Rift Valley del Giordano Archivi - OGzero https://ogzero.org/regione/rift-valley-giordano/ geopolitica etc Fri, 26 Apr 2024 17:49:35 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 L’equilibrista di Ankara sul filo del conflitto mediorientale https://ogzero.org/lequilibrista-di-ankara-sul-filo-del-conflitto-mediorientale/ Thu, 25 Apr 2024 20:18:45 +0000 https://ogzero.org/?p=12587 Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati […]

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Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati risolutivi per lo Stato ebraico e così si assiste al particolare dinamismo da parte di molti attori locali, in particolare di Erdoğan.
La diplomazia turca e il presidente stesso hanno intrapreso un tourbillon di incontri presso i vertici degli stati che compongono la regione mediorientale, proponendosi come mediatore, cercando di raccogliere il testimone lasciato cadere dal Qatar, logorato dal boicottaggio israeliano. Ma soprattutto Erdoğan ha individuato nel conflitto che si vuole estendere dal confronto tra Stato ebraico e Repubblica islamica la nuova centralità dell’Iraq, controllato da Teheran attraverso una ragnatela di accordi con la complessità delle formazioni e delle comunità che abitano il territorio iracheno; insinuandosi nei contrasti interni, il presidente turco mira al petrolio di Erbil e a cacciare il Pkk dai monti del Kurdistan iracheno… Murat Cinar dispiega la sottile tela che si va tessendo, in particolare ricostruendo il ruolo turco e l’avvicinamento di Hamas (evidentemente più rassicurato dall’abbraccio di Ankara – contemporaneamente paese Nato e rivale di Israele – che non dalle petrocrazie arabe) sia nella complessa carneficina della guerra ormai esportata nel resto dei paesi all’interno dei quali le presenze filoiraniane dettano la politica, sia nella strategia per inserirsi nel controllo del territorio e dell’energia irachena, comprandosi Baghdad ed Erbil. E di nuovo, come spesso ci ha raccontato Cinar, spuntano gli oleodotti di Barzani [a proposito: l’immagine in copertina è la fortezza di Erbil pavesata a festa per l’arrivo del presidente turco]  e le dighe su Tigri ed Eufrate, le acque del Medioriente…


Erdoğan è vicino a tutti

 

“Da oltre cento anni, le acque nel Medioriente non trovano pace”, questo è un dato certo. Tuttavia, proprio nelle ultime settimane, siamo testimoni di un fenomeno straordinario. Un fenomeno che coinvolge diversi attori, ma tra essi uno spicca particolarmente: la Turchia.

Dal 7 ottobre fino a oggi, le relazioni tra il partito al governo in Turchia, l’Akp, e l’organizzazione armata Hamas, sono diventate una questione internazionale, chiara e trasparente. L’esponente più autorevole dello stato turco e del partito al potere da oltre vent’anni, ovvero il presidente della Repubblica, dopo alcune settimane di silenzio dal 7 ottobre, ha deciso di comunicare la sua posizione: «Hamas è un’organizzazione di patrioti, non un’organizzazione terroristica». Così, dopo l’Iran, la Turchia è diventata il secondo paese al mondo a esprimere un avvicinamento così netto a Hamas.


Una posizione che entra in contraddizione con i partner europei, con gli alleati Nato, nonché con la Lega Araba e l’Organizzazione della Cooperazione Islamica. In fondo, non si tratta di una novità assoluta. La linea politica ed economica rappresentata dall’Akp è sempre stata vicina ai movimenti fondamentalisti come i Fratelli Musulmani e a una serie di formazioni armate religiose nel Medio Oriente. Inoltre Hamas ha sempre trovato accoglienza, sostegno e riconoscimento presso l’Akp e sotto l’ala protettiva del presidente della Repubblica di Turchia. Tuttavia, questa esposizione così netta, in pieno conflitto, non ha provocato reazioni, sanzioni o embarghi da parte dell’UE e/o della Nato. Poche settimane dopo, nel mese di dicembre, il mondo ha appreso, grazie alle inchieste giornalistiche di Metin Cihan, che persino per Israele non costituiva un grande problema, poiché Tel Aviv continuava a fare acquisti presso aziende turche, incluse quelle statali.

Affannosamente al centro di ogni possibile accordo

Nel mentre Ankara ha tentato diverse volte di assumere il ruolo di “mediatore”, anche se finora senza successo; tuttavia, oggi sembra che questi sforzi stiano finalmente portando dei risultati. Il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha incontrato in Qatar il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, proprio quando Doha stava per abbandonare il suo ruolo di mediatore. Infatti il primo ministro del Qatar, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, il 16 aprile aveva comunicato a Fidan che il suo governo stava per rinunciare. Tuttavia il tentativo del Ministro turco sembra poter ottenere dei risultati positivi. Le dichiarazioni di Fidan ci offrono spunti di riflessione su una serie di scenari:

«Come ho costantemente riferito ai nostri alleati occidentali, Hamas è a favore di uno stato palestinese basato sui confini del 1967 e, una volta creato, è disposto a rinunciare alle armi e a intraprendere la via della politica parlamentare», ha affermato Fidan. Tale dichiarazione prevede anche il riconoscimento di Israele da parte di Hamas, la possibilità di porre fine al conflitto armato, il rilascio degli ostaggi e lo scambio di detenuti politici. Si tratterebbe dell’inizio di una nuova era: «Questo segna il cammino verso la creazione di uno stato palestinese», ha concluso Fidan.

Quando e perché viene fuori una dichiarazione del genere?

Potrà una comunità fondarsi su un altro genocidio come quello di Gaza senza essere una caserma come lo Stato ebraico… o la Repubblica turca?

Senza dubbio il massacro a Gaza ha esaurito innanzitutto i principali protagonisti. Ci troviamo di fronte a un governo sionista, rappresentato da Benjamin Netanyahu, che sta perdendo sempre più il sostegno interno. Da mesi ormai, le strade di Israele sono attraversate da manifestazioni che chiedono le dimissioni di Bibi. In realtà, non è una novità, considerando che nel 2023 Israele aveva già vissuto un lungo periodo di proteste contro il governo per le sue proposte di cambiamento radicale del sistema giudiziario. Oggi Netanyahu è impegnato in una guerra che non sta producendo risultati. Gli ostaggi sono ancora in mano a Hamas, molti sono morti (anche a causa dell’esercito israeliano), e il governo israeliano continua a perdere sostegno a livello internazionale. Le critiche severe che giungono da Washington non sono sporadiche, soprattutto attraverso il più importante esponente politico degli Stati Uniti, ovvero Biden, che tra pochi mesi dovrà affrontare delle elezioni cruciali, dove la situazione israeliana avrà sicuramente un ruolo di rilievo.

Sintonie politico-militari tra leader nazionalisti-identitari

Quindi l’avvicinamento di Ankara a Hamas e il tentativo di portarla eventualmente al tavolo dei negoziati, ottenendo il riconoscimento dello Stato di Israele, la creazione di uno stato palestinese indipendente e il rilascio degli ostaggi, sicuramente portano all’Akp un notevole vantaggio politico. Biden si libera dalla pressione politica e mediatica avvicinandosi alle elezioni, mentre Ankara appare come un mediatore con un canale privilegiato verso un gruppo armato che ha legami diretti solo con l’Iran, attualmente molto isolato.
Infatti, proprio in questi giorni il presidente della Repubblica di Turchia ha paragonato Hamas alla formazione armata che ha fondato la Turchia, la Kuva-i Milliye (anche se con profili ideologici decisamente diversi). Lo stesso parallelo era stato tracciato dallo stesso presidente per l’Esercito Libero Siriano nel 2018, un gruppo di jihadisti che aveva supportato le forze armate turche nelle loro operazioni in Siria. Oggi Erdoğan sembra cercare di presentarsi nuovamente come l’unico intermediario per le organizzazioni terroristiche, a servizio della Nato, dell’Europa e persino di Israele. Non va dimenticato il tentativo di costruire un rapporto diretto con i Talebani nel 2021, quando Erdoğan disse:

«Abbiamo un pensiero ideologico molto simile».

Questo avvenne proprio mentre il mondo era sconvolto dalla fuga degli americani dall’Afghanistan e il ritorno dei Talebani al potere.

Tattiche e affari turchi; accoglienza senza schierarsi

Quindi Hamas rappresenta una nuova opportunità per Ankara, forse anche per garantire un certo sostegno a Bibi. Nonostante gli attriti e le dichiarazioni aspre, Erdoğan e Netanyahu hanno sempre mantenuto un rapporto commerciale molto proficuo, in costante crescita. Anche durante il conflitto, secondo il report dell’Istituto di Statistica turco, Tuik, il volume degli scambi commerciali tra Ankara e Tel Aviv è aumentato del 20%. Tra i prodotti venduti troviamo tutto il necessario per sostenere l’occupazione e l’invasione. Chi altro potrebbe offrire un aiuto così significativo a Netanyahu, in difficoltà al punto da tentare di coinvolgere persino l’Iran in una guerra?

Sì, l’accoglienza diretta e il sostegno a Hamas da parte di Ankara avvengono proprio mentre nel mondo crescono le preoccupazioni riguardo a una possibile guerra tra Iran e Israele.

Tattiche e affari iraniani, intrecci speculari con quelli israeliani

In questo momento di difficoltà interna e internazionale il governo israeliano decide di colpire le postazioni diplomatiche iraniane presenti in Siria, il 1° aprile. Ovviamente sarebbe stato assurdo pensare che l’Iran non avrebbe reagito. Ma in che modo e con quali tempi?

Teheran ha atteso ben due settimane prima di reagire. In Israele l’ansia era palpabile: si sono verificate lunghe code nei supermercati, la popolazione era pronta per la guerra e le critiche nei confronti di Netanyahu si erano intensificate. Tuttavia Teheran, considerando la propria situazione economica e l’instabilità politica interna da anni, non poteva permettersi una vera guerra. Alla fine sono stati lanciati più di 300 razzi/droni verso Israele, ma nessun bersaglio civile è stato colpito e solo una persona è rimasta ferita. Era prevedibile che Tel Aviv avrebbe neutralizzato questo attacco con il suo avanzato sistema di sicurezza? Forse sì. Allora, a cosa è servito tutto ciò?
Innanzitutto Teheran non è rimasto in silenzio dopo l’attacco subito, ha dimostrato al mondo che in qualche modo avrebbe potuto tentare di colpire Israele. Dopo il 7 ottobre, e per la prima volta dopo anni, uno stato ha cercato di colpire Israele mentre tutti i paesi del Golfo osservavano ciò che accadeva a Gaza. Israele ha fermato l’attacco grazie ai suoi alleati, non da solo. In primo luogo la Giordania, poi le forze americane e inglesi hanno dato una mano a Tel Aviv. Quindi, per il governo israeliano, questa non è una vittoria ottenuta da solo.

Inoltre per Israele potrebbe essere stato un tentativo, forse, di spostare l’attenzione da Gaza a Teheran. Forse cercava di coinvolgere gli Stati Uniti in questa guerra, o di ottenere nuovi alleati in un eventuale conflitto futuro. Alla fine della giornata, chi non ha qualche problema con l’Iran? Tuttavia, secondo fonti dell’agenzia di stampa Axios, Bibi non ha ottenuto il sostegno che si aspettava da Biden. «You got a win. Take the win» sarebbe stato il riassunto della posizione del presidente statunitense. In altre parole: “mo’ basta, non ti sostengo più”. Ora Israele molto probabilmente si sta preparando a colpire l’Iran. Non sappiamo ancora in che modo, ma Tel Aviv non è l’unico a cercare di mettere in discussione la presenza dell’Iran in quella zona in questi giorni. Anche Ankara sta cercando di eliminare Teheran dall’Iraq.

Affari e opportunità, rimestando nel caos iracheno

Lorenzo Forlani ci aiuta a inquadrare la mezzaluna sciita: “No “Mena” Land: lo strame di 30 anni di proxy war in MO”.

Erdoğan e l’ossessione anticurda

Pochi giorni prima delle elezioni amministrative tenutesi in Turchia il 31 marzo, una significativa delegazione turca si era recata a Baghdad, ottenendo un risultato di rilievo grazie alla firma di un accordo storico. Con questo accordo, il governo iracheno esprimeva la sua solidarietà ad Ankara nella “lotta contro il Pkk” e prometteva di impegnarsi anche militarmente in questa missione. Oggi è giunto il momento di valutarne i risultati.

Dodici anni dopo il presidente della Repubblica di Turchia si è recato in Iraq il 22 aprile per incontrare il governo centrale a Baghdad e successivamente gli esponenti dell’Amministrazione autonoma del Kurdistan a Erbil. Quali sono gli elementi in gioco e qual è il coinvolgimento dell’Iran?
Uno dei principali problemi che Baghdad fatica ad affrontare è quello economico. Infatti, nel mese di marzo di quest’anno, l’Iraq ha avviato il progetto della “Strada dello Sviluppo”, che prevede il coinvolgimento diretto della Turchia per una serie di prodotti, sfruttando anche la sua posizione geografica strategica. La “Development Road” sarebbe importante anche per diventare un’alternativa per una serie di paesi e aziende occidentali che negli ultimi tempi hanno incontrato difficoltà nel Mar Rosso, una zona controllata da Ansar Allah (Houthi), cioè dall’Iran. Quella formazione armata che spesso impedisce alle navi commerciali di attraversare la zona. Quindi si tratta di un progetto che avrebbe l’ambizione, almeno in parte, di minare il potere politico ed economico di Teheran. Naturalmente l’attuazione del progetto renderà la Turchia un attore importante, che sembra voler approfittare di questa occasione per introdurre ulteriori elementi nel gioco.

E l’ambigua ossessione antiraniana per conto dell’energivoro Occidente

Infatti tra i temi discussi da Erdoğan durante la visita in Iraq c’è anche il consolidamento dell’alleanza diretta per combattere il Pkk, una formazione armata definita “terroristica” dalla Turchia, con alcune sue basi e numerosi vertici situati proprio in Iraq. In questo contesto è importante ricordare che da circa tre anni, durante gli incontri tra Ankara e Baghdad, si discute anche di una possibile collaborazione per eliminare la formazione armata Hashdi Shabi dal territorio iracheno. Questo rappresenterebbe un nuovo gesto contro l’Iran, dato che l’organizzazione in questione è stata costantemente sostenuta e armata da Teheran ed è stata sempre considerata una “minaccia per la sicurezza nazionale” da parte di Baghdad. Pertanto unire la lotta contro il Pkk a quella contro l’Hashdi Shabi potrebbe diventare una missione comune per questi due paesi confinanti.

Quindi, per Ankara, l’attuazione del progetto “Development Road” rappresenta anche un’opportunità per trasformare Baghdad in un vero alleato nella sua missione di contrastare e forse distruggere il Pkk. Dopo che Baghdad ha definito il Pkk “un’organizzazione terroristica” nel mese di marzo, ora non ci sarebbero più ostacoli per avviare le operazioni militari. È importante considerare che un Iraq sicuro, non soggetto a bombardamenti da parte di nessuno, libero dal conflitto armato tra Pkk e Ankara e infine libero dalla presenza iraniana, consentirebbe a tutte le aziende europee e statunitensi di operare “in pace”. Pertanto l’operazione economica e militare proposta da Ankara non gioverebbe solo ai suoi interessi. Infatti, proprio il giorno dell’arrivo di Erdoğan in Iraq, il portavoce dell’Association of the Petroleum Industry of Kurdistan, Myles Caggins, ha dichiarato ai microfoni del canale televisivo iracheno Rûdaw TV:

«Mi aspetto che Erdoğan convinca i dirigenti iracheni a far giungere il petrolio del Kurdistan al mondo attraverso la Turchia».

Dalla padella della mezzaluna sciita filoiraniana alla brace della fratellanza filoturca?

È indubbiamente importante considerare una serie di dinamiche. In Iraq nel 2025 si terranno le elezioni e nel paese non c’è un consenso politico e/o popolare sulla posizione nei confronti del Pkk e sull’avvicinamento con la Turchia. Per esempio, Bafel Jalal Talabani, leader dell’importante partito politico curdo Puk, spesso dichiara che il Pkk non è il suo nemico. Inoltre, è ancora fresca la condanna subita da Ankara per il commercio petrolifero, definito “scorretto”, con l’amministrazione curda. Nel 2023, Ankara è stata multata di 1,4 miliardi di dollari dalla Icc, la Corte Internazionale di Arbitrato.

Ma evidentemente il presidente turco è stato convincente (forniture militari, sicurezza, risorse idriche, promesse varie…), tanto che il portavoce del governo iracheno, Basim el-Avvadi ha rilasciato una dichiarazione il 25 aprile: «Ai membri del Pkk sarà riconosciuto il titolo da rifugiato politico. L’organizzazione invece sarà definita illegale», un’altra diaspora attende i resistenti curdi; contemporaneamente Hamas può trovare ricovero proprio presso il persecutore del Pkk.

Dighe contro le popolazioni mesopotamiche: preludio a un nuovo focolaio di guerra

Oltre a questa questione ancora aperta c’è anche il problema dell’acqua, che rappresenta un tema cruciale. Secondo l’accordo del 1980 la Turchia è tenuta a gestire correttamente il regime dei fiumi che attraversano i suoi confini e scorrono verso l’Iraq. A causa del riscaldamento globale Baghdad cerca da anni di rinegoziare questo accordo, ma Ankara continua a rimandare la questione. Tuttavia, soprattutto durante l’estate, ciò causa un enorme disagio per l’intera nazione, e l’opinione pubblica è convinta che la Turchia stia usando l’acqua come un’arma contro l’Iraq.

La portata del Tigri e dell’Eufrate nel progressivo inaridimento fino alla foce, grafico tratto da Curdi, di Antonella De Biasi, Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

Dopo l’incontro del 22 aprile è molto probabile che Erdoğan abbia ottenuto risultati significativi non solo dal punto di vista economico, ma anche in vista di un’operazione militare imminente. La sua prossima visita, fissata per il 9 maggio a Washington direttamente con Biden, probabilmente includerà anche l’ottenimento di una sorta di “lasciapassare” in Iraq. Non sarebbe fuori luogo aspettarsi un inizio di guerra entro fine maggio.

Perpetuazione del mondo caoticamente multipolare

Il governo turco è apparentemente molto determinato nel lavoro volto a portare Hamas al tavolo dei negoziati, per ottenere una serie di risultati a breve e lungo termine, sia politici che economici, diretti e indiretti. La fine della guerra probabilmente porterà benefici anche a Benjamin Netanyahu, permettendogli di restare al potere senza doversi dimettere. Quindi in Israele potrebbe rimanere un uomo che, tutto sommato, non ha creato grossi problemi a Erdoğan. Anzi, durante la sua carriera politica, il presidente turco ha beneficiato di un notevole benessere economico, sia per le aziende vicine al suo governo che per quelle della sua famiglia.

In quest’ottica, uno Stato ebraico stabile e una repubblica islamica che non esce dai suoi “confini” e rimane al di fuori del gioco in Iraq permetteranno ad Ankara e ai suoi alleati di continuare a giocare la stessa partita anche nei prossimi anni.

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Biden in Medio Oriente: le insidie che declinano la centralità Usa https://ogzero.org/biden-in-medio-oriente-le-insidie-che-declinano-la-centralita-usa/ Tue, 19 Jul 2022 14:48:13 +0000 https://ogzero.org/?p=8226 La disposizione delle pedine sulla scacchiera conduce a frenetiche consultazioni, vertici, summit, visite di rappresentanza e di scambi più o meno confessabili; la preparazione del confronto sull’egemonia o sulla oppositiva concezione tra multilateralismo e bipolarismo.  Inauguriamo con questa analisi di Eric Salerno sulle visite di Biden in Medio Oriente alcuni interventi estemporanei, di cui cercheremo […]

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La disposizione delle pedine sulla scacchiera conduce a frenetiche consultazioni, vertici, summit, visite di rappresentanza e di scambi più o meno confessabili; la preparazione del confronto sull’egemonia o sulla oppositiva concezione tra multilateralismo e bipolarismo. 
Inauguriamo con questa analisi di Eric Salerno sulle visite di Biden in Medio Oriente alcuni interventi estemporanei, di cui cercheremo di fare tesoro per arrivare a comprendere le strategie e gli schieramenti in alcune tappe. Cominciamo a proporre interventi o editoriali proprio oggi, quando si sta svolgendo l’incontro a Tehran tra i vecchi protagonisti degli incontri iniziati ad Astana con l’idea di comporre il conflitto siriano e poi proseguiti spartendosi ruoli e aree di influenza nel bacino mediterraneo, nella regione caucasica e nella penisola araba, come descritto da Antonella De Biasi in Astana e i 7 mari. Un percorso che passa anche attraverso il rifiuto del “paria” MbS alla richiesta di incrementare  la produzione al di là degli accordi Opec, che avrebbe segnato una precisa scelta di campo contro la Russia, con la quale i sauditi hanno sempre stabilito il prezzo del petrolio accordandosi sulla produzione.

Fin da subito in questo articolo viene evidenziato da Eric il punto principale: l’irreversibile declino degli Usa come unica potenza di riferimento, motivo del confronto globale che scuote il mondo.

Fin qui la presentazione di OGzero, la parola passa ora a Eric Salerno


Biden in Medio Oriente: «Ne valeva la pena?»

«Was it worth it?»

È la domanda che si pone il “Washington Post”, analizzando la visita del presidente Biden in Medio Oriente. Una domanda lecita da molti punti di vista, e non soltanto da chi guarda agli interessi Usa. La toccata – pugno contro pugno – tra il presidente americano e il principe della corona saudita Mohammed bin Salman – immagine scandalosa, per tanti, che ha fatto il giro del mondo – non è soltanto imbarazzante ma indicativo di un cambiamento profondo in corso nel mondo che sempre di più non considera gli Usa il punto di riferimento di ogni forma di sviluppo. E di gestione del futuro, sempre incerto, della Terra.

«Saudi Arabia can’t raise oil output more in the medium term»

È la risposta del “paria” Mbs.
Jamal Khashoggi, saudita critico del regime che governa il suo paese, era un collaboratore del quotidiano della capitale americana. I servizi segreti americani ritengono che la sua uccisione, avvenuta in Turchia, era stata autorizzata, o meglio commissionata da Mohammed bin Salman per eliminare uno dei personaggi più critici della monarchia. Biden aveva fatto della sua presunta-certa colpevolezza nella vicenda Khashoggi uno dei suoi cavalli di battaglia durante la campagna elettorale. Aveva giurato di osteggiare, punire Mbs (come è noto ormai a tutti, l’erede al trono dei Saud). Il pragmatismo, ci dicono i diplomatici, è un elemento fondamentale nelle scelte strategiche e in questo momento, con Russia e Cina e una parte considerevole del mondo su posizioni ben lontane da quelle Usa-Europa, il capo della Casa Bianca non aveva altra scelta per cercare di convincere i sauditi ad aumentare la produzione di petrolio (continuano a dire di no) e per cercare di riportarli sotto il controllo Usa mentre si fanno corteggiare con un certo successo da Pechino.
Con la guerra che infuria in Europa, le alleanze da guerra fredda che riaffiorano, l’economia mondiale in caduta libera,  e l’unica industria che tira come mai quella degli armamenti, c’è chi afferma che Biden non aveva altra scelta. E che comunque, tutto sommato, Bin Salman non è il primo tiranno-assassino con cui gli Usa o l’Europa fanno affari.

Visita elettorale a Tel Aviv

Se quel ragionamento tattico-strategico in Arabia Saudita può essere condiviso, diversamente non ci sono giustificazioni per il comportamento di Biden in Israele, la tappa precedente della sua visita regionale, se non quella di non turbare difficili equilibri interni americani a pochi mesi dalle elezioni parlamentari di mezzo termine. Le azioni del presidente sono in caduta libera e il leader democratico non può – e non vuole – rischiare di perdere il voto di chi sostiene da sempre e in maniera totalmente acritica lo stato d’Israele. Biden arrivando a Tel Aviv ha ripetuto il suo storico sostegno alla soluzione “due stati per due popoli” per poi mettere le mani avanti con un «ma i tempi non sono maturi per la ripresa dei negoziati».  Si è poi vantato di aver stanziato un miliardo di dollari per aiutare ad affrontare la fame in alcune parti del Medio Oriente e del Nordafrica. Soldi promessi, ricorda il quotidiano Usa, anche ai palestinesi per i quali il perpetuarsi dello status quo rafforza l’occupazione israeliana delle loro terre, ossia della Cisgiordania e della parte orientale di Gerusalemme.

«The only way to stop them is to put a credible military threat on the table»

È la pretesa di Yair Lapid rivolta a Biden dopo avergli chiesto soldi per l’Iron Beam, il sistema missilistico di difesa antiraniano.

Ci sono state, dopo questa visita di Biden, poche analisi e commenti. Si è accennato al contenzioso con l’Iran con cui continuano i negoziati per cercare di mettere insieme un altro accordo Jcpoa sul nucleare mentre Israele ribadisce che agirà militarmente (oltre agli attentati e assassini mirati di scienziati e militari di Tehran) se lo dovesse ritenere necessario per restare l’unico paese armato di ordigni nucleari in tutta la regi0ne. E qui, da osservatore impegnato da troppi anni a seguire il conflitto israelo-palestinese, appare doveroso chiedersi: «Ma è mai possibile che gli Usa e l’Europa non abbiano capito che Israele – governanti, politici, opinione pubblica – concorda e si è fissata su una valutazione assurda: “Uno stato palestinese indipendente sarebbe un pericolo esistenziale per lo ‘stato ebraico’”».

Armi di distruzione di etnie: curdi palestinesi saharawi

Israele è all’avanguardia nelle tecnologie militari del futuro; vende know-how a tutti (quasi); potrebbe “appiattire” una Palestina indipendente se fosse ostile in pochi minuti con gli stessi strumenti che minaccia di usare per distruggere il Libano se dalla frontiera settentrionale Hezbollah o altri alleati di Tehran dovessero attaccare. E allora? Forse è venuto il momento di capire che, salvo stravolgimenti difficili da prevedere oggi, della sofferenza dei palestinesi – tra Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est, campi profughi in Siria e Libano e Giordania, e una diaspora mondiale – si sentirà parlare a lungo, così come si parla del popolo curdo, se vogliamo restare nella stessa regione.

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Palestina costruire l’apartheid https://ogzero.org/studium/palestina-costruire-lapartheid/ Fri, 06 May 2022 14:19:25 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7340 L'articolo Palestina costruire l’apartheid proviene da OGzero.

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Palestina – Costruire il Bantustan

Testo di Piero Grippa, mappe di Luigi Giroldo

Muro di separazione, muro di protezione, muro della vergogna, muro dell’apartheid. Molte espressioni vengono usate per descrivere la separazione della Cisgiordania dalle colonie e dal territorio israeliani. E dietro ogni definizione potremmo trovare un’interpretazione, un senso dato all’esistenza di quello che è in definitiva uno strumento di oppressione.

Oltre 700 chilometri per separare, segnare una distinzione netta tra un noi e un loro, ma anche per separare città, villaggi e comunità più o meno grandi le une dalle altre, e ognuna dalle proprie risorse idriche e agricole. Checkpoint, torrette, filo spinato e otto metri di cemento per proteggere quel noi dagli attacchi di quel loro, un confine militarizzato la cui necessità di protezione nasce con la sua stessa costruzione, in quello che potrebbe sembrare un paradosso politico, ma che rappresenta uno dei concetti chiave nella sostanza delle relazioni internazionali dalla guerra fredda in giù. Una piattaforma di resistenza, per chi subisce le umanamente umilianti conseguenze dell’esistenza del muro, e vuole gridare quella vergogna al mondo facendone arte. Uno degli strumenti per un’esperienza politica, sociale ed economica ben precisa, che in altri contesti e periodi si è chiamata apartheid, che decide al momento i confini entro i quali si svilupperanno le opportunità di tutta la vita.

Una sostanza ben più eloquente della forma in cui viene presentata si può individuare anche nella differenza tra il tracciato della Linea Verde – sul quale la barriera sarebbe dovuta sorgere – e l’effettivo tracciato del muro, che, prima di tutto, è ben più lungo di quella linea tracciata sulla carta. La sostanza del muro è il sistema di colonizzazione e isolamento di cui fa parte, insieme alle migliaia di chilometri di strade che collegano esclusivamente città e insediamenti israeliani, scavalcando (e in alcuni casi accerchiando) quelli palestinesi. La sostanza del muro è anche il modo in cui viene tagliato l’accesso alle risorse: è facile creare zone cuscinetto tra un muro di cemento e un confine disegnato sulla carta, così come farci rientrare terreni agricoli da utilizzare come ulteriore forma di controllo. Sono infatti numerosi i checkpoint e le porte destinati all’accesso alle zone agricole, che gli agricoltori palestinesi sono costretti ad attraversare (nei predeterminati periodi di apertura, naturalmente), vedendosi quindi dettare dall’esterno modalità e tempistiche di lavoro.

Molti significati possono quindi essere attribuiti all’esistenza e all’utilizzo del muro della Cisgiordania, non semplicemente (come se questo non fosse già abbastanza per innescare un dissenso) un confine artificiale, ma uno strumento ben integrato in un sistema coloniale e di oppressione attivo e in continua evoluzione, in interdipendenza con la rete infrastrutturale e la gestione degli insediamenti. L’esistenza dell’elemento muro deve quindi essere parte dell’interpretazione globale della questione palestinese, e, in conseguenza, delle possibili soluzioni. Un sistema in cui la separazione di un territorio abitato da un popolo si interseca con l’occupazione di quello stesso territorio (non impedendo per altro, ma militarizzando, la comunicazione con l’esterno) rende certamente più complicato pensare a una soluzione basata sul rafforzamento in forma statale del territorio, che sia in termini di autonomie o di totale indipendenza. Oltre 700 chilometri di cemento per 8 metri di altezza con centinaia di checkpoint rendono evidente che un sistema socio-politico in cui all’idea di apartheid si somma un controllo militarizzato è semplicemente un sistema coloniale, e, storicamente, prima della costruzione statale viene la decolonizzazione.

Una decolonizzazione che deve passare attraverso l’abbattimento di quel muro, per un libero accesso alle risorse e allo sfruttamento dei terreni agricoli; e anche l’appropriazione a livello simbolico che possiamo leggere nell’utilizzo del muro come base per la realizzazione di grandi opere (da parte non solo di chi ne è direttamente oppresso, ma anche di grandi nomi dell’arte internazionale) potrebbe essere uno dei passi verso la sua distruzione.

La Tana dei Leoni

E l’orgoglio palestinese non ha mai smesso di opporsi all’aggressione sionista, cercando di dissolvere quel muro che sta soffocando solo uno dei due popoli. Nelle ultime settimane in Cisgiordania e a Gerusalemme Est ha cominciato a crescere un movimento che i militari israeliani non possono contenere con il solito metodo stragista applicato a Gaza – essendosi costruiti un nemico jihadista e militare con Hamas –, e nemmeno cooptando attraverso accordi capestro un’autorità svuotata come l’Anp. Infatti La Tana dei Leoni è un movimento dal basso, costituito da giovani, senza leader riconosciuti, che si contrappongono con i loro corpi alle provocazioni costanti dei coloni (che il governo non può e non vuole contenere), le esecuzioni quotidiane di palestinesi, gli sfratti arbitrari, il regime di apartheid e marginalizzazione, di cui il muro è strumento e simbolo. Proponiamo a corredo del testo di Piero Grippa queste testimonianze giunteci da una compagna transitata a fine ottobre 2022 in Cisgiordania e a Gerusalemme con un gruppo di osservatori delle condizioni di vita in quei territori occupati, a cui si aggiunge la voce di Bassan, nativo di Nablus, ora facente parte di quella diaspora non mai silenziata.

“Testimonianze dal sopruso sionista: il genuino incendio attizzato dalla Tana dei Leoni”.

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]]> Terre (r)esistenti https://ogzero.org/studium/terre-resistenti/ Sun, 07 Feb 2021 16:18:16 +0000 http://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=2340 L'articolo Terre (r)esistenti proviene da OGzero.

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Terre (r)esistenti

L’ambizione all’autonomia e all’indipendenza del popolo saharawi, di quello curdo e di quello palestinese li accomuna nell’impronta laica e progressista e nella persistenza dell’occupazione da parte di soggetti coloniali emanazione dei vecchi imperi ottocenteschi.
La Francia protegge e collabora con il regno marocchino per approvvigionarsi dei fosfati della regione dei saharawi; Israele occupa i territori della vecchia colonia britannica sottraendo le terre ai palestinesi; i curdi sono passati dall’oppressione ottomana al controllo da parte di quattro potenze locali. Tutte queste sono terre (r)esistenti.
Questi tre popoli hanno adottato nel tempo strategie diverse che contemplano anche la lotta armata, ma parzialmente diversi sono i modelli di convivenza che vorrebbero sviluppare, pur partendo da strutture comunitarie abbastanza assimilabili.
Il confederalismo democratico curdo appare come il più avanzato per superare il concetto di stato-nazione; l’attenzione alla democrazia partecipativa del Polisario si ispira a una sorta di socialismo reale fondato anche sulle rimesse della diaspora; la sovrastruttura oligarchica palestinese è infitta nel gioco dell’occupante al punto da rendere ancora più lontana la soluzione del problema.
In tutti e tre i casi è comunque vivace il confronto su una nuova idea di comunità e in tutti e tre i casi le loro disgrazie discendono da trattati disattesi, vulnus del diritto internazionale, che ha prodotto campi profughi per intere esistenze.

60%

Avanzamento

Saharawi. E da dove arriva questo conflitto

A ridosso del rinnovo della missione Onu Minurso, da sempre bloccata dal veto francese nel suo intento di organizzare il referendum i giovani saharawi avevano cominciato a mobilitarsi per richiedere un cambiamento sfociando a fine novembre in un blocco dell’unica strada che consente il passaggio di merci e uomini tra Maghreb e il Sahel occidentale. È stato l’intervento dell’esercito marocchino che ha imposto la riapertura della via di comunicazione a riaccendere gli scontri armati.

Qualche settimana dopo l’amministrazione Trump usa il contenzioso sul territorio del Sahara occidentale per comprare l’adesione del Marocco agli Abraham Accords e infatti il re Mohammed VI ha riconosciuto Israele, ma questa è un’altra storia che è raccontata dalla serie di documentari di Tullio Togni che trovate qui di seguito.


La ricchezza che impedisce la libertà

Giacimenti di fosfati, uranio, petrolio, e la costa di questa terra tra le più pescose del mondo fanno gola da sempre: la lotta per la libertà di questa terra si è scontrata negli ultimi decenni con i trafficanti di morte (armamenti, cacciatori di risorse…) di paesi europei come l’Italia e la Francia e ora il popolo saharawi si ribella al destino e rifiuta di essere semplice merce di scambio tra le potenze internazionali.


Scongelato un conflitto postcoloniale

Le interviste a El Ajun, Sahara occidentale, a pochi chilometri dal confine con il Marocco costano l’espulsione a Tullio Togni e ai suoi compagni seguiti e fermati dai servizi marocchini. L’attività giornalistica non embedded è un reato gravissimo nel territorio riconosciuto dagli Usa di Trump.
Il dibattito politico è intenso nella democrazia partecipativa della repubblica araba Saharawi, complessa realtà riconosciuta dall’Onu e del tutto simile a una qualunque agglomerazione comunitaria di altre società, locate in territori più ospitali. Qui potete ascoltare interviste a persone che animano queste realtà di servizi gratuiti.

La libertà nelle parole degli anziani che ricordano la loro terra, le loro case e le loro capre: un concetto di ricchezza diverso e perduto per finire sudditi di un regno alieno, perdendo le radici, i sepolcri dei propri cari. Da stabili, autonomi, indipendenti improvvisamente si diventa sottomessi da un invasore che arriva con l’intenzione di commettere un genocidio. E si diventa hijos de las nubes, figli delle nuvole, oppressi.
Gli anni di cessate il fuoco hanno solo congelato una situazione favorevole al Marocco e poi è bastato un presidente suprematista a Washington per far pendere la bilancia in bilico da 28 anni. Ma già prima i giovani saharawi erano spazientiti dalla complicità dell’Onu, e il Fronte Polisario deve seguire le indicazioni del suo popolo, in maggioranza fatto da giovani, colti e preparati, senza prospettive e proiettati verso la piena indipendenza, da conseguire anche con la Guerra, perché un altro proverbio recita: «Non si gioca con la pace».

A partire dall’intervento di Trump che riconosce la sovranità marocchina sul territorio delimitato dal suo stesso muro, costruito da Israele, a cui si aggiunge il dato che vede rapporti commerciali e militari tra il regno alawida e lo stato di apartheid di Tel Aviv, si è ragionato con Tullio Togni riguardo a potenziali comunanze – evidenziando anche le eventuali differenze – tra lotte di autonomia e indipendenza che combattono da più di 40 anni per raggiungere affrancamento da colonialismo e occupazione: saharawi, curdi e palestinesi hanno molti tratti che assimilano le loro vicende.

Rifugiati Saharawi Unhcr


Trump e Biden per la Palestina pari son

Nei suoi anni di mandato presidenziale, Trump ha ascoltato e assecondato tutti i sogni della destra israeliana, ignorando del tutto il diritto internazionale, tagliando gli aiuti all’Autorità nazionale palestinese e all’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati e infine ha affermato, come Israele, che non vanno più considerati tali. Ha proposto il cosiddetto “accordo del secolo”, che ignora praticamente ogni rivendicazione dei palestinesi. Esso prevede per loro uno stato frammentato, su modello dei bantustan sudafricani, ossia la formalizzazione dell’attuale situazione sul terreno, e quindi della colonizzazione israeliana dei territori palestinesi occupati.
Ma la propensione a votare Biden da parte della comunità ebraica americana non significa di per sé un allontanamento da Israele, anche se la spudorata identificazione di Netanyahu con Trump ha alienato almeno in parte le simpatie nei confronti dell’attuale governo israeliano. Nonostante le note differenze tra i due candidati alla Casa Bianca, sulla questione del conflitto israelo-palestinese c’è un sostanziale accordo. Le differenze sono più di metodo che di merito. Su pressione della lobby israeliana, dal programma elettorale del partito democratico è stata tolta la definizione di Israele come “potenza occupante”. Inoltre il candidato democratico ha dichiarato che manterrà l’ambasciata americana a Gerusalemme occupata e appoggerà l’accordo di Abramo promosso da Trump tra Israele e alcuni paesi arabi. Pur affermando di essere a favore della soluzione a due stati (ormai di fatto impraticabile), ha dichiarato che si opporrà in tutti i modi a ogni risoluzione dell’Onu che condanni le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele.



Antiche strade che decidono il destino

Quaranta anni fa la colonizzazione ebraica in Palestina, a macchia di leopardo e apparentemente senza coordinamento, appariva ancora un fenomeno destinato a soccombere presto.

Architetti e strateghi militari, gli stessi pianificatori urbanistici della Gerusalemme moderna dopo la guerra del 1967 e degli insediamenti in Cisgiordania, studiarono a fondo la storia della vasta rete stradale, non soltanto regionale, degli antichi romani, che a loro volta avevano avuto come insegnanti egizi, etruschi, greci. I nuovi conquistatori (all’inizio circondati da paesi nemici) avevano bisogno di vie capaci di consentire uno spostamento rapido di truppe e mezzi militari, spesso da un fronte all’altro. Dal Sinai al Golan o viceversa. Nei territori occupati la rete, oltre a garantire il rapido schieramento di soldati e polizia, ha il compito di facilitare il movimento dei coloni e ridurre al massimo il contatto tra loro e la popolazione palestinese. Le strade, ormai autostrade, sono così diventate strumento di occupazione e di strisciante annessione



Tuareg, i curdi dell’Africa

Il cammino intrapreso dal Pkk (fino ad approdare – nel 1998 – al Confederalismo democratico) era iniziato nei primi anni Novanta (quindi prima della cattura di Öcalan) in coincidenza con la caduta del socialismo reale. Una nuova strategia che rifletteva – tra l’altro – i cambiamenti demografici avvenuti nella società curda. Dei tredici milioni di abitanti di Istanbul, ricorda la giornalista «sei milioni sono curdi» e altri quattro milioni sarebbero i curdi emigrati in Europa. Al punto che ormai, secondo Debbie Bookchin «la maggior parte dei curdi non vive in Kurdistan». Ne consegue pertanto che «la lotta principale non è più nazionale, ma sociale». In qualche modo “più attraente” anche per tutti quei soggetti oppressi e sfruttati, umiliati e offesi che – senza esser curdi – subiscono comunque il tallone di ferro dell’imperialismo e dei vari regimi.
Purtroppo le circostanze sfavorevoli non consentirono un incontro di persona tra Bookchin, già anziano e con problemi di salute, e Öcalan in carcere, spesso sottoposto a lunghi periodi di isolamento. Per cui i loro contatti si limitarono a uno scambio epistolare.
Non abbiamo a che fare soltanto con una o più organizzazioni (Ypg, Jpg, Pkk…), ma anche – soprattutto – con un popolo. Un popolo che – come altre comunità minoritarie o minorizzate (in quanto separate da artificiosi confini statali) presenti in quei territori – rischia periodicamente, se non il vero e proprio genocidio, quantomeno l’etnocidio o l’assimilazione (forzata e non). Non solo quindi i popoli presi in considerazione direttamente in questo studium ma anche le comunità limitrofe subiscono la stessa sorte, in particolare gli azawad stanziali dall’Atlante alla Tripolitania e dal Lago Chad alle dune del Ouagadou.

Il mare di Astana: il Mediterraneo


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]]> Antiche strade che decidono il destino https://ogzero.org/le-vie-del-controllo/ Sun, 17 Jan 2021 12:06:04 +0000 http://ogzero.org/?p=2238 Alto è sicurezza. Alto è potere. Alto domina il paesaggio e come mi illustrava nel 1980 con una nota di orgoglio il portavoce dell’insediamento israeliano tra Gerusalemme e Hebron nella Cisgiordania occupata: «da qui si vede tutto: il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro». Quaranta anni fa la colonizzazione ebraica in Palestina, a […]

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Alto è sicurezza. Alto è potere. Alto domina il paesaggio e come mi illustrava nel 1980 con una nota di orgoglio il portavoce dell’insediamento israeliano tra Gerusalemme e Hebron nella Cisgiordania occupata: «da qui si vede tutto: il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro». Quaranta anni fa la colonizzazione ebraica in Palestina, a macchia di leopardo e apparentemente senza coordinamento, appariva ancora un fenomeno destinato a soccombere presto. L’Egitto di Sadat aveva firmato la pace con Israele e, si diceva, prima o poi la leadership israeliana e quella palestinese avrebbero trovato una via d’uscita dal conflitto. Due popoli si contendevano la stessa terra. Si trattava di mettersi d’accordo soltanto su un compromesso. Ma quale?

Camp David, nel 1978: Begin, Carter e Sadat

Di chi è la terra?

«Là in fondo verso il mare – insisteva il colono (termine che fa pensare a un agricoltore ma nella realtà dei territori occupati è quasi sempre tutt’altra cosa) – ci sono Ashkelon e Ashdod, due nostre antiche città. E poi… si giri. Da quest’altro lato c’è la discesa verso il mar Morto. Vede quel tracciato? È un’antica strada romana». Invece di polemizzare lanciai una provocazione. «Credo di comprendere quello che sente. Sono romano e quella strada l’hanno costruito i miei antenati. Questa terra era nostra…».

Essere ebrei dentro e fuori da Israele

L’archeologia, molto spesso al servizio dell’occupazione, conferma la vasta presenza delle comunità israelitiche nell’antichità relegando in secondo piano o addirittura nascondendo il passato delle altre popolazioni che abitavano questa terra. Quello che Bibbia e Storia non confermano è la pretesa che Israele sia “la patria storica del popolo ebraico”. A respingere questa teoria alla base del sionismo religioso è tornato recentemente uno degli uomini politici israeliani più noti e battaglieri. Avraham Burg, figlio di uno dei fondatori dello stato e del Partito nazional-religioso, ha militato a lungo nel partito laburista, è stato presidente della knesset, il parlamento israeliano, e anche presidente dell’Agenzia Ebraica, l’organizzazione israeliana che sostiene l’ebraicità di Israele e opera in stretto collegamento con le comunità ebraiche in tutto il mondo. «Il patriarca Abramo scoprì Dio al di fuori delle frontiere della Terra d’Israele, le tribù divennero un popolo al di fuori della Terra d’Israele, la Torà fu data fuori dalla Terra d’Israele, e il Talmud di Babilonia, che è molto più importante del Talmud di Gerusalemme, fu scritto fuori della Terra d’Israele. E aggiunge: “Gli ultimi duemila anni, che hanno formato il giudaismo di questa generazione, si svolsero fuori d’Israele. L’attuale popolo ebraico non è nato in Israele”».

Quando la religione costruisce le “vie” dell’occupazione

È una polemica che riguarda il mondo ebraico ma anche chi vuole comprendere origine e strategia della destra israeliana e dei suoi alleati e il furto strisciante delle terre palestinesi. Se una lettura di comodo della religione è – qui come per altri credenti – uno strumento di lotta, pianificazione urbanistica e territoriale sono le armi con le quali va avanti, in modo sistematico, l’occupazione. I vasti quartieri costruiti negli anni immediatamente successivi alla presa di Gerusalemme Est dopo la guerra del 1967 e buona parte degli insediamenti in Cisgiordania sono usciti dalle penne di architetti e strateghi militari. Per loro era essenziale un modello capace di garantire la difesa della nuova popolazione dagli attacchi dall’esterno. Questi stessi pianificatori studiarono a fondo la storia della vasta rete stradale, non soltanto regionale, degli antichi romani, che a loro volta avevano avuto come insegnanti egizi, etruschi, greci. I nuovi conquistatori (all’inizio circondati da paesi nemici) avevano bisogno di vie capaci di consentire uno spostamento rapido di truppe e mezzi militari, spesso da un fronte all’altro. Dal Sinai al Golan o viceversa. Nei territori occupati la rete, oltre a garantire il rapido schieramento di soldati e polizia, ha il compito di facilitare il movimento dei coloni e ridurre al massimo il contatto tra loro e la popolazione palestinese.

Vie di confine e di occupazione (foto di Eric Salerno)

La scuola romana: strategie di colonizzazione

I resti ancora visibili di quella via romana minore indicati dal colono ebraico sul costone dal quale si dominano mare e deserto risalgono ai primi decenni del secondo secolo d.C.. Giulio Cesare, nel 46 a.C. cominciò la presa dell’Africa e la costruzione di intere città lungo la costa meridionale del Mediterraneo. Meno di cento anni dopo la via Nerva, dal nome dell’imperatore che l’aveva ordinata, fu completata da Traiano. Collegava gli insediamenti romani d’Occidente con Alessandria d’Egitto e con la rete viaria che li legava alla Palestina, sul mare, e ai monti e ai deserti all’interno dell’Arabia. Poco meno di duemila anni dopo, i genieri israeliani, hanno seguito gli insegnamenti della scuola romana nel tracciare, a partire dal 1967, la prima grande arteria voluta dal progetto politico dei laburisti per il futuro dei Territori. La Via Allon scorre da Nord a Sud lungo le montagne di Samaria e Giudea. Il suo nome si rifaceva a Yigal Allon, politico e militare israeliano. Il suo scopo era chiaro. Metteva in conto l’eventuale restituzione alla Giordania di parte dei territori occupati salvo Gerusalemme e un vasto corridoio di terra lungo le rive del fiume Giordano per garantire a Israele una minima profondità strategica rispetto ai paesi con cui era formalmente in guerra. Mentre la piattaforma del Likud, il partito di centro di cui oggi Netanyahu è il leader e l’esponente più noto, ha sempre rivendicato per lo stato d’Israele tutto il territorio tra il Mediterraneo e il Giordano, i laburisti apparivano disposti a negoziare anche se ritenevano che per la difesa del paese era necessario annettere almeno una parte, non densamente popolata, della Cisgiordania. Il piano Allon gettò le basi per la situazione attuale in quanto stabiliva la creazione in quel “corridoio” di insediamenti agricoli e residenziali. Dal 1967 al 1977 i governi laburisti, spronati da Shimon Peres – premio Nobel con Rabin e Arafat per gli accordi di Oslo – ne autorizzarono ben ventuno accanto agli avamposti militari, tutti in alto, come Masada. L’antica fortezza che domina il mar Morto e fu scelta, curiosamente, come simbolo della eroica resistenza ebraica antica ai romani: secondo la storia tramandata, i suoi difensori, ribelli contro l’occupazione, si uccisero per non finire in mano ai conquistatori.

La scuola romana: la rete viaria in tempo tra pace e guerra

Israele-Palestina, un pezzo di ciò che i cristiani conoscono come Terra Santa, è intrisa di richiami religiosi e altri legati alle conquiste antiche e meno. In Marco 8:27 si legge: «Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: “Chi dice la gente che io sia?”». La “via” era un antico tracciato romano poche centinaia di chilometri a nord di Masada. Collegava la Galilea con Damasco, il centro amministrativo di Roma, passando dalle alture del Golan, terra siriana che gli israeliani hanno annesso e colonizzato. Coltivazioni, colonie agricole, tanto filo spinato, campi ancora minati e scavi archeologici per dimostrare che gli ebrei abitavano l’altopiano strategico millenni fa. La linea di confine, disegnata da Gran Bretagna e Francia nel 1924, per definire Libano, Israele-Palestina e Siria, segue un tracciato di una delle più importanti arterie della rete stradale romana che tra Mediterraneo e fiume Giordano raggiungeva una lunghezza di mille chilometri. Nel 1983, sottolineando come quella rete fu probabilmente il più importante progetto dell’amministrazione imperiale romana, Israel Roll, uno dei maggiori archeologi israeliani, pubblicò un sommario delle ricerche fatte dagli studiosi a partire dall’Ottocento. «Come per molti imperi – sottolineava – le preoccupazioni maggiori di Roma riguardavano l’amministrazione della provincia nei periodi di calma, e l’organizzazione e trasporto di unità militari alle aree chiave nei momenti di guerra e ribellione». Israele ha imparato la lezione.

“Alto” è potere, sicurezza, controllo

In cima a un’altura sul Golan che si affaccia sulla linea d’armistizio e alcune cittadine siriane, accanto a una postazione della forza di pace dell’Onu e a un bar-ristorante per turisti e pellegrini, gli israeliani hanno piantato un palo con le distanze delle città vicine e più distanti. È là per indicare insieme paura e aggressività anche se, come confermano gli stessi generali israeliani, pochi pensano più a scontri ravvicinati: carri armati e forze di terra sono stati ridotti a favore di droni e missili. E questo, in qualche modo, dovrebbe ridurre anche la giustificazione israeliana per l’occupazione del territorio palestinese come cuscinetto difensivo contro il mondo arabo.

“Alto” è controllo (foto di Eric Salerno)

L’autostrada per l’annessione: il progetto di dominio

Le strade, ormai autostrade, sono così diventate strumento di occupazione e di strisciante annessione della Cisgiordania. Yehuda Shaul, come quasi tutti gli israeliani, ha fatto il servizio militare. È oggi è uno dei leader del movimento per la pace. «Tutti sono convinti che l’annessione della West Bank sia stata congelata con la firma degli accordi di normalizzazione con gli Emirati arabi uniti ma in realtà Israele continua ad accelerare i lavori sull’autostrada per lannessione attraverso lo sviluppo di infrastrutture che consentiranno di raddoppiare il numero dei coloni e di solidificare per sempre il nostro controllo sul popolo palestinese». Pochi giorni dopo la presentazione della sua denuncia, è arrivata da B’Tselem, l’ong ebraica per i diritti umani un’altra denuncia: «Non c’è metro quadrato tra il fiume Giordano e il Mediterraneo in cui un palestinese e un ebreo siano uguali». E per la prima volta l’organizzazione parla apertamente di apartheid. L’accusa è stata subito definita antisemitismo puro. Il nuovo piano urbanistico e stradario per la Cisgiordania occupata, però, sembra confermare l’imposizione e le paure dei pacifisti israeliani. Per almeno due motivi. Da una parte le autostrade in costruzione o già funzionanti creano corridoi e spazi separati per le due popolazioni. Dall’altra, la rete nuova sarà collegata a quella israeliana, sempre più vasta, per consentire un legame diretto tra le comunità all’interno della “linea verde” – i confini finora riconosciuti di Israele –- e quelli dei coloni nei territori occupati.

La conquista dell’Arabia e di quella parte del Vicino Oriente – da Gaza al Libano e nell’interno fino ad Aqaba, sul mar Rosso, e Petra nel deserto della Giordania – non fu formalmente festeggiata da Roma se non dopo il completamento della via Traiana Nova negli anni 120. Soltanto da allora cominciarono ad apparire monete con l’effige di Traiano su un lato, e sull’altro un cammello. Israele non ha ancora completato il suo progetto di dominio su tutto il territorio dal mar Mediterraneo al fiume Giordano.

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King Bibi in declino: un complesso effetto domino https://ogzero.org/la-crisi-politica-king-bibi-in-declino-un-complesso-effetto-domino/ Sat, 02 Jan 2021 14:47:34 +0000 http://ogzero.org/?p=2171 Israele si avvia alle quarte elezioni politiche in meno di 2 anni. La data prevista è il 23 marzo. La crisi della coalizione di governo era prevedibile fin dal suo nascere. I due principali partiti di governo, il Likud di Benjamin “Bibi” Netanyahu e Kahol Lavan (Blu e Bianco), l’alleanza di vari partiti guidata dall’ex […]

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Israele si avvia alle quarte elezioni politiche in meno di 2 anni. La data prevista è il 23 marzo.

La crisi della coalizione di governo era prevedibile fin dal suo nascere. I due principali partiti di governo, il Likud di Benjamin “Bibi” Netanyahu e Kahol Lavan (Blu e Bianco), l’alleanza di vari partiti guidata dall’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, otto mesi fa avevano dato vita a un’alleanza su basi molto fragili. Dopo tre elezioni in un anno che non avevano permesso di costituire un governo perché né Bibi né Benny era riuscito a prevalere sull’altro, era stata la lotta contro l’epidemia di Covid-19 a fornire il pretesto per uscire dall’impasse e formare un governo contro natura. Infatti in campagna elettorale Gantz si era impegnato a non allearsi per nessuna ragione con Netanyahu ed aveva raccolto i voti di quanti si riconoscevano nello slogan “chiunque meno Bibi”.

Un’ancora di salvezza per Netanyahu

La manovra aveva fatto uscire il paese dall’inutile serie di elezioni, che avevano comunque mantenuto al potere Netanyahu con un governo di transizione. Per il primo ministro in carica si trattava anche di un problema personale. Dovendo affrontare una serie di processi per corruzione, frode e abuso di potere, da semplice parlamentare si sarebbe trovato in una posizione di debolezza che non si poteva permettere. Inoltre, avendo il controllo sul governo, avrebbe potuto condizionare le decisioni relative alla nomina dei giudici, cosa che negli 8 mesi di coabitazione con Gantz ha effettivamente tentato di fare.

Un governo frammentato

Gantz avrebbe potuto formare un governo senza Netanyahu, ma con l’appoggio esterno della Lista Araba Unita, la terza formazione come numero di seggi in parlamento e che rappresenta la minoranza palestinese con cittadinanza israeliana. Non ha osato farlo, per timore di essere accusato di “connivenza con il nemico”.

Si è trovato però subito in una posizione di debolezza. Infatti 16 dei 33 deputati di Kahol Lavan non hanno seguito Gantz e sono passati all’opposizione. Per arrivare a 61 voti la coalizione ha dovuto includere alcuni piccoli partiti laici di centro, vari partiti religiosi e parte dei Laburisti. Il governo che ne è nato ha battuto ogni record quanto al numero di ministri e sottosegretari, ben 52 per un parlamento di 120 deputati.

Un’alternanza con le gambe corte

Naturalmente l’operazione non è stata a costo zero neppure per Netanyahu. Ha dovuto accettare di cedere a Kahol Lavan i principali ministeri: Difesa, Esteri, e, fondamentale per lui, Giustizia. Inoltre ha dovuto accettare l’alternanza nella carica di primo ministro dopo un anno e mezzo. Come detto, per lui, che è stato capo del governo ininterrottamente dal 2009, cedere il potere rischiava di metterlo in una situazione di debolezza di fronte ai giudici.

Molti in Israele avevano previsto che Bibi non avrebbe mai rispettato questa parte dell’accordo, e così è stato. Formalmente il governo di coalizione è caduto per il disaccordo tra Likud e Kahol Lavan sulla legge di bilancio, ma pochi dubitano che la vera ragione sia stata la decisione di Netanyahu di andare a elezioni in un momento che ha ritenuto favorevole.

Vittime del virus

Un’ulteriore debolezza del governo era legata proprio alla sua principale ragione di esistere: la lotta contro l’epidemia da Covid-19. Si diceva che fosse urgente avere un governo di unità nazionale per combatterlo efficacemente. Otto mesi dopo il bilancio è quanto meno deludente: il governo ha dovuto decretare il terzo blocco totale a partire da domenica 27 dicembre.

La protesta antigovernativa a Tel Aviv per la gestione della pandemia

La gestione è stata confusa e conflittuale a livello politico, con decisioni prese e smentite nel giro di qualche giorno. In un territorio grande più o meno come Piemonte e Val d’Aosta (includendo Israele, Cisgiordania e Gaza) ma con una densità di popolazione molto maggiore, i contatti tra israeliani, compresi i coloni nei territori occupati, e palestinesi sono inevitabili. E, mentre Israele ha un ottimo sistema sanitario, lo stesso non si può dire dell’Autorità Nazionale Palestinese, a causa della scarsità di mezzi per via dell’occupazione. Soprattutto, le aperture affrettate dopo i lockdown hanno portato a un rapido aumento dei casi.

I leader di governo hanno fatto a gara per attribuirsi il merito dei successi e a scaricare sui rivali le colpe dei fallimenti nella lotta all’epidemia, aumentando l’impressione di incompetenza e confusione.

Un dilettante allo sbaraglio

La principale vittima della caduta del governo è sicuramente Benny Gantz. Avendo tradito un vasto consenso esclusivamente grazie all’impegno a non allearsi mai con Netanyahu, non c’è da stupirsi se i primi sondaggi danno al suo partito solo 5 seggi sui 33 delle elezioni di marzo. Oltre al tradimento, sconta la scarsa affidabilità dimostrata da lui e dai suoi ministri, e non solo riguardo alla gestione della pandemia. Nella storia di Israele sono stati molti i generali al potere, ma nessuno ha dimostrato una simile sprovvedutezza.

e una vecchia volpe che perde il pelo

Ma anche Netanyahu è in difficoltà. Per liberarsi di Gantz ha scatenato effetti a catena che rischiano di sconvolgere il quadro politico che finora gli ha consentito di rimanere al potere. È indebolito dai guai giudiziari, dal fallimento del governo di coalizione e dalle continue manifestazioni contro di lui, violentemente represse dalla polizia. Da 26 settimane migliaia di israeliani, quasi esclusivamente ebrei, manifestano in tutto il paese. Si tratta di un movimento agguerrito quanto eterogeneo. Vi partecipano militanti di sinistra, persone che hanno perso il lavoro a causa del Covid, i delusi da Kahol Lavan, cittadini disgustati dalla corruzione e dall’attaccamento al potere di “King Bibi”. Oltre alla repressione della polizia, contro i dimostranti ci sono state anche aggressioni da parte di sostenitori di Netanyahu, dando l’impressione che il paese si trovi sull’orlo di una guerra civile.

Una grave perdita

Persino i successi di Netanyahu in politica estera gli si stanno ritorcendo contro. La normalizzazione dei rapporti con Israele sta coinvolgendo sempre più paesi arabi (con cui peraltro Israele aveva già solidi rapporti segreti), sconvolgendo le alleanze ed evidenziando la marginalità della causa palestinese. Per EAU e Bahrein si tratta soprattutto di creare un fronte contro il comune nemico, l’Iran; per altri, come il Sudan e il Marocco, del risultato dei ricatti e delle lusinghe di Trump. L’avvicinamento degli EAU ha comportato anche un accordo sulla Spianata delle Moschee che altera lo status quo e tende ad escludere l’influenza della Turchia e della Giordania sulla gestione dei luoghi santi musulmani.

Murales, West Bank di Betlemme: l’appoggio americano (non del tutto perso con il cambio della guardia) al governo israeliano

Ma proprio ora emerge il punto debole di Netanyahu in politica estera. Egli ha privilegiato i rapporti con il presidente Usa più filoisraeliano di sempre. Questa posizione ha coinciso con il grande favore che Trump riscuoteva nell’opinione pubblica israeliana, ma ignorava i timori della comunità ebraica Usa, tradizionalmente democratica e preoccupata della vicinanza ai suprematisti e dei discorsi antisemiti dell’ex presidente.

Netanyahu si trova senza il cavallo su cui aveva puntato, con la crescente ostilità dell’opinione pubblica statunitense nei confronti delle politiche israeliane e con un nuovo presidente almeno sulla carta meno acquiescente. È improbabile che altri, in particolare l’Arabia Saudita, si uniscano alla corsa per normalizzare i rapporti con Israele, tanto più che la possibile distensione tra l’Iran e l’amministrazione Biden potrebbero ridefinire il contesto regionale.

Convegno dell’Aipac: lobby americana in sostegno allo Stato di Israele

Ricomposizione della Destra

Come squali attirati dal sangue, i molti nemici di Bibi si stanno lanciando all’attacco di un leader che ritengono ormai in declino. L’8 dicembre Sa’ar, suo avversario interno, ha lasciato il Likud e ha fondato un nuovo partito, Tikva Hadasha (Nuova Speranza), a cui hanno subito aderito altri deputati del partito. La più clamorosa è quella di Zeev Elkin, che faceva parte del cerchio magico di Netanyahu. Come spesso capita agli apostati, essi stanno sparando a zero contro il loro ex leader, accusandolo delle stesse colpe dalle quali finora lo avevano difeso.

Tikva Hadasha non rappresenta un’alternativa politica al Likud. Appoggia la colonizzazione nei territori occupati, è contrario alla Soluzione a due stati e intende proporre una legge per imporre un maggiore controllo dell’esecutivo sul potere giudiziario. Rappresenta la stessa politica del Likud ma senza Bibi. Si porta in dote una parte dell’elettorato del Likud, stanco di Netanyahu, ma attira anche voti dell’estrema destra dei coloni. Il partito che li rappresenta, Yamina (La Destra), era dato in forte crescita. Il suo leader, Naftali Bennett, laureato in legge e finanziere, ha pubblicato un fortunato saggio su come combattere il virus. Forte di questa popolarità e della fama di politico onesto e competente, si è candidato a primo ministro contro Netanyahu, di cui prima dell’accordo di quest’ultimo con Gantz era alleato di governo. La comparsa di Sa’ar, che ottiene anche il gradimento di ex elettori delusi da Gantz e di quanti nel Centrosinistra lo ritengono l’unica alternativa plausibile all’odiato Netanyahu, potrebbe tarpagli le ali.

Centrosinistra residuale…

Il cosiddetto Centrosinistra rischia di subire l’ennesima sconfitta. Già Kahol Lavan era stato definito il partito dei generali. Come se non fosse servita la disastrosa esperienza di Gantz, ora pensa di candidare un altro ex capo di stato maggiore, Gadi Eisenkot. Durante la Seconda guerra del Libano fu l’ideatore della cosiddetta Dottrina Dahiya, dal nome di un quartiere sciita di Beirut. Essa prevede «una risposta sproporzionata ed enormi danni e distruzioni contro ogni zona abitata da cui vengano attaccate le forze israeliane». Non a caso Richard Falk, docente di diritto internazionale a Princeton e rapporteur dell’Onu, l’ha definita una forma di terrorismo di stato. Insomma, dopo Gantz, che durante la campagna elettorale si era vantato di aver fatto tornare parti di Gaza «all’età della pietra» durante l’operazione “Margine protettivo” del 2014, il Centrosinistra israeliano intende rincorrere la Destra sul suo stesso terreno.

Ma com’è noto, in genere gli elettori preferiscono gli originali alle copie.

…Sinistra sionista e coalizione dei partiti arabi in crisi

Quanto al Meretz, il partito storico della Sinistra sionista, ha ufficialmente accolto un nuovo candidato alla leadership: Yair Golan, un ex generale, che ha sostenuto di voler fare il possibile per silenziare quanti lo vogliono far diventare un partito arabo-israeliano. A suo favore può vantare il fatto di aver paragonato nel 2016, durante una manifestazione pubblica e in veste di vicecapo di stato maggiore, la situazione politica di Israele a quella della Germania dei primi anni Trenta.

Si prevede anche che la “Lista Araba Unita”, data la sua impossibilità di incidere sul quadro politico, perderà voti tra i molti elettori palestinesi con cittadinanza israeliana ormai disillusi. Oltretutto è indebolita da dissidi interni: recentemente la sua componente islamista ha addirittura avviato colloqui con Netanyahu per cercare di risolvere il problema della criminalità all’interno della comunità araba. Quindi probabilmente i vari partiti che la compongono si presenteranno separati.

Primarie della Destra

La tradizionale frammentazione del quadro politico israeliano è ulteriormente accentuata da uno schema che ancora una volta ruota attorno a Netanyahu. Ma una cosa è certa. Non sarà sulla soluzione del conflitto e sulle prospettive di pace con i palestinesi che verterà la campagna elettorale. Si prevede che i partiti di destra, di estrema destra e religiosi otterranno più di 80 seggi su 120. Il giornalista israeliano Gideon Levy ha scritto: «Il 23 marzo si terranno le grandi primarie della Destra, un evento che per qualche strana ragione viene ancora chiamato elezioni politiche per la Knesset».

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Neom: The Red Sea Diving Resort https://ogzero.org/neom-ribolle-il-mar-rosso/ Tue, 24 Nov 2020 09:43:15 +0000 http://ogzero.org/?p=1837 Immersione nella barriera arabo-israeliana in dissoluzione Tra il virtuale e il reale, le due rive del mar Rosso sono in ebollizione. Non distante da dove, a ridosso di Port Sudan, anni fa, il Mossad aveva trasformato un fallito centro per subacquei in una base segreta per portare in Israele gli ebrei etiopici (falasha) in fuga, […]

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Immersione nella barriera arabo-israeliana in dissoluzione

Tra il virtuale e il reale, le due rive del mar Rosso sono in ebollizione. Non distante da dove, a ridosso di Port Sudan, anni fa, il Mossad aveva trasformato un fallito centro per subacquei in una base segreta per portare in Israele gli ebrei etiopici (falasha) in fuga, la marina russa sta per aprire una base navale e aggiungere la presenza dell’ex superpotenza a quella di numerosi altri contendenti per il controllo della regione. Dall’altro lato di quel lungo specchio d’acqua tra i più strategici del mondo, di fronte all’Africa più turbolenta, l’Arabia saudita ha avviato la creazione di un vasto comprensorio turistico di lusso (con un poco fortunato avvio per colpa del Covid) dove le regole più arcaiche del Corano non valgono mentre sulla stessa riva ma più a sud continua a seminare morte e devastazione nello Yemen.

Kryptonite SarsCov2 sul vertice G-20

Il 21 e il 22 novembre, su onde simili a quelli che consentono ai droni sauditi di colpire la splendida Sana’a, si sono esibiti a distanza di sicurezza imposta dalla pandemia i rappresentanti dei G20 nel loro vertice annuale presieduto per la prima volta da un paese arabo, proprio l’Arabia saudita. Con gli specialisti che ci continuano a raccontare che il mondo abbastanza presto farà a meno del petrolio e si servirà di altre risorse, meno inquinanti, per le sue molteplici esigenze di vita e che, comunque, i ricchissimi giacimenti di oro nero sotto le sabbie del grande deserto arabo stanno finendo, viene da chiedersi il significato dei giochi geopolitici e militari di quello scacchiere. Lasciamo le risposte complesse a un altro momento: è per molti più importante chiedersi oggi perché la presidenza, seppure di turno, di un sodalizio come il G20 e il vertice siano andati a finire in uno dei paesi più repressivi dei diritti umani del mondo e perché uno dei suoi massimi leader abbia potuto impunemente sfuggire all’accusa di omicidio per il brutale assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi e viene accolto da mezzo mondo come se nulla fosse accaduto nel consolato saudita in Turchia. Qui la risposta è meno complessa: dollari, euro e criptovalute, termine che fa venire alla mente la kryptonite di supereroica memoria. La ricchezza, come quel minerale, può dare potere ma anche mettere in difficoltà chi non sa come gestirla. Il Covid ha vanificato l’investimento dell’Arabia saudita e del suo reggente nel vertice: non c’è stata la foto di gruppo, non ci sono state le strette di mano o le confidenze bilaterali. E nemmeno le gite organizzate per mostrare agli illustri ospiti quella piccola parte del mondo saudita – il comprensorio di Neom – che potrebbe assomigliare al nostro mondo e distrarre l’attenzione dei presenti (delegati e stampa di passaggio) da quanto c’è di negativo in quel paese.

Neom, la ridefinizione dello spazio e metafora dei futuri rapporti mediorientali

Negli anni Ottanta dello scorso secolo quando la repressione dell’Intifada dei palestinesi aveva riportato in primo piano la loro causa, una giornalista, con cinque passaporti in tasca tra cui quelli italiani e israeliani, mi disse con convinzione, temo, che sarebbe stato meglio non criticare Israele. Farlo, sosteneva, avrebbe soltanto messo in difficoltà coloro che in quel paese volevano la pace. Oggi la questione palestinese non fa notizia se non per qualche intrusione non certo costruttiva del presidente americano. Da tempo, ormai, poche sono le critiche pubbliche da parte dei paesi che contano. Eppure i palestinesi non sono più vicini ad avere una patria indipendente. E sbaglia, oggi, chi ritiene che non criticare l’Arabia saudita e il suo relativamente giovane riformatore, l’erede al trono Mohammad bin Salman (MbS), per l’assassinio di Khashoggi o per l’aumento delle violazioni dei diritti umani negli ultimi anni, sia l’unico modo per consentire al regno di uscire dal suo medioevo islamico.

Il G-20 saudita non si boicotta, né risolve…

Per questo, Human Rights Watch e molte altre organizzazioni internazionali e anche saudite avevano sollecitato i capi di stato degli altri paesi del G-20 di ridurre il livello della loro rappresentanza al vertice. O di utilizzare l’incontro virtuale per mandare molto più di un segnale di disappunto al regime. Il sodalizio comprende l’Unione europea e 19 paesi: Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Germania, Francia, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud, Turchia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Molte realtà in comune; molte altre che li separano. Insieme, i membri del G20 rappresentano circa il 90 per cento del Pil mondiale, l’80 per cento del commercio mondiale e i due terzi della popolazione mondiale. E insieme, nel week-end di discorsi a distanza, non sono riusciti nemmeno a tirar fuori un impegno concreto – costo 28 miliardi di dollari – per garantire l’accesso al vaccino anti-Covid ai paesi poveri.

… investe in sogni di ricchezza…

Il presidente americano Trump, sempre sprezzante, ha parlato contro tutto e tutti e appena finito il solito intervento farneticante è andato a giocare a golf senza restare davanti al suo monitor per ascoltare gli altri interventi. Gli interessi economici sono il collante dei G-20 e il tema di fondo quest’anno era, giustamente, il fall-out economico del Covid. Con visioni divergenti e su come procedere di fronte a una delle crisi di crescita che vedrà i poveri diventare più poveri e molti ricchi diventare meno ricchi ci si poteva aspettare almeno una modesta donazione a favore dei più poveri se non altro per farli diventare Mercato utile alla crescita economica dei già ricchi. L’Arabia saudita punta alla modernizzazione e sta approfittando della crisi Covid. Cerca investitori e investe. Con i proventi del petrolio sta arraffando ciò che può nella speranza, secondo il piano dell’erede al trono, di arrivare al 2030 con un’economia non più sostenuta dai soli proventi del petrolio. Un progetto ambizioso che in tempi di magra piace alle economie avanzate in difficoltà. Persino le azioni dell’Eni hanno ripreso quota con la notizia che il fondo sovrano saudita ne ha acquistato un pacchetto.

… e in consumo di armi in Yemen

Abbiamo esaminato, recentemente, il peso del complesso militare-industriale americano sulla politica Usa. Purtroppo non è l’unica nazione del nostro mondo, diciamo “democratico”, a essere soggetta alle pressioni dei fabbricanti di armi. I paesi membri del G20 hanno venduto armi per più di 17 miliardi di dollari all’Arabia saudita da quando il regno è intervenuto nella guerra civile in Yemen. Una cifra di tre volte superiore agli aiuti umanitari forniti dagli stessi paesi ai trenta milioni di abitanti della più antica nazione della regione. Il disavanzo si allarga se si considera la vendita di armi e munizioni verso gli otto paesi che compongono la coalizione a guida saudita: il valore delle esportazioni sale a 31,7 miliardi di dollari.

I bombardamenti indiscriminati da parte saudita su ospedali, cliniche, pozzi e altre strutture civili sono stati condannati da molte organizzazioni internazionali e alla vigilia del vertice di Riad, l’organizzazione assistenziale Oxfam ha definito la politica dei paesi più ricchi del mondo “immorale e incoerente”.  Tra loro, sotto accusa c’è anche l’Italia. Giorni fa la Rete Italiana Pace e Disarmo, il Centro Europeo per i Diritti Costituzionali e Umani (Ecchr), e l’ong yemenita Mwatana per i Diritti Umani, hanno sottolineato in un evento online che il governo di Roma e i produttori italiani di armi potrebbero essere considerati corresponsabili dei crimini di guerra commessi nello Yemen esportando armi verso la coalizione militare guidata dall’Arabia saudita e dagli Emirati arabi uniti. Un anno fa, nel dicembre 2019, Amnesty International e numerose altre organizzazioni comprese quelle citate si rivolsero all’Ufficio del procuratore presso la Corte penale internazionale dell’Aja chiedendo un’indagine sulla responsabilità degli “attori aziendali e governativi in Italia, Germania, Francia, Spagna e Regno Unito”. La comunicazione descriveva ventisei attacchi aerei della coalizione saudita che, secondo le ricerche effettuate, potrebbero aver utilizzato bombe prodotte in Europa. L’Italia, come alcuni altri paesi europei, ha per ora bloccato le esportazioni dirette ai paesi belligeranti (anche se molti armamenti arrivano o arriveranno a loro attraverso paesi terzi). Nei primi mesi del 2020, gli attacchi aerei a guida saudita sono più che raddoppiati e le vittime civili della guerra sono aumentati vertiginosamente arrivando a oltre 20000 per gli oltre 64000 bombardamenti compiuti da quando la guerra cominciò nel 2015. Di fronte a questo quadro sempre più grave e deprimente, poche ore prima dell’inizio del vertice dei G-20, la International Rescue Committee, organizzazione non governativa con sede a Washington ha sollecitato Usa, Gran Bretagna e Francia a sospendere le loro vendite di armi alla coalizione saudita. Silenzio totale da parte dei paesi chiamati in causa.

L’abbraccio esiziale a Neom: MbS, Pompeo, Bibi

Con la scusa che l’Arabia saudita deve essere considerata una pedina importante per controllare “l’espansionismo iraniano” nella regione, l’anno scorso il presidente americano furbescamente ordinò la consegna di bombe e missili sofisticati a Riad per una cifra volutamente inferiore a quella che impone un’approvazione congressuale sulle vendite di armi. Giochi più volte ripetuti e più volte giustificati dalla Casa bianca (e sottoscritte dal parlamento) in quanto le vendite “creano lavoro” per gli americani. Nel 2017 Trump e i sauditi firmarono una lettera d’impegno per l’acquisto di armi per un valore di 110 miliardi di dollari subito e altri 350 miliardi di dollari entro dieci anni. Un accordo simile l’aveva firmato il deludente “premio Nobel per la pace” predecessore di Trump, Barack Obama.

Non sono soli i movimenti pacifisti a chiedersi cosa può fare l’Arabia saudita con tale quantità e qualità di armamenti se non garantirsi il sostegno dell’industria americana. Persino il Pentagono, nelle sue analisi, ammette che il regno dei Saud, poco popolato e con una maggioranza di sudditi poco incline a sostenere la famiglia reale, non sarebbe capace nonostante il suo arsenale crescente supersofisticato a vincere un confronto militare con un paese come l’Iraq, l’Iran o l’Egitto senza l’intervento diretto degli Stati Uniti. O di Israele. E a proposito della superpotenza mediorientale: mentre gli occhi dei rappresentanti del G20 erano più o meno concentrati sugli schermi che li collegavano, il premier israeliano, il capo del Mossad, Yossi Cohen e il bellicoso segretario di stato americano Mike Pompeo sono volati a Neom, la città del futuro – zona turistica e industriale – nel nord dell’Arabia saudita per il primo incontro ufficiale tra Netanyahu e Mohammed bin Salman. Non ci vuole molto per capire che si è trattato di un “consiglio di guerra”. Cosa fare prima dell’insediamento di Biden alla Casa Bianca per mettere i bastoni tra le ruote del neoeletto?

Quali spuntati argini “democratici” alla deriva bellica?

Il leader democratico ha più volte parlato di modificare la politica americana impostata da Trump rispetto a Mohammed bin Salman e all’Arabia saudita nel suo insieme. E ha più volte insistito sulla necessità di riprendere appena possibile il dialogo sul nucleare con l’Iran che Trump aveva interrotto nonostante le esortazioni non solo di molti consiglieri americani ma anche dei partner europei. Nei giorni scorsi il “New York Times” aveva rivelato che subito dopo il voto Trump aveva sollecitato, senza successo, i suoi generali a mettere in piedi un attacco alle istallazioni nucleari iraniane. Sarà ora Israele a colpire? Pochi a Tel Aviv pensano che una massiccia azione militare contro Teheran sia imminente. L’altro tema di fondo è la “questione palestinese”. L’avvicinamento tra Israele e Arabia saudita è un dato di fatto ma è ancora re Salman, non MbS, a decidere fino a dove arrivare e ha appena ribadito, frenando l’entusiasmo di Netanyahu, che la normalizzazione delle relazioni tra i due paesi aspetta il momento in cui sarà annunciata la creazione di uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come sua capitale.

Israele e il suo premier hanno ottenuto molto da Trump ma nel commentare il vertice trilaterale a Neom, Joshua Teitelbaum, storico ed esperto di affari sauditi e dei paesi del Golfo all’università Bar-Ilan (destra religiosa) ha ricordato al premier che anche «con i democratici Israele ha molta influenza a Washington» ma non deve troppo schierarsi con i sauditi contro le eventuali azioni di Biden, noto da sempre come sostenitore di Israele.

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Ultimi colpi di coda di un baro e dei suoi complici? https://ogzero.org/devastante-viaggio-diplomatico-in-medio-oriente-di-pompeo/ Sat, 21 Nov 2020 09:39:55 +0000 http://ogzero.org/?p=1800 Ormai sembra inevitabile che il riottoso Trump sia costretto a breve a traslocare dalla Casa Bianca, salvo colpi di scena al momento imprevedibili. Ma l’assurdo sistema statunitense riguardo al cambio di amministrazione federale consente a lui e ai suoi complici di imbastire nei mesi di interregno trame e perseguire progetti di politica estera che non […]

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Ormai sembra inevitabile che il riottoso Trump sia costretto a breve a traslocare dalla Casa Bianca, salvo colpi di scena al momento imprevedibili.

Ma l’assurdo sistema statunitense riguardo al cambio di amministrazione federale consente a lui e ai suoi complici di imbastire nei mesi di interregno trame e perseguire progetti di politica estera che non si possono certo definire nel quadro della “amministrazione ordinaria”, come sarebbe previsto dalle regole di correttezza e dalla legalità istituzionale. Lo dimostra anche lo scenario disegnato in questi giorni dal viaggio in Medio Oriente del segretario di stato Mike Pompeo.

Rottura della tradizione diplomatica Usa

Lo scenario regionale, in particolare il conflitto israelo-palestinese, è stato il contesto in cui più attiva e dirompente è stata la politica estera dell’amministrazione Trump. Interrompendo una tradizione consolidata di equidistanza, formale quanto fittizia, dei governi statunitensi tra le parti in conflitto, il presidente Usa e i suoi consiglieri si sono apertamente schierati a favore delle pretese israeliane: riconoscimento dell’annessione delle alture del Golan, spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, affermazione del diritto di esercitare la sovranità israeliana su gran parte dei territori palestinesi occupati, attacco esplicito al diritto al ritorno dei profughi palestinesi, imposizione di un piano di pace (il cosiddetto “accordo del secolo”) che recepisce quasi tutte le richieste di Israele, senza peraltro preoccuparsi neppure di consultare l’altra parte in conflitto. Non che gli Usa siano mai stati mediatori imparziali e abbiano imposto a Israele il rispetto degli accordi firmati. Persino Obama, il presidente che è stato considerato il più ostile e a cui il governo israeliano ha fatto sgarbi diplomatici e una sorda guerra di posizione, alla fine del suo mandato ha firmato la concessione di aiuti militari più generosa da sempre. Ma nessuno era mai intervenuto in un contesto così delicato ignorando leggi internazionali, risoluzioni Onu, cautela diplomatica. Non a caso Trump si è circondato di personaggi direttamente implicati nel progetto di colonizzazione israeliana della Cisgiordania, e costoro si sono comportati di conseguenza.

Pompeo: l’uomo del secondo mandato a Trump

Almeno in Medio Oriente, gli uomini di Trump si comportano come se quest’ultimo avesse vinto le elezioni. Dopo aver affermato che «ci sarà una facile transizione verso un secondo mandato di Trump», il segretario di Stato ha intrapreso un devastante viaggio “diplomatico” in Medio Oriente. Benché l’obiettivo più ambizioso di questa iniziativa riguardi un possibile attacco contro l’Iran (che pare Trump intendesse intraprendere qualche giorno fa), arrivato in Israele Pompeo ha espresso le sue convinzioni riguardo ai presunti diritti israeliani e ha inanellato una serie di esternazioni, visite di grande significato simbolico e iniziative molto concrete. Non è sembrato il viaggio di commiato di un segretario di stato che stesse per lasciare il proprio incarico, quanto motivato piuttosto dalla volontà di rilanciare su varie questioni cruciali. Di per sé le affermazioni di Pompeo, così come il disprezzo delle leggi e della diplomazia internazionale, non hanno fatto altro che confermare quanto già si sapeva. È noto che Pompeo, come il vicepresidente Mike Pence e una parte consistente dell’elettorato di Trump, aderisce a una congregazione cristiano-sionista. Ma è stato l’atteggiamento protervo e al contempo proattivo a lasciare sconcertati molti osservatori.

Lotta al BDS, legittimazione delle colonie, divisione dei territori

Le prime hanno riguardato critiche alla legge dell’UE che prevede l’etichettatura che specifichi la provenienza di prodotti importati dalle colonie israeliane, non identificabili come israeliani. Invece secondo Pompeo le esportazioni, sia dei palestinesi che dei coloni che vi vivono, provenienti dall’Area C (secondo gli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo da parte di Israele) devono essere considerate israeliane. Ovviamente non si tratta solo di una questione commerciale, quanto soprattutto del riconoscimento formale della situazione di fatto e dell’illegittima occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele. In più, con un’iniziativa tragicamente grottesca, ha anche annunciato l’intenzione di etichettare in modo differenziato i prodotti palestinesi provenienti dalla Cisgiordania rispetto a quelli di Gaza. In questo caso si tratta invece della sanzione ufficiale di un altro obiettivo della politica israeliana: la separazione tra i due territori palestinesi come mezzo per favorire l’annessione della West Bank e modificarne il rapporto demografico a favore dei palestinesi. Per esempio, Israele favorisce gli spostamenti dalla Cisgiordania verso Gaza, rendendo invece particolarmente difficile il flusso in senso opposto.

Inoltre Pompeo ha definito “antisemita” e “un cancro” il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), che lotta in modo nonviolento in difesa dei diritti dei palestinesi e del rispetto delle leggi internazionali. Ha anche promesso iniziative del governo Usa per combattere il movimento, suscitando le proteste di ong come Amnesty International e Human Rights Watch, che pure non aderiscono alla campagna ma difendono il diritto di opinione degli attivisti BDS. Poi, primo segretario di stato a farlo, si è recato sulle alture del Golan, ribadendo che si tratta di un territorio israeliano, e ha visitato l’impresa vitivinicola israeliana di Psâgot, che sorge su terreni di proprietari privati palestinesi e raccoglie le uve provenienti da altre zone palestinesi occupate ed espropriate. Lì è stato omaggiato di un vino che porta il suo cognome. In realtà il proprietario dell’azienda visitata da Pompeo non solo non avrebbe di che lamentarsi dell’obbligo di specificare la provenienza del suo vino dai territori occupati, in quanto ha dichiarato anzi che ciò gli ha permesso di aumentare le vendite. Comunque, per chi avesse qualche dubbio, Pompeo ha definito la sua visita «il semplice riconoscimento [della colonia] come parte di Israele», aggiungendo che «oggi il Dipartimento di stato degli Stati Uniti è decisamente favorevole al riconoscimento del fatto che le colonie si possono costruire in modo legale, giusto e corretto».

Insediamenti ebraici

Pompeo ha visitato da segretario di stato la colonia illegale di Psagot

Reazione disperata alla sconfitta o un passo verso il futuro?

I commentatori politici si chiedono quali possano essere le ragioni di questa iniziativa di un’amministrazione (non certo solo di Pompeo) ormai destinata a sloggiare. Oltre alle convinzioni religiose del segretario di stato, la spiegazione più banale, anche se probabilmente non del tutto ininfluente, è quella sostenuta da Douglas Macgregor, colonnello e consulente del Pentagono: «Dovete andare a vedere le persone che fanno donazioni a questi individui. [Pompeo] chiede soldi alla lobby israeliana, ai sauditi e ad altri», ha affermato in un’intervista rilasciata alla CNN. Naturalmente lo stesso discorso vale a maggior ragione per Trump, il cui principale finanziatore è stato il miliardario Sheldon Adelson, che è anche un sostenitore delle colonie e di Netanyahu.

Una pesante eredità

C’è anche una ragione più strettamente politica che può spiegare il comportamento del segretario di Stato: la sua ambizione di presentarsi come candidato repubblicano alle elezioni del 2024. La sua (ultima?) mossa potrebbe permettergli di conquistare i favori dell’elettorato filoisraeliano di Trump, a cominciare dall’Aipac, la più potente associazione della lobby filoisraeliana negli Usa.

Infine, queste iniziative lasciano un’eredità piuttosto pesante da gestire all’amministrazione entrante. Non sarà facile per Biden rinnegare quanto fatto da Trump e dai suoi consiglieri a favore di Israele, tanto più che sia lui che Kamala Harris, la vicepresidente entrante, durante la loro vita politica e la campagna elettorale hanno più volte manifestato la propria vicinanza allo Stato di Israele. Biden vanta anche un’amicizia personale con Netanyahu. Come ha scritto un commentatore del sito ebraico di notizie “Mondoweiss”: «Per poter annullare queste iniziative dell’ultimo momento, intese a legittimare ulteriormente l’annessione e delegittimare l’opposizione all’apartheid israeliana contro i palestinesi, Biden dovrà pagare costi politici molto pesanti per poterli annullare».

Come afferma Barak Obama in un brano nelle sue memorie citato dal sito “JewishInsider”: «I parlamentari e i candidati che hanno criticato la politica di Israele in modo troppo deciso hanno rischiato di essere etichettati come “anti-israeliani” (e magari anche antisemiti) e nelle elezioni successive hanno dovuto fare i conti con avversari molto ben finanziati».

Non è detto che Biden sia disposto a correre il rischio e a smantellare il quadro idilliaco dei rapporti tra Usa e Israele dipinto in questi 4 anni dall’amministrazione Trump.

 

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Trump o Biden? Per i palestinesi pari sono https://ogzero.org/trump-o-biden-per-i-palestinesi-pari-sono/ Fri, 06 Nov 2020 18:21:05 +0000 http://ogzero.org/?p=1674 Mentre il mondo è in trepida attesa che il bizzarro sistema elettorale statunitense consenta di sapere chi sarà l’uomo più potente del pianeta nei prossimi quattro anni, c’è chi sa già di non potersi aspettare niente di buono, comunque vada: i palestinesi. Non che non ci siano novità rilevanti. Per esempio, queste elezioni segnano il […]

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Mentre il mondo è in trepida attesa che il bizzarro sistema elettorale statunitense consenta di sapere chi sarà l’uomo più potente del pianeta nei prossimi quattro anni, c’è chi sa già di non potersi aspettare niente di buono, comunque vada: i palestinesi.

Non che non ci siano novità rilevanti. Per esempio, queste elezioni segnano il divorzio forse definitivo tra gli ebrei israeliani e quelli americani. Mentre nei sondaggi più del 63 per cento dei primi si augura la vittoria di Trump, Biden ha ottenuto l’appoggio di oltre il 70 per cento dei secondi. Solo tra gli ebrei ortodossi (circa il 10 per cento della comunità ebraica nordamericana) c’è una netta maggioranza a favore di Trump. Questa differenza di posizioni si era già manifestata in precedenza, per esempio nel caso di Obama, esecrato in Israele ed entusiasticamente votato dagli ebrei statunitensi. Tuttavia questa volta la polarizzazione esasperata indotta da Trump e le politiche sempre più razziste e annessioniste di Netanyahu sostenute dal presidente suprematista sembrano aver scavato un solco difficile da rimarginare, come sostiene Sylvain Cypel nel suo L’État d’Israël contre les juifs (Paris, La Découverte, 2020, pp. 237-262).

Trump: antisemita e filoisraeliano

È vero che l’elettorato ebraico è sempre stato più propenso a votare democratico, ma in questo caso evidentemente chi vive negli Stati Uniti è particolarmente preoccupato per le cattive frequentazioni, il razzismo più o meno esplicito e le tendenze autocratiche dell’inquilino della Casa Bianca. Durante incontri con organizzazioni ebraiche l’attuale presidente ha più volte accusato gli ebrei americani di essere sleali nei suoi confronti, dato tutto quello che ha fatto per Israele, e affermato che Israele «è il vostro paese» e che «Netanyahu è il vostro primo ministro». Si tratta di affermazioni che molti considerano antisemite. Infatti implicano che in realtà gli ebrei non sono a tutti gli effetti cittadini statunitensi, che il loro posto, il loro paese, è altrove. Ed è nota la vicinanza di Trump a gruppi suprematisti bianchi, il cui antisemitismo si è manifestato anche in episodi sanguinosi, come nel caso dell’attacco terroristico dell’ottobre 2018 contro una sinagoga conservatrice (che, a dispetto del nome, è una corrente religiosa ebraica non dogmatica) a Pittsburgh, costato la vita a 11 persone. La partecipazione di Trump alle esequie venne accompagnata da manifestazioni ostili, anche da parte della comunità ebraica locale, con slogan come le parole hanno un significato e costruiamo ponti e non muri, in riferimento all’ambiguità del presidente rispetto alle violenze dell’estrema destra e alle sue politiche contro l’immigrazione.

Trump ha fatto di tutto per ingraziarsi Israele e i suoi sostenitori. Da subito si è circondato di finanziatori di colonie, come il genero e consigliere per il Medio Oriente Jared Kushner e l’ambasciatore in Israele David Friedman, in precedenza suo avvocato. Ha nominato Mike Pompeo, un cristiano-sionista, segretario di stato. Uno dei suoi principali finanziatori è il miliardario Sheldon Adelson, altro benefattore delle colonie. Non si può dire che Trump abbia deluso la destra israeliana.

Accolti e ispirati tutti i più reconditi sogni sionisti

Nei quattro anni al potere, ignorando totalmente il diritto internazionale e l’Onu, ha riconosciuto la sovranità israeliana sulle Alture del Golan occupate, ha spostato l’ambasciata degli Usa a Gerusalemme, ha tagliato gli aiuti all’Autorità nazionale palestinese e all’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati infine ha affermato, come Israele, che non vanno più considerati tali. Ha proposto il cosiddetto “accordo del secolo”, che ignora praticamente ogni rivendicazione dei palestinesi. Esso prevede per loro uno stato frammentato, su modello dei bantustan sudafricani, ossia la formalizzazione dell’attuale situazione sul terreno, e quindi della colonizzazione israeliana dei territori palestinesi occupati. Ha spinto Emirati arabi uniti, Bahrein e Sudan a firmare accordi “di Abramo” per normalizzare le relazioni con Israele, rompendo il fronte solidale con i palestinesi. Negli ultimi giorni della campagna elettorale la sua amministrazione ha preso due iniziative clamorose.  Prima il segretario di Stato Mike Pompeo ha proposto di inserire nella lista delle organizzazioni antisemite alcune importanti ong per i diritti umani critiche con Israele, tra cui Amnesty International, Human Rights Watch e Oxfam. Poi l’amministrazione americana ha firmato un accordo che annulla il veto ai finanziamenti provenienti da Washington alle istituzioni scientifiche che si trovano nelle colonie, in particolare all’università di Ariel, già lautamente foraggiata da Adelson. Trattandosi di un accordo internazionale, la prossima amministrazione statunitense non potrà annullarlo unilateralmente. Oltre agli ovvi vantaggi economici, si tratta di un riconoscimento di fatto delle colonie israeliane, illegali in base al diritto internazionale.

Sette evangeliche, coloni e millenarismo cristiano-sionista

La predilezione di Trump per Israele non deriva solo dalla vicinanza con le posizioni nazionaliste e razziste che dominano ormai da anni il paese. Una parte consistente, e determinante per numero e attivismo, dell’elettorato dell’attuale presidente è rappresentato dalle sette evangeliche cristiano-sioniste. Non a caso due pastori di queste congregazioni hanno partecipato all’inaugurazione dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme. Si tratta di decine di milioni di fedeli, con posizioni molto conservatrici. Nell’ultimo numero de “L’Espresso” un articolo su di loro li descrive come tradizionalisti e antiabortisti, ma tace sulla loro allucinata visione escatologica che li porta a sostenere ciecamente Israele: il ritorno di tutto il popolo ebraico nella Terra promessagli da dio porterà alla fine del mondo e al giudizio universale. A quel punto gli ebrei che non si convertiranno alla vera fede verranno condannati alle pene dell’inferno. Il sionismo cristiano, risalente al cristianesimo apocalittico medievale, ha preceduto anche in epoca contemporanea il sionismo ebraico. Questa teologia millenarista corrisponde significativamente (tranne che per l’esito finale) con quella dei coloni israeliani più estremisti, come per esempio i nazional-religiosi di cui fa un quadro Renzo Guolo in Terra e redenzione. Il fondamentalismo nazional-religioso in Israele (Milano, Guerini e associati, 2005). Per loro la riconquista di tutta la terra dei padri (che, a seconda delle interpretazioni, può includere buona parte del Medio Oriente, e sicuramente tutta la Giordania) porterà alla comparsa del messia e alla liberazione dell’umanità. Sia per i nazional-religiosi che per i cristiano-sionisti un passo fondamentale è rappresentato dalla ricostruzione del Terzo Tempio sul luogo dove ora si trova la Spianata delle Moschee. Di questa teologia apocalittica, estremamente radicale e pericolosa, non si parla praticamente mai nelle cronache dal Medio Oriente, oppure viene considerata alla stregua di un’innocua bizzarria. Eppure vari deputati della Knesset e ministri dei governi Netanyahu fanno parte di questo movimento strettamente legato ai coloni più estremisti. Il rapporto tra le due correnti religiose è talmente stretto e il favore di cui godono i cristiano-sionisti presso il governo israeliano è tale che, nonostante il blocco determinato dalla seconda ondata del Covid-19, a una sessantina di cristiano sionisti è stato consentito di entrare in Israele per aiutare i coloni israeliani nella vendemmia.

Differenze apparenti, prassi consolidate

Ma la propensione a votare Biden da parte della comunità ebraica americana non significa di per sé un allontanamento da Israele, anche se la spudorata identificazione di Netanyahu con Trump ha alienato almeno in parte le simpatie nei confronti dell’attuale governo israeliano. Nonostante le note differenze tra i due candidati alla Casa Bianca, sulla questione del conflitto israelo-palestinese c’è un sostanziale accordo. Le differenze sono più di metodo che di merito. C’è da supporre che, se eletto, Biden sarà un presidente più felpato e non si muoverà con la delicatezza di un elefante in una cristalleria come il suo predecessore. Il candidato democratico è stato il vicepresidente di Obama, che ha più volte manifestato insofferenza, anche a livello personale, nei confronti delle intemperanze e della sfrontatezza di Netanyahu. L’accordo sul nucleare iraniano e il tentativo fallito di congelare la colonizzazione della Cisgiordania hanno messo i due politici in palese conflitto. Ma a fine mandato lo stesso Obama ha firmato un accordo per la concessione di aiuti militari a Israele: 10 miliardi di dollari in 10 anni, una cifra senza precedenti nella storia della politica estera statunitense.

Biden e Harris; un amore condizionato per Israele

La campagna per le primarie democratiche e poi per le presidenziali ha dimostrato la condiscendenza di Biden nei confronti di Israele. Su pressione della lobby israeliana, dal programma elettorale del partito democratico è stata tolta la definizione di Israele come “potenza occupante”. Inoltre il candidato democratico ha dichiarato che manterrà l’ambasciata americana a Gerusalemme occupata e appoggerà l’accordo di Abramo promosso da Trump tra Israele e alcuni paesi arabi. Pur affermando di essere a favore della soluzione a due stati (ormai di fatto impraticabile), ha dichiarato che si opporrà in tutti i modi a ogni risoluzione dell’Onu che condanni le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele. Quanto alla sostanza di quanto avviene sul terreno, se sarà eletto riprenderà l’estenuante manfrina dei “negoziati di pace”, che non sono altro che la foglia di fico diplomatica che ha finora consentito a Israele di continuare con la colonizzazione e l’occupazione. Inoltre pare che abbia un ottimo rapporto personale con Netanyahu. Infine Tony Blinken, consigliere di Biden, ha garantito l’impegno del futuro presidente per contrastare il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (Bds) contro Israele.

Per parte sua, Kamala Harris, candidata alla vice-presidenza, è ancora più filoisraeliana di Biden. Ha affermato che gli aiuti militari a Israele non saranno subordinati alle decisioni politiche del suo governo, garantendo implicitamente che non ci saranno reazioni significative nel caso in cui Israele annetta parte dei territori occupati. Harris ha partecipato a vari incontri con le organizzazioni della lobby filoisraeliana. Suo marito, l’avvocato ebreo Douglas Emhoff, durante un comizio in Florida ha affermato che per la moglie «Israele non è un gioco politico. Il suo futuro come stato ebreo e democratico sicuro non è negoziabile. Ve lo posso assicurare».

C’è infine da aggiungere che, oltre alle rispettive convinzioni personali, Biden e Harris devono adeguare la propria posizione agli interessi dei principali finanziatori della loro campagna elettorale, tra cui ci sono alcuni potenti gruppi e personaggi che appoggiano attivamente Israele.

Comunque Israele non sta perdendo tempo. La coordinatrice umanitaria dell’Onu per i territori palestinesi occupati ha denunciato che martedì scorso, proprio durante il voto Usa, forze israeliane hanno distrutto il villaggio palestinese Khirbet Humsa, lasciando senza casa 73 persone, tra cui 41 minori, nel pieno dell’autunno e con l’incombere dell’epidemia di Covid-19.

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