pace avevano spostato su fronti opposti negli equilibri regionali Eritrea ed Etiopia. Per esempio sulla diatriba tra Etiopia e Egitto per l’acqua del Nilo e la Diga della Rinascita, l’Eritrea aveva fatto da sponda ai paesi contrari ad Addis Abeba. Come pure in Somalia l’Eritrea veniva accusata di sostenere i ribelli jihadisti di al-Shabaab in funzione antietiopica.

La firma di questa pace storica, a detta di molti analisti, è avvenuta a Gedda, in Arabia Saudita il 16 settembre del 2018, e questo non è un fattore secondario. Se la pace poteva avere conseguenze su tutto il Corno d’Africa, sicuramente il luogo della firma impone la comprensione di nuovi scenari che si aprono in quel fazzoletto di terra. L’Arabia Saudita, come tutte le potenze mondiali, non fa nulla senza che questo abbia ripercussioni positive sui propri interessi sia economici che strategici e non ultimi quelli geopolitici. 

Raffaele Masto, 17 novembre 2019, intervento trasmesso da Radio Blackout sulla contesa relativa alla Diga della Rinascita costruita dall’Etiopia sul Nilo Azzurro

Lo spirito del Nilo patisce le dighe

Il Nilo è l’anima per buona parte dei paesi del suo bacino, che è vasto e costituisce un sistema di relazioni politiche che contribuiscono a formare gli equilibri geostrategici della regione. Nessuno può rinunciare alle sue acque: non gli stati relativamente piccoli intorno alle sue sorgenti come il Ruanda, il Burundi e l’Uganda né, a maggior ragione, grandi nazioni come l’Etiopia e il Sudan. Ma chi più di tutti non può fare a meno delle acque del Nilo è l’Egitto, la cui gloriosa storia passata e quella attuale dipendono quasi totalmente dal grande fiume. L’Egitto, che sia guidato dai faraoni, dai Fratelli Musulmani o dai militari di Nasser, di Mubarak o di al-Sisi, non può tollerare che qualcuno dei paesi del bacino del fiume costruisca opere sul suo corso, diminuendo la portata d’acqua che si riversa a valle. Proprio per questo motivo, da qualche anno, è in corso un pericoloso contrasto tra Egitto e Etiopia che fa comprendere quanto sia delicata la spartizione delle sue acque per gli equilibri di tutta l’Africa orientale. L’Etiopia, una delle nazioni africane più dinamiche dal punto di vista economico, ha in progetto da qualche anno una grande diga sul ramo del Nilo Azzurro, soprannominata la “Diga della Rinascita”. Un’opera che nelle intenzioni dovrebbe produrre energia elettrica per buona parte del paese e anche permettere di esportarla a quelli limitrofi, sostenendo in questo modo la formidabile crescita dell’Etiopia, che aspira al ruolo di potenza regionale. Nel 2013 sono cominciati i lavori, e l’Egitto – nonostante stesse vivendo una grave crisi politica interna – ha scatenato un’offensiva diplomatica arrivando a minacciare guerra e bombardamenti aerei sul cantiere della diga. Le tensioni sono tutt’ora all’ordine del giorno e gettano un timore di scontro tra i due paesi e non solo. Le minacce si alternano – da ambo le parti – a periodi di distensione, senza mai, però, arrivare a una soluzione accettabile per tutti.

L’Egitto fonda la propria posizione su un vecchio protocollo: circa cento anni fa, nei primi anni del secolo scorso, era infatti riuscito a stipulare un’intesa secondo la quale il 95 per cento della portata del Nilo risultava di proprietà egiziana, mentre il resto apparteneva al Sudan e le rimanenti briciole venivano lasciate agli altri stati del bacino. La questione è tutta apertissima e nella partita si sono inseriti anche gli Stati Uniti come forza mediatrice tra le parti. 

I negoziati, nonostante la mediazione degli Stati Uniti, sono stati infruttuosi. Nessuno cede e il pericolo di un conflitto, anche se non armato, ma solo diplomatico potrebbe rappresentare un grave rischio per una regione già attraversata da crisi immani come quelle del Sudan e del Sud Sudan. Il problema, ovviamente, è la riduzione della portata delle acque del Nilo. È evidente che una regione dove le crisi, le guerre, sono state dettate dal petrolio, dall’oro nero, da appetiti nazionali e internazionali, una nuova guerra, quella per l’oro blu, l’acqua, non è auspicabile. Ma le tensioni sull’oro blu potrebbero diventare la miccia per nuove guerre, per nuovi posizionamenti strategici. Coinvolgendo, se ce ne fosse ancora bisogno, le potenze straniere. Ma andiamo per ordine.

Il progressivo cambiamento della portata del Nilo Azzurro dal 2014 al 2019

La questione è questa: la Diga della Rinascita ridurrà inevitabilmente la portata dell’acqua del fiume e, di conseguenza, priverà l’Egitto di una risorsa irrinunciabile che ha consentito a questo paese, dalla civiltà dei faraoni a oggi, di avere il ruolo che ha nel Mediterraneo e nel Maghreb. L’acqua del Nilo, e il limo che deposita nelle ondate di piena, costituiscono letteralmente l’agricoltura dell’Egitto. Negli anni recenti hanno scoperto giacimenti di gas imponenti. Ma senza il Nilo l’Egitto non esiste. Non solo non esiste il suo passato, nemmeno il suo presente e, tantomeno, il suo futuro. Il Nilo è l’Egitto. 

Di contro, l’Etiopia vuole esistere, vuole continuare a crescere. A imporsi. È per questo che Addis Abeba non può rinunciare alla diga che sarà una fonte di energia, e che vuol dire elettricità in un paese che non ha ancora raggiunto l’autosufficienza alimentare. Ma fosse solo questo! Elettricità significa tante cose. Innanzitutto sviluppo. Significa luce per poter studiare. Per gli studenti uscire dall’isolamento. Energia per far funzionare le fabbriche. Vuol dire lavoro. Vuole dire ospedali che funzionano. Possibilità per i giovani di oggi di progettare un futuro che non aspiri, solo, a emigrare. Tanto, oggi, chi lo può fare è una esigua minoranza. Vuol dire poter fare figli sapendo che il loro futuro è garantito. Tutto questo per un paese significa energia vitale, che si traduce in elettricità che contagia, che arriva ovunque. Che la partita sia fondamentale è del tutto evidente. Ed è altrettanto scontato che forse i governanti, se non hanno dalla loro la lungimiranza, potrebbero anche scatenare una guerra per l’oro blu. Convinti, magari, che questa sia la soluzione. E le bombe dove cadrebbero? Proprio sulla diga, e addio elettricità.

Il confronto, dunque, è tra due necessità irrinunciabili. Due grandi paesi a confronto. La soluzione, inevitabilmente, passa attraverso la rinuncia di qualcosa da parte di entrambi i contendenti. Ma chi è disposto a fare il primo passo?

Per comprendere questo scontro è utile sapere cosa c’è in gioco concretamente: il paese delle piramidi potrebbe perdere fino a 300 milioni di dollari di elettricità e un miliardo e mezzo di dollari in agricoltura. Non solo: il Cairo dovrebbe aumentare le sue importazioni alimentari fino a poco meno di 600 milioni di dollari, con una perdita di circa un milione di posti di lavoro. L’Egitto consuma circa 80 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, di cui 50 provengono dal Nilo. L’Etiopia, invece, potrebbe perdere lo slancio economico che sta mettendo in campo grazie al suo primo ministro. Il balzo del Pil – attualmente la crescita sfiora le due cifre – potrebbe rimanere una chimera e deludere l’opinione pubblica interna, con conseguenze imprevedibili, vista l’attuale fragilità del tessuto sociale, spesso squassata da rivalità etniche e religiose. Un Pil, tuttavia, che non si riflette sull’economia reale, sul benessere della popolazione.

La diga, intanto, è in fase di costruzione sul confine occidentale dell’Etiopia con il Sudan. Prosegue il suo cammino. Sarà la più grande dell’Africa con un costo complessivo stimato in quattro miliardi di dollari, una capacità di 74 000 metri cubi d’acqua e una produzione di 6500 megawatt. Il negoziato è su tutto, persino sul riempimento della diga. L’Egitto ha chiesto di ottenere un periodo di riempimento di cinque anni anziché tre come proposto dall’Etiopia, una decisione che influenzerebbe fortemente però la quota dell’Egitto sull’acqua del Nilo.

La partita non è solo regionale, ma registra l’interventismo internazionale. In particolare quello cinese. Con l’Etiopia Pechino ha stretto collaborazioni molto promettenti, come l’accordo per un oleodotto che trasporti il gas naturale dei giacimenti dell’Ogaden a Gibuti perché possa essere commercializzato. Ma la Cina ha annunciato una megapartecipazione proprio nella più grande infrastrutturazione del paese. La compagnia Ethiopian Electric Power (Eep) ha firmato un contratto del valore di 40 milioni di dollari con la China Gezhouba Group per la gestione delle attività relative alla Grande Diga della Rinascita, che dovrebbe diventare operativa entro il 2022. L’accordo è stato firmato ad Addis Abeba dagli amministratori delegati di entrambe le società. Nelle intenzioni delle parti, l’intesa consentirà di accelerare il ritmo di realizzazione della diga. Pechino, inoltre, non si fa certo scrupoli, proprio grazie alla sua capacità finanziaria, di siglare accordi e iniettare denaro su progetti che hanno come attori soggetti contrapposti.

Tutto ciò spiega, inoltre, il fatto che l’Egitto boicotti l’iniziativa del bacino del Nilo, istituita con l’accordo di Entebbe firmato da sei paesi: Etiopia, Kenya, Ruanda, Tanzania, Uganda e Burundi. All’accordo non hanno, tuttavia, aderito l’Egitto e il Sudan, a causa della riassegnazione delle quote d’acqua del Nilo che sfavorirebbero questi due paesi. Una contesa lontana dal trovare una soluzione. Una contesa internazionale che potrebbe scatenare la Prima guerra dell’acqua del terzo millennio.

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