Mare del Nord - La Manica Archivi - OGzero https://ogzero.org/regione/mare-del-nord-la-manica/ geopolitica etc Sun, 01 May 2022 22:55:30 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Risorse e rotte artiche in tempo di guerra https://ogzero.org/risorse-e-rotte-artiche-in-tempo-di-guerra/ Sun, 01 May 2022 21:58:15 +0000 https://ogzero.org/?p=7227 L’inviato speciale Ue per l’Artico, Michael Mann ha commentato il 30 aprile 2022 le decisioni del Consiglio artico rispetto alla collaborazione con la Russia, ritenendo che nonostante le tensioni, «grazie ai fondi europei l’Artico può diventare un laboratorio di sviluppo di tecnologie e risorse sostenibili con cui vincere la sfida della crisi energetica», però un […]

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L’inviato speciale Ue per l’Artico, Michael Mann ha commentato il 30 aprile 2022 le decisioni del Consiglio artico rispetto alla collaborazione con la Russia, ritenendo che nonostante le tensioni, «grazie ai fondi europei l’Artico può diventare un laboratorio di sviluppo di tecnologie e risorse sostenibili con cui vincere la sfida della crisi energetica», però un sempre maggior numero di navi russe navigano nell’Artico.

L’importanza delle risorse artiche a cui il riscaldamento globale consente di accedere (per le tecnologie e per la transizione energetica – che ridurrebbe la capacità di ricatto russo) e lo scontro per la Northern Sea Route che si va liberando dai ghiacci e che Mosca intende controllare considerandola parte integrante del proprio territorio, producono anche nel Grande Nord ribaltamenti geopolitici e costringono a trovare soluzioni alternative alla cooperazione sostenibile finora perseguita tra le potenze mondiali. Ciò che è destinato a patire di questa contingenza è l’ambiente, l’accesso a energia sostenibile… e gli interessi cinesi. Alessandra Colarizi fornisce qualche elemento per comprendere quali fossero i progetti e la pianificazione di Pechino riguardo al Mar Glaciale Artico e cosa ne rimane dopo la crisi ucraina.


L’“amicizia senza limiti” e le forniture di gas russo. È quanto le cronache internazionali ricordano dell’ultimo – ormai storico – incontro tra Vladimir Putin e il presidente cinese Xi Jinping. Ma, durante quelle ore trascorse insieme a ridisegnare l’ordine internazionale, i due leader si sono soffermati su un’altra questione centrale tanto per la stabilità energetica mondiale, quanto per i futuri assetti geostrategici: la necessità di promuovere una Cooperazione sostenibile e pratica nell’Artico, come recita il motto della presidenza moscovita iniziata nel maggio 2021.

L’estremo Nord rappresenta, insieme all’Asia centrale, lo scacchiere regionale in cui i due giganti collaborano più attivamente. È anche una delle aree più colpite dal colpo di coda della crisi ucraina. Compiendo un passo decisivo, il 24 marzo 2022 i membri del Consiglio Artico (Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Svezia e Stati Uniti) hanno sospeso tutti i colloqui con Mosca. Non una cosa di poco conto: la Russia controlla oltre metà della costa bagnata dall’Oceano Artico ed è al centro delle principali iniziative multilaterali, dalla ricerca scientifica allo sviluppo economico passando per la collaborazione militare. Ora la sua estromissione rischia di paralizzare il funzionamento della principale organizzazione regionale.
Per Pechino, non è una buona notizia.

La Cina un “paese quasi artico”

Geograficamente parlando un outsider, la Cina si definisce un “paese quasi artico”.  Dal 2013 è membro osservatore del Consiglio (paradossalmente, dal punto di vista geografico, lo è anche l’Italia). Ma frequenta la zona addirittura dal 1925, ovvero da quando siglò il trattato delle Svalbard che disciplina le attività commerciali nelle isole a metà strada tra la Norvegia e il Polo Nord. Il perché è spiegato nel libro bianco sull’Artide pubblicato dal governo cinese quattro anni fa (dove si dispiega l’Operazione Dragone Bianco): nonostante la distanza, le «condizioni naturali dell’Artico e i loro cambiamenti hanno un impatto diretto sul sistema climatico e sull’ambiente ecologico della Cina e, a loro volta, sui suoi interessi economici nell’agricoltura, la silvicoltura, la pesca, l’industria marina e altri settori».

Non è quindi solo un fenomeno di interesse scientifico. ll riscaldamento ambientale sta causando un progressivo scioglimento dei ghiacci, rendendo sempre più navigabili acque un tempo impercorribili. Proprio alla creazione di nuove rotte commerciali tra l’Asia orientale, l’Europa e il Nordamerica passando attraverso l’Artide, guarda la cosiddetta “Via della seta polare”, declinazione artica della Belt and Road Initiative, la strategia di politica estera con cui Pechino sostiene la penetrazione internazionale delle aziende statali cinesi e dei suoi standard industriali attraverso la costruzione di grandi vie di comunicazione marittime e terrestri in Eurasia.

I nuovi corridoi settentrionali non solo permetteranno di aggirare “lo stretto di Malacca”, l’impervio passaggio (uno dei chokepoint mondiali) sotto il controllo degli Stati Uniti e dei suoi alleati asiatici. Contribuiranno anche ad accorciare i tempi di percorrenza delle merci tra i porti cinesi e gli scali europei. Passando per Suez oggi una nave che parte da Shanghai diretta a Rotterdam impiega circa 50 giorni; attraverso la rotta nordica e la Via della Seta Polare lo stesso viaggio durerebbe circa 33 giorni. Per il momento la tratta è ancora in fase di test: il colosso cinese China Ocean Shipping Company (Cosco) effettua circa nove spedizioni all’anno. Ma il numero è destinato a salire e alcune società sono già in trattative per garantire un volume di transazioni prestabilito ogni anno.

La Cina come player responsabile

Commercio a parte, gli interessi cinesi nel quadrante includono scopi scientifici, ambientali, e diplomatici. Inserita nell’ultimo “piano quinquennale” 2021-2025, la strategia polare cinese annovera tra gli obiettivi la realizzazione di esplorazioni in acque profonde, la pianificazione di missioni spaziali, e la tutela del diritto internazionale marittimo. Conscia del suo nuovo status internazionale, negli ultimi anni la Cina ha utilizzato il Consiglio Artico per presentare un’immagine di sé più responsabile, soprattutto alla luce delle accuse che dall’altra parte dell’Eurasia accompagnano l’espansionismo cinese nelle acque contese con i vicini rivieraschi.

Nel white paper Pechino spiega che il suo coinvolgimento nel quadrante è teso a «comprendere, proteggere, sviluppare e partecipare alla governance dell’Artico, in modo da salvaguardare gli interessi comuni di tutti i paesi e la comunità internazionale e promuovere lo sviluppo sostenibile» della regione. Ne consegue un’immagine rassicurante ma parziale della Polar Silk Road. A giudicare dai report comparsi sulla stampa cinese, infatti, gli aspetti militari, sebbene mai espliciti, sono altrettanto fondamentali per comprendere la crescente assertività di Pechino nell’area.

La marina cinese vede nel passaggio a Nordest una scorciatoia per spostare truppe dal Pacifico all’Atlantico, in mancanza di basi militari (la più vicina è a Gibuti, nel Corno d’Africa) da cui tenere a tiro la costa americana con i propri bombardieri e missili balistici intercontinentali. Un sogno vagheggiato da Mao nel 1959 e che l’Unione sovietica di Chruščëv congelò per decenni. Secondo il tabloid nazionalista “Huanqiu Shibao”, se i sottomarini cinesi dotati di armi nucleari riuscissero ad accedere indisturbati al Mar Glaciale Artico, i rapporti di forza con gli States e gli alleati Nato cambierebbero radicalmente rendendo la Cina una “potenza militare mondiale”.

Se la Cina perde la Russia

Consapevole dei suoi limiti geografici, fino a oggi la Cina ha puntato a cementare la propria presenza nello scacchiere polare in partnership con Mosca. Passando dentro la zona economica esclusiva russa, la Rotta del Mare del Nord è in balia delle decisioni del Cremlino in termini di tariffe e accesso alle infrastrutture marittime lungocosta. Soprattutto dopo l’occupazione della Crimea e il crescente isolamento internazionale di Mosca, la Cina è riuscita a sfruttare il proprio ascendente su Mosca per ottenere importanti quote di partecipazione nei principali progetti energetici in Siberia. A partire dal 2016 la statale China National Petroleum Corporation (Sinopec) e il Silk Road Fund hanno affiancato la russa Novatek e l’azienda francese Total nello sviluppo di un giacimento di gas naturale liquefatto nella penisola di Yamal. Società petrolifere statali cinesi stanno lavorando all’ultimazione di Arctic LNG-2 e del giacimento di Payakha, mentre Pechino ha già messo gli occhi sulle infrastrutture di trasporto, vero fiore all’occhiello della Silk Road: secondo un accordo del 2016, la costruzione di un porto d’altura vicino ad Arkhangelsk, sul Mar Bianco, doterà Cosco di un’importante base logistica lungo la rotta a Nordest. E, nonostante sia in fase di stallo da circa vent’anni, la Cina ha espresso interesse anche per la ferrovia di Belkomur, con cui le autorità locali puntano a creare un sistema di trasporto unificato nei territori settentrionali.

Non è solo una questione di business. L’allineamento con la Russia è servito, come in altri frangenti, a sostanziare la postura cinese con una visione strategica di più ampio respiro. Senza Mosca la Cina nell’estremo Nord rimane un intruso, anche piuttosto sgradito. In tempi recenti, nel resto dell’Artide, la Via della Seta Polare ha incontrato notevoli ostacoli, spesso a causa delle preoccupazioni di paesi, come Canada e Svezia, con cui Pechino ha rapporti politici tesi. Gli Stati Uniti non hanno nascosto il proprio disagio per le mire del gigante asiatico sull’industria mineraria in Groenlandia – prima che la vittoria nel 2021 della sinistra ambientalista di Inuit Ataqatigiit sospendesse le attività estrattive.

Cosa succederà adesso? 

C’è chi, guardando al passato recente, pronostica un attivismo anche maggiore del gigante asiatico nel quadrante artico. Secondo gli ottimisti, senza alternative, la Russia sarà costretta a darsi mani e piedi alla Cina: gli yuan sostituiranno i capitali sborsati delle multinazionali europee e giapponesi, continuando a foraggiare i piani artici di Mosca. Non tutti concordano, però. Non solo perché, aldilà della sbandierata pseudo-alleanza, dall’introduzione delle misure punitive le aziende cinesi hanno mostrato una maggiore cautela nel fare affari con l’Orso. Lo dimostra il rallentamento delle attività di Sinopec in Russia, nonché il calo delle importazioni di carbone russo nei primi mesi dell’anno.

Mentre, per alcuni esperti cinesi, la rottura tra gli otto stati membri del Consiglio Artico non comprometterà automaticamente la strategia cinese nella regione, le sanzioni internazionali contro Mosca potrebbero eccome. Soprattutto considerati i divieti (diretti e indiretti) sull’export di tecnologia americana, da cui il progetto di Yamal dipende enormemente.

I risvolti politici non sono meno insidiosi. Per l’Artic Institute Pechino pagherà il prezzo di quella che i vertici Ue hanno definito una “neutralità filorussa”: secondo il think tank con base a Washington, infatti, «è difficile immaginare che gli Stati Uniti, il Canada o i cinque paesi nordici del Consiglio acconsentiranno ad approfondire la cooperazione economica o a integrare la Cina nei forum regionali se [Pechino] continuerà a schierarsi con la Russia». Fattore che potrebbe inficiare di riflesso la “diplomazia omnidirezionale” condotta dal governo comunista con Svezia, Finlandia e Norvegia nei settori aerospaziale, dei cambiamenti climatici e dell’esplorazione scientifica. Ora che – contrariamente alle intenzioni di Putin – la crisi ucraina ha intensificato la cooperazione tra la Nato, Helsinki e Stoccolma, separare la ricerca pacifica dalla sicurezza armata risulta sempre più difficile. Collaborando con Mosca nella regione polare, Pechino rischia di dover rispondere ad accuse che trascendono il presunto supporto militare in Ucraina.

C’è poi un problema più profondo, che riguarda la natura stessa della cooperazione sino-russa. Mosca non ha mai visto di buon occhio lo sconfinamento cinese nel proprio cortile di casa. Anche dopo l’ingresso della Cina nel Consiglio Artico, la partnership polare tra i due giganti ha continuato a risentire della diffidenza che storicamente contraddistingue le relazioni sino-russe. Nel 2020 il direttore dell’Arctic Civic Academy di San Pietroburgo è finito agli arresti per aver passato a Pechino informazioni classificate sulla ricerca idroacustica e il rilevamento di sottomarini. L’invasione russa dell’Ucraina irrompe in una crisi di fiducia che il mancato coordinamento dei rispettivi vertici sul fronte europeo rischia persino di esacerbare.

Le considerazioni economiche aggiungono ulteriori incognite all’equazione polare. Perché se è vero che gli investitori cinesi potrebbero trarre benefici dal ripiegamento dei competitor occidentali dai giacimenti russi, la sostenibilità dei finanziamenti nei combustibili fossili è tutt’altro che scontata. Da quando Pechino ha annunciato l’obiettivo emissioni zero entro il 2060, i prestiti cinesi destinati al comparto energetico lungo la Belt and Road sono crollati verticalmente. Nelle terre dei ghiacci prevarranno i calcoli politici o le valutazioni ambientali?

La politica estera o l’agenda interna?

Cambiano gli equilibri mondiali, ma cambiano soprattutto le priorità cinesi. È il grande limite dell’“amicizia senza limiti” tra Cina e Russia.

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n. 17 – Francia e Gran Bretagna: tra i due litiganti, il migrante muore https://ogzero.org/francia-e-gran-bretagna-tra-i-due-litiganti-il-migrante-muore/ Sun, 30 Jan 2022 18:08:12 +0000 https://ogzero.org/?p=6031 Prosegue la serie dedicata alle rotte dei migranti a cura di Fabiana Triburgo. Questo saggio evidenzia la natura fluida dei percorsi delle persone in movimento ed esamina una delle diramazioni battute, il Canale della Manica, dopo che hanno percorso le rotte principalmente attraversate, in arrivo da lontano, su una rete che si dipanerà sotto i […]

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Prosegue la serie dedicata alle rotte dei migranti a cura di Fabiana Triburgo. Questo saggio evidenzia la natura fluida dei percorsi delle persone in movimento ed esamina una delle diramazioni battute, il Canale della Manica, dopo che hanno percorso le rotte principalmente attraversate, in arrivo da lontano, su una rete che si dipanerà sotto i nostri occhi e che dimostra quanto le politiche europee siano miopi rispetto ai meccanismi innescati da blocchi e respingimenti, e quanto siano pesanti le conseguenze, soprattutto tenendo conto – come sottolinea l’autrice – che questi eventi non si registrano nell’ambito di rapporti bilaterali tra una potenza occidentale europea e un paese terzo nel quale non viene di fatto assicurato il rispetto dei diritti fondamentali della persona, come la Libia o la Turchia, ma tra due potenze internazionali quali Francia e Gran Bretagna che da secoli si ergono a paladine della tutela dei diritti della persona, principio che hanno posto oltretutto come uno dei pilastri fondanti dei propri sistemi costituzionali.


La rotta migratoria, avente quale punto di partenza alcune città della Francia settentrionale, quali – per citare le più rilevanti – le aree intorno alla città di Calais, Boulogne e Dunkerque e come punto di arrivo la città di Dover nel Regno Unito è caratterizzata dalla presenza del canale della Manica che si frappone tra le località francesi e quella inglese che distano circa 40 chilometri tra loro o – se si considera la tratta marittima – circa 20 miglia. La rotta quindi se può essere indubbiamente definita “breve”, allo stesso tempo deve essere considerata altamente mortifera, non solo nell’ipotesi in cui venga percorsa mediante l’attraversamento marittimo, a causa delle forti correnti che contraddistinguono il canale della Manica, ma anche nel caso in cui i migranti optino per la percorrenza della via terrestre attraverso l’Eurotunnel. Molti infatti sono i migranti rimasti uccisi nel corso degli ultimi trent’anni nel tratto di autostrada che unisce Francia e Gran Bretagna, sia per asfissia nei tir, nei quali erano nascosti, sia per essere stati investiti dagli automobilisti nel disperato tentativo di chiedere un passaggio fino alla Gran Bretagna (come si legge su questo approfondimento di InfoMigrants).

È necessario pertanto soffermarsi su tale fenomeno per il dato – di non poco rilievo – secondo il quale lo scorso anno sono stati circa 28.000 i migranti arrivati nel Regno Unito percorrendo tale rotta, con un altrettanto elevato numero di dispersi al quale è doveroso aggiungere quello delle persone decedute durante l’attraversamento del canale.

Francia e Gran Breatagna

I resti di un naufragio nelle acque della Manica (fonte Notizie.it).

Francia e Gran Bretagna: la difesa di quali diritti?

Gli sbarchi nel solo 2021 sono triplicati rispetto all’anno precedente e pertanto occorre analizzare le ragioni sottese a tale mutamento. Ciò su cui occorre preliminarmente riflettere, con riferimento alla questione migratoria, è che in tale rotta – come vedremo – gli accordi, i milioni spesi per i finanziamenti per la “gestione” dei flussi migratori, i controlli alle frontiere, le violentissime repressioni perpetrate dalle forze di polizia e i respingimenti non si registrano nell’ambito di rapporti bilaterali tra una potenza occidentale europea e un paese terzo nel quale non viene di fatto assicurato il rispetto dei diritti fondamentali della persona, come la Libia o la Turchia, ma tra due potenze internazionali quali Francia e Gran Bretagna che da secoli si ergono a paladine della tutela dei diritti della persona, principio che hanno posto oltretutto come uno dei pilastri fondanti dei propri sistemi costituzionali.

La rotta per di più – è bene ricordarlo – non è da annoverarsi tra quelle di recente determinazione: essa nasce intorno agli anni ’90, più specificatamente durante la guerra nell’ex Jugoslavia.

Fino al 2015 Calais, la città francese contraddistinta ancora oggi da un basso tasso demografico e da un’alta percentuale di povertà tra i residenti, era l’unica città nella quale stazionava la quasi totalità dei migranti – centinaia ogni anno – che tentavano di raggiungere il Regno Unito e che venivano chiamati dalla popolazione locale “i kosovari”. Erano i tempi della cosiddetta Jungle di Calais, nella quale i migranti, stipati prevalentemente nei containers o nelle tende, “beneficiavano” comunque dell’accoglienza francese in attesa di compiere il tanto agognato viaggio verso la Gran Bretagna. Tra il 2015 e il 2016 la situazione cambiò repentinamente per cui, in esito allo scoppio della guerra in Siria e con la crescente instabilità politica di alcuni paesi del Medio Oriente e in ragione del peggioramento di alcuni scenari legati a perduranti conflitti in Africa, i migranti a Calais raggiunsero le oltre 10.000 unità. Per dirla secondo le parole del noto regista cinematografico e scrittore francese Emmanuel Carrère, autore del libro A Calais, uscito a seguito del reportage che realizzò recandosi personalmente nella cittadina francese nel 2016, la popolazione locale si preoccupò per l’ingente arrivo di quelli che definivano i “siberiani” – ossia, per dirlo in modo corretto, i siriani. Non è difficile immaginare la reazione di ostilità della popolazione locale rispetto a tale aumento dei migranti nella città che già versava in uno stato di sofferenza per la situazione economica e che– è giusto il caso di dirlo visto il richiamo a Carrère “come da copione”, cominciò a manifestare comportamenti fortemente razzisti e xenofobi, percependo l’aumento della presenza dei migranti come simbolo di un ormai precipitato dramma sociale locale.

 

È questo il periodo in cui la Jungle cominciò a essere smantellata attraverso gli sgombri violenti dei migranti da parte dei CRS, gli agenti antisommossa francesi, mediante la distruzione dei containers e delle tende (come riportato anche dai quotidiani italiani e da Amnesty International).

Vi è da questo momento in poi infatti una svolta tragica di questa rotta che finora non si è mai arrestata e rispetto alla quale si rimanda al recente rapporto di Human Rights Watch che analizza le condizioni in cui versano i migranti che stazionano nel nord della Francia e i trattamenti disumani ai quali sono sottoposti.

La Manica, la rotta secondaria

Gli agenti della polizia francese cominciarono dunque in questo periodo a impegnarsi costantemente nella distruzione degli accampamenti informali dei migranti, nella confisca delle tende, in retate notturne che li costringono ancora oggi a scappare più volte all’alba con le tende “sotto braccio”, al lancio di gas lacrimogeni e al disboscamento delle aree intorno a Dunkerque per impedire ai migranti di nascondersi, sottoponendoli così a una tortura psicologica assimilabile a quella già analizzata nell’articolo relativo alla rotta balcanica. Non è casuale tale richiamo poiché la rotta della Manica si contraddistingue per un altro aspetto ovverosia quello di essere una “rotta secondaria”. Infatti, prima di giungere nel Nord della Francia – essendo difficilmente la Francia un paese di primo arrivo – i migranti hanno già percorso altre rotte, prevalentemente quella del Mediterraneo centrale – recentemente analizzata su questo sito – e appunto quella balcanica, per cui arrivano in territorio francese in esito a viaggi estenuanti protratti per molti mesi, se non per anni, e molto tempo dopo aver lasciato il proprio paese di origine. In particolare, se la Francia, come visto, nel 2016 cominciò lo smantellamento dei campi governativi a Calais, dall’altra parte la Gran Bretagna nel 2018 – stanziando circa 2,7 milioni di euro – ha concluso la costruzione di un muro di cemento alto 4 metri e lungo 1 chilometro in prossimità dell’autostrada che unisce i due paesi (si occupò dell’argomento l’Atlante delle Guerre).

Francia e Gran Bretagna

Demolizione della Jungle di Calais nell’ottobre 2016 (foto Edward Crawford / Shutterstock).

Il Trattato di Le Touquet: durata illimitata

Come si registrò in molti altri paesi europei gli accordi per il contenimento dei flussi proliferarono dal 2015 e ciò avvenne anche per la corrente migratoria lungo la Manica ma in questo caso la sottoscrizione di un atto internazionale tra il paese di partenza, comunemente la Francia, e quello di arrivo, la Gran Bretagna, fu siglato già nel 2003 con il Trattato di Le Touquet (il testo, qui), a oggi ancora in vigore.

Prima di analizzare il trattato e gli effetti che su di esso ha avuto l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea mediante la Brexit, entrata in vigore il primo gennaio del 2021, è naturale interrogarsi su quale sia la ragione per la quale i migranti presenti in questa rotta, a oggi prevalentemente curdi iracheni, sudanesi ed eritrei, decidano in modo ostinato di rimanere sulle coste del Nord della Francia per giungere nel Regno Unito. I migranti invero prediligono tale destinazione poiché lì si trovano i familiari di precedenti generazioni a loro volta emigrate diversi anni fa: questo avviene soprattutto nel caso di migranti minori stranieri non accompagnati provenienti da paesi di origine interessati da conflitti di vecchia data. In altri casi la ragione è da rinvenirsi nel fatto che il migrante che risiede stabilmente in Gran Bretagna non ha comunque il reddito sufficiente per avanzare la domanda di ricongiungimento familiare, per cui l’unico modo per raggiungere il familiare è quello di tentare l’impresa lungo la Manica. Inoltre, non è da sottovalutare la conoscenza della lingua inglese che i migranti che transitano in tale rotta possiedono più di quella francese e infine la maggiore coesione tra i gruppi etnici nel Regno Unito rispetto alla Francia.

Il Trattato di Le Toquet del 4 febbraio 2003 tra Francia e Gran Bretagna costituisce la base normativa in conformità della quale sono state istituite strutture nazionali di controllo delle frontiere comuni ai due paesi nei porti marittimi della Manica e nel Mare del Nord destinate al transito delle persone oltre a quello dei veicoli e delle merci. Sono stati autorizzati pertanto gli agenti di polizia dei rispettivi paesi a svolgere le proprie funzioni in modo reciproco, ossia non solo nel territorio di propria appartenenza, ma anche sul territorio dell’altro stato. Il trattato è a favore prevalentemente del Regno Unito: più specificatamente con riferimento ai flussi migratori le norme dello stato di arrivo – principalmente la Gran Bretagna – relative ai controlli di frontiera, sono applicabili oltre che nel proprio territorio anche nelle zone di controllo di frontiera dell’altro stato. Ne discende che le violazioni delle medesime norme, pur se rilevate nel paese di partenza, vengono sanzionate ai sensi della legge dello stato di arrivo come se fossero commesse su tale territorio. È chiaro dunque che lo scopo del Trattato è quello di scoraggiare le partenze verso la Gran Bretagna. Oggetto delle verifiche effettuate da parte dello stato di arrivo nelle zone di frontiera istituite in Francia è la sussistenza, relativamente alle persone che vi transitano, delle condizioni e del rispetto degli obblighi previsti dallo stato di arrivo per il controllo delle frontiere. Gli agenti dello stato di arrivo infatti possono arrestare, trattenere e interrogare le persone che transitano nelle zone comuni debitamente preposte nello stato di partenza, prevalentemente la Francia, per effettuare controlli sull’immigrazione o nell’ipotesi in cui vi siano fondati motivi per ritenere che il migrante abbia violato una norma relativa ai controlli di frontiera.

La gestione del controllo

Nessun individuo tuttavia può essere trattenuto in tale aeree di controllo per un periodo superiore alle 24 ore prorogabile solo eccezionalmente per ulteriori 24. Tutti i controlli alla frontiera da parte dello stato di partenza normalmente devono essere effettuati sempre prima di quelli dello stato di arrivo. Per quanto attiene alla domanda di asilo o di altra forma di protezione internazionale il trattato stabilisce che, qualora venga presentata nel corso dei controlli effettuati dallo stato di arrivo ma nei luoghi di controllo delle frontiere dello stato di partenza, dovrà essere esaminata comunque dalle autorità di quest’ultimo, al quale oltretutto viene attribuita la responsabilità dell’allestimento delle strutture, degli alloggi di servizio e delle attrezzature per l’attuazione delle zone di controllo. Infine, è necessario sottolineare che il presente Trattato ha una durata illimitata con la facoltà per ciascuna delle parti di recedervi con notifica scritta all’altra parte in qualsiasi momento: in tal caso gli effetti del recesso decorreranno due anni dopo dalla data della notifica.

Dal 2021 con l’entrata in vigore del Brexit, in seguito al referendum del 2016 – a sua volta diretta conseguenza del referendum consultivo della Scozia del 2014 relativamente all’indipendenza dal Regno Unito – la maggiore preoccupazione del governo francese è che la dogana relativa all’attraversamento della Manica ritorni esclusivamente in territorio inglese lasciandolo da solo nella gestione dei controlli dei migranti presenti nel Nord del paese.

Allo stesso tempo la Gran Bretagna però, essendo uscita dall’Unione europea, non può più ricorrere al Regolamento Dublino (n. 604 del 2013). Il Regolamento – che come già detto fissa i criteri di individuazione dello stato membro competente a trattare le domande di protezione internazionale – è, secondo la gerarchia delle fonti (qui informazioni sull’ordinamento giuridico), norma di rango superiore rispetto alla legge interna di ratifica di un trattato internazionale, per cui fino al primo gennaio del 2021 le norme del Regolamento Dublino prevalevano su quelle del Trattato di Le Touquet, in special modo in merito alle richieste d’asilo. Sulla base di ciò la Gran Bretagna spesso ricorreva al Regolamento Dublino per rimandare indietro i migranti in Francia in virtù del presupposto che questi, prima di arrivare nel Regno Unito, avessero transitato sul territorio di un altro stato membro, ossia quello francese. Per questo motivo, sulla base del Trattato di Le Touquet, il Regno Unito nel 2021 una volta uscito dall’Unione ha promesso circa 62 milioni di euro alla Francia per il controllo dei flussi migratori lungo la Manica che tuttavia alla del fine 2021 non risultavano ancora versati. Quindi ad ottobre dello scorso anno il ministro degli Interni francese Darmanin ha invitato il Regno Unito a stanziare i fondi promessi e a negoziare con l’UE un trattato sull’immigrazione, appello che non ha avuto alcun seguito da ambo le parti (come si legge qui).

Infatti con la Brexit, oltre a essere aumentato notevolmente il costo del viaggio per i migranti, si sono inaspriti i rapporti tra i due paesi che si sono accusati reciprocamente: per quanto riguarda Il Regno Unito di non adempiere ai controlli dovuti e per quanto riguarda la Francia di procedere con i respingimenti senza valutare nel merito le domande d’asilo.

Fonte: Ispi.

Asilo impossibile

A peggiorare tale situazione è intervenuto il Sovereign Borders Bill, la proposta di legge sulla cittadinanza e sul diritto d’asilo nel Regno Unito, in conseguenza della Brexit, presentata dal ministro degli Interni britannico Priti Patel a luglio del 2021 dopo la concessione da parte di Westminster, nel novembre del 2020, di poteri legislativi eccezionalmente ampi al ministro degli Interni. Secondo tale proposta non solo l’ingresso nel territorio del Regno Unito – sprovvisti di documenti – integrerebbe una fattispecie di reato punita con la reclusione da 6 mesi a 4 anni, ma è previsto il maggior conferimento di poteri alla polizia di frontiera che potrà bloccare i migranti in mare e forzare i respingimenti – intensificando proprio quelli verso la Francia, qualora i migranti arrivino con barconi provenienti dalla Manica, nonché il rimpatrio per chi più genericamente arriva nel Regno Unito  transitando per paesi definiti “sicuri”. A tutto ciò va aggiunta la previsione del confinamento per i richiedenti asilo sprovvisti di documenti di ingresso nel Regno Unito su isole lontanissime come Ascension Island, a ben 6000 miglia da Londra o su piattaforme petrolifere fuori uso, in attesa che si decida in merito alla loro domanda d’asilo o sul loro respingimento. È chiaro quindi che se tale proposta di riforma venisse approvata dal Parlamento inglese diverrebbe quasi impossibile presentare la domanda d’asilo nel Regno Unito. Inoltre, la ministra degli Interni paradossalmente figlia di immigrati ma autrice di questo agghiacciante quadro normativo, si è spinta oltre prevedendo altresì la possibilità di creare centri di detenzione – sul modello australiano – in Papa Nuova Guinea, Marocco o Moldavia, ipotesi fortunatamente respinta dal ministro degli Esteri poiché ritenuta eccessivamente onerosa. Ciò che risulta oltremodo allarmante in ogni caso, anche se non stupisce particolarmente, è che tali politiche – pur essendo la Gran Bretagna uscita dall’Unione Europea – siano perfettamente in linea con quelle esplicitate nel nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo proposto della Commissione europea e con quelle di buona parte degli stati membri: in particolare vale la pena citare la Danimarca che, come noto, recentemente ha approvato una nuova legge che le consente di trattare le domande d’asilo fuori dal territorio dell’Unione (un approfondimento qui).

Benvenuti al Nord

Si arriva dunque al drammatico naufragio del 24 novembre 2021 che ha avuto un’eco internazionale (qui il report di Ispi) non soltanto per il numero dei migranti morti nella traversata nella Manica, 27 per la precisione con tre superstiti – tra le vittime sette donne, un adolescente e un bambino di sette anni – ma per le modalità del naufragio, essendo stati ritrovati i migranti a bordo di una piscina gonfiabile distrutta (dopo la lungimirante decisione di Decathlon, probabilmente su pressione del governo francese, di non vendere più le proprie canoe ai migranti) e per il comportamento probabilmente adottato dalle autorità di Francia e Gran Bretagna anche in questa circostanza come in passato che – quando contattate dai migranti nel Canale – hanno portato avanti un ridicolo e deplorevole teatrino di rimpallo di responsabilità.

Una volta arrivati al punto di non ritorno ossia alla strage di vite umane hanno dunque messo in atto la solita pantomima di cordoglio per quanto accaduto senza mancare anche in questa circostanza di sottolineare le responsabilità dell’altro stato. Francia e Gran Bretagna sono state prontamente richiamate per iscritto dal commissario del Consiglio d’Europa Mijatovic ma anche questo non ha impedito loro di continuare a battibeccare sulla questione migratoria.

Per cui dalle dichiarazioni sconcertanti del ministro degli Interni francese che ha sostenuto – rispetto a quanti hanno lamentato la presenza immobile dei soccorritori francesi mentre i migranti naufragavano – che i funzionari francesi in quel momento erano minacciati dagli stessi migranti di lanciare i bambini in mare se li avessero riportati indietro, si arriva alla “seria” comunicazione diplomatica su Twitter (?!) di rimprovero del presidente Boris Johnson – attualmente del tutto in panne a livello politico – rivolta al presidente Macron in merito all’accaduto.

Grazie a tale lettera “istituzionale” è stato ritirato dalla Francia l’invito alla ministra Patel al vertice con le istituzioni europee organizzato con alcuni paesi membri quali Belgio, Olanda e Germania per affrontare la questione dei flussi migratori nel canale della Manica e nel corso del quale c’è stata un’evidente sensibilizzazione sul tema, dato che è stata raggiunta la proposta “rivoluzionaria” di mandare quotidianamente dal 1 dicembre un aereo di Frontex a pattugliare giorno e notte il canale!

Inoltre, Londra a quel punto ha cercato e ottenuto un’intesa con il Belgio con il quale a fine novembre 2021 ha siglato un accordo di cooperazione con riferimento ai flussi migratori.

Quindi pur distaccandosi la Gran Bretagna dall’Unione ha portato comunque con sé la peggiore delle eredità delle sue politiche e qualora Westminster approvi il famigerato Bill di luglio si porrà in una posizione xenofoba in materia alla pari di alcuni dei paesi membri dell’UE appartenenti al gruppo di Visegrad. E la Francia? Purtroppo, nonostante i suoi ancestrali principi di libertà, fraternità, e uguaglianza difficilmente taglierà qualsiasi rapporto diplomatico con il Regno Unito per via della questione migratoria, rappresentando questo l’unico modo per controbilanciare nell’UE la posizione della Germania divenuta ancora maggiormente “ingombrante” dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea.

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