Pianura indogangetica Archivi - OGzero https://ogzero.org/regione/pianura-indogangetica/ geopolitica etc Fri, 15 Dec 2023 17:29:34 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Bhopal, la tragedia tra crimini ambientali e industriali https://ogzero.org/bhopal-la-tragedia-tra-crimini-ambientali-e-industriali/ Fri, 15 Dec 2023 17:28:30 +0000 https://ogzero.org/?p=12139 Bhopal: fu il primo e più clamoroso disastro industriale con copertura mediatica a diffusione internazionale, utile solo a scatenare l’indignazione del mondo ignaro delle condizioni in cui si lavora(va) nelle fabbriche del mondo, in particolare in quelle prive anche delle minime tutele non sempre rispettate nei paesi “occidentali” (solo in Italia basterebbe citare la diossina […]

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Bhopal: fu il primo e più clamoroso disastro industriale con copertura mediatica a diffusione internazionale, utile solo a scatenare l’indignazione del mondo ignaro delle condizioni in cui si lavora(va) nelle fabbriche del mondo, in particolare in quelle prive anche delle minime tutele non sempre rispettate nei paesi “occidentali” (solo in Italia basterebbe citare la diossina di Seveso… fino all’Ilva a Taranto, o il disastro della Thyssen-Krupp a Torino). Può tornare utile rinfrescare la memoria di questo 39° anniversario in un periodo in cui gli apprendisti stregoni soffiano su pozioni magiche e addirittura torna forte il “vento nucleare” come soluzione energetica “pulita”, anche proposta a cuor leggero come alternativa al fossile all’ultima Cop28 di Dubai.

Grazie alla Raghu Rai Foundation per la concessione delle immagini.


Nota come la Hiroshima dei disastri industriali, la tragedia del gas di Bhopal compie quest’anno 39 anni. La notte del 2 dicembre 1984, 45 tonnellate di isocianato di metile (MIC), altamente pericoloso, fuoriuscirono dall’impianto di insetticidi della Union Carbide Corporation, un importante produttore americano di prodotti chimici e protochimici nella città di Bhopal, nel Madhya Pradesh. I sistemi di sicurezza che avrebbero dovuto contenere il gas ed evitarne la fuoriuscita non funzionarono, facendo sì che il gas si diffondesse in ogni parte di Bhopal, esponendo ad esso mezzo milione di persone: circa 25.000 morirono e altre 120.000 stanno ancora soffrendo le conseguenze dei crimini industriali della Union Carbide.

La Union Carbide India Corporation (UCIC) e la Green Revolution

La Union Carbide India Corporation si era costruita una reputazione prima della tragedia. Con un fatturato annuo di 9 miliardi di dollari, l’impegno dell’azienda nelle guerre mondiali ne ha trasformato la crescita: all’inizio della Seconda guerra mondiale l’azienda produceva uranio e concentrati di quel materiale così centrale nelle produzioni radioattive e, poco dopo, divenne la 37a più grande al mondo, costruendosi una solida reputazione. A metà degli anni Venti la UCC mise piede in India, inizialmente producendo batterie a Calcutta, dando vita alla Ever Ready Company Ltd nel 1934. La crescita continua portò alla costruzione della fabbrica di pesticidi di Bhopal nel 1969. L’impulso a produrre pesticidi era strettamente collegato all’ambizione dell’India di essere autosufficiente dal punto di vista alimentare, nota come “Green Revolution” e le carestie dell’India britannica con i loro effetti di lunga durata incrementavano un bisogno urgente di raccolti più abbondanti. Per UCC questo significava un mercato vergine per la produzione di pesticidi.

Bhopal

L’impianto della Union Carbide, 1984 (© Raghu Rai Foundation)

Tuttavia, gli agricoltori indiani che già dovevano affrontare condizioni climatiche estreme come siccità e inondazioni stavano subendo danni alle colture e perdite finanziarie, per cui questi costosi pesticidi divennero inaccessibili. A causa della mancanza di acquirenti, l’azienda subì una perdita di 4 milioni di dollari nel 1984 ma la Union Carbide India Corporation celebrò quell’anno il suo 50° anniversario, con un fatturato annuo di 200 milioni di dollari e 14 impianti già installati in tutta il paese. Tuttavia le previsioni di fatturato furono disattese e la UCIC progettò di liquidare l’impianto, smantellandolo e trasferendolo in Messico o in Indonesia.

L’azienda iniziò a tagliare i costi durante i mesi che portarono al disastro e questo ebbe importanti ripercussioni sulle misure di sicurezza (ricordiamo che già 15 anni prima del disastro l’azienda scaricava spesso rifiuti chimici letali all’interno e nei dintorni della fabbrica).

Elusione delle responsabilità mediche e legali

Mentre inizialmente l’isocianato di metile (MIC) e altre sostanze chimiche venivano importate dagli Stati Uniti in piccole quantità per la produzione di questi pesticidi, l’azienda presto iniziò a produrre strategicamente il MIC in India. Sebbene l’impianto non fosse in grado di funzionare a pieno regime, l’azienda – che stava perdendo il proprio valore – continuò a stoccare grandi quantità di sostanze chimiche pericolose (è stata segnalata la presenza di tre serbatoi contenenti oltre 60 tonnellate di isocianato di metile).

Secondo il rapporto del 2010 del Council for Medical Research indiano (ICMR), «il MIC è un forte veleno, anche se ingerito; la lesione che colpisce le mucose è dovuta alla reazione esotermica quando questo entra in contatto con l’umidità dei tessuti». Il rapporto spiega inoltre che: «Il MIC è considerato così pericoloso che qualsiasi azienda britannica che lo utilizzi o lo conservi dovrebbe presentare piani di emergenza per affrontare le conseguenze in caso di fuoriuscita». Incolore, inodore e altamente volatile, il suo aspetto più letale in caso di fuoriuscita nell’atmosfera è l’impossibilità di contenerlo all’interno di un impianto o di un serbatoio in fabbrica».

Nell’apocalittica notte del 2 dicembre un dipendente dell’UCIC stava cercando di spurgare una tubatura corrosa, e a causa del malfunzionamento di diversi rubinetti l’acqua fluì liberamente nel serbatoio più grande del MIC. Il contatto con l’acqua provocò un’esplosione incontrollabile, il serbatoio iniziò a sprigionare nubi tossiche di cianuro di idrogeno, amina monometilica e MIC, oltre ad altre sostanze chimiche che si diffusero nell’aria di Bhopal e le persone cominciarono a morire.

La Union Carbide chiuse il sito e l’impianto fu abbandonato nell’incuria; la necessaria pulizia dell’impianto non ebbe mai luogo perciò le sostanze chimiche tossiche permangono nel sito ancora a livelli elevati. Nel 1989 la Union Carbide stessa condusse in segreto dei test, i cui risultati mostrarono come le acque sotterranee stessero rapidamente uccidendo i pesci. La raccolta dei campioni avveniva all’interno delle mura della fabbrica – la popolazione locale spesso attingeva l’acqua dalle condutture e dai pozzi che si trovavano al di là di queste mura. Nel 1999 si effettuarono test sull’acqua di pozzo e sulle falde acquifere che rivelarono alti livelli di mercurio, 6 milioni di volte superiori a quelli considerati sicuri dalla Environmental Protection Agency degli Stati Uniti (EPA).

Dopo continue smentite e ritardi legali da parte dell’UCC, nel 1989 si raggiunse un parziale accordo extragiudiziale tra il governo indiano e la Union Carbide, e quest’ultima pur accettando di pagare 470 milioni di dollari a titolo di risarcimento, rifiutò di assumersi qualsiasi responsabilità legale. Le vittime non furono mai consultate durante le trattative; 470 milioni di dollari potrebbero sembrare una somma elevata in termini di valore nominale, ma non sono stati sufficienti a pagare i danni, le vittime e i processi di riabilitazione: a nove vittime su dieci sono stati risarciti 500 dollari a testa o una somma sufficiente a coprire le spese mediche per un massimo di cinque anni. Inoltre, molti di coloro che sono stati esposti al gas hanno perso la capacità di guadagnarsi da vivere: coloro che lavoravano come operai occasionali, non erano più in grado di sostenere attività fisiche impegnative.

Bhopal

Sede del Centro vittime del gas istituito nel 2002 dal Governo (© Raghu Rai Foundation)

Nel 1991, il presidente e amministratore delegato della Union Carbide all’epoca del disastro, Warren Anderson, fu accusato dal sistema di giustizia penale indiano di «omicidio colposo non colposo». Anderson fu arrestato non appena mise piede in India, ma non affrontò mai un processo, poiché gli fu concessa rapidamente la libertà su cauzione dopo aver trascorso alcune ore agli arresti domiciliari e fuggì immediatamente dopo, salendo sul primo volo disponibile. Se fosse stato condannato, Anderson avrebbe rischiato 10 anni di carcere.

Il governo indiano ha chiesto l’estradizione, ma la richiesta è rimasta inascoltata per oltre tre anni e mezzo, fino a quando è stata dimenticata.

Stop Dow Chemical Company!

Nel 2001, la Dow Chemical Company, con sede in Michigan, ha acquisito la Union Carbide con tutte le attività e le passività connesse. Tuttavia, dopo questa fusione, il sito di Bhopal non è mai stato bonificato come avrebbe dovuto, l’impatto tossico del MIC non è mai stato comunicato alla comunità medica indiana e i rapporti sono stati tenuti nascosti agli studiosi che li richiedevano.

Bhopal

Proteste, 2001 (© Raghu Rai Foundation)

I rapporti dei test di follow-up pubblicati nel 2002 hanno rivelato la presenza di tricloroetano, sostanza chimica che causa danni allo sviluppo fetale, e negli anni successivi, gli studi condotti nel 2016-17 hanno rivelato le sostanze chimiche che continuano a essere presenti nelle acque, causando danni cerebrali, cancro e malformazioni congenite. Il 3 ottobre 2023, il tribunale di Bhopal ha emesso un settimo avviso di garanzia alla Dow Chemical Company, dopo che tutti e sei i precedenti erano stati ignorati. Sul sito web della società si continua a negare qualsiasi legame con la Union Carbide.

L’insieme dei crimini ecologici e aziendali

Oggi circa 50.000 bhopali non possono lavorare a causa di quel disastro. L’UCC è ancora responsabile dei danni ambientali che ha causato, argomento che non è mai stato affrontato durante le trattative del 1989. Nel frattempo la contaminazione continua a diffondersi nella città. La tragedia del gas di Bhopal ha segnato la coscienza collettiva degli abitanti.

Il disastro evidenzia i fallimenti della politica urbana, degli standard di sicurezza e di come il progresso industriale non tenga conto dei quadri normativi.

Questo ci ricorda la sconsideratezza delle imprese transnazionali come la Union Carbide, che agiscono non in base a ciò che è giusto, ma a ciò che è redditizio ed efficiente. La tragedia ha avuto luogo negli anni iniziali della globalizzazione economica e quando i diritti umani fondamentali delle persone vengono calpestati in nome dello sviluppo economico si configura un vero e proprio crimine. La tragedia del gas di Bhopal è una testimonianza eloquente della giustizia rinviata e della giustizia negata per le persone decedute e per quelle che continuano a sopravvivere in quelle condizioni ambientali. Come ha giustamente sottolineato il professor Reece Walters:

«Bhopal fornisce lezioni e sfide per la giustizia ambientale, il commercio globalizzato e il potere e la criminalità delle imprese e la giustizia delle vittime, la regolamentazione delle imprese transnazionali e i pericoli derivanti dall’autoregolamentazione orientata al commercio delle compagnie transnazionali».

Bhopal

Vittima della fuga di gas (© Raghu Rai Foundation)

 

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Il Pakistan brucia… la neve distrae, ovattando l’eco dei conflitti https://ogzero.org/il-pakistan-brucia-la-neve-distrae-ovattando-leco-dei-conflitti/ Sun, 21 May 2023 09:51:28 +0000 https://ogzero.org/?p=11093 Il Pakistan, già in sofferenza per gli attacchi dell’estremismo islamico e per i disastri ambientali, rischia forse di precipitare nella guerra civile. Niente di nuovo naturalmente. Almeno per le minoranze etniche e religiose e – soprattutto – per le donne, i bambini, i diseredati. Vittime designate di una costante “guerra a bassa intensità”. Ma l’importante […]

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Il Pakistan, già in sofferenza per gli attacchi dell’estremismo islamico e per i disastri ambientali, rischia forse di precipitare nella guerra civile. Niente di nuovo naturalmente. Almeno per le minoranze etniche e religiose e – soprattutto – per le donne, i bambini, i diseredati. Vittime designate di una costante “guerra a bassa intensità”.
Ma l’importante è continuare a sciare sulle “cime inviolate” del “Terzo Polo”. Come non mancano di segnalarci amabilmente su Instagram gli stessi vacanzieri d’alta quota nostrani… che non boicottano e così immemori non si accorgono di affiancare i militari di uno stato oppressore, in mano a un’oligarchia che spadroneggia su cittadini discriminati. Sintomatico del modo di fare affari, senza badare alla natura delle oligarchie genocidiarie che controllano i paesi con cui si intrecciano.
In questi giorni in cui il Pakistan è tornato alla ribalta per gli scontri con decine di morti dopo l’arresto di Imran Khan ci sembra interessante il modo in cui Gianni Sartori inforca il grandangolo perlustrando l’area pakistana, allargando lo sguardo sia nel tempo che ai temi.  


Il balletto criminale delle elezioni imminenti

Ma cosa sta succedendo in Pakistan? Davvero siamo alle soglie di una guerra civile? O stiamo assistendo al preludio (“con altri mezzi”) della campagna elettorale in vista delle elezioni di ottobre (salvo modifiche, rinvii)?

Il risvolto etnico

In realtà per alcune minoranze etniche o religiose: hazara, beluci, cristiani, sciiti… così come per le donne, i bambini e un gran numero di diseredati, la situazione era già difficile. Tra attentati, aggressioni, (guerra a bassa intensità ?), discriminazioni…che si vengono a sovrapporre (con effetti sinergici) alla grave crisi economica e alla disastrosa situazione sanitaria. Per non parlare di alluvioni e altre emergenze ambientali.

Il risvolto talebano

Un recente avvenimento è sintomo emblematico di una situazione in via di ulteriore degrado (e qui non mi riferisco a quello ambientale).
Qualche giorno fa Muhammad Alam Khan, un poliziotto assegnato alla protezione della Catholic Public High School (una scuola cattolica femminile) nel Nordovest del Pakistan (a Sangota, nella valle dello Swat, provincia del Khyber Pakhtunkhwa), ha aperto il fuoco contro il pulmino che trasportava le allieve uccidendone una di 8 anni e ferendone altre sei e un’insegnante.
Il tragico episodio è avvenuto nella stessa regione da cui proviene Malala Yousafzai, l’attivista premio Nobel per la pace per aver condotto una campagna contro il divieto all’istruzione femminile imposto dal Tehreek-e Taliban Pakistan (Ttp, i talebani pakistani). Nel 2012 anche lei era stata colpita alla testa da un proiettile sull’autobus per tornare a casa da scuola, mentre anni fa la Catholic Public High School aveva dovuto chiudere per le minacce e per gli attentati.

Nel 2022 in questa provincia si sono registrati almeno 225 attentati (“solo” 168 nel 2021). O almeno secondo le cifre ufficiali. Da parte loro i miliziani legati al Ttp ne avevano rivendicato oltre 360. Senza dimenticare gli attacchi di un’altra organizzazione jihadista-terrorista operativa anche in Pakistan: lo Stato islamico che solo nel marzo 2022 aveva ucciso oltre 60 persone.
E anche il 2023 non sembra promettere bene. Solo nei primi quattro mesi sono già 180 quelli ufficiali.

Nel gennaio di quest’anno i talebani pakistani avevano rivendicato anche il sanguinoso attacco suicida (con oltre una trentina di morti e centinaia di feriti) ad una moschea di Peshawar, situata in un complesso dove si trova il quartiere generale della provincia del Khyber Pakhtunkhwa.

Il risvolto separatista

Per completezza va anche ricordato che gli attentati non sono monopolio esclusivo degli estremisti islamici. Un attacco suicida dell’agosto 20121 nella città di Gwadar (contro un veicolo cinese) era stato rivendicato dai separatisti beluci.

Una situazione drammatica, convulsa e foriera di ulteriori lutti.

Le malefatte di Imran Khan

Non per niente tra le questioni sollevate dall’attuale conflitto interno tra governo e opposizione (ma anche tra militari e una parte della società civile) appare rilevante l’accusa di ambiguità rivolta all’ex primo ministro Imran Khan. Per aver consentito, favorito il rientro in patria dei talebani pakistani purché garantissero di deporre le armi (cosa auspicabile ma difficile da realizzare). Come era prevedibile, nonostante le trattative per il loro reinserimento e per una “soluzione politica” del conflitto, dopo poco tempo gli attentati erano ripresi. Alimentando il sospetto che i colloqui, le trattative avessero in realtà consentito al Ttp di riorganizzarsi.

Le persecuzioni contro Imran Khan

Quanto alle numerose azioni giudiziarie lanciate contro lo stesso leader del Pakistan Tehreek-e-Insaf (Pti) per corruzione e reati finanziari (e anche un probabile tentativo di eliminarlo fisicamente, stroncato dalla mobilitazione dei militanti del Pti), presumibilmente in parte strumentali, per ora sembrano aver portato più che altro all’incarcerazione di tanti suoi seguaci. Pare anche dietro sua indicazione: farsi arrestare per “saturare le carceri e screditare il governo”… quanto meno un rischioso azzardo.

Tra le accuse principali, quella relativa all’Al-Qadir Trust, proprietà di Khan e della moglie, a cui l’impresa immobiliare Bahria Town avrebbe fornito un terreno del valore di 530 milioni di rupie (1,71 milioni di euro)
Ma forse Imran Khan sta anche pagando il prezzo di un suo avvicinamento alla Russia (malvisto dagli Usa, oltre che dall’India per ragioni inverse). Questo potrebbe aver innescato la rottura con l’esercito e favorito la sua defenestrazione.

Come è noto l’ex primo ministro è stato arrestato (a quanto sembra da un gruppo paramilitare legato ai servizi segreti) mentre si trovava all’Alta corte di Islamabad per testimoniare in un processo.

Ambiguità pakistane nel posizionamento geopolitico

Naturalmente non mancano (anche a sinistra, tra quella più “campista”) gli estimatori del regime pakistano.
Pensando di intravedervi una componente di possibili “blocchi egemonici alternativi musulmani” per un mondo multipolare contro l’imperialismo statunitense. Blocchi di cui potrebbero far parte sia la Turchia che l’Iran e in buoni rapporti con Russia e Cina. Sarà, ma non mi convince. In realtà è più probabile che il Pakistan (come da tradizione) continuerà a giocare su due tavoli. Se con gli Stati Uniti prevale la collaborazione sul piano militare (e i finanziamenti), con la Cina va sviluppando l’aspetto commerciale (vedi la Via della Seta).

Lasciando per ora da parte l’altro rischio, quello di un possibile conflitto nucleare con l’India. Magari a causa di un “malfunzionamento tecnico”, di un errore. Come quando nel marzo scorso l’India ha lanciato accidentalmente un missile supersonico in Pakistan. Caduto senza danni particolari nel Punjab (distretto di Khanewal).

Indifferenza occidentale

In alta quota si trovano i retaggi degli scambi d’interessi tra imprese occidentali (molto spesso italiane, anche affondando nelle nevi storicamente del passato) e intrecci tra potere canaglia di uno stato dai molteplici scambi interessanti. Sempre intenti a individuare qualche residua “cima inviolata” (lapsus rivelatore?) da cui scendere con gli sci (anche qualche giorno fa nella regione del Gilgit-Baltistan).
Mentre – che so – negli anni Ottanta del secolo scorso era quasi normale (almeno per persone con un minimo di coscienza sociale, politica…) boicottare almeno turisticamente un paese come il Sudafrica dell’apartheid e in epoca più recente la Turchia che reprime il popolo curdo, oggi come oggi andare a trascorrere le “settimane bianche” in Pakistan per alpinisti, escursionisti e sciatori nostrani non sembra assolutamente fuori luogo. Anche a persone che magari poi se la tirano con le questioni umanitarie e ambientali. O quelli che mentre denunciano lo scioglimento dei ghiacciai del “Terzo Polo” vi contribuiscono con i loro mezzi (nel senso di veicoli).

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Il dazio dell’inondazione pakistana sulle tavole africane https://ogzero.org/il-dazio-dellinondazione-pakistana-sulle-tavole-africane/ Thu, 29 Sep 2022 13:56:07 +0000 https://ogzero.org/?p=9038 Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo […]

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Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo il paese il quinto produttore di cotone e il quarto di riso, l’impatto di questa perdita sarà sicuramente globale.
Di qui prendeva spunto l’articolo che abbiamo pubblicato di Masha Hassan sull’inondazione pakistana; l’autrice del pezzo ha poi approfondito gli addentellati collegati alla filiera del cotone, più che quella del riso, seguita invece dall’attenzione di Angelo Ferrari (già in luglio un suo intervento lanciava l’allarme alimentare, prima della guerra in Ucraina e dei disastri climatici) per le ripercussioni sull’alimentazione dell’Africa, riproponiamo qui il pezzo ripreso da “AfricaRivista” per completare l’analisi del cataclisma poco seguito dai media occidentali miopi di fronte alle conseguenze del cambiamento climatico subito nei disastri dal Sud del Mondo, ma prodotto soprattutto dal mondo industrializzato.


Secondo gli analisti molti governi dovranno far fronte all’aumento dei prezzi di mercato del riso, un alimento base per gli africani, dovuto alle catastrofi naturali che stanno colpendo l’Asia e alle nuove strette sulle esportazioni imposte da India, Vietnam e Thailandia.

L’Africa non ha pace. La sicurezza è messa a rischio dall’aumento dei prezzi delle materie prime e ora potrebbe aggravarsi ulteriormente per le inondazioni che hanno investito il Pakistan. Il continente africano deve far fronte all’aumento dei prezzi del grano e del mais a causa della guerra in Ucraina, ma, secondo molti analisti economici, dovrà far fronte anche all’aumento dei prezzi di mercato del riso, un alimento base per gli africani, a causa delle inondazioni che hanno investito il Pakistan e alla decisione dell’India di limitare le sue esportazioni.

L’accaparramento asiatico

L’India ha vietato le esportazioni di riso spezzato (frammenti di chicchi rotti) dopo l’inondazione e ha imposto un dazio del 20% sulle esportazioni di riso di qualità superiore. Con questa misura, il più grande esportatore mondiale cerca di abbassare i prezzi a livello locale, dopo che le piogge monsoniche sono state inferiori alla media. Le esportazioni potrebbero, grazie a questa misura, crollare del 25% nei prossimi mesi.

«Tutti i cereali sono aumentati, tranne il riso, ma ora si unirà a questa tendenza», ha spiegato Himanshu Agarwal, direttore di Satyam Balajee – il principale esportatore di riso indiano – sentito dalla Reuters.

Contemporaneamente Thailandia e Vietnam hanno deciso di aumentare i prezzi per remunerare meglio i loro agricoltori. Secondo Phin Zinell, economista alimentare presso la National Australia Bank, ci «saranno tensioni significative sulla sicurezza alimentare in molti paesi». E a farne maggiormente le spese, sarà l’Africa, tanto più che la situazione in Pakistan di fronte alle alluvioni che lo hanno investito potrebbe pesare sui prezzi mondiali.

«Il Pakistan è un grande esportatore di riso, ma un terzo del paese è sott’acqua e quindi il rischio, a lungo termine, è un aumento del prezzo del riso sul mercato internazionale», ha spiegato Nicolas Bricas, titolare della Cattedra mondiale dell’alimentazione dell’Unesco, sentito da France24.

Un altro fattore rischia di aggravare ulteriormente la situazione: la forte domanda cinese di rotture di riso per sostituire il mais, diventato troppo costoso per nutrire il bestiame, ha provocato un innalzamento dei prezzi.

Il fabbisogno africano

Tutto ciò, evidentemente, rappresenta una brutta notizia sul fronte della sicurezza alimentare nell’Africa subsahariana, che dipende in larga misura dalle importazioni di cereali bianchi dall’Asia. L’Africa, quest’anno, potrebbe assorbire il 40% del commercio mondiale di riso, ovvero 20 milioni di tonnellate, un vero e proprio record.

La dipendenza dalle importazioni di riso è cronica e durerà nel tempo, anche perché la produzione locale non è in grado di seguire la curva dei bisogni che cresce con la crescita demografica urbana. In Africa il riso è l’alimento preferito dagli abitanti delle città perché è un prodotto pronto all’uso a differenza dei tradizionali cereali, come il miglio e il sorgo, che hanno bisogni di una preparazione.

Se la sicurezza alimentare in Africa subsahariana non si base esclusivamente sul riso, come in altri continenti, questo rimane il secondo cereale più consumato dopo il mais. Un’impennata dei prezzi rappresenterebbe un nuovo colpo per le popolazioni africane, già indebolite dai prezzi dei generi di prima necessità, soprattutto quelli agricoli. La situazione è particolarmente critica nel Corno d’Africa, che sta attraversando una siccità mai vista negli ultimi quarant’anni. Secondo le Nazioni Unite, dall’Etiopia meridionale al Kenya settentrionale fino alla Somalia, 36 milioni di persone sono a rischio fame.

«Con l’aggravarsi della situazione della sicurezza alimentare in Etiopia, siamo particolarmente preoccupati per l’impatto che sta avendo su donne e ragazze. Anche se CARE è intervenuta tempestivamente con distribuzioni di cibo per alcune comunità colpite, oltre che con interventi nel settore agricolo, trasferimenti di denaro, salute e nutrizione e WASH, il bisogno insoddisfatto rimane sconcertante».

L’aumento del prezzo del riso è, dunque, atteso, ma secondo molti analisti dovrebbe rimanere contenuto e di breve durata. Di sicuro è un azzardo, anche se il raccolto dei principali paesi produttori ed esportatori – India, Thailandia e Vietnam – inizierà tra poche settimane. Questo riso dovrà andare ad aggiungersi alle scorte, già al massimo, e quindi dovrebbe spingere questi paesi a vendere il vecchio raccolto, allentando la pressione sul mercato. Ma bisognerà capire se i maggiori esportatori di riso applicheranno misure di protezionismo del proprio mercato interno.

Di sicuro gli effetti maggiori si vedranno nei primi mesi dell’anno prossimo. Occorre ricordare, infine, che il Pakistan esporta 4 milioni di tonnellate di riso all’anno, contro i 21 milioni dell’India. La domanda è: il mercato sarà in grado di resistere allo shock anche se il Pakistan, come è prevedibile, limiterà le sue esportazioni e l’India manterrà i dazi e il tetto alle esportazioni di riso?

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Man made disasters: Floods in Pakistan https://ogzero.org/man-made-disasters-floods-in-pakistan/ Fri, 16 Sep 2022 00:52:07 +0000 https://ogzero.org/?p=8884 Abbiamo ricevuto da Masha Hassan un interessante punto di vista sul Pakistan nel momento in cui l’economia di Islamabad è sull’orlo della bancarotta e il Balochistan è stato devastato da alluvioni. Preferiamo proporlo nella sua lingua originale (trovate comunque la traduzione in calce), premettendo un abstract riassuntivo senz’altro riduttivo rispetto alla rotonda prosa che ci […]

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Abbiamo ricevuto da Masha Hassan un interessante punto di vista sul Pakistan nel momento in cui l’economia di Islamabad è sull’orlo della bancarotta e il Balochistan è stato devastato da alluvioni. Preferiamo proporlo nella sua lingua originale (trovate comunque la traduzione in calce), premettendo un abstract riassuntivo senz’altro riduttivo rispetto alla rotonda prosa che ci riconduce in spazi ridotti dalla gentrificazione e che prende spunto dalla vulnerabilità della nazione pakistana ai cambiamenti climatici; un aspetto che ha agevolato il disastro originato da monsoni e scioglimento di ghiacciai. Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, ma l’insostenibilità ambientale dei marchi pakistani di prodotti tessili andrebbe perseguita già solo perché sposta le emissioni occidentali in territorio pakistano e i danni irreparabili di questo disastro ambientale ricadono sulle case dei lavoratori schiavizzati del Balochistan, spazzate via, mentre le aziende – per nulla “sostenibili” – non vengono scalfite dalla furia delle acque. Nell’articolo si accenna alla rivendicazione diffusa nei paesi dell’area che non hanno partecipato al benessere derivante dalla debacle ambientale, ma ne subiscono pesantemente gli effetti: il nome per identificare questo stato è “apartheid climatica”, visto il paragone con le emissioni dell’esercito statunitense.
Ma le cause del disastro sono anche interne, visto il crollo di 12 dighe in Balochistan per l’uso di materie prime scadenti per la corruzione endemica negata dal governo provinciale, mentre l’approccio dovrebbe rifiutare l’idea di naturalezza dei disastri perché in realtà sono causati da processi sociali antropici che evidenziano la sproporzione nella spartizione delle risorse (di tradizione coloniale britannica) e l’assenza di infrastrutture pubbliche (causata dal collaborazionismo dei potentati locali, comprati con assegnazioni di terre irrigue), con il corollario di proprietari terrieri in solidi complessi abitativi e contadini che vivono in case di fango spazzate dalle inondazioni. Così si esprime Shozab Raza, ricercatore che ricorda come fin dai primi anni dello stato pakistano le dighe abbiano rappresentato la deportazione e la miseria di migliaia di persone; e già nel 2010 questo ha provocato le alluvioni. Il prossimo disastro è annunciato dal Corridoio economico sino-pachistano, una trappola del debito sul modello di quello che ha strozzato lo Sri-Lanka nell’esposizione con la Cina.
Un aspetto che non si considera mai a sufficienza dei disastri ambientali è quello di genere, perché le strutture sanitarie fuori uso per il cataclisma rendono ancora più complesso portare a termine una gravidanza e il disinteresse per i servizi sanitari ginecologici sono un’ulteriore prova di quanto l’atteggiamento patriarcale finisca con il rendere più vulnerabili minoranze sessuali, di genere, o le puerpere.

La dichiarazione d’intenti nell’epilogo dell’articolo è totalmente condivisibile: «Ciò che serve ora è una radicale decolonizzazione delle scienze della sostenibilità, una decrescita per i paesi occidentali, un piano d’azione per un sistema energetico decarbonizzato e, soprattutto, una decostruzione della femminilizzazione negativa della terra antropomorfizzata».


  • Pakistan’s climate change vulnerability: colonialism to blame

 

  • In the midst of celebrating rivalries between India and Pakistan’s cricket match, where both the countries were busy trolling each other on social media or bursting fireworks in their backyards, in other news, a third of Pakistan was under water.

Often referred to as the Third Pole, containing around 7200 glaciers, that is more glacial ice than anywhere else in the world outside of the polar-region, the Global Climate Index in its annual report of 2020 placed Pakistan on the fifth spot on the list of countries being most vulnerable to climate change. As this vulnerability increases with a considerably high rate of warming, Pakistan faced an extreme heat wave this summer. While climate analysts are unsure if torrential monsoon rains or accelerating of the melting of glaciers is the cause of these disastrous flooding but they are certain of the fact that climate crisis is a global responsibility.

 

Compared to the floods of 2010, this year’s damage is 4 times more. With 50 million people being affected and more than 1100 killed, around 90% of farmland has been flushed away hitting Pakistan’s major agricultural productions i.e. cotton and rice. The country being the fifth largest producer of cotton and fourth largest producer of rice, the impact of this loss will definitely be global. In 2021 Pakistan exported cotton worth $3.4 billion i.e. 6% of the global supply meaning that they fed the so called ‘sustainable’ cotton requirements of brands such as H&M, Zara and Gap.

Pakistan

September 13, 2012 Over 250 workers perished in the fire at a garment factory in Baldia

Climate change and slavery

Acknowledging the fact that there is nothing sustainable about these brands as their industry not only outsources western emissions (causing politicians such as Donald Trump and Peter Mackey playing the blame game by pointing fingers towards the population divide in the global south) it is also tightly linked to modern slavery, continuing to profit through labor exploitation with the deception of corporate greenwashing. The manufacturing industries remain intact whereas the irreparable damages of homes and livelihoods of the workers in Pakistan that have been washed away will fall only on to its shoulders.
In an article published by “the thirdpole”, Pakistan’s climate minister Sherry Rehman stated that the country “would press hard for big polluters to pay up at the annual UN climate summit in Egypt this November”. The country that is suffering from  ‘climate apartheid’, has less than 1% of carbon emissions but is disproportionately bearing the brunt of what wealthy nations have caused. We shouldn’t shy away from mentioning the less spoken role of the U.S military’s carbon boot print that is said to be as big as 140 countries. Remember two decades ago how the Bush administration unhesitatingly denied climate change that is caused due to human activity! The Biden presidency is no better. Although the U.S has rejoined the Paris agreement with a claim for a decarbonization push, it still avoids imposing limits in order to cut emissions produced by their department of defence.
The loss and damage is a contentious debate for the developed countries who have a historical responsibility since the time of the industrial revolution such as the UK and they remain worried regarding climate litigations and negotiations in terms of compensation and liability, for example the historic climate litigation between Luciano Lliuya v. RWE AG. Saúl Luciano Lliuya who is a farmer from Peru has sued the German energy company called RWE AG to pay for the damages for the floods that took place in his hometown in Huaraz. This lawsuit could be a landmark and a game changer, opening doors for many to sue against world’s largest polluters.

Lake Palcacocha in 2014. Siphons were installed in the glacial lake to lower the water level. Photo: Cooperación Suiza COSUDE/ via Flickr CC

Climate change and corruption

Sherry Rehman rightly called out the wealthy nations asking for reparations, however, international assistance is not the only solution for avoiding a climate catastrophe of this magnitude.

A ground level interview with The New Humanitarian reveals how in the southwestern province of Balochistan 12 dams broke. The provincial government’s response was a denial of corruption in sub standard construction of these Dams whereas local narratives explain otherwise that often water is released through irrigation canals that are not well constructed. The Pakistani elite as well as the provincial ministers are hiding behind the monsoon rains and the water overflow by calling it ‘natural disasters’, indirectly implying its inevitability and brushing off their responsibility by leaving us at the usual mercy of God. Many Risk mitigation scholars for decades have asked to give up the very phrase “natural disaster”,

Ilan Kelman from the Institute for Risk and Disaster Reduction at University of College London says “natural disasters do not exist”: «Disasters are caused by society and societal processes, forming and perpetuating vulnerabilities through activities, attitudes, behaviour, decisions, paradigms, and values».

These societal processes are undeniably anthropic posing questions such as; why there is a disproportionate division of resource? Why are people compelled to live on areas prone to climate disasters? Who is responsible for the approval or rejection of building codes and most importantly how much money is allotted and how much is actually used up to build public infrastructures?

The fault of British imperialism…

In Pakistan, this disproportionality has a close relationship to  Britain’s imperialist extractive legacy, resulting in economic and social invisibilisation of regions such as Balochistan that lies on the periphery. The alliances built during the 19th century between the British aristocrats and local elites collaborated together, mutually profiting through feudalism, pillaging and exploitation of these regions leaving the future generation with its after effects.

… responsibility of Pakistani notables…

Shozab Raza, writer and researcher, explains that the loyalty of tribal chiefs was bought by the British through allotting them huge amounts of land estates in irrigated areas. He further explains how the disparities grew between the peasant and the landlords resulting in unequal housing ownership. Peasants were forced to live in mud houses becoming vulnerable to the disasters of flooding whereas the landlords ended up constructing strong luxurious housing compounds for themselves on these land estates. In this neoliberal era, feudal societies and mutually benefitting extraction practices and extortion exists till date.
Raza further points out how after the 1950s the local elite politicians teaming up with international firms organized several hydropower and irrigation infrastructures such as the construction of the Taunsa Barrage leading to the displacement of thousands. Its faulty construction is said to play a significant role in the 2010 floods.

Pakistan

… and chinese Trap

Another such project that will dry up Pakistan is the China-Pakistan Economic Corridor (CPEC), the country that is already drowning in a debt crises with the IMF prior to these floods, with the CPEC that lacks transparency, they might end up(or probably already have) falling into a similar ‘debt trap’ that of Sri Lanka with the upcoming imperial power of China.

Man made disasters and Patriarchy

Around 8.2 million women are affected in this year’s floods where 650,000 are pregnant women and 73,000 are expected to deliver next month. Estimated 1,000 health care infrastructures are damaged. In the flood affected areas of Balochistan 198 health care structures are destroyed, and damaged bridges and roads is a logistical hindrance to gain access to health facilities. In Pakistan where there is a great stigma and taboo attached to menstruation, in many affected areas of Balochistan, Sindh and Southern Punjab menstruation materials were left out from donation lists of many foundations on the claim that it is a ‘luxury item’.  Inadequate supply of menstruation materials will create a high risk of urogenital infections like vaginosis and UTIs (urinary tract infections).  This disregard of health care infrastructures, toilets, feminine hygiene, menstruation relief and maternal health care services is a proof of how patriarchy and climate change are intrinsically intertwined. Perils of climate catastrophe are gendered which means that it amplifies social instability by disproportionately impacting the already marginalized and vulnerable people in the social ladder. Sexual and gendered minorities who lived inside a certain gendered space are now forced to move from a private to public domain, making them vulnerable to violence, harassment and sexual abuse inside flood relief camps.

As says Tithi Battacharya  “Against this explicitly anti-solidaristic policies of state and capital, feminists, now more than ever, need to rescue a solidarity that is as anti-capitalist as it is openly confrontational with capital. In the current moment of escalating social inequalities and the climate emergency we should realize how deeply imbricated are our fates with that of others.  And as wars and pandemics rip through the world, we need to re-animate a politics of recuperative hospitality, where the fate of our most vulnerable is only the vision of our own future”

As international funds very slowly pour in, there has been a call to cancel Pakistan’s international debt with the International Monetary Fund (IMF) and can prove to be an important step to avoid the further worsening of the economic crisis. Simultaneously asking for accountability from the disaster management and their lack of preparation in anticipatory action and prioritizing grassroots narratives by making them equal stakeholders in policy-making and resource management can be effective measures. What is required now is a radical decolonization of sustainability sciences, degrowth for Western countries, an action plan for a decarbonized energy system and most importantly a deconstruction of the negative feminization of the very anthropomorphized earth.

La vulnerabilità pakistana al cambiamento climatico: colonialismo alla sbarra

  • Pakistan

    2022 Pakistan Floods – August 27, 2021 vs. August 27, 2022 in Sindh Source: https://worldview.earthdata.nasa.gov/ Corrected Reflectance (Bands 7-2-1) Aqua / MODIS

  • Nel bel mezzo dei festeggiamenti per la partita di cricket tra India e Pakistan, in cui entrambi i paesi erano impegnati a trollarsi a vicenda sui social media o a far scoppiare fuochi d’artificio nei loro cortili, in altri servizi giornalistici, un terzo del Pakistan si trovava sott’acqua.

Spesso indicato come il Terzo Polo, che contiene circa 7200 ghiacciai, cioè più area glaciale di qualsiasi altra parte del mondo al di fuori della regione polare, il Global Climate Index nel suo rapporto annuale del 2020 ha collocato il Pakistan al quinto posto nella lista dei paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici. Poiché questa predisposizione aumenta con un tasso di riscaldamento considerevolmente elevato, quest’estate il Pakistan ha dovuto affrontare un’ondata di caldo estremo. Gli analisti climatici non sanno se le piogge torrenziali dei monsoni o l’accelerazione dello scioglimento dei ghiacciai siano la causa di queste disastrose inondazioni, ma sono certi che la crisi climatica sia una responsabilità globale.

Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo il paese il quinto produttore di cotone e il quarto di riso, l’impatto di questa perdita sarà sicuramente globale. Nel 2021 il Pakistan ha esportato cotone per un valore di 3,4 miliardi di dollari, pari al 6% dell’offerta globale, il che significa che ha alimentato il cosiddetto fabbisogno di cotone “sostenibile” di marchi come H&M, Zara e Gap.

Cambiamento climatico e schiavitù

Riconoscendo il fatto che non c’è nulla di sostenibile in questi marchi, poiché la loro industria non solo esternalizza le emissioni occidentali (facendo sì che politici come Donald Trump e Peter Mackey colpevolizzino il Sud del mondo per il divario demografico), ma è anche strettamente legata alla schiavitù moderna, continuando a trarre profitto attraverso lo sfruttamento del lavoro con l’inganno del greenwashing aziendale. Le industrie manifatturiere rimangono intatte, mentre i danni irreparabili alle case e ai mezzi di sussistenza dei lavoratori pakistani che sono stati spazzati via ricadranno solo sulle loro spalle

In un articolo pubblicato dal Terzo Polo, il ministro pakistano per il clima Sherry Rehman ha dichiarato che il paese «eserciterà forti pressioni affinché i grandi inquinatori paghino al vertice annuale delle Nazioni Unite sul clima che si terrà in Egitto a novembre». Il paese che soffre di “apartheid climatica”, ha meno dell’1% delle emissioni di carbonio ma sta sopportando in modo sproporzionato il peso di ciò che le nazioni ricche hanno causato. Non ci si può esimere a questo proposito dal menzionare il ruolo meno esposto dell’impatto di emissioni di carbonio dell’esercito statunitense, che si dice sia pari a quella di 140 Paesi. Ricordiamo che due decenni fa l’amministrazione Bush negava senza esitazione il cambiamento climatico dovuto all’attività umana! La presidenza Biden non è migliore. Sebbene gli Stati Uniti abbiano aderito all’accordo di Parigi con la richiesta di una spinta alla decarbonizzazione, continuano a evitare di imporre limiti per ridurre le emissioni prodotte dal loro dipartimento della difesa

Le perdite e i danni sono un dibattito controverso per i paesi sviluppati che hanno una responsabilità storica fin dai tempi della rivoluzione industriale, come il Regno Unito, e che continuano a essere preoccupati per le controversie e i negoziati sul clima in termini di risarcimento e responsabilità, come per esempio la storica controversia sul clima tra Luciano Lliuya e RWE AG. Saúl Luciano Lliuya, un agricoltore peruviano, ha citato in giudizio la società energetica tedesca RWE AG per il risarcimento dei danni causati dalle inondazioni che hanno colpito la sua città natale, Huaraz. Questa causa potrebbe essere un punto di riferimento e cambiare le carte in tavola, aprendo a molti la possibilità di fare causa ai maggiori inquinatori del mondo.

Cambiamento climatico e corruzione

Sherry Rehman ha giustamente richiamato le nazioni ricche che chiedono risarcimenti, ma l’assistenza internazionale non è l’unica soluzione per evitare una catastrofe climatica di questa portata.

Un’intervista sul campo con “The New Humanitarian” rivela che nella provincia sudoccidentale del Balochistan sono crollate 12 dighe. La risposta del governo provinciale è stata la negazione della corruzione nella costruzione di queste dighe al di sotto degli standard, mentre le narrazioni locali spiegano invece come spesso l’acqua viene rilasciata attraverso canali di irrigazione non ben costruiti. L’élite pakistana e i ministri provinciali si nascondono dietro le piogge monsoniche e gli straripamenti d’acqua chiamandoli “disastri naturali”, sottintendendo indirettamente la loro inevitabilità e scansando le loro responsabilità affidandosi alla solita misericordia di Dio. Molti studiosi del contenimento del rischio da decenni chiedono di abbandonare l’espressione stessa di “disastro naturale”.

Ilan Kelman dell’Istituto per la riduzione dei rischi e dei disastri dell’Università del College di Londra afferma che «i disastri naturali non esistono: I disastri sono causati dalla società e dai processi sociali, che formano e perpetuano le vulnerabilità attraverso attività, atteggiamenti, comportamenti, decisioni, paradigmi e valori».

Questi processi sociali sono innegabilmente antropici e pongono alcune domande come per esempio: perché c’è una divisione sproporzionata delle risorse? Perché le persone sono costrette a vivere in aree soggette a disastri climatici? Chi è responsabile dell’approvazione o del rifiuto delle norme edilizie e, soprattutto, quanto denaro viene stanziato e quanto viene effettivamente utilizzato per costruire infrastrutture pubbliche?

La colpa dell’imperialismo britannico…

In Pakistan questa sproporzione ha una stretta relazione con l’eredità estrattiva imperialista della Gran Bretagna, che ha portato all’invisibilizzazione economica e sociale di regioni come il Balochistan, che si trova alla periferia. Le alleanze costruite durante il Diciannovesimo secolo tra gli aristocratici britannici e le élite locali hanno collaborato strettamente, traendo reciproco profitto attraverso il feudalesimo, il saccheggio e lo sfruttamento di queste regioni, lasciando alle prossime generazioni tutti gli effetti collaterali.

… responsabilità dei notabili pakistani…

Shozab Raza, scrittore e ricercatore, spiega che la lealtà dei capi tribali fu comprata dagli inglesi attraverso l’assegnazione di enormi quantità di proprietà terriere in aree irrigue. Spiega inoltre come siano cresciute le disparità tra i contadini e i proprietari terrieri, con conseguenti disuguaglianze nella proprietà degli alloggi. I contadini furono costretti a vivere in case di fango, diventando così vulnerabili ai disastri delle inondazioni, mentre i proprietari terrieri finirono per costruire per loro stessi forti e lussuosi complessi abitativi in queste proprietà terriere. In quest’epoca neoliberale, le società feudali e le pratiche di estrazione ed estorsione a reciproco vantaggio permangono invariate ancora oggi. Raza sottolinea inoltre come, dopo gli anni Cinquanta, l’élite politica locale, in collaborazione con imprese internazionali, abbia organizzato diverse infrastrutture idroelettriche e di irrigazione, come la costruzione dello sbarramento di Taunsa, che ha portato alla deportazione di migliaia di persone. Si dice che la sua costruzione difettosa abbia giocato un ruolo significativo nelle alluvioni del 2010.

… e trappola cinese

Un altro progetto di questo tipo che prosciugherà il Pakistan è il Corridoio economico Cina-Pakistan (Cpec), il paese – che stava già affogando in una crisi del debito con il Fmi prima di queste inondazioni – con il Cpec, che manca di trasparenza, potrebbe finire (o probabilmente è già caduto) in una “trappola del debito” simile a quella dello Sri Lanka con l’immanente potenza imperiale della Cina.

Disastri ascrivibili all’uomo in generale e al patriarcato in particolare

Circa 8,2 milioni di donne sono state colpite dalle inondazioni di quest’anno, di cui 650.000 sono incinta e 73.000 dovrebbero partorire il mese prossimo. Si stima che 1000 infrastrutture sanitarie siano state danneggiate. Nelle aree colpite dalle inondazioni del Balochistan 198 strutture sanitarie sono state distrutte e i ponti e le strade danneggiati rappresentano un ostacolo logistico per accedere alle strutture sanitarie. In Pakistan, dove c’è un grande stigma e tabù legato alle mestruazioni, in molte aree colpite del Balochistan, del Sindh e del Punjab meridionale il materiale mestruale è stato escluso dalle liste di donazione di molte fondazioni, sostenendo che si tratta di un “bene di lusso”.  L’inadeguata fornitura di supporti ginecologici comporta un alto rischio di infezioni urogenitali, come vaginosi e UTI (infezioni del tratto urinario).  Questo disinteresse per le infrastrutture sanitarie, per i servizi igienici, per l’igiene femminile, per le mestruazioni e per i servizi di assistenza sanitaria materna è una prova di come il patriarcato e il cambiamento climatico siano intrinsecamente intrecciati. I pericoli delle catastrofi climatiche sono “di genere”, il che significa che amplificano l’instabilità sociale colpendo in modo sproporzionato le persone già emarginate e vulnerabili nella scala sociale. Le minoranze sessuali e di genere che vivevano all’interno di un certo spazio di genere sono ora costrette a spostarsi da un ambito privato a uno pubblico, rendendole vulnerabili alla violenza, alle molestie e agli abusi sessuali all’interno dei campi di soccorso per le alluvioni.

Come afferma Tithi Battacharya: «Contro queste politiche esplicitamente antisolidaristiche dello stato e del capitale, le femministe, ora più che mai, devono salvare una solidarietà che sia tanto anticapitalista quanto apertamente conflittuale con il capitale. Nell’attuale momento di escalation delle disuguaglianze sociali e di emergenza climatica, dobbiamo renderci conto di quanto i nostri destini siano profondamente intrecciati con quelli degli altri.  E mentre guerre e pandemie dilaniano il mondo, dobbiamo rianimare una politica di ospitalità recuperativa, in cui il destino dei più vulnerabili sia solo la visione del nostro futuro» (“Transnational Strike”).

Mentre i fondi internazionali arrivano molto lentamente, è stato chiesto di cancellare il debito internazionale del Pakistan con il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e può rivelarsi un passo importante per evitare un ulteriore peggioramento della crisi economica. Chiedere contemporaneamente la responsabilità della gestione delle catastrofi e la loro mancanza di preparazione nell’azione preventiva e dare priorità alle narrazioni della base, rendendole parti interessate a pieno titolo nella definizione delle politiche e nella gestione delle risorse, possono essere misure efficaci. Ciò che serve ora è una radicale decolonizzazione delle scienze della sostenibilità, una decrescita per i paesi occidentali, un piano d’azione per un sistema energetico decarbonizzato e, soprattutto, una decostruzione della femminilizzazione negativa della terra antropomorfizzata.

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Inclusività o assimilazione nell’India tribale in rivolta? https://ogzero.org/inclusivita-o-assimilazione-nellindia-tribale-in-rivolta/ Tue, 26 Jul 2022 06:54:22 +0000 https://ogzero.org/?p=8278 Lo schiaffo del partito induista nazionalista al potere a tutto ciò che è alieno, diverso, “intollerabile” diventa scherno con l’elezione di una donna di origine tribale a presidente dell’India. Sicuramente non risolve i problemi di discriminazione e le pulizie etniche su cui Narendra Modi ha costruito il suo potere, ma con altrettanta certezza gli conferisce […]

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Lo schiaffo del partito induista nazionalista al potere a tutto ciò che è alieno, diverso, “intollerabile” diventa scherno con l’elezione di una donna di origine tribale a presidente dell’India. Sicuramente non risolve i problemi di discriminazione e le pulizie etniche su cui Narendra Modi ha costruito il suo potere, ma con altrettanta certezza gli conferisce una patente di tolleranza. Laddove invece registriamo solo militarizzazione e repressione dell’India tribale in rivolta, sia nel Centronord indiano sia nel profondo Sud del Tamil Nadu.
Qui con Gianni Sartori intendiamo dare voce, o almeno testimonianza, del saccheggio e delle modalità di soffocazione di istanze di emancipazione delle comunità tribali a Kallakurichi come a Sukma.
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Diritti e oppressione dei popoli indigeni

Non si può certo affermare che quanto avviene in India ai danni delle popolazioni tribali sia sotto la lente e l’interesse dei media internazionali. Difficilmente si viene adeguatamente informati riguardo a massacri, deportazioni (per consentire alle multinazionali, in particolare quelle dedite all’estrazione mineraria, di appropriarsi dei territori ancestrali delle popolazioni indigene), esecuzioni extragiudiziali, stupri di donne tribali e arresti arbitrari operati dal regime di Narendra Modi.
Si è invece parlato della elezione a presidente dell’India (una carica più che altro formale, cerimoniale…) di Droupadi Murmu, donna di origine tribale (i santhal), in precedenza governatrice del Jharkhand. Originaria dell’Odisha, milita da anni nel Bharatiya Janata Party, il partito dei fondamentalisti indù.
Per carità. Tutto può tornare utile e se questo evento dovesse portare qualche beneficio alle popolazioni tribali (gli adivasi) e alle caste diseredate (i dalit) ben venga.
Anche se l’augurio è che non avvenga nella logica sviluppista (e di devastazione umana e ambientale) che auspica Modi.

Addomesticamento e rivolta delle comunità tribali

È lecito infatti avere qualche riserva su questo coinvolgimento, più che altro spettacolare ed elettorale, dei tribali nel progetto del Bjp. Allargare la propria base di sostenitori farà sicuramente gli interessi del Bjp. Ma è lecito chiedersi quali vantaggi porterà alla conservazione delle lingue e della cultura tradizionale (oltre che alla loro sopravvivenza fisica) degli adivasi. Più che di “inclusività” si dovrebbe forse parlare di assimilazione.
Nel frattempo – ovvio – si mantiene la stretta repressiva, l’addomesticamento forzato delle popolazioni indocili e refrattarie al “progresso” neoliberista.

Landgrabbing e resistenza nel Chhattisgarh

Di questi giorni è la notizia (ignorata dai media internazionali in quanto scoperchiava le passate malefatte governative) dell’avvenuta liberazione (il 15 luglio 2022) nel Chhattisgarh di 121 tribali (tra cui alcuni minorenni) arrestati nel 2017 con una serie di rastrellamenti nei villaggi della zona. Nel frattempo uno degli arrestati (o almeno quello finora accertato) era deceduto dietro le sbarre.
Tutte queste persone, come del resto era evidente fin dall’inizio, sono risultate del tutto estranee all’imboscata, opera di almeno trecento guerriglieri naxaliti (maoisti del People’s Liberation Guerrilla Army), di Sukma (Burkapal, 24 aprile 2017)) in cui avevano perso la vita 26 paramilitari della Crpf.
Sono completamente cadute sia le accuse di possesso di armi, sia di appartenenza al Pci (maoista). Per cui la loro lunga, ingiusta detenzione acquista il senso di una rappresaglia a scopo “educativo” per tutta l’India tribale in rivolta.
A Sukma militari e paramilitari sorvegliavano in armi i lavori per la costruzione di una strada che doveva attraversare i territori tribali per conto di un gruppo industriale. Il gruppo maoista Dkszc (Dand Karanya Special Zone Committee) aveva rivendicato l’attacco.

Villaggio di Silger resistente, dove sono ormai trascorsi 400 giorni dall’inizio della resistenza del movimento del villaggio di Silger al confine tra Bijapur e Sukma nel Bastar meridionale del Chhattisgarh

L’attacco di Sukma

Nel comunicato si sottolineava come l’attacco fosse una risposta di autodifesa non solo nei confronti delle politiche antipopolari del governo, ma soprattutto per le «atrocità sessuali commesse dalle forze di sicurezza contro le donne e le ragazze tribali». Ossia gli innumerevoli stupri opera soprattutto dalle milizie paramilitari filogovernative. In sostanza «per la dignità e il rispetto delle donne tribali».

Il comunicato inoltre smentisce decisamente (come poi è stato riconosciuto anche ministero dell’Interno) che sui corpi dei soldati uccisi si fosse infierito con mutilazioni e castrazioni: «Noi – aveva dichiarato Vikalp, portavoce della guerriglia – non manchiamo di rispetto ai corpi dei soldati uccisi. Sono i media borghesi che diffondono tali false notizie e invece spesso sono i militari che operano brutali trattamenti sui corpi dei guerriglieri maoisti». Così come, aveva continuato «vengono riprese e diffuse nei social immagini riprovevoli delle guerrigliere uccise» (un inciso estraneo all’India tribale in rivolta: questa è una pratica abituale anche da parte dei soldati turchi nei confronti delle combattenti curde).
Per concludere: «I soldati non sono nostri nemici. Tantomeno nemici di classe. Tuttavia si pongono al servizio dell’apparato antipopolare e dello sfruttamento operato dal governo. Rivolgiamo a loro un appello affinché cessino di combattere schierati al fianco dei politici sfruttatori, dei grandi imprenditori, delle compagnie nazionali e internazionali, delle mafie, dei fascisti indù… che sono, per loro stessa natura, nemici dei dalit, dei tribali, delle minoranze religiose e delle donne. Soldati, non sprecate la vostra vita per difendere tali personaggi e le loro ricchezze. Lasciate l’esercito e prendete parte alla lotta popolare».

E adesso la resistenza ricomincia nel Tamil Nadu

Tornando ai nostri giorni, va ricordato che il 17 luglio 2022 nel Sud dell’India si sono verificati duri scontro tra giovani e polizia (con decine di feriti) dopo il suicidio di una studentessa.
I manifestanti penetrarono nel campus (distretto di Kallakurichi nello stato di Tamil Nadu), incendiando veicoli della polizia e bus scolastici.
La ragazza prima di togliersi la vita aveva scritto una lettera in cui denunciava alcuni insegnanti per averla sottoposta a sistematici maltrattamenti (aveva usato il termine “torture”). La stessa cosa sarebbe toccata ad altre studentesse.
All’inizio del mese invece le proteste – con scontri, numerosi feriti e una dozzina di arresti – erano scoppiate a Nepali Nagar. Il 3 luglio una quindicina di bulldozer arrivarono per distruggere un centinaio di abitazioni costruite su terreni pubblici: le autorità locali le avevano definite “abusive” (nonostante da anni fossero stati realizzati gli allacciamenti e venissero raccolte le tasse municipali).
E solo uno stretto braccio di mare divide il Tamil Nadu da quello Sri Lanka in subbuglio.
Una nota di Francesco Valacchi per contestualizzare le rivolte e la figura presidenziale di Droupadi Murmu si trova in “China Files”. Abbiamo registrato un suo breve intervento su Radio Blackout:

“Lavacro tribale del nazionalismo Bjp”.

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Afghanistan: il quadro interno e le forze in campo https://ogzero.org/afghanistan-il-quadro-interno/ Thu, 22 Jul 2021 10:14:39 +0000 https://ogzero.org/?p=4356 L’arduo compito di valutare la situazione attuale tra le varie fazioni in Afghanistan non poteva che venire conferito a Emanuele Giordana, tra i più competenti analisti di quell’area. Ne risulta una lucida fotografia che fa ruotare sul palcoscenico tutti i protagonisti che possono esprimere una pressione dall’interno sugli eventi che si produrranno nel momento in […]

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L’arduo compito di valutare la situazione attuale tra le varie fazioni in Afghanistan non poteva che venire conferito a Emanuele Giordana, tra i più competenti analisti di quell’area. Ne risulta una lucida fotografia che fa ruotare sul palcoscenico tutti i protagonisti che possono esprimere una pressione dall’interno sugli eventi che si produrranno nel momento in cui ai Talebani verrà sottratto l’unico argomento forte che hanno – la presenza militare straniera nel territorio afgano. L’affresco raccoglie le biffe di personaggi poco raccomandabili, le cui armi consentono loro di spadroneggiare ormai dall’inizio della guerra, 40 anni fa; ma questo non toglie che attraverso i loro alleati, o citando mire economiche, si sviluppino prassi securitarie e predatorie strategie.

Questo contributo più interno all’anima del paese si affianca ad altri due interventi contemporanei ospitati sul sito, uno di Sabrina Moles, mosso dalla curiosità di capire gli interessi cinesi sui corridoi commerciali, e l’altro di Yurii Colombo, volto a ritessere la tela russa a 30 anni dal ripiegamento sovietico, completando la panoramica sulla situazione geopolitica afgana in seguito al ritiro delle truppe americane dal paese che abbiamo intrapreso cominciando da una tavola rotonda che li ha visti partecipi e trasmessa in diretta nella serata del 13 luglio da Radio Blackout, un’analisi che poi abbiamo cercato di approfondire nello studium “La solita musica afgana?”, chiedendoci se sarà un altro Afghanistan quello imbandito in questi due mesi di approcci internazionali.


Minacciosi fuochi sacrificali sulla festa

Martedì 20 luglio, mentre nel palazzo presidenziale di Arg si pregava per la festa del sacrificio Eid al-Adha, una salva di razzi ha colpito i distretti uno e due della capitale. Benché il presidente Ghani abbia continuato a pregare, gli scoppi degli ordigni si udivano forti ad Arg e davano il segnale preciso che, negoziati o meno, la guerra va avanti su più fronti. I Talebani hanno negato ogni responsabilità (e in seguito l’Isis ha rivendicato il lancio di sei Katyusha) ma Ghani li ha comunque tirati in ballo, accusandoli di non volere la pace. A due giorni dall’ultima tornata negoziale a Doha, in Qatar, tra governo di Kabul e guerriglia – conclusasi con un nulla di fatto – la guerra delle parole si somma alla guerra guerreggiata, la propaganda alle armi. Anche se era abbastanza evidente sin dal mattino che i razzi non fossero di marca talebana, colpire a pochi metri dal simbolo del potere che fino a ieri era difeso anche dai soldati che per oltre vent’anni hanno occupato l’Afghanistan, non è un bel segnale.

Rivela, se ancora ve ne fosse bisogno, che gli attori della guerra sono assai più numerosi che non i due contendenti – Talebani e Governo – che si fronteggiano a Doha o nei 421 distretti che compongono la galassia territoriale del paese.

Sindrome di Saigon

Di questi 421 distretti, la metà (229 secondo gli analisti dell’Afghanistan Anlysts Network) sono in mano ai Talebani. Si tratta di centri spesso minori o periferici ma alcuni di essi sono attorno ai capoluoghi provinciali dove l’esercito afgano ha schierato le sue difese lasciando in molti casi al nemico i centri più complicati da difendere. La lezione militare è comunque importante e al contempo politica: anche se difficilmente i Talebani potrebbero prendere le grandi città (e gli stessi hanno escluso di volerlo fare) l’effetto valanga delle conquiste (come rivela la mappa) ha un ovvio impatto psicologico ancor prima che bellico.

Distretti afgani contesi tra Talebani e governo di Kabul - luglio 2021

Distretti afgani contesi tra Talebani e governo di Kabul – luglio 2021

Aiuta a diffondere la “sindrome di Saigon” – la paura che cada la capitale – che certo non aiuta l’esecutivo di Kabul. E aver preso gran parte dei posti di frontiera, oltreché un colpo di teatro, priva il Governo dei cespiti derivati del commercio che vengono intascati dalla guerriglia. La lettura più ovvia è che la guerriglia voglia far pesare la pressione psicologico-militare sul negoziato per ottenere di più. E cedere finalmente su un cessate il fuoco che resta una chimera anche se la giornata di martedì, primo giorno della festa di Eid, ha segnalato una tregua di fatto tra Talebani e Governo. Vediamo dunque le forze in campo nella situazione attuale.

Andarsene ma restare: la scelta di Washington

L’abbandono della base di Bagram in gran fretta, ha dato l’idea che gli americani non solo siano determinati ad andarsene ma che vogliano farlo – e lo stanno facendo – nel minor tempo possibile. È proprio così?

Afghanistan: il quadro interno

L’amministrazione Trump aveva previsto una riduzione iniziale della presenza militare Usa da 13.000 a 8600 uomini entro luglio 2020, seguita da un ritiro completo entro il 1° maggio 2021. L’Amministrazione Biden ha poi annunciato in aprile che avrebbe continuato il ritiro, ma oltre maggio e con una data finale che coincide con l’11 settembre. Decisione poi ancora anticipata e che, secondo gli osservatori, avrebbe solo rafforzato la decisione dei Talebani di diventare più aggressivi onde arrivare a un negoziato da posizioni di forza. Intanto è diventata esecutiva anche la decisione dei paesi aderenti alla coalizione Nato che, sempre in aprile, hanno deciso di iniziare il ritiro delle forze della missione Resolute Support il 1° maggio 2021, per completarlo entro la prima metà di luglio (nel febbraio 2021, il personale Nato ammontava a 9592 uomini – di cui 2500 americani – da 36 Paesi. La mappa si può vedere qui). La Nato comunque si impegnerebbe a proseguire l’addestramento in Europa di soldati afgani e i governi della coalizione dovrebbero continuare a sostenere finanziariamente le forze armate afgane. All’inizio della settimana, il 19 luglio, 15 paesi e il rappresentante Nato a Kabul hanno lanciato un appello ai Talebani perché fermino la loro avanzata. Una mossa forse dovuta ma che lascia il tempo che trova.

Modalità di permanenza militare statunitense

Oltre al sostegno finanziario, gli americani però non intendono esattamente uscire del tutto dalla scena afgana. Dovrebbero dunque rimanere attenti su due fronti: quello dei servizi (la Cia sta preparando nei paesi confinanti basi da cui operare anche se non è impresa facile) e quello di un aumento dell’impegno della marina statunitense nel Golfo, da cui monitorare quanto avviene in Afghanistan. Sia per eventuali attività terroristiche non per forza talebane (Isis, qaedisti) ma anche nel caso in cui le cose dovessero precipitare e i Talebani dovessero tentare di far cadere Kabul. Si tratterebbe di utilizzare soprattutto l’aviazione: droni, aerei spia e caccia da impiegare nel teatro afgano in modalità che non sono ancora chiare ma con opzioni interventiste non escluse dal segretario alla Difesa Lloyd J. Austin, secondo il quale le operazioni di sorveglianza aerea sono già iniziate assai prima del ritiro completo e ancora in luglio sono tornate a essere veri e propri bombardamenti aerei partiti da basi esterne al territorio afgano in supporto dell’azione delle forze d’elite di Kabul impegnate nel tentativo di riconquistare territori occupati dai Talebani; le azioni sarebbero concentrate nei distretti di Kunduz e Kandahar e gli ufficiali preposti lamentano sotto anonimato una minore efficacia, dovuta alla diminuita capacità di concentrazione sul bersaglio della missione da parte dell’intelligence dislocata a terra.

I protagonisti autoctoni

La forza dei Talebani

Alle aperture che Hibatullah Akhundzada, il leader dei Talebani, ha fatto il 18 luglio in una nota apparsa sul sito ufficiale dell’Emirato islamico d’Afghanistan sostenendo che la guerriglia vuole la pace e il dialogo, si alterna la durezza nella tattica politica negoziale rafforzata dalla pressione sul terreno in una ventina delle 34 province afgane. Il passato sembra però raccontare di una spallata difficile se i Talebani volessero tentare una scalata militare che arrivi sin nella capitale. Non ci riuscirono i mujahedin quando i sovietici abbandonarono il paese nel 1989, anche se contavano molti più uomini di quanti non ne abbia oggi la guerriglia in turbante. I mujahedin infatti dovettero aspettare il taglio dei fondi che Mosca smise di versare a Kabul. Fu solo a quel punto, nel 1992 – ben tre anni dopo! – che, senza più stipendio, l’esercito che faceva capo al governo amico di Mosca del dottor Najibullah si dissolse aprendo la strada alla conquista della capitale. Difficile comunque valutare attualmente la forza effettiva dei guerriglieri: secondo l’ultima stima disponibile delle Nazioni Unite, i Talebani potrebbero contare su una forza militare che va da 55.000 a 85.000 uomini. Un “esercito” che arriverebbe a 100.000 unità contando anche i non combattenti, gli informatori e i fiancheggiatori. Si tratterebbe di circa la metà dei soldati dell’esercito nazionale afgano (Ansf) che a sua volta può contare su 150.000 poliziotti e personale di intelligence. Se è davvero questo il rapporto di forza, prendere le città è un’impresa pressoché impossibile.

Afghanistan: il quadro interno

Il ritorno dei Signori della guerra

I vecchi e ormai ottuagenari Signori della guerra uniti alla congerie di capi tribali dell’epoca della resistenza contro i sovietici – che appare come una riedizione della vecchia Alleanza del Nord – ritornano sulla scena per gestire quella che hanno già chiamato “seconda resistenza” (moqawamat-e do): eventualità cui si preparano da tempo. Nelle settimane successive all’annuncio del ritiro degli occupanti, diversi gruppi di potere periferico si sono impegnati in manovre armate per posizionarsi come attori “negli sforzi di guerra o di pace” e per controllare il teatro politico e militare. Questi vecchi islamisti, non molto meno radicali dei Talebani e che hanno in media un’ottantina d’anni (c’è anche qualche figlio: è il caso di Batur Dostum o di Ahmad Massud, figlio del famoso comandante del Jamiat, Ahmad Shah Massud) costituiscono uno dei rischi principali di una nuova sanguinosa guerra civile di cui già sono stati buoni attori nel passato. I nomi sono noti: Abdul Rasul Sayyaf, Abdul Rashid Dostum, Muhammad Ismail Khan, il ras di Herat che ha già schierato i suoi uomini a difesa della città occidentale che controlla da sempre (sostiene di poter contare addirittura su 500.000 uomini!). Ovviamente quello dei Signori della guerra non sarebbe un esercito unico e unito ma semmai uno spurio battaglione formato da milizie etniche con lo scopo di difendere le identità delle diverse province; ma soprattutto con la finalità di controllare le rendite di posizione personali dei vari leader nei territori e nel Governo di Kabul. Ghani sembra voler puntare su di loro come sostegno all’esercito della repubblica. La Storia si ripete (su di loro avevano puntato anche gli americani).

Afghanistan: il quadro interno

Un fragile esecutivo

Al di là dell’aspetto militare (che sembra scontare un addestramento perseguito con i canoni degli occupanti che, avendo perso la guerra coi Talebani, non sembrano essere o esser stati i consiglieri migliori), un problema è rappresentato proprio dall’esecutivo afgano o meglio dal presidente Ashraf Ghani, che non vuole mollare la poltrona e rifiuta sia un governo di transizione sia l’idea di farsi da parte. Ashraf Ghani, che non ha brillato nei tentativi negoziali coi Talebani e che all’ultimo incontro a Doha non ha neppure partecipato, è in rotta di collisione con diverse province dove la nomina dei governatori (a lui fedeli) ha sollevato malumori che si sono tramutati anche in incidenti. Né ha trovato consenso la sua ultima trovata di un Supremo Consiglio di Stato, superorganismo (ovviamente solo consultivo) per coinvolgere anche chi è fuori dal governo o si senta politicamente escluso. Ci dovevano essere l’ex presidente Hamid Karzai e il leader di Hizb-e-Islami Gulbiddin Hekmatyar così come Salahuddin Rabbani, il capo di una fazione del Jamiat-e-Islami, assieme ad altri 15 influenti personalità politiche. Ma proprio Karzai, Rabbani ed Hekmatyar hanno rifiutato l’invito, individuando nella decisione del presidente l’ennesima manovra di Ghani per far finta di condividere decisioni che in realtà vuol prendere da solo. Ghani è a capo dell’apparato militare e può contare sulle persone che ha nominato ai vertici dello stato, nell’esercito e nelle province in questi anni.

Ma questa forza apparente del presidente è di fatto una debolezza che rischia di riflettersi anche sul piano militare – dove appunto si vanno aggiungendo i vecchi mujahedin – ed è scomparso l’alleato che dava le indicazioni: Washington.

Quel che resta di Isis e al-Qaeda

Le bombe Eid al-Adha o l’attacco in maggio alla scuola nel quartiere sciita Dasht-i-Barchi di Kabul, ci ricorda la presenza attiva di quel che rimane dell’Isis o meglio della Provincia del Khorasan affiliata all’autoproclamato ed ex Stato Islamico di Raqqa. Schegge apparentemente senza padrone (circa un paio di migliaia) che continuano a colpire e ad attrarre quando possono ex talebani irriducibili o in rotta coi vertici o ex miliziani stranieri (Iraq, Siria) in cerca di un nuovo lavoro. Fenomeno in parte residuale, come la presenza di al-Qaeda, ma che crea caos ulteriore confondendo acque già torbide. Si teme che tutte queste variabili possano essere comprate dal miglior offerente, discorso che vale anche per Talebani e mujahedin.

Come in passato, la presenza di più forze in campo, che necessitano di finanziamenti esterni (i Talebani meno di altri), può alimentare nuovamente le ceneri del conflitto interno per servire l’agenda di chi vuole condizionare da fuori il futuro dell’Afghanistan.

Una lista lunga: dai russi ai pachistani, dagli indiani ai cinesi, dall’Iran alle potenze piccole e grandi del Golfo.

La popolazione civile

C’è un ultimo elemento poco considerato dagli osservatori, molto concentrati sugli aspetti e gli apparati militari (esercito, talebani, milizie): la popolazione civile. Prima di tutto rappresenta una resistenza forte nelle città a un nuovo avvento di un governo oscurantista. Meno vera nelle campagne, questa avversione verso i Talebani si salda comunque probabilmente con una stanchezza diffusa della guerra come dimostrarono le “marce della pace” che attraversarono in lungo e in largo il paese tra il 2018 e il 2019. Ma la gente delle città può anche diventare una forza militare qualora i Talebani tentassero la spallata. Se Governo e Talebani (e forze d’occupazione) avessero ascoltato questo attore solo apparentemente secondario in passato, le cose forse non sarebbero arrivate a questo punto. Resta, comunque la si voglia vedere, una risorsa nel buio tunnel del conflitto.

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Il dramma dimenticato degli hazara in Pakistan https://ogzero.org/gli-hazara-di-quetta/ Thu, 11 Feb 2021 17:27:11 +0000 http://ogzero.org/?p=2405 Emozioni elitarie ad alta quota Vuoi per “provocazione amichevole”, vuoi per sapere cosa ne penso (in riferimento al polverone sollevato l’anno scorso dal mio articolo sulla relazione tra alpinismo e colonialismo), qualche compagno ha voluto scomodarsi per aggiornarmi su alcune recenti “imprese” alpinistiche extraeuropee. Vedi sul K2 destinato – azzardo – a diventare la nuova, […]

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Emozioni elitarie ad alta quota

Vuoi per “provocazione amichevole”, vuoi per sapere cosa ne penso (in riferimento al polverone sollevato l’anno scorso dal mio articolo sulla relazione tra alpinismo e colonialismo), qualche compagno ha voluto scomodarsi per aggiornarmi su alcune recenti “imprese” alpinistiche extraeuropee. Vedi sul K2 destinato – azzardo – a diventare la nuova, costosa meta di prestigio per ricchi turisti in cerca di emozioni elitarie (e presumibilmente a trasformarsi nella seconda grande discarica d’alta quota, dopo l’ormai inflazionato Everest).

Cos’altro posso dire che non abbia già detto?  Forse soltanto: “A volte ritornano” (crisi d’astinenza o coazione a ripetere?).

Peccato comunque per i leopardi delle nevi che nel corso del 2020 – come sostenevano alcuni naturalisti – si stavano  riappropriando dei legittimi spazi e territori. Grazie alla consistente rarefazione di turisti-alpinisti (effetto collaterale – benigno – del Covid-19).

Peccato, ripeto. Resta sempre il problema di come si possa fare serenamente del turismo – se pure d’alta quota – in un paese che opprime e reprime donne, diseredati e minoranze.

In precedenza mi ero occupato dei beluci. Non sono gli unici naturalmente.

Una premessa di carattere generale: tutto il mondo è paese

Inoltrandosi nel complicato “groviglio” orientale può capitare, per quanto in buonafede, di trascurare alcune “minoranze” (termine riduttivo, in realtà si dovrebbe parlare di “popoli minorizzati”, in genere forzatamente).

Popolazioni che talvolta emergono dall’anonimato in cui le vorrebbe segregate qualche potenza regionale (magari cambiando denominazione: vedi l’epiteto di “turchi di montagna” usato per i curdi del Bakur) soltanto per qualche rivolta disperata a cui segue – fatalmente – un’impietosa repressione. Oppure quando qualche potenza concorrenziale cerca di utilizzarli per scopi non certo disinteressati.

O ancora, sempre pensando ai curdi (ma stavolta del Bashur), ripercorrendo quanto avvenne 30 anni fa con la prima guerra del Golfo, quando le rivolte curda (a nord) e sciita (a sud) stavano per abbattere autonomamente – sia pure come effetto collaterale dell’attacco statunitense – il regime (e non solo l’ormai impresentabile Saddam, alleato storico dell’Occidente). Temendo che la situazione sfuggisse loro di mano, gli Usa preferirono liberare e riarmare – con elicotteri e carri armati in parte di produzione italica – i soldati iracheni già sconfitti e catturati. Consentendo loro di scatenare l’ennesima, sanguinosa repressione. Fatte le debite proporzioni, ricordava quanto avvenne in Francia all’epoca della Commune. Quando i prussiani – temendo il “contagio” della grandiosa sollevazione popolare – ugualmente liberarono e riarmarono i soldati francesi. Per consentirgli di “ristabilire l’ordine a Parigi” massacrando i comunardi.

Gli hazara del Pakistan, minoranza nativa sciita

Messi da parte contrasti e inimicizie, alla fine – quasi sempre – i potenti trovano un accordo. Perlomeno quando si tratta di conservare il controllo, la sottomissione di classi subalterne, minoranze indocili e popoli ribelli.

Ma non tutti i popoli, purtroppo, approdano in maniera significativa alle pagine dei giornali o del web.

È questo – mi pare – il caso degli hazara insediati nella regione pachistana del Belucistan (la maggior parte, circa 500.000, a Quetta). Da considerare ormai alla stregua di “minoranza nativa” in quanto discendono da coloro che qui emigrarono dall’Afghanistan più di un secolo fa.

Di religione sciita, periodicamente sono sottoposti a uccisioni mirate, rapimenti e massacri.

Una mappa dei gruppi etnolinguistici dell’area, tratta da “La Grande Illusione”, a cura di Emanuele Giordana, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

E non da ora. Risalendo indietro nel tempo, vediamo che tra il 2001 e il 2011 almeno 600 hazara avevano perso la vita in attacchi settari. Solo nei primi tre mesi del 2012 altri 30.

All’epoca la maggior parte degli attentati vennero rivendicati dai fondamentalisti sunniti di Lashkar-e-Jhangvi Al-Alami, braccio armato del Sipah Sahaba Pakistan (Ssp), entrambi – presumibilmente – manipolati dai servizi segreti pachistani.

Dopo essere state dichiarate illegali, le due organizzazioni si ricostituirono come Millat Islamia Pakistan e Ahl-e-Sunnat Wal Jamat.

Quetta, attivisti di Ahle Sunnat Wal Jamat (ASWJ, fondamentalisti sunniti) cantano slogan contro la dissacrazione del Corano durante una protesta nel dicembre 2013 (foto Arsalan Naseer/PPI Images).

La ribellione senza velleità separatiste

Da parte loro, gli hazara rispondevano solo politicamente, con scioperi e proteste. E, particolare non irrilevante, senza particolari velleità separatiste (anche per non fornire alibi alla repressione governativa).

La manifestazione del 21 settembre 2011 – indetta per protestare contro una strage di pellegrini sciiti che viaggiavano in autobus – era entrata nella storia per la grande partecipazione popolare.

Ma solo dopo pochi giorni, il 4 ottobre 2011, la violenza settaria colpiva un altro autobus e diversi hazara – operai che andavano al lavoro – perdevano la vita.

Con le stesse modalità il 29 marzo 2012 venivano ammazzati otto hazara, mentre il 6 aprile altri sei venivano trucidati in una bottega artigianale. Nei primi mesi del 2013 si parlava addirittura di quasi 200 hazara morti in attentati settari.

In precedenza, nel 2010, era stato assassinato Hussein Ali Youssafi, presidente del Partito democratico hazara (fondato nel 2003). A lui subentrava Abdul Khaliq Hazara che – quando si recò a Islamabad per denunciare la situazione in cui versava il suo popolo – si sentì chiedere di sospendere le manifestazioni di protesta.

L’ingerenza saudita

Per la cronaca, circa nello stesso periodo i fondamentalisti sunniti tornavano a colpire anche gli hazara dell’Afghanistan (oltre due milioni), accusandoli – ovviamente – di essere “infedeli”. Venne poi accertato che alcuni degli attentati più devastanti erano opera non dei talebani afgani, ma di miliziani provenienti dal Pakistan legati a Lashkar-e-Jhangvi Al-Alami.

Intanto continuava lo stillicidio di omicidi settari e vere e proprie stragi nelle strade di Quetta (e alcuni osservatori vi intravedono ingerenze, infiltrazioni e finanziamenti sauditi).

A Quetta (2,3 milioni di abitanti) vivono sia pasthun che beluci e aimak, ma è fuori discussione che – almeno in percentuale – il maggior numero di vittime sono hazara.

Non solo. Per anni questa “comunità sotto controllo” è vissuta praticamente confinata, segregata in enclave circondate da posti di blocco (tipo Irlanda del Nord). In teoria potrebbero circolare liberamente per la città, ma a proprio rischio e pericolo.

Gli hazara di Quetta

E la comunità internazionale?

Quanto alla comunità internazionale – Usa e Unione europea in particolare – non sembra aver mai mostrato particolare interesse per le vicende di tale minoranza che in quanto sciiti venivano – e vengono – considerati potenziali alleati di Teheran. Così come, coincidenza o analogia, all’epoca nessuno mostrò particolare interesse per la “primavera” sciita nel Barhein (repressa con l’intervento di Arabia Saudita e Qatar e il tacito assenso dell’Occidente).

E invece l’Iran «non ci aiuta, cerca piuttosto di infiltrarci e controllarci tramite la religione».

O almeno così sosteneva, ritengo a ragion veduta, in una conferenza stampa Khaliq Hazara.

Comunque, proseguiva «grazie ai finanziamenti di Teheran, gruppi filoiraniani come Tehreik-e-NifazFiqa-e-Jafria avevano aperto a Quetta dozzine di scuole coraniche, ma noi siamo laici e lottiamo per la giustizia sociale, la democrazia, il rispetto della vita umana e la tolleranza».

Ricordando che «i due milioni di hazara (in gran parte rifugiati dall’Afghanistan N. d. A.) che vivono in Iran sono trattati come cittadini di serie C». In qualche modo ostaggi dei conflitti di influenza tra l’Iran sciita e l’Arabia saudita sunnita (e non si può escludere che talvolta i responsabili vadano individuati tra i beluci sunniti).

Le violenze continuano anche in Afghanistan

Ai nostri giorni le violenze ai danni degli sciiti hazara, delle loro scuole e luoghi di culto proseguono inesorabili.

Per esempio, nel settembre dell’anno scorso, un attentato suicida (rivendicato da Wahhabi Daesh e da Lashkar-e- Jhangvi) ha causato più di venti morti e oltre cinquanta feriti in un mercato.

Quest’anno, il 3 gennaio, 11 membri della comunità hazara sono stati prima sequestrati e poi assassinati dall’Isis nella città di Machh. Si trattava di minatori qui emigrati – spinti dalla miseria – da Daikondi (Afghanistan).

Le famiglie delle vittime avevano espresso la loro rabbia manifestando nelle strade contro il governo (definito “complice”). Addirittura si rifiutavano di seppellire i morti come forma di protesta per la mancata protezione.

Anche se poi, come hanno dichiarato alcuni familiari: «alla fine dovremo seppellirli e non avremo altra scelta che chiedere ai nostri parenti in Afghanistan e all’estero di aiutarci a pagare». Una ulteriore umiliazione per chi versa in condizioni di estrema povertà. Peraltro da entrambe le parti della Durand Line.

E non sono certo bastate a placare gli animi le pubbliche dichiarazioni – di circostanza – venute da vari esponenti dell’apparato politico-militare al potere. Comprese quelle del primo ministro Imran Khan che in varie occasioni ha espresso solidarietà alle vittime.

Nessuna risposta, nessuna protesta

Amnesty International ha condannato con forza le molteplici violazioni dei diritti umani subite dagli hazara. In particolare ha chiesto che «il capo di Stato maggiore dell’esercito venga a Quetta per vedere di persona la miseria e le difficoltà del popolo hazara».

Senza – almeno per ora – ricevere risposta.Tutto questo, ripeto, nel paese che un sempre maggior numero di scanzonati turisti benestanti d’alta quota (il cui livello di consapevolezza sociale e ambientale lascia quantomeno a desiderare) ha individuato come “parco giochi spettacolare”. Invece di boicottarlo come ai vecchi tempi si faceva con il Sudafrica dell’apartheid.

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Occhi sull’India: agricoltori uniti contro le riforme agricole https://ogzero.org/occhi-sull-india-agricoltori-uniti-contro-le-riforme-agricole/ Tue, 09 Feb 2021 00:51:09 +0000 http://ogzero.org/?p=2396 L’inverno è una stagione produttiva Per gli agricoltori in India, è la stagione del rabi, in cui vengono coltivati alimenti essenziali come grano, orzo, lenticchie, piselli e patate, tra gli altri. Poiché le colture di rabi hanno bisogno di un clima caldo per germogliare e di un clima freddo per crescere, vengono piantate durante la […]

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L’inverno è una stagione produttiva

Per gli agricoltori in India, è la stagione del rabi, in cui vengono coltivati alimenti essenziali come grano, orzo, lenticchie, piselli e patate, tra gli altri. Poiché le colture di rabi hanno bisogno di un clima caldo per germogliare e di un clima freddo per crescere, vengono piantate durante la stagione dei monsoni e raccolte in primavera. Questo inverno, tuttavia, gli agricoltori di tutta l’India sono stati costretti a lasciare i loro campi e le risaie per dedicarsi a un diverso tipo di lavoro. Sono passati più di due mesi da quando si sono accampati ai confini di Delhi in una dharna indefinita. Sebbene dharna possa essere semplicemente tradotto con “sit-in”, in hindi il termine non implica solo l’occupazione fisica dello spazio ma anche un esercizio di perseveranza: fissare la propria mente su un obiettivo o risultato chiaro. In termini di applicazione pratica, una dharna di solito si svolge alla porta di un delinquente o di un debitore ed è uno strumento mediante il quale le componenti più vulnerabili della società possono costringere un soggetto più potente a rispondere alle loro richieste. Per esempio, una dharna potrebbe essere messa in scena al di fuori dell’ufficio di un esattore delle tasse, del capo di una azienda o della casa di un proprietario. Nel caso della protesta dei contadini, il colpevole sembra essere il governo centrale che, mentre presiedeva gli uffici parlamentari di Delhi, ha approvato una serie di progetti di legge che ribaltano completamente il modo in cui si regola l’agricoltura in India.

Il punto cruciale delle 3 proposte di legge può essere riassunto come segue:
  • La creazione di nuovi spazi commerciali che aggirano le restrizioni esistenti sulla vendita e l’acquisto di prodotti agricoli.
  • L’abilitazione dell’agricoltura a contratto con obblighi minimi (a differenza dell’attuale accordo, gli agricoltori saranno in grado di commerciare in diversi stati).
  • La rimozione delle restrizioni sulle scorte di merci essenziali (il che significa che i grandi acquirenti possono trarre profitto dall’accumulazione).

Gli agricoltori devono essere consapevoli dei molteplici fattori che influenzano la crescita, la resa e il commercio dei raccolti. Ciò include la conoscenza della maturità del raccolto, delle variazioni del clima e della qualità del suolo, nonché il prezzo di fertilizzanti e benzina, e anche fattori logistici come la disponibilità di strutture di trasporto e stoccaggio. In questo modo, l’agricoltura è un’attività che comporta molti rischi e variabili che vanno oltre il solo lavoro degli agricoltori. Capire questo aiuta a chiarire meglio perché le nuove riforme proposte dal governo indiano stanno subendo una così feroce resistenza da parte di coloro che hanno passato tutta la vita a lavorare la terra. Nonostante la retorica neoliberale usata per persuadere gli agricoltori – per esempio che le nuove riforme garantiscano loro una maggiore “libertà” di vendere a qualunque prezzo vogliano e farla finita con l’“uomo di mezzo”, l’intermediario – gli agricoltori temono che l’apertura di uno spazio di mercato parallelo, come propone il primo disegno di legge, porterà inevitabilmente al crollo del sistema mandi attualmente in vigore.

Il sistema mandi: aste regolamentate e consolidate

In India, i mandi sono spazi d’asta regolamentati in cui i prodotti agricoli vengono acquistati e venduti in base a una serie di accordi specifici dello stato. In questi spazi, i commercianti all’ingrosso e al dettaglio non possono acquistare direttamente dagli agricoltori e le transazioni vengono invece effettuate tramite commercianti autorizzati che fungono da salvaguardia contro lo sfruttamento dei prezzi. Il sistema mandi dovrebbe anche garantire agli agricoltori un prezzo minimo di sostegno (Msp) per determinate colture, ovvero un prezzo al quale lo stato deve acquistare i loro prodotti. Ciò garantisce che il lavoro del raccolto non vada sprecato, sebbene gli agricoltori dicano che spesso finiscono comunque per ricevere un prezzo al di sotto del minimo. Anche se da tempo gli agricoltori chiedono riforme nel sistema, sono convinti che la soluzione non sia abolirlo. In stati come il Bihar, dove i mandi sono già stati sciolti con il pretesto di promesse simili, ciò ha solo portato a una maggiore volatilità dei prezzi dei cereali e alla monopolizzazione dei mercati da parte delle grandi aziende agricole. Gli agricoltori del Bihar, che sono tra i più poveri del paese, riferiscono anche che le loro scorte possono rimanere inutilizzate per mesi senza ricevere alcun pagamento e che sono spesso costretti a vendere a prezzi poco convenienti per liberarsene.

Non c’è libertà a meno che non ci venga garantito un prezzo minimo o garantita la possibilità di far sentire la nostra voce all’alta corte o alla Corte Suprema. Ora hanno detto (secondo le nuove proposte di legge) che puoi solo andare all’Sdm (tribunale inferiore) e, come sappiamo, l’Sdm appartiene a chi ha i soldi.

 

“Consapevolezza e determinazione contadina: resistere all’annientamento identitario di Modi”.
La riforma si abbatte sui piccoli agricoltori…

L’elenco delle complicazioni che circondano le leggi è ampio. In India, gli agricoltori piccoli e marginali (che possiedono meno di due ettari di terra) costituiscono l’86,2% di tutti gli agricoltori, ma possiedono solo il 47,3% della superficie coltivata. Inutile dire che questi agricoltori sono destinati a essere colpiti in modo peggiore rispetto ai proprietari terrieri più grandi e probabilmente, a lungo termine, saranno costretti a vendere la loro terra. Tuttavia, anche queste statistiche trascurano una quota fondamentale della forza lavoro agricola: le donne. A causa del fatto che l’agricoltura è vista prevalentemente come una professione “maschile”, le donne sono troppo spesso escluse dalla narrazione sull’agricoltura indiana. Questo nonostante il fatto che le donne rappresentino la maggioranza dei lavoratori agricoli complessivi (70%) e tendano anche a lavorare più ore rispetto agli uomini, pur possedendo solo il 12,8% dei terreni agricoli. Le donne contadine, a cui raramente viene concesso il potere decisionale in famiglia – per non parlare del potere di negoziare con le grandi compagnie – saranno senza dubbio quelle che soffriranno di più a causa dei nuovi accordi agricoli dell’India. Oltre a dover affrontare l’espropriazione economica (con scarse possibilità di occupazioni alternative), dovranno anche sostenere il peso di gestire la carenza di cibo in casa, che è quasi inevitabile se alle imprese viene consentito di accumulare beni essenziali.

… e la mobilitazione parte dal Punjab

“Canto punjabi di protesta a Delhi”.

A differenza del lavoro agricolo e del suo collegamento ai cicli stagionali, il lavoro dei governi fascisti è più in sintonia con i cicli di crisi e opportunità. E quale migliore opportunità per approvare una serie di proposte di legge contro i poveri, contro le donne e contro gli agricoltori che nel bel mezzo di una crisi sanitaria globale? Tuttavia, nel rendersi conto di alcuni dei modi in cui gli agricoltori rischiano di soccombere, quelli dello stato del Punjab (il terzo più grande stato produttore di colture in India) sono stati tra i primi a mobilitarsi dopo che le leggi sono state promosse in parlamento lo scorso settembre. Avendo avuto luogo senza alcuna consultazione pubblica o il coinvolgimento esplicito dei governi statali, molte persone hanno anche sottolineato che le leggi erano completamente incostituzionali. Tuttavia, dopo due mesi di proteste locali e nessuna risposta da parte del governo centrale, i contadini del Punjab hanno deciso di lanciare un appello per assaltare la capitale, portando le loro lamentele direttamente al parlamento. Con lo slogan #dillichallo (andiamo a Delhi), la chiamata è stata sostenuta dagli agricoltori del vicino stato di Haryana che si sono uniti a loro sulle autostrade. È solo dopo essere arrivati ai confini di Delhi che i contadini sono stati fermati dalla polizia pesantemente armata e dalle forze di azione rapida (Raf). Eppure qualcosa di incredibile era già avvenuto nel processo.

Trattori indiani

Blocco di Delhi per impedire una riforma che cancella la già immiserita agricoltura delle piccole aziende

Creare ostacoli nell’anno del Covid rinfocola una reazione collettiva

Dopo essersi lasciati andare all’arresto indiscriminato di studenti attivisti durante tutto l’anno, oltre a smantellare le leggi sul lavoro e le politiche di protezione ambientale, i conti con le aziende agricole era forse solo un altro obiettivo che il governo di Modi pensava di poter raggiungere all’ombra della pandemia. Dal punto di vista di quelli di noi impegnati nei sit-in della capitale, forse inizialmente sembrava anche così. Tuttavia, mentre gli agricoltori del Punjab si facevano strada verso di noi, siamo rimasti incollati ai nostri feed dei social media e alle possibilità politiche che si stavano aprendo davanti ai nostri occhi. Le autostrade dell’India sono state improvvisamente trasformate in un palcoscenico per eroici atti di disobbedienza, con video di persone che lanciavano transenne della polizia nel fiume e trattori che tiravano via lastre di cemento che proliferavano nello spazio digitale. Facendosi strada tra cannoni ad acqua e lanci di gas lacrimogeni, i contadini erano riusciti a capovolgere la situazione: non era l’indebolimento della marcia, ma la brutalità dello stato che, appunto, veniva smascherato. Penetrando attraverso la dissoluzione e la depressione politica che annebbiano i nostri cuori, tali scene ci hanno lasciato sbalorditi. Una battaglia era certamente iniziata, e mentre il governo era impegnato a scavare buche nella strada, ogni ostacolo che i contadini riuscivano a superare alimentava solo ulteriormente lo spirito collettivo.

All’inizio abbiamo sentito che Delhi è così lontana, cosa faremo una volta arrivati? Ma ogni trattore e camion ha riempito da 5 a 10.000 rupie di diesel per arrivare qui perché sappiamo che se non prendiamo una posizione ora, non saremo in grado di stare in piedi.

Una volta raggiunta Delhi, anche gli agricoltori di molti altri stati dell’India hanno cominciato ad affluire, insieme agli studenti, ai sindacati dei trasporti e agli alleati di diversi settori. Dormire dieci per un camion, al riparo di una stazione di servizio abbandonata, o in tende improvvisate tra pneumatici di trattori e carrelli, attualmente occupano cinque principali autostrade che portano in città. L’atmosfera è gioiosa, con cucina, giochi di carte, discorsi e kirtan dal vivo (canto devozionale) che si svolgono l’uno accanto all’altro. Secondo la pratica sikh, numerose cucine comunitarie (langar) sono state istituite in tutto il sito e chiunque e tutti i passanti sono incoraggiati a sedersi e mangiare. Con rifornimenti freschi in arrivo dai villaggi del Punjab e dell’Haryana ogni giorno, i contadini si vantano di avere abbastanza da sfamare se stessi e l’intera Delhi. Nei primi giorni della dharna, l’India ha anche assistito al più grande sciopero della storia mondiale, con oltre 250 milioni di lavoratori che si sono schierati a sostegno degli agricoltori. Sotto la bandiera di #bharatbandh (chiusura dell’India), si sono svolte marce in varie città del paese, con canti di kisaan majdoor ekta zindabad (lunga vita all’unità dei contadini e dei lavoratori) che hanno riempito le strade. «L’intero paese si è riunito. Se Modi non avesse fatto questa legge non avremmo saputo della situazione degli agricoltori in luoghi diversi. Non saremmo stati in grado di unirci … ora non puoi fare distinzioni anche tra di noi!».

Contadini indiani

Gli agricoltori indiani scesi a bloccare la capitale

Ambiente vs. neoliberismo

Tuttavia le attuali proteste dovrebbero essere viste come il punto di svolta all’interno di una lunga storia di disagio agrario, che è stato solo esacerbato da quando Modi è salito al potere nel 2014. Un’indicazione di ciò risiede nei tassi catastrofici di suicidio degli agricoltori in India, con oltre 20.000 agricoltori che hanno riferito di essersi tolti la vita tra il 2017 e il 2019: stress finanziario legato a prestiti predatori, alti oneri del debito e la pressione che ciò esercita sui rapporti personali sono stati identificati come tra le ragioni principali. Naturalmente ci sono anche fattori meno percettibili di cui tenere conto. Gli agricoltori in India, come nel resto del mondo, sono in prima linea nella crisi climatica e i cambiamenti nelle condizioni meteorologiche e delle precipitazioni hanno avuto effetti devastanti sui raccolti. Anche le politiche di pianificazione in India trascurano ampie aree rurali, dedicando invece risorse statali allo sviluppo di economie produttive e di servizi. Di conseguenza, i sindacati degli agricoltori si sono da tempo organizzati in tutto il paese, con azioni particolarmente intense in risposta alle successive politiche neoliberiste introdotte con Modi. Oltre alla mobilitazione sindacale, è necessario riconoscere che gran parte della forza dietro l’attuale agitazione proviene dagli agricoltori sikh della regione del Punjab, per i quali l’agricoltura è parte integrante dell’identità culturale. Dopo aver subito la divisione del Punjab (la loro patria originale) nel 1947, e un genocidio per mano dello stato indiano nel 1984, anche la comunità sikh è stata sistematicamente cacciata e detenuta per decenni come parte delle guerre segrete dell’India contro le sue “minacce alla sicurezza” percepite. Questa storia di lotta e il particolare rapporto con lo stato indiano da questa generato rafforza il movimento contro le tattiche di divisione dello stato. Per questa ragione, tra le diverse bandiere sindacali, si trova anche la Nishaan Sahib (una bandiera Sikh) che viene issata. Tra le varie fazioni di contadini, si trovano anche Nihang Sikh che si prendono cura dei loro cavalli e praticano le loro abilità con la spada. In qualità di esercito ufficiale della comunità sikh, si sono schierati in prima linea sulle barricate, direttamente di fronte alla polizia e alle forze della Raf.

Fanno volare i droni sul sito ogni giorno per guardarci e tenere d’occhio il movimento.

Ma vedi quel Baaj [falco] nel cielo? Appartiene al Nihang. Abbiamo la nostra sicurezza, vedi.

Nonostante i molteplici round di colloqui tra leader sindacali e funzionari governativi, la situazione rimane in una condizione di stallo politico. Gli agricoltori da un lato sono risoluti a non accettare niente di meno del ritiro completo delle fatture e hanno inoltre richiesto che l’Msp sia convertito in legge per tutte le colture e in tutti gli stati, poiché questo è l’unico modo per garantire la sua corretta attuazione. Il partito al potere, d’altra parte, è impegnato nelle sue campagne di propaganda, dipingendo gli agricoltori come separatisti militanti o come confusi sui termini delle fatture. Collaborando con la polizia, ha anche inviato assassini pagati (che sono stati catturati dai manifestanti) per eliminare i leader sindacali e molti altri recentemente, hanno usato scagnozzi assunti per lanciare pietre contro i manifestanti e abbattere le loro tende. Tuttavia, fino ad ora, a ogni attacco è stato risposto da un numero ancora maggiore di agricoltori arrivati sul posto. In un paese di oltre 1,3 miliardi di cui il 70 per cento dei mezzi di sussistenza sono legati all’agricoltura, i numeri sono uno dei maggiori punti di forza che gli agricoltori hanno.

Anche la mia figlia più piccola mi dice di non tornare a mani vuote: «Legate Modi e portatelo di nuovo qui (in Punjab) su un trattore».

Eppure l’inverno è anche la stagione più dura

Soprattutto i mesi di dicembre e gennaio in cui le temperature quest’anno sono scese fino a 1° Celsius a Delhi. È importante notare che la stragrande maggioranza di coloro che sono accampati alle frontiere sono anziani, molti dei quali anche affetti da malattie croniche. Tra i 170 contadini martirizzati dall’inizio delle proteste a settembre, molti sono morti a causa della loro esposizione al freddo e all’esaurimento generale. Altri sono morti per incidente stradale o suicidio. Tuttavia, la dharna rimane incrollabile. Tutti gli agricoltori intervenuti hanno detto che non avevano intenzione di andarsene fino a quando le loro richieste non saranno soddisfatte, non importa quanti mesi o anni questo può richiedere. In tal modo, gli agricoltori spesso si riferivano a vite oltre la loro; dei loro figli, nipoti e pronipoti a venire. In India, la terra non costituisce solo fonte di reddito e sicurezza sociale, ma è anche profondamente implicita nella nozione di famiglia. Quindi rappresenta un senso di continuità; una promessa tra antenati e generazioni future quella attuale generazione di agricoltori intende mantenere.

“Modi ascolta!”.
A partire dal 29 gennaio, il governo indiano ha chiuso i servizi Internet nei vari siti di protesta situati ai confini di Delhi. Anche l’elettricità e l’acqua sono state interrotte e le punte di ferro sono state cementate sulla strada per impedire l’arrivo di altri manifestanti. Con il dispiegamento della sicurezza intensificato alle frontiere e il crescente arresto e detenzione di giornalisti, la Fortezza Delhi è l’ultima strategia per isolare gli agricoltori e reprimere il movimento. Adesso è un momento critico. Questo governo è guidato da un uomo che ha già commesso due massacri sponsorizzati dallo stato. Abbiamo bisogno di occhi sull’India.

Traduzione di Masha e Nicola

[L’articolo non riporta i cognomi dell’autrice e dei traduttori per preservare la loro libertà e integrità]

Fotografie di Mohd Abuzar Chaudhary

e di Amit

[l’articolo sarà pubblicato in inglese sul prossimo LavaLetters]

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L’armata rurale assedia la Grande Delhi https://ogzero.org/assedio-a-delhi/ Sat, 23 Jan 2021 15:27:12 +0000 http://ogzero.org/?p=2281 Chi avrebbe mai detto che una protesta di agricoltori avrebbe creato un problema politico capace di mettere in imbarazzo il governo di Narendra Modi, in India. Eppure è proprio così. Da due mesi la capitale indiana Delhi è assediata da una moltitudine di coltivatori e lavoratori agricoli. Sono centinaia di migliaia di persone venute soprattutto […]

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Chi avrebbe mai detto che una protesta di agricoltori avrebbe creato un problema politico capace di mettere in imbarazzo il governo di Narendra Modi, in India. Eppure è proprio così. Da due mesi la capitale indiana Delhi è assediata da una moltitudine di coltivatori e lavoratori agricoli. Sono centinaia di migliaia di persone venute soprattutto dai grandi stati della pianura indogangetica ma in parte anche dal resto dell’India. Dalla fine di novembre sono accampati intorno alla Grande Delhi; chiedono l’abrogazione di tre nuove leggi che liberalizzano il mercato agricolo, approvate lo scorso settembre dal parlamento nazionale in gran fretta e senza dibattito. Sono determinati: hanno resistito prima alle cariche di polizia e poi al freddo invernale.

Una prova di forza

Ora, dopo undici round di incontri inconclusivi con rappresentanti del governo, le trattative sono rotte. Il governo offre di sospendere l’applicazione delle leggi contestate per 12 o 18 mesi, ma non tratterà altro. I coltivatori ripetono che non se ne andranno finché quelle leggi non saranno abrogate.

Si prepara una prova di forza. I rappresentanti degli agricoltori confermano una “marcia dei trattori” il 26 gennaio, giorno della festa delle Repubblica, quando a Delhi si svolge un’imponente parata militare. Il governo sperava di evitarlo: ma la Corte Suprema, interpellata, ha rifiutato di emettere un divieto. La dimostrazione di potenza dell’India “emergente” oscurata da un’armata rurale.

Vivere della terra

Un movimento popolare così ampio ha spiazzato il governo. La protesta dei coltivatori è stata descritta dai grandi media indiani come la rivolta di un gruppo sociale che vive di sovvenzioni di stato e teme di perdere i propri privilegi: rappresentanti di un vecchio mondo assistito che frenano le riforme necessarie a modernizzare un settore agricolo inefficiente e insostenibile. Come ha ripetuto il primo ministro Modi, le nuove leggi «liberano gli agricoltori indiani», che potranno finalmente competere sul mercato. Molti hanno sottolineato che in fondo l’agricoltura fa solo il 16 per cento del Prodotto interno lordo indiano, una fetta marginale rispetto all’industria e soprattutto i servizi cresciuti negli ultimi vent’anni. Dimenticano però di aggiungere che il 55 per cento della forza lavoro è occupata in agricoltura, e anche neppure questo dato riflette la realtà: 800 milioni di persone, su un miliardo e 300 milioni di indiani, vivono direttamente o indirettamente della terra. La protesta dell’India rurale mette in imbarazzo il governo perché ogni dirigente indiano sa che la terra e i coltivatori restano la base della società e della legittimità politica della nazione.

Sette campi di protesta, sette città temporaneee

Chi ha visitato i sette campi di protesta che circondano la Grande Delhi infatti ha raccolto una storia ben diversa da quella raccontata dai media mainstream.
La scena. Le prime colonne di trattori e camion sono arrivate dagli stati del Punjab e dell’Haryana a nord-ovest della capitale federale. Bloccati dalla polizia al confine del territorio di Delhi (è un Territorio dell’Unione, come un ministato), si sono accampati là, in località Singhu. Altre colonne di protesta sono arrivate dall’Uttar Pradesh e dal Bihar a est, e in parte dal Rajasthan a ovest; delegazioni sono giunte dal Maharashtra (lo stato con capitale Mumbai) e dal Kerala a sud. Poco a poco sono sorti ben sette siti di protesta: il più grande, a Singhu, si estende per oltre dieci chilometri. Come città temporanee popolate da uomini e donne, vecchi e giovani. Ci sono caste rurali e anche Dalit (i fuoricasta, lo scalino più basso della gerarchia sociale indiana).

L'assedio di Delhi

Gli accampamenti nella Grande Delhi (foto da Kisan Ekta Morcha)

La solidarietà palpabile

Secondo un’inviata di “The Wire”, «l’ossatura della protesta sono contadini senza terra e coltivatori marginali», parola che indica una misura precisa: le proprietà agricole “marginali” sono quelle sotto un ettaro, “piccole” quelle sotto i due ettari. Secondo il censimento agricolo, in India l’86 per cento degli agricoltori sono appunto marginali e piccoli, vivono su meno di due ettari di terra; nel Punjab, da cui vengono molti dei manifestanti, un terzo delle proprietà sono sotto due ettari e un altro terzo sotto 4 ettari. l’India rurale è fatta di una miriade di piccolissimi produttori. Gli accampamenti sono organizzati per resistere. I rimorchi dei camion sono diventati alloggi di fortuna. Altri hanno montato tende. Centinaia di cucine da campo servono cibo a tutti, di ogni religione o casta. «In ogni sito di protesta il livello di organizzazione e il senso di solidarietà, è palpabile», riferisce un inviato del magazine “Frontline”. Intorno agli agricoltori si è costituita una rete di solidarietà; attivisti sociali hanno organizzato dispensari medici e dormitori in edifici pubblici; sono state allestite lavanderie, perfino biblioteche.

L'assedio di Delhi

Un agricoltore manifestante in preghiera durante la protesta a Dehli (foto Im_rohitbhakar)

L’atmosfera oscilla tra la resistenza e la festa popolare, con decine di assemblee pubbliche, eventi culturali, lezioni, musica. Le notti d’inverno però sono gelide nell’India settentrionale. C’è notizia di numerose persone morte di ipotermia, o infarto o altro.

Protesta diffusa: le comunità sono unite

Ma nonostante tutto la protesta continua, e questo è possibile perché ha un retroterra. In Punjab, secondo numerose testimonianze, da ciascuno dei 13.000 villaggi sono partite delegazioni di decine di persone, coltivatori e anche maestri di scuola, camionisti, rappresentanti dei municipi rurali.
«In Punjab c’è un’insurrezione», scrive un’inviata del giornale online “The Wire”, che in una sola provincia di questo grande stato ha contato 68 sit-in permanenti, grandi e piccoli. Descrive comizi e raduni pubblici, e raccolte di viveri, coperte, tende da mandare a quelli che sono andati a Delhi. I manifestanti si alternano; c’è chi torna a casa per occuparsi del raccolto mentre altri danno il cambio. «Tutte le comunità sono unite», spiegano alcuni manifestanti.
Al movimento partecipano circa 500 organizzazioni di agricoltori e sindacati rurali, raggruppati n 40 organizzazioni ora raggruppate in un coordinamento. «Il governo pensa che i coltivatori oggi siano la massa impotente e ingenua descritta dalla letteratura preindipendenza. Ma i coltivatori oggi hanno assorbito l’eredità del movimento per la libertà [il movimento anticoloniale nella prima metà del Novecento], i giovani hanno ereditato quello spirito», spiega a “Frontline” un agricoltore ed ex soldato nel sito di Ghazipur, a est di Delhi. Non per nulla tra cartelli e volantini riemerge il volto di Bhagat Singh, leggendario leader socialista rivoluzionario novecentesco.

Assedio a Delhi

L’arrivo in città dei manifestanti da ogni parte del paese (foto da Kisan Ekta Morcha)

Il contrasto alla propaganda governativa

«Abbiamo capito che bisognava contrastare la propaganda che rimbalza sulla tv e sui social media», spiega (sempre a “Frontline”) un giovane ingegnere informatico impegnato nella protesta: con un piccolo gruppo di volontari ha creato una piattaforma elettronica che mette online conferenze stampa quotidiane, interviste, testimonianze: si chiama Kisan Ekta Morcha, è divenuta la grancassa del movimento.
Ai primi di dicembre il governo aveva offerto qualche emendamento alle leggi contestate, se i manifestanti avessero sgomberato le strade. Ma quando questi hanno rifiutato di tornare a casa prima di ottenere la revoca di quelle leggi, il governo li ha accusati di essere facinorosi, estremisti, “khalistani” – riferimento al movimento separatista armato che negli anni Ottanta si batteva per uno stato indipendente in Punjab, il Khalistan. Per questo tra i cartelli comparsi nei siti di protesta molti dicono «siamo coltivatori, non terroristi».
Il movimento dunque continua. È rimasto unito, e pacifico. La prima vittoria l’ha avuta quando, il 20 dicembre, la Corte Suprema ha chiesto al governo di sospendere l’applicazione delle leggi contestate e aprire il dialogo. Le foto dei primi incontri ritraggono i rappresentanti delle 40 organizzazioni rurali intorno a un lunghissimo tavolo, con i rappresentanti di tre ministeri del governo centrale (agricoltura, commercio, ferrovie). Da parte governativa però si sono presentati solo junior ministers, l’equivalente di sottosegretari, figure senza potere decisionale: non i ministri titolari e tantomeno il primo ministro. Benché incalzato da un nuovo intervento della Corte Suprema nella prima settimana di gennaio, il governo Modi continua a prendere tempo.

I “mercati regolamentati”: la posta in gioco

Cosa è in gioco? In estrema sintesi, il sistema di regolamentazioni statali che dagli anni Sessanta del secolo scorso offre qualche protezione ai coltivatori indiani.
La prima delle tre leggi contestate infatti permetterà di commercializzare la produzione agricola al di fuori dei mercati all’ingrosso statali (mandi), attualmente regolamentati dagli Agricultural Produce Market Committees, Apcm. Secondo il governo è una riforma che «aprirà nuove opportunità per tutti i coltivatori», perché moltiplica i possibili compratori per i loro raccolti e li “libera” dalla burocrazia e dagli intermediari. Ma non ha convinto gli agricoltori: i quali temono che sul “libero mercato” non saranno loro a fissare i prezzi, bensì i grandi acquirenti. Temono anche di perdere altri servizi essenziali oggi offerti dai mercati di stato, tra cui i silos e gli anticipi per le sementi.
Le altre leggi contestate aboliscono i limiti allo stoccaggio di derrate agricole, salvo casi di emergenza (era una norma antiaccaparramento): ma così, secondo i critici, i grandi traders potranno comprare derrate quando la produzione è abbondante e immagazzinarle per metterle sul mercato quando più conviene. La terza legge infine promuove la “coltivazione a contratto”, cioè la possibilità di stipulare contratti tra l’agricoltore e il futuro compratore. Il governo sostiene che questo darà sicurezza ai coltivatori, perché sapranno che il futuro raccolto è piazzato a un prezzo pattuito in anticipo. Molti agricoltori conoscono già questo sistema, e sono scettici.
Il punto è che i “mercati regolamentati” fanno parte del sistema che include il prezzo minimo di supporto (Msp), a sua volta funzionale al Sistema pubblico di distribuzione (Pds), con cui lo stato fornisce alimenti di base a prezzi calmierati a tutti gli indiani, in particolare ai più poveri. È un intero sistema creato negli anni Sessanta per garantire un prezzo equo ai produttori e allo stesso tempo assicurare l’accesso al cibo a tutti i cittadini. È questo che oggi è in gioco.

La crisi ecologica

La Rivoluzione verde è finita. Il Prezzo minimo è sorto con la rivoluzione agraria basata sulle varietà ibride “ad alto rendimento” di grano e poi di riso arrivate negli anni Sessanta e Settanta. In India la “rivoluzione verde” ha avuto successo grazie alla fertilità della pianura indogangetica e alle sue abbondanti riserve idriche sotterranee. Convinti dalle rese abbondanti, e dalla garanzia che lo stato avrebbe comprato i raccolti a un prezzo stabilito, gli agricoltori sono passati alle nuove sementi. In Punjab e Haryana grano e riso hanno rapidamente sostituito ogni altra coltura: da poco meno di metà della superficie coltivata nel 1970, a oltre l’80 per cento nel 2010. Già negli anni Novanta l’India era passata da importare cibo a esportarne.
Ormai però il suolo fertile e l’acqua abbondante sono esauriti. In Punjab la falda freatica cala in media di 33 centimetri l’anno, tanto che va cercata con pozzi sempre più profondi, ed è spesso inquinata da residui di fitofarmaci e concimi azotati. I suoli sono sempre meno produttivi. Eppure Punjab e Haryana restano il “granaio” dell’India, grazie alle pompe che estraggono l’acqua rimasta e un grande uso di concimi: nei quarant’anni trascorsi tra il 1978 e il 2019 la produzione di grano e riso in Punjab è aumentata del 134 per cento (da 126 a 285 milioni di tonnellate), ma il consumo di fertilizzanti è aumentato oltre il 600 per cento (da 4,2 a 27,2 milioni di tonnellate: riprendo i dati dall’economista Prem Shankar Jha).
La conseguenza è duplice. Da un lato, l’India produce grandi surplus alimentari che ha cominciato a esportare. Dall’altro però la monocoltura intensiva ha innescato una spaventosa crisi ecologica. E questo ha anche fatto calare la produttività e salire le spese di produzione.

Liberalizzazione vs insostenibilità?

I sostenitori della liberalizzazione argomentano che il prezzo minimo e i numerosi sussidi di stato ormai perpetuano un’agricoltura insostenibile, ha creato una classe di coltivatori dipendenti dalle sovvenzioni, disincentiva a diversificare le colture. Altri, tra cui Jha, fanno notare che molti coltivatori hanno già diversificato, anche in quelle regioni “granaio”, e coltivano ortaggi per il mercato urbano, o altre derrate: ma proprio per questo sanno già cosa significa essere in balia del “libero mercato”. Mentre nessun governo ha mai tenuto la promessa di investire in infrastrutture, magazzini refrigerati o altro a sostegno del mercato agricolo, e devono affidarsi a intermediari che hanno un potere spropositato.
Il sistema è insostenibile? Molti in India, anche tra gli oppositori alle leggi oggi contestate, concordano che il meccanismo dei mercati regolamentati va rivisto. Che quei Comitati di gestione (i succitati Agricoltural Produce Market Committees) in cui sono rappresentati enti locali e organizzazioni di agricoltori riflettono molti dei vizi della società più generale, dalle divisioni di casta e di classe, alle azioni di lobby di vari interessi, alla burocrazia. E però «non c’è dubbio che continuano a mitigare l’arbitrarietà dei prezzi e limitare le malversazioni ai danni dei coltivatori», osserva un editoriale di “Frontline”.

Il surplus di produzione tra esportazione e interessi privati

È anche vero che i silos della Food Corporation of India (ente di stato) straboccano di derrate: quasi 28 milioni di tonnellate di riso e 55 milioni di tonnellate di grano alla fine di giugno 2020, ben 42 milioni di tonnellate più di quelle che sono considerate riserve strategiche. Così l’India ha cominciato a esportare riso (12 milioni di tonnellate l’anno scorso) e grano (circa 6 milioni di tonnellate destinate a mangimi animali). Prem Shankar Jha osserva che, dai dati ufficiali, quel riso è stato venduto sul mercato internazionale a poco più di 7 miliardi di dollari, con un profitto di 4,18 miliardi di dollari rispetto al “prezzo mimino di supporto” che lo stato aveva pagato ai coltivatori. Fin troppo facile la conclusione: «Gli immediati beneficiari [della liberalizzazione] saranno i grandi esportatori a cui la Food Corporation venderà i suoi surplus» a poco più del prezzo minimo, conclude Jha. Tra i manifestanti è convinzione diffusa che tra questi i beneficiari abbiano un nome: le imprese di Mukesh Ambani e di Gautam Adani, due multimiliardari molto legati al primo ministro Modi (i quali smentiscono di avere interessi nel mercato agricolo). Non a caso in tutto il Punjab le proteste hanno preso di mira stazioni di benzina e ripetitori dei telefonini del gruppo Reliance (di Ambani), o i silos refrigerati del gruppo Adani.

La protesta attuale è solo una parte del problema

Forse è vero, la protesta di queste settimane rappresenta solo una parte del complesso mondo rurale indiano. Il sistema dei mercati regolamentati e del prezzo minimo in effetti riguarda solo riso e grano (il progetto di estenderlo ad altre derrate non è mai decollato), e non copre le zone più periferiche. Mentre la gran parte dei coltivatori – di cereali, cotone, ortaggi o altro – è già in balia del libero mercato: di intermediari che stabiliscono le regole; di grossisti che fissano prezzi e standard. Degli usurai a cui devono chiedere anticipi per comprare sementi e concimi. Delle oscillazioni dei mercati e del clima.
Senza contare che gran parte dell’India rurale, quella più marginale, coltiva per la sussistenza, non rientra nel computo economico, e dipende dall’uso delle terre comuni. È la parte più penalizzata dall’inarrestabile accaparramento di terre avvenuto negli ultimi trent’anni per permettere l’espansione di miniere, fabbriche e grandi imprese agro-industriali.
Gli agricoltori che assediano Delhi non hanno l’aspetto di “privilegiati”. Sono convinti che le tre leggi contestate siano il preludio ad abolire anche il Prezzo minimo e smantellare quel che resta del sistema di redistribuzione costruito negli anni postindipendenza: e allora sarà peggio non solo per loro ma per tutta l’India rurale. La posta in gioco è proprio questa.

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Il piatto mare-monti tra Cina e Usa https://ogzero.org/il-piatto-mare-monti-tra-cina-e-usa/ Tue, 14 Jul 2020 13:25:48 +0000 http://ogzero.org/?p=462 Anche il recente scontro tra Delhi e Pechino va ricondotto a una battaglia più grande nella regione indo-pacifica. Un gioco globale su più tavoli soprattutto tra Usa e Rpc che passa persino per gli abiti talari Il faccia a faccia sino-indiano iniziato a maggio sulle vette himalayane, da sempre teatro di tensione per la questione […]

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Anche il recente scontro tra Delhi e Pechino va ricondotto a una battaglia più grande nella regione indo-pacifica. Un gioco globale su più tavoli soprattutto tra Usa e Rpc che passa persino per gli abiti talari

Il faccia a faccia sino-indiano iniziato a maggio sulle vette himalayane, da sempre teatro di tensione per la questione del Kashmir e per le mai sopite rivendicazioni di confine tra India e Cina, ha registrato la notte del 15 giugno il primo scontro violento tra i due eserciti da quasi 50 anni a questa parte seppur senza l’uso di armi da fuoco. Il bilancio dei morti resta incerto ma, nonostante le dichiarazioni che da ambo le parti, sostengono di voler riportare la questione nell’ambito di una pacifica e diplomatica risoluzione del contenzioso, la tensione resta elevata. E rischia di farla aumentare anche nelle relazioni sempre tese tra Delhi e Islamabad, alleata di Pechino.

Lo scontro economico tra Cina e India

Dietro allo scontro ci sono molti fattori che non riguardano solo i confini ma il confronto tra due grandi potenze mondiali – India e Cina – e, più in generale, la guerra dell’egemonia globale dove si affacciano ovviamente altri attori, soprattutto gli Stati Uniti (la Russia appare in Asia su posizioni arretrate). Con il premier Narendra Modi, l’India ha avuto una sterzata fortemente anticinese di cui si è avuta prova quando Delhi ha fatto fallire, nel novembre 2019, l’accordo di libero scambio Rcep: è l’acronimo del Partenariato economico globale regionale proposto nella regione indo-pacifica da dieci stati del Sudest asiatico riuniti nell’Asean e Australia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud e appunto India. Fu la paura dei beni a basso prezzo cinesi sul mercato indiano a preoccupare Delhi. Uno spettro riassunto dalla giornalista indiana Barkha Dutt, autrice di This Unquiet Land: Stories from India’s Fault Lines (non a caso sul “Washington Post”) a commento degli scontri al confine sull’Himalaya, a oltre 4000 metri di altezza e lungo la Linea di controllo (Line of Actual Control: Lac) che fa da confine tra India e Cina. «Il deficit commerciale dell’India con la Cina è di 53 miliardi di dollari», scrive, aggiungendo che sarebbe «un suicidio consentire alla Cina di avere libero accesso ai mercati e ai consumatori indiani mentre costruisce strade e infrastrutture attraverso le parti del Kashmir occupate dal Pakistan».

Dall’altro lato del confine, in Pakistan, prevale la prudenza ma un editoriale di “The Dawn” del 18 giugno chiarisce come la vedono a Islamabad: «Sfortunatamente, l’India ha una storia di bullismo nei confronti dei suoi vicini e cerca di giocare a egemone regionale. Il Pakistan ha da tempo sottolineato la necessità di affrontare la questione del Kashmir al tavolo negoziale, una posizione che l’India ha arrogantemente respinto». Un fatto che purtroppo, al di là delle responsabilità anche pachistane nel conflitto, ha un fondo di verità.

Non solo riflessi regionali

Ovviamente, un conflitto tra Cina e India non ha solo riflessi regionali. Se tocca i vicini come il Pakistan, rientra nel grande gioco internazionale e non è difficile capire dunque come gli Stati Uniti possano servirsene nella neoguerra fredda, soprattutto commerciale, con Pechino. Una guerra fredda commerciale e a parole ma che, come vedremo, è anche armata. È un elemento che desta preoccupazione in tutta l’Asia come ha scritto ai primi di giugno su “Foreign Affairs” Lee Hsien Loong, primo ministro di Singapore: «L’Asia ha prosperato – scrive – perché la Pax Americana dalla fine della Seconda guerra mondiale ha fornito un contesto strategico favorevole. Ma ora, la travagliata relazione tra Stati Uniti e Cina solleva profonde domande sul futuro dell’Asia e sulla forma dell’ordine internazionale emergente».

Ma oltre alle montagne ci sono soprattutto i mari. La regione del Pacifico, o meglio dell’Indo-Pacifico (come ora viene chiamata), comprende la Cina, il Mar cinese orientale e il Mar Cinese meridionale, tutti i paesi che vi si affacciano (dal Giappone all’Indonesia) e il Golfo del Bengala, territorio marino presidiato dall’India che lo ritiene il suo cortile di casa acquatico. I mari sono vie di collegamento commerciali fondamentali, luoghi di caccia, presidi militari e infine riserve energetiche, come rivela la querelle sulle isolette Paracel e Spratly. Su tutta una serie di atolli cinesi a tutti gli effetti, Pechino ha allestito piste di atterraggio, magazzini, baracche militari e il contenzioso su Paracel e Spratly, rivendicati da più nazioni, ha fatto salire il livello di allarme ormai da anni. La storia è antica perché Pechino rivendica un’area estesa per circa mille miglia dalle sue coste e la controlla con navi militari, aerei e pescherecci. Una forza di pressione che nel 2018 obbligò Hanoi – che ha rivendicazioni territoriali in quello specchio di mare assieme a Malaysia, Brunei, Filippine e Taiwan – a sospendere i progetti di trivellazione petrolifera della spagnola Repsol. A fine aprile 2020 tra l’altro, il Vietnam ha protestato con Pechino contro l’istituzione di due distretti sull’isola cinese di Hainan col compito di governare Paracel e Spratly.

Piccole isole grandi problemi

Il contenzioso, come dicevamo, preoccupa un po’ tutti: i più teneri con Pechino sono i filippini, i più agguerriti sono i vietnamiti. E non è un caso se Hanoi stringe relazioni sempre più forti con Washington che sono invece ai minimi storici con Manila. Ma la partita è molto più ampia: la Nuova Via della Seta (Belt Road Initiative) si basa anche su un “filo di perle” marittime che sono i porti di Chittagong in Bangladesh, Sihanoukville in Cambogia, Hambantota in Sri Lanka e Gwadar in Pakistan più altri progetti (in Myanmar, Thailandia…) per la costruzione di nuove infrastrutture portuali e in alcuni casi anche militari. Una recente analisi di “Al Jazeera” ha fatto i conti in tasca alla potenza militare marittima cinese: fregate, portaerei, sottomarini, pattugliatori (acquistati ma sempre più costruiti in loco) con una forza militare navale di circa 100000 uomini, la seconda al mondo dopo gli Stati Uniti (quasi il doppio) e subito prima della Corea del Sud.

Gli americani non sono rimasti a guardare. Nell’area è dislocata la Settima flotta, la più grande di quelle dispiegate dalla marina statunitense con oltre 50-70 navi e sottomarini, 140 aerei e circa 20000 marinai in grado di reagire rapidamente. Il Comando generale dell’area (Usindopacom) conta infine oltre 370000 uomini tra personale di terra, aria, mare. Proprio recentemente sono state rafforzate una serie di manovre di pattugliamento, sorveglianza, osservazione che hanno innervosito i cinesi. Un esercizio muscolare mentre si scaldava il dossier Covid-19, il caso Hong Kong e quello mai chiuso su Taiwan.

Washington scalda i muscoli

L’idea di potenziare la difesa americana nel Pacifico ha cominciato per altro a circolare ai primi di aprile di quest’anno quando le conclusioni di un rapporto dell’ammiraglio Phil Davidson, a capo del Comando Usindopacom, hanno chiesto al Congresso 20 miliardi di dollari per rafforzare operazioni navali, aeree e terrestri nella regione (sistemi d’arma, logistica, training, intelligence…). Nel giro di 15 giorni la richiesta è diventata una proposta di legge, presentata al Congresso il 23 aprile dal repubblicano Mac Thornberry a capo dell’Armed Services Committee della Camera, comitato con compiti di sorveglianza su Pentagono, servizi militari e agenzie del Dipartimento della Difesa, compresi budget e politiche. Falco texano, Thornberry presenta la “Indo-Pacific Deterrence Initiative” come il corollario orientale necessario della “European Deterrence Initiative” che, per controbilanciare l’espansionismo russo a occidente, ha già messo sul tavolo fino al 2021 oltre 26 miliardi di dollari. Nel progetto di legge se ne chiedono più di sei per la sola regione indo-pacifica e per il solo 2021 con un piano che probabilmente arriverà ai 20 miliardi chiesti dall’ammiraglio Davidson nel giro dei prossimi esercizi finanziari.

Naturalmente, come nel “dialogo” tra Cina e India, anche in quello tra Usa e Cina le manifestazioni pubbliche sono sempre “costruttive”. Ma gli incontri faccia faccia danno più la sensazione che gli avversari vogliano soprattutto studiarsi più che mettersi realmente d’accordo. Ne sembra la prova il summit di metà giugno (la battaglia indo-cinese era appena avvenuta) tra il diplomatico cinese Yang Jiechi e il segretario di stato americano Mike Pompeo che si sono incontrati il 17 giugno per un colloquio alle Hawaii preparato in gran segreto, sembra soprattutto per volontà americana. Ma la montagna ha partorito un topolino. Al di là di dichiarazioni assai vaghe, le indiscrezioni emerse a seguito dell’incontro dicono chiaramente che l’unico fatto positivo è semmai che l’incontro c’è stato. Un incontro durato sette ore con cena. Taiwan, Hong Kong e la repressione nello Xinjiang avrebbero dominato il summit – definito appunto “costruttivo” – tra Mike Pompeo e Yang Jiechi. Pechino si sarebbe impegnata a migliorare il suo rapporto con Washington – ha scritto il ben informato “South China Morning Post” – ma avrebbe anche avvertito gli Stati Uniti che la Rpc difenderà risolutamente i suoi interessi. Alla fine l’incontro sembra aver solo offerto la prova di un desiderio condiviso di impedire che i rapporti si inaspriscano ulteriormente. Un modo forse per poter continuare a studiare l’avversario. Gli americani del resto hanno ottenuto che l’incontro si tenesse in un luogo non proprio neutro: le Hawaii dove è dislocato il Comando di Usindopacom in un momento in cui gli americani hanno rafforzato un esercizio muscolare navale davvero bizzarro se si vuole raffreddare il rapporto con la Cina. Un esercizio rafforzato da atteggiamenti sempre più anticinesi dell’alleato australiano e della Nuova Zelanda.

 

La guerra con la tonaca

Ma il virus della guerra Cina/Usa non passa solo dalle accuse di aver strumentalizzato l’Oms, dal quadrante marittimo del Pacifico o dalle battaglie sul commercio e, seppur indirettamente, dalle schermaglie sulle vette himalayane. Ci sono risvolti più o meno aperti e manovre più o meno sotterranee come rivela un caso recente che riguarda Hong Kong, tallone d’Achille della Rpc. “UcaNews”, la più diffusa e potente agenzia cattolica in Asia ha scritto recentemente che il cardinale Zen e il vescovo Ha Chi-shing, due leader religiosi cattolici di Hong Kong che non hanno mai nascosto il loro sostegno ai movimenti nell’ex colonia: «potrebbero essere inviati nella Cina continentale per essere processati» dopo che la nuova proposta legislativa sulla sicurezza a Hong Kong voluta da Pechino è diventata legge. Si tratta in realtà più di un’ipotesi che di una probabilità reale, ma quel che è certo è che i due prelati sono invisi alla Rpc per aver sempre remato contro. Zen, in particolare, che cercò di boicottare persino lo storico accordo tra Pechino e Santa Sede (Accordo Provvisorio sulla nomina dei Vescovi) firmato il 22 settembre 2018 sotto il pontificato di papa Francesco. Fu l’atto che segnava l’inizio della fine della guerra tra Roma e Pechino sulla cosiddetta Chiesa parallela (per cui la Cina sceglieva i vescovi e Roma non li riconosceva) e l’avvio di future relazioni diplomatiche tra i due paesi. Ora che anche l’ultimo vescovo è stato riconosciuto, la deportazione di Zen e Ha Chi-shing manderebbe all’aria la faticosa ma ben avviata riconciliazione tra i due stati.

La bozza ufficiale della legge sulla sicurezza nell’occhio del ciclone non è ancora ufficiale e il suo corpus dovrebbe essere approvato dal Comitato Centrale del Partito entro luglio ma, scrive l’agenzia cattolica: «Il dettaglio più recente – cioè che la Cina ha la possibilità di decidere di processare gli accusati in continente – è emerso in una conferenza a Shenzhen il 15 giugno», quando Deng Zhonghua, vicedirettore del gabinetto di Hong Kong e dell’ufficio affari di Macao, ha spiegato che «in circostanze molto speciali, il governo centrale manterrà la giurisdizione su alcuni casi che coinvolgono atti criminali che mettono gravemente a repentaglio la sicurezza nazionale». Da questo agli arresti di Zen ce ne corre: la mossa – che farebbe del cardinale un martire – inasprirebbe inutilmente i rapporti in via di sempre maggior distensione tra Rpc e Vaticano e non farebbe comodo a nessuno dei due: «probabilmente – dice una fonte vaticana – piacerebbe agli americani che hanno sempre ostacolato il processo e hanno sempre sostenuto Zen. C’è una partita geopolitica più ampia intorno ai rapporti tra Rpc e Santa Sede e che fa anche parte della guerra tra Washington e Pechino».

I piccoli tasselli del grande gioco

Joseph Zen Ze-kiun (classe 1932) è stato il sesto vescovo di Hong Kong ed è cardinale dal 2006. Molto duro con la Cina si è sempre esposto anche dopo che nel 2009 si è ritirato per limiti di età, senza per altro perdere influenza. Joseph Ha Chi-shing è uno dei quattro vescovi ausiliari di Hong Kong che assistono il cardinale John Tong Hon nella gestione della diocesi, al cui posto Zen avrebbe invece voluto il suo pupillo. Non sono gli unici ferventi anticinesi nel mondo cattolico asiatico. Recentemente, suscitando stupore e imbarazzo, si è schierato anche il cardinale Charles Bo, arcivescovo di Yangon e presidente della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche. In una lettera a proposito del Covid-19 apparsa il 2 aprile proprio su “UcaNews” ha accusato la Cina di «atteggiamento negligente, in particolare il suo dispotico partito… Attraverso la sua gestione disumana e irresponsabile, il Pcc ha dimostrato ciò che molti pensavano in precedenza: che è una minaccia per il mondo». Musica per le orecchie di Zen e per quelle di Washington. Probabilmente anche per quelle di Narendra Modi.

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