Penisola arabica Archivi - OGzero https://ogzero.org/regione/penisola-arabica/ geopolitica etc Fri, 03 Jan 2025 00:18:40 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Le missioni di Peacekeeping. 3: la guardia al bidone di Unifil in Sudovest asiatico https://ogzero.org/le-missioni-di-peacekeeping-3-la-guardia-al-bidone-di-unifil-in-sudovest-asiatico/ Thu, 02 Jan 2025 21:47:02 +0000 https://ogzero.org/?p=13568 Con questa terza puntata si conclude per ora lo studio di Fabiana Triburgo sulla giurisprudenza internazionale che regola le missioni dell’Onu e che esemplarmente sono state analizzate nelle due puntate precedenti in Congo (Monusco) e nei Balcani (Unmik). La missione oggetto di studio è una delle più citate negli ultimi tempi, ma l’intera  sua storia […]

L'articolo Le missioni di Peacekeeping. 3: la guardia al bidone di Unifil in Sudovest asiatico proviene da OGzero.

]]>
Con questa terza puntata si conclude per ora lo studio di Fabiana Triburgo sulla giurisprudenza internazionale che regola le missioni dell’Onu e che esemplarmente sono state analizzate nelle due puntate precedenti in Congo (Monusco) e nei Balcani (Unmik). La missione oggetto di studio è una delle più citate negli ultimi tempi, ma l’intera  sua storia è stata travagliata, perché finché la diplomazia internazionale era regolata dai principi scaturiti dall’equilibrio scaturito con la fine della Seconda guerra mondiale Unifil aveva posto un apparente argine al neocolonialismo ebraico.


Risoluzione 1701: La ventennale Blue Line dell’Unifil libanese

Mediante il medesimo meccanismo è stato istituito il Tribunale speciale per il Libano creato nel 2007 dalle Nazioni Unite con il governo libanese. L’accordo tuttavia non è stato ratificato dal parlamento libanese per cui l’attività del tribunale è stata imposta dal Consiglio di Sicurezza ex Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite con Risoluzione n. 1757 del 30 maggio 2007. Anche in Libano, terreno nel quale ancora oggi si scontrano Israele ed Hezbollah, è schierata dal 2006 una forza di pace delle Nazioni Unite: l’Unifil (United Nation Interim Force in Lebanon) per quasi vent’anni era riuscita a evitare che tra i due opposti schieramenti si verificassero più gravi eventi che avrebbero potuto far degenerare la situazione. Tuttavia i recenti scontri tra Hezbollah (o “Partito di Dio”) e Israele hanno portato a far riflettere più stati – a livello internazionale – sulla necessità di ritirare i propri soldati dalla Missione. La missione Unifil in realtà è stata originariamente istituita nel 1978 (Risoluzione n. 425/426) per confermare il ritiro delle forze israeliane, ripristinare la pace internazionale e assicurare che il governo del Libano riprendesse l’effettivo esercizio della sua autorità territoriale nell’area. Successivamente, nel 1982, con la Risoluzione n. 501 la missione è stata implementata e potenziata al fine di garantire la protezione e l’assistenza umanitaria alla popolazione. Il 1982 infatti è l’anno della prima guerra israelo-libanese, iniziata mediante l’operazione “Pace in Galilea” condotta da Israele per sradicare dal Sud del Libano la presenza di palestinesi armati che ipotizzava si nascondessero tra i profughi proseguendo poi fino a Beirut, città nella quale aveva sede l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina). Con l’intervento sotto il patrocinio delle Nazioni Unite si è cercato quindi di evitare un’ulteriore escalation della guerra per cui si è agevolata la partenza da Beirut per Tunisi del presidente dell’Olp Arafat e dei suoi uomini, costringendo gli altri appartenenti alle forze armate palestinesi a riversarsi nelle città limitrofe. Nel 2000 con il ritiro delle forze israeliane, la missione Unifil – mantenendosi nuovamente sul ripristino della pace e della sicurezza internazionale – è divenuta una missione di monitoraggio e di osservazione. Così nello stesso anno è stata istituita dalle forze dell’Onu la Blue Line ossia la demarcazione del confine tra i due stati lunga circa 51 chilometri come limite del ritiro delle forze militari israeliane dal Sud del Libano. Nel 2004 con la Risoluzione n. 1559 il Consiglio di Sicurezza ha richiesto il rigoroso rispetto dell’integrità territoriale e dell’indipendenza del Libano chiedendo ufficialmente il completo ritiro delle forze militari israeliane dal paese nonché il disarmo di tutte le forze militari sul campo, libanesi e non. Il 2006 invece è l’anno del secondo conflitto israelo-libanese iniziato con l’offensiva di Hezbollah contro una pattuglia dell’esercito israeliano e proseguito con la violenta reazione di Israele che aveva lo scopo di neutralizzare l’intero apparato di Hezbollah. È in questo contesto che l’11 agosto del 2006 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu è intervenuto con la Risoluzione n. 1701 che ha imposto l’immediata cessazione delle ostilità, il ritiro di Israele dal Sud del Libano, il supporto allo spiegamento delle forze libanesi in tutto il Libano meridionale, la garanzia dell’accesso umanitario alla popolazione civile, l’assicurazione del ritorno volontario e sicuro degli sfollati, nonché l’assistenza al governo libanese per impedire l’accesso irregolare di armi e per  proteggere i suoi confini. Infatti ancora oggi lo scopo della missione Unifil è quello di presidiare la cosiddetta “Blue Line”, ossia quella zona cuscinetto nella quale è consentito solo all’esercito libanese e ai peacekeepers dell’Onu di possedere armi ed equipaggiamento militare.

La Risoluzione n. 1701 è stata rinnovata ad agosto del 2024 con la quale il Consiglio di Sicurezza ha mantenuto per Unifil lo stesso mandato della Risoluzione del 2006 ma prolungandolo fino ad agosto 2025. Alla fine di settembre del 2024 tuttavia le Forze di difesa Israeliane (Idf) hanno ucciso un numero di persone equivalente a un mese di combattimenti nell’estate del 2006: tra la notte di domenica 22 settembre e martedì 24 settembre le vittime libanesi sono state oltre 550. L’obiettivo di Netanyahu è indebolire Hezbollah e il suo alleato iraniano per eliminare la minaccia dei razzi sul nord di Israele e quello di offrire a decine di migliaia di civili israeliani, sfollati da oltre un anno, di tornare alle proprie case. Non solo, Israele vuole costringere Hezbollah a ritirarsi dal fiume Litani a circa 40 chilometri dalla Blue Line che separa gli schieramenti militari in quanto non esiste ancora un confine internazionale riconosciuto tra il Libano e Israele. Il “Partito di Dio” dalla fine di ottobre del 2023, in seguito all’inizio della guerra israelo-palestinese, ha affermato di voler aderire al fronte anti-israeliano per accelerare la fine del progetto coloniale sionista aprendo il valico del Sud del Libano e dando sostegno a Hamas e ai palestinesi. Tuttavia, a partire dall’estate del 2024 lo stato israeliano perpetra l’assassinio di diversi capi di Hezbollah. In primo luogo, viene ucciso da Israele Fuad Situkr, alto comandante di Hezbollah e successivamente Hassan Nasrallah, storico leader alla guida di Hezbollah che ha visto il gruppo trasformarsi da una fazione di guerriglia alla forza politica più potente del Libano.
Netanyahu ha anche eliminato altri miliziani del partito facendo esplodere migliaia di “cerca persone” e “walkie talkie”, in loro dotazione, dando l’ordine di esecuzione mentre si trovava a New York presso il palazzo delle Nazioni Unite. Infine, il 30 settembre 2024 l’esercito israeliano è entrato direttamente in Libano con carri militari oltrepassando la Blue Line.

La forza Onu di mantenimento della pace ha ribadito che «qualsiasi attraversamento della linea blu viola la sovranità e l’integrità territoriale del Libano nonché la Risoluzione n. 1701 del 11 agosto 2006 dopo la guerra tra il Libano e Israele».

Da qui l’attacco israeliano contro le basi dell’Onu nel Sud del Libano, il 13 ottobre 2024. L’attacco è avvenuto dopo che nei giorni precedenti Israele ha chiesto alle truppe Unifil di spostarsi 5 km più a nord ma i soldati della missione hanno deciso di non muoversi. Con un comunicato ufficiale l’Unifil – rispetto all’attacco subito – ha dichiarato che un carro armato israeliano ha sparato contro una torretta di osservazione di una delle basi della missione più precisamente a Naqura, facendo cadere due operatori di pace di nazionalità indonesiana che sono stati ricoverati in ospedale. È stata inoltre ripetutamente colpita dalle forze militari israeliane la base principale della missione di pace sempre a Naqura.

Si ricorda che attualmente la missione Unifil – impiegata nel sud del Libano – conta oltre diecimila soldati provenienti da cinquanta paesi di cui sedici dell’Unione europea. Netanyahu ha affermato che l’Unifil deve evacuare il Sud del Libano poiché ritiene che i militari stiano fornendo «uno scudo umano ad Hezbollah». Nel novembre del 2024 c’è stato un secondo attacco alla missione con tre distinte operazioni militari mediante razzi (la prima verso il quartier generale dell’Unifil a Shama, la seconda colpendo una base della missione a Ramyet e l’ultima verso una pattuglia Unifil nei pressi del villaggio Kharbat Silim). Dopo il terzo attacco contro l’Unifil mediante il lancio di due razzi contro la “base UNP2-3” di Shama, nelle prime ore del 22 novembre 2024, l’Unifil ha dichiarato che gli ultimi due attacchi alla missione «sono avvenuti per opera di attori non statali presenti sul territorio libanese». Tuttavia si ricorda che la Missione non ha capacità sovrana, Hezbollah non ha interesse a collaborare con le Forze Onu e Israele non ha fiducia che questa possa assicurare la liberazione dal Libano meridionale dalla presenza di Hezbollah. In tale ottica solo il Consiglio di Sicurezza – che tuttavia, come noto, ha posizioni contrastanti al suo interno rispetto a tale conflitto – può dissuadere lo Stato ebraico dall’intensificare i suoi attacchi contro Unifil.

Per ora la comunità internazionale si accontenta dell’accordo del cessate il fuoco raggiunto alla fine di novembre 2024 tra i miliziani di Hamas e il governo israeliano ma emerge tutta l’impotenza dell’impianto Onu a fronteggiare effettivamente le guerre internazionali per cui quella Carta redatta all’indomani della Seconda guerra mondiale, più che un coercitivo impedimento affinché la pace e la sicurezza internazionale non vengano mai violate, sembra essere un nostalgico ricordo scritto di intenti e di speranze spesso smentito dalla realtà dei fatti.

L'articolo Le missioni di Peacekeeping. 3: la guardia al bidone di Unifil in Sudovest asiatico proviene da OGzero.

]]>
L’equilibrista di Ankara sul filo del conflitto mediorientale https://ogzero.org/lequilibrista-di-ankara-sul-filo-del-conflitto-mediorientale/ Thu, 25 Apr 2024 20:18:45 +0000 https://ogzero.org/?p=12587 Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati […]

L'articolo L’equilibrista di Ankara sul filo del conflitto mediorientale proviene da OGzero.

]]>
Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati risolutivi per lo Stato ebraico e così si assiste al particolare dinamismo da parte di molti attori locali, in particolare di Erdoğan.
La diplomazia turca e il presidente stesso hanno intrapreso un tourbillon di incontri presso i vertici degli stati che compongono la regione mediorientale, proponendosi come mediatore, cercando di raccogliere il testimone lasciato cadere dal Qatar, logorato dal boicottaggio israeliano. Ma soprattutto Erdoğan ha individuato nel conflitto che si vuole estendere dal confronto tra Stato ebraico e Repubblica islamica la nuova centralità dell’Iraq, controllato da Teheran attraverso una ragnatela di accordi con la complessità delle formazioni e delle comunità che abitano il territorio iracheno; insinuandosi nei contrasti interni, il presidente turco mira al petrolio di Erbil e a cacciare il Pkk dai monti del Kurdistan iracheno… Murat Cinar dispiega la sottile tela che si va tessendo, in particolare ricostruendo il ruolo turco e l’avvicinamento di Hamas (evidentemente più rassicurato dall’abbraccio di Ankara – contemporaneamente paese Nato e rivale di Israele – che non dalle petrocrazie arabe) sia nella complessa carneficina della guerra ormai esportata nel resto dei paesi all’interno dei quali le presenze filoiraniane dettano la politica, sia nella strategia per inserirsi nel controllo del territorio e dell’energia irachena, comprandosi Baghdad ed Erbil. E di nuovo, come spesso ci ha raccontato Cinar, spuntano gli oleodotti di Barzani [a proposito: l’immagine in copertina è la fortezza di Erbil pavesata a festa per l’arrivo del presidente turco]  e le dighe su Tigri ed Eufrate, le acque del Medioriente…


Erdoğan è vicino a tutti

 

“Da oltre cento anni, le acque nel Medioriente non trovano pace”, questo è un dato certo. Tuttavia, proprio nelle ultime settimane, siamo testimoni di un fenomeno straordinario. Un fenomeno che coinvolge diversi attori, ma tra essi uno spicca particolarmente: la Turchia.

Dal 7 ottobre fino a oggi, le relazioni tra il partito al governo in Turchia, l’Akp, e l’organizzazione armata Hamas, sono diventate una questione internazionale, chiara e trasparente. L’esponente più autorevole dello stato turco e del partito al potere da oltre vent’anni, ovvero il presidente della Repubblica, dopo alcune settimane di silenzio dal 7 ottobre, ha deciso di comunicare la sua posizione: «Hamas è un’organizzazione di patrioti, non un’organizzazione terroristica». Così, dopo l’Iran, la Turchia è diventata il secondo paese al mondo a esprimere un avvicinamento così netto a Hamas.


Una posizione che entra in contraddizione con i partner europei, con gli alleati Nato, nonché con la Lega Araba e l’Organizzazione della Cooperazione Islamica. In fondo, non si tratta di una novità assoluta. La linea politica ed economica rappresentata dall’Akp è sempre stata vicina ai movimenti fondamentalisti come i Fratelli Musulmani e a una serie di formazioni armate religiose nel Medio Oriente. Inoltre Hamas ha sempre trovato accoglienza, sostegno e riconoscimento presso l’Akp e sotto l’ala protettiva del presidente della Repubblica di Turchia. Tuttavia, questa esposizione così netta, in pieno conflitto, non ha provocato reazioni, sanzioni o embarghi da parte dell’UE e/o della Nato. Poche settimane dopo, nel mese di dicembre, il mondo ha appreso, grazie alle inchieste giornalistiche di Metin Cihan, che persino per Israele non costituiva un grande problema, poiché Tel Aviv continuava a fare acquisti presso aziende turche, incluse quelle statali.

Affannosamente al centro di ogni possibile accordo

Nel mentre Ankara ha tentato diverse volte di assumere il ruolo di “mediatore”, anche se finora senza successo; tuttavia, oggi sembra che questi sforzi stiano finalmente portando dei risultati. Il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha incontrato in Qatar il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, proprio quando Doha stava per abbandonare il suo ruolo di mediatore. Infatti il primo ministro del Qatar, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, il 16 aprile aveva comunicato a Fidan che il suo governo stava per rinunciare. Tuttavia il tentativo del Ministro turco sembra poter ottenere dei risultati positivi. Le dichiarazioni di Fidan ci offrono spunti di riflessione su una serie di scenari:

«Come ho costantemente riferito ai nostri alleati occidentali, Hamas è a favore di uno stato palestinese basato sui confini del 1967 e, una volta creato, è disposto a rinunciare alle armi e a intraprendere la via della politica parlamentare», ha affermato Fidan. Tale dichiarazione prevede anche il riconoscimento di Israele da parte di Hamas, la possibilità di porre fine al conflitto armato, il rilascio degli ostaggi e lo scambio di detenuti politici. Si tratterebbe dell’inizio di una nuova era: «Questo segna il cammino verso la creazione di uno stato palestinese», ha concluso Fidan.

Quando e perché viene fuori una dichiarazione del genere?

Potrà una comunità fondarsi su un altro genocidio come quello di Gaza senza essere una caserma come lo Stato ebraico… o la Repubblica turca?

Senza dubbio il massacro a Gaza ha esaurito innanzitutto i principali protagonisti. Ci troviamo di fronte a un governo sionista, rappresentato da Benjamin Netanyahu, che sta perdendo sempre più il sostegno interno. Da mesi ormai, le strade di Israele sono attraversate da manifestazioni che chiedono le dimissioni di Bibi. In realtà, non è una novità, considerando che nel 2023 Israele aveva già vissuto un lungo periodo di proteste contro il governo per le sue proposte di cambiamento radicale del sistema giudiziario. Oggi Netanyahu è impegnato in una guerra che non sta producendo risultati. Gli ostaggi sono ancora in mano a Hamas, molti sono morti (anche a causa dell’esercito israeliano), e il governo israeliano continua a perdere sostegno a livello internazionale. Le critiche severe che giungono da Washington non sono sporadiche, soprattutto attraverso il più importante esponente politico degli Stati Uniti, ovvero Biden, che tra pochi mesi dovrà affrontare delle elezioni cruciali, dove la situazione israeliana avrà sicuramente un ruolo di rilievo.

Sintonie politico-militari tra leader nazionalisti-identitari

Quindi l’avvicinamento di Ankara a Hamas e il tentativo di portarla eventualmente al tavolo dei negoziati, ottenendo il riconoscimento dello Stato di Israele, la creazione di uno stato palestinese indipendente e il rilascio degli ostaggi, sicuramente portano all’Akp un notevole vantaggio politico. Biden si libera dalla pressione politica e mediatica avvicinandosi alle elezioni, mentre Ankara appare come un mediatore con un canale privilegiato verso un gruppo armato che ha legami diretti solo con l’Iran, attualmente molto isolato.
Infatti, proprio in questi giorni il presidente della Repubblica di Turchia ha paragonato Hamas alla formazione armata che ha fondato la Turchia, la Kuva-i Milliye (anche se con profili ideologici decisamente diversi). Lo stesso parallelo era stato tracciato dallo stesso presidente per l’Esercito Libero Siriano nel 2018, un gruppo di jihadisti che aveva supportato le forze armate turche nelle loro operazioni in Siria. Oggi Erdoğan sembra cercare di presentarsi nuovamente come l’unico intermediario per le organizzazioni terroristiche, a servizio della Nato, dell’Europa e persino di Israele. Non va dimenticato il tentativo di costruire un rapporto diretto con i Talebani nel 2021, quando Erdoğan disse:

«Abbiamo un pensiero ideologico molto simile».

Questo avvenne proprio mentre il mondo era sconvolto dalla fuga degli americani dall’Afghanistan e il ritorno dei Talebani al potere.

Tattiche e affari turchi; accoglienza senza schierarsi

Quindi Hamas rappresenta una nuova opportunità per Ankara, forse anche per garantire un certo sostegno a Bibi. Nonostante gli attriti e le dichiarazioni aspre, Erdoğan e Netanyahu hanno sempre mantenuto un rapporto commerciale molto proficuo, in costante crescita. Anche durante il conflitto, secondo il report dell’Istituto di Statistica turco, Tuik, il volume degli scambi commerciali tra Ankara e Tel Aviv è aumentato del 20%. Tra i prodotti venduti troviamo tutto il necessario per sostenere l’occupazione e l’invasione. Chi altro potrebbe offrire un aiuto così significativo a Netanyahu, in difficoltà al punto da tentare di coinvolgere persino l’Iran in una guerra?

Sì, l’accoglienza diretta e il sostegno a Hamas da parte di Ankara avvengono proprio mentre nel mondo crescono le preoccupazioni riguardo a una possibile guerra tra Iran e Israele.

Tattiche e affari iraniani, intrecci speculari con quelli israeliani

In questo momento di difficoltà interna e internazionale il governo israeliano decide di colpire le postazioni diplomatiche iraniane presenti in Siria, il 1° aprile. Ovviamente sarebbe stato assurdo pensare che l’Iran non avrebbe reagito. Ma in che modo e con quali tempi?

Teheran ha atteso ben due settimane prima di reagire. In Israele l’ansia era palpabile: si sono verificate lunghe code nei supermercati, la popolazione era pronta per la guerra e le critiche nei confronti di Netanyahu si erano intensificate. Tuttavia Teheran, considerando la propria situazione economica e l’instabilità politica interna da anni, non poteva permettersi una vera guerra. Alla fine sono stati lanciati più di 300 razzi/droni verso Israele, ma nessun bersaglio civile è stato colpito e solo una persona è rimasta ferita. Era prevedibile che Tel Aviv avrebbe neutralizzato questo attacco con il suo avanzato sistema di sicurezza? Forse sì. Allora, a cosa è servito tutto ciò?
Innanzitutto Teheran non è rimasto in silenzio dopo l’attacco subito, ha dimostrato al mondo che in qualche modo avrebbe potuto tentare di colpire Israele. Dopo il 7 ottobre, e per la prima volta dopo anni, uno stato ha cercato di colpire Israele mentre tutti i paesi del Golfo osservavano ciò che accadeva a Gaza. Israele ha fermato l’attacco grazie ai suoi alleati, non da solo. In primo luogo la Giordania, poi le forze americane e inglesi hanno dato una mano a Tel Aviv. Quindi, per il governo israeliano, questa non è una vittoria ottenuta da solo.

Inoltre per Israele potrebbe essere stato un tentativo, forse, di spostare l’attenzione da Gaza a Teheran. Forse cercava di coinvolgere gli Stati Uniti in questa guerra, o di ottenere nuovi alleati in un eventuale conflitto futuro. Alla fine della giornata, chi non ha qualche problema con l’Iran? Tuttavia, secondo fonti dell’agenzia di stampa Axios, Bibi non ha ottenuto il sostegno che si aspettava da Biden. «You got a win. Take the win» sarebbe stato il riassunto della posizione del presidente statunitense. In altre parole: “mo’ basta, non ti sostengo più”. Ora Israele molto probabilmente si sta preparando a colpire l’Iran. Non sappiamo ancora in che modo, ma Tel Aviv non è l’unico a cercare di mettere in discussione la presenza dell’Iran in quella zona in questi giorni. Anche Ankara sta cercando di eliminare Teheran dall’Iraq.

Affari e opportunità, rimestando nel caos iracheno

Lorenzo Forlani ci aiuta a inquadrare la mezzaluna sciita: “No “Mena” Land: lo strame di 30 anni di proxy war in MO”.

Erdoğan e l’ossessione anticurda

Pochi giorni prima delle elezioni amministrative tenutesi in Turchia il 31 marzo, una significativa delegazione turca si era recata a Baghdad, ottenendo un risultato di rilievo grazie alla firma di un accordo storico. Con questo accordo, il governo iracheno esprimeva la sua solidarietà ad Ankara nella “lotta contro il Pkk” e prometteva di impegnarsi anche militarmente in questa missione. Oggi è giunto il momento di valutarne i risultati.

Dodici anni dopo il presidente della Repubblica di Turchia si è recato in Iraq il 22 aprile per incontrare il governo centrale a Baghdad e successivamente gli esponenti dell’Amministrazione autonoma del Kurdistan a Erbil. Quali sono gli elementi in gioco e qual è il coinvolgimento dell’Iran?
Uno dei principali problemi che Baghdad fatica ad affrontare è quello economico. Infatti, nel mese di marzo di quest’anno, l’Iraq ha avviato il progetto della “Strada dello Sviluppo”, che prevede il coinvolgimento diretto della Turchia per una serie di prodotti, sfruttando anche la sua posizione geografica strategica. La “Development Road” sarebbe importante anche per diventare un’alternativa per una serie di paesi e aziende occidentali che negli ultimi tempi hanno incontrato difficoltà nel Mar Rosso, una zona controllata da Ansar Allah (Houthi), cioè dall’Iran. Quella formazione armata che spesso impedisce alle navi commerciali di attraversare la zona. Quindi si tratta di un progetto che avrebbe l’ambizione, almeno in parte, di minare il potere politico ed economico di Teheran. Naturalmente l’attuazione del progetto renderà la Turchia un attore importante, che sembra voler approfittare di questa occasione per introdurre ulteriori elementi nel gioco.

E l’ambigua ossessione antiraniana per conto dell’energivoro Occidente

Infatti tra i temi discussi da Erdoğan durante la visita in Iraq c’è anche il consolidamento dell’alleanza diretta per combattere il Pkk, una formazione armata definita “terroristica” dalla Turchia, con alcune sue basi e numerosi vertici situati proprio in Iraq. In questo contesto è importante ricordare che da circa tre anni, durante gli incontri tra Ankara e Baghdad, si discute anche di una possibile collaborazione per eliminare la formazione armata Hashdi Shabi dal territorio iracheno. Questo rappresenterebbe un nuovo gesto contro l’Iran, dato che l’organizzazione in questione è stata costantemente sostenuta e armata da Teheran ed è stata sempre considerata una “minaccia per la sicurezza nazionale” da parte di Baghdad. Pertanto unire la lotta contro il Pkk a quella contro l’Hashdi Shabi potrebbe diventare una missione comune per questi due paesi confinanti.

Quindi, per Ankara, l’attuazione del progetto “Development Road” rappresenta anche un’opportunità per trasformare Baghdad in un vero alleato nella sua missione di contrastare e forse distruggere il Pkk. Dopo che Baghdad ha definito il Pkk “un’organizzazione terroristica” nel mese di marzo, ora non ci sarebbero più ostacoli per avviare le operazioni militari. È importante considerare che un Iraq sicuro, non soggetto a bombardamenti da parte di nessuno, libero dal conflitto armato tra Pkk e Ankara e infine libero dalla presenza iraniana, consentirebbe a tutte le aziende europee e statunitensi di operare “in pace”. Pertanto l’operazione economica e militare proposta da Ankara non gioverebbe solo ai suoi interessi. Infatti, proprio il giorno dell’arrivo di Erdoğan in Iraq, il portavoce dell’Association of the Petroleum Industry of Kurdistan, Myles Caggins, ha dichiarato ai microfoni del canale televisivo iracheno Rûdaw TV:

«Mi aspetto che Erdoğan convinca i dirigenti iracheni a far giungere il petrolio del Kurdistan al mondo attraverso la Turchia».

Dalla padella della mezzaluna sciita filoiraniana alla brace della fratellanza filoturca?

È indubbiamente importante considerare una serie di dinamiche. In Iraq nel 2025 si terranno le elezioni e nel paese non c’è un consenso politico e/o popolare sulla posizione nei confronti del Pkk e sull’avvicinamento con la Turchia. Per esempio, Bafel Jalal Talabani, leader dell’importante partito politico curdo Puk, spesso dichiara che il Pkk non è il suo nemico. Inoltre, è ancora fresca la condanna subita da Ankara per il commercio petrolifero, definito “scorretto”, con l’amministrazione curda. Nel 2023, Ankara è stata multata di 1,4 miliardi di dollari dalla Icc, la Corte Internazionale di Arbitrato.

Ma evidentemente il presidente turco è stato convincente (forniture militari, sicurezza, risorse idriche, promesse varie…), tanto che il portavoce del governo iracheno, Basim el-Avvadi ha rilasciato una dichiarazione il 25 aprile: «Ai membri del Pkk sarà riconosciuto il titolo da rifugiato politico. L’organizzazione invece sarà definita illegale», un’altra diaspora attende i resistenti curdi; contemporaneamente Hamas può trovare ricovero proprio presso il persecutore del Pkk.

Dighe contro le popolazioni mesopotamiche: preludio a un nuovo focolaio di guerra

Oltre a questa questione ancora aperta c’è anche il problema dell’acqua, che rappresenta un tema cruciale. Secondo l’accordo del 1980 la Turchia è tenuta a gestire correttamente il regime dei fiumi che attraversano i suoi confini e scorrono verso l’Iraq. A causa del riscaldamento globale Baghdad cerca da anni di rinegoziare questo accordo, ma Ankara continua a rimandare la questione. Tuttavia, soprattutto durante l’estate, ciò causa un enorme disagio per l’intera nazione, e l’opinione pubblica è convinta che la Turchia stia usando l’acqua come un’arma contro l’Iraq.

La portata del Tigri e dell’Eufrate nel progressivo inaridimento fino alla foce, grafico tratto da Curdi, di Antonella De Biasi, Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

Dopo l’incontro del 22 aprile è molto probabile che Erdoğan abbia ottenuto risultati significativi non solo dal punto di vista economico, ma anche in vista di un’operazione militare imminente. La sua prossima visita, fissata per il 9 maggio a Washington direttamente con Biden, probabilmente includerà anche l’ottenimento di una sorta di “lasciapassare” in Iraq. Non sarebbe fuori luogo aspettarsi un inizio di guerra entro fine maggio.

Perpetuazione del mondo caoticamente multipolare

Il governo turco è apparentemente molto determinato nel lavoro volto a portare Hamas al tavolo dei negoziati, per ottenere una serie di risultati a breve e lungo termine, sia politici che economici, diretti e indiretti. La fine della guerra probabilmente porterà benefici anche a Benjamin Netanyahu, permettendogli di restare al potere senza doversi dimettere. Quindi in Israele potrebbe rimanere un uomo che, tutto sommato, non ha creato grossi problemi a Erdoğan. Anzi, durante la sua carriera politica, il presidente turco ha beneficiato di un notevole benessere economico, sia per le aziende vicine al suo governo che per quelle della sua famiglia.

In quest’ottica, uno Stato ebraico stabile e una repubblica islamica che non esce dai suoi “confini” e rimane al di fuori del gioco in Iraq permetteranno ad Ankara e ai suoi alleati di continuare a giocare la stessa partita anche nei prossimi anni.

L'articolo L’equilibrista di Ankara sul filo del conflitto mediorientale proviene da OGzero.

]]>
Etiopia Saudita. Fornire migranti usa-e-getta https://ogzero.org/etiopia-saudita-fornire-migranti-usa-e-getta/ Sun, 30 Apr 2023 11:33:24 +0000 https://ogzero.org/?p=10858 Qui Gianni Sartori offre un bello spaccato sui diritti a geometria variabile insiti nell’approccio alla filosofia ed economia politica dell’Arabia Saudita. Un mondo antropologicamente diverso retto da norme differenti, di cui  l’estensore del pezzo evidenzia le storture umanitarie, lo schiavismo e lo sfruttamento in particolare di genti etiopi. Motivo per cui l’articolo che proponiamo  è […]

L'articolo Etiopia Saudita. Fornire migranti usa-e-getta proviene da OGzero.

]]>
Qui Gianni Sartori offre un bello spaccato sui diritti a geometria variabile insiti nell’approccio alla filosofia ed economia politica dell’Arabia Saudita. Un mondo antropologicamente diverso retto da norme differenti, di cui  l’estensore del pezzo evidenzia le storture umanitarie, lo schiavismo e lo sfruttamento in particolare di genti etiopi. Motivo per cui l’articolo che proponiamo  è tutto sul filo del rapporto tra le due sponde del Mar Rosso. Il podcast dell’intervento di Laura Silvia Battaglia su Radio Blackout del 20aprile 2023, inserito a corredo del testo, inquadra la posizione nello scacchiere internazionale della Arabia Saudita in uno snodo epocale che con la rivoluzione di partnership operata da Mbs con il sua Vision2030 produrrà conseguenze per l’intero Medio Oriente e zone limitrofe… e al di là del Mar Rosso sono già evidenti con lo scardinamento della diarchia in Sudan, che di nuovo coinvolge l’Etiopia e il gioco di alleanze… e il cambio in ambito di diritti delle popolazioni locali non sta cambiando in meglio.

Il ruolo dell’Etiopia?

Serbatoio di mano d’opera docile e a buon mercato, disciplinata e addomesticata, per la borghesia saudita

Curioso. Solo un anno fa veniva siglato un accordo tra governo di Addis Abeba e Arabia Saudita per cui oltre centomila migranti etiopi dovevano venir espulsi dall’Arabia Saudita per essere riportati in patria (come poi sostanzialmente era avvenuto in questi ultimi mesi).
La notizia coincideva con l’arrivo (30 marzo 2022) nell’aeroporto di Addis-Abeba del primo migliaio (900 per la precisione, tra cui molte donne con figli), accolti e rifocillati dagli operatori dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim).

Per l’occasione un accorato appello veniva rivolto dal governo di Addis-Abeba alle Nazioni Unite e alle varie agenzie umanitarie affinché intervenissero per far fronte alle impellenti necessità.
Negli ultimi quattro anni l’Arabia Saudita ne aveva già rimandati in Etiopia oltre 350.000. Soprattutto persone con problemi di salute o comunque vulnerabili, in difficoltà: donne incinte, anziani, malati sia a livello fisico che mentale (applicando quindi una sorta di selezione poco “naturale”, ma funzionale al mercato del lavoro-sfruttamento).

Durante l’ultimo anno i programmi di rimpatrio si sono mantenuti, se non addirittura rinforzati per «garantire un rientro ordinato dei cittadini etiopi emigrati» (leggi: “non più funzionali alle esigenze delle classi dominanti saudite”).

Dal 12 novembre 2022 al 30 dicembre 2022 più di 20.000 etiopi sono rientrati in patria dall’Arabia Saudita

Per la cronaca, si calcola (presumibilmente per difetto) che attualmente siano almeno 750.000 i migranti etiopi presenti nel Reame (di cui circa 450.000 vi sarebbero giunti in maniera irregolare).
Così come previsto dal Piano regionale di sostegno ai migranti in situazioni di vulnerabilità e alle comunità di accoglienza nei Paesi del Corno d’Africa sulle rotte migratorie verso l’est (in genere con destinazione Arabia Saudita attraverso Gibuti e Yemen), erano intervenuti finanziariamente l’Ufficio dei rifugiati e delle migrazioni del Dipartimento di Stato americano (leggi: statunitense), l’Agenzia svedese  di cooperazione internazionale allo sviluppo e per le operazioni europee di protezione civile e di aiuto umanitario.

In controtendenza (ma solo apparente, se pensiamo che in realtà lo scopo è il medesimo: controllare i flussi migratori,  “addomesticarli” per renderli funzionali al sistema economico imperante) in questi giorni il governo regionale dell’Amhara ha annunciato un programma di reclutamento e formazione professionale (come donne di servizio nelle magioni dei benestanti sauditi) per migliaia di cittadine della regione. Garantendo che i loro salari in moneta straniera verranno depositato come moneta nazionale (birr) al tasso attuale del “mercato nero” e non a quello, sfavorevole, ufficiale.

Anche se questo sembra non turbare più di tanto le autorità etiopi (sia a livello regionale che nazionale), non si contano i casi di abusi sessuali subiti dalle donne di servizio di origine africana nei paesi del Golfo (ben sapendo che quelli denunciati o di cui comunque si viene a conoscenza, costituiscono solo la punta dell’iceberg). Per non parlare delle ricorrenti accuse di “trattamenti disumani” (torture, uccisioni…) nei centri di detenzione per migranti.

Come aveva denunciato Human Rights Watch «per anni l’Arabia Saudita ha arrestato e detenuto arbitrariamente migliaia di migranti etiopici in condizioni spaventose, incluse torture, pestaggi a morte e condizioni degradanti, deportandone a migliaia».

Stando a quanto riportava “Al Jazeera”, sarebbero almeno mezzo milione le donne (età compresa tra i 18 e i 40 anni) di cui si va pianificando il reclutamento per inviarle in Arabia Saudita come lavoratrici domestiche. Con una vera e propria campagna promozionale anche con cartelloni pubblicitari nelle maggiori città che invitano a registrarsi presso gli uffici governativi. Le donne verranno poi trasportate in aereo nel Golfo a spese del governo di Addis-Abeba.

Tutto questo, ripeto, mentre le organizzazioni umanitarie denunciavano il ritorno forzato in Etiopia di migliaia di donne e uomini vittime di abusi fisici e sessuali da parte dei loro datori di lavoro sauditi.

Questo il comunicato ufficiale dell’amministrazione dell’Amhara:
«In ragione dei forti legami diplomatici del nostro paese con l’Arabia Saudita, sono state rese disponibili opportunità di lavoro per 500.000 etiopiche, tra cui 150.000 dalla regione Amhara»

Il ruolo dell’Arabia Saudita?

Serbatoio di sfruttamento schiavista

Niente di nuovo sotto il sole naturalmente. Ricorda per certi aspetti quanto avveniva in Namibia quando era occupata dal Sudafrica (e sottoposta all’apartheid) con i lavoratori delle miniere di uranio rispediti a casa loro, nei villaggi, quando manifestavano i sintomi della malattia. O i migranti dai bantustan reclusi nei dormitori-prigioni (“ostelli” eufemisticamente), lontano dalle famiglie, forza lavoro a basso costo in condizioni di semischiavitù.

“L’epocale repentino cambiamento dei riferimenti sauditi”.
Volendo anche i nostri minatori in Belgio (previo accordo tra i governi dell’epoca) all’epoca di Marcinelle.

Coincidenza. Mentre avviava queste operazioni di ferreo controllo dei flussi migratori, il governo etiope procedeva allo smantellamento delle milizie regionali.

Stando a un comunicato del 6 aprile, si ripromette di «integrare le forze speciali regionali all’interno delle forze dell’esercito federale (Endf) e delle forze di polizia federale».

Allo scopo evidente di centralizzare il controllo sui gruppi armati e sminuire la relativa autonomia delle singole regioni.
La cosa non è risultata gradita proprio nello stato-regione dell’Amhara dove sono già scoppiate proteste e rivolte.

Quindi, per il governo centrale: Sì alla fornitura di forza-lavoro subalterna, ma No all’autodeterminazione regionale.

L'articolo Etiopia Saudita. Fornire migranti usa-e-getta proviene da OGzero.

]]>
LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A NOVEMBRE https://ogzero.org/studium/la-guerra-viene-con-le-armi-lo-spaccio-a-novembre/ Thu, 05 Jan 2023 09:28:05 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=9930 L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A NOVEMBRE proviene da OGzero.

]]>

Miniere di guerra di prossimità africana

In Africa subsahariana i cinque maggiori importatori di armi sono stati Angola, Nigeria, Etiopia, Mali e Botswana. Resta un grande importatore l’Egitto che con il più 73% diventa il terzo importatore di armi a livello globale (Focus di “Atlante delle Guerre”, 29 marzo 2022).

Gianni Sartori ci ha fornito un testo foriero di molteplici spunti di lettura paralleli: a cavallo tra risorse africane, compagnie minerarie, approvvigionamenti di armi e conflitti, presenti e futuri.
Alle tradizionali estrazioni del continente (oro, argento, diamanti, rame, manganese) si aggiungono le basi dei nuovi oggetti: coltan, cobalto, grafite, litio… e gli scenari sono quelli ad alta tensione di Zimbabwe, Sudafrica, Marocco, Mali, Burkina Faso, Congo…


E PER LE GRANDI COMPAGNIE GLI AFFARI VANNO A GONFIE VELE
PREANNUNCIANDO FUTURI CONFLITTI

di Gianni Sartori

Se, come recitava negli anni settanta la rivista “Hérodote” (di cui conservo gelosamente due-tre numeri dell’edizione italiana pubblicati dal mai dimenticato Bertani): «La geografia serve a fare la guerra», parafrasando possiamo aggiungere che “la geologia la determina”. O quantomeno la indirizza e alimenta.
Per cui volendo azzardare ipotesi sui futuri conflitti sarebbe opportuno munirsi di aggiornate carte minerarie.

Litio, cobalto, stagno, rame, grafite, nickel… risultano indispensabili per quella fantomatica “transizione energetica” (dove l’unico verde identificabile sembra quello dei dollari, quelli di una volta almeno) a cui tendono in maniera talvolta spasmodica compagnie minerarie e produttori di automobili. Con il continente africano che al momento sembra essere quello più ambito.

Secondo le compagnie minerarie e alcuni governi (africani e non) molte risorse minerarie (litio, rame, stagno, cobalto…) finora sarebbero state non adeguatamente sfruttate (o addirittura “trascurate”). Oggi si intende rimediare riattivando antiche miniere e aprendone di nuove (e pazienza per l’ambiente e le popolazioni indigene, ovviamente).


ZIMBABWE E LITIO

Pare che l’ex Rhodesia, oggi Zimbabwe, sia uno dei pochi paesi africani dotati di vaste riserve di Lithium. Nel senso di “litio”, il minerale (simbolo Li, numero atomico 3, peso atomico 6,94; nessun riferimento ai Nirvana quindi) essenziale per le batterie dei veicoli elettrici.
E se questo ha già scatenato le comprensibili brame delle grandi compagnie minerarie, finora aveva mobilitato soprattutto schiere di minatori individuali (“artigianali”). Sui quali tuttavia stanno calando pesanti restrizioni ministeriali. In pratica non potranno più esportare il materiale grezzo estratto, spesso fortunosamente, da terreni non necessariamente di loro proprietà e da miniere abbandonate.

Una restrizione che non dovrà interessare le miniere di livello industriale in quanto dovrebbero esportare solo materiale trattato, un “concentrato di litio”. Miniere comunque ancora in fase di realizzazione, dato che l’unica importante produttrice di litio è quella di Bikita. Nello stesso tempo il governo di Harare intende favorire aziende locali per la trasformazione in loco del minerale così che possa venir utilizzato direttamente dall’industria dei veicoli elettrici. Risale a novembre l’accordo firmato con la TsingShan Holding per un impianto in grado di produrre il concentrato di litio (“AgenziaNova”). 


100 %

Avanzamento



GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE Traffico 2022


Ventotto i Paesi in cui Wagner avrebbe operato, diciotto dei quali africani: Libia, Repubblica Centrafricana, Mozambico, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Mali, Madagascar e Zimbabwe tanto per citarne alcuni (“AnalisiDifesa”). E Wagner è lì solo per curare gli interessi minerari di Mosca

Il primo vertice Russia-Africa, tenutosi nel 2019, ha fatto parlare di “ritorno della Russia in Africa” dopo anni di disimpegno a sud del Sahara. Il rinvio del secondo vertice, che avrebbe dovuto tenersi alla fine del 2022 in Africa, ha apparentemente messo in luce le vulnerabilità economiche e politiche della Russia alla luce della sua guerra di aggressione contro l’Ucraina. Eppure, l’impegno diplomatico e di sicurezza della Russia in Africa sembra continuare senza sosta. Che impatto ha la guerra in Ucraina sulle relazioni della Russia con i Paesi africani? Come stanno reagendo alla guerra? Cosa possiamo aspettarci dal futuro ruolo e dalla presenza della Russia nel continente? (ISPI)

Per l’Africa, con una perdita annua di quattro milioni di ettari di foreste, questo è “mal comune” (ma senza “gaudio” ovviamente). In base agli atti recentemente pubblicati dalla National Academy of Sciences, l’aumento esponenziale delle attività estrattive in aree forestali costituisce il 47% (oltre tremila e duecento chilometri quadrati) della distruzione delle foreste tropicali dal 2000 a oggi. Soprattutto in Ghana, Tanzania, Zimbabwe e Costa d’Avorio.

Contemporaneamente anche Biden ha rivolto l’attenzione degli Usa all’Africa abbandonata da Trump (e in parte prima da Obama), convocando un summit di metà dicembre per contrastare la presenza sinorussa nel continente (ISPI): Guinea, Sudan, Mali, Zimbabwe, Burkina Faso ed Eritrea sono rimaste fouri dalla lista degli invitati. Invece Teodoro Obiang, l’autocrate guineano più longevo al mondo, risultava tra gli invitati: la Guinea equatoriale è tra i porti nevralgici per ogni tipo di merci, legali o meno.

Tutti paesi dove la tensione per il controllo di queste risorse si fa più forte, creando strategie esterne e appoggi da potenze locali. Smerci di armi… ma gli stati che intendono proteggere i loro minerali “rari” e preziosi non si dotano di armi che possono competere con le potenze interessate allo sfruttamento dele miniere, o per avversare le milizie che fanno gli interessi di quegli stati, piuttosto si dotano di elicotteri per il controllo delle rivolte della popolazione, indignata dalla corruzione e dal saccheggio di risorse nazionali.



In Zimbbwe è operativo il MiG21 nella versione J7, copia non autorizzata del Fishbed realizzata in Cina (“AnalisiDifesa”)

Nel gennaio 2022, lo Zimbabwe era al 93° posto sui 142 paesi considerati nella classifica annuale della GFP con PwrIndx di 2,2498 (laddove lo zero sarebbe “perfetto”).
Il Generale di Brigata Mike Nicholas Sango, ambasciatore dello Zimbabwe presso la Federazione Russa, ha detto che «la politica della Russia nei confronti dello Zimbabwe negli ultimi anni si è evoluta in modo positivo. L’impegno del Governo dello Zimbabwe con la Federazione Russa è storicamente radicato nel contributo del nuovo stato al raggiungimento della libertà e della nazione da parte dello Zimbabwe nel 1980» (“Africa24”).
Secondo lui, il presidente della Repubblica dello Zimbabwe, Emmerson Dambudzo Mnangagwa, ha visitato Mosca nel 2019. Da allora, ci sono state visite reciproche di ministri e parlamentari. All’inizio di giugno 2022, la presidente del Consiglio Federale, Valentina Matviyenko, ha visitato lo Zimbabwe. I militari dello Zimbabwe hanno partecipato ai Giochi dell’Esercito nel corso degli anni e ai Giochi dell’Esercito di metà agosto 2022.
E non a caso i russi hanno voluto scambiare Viktor Bout, il mercante di armi.

Russia
Mentre Washington domina il mercato globale delle armi di alta gamma e ad alta tecnologia, la Russia si è ritagliata un posto di primo piano come fornitore mondiale di armi economiche, ma a bassa tecnologia, talvolta descritte come “armi di valore”. Queste includono nuove varianti di equipaggiamenti sovietici e russi come i carri armati T-72 e T-80, pezzi di artiglieria trainati come il D-30, obici semoventi come il 2S1 Gvozdika e il 2S19 Msta, lanciarazzi multipli semoventi come il BM-27 Uragan e il BM-30 Smerch, il sistema di difesa missilistica S-300 e i veicoli corazzati per il trasporto di personale come il BMP-3 e il BTR-70.

Cina
Sebbene i paesi a basso reddito come Myanmar, Zambia e Zimbabwe acquistino solo armi di questa categoria, anche i paesi a medio reddito come Brasile, India e Thailandia, che partecipano a segmenti del mercato di fascia alta, acquistano grandi forniture di armi di valore. Nel 2022, la spesa per la difesa dei paesi principalmente africani, asiatici e latinoamericani che compongono il mercato di valore ammonterà a 246 miliardi di dollari. Dal momento che le aziende americane di solito non competono nel mercato delle armi di valore, le difficoltà della Russia hanno creato un vuoto. E il paese pronto a riempirlo è la Cina. Se non controllata, Pechino potrebbe utilizzare le vendite di attrezzature per la difesa per costruire relazioni più forti con le élite al potere e per assicurarsi basi all’estero, limitando potenzialmente la capacità di manovra delle forze armate statunitensi in tutto il mondo. L’espansione delle vendite di armi cinesi minerebbe l’influenza degli Stati Uniti nella competizione geostrategica in corso. Ma questo esito non è ancora inevitabile. Gli Stati Uniti e i loro alleati sono ancora in tempo per fornire sostituti alle armi russe a prezzi accessibili e contrastare così le ambizioni della Cina. La Cina vanta sei delle 25 maggiori aziende di difesa del mondo. Sebbene l’attuale quota del cinque per cento del mercato globale degli armamenti sia significativamente inferiore al 19 per cento della Russia, ciò indica il potenziale della Cina di espandere la propria quota di mercato. La Cina ha diversi vantaggi distinti che potrebbero permetterle di dominare il mercato del valore.
L’approccio cinese all’esportazione di armi è transazionale, libero da preoccupazioni sui diritti umani o sulla stabilità del regime. La Cina scambia armi non solo in cambio di un compenso finanziario, ma anche per l’accesso ai porti e alle risorse naturali degli stati destinatari. In parte, fornendo armi di valore come radar, missili e veicoli blindati al Venezuela e all’Iran, per esempio, Pechino si è assicurata un accesso costante al petrolio di quei Paesi. La maggior parte dei paesi dell’Africa subsahariana utilizza armi cinesi, ma le vendite alla regione rappresentano solo il 19% delle esportazioni cinesi. Oltre il 75% delle esportazioni cinesi è destinato ai paesi asiatici dove la Cina ha iniziato a espandere la propria rete di produzione industriale. Il Pakistan, per esempio, ora coproduce molti sistemi d’arma cinesi, come il carro armato Al-Khalid e il caccia JF-17 Thunder. Più di recente, oltre alle armi di valore, la Cina ha iniziato a vendere sistemi d’arma di fascia più alta a clienti importanti: ad aprile ha iniziato a vendere missili antiaerei alla Serbia e a giugno l’Argentina ha segnalato interesse per i jet da combattimento JF-17. La Cina è ora il più grande esportatore di droni al mondo e ha iniziato a vendere i suoi Wing Loong e i modelli CH-4 a clienti che prima acquistavano droni britannici, francesi, russi e statunitensi: un elenco di paesi che comprende Egitto, Iraq, Giordania e Arabia Saudita. (“ForeignAffairs”)
Secondo il “Jane’s Defence Weekly”, quasi il 70% dei veicoli militari blindati presenti in tutti i 54 paesi africani sono di origine cinese, mentre quasi il 20% di tutti i veicoli militari del continente sono stati forniti dalla Cina.
Citando un rapporto dell’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), l’outlet ha sottolineato che, emergendo come quarto fornitore globale di armi, la Cina ha rappresentato il 4,6% del totale delle esportazioni di armi globali tra il 2017 e il 2021.
Di questo totale di esportazioni di armi globali, il 10% è stato destinato a paesi africani. Etiopia, Sudan, Nigeria, Tanzania, Camerun, Zimbabwe, Zambia, Gabon, Algeria, Namibia, Ghana, Burundi, Kenya e Mozambico sono stati i principali importatori di armi cinesi negli ultimi cinque anni (“Asia News International”).

Zimbabwe

«Lo Zimbabwe è forse il più longevo beneficiario africano dell’assistenza alle forze di sicurezza (SFA) da parte della Cina», affermano due ricercatori senior del Peace Research Institute di Oslo, Ilaria Carrozza e Nicholas Marsh, nello studio pubblicato sul Journal of Global Security Studies.

La Cina ha fornito addestramento militare ai membri del Fronte patriottico dell’Unione nazionale africana dello Zimbabwe, guidato da Mugabe, durante la sua lotta per la liberazione. Tra le persone addestrate c’era anche il presidente Emmerson Mnangagwa, salito al potere cinque anni fa dopo il colpo di stato che ha spodestato Mugabe.

«Questo sostegno ha contribuito a suggellare un rapporto di sicurezza tra la Cina e la leadership dello Zimbabwe che dura tuttora», si legge nello studio.

L’assistenza alle forze di sicurezza comprende donazioni, in genere di attrezzature militari e di addestramento, che mirano a migliorare la capacità delle forze di sicurezza di un paese beneficiario, ha affermato Carrozza.
Lo Zimbabwe è stato tagliato fuori dai mercati globali dei capitali nei due decenni trascorsi da quando gli Stati Uniti e altri paesi occidentali hanno imposto sanzioni ad Harare per le violazioni dei diritti umani e la confisca delle terre agli agricoltori bianchi, lasciando a Pechino il ruolo di principale finanziatore di progetti infrastrutturali come dighe idroelettriche, aeroporti e strade (SCMP).

SUDAFRICA: MEGLIO IL LITIO DEL CARBONE? DIPENDE…

di Gianni Sartori

Dal 2023 (stando a una recente dichiarazione) la Compagnia mineraria Marula Mining (All Star Minerals) darà il via alla vendita di litio a una filiale della lussemburghese Traxys. Quanto alla provenienza del minerale, sarebbe la miniera di Blesberg, in disuso da tempo e riaperta nel dicembre 2022. Anche se per ora i lavori proseguono lentamente e su piccola scala, in attesa di ulteriori perforazioni e carotaggi.

Oltre al litio (sotto forma di spodumene che qui lo contiene con percentuali tra il 6 e il 7 %), la miniera sarebbe in grado di fornire anche tantalio.

Ma in materia di miniere non son tutte rose e fiori per il Sudafrica. Le miniere abbandonate di carbone, per esempio, rappresentano – oltre che un potenziale pericolo – una documentata fonte di inquinamento per le sorgenti e le falde acquifere, una grave minaccia per la salute delle popolazioni. O almeno questo è quanto sostiene Human Rights Watch in un suo recente rapporto (The Forever Mines : Perpetual Rights Risks from Unrehabilitated Coal Mines in Mpumalanga, South Africa ) con cui accusa il governo sudafricano di non garantire la bonifica, il risanamento delle miniere abbandonate. Di non aver fatto nulla per rimediare a tale “eredità tossica”.

E ovviamente vengono messe sotto accusa anche le compagnie minerarie che «per anni hanno tratto profitti dallo sfruttamento del carbone, ignorando però le proprie responsabilità al momento di ripulire, bonificare il degrado, l’inquinamento che si sono lasciate alle spalle».

Lasciando sovente alle comunità locali l’onere di rimediare ai danni.

  1. Alla realizzazione del dossier di Human Rights Watch hanno contribuito decine di esponenti delle comunità locali (compresi i genitori dei numerosi bambini che hanno perso la vita precipitando in pozzi a cielo aperto), rappresentanti di associazioni locali e di ong, ricercatori universitari e personale sanitario. E anche molti “minatori individuali” o che operavano comunque a livello artigianale, al di fuori delle compagnie minerarie. In genere tra i residui di quelle abbandonate con gravi conseguenze per la salute. Come ha ben documentato Human Rights Watch riportando oltre 300 decessi di questi “zama – zama”. Deceduti in gran parte per il crollo dei tunnel, in minor misura per intossicazione da gas o incidenti con esplosivi). Inevitabile un raffronto con i garimpeiros di Brasile e dintorni o con i minatori (in genera persone anziane o giovanissime) che scavano (scavano?!) tra i residui, gli scarti delle miniere boliviane.

Su 2300 miniere prese in esame e classificate “ad alto rischio” (tra cui sono centinaia quelle di carbone), soltanto 27 sono state bonificate in Sudafrica. Si tratta di quelle da cui si ricavava l’amianto (in genere “amianto nero”, più nocivo, ma meno costoso da estrarre e che ha distrutto la salute di migliaia e migliaia di minatori neri).

Specificatamente per quelle di carbone, si è potuto documentare come i residui minerari esposti alle intemperie contribuiscano ad aumentare notevolmente l’acidità dell’acqua e dei terreni. Il fenomeno conosciuto come ”drenaggio minerario acido” provoca sia l’inquinamento delle acque che la sterilizzazione dei terreni, oltre a corrodere e danneggiare irreparabilmente le infrastrutture di approvvigionamento dell’acqua potabile.

Se l’UE è il principale partner commerciale del paese, la Cina è presente in misura sempre maggiore con investimenti di varia natura

Decine di compagnie minerarie sudafricane si rifiutano di rendere pubblici i loro piani sociali e di lavoro, o SLP, come richiesto dalla legge. Senza l’accesso a questi documenti, le comunità hanno difficoltà a valutare gli impegni sociali delle compagnie minerarie o a ritenerle responsabili. Questi piani dovrebbero descrivere in dettaglio come le aziende sosterranno la creazione di posti di lavoro e il miglioramento dei servizi nelle città in cui estraggono. L’organizzazione no-profit Mining Affected Communities United in Action (MACUA) stima che tra il 70 e il 90% delle miniere in Sudafrica non pubblichino i loro piani.

Fondata nel 2011, la miniera di Kolomela, a 22 chilometri dalla città di Postmasburg, nella provincia di Northern Cape, produce ogni anno oltre 9 milioni di tonnellate di minerale di ferro. Dal 2021, Kolomela, che è di proprietà della filiale locale del gigante minerario Anglo American, Kumba Iron Ore, ha respinto gli sforzi del MACUA e dei membri della comunità per ottenere una copia dello SLP 2020-2024 della miniera (“Mongabay”).

Oggi il Sudafrica non è più leader mondiale della produzione dell’oro, sebbene secondo le stime dell’US Geological Survey detenga il 50% delle risorse aurifere del pianeta, ma è ancora in testa a livello continentale. Le riserve però iniziano ad esaurirsi e il paese è passato dal 15% della produzione mondiale al 12%.

Questa situazione, con la diminuzione delle miniere e la perdita del lavoro, non ha fatto che peggiorare le condizioni di vita e di lavoro dei minatori, uomini, donne e bambini che accettano condizioni lavorative degradanti e rischiano di morire per poter sopravvivere. Una miniera dismessa è terreno fertile per minatori illegali che cercano l’ultimo filone in autonomia o con l’aiuto degli ultimi tra i disperati. Tra il 2004 e il 2015 un terzo delle 180.000 persone che lavoravano nel settore minerario sudafricano sono state licenziate. Molte sono tornate alle miniere da sole, illegalmente (“Orovilla”). Imponenti e ricorrenti scioperi hanno prodotto scontri e massacri della polizia a difesa di istituzioni e investitori cinesi ed europei, che hanno chiesto all’ex sindacalista compagno di Mandela Ramaphosa di eliminare tasse e promesse di maggiori diritti per i lavoratori: «Le lotte che lo attraversano, tanto dei minatori neri e spesso migranti quanto delle popolazioni nere locali, trascendono il più delle volte i confini nazionali, proprio a causa del carattere non-nazionale dei bersagli e delle rivendicazioni in reazione al Trade, Development and Co-operation Agreement: il piano di liberalizzazioni previsto dall’accordo ha infatti imposto leggi sul lavoro, riduzione dei salari, privatizzazione delle aziende statali, leggi sull’immigrazione e tagli alla spesa pubblica in nome di un “rilancio” dell’economia sudafricana. instaurando un regime commerciale preferenziale tra l’UE e il Sudafrica, con la creazione progressiva di zone di libero scambio (ZLS) per la libera circolazione delle merci. Questo vale sia per gli scambi commerciali, sia per gli investimenti, definendo di fatto l’UE come principale partner economico del Sudafrica. Secondo un modello ormai diffuso su scala globale e di cui l’Ue si fa promotrice, le zone economiche… Se l’UE è il principale partner commerciale del paese, la Cina è presente in misura sempre maggiore con investimenti di varia natura. Come si legge sul sito di Taung Gold, una delle principali società finanziarie cinesi attiva principalmente nel settore minerario, la Cina “è profondamente consapevole dell’importanza degli investimenti cinesi in Sudafrica”. Taung Gold è da oltre un decennio una delle molte imprese della Repubblica Popolare che investono in Sud Africa, soprattutto nel settore minerario. Tra gli esempi più significativi vi è l’acquisizione da parte del Gruppo Jinchuan e del China-Africa Development Fund del 45% di Wesizwe Platinum, una junior mining company» (“ConnessioniPrecarie”). E allora, come riportava “Il Post” nel luglio 2019, i vertici militari sudafricani avevano deciso di usare l’esercito per reprimere le proteste e gli scontri iniziati dopo che l’ex presidente Jacob Zuma era stato incarcerato nel luglio per un episodio di corruzione da parte della francese Thales: una tangente relativa all’acquisto di una partita di armi nel 1999. La difesa dell’ex presidente e del suo sistema di corruzione è solo la miccia che ha fatto esplodere la rabbia, temuta da Pretoria, ma anche da UE e Cina: «Le rivolte sono il prodotto delle disuguaglianze crescenti che la fine dell’apartheid non ha saputo ridurre, e di rivalità politiche all’interno del partito al potere, l’African national congress (Anc)»; Zuma è un populista zulu, eroico combattente da giovane, e anche questi elementi sono alla base delle rivolte contro le barriere sociali sostituite dagli stranieri al posto di quelle razziali. Alla fine si sono visti anche i carri armati Olifant e sono arrivati 25.000 soldati ad appoggiare le forze di polizia. L’ultimo bilancio avrebbe parlato di 212 vititme e migliaia di feriti e arresti.

Perciò le necessità di armi dell’esercito sudafricano deve rispondere al contenimento di rivolte interne: infatti nella più imponente esercitazione militare dell’esercito sudafricano tenutasi nel novembre 2022 (Vuk’uhlome – “alzati e armati” in lingua zulu) ha testato la capacità e lo stato di preparazione della forza terrestre, supportata dalle Forze Speciali SA, dall’Aeronautica Militare SA (SAAF), dal Servizio Sanitario Militare SA (SAMHS), dalla Divisione di Polizia Militare e dalla Divisione Servizi Legali. Durante il Distinguished Visitors’ Day dell’esercitazione sono state dimostrate numerose capacità, che vanno dalla gestione dei disordini civili al lancio di forze aeree con il paracadute, agli attacchi di precisione con razzi e artiglieria, alle operazioni di controinsurrezione, agli attacchi di fanteria… Le Forze speciali, con le loro armi e i loro veicoli, hanno svolto un ruolo importante nella battaglia simulata, che ha visto il coinvolgimento di veicoli corazzati, tra cui i carri armati Olifant.

L’Aeronautica militare ha sostenuto l’esercitazione con aerei da trasporto Cessna Caravan e C212, elicotteri da trasporto/utilità Oryx e A109 e un elicottero d’attacco Rooivalk. Quest’ultimo non ha sparato, ma due caccia-addestratori Hawk Mk 120 hanno sganciato bombe sul poligono di Lohatla. La SANDF è penalizzata da un massiccio sottofinanziamento aggravato da una lista crescente di compiti, oltre che dall’invecchiamento dell’equipaggiamento – non è chiaro quando riceverà i nuovi veicoli da combattimento di fanteria Badger da Denel. Tra le recenti acquisizioni figurano i fucili di precisione Truvelo, i lanciagranate da 40 mm Milkor, i fucili senza rinculo Carl Gustaf Saab, i veicoli con cannone antiaereo ZSU-23-2 montati su Land Cruiser e i veicoli con mortaio Scorpion da 60/80 millimetri (tutti con ogni evidenza sistemi di contenimento interni e non di difesa da potenze straniere). Una grande esposizione dell’industria della difesa ha fatto parte dell’esercitazione Vuk’uhlome, con più di mezza dozzina di aziende che hanno esposto i loro prodotti. Tra queste, Reutech (radar e torrette d’arma), Canvas and Tent (alloggi da campo), Rheinmetall Denel Munition (energia verde), Global Command and Control Technologies (soluzioni di comando e controllo), Dinkwanyana Aerospace (veicoli aerei senza pilota), OTT Solutions (veicoli corazzati, tra cui il dimostratore Ratel Service Life Extension) e Denel. Quest’ultima ha presentato i suoi veicoli da combattimento per la fanteria Badger e RG41, i veicoli corazzati per il trasporto di personale RG21 e RG31 e l’obice semovente T5-52. SVI Engineering ha portato nell’area espositiva due dei suoi veicoli blindati (Max 3 e Max 9). L’azienda ha anche fornito veicoli da mortaio Scorpion alla SANDF (“DefenceWeb”). Ma i 9 velivoli C-47TP in servizio con il 35° Squadron della South Africa Air Force sarebbero quasi tutti a terra in attesa che la società Armscor reperisca sul mercato pezzi di ricambio; le difficoltà economiche della Difesa sudafricana si riflettono pesantemente sulle capacità della SAAF che da mesi tiene a terra per mancanza di ricambi e assistenza l’intera flotta di 26 velivoli da combattimento SAAB Jas 39 Gripen (“AnalisiDifesa”).

LA COMPAGNIA MAROCCHINA MANAGEM FARA’ AFFARI D’“ORO”

di Gianni Sartori

Novità rilevanti anche dal Marocco con l’ormai centenaria compagnia Managem sempre più “leader regionale” (ma con aspirazioni evidentemente “continentali”) nell’industria mineraria africana. Da circa vent’anni va ampliando il suo raggio d’intervento in Sudan (oro), Gabon, RdC (sarà mica per il coltan?) e Guinea (ancora per l’oro).

Verso la fine di dicembre il direttore generale di Managem ha annunciato di aver sottoscritto un accordo (una transazione del valore di circa 280 milioni di dollari) con la canadese Iamgold Corporation per acquisire la proprietà di alcuni progetti di estrazione aurifera in Mali (progetto Diakha-Siribaya), Senegal (progetti Boto, Boto ovest, Daorala, Senala ovest) e Guinea (progetto Karita): una striscia unica di territorio conteso tra Senegal, Mali e Guinea: Bambouk Assets che il Marocco si è attribuito con la dichiarata intenzione di aumentare la propria produzione di oro dato che finora si era posizionata ben lontana dai livelli di produzione di compagnie come Iamgold, Endeavoure, B2Gold o Kinross Gold.

ESCALATION MAGHREBINA

A questi territori, per quanto contigui, va assicurata la sicurezza, perciò il Marocco si riarma e si fa forte delle alleanze strette con Usa e Israele.

Per un controllo capillare della sicurezza nell’estrazione mineraria la prima mossa fondamentale è il controllo dall’alto del territorio e infatti in combutta con Sabca (l’impresa marocchina dell’aerospaziale) troviamo Sabena– di Blueberry Group – e Lockhead impegnatee nel progetto di realizzare la prima officin di manutenzione dei C130, essenziale per la sovranità del Marocco. I media riferiscono di piani marocchini per l’acquisto di 22 elicotteri T129 ATAK per un valore di 1,3 miliardi di dollari. L’accordo si aggiungerebbe a un ordine per 36 elicotteri d’attacco AH-64E Apache e relative attrezzature, per un costo stimato di 4,25 miliardi di dollari. Riconoscendo l’importanza della superiorità aerea nel contrastare qualsiasi minaccia alla sicurezza nazionale che possa derivare dalla crescente instabilità del Sahel e dell’Algeria, il Marocco ha anche ordinato altre 25 unità di caccia F-16C/D Block 72, che porteranno il numero totale della flotta di F-16 del Marocco a 48 unità. L’evoluzione della strategia militare del Marocco pone inoltre particolare enfasi sulla guerra con i droni, utilizzata contro la resistenza saharawi; e proprio in seguito allo strappo di Trump con l’imposizione degli Accordi di Abraham in cambio del riconoscimento della occupazione illegittima del Sahara occidentale da parte di Rabat è stata agevolata la partnership con Israele, il cui capo di stato maggiore a luglio fece la prima visita a Rabat, secondo Reuter per rafforzare la cooperazione militare e quindi “AnalisiDifesa” informava in ottobre che l’esercito del Marocco aveva acquistato 150 UAV WanderB e ThunderB dall’israeliana BlueBird Aero Systems.
La Reuters ha riferito che gli Stati Uniti hanno proceduto con la vendita al Marocco di quattro droni MQ-9B SeaGuardian e di armi a guida di precisione per un valore di 1 miliardo di dollari. I media israeliani hanno anche riferito che il Marocco sta cercando il sistema di difesa aerea e missilistica Barak MX in un accordo del valore di oltre 500 milioni di dollari. Il Marocco ha già acquistato indirettamente gli UAV Heron di IAI e altri UAV dell’unità Bluebird di IAI, oltre a sistemi di veicoli robotici di pattugliamento di Elbit Systems e intercettatori di droni di Skylock. Negli ultimi due anni, il Marocco ha aumentato le importazioni di droni. Li ha acquistati da diversi paesi come Cina, Turchia, Francia e Israele, costituendo così una vera e propria flotta, probabilmente la più sviluppata del Nordafrica, secondo gli specialisti. (“Challenge”).

Il Marocco intende mettere in produzione droni di fabbricazione propria con tecnologia israeliana e perciò ha realizzato un partenariato con i belgi di Orizio, gruppo aerospaziale che costruirà un centro di manutenzione per F-16 e elicotteri a Benslimane. La spesa per la Difesa ha raggiunto il 5,2% del pil marocchino.


L’operazione di addestramento “Desert Shield”, svoltasi a novembre con forze congiunte russe e algerine al confine con il Marocco, coincide con un’escalation del riarmo regionale. L’Algeria ha annunciato che aumenterà a 23 miliardi di dollari il suo budget militare del 130 per cento nel 2023 per raggiungere il 12 per cento del suo prodotto interno lordo grazie all’aumento dei prezzi del gas e del petrolio. Di questi, 5 miliardi sono destinati a operazioni fuori dai confini in seguito all’estinzione dell’Operazione Barkhane nel vicino Mali a supporto della milizia Wagner. Mosca è il maggior fornitore di armi di Algeri (in particolare i carri armati T-90M, nuova versione di quelli datati 1993 e usati ancora in Siria dall’esercito russo; i missili terra-aria S-350 e Buk-M2, corrispondenti ai Barak-8 israeliani in dotazione a Rabat), che partecipa a tutte le manovre congiunte dell’esercito russo. Algeri ha stipulato un contratto di 12 miliardi di dollari per l’acquisto di caccia Sukhoi SU-75 “Checkmate” Viste le debacle delle armi russe (proprio quei residuati bellici dei BMP-1 e 2 in dotazione all’esercito algerino) può darsi che il budget sproporzionato sia volto a differenziare le fonti di approvvigionamento, ipotizza Abdelhak Bassou a “Le360”: «Questo aumento del budget potrebbe essere spiegato dal desiderio del governo algerino di calmare gli occidentali acquistando armi da loro. Un modo per soddisfare tutti. Ma è ovvio che più la Russia si isola sulla scena internazionale, più i suoi satelliti si isolano. A meno che non ci sia una svolta e l’Algeria cambi le carte in tavola».
Ad alimentare le tensioni nella regione si aggiunge anche l’Iran, alleato di Putin, che ha confermato ufficialmente la fornitura dei suoi droni all’esercito algerino e al gruppo separatista del Polisario, gli stessi usati dalla Russia nella sua guerra contro l’Ucraina (“l’Opinione”).

I due paesi sono divisi non solo dai. Fosfati saharawi, ma anche dai percorsi di gasdotti: quello algerino interrotto nell’ottobre 2021 (al momento del riconoscimento di Madrid della sovranità spagnola sul Sahara occidentale) e che transitava dal Marocco per convogliare gas in Spagna; e quello che dalla Nigeria, lungo tutta la costa atlantica, porterebbe off-shore fino in Spagna la pipeline (“JeuneAfrique”).

Dunque di nuovo sono i minerali dietro a un consistente riarmo… Come in Sahel e Centrafrica.

ESTRAZIONE ED ESPORTAZIONE IN SAHEL.
MINERALI DI VALORE DOPO L’USCITA DAI CONFINI

di Gianni Sartori
IL MALI VERSO LA LIBERALIZZAZIONE DEL SETTORE?

Mentre il regime militare del Mali annunciava la creazione di una compagnia mineraria nazionale, quasi contemporaneamente (ai primi di dicembre), dal ministero delle Miniere arrivava un comunicato con cui sostanzialmente si apriva la strada a ulteriori liberalizzazioni in materia di “permessi di esplorazione e permessi di sfruttamento minerario”.
Con ogni probabilità, viste le recenti difficoltà incontrate nel settore, lo stato ritiene così di attrarre investimenti stranieri nello sfruttamento delle risorse minerarie.

Ma non tutti esultano, ovviamente. Per esempio i portavoce del Consiglio locale della gioventù della zona aurifera di Kenieba (regione di Kayes, dove già sono attive una mezza dozzina di società minerarie) hanno protestato vigorosamente in quanto «prima di concedere i permessi di esplorazione e di sfruttamento, si deve consultare la popolazione». Soprattutto per “valutare l’impatto ambientale” e sapendo che «verranno espropriate terre coltivabili per cui alla popolazione si dovranno quantomeno offrire delle adeguate compensazioni».
Attualmente tra i minerali estratti in Mali, l’oro rappresenta il 10% del pil e circa l’80% delle esportazioni.

STERILI POLEMICHE SUL BURKINA FASO?

Da segnalare anche la polemica (strumentale?) scatenata dal presidente del Ghana Nana Akufo-Addo mentre si trovava (guarda caso) a Washington, accusando il Burkina Faso di aver ceduto alla compagnia russa Wagner una miniera d’oro a pagamento dell’intervento militare contro l’insorgenza jihadista.
Notizia immediatamente smentita da Simon Pierre Boussim, ministro di Energia, Miniere e Cave, nella conferenza stampa del 20 dicembre, organizzata con l’ITIE-Burkina (Comitato per la Trasparenza nelle Industrie Estrattive) nella capitale Ouagadougou dell’ex Alto Volta.

In realtà in Burkina Faso esiste già una presenza russa in campo minerario (si parla di tre miniere sfruttate da Nordgold). Ma qui operativa da oltre dieci anni
(“Acled”).

ESCALATION SAHELIANA

Paradossalmente la strategia di influenza della Russia in Africa si basa su interessi economici relativamente minori. Il commercio della Russia con l’Africa non supera i 30 miliardi di dollari, il che non la colloca tra i primi venti partner del continente. Quest’ultima, ricca di materie prime, non è molto complementare alla Russia. «La Russia ha firmato molti accordi di cooperazione economica dal 2014, ma pochi sono stati attuati», ha dichiarato Thierry Vircoulon, per il quale «stiamo anche aspettando di vedere se il suo ruolo nel traffico d’oro in Africa aumenterà e se le promesse forniture di petrolio si concretizzeranno».
Per Maxime Audinet: «nell’Africa subsahariana, la posta in gioco economica è secondaria per Mosca, rispetto alla posta in gioco simbolica della proiezione di potenza, anche se le sue leve, come Wagner, sono pagate a peso d’oro in cambio della loro fornitura di sicurezza attraverso l’estrazione di materie prime come oro, diamanti o legni pregiati» (“LesEchos”).

E infatti le armi presenti sul territorio sono sistemi di lancio di multimissili Aml e Sam SA-7°; elicotteri Mi-17 e siste i di difesa antiaerea ZPU-4: tutte tecnologie belliche utili per il contrasto al terrorismo jihadista e per la difesa delle miniere d’oro.

Lo stato russo cerca di estendere la propria influenza attraverso la vendita di armi: è il principale fornitore dei paesi dell’Africa subsahariana, oltre ad avere importanti contratti con Algeria ed Egitto. Poi Wagner assicura la protezione di leader o addestra soldati in molti paesi: Mali, Libia, Madagascar, Sudan, Mozambico, Repubblica Centrafricana (dove è accusato dalle Nazioni Unite di racket, stupri e torture), e probabilmente anche Burkina Faso.

Tuttavia, i mercenari hanno subito sanguinose battute d’arresto in Libia e Mozambico e il Mali sembra ora deluso dal loro coinvolgimento. Come i suoi rivali, anche lo stato russo ha firmato accordi ufficiali di cooperazione militare con una trentina di paesi, che sulla carta sono vantsggiosi ma spesso corrispondono a qualche esercitazione congiunta, senza garanzie di sicurezza reciproca. La Russia non ha ancora una base militare permanente nel continente, nonostante un progetto in Sudan.

In Sahel, ritirata Barkhane, rimangono le milizie jihadiste e la Wagner, il cui armamento sul terreno fornisce risorse alle esigenze dell’occupazione. Dal 2020 tra Libia, Mali, Burkina la Wagner ha dispiegato i caccia Mig-29 e i Su-24, ma questi non sono l’unico equipaggiamento pesante in dotazione: la Pmc russa ha ricevuto anche almeno un veicolo di difesa aerea Pantsir S1, diverso da quelli utilizzati dall’Lna e da Wagner e “prestato” dagli Emirati Arabi Uniti. Per proteggere i suoi aerei, Wagner ha utilizzato radar P-18 Spoonrest oltre a quelli dell’Lna.

Per i loro movimenti i “musicisti” di Wagner utilizzano veicoli blindati prodotti in Russia da un’azienda appartenente al gruppo di società Yevgeny Pirigozhin. Il veicolo è chiamato Valchiria, Chekan, Shchuka o Wagner Wagon[13], ed è un MRAP costruito su un telaio URAL dalla società EVRO POLIS LLC. Tra le armi importate da Wagner ci sono MRAP GAZ Tigr-M, cannoni D-30 da 122 mm e obici MSTA da 152 mm. Per quanto riguarda le armi leggere, le truppe di Wagner utilizzano AK-103 e soprattutto il fucile da cecchino Osiris T-5000. Wagner ha utilizzato alcuni droni durante le sue operazioni, in particolare Zala 421-16E e Orlan 10s. E quando si ritirano i miliziani spargono mine antiuomo MON-50, 90 e 100 (Rosa Luxemburg Stiftung).

MATERIALI GREZZI LAVORATI IN LOCO…
MA CON INVESTIMENTI STRATEGICI AMERICANI

di Gianni Sartori

LA ZLECA SI VA ESPANDENDO?

Risaliva a tre anni fa l’annuncio da parte di Albert Muchanga (commissario allo Sviluppo economico, al Commercio, all’Industria e all’Attività minerarie dell’Unione africana) di consultazioni amichevoli tra due delle maggiori entità minerarie dell’Africa: il Congo e lo Zambia. Nazioni nei cui territori sono sepolte ingenti quantità di minerali fondamentali per la produzione delle batterie per i veicoli elettrici e che ora, in base ai futuri accordi, dovrebbero poterle produrre autonomamente e direttamente.

A suo tempo per esporre i progressi di tale progetto Muchanga aveva scelto l’occasione del Mining Indaba, il maggior meeting del settore minerario africano; e fondamentale era stato l’anno scorso il ruolo di Muchanga nel veder ratificare l’Accordo sulla Zona di libero-scambio continentale africano (Zleca).


E GLI USA? DIVERSAMENTE DALLE STELLE DI CRONIN NON STANNO A GUARDARE

Gli Stati Uniti non stanno a guardare naturalmente. Firmato recentemente da Washington un accordo (un memorandum d’intesa) con Repubblica democratica del Congo e Zambia (con i maggiori giacimenti di cobalto e rame) sui metalli per le batterie.
Nell’accordo è previsto un investimento da 55 miliardi di dollari nel giro di tre anni.
Fondi elargiti dalla Minerals Security Partnership (vi aderiscono Corea del Sud, Canada, Australia, Regno Unito, Giappone, Regno Unito…) a sostegno dei sistemi sanitari, per la tutela del lavoro femminile, nella lotta ai cambiamenti climatici…
Ma anche, o soprattutto, per investire nei progetti per le auto elettriche. Allo scopo dichiarato di contrastare l’egemonia cinese (visto che Pechino, a titolo di esempio, controlla già gran parte delle miniere di cobalto nella Repubblica democratica del Congo).
Come ha preannunciato il segretario di Stato Antony Blinken: «Washington esplorerà meccanismi di finanziamento e di sostegno agli investimenti nelle catene africane dei veicoli elettrici».

In pratica verranno finanziate sia le estrazioni minerarie che la lavorazione dei metalli estratti (raffinerie e affini). Oltre alle operazioni di riciclaggio. Alla vasta operazione partecipano alcune case automobilistiche (General Motors, Ford, Tesla…) e le compagnie minerarie Albemarle e Piedmont Lithium.

ENNESIMO ECOCIDIO NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO?

Suscita preoccupazione questo ulteriore coinvolgimento della Rd C in progetti estrattivi di rilevanza internazionale.

Sia per la drammatica situazione in cui versano le popolazioni del Nordest del paese (sotto accusa l’estrazione del coltan e le milizie di M23 sostenute dal Ruanda), sia per il già bistrattato ecosistema naturale. Ça va sans dire, soprattutto nelle zone sottoposte a estrazioni petrolifere o minerarie e alla deforestazione. Anche per diretta responsabilità del governo congolese che «svende le foreste che dovrebbe proteggere» (come denunciava un portavoce di Greenpeace).

Governo e ministri sotto accusa non soltanto da parte dei “soliti” ambientalisti, ma anche da associazioni di studiosi e scienziati. Come il Consiglio per la difesa ambientale attraverso la legalità e la tracciabilità (Codelt) e l’Acedh (una Ong regionale) che hanno condotto studi approfonditi sulla foresta pluviale della Cuvette Centrale (provincia di Ituri, sotto stretto controllo militare dal maggio del 2021). Dove appunto si estrae gas, petrolio e oro. Sarebbero soprattutto le miniere aurifere, in continua espansione anche nelle aree protette, a contaminare, distruggere gli ultimi lembi di foresta pluviale dove sopravvive un mammifero raro (da “Lista rossa”), a rischio estinzione, come l’okapi. Oltre ad abbattere le piante e dragare illegalmente i fiumi, i minatori si dedicherebbero al bracconaggio.

Da quasi un decennio l’area viene sfruttata – previo accordo col governo – dalla compagnia Kimia Mining. L’anno scorso ben 205 ong locali, a cui si associava Greenpeace, avevano chiesto al governo della RdC di ritirare le concessioni minerarie alla società cinese. O almeno quelle all’interno della riserva naturale per le okapi.

ENNESIMA GUERRA MONDIALE AFRICANA

Come scrivono anche Marco Dell’Aguzzo e Giuseppe Gagliano l’intervento degli Usa va inquadrato nella necessità di disturbare gli affari minerari cinesi in Africa, in vista della produzione massiva di auto elettriche e dunque del bisogno di Litio e Cobalto: la supply chain africana derivante dall’interdizione finalmente dell’esportazione di litio non lavorato (una mossa dal sapore anticoloniale, che potrebbe, se la stesa misura venisse adottata da molti altri paesi del continente, cominciare uno sviluppo industriale – e di mercato interno – invece di essere solo suolo da depredare).

Dovranno dare lavoro in loco: potrebbe essere un passo avanti. Peccato che gli Usa si propongano essenzialmente per contrastare la penetrazione di Pechino in Africa: le aziende cinesi possiedono la maggioranza delle miniere di terre rare africane e così gli americani si frappongono, impiantando quelle industrie in loco richieste da governi che cercano così di arginare il saccheggio… il problema è che se gli americani cederanno la tecnologia per la lavorazione, si prenderanno una larga fetta del prodotto finale (una mossa essenziale per approvvigionarsi senza arricchire l’avversario) e i cinesi si faranno pagare l’estrazione dei minerali grezzi, agli africani non rimane di nuovo nulla, se non la parvenza di essere entrati a far parte del mercato e non più solo merce – nel caso venga adottata una parte di manodopera locale (che non potrà essere giocoforza specializzata). E così si torna allo Zimbabwe, da cui avevamo cominciato questo safari africano.

Ma il Congo è teatro di scontri e riedizioni di conflitti (la Guerra mondiale africana risale a pochi lustri fa e sembra prepararsi in Kivu di nuovo) che vedono contrapposte le milizie armate da Kigali (come l’M23) all’esercito di Kinshasa e alle truppe di Nairobi –ultimamente – o dell’Uganda.


I gruppi della società civile hanno condannato l’estrazione illegale di oro nella riserva naturale di Okapi, nella Repubblica Democratica del Congo. Da diversi anni, una società di proprietà cinese, la Kimia Mining, ha una concessione all’interno della riserva, rilasciata irregolarmente dal governo della RDC. I gruppi chiedono l’immediata revoca della concessione per proteggere la riserva

In una conferenza stampa tenutasi il 18 ottobre, hanno accusato la Kimia di aver ridotto la copertura forestale, inquinato i fiumi e compromesso l’habitat forestale della riserva. La riserva, inserita dall’Unesco nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità in pericolo, si estende per circa 13.700 chilometri quadrati della foresta pluviale dell’Ituri.  È anche la casa dei nomadi indigeni Efe e Mbuti, che dipendono dai fiumi che nascono nella riserva, ha dichiarato Gabriel Nenungo, coordinatore dei geologi della provincia di Ituri: «Abbiamo osservato le draghe gestite dai cinesi nel fiume Ituri e le fosse di mercurio aperte sono visibili dall’alto». L’attività mineraria ha attirato gruppi armati che trafficano in pelli di okapi e avorio.

L’esercito della RDC fornisce servizi di sicurezza alla Kimia Mining, nonostante le leggi vietino di associarlo alle operazioni minerarie. (“Mongabay”).

Novembre

29 novembre

    • I coyotes mondiali

      • Il 29 novembre Defense Security Cooperation Agency pubblicava la notizia della concessione da parte del Dipartimento di stato americano della vendita di sistemi di difesa antidrone per una spesa pari a un miliardo di dollari in cambio di 10 Fixed Site-Low, Slow, Small Unmanned Aircraft System Integrated Defeat System (FS-LIDS) System of Systems, includendo 200 Coyote Block 2 interceptors; e poi Counter Unmanned Electronic Warfare System (CUAEWS); Coyote launchers; Ku Band Multi-function Radio Frequency System (KuMRFS) radars; Forward Area Air Defense Command e Control (FAAD C2); Counter Unmanned Electronic Warfare Systems (CUAEWS).
      • Lo riportava “BreakingDefense” sottolineava come i principali contractor Raytheon, Northrop Grumman and R&D company SRC.A Marzo si leggeva nel rapporto Sipri del confronto tra il 2017-2021 con il decennio precedente e riprendiamo da lì per inquadrare questa notizia novembrina in omaggio all’esiziale mondiale di calcio ottenuto da Doha (che secondo quel dossier aveva incrementato la spesa del 227% rispetto al lustro precedente) con la corruzione di Sarkozy, Platini e Guéant prima e poi con il sostegno di parlamentari europei di sinistra che negano l’evidenza del sistema omicida e criminale del Qatar (ci limitiamo a suggerire che Messi e Mbappé giocano entrambi nel Psg, che è di proprietà dell’emiro di Doha, un caso che la finale sia per magia tra le loro due compagini?): infatti l’Atlante delle guerre riassumeva così la situazione del Medio Oriente a marzo:

        «Si stabilizzano le importazioni di armi in Medio Oriente. Dopo il forte aumento registrato nel decennio precedente (86% in più tra il 2007-11 e il 2012-16) gli stati mediorientali hanno importato ‘solo’ il 2,8% di armi in più nel 2017-21 rispetto a quello precedente. Il conflitto in Yemen e le tensioni tra l’Iran e altri stati della regione restano alla base delle importazioni di armi nell’area. L’Arabia Saudita si conferma un grande importatore, il secondo al mondo, con un 27% in più investito in armi nel periodo 2012-16, rispetto al precedente.
        Le importazioni di armi del Qatar sono cresciute del 227%, spingendolo dal 22esimo importatore di armi al sesto. Al contrario, le importazioni di armi degli Emirati Arabi Uniti sono diminuite del 41%, passando così dal terzo al nono posto. Tutti e tre questi stati, insieme al Kuwait hanno poi effettuato ingenti ordini che prevedono la consegna nei prossimi anni. Nell’area, poi, Israele ha aumentato le importazioni di armi del 19%».

    • E poi le esportazioni statunitensi verso Riyad sono aumentate del 106%. Ma a cosa serve l’enorme quantità di armi, le più disparate per ogni tipo di guerra, sparpagliate per tutta la penisola araba?

19 novembre

  • La guerra dei droni da Astana

    • La notizia in autunno sul fronte dell’approvvigionamento dei droni per le attività dell’aviazione russa è che si è raggiunto un accordo per impiantare in tempi brevi  uno stabilimento con la tecnologia iraniana direttamente in territorio russo; a rivelarlo il Washington Post, successivamente rilanciato da tutte le testate del mondo. Come sottolinea “DroneBlog”:

      questo accordo oltre che essere strategico mette in luce ancora di più il rapporto e la cooperazione militare fra Iran e Russia, che sta svolgendo un ruolo chiave in Ucraina. Se il nuovo accordo sarà pienamente realizzato, significherebbe un ulteriore rafforzamento dell’alleanza russo-iraniana. Questo accordo, oltre a migliorare la disponibilità di armi all’esercito russo, toglierebbe dall’isolamento l’Iran, dando una nuova spinta economica a un sistema interno collassato ormai da anni e alle prese con una rivoluzione in atto

  • In piena continuità con gli accordi di Astana, che tanto abbiamo analizzato in OGzero.
    E sempre “DroneBlog” scrive che «finora Teheran ha cercato di presentarsi come neutrale nel conflitto ucraino , ma si scopre che sempre più droni di fabbricazione iraniana vengono utilizzati per attaccare le città ucraine, innescando minacce di nuove sanzioni economiche dall’Occidente». E si insinua una scommessa iraniana sul sostegno che deriverebbe dall’alleanza con Mosca per ricavare valore contrattuale per gli accordi sul nucleare
  •  Peraltro l’industria iraniana dei droni si sta già diffondendo in altri paesi. L’Iran ha aperto a maggio una fabbrica in Tagikistan, che produce il drone Ababil-2, secondo l’Eurasia Times: è stato Zelensky stesso a indicare la strategia di avvicinamento a Mosca da parte di Ankara con fini collegati al Jcpoa.
  • The Guardian” il 10 novembre accusava l’Iran di aver sostenuto militarmente fin dal 24 febbraio l’alleato russo, ma ancora prima “Wired” riportava un sistema rudimentale – ma efficace – di aggiramento delle sanzioni: contanti e baratto.
  • In estate il baratto sarebbe dimostrato dall’atterraggio il 20 agosto di 2 Ilyushin IL-76 arrivati e ripartiti da Mehrabad (la città del kurdistan iraniano martirizzata il 19 novembre dalle guardie della rivoluzione): trasportava in cambio di droni armi occidentali sottratte agli ucraini, necessarie agli ingegneri persiani per carpire le tecnologie. Ipotesi suffragate da immagini satellitari diffuse da SkyNews e da dichiarazioni rilasciate al Washington Post il 29 agosto da funzionari statunitensi.

Un ultima notazione sull’asse russo/iraniano: i droni iraniani Mohajer-6 contengono molte componenti provenienti dalla tecnologia occidentale (in particolare giapponesi,  secondo James D. Brown) – quindi senza che si debbano trasferire ordigni catturati per studio – stando alle rivelazioni di “la Repubblica”; ma, a dimostrazione che lo spargimento di morte tra civili attraverso macchine a controllo remoto non comporta scelte di campo, il Blog di Antonio Mazzeo riporta un’informazione raccolta da “DefenseNews”:

    • «Il regime turco di Recep Tayyp Erdogan finanzierà la produzione di droni-elicotteri e droni-kamikaze per il mercato nazionale e l’esportazione, decisione che non potrà non essere accolta con favore anche in Italia. La società di engineering aerospaziale Titra Technoloji, con quartier generale ad Ankara, riceverà sussidi economici governativi per realizzare il primo modello di elicottero a pilotaggio remoto in Turchia. Denominato “Alpin”, il drone-elicottero sarà prodotto in dieci esemplari all’anno, “in aggiunta a 250 droni kamikaze”».

    • La Malesia ha scelto la Turkish Aerospace Industries per la fornitura di tre velivoli senza pilota, secondo quanto dichiarato dal ministro della Difesa della nazione del Sudest asiatico e ripreso da “DefenseNews”.
      TAI aveva presentato il suo Anka, un sistema di velivoli senza pilota a media altitudine e lunga resistenza, alla fiera della difesa e dell’aerospazio LIMA nel 2019. Il 18 agosto 2022 il re malese Al-Sultan Abdullah ha visitato le strutture di TAI ad Ankara, in Turchia. Il 7 ottobre TAI ha annunciato un memorandum d’intesa per una collaborazione con il MIMOS, il centro di ricerca e sviluppo della Malesia. Ma perché la Malesia è alla ricerca di queste macchine da guerra? Le forze armate e la Guardia Costiera della Malesia sono impegnate nella lotta alla pirateria lungo le sue coste, inoltre è loro demandato a livello internazionale il controllo e l’antiterrorismo nel Mare di Sulu (tra la Malesia orientale e le Filippine meridionali, dunque all’interno del quadro anticinese del noto contenzioso nel mar cinese meridionale sulle Spratly Island e nello strategico controllo dello Stretto di Malacca).
  • La famiglia di droni Anka è in grado di svolgere missioni di ricognizione, acquisizione e identificazione di obiettivi e raccolta di informazioni. È dotata di tecnologie elettro-ottiche/infrarosse e radar ad apertura sintetica. Il produttore afferma che i velivoli hanno capacità di volo autonomo e possono decollare e atterrare da soli.La famiglia di UAV ha un’apertura alare di 17,5 metri e una lunghezza di 8,6 metri, e ha un tetto di servizio di 30.000 piedi. Possono rimanere in volo all’altitudine operativa di 18.000-23.000 piedi per più di 30 ore.
    • A metà ottobre il Kazakistan e la Turchia hanno annunciato l’intenzione di sviluppare una “cooperazione strategica a lungo termine” che preveda la coproduzione di satelliti e altri sistemi spaziali.
    • «Questo è il primo passo di una forte cooperazione con il Kazakistan nel campo dello spazio. Il memorandum d’intesa che abbiamo firmato con le società Kazsat e Ghalam sulla creazione di una cooperazione strategica a lungo termine nei settori dei satelliti e dello spazio sarà vantaggioso per il nostro paese e la nostra nazione» (Ismail Demir, Tai)

    • Infatti in maggio, secondo le informazioni di “DefenseNews“, era stato firmato un protocollo tra Kazakhstan e Turchia per la coproduzione di droni da gettare sul mercato Asean e produrre in quella che è la prima fabbrica di Bayraktar fuori dai confini turchi, con contratto che prevede anche manutenzione e riparazione. E quell’accordo faceva seguito a quello di aprile con il Kirghizistan che aveva firmato per primo un accordo per l’acquisto di un numero imprecisato di droni armati: infatti  Bishkek aveva pregato Ankara di soprassedere alla vendita dei letali droni a Dushanbe, alla luce delle tensioni sul confine (e questo spiega la rincorsa al riarmo dei due paesi dell’Asia centrale, sfruttata da Ankara per raddoppiare le vendite).
  • Il drone può essere equipaggiato con armi come il lanciamissili a lancio aereo Roketsan Smart Micro Munition e la capsula missilistica guidata Cirit da 2,75 pollici nelle due stazioni d’armamento sotto l’ala per ingaggiare veicoli leggermente corazzati, personale, rifugi militari e stazioni radar a terra. Un evidente monito per le mire espansionistiche di Mosca.
    • L’aggressività non solo verso il mercato della industria bellica turca si appropria anche di ricerche straniere, come quelle che consentono al criminale Erdoğan di arrivare al drone-elicottero: infatti Antonio Mazzeo spiega che questo velivolo è un sistema a pilotaggio remoto che potrà essere impiegato a fini civili ma soprattutto per missioni bellico-militari di intelligence e ricerca e soccorso. Il prototipo del drone-elicottero è lungo 7 metri, alto 2,35 e ha un diametro del rotore di 6,28 metri; ciò gli consente di essere trasportato in veicoli di medie dimensioni. Il suo peso non supera i 540 kg compresi apparecchiature elettroniche e carburante. L’”Alpin” ha una velocità di crociera di 160 km/h e può coprire un raggio d’azione fino a 840 km di distanza, a un’altitudine di 5000 m. L’autonomia di volo varia dalle due alle nove ore, secondo la portata del carico a bordo.
      Ma perché abbiamo usato il verbo “appropriarsi”? La risposta è nel Blog di Antonio Mazzeo (che cita “DefenseNews”):
    • «L’Alpin è basato sull’elicottero italiano ultraleggero con equipaggio umano Heli-Sport CH-7». Il CH-7 è realizzato infatti dalla Heli-Sport S.r.l. di Torino, azienda fondata dai fratelli Igo, Josy e Charlie Barbaro e specializzata nel design e produzione di velivoli ad ala rotante di ridotte dimensioni. La società si dichiara però del tutto estranea dalla vicenda.

    • In effetti l’Alpin nasce da un accordo tra la Titra turca e la Uavos californiana per convertire il CH-7 in elicottero a pilotaggio remoto: la trasformazione dei velivoli italiani in droni-elicotteri è stata avviata dalla statunitense Uavos, mentre il primo test di volo è stato effettuato nel dicembre del 2020 nei cieli della Turchia.

«L’Alpin è stato progettato per andare incontro alle richieste specifiche ed uniche della Turchia e agli interessi speciali della sua industria nazionale per operare come sistema a pilotaggio remoto in una varietà di scenari complessi nei campi civili e della sicurezza», riporta la nota emessa da Uavos a conclusione delle attività sperimentali in territorio turco. «L’elicottero convertito è indispensabile per l’industria logistica dei velivoli senza pilota per trasportare carichi in zone difficili da raggiungere e sfornite di campi di atterraggio». E viene subito in mente la configurazione del Rojava.

La Turchia – benché socio alla pari nelle concertazioni strategiche di Astana – produrrà entro due anni i tanto decantati Bayraktar TB2 in Ucraina: benché più leggeri e meno efficienti nel contrasto di un attacco aereo, i droni turchi secondo l’Agi saranno già in grado di contrastare quelli iraniani.

    • «l’Ucraina ha un ruolo di primo piano nella catena di approvvigionamento di Baykar, in particolare con il nuovo drone pesante Akinci e il jet da combattimento senza pilota Kizilelma, attualmente in fase di sviluppo, montano entrambi motori ucraini MotorSich» (“Analisi Difesa”).

Secondo Barayktar molto presto i droni turchi TB2 e Akinci potranno colpire con buona efficacia oggetti in volo grazie all’integrazione del sistema di difesa Sungur prodotto da Roketsan, mentre i droni iraniani sono pesanti e rumorosi, sono obiettivi facili perché volano a bassa quota.

Invece quelli turchi sono stati opzionati anche dal governo polacco, che ha ricevuto a ottobre 6 dei 24 TB2 comprati.

19 novembre

    • Comprare gas dalla Tunisia con veicoli militari antimigranti

      • LaLa Francia ha portato a Djerba 200 milioni di prestiti in occasione della Organisation internationale de la Francophonie; ma ha anche consegnato alla Tunisia il primo lotto di una donazione comprendente cento veicoli militari fuoristrada Masstech T4 prodotti da Technam in occasione della ventinovesima sessione della Commissione militare franco-tunisina svoltasi dal 15 al 17 novembre nella capitale del paese nordafricano e documentata da “Tuniscope”; i veicoli sono palesemente utili nel contenimento dei migranti. L’ambasciata di Francia a Tunisi sulla propria pagina Facebook ha precisato che durante i lavori della commissione è stato tratto “un bilancio molto soddisfacente” in termini di cooperazione bilaterale per il 2022. In particolare, sono state svolte 60 attività in Francia o Tunisia.Ma quella più interessante è volta a ristabilire l’asse militare tra le due sponde mediterranee:

        «Per Saied – afferma il politologo francese Vincent Geisser rilanciato da “Africanews” – ospitare questo vertice è “un successo” perché lo porterà fuori dal suo isolamento almeno temporaneamente. È una sorta di pacificazione nei suoi rapporti con i suoi principali partner occidentali, userà questo evento per legittimare una svolta autoritaria fortemente criticata».

    • In cambio la Francia cerca di comprarsi gas in quella che era la sua casa coloniale.

  • Questo veicolo, costruito a partire da un telaio Toyota Land Cruiser HZJ76, è blindato, dotato di griglie di protezione contro le proiezioni e di cinque punti di armamento. È in servizio con l’esercito francese sul territorio francese e in OPEX nel Sahel. Viene utilizzato anche dall’esercito reale giordano (“MenaDefense”)

10 novembre

  • Corsa al riarmo in Africa

    • Nel dossier dell’“Atlante delle guerre” a marzo si leggeva: «In Africa subsahariana i cinque maggiori importatori di armi sono stati Angola, Nigeria, Etiopia, Mali e Botswana. Resta un grande importatore l’Egitto che con il più 73% diventa il terzo importatore di armi a livello globale».

    • L’Etiopia ha usato abbondantemente le sue dotazioni prima di arrivare agli accordi di metà novembre: dopo due anni e un numero imprecisato di morti compreso tra mezzo milione e un milione di vittime (qui un intervento di Matteo Palamidessa raccolto da Radio Blackout).

    “Il genocidio atroce e diffuso nel Corno d’Africa”.

  • Il Mali (e il Sahel nella sua integrità) è alle prese con la necessità di difendersi dai tagliagole jihadisti dotati di armi sofisticate e dunque gli eserciti – affrancatisi da operazioni coloniali francesi, ma così indeboliti – cercano di procurarsi strumenti per liberarsi dalla tenaglia dell’insorgenza, come ci ha raccontato Edoardo Baldaro:
  • Collegata a questa situazione è la notizia lanciata da un tweet postato il 5 novembre da “Spoutenik en Français” (palese indirizzo filorusso) relativa alla richiesta a Mosca per l’acquisto di due elicotteri da parte del Burkina di Ibrahim Traoré nel quadro di un trattato di cooperazione con la Russia di Putin (che affonda le radici nei legami intrecciati tra paesi africani che hanno avviato il proprio distacco dall’Occidente con l’appoggio dell’Urss).

Gli elicotteri sono tra le macchine a uso bellico più ambite nel continente, come documenta Antonio Mazzeo nel suo blog il 10 novembre facendo cenno a una triangolazione di 6 velivoli T-129 “Atak” prodotti in Turchia da Turkish Aerospace Industries su licenza di AgustaWestland (della infinita galassia Leonardo spa) per il governo nigeriano al costo di 61 milioni di dollari. Come sottolinea Mazzeo, la versione turca dell’“Atak” (in uso in Siria, Iraq, Filippine e in futuro in Pakistan) sfodera nuovi sistemi di individuazione e tracciamento dei bersagli ed è dotato di razzi non guidati da 70 mm e missili anticarro L-Umtas.

  • «Nel bilancio della difesa nigeriano per il 2023 è previsto anche uno stanziamento di 4,5 milioni di dollari per l’acquisto di due elicotteri AW109 “Trekker, prodotti in Italia da Leonardo SpA. nel corso di un seminario delle forze armate nigeriane tenutosi a Ibom lo scorso 27 ottobre, il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica Oladayo Amao avrebbe confermato l’intenzione di acquisire 24 caccia bimotori M-346 “Master” realizzati negli stabilimenti di Varese-Venegono di Leonardo» (“DefenceWeb”).

  • L’AW109 aveva già riscosso un enorme successo ad agosto al Labace brasiliano:
  • «L’AW109 Trekker, il primo gemello leggero di Leonardo a offrire un carrello di atterraggio a pattino, mantiene la cellula dell’AW109 Grand, l’ampia cabina e le prestazioni di prim’ordine, offrendo al contempo un maggiore carico utile a un costo competitivo, dimostrando così di essere perfettamente in grado di soddisfare i severi requisiti degli operatori in termini di capacità ed economicità. L’AW109 Trekker è dotato di una cabina di pilotaggio in vetro di ultima generazione di Genesys Aerosystems che può essere configurata in base alle esigenze del cliente» (“DGualdo”, un sito evidentemente promozionale di Leonardo)

  • Oltre all’indubbio affare per Leonardo, si può ipotizzare che il gigante africano immagini un innesco di conflitti nell’area… e forse l’odore di bruciato comincia a farsi più forte nella situazione del Nord Kivu, come illustrato in questo intervento di Massimo Zaurrini:
  • “Rischio di Terza guerra mondiale africana dei Grandi Laghi?”.
  • Dunque la Nigeria si sta riarmando potentemente, è sufficiente elencare i prodotti opzionati, prenotati, comprati, acquisiti che riporta “DefenceWeb”, oltre ai T-129 citati da Mazzeo e ai due AW109: gli Stati Uniti hanno approvato la possibile vendita di 12 AH-1Z alla Nigeria nell’ambito di un potenziale accordo da 997 milioni di dollari che include armi ed equipaggiamenti (nonostante i forti dubbi riguardo il mancato rispetto dei diritti umani del regime di Abuja); riceverà due aerei da trasporto C295 da Airbus, agognati dal 2016. La proposta di bilancio della Difesa nigeriana per il 2023 include finanziamenti per la manutenzione degli L-39ZA, degli Alpha Jet e propone 2,7 miliardi di dollari per tre aerei da sorveglianza/attacco MF 212 costruito dalla Magnus Aircraft nella Repubblica Ceca e 3 miliardi (6,8 milioni di dollari) per tre elicotteri Bell UH-1D.
    La BVST ((Belspetsvneshtechnika, ditta bielorussa) ha già collaborato con l’aeronautica nigeriana, fornendo la manutenzione degli elicotteri Mi-35 e l’addestramento; ora ha trasformato gli MF212 in velivoli armati ideali per compiti di sicurezza interna, sorveglianza e pattugliamento. A quanto pare, può essere equipaggiato con un gimbal elettro-ottico iSKY-30 HD e con missili R-60-NT-L o R-60-NT-T-2. In Ottobre il capo di stato maggiore Odalayo Amao aveva già dichiarato che l’Aeronautica militare nigeriana prenderà in consegna due turboelica Beechcraft King Air 360, quattro aerei di sorveglianza Diamond DA 62 e tre veicoli aerei senza pilota (UAV) Wing Loong II. Oltre a dozzine di velivoli ordinati tra il 2016 e il 2021.

Peraltro il mercato africano – ovviamente con le sue richieste. Le disponibilità di spesa e i bisogni commisurati alla tipologia di conflitti che nell’enormemente vasto territorio che costituisce condizioni di combattimento differenti – mette sul piatto finanziamenti corrispondenti alla percezione di pericolo o di preparazione di guerre e quindi mette in piedi una propria frequentata fiera. La biennale Africa Aerospace and Defense Expo di Centurion in Gauteng (Sudafrica) si è tenuta a fine settembre, proiettando in questi ultimi mesi di 2022 le prospettive di collocazione su piazza del nuovo bombardiere B-21 Northtorpe, forse non a caso presentato in Sudafrica per le sue prerogative di deterrenza, come spiega “BreakingDefense” nelle parole del generale dell’aeronautica Jason Armagost riguardo il sistema Sentinel di cui il bombardiere è parte: « Sentinel sarà altamente resiliente e flessibile. Non solo per la nostra sicurezza, ma anche per garantire i nostri partner e alleati in tutto il mondo. Si tratta di una capacità evolutiva e sono state prese decisioni deliberate su come renderla efficiente con l’infrastruttura che abbiamo, e su come modernizzare la capacità per rimanere flessibile con sistemi di missione aperti e un’architettura digitale per evolvere con ambienti di minaccia in evoluzione», sembra la descrizione del panorama fluido africano. Il B-21 verrà definitivamente svelato il 2 dicembre assicura “MilitaryTimes”: probabilmente i paesi del continente africano non si potranno permettere questo bombardiere presentato a casa loro, ma potranno svuotare gli arsenali dei bombardieri che diventeranno obsoleti dopo l’avvento di questa macchina.

Più alla portata delle casse africane è il drone greco Archytas e soprattutto il Mwari aircraft con scopi multipli e infatti già venduto a molti paesi africani; e di quei paesi elencati all’inizio di questa scheda il Botswana probabilmente prenoterà i suoi droni in funzione antimigratoria, e allo scopo i droni presentati alla fiera sudafricana descritta nel video della scheda di ottobre fanno al caso.

AW109 Trekker

GENNAIO FEBBRAIO MARZO APRILE MAGGIO GIUGNO LUGLIO AGOSTO SETTEMBRE OTTOBRE Traffico 2022

Segui tutti i contenuti attinenti a questo Studium

L'articolo LA GUERRA VIENE CON LE ARMI: LO SPACCIO A NOVEMBRE proviene da OGzero.

]]> Il ruolino di marcia di un sistema basato sull’escalation bellica https://ogzero.org/il-ruolino-di-marcia-di-un-sistema-basato-sullescalation-bellica/ Fri, 23 Dec 2022 15:58:01 +0000 https://ogzero.org/?p=9888 La messinscena delle prime mosse per un negoziato Consumati un po’ di arsenali, uccise 250.000 persone tra civili e militari nella pianura sarmata, misurate alleanze e potenzialità di imporre la propria supremazia, sembra che 3 incontri contemporanei lancino segnali precisi alle cancellerie internazionali: Zelensky con il cappello in mano a Washington, Putin a organizzare le […]

L'articolo Il ruolino di marcia di un sistema basato sull’escalation bellica proviene da OGzero.

]]>
La messinscena delle prime mosse per un negoziato

Consumati un po’ di arsenali, uccise 250.000 persone tra civili e militari nella pianura sarmata, misurate alleanze e potenzialità di imporre la propria supremazia, sembra che 3 incontri contemporanei lancino segnali precisi alle cancellerie internazionali: Zelensky con il cappello in mano a Washington, Putin a organizzare le truppe a Minsk, Medvedev a ricevere ordini a Pechino. Bisogna trovare una nuova area dove proseguire la guerra ibrida mondiale con lo scopo di misurarsi in preparazione del redde rationem.

Come si è arrivati qui

Si sono definitivamente composti in un unico giorno (il primo del gelido inverno nella steppa di famose ritirate della Storia) gli schieramenti e i ruoli dei singoli in questa che, come si era capito dal 24 febbraio, era la prima fase di una lunghissima guerra ibrida tra potenze – intrecciate dalla medesima ideologia neoliberista che impone complicati legami – da combattere sulla estesa scacchiera globale, con interessi ed economie dipendenti l’una dall’altra, ma a un punto di rottura dato dall’impressione di essere equiparabili e dunque entrambe le fazioni ritengono di potersi candidare al controllo globale come potenza di riferimento: gli Usa a difendere la propria supremazia, le potenze non democratiche a proporre il loro modello di sviluppo – comunque all’interno della visione capitalista del mondo.

La disposizione sul palcoscenico

E allora si usano media e incontri per marcare il territorio in vista della lenta composizione della disputa. Localmente: Biden prepara il terreno a un nuovo piano Marshall da aggiungere agli 85 miliardi già erogati per ricostruire e “mangiarsi” l’Ucraina come gli Usa hanno iniziato a fare dal 2014 di Maidan, quando Kiev era un satellite di Mosca (ha cominciato a parlarne “Fortune” già il 7 dicembre).
Intanto i russi attivano anche Lukašenka per annettersi quanto più territorio possibile e fare da cuscinetto al confine con la Nato, arrivando alle trattative con il massimo risultato possibile («La Russia fornisce alla Belarus’ petrolio e gas a condizioni molto favorevoli e preferenziali», ha commentato Interfax a proposito della visita a Minsk, ma come fa notare “ValigiaBlu“, Putin ha dichiarato che avevano concordato di «dare priorità all’addestramento delle nostre truppe… ci forniremo reciprocamente le armi necessarie e produrremo insieme nuovo materiale militare… per l’eventuale uso di munizioni aviotrasportate con una testata speciale») e arrivando gradualmente all’annessione della Bielorussia. Ognuno potrà investire in piani di ricostruzione che faranno girare denaro utile per una nuova spirale virtuosa economico-finanziaria.
Globalmente la Cina si schiera, schermendosi – probabilmente anche per partecipare agli appalti – e senza impegnarsi direttamente in questa Prima guerra del confronto del mondo contro la Nato (che Trump aveva azzerato e Biden resuscitato, investendo una quantità di miliardi inimmaginabile), detentrice di una primazia in parte erosa dal multilateralismo di forze intermedie pronte a schierarsi in modo autonomo volta per volta, come la Turchia – appartenente alla Nato! – o l’India (due specchiati esempi di democratura), o anche i paesi del Golfo sempre più impegnati in attività di maquillage, ma anche di autonomizzazione dallo schieramento filoamericano.

«Servitor vostro»

Medvedev non è omologo di Xi, ma può ricevere indicazioni che tutte le diplomazie interpretano come invito a ritornare a una situazione in cui si possano scambiare merci con minori sanzioni o dazi; la guerra si deve spostare su altri piani, in modo che la Cina possa acquisire ulteriori avanzamenti; per uscire dalla sindrome del Giappone targata 1990 – incapace di progredire con lo stesso ritmo e quindi imploso nella sua scalata al cielo. Esistono altre potenze indopacifiche che stanno crescendo d’importanza e infatti si rinnovano i periodici scontri alla frontiera himalayana con l’India.

Lukashenka non è omologo di Putin, ma si adatta bene al ruolo di subordinato nella alleanza militare – utile per mostrare quel che resta dei muscoli di Mosca per arrivare a un primo negoziato che chiuda il contenzioso in quell’area, in attesa che si sposti altrove (e si stanno ammassando armi attorno all’Iran). Intanto è utile mostrare che almeno sulla Bielorussia il Cremlino può ancora contare ed è l’area che in questo momento è geograficamente fondamentale controllare e dove accumulare minacciosi missili logistici e strumenti ipersonici.

Zelensky non è omologo di Biden, ma è il terzo fantoccio (dagli occhi umani, non come quelli da killer come Putin nei folkloristici ritratti di Biden, fintamente gaffeur) che serve ai tre potenti della terra per lanciare messaggi agli altri due. Zelenski va a prendere gli spiccioli, oltre ai Patriot da schierare contro le dotazioni nucleari collocate contemporaneamente alla frontiera bielorussa dall’esercito russo, sapendo che poi arriveranno i soldi per la ricostruzione. E rilancia le richieste nel monologo al parlamento, mancava solo un elenco alla Leporello (ma questa volta come lista della spesa); dei tre incontri quello davvero mediatico e diffuso su ogni media è il kolossal americano, dove anche i dettagli come gli abiti indossati dai due protagonisti sono funzionali a lanciare messaggi precisi e assegnare ruoli. Zelensky è il buffone di corte in ogni senso, comprendendo pure la facoltà di asserire verità scomode, ovviamente a maggior lustro del monarca e Biden non è re Lear infatti Zelensky non ha mai la medesima statura, non solo fisicamente.

Uno schema bellico inesorabile

La concomitanza dei tre eventi non si configura come complotto globale di un’oligarchia che interpreta in modi diversi il neoliberismo e che quindi trova contrapposti gli interessi delle potenze che si misurano per spartire aree di influenza e ruoli in concorrenza e individuano volta per volta territori che si prestino al confronto perché si tratta di aree di crisi incancrenite (da anni si assisteva alle provocazioni sulle pipeline ucraine; il conflitto in Nagorno Karabakh da decenni volutamente irrisolto e costantemente rinfocolato dai vincitori; come quello del Kosovo, dove sta montando da un paio di mesi la tensione che cova dalla “fine” della guerra di Clinton tra opposti nazionalismi, coccolati apposta dai rispettivi riferimenti…); oppure nuovi protagonisti molto potenti e militarmente approvvigionati e minacciosi come le petropotenze emergenti che usano vetrine diverse – per ora strategicamente collegate con una facciata culturale (il marchio Louvre nel deserto in cambio dell’acquisto di Rafele e altre connessioni vantaggiose per Parigi), velata da megaeventi sportivi (il mondiale di football invernale, imposto a suon di corruzione e interpretando in modo ancora diverso il verbo unico capitalista) e che hanno una concezione del sistema socio-politico ancora più oligarchico e fondato sull’oppressione e la cancellazione della maggior parte dei diritti civili, usando la tradizione come collante per i poteri forti interni.

Automatismi di un ruolino di marcia bellico

Piuttosto che un accordo per svolgere ciascuno un ruolo in commedia distribuito da una regia collettiva (una pièce complottista), si può concepire questo snodo epocale come il processo innescato che non può non passare attraverso tappe inevitabili costituite da molteplici guerre. Quei conflitti che, finché non hanno coinvolto equilibri europei, erano rimasti nella percezione occidentale a bassa intensità, mentre ora si manifestano con distruzioni di arsenali e migliaia di vittime civili anche in Europa, non più solo nel Sud del mondo, dove si sparge il sale sulle ferite non rimarginate mai, per suppurare periodicamente e far esplodere furiosi combattimenti utili per sostituire localmente il predatore di turno: infatti Biden è stato spinto a finanziare potentemente il continente africano per tentare di contrastare la penetrazione di Cina, Turchia e Russia, proprio mentre non è ancora del tutto sopita la guerra in Tigray ed esplode un nuovo focolaio nel Sud dell’Etiopia per l’insorgenza dell’Oromia.

Un’ipotesi che si può avanzare sulla base delle prime mosse di incontri diplomatici ad alto livello tra non omologhi, che usano gli incontri per dettare la politica delle macrofazioni e assistere alla conseguente disposizione delle alleanze, è che si cerchi ora di comporre molto lentamente la questione ucraina, lasciandola però accuratamente non del tutto risolta; contemporaneamente preparando nuovi conflitti in aree significative per il confronto tra le maxipotenze, che possano montare ben più che per una proxy war, a impattare su una nuova emergenza (energetica, lievitando prezzi per fibrillazioni borsiste? religiosa, per induzione jihadista?…) e poi confrontarsi in un nuovo scacchiere (Taiwan?) più vicino al confronto diretto e risolutivo.

Il senso del capitalismo per la guerra

Dunque fa tutto parte della vera Guerra tra Usa e Cina, che non finirà se non trovando un’uscita dal sistema capitalistico, motore mobile che necessita e si alimenta di quel costante conflitto, perché il capitalismo ha bisogno sempre di incrementare il profitto, triturandovi tutto: industria del divertimento, alimentare, consumo di beni… industria bellica.

L'articolo Il ruolino di marcia di un sistema basato sull’escalation bellica proviene da OGzero.

]]>
Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi https://ogzero.org/guerre-di-religione-continuazione-del-colonialismo-con-altri-mezzi/ Sat, 12 Nov 2022 08:48:30 +0000 https://ogzero.org/?p=9436 Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che […]

L'articolo Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi proviene da OGzero.

]]>
Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che si fonde e intreccia con le altre che muovono masse di disperati, distruggono il clima, depredano territori, spacciano armi, innescano conflitti per controllare risorse. Si può interpretare questo uso della divisione religiosa come un nodo delle diverse emergenze del Finanzkapitalismus nella sua fase iperliberista, un nodo a cui arrivare dagli altri orrori geopolitici, o da cui partire per inserirlo nella rete che mette insieme l’uso politico-aggressivo della religione, il pastone mediatico, la scorciatoia militarista, l’espansionismo imperialista… ma partiamo dallo storico conflitto irlandese tra cattolici separatisti e unionisti protestanti e poi ci espandiamo nelle più complesse – ma riconducibili agli stessi modelli di potere – contrapposizioni mediorientali.


Solo un’ipotesi, la mia. Da “proletario autoalfabetizzato” senza pretese accademiche. A naso diciamo.
Se in passato le “guerre di religione” potevano, forse, esprimere (“fotografare”) in qualche modo i conflitti etnici e/o sociali del tempo (vedi alcune “eresie” e certe “riforme” diretta conseguenza dei conflitti di classe), direi che in seguito, perlomeno dal secolo scorso, il più delle volte sono state la copertura, la “vetrina” di interessate strumentalizzazioni.

Partiamo dall’Irlanda…

A titolo di esempio, il conflitto irlandese, soprattutto dopo la divisione dell’Isola di smeraldo. Se già nel Settecento cattolici e protestanti (discendenti i primi dagli indigeni irlandesi colonizzati, gli altri dai coloni scozzesi presbiteriani) avevano fatto fronte comune per l’indipendenza dell’Irlanda, anche in seguito (vedi gli scioperi di lavoratori salariati cattolici e protestanti a Belfast) non mancarono lotte comuni. A porvi fine intervennero le ricche borghesie filobritanniche (si veda La Casa d’Orange) elargendo piccoli privilegi e organizzando milizie settarie “lealiste” (v. Uvf). Non potendo utilizzare – che so – un diverso colore della pelle o diversità etniche rilevanti (in quanto entrambe le comunità erano di origine celtica, diversamente dagli inglesi anglosassoni – di origine germanica – e anglicani) si accontentarono di ampliare il modesto solco di natura religiosa.


Poi è andata come sappiamo. Esperimento sostanzialmente riuscito, un modello per future strumentalizzazioni a “geometria variabile”.

… e giungiamo tra le comunità beluci, curde e hazara

Quindi ritengo che anche le sanguinose faide mediorientali tra sunniti e sciiti (con ricadute particolarmente gravi per le minoranze qui presenti: yazidi, alaviti, assiro-cristiani, zoroastriani…) siano state perlomeno “pompate”, gonfiate, esasperate ad arte.
Quanto è avvenuto nelle aree curde, occupate militarmente dalla Turchia, di Afrin e di Sere Kaniyê (Nord della Siria) appare emblematico. Non essendo in grado di controllare adeguatamente le proprie milizie mercenarie (vedi l’Esercito Nazionale Siriano, Sna), Ankara si starebbe affidando direttamente al gruppo terrorista Hayat Tahrir al-Sham (Hts, successore di al-Nusra), con tutta probabilità l’emanazione locale di al-Qaeda.

Il ruolo della Turchia

Anche perché tra le fila di alcune formazioni sul libro paga di Ankara ultimamente serpeggiava, oltre al malcontento, anche una certa preoccupazione.

Le voci su un possibile riavvicinamento tra Ankara e Damasco (patrocinato da Mosca) lasciava intravedere la possibilità di venir scaricati, se non addirittura consegnati, per diversi membri delle milizie mercenarie. In quanto ricercati da Damasco potrebbero venire estradati e questo suggerisce una possibile spiegazione su alcuni episodi di insubordinazione. Come per gli scontri a mano armata intercorsi tra membri di Jabhat al-Shamiya e di Jaish al-Islam.
Tali dispute ricorrenti (oltre al rischio concreto di insubordinazione e defezione) tra le diverse fazioni di Sna (forse non adeguatamente attrezzate, oltre che sul piano politico, anche in quello religioso?) avrebbero suggerito a Erdoğan di far leva sul maggiore entusiasmo, fervore religioso (eufemismo per fanatismo) di Hts. Un fanatismo indispensabile per annichilire le minoranze “eretiche” e non omologate (tutti apostati, dissidenti, “pagani”… addirittura comunisti o anarchici talvolta) del nord della Siria. Nella prospettiva di ulteriori invasioni.
Già all’epoca delle prime manifestazioni contro il regime siriano si assisteva a una proliferazione di gruppi armati, in genere appoggiati, oltre che dalla Turchia, da alcuni stati del Golfo come il Qatar.

Negli Usa è ancora in corso il processo contro “Qatar Charity” e contro Qatar Bank per aver finanziato con 800.000 dollari il leader dell’Esercito Islamico Fadhel al-Salim.

Pulizie etnico-religiose nella Mezzaluna sciita

Per inciso, è probabile che questo stia oggi avvenendo in Iran, nel tentativo di strumentalizzare, “dirottare” altrove, le legittime proteste popolari. Con un occhio di riguardo per i beluci, già manovrati in passato anche da qualche potenza imperialista di Oltreoceano. Come da manuale, ça va sans dire, anche i beluci ci mettono “del loro”: per esempio in Pakistan alcuni gruppi indipendentisti beluci sono ritenuti responsabili di vere e proprie stragi ai danni degli hazara, un’altra minoranza, ma di fede sciita.
Va anche detto che da parte sua la Repubblica islamica sembra far di tutto per fornire pretesti in tal senso. In una recente manifestazione (4 novembre 2022) a Khach, provincia di Zahedan, le forze di sicurezza hanno ucciso una ventina di civili beluci (16 le vittime identificate, tra cui alcuni bambini) ferendone oltre sessanta. Da segnalare – stando a quanto dichiarato da alcuni attivisti – che altri feriti erano poi deceduti non essendo stati traspostati all’ospedale dove rischiavano seriamente di essere arrestati.


Un’altra strage di 90 civili beluci era già avvenuta, sempre nella provincia di Zahedana, il 30 settembre.

Appare evidente che – analogamente a quella curda – anche la popolazione minorizzata dei beluci (“minorizzata” e non minoritaria, in quanto divisa da frontiere statali) in Sistan e Baluchistan subisce quotidiane discriminazioni ed è sottoposta a una dura repressione (come del resto altre comunità delle aree periferiche del paese) da parte di Teheran.
Sia per la loro appartenenza etnica, sia per ragioni religiose in quanto sunniti.
Il comandante di al-Nusra, Al-Hana (Abu Mansour al-Maghrebi) arrestato nel 2020 in Iraq aveva rivelato che lo sceicco Khalid Sueliman (della potente famiglia al-Thani), a capo del Jabhat al-Nusra (e pare anche delle organizzazioni derivate), veniva finanziato con qualcosa come un milione di dollari al mese. Turchia e Qatar sosterrebbero, sia finanziariamente, sia con la fornitura di armamenti, i vari gruppi combattenti emanazione dei Fratelli musulmani salafiti in quanto utile strumento per la loro politica estera. Anche in chiave panislamica.

Guerra turca ai curdi in Siria

Alcune organizzazioni hanno stabilito un’analogia, per vastità e inasprimento, tra l’attuale repressione in Iran e i massacri subiti dai beluci a Deraa (in Siria) nel 2011, denunciati dall’Onu come crimini di guerra.
Storicamente accertato che potenze regionali ostili a Damasco avevano favorito la militarizzazione (vedi appunto la formazione di Sna) e l’escalation del conflitto.
Oltre che a Sna, la Turchia non avrebbe lesinato nel fornire sostegno al fronte al-Nusra (dal 2012 nella lista del terrorismo internazionale in quanto ritenuto emanazione di al-Qaeda) e addirittura a Daesh. Formazioni entrambe notoriamente jihadiste.

Quanto al fronte al-Nusra, va ricordato che nell’ottobre 2012 attaccava i distretti autonomi di Şêxmeqsûd e Eşrefiye (regione di Aleppo) uccidendo decine di curdi. Subito dopo gli ascari jihadisti si scagliavano contro Afrin, incontrando però la ferrea resistenza delle Ypg/Ypj. Nel voler annichilire in primis le zone curde del Rojava (dove si sperimentava la rivoluzione del Confederalismo democratico) il Jabhat al -Nusra si smascherava da solo, mostrando apertamente di agire su indicazione della Turchia.

Sempre nel 2012, in novembre, veniva attaccata, partendo direttamente dalla Turchia, anche Serêkaniyê. Un’operazione congiunta tra al-Nusra e alcune milizie curde collaborazioniste legate al Pdk. Entrando in alcuni dei quartieri a maggioranza araba di Serêkaniyê, queste milizie si spacciavano per ribelli antiAssad cercando di stabilire alleanze. Solo successivamente (il 19 novembre) partiva il brutale attacco contro i quartieri a maggioranza curda. Veniva assassinato il sindaco della città e la chiesa diventava un bivacco per il loro quartiere generale.

Nel frattempo la loro già consistente presenza veniva rinforzata dall’apporto della cosiddetta Coalizione nazionale (Etilaf), che – secondo i curdi – sarebbe al Etilaf di Sna o comunque della sua derivazione, il “governo di transizione siriano”. Oltre al seggio di Istanbul, Etilaf ne controlla uno anche a Berlino (oltretutto finanziato dal governo tedesco).
Avrebbe anche una certa influenza in alcuni progetti (ugualmente finanziati dal governo tedesco) che sembrano funzionare come “specchietti per allodole”, allo scopo di creare cortine fumogene sulla realtà della situazione curda. Tra questi, il Centro europeo di studi curdi (Ezks) e il sito Kurdwatch, divulgatore di notizie farlocche intese a giustificare le operazioni militari di Erdoğan nel Nord della Siria e nel Nord dell’Iraq. Ma nonostante questo ulteriore apporto di milizie, successivamente venivano scacciati dalla popolazione insorta dei quartieri curdi, grazie anche all’intervento dei combattenti di Ypg e Ypj.

Gli scontri ripresero, durissimi, nel gennaio 2013. Praticamente una vera e propria ammucchiata di gruppi mercenari guidata da al-Nusra quella che contese per circa due settimane il controllo dei quartieri alle milizie curde. Sconfitte nuovamente, le truppe jihadiste si misero in salvo direttamente oltre il confine turco (immediatamente blindato dai soldati turchi per maggior sicurezza), ma lasciando in mano ai curdi un’ampia documentazione della loro intensa collaborazione con Ankara.
Purtroppo durante la ritirata sia al-Nusra che Daesh non mancarono di vendicarsi sulla popolazione curda con una vile rappresaglia.

Come a Til Eran (luglio 2013) e a Tal Hasil. Dichiarando pubblicamente, attraverso le moschee, che sia il bagno di sangue nei confronti della popolazione curda (circa un’ottantina le vittime accertate) che il sequestro-rapimento delle donne curde (prelevate a centinaia) era giustificato dal punto di vista religioso. Rastrellando poi casa per casa le due località sopracitate alla ricerca di “Apoisti”, ossia di seguaci di Apo Öcalan. Oltre a quelli crudelmente assassinati (alcuni bruciati vivi, con le immagini poi diffuse nei social), vanno considerati anche i desaparecidos (qualche decina) e i cadaveri (una ventina) di cui non è stata possibile l’identificazione.

Til Hasil

Da sottolineare che – per quanto entrambe aspirassero alla supremazia – Al-Nusra e Daesh (o Stato Islamico che dir si voglia) non smisero mai di collaborare proficuamente. Sia garantendo una certa “osmosi” di combattenti –praticamente intercambiabili – da una formazione all’altra (in base alle necessità del momento), sia dandosi il cambio, alternandosi nel controllo delle aree occupate. E soprattutto instaurando congiuntamente durante l’occupazione delle città, dei villaggi e dei quartieri curdi un aspro regime di ispirazione salafita. Anche a livello di tribunali islamici dove operavano in coppia.

Sempre sotto la supervisione di Ankara ovviamente. L’assalto al carcere di Sina à Hesekê (gennaio 2022) era stato pianificato dai territori occupati dalla Turchia.

Come già detto negli ultimi tempi al-Nusra aveva cercato di “riciclarsi” prendendo (almeno ufficialmente) le distanze da al-Qaeda e cambiando pelle e nome. Diventando prima, nel 2016, Liwa Fatah al-Sham e successivamente, nel 2017, appunto Hayat Tahrir al-Sham (Hts, in realtà una finta coalizione di vari gruppi, sostanzialmente sotto il controllo della vecchia al-Nusra, comunque denominata). Attualmente la casa madre sarebbe localizzata in quel di Idlib, in felice coabitazione con l’alleato turco. Allo scopo dichiarato di soffocare il risorgere e la diffusione del Confederalismo democratico in questa parte del Rojava. Esperienza pericolosa perché esemplare e contagiosa, soprattutto così in prossimità del confine turco.

Dal maggio di quest’anno (a seguito dell’incontro di Idlib-Sarmada con esponenti del regime turco) le milizie di Hts hanno ripreso a riposizionarsi e raggrupparsi su Idlib puntando quindi su Afrin. Inoltre si sarebbero acquartierati anche nelle zone di Girê Spî, Azaz, al-Bab, Cerablus e intorno alla città di Minbić (ancora gestita dall’amministrazione autonoma).
Sempre in vista di ulteriori attacchi in Rojava.

Per concludere, pur essendo presto rientrato nella lista nera dei gruppi terroristi, Hts continua a godere dei finanziamenti di Turchia, Qatar, Arabia Saudita…
Pare anche di qualche non meglio identificato “paese occidentale”…

Vai a sapere.

L'articolo Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi proviene da OGzero.

]]>
Biden in Medio Oriente: le insidie che declinano la centralità Usa https://ogzero.org/biden-in-medio-oriente-le-insidie-che-declinano-la-centralita-usa/ Tue, 19 Jul 2022 14:48:13 +0000 https://ogzero.org/?p=8226 La disposizione delle pedine sulla scacchiera conduce a frenetiche consultazioni, vertici, summit, visite di rappresentanza e di scambi più o meno confessabili; la preparazione del confronto sull’egemonia o sulla oppositiva concezione tra multilateralismo e bipolarismo.  Inauguriamo con questa analisi di Eric Salerno sulle visite di Biden in Medio Oriente alcuni interventi estemporanei, di cui cercheremo […]

L'articolo Biden in Medio Oriente: le insidie che declinano la centralità Usa proviene da OGzero.

]]>
La disposizione delle pedine sulla scacchiera conduce a frenetiche consultazioni, vertici, summit, visite di rappresentanza e di scambi più o meno confessabili; la preparazione del confronto sull’egemonia o sulla oppositiva concezione tra multilateralismo e bipolarismo. 
Inauguriamo con questa analisi di Eric Salerno sulle visite di Biden in Medio Oriente alcuni interventi estemporanei, di cui cercheremo di fare tesoro per arrivare a comprendere le strategie e gli schieramenti in alcune tappe. Cominciamo a proporre interventi o editoriali proprio oggi, quando si sta svolgendo l’incontro a Tehran tra i vecchi protagonisti degli incontri iniziati ad Astana con l’idea di comporre il conflitto siriano e poi proseguiti spartendosi ruoli e aree di influenza nel bacino mediterraneo, nella regione caucasica e nella penisola araba, come descritto da Antonella De Biasi in Astana e i 7 mari. Un percorso che passa anche attraverso il rifiuto del “paria” MbS alla richiesta di incrementare  la produzione al di là degli accordi Opec, che avrebbe segnato una precisa scelta di campo contro la Russia, con la quale i sauditi hanno sempre stabilito il prezzo del petrolio accordandosi sulla produzione.

Fin da subito in questo articolo viene evidenziato da Eric il punto principale: l’irreversibile declino degli Usa come unica potenza di riferimento, motivo del confronto globale che scuote il mondo.

Fin qui la presentazione di OGzero, la parola passa ora a Eric Salerno


Biden in Medio Oriente: «Ne valeva la pena?»

«Was it worth it?»

È la domanda che si pone il “Washington Post”, analizzando la visita del presidente Biden in Medio Oriente. Una domanda lecita da molti punti di vista, e non soltanto da chi guarda agli interessi Usa. La toccata – pugno contro pugno – tra il presidente americano e il principe della corona saudita Mohammed bin Salman – immagine scandalosa, per tanti, che ha fatto il giro del mondo – non è soltanto imbarazzante ma indicativo di un cambiamento profondo in corso nel mondo che sempre di più non considera gli Usa il punto di riferimento di ogni forma di sviluppo. E di gestione del futuro, sempre incerto, della Terra.

«Saudi Arabia can’t raise oil output more in the medium term»

È la risposta del “paria” Mbs.
Jamal Khashoggi, saudita critico del regime che governa il suo paese, era un collaboratore del quotidiano della capitale americana. I servizi segreti americani ritengono che la sua uccisione, avvenuta in Turchia, era stata autorizzata, o meglio commissionata da Mohammed bin Salman per eliminare uno dei personaggi più critici della monarchia. Biden aveva fatto della sua presunta-certa colpevolezza nella vicenda Khashoggi uno dei suoi cavalli di battaglia durante la campagna elettorale. Aveva giurato di osteggiare, punire Mbs (come è noto ormai a tutti, l’erede al trono dei Saud). Il pragmatismo, ci dicono i diplomatici, è un elemento fondamentale nelle scelte strategiche e in questo momento, con Russia e Cina e una parte considerevole del mondo su posizioni ben lontane da quelle Usa-Europa, il capo della Casa Bianca non aveva altra scelta per cercare di convincere i sauditi ad aumentare la produzione di petrolio (continuano a dire di no) e per cercare di riportarli sotto il controllo Usa mentre si fanno corteggiare con un certo successo da Pechino.
Con la guerra che infuria in Europa, le alleanze da guerra fredda che riaffiorano, l’economia mondiale in caduta libera,  e l’unica industria che tira come mai quella degli armamenti, c’è chi afferma che Biden non aveva altra scelta. E che comunque, tutto sommato, Bin Salman non è il primo tiranno-assassino con cui gli Usa o l’Europa fanno affari.

Visita elettorale a Tel Aviv

Se quel ragionamento tattico-strategico in Arabia Saudita può essere condiviso, diversamente non ci sono giustificazioni per il comportamento di Biden in Israele, la tappa precedente della sua visita regionale, se non quella di non turbare difficili equilibri interni americani a pochi mesi dalle elezioni parlamentari di mezzo termine. Le azioni del presidente sono in caduta libera e il leader democratico non può – e non vuole – rischiare di perdere il voto di chi sostiene da sempre e in maniera totalmente acritica lo stato d’Israele. Biden arrivando a Tel Aviv ha ripetuto il suo storico sostegno alla soluzione “due stati per due popoli” per poi mettere le mani avanti con un «ma i tempi non sono maturi per la ripresa dei negoziati».  Si è poi vantato di aver stanziato un miliardo di dollari per aiutare ad affrontare la fame in alcune parti del Medio Oriente e del Nordafrica. Soldi promessi, ricorda il quotidiano Usa, anche ai palestinesi per i quali il perpetuarsi dello status quo rafforza l’occupazione israeliana delle loro terre, ossia della Cisgiordania e della parte orientale di Gerusalemme.

«The only way to stop them is to put a credible military threat on the table»

È la pretesa di Yair Lapid rivolta a Biden dopo avergli chiesto soldi per l’Iron Beam, il sistema missilistico di difesa antiraniano.

Ci sono state, dopo questa visita di Biden, poche analisi e commenti. Si è accennato al contenzioso con l’Iran con cui continuano i negoziati per cercare di mettere insieme un altro accordo Jcpoa sul nucleare mentre Israele ribadisce che agirà militarmente (oltre agli attentati e assassini mirati di scienziati e militari di Tehran) se lo dovesse ritenere necessario per restare l’unico paese armato di ordigni nucleari in tutta la regi0ne. E qui, da osservatore impegnato da troppi anni a seguire il conflitto israelo-palestinese, appare doveroso chiedersi: «Ma è mai possibile che gli Usa e l’Europa non abbiano capito che Israele – governanti, politici, opinione pubblica – concorda e si è fissata su una valutazione assurda: “Uno stato palestinese indipendente sarebbe un pericolo esistenziale per lo ‘stato ebraico’”».

Armi di distruzione di etnie: curdi palestinesi saharawi

Israele è all’avanguardia nelle tecnologie militari del futuro; vende know-how a tutti (quasi); potrebbe “appiattire” una Palestina indipendente se fosse ostile in pochi minuti con gli stessi strumenti che minaccia di usare per distruggere il Libano se dalla frontiera settentrionale Hezbollah o altri alleati di Tehran dovessero attaccare. E allora? Forse è venuto il momento di capire che, salvo stravolgimenti difficili da prevedere oggi, della sofferenza dei palestinesi – tra Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est, campi profughi in Siria e Libano e Giordania, e una diaspora mondiale – si sentirà parlare a lungo, così come si parla del popolo curdo, se vogliamo restare nella stessa regione.

L'articolo Biden in Medio Oriente: le insidie che declinano la centralità Usa proviene da OGzero.

]]>
Appunti per una tragedia yemenita: i droni di Sana′a https://ogzero.org/appunti-per-una-tragedia-yemenita/ Thu, 10 Mar 2022 17:24:49 +0000 https://ogzero.org/?p=6643 Lo scacchiere internazionale vede molteplici guerre sanguinose in corso da anni fuori dall’Europa; lo Yemen viene usato come scenario dove affondano le dispute tribali storiche e locali, che risalgono al tempo in cui il territorio era suddiviso in entità statali del Nord e del Sud; rinfocolate da guerre per procura che contrappongono potenze locali, a […]

L'articolo Appunti per una tragedia yemenita: i droni di Sana′a proviene da OGzero.

]]>
Lo scacchiere internazionale vede molteplici guerre sanguinose in corso da anni fuori dall’Europa; lo Yemen viene usato come scenario dove affondano le dispute tribali storiche e locali, che risalgono al tempo in cui il territorio era suddiviso in entità statali del Nord e del Sud; rinfocolate da guerre per procura che contrappongono potenze locali, a loro volta sostenute militarmente e propagandisticamente da potenze globali. Scatole cinesi belliche aperte in questo studio di Lorenzo Forlani che dischiude un percorso storico a dipanare il filo dei contrasti dal punto di vista del confronto armato e degli addentellati geopolitici insiti negli intrecci soffocati da un abbraccio mortale di quei riferimenti culturali in contrasto per ragioni storiche e costretti a convivere nelle pieghe di dissidi tribali documentati nella parallela analisi di Carlotta Caldonazzo, che non rinuncia a collocarli nello schema geopolitico dell’area compresa tra lo Stretto di Hormuz e Bab el-Mandeb.

Fu la mattina seguente, a venti chilometri da Taïz, nella dolcezza di una luce che il verde dei campi e dei boschetti privava della sua crudezza, in un palazzo che sembrava uscito da una miniatura persiana, che la mia ricerca delle fonti dell’Islam finì negli occhi di un bambino…
Il guardiano del luogo, un bin Maaruf, proveniente dalla regione più selvaggia dell’antico Hedjaz, ha dei lineamenti affilati e canini la cui espressione astuta è, mi dicono, comune a tutti gli uomini della sua tribù, che fu per molto tempo la più odiata in Arabia. Disprezza qualcuno per generazioni e hai buone possibilità di renderlo spregevole, fino al giorno in cui, con le armi in mano, riacquisterà la sua dignità…

Roman Gary, Les Trésors de la mer Rouge, Gallimard, 1971

 

Il Castello di Taïz com'era (e com'è)

Il Castello di Taïz com’era (e com’è)

fin qui il sommario di OGzero…
La penna ora passa a Lorenzo Forlani


Nuovi scenari scaturiscono dai droni houthi

La crisi umanitaria in Yemen, generata da un grave conflitto militare che non accenna a estinguersi, viene raccontata a fasi e intensità alterne dai media internazionali. Letto unicamente attraverso il prisma della rivalità regionale tra Arabia saudita e Iran, ciò che accade nel paese raccontato da Pasolini tende a guadagnare i titoli delle prime pagine quando i suoi spillover – cioè gli “sconfinamenti” di un conflitto in un contesto diverso da quello in cui ha luogo – sono particolarmente visibili, cioè quando coinvolgono paesi più presenti nel (selettivo) immaginario collettivo occidentale.

È successo alla fine del mese di gennaio, quando i ribelli yemeniti di Ansarullah – anche conosciuti come Houthi – nel giro di due settimane hanno sferrato tre distinti attacchi con droni e missili balistici negli Emirati Arabi Uniti (uno dei quali durante la prima visita ufficiale negli Emirati del presidente israeliano Isaac Herzog) con l’obiettivo di colpire la base militare di Al Dhafra – che ospita truppe britanniche e americane –, un aeroporto e un deposito di carburante. Dopo aver intercettato i missili sui cieli di Abu Dhabi, le forze della coalizione filosaudita, di cui gli emiratini sono parte, hanno bombardato alcune aree sotto il controllo degli Houthi, tra cui la capitale Sana′a e la provincia di Saada, cioè l’area dove il movimento si è strutturato negli anni Novanta.

Attacco di uno stormo di droni Houthi sulla base di al-Dhafra

Lo “Yemen utile”, dimezzato e marginalizzato

Dal punto di vista formale, la situazione in Yemen appare quasi speculare a quella determinatasi in Siria: se nel paese levantino l’esercito di Bashar al Assad, coadiuvato da milizie regionali alleate e soprattutto dall’aviazione russa, dopo quasi dieci anni di conflitto ha ripreso il controllo della gran parte del territorio, e anzitutto di quella che gli osservatori definiscono “Siria utile” (cioè l’area del paese più densamente abitata, lungo la direttrice Damasco-Aleppo), in Yemen sono oggi i ribelli – quelli emersi nel tempo come i più organizzati, cioè gli Houthi – a controllare le regioni più abitate, nonché la capitale Sana′a.

 

La guerra in Yemen ha finora prodotto quasi mezzo milione di morti, dei quali il 70 per cento erano bambini. Secondo la Banca mondiale, su una popolazione iniziale di 30 milioni, oggi in Yemen sono non meno di 20 milioni le persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria permanente, e almeno 14 milioni a soffrire la fame. Quattro milioni sono gli sfollati, e un bambino su due soffre di malnutrizione. Lo Yemen era già lo stato arabo più povero – il quartultimo per Indice di sviluppo umano, dopo Sudan, Mauritania e Gibuti – prima dell’inizio delle primavere arabe del 2011, e oggi sembra affogare nella più grave crisi umanitaria del pianeta, trovandosi ai margini della narrazione tanto quanto, geograficamente, si trova ai margini della regione.

Lo scenario precedente: le “primavere” del 2011

Come si è arrivati sin qui? Sette anni di feroce conflitto hanno forse contribuito a rendere sfocato il ricordo del 2011: anche a Sana′a, la capitale del paese, nel mese di gennaio esplodono proteste popolari estremamente partecipate, proprio nei giorni successivi alla “cacciata” di Ben Ali in Tunisia. Le proteste – che prendono di mira anzitutto il presidente Ali Abdullah Saleh – si espandono a macchia d’olio in brevissimo tempo, e in diverse aree si trasformano in piccole rivolte, represse duramente. Già ad aprile, un terzo dei diciotto governatorati dello Yemen sfuggono al controllo del governo.

 

Come in tutte le rivolte che aspirano a diventare rivoluzioni, partecipate in modo più o meno orizzontale dalla società civile, c’è sempre un gruppo più organizzato, più radicato, più predisposto a prevalere sugli altri nella conquista e nella successiva gestione del potere, nel sovvertimento delle istituzioni esistenti. Gli Houthi – perlopiù riconducibili al ramo zaydita dell’Islam sciita, cioè quello che prende il nome dal pronipote di Ali Ibn Abi Talib, figura fondante dello sciismo – iniziano a avanzare le loro rivendicazioni e la loro soggettività politica nella prima metà degli anni Novanta, insistendo sulla lotta alla corruzione sul piano interno e sull’ostilità verso gli Stati Uniti, avversando Israele come posizionamento geopolitico. Sin dal principio si oppongono al presidente dello Yemen, Ali Abdullah Saleh (al potere dal 1990), riconducendolo all’interno di una narrazione che lo descrive come vassallo dell’Arabia Saudita, e di riflesso degli Stati Uniti.

Appunti per una tragedia yemenita

Yemen in piazza.

Il punto di svolta, cioè il momento in cui l’opposizione degli Houthi si trasforma in sistematica insorgenza anche armata – a intensità diverse, nel corso del tempo – arriva nel 2004: dopo aver rigettato un mandato d’arresto, il leader del movimento sciita Hussein Badreddine al Houthi viene ucciso dall’esercito durante un’offensiva a Saada. Da quel momento, sarà il fratello Abdelmalik al Houthi a guidare il movimento, ed è proprio lui che nel febbraio 2011 dichiara il suo appoggio alle proteste antigovernative, invitando i suoi a parteciparvi, soprattutto nella “roccaforte” di Saada.

Intrecci settari: regionalismo imposto al radicamento territoriale

 

Non è quindi un caso che il primo dei sei governatorati a scivolare via dalla giurisdizione del governo yemenita sarà proprio quello di Saada, che a fine marzo viene dichiarato indipendente dagli stessi membri di Ansarullah. In questo periodo inizia anche una fase di polarizzazione settaria con altre formazioni antigovernative di orientamento sunnita come Al Islah (vaga espressione della Fratellanza musulmana), accusati dagli Houthi di avere legami con al-Qaeda, laddove invece gli Houthi, anche alla luce di una effettiva identità di posizionamenti internazionali, nonché della affiliazione religiosa, vengono sempre più ricondotti a movimento organico alle strategie internazionali dell’Iran, rivale regionale dell’Arabia saudita.

Un importante sviluppo si ha nel novembre 2011, quando gli Houthi, già detenendo il controllo di una porzione rilevante di territorio, rifiutano un piano mediato dai paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, che intendeva dividere lo Yemen in sei regioni federali: secondo i ribelli zayditi, il piano non avrebbe cambiato nulla nella distribuzione del potere e nella governance, e anzi avrebbe rafforzato la netta divisione dello Yemen tra regioni ricche e povere. In più avrebbe frazionato aree già sotto il controllo degli Houthi, che in questo vedevano un tentativo di indebolirne la posizione negoziale. È la prima vera rottura di portata regionale, il momento in cui il piano inizia a inclinarsi verso una feroce guerra civile, alimentata anche da istanze esterne, figlie della proxy war tra Iran e Arabia Saudita.

Milizie. Coperture, forniture, alleanze

È in questo periodo che Ansarullah entra stabilmente in contatto con l’Iran e la sua orbita di milizie regionali, che forniscono addestratori e in seguito armi di vario genere. Dopo aver catturato Sana′a nel 2014, gli Houthi resistono ad alcune offensive saudite nella capitale e si scontrano a Est con formazioni qaediste sotto l’ombrello di Aqap (al Qaeda in the Arabic peninsula). L’offensiva saudita viene declinata soprattutto dal cielo: secondo lo Yemen Data Project, sono circa 25.000 i raid aerei sauditi dal 2015 a oggi, con i picchi più severi nel 2015, 2016 e 2020.

Appunti per una tragedia yemenita

Soldati emiratini rientrano dopo un anno di battaglie in Yemen.

D’altro canto dal 2016 gli Houthi smettono in qualche modo di essere solo una formazione dedita alla guerriglia interna – dal 2018 le battaglie più feroci sono quelle contro gli Amaliqah [i Giganti], un esercito di circa 20.000 uomini, sostenuto da Dubai – e portano a termine diversi attacchi oltre confine, prendendo di mira aeroporti, giacimenti petroliferi e di gas, sia in Arabia Saudita che negli Emirati arabi uniti. Lo fanno servendosi di armamenti via via più sofisticati – e sempre più diffusi in movimenti armati che non possono contare su una copertura aerea – come droni e missili a corto raggio. A partire dai dati del Center for Strategic and International studies, Riad avrebbe intercettato circa 4000 tra missili e droni provenienti dalle zone controllate dagli Houthi negli ultimi 5 anni.

Ed è interessante notare come Ansarullah sia entrato in possesso o abbia direttamente assemblato questo tipo di armamenti, se ancora lo scorso gennaio un report delle Nazioni Unite rilevava la violazione dell’embargo sulle armi, continuando «ad ottenere componenti fondamentali per i loro sistemi d’arma da società europee (soprattutto tedesche, i cui componenti arrivano a Sana′a dopo esser transitate per Atene e Teheran, N.d.R.) e asiatiche, utilizzando una complessa rete di intermediari per occultare la catena di custodia».

Droni in dotazione

In modo simile a quanto fatto da altre milizie sciite, più o meno organiche all’impalcatura di politica di sicurezza regionale dell’Iran, anche gli Houthi dal 2019 hanno persino presentato in via semiufficiale una piccola flotta di droni presumibilmente assemblati in Yemen: si tratta dei velivoli da ricognizione Hudhed 1, Raqib, Rased, Sammad 1 e di quelli da combattimento, Sammad 2, Sammad 3, Qasef 1 e Qasef 2k, questi ultimi praticamente identici ai droni Ababil di fabbricazione iraniana. Se fino al 2019 i droni utilizzati erano soprattutto quelli non armati, che però venivano fatti schiantare contro i radar dei sistemi di difesa della coalizione, da almeno due anni i droni utilizzati sono caricati con esplosivo e hanno un raggio più lungo. In sostanza: da qualche anno gli Houthi hanno accresciuto di molto le loro capacità militari, e questo costituisce uno dei motivi della loro resilienza a fronte della campagna di bombardamenti sauditi ed emiratini.

Qasef 2k, il drone in dotazione ai ribelli Houthi utilizzato per colpire obiettivi sauditi ed emiratini

Dopo sette anni dall’inizio dell’offensiva filosaudita, gli Houthi controllano ancora buona parte dell’area occidentale del paese, che a nord incontra un confine di 1300 km con l’Arabia saudita, mentre a ovest termina sulla costa di fronte allo stretto di Bab el Mandeb, una cruciale zona di transito commerciale. L’unica zona occidentale del paese non controllata dai ribelli di Ansarullah è il lembo di terra costiero a sud, dove sorge la città portuale di Aden, che dal 2019 è sotto il controllo del Southern Transitional Council a guida saudita-emiratina, cioè il governo temporaneo dello Yemen, alternativo a quello guidato dagli Houthi e riconosciuto dalla comunità internazionale.

La guerra finisce con lo Yemen

La guerra in Yemen racconta anzitutto di una incomunicabilità strategico-militare: da una parte una coalizione che, a fronte della quota più alta di import di armi in tutta la regione e di un dispiegamento di forze senza precedenti, non riesce a riportare sotto al proprio controllo gran parte di un paese considerato importante per la propria sicurezza regionale; dall’altra un movimento di resistenza yemenita, endogeno, ma la cui crescente integrazione con gli obiettivi regionali iraniani (a loro volta connessi alla propria idea di sicurezza regionale) ne ha aumentato l’isolamento sia interno – a causa di una gestione draconiana del potere e delle amministrazioni locali – che internazionale (il cui ultimo capitolo è l’inserimento nella lista delle organizzazioni terroristiche).

Il dramma dello Yemen sta soprattutto in questa incomunicabilità, in grado di protrarre un conflitto che non sembra poter avere vincitori, né soluzioni politiche che non passino da un accordo tra Iran e Arabia Saudita, a oggi molto lontano. Gli Houthi controllano una parte di paese sofferente e isolato, senza poter disporre dei suoi confini, e dovendo fare i conti con le campagne di bombardamenti che mirano ad annientarli: un movimento di guerriglia che sembra sempre più propenso a difendere le proprie posizioni e sempre meno destinato ad aver un ruolo politico concreto, in un eventuale futuro Yemen pacificato. I sauditi e gli emiratini, dal canto loro, accanto a una impossibilità di trovare una soluzione politica, mostrano alla regione una rischiosa inefficacia militare: non sufficiente a farli desistere, anzi in grado di suggerire pericolosamente che la guerra in Yemen possa finire soltanto quando sarà finito lo stesso Yemen.

 

L'articolo Appunti per una tragedia yemenita: i droni di Sana′a proviene da OGzero.

]]>
Aden, Arabie: opposte visioni del mondo collidono https://ogzero.org/aden-arabie-opposte-visioni-del-mondo-collidono/ Thu, 10 Mar 2022 17:23:04 +0000 https://ogzero.org/?p=6668 L’annosa crisi yemenita affonda radici in un passato, dove si possono trovare motivi per un conflitto e obiettivi per ciascuno dei contendenti molto divergenti. Sono questi a minare l’equilibrio della regione e contemporaneamente ne sarebbero garanti se l’interesse geopolitico delle potenze globali non si fosse giustapposto sui dissidi locali per farne teatro delle loro dispute: […]

L'articolo Aden, Arabie: opposte visioni del mondo collidono proviene da OGzero.

]]>
L’annosa crisi yemenita affonda radici in un passato, dove si possono trovare motivi per un conflitto e obiettivi per ciascuno dei contendenti molto divergenti. Sono questi a minare l’equilibrio della regione e contemporaneamente ne sarebbero garanti se l’interesse geopolitico delle potenze globali non si fosse giustapposto sui dissidi locali per farne teatro delle loro dispute: infatti oltre a essere uno dei campi di battaglia per la supremazia regionale – come ben documenta l’attenzione alle armi usate nel conflitto yemenita nell’articolo parallelo di Lorenzo Forlani –, lo Yemen subisce, a causa della sua posizione strategica, le pressioni generate dalla convergenza delle proiezioni delle potenze mondiali; Gran Bretagna, Unione sovietica, monarchie del Golfo, Iran, Stati uniti: i titani si scontrano tra Hormuz e Aden.

L’ampio conflitto yemenita – una guerra che ha già causato mezzo milione di morti, molti dei quali civili (nel marzo 2019 un ospedale di Save the Children a Saada era stato attaccato dai sauditi con bombe prodotte dalla Rwm italiana) senza riuscire a smuovere coscienze caucasiche –, che trova qui un’esaustiva disamina da parte di Carlotta Caldonazzo, ha una delle sue icone nella Safer, petroliera ormeggiata in decomposizione al largo di Hodeida. Il 5 marzo si è raggiunto un accordo perché l’Onu possa occuparsi di disinnescare una delle bombe a orologeria disseminate da decenni nello Yemen. La sua sorte somiglia a quella di un territorio ormeggiato nel ‘pelago’ pericoloso degli scontri tra concezioni di vita e religione, di interessi locali e geostrategici.

Al Crater, sull’Esplanade, stavano adunati attorno al campo di calcio gli Arabi dell’Hadramut e dello Yemen, gli Indù di ogni casta, i Negri della sponda africana mescolati coi fantaccini di Sua Maestà: talvolta suonava la banda del reggimento punjabi; nei giorni dello Shabbàth i ragazzini ebrei si scaltrivano, non osando ancora radersi i ricciolini, ma solamente portare quelle giacche chiare, che avrebbero indossato definitivamente un giorno sui marciapiedi di piazza Mohammed Alì all’inizio della Muski al Cairo
(Paul, Nizan, Aden Arabie, edizioni Fahrenheit 451, 1994, p. 128; ed. or. 1926)

fin qui il sommario di OGzero…
La penna ora passa a Carlotta Caldonazzo


Attriti arabo-iranici

Il 28 febbraio, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite (Onu) ha votato la risoluzione 2624, proposta dagli Emirati arabi uniti (Eau), che estende l’embargo delle armi all’intero gruppo dei ribelli sciiti noti come Houthis o Ansarullah, limitato a singoli individui dalle precedenti risoluzioni, a partire dalla 2140 e dalla 2216. Undici i voti favorevoli, nessuno contrario, mentre Irlanda, Messico, Brasile e Norvegia si sono astenuti. A votare in favore della risoluzione è stata anche Mosca, che secondo alcuni analisti avrebbe sostenuto la proposta emiratina in cambio dell’astensione di Abu Dhabi su due precedenti risoluzioni sull’Ucraina. Sia la Russia, sia gli Eau smentiscono una simile lettura mercantilista, ma intanto in Yemen si manifestano contemporaneamente due tipi di conflitto: il primo livello di scontro è interno e il prodotto dell’intersecarsi degli attriti tra le molteplici e fluide fazioni politico-tribali e tra le due entità storiche che costituiscono il paese; il secondo, invece, e quello esterno ed è la risultante del convergere nello stesso territorio degli interessi strategici di potenze regionali e globali. Da quest’ultimo punto di vista, infatti, lo Yemen è uno dei terreni di scontro privilegiati dall’Iran e dalla coalizione arabo-sunnita. Senonché, il fronte, un tempo compatto, di quest’ultima si è recentemente incrinato, prima a causa della crisi diplomatica tra il Qatar e gli altri membri del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), poi per via dell’emergere di una personalità geopolitica emiratina. Gli Eau, infatti, si sono inizialmente allineati con Riyadh, ma soprattutto dall’avvento del principe ereditario Mohammed bin Zayed, hanno tentato di ricavarsi uno spazio geopolitico proprio, autonomo dal tradizionale predominio storico-culturale saudita.

Fratture geopolitiche

Sullo stesso livello regionale degli equilibri geopolitici mediorientali, tra i rivali di Tehran, oltre alle monarchie del Golfo, si deve annoverare Israele, anche se implicata nel conflitto yemenita solo da tempi recenti. Ad attrarre l’attenzione di Tel Aviv, in realtà, è stata la svolta politica operata nei primi anni Duemila dal gruppo di ribelli sciiti Ansarullah, noto per lo più con il nome della tribù in esso dominante, gli Houthi. In realtà, le radici di questo gruppo politico-tribale affondano principalmente nella diffidenza di alcune tribù sciite dello Yemen settentrionale di fronte all’unificazione yemenita del 1990, percepita come una potenziale minaccia per almeno due ordini di motivi. In primo luogo, perché comportava il rafforzamento della Repubblica araba dello Yemen, che non solo era nata nel 1962 dopo la deposizione dell’ultimo imam mutawakkilita (l’imamato era la forma monarchica con cui lo Yemen settentrionale aveva ottenuto l’indipendenza dall’impero ottomano sull’orlo del crollo), ma era anche ispirata sin dall’inizio al modello nazionalista panarabo e laico del presidente egiziano Gamal Abd al-Naser. In secondo luogo, perché nel 1990, dopo l’implosione del sistema sovietico, l’Arabia saudita aveva fondato il partito islamico sunnita yemenita al-Islah, sia in funzione anticomunista (a Riyadh fu assegnato il compito di gestire la globalizzazione dell’ultimo decennio del Ventesimo secolo tra le popolazioni arabe sunnite, un ruolo simile a quello della Turchia tra le popolazioni musulmane non arabe – e non necessariamente sunnite, come nel caso dell’Azerbaijan), sia per evitare che lo Yemen diventasse uno stato sciita, potenziale appiglio per la minoranza sciita che vive all’interno dei suoi confini in condizioni di cittadinanza di serie b.

Graffiti di Murad Subay sui muri di Sana'a

Graffiti di Murad Subay sui muri di Sana’a: opere collettive piene di ironia nella loro denuncia degli attacchi jihadisti e degli scontri settari

Il movimento Houthi

È in questo contesto che il movimento Houthi fu fondato nel 1992, nella provincia di Saada, con il nome di Gioventù credente e, originariamente, con due obiettivi fondamentali: il primo era promuovere il risveglio dell’islam sciita zaydita come modello di islam politico moderato, contrapposto alla rigidità dei Fratelli musulmani sunniti e al wahhabismo e al salafismo sauditi; il secondo, invece, era denunciare la corruzione del sistema messo in piedi dall’allora presidente Ali Abd Allah Saleh e l’accordo da lui siglato con gli Stati Uniti, considerato una sorta di atto di svendita alla superpotenza imperialista del momento. In principio, inoltre, le letture religiose che circolavano nelle associazioni studentesche erano soprattuto di due teologi sciiti libanesi, nonché personalità di spicco nel partito sciita Hizbullah: Mohammad Hussein Fadlallah e Hasan Nasrallah. Vale la pena forse notare, a questo punto, che esiste una differenza tra lo sciismo iraniano e libanese, che in massima parte è di scuola duodecimana (detta così perché riconosce dodici imam storici), e quello yemenita, in maggioranza zaydita (per esempio, questa scuola riconosce solo cinque imam storici). La divergenza non è profonda, ma risiede in dettagli come il mancato riconoscimento da parte degli zayditi dell’infallibilità dell’imam. Di conseguenza la contrapposizione non è così netta come rispetto all’islam sunnita prevalente in Arabia saudita e che Riyadh ha cercato di diffondere anche in Yemen. Peraltro, le differenze confessionali il più delle volte sono un pretesto per i conflitti, non la loro causa remota. Ne sia un esempio la presa di posizione dell’Iran, nel conflitto nel Nagorno-Karabakh, in favore della cristiana Armenia e contro l’Azerbaijan, paese turcofono ma a maggioranza sciita duodecimana.

Guerra per procura contro l’alleanza sciita

Tra la fine degli anni Novanta del secolo scorso e l’inizio degli anni Duemila, gli Houthi hanno iniziato a integrare nel loro programma politico tematiche di geopolitica regionale e globale, in particolare la resistenza a Israele e all’imperialismo statunitense, nonché la teoria di un complotto ordito da Tel Aviv e Washington con la complicità delle monarchie arabe del Golfo. Dal 2003, infine, ossia dopo l’invasione statunitense dell’Iraq, compare tra i loro sloganmorte agli Usa, morte a Israele”. Nel momento in cui gli Usa dichiaravano guerra al terrorismo di matrice islamica, facendo di Israele la punta di diamante della loro proiezione di potenza in Medio Oriente, l’Iran tesseva una serie di relazioni con i movimenti sciiti arabi della regione, in particolare con il partito sciita libanese Hezbollah, con gli alawiti siriani, con gli Houthi yemeniti e con gli sciiti iracheni, con i quali, tuttavia, il rapporto è da sempre piuttosto complesso. D’altronde, l’ayatollah Ruhollah Khomeini aveva dichiarato Israele nemico dell’Iran già prima della rivoluzione islamica del 1979, a seguito della quale elaborò una forma di islam politico rigoroso sciita e non arabo, da contrapporre ai modelli sunniti fioriti in Egitto (i Fratelli musulmani e la loro costola scismatica takfirita) e Arabia saudita (wahhabiti e salafiti) e all’allora modello laico della Repubblica di Turchia. Negli anni Novanta, quindi, Tehran ospitava gli studenti della Gioventù credente, tra i quali Hussein Badreddin al-Houthi, che fu uno degli ispiratori del movimento. Quest’ultimo, dopo il suo assassinio (assieme a diversi uomini della sua scorta) da parte dell’esercito yemenita, a Sa’ada, nel 2004, prese il suo nome, Houthi, e lanciò la rivolta armata contro il governo di Sana’a. La linea di Hussein al-Houthi, infatti, era essenzialmente riformista e improntata al dialogo, tribale e confessionale, come dimostrò nella sua esperienza di deputato del Parlamento yemenita, nel partito al-Haqq (“la verità”), che è anch’esso una sua creazione. A inimicargli il governo di Ali Abdallah Saleh furono le sue prese di posizione in favore dei movimenti separatisti meridionali, anch’essi impegnati nella lotta contro la corruzione del potere centrale, sia pure per ragioni diametralmente opposte. Nacque in tal modo in molti separatisti e socialisti meridionali una certa forma di simpatia e solidarietà nei confronti degli Houthi, al punto che alcuni di essi, per prendere posizione contro l’integralismo sunnita del partito al-Islah, si sono dichiarati sciiti.

Mezzaluna sciita

L’evoluzione della Mezzaluna sciita nell’area Mena fotografata nel 2015 dalla Columbia University

Fratture storiche

Nell’analizzare i rapporti tra le forze politiche yemenite, occorre tener presente che tanto nelle alleanze, quanto nei dissidi, entrano in gioco diversi fattori: oltre alle scelte del capo di partito o di fazione del momento e alle differenti posizioni riguardo l’islam politico, nel Nord hanno un ruolo significativo i legami tribali, mentre nelle regioni meridionali, la nascita del Movimento per il Sud, nel 2007, ha le sue radici nella percezione, diffusa nella ex Repubblica democratica popolare dello Yemen, dell’unificazione come una conquista brutale da parte di un Nord arretrato e corrotto, che ha imposto al Meridione ex socialista, laico e urbanizzato un sistema basato sul nepotismo, sulle dinamiche tribali e sui privilegi di casta. Una posizione che, paradossalmente, accomuna questo movimento a quello degli Houthi, nato per aggregazione attorno all’omonima tribù, ma dal 2004 maggiormente connotato in senso ideologico-religioso. Peraltro, buona parte degli esponenti del Partito socialista yemenita (Psy), al governo durante l’epoca sovietica (lo Yemen meridionale è l’unico paese arabo ad aver partecipato con un suo contingente all’invasione sovietica dell’Afghanistan), nel 1990 aveva accettato a malincuore l’unione con il Nord. Qui, infatti, le istituzioni nate dalla rivoluzione repubblicana del 1962 non facevano che mascherare le tradizionali dinamiche tribali, che il Movimento accusa Sana’a di aver diffuso anche al Sud. Inoltre, vigeva un sistema analogo a quello indiano delle caste, inclusi gli intoccabili, chiamati akhdam, “servi”, spesso di origine somala. In generale, rispetto al Sud, nelle regioni settentrionali le differenze di genere erano nette, l’analfabetismo dilagante e, soprattutto, i tradizionali privilegi tribali si erano sovrapposti a quelli derivati dall’appartenenza al “clan” di Ali Abdallah Saleh. Un regime originariamente laico, nazionalista e militarista, che in seguito ha fatto ricorso alle forze politiche religiose per opportunismo politico e, all’occorrenza, si è prostrato agli Stati Uniti e all’Arabia saudita, in nome, rispettivamente, della lotta al terrorismo di matrice islamica e del contrasto alle forze laiche progressiste. Gli attriti tra i due Yemen emersero nel 1993, appena tre anni dopo l’unificazione, quando il vicepresidente della Repubblica Ali Salem al-Beidh, segretario generale del Psy integrato nelle istituzioni unitarie, abbandonò il governo e si ritirò ad Aden, ex capitale del Sud e porto strategico nell’omonimo golfo.

Saleh assedia Aden e impone il nuovo corso. Il reportage de “l'Unità” il 9 maggio 1994

Saleh assedia Aden e impone il nuovo corso. Il reportage de “l’Unità” il 9 maggio 1994

La guerra infinita

Al-Beidh denunciava l’intenzionale impoverimento del Sud da parte del governo centrale e l’uso da parte di Saleh delle alleanze tribali e delle organizzazioni integraliste sunnite per intimidire, o addirittura eliminare, gli oppositori politici del Sud (accuse simili a quelle mosse dagli Houthi). Dopo un tentativo di accordo siglato ad Amman nel febbraio 1994, scoppiò una breve ma sanguinosa guerra civile e fu proclamata l’indpendenza della Repubblica democratica dello Yemen. Saleh chiamò in soccorso anche le milizie islamiche e riuscì a sconfiggere l’esercito messo in piedi dai capi politici del Psy, che optarono per l’esilio volontario. Le ragioni profonde della guerra civile risiedono nella profonda diffidenza che Saleh nutriva nei confronti di questo partito, preferendo quindi contare, da un lato, sulla fedeltà tribale delle milizie islamiche affiliate ad al-Qaeda nella Penisola araba (Aqpa) e, dall’altro, sull’alleanza istituzionale con al-Islah (che ha anche un considerevole braccio armato), partito vicino alla Fratellanza musulmana, ma sostenuto dall’Arabia saudita, prezioso alleato per l’allora presidente yemenita, almeno finché gli aveva assicurato la permanenza al potere. Infatti, nel 2012, quando Saleh fu costretto alle dimissioni dopo che un ordigno lo aveva quasi ucciso nel palazzo presidenziale, nel giugno 2011, rendendo evidente l’impossibilità di un ritorno alla presidenza, Riyadh iniziò a sostenere il suo successore ed ex vicepresidente Abdorabbou Mansour Hadi. A quel punto, Saleh, tornato in Yemen, si schierò con gli Houthi (d’altronde era di famiglia sciita) quando, nel 2014, si apprestavano a prendere il controllo di Sana′a, costringendo alle dimissioni prima il vicepresidente Mohammed Basindawa, poi Hadi, che riparò temporaneamente ad Aden, per fuggire poi in Arabia saudita. Qui si trova tuttora, data l’impossibilità di tornare in Yemen per via della condanna a morte sentenziatagli nel 2017 da un tribunale di Sana′a controllato dagli Houthi, con l’accusa di alto tradimento. La conquista di Sana′a da parte dei ribelli sciiti diede, dunque, al Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) l’occasione di arginare l’influenza iraniana in Yemen con un intervento militare condotto da una coalizione di paesi sunniti guidata da Riyadh saudita.

Consiglio di Cooperazione del Golfo che decide di Arginare l'influenza iraniana in Yemen

Consiglio di Cooperazione del Golfo che decide di Arginare l’influenza iraniana in Yemen (luglio 2017)

Riyadh e Abu Dhabi: alleati tattici o rivali strategici?

Nel 2017, intanto, Saleh, consapevole che gli Houthi non avrebbero mai conquistato tutto lo Yemen e che, di conseguenza, non gli avrebbero restituito il potere di un tempo, ruppe anche con loro, probabilmente a seguito di colloqui segreti con funzionari di Emirati arabi uniti (Eau), Russia e Giordania, e aprì al dialogo con la coalizione a guida saudita, ma fu ucciso nel dicembre dello stesso anno in un’imboscata dei ribelli sciiti. In questa vicenda, emerge una trasformazione progressiva del ruolo di Abu Dhabi all’interno della coalizione condotta da Riyadh e, di conseguenza, nel complesso quadro dei conflitti yemeniti. Gli Eau, infatti, non contenti del sostegno saudita a una forza politica, al-Islah, gravitante nell’orbita dei Fratelli musulmani, hanno preferito sostenere, sin dall’inizio delle proteste popolari del 2011 (che si inscrivono nel quadro delle cosiddette primavere arabe), il Movimento per il Sud, ben sapendo che, caduta l’Unione sovietica, non avrebbe mai avuto la capacità di controllare tutto lo Yemen, limitandosi a mettere i bastoni tra le ruote al governo centrale e a contrastare, in minima parte, l’influenza dell’islam nella sfera politica. Inoltre, dal 2017, Abu Dhabi si è progressivamente ritirata dalla partecipazione diretta all’intervento militare, offrendo piuttosto un sostegno militare e finanziario alle Brigate dei Giganti: milizie in gran parte salafite, costituite dai membri delle tribù provenienti dalle città di Lahj, Abyan e Dammaj (quest’ultima nel governatorato di Sa′ada, roccaforte Houthi). Questo graduale distacco degli Emirati dalla strategia saudita, che mira, in ultima analisi, alla neutralizzazione della potenza iraniana, coincide con l’elaborazione di una propria visione strategica, meno monolitica e più aperta al dialogo con Tehran. Per questo, molti analisti si sono interrogati sulle ragioni degli attacchi missilistici sferrati dagli Houthi, il 17 gennaio, contro Abu Dhabi. Nondimeno, essi sono avvenuti in un momento cruciale dei negoziati internazionali sul programma nucleare iraniano e in una fase di cambiamento nelle politiche estere emiratina e saudita: entrambe le monarchie del Golfo, infatti, stavano tessendo rapporti di cooperazione economica e finanziaria con la Cina, dalla quale ultimamente Abu Dhabi ha anche acquistato aerei da guerra. Inoltre, mentre l’acquisto emiratino di tecnologia Huawei per il 5G aveva indotto gli Usa a provocare uno stallo nella trattativa per la vendita del sistema F-35 agli Eau, dopo gli attacchi del 17 gennaio, Washington è tornata sui suoi passi.

L'articolo Aden, Arabie: opposte visioni del mondo collidono proviene da OGzero.

]]>
n. 6 – Primavere, rivolte e rivoluzioni: dieci anni di utili contaminazioni https://ogzero.org/l-eredita-delle-primavere-arabe-e-le-rivoluzioni-di-oggi/ Sun, 02 May 2021 09:50:35 +0000 https://ogzero.org/?p=3244 Questo articolo introduce una sezione nuova della raccolta di articoli di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria: analizzeremo le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medioriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe, e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative […]

L'articolo n. 6 – Primavere, rivolte e rivoluzioni: dieci anni di utili contaminazioni proviene da OGzero.

]]>
Questo articolo introduce una sezione nuova della raccolta di articoli di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria: analizzeremo le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medioriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe, e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti.


n. 6

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Correnti umane da un Medio Oriente interconnesso

L’area del Medio Oriente è particolarmente rilevante per l’analisi delle situazioni di instabilità politica o di perdurante conflitto dei paesi d’origine dei migranti che sfociano o che potrebbero presto sfociare, come nel caso del Libano, in correnti umane lungo la rotta dell’Egeo e lungo quella balcanica, per approdare in prossimità dei confini europei.

Dalla Rivoluzione dei Gelsomini alla fuga di Saleh

Al riguardo occorre sottolineare che difficilmente la precarietà istituzionale o gli episodi di violenza presenti in uno dei paesi mediorientali non va a dispiegare i propri effetti su un altro paese appartenente alla medesima area, anche se in modalità diverse e con diversa intensità. Se è vero, tuttavia, che l’onda propulsiva degli eventi che interessano i paesi del Medio Oriente è caratterizzata dalla contaminazione di un paese con l’altro, va altresì riconosciuto che l’area nell’ultimo decennio ha subito il contraccolpo degli effetti politici e sociali che dieci anni fa si sono generati mediante le cosiddette Primavere arabe – termine coniato dai media occidentali – a loro volta conseguenza delle proteste popolari contro le autorità dittatoriali allora detentrici del potere. Infatti, nel dicembre 2010 un venditore ambulante in Tunisia, Mohamed Bouazizi, si diede fuoco davanti al municipio della città di Sidi Bouzid come tragico simbolo di protesta contro il perdurante eccesso dell’impiego della violenza e della repressione delle forze di polizia fedeli al regime di Zine El-Abidine Ben Ali, a quel tempo da 23 anni al potere, nei confronti della popolazione civile. Nel caso specifico di Mohamed Bouazizi la polizia tunisina aveva sequestrato arbitrariamente il suo banco di vendita del pesce dinanzi all’assoluta indifferenza delle autorità. Da quel momento la Tunisia s’incendiò in tumulti popolari definiti come la “Rivoluzione dei Gelsomini” che portarono il presidente-dittatore all’esilio e al primo innesto di un processo democratico nel paese. Invece il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh fuggì in esilio in Arabia Saudita rassegnando le dimissioni e lasciando il paese in una situazione di completa instabilità. Le immagini di tale gesto di immolazione in Tunisia arrivarono negli altri paesi del Medio Oriente grazie all’emittente Al-Jazeera. Nel corso di qualche mese l’ondata di proteste si dispiegò in altri paesi dell’area del Nord Africa e in alcuni del Medio Oriente che progressivamente videro i vari regimi crollare uno a uno come le tessere di un domino: ciò avvenne in primo luogo in Egitto con le celebri proteste del 25 gennaio 2011 in piazza Tahrir. Non solo, se monarchie quali Giordania, Marocco resistettero a tali tumulti attraverso concessioni alle richieste del popolo grazie a esigue modifiche delle rispettive costituzioni, in altri paesi le proteste mutarono rapidamente in sanguinosi conflitti civili non ancora del tutto risolti, come avvenne in Siria contro il regime di Bashar al-Assad, in Libia durante la dittatura di Gheddafi e infine nello Yemen contro Ali Abdullah Saleh che nel 2012 lasciò il potere.

L'eredità delle Primavere arabe

Campo di ribelli della coalizione anti-Gaddafi, Ajdabiya in Libia, aprile 2011 (foto Rosen Ivanov Iliev).

In tutti i paesi interessati da tali reazioni popolari sono rintracciabili tre elementi comuni qualificabili quali: il disagio economico, la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi individui, quasi in una sorta di oligarchia economica ravvisabile in particolar modo nella cerchia di soggetti affiliati al regime di Ben Ali in Tunisia o quello di Bashar al-Assad in Siria e, infine, il controllo fortemente repressivo e autoritario della vita pubblica.

Le Primavere arabe sono davvero fallite?

Ad ogni modo, guardando alla situazione attuale degli stessi stati, tra cui l’Egitto retto oggi dal presidente dittatore Abdel Fattah al-Sisi, paese nel quale dieci anni fa i poteri autoritari erano stati sovvertiti dal popolo, si parla spesso di un fallimento di tali “primavere” e dell’incompiutezza del sistema democratico al quale esse stesse miravano attraverso l’affermazione di principi di libertà e di uguaglianza e la rivendicazione dei diritti civili, ma è realmente così?

Il dubbio tuttavia che un fenomeno importante – seppur incompiuto – si determinò a partire dalla fine del 2010 attraverso le cosiddette Primavere arabe, proviene proprio dall’analisi dei movimenti  di protesta che si sono dispiegati nel decennio successivo allo scoppio delle rivolte e che da ultimo, nel 2019,  hanno condotto alle dimissioni il presidente dell’Algeria Abdelaziz Bouteflika, e alla destituzione di Omar Hasan Ahmad al-Bashir in Sudan, nonché l’ondata di disperate proteste iniziate negli scorsi anni da parte della popolazione irachena e di quella libanese.

Ascolta “Lo stallo ad Algeri e la resistenza del movimento Hirak: un sistema da sovvertire” su Spreaker.

In particolare, in Libano gli scontri nell’ottobre del 2019 si sono verificati contro l’élite politica da sempre contraddistinta per la sua corruzione ed emersa con evidenza con la dichiarazione da parte del governo del default finanziario nel marzo del 2019 del quale ci occuperemo più specificamente in seguito. Con riferimento a tali paesi oggi si parla più che di “primavere” di vere e proprie “rivolte arabe” o di “rivoluzioni arabe”. Le proteste in Iraq e in Libano si muovono oltretutto in modo più maturo e consapevole dimostrando capacità di resistenza popolare alle provocazioni istituzionali durante gli scontri, nonché capacità dei manifestanti di riorganizzarsi e di essere costantemente presenti nonostante le misure anti-Covid-19 imposte dal governo, e purtroppo spesso da questo strumentalizzate con un fine chiaramente repressivo volto al mantenimento del proprio status quo.

Cosa quindi possiamo dire si sia generato con quelle controreazioni del popolo rispetto agli abusi dei poteri istituzionali, cosa è andato rompendosi in modo definitivo allora, nonostante dalle macerie ancora oggi non risorga in quei paesi la fenice di uno stato democratico?  Occorre fare una riflessione preliminare: i moti di protesta detti Primavere arabe, non sono altro che un fenomeno che rappresenta solamente la punta dell’icerberg di un malessere profondo e generalizzato per anni covato negli animi della popolazione civile di diversi paesi impossibilitata a vivere in stati non rispettosi dei propri diritti e delle proprie libertà non riconosciute a causa dei regimi totalitari presenti in essi.

Prestiti in cambio di una politica liberista

I primi accenni del malcontento popolare in realtà si devono ricercare nel fallimento economico degli anni Ottanta e Novanta che ha interessato molti paesi arabi. I sistemi di questi paesi negli anni Settanta si contraddistinguevano per essere delle economie socialiste mentre nei decenni successivi sono passati a un sistema di libero mercato che non ha avvantaggiato la popolazione ma esclusivamente l’élite al potere. Negli anni Ottanta in particolare si determinò la crisi del sistema economico e iniziarono le proteste da parte del popolo che non beneficiava del medesimo benessere e che invece veniva ostentato dalla classe politica. I paesi arabi negli anni accumularono infatti ingenti debiti pubblici che li portarono a negoziare nuovamente con la Banca mondiale i fondi internazionali ricevuti, promettendo in cambio un approccio neoliberista delle proprie economie che come detto determinò una disparità sociale con un peggioramento della condizione popolare. Ciò avvenne in primo luogo in Algeria nel 1988 con il crollo dei prezzi del petrolio. Ci si rese ben presto conto tuttavia che le egemonie allora al potere in molti paesi arabi non avevano alcun interesse alla promozione di un sistema democratico che resta ancora oggi un’utopia in quest’area. La società invece era retta sempre da un sistema di forte repressione e di controllo della popolazione civile. L’errore in quel caso fu anche da parte dell’Occidente, illuso di poter negoziare con gli autoritarismi arabi, dandone per scontata la stabilità politica e la loro condizione di immobilismo, preoccupati dell’instaurazione di un sistema di privatizzazione economica da parte dei regimi islamici.

Il popolo anestetizzato e oggetto passivo della politica

Nel 2011 la natura dei poteri contestati dalla popolazione furono monarchie come Marocco, Giordania e Arabia Saudita che legittimano il loro potere nell’appartenenza a clan familiari o le repubbliche nazionaliste dittatoriali come l’Egitto che dichiaravano di assicurare una sorta di welfare generalizzato dei servizi pubblici per la popolazione, tuttavia senza mai dotarsi di un apparato per la loro erogazione. La narrazione infatti da parte delle autorità politiche delle repubbliche nazionaliste in questo caso si concentrò sulla costante minaccia di qualche potere esterno finalizzata al rafforzamento politico interno della loro condizione e anestetizzando il popolo con tale retorica per diversi anni rispetto a quanto stava realmente accadendo. Infine, il Libano invece costituiva in quegli anni un unicum rispetto al sistema statale, essendo contraddistinto da un sistema confessionale del potere al quale passò anche l’Iraq dopo il 2003.  A crollare, come detto sopra, nel 2011 furono soprattutto le egemonie nazionaliste venendo messo in discussione per la prima volta in modo propulsivo il patto sociale tra la popolazione civile e le autorità al potere. Infatti, a parte le specificità di ogni singolo paese, ciò che emerse già negli anni Ottanta e Novanta così come nei primi anni del Duemila fu la volontà del popolo arabo di affermare la propria cittadinanza attiva che si manifestò proprio in quei paesi nei quali il potere non investiva sul protagonismo e sulla volontà popolare come in Algeria o in Egitto. In questi paesi, già allora e successivamente mediante le primavere arabe, e ancora oggi, il popolo richiede il riconoscimento da parte delle istituzioni della società da esso costituita e contraddistinta e di tutte le sue articolazioni, stanco ormai di essere mero oggetto passivo della politica. A distanza di anni, proprio alla luce di valutazioni che affermano il fallimento di tali moti rispetto al processo di democratizzazione, si deve dunque riflettere se semplicemente nel 2011 non sia stata maturata la capacità di operare una precisa e corretta individuazione, da parte del popolo, della causa della mancanza di riconoscimento delle libertà civili e dei diritti politici. Infatti, come si comprende meglio dopo dieci anni, tale mancanza di riconoscimento non è tanto da rinvenirsi nelle figure autoritarie, allora al potere, come per esempio Hosni Mubarak e Abdelaziz Bouteflika, quanto piuttosto nel sistema a esse sottostante, ossia quello di regimi che come vediamo non sono mutati ma piuttosto peggiorati.

Non a caso, nonostante il colpo di stato, ancora oggi, con la salita al potere del presidente al-Sisi, l’Egitto rimane oggetto di numerose contestazioni popolari alle quali il governo risponde con l’applicazione di una forza militare altamente repressiva. Di fatti i manifestanti egiziani oggi dirigono le loro proteste non più verso lo stato civile quanto piuttosto contro il regime militare.

I malcontenti sono gli stessi…

Tornando poi al malcontento popolare, manifestato più specificamente dal 2018 al 2020 in Algeria, Iraq e Libano, vi è da sottolineare che le primavere arabe dispiegarono i loro effetti in parte, senza essere sovversive del sistema politico allora al potere, o per nulla in questi paesi, diversamente da quanto avvenne in altri, sia del Nord Africa che del Medio Oriente, come già evidenziato sopra. In Libano, in Iraq o in Algeria sono emersi comunque oggi gli stessi malcontenti di allora: in Algeria ancora una volta contro il presidente Abdelaziz Bouteflika, costretto a dimettersi il 2 aprile del 2019.

L'eredità delle Primavere arabe

Algeri, 5 aprile 2019: Rachid Nekkaz, attivista fondatore del Mouvement de Jeune et Changement (MJC), dopo la cacciata di Bouteflika (foto Soheib Mehdaoui). Si trova in isolamento in carcere dal dicembre 2019.

Migliaia di manifestanti tunisini, algerini, come in passato e iracheni e libanesi per la prima volta, sono scesi negli ultimi anni in strada accusando le forze di sicurezza e l’élite al potere di corruzione e di gravi violazioni dei diritti umani. Questo aiuta a comprendere oggi come alcuni fenomeni rimandino più all’idea che le Primavere arabe furono la manifestazione di una “malattia cronica” e non “semplicemente acuta”. I ragazzi che oggi manifestano hanno vissuto la dittatura durante la loro infanzia e vivono la condizione di una democrazia sospesa, a questo va aggiunto il ruolo delle forze del sedicente Stato Islamico che hanno portato un aggravio di situazioni sociali e politiche già logorate.

L'eredità delle Primavere arabe

Proteste a Beirut (foto alichehade).

… ma è aumentata la povertà

Si può dunque ipotizzare che le primavere del 2011 abbiano cambiato solo la facciata dei sistemi politici allora al potere, ma ne sono rimaste per decenni intatte le loro dinamiche. Inoltre, con riferimento ai recenti tumulti che hanno interessato Algeria, Iraq e Libano va detto che la pandemia diffusasi nello scorso anno non ha fatto altro che accelerare ed esacerbare tali dinamiche legate ai poteri di sempre e che portano tuttora i giovani a manifestare per l’acquisizione degli stessi diritti, ma in una condizione di povertà senza precedenti.

In conclusione, quindi si può affermare che anche se le richieste politiche economiche e sociali sono ancora disattese – nonostante le Primavere arabe e le rivoluzioni arabe verificatesi negli ultimi anni – occorre forse che trascorra ancora del tempo affinché tali istanze civili possano effettivamente determinarsi con un conseguente cambiamento del sistema politico e del ruolo della società civile. Sarà tuttavia il popolo capace di resistere ancora una volta?

L'articolo n. 6 – Primavere, rivolte e rivoluzioni: dieci anni di utili contaminazioni proviene da OGzero.

]]>
Lo sceicco e il sultano: amici e isolati https://ogzero.org/lo-sceicco-e-il-sultano-amici-e-isolati/ Thu, 10 Dec 2020 11:21:51 +0000 http://ogzero.org/?p=2013 Il 26 novembre, nella capitale della Turchia, i due presidenti hanno firmato un nuovo accordo commerciale composto da 10 intese importanti. Ankara e Doha, dal 2015 hanno iniziato a intensificare il loro rapporto economico e politico. Per quale motivo? Due amici vicini e isolati Turchia e Qatar sono sempre più isolati dai loro vicini e […]

L'articolo Lo sceicco e il sultano: amici e isolati proviene da OGzero.

]]>
Il 26 novembre, nella capitale della Turchia, i due presidenti hanno firmato un nuovo accordo commerciale composto da 10 intese importanti. Ankara e Doha, dal 2015 hanno iniziato a intensificare il loro rapporto economico e politico. Per quale motivo?

Due amici vicini e isolati

Turchia e Qatar sono sempre più isolati dai loro vicini e alleati storici. Il conflitto dentro la Nato ormai non è una novità per Ankara. Certamente anche i suoi continui problemi con i vicini come Grecia, Siria, Cipro e Armenia oppure alleati europei fanno sì che questo paese composto da 85 milioni di abitanti sia sempre nel mirino di proteste e sanzioni.

A questa lista, per Ankara si aggiungono ovviamente alcuni vicini-lontani mediorientali come l’Arabia Saudita che ha avviato un boicottaggio capillare nel mese di novembre contro i prodotti turchi. Si tratta dello stesso partner che ha preso delle misure severe contro Doha insieme all’Egitto, Bahrein e Emirati Arabi.

Turchia e Qatar sono accusati entrambi di promuovere direttamente oppure indirettamente l’ideologia dei Fratelli Musulmani. Infatti entrambi hanno un pessimo rapporto con l’attuale presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, che arrivò al potere facendo un colpo di stato contro Mohamed Morsi, il numero uno dei Fratelli Musulmani in Egitto. I rapporti di reciproca ammirazione personale e politica erano alla luce del sole tra il presidente rovesciato (e stroncato da un infarto in tribunale) e quello che guida Ankara.

Studiando anche il caso libico vediamo che Doha e Ankara si muovono insieme per sostenere il presidente Fayez al-Sarraj, riconosciuto dalle Nazioni Unite e sospettato, a livello internazionale, di essere l’esponente libico dei Fratelli Musulmani. Nell’agosto del 2020, Turchia e Qatar hanno firmato un accordo con il governo centrale per iniziare ad addestrare l’esercito libico.

Nel fronte mediorientale vediamo che entrambi i paesi attirano l’antipatia degli stessi governi. Ryad accusa Doha di sostenere le milizie iraniane nella guerra civile in Yemen e di armare diverse organizzazioni terroristiche in Siria. Quindi applica un forte embargo contro il Qatar. Queste accuse toccano anche Ankara per via delle sue scelte economiche, militari e politiche in Siria dove affianca realtà come l’Esercito Libero Siriano oppure le brigate dell’El-Faruk. Diverse fonti sostengono che quest’ultima riceva un massiccio e diretto sostegno anche da Doha.

Ovviamente anche l’avvicinamento militare, politico ed economico tra Ankara e Tehran per via degli incontri di Astana, e il riciclaggio di denaro denunciato nei tribunali statunitensi, fan sì che i vicini mediorientali guardino con sospetto la Turchia.

Questo isolamento ha prodotto, negli ultimi anni, una notevole connessione tra queste due amministrazioni molto discutibili. Una prima si registra nel 2015 e un’altra nel 2019: Ankara ha costruito due basi militari importanti sul territorio qatariota. Secondo le dichiarazioni ufficiali dell’emiro al potere a Doha, la presenza dei militari turchi l’ha salvato nel fallito golpe del 2017. Tamim al-Thani sostiene che quest’azione contro di lui sia stata pianificata e messa in atto dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi.

Mentre diventano evidenti i punti di questo cortocircuito collaborativo, a livello politico, sarebbe il caso di studiare anche le nozze economiche tra Ankara e Doha.

Il bancomat qatariota della Turchia

Il primo passo è stato fatto nel 2015. Si tratta del primo incontro in cui entrambe le parti hanno firmato una lettera d’intenti. Successivamente, il 30 luglio del 2016, proprio 15 giorni dopo il fallito golpe, l’emiro qatariota è giunto in Turchia per una visita. Questo gesto è stato ricambiato a Doha con un secondo incontro il 24 agosto dello stesso anno. In ciascuno degli incontri le parti hanno firmato i primi accordi commerciali.

Amici isolati

Il Qatar risulta essere il terzo paese al mondo in possesso delle maggiori riserve del gas e il quattordicesimo paese per quelle petrolifere. Ovviamente gli accordi sulle fonti energetiche non rinnovabili sono prevedibili ma Doha e Ankara si sono trovate d’accordo anche su altri campi; sanità, banche, infrastrutture, ferro, acciaio, tessile, alimentari e produzione militare.

Ascolta “Gli accordi Qatar-Turchia” su Spreaker.

Nel 2010 una delle più importanti catene ospedaliere della Turchia, Memorial, è stata venduta per il 40% a un consorzio qatariota e inglese. Nel 2012, il 40% della grande catena di negozi specializzati in arredamento, English Home, è stato venduto alla Banca di Investimenti del Qatar.

Due banche private, ABank e Finansbak, in 3 diverse tranche sono state vendute alla Commercial Bank of Qatar e alla Qatar National Bank. Nel primo caso al 100% e nel secondo per il 99,81%.

La storica fabbrica statale che produce carri armati e mezzi blindati per l’esercito della Repubblica di Turchia nella città di Sakarya è stata data in concessione, per 25 anni, all’azienda turca Bmc che è controllata al 49% dal Comitato industriale delle Forze Armate del Qatar.

L’unica emittente televisiva che aveva la concessione per la trasmissione delle partite di calcio del campionato di serie A, Digiturk è stata consegnata nel 2013 nelle mani del Fondo di Assicurazione sui Depositi di Risparmio della Turchia. Tre anni dopo, nel 2016, viene venduta al gruppo televisivo qatariota, BeinSport. A causa della crisi economica e della scarsa quantità di abbonati, i conti fatti inizialmente non tornavano e BeinSport ha accumulato un buco di bilancio per compensare la quale si è impegnato il ministro dello Sport e così Ankara ha sganciato nel mese di novembre circa 32 milioni di euro.

Ascolta “Erdoğan vende i suoi gioielli al Qatar” su Spreaker.

Questa storia d’amore procede anche con la vendita dei terreni per un progetto inesistente. Si tratta del Kanal Istanbul che prevede la creazione di un canale parallelo a quello del Bosforo. Questo nuovo progetto è materia di grandi discussioni perché distruggerà una vasta area verde, inquinerà le fonti di acqua potabile, creerà nuovi intasamenti nel traffico già caotico di Istanbul e in seguito alla costruzione di nuove aree abitative farà sì che la popolazione della città sul Bosforo cresca velocemente. Inoltre secondo numerosi scienziati potrebbe creare delle conseguenze disastrose nel caso di un terremoto nella città più sismica della Turchia.

Kanal Istanbul

Dunque nelle aree dove è prevista la realizzazione di Kanal Istanbul, un’azienda turca, Triple ha comprato nel 2019, pochi mesi dopo la sua fondazione, 44 ettari di territorio. Indagando un po’ si scopre che l’azienda appartiene al 100% alla famiglia dell’emiro qatariota.

La collaborazione per gli armamenti: il triangolo Turchia-Siria-Qatar

Secondo le dichiarazioni rilasciate in aula con tanto di materiale audiovisivo dall’ex colonnello Nuri Gokhan Bozkir, questi due paesi sembra che abbiano collaborato anche nel trasporto illegale delle armi. Bozkir si trova in Ucraina come rifugiato. Dopo aver lavorato per l’esercito della Repubblica di Turchia per vari anni con la missione di spostare armi dall’Europa dell’Est in Siria si è dimesso e ha deciso di chiedere asilo in Ucraina. Nelle sue dichiarazioni rilasciate in aula e al quotidiano ucraino “Strana”, Bozkir sostiene che l’intera operazione è stata possibile grazie a 7 container di soldi mandati da Doha nel 2012 e nel 2015 in Turchia. Nella sua visita personale, nel 2019, il presidente della Repubblica di Turchia aveva chiesto al suo collega ucraino l’immediata estradizione dell’ex colonnello Bozkir.

Ascolta “Erdoğan vende i suoi gioielli al Qatar” su Spreaker.

Una vendita segreta

Nell’ultimo incontro avvenuto a Ankara, il 26 novembre, il presidente della Repubblica ha annunciato che il 10% della borsa valori di Istanbul è stato venduto all’Autorità di Investimenti del Qatar. Finora non è stata fatta nessuna dichiarazione in merito al valore incassato in questa vendita. Sarebbe un sogno assurdo sperare una trasparenza del genere dato che quel 10% venduto faceva parte del 90% delle azioni del Fondo del Benessere della Turchia. Si tratta di un organo statale fondato nel 2016 e controlla Turkish Airlines, Turk Telecom, due banche statali e Turkish Petrol. A dirigere questa realtà si trova lo stesso presidente della Repubblica e secondo la legge non avrebbe nessun obbligo di rendere pubblici i conti.

L'articolo Lo sceicco e il sultano: amici e isolati proviene da OGzero.

]]>
Neom: The Red Sea Diving Resort https://ogzero.org/neom-ribolle-il-mar-rosso/ Tue, 24 Nov 2020 09:43:15 +0000 http://ogzero.org/?p=1837 Immersione nella barriera arabo-israeliana in dissoluzione Tra il virtuale e il reale, le due rive del mar Rosso sono in ebollizione. Non distante da dove, a ridosso di Port Sudan, anni fa, il Mossad aveva trasformato un fallito centro per subacquei in una base segreta per portare in Israele gli ebrei etiopici (falasha) in fuga, […]

L'articolo Neom: The Red Sea Diving Resort proviene da OGzero.

]]>
Immersione nella barriera arabo-israeliana in dissoluzione

Tra il virtuale e il reale, le due rive del mar Rosso sono in ebollizione. Non distante da dove, a ridosso di Port Sudan, anni fa, il Mossad aveva trasformato un fallito centro per subacquei in una base segreta per portare in Israele gli ebrei etiopici (falasha) in fuga, la marina russa sta per aprire una base navale e aggiungere la presenza dell’ex superpotenza a quella di numerosi altri contendenti per il controllo della regione. Dall’altro lato di quel lungo specchio d’acqua tra i più strategici del mondo, di fronte all’Africa più turbolenta, l’Arabia saudita ha avviato la creazione di un vasto comprensorio turistico di lusso (con un poco fortunato avvio per colpa del Covid) dove le regole più arcaiche del Corano non valgono mentre sulla stessa riva ma più a sud continua a seminare morte e devastazione nello Yemen.

Kryptonite SarsCov2 sul vertice G-20

Il 21 e il 22 novembre, su onde simili a quelli che consentono ai droni sauditi di colpire la splendida Sana’a, si sono esibiti a distanza di sicurezza imposta dalla pandemia i rappresentanti dei G20 nel loro vertice annuale presieduto per la prima volta da un paese arabo, proprio l’Arabia saudita. Con gli specialisti che ci continuano a raccontare che il mondo abbastanza presto farà a meno del petrolio e si servirà di altre risorse, meno inquinanti, per le sue molteplici esigenze di vita e che, comunque, i ricchissimi giacimenti di oro nero sotto le sabbie del grande deserto arabo stanno finendo, viene da chiedersi il significato dei giochi geopolitici e militari di quello scacchiere. Lasciamo le risposte complesse a un altro momento: è per molti più importante chiedersi oggi perché la presidenza, seppure di turno, di un sodalizio come il G20 e il vertice siano andati a finire in uno dei paesi più repressivi dei diritti umani del mondo e perché uno dei suoi massimi leader abbia potuto impunemente sfuggire all’accusa di omicidio per il brutale assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi e viene accolto da mezzo mondo come se nulla fosse accaduto nel consolato saudita in Turchia. Qui la risposta è meno complessa: dollari, euro e criptovalute, termine che fa venire alla mente la kryptonite di supereroica memoria. La ricchezza, come quel minerale, può dare potere ma anche mettere in difficoltà chi non sa come gestirla. Il Covid ha vanificato l’investimento dell’Arabia saudita e del suo reggente nel vertice: non c’è stata la foto di gruppo, non ci sono state le strette di mano o le confidenze bilaterali. E nemmeno le gite organizzate per mostrare agli illustri ospiti quella piccola parte del mondo saudita – il comprensorio di Neom – che potrebbe assomigliare al nostro mondo e distrarre l’attenzione dei presenti (delegati e stampa di passaggio) da quanto c’è di negativo in quel paese.

Neom, la ridefinizione dello spazio e metafora dei futuri rapporti mediorientali

Negli anni Ottanta dello scorso secolo quando la repressione dell’Intifada dei palestinesi aveva riportato in primo piano la loro causa, una giornalista, con cinque passaporti in tasca tra cui quelli italiani e israeliani, mi disse con convinzione, temo, che sarebbe stato meglio non criticare Israele. Farlo, sosteneva, avrebbe soltanto messo in difficoltà coloro che in quel paese volevano la pace. Oggi la questione palestinese non fa notizia se non per qualche intrusione non certo costruttiva del presidente americano. Da tempo, ormai, poche sono le critiche pubbliche da parte dei paesi che contano. Eppure i palestinesi non sono più vicini ad avere una patria indipendente. E sbaglia, oggi, chi ritiene che non criticare l’Arabia saudita e il suo relativamente giovane riformatore, l’erede al trono Mohammad bin Salman (MbS), per l’assassinio di Khashoggi o per l’aumento delle violazioni dei diritti umani negli ultimi anni, sia l’unico modo per consentire al regno di uscire dal suo medioevo islamico.

Il G-20 saudita non si boicotta, né risolve…

Per questo, Human Rights Watch e molte altre organizzazioni internazionali e anche saudite avevano sollecitato i capi di stato degli altri paesi del G-20 di ridurre il livello della loro rappresentanza al vertice. O di utilizzare l’incontro virtuale per mandare molto più di un segnale di disappunto al regime. Il sodalizio comprende l’Unione europea e 19 paesi: Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Germania, Francia, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud, Turchia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Molte realtà in comune; molte altre che li separano. Insieme, i membri del G20 rappresentano circa il 90 per cento del Pil mondiale, l’80 per cento del commercio mondiale e i due terzi della popolazione mondiale. E insieme, nel week-end di discorsi a distanza, non sono riusciti nemmeno a tirar fuori un impegno concreto – costo 28 miliardi di dollari – per garantire l’accesso al vaccino anti-Covid ai paesi poveri.

… investe in sogni di ricchezza…

Il presidente americano Trump, sempre sprezzante, ha parlato contro tutto e tutti e appena finito il solito intervento farneticante è andato a giocare a golf senza restare davanti al suo monitor per ascoltare gli altri interventi. Gli interessi economici sono il collante dei G-20 e il tema di fondo quest’anno era, giustamente, il fall-out economico del Covid. Con visioni divergenti e su come procedere di fronte a una delle crisi di crescita che vedrà i poveri diventare più poveri e molti ricchi diventare meno ricchi ci si poteva aspettare almeno una modesta donazione a favore dei più poveri se non altro per farli diventare Mercato utile alla crescita economica dei già ricchi. L’Arabia saudita punta alla modernizzazione e sta approfittando della crisi Covid. Cerca investitori e investe. Con i proventi del petrolio sta arraffando ciò che può nella speranza, secondo il piano dell’erede al trono, di arrivare al 2030 con un’economia non più sostenuta dai soli proventi del petrolio. Un progetto ambizioso che in tempi di magra piace alle economie avanzate in difficoltà. Persino le azioni dell’Eni hanno ripreso quota con la notizia che il fondo sovrano saudita ne ha acquistato un pacchetto.

… e in consumo di armi in Yemen

Abbiamo esaminato, recentemente, il peso del complesso militare-industriale americano sulla politica Usa. Purtroppo non è l’unica nazione del nostro mondo, diciamo “democratico”, a essere soggetta alle pressioni dei fabbricanti di armi. I paesi membri del G20 hanno venduto armi per più di 17 miliardi di dollari all’Arabia saudita da quando il regno è intervenuto nella guerra civile in Yemen. Una cifra di tre volte superiore agli aiuti umanitari forniti dagli stessi paesi ai trenta milioni di abitanti della più antica nazione della regione. Il disavanzo si allarga se si considera la vendita di armi e munizioni verso gli otto paesi che compongono la coalizione a guida saudita: il valore delle esportazioni sale a 31,7 miliardi di dollari.

I bombardamenti indiscriminati da parte saudita su ospedali, cliniche, pozzi e altre strutture civili sono stati condannati da molte organizzazioni internazionali e alla vigilia del vertice di Riad, l’organizzazione assistenziale Oxfam ha definito la politica dei paesi più ricchi del mondo “immorale e incoerente”.  Tra loro, sotto accusa c’è anche l’Italia. Giorni fa la Rete Italiana Pace e Disarmo, il Centro Europeo per i Diritti Costituzionali e Umani (Ecchr), e l’ong yemenita Mwatana per i Diritti Umani, hanno sottolineato in un evento online che il governo di Roma e i produttori italiani di armi potrebbero essere considerati corresponsabili dei crimini di guerra commessi nello Yemen esportando armi verso la coalizione militare guidata dall’Arabia saudita e dagli Emirati arabi uniti. Un anno fa, nel dicembre 2019, Amnesty International e numerose altre organizzazioni comprese quelle citate si rivolsero all’Ufficio del procuratore presso la Corte penale internazionale dell’Aja chiedendo un’indagine sulla responsabilità degli “attori aziendali e governativi in Italia, Germania, Francia, Spagna e Regno Unito”. La comunicazione descriveva ventisei attacchi aerei della coalizione saudita che, secondo le ricerche effettuate, potrebbero aver utilizzato bombe prodotte in Europa. L’Italia, come alcuni altri paesi europei, ha per ora bloccato le esportazioni dirette ai paesi belligeranti (anche se molti armamenti arrivano o arriveranno a loro attraverso paesi terzi). Nei primi mesi del 2020, gli attacchi aerei a guida saudita sono più che raddoppiati e le vittime civili della guerra sono aumentati vertiginosamente arrivando a oltre 20000 per gli oltre 64000 bombardamenti compiuti da quando la guerra cominciò nel 2015. Di fronte a questo quadro sempre più grave e deprimente, poche ore prima dell’inizio del vertice dei G-20, la International Rescue Committee, organizzazione non governativa con sede a Washington ha sollecitato Usa, Gran Bretagna e Francia a sospendere le loro vendite di armi alla coalizione saudita. Silenzio totale da parte dei paesi chiamati in causa.

L’abbraccio esiziale a Neom: MbS, Pompeo, Bibi

Con la scusa che l’Arabia saudita deve essere considerata una pedina importante per controllare “l’espansionismo iraniano” nella regione, l’anno scorso il presidente americano furbescamente ordinò la consegna di bombe e missili sofisticati a Riad per una cifra volutamente inferiore a quella che impone un’approvazione congressuale sulle vendite di armi. Giochi più volte ripetuti e più volte giustificati dalla Casa bianca (e sottoscritte dal parlamento) in quanto le vendite “creano lavoro” per gli americani. Nel 2017 Trump e i sauditi firmarono una lettera d’impegno per l’acquisto di armi per un valore di 110 miliardi di dollari subito e altri 350 miliardi di dollari entro dieci anni. Un accordo simile l’aveva firmato il deludente “premio Nobel per la pace” predecessore di Trump, Barack Obama.

Non sono soli i movimenti pacifisti a chiedersi cosa può fare l’Arabia saudita con tale quantità e qualità di armamenti se non garantirsi il sostegno dell’industria americana. Persino il Pentagono, nelle sue analisi, ammette che il regno dei Saud, poco popolato e con una maggioranza di sudditi poco incline a sostenere la famiglia reale, non sarebbe capace nonostante il suo arsenale crescente supersofisticato a vincere un confronto militare con un paese come l’Iraq, l’Iran o l’Egitto senza l’intervento diretto degli Stati Uniti. O di Israele. E a proposito della superpotenza mediorientale: mentre gli occhi dei rappresentanti del G20 erano più o meno concentrati sugli schermi che li collegavano, il premier israeliano, il capo del Mossad, Yossi Cohen e il bellicoso segretario di stato americano Mike Pompeo sono volati a Neom, la città del futuro – zona turistica e industriale – nel nord dell’Arabia saudita per il primo incontro ufficiale tra Netanyahu e Mohammed bin Salman. Non ci vuole molto per capire che si è trattato di un “consiglio di guerra”. Cosa fare prima dell’insediamento di Biden alla Casa Bianca per mettere i bastoni tra le ruote del neoeletto?

Quali spuntati argini “democratici” alla deriva bellica?

Il leader democratico ha più volte parlato di modificare la politica americana impostata da Trump rispetto a Mohammed bin Salman e all’Arabia saudita nel suo insieme. E ha più volte insistito sulla necessità di riprendere appena possibile il dialogo sul nucleare con l’Iran che Trump aveva interrotto nonostante le esortazioni non solo di molti consiglieri americani ma anche dei partner europei. Nei giorni scorsi il “New York Times” aveva rivelato che subito dopo il voto Trump aveva sollecitato, senza successo, i suoi generali a mettere in piedi un attacco alle istallazioni nucleari iraniane. Sarà ora Israele a colpire? Pochi a Tel Aviv pensano che una massiccia azione militare contro Teheran sia imminente. L’altro tema di fondo è la “questione palestinese”. L’avvicinamento tra Israele e Arabia saudita è un dato di fatto ma è ancora re Salman, non MbS, a decidere fino a dove arrivare e ha appena ribadito, frenando l’entusiasmo di Netanyahu, che la normalizzazione delle relazioni tra i due paesi aspetta il momento in cui sarà annunciata la creazione di uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come sua capitale.

Israele e il suo premier hanno ottenuto molto da Trump ma nel commentare il vertice trilaterale a Neom, Joshua Teitelbaum, storico ed esperto di affari sauditi e dei paesi del Golfo all’università Bar-Ilan (destra religiosa) ha ricordato al premier che anche «con i democratici Israele ha molta influenza a Washington» ma non deve troppo schierarsi con i sauditi contro le eventuali azioni di Biden, noto da sempre come sostenitore di Israele.

L'articolo Neom: The Red Sea Diving Resort proviene da OGzero.

]]>
Un complesso militar-industriale rinnovato e senza remore https://ogzero.org/nuovi-armamenti-e-suk-dell-usato-sicuro/ Thu, 12 Nov 2020 14:36:10 +0000 http://ogzero.org/?p=1722 A volte ritornano… le tangenti Lockheed Guerra e Pace. Pace e guerra. Distruzione e ricostruzione. Elementi fondamentali delle economie e delle contorte politiche mondiali. Appena incassati i cosiddetti “Accordi di Abramo” tra gli Emirati arabi e Israele, Donald Trump ha informato il Congresso della sua intenzione di vendere al piccolo stato arabo di fronte all’Iran […]

L'articolo Un complesso militar-industriale rinnovato e senza remore proviene da OGzero.

]]>
A volte ritornano… le tangenti Lockheed

Guerra e Pace. Pace e guerra. Distruzione e ricostruzione. Elementi fondamentali delle economie e delle contorte politiche mondiali. Appena incassati i cosiddetti “Accordi di Abramo” tra gli Emirati arabi e Israele, Donald Trump ha informato il Congresso della sua intenzione di vendere al piccolo stato arabo di fronte all’Iran 50 caccia-bombardieri Lockheed Martin F-35-II, per una cifra che potrebbe aggirarsi attorno ai 10 miliardi di dollari (8421514000,00 euro). L’operazione ha bisogno dell’approvazione del Congresso e, indirettamente, di Israele che per bocca del suo premier Netanyahu, amico e complice del presidente uscente che farà i bagagli a fine gennaio, ha chiesto soltanto di far in modo che venisse mantenuto, come da accordi ormai consolidati dalla legislazione Usa, la superiorità militare del suo paese su tutte le altre nazioni arabe e del Vicino Oriente. E per mantenere questa superiorità serviranno nuove armi. Un funzionario della difesa israeliana ha atteso soltanto la conferma ufficiosa della sconfitta di Trump per dire al “Jerusalem Post” che non appena sarà possibile Tel Aviv vuole negoziare un nuovo pacchetto multimiliardario di assistenza militare da mettere in coda a quello stilato con Barak Obama e che scade nel 2027. Sicuramente dovrà tenere in considerazione la corsa degli arabi al F-35 e l’enorme quantità di armi acquistate dall’Arabia saudita negli ultimi anni. Sono stati che Israele considera alleati nella guerra all’Iran ma di cui si fida poco soprattutto per quanto riguarda la stabilità dei loro regimi. Stati clientelari per gli Usa che vi hanno basi militari importanti e che con i loro petro/gas-dollari continuano ad arricchire l’industria bellica americana. Spesso contro la volontà di una parte dell’establishment Usa, apparentemente incapace di contrastare la Casa bianca. Nel giugno di quest’anno l’Ispettore generale del Dipartimento di Stato (ossia il ministero degli esteri) fu licenziato su due piedi da Trump. Il presidente lo aveva scoraggiato dall’indagare sulla massiccia vendita di armi all’Arabia saudita portata avanti nonostante l’opposizione di una parte del Congresso. Il Regno era nel mirino dei parlamentari per il suo ruolo criminale nella guerra in Yemen; per l’assassinio del giornalista del “Washington Post” Jamal Khashoggi; e anche per i finanziamenti diretti o indiretti a organizzazioni islamiste collegate al terrorismo internazionale antioccidentale.

Nuovi armamenti sofisticati e suk dell’usato sicuro

È presto per capire cosa Joe Biden, sostenitore senza incertezze d’Israele, cambierà nella confusa politica Usa nei confronti di quella regione. È probabile un ritorno ai negoziati sul nucleare con l’Iran e forse ci sarà qualche passo per fermare l’idea – la “Abraham Peace” perorata da Trump e dal suo entourage di ebrei americani vicini a Netanyahu e alle sue idee estremiste – di mettere fine al conflitto arabo-israeliano, abbandonando completamente il popolo palestinese a un destino incomprensibile. Non è detto, però, che il Congresso bloccherà la vendita degli F-35 agli Emirati: non ha mai vietato una vendita già decisa al livello governativo. Di sicuro, se come probabile andrà avanti, favorirà una rinnovata corsa a nuovi più sofisticati armamenti da parte di tutti i giocatori, grandi e minuscoli, della regione. E con l’arrivo delle nuove armi, si movimenterà il solito grande suk dell’usato che come più di una volta in passato potrebbe portare armi “superate” ma più che efficienti nelle mani dei nemici degli Usa e dell’intero mondo occidentale.

Un filo di acciaio imbastisce l’industria bellica con la politica americana

Donald Trump, a differenza del suo predecessore Barak Obama, responsabile quanto meno della devastazione della Libia e, in qualche modo, anche della Siria, mantenendo le sue promesse pre-elettorali non ha avviato nuovi conflitti ma questo non significa che non abbia mantenuto quello stretto rapporto che da anni lega il mondo degli armamenti alla politica americana. E non solo americana. Oltre mezzo secolo dopo il famoso discorso-ammonimento d’addio dell’allora presidente Usa Dwight D. Eisenhower, i timori del generale passato alla politica sono diventati una realtà che influisce su tutti gli inquilini della sala ovale. E su chi aspira ad abitarci.

Dwight D. Eisenhower

Image from the broadcast of President Dwight D. Eisenhower and his farewell address to the nation on January 17, 1961, from the White House in Washington, D.C. (National Archives)

«Nei concili di governo dobbiamo guardarci dall’acquisizione di influenze che non diano garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro».

Ike didn’t like weapons?

Pochi allora vollero attribuire molta importanza a quelle parole di Eisenhower – il generale che aveva portato alla vittoria l’alleanza contro il nazifascismo – pronunciate il 17 gennaio 1961 nel momento in cui stava lasciando la Casa bianca. Era stato eletto nelle liste del Partito repubblicano, lo stesso di Donald Trump e di altri outsider alla politica come l’attore Ronald Reagan, di ben altro spessore grazie a una squadra di consiglieri più capaci. Ike, così era chiamato da tutti, era l’uomo più popolare degli Stati Uniti. Sei anni prima, il 17 giugno 1945, mia madre volle portarmi – avevo sei anni – dalla nostra casa nel Bronx fino a Manhattan per essere con i quattro milioni di americani che accolsero al suo ritorno negli Usa l’eroe della guerra. Indossavo orgoglioso una giacca “modello Ike” – di moda perché era stato adottato dal generale e da molte truppe – che la mamma aveva tagliato e cucito con le sue mani.

Per Eisenhower, furono sufficienti i due mandati, otto anni, alla Casa Bianca, per comprendere i rischi insiti in un’industria bellica capace di influenzare la politica di una grande potenza come erano diventati gli Stati Uniti. Voleva un’America in grado di difendersi dagli orrori che aveva visto con i suoi occhi in un’Europa devastata dalla ferocia delle menti e delle armi ma nutriva molto più di un sospetto sul mostro che era cresciuto in casa per combattere quei mali.

«Un elemento vitale nel mantenimento della pace sono le nostre istituzioni militari. Le nostre armi devono essere poderose, pronte all’azione istantanea, in modo che nessun aggressore potenziale possa essere tentato dal rischiare la propria distruzione…

Questa congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari e un’enorme industria di armamenti è nuovo nell’esperienza americana. L’influenza totale nell’economia, nella politica, anche nella spiritualità è sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del governo federale. Riconosciamo il bisogno imperativo di questo sviluppo. Ma tuttavia non dobbiamo mancare di comprenderne le gravi implicazioni. La nostra filosofia ed etica, le nostre risorse e il nostro stile di vita sono coinvolti; la struttura portante della nostra società.

Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito. Soltanto un popolo di cittadini allerta e consapevole può esercitare un adeguato compromesso tra l’enorme macchina industriale e militare di difesa e i nostri metodi pacifici e obiettivi a lungo termine in modo che sia la sicurezza che la libertà possano prosperare assieme».

Corruzione e finanziamenti nel traffico di armi

I rischi insiti nella politica degli armamenti Usa sono stati documentati e denunciati nel 2018 da uno studio approfondito di due ricercatori – A. Trevor Thrall e Caroline Dorminey – del Cato Institute: Risky Business: The Role of Arms Sales in U.S. Foreign Policy. Tra i pericoli illustrati e ampiamente documentati, le situazioni di guerra in cui le armi americane vendute a “paesi amici” finiscono nelle mani di nemici degli Usa e vengono usate contro le truppe americane. Il caso recente più clamoroso riguarda l’Iraq dove interi arsenali hanno armato gruppi di islamisti in lotta contro le forze occidentali in quel paese.

Tangenti Lockheed Martin nei decenni

Corruzione e finanziamenti sono all’ordine del giorno nel mondo degli armamenti. Per restare nella regione che ci interessa, Netanyahu e alcune personalità israeliane del mondo militare e civile sono sotto inchiesta per tangenti che sarebbero state pagate per un affare miliardario di sommergibili tedeschi. Qualcuno si chiederà se l’affare degli F-35 e le massicce vendite di armi all’Arabia saudita in questi ultimi anni sono servite a rafforzare economicamente le campagne elettorali del presidente uscente o di altri politici impegnati nelle lunghe costose campagne per presidenza, congresso e senato. Ipotesi basate su fatti avvenuti in passato. Gli stessi costruttori degli F-35 furono incriminati negli anni Settanta quando il Congresso americano accertò che la corruzione era un sistema diffuso da parte della Lockheed Corporation e della più piccola Northrop. Nel 1976 il “New York Magazine” scrisse che il senatore Church, capo della commissione d’inchiesta, «ha prove che la Lockheed ha pagato tangenti in almeno quindici paesi, e che in almeno sei paesi ha provocato gravi crisi di governo». L’Italia fu una di questi. Mario Tanassi, ministro della difesa, fu silurato per aver intascato una tangente di 50000 dollari su circa 2 milioni di dollari, destinati dalla Lockheed alla corruzione in Italia. Furono condannati anche il generale dell’aeronautica Duilio Fanali, il segretario di Tanassi Bruno Palmiotti, i faccendieri Ovidio Lefebvre e Antonio Lefebvre, e il presidente di Finmeccanica Camillo Crociani.

Nuovi armamenti e suk dell’usato sicuro

Torniamo in Vicino Oriente e dintorni. Non soltanto perché è il più grande mercato di armi di ogni tipo ma perché è il perfetto testing-ground, il terreno su cui le armi nuove possono essere sperimentate prima di finire sulla linea di produzione e poi sul mercato. Usa, Russia, Francia e Israele sono qui in prima linea. In tutti i sensi. Secondo una delle più recenti ricerche del Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), nella regione in guerra – dalla Siria, allo Yemen, dall’Iraq alla Palestina e poi al più distante Sud Sudan – le commesse sono aumentate del 61 per cento dal 2015 al 2019. Gli Usa sono in cima alla lista dei venditori lì e nel mondo: hanno ben 96 paesi-clienti. La Russia, ex superpotenza, ha perso una fetta importante del mercato dopo che l’India con un leader nazionalista di destra ha stretto rapporti con Israele dove ha trovato non soltanto una politica simile ma anche una delle più grandi, moderne e immorali delle industrie belliche pronte a vendere senza fare troppe domande. Nel maggio 2019 Amnesty International ha sottolineato che le armi israeliane vengono vendute a nazioni notoriamente colpevoli di violazioni dei diritti umani delle proprie popolazioni come Myanmar, Filippine, Sud Sudan e Sri Lanka. Negli ultimi mesi, bombe a grappolo israeliane, vietate dalle convenzioni internazionali, hanno seminato morte e feriti nella regione del Nagorno-Karabakh contesa tra Azerbaijan e Armenia. Grazie a testimonianze raccolte da giornalisti e analisi delle immagini dei bombardamenti nella capitale dell’autoproclamata repubblica dell‘Artsakh, Stepanakert, gli esperti di Amnesty hanno potuto confermare l’uso di bombe a grappolo di tipo M095 Dpicm, di fabbricazione israeliana. «Vecchi stock», hanno risposto da Tel Aviv per difendersi dalle critiche in uno scacchiere in cui le sue alleanze sono confuse. La guerra è guerra: la logica del potente apparato militare-industriale israeliano è strettamente controllato e gestito ai massimi livelli del governo.

Ma, ancora più importante della disponibilità a non fare domande o giudicare chi deve comprare, Israele offre (anche rispondendo a richieste specifiche quando possibile) di provare le armi nei conflitti dietro casa, da Gaza al Libano, alla Siria. Ci sono segnalazioni di richieste precise da parte di paesi acquirenti (gli Usa tra questi) perché certe armi sofisticate (come i droni e i loro armamenti ormai entrati in prima linea nelle moderne guerre) vengano usate in combattimento e approvate prima di finire sul mercato. La distruzione senza senso di abitazioni e altri edifici nella striscia di Gaza è spesso servita a questo scopo. E c’è chi – in Israele e fuori – vorrebbe assistere ad almeno uno scontro limitato con il meglio armato Hezbollah in Libano per mettere alla prova nuove generazioni di ordigni contro i bunker in profondità.

Nel 2017 le esportazioni di armi israeliane hanno raggiunto la cifra record di 9 miliardi di dollari. Questo non include il reddito delle società paramilitari che operano nel settore dell’informatica e della sicurezza. Un settore accusato di aver collaborato con regimi noti per i loro bassi voti nel rispetto dei diritti dei loro cittadini. E di spiare anche paesi amici.

L'articolo Un complesso militar-industriale rinnovato e senza remore proviene da OGzero.

]]>