Penisola anatolica Archivi - OGzero https://ogzero.org/regione/penisola-anatolica/ geopolitica etc Fri, 26 Apr 2024 17:49:35 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 L’equilibrista di Ankara sul filo del conflitto mediorientale https://ogzero.org/lequilibrista-di-ankara-sul-filo-del-conflitto-mediorientale/ Thu, 25 Apr 2024 20:18:45 +0000 https://ogzero.org/?p=12587 Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati […]

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Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati risolutivi per lo Stato ebraico e così si assiste al particolare dinamismo da parte di molti attori locali, in particolare di Erdoğan.
La diplomazia turca e il presidente stesso hanno intrapreso un tourbillon di incontri presso i vertici degli stati che compongono la regione mediorientale, proponendosi come mediatore, cercando di raccogliere il testimone lasciato cadere dal Qatar, logorato dal boicottaggio israeliano. Ma soprattutto Erdoğan ha individuato nel conflitto che si vuole estendere dal confronto tra Stato ebraico e Repubblica islamica la nuova centralità dell’Iraq, controllato da Teheran attraverso una ragnatela di accordi con la complessità delle formazioni e delle comunità che abitano il territorio iracheno; insinuandosi nei contrasti interni, il presidente turco mira al petrolio di Erbil e a cacciare il Pkk dai monti del Kurdistan iracheno… Murat Cinar dispiega la sottile tela che si va tessendo, in particolare ricostruendo il ruolo turco e l’avvicinamento di Hamas (evidentemente più rassicurato dall’abbraccio di Ankara – contemporaneamente paese Nato e rivale di Israele – che non dalle petrocrazie arabe) sia nella complessa carneficina della guerra ormai esportata nel resto dei paesi all’interno dei quali le presenze filoiraniane dettano la politica, sia nella strategia per inserirsi nel controllo del territorio e dell’energia irachena, comprandosi Baghdad ed Erbil. E di nuovo, come spesso ci ha raccontato Cinar, spuntano gli oleodotti di Barzani [a proposito: l’immagine in copertina è la fortezza di Erbil pavesata a festa per l’arrivo del presidente turco]  e le dighe su Tigri ed Eufrate, le acque del Medioriente…


Erdoğan è vicino a tutti

 

“Da oltre cento anni, le acque nel Medioriente non trovano pace”, questo è un dato certo. Tuttavia, proprio nelle ultime settimane, siamo testimoni di un fenomeno straordinario. Un fenomeno che coinvolge diversi attori, ma tra essi uno spicca particolarmente: la Turchia.

Dal 7 ottobre fino a oggi, le relazioni tra il partito al governo in Turchia, l’Akp, e l’organizzazione armata Hamas, sono diventate una questione internazionale, chiara e trasparente. L’esponente più autorevole dello stato turco e del partito al potere da oltre vent’anni, ovvero il presidente della Repubblica, dopo alcune settimane di silenzio dal 7 ottobre, ha deciso di comunicare la sua posizione: «Hamas è un’organizzazione di patrioti, non un’organizzazione terroristica». Così, dopo l’Iran, la Turchia è diventata il secondo paese al mondo a esprimere un avvicinamento così netto a Hamas.


Una posizione che entra in contraddizione con i partner europei, con gli alleati Nato, nonché con la Lega Araba e l’Organizzazione della Cooperazione Islamica. In fondo, non si tratta di una novità assoluta. La linea politica ed economica rappresentata dall’Akp è sempre stata vicina ai movimenti fondamentalisti come i Fratelli Musulmani e a una serie di formazioni armate religiose nel Medio Oriente. Inoltre Hamas ha sempre trovato accoglienza, sostegno e riconoscimento presso l’Akp e sotto l’ala protettiva del presidente della Repubblica di Turchia. Tuttavia, questa esposizione così netta, in pieno conflitto, non ha provocato reazioni, sanzioni o embarghi da parte dell’UE e/o della Nato. Poche settimane dopo, nel mese di dicembre, il mondo ha appreso, grazie alle inchieste giornalistiche di Metin Cihan, che persino per Israele non costituiva un grande problema, poiché Tel Aviv continuava a fare acquisti presso aziende turche, incluse quelle statali.

Affannosamente al centro di ogni possibile accordo

Nel mentre Ankara ha tentato diverse volte di assumere il ruolo di “mediatore”, anche se finora senza successo; tuttavia, oggi sembra che questi sforzi stiano finalmente portando dei risultati. Il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha incontrato in Qatar il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, proprio quando Doha stava per abbandonare il suo ruolo di mediatore. Infatti il primo ministro del Qatar, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, il 16 aprile aveva comunicato a Fidan che il suo governo stava per rinunciare. Tuttavia il tentativo del Ministro turco sembra poter ottenere dei risultati positivi. Le dichiarazioni di Fidan ci offrono spunti di riflessione su una serie di scenari:

«Come ho costantemente riferito ai nostri alleati occidentali, Hamas è a favore di uno stato palestinese basato sui confini del 1967 e, una volta creato, è disposto a rinunciare alle armi e a intraprendere la via della politica parlamentare», ha affermato Fidan. Tale dichiarazione prevede anche il riconoscimento di Israele da parte di Hamas, la possibilità di porre fine al conflitto armato, il rilascio degli ostaggi e lo scambio di detenuti politici. Si tratterebbe dell’inizio di una nuova era: «Questo segna il cammino verso la creazione di uno stato palestinese», ha concluso Fidan.

Quando e perché viene fuori una dichiarazione del genere?

Potrà una comunità fondarsi su un altro genocidio come quello di Gaza senza essere una caserma come lo Stato ebraico… o la Repubblica turca?

Senza dubbio il massacro a Gaza ha esaurito innanzitutto i principali protagonisti. Ci troviamo di fronte a un governo sionista, rappresentato da Benjamin Netanyahu, che sta perdendo sempre più il sostegno interno. Da mesi ormai, le strade di Israele sono attraversate da manifestazioni che chiedono le dimissioni di Bibi. In realtà, non è una novità, considerando che nel 2023 Israele aveva già vissuto un lungo periodo di proteste contro il governo per le sue proposte di cambiamento radicale del sistema giudiziario. Oggi Netanyahu è impegnato in una guerra che non sta producendo risultati. Gli ostaggi sono ancora in mano a Hamas, molti sono morti (anche a causa dell’esercito israeliano), e il governo israeliano continua a perdere sostegno a livello internazionale. Le critiche severe che giungono da Washington non sono sporadiche, soprattutto attraverso il più importante esponente politico degli Stati Uniti, ovvero Biden, che tra pochi mesi dovrà affrontare delle elezioni cruciali, dove la situazione israeliana avrà sicuramente un ruolo di rilievo.

Sintonie politico-militari tra leader nazionalisti-identitari

Quindi l’avvicinamento di Ankara a Hamas e il tentativo di portarla eventualmente al tavolo dei negoziati, ottenendo il riconoscimento dello Stato di Israele, la creazione di uno stato palestinese indipendente e il rilascio degli ostaggi, sicuramente portano all’Akp un notevole vantaggio politico. Biden si libera dalla pressione politica e mediatica avvicinandosi alle elezioni, mentre Ankara appare come un mediatore con un canale privilegiato verso un gruppo armato che ha legami diretti solo con l’Iran, attualmente molto isolato.
Infatti, proprio in questi giorni il presidente della Repubblica di Turchia ha paragonato Hamas alla formazione armata che ha fondato la Turchia, la Kuva-i Milliye (anche se con profili ideologici decisamente diversi). Lo stesso parallelo era stato tracciato dallo stesso presidente per l’Esercito Libero Siriano nel 2018, un gruppo di jihadisti che aveva supportato le forze armate turche nelle loro operazioni in Siria. Oggi Erdoğan sembra cercare di presentarsi nuovamente come l’unico intermediario per le organizzazioni terroristiche, a servizio della Nato, dell’Europa e persino di Israele. Non va dimenticato il tentativo di costruire un rapporto diretto con i Talebani nel 2021, quando Erdoğan disse:

«Abbiamo un pensiero ideologico molto simile».

Questo avvenne proprio mentre il mondo era sconvolto dalla fuga degli americani dall’Afghanistan e il ritorno dei Talebani al potere.

Tattiche e affari turchi; accoglienza senza schierarsi

Quindi Hamas rappresenta una nuova opportunità per Ankara, forse anche per garantire un certo sostegno a Bibi. Nonostante gli attriti e le dichiarazioni aspre, Erdoğan e Netanyahu hanno sempre mantenuto un rapporto commerciale molto proficuo, in costante crescita. Anche durante il conflitto, secondo il report dell’Istituto di Statistica turco, Tuik, il volume degli scambi commerciali tra Ankara e Tel Aviv è aumentato del 20%. Tra i prodotti venduti troviamo tutto il necessario per sostenere l’occupazione e l’invasione. Chi altro potrebbe offrire un aiuto così significativo a Netanyahu, in difficoltà al punto da tentare di coinvolgere persino l’Iran in una guerra?

Sì, l’accoglienza diretta e il sostegno a Hamas da parte di Ankara avvengono proprio mentre nel mondo crescono le preoccupazioni riguardo a una possibile guerra tra Iran e Israele.

Tattiche e affari iraniani, intrecci speculari con quelli israeliani

In questo momento di difficoltà interna e internazionale il governo israeliano decide di colpire le postazioni diplomatiche iraniane presenti in Siria, il 1° aprile. Ovviamente sarebbe stato assurdo pensare che l’Iran non avrebbe reagito. Ma in che modo e con quali tempi?

Teheran ha atteso ben due settimane prima di reagire. In Israele l’ansia era palpabile: si sono verificate lunghe code nei supermercati, la popolazione era pronta per la guerra e le critiche nei confronti di Netanyahu si erano intensificate. Tuttavia Teheran, considerando la propria situazione economica e l’instabilità politica interna da anni, non poteva permettersi una vera guerra. Alla fine sono stati lanciati più di 300 razzi/droni verso Israele, ma nessun bersaglio civile è stato colpito e solo una persona è rimasta ferita. Era prevedibile che Tel Aviv avrebbe neutralizzato questo attacco con il suo avanzato sistema di sicurezza? Forse sì. Allora, a cosa è servito tutto ciò?
Innanzitutto Teheran non è rimasto in silenzio dopo l’attacco subito, ha dimostrato al mondo che in qualche modo avrebbe potuto tentare di colpire Israele. Dopo il 7 ottobre, e per la prima volta dopo anni, uno stato ha cercato di colpire Israele mentre tutti i paesi del Golfo osservavano ciò che accadeva a Gaza. Israele ha fermato l’attacco grazie ai suoi alleati, non da solo. In primo luogo la Giordania, poi le forze americane e inglesi hanno dato una mano a Tel Aviv. Quindi, per il governo israeliano, questa non è una vittoria ottenuta da solo.

Inoltre per Israele potrebbe essere stato un tentativo, forse, di spostare l’attenzione da Gaza a Teheran. Forse cercava di coinvolgere gli Stati Uniti in questa guerra, o di ottenere nuovi alleati in un eventuale conflitto futuro. Alla fine della giornata, chi non ha qualche problema con l’Iran? Tuttavia, secondo fonti dell’agenzia di stampa Axios, Bibi non ha ottenuto il sostegno che si aspettava da Biden. «You got a win. Take the win» sarebbe stato il riassunto della posizione del presidente statunitense. In altre parole: “mo’ basta, non ti sostengo più”. Ora Israele molto probabilmente si sta preparando a colpire l’Iran. Non sappiamo ancora in che modo, ma Tel Aviv non è l’unico a cercare di mettere in discussione la presenza dell’Iran in quella zona in questi giorni. Anche Ankara sta cercando di eliminare Teheran dall’Iraq.

Affari e opportunità, rimestando nel caos iracheno

Lorenzo Forlani ci aiuta a inquadrare la mezzaluna sciita: “No “Mena” Land: lo strame di 30 anni di proxy war in MO”.

Erdoğan e l’ossessione anticurda

Pochi giorni prima delle elezioni amministrative tenutesi in Turchia il 31 marzo, una significativa delegazione turca si era recata a Baghdad, ottenendo un risultato di rilievo grazie alla firma di un accordo storico. Con questo accordo, il governo iracheno esprimeva la sua solidarietà ad Ankara nella “lotta contro il Pkk” e prometteva di impegnarsi anche militarmente in questa missione. Oggi è giunto il momento di valutarne i risultati.

Dodici anni dopo il presidente della Repubblica di Turchia si è recato in Iraq il 22 aprile per incontrare il governo centrale a Baghdad e successivamente gli esponenti dell’Amministrazione autonoma del Kurdistan a Erbil. Quali sono gli elementi in gioco e qual è il coinvolgimento dell’Iran?
Uno dei principali problemi che Baghdad fatica ad affrontare è quello economico. Infatti, nel mese di marzo di quest’anno, l’Iraq ha avviato il progetto della “Strada dello Sviluppo”, che prevede il coinvolgimento diretto della Turchia per una serie di prodotti, sfruttando anche la sua posizione geografica strategica. La “Development Road” sarebbe importante anche per diventare un’alternativa per una serie di paesi e aziende occidentali che negli ultimi tempi hanno incontrato difficoltà nel Mar Rosso, una zona controllata da Ansar Allah (Houthi), cioè dall’Iran. Quella formazione armata che spesso impedisce alle navi commerciali di attraversare la zona. Quindi si tratta di un progetto che avrebbe l’ambizione, almeno in parte, di minare il potere politico ed economico di Teheran. Naturalmente l’attuazione del progetto renderà la Turchia un attore importante, che sembra voler approfittare di questa occasione per introdurre ulteriori elementi nel gioco.

E l’ambigua ossessione antiraniana per conto dell’energivoro Occidente

Infatti tra i temi discussi da Erdoğan durante la visita in Iraq c’è anche il consolidamento dell’alleanza diretta per combattere il Pkk, una formazione armata definita “terroristica” dalla Turchia, con alcune sue basi e numerosi vertici situati proprio in Iraq. In questo contesto è importante ricordare che da circa tre anni, durante gli incontri tra Ankara e Baghdad, si discute anche di una possibile collaborazione per eliminare la formazione armata Hashdi Shabi dal territorio iracheno. Questo rappresenterebbe un nuovo gesto contro l’Iran, dato che l’organizzazione in questione è stata costantemente sostenuta e armata da Teheran ed è stata sempre considerata una “minaccia per la sicurezza nazionale” da parte di Baghdad. Pertanto unire la lotta contro il Pkk a quella contro l’Hashdi Shabi potrebbe diventare una missione comune per questi due paesi confinanti.

Quindi, per Ankara, l’attuazione del progetto “Development Road” rappresenta anche un’opportunità per trasformare Baghdad in un vero alleato nella sua missione di contrastare e forse distruggere il Pkk. Dopo che Baghdad ha definito il Pkk “un’organizzazione terroristica” nel mese di marzo, ora non ci sarebbero più ostacoli per avviare le operazioni militari. È importante considerare che un Iraq sicuro, non soggetto a bombardamenti da parte di nessuno, libero dal conflitto armato tra Pkk e Ankara e infine libero dalla presenza iraniana, consentirebbe a tutte le aziende europee e statunitensi di operare “in pace”. Pertanto l’operazione economica e militare proposta da Ankara non gioverebbe solo ai suoi interessi. Infatti, proprio il giorno dell’arrivo di Erdoğan in Iraq, il portavoce dell’Association of the Petroleum Industry of Kurdistan, Myles Caggins, ha dichiarato ai microfoni del canale televisivo iracheno Rûdaw TV:

«Mi aspetto che Erdoğan convinca i dirigenti iracheni a far giungere il petrolio del Kurdistan al mondo attraverso la Turchia».

Dalla padella della mezzaluna sciita filoiraniana alla brace della fratellanza filoturca?

È indubbiamente importante considerare una serie di dinamiche. In Iraq nel 2025 si terranno le elezioni e nel paese non c’è un consenso politico e/o popolare sulla posizione nei confronti del Pkk e sull’avvicinamento con la Turchia. Per esempio, Bafel Jalal Talabani, leader dell’importante partito politico curdo Puk, spesso dichiara che il Pkk non è il suo nemico. Inoltre, è ancora fresca la condanna subita da Ankara per il commercio petrolifero, definito “scorretto”, con l’amministrazione curda. Nel 2023, Ankara è stata multata di 1,4 miliardi di dollari dalla Icc, la Corte Internazionale di Arbitrato.

Ma evidentemente il presidente turco è stato convincente (forniture militari, sicurezza, risorse idriche, promesse varie…), tanto che il portavoce del governo iracheno, Basim el-Avvadi ha rilasciato una dichiarazione il 25 aprile: «Ai membri del Pkk sarà riconosciuto il titolo da rifugiato politico. L’organizzazione invece sarà definita illegale», un’altra diaspora attende i resistenti curdi; contemporaneamente Hamas può trovare ricovero proprio presso il persecutore del Pkk.

Dighe contro le popolazioni mesopotamiche: preludio a un nuovo focolaio di guerra

Oltre a questa questione ancora aperta c’è anche il problema dell’acqua, che rappresenta un tema cruciale. Secondo l’accordo del 1980 la Turchia è tenuta a gestire correttamente il regime dei fiumi che attraversano i suoi confini e scorrono verso l’Iraq. A causa del riscaldamento globale Baghdad cerca da anni di rinegoziare questo accordo, ma Ankara continua a rimandare la questione. Tuttavia, soprattutto durante l’estate, ciò causa un enorme disagio per l’intera nazione, e l’opinione pubblica è convinta che la Turchia stia usando l’acqua come un’arma contro l’Iraq.

La portata del Tigri e dell’Eufrate nel progressivo inaridimento fino alla foce, grafico tratto da Curdi, di Antonella De Biasi, Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

Dopo l’incontro del 22 aprile è molto probabile che Erdoğan abbia ottenuto risultati significativi non solo dal punto di vista economico, ma anche in vista di un’operazione militare imminente. La sua prossima visita, fissata per il 9 maggio a Washington direttamente con Biden, probabilmente includerà anche l’ottenimento di una sorta di “lasciapassare” in Iraq. Non sarebbe fuori luogo aspettarsi un inizio di guerra entro fine maggio.

Perpetuazione del mondo caoticamente multipolare

Il governo turco è apparentemente molto determinato nel lavoro volto a portare Hamas al tavolo dei negoziati, per ottenere una serie di risultati a breve e lungo termine, sia politici che economici, diretti e indiretti. La fine della guerra probabilmente porterà benefici anche a Benjamin Netanyahu, permettendogli di restare al potere senza doversi dimettere. Quindi in Israele potrebbe rimanere un uomo che, tutto sommato, non ha creato grossi problemi a Erdoğan. Anzi, durante la sua carriera politica, il presidente turco ha beneficiato di un notevole benessere economico, sia per le aziende vicine al suo governo che per quelle della sua famiglia.

In quest’ottica, uno Stato ebraico stabile e una repubblica islamica che non esce dai suoi “confini” e rimane al di fuori del gioco in Iraq permetteranno ad Ankara e ai suoi alleati di continuare a giocare la stessa partita anche nei prossimi anni.

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Terremoto in Turchia: la ricostruzione pianificata dall’alto https://ogzero.org/terremoto-in-turchia-la-ricostruzione-pianificata-dallalto/ Thu, 24 Aug 2023 16:08:58 +0000 https://ogzero.org/?p=11471 Terremoto in Turchia. Questa intervista alla professoressa Pelin Pınar Giritlioğlu, del Dipartimento di Amministrazione Pubblica, Problemi Urbani e Ambientali dell’Università di Istanbul e presidente dell’Unione degli Architetti e degli Ingegneri Turchi di Istanbul, a cura di Luca Onesti e Francesco Pasta, è stata realizzata a sei mesi dal terremoto che a febbraio ha devastato parte […]

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Terremoto in Turchia. Questa intervista alla professoressa Pelin Pınar Giritlioğlu, del Dipartimento di Amministrazione Pubblica, Problemi Urbani e Ambientali dell’Università di Istanbul e presidente dell’Unione degli Architetti e degli Ingegneri Turchi di Istanbul, a cura di Luca Onesti e Francesco Pasta, è stata realizzata a sei mesi dal terremoto che a febbraio ha devastato parte della Turchia meridionale e della Siria per analizzare la tipologia di pianificazione imposta dall’alto, dal punto di vista normativo e con una valenza politica, senza tener conto dei problemi ambientali, sanitari e culturali del territorio colpito.
Poi a sei mesi di distanza, con un’inflazione al 46%, carenze di valuta pregiata, difficoltà nel contesto internazionale che vede la Turchia marginalizzata… il tasso di sconto riconosciuto dalla Banca turca è stato rialzato dal 17,5% (già uno sproposito per una qualunque economia) al 25% in un solo giorno, il 24 agosto 2023. Forse qualche difficoltà per i fondamentali dell’economia turca si palesano da questo provvedimento che cerca di riallineare gli eterodossi provvedimenti finanziari della erdoganomics negli ultimi vent’anni. 


Turchia, a quasi sei mesi dalle due scosse di terremoto che il 6 febbraio hanno colpito una vasta area della Turchia meridionale e della Siria settentrionale, e dopo la tornata elettorale che ha confermato Erdoğan come presidente della Repubblica, si procede ora alla ricostruzione su un’area di faglia che conta 13 milioni di abitanti. Per comprendere meglio le criticità pregresse e quelle che stanno emergendo per quanto riguarda la pianificazione urbana nella gestione del disastro, abbiamo intervistato la Professoressa Pelin Pınar Giritlioğlu, del Dipartimento di Amministrazione Pubblica, Problemi Urbani e Ambientali dell’Università di Istanbul e presidente dell’Unione degli Architetti e degli Ingegneri Turchi di Istanbul. La mancata applicazione, o l’applicazione strumentale, della legislazione implementata in Turchia negli ultimi venticinque anni a seguito di diversi terremoti e l’idea di pianificazione calata dall’alto con la completa disattenzione rispetto alle caratteristiche culturali e ambientali del territorio, sono alcuni dei temi toccati dall’intervista.

Pelin Pınar Giritlioğlu, Dipartimento di Amministrazione Pubblica, Problemi Urbani e Ambientali dell’Università di Istanbul e presidente dell’Unione degli Architetti e degli Ingegneri Turchi di Istanbul

Con la politica dei condoni e la mancata applicazione delle leggi prodotte dopo il terremoto del 1999, abbiamo assistito negli scorsi decenni a quello che lei, in un’intervista a Chiara Cruciati su “Il Manifesto”, ha definito un «patto tra capitale e potere». In che modo sono regolate e ripartite tra governo centrale e autorità locali  le responsabilità riguardo ai terremoti e al rischio sismico, in Turchia?

Poiché siamo un paese ad alto rischio sismico, la responsabilità tra il governo centrale e locale e le organizzazioni non governative è regolata dalla legge. Secondo la normativa turca, e secondo la Costituzione, le autorità locali hanno l’obbligo di adottare tutte le misure contro i rischi che minacciano la vita e i beni dei cittadini. Le autorità locali hanno l’obbligo di predisporre la propria giurisdizione contro i terremoti, in base ai rapporti e ai dati scientifici forniti, e hanno determinati obblighi in materia di ispezioni edilizie, devono cioè verificare se gli edifici sono costruiti in linea con il progetto o meno. Se riscontrano edifici a rischio di crollo, di distruzione o di danneggiamento, devono comunicarlo al Comune metropolitano e agire in collaborazione con esso. I Comuni metropolitani hanno l’obbligo di istituire un consiglio di coordinamento dei disastri, regolato dalla legge. La collaborazione e la preparazione contro i disastri e i terremoti sono organizzate anche a livello delle autorità che in Turchia sono chiamate Muhtar, responsabili di un determinato quartiere su scala minore, l’unità amministrativa più piccola della Turchia. Anche a questo livello sono previsti studi e preparativi.

Si è parlato molto della possibilità di un grande terremoto a Istanbul nei prossimi anni. Nel mese di marzo il sindaco Imamoğlu ha presentato il Piano antisismico per la città. Pensa che si stia andando nella giusta direzione a questo proposito?

Il piano annunciato da Imamoğlu è stato pubblicato come risultato di un workshop scientifico al quale sono state invitate tutte le unità, le organizzazioni e le istituzioni interessate. Le Camere professionali hanno partecipato poi a successivi incontri con il Comune metropolitano in merito a questo piano e alla definizione dei ruoli da svolgere.

La difficoltà principale non riguarda però il piano annunciato, ma la sua applicazione, la sua attuazione nella vita reale.

Prima del terremoto del 6 febbraio, L’AFAD, (L’Autorità per la Gestione dei Disastri e delle Emergenze, omologo della Protezione Civile italiana), aveva già pubblicato alcuni documenti ufficiali che dicevano che ci sarebbero stati dei terremoti a Hatay e Kahramanmaraş. L’annuncio era stato fatto, ma nonostante questi scenari fossero stati già analizzati, non abbiamo visto alcuna reazione o risposta sul campo reale, sul campo fisico, non abbiamo preso alcuna misura concreta. Quindi, in termini di legislazione e di documenti ufficiali, la Turchia è in un certo senso pronta a far fronte ai disastri naturali, ma non è in grado di generare risposte nella vita reale: questo è il problema principale.

Terremoto in Turchia

Antiochia (foto di Luca Onesti)

A proposito di questo divario tra la legislazione e la sua attuazione, abbiamo una domanda sulla Legge n. 6306 sulla trasformazione urbana nelle aree a rischio, che è stata approvata nel 2012, dopo il terremoto di Van, e sembra che sia stata applicata in modo piuttosto strumentale. L’obiettivo era quello di accelerare la ricostruzione delle aree urbane a rischio sismico, ma sembra che sia stata utilizzata soprattutto per altre finalità. Cosa ne pensa? Ritiene che la legge in sé sia valida, ma che l’attuazione sia distorta?

In realtà, la legge n° 6306 non serve al suo scopo principale. È questo il problema della legge. L’espressione “disastri naturali” è citata solo due volte nel testo di legge, che peraltro non fornisce soluzioni essenziali e fondamentali contro i disastri naturali. È solo una “legge sui contraenti” (immobiliari) basata sulla demolizione e ricostruzione delle aree definite “a rischio”.

Definisce solo i metodi per farlo, piuttosto che offrire linee guida sulle precauzioni da adottare. Descrive come ricostruire le aree urbane, ma evita di determinare come organizzare, coordinare e fornire soluzioni sociali e scientifiche al rischio sismico.

In effetti, sembra che a volte il rischio sismico venga utilizzato come giustificazione per determinate politiche di pianificazione e sviluppo urbano. Ora, nelle zone terremotate del Sud-Est, si parla di trasferire intere città. TOKI (L’Amministrazione per l’Edilizia Abitativa di Massa) sta già costruendo questi nuovi quartieri fuori dai centri urbani. E a Istanbul, il Ministero per l’Urbanizzazione ha annunciato di voler creare due nuove città satellite per trasferirvi circa un milione di unità abitative. Pensa quindi che il terremoto e la prevenzione possano essere sfruttati come ulteriore spinta per questo tipo di urbanizzazione di terreni non edificati o rurali e per espandere sempre di più le città, come è già avvenuto sotto il governo dell’AKP?

L’idea delle città satellite non è adatta a Istanbul perché lo scopo delle città satellite è di essere costruite fuori dalle città, non all’interno. Ma nel caso di Istanbul un’area esterna al perimetro metropolitano non esiste, perché la città si estende fino ai centri urbani di Tekirdağ da un lato e Kocaeli dall’altro. Ciò significa che le città satellite saranno costruite al suo interno, come nuovi quartieri,

e dunque che i rimanenti spazi vuoti e le aree di riserva all’interno della città, come le aree agricole o le foreste, fondamentali per l’equilibrio ecologico di Istanbul, saranno aperte all’insediamento.

Come pensa che sarà applicata questa politica nella regione del Sud-Est? Pensa che questa ricostruzione possa essere condotta come è avvenuto a Van dopo il terremoto del 2011, e dunque tradursi in un processo di TOKIzzazione e suburbanizzazione replicato su larga scala da Antiochia (Hatay) a Kahramanmaraş?

L’approccio problematico è che si crede di poter far rivivere le città semplicemente costruendo più case, nuove case. L’edilizia abitativa è fondamentale, ma non è possibile far rinascere una città solo costruendo più unità abitative, perché poi sono necessari spazi educativi, spazi di aggregazione, strutture sanitarie, unità industriali e produttive. Bisogna considerare tutti questi aspetti, e molti altri, per far rinascere la città. Non si può solo costruire più case o nuove case; i cittadini di questi nuovi quartieri esterni dovrebbero continuare a vivere in città, dato che i loro posti di lavoro, le opportunità sociali, rimarranno in ambito urbano. I nuovi progetti sono usati solo come strumento di investimento.

Quello di Van è stato criticato come esempio di una politica di pianificazione e di edilizia abitativa dall’alto verso il basso e non partecipativa. E ora, in queste dieci città del Sud-Est è stato dichiarato lo stato di emergenza (OHAL). Come pensa che questo avrà un impatto sulla ricostruzione, dal punto di vista della soddisfazione dei bisogni della gente e delle loro esigenze?

Lo stato di emergenza è stato usato come un facilitatore e uno strumento per il governo per accelerare il processo e l’attività di costruzione. Si è trattato di un’opportunità tale da indurre il presidente a emanare il decreto presidenziale n. 26, subito convertito in legge, che ha tracciato la strada per avviare i progetti di costruzione senza rispettare alcun principio costruttivo o di pianificazione, senza seguire approcci scientifici, dati, opinioni. Questo modo di procedere ci dimostra che, dopo i tanti terremoti che sono seguiti a quello del 1999, il governo non ha tratto alcun insegnamento e ha insistito nel seguire la stessa strategia. Pertanto, i nuovi progetti che verranno attuati, non dovendo rispettare o seguire nessuno dei principi di pianificazione, porteranno ancora una volta a edifici e città fragili, con un certo rischio di fronte alle catastrofi naturali.

Volevamo chiederle un parere sulla questione della gestione dei detriti post-sisma, per la quale ci sono state anche delle proteste nella provincia di Hatay. La rapida demolizione e lo stoccaggio senza precauzioni di questa enorme quantità di macerie sta infatti causando preoccupazione per la presenza di amianto e altri materiali pericolosi per la salute e la natura. Cosa pensa di quanto sta accadendo e come si potrebbe operare diversamente?

Attualmente esiste un importante problema di salute pubblica in questo campo.

Terremoto in Turchia

Antiochia (foto di Luca Onesti)

È un problema talmente cruciale che potrebbe estendersi a tutte le aree colpite dal terremoto e non solo. Naturalmente esiste un metodo scientifico su come effettuare queste attività di demolizione e tutti gli scienziati hanno denunciato il rischio di iniziare queste attività senza precauzioni, perché l’amianto è una sostanza le cui proprietà cancerogene sono state dimostrate. Prima di queste attività avrebbero dovuto evacuare le zone interessate, ma hanno iniziato subito le demolizioni. Oltre al problema della salute pubblica, c’è anche un problema economico e di proprietà, perché le macerie dell’area vengono attualmente sgomberate e rimosse da alcune aziende private e poi gettate in siti, siano essi pubblici o privati, che hanno un valore economico e vengono compromessi o fortemente danneggiati.

E ancora, gettando i rifiuti nei laghi e nei siti naturali, si crea anche un grande problema ambientale.

Un’altra domanda su Antiochia, Hatay, una città che nella storia antica è già stata distrutta da un terremoto e ricostruita. Come si può rispettare e continuare a far vivere il suo ricco patrimonio architettonico e culturale? La ricostruzione urbana potrebbe mettere in pericolo le caratteristiche particolari di questa città, conosciuta per essere un mosaico di diversità e un esempio di tolleranza e coesistenza? Secondo lei, qual è la logica della dichiarazione, dopo due mesi dal sisma, di “zona a rischio sismico” (secondo la Legge n. 6306) per il centro storico?

Qui si sovrappongono due aspetti problematici. Per prima cosa, questa zona è un’importante area di civilizzazione. Allo stesso tempo, essa è un insediamento della linea di faglia in cui vivono tredici milioni di persone. Quindi, in linea di principio, bisogna proteggere il modello culturale, la struttura sociale e la civiltà stabilita in quell’area e allo stesso tempo bisogna garantire che tredici milioni di persone vivano in sicurezza. Dopo la Seconda guerra mondiale, per alcune città europee che erano state distrutte (per esempio, Dresda) si è seguito il modello per cui il tessuto sociale e culturale della città doveva essere preservato, ma andavano comunque ricostruite. Una tabella di marcia corretta dovrebbe seguire questi due principi:

in primo luogo la sicurezza dovrebbe essere garantita, in secondo luogo il tessuto culturale dovrebbe essere protetto.

Dopo il terremoto, in Turchia, il Ministero ha invece immediatamente annunciato un progetto standardizzato, che potrebbe essere posto in essere dovunque ed è completamente irrilevante per l’identità sociale, culturale e autentica della provincia di Hatay e della città di Antiochia. La ricostruzione in realtà dovrebbe anche tenere conto delle relazioni sociali e tradizionali, del metodo e dei sistemi di produzione, della geografia e del clima. Si dovrebbero prendere in considerazione tutti questi fattori, ma quello che succede spesso è che questi vengono trascurati completamente, generando lo stesso progetto che viene applicato in qualsiasi luogo.


In febbraio avevamo sentito Murat Cinar, giornalista di origine anatolica impegnato anche nel sistema di aiuti alle genti terremotate; la sua conoscenza della società e del territorio – ma anche della propaganda e retorica del presidente turco – appare a distanza di 6 mesi, e dopo le elezioni che hanno visto ancora una volta prevalere la narrazione populista di Erdogan, di una lucidità e premonizione confermate dalla manipolazione delle coscienze e dal patto del presidente con lo zoccolo duro della società turca patriarcale, nazionalista, militarista e tradizionalista (compresa una larga fetta della comunità curda connivente con il persecutore dei curdi).

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L’utile curdo per il regime turco https://ogzero.org/lutile-curdo-per-il-regime-turco/ Fri, 05 May 2023 22:52:29 +0000 https://ogzero.org/?p=10941 «Apparato operativo dei poteri globali», così la asservita stampa turca del 6 maggio 2023 accoglie e fa suo l’attacco scomposto del presidente a “The Economist”, perché la testata nella sua copertina definiva le elezioni del 14 maggio “le più importanti del 2023”, con un esplicito endorsement per Kılıçdaroğlu, mettendo in bella evidenza adesivi con su […]

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«Apparato operativo dei poteri globali», così la asservita stampa turca del 6 maggio 2023 accoglie e fa suo l’attacco scomposto del presidente a “The Economist”, perché la testata nella sua copertina definiva le elezioni del 14 maggio “le più importanti del 2023”, con un esplicito endorsement per Kılıçdaroğlu, mettendo in bella evidenza adesivi con su scritto «Erdoğan se ne deve andare».

 

Dopo 20 anni di morsa sul potere in ogni suo aspetto, dapprima graduale (da sindaco di Istanbul fino al terremoto di Izmit) e poi assoluta (dopo Taksim e soprattutto il tentato golpe del 2016), s’indovinano le crepe nel sistema di Erdoğan. Si colgono anche dall’affanno con cui reagisce ai titoli come quelli di “The Economist”, o con cui cerca alleanze in vista dell’appuntamento elettorale, anticipato dal presidente stesso prima che il terremoto producesse uno sconquasso nel suo progetto di perpetuare il suo controllo sul paese e sugli affari che hanno prosciugato le casse del paese, stremato l’economia, prodotto inflazione, arricchendo una sparuta oligarchia fondata sul consenso della provincia confessionale, sulla repressione della stampa ormai monopolizzata, come il settore delle infrastrutture, che per una beffa del destino potrebbe essere travolta dalle macerie del terremoto.


Con un piccolo aiuto dai nostri amici curdi

Le elezioni presidenziali e politiche che si svolgeranno in Turchia il 14 maggio hanno un’importanza storica per una serie di ragioni. Tra queste senz’altro il fatto che la maggior parte dei partiti d’opposizione, per la prima volta, abbiano deciso di indicare un candidato unico. Anche per questo, ma non solo, i sondaggi parlano del secondo turno per le presidenziali e di un’avanzata significativa dei partiti di opposizione in quelle politiche. Chiaramente queste dinamiche fanno sì che la coalizione al governo si metta alla ricerca di nuovi alleati a casa e rafforzi quelli all’estero. In questa ricerca è importante il voto della popolazione curdofona presente in Turchia e fuori dai confini.

Il reclutamento di HüdaPar: i devoti curdi ultraconservatori

Il 13 marzo, Numan Kurtulmuş, il vicepresidente generale del Partito dello sviluppo e della giustizia (Akp) si è presentato davanti alle telecamere con Zekeriya Yapıcıoğlu, il presidente generale del partito HüdaPar. In questa apparizione storica Yapıcıoğlu ha comunicato l’appoggio ufficiale del suo partito alla candidatura di Recep Tayyip Erdoğan, per le elezioni presidenziali. Dopo questo avvicinamento ufficiale e plateale, il 9 aprile il partito al governo Akp ha dichiarato ufficialmente che 4 membri del HüdaPar saranno candidati nelle liste del principale partito della Turchia. Con questa notizia HüdaPar entra nella casa dell’Alleanza della Repubblica. Ma chi è HüdaPar e perché oggi entra in questa coalizione già esistente dal 2017?


HüdaPar nasce come partito politico parlamentare nel 2012. Nello sfondo del suo logo è dominante il verde, poi al centro c’è un libro bianco da cui sorge un sole giallo. L’estensione del suo nome sarebbe Hur Dava Partisi, il partito della Causa Libera. Ovviamente va prestata l’attenzione sul significato della parola “Hüda” che trova spazio in diversi versi nel Corano e vuol dire “colui che indica la strada” ma è anche uno dei nomi attribuito ad “Allah” quindi in qualche maniera vuol dire “Dio”. Questa chiave semantica ci aiuta a capire che definirlo un partito conservatore è un eufemismo.
Infatti se andiamo a spulciare molto velocemente lo statuto del partito e anche il programma troviamo una serie di obiettivi, ideali e promesse molto conservatrici.

«Ricostruire il sistema governativo basandosi sui valori di fede della società. Ravviare i valori islamici. Definire l’omosessualità come una devianza, vietarla e punirla. Rafforzare i rapporti commerciali e politici con i paesi musulmani. Riformare il sistema scolastico secondo i valori dell’Islam. Iniziare con le lezioni di Arabo e del Corano già nel primo anno delle elementari. Parificare le scuole religiose con quelle statali. Concedere la possibilità di differenziare le classi nelle scuole pubbliche in base al sesso degli studenti. Definire la composizione della famiglia: uomo e donna».

È abbastanza, chiaro, no?

HüdaPar: dio turco e misogino, ma patria e lingua curde

Insieme a queste promesse e obiettivi vediamo una serie di punti che ci fanno capire il secondo “colore” del partito. Sempre nel programma elettorale e nello statuto leggiamo le seguenti affermazioni:

«Il diritto all’istruzione in lingua madre va riconosciuto e garantito. La Costituzione va privata da qualsiasi riferimento etnico. Il servizio militare deve essere abolito. L’obiezione di coscienza va riconosciuto come un diritto. Va ammesso che la nascita della Repubblica ha danneggiato la storica fraternità tra il popolo turco e quello curdo. La laicità dello stato ha reso difficile la vita ai curdi musulmani. I curdi sono le vittime delle politiche di assimilazione e turchizzazione. Lo stato deve ammettere i suoi crimini commessi nel Sudest del paese, chiedere scusa e risarcire i danni. I curdi devono essere riconosciuti nella Costituzione e la lingua curda deve essere riconosciuta come seconda lingua della Turchia. La forza del governo centrale deve essere alleggerita e il potere delle amministrazioni locali deve essere rafforzato».

Dunque è chiaro che siamo di fronte a una formazione che promette una serie di vittorie e riconoscimenti per le persone curdofone. Ma lo fa con un obiettivo e programma decisamente omofobico, fondamentalista e di certo non laico. Per questo l’HüdaPar rappresenta quella fetta della società curdofona che si identifica con un percorso politico decisamente conservatore e per cui “questi curdi” vanno bene per il partito al governo.
Infatti già nel 2020, l’ex presidente generale del partito, ossia Ishak Sağlam invitò il presidente della repubblica a uscire dalla Convenzione d’Istanbul. Quella convenzione forte e importante che fu creata proprio a Istanbul in Turchia nel 2011 con l’obiettivo di lottare contro i femminicidi e tutelare tutte le identità di genere e gli orientamenti sessuali delle persone. Oggi lo stesso partito, con un altro presidente, parla dell’eliminazione della legge 6284 che riguarda la famiglia e la violenza sulle donne.

Il terrorista curdo buono deve essere fondamentalista…

Purtroppo nel capitolo che riguarda HüdaPar ci sarebbe un altro piccolo approfondimento da fare. Ossia il passato di questo movimento e il suo presunto legame con l’Hezbollah turco.
Si tratta di una formazione paramilitare e armata che appare in Turchia negli anni Ottanta. Per chiarire tutto per una volta, l’Hezbollah turco non avrebbe alcun legame con l’omonimo Partito sciita libanese. Infatti Hezbollah turco sarebbe una formazione armata fondamentalista e sunnita. Il suo profilo terroristico è stato confermato dal Dipartimento di Stato degli Usa, nel 2011, e dalla Presidenza generale della Lotta contro il terrorismo in Turchia nel 2012. Questa formazione paramilitare è stata sempre accusata di avere dei legami con i servizi segreti di Ankara e di prendere di mira quasi esclusivamente quella parte marxista del movimento curdo in Turchia. Di questo parla in modo articolato il famoso giornalista Ruşen Çakır nel suo libro Derin Hizbullah pubblicato nel 2016.
La Turchia è venuta a sapere dell’esistenza di questa organizzazione terrorista nel 2000 quando il suo ex leader, Hüseyin Velioğlu, in uno scontro armato con la polizia è stato ucciso e presso la sua abitazione sono stati trovati numerosi documenti che hanno spalancato nuove porte. Le stesse che hanno portato i poliziotti e i procuratori a scoprire i piani per assassinare le persone e purtroppo anche le fosse comuni dove sono state sepolte numerose persone dopo lunghe e crudeli torture. Secondo il giornalista Çakır si tratta di una formazione politica e armata tra i giovani curdi fondamentalisti negli anni Settanta come una sorta di antitesi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan ossia Pkk.

… all’origine di HüdaPar: l’Hezbollah turco

Mentre dopo l’uccisione di Velioglu, Hezbollah turco pian piano scompariva, dall’altra parte nasceva un’associazione con il nome Muztazaf-Der. Anche se questa nuova realtà rigettava ogni accusa di legame con l’Hezbollah turco la Corte di Cassazione nel 2012 ha deciso di chiuderla proprio per questo presunto legame. Il suo presidente, Mehmet Hüseyin Yılmaz, pochi mesi dopo fonda HüdaPar. Un anno dopo, nel 2013, il timone del partito passa nelle mani di Zekeriya Yapıcıoğlu che oggi risulta candidato alle elezioni politiche presso l’Akp.
Oltre a Yapıcıoğlu, nelle liste dell’Akp salta all’occhio anche il nome di Faruk Dinç, accusato di appartenere al Hezbollah turco e trattenuto in carcere per due mesi in relazione con le indagini sul legame tra quest’organizzazione e l’associazione Ihya-Der. Secondo i procuratori l’associazione in questione era stata fondata dalle persone condannate, poi scarcerate, in un altro processo su Hezbollah turco.
Sempre secondo il giornalista Ruşen Çakır non ci sono troppi giri di parole da fare: HüdaPar è l’espressione partitica dell’Hezbollah turco. Infatti la notizia arrivata il 10 aprile, che informa della scarcerazione di 58 persone accusate di essere assassini di 183 persone uccise dall’Hezbollah turco, è una sorta di conferma della tesi di Çakır. Come se l’inserimento del HüdaPar nelle liste dell’Akp avesse trovato un riconoscimento. Addirittura secondo il giornalista Özgür Cebe, del quotidiano “Sözcü”, si potrebbe trattare di una notizia figlia di un accordo elettorale.

Già esisteva un alleato curdo oltreconfine

Molto probabilmente l’Alleanza della Repubblica, inserendo HüdaPar nelle sue liste, cerca di puntare sui voti di quella fetta della popolazione curdofona molto conservatrice e chiede il riconoscimento dei suoi diritti. Inoltre si tratterebbe di un gesto importante che rafforza il profilo conservatore della stessa alleanza, vista una parte del programma elettorale del partito in questione. Infine, questa new entry, oltre che nella politica interna, potrebbe avere un ruolo anche in quella estera. Quest’ultima ipotesi trova corpo grazie a un incontro avvenuto nel mese di aprile.


Sarebbe l’incontro tra Zekeriya Yapıcıoğlu e Masoud Barzani, l’ex presidente della Regione del Kurdistan (iracheno) e il leader storico del Partito democratico del Kurdistan (Pdk). È un incontro molto interessante, prima di tutto, perché si è svolto tra un “semplice” candidato per le elezioni e il personaggio più illustre del “movimento curdo” in Iraq. Quindi per il lato della Turchia non c’era un ministro oppure un sottosegretario ma una new entry dell’alleanza del governo. In secondo luogo il messaggio che è stato diffuso presso l’agenzia di stampa “Ilke” (semiufficialmente l’organo di stampa di HüdaPar) rende particolare quest’incontro «È stato deciso di rafforzare in futuro il rapporto tra HüdaPar e Pdk». Quindi per Barzani è chiaro che l’interlocutore da prendere in considerazione è quella formazione “curda” e fondamentalista che rappresenta Yapıcıoğlu e si trova accanto all’attuale presidente della repubblica di Turchia.

Le visitazioni islamiste

La visita di Yapıcıoğlu il 26 aprile è stata abbastanza proficua. Ha incontrato anche Aydin Maruf, membro del Fronte turcomanno iracheno, nonché il ministro degli Affari Religiosi e Etnici. Maruf è spesso presente in Turchia, si trova in ottimi rapporti con l’attuale governo e si è espresso varie volte a favore delle collaborazioni tra Ankara, Erbil e Bagdad per «lottare contro il terrorismo del Pkk».
Tra le persone visitate da Yapıcıoğlu vediamo anche il nome di Ali Bapir, membro del Movimento Islamico del Kurdistan e del Gruppo della Giustizia in Kurdistan. Si tratta di uno scrittore e studioso concentrato sulla fondazione di un Kudistan islamico. Bapir fu anche, nel 2021, uno degli sporadici personaggi politici al mondo a congratularsi con i Talebani dopo la loro salita al potere attraverso una lettera pubblica tuttora presente sul suo sito web personale.
Yapıcıoğlu in Kurdistan (iracheno) ha incontrato altri politici di formazione fondamentalista come Şeyh İrfan Abdulaziz, il leader attuale del Partito del Movimento islamista, e Rashid al-Azzawi che dirige il Partito islamico dell’Iraq.

Gli oleodotti dei curdi amici

Questi incontri ovviamente sono dei segni importanti se teniamo in considerazione soprattutto la crisi del petrolio nata verso la fine del mese di marzo di quest’anno. Una procedura arbitrale aperta nel 2014 si è conclusa questa primavera. Un percorso giuridico lungo che ha portato 1,4 miliardi di dollari di condanna per Ankara. Si tratta di un’azione portata avanti dal governo di Baghdad perché secondo il governo iracheno, Ankara non rispetta da tempo l’accordo del 1973. Secondo questo accordo sarebbe Baghdad l’unico interlocutore della Turchia per l’acquisto del gas e petrolio mentre invece Ankara da tempo tratta direttamente con Erbil quindi Nechirvan Barzani e Masoud Barzani. Inoltre, in questo processo, la Turchia sarebbe condannata a pagare 500 milioni di dollari perché diverse volte non ha aggiustato in tempo i danni avvenuti nelle “tubature Iraq-Turchia” a causa degli attentati di sabotaggio.

Oil vs Pkk

In questa procedura portata avanti per nove anni presso la Camera di Commercio internazionale di Parigi si notano alcuni appunti che parlano anche dell’avanzata dell’Isis in Iraq nel 2014 verso le città strategiche per il commercio petrolifero e la reazione degli Usa e della Turchia in quel momento. Appunto Ankara sarebbe accusata di approfittare delle dinamiche geopolitiche perché proprio in quel periodo avrebbe iniziato a non rispettare l’accordo del 1973 e avrebbe firmato nuovi contratti per la fornitura del petrolio direttamente con Erbil. Secondo il giornalista turco, Murat Yetkin, in questa fase storica ci sono varie dinamiche importanti come la volontà di ottenere ulteriore sostegno di Erbil nella sua storica lotta contro il Pkk: incassare più velocemente e più soldi scavalcando Baghdad e ottenere più credibilità e sostenitori in zona visto che proprio in quel periodo tra Erdoğan e Obama nascono le prime divergenze in merito a chi sostenere nella guerra in Siria.

In questa procedura arbitrale si cita anche l’illegale commercio del petrolio attraverso i camion cisterna. Un tema che fu sollevato dalla giornalista Bethan McKernan nel 2016 in un articolo pubblicato su “The Independent” che si basa sullo scandalo “Wikileaks”. Secondo questa fuga di e-mail, scatenata dal gruppo hacker turco “Redhack”, sarebbe l’azienda PowerTrans a gestire dal 2014 al 2015 il traffico illegale di petrolio dalle zone occupate dall’Isis in Siria e dal Kurdistan (iracheno) verso la Turchia. Secondo McKernan l’azienda in questione sarebbe legata in qualche maniera al genero del presidente della Repubblica di Turchia, ossia Beraty Albayrak che in quegli anni lavorava come il ministro dell’Energia al governo. Uno scandalo del genere era stato sollevato anche da Mosca nel 2015 durante quei nove mesi di conflitto che ci fu con Ankara. In quel caso fu il figlio del presidente della Repubblica ossia Bilal Erdoğan a finire nel mirino russo più o meno per le stesse accuse rivolte al genero.

I curdi utili fuori e dentro i confini

Oggi le trattative sono in corso. Secondo alcune fonti Ankara si rifiuta di risarcire Baghdad e secondo alcune fonti invece si tratta di trovare una cifra adatta per tutte le parti. In questo periodo di incertezza però c’è una cosa chiara: Ankara ha bisogno del petrolio e del sostegno politico di Erbil. L’amministrazione curda che si trova nel Nord dell’Iraq risulta tuttora il “curdo utile”, fuori dai confini nazionali, per l’attuale governo al potere in Turchia che deve fare i conti con le elezioni del 14 maggio. Il suo nuovo alleato, ossia HüdaPar, invece, sembra che abbia già deciso di muoversi come “mediatore” tra queste due parti indossando il costume del “curdo utile” in casa.

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Caro fratello Assad, ti va un panino insieme?! https://ogzero.org/caro-fratello-assad-ti-va-un-panino-insieme/ Mon, 02 Jan 2023 00:29:02 +0000 https://ogzero.org/?p=9934 Il 28 dicembre si è svolto a Mosca un vertice a tre con la partecipazione del ministro della Difesa turco Hulusi Akar e il generale Ali Mahmoud Abbas, alla presenza del ministro della Difesa russo Sergey Shoigu nell’ottica della svolta turca per cambiamenti politici e trasformazioni globali – in riavvicinamento e riconciliazione con Damasco per […]

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Il 28 dicembre si è svolto a Mosca un vertice a tre con la partecipazione del ministro della Difesa turco Hulusi Akar e il generale Ali Mahmoud Abbas, alla presenza del ministro della Difesa russo Sergey Shoigu nell’ottica della svolta turca per cambiamenti politici e trasformazioni globali – in riavvicinamento e riconciliazione con Damasco per «la necessità di porre fine alle differenze e raggiungere soluzioni che servano gli interessi della regione». Secondo al-Watan si tratta del risultato finale di diversi incontri avvenuti in precedenza tra i servizi di intelligence e la Turchia avrebbe contestualmente accettato un completo ritiro dal conflitto siriano; oltre al riconoscimento da parte di Ankara del rispetto per la sovranità e l’integrità territoriale della Siria; sarebbe stata discussa anche l’attuazione dell’accordo concluso nel 2020 per l’apertura della strada M4.
È stato pianificato dal Cremlino a breve un incontro tra i ministri degli esteri e infine, sempre nella capitale russa, il vertice Erdoğan-Assad. Evidente che per l’ennesima volta il presidente turco intende sfruttare a proprio favore la situazione siriana, sabotando l’autonomia curda e nello stesso tempo rimandando in patria i profughi siriani residenti attualmente in Turchia. Due carte da giocare nelle prossime elezioni presidenziali. Intanto si continua a vellicare l’istinto militarista, vera continuità tra potere ottomano, kemalista e neo-ottomano di Erdoğan, con un costante riarmo e investimenti in produzioni belliche

In questo processo, che è evidentemente il proseguimento dello spirito di Astana nell’ambito più precipuamente della Guerra siriana per cui si è manifestato inizialmente, le parti riunite hanno confermato che il Pkk, con le sue emanazioni siriane Ypg-Ypj, è una milizia per procura di America e Israele e rappresenta il pericolo maggiore per la Siria e la Turchia. L’articolo che proponiamo è stato completato da Murat Cinar il giorno prima di questo incontro, ma già da quasi un mese ci stava lavorando,  avendo avuto sentore della direzione in cui si stavano evolvendo gli eventi geopolitici in Mesopotamia.

Fin qui l’introduzione di OGzero, la parola a Murat…


Retaggio ottomano

Tra Turchia e Siria c’è un confine di 911 chilometri. I due paesi hanno iniziato a avere un rapporto complicato sin dal crollo dell’Impero Ottomano; confini, acqua, formazioni armate, rapporti commerciali, energia, rifugiati, traffico di droghe e persone e infine spese militari. Oggi sembra che sia giunto il momento di aprire l’ennesimo “nuovo capitolo”.

Un passato importante lungo l’Eufrate

L’Eufrate è uno dei due fiumi che danno il nome alla Mesopotamia. Nasce nel territorio della Repubblica di Turchia ma cresce e prosegue il suo percorso verso lo Shatt-al Arab attraversando la Siria. Innegabile l’importanza di questa fonte d’acqua, ma anche che ne scaturiscano conflitti e manovre politiche. Sia Ankara che Damasco, tranne alcuni momenti nella storia, hanno sempre voluto sfruttare questa risorsa comune come elemento di ricatto e non di cooperazione. In Turchia, sia il governo di Süleyman Demirel sia quello di Turgut Özal sono stati sempre sostenitori, negli anni Settanta e Ottanta, dell’idea che Ankara avesse il diritto di controllare totalmente il regime delle acque. Infatti la costruzione del megaprogetto delle dighe (Progetto del Sudest Anatolia) aveva l’obiettivo di risultare una opportunità di ricatto ai danni del regime di Damasco.
Ovviamente il fatto che la Turchia fosse sempre stata un fedele membro della famiglia Nato e la Siria fosse l’alleato numero uno dell’Unione Sovietica in zona ha fatto sì che la rivalità tra questi due vicini risultasse come una sorta di “guerra fredda” di riflesso per procura.

Il ruolo in commedia del Pkk

Senz’altro la nascita e la crescita negli anni Settanta e Ottanta dell’organizzazione armata Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ha un po’ scombussolato la situazione. Soprattutto dopo la decisione da parte dell’organizzazione di lasciare, quasi totalmente, il territorio della Repubblica di Turchia e creare le proprie “basi” e “accademie” in Siria, le relazioni tra questi due vicini sono diventate molto complicate. Dalle lezioni di “sicurezza nazionale” presso le scuole pubbliche alle dichiarazioni dei governatori, dal linguaggio dei media fino alle scelte politiche dei governi che risiedevano ad Ankara ormai la presenza del Pkk per la maggior parte della società turca risultava essere un enorme problema e una notevole minaccia. Ormai la vicina Siria ufficialmente “sosteneva i terroristi”.

La svolta di Adana

Infatti proprio su questo tema nel 1998 fu firmato l’Accordo di Adana tra questi due vicini. Un accordo che impegnava Damasco a collaborare con Ankara nella sua “lotta contro il terrorismo”, perché ormai per la Turchia la presenza del Pkk sul territorio del vicino era un “casus belli”. Proprio in quel periodo, ottobre 1998, mentre si consolidava per la prima volta una collaborazione del genere, Abdullah Öcalan (“Apo”), il leader storico del Pkk che viveva da anni in Siria, dovette lasciare il paese e nel giro di pochi mesi a Nairobi in Kenya fu arrestato dai servizi segreti turchi. Öcalan, condannato all’ergastolo, vive tuttora in isolamento in un carcere speciale sull’isola di Imrali in Turchia.

Il progetto del Grande Medioriente

Pochi anni dopo l’arrivo al potere dell’Akp (Partito dello Sviluppo e della Giustizia) i rapporti tra Ankara e Damasco si consolidano ancora di più. La Turchia lavorava come intermediario nei tentativi di dialogo tra Israele e Siria che si svolgevano a Istanbul e il presidente siriano, Bashar al-Assad, insieme a sua moglie decideva di fare le vacanze a Bodrum in Turchia, incontrando l’attuale presidente della repubblica, Recep Tayyip Erdoğan che all’epoca era il primo ministro. Proprio in quel periodo Erdoğan si intestava, in diretta tv, la copresidenza del Greater Middle East Project, ideato e promosso dall’allora presidente statunitense George W. Bush con l’obiettivo di creare una zona di collaborazione e alleanza tra i paesi di maggioranza musulmana, dai Balcani fino all’Asia orientale.

Una nuova fase

In alcuni incontri del 2004 tra i paesi della Nato e del G8 erano persino state organizzate delle presentazioni per annunciare alcuni dettagli di questo progetto, che secondo alcuni analisti rappresentava un tentativo di allargamento non ufficiale della Nato con l’intento di limitare lo spazio di manovra dei paesi ancora comunisti e socialisti. A dirigere questo progetto c’era anche Erdoğan, quindi il rapporto intercorrente tra Ankara e Damasco diventava fondamentale.
A quest’ondata di cambiamenti in positivo per una collaborazione amichevole tra i due paesi si può aggiungere l’abolizione del visto tra i due paesi nel 2009 e una serie di accordi commerciali straordinari firmati tra Erdoğan e Assad soprattutto nell’ottica delle privatizzazioni che il governo di Damasco aveva avviato.

La guerra per procura

Senz’altro la guerra per procura ancora in corso in Siria ha cambiato radicalmente le carte in tavola. L’instabilità generalizzata che domina tuttora in Siria è partita nel 2011 con le prime rivolte popolari. In poco tempo l’infiltrazione dei servizi segreti delle terze parti, la nascita e la crescita delle formazioni armate terroristiche sostenute da numerosi paesi vicini e la presenza dei soldati di vari paesi hanno fatto sì che ormai la guerra in Siria potesse essere definita come una proxy war.

Le prime reazioni e scelte

«Assad è come Mussolini, lasci il suo potere. Prima che scorra ulteriore sangue lasci la sua poltrona».

Subito dopo le prime manifestazioni che hanno ricevuto la risposta dura di Damasco, erano queste le parole pronunciate da Recep Tayyip Erdoğan. Una posizione netta e chiara, assunta nel lontano 2011, dichiarata durante il suo intervento nel gruppo parlamentare dell’Akp.
All’inizio della guerra in Siria il piano di Ankara era quello di fare il possibile perché Assad lasciasse il suo potere. In quest’ottica nel 2014 aveva anche partecipato agli incontri di Ginevra con l’intento di creare un nuovo percorso per la ricostruzione politica e amministrativa della Siria. Nel mentre non mancavano le dichiarazioni forti e convinte di Erdogan:

«Il Presidente siriano ha ucciso circa un milione di cittadini suoi. In realtà stiamo parlando di un terrorista che sparge il terrorismo di stato. Non possiamo dialogare con una persona del genere, non sarebbe corretto nei confronti di un milione di siriani assassinati».

Le prime milizie antisiriane e il ruolo dell’Isis

Sempre nello stesso periodo, in collaborazione con l’amministrazione statunitense dell’epoca, Ankara aveva avviato i lavori per l’addestramento delle prime brigate dell’Esercito libero siriano (Fsa) con l’intento di creare un corpo militare che potesse lottare contro il regime di Damasco. Successivamente questa forza in parte è scomparsa, in parte ha aderito alle formazioni terroristiche e in parte ha collaborato con Ankara.


Quel periodo fu molto importante per la Turchia e per il resto del Medioriente. La nascita e crescita dell’Isis ha rimescolato i piani: soprattutto i lavori di reclutamento dei nuovi adepti, l’utilizzo di territori senza rispetto del confine e la creazione di nuove fonti di guadagno in Turchia, da parte dell’organizzazione terroristica, hanno fatto sì che Ankara ormai fosse direttamente coinvolta nella guerra in Siria. Alcune intercettazioni relative alle riunioni dei servizi segreti turchi, varie dichiarazioni rilasciate da parte di numerosi esponenti del governo e la posizione dei mezzi di propaganda rivelarono quanto poco Ankara fosse dispiaciuta della presenza dell’Isis in Siria. Alla fine della partita avrebbe potuto anche rendere più “facile” la caduta di Assad.

Tuttavia sono successe tre cose che hanno ribaltato ancora un’altra volta i piani.

L’alba degli Accordi di Astana

Mosca in Siria

Innanzitutto la Russia, insieme all’Iran, decise d’intervenire militarmente in Siria per salvare Damasco che stava subendo dei gravi colpi in questa guerra. Ormai chiunque avesse avuto l’intenzione d’immischiarsi con gli affari interni della Siria era obbligato a dialogare con Mosca e Teheran.

Confederalismo democratico in Rojava

Poi la nascita del Confederalismo democratico con il protagonismo delle sue forze armate nella lotta contro l’Isis fece sì che a livello mondiale la nuova esperienza politica ed economica guadagnasse credibilità e rispetto. Questo punto ovviamente era un problema per Ankara dato che dietro il progetto del Confederalismo democratico che sorgeva, come zona autonoma nel Nord della Siria (il Rojava), c’erano una serie di attori molto “problematici” come Öcalan e Pkk. Nel 2012 il Partito dell’unione democratica (Pyd) dichiarava la nascita delle unità di difesa popolari (Ypg-Ypj) impegnate nella lotta contro il terrorismo fondamentalista nella regione.

Isis in Turchia

Infine gli attentati dell’Isis sul territorio della Repubblica di Turchia che causarono la morte di centinaia di persone in meno di due anni coinvolgevano ancora di più Ankara in questa guerra che era in corso ormai da quasi cinque anni. Alla lista di priorità nuove si aggiungeva la lotta contro l’Isis che ormai era una netta minaccia contro la sicurezza nazionale per la Turchia.

Forzata alleanza

Per risolvere i suoi problemi Ankara si trovava ormai obbligata a consolidare i rapporti con la Russia per poter agire in Siria. Oltre a ciò le Ypg-Ypj non potevano essere degli interlocutori dato che erano i cugini degli storici “terroristi” per Ankara. Anche se per poco un tentativo di dialogo con Salih Muslim era stato fatto. Muslim è il leader politico del partito politico siriano Pyd – la forza non armata dominante in Rojava. Tuttavia in poco tempo questo tentativo si è concluso senza successo. Secondo alcuni analisti perché Ankara aveva proposto al Pyd di lottare contro Assad in collaborazione con l’Esercito libero siriano, invece il Pyd ha rifiutato la proposta decidendo di non prendere parte nella guerra in Siria e proseguire per la sua strada. Questa “terza scelta” non prevedeva né di collaborare con la Turchia né di sostenere Damasco.
Relativamente a quest’ultimo punto non si può ovviamente tralasciare il fatto che il tentativo di dialogo tra lo stato e il Pkk, in Turchia, sia fallito proprio nel periodo in cui le Ypg-Ypj acquisivano più credibilità a livello internazionale nella loro lotta contro l’Isis.


Dunque si tratta di un momento che ha creato una notevole preoccupazione strategica per Ankara.

Le “operazioni speciali” turche in Siria

Dunque nel 2016, poche settimane dopo il fallito golpe in Turchia e in pieno stato d’emergenza, Ankara decise di avviare la sua prima operazione militare. Gli obiettivi erano 3: lottare contro l’Isis, contro le Ypg-Ypj e contro il governo centrale. Da quel momento a oggi sono passati circa 7 anni e la Turchia, ufficialmente, ha lanciato 4 altre operazioni aumentando nel Nord della Siria la sua presenza militare, politica e economica. Ankara è stata accusata in questo periodo di avviare anche una campagna di cambiamento culturale e demografico della zona provando a cancellare l’identità curda e distruggendo i segni del Confederalismo democratico.

Equilibrismi tra Nato e Russia

In questo gioco molto delicato e pericoloso Ankara ha dovuto gestire i rapporti con la Russia e con i suoi alleati della Nato presenti sul territorio. Non è stata una partita facile perché quanto più il tempo passava, tanto Ankara diventava sempre più dipendente dalla Russia anche al di fuori dalla guerra in Siria: turismo, accordi energetici, agricoltura, investimenti militari, presenza dei servizi segreti, centrali nucleari…

Quest’avvicinamento ovviamente presupponeva una sorta di allontanamento parziale e graduale dalla famiglia della Nato anche se la Turchia restava sempre un membro del patto transatlantico e l’unico membro fortemente presente sul territorio siriano.

Freddezza tra Turchia e UE

Il rapporto consolidato, delicato ma anche fragile tra Ankara e Mosca con la nascita del conflitto armato in Ucraina è entrato in una nuova fase. Il rapporto con la Nato e con l’UE invece è diventato sempre più debole e oggi lo possiamo considerare come una “collaborazione strategica” più che alleanza. Tra Ankara e Nato in tutto questo tempo ci sono state delle divergenze: dai processi per evasione fiscale e frode, all’embargo non rispettato contro l’Iran, fino ad arrivare agli accordi militari con Mosca e l’acquisto degli S-400. Oggi l’Isis sembra essere morto oppure in coma e l’esperienza del Confederalismo Democratico molto indebolito, accerchiato e in parte anche distrutto.
Invece a Damasco è ancora al potere Assad.

Nuova fase dopo l’“operazione speciale” in Ucraina

Oggi Ankara ha deciso di riprendere, gradualmente, il dialogo con il presidente siriano. Il 27 novembre 2022 l’attuale presidente della Repubblica di Turchia ha rilasciato queste dichiarazioni dopo aver inaugurato il ripristino delle relazioni con l’Egitto:

«Ci sono diversi paesi che vogliono approfittare delle relazioni precarie del nostro paese con i paesi del Golfo. Non glielo possiamo permettere. Come abbiamo ripristinato le relazioni con l’Egitto in futuro possiamo fare la stessa cosa anche con la Siria».

Proprio in quei giorni l’agenzia di notizia internazionale Associated Press pubblicava un articolo in cui sosteneva che Erdogan avesse mandato una lettera ad Assad invitando l’esercito siriano di riprendere in mano le zone liberate delle Ypg-Ypj e chiedeva a Damasco di collaborare per il rimpatrio dei siriani presenti in Turchia, ormai circa 4 milioni.
Pochi giorni dopo, il 15 dicembre, sempre lo stesso Erdoğan, sull’aereo, al rientro dal Turkmenistan ha deciso di concretizzare la sua proposta, parlando con i giornalisti a bordo:

«Vorremmo fare un incontro a tre con la Russia e la Siria. Prima si impegneranno i servizi segreti e poi i Ministri di Sicurezza Nazionale. Dopo questi potrebbero incontrare anche i leader. Ne ho parlato con il Presidente Putin anche lui è d’accordo. Così possiamo iniziare a una serie di incontri».

Mentre Mosca accoglieva con piacere questa proposta, dalla Siria arrivavano le prime dichiarazioni scettiche: Pierre Marjane, parlamentare siriano responsabile delle Relazioni esteri del parlamento, il 29 novembre rilasciava queste dichiarazioni a un giornale in Turchia, “Kisa Dalga”:

«Potremmo dialogare con la Turchia tuttavia deve ammettere che ha finanziato e addestrato le forze armate terroriste e le ha fatte entrare in Siria. Poi deve dichiarare che è pronta a ritirarsi dalla Siria».

Ovvero: lo stato dell’arte

Infatti – secondo una serie di osservatori internazionali, alcuni governi stranieri e una serie di giornalisti che lavorano in Turchia – l’attuale governo ha sostenuto direttamente oppure indirettamente alcune organizzazioni terroristiche fondamentaliste che hanno agito in questi anni in Siria. Questo punto ovviamente ha causato sempre le reazioni dure di Damasco: a oggi la Turchia risulta presente militarmente sul territorio siriano in modo massiccio, tanto che solo nel 2021 il numero di truppe impegnate contava più di 10.000 soldati.

Tra le parole pronunciate da Marjane si vede anche un riferimento all’Accordo di Adana firmato nel 1998. Secondo il parlamentare siriano sarebbe necessario prenderlo in mano e applicarlo. In realtà si tratta di una premessa ch’era stata fatta negli incontri di Astana nel 2019 tra Mosca e Ankara. Dunque oggi la situazione in cui ci troviamo ci fa capire che, a grandi linee, l’intenzione sia di tornare alle condizioni del 2010: prima delle rivolte arabe.

“Erdoğan esagerato: un dittatore rilancia sempre nuove pretese”.

Come mai?

Le risposte sono tante. Potremmo studiare questa sezione concentrandoci sulle motivazioni legate alla politica interna ma anche estera.

Elezioni del 2023

Se guardiamo la politica interna senz’altro la profonda crisi economica che strozza la Turchia rappresenta un problema per Ankara soprattutto alla luce delle elezioni del 2023. L’inflazione alle stelle, la fuga dei giovani, le opposizioni sempre più compatte e il caro vita ogni giorno fa perdere punti a Erdogan nei sondaggi.
Le spese militari in Siria forse per Ankara risultano ormai difficilmente sostenibili e un rapporto commerciale (soprattutto petrolio) regolare con il vicino confinante per più di 900 km potrebbero essere una soluzione.

I rifugiati in ostaggio

Ovviamente la presenza di circa 4 milioni di siriani in Turchia rappresenta un problema per Ankara. Una popolazione in parte proveniente dalle zone, come Afrin, colpite dalla Turchia in questi ultimi anni e “ripulite” delle sue popolazioni curdofone. Un esercito privo di diritti, di persone ricattabili e sfruttate rappresenta il nuovo proletariato a basso salario messo in concorrenza con la mano d’opera locale. Mentre questa contrapposizione può far piacere agli industriali, ma non è gradita ai cittadini che devono fare i conti con la profonda crisi economica. Quindi l’eventuale rimpatrio graduale di queste persone è necessario per Ankara in particolare per riprendere quell’emorragia di voti che defluisce verso quei partiti che da tempo sostengono che “i siriani se ne devono andare”.


Si tratta di un progetto che in prima persona Erdoğan promuove ormai da circa 4 anni:

«Una zona cuscinetto nel nord della Siria, lunga 480 chilometri e profonda 30,  dove sarebbero collocati circa 2 milioni di siriani».

In diversi interventi pubblici e televisivi Erdoğan raccontava il suo progetto di costruire nuove cittadelle in questa zona e collocarci principalmente le persone arabofone. Per fare tutto questo è ormai necessario accettare che a Damasco c’è un interlocutore e parlare con questo anche perché il progetto di Erdogan in questi anni non ha ricevuto riconoscimento né dalla Russia né dalla Nato.

Al posto di Ypg-Ypj: dialogo tra autocrati

Invece nella politica estera molto conta la presenza della Russia in Siria che potrebbe diventare debole, se la guerra in Ucraina non si concludesse a breve. Dunque per Ankara iniziare a costruire ponti con Damasco attraverso un canale di dialogo diretto senza l’ausilio di Mosca potrebbe essere un investimento per quel giorno in futuro quanto Putin deciderà di lasciare definitivamente la Siria. Nel fare questo ovviamente Ankara avrebbe un piatto pronto per Damasco ossia le zone che controlla in Rojava, “bonificate” dalle Ypg-Ypj, che potrebbero essere consegnate a Damasco [come sancirebbero le indiscrezioni di “al-Watan”]. Inoltre ovviamente Ankara vuole mettere le mani avanti per evitare ciò che è successo in Iraq quando si è “conclusa” l’invasione statunitense ossia la nascita di un Kurdistan. Il regime al potere in Turchia senz’altro non ha voglia di avere una zona federale curda che si comporti in modo diverso rispetto a quella irachena che collabora senza problemi con Ankara. Quindi per Ankara ovviamente è meglio avere il governo centrale siriano al di là del confine al posto dei “terroristi”. In quest’ottica spolverare l’Accordo di Adana, che promette una reciproca collaborazione nella lotta contro il “terrorismo” ha molto senso.

Dalla parte della Nato

Sempre bazzicando affari geopolitici il ripristino dei rapporti con Damasco potrebbe fornire ad Ankara come una mossa apprezzata da parte della famiglia della Nato, dato che sarebbe l’unico paese del “club” a dialogare direttamente con Assad. Dunque Erdoğan risulterebbe ancora un importante e irrinunciabile interlocutore. Alla luce delle elezioni generali del 2023 per Erdoğan questo potrebbe dire portare a casa una vittoria importante in termini di credibilità internazionale.

Ma contemporaneamente sarebbe anche una mossa che renderebbe “indipendente” e “privilegiata” la Turchia. Erdoğan potrebbe usare questa novità come un elemento di forza o un ricatto contro i suoi alleati (come ha fatto per contrastare le reazioni ogni volta che ha invaso il Rojava), visto che il suo rapporto con gli alleati è sempre più precario. Le relazioni tra Ankara e Nato sono diventate deboli in questi anni anche perché la scelta di sostenere politicamente e militarmente le Ypg-Ypj è stata definita come un “tradimento” per Ankara dato che queste sigle per il regime in Turchia sarebbero le cugine dei “terroristi”.
Inoltre anche la nascita dell’Esercito Democratico Siriano (Sdf) con il sostegno degli Usa ha creato preoccupazione ad Ankara che temeva la nascita di un esercito curdo in zona. Dunque le scelte radicalmente diverse per quel che concerne la Siria si fondano tuttora sulla grande amarezza derivante dalla tensione che esiste tra Ankara e il resto della Nato. Quindi la manovra di Ankara (per consolidare i rapporti con Damasco) potrebbe fare sì che Erdoğan continui ad agire in Siria con l’intento di creare nuove strategie indipendentemente dalla Nato.

Stuccare vicendevolmente le crepe, perpetuando i relativi poteri

Il 28 dicembre Hulusi Akar, il ministro della Difesa Nazionale, e il capo dei Servizi segreti Hakan Fidan, sono partiti da Ankara per Mosca per incontrare i loro colleghi siriani. L’incontro avvenuto dopo 11 anni di gelo nelle relazioni è stato produttivo secondo Akar: avrebbero parlato della questione dei rifugiati, della lotta contro il “terrorismo”, della difesa dell’integrità territoriale della Siria e dell’espulsione delle forze straniere dal territorio.

Ripristinare i rapporti con la Siria per Ankara ha questi valori. Invece per Damasco ha qualche importanza in più. Nel caso in cui si potesse avviare il progetto congiunto di eliminare il Confederalismo democratico in Rojava e le sue forze (Sdf, Ypg-Ypj) per Damasco significherebbe riprendersi quel quarto del suo territorio occupato e controllare una grande fonte di petrolio e gas che attualmente si trova sotto il controllo di queste forze armate e degli Usa.

Inoltre, per Assad, ripristinare i rapporti con Ankara vuol dire far accettare la sua presenza al potere e archiviare le possibili proposte legate all’abbandono del potere. In quest’ottica per Damasco accettare la proposta di Erdoğan potrebbe sembrare il conferimento di una sorta di vittoria che potrebbe usare nella campagna elettorale del 2023; ma contemporaneamente Assad avrebbe immediatamente un interlocutore già al potere con il quale interloquire senza discutere di tutti i crimini contro il suo popolo da lui commessi durante questa guerra lunga 11 anni. In realtà la situazione rientrerebbe all’interno delle scelte che sta facendo Ankara ultimamente, ossia: il consolidamento dei rapporti direttamente con i leader dei paesi controllati dai regimi o dalle famiglie come l’Arabia Saudita, il Qatar, l’Egitto e gli Emirati Arabi.

Sostanzialmente: due regimi potrebbero trovare un accordo su una serie di temi senza avere “il peso” della giustizia e della democrazia.

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Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi https://ogzero.org/guerre-di-religione-continuazione-del-colonialismo-con-altri-mezzi/ Sat, 12 Nov 2022 08:48:30 +0000 https://ogzero.org/?p=9436 Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che […]

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Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che si fonde e intreccia con le altre che muovono masse di disperati, distruggono il clima, depredano territori, spacciano armi, innescano conflitti per controllare risorse. Si può interpretare questo uso della divisione religiosa come un nodo delle diverse emergenze del Finanzkapitalismus nella sua fase iperliberista, un nodo a cui arrivare dagli altri orrori geopolitici, o da cui partire per inserirlo nella rete che mette insieme l’uso politico-aggressivo della religione, il pastone mediatico, la scorciatoia militarista, l’espansionismo imperialista… ma partiamo dallo storico conflitto irlandese tra cattolici separatisti e unionisti protestanti e poi ci espandiamo nelle più complesse – ma riconducibili agli stessi modelli di potere – contrapposizioni mediorientali.


Solo un’ipotesi, la mia. Da “proletario autoalfabetizzato” senza pretese accademiche. A naso diciamo.
Se in passato le “guerre di religione” potevano, forse, esprimere (“fotografare”) in qualche modo i conflitti etnici e/o sociali del tempo (vedi alcune “eresie” e certe “riforme” diretta conseguenza dei conflitti di classe), direi che in seguito, perlomeno dal secolo scorso, il più delle volte sono state la copertura, la “vetrina” di interessate strumentalizzazioni.

Partiamo dall’Irlanda…

A titolo di esempio, il conflitto irlandese, soprattutto dopo la divisione dell’Isola di smeraldo. Se già nel Settecento cattolici e protestanti (discendenti i primi dagli indigeni irlandesi colonizzati, gli altri dai coloni scozzesi presbiteriani) avevano fatto fronte comune per l’indipendenza dell’Irlanda, anche in seguito (vedi gli scioperi di lavoratori salariati cattolici e protestanti a Belfast) non mancarono lotte comuni. A porvi fine intervennero le ricche borghesie filobritanniche (si veda La Casa d’Orange) elargendo piccoli privilegi e organizzando milizie settarie “lealiste” (v. Uvf). Non potendo utilizzare – che so – un diverso colore della pelle o diversità etniche rilevanti (in quanto entrambe le comunità erano di origine celtica, diversamente dagli inglesi anglosassoni – di origine germanica – e anglicani) si accontentarono di ampliare il modesto solco di natura religiosa.


Poi è andata come sappiamo. Esperimento sostanzialmente riuscito, un modello per future strumentalizzazioni a “geometria variabile”.

… e giungiamo tra le comunità beluci, curde e hazara

Quindi ritengo che anche le sanguinose faide mediorientali tra sunniti e sciiti (con ricadute particolarmente gravi per le minoranze qui presenti: yazidi, alaviti, assiro-cristiani, zoroastriani…) siano state perlomeno “pompate”, gonfiate, esasperate ad arte.
Quanto è avvenuto nelle aree curde, occupate militarmente dalla Turchia, di Afrin e di Sere Kaniyê (Nord della Siria) appare emblematico. Non essendo in grado di controllare adeguatamente le proprie milizie mercenarie (vedi l’Esercito Nazionale Siriano, Sna), Ankara si starebbe affidando direttamente al gruppo terrorista Hayat Tahrir al-Sham (Hts, successore di al-Nusra), con tutta probabilità l’emanazione locale di al-Qaeda.

Il ruolo della Turchia

Anche perché tra le fila di alcune formazioni sul libro paga di Ankara ultimamente serpeggiava, oltre al malcontento, anche una certa preoccupazione.

Le voci su un possibile riavvicinamento tra Ankara e Damasco (patrocinato da Mosca) lasciava intravedere la possibilità di venir scaricati, se non addirittura consegnati, per diversi membri delle milizie mercenarie. In quanto ricercati da Damasco potrebbero venire estradati e questo suggerisce una possibile spiegazione su alcuni episodi di insubordinazione. Come per gli scontri a mano armata intercorsi tra membri di Jabhat al-Shamiya e di Jaish al-Islam.
Tali dispute ricorrenti (oltre al rischio concreto di insubordinazione e defezione) tra le diverse fazioni di Sna (forse non adeguatamente attrezzate, oltre che sul piano politico, anche in quello religioso?) avrebbero suggerito a Erdoğan di far leva sul maggiore entusiasmo, fervore religioso (eufemismo per fanatismo) di Hts. Un fanatismo indispensabile per annichilire le minoranze “eretiche” e non omologate (tutti apostati, dissidenti, “pagani”… addirittura comunisti o anarchici talvolta) del nord della Siria. Nella prospettiva di ulteriori invasioni.
Già all’epoca delle prime manifestazioni contro il regime siriano si assisteva a una proliferazione di gruppi armati, in genere appoggiati, oltre che dalla Turchia, da alcuni stati del Golfo come il Qatar.

Negli Usa è ancora in corso il processo contro “Qatar Charity” e contro Qatar Bank per aver finanziato con 800.000 dollari il leader dell’Esercito Islamico Fadhel al-Salim.

Pulizie etnico-religiose nella Mezzaluna sciita

Per inciso, è probabile che questo stia oggi avvenendo in Iran, nel tentativo di strumentalizzare, “dirottare” altrove, le legittime proteste popolari. Con un occhio di riguardo per i beluci, già manovrati in passato anche da qualche potenza imperialista di Oltreoceano. Come da manuale, ça va sans dire, anche i beluci ci mettono “del loro”: per esempio in Pakistan alcuni gruppi indipendentisti beluci sono ritenuti responsabili di vere e proprie stragi ai danni degli hazara, un’altra minoranza, ma di fede sciita.
Va anche detto che da parte sua la Repubblica islamica sembra far di tutto per fornire pretesti in tal senso. In una recente manifestazione (4 novembre 2022) a Khach, provincia di Zahedan, le forze di sicurezza hanno ucciso una ventina di civili beluci (16 le vittime identificate, tra cui alcuni bambini) ferendone oltre sessanta. Da segnalare – stando a quanto dichiarato da alcuni attivisti – che altri feriti erano poi deceduti non essendo stati traspostati all’ospedale dove rischiavano seriamente di essere arrestati.


Un’altra strage di 90 civili beluci era già avvenuta, sempre nella provincia di Zahedana, il 30 settembre.

Appare evidente che – analogamente a quella curda – anche la popolazione minorizzata dei beluci (“minorizzata” e non minoritaria, in quanto divisa da frontiere statali) in Sistan e Baluchistan subisce quotidiane discriminazioni ed è sottoposta a una dura repressione (come del resto altre comunità delle aree periferiche del paese) da parte di Teheran.
Sia per la loro appartenenza etnica, sia per ragioni religiose in quanto sunniti.
Il comandante di al-Nusra, Al-Hana (Abu Mansour al-Maghrebi) arrestato nel 2020 in Iraq aveva rivelato che lo sceicco Khalid Sueliman (della potente famiglia al-Thani), a capo del Jabhat al-Nusra (e pare anche delle organizzazioni derivate), veniva finanziato con qualcosa come un milione di dollari al mese. Turchia e Qatar sosterrebbero, sia finanziariamente, sia con la fornitura di armamenti, i vari gruppi combattenti emanazione dei Fratelli musulmani salafiti in quanto utile strumento per la loro politica estera. Anche in chiave panislamica.

Guerra turca ai curdi in Siria

Alcune organizzazioni hanno stabilito un’analogia, per vastità e inasprimento, tra l’attuale repressione in Iran e i massacri subiti dai beluci a Deraa (in Siria) nel 2011, denunciati dall’Onu come crimini di guerra.
Storicamente accertato che potenze regionali ostili a Damasco avevano favorito la militarizzazione (vedi appunto la formazione di Sna) e l’escalation del conflitto.
Oltre che a Sna, la Turchia non avrebbe lesinato nel fornire sostegno al fronte al-Nusra (dal 2012 nella lista del terrorismo internazionale in quanto ritenuto emanazione di al-Qaeda) e addirittura a Daesh. Formazioni entrambe notoriamente jihadiste.

Quanto al fronte al-Nusra, va ricordato che nell’ottobre 2012 attaccava i distretti autonomi di Şêxmeqsûd e Eşrefiye (regione di Aleppo) uccidendo decine di curdi. Subito dopo gli ascari jihadisti si scagliavano contro Afrin, incontrando però la ferrea resistenza delle Ypg/Ypj. Nel voler annichilire in primis le zone curde del Rojava (dove si sperimentava la rivoluzione del Confederalismo democratico) il Jabhat al -Nusra si smascherava da solo, mostrando apertamente di agire su indicazione della Turchia.

Sempre nel 2012, in novembre, veniva attaccata, partendo direttamente dalla Turchia, anche Serêkaniyê. Un’operazione congiunta tra al-Nusra e alcune milizie curde collaborazioniste legate al Pdk. Entrando in alcuni dei quartieri a maggioranza araba di Serêkaniyê, queste milizie si spacciavano per ribelli antiAssad cercando di stabilire alleanze. Solo successivamente (il 19 novembre) partiva il brutale attacco contro i quartieri a maggioranza curda. Veniva assassinato il sindaco della città e la chiesa diventava un bivacco per il loro quartiere generale.

Nel frattempo la loro già consistente presenza veniva rinforzata dall’apporto della cosiddetta Coalizione nazionale (Etilaf), che – secondo i curdi – sarebbe al Etilaf di Sna o comunque della sua derivazione, il “governo di transizione siriano”. Oltre al seggio di Istanbul, Etilaf ne controlla uno anche a Berlino (oltretutto finanziato dal governo tedesco).
Avrebbe anche una certa influenza in alcuni progetti (ugualmente finanziati dal governo tedesco) che sembrano funzionare come “specchietti per allodole”, allo scopo di creare cortine fumogene sulla realtà della situazione curda. Tra questi, il Centro europeo di studi curdi (Ezks) e il sito Kurdwatch, divulgatore di notizie farlocche intese a giustificare le operazioni militari di Erdoğan nel Nord della Siria e nel Nord dell’Iraq. Ma nonostante questo ulteriore apporto di milizie, successivamente venivano scacciati dalla popolazione insorta dei quartieri curdi, grazie anche all’intervento dei combattenti di Ypg e Ypj.

Gli scontri ripresero, durissimi, nel gennaio 2013. Praticamente una vera e propria ammucchiata di gruppi mercenari guidata da al-Nusra quella che contese per circa due settimane il controllo dei quartieri alle milizie curde. Sconfitte nuovamente, le truppe jihadiste si misero in salvo direttamente oltre il confine turco (immediatamente blindato dai soldati turchi per maggior sicurezza), ma lasciando in mano ai curdi un’ampia documentazione della loro intensa collaborazione con Ankara.
Purtroppo durante la ritirata sia al-Nusra che Daesh non mancarono di vendicarsi sulla popolazione curda con una vile rappresaglia.

Come a Til Eran (luglio 2013) e a Tal Hasil. Dichiarando pubblicamente, attraverso le moschee, che sia il bagno di sangue nei confronti della popolazione curda (circa un’ottantina le vittime accertate) che il sequestro-rapimento delle donne curde (prelevate a centinaia) era giustificato dal punto di vista religioso. Rastrellando poi casa per casa le due località sopracitate alla ricerca di “Apoisti”, ossia di seguaci di Apo Öcalan. Oltre a quelli crudelmente assassinati (alcuni bruciati vivi, con le immagini poi diffuse nei social), vanno considerati anche i desaparecidos (qualche decina) e i cadaveri (una ventina) di cui non è stata possibile l’identificazione.

Til Hasil

Da sottolineare che – per quanto entrambe aspirassero alla supremazia – Al-Nusra e Daesh (o Stato Islamico che dir si voglia) non smisero mai di collaborare proficuamente. Sia garantendo una certa “osmosi” di combattenti –praticamente intercambiabili – da una formazione all’altra (in base alle necessità del momento), sia dandosi il cambio, alternandosi nel controllo delle aree occupate. E soprattutto instaurando congiuntamente durante l’occupazione delle città, dei villaggi e dei quartieri curdi un aspro regime di ispirazione salafita. Anche a livello di tribunali islamici dove operavano in coppia.

Sempre sotto la supervisione di Ankara ovviamente. L’assalto al carcere di Sina à Hesekê (gennaio 2022) era stato pianificato dai territori occupati dalla Turchia.

Come già detto negli ultimi tempi al-Nusra aveva cercato di “riciclarsi” prendendo (almeno ufficialmente) le distanze da al-Qaeda e cambiando pelle e nome. Diventando prima, nel 2016, Liwa Fatah al-Sham e successivamente, nel 2017, appunto Hayat Tahrir al-Sham (Hts, in realtà una finta coalizione di vari gruppi, sostanzialmente sotto il controllo della vecchia al-Nusra, comunque denominata). Attualmente la casa madre sarebbe localizzata in quel di Idlib, in felice coabitazione con l’alleato turco. Allo scopo dichiarato di soffocare il risorgere e la diffusione del Confederalismo democratico in questa parte del Rojava. Esperienza pericolosa perché esemplare e contagiosa, soprattutto così in prossimità del confine turco.

Dal maggio di quest’anno (a seguito dell’incontro di Idlib-Sarmada con esponenti del regime turco) le milizie di Hts hanno ripreso a riposizionarsi e raggrupparsi su Idlib puntando quindi su Afrin. Inoltre si sarebbero acquartierati anche nelle zone di Girê Spî, Azaz, al-Bab, Cerablus e intorno alla città di Minbić (ancora gestita dall’amministrazione autonoma).
Sempre in vista di ulteriori attacchi in Rojava.

Per concludere, pur essendo presto rientrato nella lista nera dei gruppi terroristi, Hts continua a godere dei finanziamenti di Turchia, Qatar, Arabia Saudita…
Pare anche di qualche non meglio identificato “paese occidentale”…

Vai a sapere.

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La guerra in Ucraina cambierà le scelte di Ankara? https://ogzero.org/la-posizione-di-ankara-nel-conflitto-russo-ucraino/ Fri, 18 Mar 2022 14:40:19 +0000 https://ogzero.org/?p=6806 Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di […]

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Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di accordi per spartire senza problemi le aree lasciate “libere” dal disimpegno dell’America trumpiana, dimostrando forse un inizio di affanno a svolgere il ruolo di grande potenza. Forse si può inquadrare la “spezial operazy” come una delle tappe delle spartizioni di Astana, che hanno visto diversamente impegnati gli eserciti e le milizie di Ankara e Mosca e quindi l’equidistanza  tra i contendenti da parte di Erdoğan fa il paio con l’interposizione di Putin in finale di conflitto in Nagorno Karabakh concluso a favore dell’Azerbaijan dai droni Bayraktar, protagonisti anche nel confronto bellico in Ucraina. L’equilibrio di Ankara, apparentemente sbilanciato a favore di Kiev (in chiave atlantista), ma attento a lasciare ampi spiragli di apertura a Mosca per proporsi come mediatore – forse per esperienza diretta nell’occupazione imperiale di territori limitrofi al proprio come il Rojava –, può ottenere riconoscimento internazionale, premiando l’ambiguità e la politica dei due forni di Erdoğan? Ed è vera competizione tra Israele e Turchia per ottenere il ruolo di paciere («proprio loro!?!», diranno curdi e palestinesi), o non è il gioco delle parti, per cui ognuno appare come campione valido per ciascuno dei due contendenti, perché tutti legati a filo doppio dallo scambio delle armi?

Vera rivalità tra Israele e Turchia per il ruolo di mediatore?

L’ossessione di OGzero per Astana arriva fin qui, lasciando spazio alle intuizioni di Murat Cinar…


Due paesi importanti per la Turchia sono in piena guerra; Ucraina e Russia. Dai droni ai pomodori, dalla centrale nucleare agli S-400, dal turismo al grano… e dal gas al riciclaggio di denaro. Per il governo centrale della Turchia, Mosca e Kiev sono due partner strategici con i quali ha consolidato dei rapporti economici, politici e militari in questi ultimi anni.
Ora invece questi due vicini stanno attraversando un forte conflitto armato tra loro. Dunque qual è stata, finora, la posizione di Ankara?

Le prime scelte

La politica della Turchia, dal 24 febbraio, quando la Russia ha iniziato a invadere l’Ucraina, mostra che rimarrà in armonia e coordinamento con l’occidente e la Nato, ma senza mettere in pericolo il suo legame con questi due paesi.

Atlantismo

La Turchia, che ha attuato la Convenzione di Montreux e ha impedito a più navi da guerra russe di accedere al Mar Nero, attraverso il mar di Marmara e gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo, afferma che non intende imporre sanzioni alla Russia e che farà del suo meglio per mantenere aperti i canali di dialogo con Mosca per la soluzione del problema, accolto con favore anche dall’Occidente.
Con le dichiarazioni rese il giorno dell’inizio dell’operazione, che la Russia definisce “operazione militare speciale”, la Turchia ha chiesto il rispetto dell’integrità territoriale e dell’unità politica dell’Ucraina e ha dichiarato di rifiutare l’attacco russo. La Turchia, che non ha riconosciuto l’invasione e l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014, ha rivelato che continuerà ad agire insieme all’opinione pubblica internazionale con questa posizione che ha assunto. La Turchia ha anche appoggiato il testo della risoluzione di condanna della Russia all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (Onu).

Oltre a condannare la Russia, la Turchia ha anche fornito all’Ucraina il massimo livello di sostegno. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky e i ministri degli Esteri e della Difesa turchi si sono incontrati spesso con le loro controparti ucraine e hanno discusso degli sviluppi riguardanti l’occupazione russa esprimendo il sostegno della Turchia alla sovranità dell’Ucraina.
L’uso efficace dei droni armati “made in Turkey”, Bayraktar venduti dalla Turchia, che negli ultimi anni ha approfondito la cooperazione con l’Ucraina nel campo dell’industria della difesa, ha reso ancora più importante il dialogo tra i ministri della Difesa dei due paesi. Le dichiarazioni delle autorità ucraine di voler acquistare più droni dalla Turchia si sono riflesse anche sulla stampa durante questo processo.

Droni autarchici turchi: l'esercito di Ankara si fornisce di ogni dettaglio tecnologico dall'industria nazionale per equipaggiare il proprio gioiello bellico: i sistemi aerei senza pilota

Bayraktar-TB2 Sịha, che fanno strame dei carri armati russi incolonnati.

Sin dall’inizio della guerra, la Turchia ha annunciato di aver iniziato a inviare aiuti umanitari in Ucraina. Con tutti questi passi, la Turchia ha dimostrato di sostenere l’Ucraina.

Caro amico Putin

Il presidente della Repubblica di Turchia, prima e dopo l’inizio dell’operazione, ha dichiarato: «Non rinunceremo alle nostre relazioni speciali né con l’Ucraina né con la Russia» e ha lanciato il messaggio che cercherà di mantenere una politica equilibrata anche se la crisi approfondisse.

Tuttavia, ciò non ha impedito ad Ankara di «invitare Mosca a interrompere l’operazione il prima possibile». Nelle loro dichiarazioni, il presidente Erdoğan e il ministro degli Esteri Mevlüt Çavuşoğlu hanno sottolineato che l’operazione militare ha messo in pericolo la sicurezza sia regionale che mondiale e che la Russia dovrebbe rinunciarvi il prima possibile. Nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa è stato anche affermato che Çavuşoğlu ha trasmesso direttamente questo richiamo al ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, con il quale aveva parlato al telefono.
La Turchia è stata anche tra i paesi che hanno criticato le minacce sventolate da Putin sull’eventuale utilizzo delle armi nucleari. İbrahim Kalın, il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, ha definito “sconcertante” il fatto che Mosca abbia messo sul tavolo la carta nucleare.

Con la Nato ma…

La dedizione della Turchia al patto transatlantico è molto discutibile da parecchi anni. Sia Trump sia Biden, diverse volte hanno criticato Ankara per le sue scelte militari e politiche in Siria e per le sue relazioni con la Russia. Mentre gli Usa sono arrivati anche alle sanzioni economiche e militari, con la Grecia e la Francia ci sono stati dei momenti di grande tensione e reciproche minacce in questi ultimi 2 anni.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Settembre 2020, dispute tra appartenenti alla Nato nel Mediterraneo orientale: Grecia e Francia contro Turchia.

Tuttavia dalla guerra in Libia fino al caso degli uiguri, dall’Afghanistan alla produzione militare joint venture con gli alleati, dall’occupazione russa in Crimea e ora con l’appoggio a Kiev, possiamo dire che la Turchia ha seguito molto fedelmente la linea politica, economica e militare della Nato.

… It’s the economy…

La guerra in Ucraina arriva in un momento molto importante per la Turchia; sia per le sue relazioni forti con Mosca sia per la devastante situazione economica e politica che Erdoğan deve affrontare a casa. Un governo ai minimi storici nei sondaggi (meno di 35%) un anno prima delle elezioni presidenziali e parlamentari, sia per il lavoro di grande successo che portano avanti i sindaci delle opposizioni eletti nelle grandi città nel 2019 sia per l’enorme corruzione sempre più conosciuta e evidente che rappresenta il governo e la famiglia del presidente della Repubblica. Ovviamente a questa situazione catastrofica politica bisognerà aggiungere anche la crisi economica senza precedenti. Un’inflazione che supera la soglia del 130%, una Lira che perde il suo valore ogni giorno davanti alle monete straniere, una povertà diffusa e terribile e un vuoto nel fisco che spinge Ankara a svendere qualsiasi cosa al capitale russo, cinese e mediorientale.

… l’intermediario

Insomma: le scelte discutibili, radicali e pericolose di Erdoğan, operate in questi ultimi anni per consolidare un rapporto forte con Putin, fanno paradossalmente sì che la Nato trovi in Ankara un alleato a cui attribuire un ruolo chiave in questo conflitto. Quello del mediatore. Dall’altro lato Erdoğan non vorrebbe assolutamente perdere l’occasione per fare una forte propaganda elettorale nella politica interna portando a casa prestigio, rispetto e forse anche un po’ di soldi, vista la situazione economica e elettorale devastante.

Mediazione

Infatti l’incontro importante ma non fruttifero, avvenuto ad Antalya in Turchia, tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e quello ucraino Kubela il 10 marzo è una delle dimostrazioni del fatto che il governo centrale vorrebbe lavorare come mediatore in questo conflitto, molto probabilmente per portare a casa un paio di carte vincenti. L’impegno apprezzato sia da Zelensky sia da Putin ha ricevuto anche gli applausi dal segretario generale della Nato, Stoltenberg che ha espresso la sua gratitudine direttamente al presidente della repubblica di Turchia quando l’ha incontrato durante la sua visita ad Ankara l’11 marzo.
Inoltre, la Turchia si era astenuta, il 26 febbraio, dal votare contro la sospensione della Russia nel Consiglio d’Europa, sulla base del fatto che «una completa interruzione del dialogo e la demolizione dei ponti non sarebbe vantaggiosa». Il ministro Çavuşoğlu ha dichiarato: «Non dovremmo concordare sull’interruzione del dialogo. C’è qualche vantaggio per il Consiglio d’Europa nel rompere i legami con la Russia qui? No. Ecco perché ci siamo astenuti nella votazione. Perché questo comporterebbe la chiusura del dialogo». Tuttavia il 17 marzo, durante una riunione straordinaria: «Il Comitato dei Ministri ha deciso, nel quadro della procedura avviata in virtù dell’articolo 8 dello Statuto del Consiglio d’Europa, che la Federazione russa cessa di essere membro del Consiglio d’Europa a partire da oggi, 26 anni dopo la sua adesione».

La diplomazia di Twitter e le telefonate private

Ankara, sin dall’inizio della guerra, ha mantenuto l’opinione secondo la quale tenere aperti i canali di dialogo con Mosca avrà un impatto positivo sul processo negoziale avviato tra funzionari russi e ucraini. Il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, İbrahim Kalın, in una dichiarazione alla stampa turca, ha affermato che la Turchia segue da vicino il processo negoziale tra le parti in guerra e trasmette i suoi suggerimenti alla Russia, soprattutto grazie al dialogo in corso.
A tutti questi passi e dichiarazioni ovviamente dovremmo aggiungere il continuo traffico di telefonate tra Ankara, Mosca e Kiev e i ringraziamenti di Zelensky direttamente verso Erdoğan comunicati ripetutamente su Twitter, per il suo sostegno

Importanti relazioni sia con Kiev sia con Mosca

In un’intervista rilasciata alla Cnn International, İbrahim Kalın ha dichiarato di non volere che i loro forti legami economici con Mosca, inclusi settori come l’energia, il turismo e l’agricoltura, siano danneggiati, e ha sottolineato che credono nei vantaggio provenienti da una condizione di dialogo alternativa all’imposizione di sanzioni.

La Turchia, che l’anno scorso ha ospitato circa 5 milioni di turisti russi (e 2 milioni di ucraini), ha preferito non assecondare i paesi occidentali che hanno chiuso il loro spazio aereo.

La Russia è il più grande fornitore di gas naturale della Turchia e sta anche costruendo la prima centrale nucleare del paese. I primi reattori dovrebbero essere messi in servizio nel 2023. Il volume degli scambi tra Turchia e Russia supera i 20 miliardi di dollari. I due paesi puntano ad aumentare questa cifra a 100 miliardi di dollari.

Questo rapporto commerciale in crescita vale anche per l’Ucraina. Secondo la Camera di Commercio di Istanbul (Ito) nel 2021 il volume commerciale superava i 7,4 miliardi di dollari Usa e nel 2022 l’obiettivo è raggiungere i 10. Solo nell’ultimo incontro avvenuto il 3 febbraio sono stati firmati ben 8 accordi commerciali tra Erdoğan e Zelensky. La collaborazione tra questi due paesi è in forte crescita anche nel campo militare.

Mediatori sì ma non da soli

La crisi energetica, l’interruzione dei rapporti commerciali, degli investimenti finanziari e del gigantesco riciclaggio di soldi nelle banche europee e in collaborazione con le mafie europee e la minaccia sulla sicurezza cibernetica sono solo alcuni punti che necessitano un piano B nel caso in cui le cose si mettessero molto male a lungo termine con Mosca. Dunque a questo punto insieme ad Ankara subentrano nel gioco due altri attori insospettabili: Grecia e Israele.
La Turchia, ultimamente, sembra che stia ricucendo i suoi rapporti con questi due “alleati”/vicini.

Israele, una volta “razzista” e ”terrorista” per Erdoğan

Infatti non è un caso che il presidente della Repubblica d’Israele, Isaac Herzog, abbia visitato la Turchia, incontrando il suo omologo turco il 9 di marzo. Una visita che era stata già organizzata ma ovviamente ha assunto un’importanza particolare in questo periodo esattamente come il contenuto delle dichiarazioni finali.

«Sia l’inizio di una nuova fase nelle relazioni tra questi due paesi. Dobbiamo rafforzare i nostri obiettivi commerciali soprattutto nel campo dell’energia»: erano alcune parole pronunciate da Erdoğan alla fine dell’incontro. Herzog invece ha voluto parlare anche della convivenza dei popoli, la pace tra le religioni e ha pure citato una poesia di Hikmet.

Secondo il conduttore televisivo israeliano, Mohammad Micedle, questi due paesi hanno obiettivi in comune in Siria e in Ucraina. Quindi devono lavorare insieme. Invece secondo, Jonathan Freeman, uno dei professori dell’Università di Gerusalemme il ruolo di questi due paesi acquisisce un valore aggiunto derivante dalla guerra in Ucraina soprattutto nell’ambito della sicurezza, dell’energia e dal punto di vista economico.

«Grecia e Cipro avranno le risposte che meritano» (Erdoğan, 14 ottobre 2020)

Lo stesso tipo di visita a Istanbul è stato effettuato il 13 di marzo anche dal primo ministro greco Kyriakos Mītsotakīs con Erdoğan.

L’incontro si è concluso con una serie di buoni intenti e progetti legati al «nuovo piano di sicurezza in Europa alla luce della guerra in Ucraina, lotta contro l’immigrazione irregolare e rafforzamento dei rapporti commerciali».

Una nuova fase, una nuova era positiva e felice meno di 2 anni dopo quel famoso momento di crisi registrato nelle acque dell’Egeo che portava quasi alla guerra questi due vicini storici; come l’incontro tra Erdoğan e Herzog mette la parola fine ai dissapori sorti nel maggio 2010 con la vicenda della Freedom Flotilla e l’assalto alla Mavi Marmara, nave turca assaltata dai servizi israeliani che causarono la morte di 9 marinai turchi.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Assalto del Mossad alla nave turca Mavi Marmara in rotta verso Gaza nel maggio 2010: causarono 9 morti tra l’equipaggio e il pretesto al presidente turco per ergersi a paladino della causa palestinese.

Oligarchi e oppositori già in Turchia

Approfittare della fuga dei capitali dai paesi in conflitto e isolati è una scelta ormai molto diffusa in diversi angoli del mondo. Esattamente come quello di aprire le porte agli oppositori che a lungo andare potrebbero rappresentare una “carta” politica importante nei confronti dell’alleato di oggi. La Turchia ha fatto queste mosse ospitando quell’enorme quantità di denaro dello stato libico e di quello venezuelano nei momenti di grande crisi economica, politica e militare. Questa scelta fatta da Tripoli e Caracas comporta fedeltà e collaborazione e per Ankara la parziale disponibilità di questi due paesi rappresenta anche un elemento di forza nei confronti dei suoi alleati. In merito alla presenza degli oppositori invece possiamo citare il caso degli uiguri in fuga dallo Xinjiang e dei tatari scappati dalla Crimea in due tempi diversi in questi ultimi anni, rendendo così la Turchia rifugio degli oppositori e degli oppressi per quegli attivisti che rappresentano “minaccia e problema” per gli alleati Cina e Russia.

La storica attrazione per Istanbul

Secondo il professore universitario, Aydin Sezer, la vicinanza geografica della Turchia fa sì che per chi volesse portare via il suo capitale dalla Russia la rende più accessibile e attraente rispetto alla Cina e ai paesi del Golfo. Nel suo intervento fatto in diretta il 7 marzo, organizzato dal portale di notizie “Gazete Duvar, Sezer sostiene che numerose aziende russe stanno già avviando operazioni di acquisto dei beni di lusso, immobili costosi e vari investimenti finanziari a Istanbul. La stessa notizia è stata approfondita il 15 marzo in un articolo di Nuran Erkul Kaya ed Emre Gurkan Abay anche sul sito dell’agenzia di stato “Anadolou Ajansi” e un’esaustiva carrellata di patrimoni investiti in Turchia da parte di oligarchi russi molto vicini a Putin è stata redatta da su “medyascope”.
In una notizia firmata da “Euronews”, il 15 marzo, invece si parlava di quelle migliaia di “benestanti” russi che hanno deciso di lasciare la Russia per via della loro opposizione contro la guerra ma anche perché pensano che una catastrofe economica sia in arrivo. Lo stesso argomento era stato reso pubblico il giorno prima anche da “The New York Times”. In questo articolo, firmato da Anton Troianovski e Patrick Kingsley, si citavano i principali paesi di destinazione come Armenia, Georgia, Uzbekistan, Kirghizistan e Kazakistan ma anche la Turchia. Perché?

Profughi russi a Istanbul

Un turco trasporta nella neve stambulina materassi comprati da organizzazioni umanitarie per aiutare profughi russi contrari alla guerra e timorosi della catastrofe economica russa.

I motivi sono parecchi. Per esempio, nonostante il fatto che i paesi europei abbiano chiuso i loro spazi aerei agli aerei russi, la Turchia non l’ha fatto e questa scelta rende Istanbul una delle alternative per i russi che vogliono lasciare il paese. Solo la Turkish Airlines continua a organizzare 5 voli al giorno per Mosca e, insieme ad altre compagnie, questo numero supera i 30 in alcuni giorni. Kirill Nabutov, un commentatore sportivo di 64 anni fuggito a Istanbul, nell’intervista rilasciata al quotidiano statunitense afferma che la storia si ripete. Anche la cugina della madre di Nabutov fuggì a Istanbul nel 1920 e da lì andò in Tunisia. Anche se non grande come gli ucraini, questa fuga ricorda quelle 100.000 persone in fuga dalla guerra civile negli anni Venti, dopo la rivoluzione bolscevica, rifugiate a Istanbul.

Politica interna appesa ai colpacci internazionali

Il ruolo della Turchia, da diversi punti di vista, possiede un peso importante in questa fase storica che sta attraversando prima di tutti l’Ucraina poi il resto del mondo. Questo ruolo senz’altro è dovuto alle relazioni che Ankara ha costruito in questi ultimi anni, quelle relazioni basate sul reciproco sfruttamento, esattamente come diversi leader mondiali fanno da tempo. A questo fattore sarebbe opportuno aggiungere anche la crisi diplomatica, economica, energetica e politica in cui si trovano alcuni alleati della Turchia. Come abbiamo visto nell’esperienza della “gestione dei migranti” e nei conflitti armati in Libia e Azerbaigian/Armenia, dove l’incapacità oppure l’indifferenza dell’Unione europea e della Nato subalterna, Ankara approfitta dell’occasione. Infine la situazione economica e politica, devastante, in cui si trova il governo di Erdoğan deve fare qualcosa. Un leader che ha sempre fatto alimentare la politica interna con quella estera non può perdere quest’occasione sperando di perdere a casa qualche vittoria. Ce la farà? Questo dipende anche dagli alleati e dai partner della Turchia.

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Che ci fa la Turchia in Ucraina? https://ogzero.org/che-ci-fa-la-turchia-in-ucraina/ Wed, 09 Feb 2022 17:16:54 +0000 https://ogzero.org/?p=6229 Il presidente della repubblica di Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ha incontrato il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, il 3 febbraio, ufficialmente con l’intento di svolgere il ruolo di mediatore nella crisi in corso tra Kiev, Mosca e Nato. L’apparente confusione frenetica dei movimenti strategici di ogni protagonista – le 5 ore di incontro tra Putin e […]

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Il presidente della repubblica di Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ha incontrato il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, il 3 febbraio, ufficialmente con l’intento di svolgere il ruolo di mediatore nella crisi in corso tra Kiev, Mosca e Nato.

L’apparente confusione frenetica dei movimenti strategici di ogni protagonista – le 5 ore di incontro tra Putin e Macron, il contemporaneo volo di Scholz da Biden; le agenzie e gli allarmi che fanno gioco alla pressione della Nato sui confini russi, che spingono Putin a partecipare alle cerimonie olimpiche di Xi Jinping; la Nato è la pietra dello scandalo, e un suo membro scandalosamente energivoro, che ormai da alcuni anni gioca da fuori, s’insinua in ogni conflitto per vendere i suoi micidiali ordigni senza pilota, o per appropriarsi di energia – di cui è ghiotto. La Turchia, in crisi economica e con inflazione a due cifre abbondanti, è protagonista a tutto campo e quindi anche nello scacchiere più esplorato dall’inizio del 2022 troviamo l’attivismo di Erdoğan e dei suoi droni. Perché? Murat Cinar s’ingegna a spiegarcelo e per farlo ha bisogno di mantenere l’aspetto economico scevro dalla fuffa di pseudolegami tra Ucraina e Turchia: crisi, bilancia commerciale, traffici di armi, droga e gas… la capacità di trasformare le crisi in opportunità.


Perché Ankara?

Il governo turco ha preso posizione schierandosi dalla parte di quello ucraino quasi sin dall’inizio del conflitto, 2004, soprattutto sostenendo i tentativi di autonomia della popolazione tatara che si trova in Crimea e dopo dieci anni di scontri è passata sotto il controllo di Mosca.

Ankara sostiene la tesi della sistematica discriminazione che la popolazione tatara subisce dagli abitanti russi presenti in zona. Ormai è risaputo come Ankara si propone come “portavoce del mondo musulmano” su molte piattaforme e in differenti zone. Anche se questo ruolo ha registrato svariati problemi di coerenza (e anche di opportunità politica che ha dettato le scelte in momenti diversi) in Egitto, Cina, Siria e Palestina. Considerando che la maggior parte dei tatari sono musulmani, le strategie di Ankara assumono una forma vicina al governo centrale ucraino e rientrano quasi automaticamente nell’ottica “antirussa”.

Non è solo una questione romantica

Ovviamente la posizione, a livello geopolitico, molto interessante dell’Ucraina ha fatto sì che questi due paesi condividessero una serie di punti in comune. Il processo per l’integrazione nell’Unione europea, l’Onu, l’Osce, la Blackseafor e l’Operazione Black Sea Harmony sono alcune realtà molto importanti in cui Kiev e Ankara si trovano alleate.

Senz’altro un’eventuale guerra tra Russia e Ucraina danneggerebbe fortemente la Turchia prima di tutto in termini economici poi a livello politico: il paese è soffocato da una profonda crisi economica in corso dal 2018 e il rapporto commerciale che ha costruito il governo centrale con Mosca in questi ultimi dieci anni è enorme. Come era stato comunicato nell’ultimo incontro pubblico del Consiglio di Lavoro Turchia-Russia, l’obiettivo è raggiungere per il 2022 la soglia dei 100 miliardi di dollari statunitensi come volume commerciale.

Dipendenze asimmetriche

Ankara dipende fortemente dalla Russia prima di tutto nel campo energetico ma anche in altri settori. All’inizio di questa crisi economica la svalutazione della Lira nel 2018 aveva colpito il prezzo della carta dei giornali perché la Turchia paga circa 53 milioni di dollari all’anno per acquistarla dalla Russia, questo volume costituisce circa il 65% del fabbisogno nazionale. Il discorso si espande senz’altro su altri campi come il turismo, il nucleare e le spese militari soprattutto tenendo in considerazione che Ankara in questi ultimi anni si è allontanato sempre di più, a livello politico e commerciale, dai suoi storici partner economici: Unione europea e Washington.

Questo rapporto commerciale in crescita vale anche per l’Ucraina. Secondo la Camera di Commercio di Istanbul (Ito) nel 2021 il volume commerciale superava i 7,4 miliardi di dollari Usa e nel 2022 l’obiettivo è raggiungere i 10. Solo nell’ultimo incontro avvenuto il 3 febbraio sono stati firmati ben 8 accordi commerciali tra Erdoğan e Zelensky. La collaborazione tra questi due paesi è in forte crescita anche nel campo militare.

Droni Bayraktar Siha turchi venduti all'Ukraina

Bayraktar SİHAs, che Ankara ha venduto all’Ucraina lo scorso anno, ha suscitato la reazione della Russia. Mosca aveva avvertito che questi UAV non dovrebbero essere usati contro i filorussi nell’Ucraina orientale.

Come ha specificato qualche giorno fa il primo ministro ucraino, Denys Šmihal’, tra i progetti c’è anche quello di costruire una fabbrica sul territorio ucraino per produrre i droni armati Made in Turkey. Quei famosi droni infami che in diverse parti del mondo stanno cambiando l’andamento dei conflitti armati. In particolare quelli che vende Ankara sono prodotti della famiglia Bayraktar, quella del genero di Erdoğan. Questi droni armati, i Bayraktar SİHA, che Kiev aveva già acquistato e usato contro i separatisti filorussi nell’Est, saranno utilizzati durante l’esercitazione militare del 10 febbraio.

Il tema dei droni è un tema molto caldo. Infatti nel mese di aprile del 2021, Mosca in un video in cui presentava il suo nuovo drone kamikaze simulava un attacco fatto contro un drone armato, prodotto dalla Turchia. Diverse volte i vertici del governo russo si sono espressi per comunicare la loro amarezza in merito alla vendita dei droni turchi a Kiev. La questione è diventata ultimamente molto interessante perché John Kirby, il portavoce del Ministero della Difesa nazionale statunitense, ha sostenuto, il 4 febbraio, durante l’ordinaria conferenza stampa, che Mosca si stava preparando per divulgare un finto video in cui avrebbe sostenuto che i droni turchi comandati da Kiev avrebbero colpito le postazioni russe così la Russia avrebbe legittimato un eventuale intervento militare in Ucraina. Un po’ come le foto taroccate che l’ex segretario di stato statunitense, Colin Powell, mostrò il 5 febbraio del 2003 dinanzi al Consiglio di sicurezza dell’Onu per legittimare l’invasione dell’Iraq da parte degli Usa.

Un conflitto, un problema e un guadagno per Ankara?

Ovviamente un’eventuale guerra in Ucraina metterebbe Ankara in una posizione molto difficile dato che in questi ultimi anni ha provato a fare tutto il possibile per curare rapporti sia con Kiev sia con Mosca. Per via della sua posizione all’interno della Nato, Ankara potrebbe trovarsi con la necessità di attuare un embargo commerciale nei confronti di Mosca e questo sarebbe il colpo di grazia per mandare in bancarotta l’economia turca e molto probabilmente confermerebbe la fine della carriera politica di Erdoğan che è già molto vicina al capolinea, visto il malessere collettivo e gli ultimi sondaggi elettorali (elezioni presidenziali si svolgeranno nel 2023).

In particolare questo scenario per la famiglia Erdoğan sarebbe una disgrazia poiché è fortemente coinvolta nel commercio di droga, lo spaccio di petrolio illegale e la forte corruzione.

L’incontro avvenuto tra Erdoğan e Zelensky è stato il decimo incontro sotto l’ombrello del Consiglio Strategico di Alto Livello. Si tratta di un incontro che era stato anticipato da numerosi inviti inoltrati dal presidente della repubblica di Turchia, rivolti a tutte le parti interessate da questa crisi. A prima vista sembra che Erdoğan abbia una forte intenzione di svolgere quel ruolo di “mediatore”. Tuttavia non va ignorata anche l’esistenza di quella posizione complicata e difficile in cui si trovano le relazioni internazionali di Ankara. Dunque oltre la crisi economica, che è un punto fondamentale da tenere in considerazione, molto probabilmente anche il gioco di “mantenere gli equilibri sensibili” è stato uno degli obiettivi perseguiti da Erdoğan.

Bombardamenti nella regione di Idlib.

Gli azzardi bellici nell’ultimo lustro

Infatti le scelte politiche, militari ed economiche che Ankara ha fatto in questi ultimi 5 anni, prima di tutto in Siria poi in Libia, sono state molto pericolose e fragili. Ankara, pur in conflitto politico ed economico con il regime di Assad, sostenuto da Mosca, è riuscita a ottenere l’autorizzazione da Putin di entrare sul territorio siriano almeno 5 volte con un gruppo di mercenari jihadisti. Una scelta e un’alleanza molto critiche che hanno causato addirittura la morte di 33 soldati turchi nel mese di febbraio del 2020 a causa di un bombardamento russo.

La presenza della Turchia anche in Libia è una scelta molto delicata dato che Ankara ufficialmente, economicamente, politicamente ma soprattutto militarmente ha sempre sostenuto il governo di Tripoli ossia al-Sarraj che è stato in guerra aperta con il generale Haftar sostenuto in tutti i modi da Mosca.

Oltre questo “equilibrio” molto delicato anche in Libia il ruolo dei droni turchi è stato determinante perché al-Sarraj potesse vincere il conflitto armato.

L’ultima mossa pragmatica e molto delicata di Ankara è stata quella di sostenere Baku nel conflitto armato tra Azerbaijan e Armenia. Un’altra guerra in cui, in teoria, Ankara e Mosca si sarebbero trovate in conflitto dato che Erevan riceveva il sostegno politico di Putin. Tuttavia anche in questo conflitto l’appoggio militare ed economico della Turchia è stato determinante, almeno a livello mediatico, e la guerra si è conclusa con una serie di “vittorie” per Baku. L’accordo per la “pace” è stato firmato a Mosca e in  seguito e per il futuro il territorio sarà controllato da Mosca collegando l’Azerbaijan tramite un corridoio con la Turchia.

Il ruolo assunto da Ankara non si è concluso ancora, il rischio per un conflitto armato che potrebbe coinvolgere altri attori anche al di fuori del territorio ucraino esiste tuttora. Ma per Ankara è assolutamente necessario che la situazione si calmi dato che ha bisogno sia di Kiev sia di Mosca per motivi politici, economici e militari. Inoltre Ankara resta ancora un membro importante della Nato e risulta un partner strategico per Washington.

Infatti il primo messaggio di congratulazioni è già arrivato da Jens Stoltenberg, il segretario generale della Nato: «Ho sentito il presidente Erdoğan e l’ho ringraziato per il suo personale e attivo sostegno volto a trovare una soluzione politica e per il suo sostegno pratico all’Ucraina».

Se non funziona?

Ovviamente gli scenari sono tanti ma se la mediazione di Ankara non funzionasse e la crisi diventasse più profonda senz’altro Mosca potrebbe decidere di usare la carta del “gas” contro l’Unione europea. Esattamente come ha fatto in tutti questi anni, Erdoğan, insieme al suo partito e ai suoi imprenditori, potrebbe decidere di attivare nuovi piani per trasformare la crisi in un’opportunità. Si è visto con che velocità, lo scorso autunno, sono stati ripristinati i rapporti politici, economici e militari con gli Emirati, quel paese ch’era stato accusato da Ankara di essere uno dei progettisti del fallito golpe del 2016.

Alternative

Infatti sono giorni che Ankara dedica spazio e tempo alla diplomazia per capire se il gas azero, qatariota o addirittura quello israeliano può essere portato in Turchia e rivenduto ai paesi europei. Nel mese di gennaio, Kadri Simson, Commissaria europea per l’Energia, aveva annunciato che la Commissione stava sondando anche Baku per valutare l’opzione del gas azero. Si tratta del famoso Corridoio meridionale del gas (conosciuto come Tap Tanap) che attraversa tutto il territorio della Turchia per concludere il suo flusso in Salento.

Il progetto del gasdotto Tap Tanap.

Una seconda opzione sarebbe il gas israeliano. Infatti nella sua visita in Albania il presidente della repubblica di Turchia aveva parlato di quest’opzione, rilasciando quest’affermazione apodittica: «Non si può portare il gas israeliano senza coinvolgere la Turchia». Lo stesso tema è stato riproposto dallo stesso presidente anche al rientro in Turchia dopo la visita in Ucraina:

«Nel mese di marzo il presidente israeliano Herzog sarà in Turchia, parleremo dell’idea di portare il gas israeliano in Turchia. Dopo averne usato per la nostra necessità nazionale siamo disposti a rivenderlo all’Europa».

Quindi anche in questo caso il disegno economico e politico che strozza la Turchia da più di 20 anni è un attore importante e potrebbe acquisire maggior ruolo soprattutto grazie a una cultura politica, economica e militare perversa e distruttiva che diventa sempre più dominante nel Medio Oriente e in Europa.

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L’assalto al carcere di Sina “forse” orchestrato da Ankara e Damasco https://ogzero.org/assalto-al-carcere-forse-orchestrato-da-ankara-e-damasco/ Thu, 03 Feb 2022 17:10:52 +0000 https://ogzero.org/?p=6122 Quattro giorni di ininterrotti scontri tra i combattenti dello Stato Islamico (Isis) e le forze curdo-siriane (Fds), che presidiavano il carcere assalito da miliziani ben equipaggiati. Il bilancio finale è stato di più di 330 morti, molti jihadisti fuggiti (un migliaio i catturati dalla pronta reazione curda); un preoccupante segnale di quanto la rete jihadista […]

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Quattro giorni di ininterrotti scontri tra i combattenti dello Stato Islamico (Isis) e le forze curdo-siriane (Fds), che presidiavano il carcere assalito da miliziani ben equipaggiati. Il bilancio finale è stato di più di 330 morti, molti jihadisti fuggiti (un migliaio i catturati dalla pronta reazione curda); un preoccupante segnale di quanto la rete jihadista si sia ricostruita, ancora più allarmante se si riconduce a una precisa orchestrazione occulta da cercare ad Ankara – e non solo – questo improvviso assalto dei tagliagole del Daesh al carcere curdo in cui erano reclusi i foreign fighters che gli occidentali non rivogliono indietro. Un ritorno dell’interesse occidentale per la questione dei jihadisti stranieri detenuti deve aver sollecitato il presidente turco a intervenire; e il risultato è stato l’annientamento di Abu Ibrahim al Hashimi Al Qurayshi, leader dell’Isis, dopo l’insuccesso del piano ordito dai satrapi turco-siriani.

A questo proposito abbiamo ricevuto alcune rilevanti osservazioni di Gianni Sartori, confermate dai bombardamenti avvenuti una settimana dopo per mano dell’aviazione di Erdoğan, come racconta l’articolo di Chiara Cruciati per “il manifesto” del 3 febbraio 2022, che proponiamo qui sotto. Riprendiamo dunque il pezzo di Sartori comparso sulla rivista “Etnie”, corredandolo tra le altre con un’immagine di Matthias Canapini, con il quale inauguriamo una collaborazione che immaginiamo proficua.


Lo davamo per scontato. Intravedere dietro l’attacco di Daesh al carcere di Sina (nel quartiere di Xiwêran/Gweiran della città di Hesîçe/Hassaké) la complicità di Ankara era tutto meno che un esercizio di fantasia. Ma a quanto sembra la manina inopportuna non era l’unica. In base ai primi accertamenti, le fonti curde hanno denunciato un ruolo, oltre che dell’intelligence turca, anche di quella siriana.

Bombardamenti turchi sui curdi siriani dopo l'assalto jihadista

3 febbraio 2022. Bombardamenti turchi sul Confederalismo democratico dei curdi siriani dopo l’assalto jihadista del 20 gennaio: evidente l’impronta di Ankara.

Premesse dell’assalto e mandanti

Iniziato il 20 gennaio, l’assalto operato dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Daesh) veniva se non stroncato sul nascere, perlomeno ridotto ai minimi termini. Purtroppo aveva avuto il tempo di provocare “danni collaterali” non irrilevanti. Sono almeno una cinquantina (ma il bilancio potrebbe accrescersi) i caduti tra membri di Fds, Asayish e civili curdi accorsi volontariamente per contrastare l’operazione jihadista. Dopo mesi di sostanziale menefreghismo per la sorte delle popolazioni (curde, ma non solo) del Nord e dell’Est della Siria sottoposte all’occupazione o comunque agli attacchi dell’esercito e dell’aviazione turca, l’Occidente è parso ridestarsi e prendere coscienza che la minaccia dell’Isis/Daesh non era stata definitivamente cancellata.
Per cui, non detto ma pensato, anche la presenza curda recuperava spessore e spazio sui media. Perlomeno come argine al fanatismo degli estremisti islamici.
Se pur lentamente, emergono le prime connessioni – interne ed estere – che hanno reso operativo il progetto per liberare i circa 5000 detenuti (membri o sostenitori di Daesh) rinchiusi a Sina. E tutte invariabilmente conducono ad Ankara o a Damasco. O magari a entrambe. Si tratta di elementi, indizi riguardanti le riunioni preliminari, le varie fasi di pianificazione, gli obiettivi individuati dalla banda degli assalitori. Non si sarebbe trattato quindi di un’azione pianificata esclusivamente dall’Isis, ma di una complessa operazione con il sostegno – come dire: bilaterale – proveniente dall’esterno del gruppo jihadista (per quanto questo sia presumibilmente infiltrato come un colabrodo da servizi vari).
A quanto sembra, condizionale sempre d’obbligo, l’operazione potrebbe essere stata decisa e pianificata in Turchia. I membri di Daesh catturati dalle Fds avrebbero confessato che era stata preceduta da una lunga preparazione (almeno 7-8 mesi) e che le riunioni di pianificazione si sarebbero tenute a Serêkaniyê (Ras al-Ain) ossia in un’area attualmente sotto occupazione turca. Vi avrebbero partecipato membri di varie “cellule dormienti” sia locali che provenienti dalla Turchia. E tutte indistintamente sarebbero state rifornite di adeguati armamenti.
Dato che tra i prigionieri si trovavano diversi esponenti di alto livello dell’organizzazione terrorista, è evidente che l’operazione rivestiva una certa importanza.
Per prima cosa, con qualche mese di anticipo, vari esponenti dell’organizzazione terrorista, sia individualmente che in piccoli gruppi, erano venuti ad abitare nel quartiere di Gweiran/Xiwêran, dove sorge la prigione (una ex scuola provvisoriamente adibita a carcere) e in quello di Heyî Zihur.
Nel comunicato delle Fds del 25 gennaio si legge che «almeno 200 esponenti dello stato islamico si erano installati a Serêkaniyê, Girê Spî e Ramadî, in particolare nel quartiere di Gweiran e nei dintorni del carcere».
Contemporaneamente anche i detenuti si organizzavano per la rivolta.
Va ribadito che in maggioranza si tratta di persone addestrate alla guerra e di origine straniera (muhajir ossia “migranti”, termine utilizzato per indicare i miliziani stranieri che combattono per Daesh). Persone che – in genere – i rispettivi paesi di provenienza si rifiutano di riportare in patria.

Dinamica dell’assalto e indizi sui mandanti

Orchestrazione Isis
Il primo veicolo imbottito di esplosivo era stato posto in prossimità dello svincolo di una condotta petrolifera (moltiplicando quindi la potenza dell’attentato) mentre venivano bloccate le strade d’accesso al carcere. Altri veicoli, ugualmente riempiti con materiale esplodente, colpivano la porta della prigione e l’edificio delle Forze di autodifesa (Erka Xweparastinê). Entravano allora in azione anche le “cellule dormienti” precedentemente installate nel quartiere. Catturando alcuni civili (da usare come ostaggi o scudi umani) e abbattendo un muro della prigione con una ruspa.
Assalto al carcere di Sina

Famiglia yazida a Dohuk (© Matthias Canapini)

Una volta entrati, distribuivano le armi ai detenuti islamisti e prendevano altri ostaggi tra il personale del carcere.

Risposta Fds

La priorità per le Fds e per le forze della sicurezza interna (Asayish) è stata quella di proteggere i civili. Nel contempo circondavano (bloccandone a loro volta le vie d’accesso) e mettevano in sicurezza (procedendo all’evacuazione degli abitanti) i quartieri di Gweiran e di Heyî Zihur. Al momento sarebbero circa 200 (per almeno tre quarti facenti parte delle “cellule dormienti” esterne al carcere) gli esponenti di Daesh uccisi in cinque giorni di combattimenti. Alcune centinaia degli evasi poi sono già stati ripresi.

Quello che sta emergendo, sia dalle prove raccolte che dalle testimonianze e dagli interrogatori, è un probabile ruolo di Ankara e Damasco nell’orchestrare il grave episodio.
Equipaggiamento turco, attività siriana

Tra gli “indizi” (ma messi tutti in fila acquistano le sembianze di prove) a sostegno della tesi di un diretto coinvolgimento di Turchia e Siria: le armi – della Nato – con numeri di serie turchi trovate in mano ai terroristi dell’Isis; la registrazione di telefonate dei membri di Daesh in prigione con la Turchia; le confessioni di quelli catturati mentre cercavano di rientrare a Serêkaniyê (sotto l’ombrello turco); le carte d’identità siriane di recente emissione in mano ai miliziani jihadisti; l’incremento di attività del regime siriano nella regione…

Assalto al carcere di Sina

Jihadisti evasi dalla prigione secondo l’agenzia russa “Sputnik”.

Altri elementi, altre prove, assicurano le Fds saranno presto messi a disposizione dell’opinione pubblica. Nel giro di qualche giorno.

Pianificazione a lunga scadenza:

contrattempi…
Stando ai piani preliminari, l’attacco avrebbe dovuto svolgersi ancora in ottobre o novembre, in coincidenza con un ennesimo attacco turco nel nord e nell’est della Siria e con il previsto rafforzamento dei suoi presidi e avamposti militari nelle zone già occupate. Proprio in ottobre Erdoğan si era consultato sia con Biden che con Putin ed è plausibile pensare che non ne abbia ottenuto il tacito assenso per l’ulteriore invasione.
Un contrattempo (per Ankara e Daesh beninteso) a cui se ne aggiunse presto un altro. Quando le Fds avevano individuato e arrestato alcune “cellule dormienti” a Hesekê e Raqqa ricevendo da uno dei caporioni arrestati la confessione che il loro obiettivo era il carcere di Hesekê. Un progetto quindi apparentemente disinnescato dall’operazione delle Fds, ma in realtà solo rinviato.
… e coincidenze d’intelligence
Altra coincidenza. Con un tempismo perfetto, al momento dell’attacco jihadista al carcere, l’esercito e l’aviazione turchi attaccavano simultaneamente Zirgan, Tel Tamer (da dove avrebbero potuto intervenire agevolmente in sostegno a Daesh) e Ain Issa causando vittime tra i civili.
Questo per quanto riguarda Ankara. E Damasco?
Rimane sempre a guardare mentre il territorio della Siria viene occupato da forze straniere? In realtà prima dell’attacco jihadista si era registrata un’intensa attività militare dell’esercito siriano proprio a Hesekê. Ma soprattutto era andata intensificandosi una violenta campagna diffamatoria nel confronti dell’amministrazione autonoma (Aanes) delle Fds sui media siriani filogovernativi. Inevitabile collegare tutto ciò ai recenti incontri tra il Mit (intelligence turca) e il Mukhabarat (intelligence siriana).
Un riavvicinamento tra i rispettivi servizi (ostili e su fronti opposti per molte questioni, ma sostanzialmente concordi nei confronti del “pericolo curdo”) che li aveva visti confrontarsi alla fine di dicembre (stando almeno a quanto riportava la stampa turca) in Giordania, ad Aqaba.
Sempre basandoci su quanto scrivevano i giornali turchi, nel corso della riunione si sarebbe discusso anche di «operazioni congiunte nel Nordest della Siria» e in particolare di «un’operazione militare turca per la profondità di 35 chilometri in revisione agli accordi di Adana; la sollevazione delle tribù (in chiave anticurda, ça va sans dire, come ci aggiornano regolarmente alcuni siti rosso-bruni italici N.d.A) a Deir ez-Zor, Hesekê  e Raqqa; la liberazione dei detenuti nelle prigioni e la ricostruzione di Aleppo».
Sempre sulla stampa turca – e quindi la cosa va presa con beneficio d’inventario – si suggeriva che Mosca e Damasco apparivano interessati, favorevolmente, alle richieste turche.

Un complotto annunciato contro l’amministrazione autonoma

Minacce velate

Qualche giorno prima, il 22 dicembre 2021, c’era stata la dichiarazione congiunta dell’ultima (per ora, siamo già alla diciassettesima) riunione di Astana tra Russia, Turchia e Iran, dove si stabiliva che le parti interessate erano concordi nell’«opporsi alle attività separatiste che minacciano la sicurezza nazionale dei paesi vicini all’est dell’Eufrate». Inoltre venivano definite “illegali” (anzi, un vero e proprio “sequestro”) i redditi provenienti dal petrolio siriano. Con un evidente riferimento al fatto che i curdi, dovendo comunque sopravvivere e tenere in piedi l’amministrazione autonoma, le milizie di autodifesa e soprattutto garantire prezzi calmierati (sia del pane che del combustibile) alla popolazione, si rivendono il petrolio. Del resto perché non dovrebbero farne uso visto che sgorga su quei territori dove convivono con arabi, turcomanni, armeni e altre popolazioni? Territori, ricordo, liberati dalla presenza di Daesh soprattutto grazie al sacrificio di migliaia di curdi delle Ypg.
Per chi vuole intendere, se pur dietro un linguaggio formalmente corretto, il messaggio era chiaro.

Il complotto dei Servizi

Ora, secondo i curdi, in questa dichiarazione si intravedono i presupposti per un autentico complotto contro l’amministrazione autonoma (Aanes) e il Rojava. In caso di vittoria dell’operazione al carcere di Hesekê è probabile che la Turchia sarebbe intervenuta da Tell Tamer (da nord) mentre Damasco avrebbe attaccato da Tabqa, Raqqa e Deir ez- Zor (da sud). Così come si era probabilmente stabilito nell’incontro tra il Mit e il Mukhabarat.
Magari con la scusa di porre fine al massacro (facilmente prevedibile se Daesh non fosse stata fermata in tempo) da loro stessi promosso, previsto e forse pianificato.
Se la pronta, coraggiosa risposta delle Fds ha impedito comunque un disastro ben peggiore, rimane il dubbio che a conti fatti quanto è accaduto possa ugualmente portare acqua al mulino dei due regimi. Potrebbe infatti fornire il pretesto (non solo a Damasco e Ankara, ma anche a Mosca e Teheran) per accusare l’amministrazione autonoma di incapacità e inadeguatezza. Di essere esposta ai rigurgiti di Daesh. Prima alimentati e innescati, poi strumentalizzati come alibi per “riportare l’ordine” in Rojava.
A consolazione, va ricordato che i curdi hanno dimostrato ancora una volta di essere un osso duro. Oltre che per i cani rabbiosi di Daesh, anche per i mastini di Ankara e Damasco.
Assalto al carcere di Sina

A completamento della ingarbugliata serie di eventi intrecciati nella zona denominata Mena giunge notizia (la riporta “Mediapart”) dell’eliminazione del capo dello Stato Islamico in seguito a un raid dell’esercito americano: un’esplosione ha raso al suolo la casa di tre piani che ospitava il turkmeno Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi (alias Abdullah Kardaş, ufficiale di Saddam Hussein, ovvero Amir Mohammed Abdul Rahman al Mawli al Salbi) e parte della sua famiglia che si è fatto saltare in aria al momento dell’attacco ordinato da Biden. Abitava ad Atamah, un villaggio nei pressi di un campo profughi al confine tra Siria e Turchia, in quella provincia di Idlib, che fa da zona cuscinetto pretesa da Erdoğan al momento della sconfitta dell’Isis di al-Baghdadi e da lui controllata… un’altra coincidenza?

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Variante turca nella recrudescenza dei bagliori della Guerra Fredda 2.0 https://ogzero.org/variante-turca-in-un-bagliore-di-guerra-fredda-2-0/ Tue, 26 Oct 2021 11:41:13 +0000 https://ogzero.org/?p=5237 Una rinnovata intensa attività dell’intelligence mondiale (con la variante turca) ha allarmato ultimamente gli esperti di spionaggio. In particolare decisioni di pubblico dominio, come il dimezzamento dei rappresentanti russi nell’ufficio di collaborazione tra Nato e Russia – indicati come agenti sotto copertura –, s’intrecciano con manovre più nascoste che preludono a un muscolare confronto militare […]

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Una rinnovata intensa attività dell’intelligence mondiale (con la variante turca) ha allarmato ultimamente gli esperti di spionaggio. In particolare decisioni di pubblico dominio, come il dimezzamento dei rappresentanti russi nell’ufficio di collaborazione tra Nato e Russia – indicati come agenti sotto copertura –, s’intrecciano con manovre più nascoste che preludono a un muscolare confronto militare e dunque a operazioni di spionaggio di cui i più raffinati analisti si stanno occupando per rilevare indiscrezioni e metterle in fila nel tentativo di restituire un quadro più chiaro dell’intricato mosaico che si va disegnando sullo scacchiere internazionale. Tutto ciò capita in occasione dell’uscita del primo volume frutto degli approfondimenti di OGzero, La spada e lo scudo, scritto per noi da Yurii Colombo per tentare di chiarire storia, modalità e tensioni interne ed esterne ai servizi segreti russi.

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Questo articolo va a illustrare il doppio binario su cui si trovano a lavorare i servizi russi: l’offensiva occidentale volta a ridimensionare l’influenza di Mosca sui paesi ai confini europei all’indomani del ritiro dall’Afghanistan sta producendo un piano di contenimento e difesa globale per l’area europea nel caso di attacco russo (il primo dopo la fine della Guerra Fredda). Contemporaneamente i servizi si trovano ad affrontare un rinnovato attivismo del controspionaggio turco che ha a sua volta operato arresti di agenti russi, che tradizionalmente stanziano a Istanbul con l’incarico di individuare ed eliminare i leader ceceni; arresti riconducibili all’epilogo della Guerra siriana con lo sgombero degli alleati turchi da Idlib, ma che collocano i servizi di Ankara in una posizione di battitore semilibero, in opposizione e collegato da accordi sia con l’Occidente (la Nato) sia con la Russia (Astana, non ancora messa in soffitta).


Tensioni tra apparati spionistici, preludio di confronti militari?

Lo scontro tra Russia e i paesi della Nato, con la recentissima sospensione delle reciproche rappresentanze a Mosca e Bruxelles è entrata in una nuova fase. Dal 1° novembre infatti la Federazione ha sospeso ufficialmente la sua rappresentanza presso la Nato e contemporaneamente ha posto sotto sfratto l’ufficio informazioni dell’Alleanza a Mosca. A partire da quella data – come ha ricordato il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov – per i contatti con Mosca, la Nato dovrà rivolgersi all’ambasciatore russo in Belgio. La decisione del Cremlino è giunta come reazione alla decisione della Alleanza Atlantica di ridurre da 20 a 10 i membri della rappresentanza russa a Bruxelles, rendendo impossibile di fatto l’operatività dell’ufficio. La rappresentanza russa era già stata ridotta da 30 a 20 funzionari ai tempi del caso Skripal [il tema è stato sviluppato dall’estensore dell’articolo nel volume La spada e lo scudo]; otto dei dieci funzionari russi rispediti a casa, sarebbero una ritorsione per il presunto coinvolgimento del Gru (i Servizi russi militari per l’attività all’estero) in un attentato contro un deposito di munizioni nella Repubblica Ceca del 2014 [anche per questo episodio si trovano approfondimenti nel volume La spada e lo scudo] anche se il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg ha sostenuto che «non esiste un motivo particolare per le espulsioni dei diplomatici russi», rimandandole semplicemente alla perdurante politica aggressiva russa in Europa.

«La politica della Nato nei confronti della Russia rimane coerente. Abbiamo rafforzato la nostra deterrenza e difesa in risposta alle azioni aggressive della Russia, mentre allo stesso tempo rimaniamo aperti per un dialogo significativo» ha dichiarato a Sky News un funzionario della Nato.

La ricostruzione di Bellingcat dell’attentato del 2014.

Il difficile equilibrio caucasico indispensabile per Mosca

Mosca, dal canto suo, si sente sempre più accerchiata e non si può dire che questa percezione possa essere semplicemente derubricata alla voce “vittimismo” (anche se il Cremlino ha dimostrato di soffrirne talvolta). Le vicende del recente passato, l’addio quasi definitivo della Moldavia dall’area d’influenza russa (il governo filoccidentale di Chişinău comunque è tornato dopo l’esplosione dei prezzi degli idrocarburi di quest’autunno a chiedere con il cappello in mano a Putin gas a prezzi calmierati), la faglia bielorussa e l’instabile alleanza con l’Armenia, impongono alla Russia la massima vigilanza.

Il portavoce presidenziale russo Dmitry Peskov ha affermato con nettezza che la decisione della Nato di espellere i diplomatici russi e le accuse di “attività ostili” hanno completamente minato le prospettive di normalizzazione delle relazioni e di ripresa del dialogo.

Il ministro della difesa russo Sergej Šoigu ha aggiunto – a muso duro – come «l’attuazione del piano di “contenimento” della Nato in Afghanistan è finito in un disastro, che tutto il mondo sta ora affrontando» e ha voluto ricordare a Berlino come andò a finire l’ultima volta che la Germania cercò di trovare uno “spazio vitale” a est.

«Sullo sfondo delle richieste di una deterrenza militare della Russia, la Nato sta costantemente sospingendo le proprie forze verso i nostri confini. Il ministro della difesa tedesco dovrebbe sapere molto bene come nel passato ciò si concluse per la Germania e l’Europa», ha sottolineato il ministro della difesa russo.

Quest’ultima dichiarazione è giunta dopo che il ministro della Difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer, il 21 ottobre, alla domanda se la Nato stesse contemplando scenari di dissuasione della Russia per le regioni del Baltico e del Mar Nero, anche nello spazio aereo con armi nucleari, ha risposto che dovrebbe essere reso molto chiaro alla Russia che anche i paesi occidentali sono pronti a usare tali mezzi. I media tedeschi hanno anche riferito che la Nato si starebbe preparando per un conflitto con la Russia. Il piano di difesa della alleanza occidentale avrebbe definito perimetri e parametri su come replicare a possibili attacchi dalla Russia e alla minaccia terroristica. Un tale piano – se confermato – rappresenterebbe una vera novità visto che tali ipotesi dopo il crollo del muro di Berlino erano stati messi in soffitta, ha fatto rilevare la “Suddeutsche Zeitung”. Del resto come sottolinea il portale russo “Vzglyad” già un mesetto prima, il 22 settembre 2021, i ministri della difesa della Nato avevano firmato un accordo per un fondo tecnologico militare da 1 miliardo di euro. Secondo la Nato questo piano di difesa rappresenta anche una risposta alla decisione di Mosca di mettere in cantiere la produzione di nuove armi nucleari a medio raggio e sviluppare nuovi sistemi d’arma. Le forze armate russe avrebbero persino recentemente testato i robot da combattimento nelle esercitazioni, lavorando all’uso dell’intelligenza artificiale in campo militare e sull’aggiornamento dei sistemi spaziali.

In questo quadro «I ministri della difesa della Nato a Bruxelles hanno adottato giovedì un nuovo piano di difesa globale per l’area europea e nordatlantica dell’alleanza. In esso l’alleanza occidentale definisce come risponderà a possibili attacchi dalla Russia, così come la minaccia del terrorismo in corso. È il primo piano globale di questo tipo dalla fine della Guerra Fredda: copre scenari che vanno da attacchi militari convenzionali e guerra ibrida ad attacchi informatici e disinformazione, così come combinazioni e attacchi simultanei, per esempio nelle regioni del Baltico e del Mar Nero», ha sostenuto Paul-Anton Krueger in un intervento su “RIA Novosti”.

Nave da ricognizione russa nel mar baltico (foto Adriana_R / Shutterstock).

Segnali di riposizionamenti geopolitici dietro il controspionaggio turco

A complicare lo scenario per la Russia, c’è l’attivismo sul piano del confronto spionistico della Turchia, sempre più battitore libero e sempre meno affidabile alleato della Nato. L’8 ottobre a Istanbul (ma la notizia è stata divulgata solo il 22 ottobre) sono state arrestate sei persone accusate di essere agenti dei servizi di intelligence russa. Si tratta di quattro cittadini russi – Abdulla Abdullayev, Ravshan Akhmedov, Beslan Rasaev e Aslanbek Abdulmuslimov – oltre a un cittadino ucraino, Igor Efrim, e un cittadino uzbeko, Amir Yusupov. Il gruppo è accusato di aver violato l’articolo 328 del codice penale turco (“spionaggio politico o militare”), e ora rischiano da 15 a 20 anni di prigionia. Secondo Giancarlo Elia Valori in un articolo pubblicato sul portale “Le Formiche”. L’offensiva ottomana nei confronti della Russia sarebbe da rimandare a un rinnovato asse tra Erdoğan e il consigliere per la sicurezza nazionale degli Emirati arabi uniti, Tahnun bin Zayed al-Nahyan. Secondo Valori, ci sarebbe «voglia di voltare pagina su otto anni di gelide relazioni, cristallizzate dal rovesciamento nel 2013 dell’egiziano Mohamed Morsi, un membro dei Fratelli Musulmani vicino alla Turchia e fermamente osteggiato dagli Emirati Arabi Uniti». In realtà, come rileva il giornale russo “Gazeta.ru”, oggi forse la voce più vicina al Cremlino, il nucleo di intelligence (che sarebbe stato trovato in possesso anche di armi e passaporti falsi) stava lavorando al fine di eliminare alcuni rappresentanti dell’“opposizione cecena” rifugiatisi in Turchia. Ricordiamo che già negli ultimi anni alcuni dei più noti oppositori al regime di Kadyrov a Grozny erano stati oggetti di misteriosi attentati in Germania e in Austria.

Ciò che sorprende in questa vicenda è che per ora il governo di Ankara non ha confermato la notizia e tutte le informazioni provengono dall’agenzia “Anadolu”, anche se il ministero degli esteri russo ha di fatto confermato gli arresti. Una fonte anonima di “Gazeta.ru” sostiene che al centro dell’operazione del controspionaggio turco ci sarebbe in realtà il tentativo della Russia, dopo le sconfitte micidiali degli armeni nei cieli durante la guerra con gli azeri dello scorso anno, di raccogliere informazioni dettagliate sui droni Bayraktar TB2, così come altri nuovi progetti riguardanti altri tipi di armi avanzate. Va ricordato però che questa crisi tra i due paesi non è un temporale scoppiato a ciel sereno. Come abbiamo già rilevato in altri nostri pezzi scritti per OGzero, dopo Astana i rapporti tra Russia e Turchia hanno continuato a volgere al brutto. All’inizio di ottobre, il capo della diplomazia turca Mevlüt Çavuşoğlu è intervenuto al Forum sulla sicurezza di Varsavia ribadendo necessità di sostenere l’Ucraina nel suo tentativo di entrare nella Nato. Inoltre, si è venuto a sapere in quell’occasione che i militari turchi starebbero addestrando i loro colleghi ucraini in tattiche di guerriglia urbana e secondo l’agenzia di stampa siriana “Sana”, ulteriori unità dell’esercito turco sono state spostate nella provincia siriana di Idlib e si parla insistentemente di una possibile operazione militare contro i paramilitari curdi a Tel Rifat.

I droniBayractar TB2

«A causa di ciò che sta accadendo a Idlib, Turchia e Russia stanno iniziando ad avere ulteriori attriti, ulteriori problemi». Questo è già successo in passato, ha commentato l’analista politico Yashar Niyazbayev: i rapporti dei media turchi «inizialmente suonavano – ha dichiarato – più come una gaffe informativa che come spiegazioni intelligibili in relazione alle spie russe».

La versione che l’arresto dei sei a Istanbul sia da rimandare a possibili omicidi politici contro ex oppositori ceceni è messa in discussione da Ivan Starodubtsev, un esperto di Turchia, autore del libro Russia-Turchia: 500 anni di vicinato tormentato il quale sul suo canale Telegram ha affermato: «deve essere innanzitutto una questione di possesso illegale di armi». Starodubtsev si dice convinto che la mafia cecena e, più in generale quella caucasica, opera attivamente a Istanbul da tempo immemore, e le “rese dei conti” criminali al loro interno sarebbero abbastanza frequenti. Del resto casi di morte di vari boss criminali caucasici per mano dei loro complici e concorrenti non sono rari a Istanbul. Si tratta di una tesi – da non escludere – che però è stata più volte usata dal Fsb ceceno per allontanare da sé accuse e sospetti.

In passato, al contrario, i servizi segreti turchi hanno ripetutamente collegato l’uccisione di ex comandanti di campo e militanti ceceni a Istanbul alle attività dei servizi di sicurezza russi che avrebbero “vendicato” la loro partecipazione a bande e attacchi terroristici dei primi anni Duemila, quando la guerriglia indipendentista raggiunse il suo apice.

Uno dei primi omicidi di più alto profilo ebbe luogo nel dicembre 2008, quando l’ex signore della guerra Islam Dzhanibekov fu ucciso sulla soglia della sua casa nel quartiere Ümraniye di Istanbul. Il killer in quel caso aveva usato una pistola con il silenziatore a doppia canna “Groza”. Nel 2009, l’ex signore della guerra Musa Asayev fu anch’egli ucciso a Istanbul. A quel tempo era noto per essere un rappresentante del terrorista Doku Umarov, coinvolto nella raccolta di denaro per i militanti del radicalismo musulmano.

Infine, nel 2011, tre membri della diaspora cecena, Berg-Khazh Musayev, Rustam Altemirov e Zaurbek Amriyev, erano stati associati al terrorista Doku Umarov e successivamente erano stati uccisi sempre a Istanbul. In Russia, però i tre erano a quell’epoca ricercati in quanto sospettati di aver organizzato un attacco terroristico all’aeroporto internazionale Domodedovo nel gennaio dello stesso anno.

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La geopolitica di Sedat Peker. 1: la vendetta corre sul video https://ogzero.org/le-videorivelazioni-di-sedat-peker-la-vendetta-corre-sul-video/ Wed, 02 Jun 2021 15:20:00 +0000 https://ogzero.org/?p=3737 Inauguriamo la serie di interventi a cura di Murat Cinar sulle videorivelazioni di Sedat Peker: in questo primo articolo si è cercato di inquadrare il personaggio, il contesto in cui è cresciuto il suo potere, fondato soprattutto sui tanti dossier che ha potuto crearsi nel tempo di aderenza con tutti i gangli del potere dell’Akp. […]

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Inauguriamo la serie di interventi a cura di Murat Cinar sulle videorivelazioni di Sedat Peker: in questo primo articolo si è cercato di inquadrare il personaggio, il contesto in cui è cresciuto il suo potere, fondato soprattutto sui tanti dossier che ha potuto crearsi nel tempo di aderenza con tutti i gangli del potere dell’Akp. La palude che ha permesso si creasse una rete di collusioni tra organizzazioni mafiose, traffici d’armi e droghe e il sistema di potere, i partiti della destra nazionalista, il clan del presidente della repubblica turca sono fotografati attraverso le inquadrature dei video scaricati in rete dagli Emirates: un terremoto per la comunità turca in attesa come noi del prossimo video che può gettare luce sulla Storia della Turchia (e dell’area mediterranea) – o spargere bocconi avvelenati.

Il prossimo articolo di questa serie racconterà la svolta improvvisamente geopolitica del nono appuntamento con il mafioso, il cui canovaccio improvvisamente è stato stravolto per accuse di complotti internazionali da smentire e quindi… Peker da consumata volpe del palcoscenico, anziché rivolgersi al presidente come previsto, annuncia rivelazioni riguardanti intrecci con l’India di Modi, il bancomat qatariota, ma soprattutto la tragedia siriana completerà le conclusioni più squisitamente geopolitiche che emergono dalla serie di Peker; e sullo sfondo la relazione tra la Turchia di Erdoğan e la Russia di Putin nell’ultimo decennio, ma anche le altre vicende mediorientali, mediterranee e globali scoperchiate dal mafioso che sapeva troppo. Nel terzo articolo invece si affronterà la maniera in cui il governo centrale ha approfittato dell’occasione per colpire la stampa indipendente e i partiti dell’opposizione. E infine, nel quarto intervento troverà spazio la vicenda di tre giornalisti la cui uccisione avvenne agli inizi della carriera del mafioso al servizio del regime e che trovano spazio nelle videorivelazioni; i video di Peker hanno influenzato l’andamento dei processi per la loro morte.

 


Sedat Peker, personaggio di spicco del movimento panturchista, accusato di appartenere al mondo della criminalità organizzata e attualmente in esilio negli Emirati Arabi Uniti, da più di un mese pubblica dei lunghi videomonologhi svelando una serie di informazioni su diversi personaggi appartenenti all’attuale governo e al mondo della burocrazia e imprenditoria.

A oggi sono otto i video pubblicati da Peker. Girati con il cellulare, durano poco più di un’ora e la loro realizzazione avviene nella sala di un appartamento lussuoso. Il linguaggio di Peker è diretto e chiaro, parla facendo nomi e cognomi, date e luoghi; illustra una serie di relazioni complicate e importanti. In questi video anche se spesso risulta pacato, calmo e composto è evidente che Peker sia arrabbiato e abbia deciso d’intraprendere questa strada per vendetta.

Chi è Sedat Peker?

Nato a Sakarya nel 1971, Peker ha cominciato a farsi notare già durante il suo primo processo negli anni Novanta in cui veniva accusato di aver fondato un’organizzazione criminale illegale perseguita per «estorsione, sequestro di persona e istigazione all’omicidio».

Nel 1997 Peker è stato assolto dall’omicidio di Abdullah Topçu, accusato di essere un contrabbandiere nella città di Rize; tuttavia le due persone che sono state processate con Peker sono state condannate all’ergastolo per l’omicidio di Topçu.

In quel periodo era fuggito in Romania, ma fu riportato in Turchia nel mese di agosto del 1998; nuovamente processato e assolto nel maggio successivo, contro di lui erano ascritti molteplici reati. In quel frangente rimase in carcere per otto mesi.

Verso la fine del 1999, in un’intervista rilasciata al quotidiano nazionale “Milliyet”, Sedat Peker, si descriveva come un «panturchista e turanista» e si difendeva dalle accuse a lui rivolte dicendo che stava «cercando di ottenere i soldi che gli spettavano, ma andando oltre i limiti delle relazioni civili».

Pochi anni dopo, nel 2005, Peker è stato arrestato di nuovo, nell’ambito dell’operazione Kelebek (Farfalla) a Istanbul, a seguito delle operazioni ad ampio raggio contro le organizzazioni della criminalità organizzata. È stato condannato a 14 anni di galera e in un altro processo, in cui era stato accusato di «fondare un’organizzazione armataı, era stato condannato a 1 anno di reclusione.

Ergenekon: il “tentato colpo di stato non armato”

Il nome di Sedat Peker è apparso anche nel maxiprocesso Ergenekon. Un processo che segnò un periodo particolare della storia della repubblica di Turchia. Era l’inizio della carriera del partito al governo, Partito dello Sviluppo e della Giustizia (Akp). L’attuale presidente della repubblica, Recep Tayyip Erdoğan, allora primo ministro, si definì come il “procuratore simbolico di questo processo”. In questo caso fu coinvolto anche Peker e fu condannato a 10 anni di reclusione.

L’Ergenekon, mentre identificava una serie di personaggi dell’esercito, dei servizi segreti e del mondo della criminalità organizzata con le mani piene di sangue, pian piano diventava anche una scusa per arrestare e zittire tutte le voci dell’opposizione; giornalisti, avvocati, politici, sindacalisti, insegnanti e studenti. Il maxiprocesso Ergenekon, dopo il fallito golpe del 2016 è stato definito come un «tentativo di colpo di stato non armato» dal governo attuale, tutti gli imputati sono stati assolti e quei giudici, procuratori e poliziotti che si erano impegnati in questo maxiprocesso sono stati arrestati, processati, sospesi oppure obbligati a lasciare la Turchia. Peker, condannato in questo processo, fu scarcerato nel 2014 grazie a una riforma legislativa, senza condizioni.

Peker, sostegno incondizionato a Erdoğan

Negli anni successivi alla sua scarcerazione i legami tra Peker e Akp, ma particolarmente con il presidente della repubblica, sono diventati sempre più stretti. In svariate occasioni Peker, pubblicamente, ha espresso la sua ammirazione per il presidente e il suo sostegno incondizionato per l’Akp e per il suo alleato, Partito del Movimento nazionalista.

Pochi giorni prima delle storiche e discutibili elezioni generali del 1° novembre 2015, Sedat Peker svolse un comizio pubblico nella città natale del presidente della repubblica, ossia a Rize, lungo la costa del Mar Nero. In quest’occasione espresse il suo pieno appoggio a Recep Tayyip Erdoğan. Si trattava di una manifestazione organizzata per “condannare il terrorismo”, in quest’occasione Peker promise al pubblico convenuto, circa 2000 persone, che per far pagare il conto amaro ai “terroristi” era disposto a “far spargere sangue loro”.

In pieno conflitto tra le forze dello stato e le guerriglie del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), nel 2016, più di mille accademici firmarono un “appello per la pace” invitando tutte le due parti a cessare il fuoco e aprire il dialogo e per questo i firmatari furono denunciati, processati, arrestati, linciati mediaticamente e politicamente e – alcuni – obbligati a lasciare il paese. In quei giorni salì sul palco di nuovo Peker e attraverso un comunicato stampa minacciò gli accademici firmatari con queste parole:

«Verseremo il vostro sangue e in questo lago faremo il bagno».

Minacce e repressione = libertà di espressione

Dopo queste dichiarazioni, Peker fu oggetto di dure proteste dai partiti dell’opposizione e di diverse associazioni non governative e presso il 20° tribunale penale di primo grado di Istanbul si aprì un’inchiesta. Tuttavia le parole di Peker vennero valutate nell’ambito della “libertà di espressione” e fu dunque assolto.

Sedat Peker è apparso nel primo anniversario del fallito golpe del 2016. Nel quartiere di Üsküdar a Istanbul, in un comizio pubblico, nel 2017, prese la parola e, riferendosi ai presunti golpisti arrestati, parlò così: «Li impiccheremo anche dentro le prigioni». Peker denunciato e indagato è stato assolto un anno dopo.

La fuga, senza ritorno

La vita da latitante di questo soggetto inizia nel 2020. Un anno fa lascia la Turchia e decide di stabilirsi nei “Balcani”. A sua detta la decisione nasce da motivi di lavoro e studio. Tuttavia da quel momento in poi per Peker inizia un viaggio senza ritorno.

Pochi mesi dopo, grazie all’indulto introdotto dal governo in piena pandemia, viene  scarcerato un altro personaggio del movimento ultranazionalista e del mondo della criminalità organizzata, Alaattin Çakici. Da quel momento in poi nasce un battibecco via internet tra Çakici e Peker e questo fatto si trasforma in un vero conflitto pubblico. Tutto ciò, facilmente, viene definito come l’inizio di una guerra tra due forze contrapposte sia nel movimento ultranazionalista turco sia nel mondo della criminalità organizzata.

Mentre Peker viveva all’estero da latitante, Çakici era libero in Turchia, scriveva lettere di elogio al presidente della repubblica e incontrava il leader del Partito del Movimento nazionalista.

Era evidente che quel disegno politico e economico che strangola il paese da circa 20 anni aveva deciso ormai di scartare un suo “sicario” e tenere buono l’altro.

La vendetta di Peker

Il primo video di Sedat Peker in realtà è stato lanciato a maggio 2020, quando risiedeva in Montenegro. In questo video Peker prendeva di mira il genero del presidente della repubblica, Berat Albayrak ovvero l’ex ministro dell’Energia e poi del Tesoro.

Secondo Peker, era proprio Albayrak ad avere in testa l’obiettivo di “farlo fuori”. Peker accusava Albayrak di lavorare con la magistratura e con i media per preparare un fascicolo pieno di “prove false”, nonché di adottare i “metodi dei gulenisti”, ossia quella realtà politica, economica e religiosa accusata di essere l’ideatrice ed esecutrice del fallito golpe del 2016.

Nella puntata iniziale, Peker sottolineava che il motivo principale del suo viaggio era proprio quello di non cadere in una “trappola”. Secondo Peker questo “complotto” organizzato ai suoi danni è stato confermato da numerosi suoi conoscenti. Peker assunse un atteggiamento aggressivo dichiarando guerra a coloro che lo volevano far fuori.

Anche se in questo primo video annunciava che ne avrebbe trasmessi altri, in realtà questo fatto non avviene e, anzi, pochi giorni dopo ne pubblica uno per chiedere scusa ad Albayrak, allora ancora potente e ministro del Tesoro.

Novembre 2020: Berat Albayrak si dimette dal suo ruolo di ministro del Tesoro con un post sul suo account ufficiale Instagram; da quel momento in poi il genero del presidente della repubblica non è più stato visto da nessuna parte.

L’inizio di una vera telenovela

La serie di videomessaggi che ormai da più di un mese occupa la quotidianità della Turchia hanno avuto inizio il 2 maggio del 2021.

A oggi, 2 giugno 2021, sono stati 8 in totale e molto probabilmente ne seguiranno molti altri. Il canale YouTube di Sedat Peker ormai ha circa 1 milione di iscritti e continua la sua crescita esponenziale. I suoi video sono seguitissimi, infatti ogni singolo video riceve almeno 6 milioni di visualizzazioni, alcuni addirittura 20 milioni.

Ogni giorno diversi canali televisivi e web trasmettono in diretta o meno, varie analisi sui messaggi lanciati da Peker. I social media, utilizzati molto bene e frequentemente da Peker, sono pieni di hashtag e messaggi su di lui e sui suoi video. La nuova app di discussione audio, ClubHouse, tutti i giorni ospita diverse stanze dedicate a questo tema (la Turchia, come per altri social media, risulta il quarto paese al mondo per utilizzo di questa nuova chat audio).

Dunque è palese che Peker in poco tempo si è collocato al centro dell’attenzione nel paese, arrivando anche a scatenare forme di fanatismo come quello che emerge in questo video di rapper francesi di seconda generazione algerina.

 

Inoltre le persone chiamate in causa e accusate da Peker, dopo ogni suo video e tweet prendono la parola e si sentono in obbligo di rilasciare una dichiarazione o si profondono in smentite, o lanciano nuove dichiarazioni che rimandano al passato più oscuro e controverso del paese.

Se le dichiarazioni di Peker fossero state fatte da giornalisti, senza ombra di dubbio la magistratura avrebbe preso immediate contromisure per denunciarli. Molto probabilmente questi sarebbero stati presi di mira dai media succubi del governo centrale e da diversi ministri dell’attuale governo. Tuttavia, è evidente che le accuse forti, nette e chiare di Peker in qualche maniera coinvolgono gli interessati e questi le prendono sul serio.

Chi finisce nel mirino di Peker?

Se c’è qualcuno a cui Peker ha deciso di dichiarare guerra è senz’altro prima di tutti l’attuale ministro degli Interni, Suleyman Soylu. Nei suoi video Peker lo accusa di tradimento. Nel racconto di Peker in aprile Soylu gli avrebbe garantito un rientro sicuro in Turchia. Infatti proprio in quel mese la polizia ha effettuato un’operazione capillare presso 121 diverse abitazioni in 5 città della Turchia. Tra le case a cui ha “bussato” la polizia c’era anche quella di Peker. Questo episodio è stato quello che ha fatto saltare il tappo (e i nervi al nostro eroe mafioso). Infatti nei suoi primi video Peker aggredisce verbalmente Soylu soprattutto per via del comportamento che i poliziotti hanno assunto nei confronti delle sue figlie e di sua moglie durante l’irruzione nella sua abitazione.

Ovviamente anche in Turchia la polizia è direttamente collegata al ministero degli Interni.

Nei video vengono esposte anche le altre eventuali motivazioni che hanno provocato la rabbia del boss mafioso contro Soylu. Secondo Peker, l’attuale ministro degli Interni deve a lui la sua carriera politica. Molto probabilmente è questo il motivo per cui si sente ancora un’altra volta “tradito”.

Secondo i dettagli-bomba sganciati da Peker sembra che durante la sua latitanza all’estero sia stato proprio Soylu a fornirgli protezione armata e varie soluzioni.

Nei confronti di Suleyman Soylu, Peker lancia numerose accuse, ma tra queste c’è un elemento che lo collega ad altri personaggi: i narcotrafficanti. Secondo Peker ormai la Turchia è diventata uno degli snodi più importanti al mondo del traffico di stupefacenti provenienti dalla Colombia e dal Venezuela.

Il giro della droga effettuerebbe secondo lui una tappa importante in Italia, per poi passare dalla Turchia con l’intento di arrivare alla destinazione finale che sarebbe la Siria.

Dal racconto di Peker in questa logistica sarebbe coinvolto in modo attivo l’ex ministro degli Interni Mehmet Ağar. Un altro sulfureo personaggio della storia della repubblica di Turchia. Il nome di Ağar è diventato famoso per due motivi principali negli anni Novanta. Prima di tutto con lo scandalo di Susurluk. Si tratta di un incidente stradale che ha scoperchiato la stretta relazione tra alcuni membri del governo dell’epoca, le forze dell’ordine, i lupi grigi e la criminalità organizzata. Dopo lo scandalo del 1996, Ağar si dimise. Successivamente fu condannato nel 2011 a 5 anni di reclusione per via dei suoi legami con la criminalità organizzata.

Il secondo punto che rende Ağar famoso è il maxiprocesso in cui è accusato di avere partecipato all’organizzazione della scomparsa e uccisione di 19 persone negli anni Novanta. Anche se in primo grado Ağar era stato assolto, nel maggio del 2021 uno dei tribunali penali di Ankara ha deciso di riaprire i fascicoli.

Un’altra persona che finisce nel mirino di Peker è Erkam Yıldırım ossia il figlio dell’ex primo ministro, Binali Yıldırım. Secondo Peker, il giovane Yıldırım sarebbe il tramite che teneva i contatti con i narcotrafficanti venezuelani per disegnare la nuova rotta per il trasporto della droga verso la Turchia. Anche se risulta che Yıldırım sia stato – in piena pandemia! – in Venezuela, proprio nelle date che Peker specifica nei suoi video, suo padre ha smentito l’accusa dicendo che suo figlio era lì per portare degli aiuti medici alla popolazione locale. Tuttavia, finora non risulta che sia avvenuto un trasporto di prodotti sanitari in quel periodo dalla Turchia verso la Venezuela.

Nei suoi video Peker parla anche di due giornalisti assassinati: Uğur Mumcu, ucciso nel 1993, e Kutlu Adalı, ammazzato nel 1996.

Due voci di opposizione e due giornalisti che hanno indagato sul rapporto tra i narcotrafficanti, lo stato turco e le guerriglie. Inoltre, particolarmente Mumcu lavorò anche sul traffico delle armi e sulla presenza massiccia dei paramilitari religiosi presenti in Turchia. Due casi ancora non chiariti definitivamente e per entrambi, secondo l’opinione pubblica, molto probabilmente c’è, in parte, anche lo zampino dello stato.

Come tutti, anche il ministro degli Interni Suleyman Soylu ha deciso di rispondere alle accuse di Peker, prendendo due volte la parola per diverse ore in diretta tv.

Tra le sue parole, anche Soylu ha pronunciato il nome di un giornalista assassinato, Hrant Dink, nel 2007. Secondo Soylu, stavolta sarebbe Peker coinvolto – direttamente o meno – nell’assassinio del giornalista.

Ascolta “La sulfurea serie di videorivelazioni di Sedat Peker” su Spreaker.

Cosa ci aspetta?

Ovviamente sorge spontanea una domanda: “Perché parla ora Peker?”. Anche se in parte si è cercato di rispondere in questo articolo che avete appena finito di leggere, si tratta di una domanda che merita una risposta ancora più dettagliata. Però sarà probabilmente Peker stesso a darci una risposta adeguata, dato che, questa domenica, 6 giugno, uscirà il suo nono video e in questo si rivolgerà soltanto e direttamente a Recep Tayyip Erdoğan, che finora ha fatto delle dichiarazioni con toni pacati e ha difeso (dopo aver atteso a lungo), i suoi alleati e i suoi ministri.

L'articolo La geopolitica di Sedat Peker. 1: la vendetta corre sul video proviene da OGzero.

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n. 8 – Siria (IV): dopo la Guerra cosa può cambiare? https://ogzero.org/una-nuova-primavera-araba-siria-le-dinamiche-attuali-del-conflitto-2020-2021/ Wed, 26 May 2021 11:33:41 +0000 https://ogzero.org/?p=3634 Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone di quattro interventi, ognuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe […]

L'articolo n. 8 – Siria (IV): dopo la Guerra cosa può cambiare? proviene da OGzero.

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Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone di quattro interventi, ognuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe umanitaria che ha fatto seguito allo scatenarsi del conflitto siriano dell’ultimo decennio. Dove porteranno questi anni di Guerra civile? Potrà riemergere una nuova Primavera araba?

L’autrice ha dapprima analizzato le attuali condizioni di siriani ormai integrati in realtà esterne al paese ai quali ora viene chiesto di rimpatriare, rischiando la vita e rinunciando alla nuova esistenza costruita faticosamente in esilio. L’analisi è proseguita valutando le condizioni economiche e umanitarie in cui si tengono le elezioni il 26 maggio, senza dimenticare la specificità della Primavera araba nelle diverse regioni siriane; ha proseguito poi collegando le modalità di protesta alla particolare peculiarità del regime alauita del clan al-Assad; le fasi della politica di Bashir – fino alla Primavera araba e il conflitto esploso nel 2011, che ha fatto del territorio siriano uno scenario usato dalle potenze globali e locali per imporre la propria supremazia. Da ultimo in questo articolo ancora più dedicato alla geopolitica si cerca di fare il punto dei conflitti nelle 4 partizioni di territorio tra i vari protagonisti scontratisi in particolare nell’ultimo biennio.


n. 8, parte IV

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il conflitto siriano: gli ultimi due anni di Guerra

Come già notato nel precedente articolo sulla situazione in Siria, in particolare con riferimento alle pregresse tappe del conflitto – ormai perdurante da oltre dieci anni –, appare evidente l’interazione in esso tra le milizie appartenenti alle forze governative, le potenze della regione mediorientale e quelle internazionali.

La ripartizione ottomana e le relazioni locali del territorio

Più specificatamente la presenza di attori regionali nel territorio siriano deve rinvenirsi in ragione di alcune dinamiche dal punto di vista storico. Prima della dissoluzione dell’Impero Ottomano le province mediorientali erano determinate non solo da suddivisioni meramente amministrative quanto anche da alcune realtà informali. Attigue alle regioni dominate da Istanbul infatti vi erano delle subregioni che venivano gestite dalle élites locali e che possedevano una certa autonomia rispetto al governo centrale dell’impero perseguendo abitualmente i propri interessi politici ed economici e interagendo tra di loro. Citiamo come caso esemplificativo del fenomeno in questione le relazioni tra le città di Damasco e Aleppo con Nablus, oggi città della Cisgiordania. Allo stesso tempo nelle zone rurali i gruppi comunitari stanziati in prossimità del monte druso-maronita, nell’attuale stato libanese, intrattenevano i loro rapporti con i gruppi residenti nelle montagne alauite a est di Latakia, nell’attuale territorio siriano. Tuttavia la creazione degli stati nazionali non prese in considerazione né le suddivisioni amministrative né quelle informali, sia cittadine che rurali, preesistenti nell’area.

A ogni modo molte delle relazioni di cui sopra sono rimaste intatte anche a fronte delle suddivisioni coloniali dei territori dell’impero ottomano: basti pensare agli scambi commerciali che vi sono oggi tra la pianura di Hims in Siria e Hermel in Libano, o tra la città siriana di Dara’a e quella giordana di Mafraq.

Le comunità locali sono in ogni caso ancora oggi consapevoli della sovrapposizione tra la realtà nazionale e quella locale caratterizzata dalla reciprocità con altre realtà dell’area mediorientale.

Tali comunità locali sono solite riferirsi all’una o all’altra a seconda degli interessi in gioco.

Con riferimento al conflitto in corso in Siria queste duplici dimensioni spiegano le ragioni per le quali molti miliziani sciiti, provenienti dall’Iraq, siano andati a combattere in Siria tra le milizie leali al governo di Assad sulla base di una presunta necessità di proteggere i luoghi santi sciiti dagli attacchi violenti della comunità sunnita. Stesso fenomeno si può considerare rispetto alle forze di opposizione sunnite al regime di Damasco nelle quali, dopo pochi mesi dall’inizio del conflitto, sono confluiti i militanti estremisti islamici provenienti da altri paesi del Medioriente per compiere il jihad che tuttavia non aveva alcun apparente legame con le proteste del 2011 da parte delle forze di opposizione contro Assad.

Protagonisti, accordi internazionali e…

Le potenze internazionali nel conflitto siriano riconducibili a strategie statali attualmente sono in particolare: l’Iran e la Russia a sostegno delle forze governative di Assad, la Turchia che combatte a favore di alcune delle forze ribelli che operano nel Nord del paese e gli Usa a supporto delle milizie curde. Quello che appare chiaro è che il governo del regime di al-Assad, così come d’altro canto le forze di opposizione, difficilmente possono attualmente determinare vittorie decisive nel conflitto in corso a loro favore senza l’appoggio delle potenze estere regionali del Medioriente e internazionali.

Tuttavia, a intervenire in Siria non vi sono solo attori regionali o internazionali – militari e politici statali – ma anche attori umanitari e militari internazionali non statali, nonché numerose ong straniere.

A tal proposito va menzionato il ruolo delle Nazioni Unite e specificatamente quello del Consiglio di Sicurezza – nel quale tra i membri permanenti vi è la Russia ma non la Turchia – nonché quello della Nato, nel quale invece tra i membri vi è la Turchia (dal 1952) e ovviamente non la Russia. Ricordiamo che Russia e Turchia sono al momento le due principali potenze straniere presenti nel paese. Inoltre la missione Onu di supervisione delle Nazioni Unite in Siria istituita dalla Risoluzione n. 2043 del Consiglio di Sicurezza del 21 aprile 2012 venne sospesa nel giro di pochi mesi. In tale conflitto l’Onu più volte è uscita sconfitta dal suo ruolo di risolutore pacifico. Al riguardo, occorre invece soffermarsi sul Processo di Astana nel quale le Nazioni Unite svolgono un ruolo di osservatore permanente.

Il processo di Astana è un processo finalizzato all’instaurazione di un sistema di pace in Siria siglato da Turchia, Russia e Iran – complementare a quello ufficiale dell’Onu a Ginevra – iniziato a dicembre del 2016 con i negoziati nella capitale del Kazakhistan, grazie all’iniziativa diplomatica dei suddetti paesi, dopo l’intervento armato della Russia e al fine di realizzare gli obiettivi della risoluzione n. 2254 delle Nazioni Unite con la quale sono state tracciate le linee guida verso una transizione politica del conflitto guidata dagli stessi siriani. Tale accordo nel 2017 ha portato alla definizione di quattro zone di “de-escalation” del conflitto. L’accordo avrebbe dovuto coinvolgere a partire dal 2018 (Accordo di Sochi) insieme ai diplomatici delle tre nazioni, anche i rappresentanti del regime di al-Assad e una parte delle forze di opposizione, ma, come detto in precedenza, l’accordo è stato più volte violato nel 2019 dalle potenze contraenti.

… ripartizione in 4 zone di controllo

Il 5 marzo del 2020 Mosca e Ankara – sempre all’interno del processo di Astana – hanno raggiunto un’altra importante intesa che prevede una zona di sicurezza lungo l’autostrada M4 che congiunge Aleppo alla costa e rispetto alla quale viene garantito il pattugliamento da parte di militari russi e turchi. Il 16 febbraio del 2021 si è siglato un ulteriore accordo tra le parti sempre in linea con lo spirito del Processo di Astana avente come oggetto l’elaborazione di una costituzione per il dopoguerra, la transizione politica nel paese nonché il ritorno in sicurezza dei rifugiati.

Tutto ciò premesso, si può affermare che nell’ultimo anno il conflitto siriano non si è caratterizzato per interventi militari dispiegati su larga scala da parte di tutti gli attori presenti nelle aree sotto il controllo del regime, ma il paese rimane comunque intrappolato nel conflitto armato per i continui scontri nell’area a Nordovest e di quella a Nordest, ossia due delle tre zone che costituiscono oggi la ripartizione del paese nelle cosiddette “Sirie”. Come accennato dunque occorre far riferimento per un’analisi degli accadimenti bellici più recenti – ossia quelli dal 2020 a oggi – a questa ripartizione geografica, analizzando contestualmente le azioni militari più rilevanti di ogni singolo attore regionale e internazionale presente in Siria che, come detto, sono i principali fautori delle dinamiche del conflitto iniziato nel 2011.

1) I recenti sviluppi nella zona sotto il controllo governativo e il Sud del paese:

Russia e Israele in Siria

Con lo Stato d’Israele il 18 febbraio 2021 il presidente Bashar al-Assad ha raggiunto un’intesa relativa allo scambio di prigionieri, un israeliano e due siriani, in conseguenza di negoziati condotti dalla Russia. Secondo alcune fonti israeliane, inoltre, sempre nel mese di febbraio del 2021 il premier Benjamin Netanyahu e il presidente Vladimir Putin hanno tenuto colloqui telefonici nel corso dei quali Tel Aviv avrebbe chiesto a Mosca l’assistenza per le questioni “umanitarie” riguardanti la Siria. Poco dopo la notizia della liberazione degli ostaggi da entrambe le parti è stato anche comunicato che il consigliere per la sicurezza israeliano si era recato a Mosca per una visita diplomatica. Non si comprende bene se questo possa essere considerato un primo passo verso un tentativo di ristabilire un rapporto di fiducia con la Russia:

in realtà passare da intese a livello umanitario a possibili intese tra le due nazioni sul piano militare risulta a oggi molto difficile, considerata la presenza regionale iraniana nel conflitto alla base dei continui attacchi israeliani, prevalentemente raid missilistici, nei territori siriani come avvenuto di recente.

Il 22 aprile 2021 nel Sud di Israele è esploso un missile terra-aria al quale Tel Aviv ha risposto con il lancio di raid aerei contro obiettivi in prossimità della capitale Damasco come aveva già fatto in passato: l’attacco siriano poiché realizzato in un’area vicino al reattore nucleare di Dimona aveva suscitato preoccupazione nello stato israeliano.

Successivamente però è stato accertato che il missile proveniente dalla Siria non era frutto di un intervento militare deliberato contro il territorio israeliano ma si trattava – secondo “The Time of Israel” – di un missile antiaereo vagante lanciato come reazione contro un caccia israeliano, durante uno scontro aereo tra i due paesi avente a oggetto alcuni obiettivi nelle Alture del Golan. Inoltre è stato successivamente precisato che il missile non ha colpito il reattore, avendo interessato un’area a 30 chilometri di distanza dallo stesso.

Iran e Israele in Siria

Le tensioni tra Israele e Iran si sono intensificate recentemente sia a causa della decisione iraniana di proseguire le ricerche del processo di arricchimento dell’uranio al 60 per cento – il livello più elevato finora raggiunto – sia per l’incidente presso l’impianto nucleare iraniano a Natanz del quale Israele ritiene responsabile l’Iran. In precedenza, Israele nel conflitto siriano si è più che altro resa responsabile di attacchi missilistici contro il gruppo libanese Hezbollah – alleato dell’Iran – cercando in ogni modo di evitare l’inserimento iraniano nelle fazioni militari presenti nel territorio siriano.

Israele percepisce l’Iran come una minaccia alla propria esistenza nell’area mediorientale. Le dichiarazioni del capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Aviv Kochavi rilasciate nel 2021 e riprese da Reuters, sono state chiare: «Gli attacchi missilistici israeliani nel 2020 sono riusciti a evitare il trinceramento dell’Iran in Siria, ma abbiamo ancora molta strada da fare».

Il ministro degli Esteri iraniano ha replicato che Teheran continuerà la sua politica di resistenza contro il potere statunitense e israeliano nella regione mediorientale.

Dal 2020 a oggi gli attacchi israeliani, tuttavia, non si sono più limitati alle Alture del Golan o nella parte della Siria meridionale – al confine con lo Stato d’Israele – o vicino Damasco ma, come vedremo, anche verso Nordovest contro la città di Aleppo, quella di Hama, al confine con l’Iraq, e a Homs. Un esempio di questo espansionismo militare israeliano è l’attacco missilistico dello scorso 5 maggio verso Latakia.

Va invece qui menzionato l’attacco avvenuto 24 ore dopo, ossia il 6 maggio 2021, da parte di Israele contro il governatorato di Quneitra a Sudovest della Siria: gli obiettivi del raid israeliano, secondo gli attivisti umani presenti nella zona, sarebbero state le postazioni e le truppe a sostegno del governo di Assad.

L’Isis invece è riuscito a stabilire nel 2021 una sua roccaforte nella regione di Badia collocata in una zona desertica che va dal Sudest al Nordest del Paese difficilmente raggiungibile da carri armati o aerei da guerra da parte delle forze lealiste che proprio da qui subiscono gli improvvisi attacchi del gruppo terrorista.

2) I recenti conflitti nella Zona a Nord e Nordovest del paese:

Accordi e interessi contrastanti nel Gruppo di Astana

Il 5 maggio del 2021 le forze di difesa siriane hanno intercettato un attacco missilistico di Israele contro diverse aree a nordovest della Siria, e uno dei missili, ha causato un morto e sei feriti. L’esercito siriano ha dichiarato di essere riuscito ad intercettare più missili israeliani. Più precisamente alcuni di questi hanno colpito la città di Latakia, Hifa e quella di Maysaf. Secondo alcune fonti delle intelligence occidentali l’intento di Israele sarebbe quello di colpire obiettivi legati all’Iran e presenti in Siria. L’Iran infatti sostiene le milizie di Hezbollah che in Siria controllano non solo le aree meridionali e orientali, le zone di frontiera tra Siria e Libano e alcune aree intorno a Damasco, ma anche zone a Nordovest. A loro volta i militanti di Hezbollah sostengono le forze militari del regime di Assad.

La Russia già nel 2020 si è assicurata una presenza importante nel porto siriano di Tartus e ha mantenuto il suo quartier generale presso l’aeroporto tra Jabla e Latakia, ma deve prestare attenzione continuamente al suo alleato (vedi processo di Astana) e, allo stesso tempo, rivale turco in quanto milizie filoturche in Siria sono di fatto fortemente contrastate dalle forze siro-iraniane e da quelle russe.

Nell’area, a causa della scarsità di risorse finanziare, determinata dalla crisi economica sono diminuite le risorse a disposizione anche del governo di Damasco che si è fortemente indebolito. Tale indigenza ha prodotto delle conseguenze anche sul piano militare determinando una temporanea interruzione dell’intervento delle forze lealiste verso le altre zone (Nordovest e Nordest) che ancora sfuggono al controllo di Assad. Non solo, ma la zona è stata interessata dall’accordo del 5 marzo del 2020 tra Turchia e Russia che ha stabilito il “cessate il fuoco” nella provincia di Idlib e una zona “cuscinetto” – pattugliata dalle forze militari di entrambi i paesi – lungo l’autostrada M4 che congiunge Aleppo a Latakia. Tuttavia nel febbraio del 2021 ancora non era stata riaperta la strada internazionale M4 e i pattugliamenti russi e turchi sono stati spesso ostacolati da gruppi militanti locali costituiti anche da alcuni gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda.

Il nodo jihadista

In conseguenza di tale accordo infatti si è sollevata una parte della popolazione locale che teme un’ulteriore avanzata delle forze lealiste nell’area; invece la coalizione filoturca del Fronte Nazionale per la Liberazione componente dell’Esercito nazionale siriano ha sostenuto l’accordo. Tuttavia, non sono mancati anche gli scontri diretti tra Russia e Turchia come quello compiuto nella giornata del 26 ottobre del 2020 dal governo siriano di Damasco e dalla Russia in una zona al confine tra Siria e Turchia, più precisamente nell’area di Jabal al Dweila nella quale moltissimi siriani sfollati si erano rifugiati.

Alla base della decisione dell’attacco vi sarebbe la volontà di Mosca di colpire uno dei principali gruppi armati sostenuto da Erdoǧan con un intento chiaramente ammonitivo nei confronti della Turchia.

Médecins sans frontières ha dichiarato tale evento fortemente preoccupante per i 78 morti e i numerosi feriti e per il fatto che l’attacco sia stato compiuto in una zona relativamente sicura che tuttavia già il 21 ottobre 2020, era stata oggetto dei bombardamenti in particolare nei villaggi di al-Magarah e di al-Rami occupati dal gruppo islamista militante Hts ossia Hayat Tahir al-Sham – un tempo legato ad al-Qaeda e, come detto sopra, dal Fronte nazionale di liberazione.

Quello del 26 ottobre è stato l’attacco più violento dall’entrata in vigore del cessate il fuoco nel marzo dello stesso anno. Anche nel marzo del 2021 sono aumentati in modo esponenziale gli attacchi da parte delle forze militari che sostengono il regime: in particolare è stato colpito un ospedale presso al-Atarib nei pressi di Aleppo, sono stati sferrati attacchi missilistici da parte dei russi, nella zona al confine con la Turchia, più precisamente in prossimità di Bab al-Hawa. Nel Nord della Siria al momento vi sono circa 60 postazioni militari turche stanziatesi sul territorio proprio in conseguenza dell’intesa tra Mosca e Ankara, in particolare a Idlib, ad Aleppo, a Hama e anche a Latakia.

Va precisato che nell’area l’Hts ha un ruolo prevalente e, dopo alcune tensioni con le forze militari turche, ha adottato un atteggiamento maggiormente distensivo nei confronti della Turchia non manifestato da parte di altri gruppi ancora affiliati ad al-Qaeda in particolare dal gruppo Tanzim Hurras al-Din che invece ha abbandonato l’Hts. Tali gruppi jihadisti estranei a Hts sono divenuti autori di diversi attacchi nell’area Nordovest del paese sia contro le truppe turche che contro quelle russe. In risposta il gruppo Hts nel 2020 ha sferrato una violenta offensiva contro il gruppo Tanzim Hurras al-Din e gli altri gruppi affiliati ad al-Qaeda.

Anche nel 2021 il gruppo HTS ha continuato a colpire le cellule di al-Qaeda presenti nel paese cercando di consolidare maggiormente la propria posizione nella provincia di Idlib, sia per assicurarsi il riconoscimento del ruolo di valido interlocutore locale da parte della Turchia, sia per dimostrare chiaramente di prendere le distanze dagli atti violenti compiuti dai militanti jihadisti d’ispirazione qaedista anch’essi nell’area.

Tuttavia il 12 aprile 2021 le forze militari siriane insieme a quelle russe hanno lanciato decine di raid dalla mattina contro le postazioni del sedicente Stato Islamico: in particolare a Nordovest nelle regioni di Hama e Aleppo. È dall’inizio del 2021, infatti, che l’organizzazione terroristica IS ha continuato ad attaccare l’esercito governativo causando vittime tra le milizie locali e, nonostante le attività di reazione militare poste in essere da Damasco e Mosca, le cellule del sedicente Stato Islamico continuano a permanere nel territorio siriano a Nordovest in particolare nei governatorati di Hama e Homs ma anche, come vedremo in seguito, a nordest a Raqqa e Dayr az Zawr.

Va precisato che l’offensiva delle forze governative e russe nel Nordovest si è verificata in conseguenza di un rapimento di 19 siriani, 11 civili e 8 agenti di polizia, in seguito a un attacco dell’IS, il 16 aprile del 2021 nella regione di Hama, mentre altre 40 persone risultano al momento disperse.

Gli scontri caratterizzati da lancio di missili e attacchi aerei dei gruppi armati locali quali Russia, Turchia, Hts (IS) e gruppi legati ad al-Qaeda continuano quindi a mettere a dura prova la popolazione civile.

3) I recenti conflitti nella Zona a Nordest del paese:

Zona controllata dai curdi: Pyd, Ypg/Ypj, Fds

L’area del Nordest è governata dall’Amministrazione autonoma del Partito dell’Unione democratica curda (Pyd) la cui ala militare è rappresentata dall’Ypg/Ypj, ossia dall’Unità di protezione popolare. Come accennato, in quest’area, più specificatamente nella parte compresa nella regione desertica della Badia, sono fortemente presenti le forze del sedicente Stato Islamico autrici di continui attacchi contro le Forze democratiche siriane (Fds), coalizione a guida statunitense comprendente le milizie governative ma soprattutto le forze curde dell’Ypj/Ypg.

L’IS in questo periodo sta portando avanti una guerriglia sia con le Sdf che contro le milizie filogovernative cercando in ogni modo di destabilizzare l’area e dimostrare che il regime non ha il controllo del territorio. Tuttavia, a marzo del 2021 alcuni jet russi hanno bombardato delle postazioni del sedicente Stato Islamico nella campagna di Hama, e nelle aree desertiche nelle quali il gruppo estremista è stanziato da diverso tempo, mentre lo scorso aprile un raid areo russo ha causato la morte di 200 terroristi nella regione.

Altra formazione estremista jihadista dell’area è il succitato gruppo legato ad al-Qaeda Tanzim Hurras al-Din responsabile nel 2021 di un’offensiva militare ai danni delle milizie russe nella campagna di Raqqa. Infine, sempre nel Nord-Est è divenuta preponderante la presenza della Turchia che ha stretto sotto il proprio controllo alcune importanti città precedentemente sotto l’amministrazione autonoma, come quella di Afrin, e che ostacola militarmente le forze dell’Ypj/Ypg per la loro attiguità con l’ideologia del Pkk – Partito dei lavoratori del Kurdistan – qualificato dalla Turchia ma anche da Stati Uniti e Unione Europea come organizzazione terroristica.

United States are back

Rispetto agli Usa va ricordato che la prima operazione militare del neoeletto presidente Biden nel 2021 è stata quella in Siria del 25 febbraio contro le postazioni delle milizie filoiraniane al confine con l’Iran; il Pentagono ha dichiarato che l’azione militare è stata compiuta come reazione al raid missilistico del 15 febbraio che ha ucciso un contractor e ha ferito militari statunitensi negli avamposti americani del Kurdistan iracheno, azione che sarebbe stata rivendicata da una milizia irachena legata all’Iran. Il Pentagono ha poi riferito che il presidente agirà nell’area per proteggere il personale della coalizione americana.

Il ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria, fortemente promosso dall’amministrazione Trump è in fase di arresto con Biden.

Come nel caso dell’amministrazione Trump, Biden però non intende prendere parte alla destituzione del regime che garantisce la stabilità nell’area mediorientale, quindi da un lato gli Stati Uniti continuano a bloccarlo economicamente per indebolirlo, attraverso l’applicazione delle sanzioni Caesar, dall’altro danno la possibilità ad Assad attraverso la Russia di uscire dal conflitto, sempre tenendo sotto controllo Teheran e il programma sul nucleare.

Rojava e Kurdistan iracheno

Gravi tensioni si sono registrate nella zona del Nordest nello scorso anno, con l’accerchiamento delle città di al-Qamshli e di al-Hasaka, da parte delle Forze Democratiche, già sotto il controllo dell’Amministrazione autonoma curda, disconosciuta da Damasco e guidata dal Democratic union party (Dup). Nell’area persistono anche nel 2021 violenti scontri tra le milizie filogovernative ossia le Forze nazionali di difesa (Ndf) con le Forze democratiche siriane (Fds) a maggioranza curda.

Occorre altresì tener conto degli attacchi tra le Fds e le milizie filoturche: le Fds temono che la Russia e il regime possano giungere a un accordo che implichi la loro espulsione dalla zona. In particolare, il 20 aprile 2021 un veicolo delle Ndf è stato attaccato dalle forze di sicurezza curde Asayish (forze di sicurezza della coalizione delle Fds) e gli scontri si sono protratti in modo così violento da richiedere l’intervento della Russia come mediatore.

Il 26 aprile è stato quindi raggiunto un accordo secondo il quale le forze curde Asayish sono riuscite a ottenere l’allontanamento delle Ndf filogovernative da alcuni quartieri delle città di al-Qamshli e al-Hasaka nelle quali comunque il potere è ancora ripartito tra il regime di Assad e le Fds.

Il 5 marzo 2021 il Ministero della Difesa americano ha dichiarato che la presenza militare russa in Siria viola «il meccanismo di distensione del conflitto» non attenendosi agli accordi stretti con la colazione delle Fds per il contenimento degli scontri nell’area. Ciò risulta particolarmente pericoloso in quanto già nel 2020 si era giunti a uno scontro diretto tra militari russi e statunitensi. Alle accuse portate avanti dal Ministero della Difesa Usa tuttavia la Russia ha risposto affermando che la presenza militare statunitense nel Nordest del paese è illegale e ha dichiarato che «Washington non ha il diritto di criticare l’attività militare legale delle forze armate russe in Siria» in quanto operano «in accordo con il governo del paese».

Ultima questione da analizzare nell’area è quella del campo di al-Hawl nel Nord della Siria al confine con l’Iraq nel quale vivono circa 70.000 persone tra cui circa 11.000 familiari di presunti membri dell’IS: al momento 50.000 membri delle Forze curde sono impegnate in un’operazione di sicurezza volta ad arrestare sostenitori dell’IS nel campo profughi di al-Hawl.

Russia vs. Turchia / Iran vs. Israele

In conclusione le nuove situazioni che oggi preoccupano maggiormente sono: il possibile definitivo deterioramento dei rapporti tra Russia e Turchia rivali tra di loro ma finora sempre scesi a patti; tuttavia, dallo scorso anno i rapporti tra le due potenze si sono resi sempre più logori anche perché la Turchia ha deciso di assumere un ruolo strategico anche in Ucraina contro le milizie filorusse. Se nell’ultimo periodo Mosca aveva annunciato la riapertura dei valichi di frontiera tra le zone sotto il controllo dell’opposizione e quelle sotto il controllo del regime, per alleviare anche la crisi economica in cui si trova il paese, la Turchia ha smentito seccamente tali dichiarazioni.

Altro problema è il possibile affronto militare diretto tra Iran e Israele.

lo scontro tra i due paesi si è ulteriormente esacerbato come abbiamo visto dopo il ritrovamento del missile a Dimona nel quale si trova l’impianto nucleare israeliano. Infine, il governo è ormai arrivato a un tal punto di dipendenza sia dalla Russia che dall’Iran che sarà difficile continuare a sostenere le spese derivanti da tale sostegno in ambito militare, finora mantenuto grazie alla presenza di posti di blocco che estorcono denaro alla popolazione locale senza prospettare un sistema di erogazione di risorse pubbliche a beneficio dei principali alleati nel conflitto.

Un’altra Primavera?

Rispetto a quanto finora riportato si può affermare dunque non solo che il conflitto è tutt’altro che concluso ma che tra circa un decennio si potranno presentare nuovamente i moti del 2011, data la condizione nella quale si trova attualmente il paese: a protestare saranno individui nati e cresciuti durante il conflitto armato, vissuti in condizioni di indigenza, e che non hanno avuto acceso ad alcun tipo d’istruzione.

 

una nuova Primavera araba?

Una generazione abituata a combattere e sopravvivere (foto Mohammad Bash).

Appare così inevitabile prima o poi lo sgretolamento effettivo del regime oggi fortemente depotenziato e tenuto in vita da altre forze internazionali e regionali.

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n. 8 – Siria (I): la precarietà dei siriani accolti in altri paesi https://ogzero.org/diaspora-biblica-siriana-e-la-precarieta-dei-profughi-accolti-in-altri-paesi/ Fri, 21 May 2021 12:17:27 +0000 https://ogzero.org/?p=3516 Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella […]

L'articolo n. 8 – Siria (I): la precarietà dei siriani accolti in altri paesi proviene da OGzero.

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Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe umanitaria che ha fatto seguito allo scatenarsi del conflitto siriano dell’ultimo decennio.

Analizzeremo dapprima nel presente articolo le condizioni attuali di siriani ormai integrati in realtà esterne al paese ai quali ora viene chiesto di rimpatriare, rischiando ritorsioni, torture… la vita e rinunciando alla nuova esistenza costruita faticosamente in esilio. L’analisi proseguirà nei prossimi articoli seguendo un percorso parzialmente a ritroso: le elezioni del 26 maggio, con una disamina della condizione economica e umanitaria in cui si sono svolte; la specificità della Primavera araba nelle diverse regioni siriane, anche collegata alla particolare peculiarità del regime alauita della famiglia al-Assad; le fasi della politica di Bashir – fino alla Primavera araba e dal 2011 in avanti.


n. 8, parte I

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il conflitto siriano: la precarietà dei siriani accolti in altri paesi

Per l’analisi del conflitto siriano, per capire quanto esso possa dirsi risolto o perdurante, è inevitabile guardare alle condizioni della popolazione civile avendo assunto tale conflitto, a dieci anni dal suo inizio, i caratteri di una vera catastrofe umanitaria con 12 milioni e mezzo di persone che necessitano di assistenza, più di 500.000 vittime e circa 7 milioni di sfollati interni al paese, il più alto numero al mondo, e più di 6 milioni di persone fuggite dal conflitto; gli sfollati e i profughi rappresentano circa un terzo dell’intera popolazione siriana. Stiamo parlando di dati, quindi di numeri? No. Oltre al contesto geopolitico attuale a essere importanti vi sono le vicende di ogni individuo, adulto o minore – accompagnato o meno; anche perché tra questi individui ce ne sono alcuni in fuga ancora oggi, così come nel corso degli ultimi dieci anni, che raggiungono l’Italia in situazioni disperate, o l’Europa, o ancora altri paesi della regione mediorientale come il Libano, la Turchia, la Giordania e l’Iran. Persone che hanno tentato con tutte le loro forze di ricostruire la propria esistenza nei paesi di accoglienza e che nel corso degli ultimi anni spesso sono riuscite in questa complicatissima impresa esistenziale portando con sé nell’animo le immagini orride della guerra e delle loro passate esistenze ormai divenute un mero ricordo.

diaspora biblica

Il “fattore umano”

E ora?

E ora si sta chiedendo loro di ritornare di nuovo in Siria dopo circa dieci anni di integrazione fatta di apprendimento di nuove lingue, di acquisizione di un nuovo lavoro, di nuove relazioni sociali intessute e dopo un iter burocratico che li ha portati a conseguire permessi temporanei di soggiorno in altri paesi e, in Europa – nella quasi totalità dei casi – al raggiungimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria.

Si sta indirettamente però sostenendo a partire dalla scorsa estate, da parte dell’Europa, più precisamente dalla Danimarca, che in Siria non vi sarebbe più alcun rischio effettivo di subire un grave danno in particolare costituito dalla minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale (protezione sussidiaria) – né sarebbe più ravvisabile in molti casi ancora il timore fondato di essere perseguitato per uno dei cinque motivi individuabili nella Convenzione di Ginevra del 1951 (status di rifugiato).

Davvero?

Eppure si continua a parlare di crisi umanitaria nel paese: l’Unhcr considera lo scenario siriano ancora allarmante e le Nazioni Unite più in generale a oggi parlano con riferimento alla Siria di “situazione oramai alla deriva” fino alle affermazioni di uno dei suoi organi più importanti ossia il Consiglio di Sicurezza che ha anticipatamente delegittimato, a esclusione di Russia e Cina, qualunque risultato elettorale dovesse emergere dalle elezioni del prossimo 26 maggio.

Non solo, come vedremo in seguito, citando alcune Coi (Country Origin Information), sarà possibile per ogni lettore farsi un’idea se realmente la Siria odierna possa considerarsi un paese d’origine sicuro.

diaspora biblica

Vorrei quindi iniziare da alcune singole vicende umane di individui provenienti dal conflitto siriano, pur consapevole che secondo autorevoli autori in materia, la geopolitica deve essere sì definita come il “fattore umano” e non quindi come una sorta di meccanica che prescinde dall’uomo, ma allo stesso tempo debba soffermarsi non tanto nella considerazione dei singoli individui ma piuttosto sulle comunità ossia sui soggetti geopolitici; sono tali soggetti a fare la geopolitica: la pensano, la attuano o la cambiano ma senza le collettività, aventi un’idea della propria missione (o che dovrebbero averla) e aventi dei progetti sul territorio, non ci sarebbe la geopolitica.

Quindi ancora prima di concentrarci sulla comunità siriana e del suo senso di sé, derivante dalla sua storia, dalla demografia, fino alle dinamiche del conflitto in corso e sulle presenze internazionali in esso presenti e soffermandoci sugli altri aspetti qualitativi che descrivono il paese attualmente, ci concediamo questa licenza “tutta umana” di prendere spunto da individui come siamo noi che leggiamo o che scriviamo.

Forzature kafkiane del diritto

Un drammatico fenomeno surreale si è cominciato a registrare in Turchia a partire dal 2016 e già dallo scorso anno ha visto la Danimarca tra i primi paesi europei a imitare “l’esempio turco”, con le dovute differenze, ossia il rimpatrio forzato dalla Turchia in Siria e la detenzione di molti siriani in centri di espulsione in Danimarca nonostante il conflitto siriano sia ancora in corso.

Rimpatrio à la Turk

Una delle storie più note è quella di Anas Al Mustafa, 41 anni fuggito da Aleppo nel 2016 in conseguenza del conflitto armato in Siria e arrivato in Turchia nella città di Konya, città nella quale risiedevano alcuni suoi parenti. In questi anni si è registrato personalmente presso l’Unhcr, ha ottenuto documenti di soggiorno turchi, ha preso lezioni di turco; ha ottenuto un lavoro e conseguito la patente di guida. Ancora, Anas ha fondato successivamente una onlus denominata “A Friend Indeed” lavorando a fianco delle ong italiane e rumene fino ad arrivare ad avere donatori in tutto il mondo per fornire cesti mensili alle 175 famiglie sotto la sua cura soprattutto vedove e bambini, e pagando per loro l’affitto e le bollette. Oggi Anas tuttavia è assistito da avvocatesse italiane per quello che gli è accaduto nel 2020 e che continua ancora oggi per lui come per molti altri siriani in Turchia, come detto, a partire dal 2016.

A maggio del 2020 infatti è giunta la polizia turca presso l’abitazione di Anas, gli ha chiesto se avesse la cittadinanza turca e quando ha detto di esserne in attesa è stato invitato a seguire gli agenti. Da qui il dramma. La polizia una volta giunti in una loro stazione ha sottratto ad Anas i documenti di identità, il telefono e lo ha rinchiuso in una cella senza avere alcuna spiegazione, circondato da molti altri siriani detenuti e che come lui non sapevano cosa stesse accadendo e piangevano. In seguito, gli è stato imposto di firmare un documento con il quale acconsentiva alla sua espulsione dalla Turchia. Anas si è rifiutato ha chiesto quale fosse il reato di cui era accusato e non ha avuto risposte, ha chiesto di contattare un avvocato e l’Unhcr e gli è stato negato. È stato detenuto in prigione per altri sei giorni e quindi è stato minacciato dagli agenti di Polizia turca che se non avesse firmato il provvedimento di espulsione lo avrebbero inviato in un campo profughi in Siria o lo avrebbero trattenuto in prigione. Otto giorni dopo il suo arresto ha firmato il provvedimento ed è stato portato al confine ricevendo un secco rifiuto alla sua richiesta di ottenere una copia del documento di espulsione e gli agenti lo hanno affidato a un centro di isolamento in Siria.

diaspora biblica

Anas Al Mustafa, profugo scampato nel 2016 all’inferno di Aleppo, rimpatriato dalla Turchia e collocato in un centro di isolamento in Siria

Dal centro Anas dopo qualche giorno, per la paura, è fuggito nascondendosi da alcuni suoi amici a Idlib nel Nordovest della Siria; si è sentito in pericolo sia perché è a capo di un’organizzazione umanitaria sia perché sostiene che chi ha accesso alla valuta occidentale è un nemico per il suo paese e infine per il fatto di essersi rifiutato più volte in passato di prendere le armi nel conflitto siriano e per conto del governo di al-Assad e per le forze di opposizione: a chi di competenza le valutazioni in merito al fondato timore nel caso specifico di ritornare nel paese di origine (la Siria) – uno dei requisiti fondamentali alla base del riconoscimento dello status di rifugiato così come definito dalla Convenzione di Ginevra.

Al riguardo per un ulteriore approfondimento si veda anche il Report dell’Easo – Syria Military service (Coi) dell’aprile del 2021 sull’introduzione della coscrizione obbligatoria dei siriani per gli uomini, dai 18 ai 40 anni nelle truppe governative tenendo in considerazione che i disertori e gli obiettori di coscienza potrebbero essere considerati come appartenenti a un determinato “gruppo sociale” ossia uno dei cinque motivi alla base della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato.

Un amico di Anas, in seguito alla sua fuga in esito alla deportazione in Siria, è stato rapito ed è stato messo in rete un video che lo ritraeva mentre veniva torturato chiedendone il riscatto; Anas ancora oggi non ha notizie su dove si trovi il suo amico.

Anas ha dunque deciso di tornare in Turchia attraverso dei trafficanti, camminando per più di un giorno di nuovo in direzione di Konya, continuando a nascondersi. Un’avvocatessa italiana, titolare di uno studio di diritto Internazionale, ha deciso di rappresentarlo gratuitamente con altre sue colleghe ma finora ogni tentativo legale, compreso quello dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, non può determinarsi perché è in corso ancora il giudizio turco attualmente in Appello nei suoi confronti per un non meglio precisato reato.

Inoltre, come detto, non vi è alcun provvedimento che attesti la sua espulsione dal territorio turco. La stampa sta cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla sua vicenda e Anas continua a nascondersi e ha paura che in questo modo potrebbero essere deportati anche i suoi amici che continuano a ospitarlo di nascosto.

Non c’è più rifugio in Danimarca

Per quanto riguarda i paesi dell’Unione europea, in particolare occorre soffermarsi sulla Danimarca che recentemente ha messo in atto i procedimenti di revoca dei permessi di soggiorno dei siriani sostenendo che Damasco e alcune regioni limitrofe sono al sicuro: è chiaro che continuando a raccontarsi cose non reali si finisce col crederci (forse) ma si perde la stima degli individui e ciò nonostante con riferimento alle politiche di accoglienza dei rifugiati la Danimarca conosca trascorsi esemplari. La Danimarca attualmente accoglie circa 35.000 siriani.

Faeza Satouf guarda la foto che la ritrae nel giorno del diploma a Nivaa_21-04-2021

Faeza Satouf guarda la foto che la ritrae nel giorno del diploma a Nivaa (21 aprile 2021).

Una delle storie in questo caso è quella di Faeza Satouf anche lei siriana riconosciuta rifugiata dalla Danimarca nel 2015, rischia ora la revoca dello status di residenza temporanea danese legato al riconoscimento della protezione internazionale. Dal suo arrivo in Danimarca ha imparato il danese, si è diplomata e ha ottenuto un impiego in un supermercato. Secondo le autorità danesi nel suo caso il fondato timore non esisterebbe più perché, non essendo un uomo, non le verrebbe chiesto di arruolarsi nelle milizie governative. La sussistenza del fondato timore nel suo caso verrebbe esclusa nonostante il padre sia ben noto alle autorità siriane e ricercato in Siria. Al riguardo si analizzi anche il Rapporto di Human Rights Watch (Coi) sulle detenzioni arbitrarie in aree che prima erano dominate dai ribelli che in seguito hanno firmato accordi con il regime di Damasco.

Diversamente dalla Turchia, la Danimarca però non ha relazioni diplomatiche con la Siria e quindi dopo la revoca della “protezione di residenza temporanea” i siriani non vengono deportati al confine con la Siria ma vengono inseriti in centri di detenzione come quello vicino a Copenaghen indotti in questo modo inevitabilmente a fuggire in altri paesi europei in particolare in Svezia e in Germania. Si stima che circa 30 rifugiati siriani in Danimarca abbiano ricevuto in seguito alla richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno temporaneo la sentenza di rigetto della Corte d’Appello.

Modello danese, una tentazione di pericolosa emulazione per la Germania

La situazione è grave, soprattutto se altri paesi europei decideranno di imitare quanto sta avvenendo in Danimarca. Come noto la Germania è il paese europeo che detiene il maggior numero di profughi siriani, provenienti soprattutto dalla rotta balcanica, avendo aperto, tra il 2015 e il 2016, le proprie frontiere a 1,2 milioni di rifugiati siriani. A riguardo è importante riflettere che oggi sia i corridoi umanitari che i reinsediamenti (resettlement) devono essere considerati come dei canali di immigrazione regolari e sicuri. In particolare il reinsediamento è considerato uno strumento di protezione internazionale in grado di poter ridurre il traffico di esseri umani dalle zone di guerra e che al contempo concede agli stati la possibilità di stabilire, su base volontaria, quanti rifugiati accogliere all’interno del proprio territorio.

Va tuttavia sottolineato che ancora oggi la quasi totalità delle domande di reinsediamento provengono dall’area Mena (Middle-Est e Nord Africa) da parte di molte persone che hanno ottenuto l’asilo all’estero nei campi profughi dove però non godono di condizioni di sicurezza e del pieno godimento di loro diritti in qualità di rifugiati. Al momento sono ancora oggi i siriani a presentare il maggior numero di richieste di reinsediamento.

Questo tuttavia è avvenuto in Germania prima dell’accordo con la Turchia per bloccare il flusso dei migranti dell’Ue, ormai noto, stipulato nel 2016 e del quale ci occuperemo in seguito soffermandoci sul fenomeno dell’esternalizzazione delle frontiere.

La cosiddetta "Partenza volontaria"

Duldung

A distanza di circa sei anni il 75 % dei rifugiati in Germania è riuscito a trasferirsi dai centri gestiti dal governo in appartamenti privati, il 60% ha ottenuto a distanza di più di 5 anni un lavoro in Germania. Tuttavia, esiste una diversa condizione dei migranti accolti in Germania in particolare richiedenti asilo la cui domanda non è stata accolta e ha ottenuto il cosiddetto status di Duldung (“tollerato”) che non dà loro il diritto di rimanere in Germania ma al contempo non li rende suscettibili di espulsioni immediate.

Tale status consente loro di lavorare o di svolgere tirocini, alcuni invece non hanno nessuno ”status” in esito al respingimento della loro domanda di protezione internazionale: in quest’ottica si auspica che in sede della richiesta di rinnovo dei permessi di soggiorno, rilasciati in esito al riconoscimento della protezione internazionale, i siriani non subiscano lo sconfinamento – per una presunta risoluzione del conflitto siriano come è avvenuto in Danimarca – in tali altre categorie prive di una tutela pari a quella assicurata ai titolari di protezione internazionale, più specificatamente, con riferimento allo status di rifugiato a quella costituita dal principio di non respingimento.

Credo sia intuibile comprendere cosa questo possa comportare in ambito giuridico, stante la permanenza dei criteri del Regolamento di Dublino che restano pressoché invariati nel loro impianto fondamentale anche nel Nuovo Patto Europeo sulla Migrazione e l’Asilo del 23 settembre 2020 proposto dalla Commissione Europea: si sta giocando con gli individui che rischiano di essere “palline da ping pong” tra paesi europei che non sempre sono “giocatori leali” non solo nei confronti dei migranti – anche richiedenti asilo – mentre compiono il loro viaggio per approdare in prossimità dei confini europei, ma ora anche quando gli stranieri – pur titolari di protezione internazionale – hanno compiuto dei virtuosi processi di integrazione individuale nei paesi di accoglienza.

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Biden Aggiustatutto: “Can you fix it?” https://ogzero.org/gatte-da-pelare-per-biden/ Thu, 28 Jan 2021 11:53:53 +0000 http://ogzero.org/?p=2325 Joseph Robinette Biden Jr., meglio noto come Joe Biden, è il 46º presidente degli Stati Uniti d’America dal 20 gennaio 2021. Si chiude o si interrompe l’epoca dell’amministrazione bizzarra guidata dall’imprenditore Donald John Trump. La vittoria elettorale, anche se non schiacciante, di Biden, soprattutto con la maggioranza in entrambe le Camere, sembra che porterà il […]

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Joseph Robinette Biden Jr., meglio noto come Joe Biden, è il 46º presidente degli Stati Uniti d’America dal 20 gennaio 2021. Si chiude o si interrompe l’epoca dell’amministrazione bizzarra guidata dall’imprenditore Donald John Trump.

La vittoria elettorale, anche se non schiacciante, di Biden, soprattutto con la maggioranza in entrambe le Camere, sembra che porterà il vento del Partito democratico 2.0 in terra americana.

A questo punto le relazioni tra i due storici alleati della Nato, Ankara e Washington, molto probabilmente subiranno dei cambiamenti.

Trump loved Erdoǧan

In questi ultimi quattro anni, la sempre più diffusa politica del post truth mescolata a una notevole crescente cultura razzista e militarista ha scombussolato radicalmente la politica interna degli Usa. Contemporaneamente la figura del “one man” o “ghe pensi mi” di Trump ha fatto sì che la sua personalità schiacciasse anche la consolidata e forte cultura istituzionale statunitense in politica estera.

Sicuramente, sia per via dell’età di Biden sia per la sua posizione e cultura politica, in questa nuova fase gli Usa assumeranno un atteggiamento ben diverso rispetto all’amministrazione uscente e questo cambiamento avrà effetto anche nei confronti di quegli alleati che, da tempo, governano i loro paesi un po’ come faceva Trump negli Usa.

In un suo articolo di approfondimento, Carl Bernstein, giornalista statunitense di Cnn, il 30 giugno del 2020, specificava che il presidente della Repubblica di Turchia, in certi periodi chiamava Trump al telefono anche due volte a settimana e qualche volta anche mentre giocava a golf. Secondo Bernstein questo è un esempio significativo di come Trump abbia calpestato spesso varie prassi diplomatiche.

Da questo punto di vista questi due leader, molto carismatici e altrettanto pragmatici, si assomigliano molto. Erdoǧan, anche grazie al sistema presidenziale introdotto con il referendum del 2017, ama (è obbligato) a concentrare un po’ tutto sulla sua figura. Erdoǧan “si intende” di istruzione, sanità, tatuaggi, religione, politica estera, parto, abbigliamento, edilizia, calcio, giornalismo, giustizia e persino demografia. Due maschi, bianchi e over 70, su certi argomenti molto lontani tra loro, si sono invece trovati molto bene nel coordinare una serie di affari e nascondere sotto il tappeto diversi temi fonti di conflitti importanti.

Quindi, molto probabilmente, Erdoǧan con l’arrivo di Biden non avrà più a Washington un presidente che gli sarà vicino con una telefonata in qualsiasi momento. Saranno gli assistenti del presidente o i ministri a occuparsi della Turchia, non sempre e direttamente il nuovo leader democratico.

La giustizia è un’opinione

Uno dei punti di cui la nuova amministrazione Usa deve occuparsi è il famoso e lungo processo anticorruzione che vede coinvolta la banca statale turca Halkbank e l’imprenditore turco-iraniano Reza Zarrab. Questi due soggetti sono accusati di far parte di un progetto di riciclaggio di denaro ed evasione fiscale che è stato utilizzato dalle istituzioni, banche e aziende turche, e non solo, per aggirare l’embargo statunitense imposto all’Iran.

Zarrab si trova negli Usa, sotto protezione, dal 2016 ed è ormai un collaboratore di giustizia. È difficile dimenticare la sua storica dichiarazione rilasciata nell’aula del tribunale, dopo aver disegnato e raccontato perfettamente questo progetto diabolico: «Di tutto questo era al corrente anche l’attuale presidente della Repubblica». Grazie alle dichiarazioni di Zarrab è stato arrestato e trattenuto in carcere l’ex direttore generale della Halkbank, Mehmet Hakan Atilla, nel 2017, per trentadue mesi.

Tra le accuse importanti attribuite a Zarrab, ad Atilla e al governo turco c’è anche quella di frode ai danni del sistema bancario statunitense.

Questo processo, apparentemente un valido motivo di conflitto tra gli alleati, invece era uno dei punti che accomunavano Trump ed Erdoǧan. Entrambi i leader hanno sempre provato palesemente a esercitare una notevole influenza sulla magistratura quindi mettendo in discussione la separazione dei poteri. Infatti Trump aveva provato a far dimettere Geoffrey Berman, il procuratore capo di New York che si occupava del maxiprocesso, e secondo alcuni giornalisti ed ex collaboratori del presidente tutto questo era per accontentare Erdoǧan, proprio come anche quest’ultimo spesso fa rifiutandosi, verbalmente e pubblicamente, di riconoscere non solo le decisioni della Cedu ma anche quelle della Corte Costituzionale della Repubblica di cui lui risulta tuttora il presidente.

Ci si attende, con l’insediamento di Biden, più spazio di manovra e libertà per la magistratura su questo maxiprocesso. Nel caso in cui venissero fuori dei dettagli più imbarazzanti ed evidenti non sarebbe fuori luogo pensare a una nuova ondata di sanzioni nei confronti della Turchia oppure di alcuni membri del governo.

Gli S-400, pomo della discordia

Uno dei punti dolenti tra gli storici alleati del Patto atlantico è stato l’acquisto nel 2017 da parte di Ankara del sistema antiaereo S-400, di nuova generazione e produzione moscovita.

Questa mossa ovviamente non era stata digerita da Washington: il secondo esercito più importante della Nato aveva deciso di investire in una tecnologia militare molto avanzata, comprandola proprio da uno dei suoi più importanti antagonisti. Mentre invece Ankara giustificava la scelta sostenendo che il sistema analogo, ma di produzione statunitense, le era stato negato dall’amministrazione Obama e quindi non aveva altra scelta, dovendo difendersi dalla minaccia costituita dalla guerra in Siria.

Dopo una serie di ultimatum e lievi minacce la Turchia è stata infine espulsa dal progetto di produzione degli F35 e nei confronti di Ankara sono state attivate, parzialmente, la sanzioni Caatsa. Tuttavia possiamo dire che le posizioni dell’ex presidente americano Trump non sono mai state abbastanza critiche in relazione alla questione.

Oggi, con l’amministrazione Biden, troviamo Tony Blinken sulla poltrona di ministro degli Affari esteri: quasi braccio destro di Obama per il Medio Oriente, uno degli esperti, in seno al Partito democratico, di politica estera.

Oltre questi dettagli biografici spicca senz’altro la dichiarazione last minute del nuovo ministro: «La Turchia è un nostro presunto alleato strategico ma non si comporta da vero alleato. Un alleato vicino a Mosca, che è il nostro più grande avversario strategico, non serve. Valuteremo le nuove sanzioni contro Ankara».

Pochi giorni dopo questa netta dichiarazione è risuonata una comunicazione del presidente della Repubblica di Turchia: «Siamo decisi a firmare un secondo accordo per il sistema S-400 con Mosca. Non so come accoglierà questa decisione l’amministrazione Biden ma non chiederemo il permesso a nessuno».

In poche parole, sembra che il metodo del bastone e della carota, utilizzato spesso da Trump per sopire i conflitti con Ankara e che non ha dato i suoi frutti nel caso degli S-400, non sarà quello scelto dalla nuova amministrazione Usa.

Guerra in Siria: il filo sottile con Mosca

Quello siriano è decisamente uno dei motivi di allontanamento politico sorto tra Ankara e Washington in questi ultimi tempi.

Nell’arco di tre anni il governo centrale turco ha deciso di inviare le sue truppe sul territorio siriano e ha avviato quattro operazioni in collaborazione e coordinazione con l’Iran, la Russia e indirettamente con la Siria, trascurando gli Stati Uniti.

La lettera amara di Trump a Erdoǧan, in cui chiedeva di non fare “sciocchezze” non era quella reazione forte che le forze armate e politiche siriane si aspettavano. Pochi giorni dopo quella missiva i soldati statunitensi pian piano hanno lasciato il terreno all’esercito della Repubblica di Turchia per avviare l’operazione Sorgente di Pace nel mese di ottobre del 2019.

Ormai era chiaro e ufficiale che sul territorio siriano fosse Mosca a decidere e coordinare le manovre in collaborazione con Damasco e Tehran. La presenza della Turchia è solo il frutto di quel rapporto politico ed economico perverso, legato a un filo sottilissimo, tra Ankara e Mosca.

Le operazioni militari della Turchia sono state realizzate anche con il sostegno dell’Esercito libero siriano composto da combattenti mercenari, ex soldati dell’esercito siriano e numerose brigate jihadiste.

L’esperimento fallito: milizie e tradimenti

Questa forza paramilitare è anche il frutto di un progetto fallito e guidato da Lloyd Austin. Nel 2013 Ankara e Washington dopo un breve periodo di addestramento avevano preparato un gruppo armato sul territorio turco, per combattere l’Isis. Tuttavia, una volta entrati in Siria, questi hanno deciso di aderire a diversi gruppi jihadisti come al-Nusra. Forse questo fu il momento in cui l’amministrazione Obama decise di cambiare alleanze sul territorio siriano. Oggi Austin è il primo segretario alla Difesa afroamericano della storia degli Stati Uniti, una novità che potrebbe avere impatto sulle scelte di Washington in Siria.

Un altro nome interessante è Brett McGurk, rappresentante speciale della Casa Bianca per il Medio Oriente e il Nord Africa. Figura non amata dai media mainstream della Turchia per via dei suoi stretti rapporti con le forze armate “curde”. Nel 2017, il ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu aveva chiesto all’amministrazione statunitense di sospendere l’incarico a McGurk dopo la sua visita di persona alle Unità di Difesa Popolari, Ypg, in Rojava. Dovutoglu, senza troppi giri di parole, in diretta tv sul canale Ntv aveva accusato McGurk di “sostenere” le forze armate del Pkk, organizzazione definita “terroristica” da Ankara e Washington. Un anno dopo, nel 2018, Trump decise di togliere l’incarico a McGurk. Oggi, questa figura “problematica” molto probabilmente avrà un ruolo determinante nella nuova amministrazione statunitense.

Con la Cina accordi commerciali e sanitari…

Cina e Iran sono in cima alle priorità della politica estera di Biden e in tutti e due i casi Ankara svolge un ruolo abbastanza importante.

La collaborazione economica tra Ankara e Pechino è in continua crescita. Il volume commerciale tra questi due paesi, nel 2019, superava la soglia dei 20 miliardi di dollari americani, registrando un notevole aumento rispetto agli anni precedenti.

Nei primi giorni del 2021 è stato firmato un nuovo accordo commerciale che prevede un notevole rafforzamento da parte di Ankara della rete ferroviaria, operazione che porterebbe a un aumento del volume commerciale sulla Via della Seta: 11.438 chilometri che collegherebbero Xi’an con Praga, ovviamente la Turchia – che si trova in mezzo – avrebbe un ruolo importante. Grazie a questa novità le tonnellate di merci trasportabili salirebbero da 400.000 a 1 milione. Inoltre nel progetto è prevista la costruzione di una nuova linea di 230 km che porterebbe fino alla Repubblica autonoma di Naxçıvan, accessibile ormai grazie all’accordo firmato da Armenia, Russia e Azerbaigian alla fine del conflitto armato del Nagorno.

Sempre nei primi giorni del 2021 arrivano due notizie importanti dalla Cina. I famosi produttori dei cellulari “intelligenti” – Tecno, TCL, Xiaomi e Vivo – hanno deciso di aprire nuove fabbriche in Turchia. Grazie a una nuova legge, introdotta nel 2020, i cellulari importati dall’estero subiscono un’ulteriore tassazione in Turchia; dunque la strategia di Pechino è quella di produrre in Turchia e prendere in mano il mercato.

La pandemia causata dal virus SarsCov2 ha aperto una storica fase di collaborazione economica e sanitaria tra questi due paesi. Uno dei primi acquirenti del vaccino SinoVac, produzione cinese, è la Turchia. Verso la fine del mese di gennaio saranno acquistati circa 20 milioni di dosi. La campagna di vaccinazione già avviata era stata anticipata in realtà con la sperimentazione di massa della terza fase del vaccino, sempre in Turchia.

… e una mano lava l’altra

A una tale armonia ovviamente bisognerebbe associare anche un allineamento politico. Sempre nei primi giorni del 2021 Ankara ha deciso di avviare operazioni di polizia presso le abitazioni dei cittadini cinesi di origini uigure residenti in Turchia. Secondo l’Osservatorio dei Diritti umani nel Turkistan orientale (Ethr) si tratterebbe dell’attuazione dell’accordo sul rimpatrio dei criminali firmato con Pechino nel 2017 e durante queste operazioni sarebbero stati arrestati diversi cittadini uiguri. Pochi anni fa, nel 2009, l’attuale presidente della Repubblica, presso il canale televisivo Ntv, aveva definito le politiche di Pechino contro i cittadini uiguri come un “genocidio”.

Questo graduale avvicinamento di Pechino e Ankara senza precedenti sarà molto probabilmente per Biden tra le questioni da tenere in considerazione.

Iran: il tavolo di Astana

Forse l’elemento più importante che lega Teheran e Ankara è il fatto che si siano seduti allo stesso tavolo per una ventina di volte nella città di Astana per disegnare il futuro della Siria. In quest’ottica (tenendo in considerazione anche il maxiprocesso Halkbank) per Biden Ankara potrebbe avere un ruolo chiave nel “dialogo” con Teheran. Ovviamente tenendo conto che questi due alleati all’interno della Nato hanno poi in mano diverse carte per ricattarsi a vicenda: sembra quindi che la partita sarà molto delicata.

Quando è minacciata la libertà, e non solo quella di espressione

Una delle cose che accomunava Trump e Erdoǧan era avere nel cuore la continua crociata contro il mondo del giornalismo. Sono ormai molto conosciute le invettive aggressive e arroganti di Trump nei confronti di alcuni giornali e canali televisivi statunitensi accusati di divulgare “notizie false”.

Oltre a un numero sempre alto di giornalisti in carcere o obbligati a vivere in esilio, in questi ultimi venti anni la Turchia è diventata anche un vero cimitero di emittenti televisive, radiofoniche e giornali che hanno dovuto chiudere i battenti oppure che sono stati chiusi con i decreti di legge durante lo stato d’emergenza dal 2016 al 2018. A tutto questo ovviamente aggiungiamo anche le posizioni personali di Erdoǧan nei confronti dei giornali dell’opposizione, espresse, per esempio, in quella dichiarazione rilasciata in diretta Tv, proprio il primo gennaio del 2021, contro uno dei più importanti giornali di opposizione, “Sozcu” (tra i primi tre per numero di copie vendute): «Io non leggo quel giornale e consiglio a tutti di non comprarlo, è inutile». “Sozcu” aveva fatto infuriare Erdoǧan quando aveva pubblicato il bilancio governativo del 2020 in prima pagina: “lacrime e sofferenza”.

La libertà di stampa è uno dei punti cardine del programma di Biden. Non solo per via di quanto è stata minacciata da Trump ma anche per come viene sistematicamente oltraggiata in diversi paesi del mondo.

Proprio nel 2016, in pieno stato d’emergenza, Biden aveva pronunciato queste parole sulla situazione in Turchia: «È importante, in tutto il mondo, avere il diritto alla critica libera. Le libertà di espressione e di stampa in Turchia sono garantite con la Costituzione e vanno protette». Infine nel mese di gennaio del 2020, in un’intervista rilasciata al “New York Times” aveva definito chiaramente la sua posizione dicendo: «Erdoǧan è un leader autocratico, dobbiamo sostenere le opposizioni in Turchia per allontanarlo dal potere utilizzando modalità democratiche».

Un (non)conclusione

Ci sono numerosi elementi che hanno distanziato questi due alleati negli ultimi anni: dalla richiesta di estradizione sempre rifiutata di Fethullah Gülen (leader della comunità di Hizmet residente in Pennsylvania, accusato di essere ideatore del fallito golpe del 2016) fino al rapporto di Ankara con gli altri alleati della Nato come Parigi e Berlino e numerosi sono i capitoli della Storia che possono essere riaperti e reinterpretati dall’amministrazione Biden.

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Segnali di fumo dal Bosforo a Washington https://ogzero.org/segnali-di-fumo-dal-bosforo-a-washington/ Fri, 13 Nov 2020 12:59:02 +0000 http://ogzero.org/?p=1757 Annusate le possibilità di nuove concessioni con il cambio della guardia alla Casa Bianca si fanno notare i movimenti del presidente turco per sondare e preparare una nuova faccia rispetto a quella adottata con l’abbandono da parte di Trump degli interessi americani in Medio Oriente, delegati a sauditi e israeliani, tollerando le scorrerie turche; mentre […]

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Annusate le possibilità di nuove concessioni con il cambio della guardia alla Casa Bianca si fanno notare i movimenti del presidente turco per sondare e preparare una nuova faccia rispetto a quella adottata con l’abbandono da parte di Trump degli interessi americani in Medio Oriente, delegati a sauditi e israeliani, tollerando le scorrerie turche; mentre nei quattro anni di amministrazione evanescente i motivi di attrito erano soprattutto in materia di embarghi, sanzioni non rispettati, minacce di dazi e collisione tra i traffici di armi, gli affari con Cina, Russia e Iran… Le elezioni statunitensi con il cambio in Pennsylvania avenue impongono il riposizionamento.

Cina e Iran convitati di pietra   

Per Biden due sono i problemi centrali della politica estera statunitense: la Cina e l’Iran. Nel primo caso la Turchia è ben posizionata, perché ha continuato a fare affari e perché è uno degli hub della Belt Road Iniziative, da tantissimo tempo la Cina vende armi alla Turchia, i due paesi collaborano da tempo in materia di antipirateria e nel contrasto dell’irredentismo uyguro, la cui diaspora è in parte tollerata da Ankara ma in forma di controllo per conto di Pechino, soprattutto sui rifugiati privati dei contatti con la famiglia e tenuti in un limbo senza speranze.

Ma anche per quel che riguarda l’Iran, con cui Erdoğan partecipa delle decisioni prese nei tanti accordi intestati ad Astana triangolando con Putin, la Turchia si trova a intersecare il punto di incontro tra il bisogno degli ayatollah di trovare un intermediario e le necessità di ricostruire un lavoro diplomatico statunitense. La soluzione siriana è stata trovata insieme, come avvenuto in Nagorno in un modo ancora più smaccato a favore della Turchia; senza considerare che il problema delle rivendicazioni curde si ritrovano identiche per i territori a maggioranza curda al confine turkmeno con l’Iran, come quelli da sempre occupati dai curdi in Anatolia. La Turchia ha sempre aggirato anche l’embargo contro Tehran, allo stesso modo in cui si è accordata sulle merci cinesi.

Ascolta “La Turchia nei dossier “Iran” e “Cina” della Casa Bianca” su Spreaker.

Dunque in qualche modo la Turchia si trova ben posizionata con entrambi gli schieramenti.

Perciò la diplomazia di lungo corso che la figura di Biden rappresenta non potrà che venire a patti, cercando di far rientrare a pieno Erdoğan nella Nato, aprendo questi due dossier e considerando quanto la Turchia sarà disponibile a offrire, ma soprattutto anticipando gli aspetti su cui è in grado di tornare indietro sulle forzature e sugli strappi creati finora. I rumors sui nomi che entreranno a far parte dell’amministrazione Biden lasciano immaginare un orizzonte di questo tipo.

Rapporti con la Nato, questione di schieramenti

Ankara può ribaltare tutti i rapporti perseguiti con gli altri potenti che in questi 4 anni di vacanza strategica internazionale degli Stati Uniti sono stati gli interlocutori principali di Erdoğan per spartirsi le spoglie abbandonate da Washington in Medio Oriente: è il modo di adattarsi a Biden e alla sua politica, tornando magari ad altre forme di difesa targate Usa, stracciando per esempio i contratti di fornitura degli S-400.

Ascolta “Rapporti con Nato, questione di schieramenti” su Spreaker.

Caatsa disatteso: sanzioni applicabili da Biden

L’interazione commerciale con Mosca, da cui Ankara dipende per l’enorme fame di energia che contraddistingue la Turchia. Anche qui Erdoğan si è inserito nel solco delle sanzioni del 2017 (Countering America’s Adversaries through Sanctions Act) contro chi collabora con Corea del Nord, Iran e Russia, finora disattese. Erdoğan dovrà immaginare una contromossa nel caso Biden decida di applicarle.

Ascolta “Caatsa disatteso: sanzioni applicabili da Biden?” su Spreaker.

Albayrak vittima sacrificale in dono a Biden?

Potentissimo fino al 9 novembre 2020, con cariche ministeriali e il controllo di affari strategici in Africa, ma inviso all’elettorato di Erdoğan e quindi, pur essendo erede di una delle famiglie oligarchiche e genero dello stesso presidente, compromesso con l’amministrazione Trump, è il capro espiatorio ideale per avviare un nuovo corso di relazioni con la Casa Bianca di Biden e stornare l’attenzione dal sultano riguardo alla miseria che si allarga nel paese. Si è dimesso con un messaggio su Instagram, Twitter gli è stato sottratto… palesando le forme di censura e solo dopo la nota ufficiale di Erdoğan si è potuta diffondere la notizia. La stampa rimane strettamente sotto il controllo del governo di Ankara.

Ascolta “Albayrak offerto sull’altare di rapporti nuovi con la nuova Casa Bianca” su Spreaker.

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Turchia: cosa bolle in pentola con i missili S-400? https://ogzero.org/turchia-cosa-bolle-in-pentola-con-i-missili-s-400/ Fri, 23 Oct 2020 23:14:38 +0000 http://ogzero.org/?p=1592 Russia e Turchia sono potenze grandi o regionali? A voler trovare sempre e comunque un piano preordinato, collocare ogni singolo evento all’interno di un progetto coerente si rischia – talvolta – di affondare nel complottismo. Resta comunque il dubbio. Nel caso della Turchia alcune recenti iniziative potrebbero costituire la prova provata che Ankara ormai si […]

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Russia e Turchia sono potenze grandi o regionali?

A voler trovare sempre e comunque un piano preordinato, collocare ogni singolo evento all’interno di un progetto coerente si rischia – talvolta – di affondare nel complottismo.

Resta comunque il dubbio. Nel caso della Turchia alcune recenti iniziative potrebbero costituire la prova provata che Ankara ormai si muove (o almeno si rappresenta) come una superpotenza in grado di trattare da pari a pari con i due colossi (Usa e Russia) oltre che con le altre entità rilevanti (Iran, Arabia Saudita…). Sarebbe quindi fuori luogo cercare di ridimensionarla specificando “potenza a livello regionale”, visto che qui si parla sia di Medio Oriente che di Mediterraneo e Caucaso. Un rilancio – la prosecuzione – dell’Impero ottomano con altri mezzi?

Potrebbe anche essere. Ma procediamo con ordine.

Prove di sistemi di difesa russi a Sinop, Nato

Risaliva ai primi di ottobre il gentile preavviso (per garantire la sicurezza dei voli nella zona) del lancio di un missile (senza specificarne la gittata) nell’area del Mar Nero. Più precisamente in prossimità di Sinop da dove il 16 ottobre veniva girato un video rivelatore (con l’evidente colonna di fumo prodotta dall’esplosione dell’ordigno).

Gli esperti che lo hanno analizzato ritengono di avervi identificato un missile S-400 di tipo 40N6E (con una gittata presunta di circa 400 chilometri).

E allora? Quale sarebbe il problema?

Il problema consiste nel fatto che tali missili sono una componente del sistema di difesa venduto alla Turchia da Mosca. Più che una ostentazione di forza – o di indipendenza dall’Occidente – il gesto di Ankara assumeva quasi l’aspetto di uno sgarro. Soprattutto nei confronti di Washington, in lampante contraddizione con il ruolo della Turchia. Per il momento ancora alleata degli Usa e membro della Nato.

Messaggi alla Casa Bianca

Ankara aveva operato il test missilistico incurante della minaccia di ulteriori sanzioni. Formulata esplicitamente da Mike Pompeo quando l’anno scorso aveva definito “semplicemente inaccettabile” la sola ipotesi di una attivazione del sistema degli S-400.

Sanzioni che tuttavia – va precisato – Trump non sembrava molto propenso a imporre.

Non mancavano i precedenti. Ancora l’anno scorso in una base nei pressi di Ankara (dove si trovano alcune batterie di S-400) venivano messi in attività aerei da combattimento F-16 e F-4. Allo scopo – si presume – di testare altre componenti (probabilmente i radar).

Un passetto alla volta, la Turchia sembrerebbe intenzionata a integrare – anche ufficialmente – il sistema di difesa S-400 nella sua struttura di difesa contraerea e di combattimento.

Dislocazioni strategiche

Quanto a dove tali batterie di missili verrebbero collocate definitivamente, il mistero è ancora fitto.

Una – molto probabilmente – dovrebbe rimanere nei pressi di Ankara. Le altre a sorvegliare mar Egeo e Mediterraneo orientale. Oppure alle frontiere con la Siria e con l’Armenia.

Una maggior cautela nel procedere mostrata da Erdoğan successivamente al test potrebbe dipendere dall’attesa per i risultati delle elezioni negli Usa.

Pur non dando ufficialmente conferma dell’avvenuto test missilistico del 16 ottobre, il Dipartimento di Stato aveva ribadito la possibilità di “gravi conseguenze” qualora il sistema fosse divenuto operativo a tutti gli effetti.

Se fin dall’inizio il Pentagono si era dichiarato totalmente contrario all’acquisto da parte di Ankara del sistema S-400, l’esponente repubblicano Jim Risch si spingeva oltre affermando fuori dai denti che «la Turchia ha superato il limite» e invitando l’amministrazione statunitense a dare un “forte segnale” per indurre Ankara a liberarsi del recente acquisto.

Minacce che – come è noto – erano destinate a rimanere lettera morta.

Esiste anche un’altra ipotesi. Ossia che Erdoğan abbia semplicemente alzato la posta per ottenere da Washington (anche in caso di vittoria da parte di Joe Biden) concessioni di altro genere. Per esempio la sostanziale, definitiva accettazione degli interventi nel Nordest della Siria contro i curdi e ora contro l’Armenia. In questo caso, agitare la minaccia dell’impiego operativo dei missili S-400 funzionerebbe come merce di scambio (o, se preferite, ricatto).

Messaggi interni

Ma comunque l’esercitazione del 16 ottobre era stata rivendicata pubblicamente dai dirigenti di Akp (il partito di Erdoğan).

Bulent Turan in particolare si era complimentato per l’avvenuto test cogliendo l’occasione per dichiarare che «il problema principale di questo nostro bellissimo paese sono quei miserabili che si fan passare per intellettuali, ma non sono in grado di riconciliarsi con i valori della nazione e non hanno fiducia nello stato; così come gli insignificanti esponenti politici dell’opposizione incapaci di comprendere quali siano gli interessi nazionali». Affermazioni piuttosto nebulose, ma che potrebbero risultare chiare e precise per chi, in Turchia, deve sentirsi nella condizione di “uomo avvisato”.

Da parte di quella che ormai, almeno nella testa di Erdoğan, è destinata a diventare definitivamente una potenza autoreferenziale e indipendente.

Per non parlare dell’effetto galvanizzante riversato sugli strati sociali turchi (soprattutto il ceto medio, ma non solo) che pur appoggiando Erdoğan si sentono colpiti, travolti dalla crisi economica.

E quindi necessitano di compensazioni (almeno a livello immaginario, di falsa coscienza).

Messaggi al Cremlino

Torniamo ora un attimo al discorso introduttivo, ossia al voler trovare qualche motivo recondito in ogni gesto compiuto da Erdoğan. Per alcuni osservatori non sarebbe per niente casuale che l’esperimento missilistico sia avvenuto quasi in contemporanea con l’incontro (e la firma di accordi anche di cooperazione militare) tra Erdoğan e Volodymyr Zelensky, il suo omologo ucraino. Anche in questo caso potrebbe essersi trattato di una ostentazione di indipendenza, ma stavolta da Mosca.

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Astana agli sgoccioli. Chi ha più filo da filare tra Mosca e Ankara? https://ogzero.org/astana-agli-sgoccioli-chi-ha-piu-filo-da-filare-tra-mosca-e-ankara/ Thu, 22 Oct 2020 08:38:32 +0000 http://ogzero.org/?p=1563 Traiettorie diverse di attraversamento transcaucasico-mediorientale L’alleanza tra Vladimir Putin e Recep Erdoğan è sempre stata a tempo e i due contraenti non ne hanno fatto mai mistero. Isolati e osservati con diffidenza da buona parte della comunità internazionale, strategicamente concorrenti e avversari in Medio Oriente, hanno fatto di necessità virtù per cinque anni ma ora […]

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Traiettorie diverse di attraversamento transcaucasico-mediorientale

L’alleanza tra Vladimir Putin e Recep Erdoğan è sempre stata a tempo e i due contraenti non ne hanno fatto mai mistero. Isolati e osservati con diffidenza da buona parte della comunità internazionale, strategicamente concorrenti e avversari in Medio Oriente, hanno fatto di necessità virtù per cinque anni ma ora la politica di appeasement tra i due paesi seguita alle scuse del presidente turco per l’abbattimento del Su-24 russo sui cieli siriani nel 2015, potrebbe essere agli sgoccioli.

Il ritorno di fiamma della guerra in Nagorno-Karabach lo dimostra con evidenza. Non a caso in una recente intervista il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha voluto sottolineare di considerare la Turchia «non un alleato ma un interlocutore stretto».

Mosca e Ankara sono le due principali potenze regionali nell’area che va dal mar Nero al Medio Oriente, passa per la Transcaucasia e lambisce la Persia. Con due traiettorie però assai diverse.

Ascolta “La Russia è solo una potenza regionale” su Spreaker.

 

Confrontando le parabole di Turchia e Russia

L’economia turca a partire dall’inizio del nuovo millennio è cresciuta costantemente, triplicando il proprio Pil. Un decollo economico accompagnato da un potente incremento demografico che ha fatto passare la sua popolazione complessiva da 67 a 83 milioni (a cui va aggiunta la diaspora). Il “neoimperialismo ottomano”, in questo quadro, è il prodotto di una crisi di crescita del paese a cui ormai vanno stretti i confini definiti nel primo Dopoguerra.

La Russia invece, dopo il boom del primo decennio del XXI secolo basato essenzialmente sugli alti prezzi degli idrocarburi sul mercato mondiale e la stabilizzazione sociale interna, vede da molti anni la propria economia stagnare. Dal 2018 la sua popolazione è tornata a contrarsi malgrado milioni di ucraini e centroasiatici abbiano acquisito il passaporto della Federazione: la Banca Mondiale stima che se non ci sarà una svolta, la Russia passerà dagli attuali 145 milioni di abitanti a 131 nel 2050. Dopo la facile vittoria nella guerra con la Georgia del 2008 – che aveva mostrato però dei limiti soprattutto logistico-satellitari – dagli anni Dieci in poi il declino dell’egemonia strategico-militare di Putin sul vicino estero ex sovietico è continuata con la perdita definitiva dell’Ucraina (compensata solo in parte dall’annessione della Crimea) e ora esiste il rischio concreto – a seguito dello sviluppo del movimento di opposizione in Bielorussia – di perdere un altro alleato fondamentale proprio laddove la Nato, grazie all’integrazione di Polonia e paesi baltici, è più aggressiva.

La partnership economica tra le due potenze locali (turismo, abbigliamento, prodotti alimentari e soprattutto forniture di gas russo attraverso Turkish Stream) ha reso più fluide anche le relazioni diplomatiche. La luna di miele tra i due paesi ha raggiunto il suo zenit nel periodo che va dall’acquisto da parte turca del sistema difensivo antiaereo russo S-400 (preferito ai Patriot americani con gran dispetto di Washington) e il sostegno convinto di Erdoğan a Nicolas Maduro nella crisi venezuelana del 2019 e suggellato dagli accordi di Astana per la sistemazione della matassa siriana. Dopo di allora però, lentamente ma inesorabilmente, il corso delle relazioni turco-russe è andato via via peggiorando e la guerra nel Nagorno-Karabach, qualunque sarà il suo esito, marcherà il passaggio in una fase che potremmo definire “postAstana”, foriera di nuove tempeste e procelle nella regione.

In quali intrecci si sta azzoppando Astana?

Le prime avvisaglie che si stava entrando in una fase nuova emerse a inizio 2020 quando ci fu più di una scaramuccia tra Siria e Turchia che vide coinvolto il contingente russo. Qualche mese dopo i due paesi si trovavano a confrontarsi ancora su fronti avversi in Libia. La Turchia sostiene da sempre il governo libico riconosciuto dalle Nazioni Unite, guidato da Fayez al-Serraj, che sta lottando da più di un anno per resistere a un assalto alla capitale Tripoli da parte del comandante ribelle Khalifa Haftar. Quest’ultimo è sostenuto, anche se non formalmente, dalla Russia grazie alla penetrazione dei suoi gruppi di foreign fighters organizzati nell’ormai celebre agenzia dei “wagneriani”, già presente in vari teatri, non ultimi quelli africani. Un modo per la Russia, quello dell’uso di compagnie di ventura, per giocare un ruolo di ago della bilancia in diverse crisi senza esporsi direttamente e soprattutto dai costi economici relativi.

Sia la Russia che la Turchia hanno investito molto in Libia: la Federazione in termini di reputazione, influenza e potenziali accordi petroliferi e la Turchia con interessi commerciali ed energetici ancora più ampi, ma hanno evitato in ogni modo di confrontarsi direttamente. «Quella libica potrebbe essere la loro più grande divergenza, ma ce ne sono altre. Sono a disagio per il ruolo crescente dell’Iran nella regione, che Putin generalmente sostiene fintanto che infastidisce gli Stati Uniti. I turchi odiano il regime di al-Sisi in Egitto che Putin giudica invece positivamente. E sono da sempre ai ferri corti anche con gli israeliani, con i quali Putin ha un solido rapporto di partnership», sostiene Jonathan Schanzer della Foundation for Defense of Democracies, un think tank con sede a Washington.

Presenze strategiche dei due contendenti sullo scacchiere internazionale

Ma nel complesso la partnership rischia di crollare a causa dell’inconciliabilità delle ambizioni geopolitiche. Schanzer, a tale proposito, segnala la grandiosa visione ottomana delineata da uno dei massimi consiglieri di Erdoğan, il generale in pensione Adnan Tanrıverdi, che interpreta la Turchia emergente come una superpotenza islamica con capacità di esercitare autorità e influenza su 61 paesi musulmani con Istanbul a capitale di un inedito califfato.

Putin ha forse obiettivi meno ambiziosi – più tattico che stratega è abituato a misurare ogni passo di politica estera – ma non meno importanti per gli equilibri internazionali. A fronte dell’ulteriore sgretolamento dell’influenza nell’area ex sovietica, Mosca è interessata a inserire dei cunei di propria presenza su scala globale che le permettano di restare al centro di quanto si va definendo nei diversi scacchieri. Un approccio parzialmente diverso da quello del tradizionale contenimento sviluppato dal Cremlino fino a qualche anno fa e che poggiava in gran parte sul suo ruolo di potenza nucleare. La ripresa della guerra in Nagorno-Karabach non sta facendo che accelerare, da questo punto di vista, delle tendenze già in atto.

Un Anschluss turco-azero?

Ma se le scaramucce tra Armenia e Azerbaigian del luglio potevano lasciare presagire che lo scontro ruotasse intorno ai gasdotti azeri Baku-Tbilisi-Ceyhan e quello nel Caucaso meridionale ovvero sulle rotte del reperimento di risorse energetiche alternative a quelle russe nella regione, la guerra iniziata il 27 settembre 2020 dall’alleanza turco-azera ha ben altri obiettivi, in primo luogo di ridefinizione complessiva degli equilibri nella regione. Evidentemente, Erdoğan intende saggiare la reazione russa e dei paesi Nato a fronte di un chiaro tentativo espansionista: in questo senso l’alleanza turco-azera basata sulla teoria “un popolo, due stati” sta realizzando seppur in trentaduesimi, la stessa politica che la Germania negli anni Trenta del XX secolo portò avanti con l’Anschluss e l’occupazione della Cecoslovacchia. Da questo punto di vista Erdoğan ha ricevuto segnali positivi riuscendo a mettere sotto scacco l’Europa con il ricatto dell’ondata migratoria dalla Siria e paralizzando una Russia già alle prese con la crisi in Bielorussia e la querelle di Navalny. Malgrado Francia, Usa e Russia abbiano chiesto con due dichiarazioni comuni il cessate il fuoco, malgrado siano arrivati segnali di inquietudine da parte di molti altri stati, la macchina bellica turco-azera non si è fermata.

Valore “locale” del conflitto caucasico

Allo stesso tempo non va però dimenticato che l’offensiva in Nagorno-Karabach ha obiettivi tutti interni al quadro transcaucasico. Sin dall’inizio del conflitto, malgrado l’Armenia sia parte integrante del Trattato di sicurezza collettiva (l’alleanza militare guidata dalla Russia dopo la fine del Patto di Varsavia), a differenza che in Bielorussia, la Federazione non ha minacciato interventi a fianco di Erevan se non nel caso estremo di aggressione diretta dentro i confini armeni. Una postura che non è certo piaciuta a Nikol Pashinyan, il premier armeno asceso al potere dopo la Rivoluzione di Velluto del 2018. Pashynian è un ex difensore dei diritti civili che guarda per sua formazione e cultura a Occidente. Tuttavia in nome della Realpolitik e delle forniture di idrocarburi a prezzi low-cost è restato legato finora a Mosca, ma l’evidente neutralità assunta dalla Russia nel conflitto nel Nagorno-Karabach potrebbe fargli riconsiderare – a medio termine – il legame con Mosca, ripiegando su una posizione di neutralità. Non è un caso che tutti i suoi sforzi per giungere al cessate il fuoco nelle prime settimane del conflitto abbiano cercato di far leva sui timori della UE (e di Merkel in particolare) per la crescente aggressività turca, anche se Berlino in realtà ha le mani legate perché – piaccia o no – la Turchia resta un membro imprescindibile della Nato.

In questo quadro proprio l’Alleanza Atlantica sta accelerando il suo programma di allargamento a Est. Due settimane dopo l’inizio del conflitto, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha invitato apertamente la Georgia ad aderire al sistema difensivo occidentale: «Siamo concentrati sulla regione del Mar Nero, stiamo sviluppando le nostre capacità marittime, la difesa costiera della Georgia e stiamo conducendo visite di navi Nato nei porti georgiani. Nei nostri negoziati sottolineiamo l’importanza strategica della regione del Mar Nero sia per la Georgia che per gli stati della Nato e siamo pronti ad accoglierla nell’alleanza», ha affermato il segretario generale. Un quadro fosco per la Russia soprattutto in caso di sgancio della Bielorussia e dell’Armenia.

Si tratta ora di capire se il punto di caduta dello scontro nel Nagorno-Karabakh, escludendo la catastrofe di un confronto diretto tra Russia e Turchia, sarà una vittoria completa azera o se, come continuano ad affermare gli esperti di strategia russi, Ilham Aliyev si accontenterà di sedersi al tavolo della trattativa dopo essersi ripreso i corridoi che collegano il Nagorno-Karabakh all’Armenia. In entrambi i casi, Mosca ne uscirà indebolita e dovrà ripensare seriamente ai suoi rapporti con Ankara. A settembre Erdoğan ha annunciato di aver trovato giacimenti di gas nel Mar Nero che dovrebbero garantire entro il 2023 l’autonomia energetica al suo paese. A quel punto allora, i buoni rapporti con Putin, potrebbero per lui essere solo un intralcio.

I timori dell’Occidente per l’attivismo turco

L’Azerbaijan ha fatto intendere che non vuole iniziare alcuna trattativa per risolvere la contesa sull’enclave etnico armeno, senza che vi partecipi direttamente la Turchia. Una posizione che manderebbe in soffitta definitivamente il format del “gruppo di Minsk” a cui partecipano, oltre ai paesi coinvolti nel conflitto, la Francia, gli Usa e la Russia. Un Diktat a cui è seguito l’inevitabile stop di Erevan mentre il segretario di stato Mike Pompeo esortava Erdoğan «a evitare di interferire nel conflitto». La presa di posizione dell’Eliseo, seppur non ufficiale, è stata particolarmente dura. «Il presidente francese ha già espresso preoccupazione per il ruolo della Turchia nel conflitto in Nagorno-Karabach. È motivo di preoccupazione che Erdoğan stia moltiplicando le sue avventure, non tenendo conto della necessità di garantire una sicurezza comune», si legge in un comunicato fatto circolare dalla diplomazia francese nella giornata del 18 ottobre. Macron teme che Erdoğan voglia tastare il polso alla Comunità europea per capire fino a che punto possa spingersi nella propria impunità.

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Considerazioni sul Libano che vanno oltre il Libano https://ogzero.org/considerazioni-sul-libano-che-vanno-oltre-il-libano/ Thu, 03 Sep 2020 09:08:42 +0000 http://ogzero.org/?p=1121 Archiviare i rapporti di forza coloniali in questo periodo di nazionalismi esasperati può ricondurre a modelli vecchi di secoli, anziché soddisfare le richieste di emancipazione dei popoli repressi: l'impero ottomano e quello russo tentano di ricreare le antiche sfere di influenza.

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«Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: “la Padania è una repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore”». Parole di Umberto Bossi nella sua dichiarazione d’indipendenza della Padania, 15 settembre 1996. Una sfida, una provocazione politica. Ma anche la realtà di un mondo in cui le Nazioni, come sono state disegnate negli ultimi secoli, non necessariamente corrispondono agli elementi coesivi che finora hanno consentito loro di sopravvivere in pace.

Anni fa sentivo un giovane militare israeliano stanco della guerra contro l’indipendentismo palestinese affermare: «A cosa serve tutto questo. Presto il mondo sarà globalizzato e le nazioni, come le conosciamo oggi, non esisteranno più. Ognuno vivrà dove meglio si trova». Quel futuro (non solo per il Covid) c’è e non c’è. E invece assistiamo a una lenta e spesso cruenta trasformazione del mondo come fu tracciato nella sabbia o sulle cime dei monti dai nostri nonni e bisnonni. Divisioni e non consolidamento.

Confini tracciati altrove

Da Bossi e la Padania, tra razzismo e settarismo religioso, non è difficile approdare sulle sponde meridionali del Mediterraneo. Non soltanto perché sono poche ore d’aereo ma perché il Vicino Oriente come lo vediamo sulle cartine geografiche e nelle cronache dei telegiornali, fu creato o disegnato nel Castello Devachan a Sanremo tra il 19 e il 26 aprile 1920 e consolidato – si fa per dire – pochi mesi dopo a Sèvres, in una antica fabbrica di porcellane a sud di Parigi. Il tutto sulle rovine di uno dei più longevi, affascinanti, poco studiati e spesso incompresi imperi della storia. Di cui anche il minuscolo territorio che conosciamo come Libano faceva parte.

Segno di cambiamento degli equilibri

L’esplosione del 4 agosto 2020 a Beirut, che ha ucciso oltre 200 persone e ferito altre 7000 devastando vaste zone della capitale libanese, ha riportato il paese dei cedri sulle prime pagine dei giornali. Accanto a dubbi, incertezze, ipotesi (attentato o incidente?) sono riprese le considerazioni sulla stabilità, direi quasi la sopravvivenza, del piccolo paese creato dalla Francia e di cui Parigi sembra rivendicare un diritto di tutela se non di più. I legami tra Francia e Libano risalgono al XVI secolo quando la monarchia parigina si rivolse al sultano ottomano per proteggere i cristiani di una regione che, dalla nascita di Gesù in poi, il mondo religioso cresciuto attorno alla sua memoria definisce “Terra santa” ma che per 623 anni, dal 1299 al 1922, faceva parte di uno degli imperi più longevi e potenti e spesso più illuminati della storia controllando, in nome dell’islam sunnita, fette importanti dell’Europa e dell’Asia.

Dove le feroci Crociate dei cristiani d’Europa non riuscirono nel loro intento di dominare la terra d’altri, la forza militare e la diplomazia degli imperi più recenti del vecchio continente ebbero maggiore successo. Con la sconfitta tedesca nella Prima guerra mondiale e la conseguente distruzione del suo alleato di comodo – l’impero Ottomano appunto – francesi, inglesi e italiani (con il consenso dello zar di tutte le Russie) si divisero le spoglie. Non fu un processo indolore. Il trattato di Sèvres provocò la reazione immediata dei nazionalisti turchi sopravvissuti alla sconfitta del vecchio impero. Mustafa Kemal Atatürk, il padre della Turchia moderna, guidò una serie di guerre per cacciare francesi, italiani, greci dall’Anatolia e dopo appena tre anni, con il Trattato di Losanna, gli europei furono costretti a fare un piccolo passo indietro riconoscendo i confini della Turchia di oggi. Un prezzo relativamente modesto visto come Gran Bretagna e Francia erano riusciti a consolidare la loro presenza nel Vicino Oriente e determinare la realtà di nuove entità come Siria, Iraq, e a gettare le basi, con il patto semiclandestino di Sykes-Picot (16 maggio 1916), per la creazione di Israele. Nelle loro menti probabilmente più che un regalo ai sionisti ebrei (peraltro quasi tutti europei) doveva essere un elemento di disturbo nel mondo arabo dominato dalle due anime principali dell’islam.

Mandato coloniale permanente?

Torniamo al Libano. La Società delle Nazioni, ratificando l’accordo Sykes-Picot, affidò la Grande Siria (la Siria attuale e cinque province che costituiscono l’attuale Libano) al controllo diretto della Francia. E Parigi agendo da padrone colonialista, nel settembre 1920 istituì la Repubblica libanese con Beirut come capitale sul territorio allora in gran parte cristiana ma con una forte minoranza musulmana (oggi maggioranza) e drusa. Il paese divenne indipendente alla fine della Seconda guerra mondiale. Fu adottata una Costituzione che voleva garantire i diritti delle varie comunità con un sistema di divisione del potere. Per molti anni ha funzionato trasformando il piccolo stato sulle rive del Mediterraneo in una specie di Svizzera del Medio Oriente: nel bene e nel male.

Gli sviluppi politici nella regione dopo la creazione dello stato d’Israele e, più di recente, con la rivoluzione khomeinista in Iran, assommato ai grandi cambiamenti demografici in Libano, hanno portato alla situazione che vediamo oggi. Con una provocatoria petizione online firmata da 60000 tra residenti e membri della grande e influente diaspora libanese, è stato chiesto alla Francia di tornare a prendersi cura del Libano con un nuovo Mandato. «La Francia non lascerà mai il Libano», parole del leader francese Macron in visita a Beirut devastata dall’esplosione al porto. «Il cuore del popolo francese batte ancora al polso di Beirut». Solo retorica o il neocolonialismo francese fatica a morire? Per sottolineare il legame storico, Macron ha fatto il bis tornando a Beirut il 1° settembre, cento anni dopo quel famoso “Mandato”. Ancora parole, ma forse la consapevolezza che troppi fattori, locali e regionali, giocano contro un ruolo di Parigi che vada oltre eventuali piogge di euro per sostenere un sistema corrotto e fallimentare. Di sicuro, con la divisione del potere costituzionale che non rispecchia più la realtà demografica del Libano, il futuro della piccola nazione è sempre più in bilico in un mondo in cui montano le tendenze autonomiste, si inasprisce lo scontro tra Iran e Arabia saudita, gestori delle due verità contrapposte dell’islam, e prendono impeto le aspirazioni di vecchie potenze imperiali, tra cui la Turchia. Una nota: gli stati nazionali radicati nella storia della regione di cui parliamo sono appena quattro: Egitto, Iran, Yemen e Turchia.

Il passato, un incubo rinnovabile

La disgregazione dell’Unione sovietica e della Jugoslavia hanno aggiunto nuove nazioni all’Onu e si è parlato molto negli ultimi anni di ridisegnare i confini del Medio Oriente per soddisfare le istanze, per esempio, dei curdi, traditi dalle spartizioni postimpero Ottomano. Stesse ipotesi aleggiano per risolvere il conflitto interno della Libia, altra realtà complessa disegnata dall’Italia coloniale dopo la cacciata dei turchi da Cirenaica e Tripolitania. In essenza, è in corso nel bacino del Mediterraneo un grande gioco i cui protagonisti rispecchiano più il passato che un’idea rivoluzionaria per il futuro. Mentre la Francia rincorre la sua gloria appassita e la Russia agisce pensando non tanto all’Urss, di relativamente breve memoria storica, quanto al grande impero degli zar che molti osservatori tendono a dimenticare, la Turchia (membro della Nato, formalmente alleato dell’Occidente e, purtroppo, più volte respinta come possibile membro dell’Unione europea) sembra voler ripristinare la gloria dell’impero d’Oriente e dell’islam sunnita che dominarono per sei secoli sulle rovine dell’impero cristiano di Costantinopoli. La nuova classe dirigente turca e buona parte degli ufficiali superiori rivendicano quanto meno un ruolo di potenza regionale soprattutto sul Vicino Oriente islamico.

Per i servizi segreti israeliani, che guardano con simpatia alle mosse di Macron, e per la Cia, in uno stato di confusione anche per la politica attuale della Casa Bianca, la Turchia di Erdoğan (in corso di collisione con la Grecia per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel Mediterraneo) «è più pericolosa dell’Iran» degli ayatollah. Di sicuro l’estensione della presenza militare di Ankara – dalla Libia a Siria, Libano settentrionale, Iraq, Qatar, Afghanistan, Somalia e i Balcani – non è mai stata tanto vasta dai giorni dell’Impero Ottomano. L’accordo tra gli Emirati arabi uniti (che hanno paura dell’Iran) e Israele (nemico principale di Tehran) fa parte del Grande gioco regionale che mette in difficoltà soprattutto le pedine più piccole e deboli. Quelle create a tavolino.

Assisteremo a nuove guerre e alla creazione di nuovi confini? Una piccola scintilla potrebbe far esplodere le istanze autonomiste di cui conflitti religiosi e tribali sono i sintomi sempre più evidenti. Se la nostra Padania non è veramente a rischio perché non vi esistono le condizioni fondamentali per rivendicare l’autodeterminazione, non è così per molte delle realtà nel Vicino Oriente (e non soltanto) dove vi sono popoli riconosciuti come tali sottomessi da governi non rappresentativi che li discrimina come razza, credo o colore.

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