Mar Rosso Archivi - OGzero https://ogzero.org/regione/mar-rosso/ geopolitica etc Sat, 02 Sep 2023 22:50:08 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Il Sahelistan dall’Atlantico al Mar Rosso https://ogzero.org/il-sahelistan-dallatlantico-al-mar-rosso/ Mon, 21 Aug 2023 20:51:37 +0000 https://ogzero.org/?p=11453 La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da […]

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La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da Sarkozy) che furono alleati del jihad che imperversa nel territorio su cui sono segnati i confini tra Mali, Burkina e Niger – ha assistito alla penetrazione di nuove potenze (in particolare Russia con la presenza di Wagner e Cina che ha aperto una sede per manutenzione di veicoli della Norinco a Dakar – pronta a difendere i vasti interessi di Pechino nei tre paesi dei golpe, ma operativa anche in Senegal, Costa d’Avorio –, ma anche Turchia e paesi della penisola araba), che hanno sfruttato dispute interne, sentimenti antifrancesi, insorgere del jihad per piegare a loro favore lo sfruttamento delle risorse del territorio e la collocazione strategica di cerniera tra Africa centrale (e Corno d’Africa) e Mediterraneo da sud a nord; tra l’Oceano e l’importantissimo corridoio del Mar Rosso sul classico asse ovest/est. L’incendio si va estendendo ormai da quel Triangolo di paesi attualmente retti da giunte militari golpiste fino a legarsi al sanguinoso conflitto sudanese ormai impossibile da comporre (che sta causando nuovi esodi di massa, coinvolgendo in questo modo altri paesi in sofferenza, perché non più in grado di accogliere profughi, creando così nuovi motivi di tensione nell’area dopo quelli che hanno scosso l’Etiopia negli ultimi due anni).
A chi serve creare un’area a forte instabilità sul modello afgano di dimensioni così enormi? è tutto parte di un disegno globale di ridimensionamento del predominio dell’Occidente, oppure è un percorso senza alternative di decolonizzazione, che fa della Realpolitik l’accettazione di potenze alternative, pur di disfarsi del giogo classicamente coloniale? le reazioni interventiste dei paesi limitrofi sono ispirate dalla paura dell’epidemia; oppure dagli sponsor europei, come il solito Eliseo (Adamu Garba, esponente dell’Apc ha accusato Usa e Francia di aver voluto mandare avanti l’Ecowas per innescare una guerra regionale e recuperare posizioni “coloniali”, sfruttando l’instabilità e l’ennesima guerra per procura che finirebbe con il distruggere l’Africa occidentale)
?  Oppure nascono dalla consapevolezza che la regione è stata integralmente posta in un caos per cui nulla sarà più come prima? Sicuramente si sta spostando in campo africano lo scontro anche militare che contrappone gli interessi dei Brics allargati all’egemonia occidentale.
Angelo Ferrari ha cercato di fare il punto mettendo in relazione tutti gli elementi in campo per dipanare l’ingarbugliata matassa.


Il golpe nigerino sblocca definitivamente il modello afgano per l’intero Sahel?

A ovest del lago Ciad

Rulli di tamburi…

Tutti i riflettori della diplomazia internazionale sono puntati sul Niger, dopo il colpo di stato del 26 luglio. Mentre ciò accade il Sahel rischia di piombare in un caos senza precedenti che potrebbe coinvolgere tutta l’Africa occidentale e non solo: l’intera  striscia saheliana è attraversata da tensioni che vanno dal sentimento antifrancese e antioccidentale, che sta montando un po’ ovunque, a una crisi politica, umanitaria e di sicurezza senza precedenti. La decisione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) di intervenire militarmente in Niger sta esacerbando ulteriormente le opinioni pubbliche di diversi stati della regione; non più, dunque, una minaccia, ma un piano militare messo a punto dopo due giorni di vertice ad Accra, capitale del Ghana. Non si conoscono i dettagli dell’operazione, si sa solo che dovrebbe essere “lampo” perché nel Sahel c’è stato “un colpo di stato militare di troppo”, a detta dei generali riuniti ad Accra. Intervento armato, tuttavia, che non avrebbe alcuna legittimità internazionale: l’Unione africana infatti ha già detto il suo no e le Nazioni Unite non hanno nessuna intenzione di autorizzarlo.

… timide mosse diplomatiche…

Mentre si parla di piani militari, la diplomazia è ancora al lavoro. Una delegazione dell’Ecowas è arrivata a Niamey dove ha potuto incontrare il presidente destituito, Mohamed Bazoum; non solo, a Niamey è arrivata anche la nuova ambasciatrice degli Stati Uniti, Kathleen FitzGibbon, anche se non presenterà le credenziali alla giunta militare – perché Washington non la riconosce – esprimendo tuttavia l’intenzione americana di perseguire la via diplomatica e «per sostenere gli sforzi che aiutino a risolvere la crisi politica in questo momento». Un segno, dunque, che la giunta militare non respinge del tutto il dialogo.
tanto che in un discorso alla televisione pubblica nigerina, Télé Sahel, il generale Abdourahamane Tchiani, a capo della giunta militare, ha annunciato l’istituzione di un «dialogo nazionale inclusivo» entro 30 giorni e ha annunciato una transizione che «non può durare oltre i tre anni». L’obiettivo è formulare «proposte concrete per porre le basi di una nuova vita costituzionale».
Un mantra, quest’ultimo, che ha precedenti in Mali, Burkina Faso e Guinea, paesi che sono stati teatro di colpi di stato negli ultimi due anni e dove le transizioni si prolungano senza che vengano convocate elezioni per un ritorno dei civili al governo di questi paesi. Il generale Tchiani, tuttavia, non accetta la minaccia dell’Ecowas di un intervento militare e rilancia: «L’Ecowas si prepara ad attaccare il Niger allestendo un esercito di occupazione in collaborazione con un esercito straniero», ha detto Tchiani senza citare il paese “straniero”, ma in molti pensano alla Francia.

… esibizione di muscoli

«Né il Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria né il popolo del Niger vogliono la guerra, ma se dovesse essere intrapresa un’aggressione, non sarà la svolta in cui alcuni credono» e ha ammonito: «Le forze di difesa del Niger non si tireranno indietro», sostenute da Burkina Faso, Mali e Guinea, ha detto. «La nostra ambizione non è quella di confiscare il potere», ha anche promesso.

A est del lago Ciad

Il conflitto tra al-Burhan e Hemedti si estende a tutti i Signori della guerra

Mentre ciò accade nell’estremo ovest della striscia saheliana, il Sudan è entrato nel quinto mese di guerra senza che si intraveda all’orizzonte una soluzione. Anzi, sembra proprio che i contendenti vogliano arrivare alle estreme conseguenze. Intanto il conflitto si è esteso, impantanato, aggravato provocando un dramma umanitario che nemmeno l’Onu è in grado di affrontare. La guerra contrappone l’esercito regolare del generale al-Burhan alle Forze di supporto rapido (Fsr) dei paramilitari guidati dal generale Hemedti. Il conflitto ha causato più di quattromila morti, anche se la cifra delle vittime è sottostimata, e milioni tra profughi e sfollati interni. Quando la guerra è scoppiata, il 15 aprile 2023, il generale al-Burhan ha detto che sarebbe finita in due settimane, mentre Hemedti prometteva la vittoria. Oggi nessuna delle due parti sembra prendere un vantaggio decisivo. I militari dominano ancora lo spazio aereo, mentre soffrono la debolezza della loro fanteria, un compito, ironia della sorte, che avevano affidato proprio alle Fsr. L’esercito ha subito battute d’arresto nel Sud Kordofan, nel Nilo Azzurro e nel Darfur, le Forze di supporto rapido sembrano avere nelle mani la maggior parte del territorio di Khartoum, la capitale.
Il conflitto dunque, anziché attenuarsi, si intensifica è sta coinvolgendo altri movimenti armati che partecipano ai combattimenti. Insomma, questo conflitto, iniziato tra due generali, rischia di trasformarsi in una vera e propria guerra civile, secondo l’Onu, volgendo verso una situazione di anarchia totale. I negoziati, inoltre, non sono mai decollati e sono in una fase di stallo e i cessate il fuoco non sono mai durati.

S’intrecciano le crisi umanitarie regionali

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Nilo

Sul versante umanitario le cifre sono da capogiro con oltre 3 milioni di sfollati e quasi 1 milione di rifugiati. Inoltre, entro settembre si prevede che il 40% della popolazione soffrirà di insicurezza alimentare. Le organizzazioni umanitarie stanno affrontando una situazione a dir poco scoraggiante con una mancanza allarmante di fondi, all’appello mancano due miliardi di dollari per far fronte alla crisi. Le donne sono particolarmente colpite, sono vittime di violenze e stupri perpetrati dai combattenti e private di un’adeguata assistenza psicologica e medica, hanno spiegato i portavoce delle agenzie umanitarie durante una riunione a Ginevra. Le agenzie possono aiutare circa 19 milioni di persone in Sudan e nei paesi limitrofi, tuttavia gli interventi sono finanziati solo al 27%. Le Nazioni Unite hanno lanciato due appelli, uno per finanziare gli aiuti all’interno del paese per un totale di 2,57 miliardi di dollari e l’altro per i rifugiati fuggiti dal Sudan per un importo di 566,4 milioni di dollari. Ma dopo la crisi innescata dal colpo di stato in Niger, del Sudan sembra si siano dimenticati tutti e ciò rischia di aggiungere catastrofe a catastrofe.

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Niger

Le conseguenze di un intervento militare dell’Ecowas a Niamey sarebbero devastanti sia sul piano umanitario sia sul piano della sicurezza dell’intera regione. Già si vedono spostamenti di persone sul fiume Niger nella parte che confina con il Benin, considerato, ancora, uno stato sicuro. Nel paese la crisi umanitaria si sta già manifestando. Le frontiere chiuse impediscono il passaggio di merci necessarie alla sopravvivenza della popolazione, così come l’elettricità scarseggia in più parti del paese per via delle interruzioni delle forniture che arrivano dall’estero. Una guerra, per quanto lampo sia, aggraverebbe ulteriormente la situazione umanitaria.

A Ovest (speriamo) niente di nuovo

Una guerra, che potrebbe estendersi a buona parte del Sahel – Mali e Burkina Faso hanno già assicurato il loro appoggio al Niger – avrebbe ripercussioni preoccupanti sul fronte della lotta al terrorismo e ai gruppi jihadisti che imperversano nell’area, in particolare nella regione dei tre confini – Niger (Tilaberi), Mali (Tessit) e Burkina Faso (Tamba), dove storicamente la pastorizia nomade si scontra con coltivatori stanziali – ma anche sulla capacità dei paesi del Golfo di Guinea, già colpiti dal terrorismo a nord dei loro confini – Costa d’Avorio, Benin e Togo – di farvi fronte. Una situazione, dunque, esplosiva.

Recrudescenza jihadista dopo Barkhane

Dal colpo di stato in Niger di fine luglio, infatti, sono stati registrati nove attacchi jihadisti. Una tendenza che preoccupa gli osservatori. Con la recrudescenza degli attacchi islamisti, il timore è di “un rapido deterioramento della situazione”, in primo luogo perché Parigi ha sospeso la sua cooperazione militare con il Niger. L’esercito nazionale quindi non beneficia più dell’appoggio dell’esercito francese. Non ci sono più operazioni congiunte, aerei e droni non danno più supporto e i terroristi approfittano del vuoto. Poi, le minacce di intervento armato dell’Ecowas hanno portato a una riduzione del sistema militare occidentale, che hanno sospeso le loro attività ai confini. Ciò potrebbe portare un calo della reattività dell’esercito nigerino e i gruppi jihadisti potrebbero approfittarne riconquistando la loro libertà di manovra con un radicamento dello Stato Islamico proprio nell’area dei tre confini. Le preoccupazioni vanno ancora oltre, con la possibile creazione di zone grigie, in parte controllate da gruppi armati, in Mali, Burkina, Niger, persino Sudan, che potrebbero destabilizzare il vicino Ciad. Il Ciad, pur non essendo membro dell’Ecowas, condivide con il Niger 1200 chilometri di confine e dispone, oltre ad avere solidi rapporti con la Francia, di un esercito tra i più potenti dell’area. Quindi il Niger ha necessità di assicurarsi rapporti di buon vicinato – il primo ministro nigerino, nominato dalla giunta militare, ha fatto visita al presidente ciadiano Mahamat Idriss Deby – anche se N’Djamena è alle prese con una crisi interna di legittimità del potere e con l’emergenza profughi che arrivano a decine di migliaia dal Sudan.

A rischio sconfinamenti i paesi del Golfo

Si teme, inoltre, che i gruppi jihadisti possano contagiare anche i paesi del Golfo di Guinea. Questa è la maggior preoccupazione della Costa d’Avorio che è già alle prese con sconfinamenti dal Burkina Faso e con centinaia di profughi burkinabé che cercano rifugio nel nord del Paese. Ciò, inoltre, potrebbe spiegare la ferma posizione del presidente ivoriano, Alassane Ouattara, che si è schierato con decisione per un intervento militare in Niger, dicendosi disponibile a fornire un battaglione del suo esercito al contingente dell’Ecowas. Occorre ricordare che Ouattara è uno dei pochi “fedeli” alla Francia rimasti nella regione. E il presidente ivoriano è preoccupato che anche nel suo paese possa montare un sentimento antifrancese alimentato, soprattutto, dal suo rivale di sempre l’ex presidente Laurent Gbagbo, 78 anni, che non nasconde le sue velleità di tornare alla presidenza della Costa d’Avorio, nel 2025, con il suo nuovo Partito dei popoli africani-Costa d’Avorio (Ppa-Ci), di ispirazione e orientamento socialista e panafricanista, nemmeno troppo velatamente antifrancese.

Scosso anche il gigante Senegal da sommovimenti interni

Non meno turbolenta appare la situazione nell’estremo ovest della striscia saheliana, in un Senegal che vive un periodo di forte crisi politica e di legittimità democratica, soprattutto dopo l’arresto dell’oppositore Ousmane Sonko, uno dei leader politici più amati dai giovani senegalesi. Arresto che ha provocato manifestazioni di piazza violente, che hanno lasciato sulle strade numerosi feriti ma anche morti. In conseguenza di queste proteste il ministro dell’interno senegalese, Antoine Diome, ha annunciato lo scioglimento proprio del partito di Sonko, il Pastef – Les patriotes. Il leader dei “giovani senegalesi” è stato condannato per diffamazione e per corruzione giovanile. Secondo le opposizioni queste condanne non hanno altro significato che escludere Sonko, che gode di un buon seguito, dalle elezioni presidenziali del 2024. Il Senegal è un altro paese in forte ebollizione e non è bastata la decisone di Macky Sall, attuale presidente, di non candidarsi per un terzo mandato alle presidenziali a inizio luglio per stemperare la tensione nel paese. In punta di diritto potrebbe farlo, anche se la Costituzione prevede solo due mandati, ma è stata riformata, con una rimodulazione della lunghezza del mandato, proprio sotto la presidenza Sall. Le opposizioni, infatti, si rammaricano del fatto che il presidente Sall e il suo governo rimangano sordi alle richieste di allentamento, pacificazione e fine delle restrizioni agli spazi di libertà. I mesi, dunque, che separano il Senegal alle presidenziali del febbraio 2024 saranno particolarmente difficili. Non è un caso, inoltre, che le opposizioni senegalesi si siano schierate contro l’intervento militare dell’Ecowas in Niger.
Sono molte le ragioni che dovrebbero dissuadere dal mettere in atto lo scenario peggiore per il Sahel e per l’intera Africa occidentale. Un conflitto armato su vasta scala potrebbe scatenare reazioni non proprio prevedibili e trasformare il Sahel in un “Sahelistan” di afgana memoria.

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A chi è utile la Wagner? https://ogzero.org/a-chi-e-utile-la-wagner/ Tue, 27 Jun 2023 16:00:14 +0000 https://ogzero.org/?p=11209 Che fine farà la Wagner? A chi è utile? Il continente africano è utile alla Russia come fonte di approvvigionamenti e di nuovi mercati alternativi a quello europeo, e la milizia capeggiata da Prigozhin era la testa di ponte russa che serviva allo scopo per militarizzare le risorse ottenute e controllare i territori che le […]

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Che fine farà la Wagner? A chi è utile? Il continente africano è utile alla Russia come fonte di approvvigionamenti e di nuovi mercati alternativi a quello europeo, e la milizia capeggiata da Prigozhin era la testa di ponte russa che serviva allo scopo per militarizzare le risorse ottenute e controllare i territori che le ospitano (senza contare l’utilizzo anti-jihad fattone da parte dei numerosi dittatori o golpisti africani). In Occidente non se ne è parlato molto in questi giorni in cui si è assistito ai fatti avvenuti in Casa Russia, ma è bene che se ne tenga conto, per capire gli sviluppi negli equilibri futuri del continente e degli investimenti che lì sono in corso. Angelo Ferrari ne parla qui e nel podcast dedicato al neocolonialismo africano, un’intervista per la trasmissione “I bastioni di Orione” di Radio Blackout.


La Wagner si sfalderà in Africa o verrà riassorbita nei ranghi ufficiali russi? È quello che si stanno chiedendo molti dittatori o golpisti africani che fanno ricorso ai mercenari della Compagnia Wagner per “sistemare” le questioni interne dei loro paesi, in particolare la lotta al jihadismo come nel Sahel. Di sicuro, fino a ora, la Wagner è la testa di ponte di Mosca per riaffermare la sua influenza su parte del continente africano. La Russia ha bisogno dell’Africa per due motivi: il primo perché deve trovare nuovi partner, nuove fonti di approvvigionamento, e nuovi mercati alternativi a quello europeo; il secondo luogo perché il sogno della Russia è quello di rafforzare il suo ruolo di gigante minerario per poi cercare di militarizzare le risorse, sviluppando tecnologia bellica. Per queste ragioni Vladimir Putin ha utilizzato la Wagner come forza di sfondamento nel continente africano. Questo, inoltre, ha fatto sì che la base operativa economica della Wagner sia diventata l’Africa. Un aspetto che l’Occidente non deve sottovalutare come gli avvenimenti dei giorni scorsi in Russia.

Dove opera la Wagner

L’attività del gruppo Wagner si svolge in tredici paesi diversi: Libia, Eritrea, Sudan, Algeria, Mali, Burkina Faso, Camerun, Sud Sudan, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Madagascar, Mozambico e Zimbabwe. Tutti paesi ricchi di risorse naturali di cui Mosca ha bisogno e sulle quali si è sviluppata la forza della Wagner, non solo militare, ma economica. La Repubblica Centrafricana, per esempio, è diventata per la Wagner un partner privilegiato – ha 13 basi militari – ha prestato i suoi servigi militari a difesa del governo del presidente Faustin-Archange Touderà, minacciato dai ribelli e da una guerra civile, avendo in cambio un accesso privilegiato alle miniere d’oro e di diamanti, oltre ad avere il controllo di alcuni ministeri. Significativo, da questo punto di vista, Il divieto di sorvolo dei droni, deciso a febbraio dal governo centrafricano, proprio per tutelare le attività di Wagner nella miniera d’oro di Ndassima, recentemente ampliata e messa in sicurezza.

Una situazione simile si sta verificando in Mali e in Burkina Faso. Con il fallimento dell’operazione antiterrorismo Barkhane e il conseguente ritiro dei francesi, il campo si è aperto ai russi e alla Compagnia Wagner – nonostante i governi di questi paesi neghino – che è passata all’incasso. Secondo un recente rapporto dell’Africa Command degli Stati Uniti, il Mali paga Wagner il corrispettivo di 10 milioni di dollari al mese, sotto forma di risorse naturali come oro e pietre preziose.

Il forziere economico della Wagner: contratti, armi e potere

E poi c’è il Sudan. La guerra tra l’esercito regolare del generale Abdel Fattah al Burhan e il capo delle Forze di supporto rapido (Fsr), Mohammed Hamdane Dagalo, detto Hemedti, continua senza tregua. E la Wagner, pur sostenendo le milizie Fsr, è rimasta defilata, si è occupata solo del trasferimento di armi dalla sua base in Cirenaica, in Libia, è ha privilegiato i suoi interessi economici che sono indipendenti da chi prevarrà sul campo. I rapporti tra Mosca e Kharthoum sono di lunga data. Il Sudan è ricco di metalli preziosi, la stragrande maggioranza dei quali viene esportata illegalmente. Molte miniere sono nelle mani di Hemedti. In questo settore la Wagner agisce attraverso la società M Invest di Yevgeny Prigozhin e la sua controllata Meroe Gold, che si è trasferita in Sudan nel 2017 e lavora con Aswar, una società controllata dall’intelligence militare sudanese. Il gruppo di giornalisti del Progetto di segnalazione di criminalità organizzata e corruzione (Occrp) è riuscita a raccogliere prove di un contratto tra Meroe Gold e Aswar. La società russa, inoltre, è esentata dal 2018 dalla tassa del 30% imposta dalla legge sudanese alle società aurifere. Anche per queste ragioni Wagner in Sudan ha assunto un profilo opportunista piuttosto che fedele a una particolare fazione. Questo ha permesso a Prigozhin di proseguire le sue attività economiche anche dopo la caduta del dittatore Omar al-Bashir e anche dopo il golpe del 2021, messo in atto proprio da chi ora si combatte per il potere. Dunque, il vero forziere economico della Wagner è in Africa. E tutto ciò fa gola anche a Putin.

Ascolta “Neocolonialismo africano: la trappola dietro allo sforzo di affrancamento” su Spreaker.

Le “fattorie di troll”

Dopo la “tentata marcia” su Mosca da parte della Wagner, nel continente africano non si segnalano particolari movimenti del gruppo. I mercenari, abituati a lavorare in autonomia, continuano le loro attività: sicurezza, sfruttamento delle risorse naturali e manovre di disinformazione con lo scopo di avvicinare le opinioni pubbliche alle ragioni della Russia. La compagnia Wagner, già dal 2017, ha utilizzato campagne per destabilizzare e manipolare le opinioni pubbliche attraverso le sue “fattorie di troll” sia in Sudan così come nel Sahel.

I due possibili sbocchi

Molti analisti concordano che Wagner non può fare a meno del supporto logistico dell’esercito russo nelle sue operazioni in Africa. Mosca fornisce armi e istruttori a molti paesi. Ma, anche in caso di smantellamento del gruppo Wagner, la Russia non lascerà il terreno non “occupato”. Le conquiste politiche, economiche e diplomatiche dell’ultimo decennio sono vitali per Mosca. I leader africani, che si avvalgono dei servizi dei mercenari russi, devono necessariamente interrogarsi anche sui rapporti di forza in Russia, soprattutto se i contrasti dovessero durare, potrebbero trovarsi di fronte a un conflitto di lealtà. I leader africani, così come molte cancellerie occidentali e asiatiche, stanno aspettando che la “polvere si depositi”. Di certo se la Wagner viene riassorbita nei ranghi dell’esercito di Mosca, il problema non si pone. I leader africani potranno continuare a trattare con questa compagnia senza il timore di scatenare conflitti di fedeltà con la Russia. Altro se Prigozhin rimarrà a capo della Wagner “africana”. Allora si entrerebbe in una zona grigia, senza dimenticare che la gran parte del personale russo schierato in Africa appartiene alla Wagner.

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Africa Day: le sfide anticoloniali sono sempre attuali https://ogzero.org/africa-day-le-sfide-anticoloniali-sono-sempre-attuali/ Thu, 25 May 2023 21:40:42 +0000 https://ogzero.org/?p=11124 Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale. Eppure l’Africa è […]

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Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale.
Eppure l’Africa è al centro di ogni affare (Descalzi incontra Nguesso per inaugurare il “Congo Lng”), interesse (Kuleba incontra i leader dell’UA in vista di mediazione sulla guerra), ricchezza (Tshisekedi – nato nel 1963, come l’UA – si accorda sul cobalto con Xi)… queste solo alcune delle notizie odierne. In Ghana Gold Fields e AngloGold Ashanti si uniscono per creare la più grande miniera d’oro africana e contemporaneamente un tornado sradica l’albero della libertà… ci sarà una qualche correlazione?


Dopo il colonialismo… 60 anni di neocolonialismo

Le celebrazioni, in Africa, hanno sempre un valore simbolico. Ricche di retorica ma anche di auspici. Appartengono alla vita delle comunità e degli stati. Anche in questo giorno, in cui si celebra l’Africa Day, il continente si è mobilitato.
Oggi si ricordava la fondazione dell’Organizzazione dell’Unità africana (Oua), che avvenne il 25 maggio del 1963, sessant’anni fa. In alcuni paesi prende il sopravvento la retorica condita di anticolonialismo. In altri, invece, si guarda al futuro e alle sfide, che retoriche non sono, che attendono un continente provato dalla pandemia di Covid, dall’inflazione dei prezzi dei generi energetici e, soprattutto, alimentari dovuto alla situazione economica globale aggravata dalla guerra in Ucraina.

Le sfide del continente

Ma sono anche altre le sfide. Il terrorismo, per esempio, e tutt’altro che sconfitto anzi, dilaga in molti paesi come il Mali, Il Burkina Faso, che sembrano essere incapaci di farvi fronte nonostante i paesi siano stati squassati da colpi di stato. Dall’arrivo dei militari al potere la situazione, se possibile, si è ancora aggravata e nulla ha potuto la retorica anticoloniale, in particolare il sentimento antifrancese che pervade le popolazioni di questi due paesi, ma anche la simpatia, che è diventata rapporto strutturale con la Russia, che fornisce armi e mercenari della Compagnia Wagner. Tutto il Sahel è pervaso da una ondata jihadista senza precedenti, con le cancellerie internazionali preoccupate per la possibile saldatura con le organizzazioni criminali internazionali.  Cancellerie che, tuttavia, non sono state in grado di risolvere il problema perché hanno privilegiato l’intervento securitario – necessario – alla cooperazione allo sviluppo. Il terrorismo nel Sahel, così come in Somalia, si alimenta della povertà dilagante, dell’incapacità degli stati di far fronte ai bisogni della popolazione. Verrebbe da dire che l’arma più efficace per combattere i terroristi sarebbe mettere in campo riforme economiche e un welfare state degno di questo nome, così da togliere da sotto i piedi dei terroristi il loro terreno privilegiato, cioè la povertà. Lavoro non da poco.
Ma sono molte altre le sfide che attendono il continente, soprattutto economiche. L’intera Africa deve avere come faro la diversificazione economica, non può affidarsi, solo, alle materie prime, pur preziose per avere le risorse per creare un tessuto industriale manifatturiero. Significativo da questo punto di vista lo sbilanciamento delle relazioni con la Cina, il primo partner commerciale del continente. Nei primi quattro mesi del 2023 le esportazioni cinesi verso i paesi africani sono cresciute del 26,9%, mentre quelle dell’Africa verso la Cina sono diminuite dell’11,8%. Uno squilibrio evidente, aggravato dal fatto che Pechino esporta in Africa prodotti finiti – tessile, abbigliamento, macchinari, elettronica – mentre le esportazioni africane verso la Cina sono dominate da materie prime come petrolio greggio, rame, cobalto e minerale di ferro, di cui il Dragone ha estremamente bisogno. Proprio per queste ragioni il continente deve lavorare con più determinazione per la costruzione di un tessuto produttivo manifatturiero.
Questa, inoltre, è la grande sfida che attende l’Area di libero scambio continentale africana (Afcta) – entrata in vigore nel gennaio del 2021 – un mercato di 1,2 miliardi di persone e di un Pil combinato di circa 3,4 trilioni di dollari. Un’area commerciale che stenta a decollare per la mancanza di infrastrutture sicure, capaci di collegare gli stati ma soprattutto per la risibilità della manifattura africana. Tra i paesi del continente non possono circolare, solo, le materie prime, queste se le accaparrano le multinazionali e portano beneficio a pochi. L’Africa vive un paradosso: è ricca di risorse, ma, per fare un esempio, i due colossi nella produzione di petrolio in Africa subsahariana – Angola e Nigeria – importano circa l’80% del loro fabbisogno in carburante. Da non trascurare che le materie prime sono soggette alle oscillazioni dei mercati internazionali.
Altra sfida è quella dell’energia elettrica. Ancora nel 2023 milioni di africani rimangono al buio, e anche questo è un paradosso viste le potenzialità del continente: solare, idroelettrico, geotermico, eolico, energie pulite come l’idrogeno verde. Mettere a sistema tutto ciò darebbe un impulso al mercato unico e quindi a uno sviluppo sostenibile ma, soprattutto durabile.  Questione che solo un’organizzazione sovranazionale, come l’Unione Africana, può affrontare.

Oligarchie dinastiche senza fine…

Poi ci sono questioni puramente politiche. Lasciamo da parte i presidenti africani che durano in eterno senza produrre benefici per le popolazioni ma solo animati da bulimia di potere e, spesso, sostenuti dallo stesso occidente così attento allo stato di diritto. Il punto, per rimanere alle celebrazioni di oggi, sarebbe l’attribuzione di un ruolo da pari nei consessi internazionali all’Unione africana.

vs un seggio permanente all’Onu

Un’ipotesi che si sta materializzando e potrebbe diventare concreta: un seggio, per così dire, permanente, non solo da osservatore, come spesso è capitato nei vari G20 o G7 che siano, dove di volta in volta, veniva invitato qualche presidente africano o gli stessi esponenti dell’Unione africana. Così come soddisfare la richiesta dell’Unione africana di occupare un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Formalizzare e concretizzare una presenza “permanente” avrebbe il significato di trasformare il continente africano in potenza che decide, non più, dunque, con un ruolo subalterno che ogni volta negozia con questo o quello stato occidentale, ma protagonista del proprio futuro di fronte alle potenze internazionali. Tutto ciò sarebbe un cambio di paradigma perché porterebbe l’Africa a discutere, da pari, del proprio sviluppo sia economico sia politico e sociale, con l’occidente sviluppato.

Non è una cosa qualunque, sarebbe epocale.


Come epocale è l’espianto del Freetown Cotton Tree in questa data simbolica

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Etiopia Saudita. Fornire migranti usa-e-getta https://ogzero.org/etiopia-saudita-fornire-migranti-usa-e-getta/ Sun, 30 Apr 2023 11:33:24 +0000 https://ogzero.org/?p=10858 Qui Gianni Sartori offre un bello spaccato sui diritti a geometria variabile insiti nell’approccio alla filosofia ed economia politica dell’Arabia Saudita. Un mondo antropologicamente diverso retto da norme differenti, di cui  l’estensore del pezzo evidenzia le storture umanitarie, lo schiavismo e lo sfruttamento in particolare di genti etiopi. Motivo per cui l’articolo che proponiamo  è […]

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Qui Gianni Sartori offre un bello spaccato sui diritti a geometria variabile insiti nell’approccio alla filosofia ed economia politica dell’Arabia Saudita. Un mondo antropologicamente diverso retto da norme differenti, di cui  l’estensore del pezzo evidenzia le storture umanitarie, lo schiavismo e lo sfruttamento in particolare di genti etiopi. Motivo per cui l’articolo che proponiamo  è tutto sul filo del rapporto tra le due sponde del Mar Rosso. Il podcast dell’intervento di Laura Silvia Battaglia su Radio Blackout del 20aprile 2023, inserito a corredo del testo, inquadra la posizione nello scacchiere internazionale della Arabia Saudita in uno snodo epocale che con la rivoluzione di partnership operata da Mbs con il sua Vision2030 produrrà conseguenze per l’intero Medio Oriente e zone limitrofe… e al di là del Mar Rosso sono già evidenti con lo scardinamento della diarchia in Sudan, che di nuovo coinvolge l’Etiopia e il gioco di alleanze… e il cambio in ambito di diritti delle popolazioni locali non sta cambiando in meglio.

Il ruolo dell’Etiopia?

Serbatoio di mano d’opera docile e a buon mercato, disciplinata e addomesticata, per la borghesia saudita

Curioso. Solo un anno fa veniva siglato un accordo tra governo di Addis Abeba e Arabia Saudita per cui oltre centomila migranti etiopi dovevano venir espulsi dall’Arabia Saudita per essere riportati in patria (come poi sostanzialmente era avvenuto in questi ultimi mesi).
La notizia coincideva con l’arrivo (30 marzo 2022) nell’aeroporto di Addis-Abeba del primo migliaio (900 per la precisione, tra cui molte donne con figli), accolti e rifocillati dagli operatori dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim).

Per l’occasione un accorato appello veniva rivolto dal governo di Addis-Abeba alle Nazioni Unite e alle varie agenzie umanitarie affinché intervenissero per far fronte alle impellenti necessità.
Negli ultimi quattro anni l’Arabia Saudita ne aveva già rimandati in Etiopia oltre 350.000. Soprattutto persone con problemi di salute o comunque vulnerabili, in difficoltà: donne incinte, anziani, malati sia a livello fisico che mentale (applicando quindi una sorta di selezione poco “naturale”, ma funzionale al mercato del lavoro-sfruttamento).

Durante l’ultimo anno i programmi di rimpatrio si sono mantenuti, se non addirittura rinforzati per «garantire un rientro ordinato dei cittadini etiopi emigrati» (leggi: “non più funzionali alle esigenze delle classi dominanti saudite”).

Dal 12 novembre 2022 al 30 dicembre 2022 più di 20.000 etiopi sono rientrati in patria dall’Arabia Saudita

Per la cronaca, si calcola (presumibilmente per difetto) che attualmente siano almeno 750.000 i migranti etiopi presenti nel Reame (di cui circa 450.000 vi sarebbero giunti in maniera irregolare).
Così come previsto dal Piano regionale di sostegno ai migranti in situazioni di vulnerabilità e alle comunità di accoglienza nei Paesi del Corno d’Africa sulle rotte migratorie verso l’est (in genere con destinazione Arabia Saudita attraverso Gibuti e Yemen), erano intervenuti finanziariamente l’Ufficio dei rifugiati e delle migrazioni del Dipartimento di Stato americano (leggi: statunitense), l’Agenzia svedese  di cooperazione internazionale allo sviluppo e per le operazioni europee di protezione civile e di aiuto umanitario.

In controtendenza (ma solo apparente, se pensiamo che in realtà lo scopo è il medesimo: controllare i flussi migratori,  “addomesticarli” per renderli funzionali al sistema economico imperante) in questi giorni il governo regionale dell’Amhara ha annunciato un programma di reclutamento e formazione professionale (come donne di servizio nelle magioni dei benestanti sauditi) per migliaia di cittadine della regione. Garantendo che i loro salari in moneta straniera verranno depositato come moneta nazionale (birr) al tasso attuale del “mercato nero” e non a quello, sfavorevole, ufficiale.

Anche se questo sembra non turbare più di tanto le autorità etiopi (sia a livello regionale che nazionale), non si contano i casi di abusi sessuali subiti dalle donne di servizio di origine africana nei paesi del Golfo (ben sapendo che quelli denunciati o di cui comunque si viene a conoscenza, costituiscono solo la punta dell’iceberg). Per non parlare delle ricorrenti accuse di “trattamenti disumani” (torture, uccisioni…) nei centri di detenzione per migranti.

Come aveva denunciato Human Rights Watch «per anni l’Arabia Saudita ha arrestato e detenuto arbitrariamente migliaia di migranti etiopici in condizioni spaventose, incluse torture, pestaggi a morte e condizioni degradanti, deportandone a migliaia».

Stando a quanto riportava “Al Jazeera”, sarebbero almeno mezzo milione le donne (età compresa tra i 18 e i 40 anni) di cui si va pianificando il reclutamento per inviarle in Arabia Saudita come lavoratrici domestiche. Con una vera e propria campagna promozionale anche con cartelloni pubblicitari nelle maggiori città che invitano a registrarsi presso gli uffici governativi. Le donne verranno poi trasportate in aereo nel Golfo a spese del governo di Addis-Abeba.

Tutto questo, ripeto, mentre le organizzazioni umanitarie denunciavano il ritorno forzato in Etiopia di migliaia di donne e uomini vittime di abusi fisici e sessuali da parte dei loro datori di lavoro sauditi.

Questo il comunicato ufficiale dell’amministrazione dell’Amhara:
«In ragione dei forti legami diplomatici del nostro paese con l’Arabia Saudita, sono state rese disponibili opportunità di lavoro per 500.000 etiopiche, tra cui 150.000 dalla regione Amhara»

Il ruolo dell’Arabia Saudita?

Serbatoio di sfruttamento schiavista

Niente di nuovo sotto il sole naturalmente. Ricorda per certi aspetti quanto avveniva in Namibia quando era occupata dal Sudafrica (e sottoposta all’apartheid) con i lavoratori delle miniere di uranio rispediti a casa loro, nei villaggi, quando manifestavano i sintomi della malattia. O i migranti dai bantustan reclusi nei dormitori-prigioni (“ostelli” eufemisticamente), lontano dalle famiglie, forza lavoro a basso costo in condizioni di semischiavitù.

“L’epocale repentino cambiamento dei riferimenti sauditi”.
Volendo anche i nostri minatori in Belgio (previo accordo tra i governi dell’epoca) all’epoca di Marcinelle.

Coincidenza. Mentre avviava queste operazioni di ferreo controllo dei flussi migratori, il governo etiope procedeva allo smantellamento delle milizie regionali.

Stando a un comunicato del 6 aprile, si ripromette di «integrare le forze speciali regionali all’interno delle forze dell’esercito federale (Endf) e delle forze di polizia federale».

Allo scopo evidente di centralizzare il controllo sui gruppi armati e sminuire la relativa autonomia delle singole regioni.
La cosa non è risultata gradita proprio nello stato-regione dell’Amhara dove sono già scoppiate proteste e rivolte.

Quindi, per il governo centrale: Sì alla fornitura di forza-lavoro subalterna, ma No all’autodeterminazione regionale.

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La guerra fratricida in Sudan e le sue cause economiche https://ogzero.org/la-guerra-fratricida-in-sudan-e-le-sue-cause-economiche/ Fri, 28 Apr 2023 21:20:20 +0000 https://ogzero.org/?p=10842 La guerra fratricida che sta insanguinando il Sudan non si ferma. Ma le cause di questo conflitto vanno cercate non solo nei meccanismi politici e di potere ma anche negli aspetti di carattere economico della geopolitica e nello sfruttamento delle risorse da parte delle potenze internazionali per le quali il Sudan può diventare un vero […]

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La guerra fratricida che sta insanguinando il Sudan non si ferma. Ma le cause di questo conflitto vanno cercate non solo nei meccanismi politici e di potere ma anche negli aspetti di carattere economico della geopolitica e nello sfruttamento delle risorse da parte delle potenze internazionali per le quali il Sudan può diventare un vero e proprio “affare” regionale.


Esercito significa potere

La guerra fratricida che sta insanguinando il Sudan non sembra destinata a placarsi. I due contendenti, il generale Abdel Fattah al-Burhan a capo dell’esercito, e Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, a capo delle Forze di supporto rapido, sembrano essere intenzionati a portare alle estreme conseguenze il conflitto allontanando, in maniera irreversibile, il ritorno dei civili al potere. Processo politico che si era arenato alla vigilia dell’inizio del conflitto proprio per disaccordi tra i due signori della guerra. Il nodo non risolto e che ha portato allo scontro era proprio l’integrazione delle Forze di supporto rapido nell’esercito regolare, ma con dei “però”. Burhan, capo anche del Consiglio sovrano, voleva dettarne i tempi e il numero di paramilitari da integrare, Hemedti non era d’accordo, ma soprattutto, pretendeva un ruolo di primo piano nello stato maggiore del nuovo esercito che, però, non gli è stato garantito. Essere alla pari di Burhan, in termini di potere, nel nuovo assetto del Sudan, per Hemedti significava e significa mantenere il controllo di molte attività economiche, in particolare le miniere d’oro di cui il paese abbonda. Dunque, più che l’integrazione dei suoi paramilitari nell’esercito, l’oggetto del contendere è economico.

Lo stato parallelo

Da sempre, in Sudan, l’economia è controllata dai militari ed è ciò che ha frenato la transizione democratica e ha portato alla alleanza tra Burhan e Hemedti nel colpo di stato del 2021 che ha scalzato i civili dal governo di transizione. Già all’epoca del regime di Omar al-Bashir, deposto dopo la rivoluzione nel 2019, l’organizzazione economica faceva capo a uno stato parallelo, fatto di funzionari dell’apparato di sicurezza e delle istituzioni governative, che aveva lo scopo di consolidare il controllo sulle risorse economiche. Il colpo di stato del 2021 non ha fatto altro che impedire alle forze civili protagoniste della rivoluzione contro la dittatura, di smantellare la rete di controllo militare e, quindi, ritornare allo status quo.

Tutto ciò era già contenuto in un rapporto, Breaking the Bank, pubblicato nel 2022, dal Centro per gli Studi avanzati di Difesa, un’organizzazione statunitense senza scopo di lucro specializzata nell’analisi sui conflitti globali e problemi di sicurezza transazionale. Nel rapporto i ricercatori hanno mappato – come scriveva Nigrizia.it nel luglio dell’anno scorso – il sistema economico sudanese, dimostrando la capillarità del controllo militare, anche se definire il reticolo di cui è composta la rete delle attività economiche controllate dall’esercito è difficile perché opaco e impenetrabile.

Armamenti su licenza e import-export di risorse

Di sicuro il documento dei ricercatori americani prova che il governo, dunque i militari, sono titolari di numerose imprese, prima tra tutte è la Military Industry Corporation’s (Mic) che produce armamenti anche su licenza, in particolare russa, iraniana e di recente anche cinese. Questa azienda fa del Sudan uno dei più importanti produttori di armamenti africani, il terzo dopo Egitto e Sudafrica.

Ma ci sono anche aziende di assemblaggio di autovetture. Nelle mani dell’esercito c’è l’import-export del paese e una risorsa strategia, la gomma arabica, di cui il Sudan detiene il 50% della produzione mondiale.

L’oro e le banche

Poi c’è l’oro. Nelle mani del capo delle Forze di supporto rapido ci sono la maggior parte delle miniere. Il Sudan è il terzo produttore africano d’oro dopo il Ghana e il Sudafrica. A tutto ciò, e sempre nelle mani di Hemedti, si aggiungono diverse imprese finanziarie e banche. Mentre la Banca di Omdurman, la più importante del paese è di proprietà dell’esercito per l’86%.

Tutto ciò va a beneficio dei militari e non del paese, il Sudan rimane uno dei paesi più poveri al mondo dove oltre 18 milioni di persone soffrono di fame acuta. Ma tutto ciò spiega anche la ritrosia delle forze di sicurezza a passare le redini del potere ai civili, perché perderebbero enormi privilegi, e forse spiega questa guerra fratricida e insensata per i sudanesi, non certo per i militari.

Armi, basi militari e infrastrutture

Infine c’è la questione delle armi. Non è un mistero che dopo la visita del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, nel febbraio scorso, Mosca e Khartoum hanno finalizzato un accordo per la creazione di un centro logistico per la Marina russa in Sudan, a Port Sudan, sul Mar rosso. Lavrov ha incontrato Burhan e Hemedti promettendo loro di sostenere gli sforzi del Sudan per la revoca dell’embargo sulle armi da parte delle Nazioni Unite, che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, l’8 marzo 2023, ha deciso di estendere per un altro anno. Tredici dei quindici membri del Consiglio hanno votato a favore della risoluzione, mentre Russia e Cina si sono astenute. Non è mistero che la Russia sia uno dei maggiori fornitori di armi anche grazie all’impresa militare sudanese che le produce su licenza. La base navale russa sul Mar Rosso rappresenta, nel contesto geopolitico internazionale di oggi, una minaccia per l’Occidente e un grattacapo per la Cina che, invece, ha una base militare nel vicino Gibuti. Paese, tanto piccolo, quando ricco di insediamenti militari di tutto il mondo: francesi, americani, italiani, ma anche dei paesi del Golfo Persico.

Hemedti, poi, per ironia della sorte, ha visitato la Russia il giorno prima dell’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio 2022 e ha espresso la sua disponibilità o ospitare una base russa. Una garanzia per Mosca, ma gli analisti non escludono che anche una vittoria di Burhan, garantirebbe che l’accordo con il Cremlino diventi realtà.

L’embargo violato

L’embargo sulle armi, come si sta vedendo in questi giorni di drammatici combattimenti, è stato ampiamente violato. L’Egitto avrebbe mandato aerei da combattimento e piloti a sostegno dell’esercito sudanese guidato da Burhan e il generale libico Kalifa Haftar rifornimenti militari alle Forze si supporto rapido di Hemedti (che ottengono appoggio anche dalla compagnia di mercenari russi Wagner). Si ritiene, inoltre, che dietro il capo dell’esercito ci sia l’Egitto. Il generale Burhan proviene dai ranghi dell’esercito e dell’accademia militare egiziana, come il presidente dell’Egitto Abdel Fattah al-Sisi. Ma è anche vicino agli Usa e agli israeliani. Burhan ha giocato un ruolo fondamentale nel progetto di normalizzazione dei rapporti con Israele, poi sfociati con l’adesione del Sudan agli Accordi di Abramo. È accolto con favore nei paesi del Golfo, ma molti analisti ritengono che sia Hemedti a godere delle simpatie e dell’appoggio degli Emirati Arabi Uniti. Ma anche il governo italiano non disdegna di prestarsi all’addestramento dei “Diavoli a cavallo”, i tagliagole di Dagalo.

Tutti smentiscono, ma il rischio che il Sudan diventi un “affare” regionale è sempre più reale, come suggerisce Matteo Palamidesse in queste analisi registrate il 20 aprile 2023.

“Guerra civile in Sudan… con partecipazione esterna”.

 

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Sudan: scontro totale, si allontana la transizione democratica https://ogzero.org/sudan-scontro-totale-si-allontana-la-transizione-democratica/ Sun, 23 Apr 2023 17:35:07 +0000 https://ogzero.org/?p=10788 Lo scontro totale tra i due generali al comando in Sudan, alleati nel colpo di stato del 2021, è ormai guerra aperta. Oltre 100 civili hanno perso la vita. Le cancellerie occidentali, l’Onu e l’Unione africana lanciano continui appelli al cessate il fuoco che, allo stato attuale, sembra lontano dall’essere applicato. Anche la tregua per […]

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Lo scontro totale tra i due generali al comando in Sudan, alleati nel colpo di stato del 2021, è ormai guerra aperta. Oltre 100 civili hanno perso la vita. Le cancellerie occidentali, l’Onu e l’Unione africana lanciano continui appelli al cessate il fuoco che, allo stato attuale, sembra lontano dall’essere applicato. Anche la tregua per consentire l’evacuazione dei feriti, annunciata giorni fa, è durata pochissimo. Pubblichiamo qui un resoconto di Angelo Ferrari pubblicato in parte in Africa Rivista.


Come si è arrivati a questo punto?

Il divario tra il comandante dell’esercito, Abdel Fattah Barhan – a capo del Consiglio sovrano – e il suo numero due, Mohamed Hamdane Daglo, detto Hemedti – capo delle Forze di supporto rapido (Rsf) – si sta allargando sempre di più e una ricomposizione sembra essere difficile. Quello che appare abbastanza chiaro e che difficilmente potranno ripartire le trattative prima che uno dei due possa prevalere sull’altro o che entrambi subiscano perdite pesanti, tanto da indurli a trattare. Molti analisti convergono nel sostenere che anche in caso di vittoria di una delle due parti, in particolare nella capitale Khartoum, la guerra potrebbe continuare in altre parti del paese.

Il Sudan, a pochi giorni dall’inizio della contesa tra i due generali, sembra già essere piombato nello scenario peggiore e le prospettive non sono migliori. I due contendenti si accusano a vicenda dello scoppio delle ostilità e continuano ad annunciare nuove vittorie senza che nessuna fonte possa confermalo o smentirlo.

Come mai si è arrivati a questo punto? Nell’ottobre 2021 i due generali hanno unito le loro forze per cacciare i civili con cui avevano condiviso il potere dalla caduta del dittatore Omar al-Bashir nel 2019. Una alleanza di convenienza, legata più agli interessi economici che a una prospettiva politica di governo del paese. L’esercito di Burhan, ma anche le milizie paramilitari di Hemdti, hanno enormi interessi economici. L’esercito controlla molta parte dell’attività economiche del paese, le Forze di supporto rapido hanno nelle mani diverse miniere d’oro, una la condividerebbero anche con i mercenari russi della Compagnia Wagner. Hemedti, infatti, a stretti legami con Mosca, mentre il maggior partner commerciale del Sudan rimane la Cina. I due non hanno mai avuto una sincera collaborazione, ma solo l’interesse contingente di estromettere i civili dal potere, e se ne capiscono anche le ragioni visti gli interessi economici.

Dissapori e dissenso

I dissapori, infatti, sono presto venuti a galla. Hemedti ha più volte denunciato il “fallimento” di un golpe che secondo lui, avrebbe restaurato il vecchio regime di al-Bashir. Il dissenso vero, tuttavia, è nato quando si è trattato di firmare l’accordo per l’avvio del processo politico che avrebbe riportato nelle mani dei civili il potere in Sudan. Il nodo è stato il capitolo sull’integrazione delle milizie paramilitari nei ranghi dell’esercito. In gioco c’era il futuro dei paramilitari. L’esercito non ha rifiutato questo compromesso, ma ha voluto comunque imporre le sue condizioni di ammissione e limitarne l’integrazione. Hemedti, invece, rivendicava un’ampia inclusione e, soprattutto un ruolo centrale nello stato maggiore. Non solo, Hemedti ha denunciato il fatto che le raccomandazioni finali avrebbero ignorato le loro proposte relative alla tempistica dell’integrazione nell’arco di due anni. Hemedti si è sentito più autonomo e, proprio in virtù delle trattative, alla pari con Burhan e in grado così di realizzare le sue enormi ambizioni politiche. La trattativa si è interrotta e le conseguenze si vedono nello scontro fratricida che sta mettendo in ginocchio, ulteriormente, il Sudan, uno dei paesi più poveri al mondo.

Sudan:scontro totale

Hemedti e le Fsr

Le Forze di supporto rapido, create nel 2013 e guidate da Hemedti, riuniscono migliaia – si parla di 100.000 – ex janjawid, miliziani arabi reclutati da Omar al-Bashir per portare avanti la politica di terra bruciata nei confronti delle popolazioni di origine africana del Darfur. Questo conflitto, scoppiato nel 2003 tra Khartoum e membri delle minoranze etniche non arabe, ha causato 300.000 morti e 2,5 milioni di sfollati, secondo le stime delle Nazioni Unite, e fatto “guadagnare” all’ex dittatore sudanese due mandati di arresto della Corte penale internazionale per “crimini di guerra”, “crimini contro l’umanità” e “genocidio”. E al fianco di al-Bashir c’era proprio Hemedti. Nel 2004, Hemedti ha comandato direttamente uno dei massacri più feroci del conflitto del Darfur, quando ha ordinato l’assassinio a sangue freddo di circa 130 abitanti del villaggio di Adwa, che i janjawid hanno bruciato prima di stuprare centinaia di donne e seppellire gli uomini in fosse comuni.

Nel corso della sua vita, Hemedti si è dimostrato un soldato senza scrupoli, ma anche senza lealtà. Nel 2019 ha partecipato al rovesciamento del suo “padrino”, Omar al-Bashir, durante la cosiddetta rivoluzione sudanese, una mobilitazione popolare che finirà per reprimere brutalmente. Hemedti viene accusato del massacrato di più cento manifestanti in un solo giorno durante un sit-in nel giugno di quell’anno.

La rivoluzione tradita

La rivoluzione ha avviato un processo di transizione in Sudan e ha istituito un governo civile al quale Hemedti ha giurato fedeltà. Tuttavia, due anni dopo, nel 2021, i paramilitari al suo comando hanno ordito un colpo di stato insieme al capo dell’esercito, Abdelfatah al Burhan, diventando così vicepresidente del Consiglio sovrano, l’organo esecutivo del paese.

Sotto la pressione internazionale il Sudan ha avviato un processo politico per il ripristino delle istituzioni democratiche con la firma di un accordo quadro il 5 dicembre 2022 teso, anche, a rimuovere i militari dal potere. Il nodo non sciolto, che ha portato agli scontri di queste ore, è proprio l’integrazione delle Forze di supporto rapido nell’esercito. Hemedti non ci sta perché si ridurrebbe di molto il suo potere e lo spazio di manovra per i suoi affari. E a farne le spese è ancora la popolazione sudanese.

Le Forze di supporto rapido si sono unite nel 2015 alla coalizione saudita in Yemen – come mercenari – e alcuni di loro stanno combattendo anche in Libia. Una delle attività economiche di Hemedti è proprio quella di inviare mercenari in vari scenari di guerra. Nel 2019, poi, le Rsf sono state accusate di aver ucciso 100 manifestanti pro-democrazia a Khartoum durante un sit-in pacifico.

Resta dunque difficile che ci possa essere un riavvicinamento tra i due uomini forti del Sudan e quindi la riapertura del tavolo per l’accordo politico che porti il paese verso un governo formato da civili e che “allontani” i militari dal potere. Ad oggi, questa ipotesi sembra essere irrealizzabile.

E in tutto ciò ad andarci di mezzo è la popolazione civile. Più di un terzo dei 45 milioni di abitanti sudanesi già necessitavano di aiuti umanitari prima dello scoppio di questa insensata guerra fratricida. Il Programma alimentare mondiale, infatti, ha sospeso gli aiuti dopo la morte di tre membri del suo personale in Darfur, nell’Ovest del paese. Mentre accade tutto ciò le cancellerie internazionali vanno ripetendo i loro appelli al cessate il fuco che, però, sembrano cadere nel vuoto. Gli aiuti internazionali, poi, sono stati interrotti dopo il colpo di stato del 2021, e la condizione per la loro ripresa era proprio l’avvio della transizione democratica che è stata seppellita sotto le bombe.

Sudan:scontro totale

Gli unici attori internazionali in grado di far ragionare i due generali potrebbero essere la Cina, per i suoi legami commerciali con il paese, e la Russia per la sua amicizia con i paramilitari.

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Le nubi etiopi si sono spostate in Oromia https://ogzero.org/le-nubi-etiopi-si-sono-spostate-in-oromia/ Sun, 08 Jan 2023 21:23:35 +0000 https://ogzero.org/?p=10048 Abbiamo ritenuto opportuno riprendere un articolo pubblicato dai complici di “Atlante delle Guerre” che richiama l’interesse sulla area di guerra più micidiale del mondo, dove i conflitti tra comunità diverse non sono mai sopite e quando – dopo centinaia di migliaia di morti – si raggiunge una tregua in un’area come il Tigray nel Nord […]

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Abbiamo ritenuto opportuno riprendere un articolo pubblicato dai complici di “Atlante delle Guerre” che richiama l’interesse sulla area di guerra più micidiale del mondo, dove i conflitti tra comunità diverse non sono mai sopite e quando – dopo centinaia di migliaia di morti – si raggiunge una tregua in un’area come il Tigray nel Nord della Federazione etiope, si riaccende un conflitto nella centrale regione dell’Oromia, dove si scatenano rivalità e contenziosi tra ahmara e oromo, spostando schieramenti (Ola e Tplf) già contrapposti nel distretto tigrino, come potete sentire nel podcast in cui Matteo Palamidesse (@PalaMatteo) spiega con la consueta prudente cognizione di causa cosa muove le istanze dei singoli attori.


Le truppe eritree stanno lentamente abbandonando le principali città del Tigray centrale e occidentale. Una presenza, quella di Asmara, che, nonostante non sia mai stata ufficializzata ha creato non poche complicazioni nel conflitto. Il ritiro arriva in seguito all’accordo di pace mediato dall’Unione Africana e firmato il 2 novembre 2022 a Pretoria dal governo federale dell’Etiopia e dal Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf).

Nei due anni di guerra in Tigray, l’esercito eritreo è stato accusato di aver commesso atrocità su larga scala, tra cui aggressioni sessuali, uccisioni sommarie, stupri, saccheggi di città e distruzione di infrastrutture. L’Eritrea è infatti entrata a più riprese in Etiopia per reprimere i tigrini ed è stata in prima linea nelle stragi e nelle pulizie etniche. Gli eritrei hanno preso di mira anche i campi profughi presenti nel Tigrai che ospitano esuli del regime eritreo. Nonostante questo, mancando un coinvolgimento ufficiale, l’Eritrea non ha preso parte al processo di pacificazione in atto.

Il ritiro delle truppe di Asmara era però una delle principali condizioni definite dall’incontro di Nairobi (Kenya) del 12 novembre. Dopo l’accordo di pace di Pretoria, le autorità del Tigray avevano infatti accusato il governo eritreo di ostacolare il processo di pace e hanno esortato il governo etiope a rispettare i termini dell’accordo del 2 novembre ritirando le forze straniere e non federali. Un altro punto dell’accordo prevedeva il dispiegamento della polizia federale, che dovrà sostituire quella regionale. Le forze di polizia dovranno infatti garantire la sicurezza nella Regione e lavorare insieme all’Unione africana per garantire il rispetto dei termini stabiliti nell’accordo. Intanto altri obiettivi sono quelli di ripristinare i servizi di base nella regione e consentire l’accesso umanitario incondizionato a tutta la regione, il disarmo delle milizie e il ritiro completo delle truppe eritree e delle milizie ahmara ancora presenti nel Tigray. Il conflitto nel Tigray, scoppiato nel novembre 2020, tra le forze del governo federale etiope e il Tplf ha causato la morte di oltre mezzo milione di persone e migliaia di sfollati.

Ma la strada è tutt’altro che in discesa. Kibrom G/Selassie, amministratore delegato dell’ospedale comprensivo di Ayde, il più grande nella regione del Tigray, ha infatti denunciato, come riportato da “Africa Rivista”, di stare ancora aspettando i medicinali per le cure mediche salvavita.

«Nulla è cambiato anche dopo l’accordo di pace; il governo federale non sta fornendo all’ospedale le medicine tanto necessarie, inclusi i reagenti di laboratorio», ha segnalato Kibrom.

Già nel mese di ottobre, Kibrom aveva dichiarato ad Addis Standard che l’ospedale era sull’orlo del collasso a causa dell’esaurimento dei farmaci essenziali, della mancanza di reagenti di laboratorio e di macchinari difettosi. Dall’altro lato il ministero federale della Salute ha affermato, in una relazione resa nota a dicembre, che i medicinali e le forniture mediche essenziali sono stati distribuiti nella regione del Tigray attraverso l’Organizzazione mondiale della sanità e il Comitato internazionale della Croce Rossa.

Oltre ai delicati passi per la risoluzione del conflitto in Tigray, un’altra ondata di violenza preoccupa l’Etiopia. Le due comunità più numerose del paese, infatti, Oromo e Amhara, denunciano da settimane omicidi e si incolpano l’un l’altro. Le forze di sicurezza etiopi, gli insorti oromo e la milizia amhara si stanno infatti combattendo nella Regione di Oromia, la più grande dell’Etiopia. Le forze di sicurezza federali etiopi combattono contro l’Esercito di liberazione dell’Oromo (Ola), che il governo ritiene un gruppo terroristico e pare che anche i residenti di Oromo e Amhara e i loro alleati armati si stiano scontrando.


A questo proposito Matteo Palamidesse a fine dicembre era intervenuto su Radio Blackout nella trasmissione Bastioni di Orione per approfondire come si è venuta sviluppando la situazione in Oromia:
“In Oromia la tensione non si vede, si colgono narrazioni di guerra”.

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Il ruolino di marcia di un sistema basato sull’escalation bellica https://ogzero.org/il-ruolino-di-marcia-di-un-sistema-basato-sullescalation-bellica/ Fri, 23 Dec 2022 15:58:01 +0000 https://ogzero.org/?p=9888 La messinscena delle prime mosse per un negoziato Consumati un po’ di arsenali, uccise 250.000 persone tra civili e militari nella pianura sarmata, misurate alleanze e potenzialità di imporre la propria supremazia, sembra che 3 incontri contemporanei lancino segnali precisi alle cancellerie internazionali: Zelensky con il cappello in mano a Washington, Putin a organizzare le […]

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La messinscena delle prime mosse per un negoziato

Consumati un po’ di arsenali, uccise 250.000 persone tra civili e militari nella pianura sarmata, misurate alleanze e potenzialità di imporre la propria supremazia, sembra che 3 incontri contemporanei lancino segnali precisi alle cancellerie internazionali: Zelensky con il cappello in mano a Washington, Putin a organizzare le truppe a Minsk, Medvedev a ricevere ordini a Pechino. Bisogna trovare una nuova area dove proseguire la guerra ibrida mondiale con lo scopo di misurarsi in preparazione del redde rationem.

Come si è arrivati qui

Si sono definitivamente composti in un unico giorno (il primo del gelido inverno nella steppa di famose ritirate della Storia) gli schieramenti e i ruoli dei singoli in questa che, come si era capito dal 24 febbraio, era la prima fase di una lunghissima guerra ibrida tra potenze – intrecciate dalla medesima ideologia neoliberista che impone complicati legami – da combattere sulla estesa scacchiera globale, con interessi ed economie dipendenti l’una dall’altra, ma a un punto di rottura dato dall’impressione di essere equiparabili e dunque entrambe le fazioni ritengono di potersi candidare al controllo globale come potenza di riferimento: gli Usa a difendere la propria supremazia, le potenze non democratiche a proporre il loro modello di sviluppo – comunque all’interno della visione capitalista del mondo.

La disposizione sul palcoscenico

E allora si usano media e incontri per marcare il territorio in vista della lenta composizione della disputa. Localmente: Biden prepara il terreno a un nuovo piano Marshall da aggiungere agli 85 miliardi già erogati per ricostruire e “mangiarsi” l’Ucraina come gli Usa hanno iniziato a fare dal 2014 di Maidan, quando Kiev era un satellite di Mosca (ha cominciato a parlarne “Fortune” già il 7 dicembre).
Intanto i russi attivano anche Lukašenka per annettersi quanto più territorio possibile e fare da cuscinetto al confine con la Nato, arrivando alle trattative con il massimo risultato possibile («La Russia fornisce alla Belarus’ petrolio e gas a condizioni molto favorevoli e preferenziali», ha commentato Interfax a proposito della visita a Minsk, ma come fa notare “ValigiaBlu“, Putin ha dichiarato che avevano concordato di «dare priorità all’addestramento delle nostre truppe… ci forniremo reciprocamente le armi necessarie e produrremo insieme nuovo materiale militare… per l’eventuale uso di munizioni aviotrasportate con una testata speciale») e arrivando gradualmente all’annessione della Bielorussia. Ognuno potrà investire in piani di ricostruzione che faranno girare denaro utile per una nuova spirale virtuosa economico-finanziaria.
Globalmente la Cina si schiera, schermendosi – probabilmente anche per partecipare agli appalti – e senza impegnarsi direttamente in questa Prima guerra del confronto del mondo contro la Nato (che Trump aveva azzerato e Biden resuscitato, investendo una quantità di miliardi inimmaginabile), detentrice di una primazia in parte erosa dal multilateralismo di forze intermedie pronte a schierarsi in modo autonomo volta per volta, come la Turchia – appartenente alla Nato! – o l’India (due specchiati esempi di democratura), o anche i paesi del Golfo sempre più impegnati in attività di maquillage, ma anche di autonomizzazione dallo schieramento filoamericano.

«Servitor vostro»

Medvedev non è omologo di Xi, ma può ricevere indicazioni che tutte le diplomazie interpretano come invito a ritornare a una situazione in cui si possano scambiare merci con minori sanzioni o dazi; la guerra si deve spostare su altri piani, in modo che la Cina possa acquisire ulteriori avanzamenti; per uscire dalla sindrome del Giappone targata 1990 – incapace di progredire con lo stesso ritmo e quindi imploso nella sua scalata al cielo. Esistono altre potenze indopacifiche che stanno crescendo d’importanza e infatti si rinnovano i periodici scontri alla frontiera himalayana con l’India.

Lukashenka non è omologo di Putin, ma si adatta bene al ruolo di subordinato nella alleanza militare – utile per mostrare quel che resta dei muscoli di Mosca per arrivare a un primo negoziato che chiuda il contenzioso in quell’area, in attesa che si sposti altrove (e si stanno ammassando armi attorno all’Iran). Intanto è utile mostrare che almeno sulla Bielorussia il Cremlino può ancora contare ed è l’area che in questo momento è geograficamente fondamentale controllare e dove accumulare minacciosi missili logistici e strumenti ipersonici.

Zelensky non è omologo di Biden, ma è il terzo fantoccio (dagli occhi umani, non come quelli da killer come Putin nei folkloristici ritratti di Biden, fintamente gaffeur) che serve ai tre potenti della terra per lanciare messaggi agli altri due. Zelenski va a prendere gli spiccioli, oltre ai Patriot da schierare contro le dotazioni nucleari collocate contemporaneamente alla frontiera bielorussa dall’esercito russo, sapendo che poi arriveranno i soldi per la ricostruzione. E rilancia le richieste nel monologo al parlamento, mancava solo un elenco alla Leporello (ma questa volta come lista della spesa); dei tre incontri quello davvero mediatico e diffuso su ogni media è il kolossal americano, dove anche i dettagli come gli abiti indossati dai due protagonisti sono funzionali a lanciare messaggi precisi e assegnare ruoli. Zelensky è il buffone di corte in ogni senso, comprendendo pure la facoltà di asserire verità scomode, ovviamente a maggior lustro del monarca e Biden non è re Lear infatti Zelensky non ha mai la medesima statura, non solo fisicamente.

Uno schema bellico inesorabile

La concomitanza dei tre eventi non si configura come complotto globale di un’oligarchia che interpreta in modi diversi il neoliberismo e che quindi trova contrapposti gli interessi delle potenze che si misurano per spartire aree di influenza e ruoli in concorrenza e individuano volta per volta territori che si prestino al confronto perché si tratta di aree di crisi incancrenite (da anni si assisteva alle provocazioni sulle pipeline ucraine; il conflitto in Nagorno Karabakh da decenni volutamente irrisolto e costantemente rinfocolato dai vincitori; come quello del Kosovo, dove sta montando da un paio di mesi la tensione che cova dalla “fine” della guerra di Clinton tra opposti nazionalismi, coccolati apposta dai rispettivi riferimenti…); oppure nuovi protagonisti molto potenti e militarmente approvvigionati e minacciosi come le petropotenze emergenti che usano vetrine diverse – per ora strategicamente collegate con una facciata culturale (il marchio Louvre nel deserto in cambio dell’acquisto di Rafele e altre connessioni vantaggiose per Parigi), velata da megaeventi sportivi (il mondiale di football invernale, imposto a suon di corruzione e interpretando in modo ancora diverso il verbo unico capitalista) e che hanno una concezione del sistema socio-politico ancora più oligarchico e fondato sull’oppressione e la cancellazione della maggior parte dei diritti civili, usando la tradizione come collante per i poteri forti interni.

Automatismi di un ruolino di marcia bellico

Piuttosto che un accordo per svolgere ciascuno un ruolo in commedia distribuito da una regia collettiva (una pièce complottista), si può concepire questo snodo epocale come il processo innescato che non può non passare attraverso tappe inevitabili costituite da molteplici guerre. Quei conflitti che, finché non hanno coinvolto equilibri europei, erano rimasti nella percezione occidentale a bassa intensità, mentre ora si manifestano con distruzioni di arsenali e migliaia di vittime civili anche in Europa, non più solo nel Sud del mondo, dove si sparge il sale sulle ferite non rimarginate mai, per suppurare periodicamente e far esplodere furiosi combattimenti utili per sostituire localmente il predatore di turno: infatti Biden è stato spinto a finanziare potentemente il continente africano per tentare di contrastare la penetrazione di Cina, Turchia e Russia, proprio mentre non è ancora del tutto sopita la guerra in Tigray ed esplode un nuovo focolaio nel Sud dell’Etiopia per l’insorgenza dell’Oromia.

Un’ipotesi che si può avanzare sulla base delle prime mosse di incontri diplomatici ad alto livello tra non omologhi, che usano gli incontri per dettare la politica delle macrofazioni e assistere alla conseguente disposizione delle alleanze, è che si cerchi ora di comporre molto lentamente la questione ucraina, lasciandola però accuratamente non del tutto risolta; contemporaneamente preparando nuovi conflitti in aree significative per il confronto tra le maxipotenze, che possano montare ben più che per una proxy war, a impattare su una nuova emergenza (energetica, lievitando prezzi per fibrillazioni borsiste? religiosa, per induzione jihadista?…) e poi confrontarsi in un nuovo scacchiere (Taiwan?) più vicino al confronto diretto e risolutivo.

Il senso del capitalismo per la guerra

Dunque fa tutto parte della vera Guerra tra Usa e Cina, che non finirà se non trovando un’uscita dal sistema capitalistico, motore mobile che necessita e si alimenta di quel costante conflitto, perché il capitalismo ha bisogno sempre di incrementare il profitto, triturandovi tutto: industria del divertimento, alimentare, consumo di beni… industria bellica.

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Mosaico etiope: a Nord guerra, a Sud referendum autonomista https://ogzero.org/mosaico-etiope-a-nord-guerra-a-sud-referendum-autonomista/ Mon, 19 Dec 2022 00:48:32 +0000 https://ogzero.org/?p=9822 Decenni di lotte postcoloniali hanno portato il Corno d’Africa e in particolare l’Etiopia alla condizione attuale di frammentazione di etnie, divergenze di interessi, rivendicazioni di territori e… autonomia. Appunto: a questo snodo si finisce con l’arrivare laddove si innescano guerre sanguinosissime, cambi al vertice di Addis Abeba con il ridimensionamento tigrino all’avvento di Abiy Ahmed […]

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Decenni di lotte postcoloniali hanno portato il Corno d’Africa e in particolare l’Etiopia alla condizione attuale di frammentazione di etnie, divergenze di interessi, rivendicazioni di territori e… autonomia. Appunto: a questo snodo si finisce con l’arrivare laddove si innescano guerre sanguinosissime, cambi al vertice di Addis Abeba con il ridimensionamento tigrino all’avvento di Abiy Ahmed che ha condotto alla guerra scatenata dal premio Nobel per la Pace appoggiato dal despota eritreo Afewerki, da sempre avversario del confinante Tigray; il risultato è stato un conflitto feroce di tutti contro tutti. Le alleanze e le divisioni tra comunità di ceppi diversi od omologhi hanno esacerbato ulteriormente una condizione che era negativamente fluida già quando cercammo di farne il punto all’inizio del conflitto. Per arrivare ai preoccupati interventi su Radio Blackout di Palamidessa.
Ora Gianni Sartori allarga un po’ il grandangolo e dunque vengono comprese anche le comunità del Sud dell’Etiopia, scoperchiando il vaso delle rivendicazioni di autonomia che cominceranno a sfociare in referendum nei primi mesi del 2023, quando il governo centrale vedrà di rafforzare il federalismo; peccato che le spinte centrifughe si moltiplicano anche a Ovest del paese…


A quanto pare in Etiopia va rinforzandosi il federalismo e si opera per il superamento di antichi conflitti etnici attraverso una maggiore autonomia di ciascun gruppo. Soluzione forse inevitabile in un paese costituito da un mosaico di etnie conviventi con quelle dei tre gruppi principali (amhara, oromo e sidama).

Abyi Ahmed

Un primo segnale era giunto nel 2018 con la nomina a primo ministro di Abiy Ahmed di origini miste oromo-amhara e per questo inizialmente ben accetto da entrambi i gruppi etnici (anche se poi gli Oromo lo hanno accusato di “tradimento”).
Abiy Ahmed aveva intrapreso alcune riforme a favore delle storiche rivendicazioni identitarie e territoriali della frammentazione di etnie (in parte conseguenza di non opportune precedenti divisioni amministrative) rimaste irrisolte.

Eterna stagione referendaria

Gli ultimi referendum di questo genere erano stati quelli del 20 novembre 2019 e del 23 novembre 2021 (“Nigrizia”). Avevano rispettivamente sancito la nascita di due nuovi stati federali, Sidama (dove il 99,7% per cento degli aventi diritto si era recato alle urne e il 98,5% aveva votato per l’autonomia) e South West. Separandosi entrambi dal Snnrr (Stato regionale delle nazioni, nazionalità e popoli del sud) già teatro di scontri e conflitti etnici.

Ultima tappa della frammentazione di etnie

Previsto per il 6 febbraio 2023, il nuovo referendum si terrà nella prospettiva della creazione di un dodicesimo stato regionale. Dovrebbe svolgersi in sei zone amministrative (Wolayita, Gamo, Gofa, South Omo, Gedeo e Konso) e cinque distretti speciali (Amaro, Burji, Basketo, Derashe e Alle). Attualmente integrati nel Snnpr.

Federalismo etnico

Risale al 1995 la Costituzione basata sul “federalismo etnico” che formalmente garantiva una relativa autonomia agli oltre 80 ceppi della frammentazione di etnie che comporrebbe il  paese (uno dei più popolati dell’Africa con quasi 120 milioni di abitanti). Possibilità non sempre adeguatamente accolta dagli interessati o rispettata dai governi.
Si consideri a titolo di esempio il conflitto armato nel Nord del paese tra il governo centrale e l’Eprdf, la coalizione guidata dal Fronte di liberazione popolare del Tigray (Tplf).
Anche recentemente, in settembre, si era nuovamente interrotta la tregua durata alcuni mesi nella prospettiva di una adeguata soluzione politica.

“Il genocidio atroce e diffuso nel Corno d’Africa” è un’intervento di Matteo Palamidessa trasmesso su Radio Blackout il 1° ottobre 2022.

Altri conflitti ricorrenti sono quello con l’Esercito di liberazione Oromo e la ribellione del Benishangul (Ovest dell’Etiopia).

Ribellismo e milizie

Ma i problemi dell’Etiopia non riguardano soltanto le questioni etniche. Altre emergenze coinvolgono trasversalmente ogni regione del paese, in particolare le ultime generazioni. Con il 70 per cento della popolazione sotto ai 35 anni (in buona parte disoccupata, emarginata nonostante il notevole incremento della scolarizzazione), manifestazioni, scioperi, rivolte e disordini sono fenomeni ricorrenti (e in genere repressi duramente).

Ma contemporaneamente al contenimento del ribellismo, i governi hanno sviluppato un altro modo per controllare, incanalare le istanze della gioventù etiope: quello di integrarli in formazioni giovanili strutturate su base regionale. Come i Fano per gli Amhara (una delle più consistenti numericamente e ben armata, talora qualificati come “vigilantes”) e i Qerro (sinonimo di “scapoli”, molti legati al sistema tradizionale di autogoverno, democratico e inclusivo) per gli Oromo. In passato alleati dei Fano, erano poi sorti contrasti a causa dell’ideologia panetiopica, egemonica e antifederale, caratteristica degli Amhara.
Consistenti numericamente anche altre organizzazioni giovanili come gli Yelega in Wolayta, gli Ejeetto Sidamo…a cui si sono aggiunti Nebro, Zarma, Aeigo, Dhhaaldiim.

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Appunti per una tragedia yemenita: i droni di Sana′a https://ogzero.org/appunti-per-una-tragedia-yemenita/ Thu, 10 Mar 2022 17:24:49 +0000 https://ogzero.org/?p=6643 Lo scacchiere internazionale vede molteplici guerre sanguinose in corso da anni fuori dall’Europa; lo Yemen viene usato come scenario dove affondano le dispute tribali storiche e locali, che risalgono al tempo in cui il territorio era suddiviso in entità statali del Nord e del Sud; rinfocolate da guerre per procura che contrappongono potenze locali, a […]

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Lo scacchiere internazionale vede molteplici guerre sanguinose in corso da anni fuori dall’Europa; lo Yemen viene usato come scenario dove affondano le dispute tribali storiche e locali, che risalgono al tempo in cui il territorio era suddiviso in entità statali del Nord e del Sud; rinfocolate da guerre per procura che contrappongono potenze locali, a loro volta sostenute militarmente e propagandisticamente da potenze globali. Scatole cinesi belliche aperte in questo studio di Lorenzo Forlani che dischiude un percorso storico a dipanare il filo dei contrasti dal punto di vista del confronto armato e degli addentellati geopolitici insiti negli intrecci soffocati da un abbraccio mortale di quei riferimenti culturali in contrasto per ragioni storiche e costretti a convivere nelle pieghe di dissidi tribali documentati nella parallela analisi di Carlotta Caldonazzo, che non rinuncia a collocarli nello schema geopolitico dell’area compresa tra lo Stretto di Hormuz e Bab el-Mandeb.

Fu la mattina seguente, a venti chilometri da Taïz, nella dolcezza di una luce che il verde dei campi e dei boschetti privava della sua crudezza, in un palazzo che sembrava uscito da una miniatura persiana, che la mia ricerca delle fonti dell’Islam finì negli occhi di un bambino…
Il guardiano del luogo, un bin Maaruf, proveniente dalla regione più selvaggia dell’antico Hedjaz, ha dei lineamenti affilati e canini la cui espressione astuta è, mi dicono, comune a tutti gli uomini della sua tribù, che fu per molto tempo la più odiata in Arabia. Disprezza qualcuno per generazioni e hai buone possibilità di renderlo spregevole, fino al giorno in cui, con le armi in mano, riacquisterà la sua dignità…

Roman Gary, Les Trésors de la mer Rouge, Gallimard, 1971

 

Il Castello di Taïz com'era (e com'è)

Il Castello di Taïz com’era (e com’è)

fin qui il sommario di OGzero…
La penna ora passa a Lorenzo Forlani


Nuovi scenari scaturiscono dai droni houthi

La crisi umanitaria in Yemen, generata da un grave conflitto militare che non accenna a estinguersi, viene raccontata a fasi e intensità alterne dai media internazionali. Letto unicamente attraverso il prisma della rivalità regionale tra Arabia saudita e Iran, ciò che accade nel paese raccontato da Pasolini tende a guadagnare i titoli delle prime pagine quando i suoi spillover – cioè gli “sconfinamenti” di un conflitto in un contesto diverso da quello in cui ha luogo – sono particolarmente visibili, cioè quando coinvolgono paesi più presenti nel (selettivo) immaginario collettivo occidentale.

È successo alla fine del mese di gennaio, quando i ribelli yemeniti di Ansarullah – anche conosciuti come Houthi – nel giro di due settimane hanno sferrato tre distinti attacchi con droni e missili balistici negli Emirati Arabi Uniti (uno dei quali durante la prima visita ufficiale negli Emirati del presidente israeliano Isaac Herzog) con l’obiettivo di colpire la base militare di Al Dhafra – che ospita truppe britanniche e americane –, un aeroporto e un deposito di carburante. Dopo aver intercettato i missili sui cieli di Abu Dhabi, le forze della coalizione filosaudita, di cui gli emiratini sono parte, hanno bombardato alcune aree sotto il controllo degli Houthi, tra cui la capitale Sana′a e la provincia di Saada, cioè l’area dove il movimento si è strutturato negli anni Novanta.

Attacco di uno stormo di droni Houthi sulla base di al-Dhafra

Lo “Yemen utile”, dimezzato e marginalizzato

Dal punto di vista formale, la situazione in Yemen appare quasi speculare a quella determinatasi in Siria: se nel paese levantino l’esercito di Bashar al Assad, coadiuvato da milizie regionali alleate e soprattutto dall’aviazione russa, dopo quasi dieci anni di conflitto ha ripreso il controllo della gran parte del territorio, e anzitutto di quella che gli osservatori definiscono “Siria utile” (cioè l’area del paese più densamente abitata, lungo la direttrice Damasco-Aleppo), in Yemen sono oggi i ribelli – quelli emersi nel tempo come i più organizzati, cioè gli Houthi – a controllare le regioni più abitate, nonché la capitale Sana′a.

 

La guerra in Yemen ha finora prodotto quasi mezzo milione di morti, dei quali il 70 per cento erano bambini. Secondo la Banca mondiale, su una popolazione iniziale di 30 milioni, oggi in Yemen sono non meno di 20 milioni le persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria permanente, e almeno 14 milioni a soffrire la fame. Quattro milioni sono gli sfollati, e un bambino su due soffre di malnutrizione. Lo Yemen era già lo stato arabo più povero – il quartultimo per Indice di sviluppo umano, dopo Sudan, Mauritania e Gibuti – prima dell’inizio delle primavere arabe del 2011, e oggi sembra affogare nella più grave crisi umanitaria del pianeta, trovandosi ai margini della narrazione tanto quanto, geograficamente, si trova ai margini della regione.

Lo scenario precedente: le “primavere” del 2011

Come si è arrivati sin qui? Sette anni di feroce conflitto hanno forse contribuito a rendere sfocato il ricordo del 2011: anche a Sana′a, la capitale del paese, nel mese di gennaio esplodono proteste popolari estremamente partecipate, proprio nei giorni successivi alla “cacciata” di Ben Ali in Tunisia. Le proteste – che prendono di mira anzitutto il presidente Ali Abdullah Saleh – si espandono a macchia d’olio in brevissimo tempo, e in diverse aree si trasformano in piccole rivolte, represse duramente. Già ad aprile, un terzo dei diciotto governatorati dello Yemen sfuggono al controllo del governo.

 

Come in tutte le rivolte che aspirano a diventare rivoluzioni, partecipate in modo più o meno orizzontale dalla società civile, c’è sempre un gruppo più organizzato, più radicato, più predisposto a prevalere sugli altri nella conquista e nella successiva gestione del potere, nel sovvertimento delle istituzioni esistenti. Gli Houthi – perlopiù riconducibili al ramo zaydita dell’Islam sciita, cioè quello che prende il nome dal pronipote di Ali Ibn Abi Talib, figura fondante dello sciismo – iniziano a avanzare le loro rivendicazioni e la loro soggettività politica nella prima metà degli anni Novanta, insistendo sulla lotta alla corruzione sul piano interno e sull’ostilità verso gli Stati Uniti, avversando Israele come posizionamento geopolitico. Sin dal principio si oppongono al presidente dello Yemen, Ali Abdullah Saleh (al potere dal 1990), riconducendolo all’interno di una narrazione che lo descrive come vassallo dell’Arabia Saudita, e di riflesso degli Stati Uniti.

Appunti per una tragedia yemenita

Yemen in piazza.

Il punto di svolta, cioè il momento in cui l’opposizione degli Houthi si trasforma in sistematica insorgenza anche armata – a intensità diverse, nel corso del tempo – arriva nel 2004: dopo aver rigettato un mandato d’arresto, il leader del movimento sciita Hussein Badreddine al Houthi viene ucciso dall’esercito durante un’offensiva a Saada. Da quel momento, sarà il fratello Abdelmalik al Houthi a guidare il movimento, ed è proprio lui che nel febbraio 2011 dichiara il suo appoggio alle proteste antigovernative, invitando i suoi a parteciparvi, soprattutto nella “roccaforte” di Saada.

Intrecci settari: regionalismo imposto al radicamento territoriale

 

Non è quindi un caso che il primo dei sei governatorati a scivolare via dalla giurisdizione del governo yemenita sarà proprio quello di Saada, che a fine marzo viene dichiarato indipendente dagli stessi membri di Ansarullah. In questo periodo inizia anche una fase di polarizzazione settaria con altre formazioni antigovernative di orientamento sunnita come Al Islah (vaga espressione della Fratellanza musulmana), accusati dagli Houthi di avere legami con al-Qaeda, laddove invece gli Houthi, anche alla luce di una effettiva identità di posizionamenti internazionali, nonché della affiliazione religiosa, vengono sempre più ricondotti a movimento organico alle strategie internazionali dell’Iran, rivale regionale dell’Arabia saudita.

Un importante sviluppo si ha nel novembre 2011, quando gli Houthi, già detenendo il controllo di una porzione rilevante di territorio, rifiutano un piano mediato dai paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, che intendeva dividere lo Yemen in sei regioni federali: secondo i ribelli zayditi, il piano non avrebbe cambiato nulla nella distribuzione del potere e nella governance, e anzi avrebbe rafforzato la netta divisione dello Yemen tra regioni ricche e povere. In più avrebbe frazionato aree già sotto il controllo degli Houthi, che in questo vedevano un tentativo di indebolirne la posizione negoziale. È la prima vera rottura di portata regionale, il momento in cui il piano inizia a inclinarsi verso una feroce guerra civile, alimentata anche da istanze esterne, figlie della proxy war tra Iran e Arabia Saudita.

Milizie. Coperture, forniture, alleanze

È in questo periodo che Ansarullah entra stabilmente in contatto con l’Iran e la sua orbita di milizie regionali, che forniscono addestratori e in seguito armi di vario genere. Dopo aver catturato Sana′a nel 2014, gli Houthi resistono ad alcune offensive saudite nella capitale e si scontrano a Est con formazioni qaediste sotto l’ombrello di Aqap (al Qaeda in the Arabic peninsula). L’offensiva saudita viene declinata soprattutto dal cielo: secondo lo Yemen Data Project, sono circa 25.000 i raid aerei sauditi dal 2015 a oggi, con i picchi più severi nel 2015, 2016 e 2020.

Appunti per una tragedia yemenita

Soldati emiratini rientrano dopo un anno di battaglie in Yemen.

D’altro canto dal 2016 gli Houthi smettono in qualche modo di essere solo una formazione dedita alla guerriglia interna – dal 2018 le battaglie più feroci sono quelle contro gli Amaliqah [i Giganti], un esercito di circa 20.000 uomini, sostenuto da Dubai – e portano a termine diversi attacchi oltre confine, prendendo di mira aeroporti, giacimenti petroliferi e di gas, sia in Arabia Saudita che negli Emirati arabi uniti. Lo fanno servendosi di armamenti via via più sofisticati – e sempre più diffusi in movimenti armati che non possono contare su una copertura aerea – come droni e missili a corto raggio. A partire dai dati del Center for Strategic and International studies, Riad avrebbe intercettato circa 4000 tra missili e droni provenienti dalle zone controllate dagli Houthi negli ultimi 5 anni.

Ed è interessante notare come Ansarullah sia entrato in possesso o abbia direttamente assemblato questo tipo di armamenti, se ancora lo scorso gennaio un report delle Nazioni Unite rilevava la violazione dell’embargo sulle armi, continuando «ad ottenere componenti fondamentali per i loro sistemi d’arma da società europee (soprattutto tedesche, i cui componenti arrivano a Sana′a dopo esser transitate per Atene e Teheran, N.d.R.) e asiatiche, utilizzando una complessa rete di intermediari per occultare la catena di custodia».

Droni in dotazione

In modo simile a quanto fatto da altre milizie sciite, più o meno organiche all’impalcatura di politica di sicurezza regionale dell’Iran, anche gli Houthi dal 2019 hanno persino presentato in via semiufficiale una piccola flotta di droni presumibilmente assemblati in Yemen: si tratta dei velivoli da ricognizione Hudhed 1, Raqib, Rased, Sammad 1 e di quelli da combattimento, Sammad 2, Sammad 3, Qasef 1 e Qasef 2k, questi ultimi praticamente identici ai droni Ababil di fabbricazione iraniana. Se fino al 2019 i droni utilizzati erano soprattutto quelli non armati, che però venivano fatti schiantare contro i radar dei sistemi di difesa della coalizione, da almeno due anni i droni utilizzati sono caricati con esplosivo e hanno un raggio più lungo. In sostanza: da qualche anno gli Houthi hanno accresciuto di molto le loro capacità militari, e questo costituisce uno dei motivi della loro resilienza a fronte della campagna di bombardamenti sauditi ed emiratini.

Qasef 2k, il drone in dotazione ai ribelli Houthi utilizzato per colpire obiettivi sauditi ed emiratini

Dopo sette anni dall’inizio dell’offensiva filosaudita, gli Houthi controllano ancora buona parte dell’area occidentale del paese, che a nord incontra un confine di 1300 km con l’Arabia saudita, mentre a ovest termina sulla costa di fronte allo stretto di Bab el Mandeb, una cruciale zona di transito commerciale. L’unica zona occidentale del paese non controllata dai ribelli di Ansarullah è il lembo di terra costiero a sud, dove sorge la città portuale di Aden, che dal 2019 è sotto il controllo del Southern Transitional Council a guida saudita-emiratina, cioè il governo temporaneo dello Yemen, alternativo a quello guidato dagli Houthi e riconosciuto dalla comunità internazionale.

La guerra finisce con lo Yemen

La guerra in Yemen racconta anzitutto di una incomunicabilità strategico-militare: da una parte una coalizione che, a fronte della quota più alta di import di armi in tutta la regione e di un dispiegamento di forze senza precedenti, non riesce a riportare sotto al proprio controllo gran parte di un paese considerato importante per la propria sicurezza regionale; dall’altra un movimento di resistenza yemenita, endogeno, ma la cui crescente integrazione con gli obiettivi regionali iraniani (a loro volta connessi alla propria idea di sicurezza regionale) ne ha aumentato l’isolamento sia interno – a causa di una gestione draconiana del potere e delle amministrazioni locali – che internazionale (il cui ultimo capitolo è l’inserimento nella lista delle organizzazioni terroristiche).

Il dramma dello Yemen sta soprattutto in questa incomunicabilità, in grado di protrarre un conflitto che non sembra poter avere vincitori, né soluzioni politiche che non passino da un accordo tra Iran e Arabia Saudita, a oggi molto lontano. Gli Houthi controllano una parte di paese sofferente e isolato, senza poter disporre dei suoi confini, e dovendo fare i conti con le campagne di bombardamenti che mirano ad annientarli: un movimento di guerriglia che sembra sempre più propenso a difendere le proprie posizioni e sempre meno destinato ad aver un ruolo politico concreto, in un eventuale futuro Yemen pacificato. I sauditi e gli emiratini, dal canto loro, accanto a una impossibilità di trovare una soluzione politica, mostrano alla regione una rischiosa inefficacia militare: non sufficiente a farli desistere, anzi in grado di suggerire pericolosamente che la guerra in Yemen possa finire soltanto quando sarà finito lo stesso Yemen.

 

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Aden, Arabie: opposte visioni del mondo collidono https://ogzero.org/aden-arabie-opposte-visioni-del-mondo-collidono/ Thu, 10 Mar 2022 17:23:04 +0000 https://ogzero.org/?p=6668 L’annosa crisi yemenita affonda radici in un passato, dove si possono trovare motivi per un conflitto e obiettivi per ciascuno dei contendenti molto divergenti. Sono questi a minare l’equilibrio della regione e contemporaneamente ne sarebbero garanti se l’interesse geopolitico delle potenze globali non si fosse giustapposto sui dissidi locali per farne teatro delle loro dispute: […]

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L’annosa crisi yemenita affonda radici in un passato, dove si possono trovare motivi per un conflitto e obiettivi per ciascuno dei contendenti molto divergenti. Sono questi a minare l’equilibrio della regione e contemporaneamente ne sarebbero garanti se l’interesse geopolitico delle potenze globali non si fosse giustapposto sui dissidi locali per farne teatro delle loro dispute: infatti oltre a essere uno dei campi di battaglia per la supremazia regionale – come ben documenta l’attenzione alle armi usate nel conflitto yemenita nell’articolo parallelo di Lorenzo Forlani –, lo Yemen subisce, a causa della sua posizione strategica, le pressioni generate dalla convergenza delle proiezioni delle potenze mondiali; Gran Bretagna, Unione sovietica, monarchie del Golfo, Iran, Stati uniti: i titani si scontrano tra Hormuz e Aden.

L’ampio conflitto yemenita – una guerra che ha già causato mezzo milione di morti, molti dei quali civili (nel marzo 2019 un ospedale di Save the Children a Saada era stato attaccato dai sauditi con bombe prodotte dalla Rwm italiana) senza riuscire a smuovere coscienze caucasiche –, che trova qui un’esaustiva disamina da parte di Carlotta Caldonazzo, ha una delle sue icone nella Safer, petroliera ormeggiata in decomposizione al largo di Hodeida. Il 5 marzo si è raggiunto un accordo perché l’Onu possa occuparsi di disinnescare una delle bombe a orologeria disseminate da decenni nello Yemen. La sua sorte somiglia a quella di un territorio ormeggiato nel ‘pelago’ pericoloso degli scontri tra concezioni di vita e religione, di interessi locali e geostrategici.

Al Crater, sull’Esplanade, stavano adunati attorno al campo di calcio gli Arabi dell’Hadramut e dello Yemen, gli Indù di ogni casta, i Negri della sponda africana mescolati coi fantaccini di Sua Maestà: talvolta suonava la banda del reggimento punjabi; nei giorni dello Shabbàth i ragazzini ebrei si scaltrivano, non osando ancora radersi i ricciolini, ma solamente portare quelle giacche chiare, che avrebbero indossato definitivamente un giorno sui marciapiedi di piazza Mohammed Alì all’inizio della Muski al Cairo
(Paul, Nizan, Aden Arabie, edizioni Fahrenheit 451, 1994, p. 128; ed. or. 1926)

fin qui il sommario di OGzero…
La penna ora passa a Carlotta Caldonazzo


Attriti arabo-iranici

Il 28 febbraio, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite (Onu) ha votato la risoluzione 2624, proposta dagli Emirati arabi uniti (Eau), che estende l’embargo delle armi all’intero gruppo dei ribelli sciiti noti come Houthis o Ansarullah, limitato a singoli individui dalle precedenti risoluzioni, a partire dalla 2140 e dalla 2216. Undici i voti favorevoli, nessuno contrario, mentre Irlanda, Messico, Brasile e Norvegia si sono astenuti. A votare in favore della risoluzione è stata anche Mosca, che secondo alcuni analisti avrebbe sostenuto la proposta emiratina in cambio dell’astensione di Abu Dhabi su due precedenti risoluzioni sull’Ucraina. Sia la Russia, sia gli Eau smentiscono una simile lettura mercantilista, ma intanto in Yemen si manifestano contemporaneamente due tipi di conflitto: il primo livello di scontro è interno e il prodotto dell’intersecarsi degli attriti tra le molteplici e fluide fazioni politico-tribali e tra le due entità storiche che costituiscono il paese; il secondo, invece, e quello esterno ed è la risultante del convergere nello stesso territorio degli interessi strategici di potenze regionali e globali. Da quest’ultimo punto di vista, infatti, lo Yemen è uno dei terreni di scontro privilegiati dall’Iran e dalla coalizione arabo-sunnita. Senonché, il fronte, un tempo compatto, di quest’ultima si è recentemente incrinato, prima a causa della crisi diplomatica tra il Qatar e gli altri membri del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), poi per via dell’emergere di una personalità geopolitica emiratina. Gli Eau, infatti, si sono inizialmente allineati con Riyadh, ma soprattutto dall’avvento del principe ereditario Mohammed bin Zayed, hanno tentato di ricavarsi uno spazio geopolitico proprio, autonomo dal tradizionale predominio storico-culturale saudita.

Fratture geopolitiche

Sullo stesso livello regionale degli equilibri geopolitici mediorientali, tra i rivali di Tehran, oltre alle monarchie del Golfo, si deve annoverare Israele, anche se implicata nel conflitto yemenita solo da tempi recenti. Ad attrarre l’attenzione di Tel Aviv, in realtà, è stata la svolta politica operata nei primi anni Duemila dal gruppo di ribelli sciiti Ansarullah, noto per lo più con il nome della tribù in esso dominante, gli Houthi. In realtà, le radici di questo gruppo politico-tribale affondano principalmente nella diffidenza di alcune tribù sciite dello Yemen settentrionale di fronte all’unificazione yemenita del 1990, percepita come una potenziale minaccia per almeno due ordini di motivi. In primo luogo, perché comportava il rafforzamento della Repubblica araba dello Yemen, che non solo era nata nel 1962 dopo la deposizione dell’ultimo imam mutawakkilita (l’imamato era la forma monarchica con cui lo Yemen settentrionale aveva ottenuto l’indipendenza dall’impero ottomano sull’orlo del crollo), ma era anche ispirata sin dall’inizio al modello nazionalista panarabo e laico del presidente egiziano Gamal Abd al-Naser. In secondo luogo, perché nel 1990, dopo l’implosione del sistema sovietico, l’Arabia saudita aveva fondato il partito islamico sunnita yemenita al-Islah, sia in funzione anticomunista (a Riyadh fu assegnato il compito di gestire la globalizzazione dell’ultimo decennio del Ventesimo secolo tra le popolazioni arabe sunnite, un ruolo simile a quello della Turchia tra le popolazioni musulmane non arabe – e non necessariamente sunnite, come nel caso dell’Azerbaijan), sia per evitare che lo Yemen diventasse uno stato sciita, potenziale appiglio per la minoranza sciita che vive all’interno dei suoi confini in condizioni di cittadinanza di serie b.

Graffiti di Murad Subay sui muri di Sana'a

Graffiti di Murad Subay sui muri di Sana’a: opere collettive piene di ironia nella loro denuncia degli attacchi jihadisti e degli scontri settari

Il movimento Houthi

È in questo contesto che il movimento Houthi fu fondato nel 1992, nella provincia di Saada, con il nome di Gioventù credente e, originariamente, con due obiettivi fondamentali: il primo era promuovere il risveglio dell’islam sciita zaydita come modello di islam politico moderato, contrapposto alla rigidità dei Fratelli musulmani sunniti e al wahhabismo e al salafismo sauditi; il secondo, invece, era denunciare la corruzione del sistema messo in piedi dall’allora presidente Ali Abd Allah Saleh e l’accordo da lui siglato con gli Stati Uniti, considerato una sorta di atto di svendita alla superpotenza imperialista del momento. In principio, inoltre, le letture religiose che circolavano nelle associazioni studentesche erano soprattuto di due teologi sciiti libanesi, nonché personalità di spicco nel partito sciita Hizbullah: Mohammad Hussein Fadlallah e Hasan Nasrallah. Vale la pena forse notare, a questo punto, che esiste una differenza tra lo sciismo iraniano e libanese, che in massima parte è di scuola duodecimana (detta così perché riconosce dodici imam storici), e quello yemenita, in maggioranza zaydita (per esempio, questa scuola riconosce solo cinque imam storici). La divergenza non è profonda, ma risiede in dettagli come il mancato riconoscimento da parte degli zayditi dell’infallibilità dell’imam. Di conseguenza la contrapposizione non è così netta come rispetto all’islam sunnita prevalente in Arabia saudita e che Riyadh ha cercato di diffondere anche in Yemen. Peraltro, le differenze confessionali il più delle volte sono un pretesto per i conflitti, non la loro causa remota. Ne sia un esempio la presa di posizione dell’Iran, nel conflitto nel Nagorno-Karabakh, in favore della cristiana Armenia e contro l’Azerbaijan, paese turcofono ma a maggioranza sciita duodecimana.

Guerra per procura contro l’alleanza sciita

Tra la fine degli anni Novanta del secolo scorso e l’inizio degli anni Duemila, gli Houthi hanno iniziato a integrare nel loro programma politico tematiche di geopolitica regionale e globale, in particolare la resistenza a Israele e all’imperialismo statunitense, nonché la teoria di un complotto ordito da Tel Aviv e Washington con la complicità delle monarchie arabe del Golfo. Dal 2003, infine, ossia dopo l’invasione statunitense dell’Iraq, compare tra i loro sloganmorte agli Usa, morte a Israele”. Nel momento in cui gli Usa dichiaravano guerra al terrorismo di matrice islamica, facendo di Israele la punta di diamante della loro proiezione di potenza in Medio Oriente, l’Iran tesseva una serie di relazioni con i movimenti sciiti arabi della regione, in particolare con il partito sciita libanese Hezbollah, con gli alawiti siriani, con gli Houthi yemeniti e con gli sciiti iracheni, con i quali, tuttavia, il rapporto è da sempre piuttosto complesso. D’altronde, l’ayatollah Ruhollah Khomeini aveva dichiarato Israele nemico dell’Iran già prima della rivoluzione islamica del 1979, a seguito della quale elaborò una forma di islam politico rigoroso sciita e non arabo, da contrapporre ai modelli sunniti fioriti in Egitto (i Fratelli musulmani e la loro costola scismatica takfirita) e Arabia saudita (wahhabiti e salafiti) e all’allora modello laico della Repubblica di Turchia. Negli anni Novanta, quindi, Tehran ospitava gli studenti della Gioventù credente, tra i quali Hussein Badreddin al-Houthi, che fu uno degli ispiratori del movimento. Quest’ultimo, dopo il suo assassinio (assieme a diversi uomini della sua scorta) da parte dell’esercito yemenita, a Sa’ada, nel 2004, prese il suo nome, Houthi, e lanciò la rivolta armata contro il governo di Sana’a. La linea di Hussein al-Houthi, infatti, era essenzialmente riformista e improntata al dialogo, tribale e confessionale, come dimostrò nella sua esperienza di deputato del Parlamento yemenita, nel partito al-Haqq (“la verità”), che è anch’esso una sua creazione. A inimicargli il governo di Ali Abdallah Saleh furono le sue prese di posizione in favore dei movimenti separatisti meridionali, anch’essi impegnati nella lotta contro la corruzione del potere centrale, sia pure per ragioni diametralmente opposte. Nacque in tal modo in molti separatisti e socialisti meridionali una certa forma di simpatia e solidarietà nei confronti degli Houthi, al punto che alcuni di essi, per prendere posizione contro l’integralismo sunnita del partito al-Islah, si sono dichiarati sciiti.

Mezzaluna sciita

L’evoluzione della Mezzaluna sciita nell’area Mena fotografata nel 2015 dalla Columbia University

Fratture storiche

Nell’analizzare i rapporti tra le forze politiche yemenite, occorre tener presente che tanto nelle alleanze, quanto nei dissidi, entrano in gioco diversi fattori: oltre alle scelte del capo di partito o di fazione del momento e alle differenti posizioni riguardo l’islam politico, nel Nord hanno un ruolo significativo i legami tribali, mentre nelle regioni meridionali, la nascita del Movimento per il Sud, nel 2007, ha le sue radici nella percezione, diffusa nella ex Repubblica democratica popolare dello Yemen, dell’unificazione come una conquista brutale da parte di un Nord arretrato e corrotto, che ha imposto al Meridione ex socialista, laico e urbanizzato un sistema basato sul nepotismo, sulle dinamiche tribali e sui privilegi di casta. Una posizione che, paradossalmente, accomuna questo movimento a quello degli Houthi, nato per aggregazione attorno all’omonima tribù, ma dal 2004 maggiormente connotato in senso ideologico-religioso. Peraltro, buona parte degli esponenti del Partito socialista yemenita (Psy), al governo durante l’epoca sovietica (lo Yemen meridionale è l’unico paese arabo ad aver partecipato con un suo contingente all’invasione sovietica dell’Afghanistan), nel 1990 aveva accettato a malincuore l’unione con il Nord. Qui, infatti, le istituzioni nate dalla rivoluzione repubblicana del 1962 non facevano che mascherare le tradizionali dinamiche tribali, che il Movimento accusa Sana’a di aver diffuso anche al Sud. Inoltre, vigeva un sistema analogo a quello indiano delle caste, inclusi gli intoccabili, chiamati akhdam, “servi”, spesso di origine somala. In generale, rispetto al Sud, nelle regioni settentrionali le differenze di genere erano nette, l’analfabetismo dilagante e, soprattutto, i tradizionali privilegi tribali si erano sovrapposti a quelli derivati dall’appartenenza al “clan” di Ali Abdallah Saleh. Un regime originariamente laico, nazionalista e militarista, che in seguito ha fatto ricorso alle forze politiche religiose per opportunismo politico e, all’occorrenza, si è prostrato agli Stati Uniti e all’Arabia saudita, in nome, rispettivamente, della lotta al terrorismo di matrice islamica e del contrasto alle forze laiche progressiste. Gli attriti tra i due Yemen emersero nel 1993, appena tre anni dopo l’unificazione, quando il vicepresidente della Repubblica Ali Salem al-Beidh, segretario generale del Psy integrato nelle istituzioni unitarie, abbandonò il governo e si ritirò ad Aden, ex capitale del Sud e porto strategico nell’omonimo golfo.

Saleh assedia Aden e impone il nuovo corso. Il reportage de “l'Unità” il 9 maggio 1994

Saleh assedia Aden e impone il nuovo corso. Il reportage de “l’Unità” il 9 maggio 1994

La guerra infinita

Al-Beidh denunciava l’intenzionale impoverimento del Sud da parte del governo centrale e l’uso da parte di Saleh delle alleanze tribali e delle organizzazioni integraliste sunnite per intimidire, o addirittura eliminare, gli oppositori politici del Sud (accuse simili a quelle mosse dagli Houthi). Dopo un tentativo di accordo siglato ad Amman nel febbraio 1994, scoppiò una breve ma sanguinosa guerra civile e fu proclamata l’indpendenza della Repubblica democratica dello Yemen. Saleh chiamò in soccorso anche le milizie islamiche e riuscì a sconfiggere l’esercito messo in piedi dai capi politici del Psy, che optarono per l’esilio volontario. Le ragioni profonde della guerra civile risiedono nella profonda diffidenza che Saleh nutriva nei confronti di questo partito, preferendo quindi contare, da un lato, sulla fedeltà tribale delle milizie islamiche affiliate ad al-Qaeda nella Penisola araba (Aqpa) e, dall’altro, sull’alleanza istituzionale con al-Islah (che ha anche un considerevole braccio armato), partito vicino alla Fratellanza musulmana, ma sostenuto dall’Arabia saudita, prezioso alleato per l’allora presidente yemenita, almeno finché gli aveva assicurato la permanenza al potere. Infatti, nel 2012, quando Saleh fu costretto alle dimissioni dopo che un ordigno lo aveva quasi ucciso nel palazzo presidenziale, nel giugno 2011, rendendo evidente l’impossibilità di un ritorno alla presidenza, Riyadh iniziò a sostenere il suo successore ed ex vicepresidente Abdorabbou Mansour Hadi. A quel punto, Saleh, tornato in Yemen, si schierò con gli Houthi (d’altronde era di famiglia sciita) quando, nel 2014, si apprestavano a prendere il controllo di Sana′a, costringendo alle dimissioni prima il vicepresidente Mohammed Basindawa, poi Hadi, che riparò temporaneamente ad Aden, per fuggire poi in Arabia saudita. Qui si trova tuttora, data l’impossibilità di tornare in Yemen per via della condanna a morte sentenziatagli nel 2017 da un tribunale di Sana′a controllato dagli Houthi, con l’accusa di alto tradimento. La conquista di Sana′a da parte dei ribelli sciiti diede, dunque, al Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) l’occasione di arginare l’influenza iraniana in Yemen con un intervento militare condotto da una coalizione di paesi sunniti guidata da Riyadh saudita.

Consiglio di Cooperazione del Golfo che decide di Arginare l'influenza iraniana in Yemen

Consiglio di Cooperazione del Golfo che decide di Arginare l’influenza iraniana in Yemen (luglio 2017)

Riyadh e Abu Dhabi: alleati tattici o rivali strategici?

Nel 2017, intanto, Saleh, consapevole che gli Houthi non avrebbero mai conquistato tutto lo Yemen e che, di conseguenza, non gli avrebbero restituito il potere di un tempo, ruppe anche con loro, probabilmente a seguito di colloqui segreti con funzionari di Emirati arabi uniti (Eau), Russia e Giordania, e aprì al dialogo con la coalizione a guida saudita, ma fu ucciso nel dicembre dello stesso anno in un’imboscata dei ribelli sciiti. In questa vicenda, emerge una trasformazione progressiva del ruolo di Abu Dhabi all’interno della coalizione condotta da Riyadh e, di conseguenza, nel complesso quadro dei conflitti yemeniti. Gli Eau, infatti, non contenti del sostegno saudita a una forza politica, al-Islah, gravitante nell’orbita dei Fratelli musulmani, hanno preferito sostenere, sin dall’inizio delle proteste popolari del 2011 (che si inscrivono nel quadro delle cosiddette primavere arabe), il Movimento per il Sud, ben sapendo che, caduta l’Unione sovietica, non avrebbe mai avuto la capacità di controllare tutto lo Yemen, limitandosi a mettere i bastoni tra le ruote al governo centrale e a contrastare, in minima parte, l’influenza dell’islam nella sfera politica. Inoltre, dal 2017, Abu Dhabi si è progressivamente ritirata dalla partecipazione diretta all’intervento militare, offrendo piuttosto un sostegno militare e finanziario alle Brigate dei Giganti: milizie in gran parte salafite, costituite dai membri delle tribù provenienti dalle città di Lahj, Abyan e Dammaj (quest’ultima nel governatorato di Sa′ada, roccaforte Houthi). Questo graduale distacco degli Emirati dalla strategia saudita, che mira, in ultima analisi, alla neutralizzazione della potenza iraniana, coincide con l’elaborazione di una propria visione strategica, meno monolitica e più aperta al dialogo con Tehran. Per questo, molti analisti si sono interrogati sulle ragioni degli attacchi missilistici sferrati dagli Houthi, il 17 gennaio, contro Abu Dhabi. Nondimeno, essi sono avvenuti in un momento cruciale dei negoziati internazionali sul programma nucleare iraniano e in una fase di cambiamento nelle politiche estere emiratina e saudita: entrambe le monarchie del Golfo, infatti, stavano tessendo rapporti di cooperazione economica e finanziaria con la Cina, dalla quale ultimamente Abu Dhabi ha anche acquistato aerei da guerra. Inoltre, mentre l’acquisto emiratino di tecnologia Huawei per il 5G aveva indotto gli Usa a provocare uno stallo nella trattativa per la vendita del sistema F-35 agli Eau, dopo gli attacchi del 17 gennaio, Washington è tornata sui suoi passi.

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E il fiume mormorava in tigrino e amarico https://ogzero.org/tigray-2021-e-il-fiume-mormorava-in-tigrino-e-amarico/ Sun, 29 Aug 2021 07:47:14 +0000 https://ogzero.org/?p=4672 1985, la siccità strema il Corno d’Africa, il fotografo dipinge con quello che ha, i fasci di luce inquadrano un sottobosco di umanità disperata in fuga da fame e guerra. La regione era il Tigray, il fotografo Sebastião Salgado. Allora il celeberrimo scatto del fotografo brasiliano squarciò il velo che nascondeva il quadro dove all’aridità […]

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1985, la siccità strema il Corno d’Africa, il fotografo dipinge con quello che ha, i fasci di luce inquadrano un sottobosco di umanità disperata in fuga da fame e guerra. La regione era il Tigray, il fotografo Sebastião Salgado. Allora il celeberrimo scatto del fotografo brasiliano squarciò il velo che nascondeva il quadro dove all’aridità dei campi tigrini si sommava la guerra portata dagli eritrei filoamericani contro il regime filosovietico di Menghistu, impedendo il transito di aiuti. Si contò un milione di morti alla fine della carestia.

Sebastião Salgado, Kalema Camp – West Tigray, 1985 – mostra di Nice, agosto 2021. Un servizio della Bbc lo definì “la cosa più vicina all’inferno sulla terra”

2021, di nuovo guerra. Anzi, non è mai finita. Di nuovo truppe eritree protagoniste di atrocità in Tigray; ancora deportazioni e campi di concentramento per profughi eritrei fuggiti dal regime di Isaias Afewerki e per tigrini nel mirino della pulizia etnica oromo e ahmara, che vuole vendicare 30 anni di potere tigrino in Etiopia. La differenza sta nell’alleanza inaudita tra Addis Abeba e Asmara, che ha prodotto il consueto corollario di massacri, saccheggi, stupri, torture, esecuzioni e sparatorie; e nell’alleanza stipulata tra Fronti di liberazione tigrino e oromo, che promettono di allargare il conflitto, facendolo diventare Guerra civile di tutta la nazione.

E corpi portati dal Tekezé a valle, in Sudan, dove si chiama Setit.

Tigray 2021

Sponde del Tekezé a Wad el-Hiliou – Kassala, 4 agosto 2021

In questo agosto distratto da conflitti in altre aree strategiche truppe eritree attraversano nuovamente il fiume Tekezé che fa da confine e che ha visto migliaia di morti e 2 milioni di sfollati dall’inizio dell’operazione militare scatenata a novembre da Abiy Ahmed, il presidente etiope. A giugno il Fronte di liberazione del popolo tigrino (Tplf) aveva riconquistato l’intera regione, entrando a Mekallé e costringendo gli etiopi al cessate il fuoco.

Claudio Canal si sofferma brevemente ma efficacemente sugli aspetti che coinvolgono l’umanità oppressa dalla guerra e in particolare le violenze di genere correlate.


Il fiume scorre serafico come sempre.  Il Tekezé è un fiume geopolitico, segna il confine tra l’Etiopia e l’Eritrea e tra Etiopia e Sudan dove cambia nome e diventa Setit. Separa anche l’area delle lingue amarica e tigrina.  Come tutti i torrenti e i fiumi del pianeta trasporta ciò che cade in acqua o vi è gettato. In questi giorni scorrono corpi umani martoriati che dal Tigray [più noto come Tigré nella versione italiana], vasta regione settentrionale dell’Etiopia, galleggiano senza una meta verso il Sudan.

Una guerra la si può vincere o perdere, ma, essendo una macchina di produzione, lascia dietro di sé deiezioni in forma di corpi esanimi. Qualche volta raccolti e sepolti, altre volte lasciati lì a tornare polvere. Salvo che un fiume o un mare li accolga e li smuova secondo le proprie leggi. Fino a questo momento una cinquantina o più. Il fiume racconta che nel suo medio-alto corso è in atto una tragica inimicizia tra esseri umani.

Tigray 2021

Una geopolitica bizzarra ci dice che ex nemici accaniti, che si scontravano da decenni non badando ai morti, Etiopia ed Eritrea, adesso si sono scoperti alleati. Una, con un primo ministro, Abiy Ahmed Ali, laureato Nobel per la pace 2019 e dottorando in guerra; l’altra, con un presidente che si può classicamente definire tiranno. Un ossimoro istituzionale che la realtà però sopporta bene. Un pizzico di accortezza in più ai giurati del Nobel ne consoliderebbe la fama. Ci dice anche, questa geopolitica stravagante, che l’Etiopia è entrata in guerra con se stessa tramite una meno eccentrica e più consolidata forma di guerra civile, iniziata nel novembre scorso. L’obiettivo era ridurre a più miti consigli la leadership del Tigray, che nei decenni passati aveva governato l’Etiopia. Uno scontro di poteri abbastanza tradizionale in cui si è inserita bellicosamente l’Eritrea, in attesa che altri attori dell’area dicano la loro con i propri eserciti. Accendere i motori di una guerra è facilissimo. Difficilissimo anche solo metterla in folle.

Non riassumo i nove mesi di guerra ora in accelerata ripresa. Una aggiornata cronaca si può trovare nella sempre documentata “Nigrizia  e telegraficamente tramite la sintesi della penna di Dave Lawler.

“Tigray nascosto: silenzioso annientamento di una comunità”.

 

Due temi vorrei sottolineare:

  1. se ti arriva la guerra sotto casa o direttamente dentro cosa fai? Cerchi di scappare. È quello che sta massivamente succedendo. Non bastasse, c’era chi già era fuggito dalla confinante Eritrea e stazionava in campi profughi abbastanza improvvisati. Fuggiva dalla, chiamiamola così, antidemocrazia dell’Eritrea, dai suoi soprusi e dalla povertà, e nella tappa in Tigray ritrovava anche una lingua comune, il tigrino [lingua del ceppo semitico come l’amarico, lingua ufficiale dell’Etiopia, preceduta in quanto a numero di parlanti dall’oromonico della nazionalità oromo]. La partecipazione diretta dell’Eritrea alla guerra a fianco dell’Etiopia ha significato per i rifugiati eritrei dover fare i conti, di nuovo, con l’esercito eritreo che non è noto per il rispetto di alcunché. Non è difficile immaginare il disastro della guerra sui loro volti. I superstiti stanno forse sognando un barcone che attraversi il Mediterraneo e li porti in salvo chissà dove.

È il cinismo della geopolitica, che descrive, ma non può render conto dei moti sotterranei delle vite singole e collettive.

        2. «Non so se si sono accorti che ero una persona»

È la dichiarazione di una donna stuprata dai soldati nel Tigray. È anche il titolo del rapporto di Amnesty International e il contenuto di numerose altre inchieste curate dalla Reuters e del Georgetown Institute for Women, Peace and Security e del Kujenga Amani e nuovamente “Nigrizia” e…

Siamo in tempi di turismo, d’arte e d’altro. Passeggiando per Firenze in piazza san Lorenzo è possibile ammirare il monumento che Baccio Bandinelli scolpì nel 1540 per celebrare il condottiero Giovanni della Bande Nere che oggi verrebbe definito contractor e in tempi meno eleganti mercenario.

Le guide descrivono il bassorilievo del basamento come scene di guerra.  Effettivamente. Si vede la cattura di una donna, preludio al suo uso sessuale, come da sempre le regole belliche hanno decretato e che il Novecento ha visto intensificarsi e proliferare fino a oggi. Una terribile ed efficace forma di deterrenza e di intimidazione che si rivolge alle altre donne e ai loro uomini.

Le donne del Tigray gridano che questa storia non è per niente finita, ma dicono anche che da certe orecchie non ci sentiamo. La loro solitudine continua.

Postilla: Eritrea ed Etiopia sono state due colonie italiane. Una, la primigenia, l’altra, l’ultima a essere aggredita dalle truppe del Regio Esercito. Silenzio desertico dalle nostre parti, orfane anche della memoria storica di Angelo Del Boca.


Il Sudan ha convocato l’ambasciatore etiope a Khartoum per informarlo che i 29 cadaveri trovati sulle rive del fiume Setit, al confine con l’Etiopia, tra il 26 luglio e l’8 agosto, erano cittadini di etnia Tigray; i cadaveri sono stati identificati da cittadini etiopi residenti nella zona di Wad al Hulaywah, nel Sudan orientale. Il 5 settembre un reportage della Cnn ha riacceso i riflettori sul Tekezé e sui corpi mutilati che sussurrano nel suo alveo.

Questo scontro diplomatico avviene dopo il ritrovamento e il sequestro, da parte delle autorità sudanesi, di 72 scatole, contenenti armi e binocoli per la visione notturna, arrivate via aereo dall’Etiopia il 4 settembre. Nella serata del 6 settembre, il Ministero degli Interni sudanese ha affermato che la spedizione, che includeva 290 fucili, apparteneva ad un commerciante autorizzato, Wael Shams Eldin, ed era stata controllata e ritenuta in regola. Anche la compagnia aerea etiope ha confermato che le armi erano pistole da caccia che facevano parte di una spedizione verificata. Le armi erano giunte dalla Russia all’Etiopia nel maggio 2019. Le autorità etiopi le avevano tenute ad Addis Abeba negli ultimi due anni, ma, senza preavviso, il 4 settembre, avevano autorizzato il loro trasporto a Khartoum su un aereo civile. I primi sospetti delle autorità sudanesi si erano indirizzati contro i lealisti del governo dell’ex presidente Omar al-Bashir, accusati dai funzionari del Consiglio di transizione di voler minare la svolta democratica del Paese. Le tensioni tra il Sudan e l’Etiopia sono aumentate da quando il conflitto nella regione settentrionale etiope del Tigray si è intensificato e la disputa sulla costruzione della diga Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd) non si è ancora risolta.

La guerra si estende e comprende nuovi motivi di astio…

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n. 6 – Primavere, rivolte e rivoluzioni: dieci anni di utili contaminazioni https://ogzero.org/l-eredita-delle-primavere-arabe-e-le-rivoluzioni-di-oggi/ Sun, 02 May 2021 09:50:35 +0000 https://ogzero.org/?p=3244 Questo articolo introduce una sezione nuova della raccolta di articoli di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria: analizzeremo le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medioriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe, e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative […]

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Questo articolo introduce una sezione nuova della raccolta di articoli di Fabiana Triburgo sulla questione migratoria: analizzeremo le condizioni alla base delle nuove rotte dal Medioriente e dal Nord Africa, tra instabilità politica, conflitti civili e l’eredità delle Primavere arabe, e giungeremo al termine di questa sezione a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti.


n. 6

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Correnti umane da un Medio Oriente interconnesso

L’area del Medio Oriente è particolarmente rilevante per l’analisi delle situazioni di instabilità politica o di perdurante conflitto dei paesi d’origine dei migranti che sfociano o che potrebbero presto sfociare, come nel caso del Libano, in correnti umane lungo la rotta dell’Egeo e lungo quella balcanica, per approdare in prossimità dei confini europei.

Dalla Rivoluzione dei Gelsomini alla fuga di Saleh

Al riguardo occorre sottolineare che difficilmente la precarietà istituzionale o gli episodi di violenza presenti in uno dei paesi mediorientali non va a dispiegare i propri effetti su un altro paese appartenente alla medesima area, anche se in modalità diverse e con diversa intensità. Se è vero, tuttavia, che l’onda propulsiva degli eventi che interessano i paesi del Medio Oriente è caratterizzata dalla contaminazione di un paese con l’altro, va altresì riconosciuto che l’area nell’ultimo decennio ha subito il contraccolpo degli effetti politici e sociali che dieci anni fa si sono generati mediante le cosiddette Primavere arabe – termine coniato dai media occidentali – a loro volta conseguenza delle proteste popolari contro le autorità dittatoriali allora detentrici del potere. Infatti, nel dicembre 2010 un venditore ambulante in Tunisia, Mohamed Bouazizi, si diede fuoco davanti al municipio della città di Sidi Bouzid come tragico simbolo di protesta contro il perdurante eccesso dell’impiego della violenza e della repressione delle forze di polizia fedeli al regime di Zine El-Abidine Ben Ali, a quel tempo da 23 anni al potere, nei confronti della popolazione civile. Nel caso specifico di Mohamed Bouazizi la polizia tunisina aveva sequestrato arbitrariamente il suo banco di vendita del pesce dinanzi all’assoluta indifferenza delle autorità. Da quel momento la Tunisia s’incendiò in tumulti popolari definiti come la “Rivoluzione dei Gelsomini” che portarono il presidente-dittatore all’esilio e al primo innesto di un processo democratico nel paese. Invece il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh fuggì in esilio in Arabia Saudita rassegnando le dimissioni e lasciando il paese in una situazione di completa instabilità. Le immagini di tale gesto di immolazione in Tunisia arrivarono negli altri paesi del Medio Oriente grazie all’emittente Al-Jazeera. Nel corso di qualche mese l’ondata di proteste si dispiegò in altri paesi dell’area del Nord Africa e in alcuni del Medio Oriente che progressivamente videro i vari regimi crollare uno a uno come le tessere di un domino: ciò avvenne in primo luogo in Egitto con le celebri proteste del 25 gennaio 2011 in piazza Tahrir. Non solo, se monarchie quali Giordania, Marocco resistettero a tali tumulti attraverso concessioni alle richieste del popolo grazie a esigue modifiche delle rispettive costituzioni, in altri paesi le proteste mutarono rapidamente in sanguinosi conflitti civili non ancora del tutto risolti, come avvenne in Siria contro il regime di Bashar al-Assad, in Libia durante la dittatura di Gheddafi e infine nello Yemen contro Ali Abdullah Saleh che nel 2012 lasciò il potere.

L'eredità delle Primavere arabe

Campo di ribelli della coalizione anti-Gaddafi, Ajdabiya in Libia, aprile 2011 (foto Rosen Ivanov Iliev).

In tutti i paesi interessati da tali reazioni popolari sono rintracciabili tre elementi comuni qualificabili quali: il disagio economico, la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi individui, quasi in una sorta di oligarchia economica ravvisabile in particolar modo nella cerchia di soggetti affiliati al regime di Ben Ali in Tunisia o quello di Bashar al-Assad in Siria e, infine, il controllo fortemente repressivo e autoritario della vita pubblica.

Le Primavere arabe sono davvero fallite?

Ad ogni modo, guardando alla situazione attuale degli stessi stati, tra cui l’Egitto retto oggi dal presidente dittatore Abdel Fattah al-Sisi, paese nel quale dieci anni fa i poteri autoritari erano stati sovvertiti dal popolo, si parla spesso di un fallimento di tali “primavere” e dell’incompiutezza del sistema democratico al quale esse stesse miravano attraverso l’affermazione di principi di libertà e di uguaglianza e la rivendicazione dei diritti civili, ma è realmente così?

Il dubbio tuttavia che un fenomeno importante – seppur incompiuto – si determinò a partire dalla fine del 2010 attraverso le cosiddette Primavere arabe, proviene proprio dall’analisi dei movimenti  di protesta che si sono dispiegati nel decennio successivo allo scoppio delle rivolte e che da ultimo, nel 2019,  hanno condotto alle dimissioni il presidente dell’Algeria Abdelaziz Bouteflika, e alla destituzione di Omar Hasan Ahmad al-Bashir in Sudan, nonché l’ondata di disperate proteste iniziate negli scorsi anni da parte della popolazione irachena e di quella libanese.

Ascolta “Lo stallo ad Algeri e la resistenza del movimento Hirak: un sistema da sovvertire” su Spreaker.

In particolare, in Libano gli scontri nell’ottobre del 2019 si sono verificati contro l’élite politica da sempre contraddistinta per la sua corruzione ed emersa con evidenza con la dichiarazione da parte del governo del default finanziario nel marzo del 2019 del quale ci occuperemo più specificamente in seguito. Con riferimento a tali paesi oggi si parla più che di “primavere” di vere e proprie “rivolte arabe” o di “rivoluzioni arabe”. Le proteste in Iraq e in Libano si muovono oltretutto in modo più maturo e consapevole dimostrando capacità di resistenza popolare alle provocazioni istituzionali durante gli scontri, nonché capacità dei manifestanti di riorganizzarsi e di essere costantemente presenti nonostante le misure anti-Covid-19 imposte dal governo, e purtroppo spesso da questo strumentalizzate con un fine chiaramente repressivo volto al mantenimento del proprio status quo.

Cosa quindi possiamo dire si sia generato con quelle controreazioni del popolo rispetto agli abusi dei poteri istituzionali, cosa è andato rompendosi in modo definitivo allora, nonostante dalle macerie ancora oggi non risorga in quei paesi la fenice di uno stato democratico?  Occorre fare una riflessione preliminare: i moti di protesta detti Primavere arabe, non sono altro che un fenomeno che rappresenta solamente la punta dell’icerberg di un malessere profondo e generalizzato per anni covato negli animi della popolazione civile di diversi paesi impossibilitata a vivere in stati non rispettosi dei propri diritti e delle proprie libertà non riconosciute a causa dei regimi totalitari presenti in essi.

Prestiti in cambio di una politica liberista

I primi accenni del malcontento popolare in realtà si devono ricercare nel fallimento economico degli anni Ottanta e Novanta che ha interessato molti paesi arabi. I sistemi di questi paesi negli anni Settanta si contraddistinguevano per essere delle economie socialiste mentre nei decenni successivi sono passati a un sistema di libero mercato che non ha avvantaggiato la popolazione ma esclusivamente l’élite al potere. Negli anni Ottanta in particolare si determinò la crisi del sistema economico e iniziarono le proteste da parte del popolo che non beneficiava del medesimo benessere e che invece veniva ostentato dalla classe politica. I paesi arabi negli anni accumularono infatti ingenti debiti pubblici che li portarono a negoziare nuovamente con la Banca mondiale i fondi internazionali ricevuti, promettendo in cambio un approccio neoliberista delle proprie economie che come detto determinò una disparità sociale con un peggioramento della condizione popolare. Ciò avvenne in primo luogo in Algeria nel 1988 con il crollo dei prezzi del petrolio. Ci si rese ben presto conto tuttavia che le egemonie allora al potere in molti paesi arabi non avevano alcun interesse alla promozione di un sistema democratico che resta ancora oggi un’utopia in quest’area. La società invece era retta sempre da un sistema di forte repressione e di controllo della popolazione civile. L’errore in quel caso fu anche da parte dell’Occidente, illuso di poter negoziare con gli autoritarismi arabi, dandone per scontata la stabilità politica e la loro condizione di immobilismo, preoccupati dell’instaurazione di un sistema di privatizzazione economica da parte dei regimi islamici.

Il popolo anestetizzato e oggetto passivo della politica

Nel 2011 la natura dei poteri contestati dalla popolazione furono monarchie come Marocco, Giordania e Arabia Saudita che legittimano il loro potere nell’appartenenza a clan familiari o le repubbliche nazionaliste dittatoriali come l’Egitto che dichiaravano di assicurare una sorta di welfare generalizzato dei servizi pubblici per la popolazione, tuttavia senza mai dotarsi di un apparato per la loro erogazione. La narrazione infatti da parte delle autorità politiche delle repubbliche nazionaliste in questo caso si concentrò sulla costante minaccia di qualche potere esterno finalizzata al rafforzamento politico interno della loro condizione e anestetizzando il popolo con tale retorica per diversi anni rispetto a quanto stava realmente accadendo. Infine, il Libano invece costituiva in quegli anni un unicum rispetto al sistema statale, essendo contraddistinto da un sistema confessionale del potere al quale passò anche l’Iraq dopo il 2003.  A crollare, come detto sopra, nel 2011 furono soprattutto le egemonie nazionaliste venendo messo in discussione per la prima volta in modo propulsivo il patto sociale tra la popolazione civile e le autorità al potere. Infatti, a parte le specificità di ogni singolo paese, ciò che emerse già negli anni Ottanta e Novanta così come nei primi anni del Duemila fu la volontà del popolo arabo di affermare la propria cittadinanza attiva che si manifestò proprio in quei paesi nei quali il potere non investiva sul protagonismo e sulla volontà popolare come in Algeria o in Egitto. In questi paesi, già allora e successivamente mediante le primavere arabe, e ancora oggi, il popolo richiede il riconoscimento da parte delle istituzioni della società da esso costituita e contraddistinta e di tutte le sue articolazioni, stanco ormai di essere mero oggetto passivo della politica. A distanza di anni, proprio alla luce di valutazioni che affermano il fallimento di tali moti rispetto al processo di democratizzazione, si deve dunque riflettere se semplicemente nel 2011 non sia stata maturata la capacità di operare una precisa e corretta individuazione, da parte del popolo, della causa della mancanza di riconoscimento delle libertà civili e dei diritti politici. Infatti, come si comprende meglio dopo dieci anni, tale mancanza di riconoscimento non è tanto da rinvenirsi nelle figure autoritarie, allora al potere, come per esempio Hosni Mubarak e Abdelaziz Bouteflika, quanto piuttosto nel sistema a esse sottostante, ossia quello di regimi che come vediamo non sono mutati ma piuttosto peggiorati.

Non a caso, nonostante il colpo di stato, ancora oggi, con la salita al potere del presidente al-Sisi, l’Egitto rimane oggetto di numerose contestazioni popolari alle quali il governo risponde con l’applicazione di una forza militare altamente repressiva. Di fatti i manifestanti egiziani oggi dirigono le loro proteste non più verso lo stato civile quanto piuttosto contro il regime militare.

I malcontenti sono gli stessi…

Tornando poi al malcontento popolare, manifestato più specificamente dal 2018 al 2020 in Algeria, Iraq e Libano, vi è da sottolineare che le primavere arabe dispiegarono i loro effetti in parte, senza essere sovversive del sistema politico allora al potere, o per nulla in questi paesi, diversamente da quanto avvenne in altri, sia del Nord Africa che del Medio Oriente, come già evidenziato sopra. In Libano, in Iraq o in Algeria sono emersi comunque oggi gli stessi malcontenti di allora: in Algeria ancora una volta contro il presidente Abdelaziz Bouteflika, costretto a dimettersi il 2 aprile del 2019.

L'eredità delle Primavere arabe

Algeri, 5 aprile 2019: Rachid Nekkaz, attivista fondatore del Mouvement de Jeune et Changement (MJC), dopo la cacciata di Bouteflika (foto Soheib Mehdaoui). Si trova in isolamento in carcere dal dicembre 2019.

Migliaia di manifestanti tunisini, algerini, come in passato e iracheni e libanesi per la prima volta, sono scesi negli ultimi anni in strada accusando le forze di sicurezza e l’élite al potere di corruzione e di gravi violazioni dei diritti umani. Questo aiuta a comprendere oggi come alcuni fenomeni rimandino più all’idea che le Primavere arabe furono la manifestazione di una “malattia cronica” e non “semplicemente acuta”. I ragazzi che oggi manifestano hanno vissuto la dittatura durante la loro infanzia e vivono la condizione di una democrazia sospesa, a questo va aggiunto il ruolo delle forze del sedicente Stato Islamico che hanno portato un aggravio di situazioni sociali e politiche già logorate.

L'eredità delle Primavere arabe

Proteste a Beirut (foto alichehade).

… ma è aumentata la povertà

Si può dunque ipotizzare che le primavere del 2011 abbiano cambiato solo la facciata dei sistemi politici allora al potere, ma ne sono rimaste per decenni intatte le loro dinamiche. Inoltre, con riferimento ai recenti tumulti che hanno interessato Algeria, Iraq e Libano va detto che la pandemia diffusasi nello scorso anno non ha fatto altro che accelerare ed esacerbare tali dinamiche legate ai poteri di sempre e che portano tuttora i giovani a manifestare per l’acquisizione degli stessi diritti, ma in una condizione di povertà senza precedenti.

In conclusione, quindi si può affermare che anche se le richieste politiche economiche e sociali sono ancora disattese – nonostante le Primavere arabe e le rivoluzioni arabe verificatesi negli ultimi anni – occorre forse che trascorra ancora del tempo affinché tali istanze civili possano effettivamente determinarsi con un conseguente cambiamento del sistema politico e del ruolo della società civile. Sarà tuttavia il popolo capace di resistere ancora una volta?

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King Bibi in declino: un complesso effetto domino https://ogzero.org/la-crisi-politica-king-bibi-in-declino-un-complesso-effetto-domino/ Sat, 02 Jan 2021 14:47:34 +0000 http://ogzero.org/?p=2171 Israele si avvia alle quarte elezioni politiche in meno di 2 anni. La data prevista è il 23 marzo. La crisi della coalizione di governo era prevedibile fin dal suo nascere. I due principali partiti di governo, il Likud di Benjamin “Bibi” Netanyahu e Kahol Lavan (Blu e Bianco), l’alleanza di vari partiti guidata dall’ex […]

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Israele si avvia alle quarte elezioni politiche in meno di 2 anni. La data prevista è il 23 marzo.

La crisi della coalizione di governo era prevedibile fin dal suo nascere. I due principali partiti di governo, il Likud di Benjamin “Bibi” Netanyahu e Kahol Lavan (Blu e Bianco), l’alleanza di vari partiti guidata dall’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, otto mesi fa avevano dato vita a un’alleanza su basi molto fragili. Dopo tre elezioni in un anno che non avevano permesso di costituire un governo perché né Bibi né Benny era riuscito a prevalere sull’altro, era stata la lotta contro l’epidemia di Covid-19 a fornire il pretesto per uscire dall’impasse e formare un governo contro natura. Infatti in campagna elettorale Gantz si era impegnato a non allearsi per nessuna ragione con Netanyahu ed aveva raccolto i voti di quanti si riconoscevano nello slogan “chiunque meno Bibi”.

Un’ancora di salvezza per Netanyahu

La manovra aveva fatto uscire il paese dall’inutile serie di elezioni, che avevano comunque mantenuto al potere Netanyahu con un governo di transizione. Per il primo ministro in carica si trattava anche di un problema personale. Dovendo affrontare una serie di processi per corruzione, frode e abuso di potere, da semplice parlamentare si sarebbe trovato in una posizione di debolezza che non si poteva permettere. Inoltre, avendo il controllo sul governo, avrebbe potuto condizionare le decisioni relative alla nomina dei giudici, cosa che negli 8 mesi di coabitazione con Gantz ha effettivamente tentato di fare.

Un governo frammentato

Gantz avrebbe potuto formare un governo senza Netanyahu, ma con l’appoggio esterno della Lista Araba Unita, la terza formazione come numero di seggi in parlamento e che rappresenta la minoranza palestinese con cittadinanza israeliana. Non ha osato farlo, per timore di essere accusato di “connivenza con il nemico”.

Si è trovato però subito in una posizione di debolezza. Infatti 16 dei 33 deputati di Kahol Lavan non hanno seguito Gantz e sono passati all’opposizione. Per arrivare a 61 voti la coalizione ha dovuto includere alcuni piccoli partiti laici di centro, vari partiti religiosi e parte dei Laburisti. Il governo che ne è nato ha battuto ogni record quanto al numero di ministri e sottosegretari, ben 52 per un parlamento di 120 deputati.

Un’alternanza con le gambe corte

Naturalmente l’operazione non è stata a costo zero neppure per Netanyahu. Ha dovuto accettare di cedere a Kahol Lavan i principali ministeri: Difesa, Esteri, e, fondamentale per lui, Giustizia. Inoltre ha dovuto accettare l’alternanza nella carica di primo ministro dopo un anno e mezzo. Come detto, per lui, che è stato capo del governo ininterrottamente dal 2009, cedere il potere rischiava di metterlo in una situazione di debolezza di fronte ai giudici.

Molti in Israele avevano previsto che Bibi non avrebbe mai rispettato questa parte dell’accordo, e così è stato. Formalmente il governo di coalizione è caduto per il disaccordo tra Likud e Kahol Lavan sulla legge di bilancio, ma pochi dubitano che la vera ragione sia stata la decisione di Netanyahu di andare a elezioni in un momento che ha ritenuto favorevole.

Vittime del virus

Un’ulteriore debolezza del governo era legata proprio alla sua principale ragione di esistere: la lotta contro l’epidemia da Covid-19. Si diceva che fosse urgente avere un governo di unità nazionale per combatterlo efficacemente. Otto mesi dopo il bilancio è quanto meno deludente: il governo ha dovuto decretare il terzo blocco totale a partire da domenica 27 dicembre.

La protesta antigovernativa a Tel Aviv per la gestione della pandemia

La gestione è stata confusa e conflittuale a livello politico, con decisioni prese e smentite nel giro di qualche giorno. In un territorio grande più o meno come Piemonte e Val d’Aosta (includendo Israele, Cisgiordania e Gaza) ma con una densità di popolazione molto maggiore, i contatti tra israeliani, compresi i coloni nei territori occupati, e palestinesi sono inevitabili. E, mentre Israele ha un ottimo sistema sanitario, lo stesso non si può dire dell’Autorità Nazionale Palestinese, a causa della scarsità di mezzi per via dell’occupazione. Soprattutto, le aperture affrettate dopo i lockdown hanno portato a un rapido aumento dei casi.

I leader di governo hanno fatto a gara per attribuirsi il merito dei successi e a scaricare sui rivali le colpe dei fallimenti nella lotta all’epidemia, aumentando l’impressione di incompetenza e confusione.

Un dilettante allo sbaraglio

La principale vittima della caduta del governo è sicuramente Benny Gantz. Avendo tradito un vasto consenso esclusivamente grazie all’impegno a non allearsi mai con Netanyahu, non c’è da stupirsi se i primi sondaggi danno al suo partito solo 5 seggi sui 33 delle elezioni di marzo. Oltre al tradimento, sconta la scarsa affidabilità dimostrata da lui e dai suoi ministri, e non solo riguardo alla gestione della pandemia. Nella storia di Israele sono stati molti i generali al potere, ma nessuno ha dimostrato una simile sprovvedutezza.

e una vecchia volpe che perde il pelo

Ma anche Netanyahu è in difficoltà. Per liberarsi di Gantz ha scatenato effetti a catena che rischiano di sconvolgere il quadro politico che finora gli ha consentito di rimanere al potere. È indebolito dai guai giudiziari, dal fallimento del governo di coalizione e dalle continue manifestazioni contro di lui, violentemente represse dalla polizia. Da 26 settimane migliaia di israeliani, quasi esclusivamente ebrei, manifestano in tutto il paese. Si tratta di un movimento agguerrito quanto eterogeneo. Vi partecipano militanti di sinistra, persone che hanno perso il lavoro a causa del Covid, i delusi da Kahol Lavan, cittadini disgustati dalla corruzione e dall’attaccamento al potere di “King Bibi”. Oltre alla repressione della polizia, contro i dimostranti ci sono state anche aggressioni da parte di sostenitori di Netanyahu, dando l’impressione che il paese si trovi sull’orlo di una guerra civile.

Una grave perdita

Persino i successi di Netanyahu in politica estera gli si stanno ritorcendo contro. La normalizzazione dei rapporti con Israele sta coinvolgendo sempre più paesi arabi (con cui peraltro Israele aveva già solidi rapporti segreti), sconvolgendo le alleanze ed evidenziando la marginalità della causa palestinese. Per EAU e Bahrein si tratta soprattutto di creare un fronte contro il comune nemico, l’Iran; per altri, come il Sudan e il Marocco, del risultato dei ricatti e delle lusinghe di Trump. L’avvicinamento degli EAU ha comportato anche un accordo sulla Spianata delle Moschee che altera lo status quo e tende ad escludere l’influenza della Turchia e della Giordania sulla gestione dei luoghi santi musulmani.

Murales, West Bank di Betlemme: l’appoggio americano (non del tutto perso con il cambio della guardia) al governo israeliano

Ma proprio ora emerge il punto debole di Netanyahu in politica estera. Egli ha privilegiato i rapporti con il presidente Usa più filoisraeliano di sempre. Questa posizione ha coinciso con il grande favore che Trump riscuoteva nell’opinione pubblica israeliana, ma ignorava i timori della comunità ebraica Usa, tradizionalmente democratica e preoccupata della vicinanza ai suprematisti e dei discorsi antisemiti dell’ex presidente.

Netanyahu si trova senza il cavallo su cui aveva puntato, con la crescente ostilità dell’opinione pubblica statunitense nei confronti delle politiche israeliane e con un nuovo presidente almeno sulla carta meno acquiescente. È improbabile che altri, in particolare l’Arabia Saudita, si uniscano alla corsa per normalizzare i rapporti con Israele, tanto più che la possibile distensione tra l’Iran e l’amministrazione Biden potrebbero ridefinire il contesto regionale.

Convegno dell’Aipac: lobby americana in sostegno allo Stato di Israele

Ricomposizione della Destra

Come squali attirati dal sangue, i molti nemici di Bibi si stanno lanciando all’attacco di un leader che ritengono ormai in declino. L’8 dicembre Sa’ar, suo avversario interno, ha lasciato il Likud e ha fondato un nuovo partito, Tikva Hadasha (Nuova Speranza), a cui hanno subito aderito altri deputati del partito. La più clamorosa è quella di Zeev Elkin, che faceva parte del cerchio magico di Netanyahu. Come spesso capita agli apostati, essi stanno sparando a zero contro il loro ex leader, accusandolo delle stesse colpe dalle quali finora lo avevano difeso.

Tikva Hadasha non rappresenta un’alternativa politica al Likud. Appoggia la colonizzazione nei territori occupati, è contrario alla Soluzione a due stati e intende proporre una legge per imporre un maggiore controllo dell’esecutivo sul potere giudiziario. Rappresenta la stessa politica del Likud ma senza Bibi. Si porta in dote una parte dell’elettorato del Likud, stanco di Netanyahu, ma attira anche voti dell’estrema destra dei coloni. Il partito che li rappresenta, Yamina (La Destra), era dato in forte crescita. Il suo leader, Naftali Bennett, laureato in legge e finanziere, ha pubblicato un fortunato saggio su come combattere il virus. Forte di questa popolarità e della fama di politico onesto e competente, si è candidato a primo ministro contro Netanyahu, di cui prima dell’accordo di quest’ultimo con Gantz era alleato di governo. La comparsa di Sa’ar, che ottiene anche il gradimento di ex elettori delusi da Gantz e di quanti nel Centrosinistra lo ritengono l’unica alternativa plausibile all’odiato Netanyahu, potrebbe tarpagli le ali.

Centrosinistra residuale…

Il cosiddetto Centrosinistra rischia di subire l’ennesima sconfitta. Già Kahol Lavan era stato definito il partito dei generali. Come se non fosse servita la disastrosa esperienza di Gantz, ora pensa di candidare un altro ex capo di stato maggiore, Gadi Eisenkot. Durante la Seconda guerra del Libano fu l’ideatore della cosiddetta Dottrina Dahiya, dal nome di un quartiere sciita di Beirut. Essa prevede «una risposta sproporzionata ed enormi danni e distruzioni contro ogni zona abitata da cui vengano attaccate le forze israeliane». Non a caso Richard Falk, docente di diritto internazionale a Princeton e rapporteur dell’Onu, l’ha definita una forma di terrorismo di stato. Insomma, dopo Gantz, che durante la campagna elettorale si era vantato di aver fatto tornare parti di Gaza «all’età della pietra» durante l’operazione “Margine protettivo” del 2014, il Centrosinistra israeliano intende rincorrere la Destra sul suo stesso terreno.

Ma com’è noto, in genere gli elettori preferiscono gli originali alle copie.

…Sinistra sionista e coalizione dei partiti arabi in crisi

Quanto al Meretz, il partito storico della Sinistra sionista, ha ufficialmente accolto un nuovo candidato alla leadership: Yair Golan, un ex generale, che ha sostenuto di voler fare il possibile per silenziare quanti lo vogliono far diventare un partito arabo-israeliano. A suo favore può vantare il fatto di aver paragonato nel 2016, durante una manifestazione pubblica e in veste di vicecapo di stato maggiore, la situazione politica di Israele a quella della Germania dei primi anni Trenta.

Si prevede anche che la “Lista Araba Unita”, data la sua impossibilità di incidere sul quadro politico, perderà voti tra i molti elettori palestinesi con cittadinanza israeliana ormai disillusi. Oltretutto è indebolita da dissidi interni: recentemente la sua componente islamista ha addirittura avviato colloqui con Netanyahu per cercare di risolvere il problema della criminalità all’interno della comunità araba. Quindi probabilmente i vari partiti che la compongono si presenteranno separati.

Primarie della Destra

La tradizionale frammentazione del quadro politico israeliano è ulteriormente accentuata da uno schema che ancora una volta ruota attorno a Netanyahu. Ma una cosa è certa. Non sarà sulla soluzione del conflitto e sulle prospettive di pace con i palestinesi che verterà la campagna elettorale. Si prevede che i partiti di destra, di estrema destra e religiosi otterranno più di 80 seggi su 120. Il giornalista israeliano Gideon Levy ha scritto: «Il 23 marzo si terranno le grandi primarie della Destra, un evento che per qualche strana ragione viene ancora chiamato elezioni politiche per la Knesset».

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Lo sceicco e il sultano: amici e isolati https://ogzero.org/lo-sceicco-e-il-sultano-amici-e-isolati/ Thu, 10 Dec 2020 11:21:51 +0000 http://ogzero.org/?p=2013 Il 26 novembre, nella capitale della Turchia, i due presidenti hanno firmato un nuovo accordo commerciale composto da 10 intese importanti. Ankara e Doha, dal 2015 hanno iniziato a intensificare il loro rapporto economico e politico. Per quale motivo? Due amici vicini e isolati Turchia e Qatar sono sempre più isolati dai loro vicini e […]

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Il 26 novembre, nella capitale della Turchia, i due presidenti hanno firmato un nuovo accordo commerciale composto da 10 intese importanti. Ankara e Doha, dal 2015 hanno iniziato a intensificare il loro rapporto economico e politico. Per quale motivo?

Due amici vicini e isolati

Turchia e Qatar sono sempre più isolati dai loro vicini e alleati storici. Il conflitto dentro la Nato ormai non è una novità per Ankara. Certamente anche i suoi continui problemi con i vicini come Grecia, Siria, Cipro e Armenia oppure alleati europei fanno sì che questo paese composto da 85 milioni di abitanti sia sempre nel mirino di proteste e sanzioni.

A questa lista, per Ankara si aggiungono ovviamente alcuni vicini-lontani mediorientali come l’Arabia Saudita che ha avviato un boicottaggio capillare nel mese di novembre contro i prodotti turchi. Si tratta dello stesso partner che ha preso delle misure severe contro Doha insieme all’Egitto, Bahrein e Emirati Arabi.

Turchia e Qatar sono accusati entrambi di promuovere direttamente oppure indirettamente l’ideologia dei Fratelli Musulmani. Infatti entrambi hanno un pessimo rapporto con l’attuale presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, che arrivò al potere facendo un colpo di stato contro Mohamed Morsi, il numero uno dei Fratelli Musulmani in Egitto. I rapporti di reciproca ammirazione personale e politica erano alla luce del sole tra il presidente rovesciato (e stroncato da un infarto in tribunale) e quello che guida Ankara.

Studiando anche il caso libico vediamo che Doha e Ankara si muovono insieme per sostenere il presidente Fayez al-Sarraj, riconosciuto dalle Nazioni Unite e sospettato, a livello internazionale, di essere l’esponente libico dei Fratelli Musulmani. Nell’agosto del 2020, Turchia e Qatar hanno firmato un accordo con il governo centrale per iniziare ad addestrare l’esercito libico.

Nel fronte mediorientale vediamo che entrambi i paesi attirano l’antipatia degli stessi governi. Ryad accusa Doha di sostenere le milizie iraniane nella guerra civile in Yemen e di armare diverse organizzazioni terroristiche in Siria. Quindi applica un forte embargo contro il Qatar. Queste accuse toccano anche Ankara per via delle sue scelte economiche, militari e politiche in Siria dove affianca realtà come l’Esercito Libero Siriano oppure le brigate dell’El-Faruk. Diverse fonti sostengono che quest’ultima riceva un massiccio e diretto sostegno anche da Doha.

Ovviamente anche l’avvicinamento militare, politico ed economico tra Ankara e Tehran per via degli incontri di Astana, e il riciclaggio di denaro denunciato nei tribunali statunitensi, fan sì che i vicini mediorientali guardino con sospetto la Turchia.

Questo isolamento ha prodotto, negli ultimi anni, una notevole connessione tra queste due amministrazioni molto discutibili. Una prima si registra nel 2015 e un’altra nel 2019: Ankara ha costruito due basi militari importanti sul territorio qatariota. Secondo le dichiarazioni ufficiali dell’emiro al potere a Doha, la presenza dei militari turchi l’ha salvato nel fallito golpe del 2017. Tamim al-Thani sostiene che quest’azione contro di lui sia stata pianificata e messa in atto dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi.

Mentre diventano evidenti i punti di questo cortocircuito collaborativo, a livello politico, sarebbe il caso di studiare anche le nozze economiche tra Ankara e Doha.

Il bancomat qatariota della Turchia

Il primo passo è stato fatto nel 2015. Si tratta del primo incontro in cui entrambe le parti hanno firmato una lettera d’intenti. Successivamente, il 30 luglio del 2016, proprio 15 giorni dopo il fallito golpe, l’emiro qatariota è giunto in Turchia per una visita. Questo gesto è stato ricambiato a Doha con un secondo incontro il 24 agosto dello stesso anno. In ciascuno degli incontri le parti hanno firmato i primi accordi commerciali.

Amici isolati

Il Qatar risulta essere il terzo paese al mondo in possesso delle maggiori riserve del gas e il quattordicesimo paese per quelle petrolifere. Ovviamente gli accordi sulle fonti energetiche non rinnovabili sono prevedibili ma Doha e Ankara si sono trovate d’accordo anche su altri campi; sanità, banche, infrastrutture, ferro, acciaio, tessile, alimentari e produzione militare.

Ascolta “Gli accordi Qatar-Turchia” su Spreaker.

Nel 2010 una delle più importanti catene ospedaliere della Turchia, Memorial, è stata venduta per il 40% a un consorzio qatariota e inglese. Nel 2012, il 40% della grande catena di negozi specializzati in arredamento, English Home, è stato venduto alla Banca di Investimenti del Qatar.

Due banche private, ABank e Finansbak, in 3 diverse tranche sono state vendute alla Commercial Bank of Qatar e alla Qatar National Bank. Nel primo caso al 100% e nel secondo per il 99,81%.

La storica fabbrica statale che produce carri armati e mezzi blindati per l’esercito della Repubblica di Turchia nella città di Sakarya è stata data in concessione, per 25 anni, all’azienda turca Bmc che è controllata al 49% dal Comitato industriale delle Forze Armate del Qatar.

L’unica emittente televisiva che aveva la concessione per la trasmissione delle partite di calcio del campionato di serie A, Digiturk è stata consegnata nel 2013 nelle mani del Fondo di Assicurazione sui Depositi di Risparmio della Turchia. Tre anni dopo, nel 2016, viene venduta al gruppo televisivo qatariota, BeinSport. A causa della crisi economica e della scarsa quantità di abbonati, i conti fatti inizialmente non tornavano e BeinSport ha accumulato un buco di bilancio per compensare la quale si è impegnato il ministro dello Sport e così Ankara ha sganciato nel mese di novembre circa 32 milioni di euro.

Ascolta “Erdoğan vende i suoi gioielli al Qatar” su Spreaker.

Questa storia d’amore procede anche con la vendita dei terreni per un progetto inesistente. Si tratta del Kanal Istanbul che prevede la creazione di un canale parallelo a quello del Bosforo. Questo nuovo progetto è materia di grandi discussioni perché distruggerà una vasta area verde, inquinerà le fonti di acqua potabile, creerà nuovi intasamenti nel traffico già caotico di Istanbul e in seguito alla costruzione di nuove aree abitative farà sì che la popolazione della città sul Bosforo cresca velocemente. Inoltre secondo numerosi scienziati potrebbe creare delle conseguenze disastrose nel caso di un terremoto nella città più sismica della Turchia.

Kanal Istanbul

Dunque nelle aree dove è prevista la realizzazione di Kanal Istanbul, un’azienda turca, Triple ha comprato nel 2019, pochi mesi dopo la sua fondazione, 44 ettari di territorio. Indagando un po’ si scopre che l’azienda appartiene al 100% alla famiglia dell’emiro qatariota.

La collaborazione per gli armamenti: il triangolo Turchia-Siria-Qatar

Secondo le dichiarazioni rilasciate in aula con tanto di materiale audiovisivo dall’ex colonnello Nuri Gokhan Bozkir, questi due paesi sembra che abbiano collaborato anche nel trasporto illegale delle armi. Bozkir si trova in Ucraina come rifugiato. Dopo aver lavorato per l’esercito della Repubblica di Turchia per vari anni con la missione di spostare armi dall’Europa dell’Est in Siria si è dimesso e ha deciso di chiedere asilo in Ucraina. Nelle sue dichiarazioni rilasciate in aula e al quotidiano ucraino “Strana”, Bozkir sostiene che l’intera operazione è stata possibile grazie a 7 container di soldi mandati da Doha nel 2012 e nel 2015 in Turchia. Nella sua visita personale, nel 2019, il presidente della Repubblica di Turchia aveva chiesto al suo collega ucraino l’immediata estradizione dell’ex colonnello Bozkir.

Ascolta “Erdoğan vende i suoi gioielli al Qatar” su Spreaker.

Una vendita segreta

Nell’ultimo incontro avvenuto a Ankara, il 26 novembre, il presidente della Repubblica ha annunciato che il 10% della borsa valori di Istanbul è stato venduto all’Autorità di Investimenti del Qatar. Finora non è stata fatta nessuna dichiarazione in merito al valore incassato in questa vendita. Sarebbe un sogno assurdo sperare una trasparenza del genere dato che quel 10% venduto faceva parte del 90% delle azioni del Fondo del Benessere della Turchia. Si tratta di un organo statale fondato nel 2016 e controlla Turkish Airlines, Turk Telecom, due banche statali e Turkish Petrol. A dirigere questa realtà si trova lo stesso presidente della Repubblica e secondo la legge non avrebbe nessun obbligo di rendere pubblici i conti.

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Neom: The Red Sea Diving Resort https://ogzero.org/neom-ribolle-il-mar-rosso/ Tue, 24 Nov 2020 09:43:15 +0000 http://ogzero.org/?p=1837 Immersione nella barriera arabo-israeliana in dissoluzione Tra il virtuale e il reale, le due rive del mar Rosso sono in ebollizione. Non distante da dove, a ridosso di Port Sudan, anni fa, il Mossad aveva trasformato un fallito centro per subacquei in una base segreta per portare in Israele gli ebrei etiopici (falasha) in fuga, […]

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Immersione nella barriera arabo-israeliana in dissoluzione

Tra il virtuale e il reale, le due rive del mar Rosso sono in ebollizione. Non distante da dove, a ridosso di Port Sudan, anni fa, il Mossad aveva trasformato un fallito centro per subacquei in una base segreta per portare in Israele gli ebrei etiopici (falasha) in fuga, la marina russa sta per aprire una base navale e aggiungere la presenza dell’ex superpotenza a quella di numerosi altri contendenti per il controllo della regione. Dall’altro lato di quel lungo specchio d’acqua tra i più strategici del mondo, di fronte all’Africa più turbolenta, l’Arabia saudita ha avviato la creazione di un vasto comprensorio turistico di lusso (con un poco fortunato avvio per colpa del Covid) dove le regole più arcaiche del Corano non valgono mentre sulla stessa riva ma più a sud continua a seminare morte e devastazione nello Yemen.

Kryptonite SarsCov2 sul vertice G-20

Il 21 e il 22 novembre, su onde simili a quelli che consentono ai droni sauditi di colpire la splendida Sana’a, si sono esibiti a distanza di sicurezza imposta dalla pandemia i rappresentanti dei G20 nel loro vertice annuale presieduto per la prima volta da un paese arabo, proprio l’Arabia saudita. Con gli specialisti che ci continuano a raccontare che il mondo abbastanza presto farà a meno del petrolio e si servirà di altre risorse, meno inquinanti, per le sue molteplici esigenze di vita e che, comunque, i ricchissimi giacimenti di oro nero sotto le sabbie del grande deserto arabo stanno finendo, viene da chiedersi il significato dei giochi geopolitici e militari di quello scacchiere. Lasciamo le risposte complesse a un altro momento: è per molti più importante chiedersi oggi perché la presidenza, seppure di turno, di un sodalizio come il G20 e il vertice siano andati a finire in uno dei paesi più repressivi dei diritti umani del mondo e perché uno dei suoi massimi leader abbia potuto impunemente sfuggire all’accusa di omicidio per il brutale assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi e viene accolto da mezzo mondo come se nulla fosse accaduto nel consolato saudita in Turchia. Qui la risposta è meno complessa: dollari, euro e criptovalute, termine che fa venire alla mente la kryptonite di supereroica memoria. La ricchezza, come quel minerale, può dare potere ma anche mettere in difficoltà chi non sa come gestirla. Il Covid ha vanificato l’investimento dell’Arabia saudita e del suo reggente nel vertice: non c’è stata la foto di gruppo, non ci sono state le strette di mano o le confidenze bilaterali. E nemmeno le gite organizzate per mostrare agli illustri ospiti quella piccola parte del mondo saudita – il comprensorio di Neom – che potrebbe assomigliare al nostro mondo e distrarre l’attenzione dei presenti (delegati e stampa di passaggio) da quanto c’è di negativo in quel paese.

Neom, la ridefinizione dello spazio e metafora dei futuri rapporti mediorientali

Negli anni Ottanta dello scorso secolo quando la repressione dell’Intifada dei palestinesi aveva riportato in primo piano la loro causa, una giornalista, con cinque passaporti in tasca tra cui quelli italiani e israeliani, mi disse con convinzione, temo, che sarebbe stato meglio non criticare Israele. Farlo, sosteneva, avrebbe soltanto messo in difficoltà coloro che in quel paese volevano la pace. Oggi la questione palestinese non fa notizia se non per qualche intrusione non certo costruttiva del presidente americano. Da tempo, ormai, poche sono le critiche pubbliche da parte dei paesi che contano. Eppure i palestinesi non sono più vicini ad avere una patria indipendente. E sbaglia, oggi, chi ritiene che non criticare l’Arabia saudita e il suo relativamente giovane riformatore, l’erede al trono Mohammad bin Salman (MbS), per l’assassinio di Khashoggi o per l’aumento delle violazioni dei diritti umani negli ultimi anni, sia l’unico modo per consentire al regno di uscire dal suo medioevo islamico.

Il G-20 saudita non si boicotta, né risolve…

Per questo, Human Rights Watch e molte altre organizzazioni internazionali e anche saudite avevano sollecitato i capi di stato degli altri paesi del G-20 di ridurre il livello della loro rappresentanza al vertice. O di utilizzare l’incontro virtuale per mandare molto più di un segnale di disappunto al regime. Il sodalizio comprende l’Unione europea e 19 paesi: Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Germania, Francia, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud, Turchia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Molte realtà in comune; molte altre che li separano. Insieme, i membri del G20 rappresentano circa il 90 per cento del Pil mondiale, l’80 per cento del commercio mondiale e i due terzi della popolazione mondiale. E insieme, nel week-end di discorsi a distanza, non sono riusciti nemmeno a tirar fuori un impegno concreto – costo 28 miliardi di dollari – per garantire l’accesso al vaccino anti-Covid ai paesi poveri.

… investe in sogni di ricchezza…

Il presidente americano Trump, sempre sprezzante, ha parlato contro tutto e tutti e appena finito il solito intervento farneticante è andato a giocare a golf senza restare davanti al suo monitor per ascoltare gli altri interventi. Gli interessi economici sono il collante dei G-20 e il tema di fondo quest’anno era, giustamente, il fall-out economico del Covid. Con visioni divergenti e su come procedere di fronte a una delle crisi di crescita che vedrà i poveri diventare più poveri e molti ricchi diventare meno ricchi ci si poteva aspettare almeno una modesta donazione a favore dei più poveri se non altro per farli diventare Mercato utile alla crescita economica dei già ricchi. L’Arabia saudita punta alla modernizzazione e sta approfittando della crisi Covid. Cerca investitori e investe. Con i proventi del petrolio sta arraffando ciò che può nella speranza, secondo il piano dell’erede al trono, di arrivare al 2030 con un’economia non più sostenuta dai soli proventi del petrolio. Un progetto ambizioso che in tempi di magra piace alle economie avanzate in difficoltà. Persino le azioni dell’Eni hanno ripreso quota con la notizia che il fondo sovrano saudita ne ha acquistato un pacchetto.

… e in consumo di armi in Yemen

Abbiamo esaminato, recentemente, il peso del complesso militare-industriale americano sulla politica Usa. Purtroppo non è l’unica nazione del nostro mondo, diciamo “democratico”, a essere soggetta alle pressioni dei fabbricanti di armi. I paesi membri del G20 hanno venduto armi per più di 17 miliardi di dollari all’Arabia saudita da quando il regno è intervenuto nella guerra civile in Yemen. Una cifra di tre volte superiore agli aiuti umanitari forniti dagli stessi paesi ai trenta milioni di abitanti della più antica nazione della regione. Il disavanzo si allarga se si considera la vendita di armi e munizioni verso gli otto paesi che compongono la coalizione a guida saudita: il valore delle esportazioni sale a 31,7 miliardi di dollari.

I bombardamenti indiscriminati da parte saudita su ospedali, cliniche, pozzi e altre strutture civili sono stati condannati da molte organizzazioni internazionali e alla vigilia del vertice di Riad, l’organizzazione assistenziale Oxfam ha definito la politica dei paesi più ricchi del mondo “immorale e incoerente”.  Tra loro, sotto accusa c’è anche l’Italia. Giorni fa la Rete Italiana Pace e Disarmo, il Centro Europeo per i Diritti Costituzionali e Umani (Ecchr), e l’ong yemenita Mwatana per i Diritti Umani, hanno sottolineato in un evento online che il governo di Roma e i produttori italiani di armi potrebbero essere considerati corresponsabili dei crimini di guerra commessi nello Yemen esportando armi verso la coalizione militare guidata dall’Arabia saudita e dagli Emirati arabi uniti. Un anno fa, nel dicembre 2019, Amnesty International e numerose altre organizzazioni comprese quelle citate si rivolsero all’Ufficio del procuratore presso la Corte penale internazionale dell’Aja chiedendo un’indagine sulla responsabilità degli “attori aziendali e governativi in Italia, Germania, Francia, Spagna e Regno Unito”. La comunicazione descriveva ventisei attacchi aerei della coalizione saudita che, secondo le ricerche effettuate, potrebbero aver utilizzato bombe prodotte in Europa. L’Italia, come alcuni altri paesi europei, ha per ora bloccato le esportazioni dirette ai paesi belligeranti (anche se molti armamenti arrivano o arriveranno a loro attraverso paesi terzi). Nei primi mesi del 2020, gli attacchi aerei a guida saudita sono più che raddoppiati e le vittime civili della guerra sono aumentati vertiginosamente arrivando a oltre 20000 per gli oltre 64000 bombardamenti compiuti da quando la guerra cominciò nel 2015. Di fronte a questo quadro sempre più grave e deprimente, poche ore prima dell’inizio del vertice dei G-20, la International Rescue Committee, organizzazione non governativa con sede a Washington ha sollecitato Usa, Gran Bretagna e Francia a sospendere le loro vendite di armi alla coalizione saudita. Silenzio totale da parte dei paesi chiamati in causa.

L’abbraccio esiziale a Neom: MbS, Pompeo, Bibi

Con la scusa che l’Arabia saudita deve essere considerata una pedina importante per controllare “l’espansionismo iraniano” nella regione, l’anno scorso il presidente americano furbescamente ordinò la consegna di bombe e missili sofisticati a Riad per una cifra volutamente inferiore a quella che impone un’approvazione congressuale sulle vendite di armi. Giochi più volte ripetuti e più volte giustificati dalla Casa bianca (e sottoscritte dal parlamento) in quanto le vendite “creano lavoro” per gli americani. Nel 2017 Trump e i sauditi firmarono una lettera d’impegno per l’acquisto di armi per un valore di 110 miliardi di dollari subito e altri 350 miliardi di dollari entro dieci anni. Un accordo simile l’aveva firmato il deludente “premio Nobel per la pace” predecessore di Trump, Barack Obama.

Non sono soli i movimenti pacifisti a chiedersi cosa può fare l’Arabia saudita con tale quantità e qualità di armamenti se non garantirsi il sostegno dell’industria americana. Persino il Pentagono, nelle sue analisi, ammette che il regno dei Saud, poco popolato e con una maggioranza di sudditi poco incline a sostenere la famiglia reale, non sarebbe capace nonostante il suo arsenale crescente supersofisticato a vincere un confronto militare con un paese come l’Iraq, l’Iran o l’Egitto senza l’intervento diretto degli Stati Uniti. O di Israele. E a proposito della superpotenza mediorientale: mentre gli occhi dei rappresentanti del G20 erano più o meno concentrati sugli schermi che li collegavano, il premier israeliano, il capo del Mossad, Yossi Cohen e il bellicoso segretario di stato americano Mike Pompeo sono volati a Neom, la città del futuro – zona turistica e industriale – nel nord dell’Arabia saudita per il primo incontro ufficiale tra Netanyahu e Mohammed bin Salman. Non ci vuole molto per capire che si è trattato di un “consiglio di guerra”. Cosa fare prima dell’insediamento di Biden alla Casa Bianca per mettere i bastoni tra le ruote del neoeletto?

Quali spuntati argini “democratici” alla deriva bellica?

Il leader democratico ha più volte parlato di modificare la politica americana impostata da Trump rispetto a Mohammed bin Salman e all’Arabia saudita nel suo insieme. E ha più volte insistito sulla necessità di riprendere appena possibile il dialogo sul nucleare con l’Iran che Trump aveva interrotto nonostante le esortazioni non solo di molti consiglieri americani ma anche dei partner europei. Nei giorni scorsi il “New York Times” aveva rivelato che subito dopo il voto Trump aveva sollecitato, senza successo, i suoi generali a mettere in piedi un attacco alle istallazioni nucleari iraniane. Sarà ora Israele a colpire? Pochi a Tel Aviv pensano che una massiccia azione militare contro Teheran sia imminente. L’altro tema di fondo è la “questione palestinese”. L’avvicinamento tra Israele e Arabia saudita è un dato di fatto ma è ancora re Salman, non MbS, a decidere fino a dove arrivare e ha appena ribadito, frenando l’entusiasmo di Netanyahu, che la normalizzazione delle relazioni tra i due paesi aspetta il momento in cui sarà annunciata la creazione di uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come sua capitale.

Israele e il suo premier hanno ottenuto molto da Trump ma nel commentare il vertice trilaterale a Neom, Joshua Teitelbaum, storico ed esperto di affari sauditi e dei paesi del Golfo all’università Bar-Ilan (destra religiosa) ha ricordato al premier che anche «con i democratici Israele ha molta influenza a Washington» ma non deve troppo schierarsi con i sauditi contro le eventuali azioni di Biden, noto da sempre come sostenitore di Israele.

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Ultimi colpi di coda di un baro e dei suoi complici? https://ogzero.org/devastante-viaggio-diplomatico-in-medio-oriente-di-pompeo/ Sat, 21 Nov 2020 09:39:55 +0000 http://ogzero.org/?p=1800 Ormai sembra inevitabile che il riottoso Trump sia costretto a breve a traslocare dalla Casa Bianca, salvo colpi di scena al momento imprevedibili. Ma l’assurdo sistema statunitense riguardo al cambio di amministrazione federale consente a lui e ai suoi complici di imbastire nei mesi di interregno trame e perseguire progetti di politica estera che non […]

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Ormai sembra inevitabile che il riottoso Trump sia costretto a breve a traslocare dalla Casa Bianca, salvo colpi di scena al momento imprevedibili.

Ma l’assurdo sistema statunitense riguardo al cambio di amministrazione federale consente a lui e ai suoi complici di imbastire nei mesi di interregno trame e perseguire progetti di politica estera che non si possono certo definire nel quadro della “amministrazione ordinaria”, come sarebbe previsto dalle regole di correttezza e dalla legalità istituzionale. Lo dimostra anche lo scenario disegnato in questi giorni dal viaggio in Medio Oriente del segretario di stato Mike Pompeo.

Rottura della tradizione diplomatica Usa

Lo scenario regionale, in particolare il conflitto israelo-palestinese, è stato il contesto in cui più attiva e dirompente è stata la politica estera dell’amministrazione Trump. Interrompendo una tradizione consolidata di equidistanza, formale quanto fittizia, dei governi statunitensi tra le parti in conflitto, il presidente Usa e i suoi consiglieri si sono apertamente schierati a favore delle pretese israeliane: riconoscimento dell’annessione delle alture del Golan, spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, affermazione del diritto di esercitare la sovranità israeliana su gran parte dei territori palestinesi occupati, attacco esplicito al diritto al ritorno dei profughi palestinesi, imposizione di un piano di pace (il cosiddetto “accordo del secolo”) che recepisce quasi tutte le richieste di Israele, senza peraltro preoccuparsi neppure di consultare l’altra parte in conflitto. Non che gli Usa siano mai stati mediatori imparziali e abbiano imposto a Israele il rispetto degli accordi firmati. Persino Obama, il presidente che è stato considerato il più ostile e a cui il governo israeliano ha fatto sgarbi diplomatici e una sorda guerra di posizione, alla fine del suo mandato ha firmato la concessione di aiuti militari più generosa da sempre. Ma nessuno era mai intervenuto in un contesto così delicato ignorando leggi internazionali, risoluzioni Onu, cautela diplomatica. Non a caso Trump si è circondato di personaggi direttamente implicati nel progetto di colonizzazione israeliana della Cisgiordania, e costoro si sono comportati di conseguenza.

Pompeo: l’uomo del secondo mandato a Trump

Almeno in Medio Oriente, gli uomini di Trump si comportano come se quest’ultimo avesse vinto le elezioni. Dopo aver affermato che «ci sarà una facile transizione verso un secondo mandato di Trump», il segretario di Stato ha intrapreso un devastante viaggio “diplomatico” in Medio Oriente. Benché l’obiettivo più ambizioso di questa iniziativa riguardi un possibile attacco contro l’Iran (che pare Trump intendesse intraprendere qualche giorno fa), arrivato in Israele Pompeo ha espresso le sue convinzioni riguardo ai presunti diritti israeliani e ha inanellato una serie di esternazioni, visite di grande significato simbolico e iniziative molto concrete. Non è sembrato il viaggio di commiato di un segretario di stato che stesse per lasciare il proprio incarico, quanto motivato piuttosto dalla volontà di rilanciare su varie questioni cruciali. Di per sé le affermazioni di Pompeo, così come il disprezzo delle leggi e della diplomazia internazionale, non hanno fatto altro che confermare quanto già si sapeva. È noto che Pompeo, come il vicepresidente Mike Pence e una parte consistente dell’elettorato di Trump, aderisce a una congregazione cristiano-sionista. Ma è stato l’atteggiamento protervo e al contempo proattivo a lasciare sconcertati molti osservatori.

Lotta al BDS, legittimazione delle colonie, divisione dei territori

Le prime hanno riguardato critiche alla legge dell’UE che prevede l’etichettatura che specifichi la provenienza di prodotti importati dalle colonie israeliane, non identificabili come israeliani. Invece secondo Pompeo le esportazioni, sia dei palestinesi che dei coloni che vi vivono, provenienti dall’Area C (secondo gli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo da parte di Israele) devono essere considerate israeliane. Ovviamente non si tratta solo di una questione commerciale, quanto soprattutto del riconoscimento formale della situazione di fatto e dell’illegittima occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele. In più, con un’iniziativa tragicamente grottesca, ha anche annunciato l’intenzione di etichettare in modo differenziato i prodotti palestinesi provenienti dalla Cisgiordania rispetto a quelli di Gaza. In questo caso si tratta invece della sanzione ufficiale di un altro obiettivo della politica israeliana: la separazione tra i due territori palestinesi come mezzo per favorire l’annessione della West Bank e modificarne il rapporto demografico a favore dei palestinesi. Per esempio, Israele favorisce gli spostamenti dalla Cisgiordania verso Gaza, rendendo invece particolarmente difficile il flusso in senso opposto.

Inoltre Pompeo ha definito “antisemita” e “un cancro” il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), che lotta in modo nonviolento in difesa dei diritti dei palestinesi e del rispetto delle leggi internazionali. Ha anche promesso iniziative del governo Usa per combattere il movimento, suscitando le proteste di ong come Amnesty International e Human Rights Watch, che pure non aderiscono alla campagna ma difendono il diritto di opinione degli attivisti BDS. Poi, primo segretario di stato a farlo, si è recato sulle alture del Golan, ribadendo che si tratta di un territorio israeliano, e ha visitato l’impresa vitivinicola israeliana di Psâgot, che sorge su terreni di proprietari privati palestinesi e raccoglie le uve provenienti da altre zone palestinesi occupate ed espropriate. Lì è stato omaggiato di un vino che porta il suo cognome. In realtà il proprietario dell’azienda visitata da Pompeo non solo non avrebbe di che lamentarsi dell’obbligo di specificare la provenienza del suo vino dai territori occupati, in quanto ha dichiarato anzi che ciò gli ha permesso di aumentare le vendite. Comunque, per chi avesse qualche dubbio, Pompeo ha definito la sua visita «il semplice riconoscimento [della colonia] come parte di Israele», aggiungendo che «oggi il Dipartimento di stato degli Stati Uniti è decisamente favorevole al riconoscimento del fatto che le colonie si possono costruire in modo legale, giusto e corretto».

Insediamenti ebraici

Pompeo ha visitato da segretario di stato la colonia illegale di Psagot

Reazione disperata alla sconfitta o un passo verso il futuro?

I commentatori politici si chiedono quali possano essere le ragioni di questa iniziativa di un’amministrazione (non certo solo di Pompeo) ormai destinata a sloggiare. Oltre alle convinzioni religiose del segretario di stato, la spiegazione più banale, anche se probabilmente non del tutto ininfluente, è quella sostenuta da Douglas Macgregor, colonnello e consulente del Pentagono: «Dovete andare a vedere le persone che fanno donazioni a questi individui. [Pompeo] chiede soldi alla lobby israeliana, ai sauditi e ad altri», ha affermato in un’intervista rilasciata alla CNN. Naturalmente lo stesso discorso vale a maggior ragione per Trump, il cui principale finanziatore è stato il miliardario Sheldon Adelson, che è anche un sostenitore delle colonie e di Netanyahu.

Una pesante eredità

C’è anche una ragione più strettamente politica che può spiegare il comportamento del segretario di Stato: la sua ambizione di presentarsi come candidato repubblicano alle elezioni del 2024. La sua (ultima?) mossa potrebbe permettergli di conquistare i favori dell’elettorato filoisraeliano di Trump, a cominciare dall’Aipac, la più potente associazione della lobby filoisraeliana negli Usa.

Infine, queste iniziative lasciano un’eredità piuttosto pesante da gestire all’amministrazione entrante. Non sarà facile per Biden rinnegare quanto fatto da Trump e dai suoi consiglieri a favore di Israele, tanto più che sia lui che Kamala Harris, la vicepresidente entrante, durante la loro vita politica e la campagna elettorale hanno più volte manifestato la propria vicinanza allo Stato di Israele. Biden vanta anche un’amicizia personale con Netanyahu. Come ha scritto un commentatore del sito ebraico di notizie “Mondoweiss”: «Per poter annullare queste iniziative dell’ultimo momento, intese a legittimare ulteriormente l’annessione e delegittimare l’opposizione all’apartheid israeliana contro i palestinesi, Biden dovrà pagare costi politici molto pesanti per poterli annullare».

Come afferma Barak Obama in un brano nelle sue memorie citato dal sito “JewishInsider”: «I parlamentari e i candidati che hanno criticato la politica di Israele in modo troppo deciso hanno rischiato di essere etichettati come “anti-israeliani” (e magari anche antisemiti) e nelle elezioni successive hanno dovuto fare i conti con avversari molto ben finanziati».

Non è detto che Biden sia disposto a correre il rischio e a smantellare il quadro idilliaco dei rapporti tra Usa e Israele dipinto in questi 4 anni dall’amministrazione Trump.

 

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Non di soli contrasti tribali vive lo scontro etiope… https://ogzero.org/dispute-etniche-e-svolte-liberiste-dietro-la-guerra-in-corno-dafrica/ Wed, 18 Nov 2020 01:55:38 +0000 http://ogzero.org/?p=1775 … anzi, il sottile velo delle dispute etniche non riesce a nascondere gli interessi internazionali, il neocolonialismo che muove i protagonisti locali, la spartizione di risorse, territori, infrastrutture. I ribaltamenti dei sistemi politico-economici non possono che passare attraverso crisi apertamente belliche e quindi dal 4 novembre è scoppiata una guerra civile che può estendersi all’intera […]

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… anzi, il sottile velo delle dispute etniche non riesce a nascondere gli interessi internazionali, il neocolonialismo che muove i protagonisti locali, la spartizione di risorse, territori, infrastrutture. I ribaltamenti dei sistemi politico-economici non possono che passare attraverso crisi apertamente belliche e quindi dal 4 novembre è scoppiata una guerra civile che può estendersi all’intera area della Rift Valley.

Redde rationem trentennale nel superamento dell’etnofederalismo

Abiy Ahmed, oromo giunto rocambolescamente al potere etiope in sostituzione del “controllo” trentennale tigrino e al nobel in premio per un accordo storico con l’Eritrea, utile al primo ministro etiope per contare su naturali alleati storicamente interessati a contenere i vicini tigrini di Macallè (fin dai tempi coloniali, agevolando il compito di quelle potenze occidentali), ma indispensabile anche ad Isaias Afewerki, dittatore eritreo, per mantenere il potere concentrato nelle sue mani – ma forse la guerra può aver creato un’alleanza tra tigrini e oppositori eritrei, tanto che pare che alcuni guerriglieri siano penetrati nel territorio eritreo e dal Tigray è stato bombardato l’aeroporto di Asmara. Già due anni fa, al momento dell’accordo fortemente ricercato dai sauditi di Bin Salman, si scaricarono transfughi eritrei al confine tigrino (minato e costellato da campi profughi), folle corrispondenti a quelle che ora premono sulla frontiera che divide Etiopia e Sudan (forse 100.000).

A completare il quadro del rinnovato sciovinismo del Corno d’Africa (una scena che ha come sfondo il controllo del Mar Rosso) c’è il rischio che venga coinvolta la variegata galassia delle Somalie e il Sudan, ancora in procinto di uscire dalla transizione dopo la cacciata di al-Bashir, teatro nella provincia orientale di Cassala al confine con Eritrea ed Etiopia di scontri proprio per rivendicazioni di maggiore rappresentanza tra tribù Juba.

L’economia detta l’agenda nazional-federale

L’etnia oromo è maggioritaria nel paese ma è rimasta marginalizzata per lo strapotere del Nord, che possedendo la maggioranza delle risorse e infrastrutture del paese ed essendo al centro di vie di comunicazione, controllando l’esercito fino all’epurazione del 2018 effettuata da Abiy Ahmed, aveva potuto mantenere un sistema etnofederalista che salvaguardava non solo le componenti minoritarie, ma impediva svolte neoliberiste che invece si sono imposte nel momento in cui Abiy Ahmed ha preso il potere, cominciando a configurarsi come un regime e il timore ha preso a serpeggiare tra i cittadini etiopi.

Il premio Nobel ha ammantato l’archiviazione del sistema economico con la spinta alla riconciliazione nazionale, che vede solo la resistenza del Tigray, un’etnia con una forte percezione di sé (e della sua storia di contrapposizione al saccheggio delle proprie risorse e all’occupazione militare del proprio territorio, fin dai tempi coloniali) che individua nel cambiamento il conseguente ridimensionamento dell’autonomia regionale. Ovviamente le altre etnie, che rappresentano il 94 per cento della popolazione, mal tollerano la resistenza tigrina, perciò le milizie ahmara hanno appoggiato l’esercito di Addis Abeba intervenuto in risposta a una reazione alla provocazione dello stato centrale che ha inviato ingenti truppe in Tigray.

La percezione del momento nella società etiope

Perciò il 10 novembre 2020 durante la trasmissione “I Bastioni di Orione” sulle frequenze di Radio Blackout si è potuta sentire questa ricostruzione degli eventi fatta da un giovane emigrato etiope, evidentemente non tigrino, che sostanzialmente attribuisce alla minoranza la responsabilità della deriva violenta di queste settimane:

Ascolta “Rivolta tigrina contro il superamento dell’etno-nazionalismo di Ahmed” su Spreaker.

La testimonianza, per quanto pacata, palesa la posizione fortemente critica della maggioranza degli etiopi, probabilmente non tanto per lo strappo attuale, ma per i 30 anni di oppressione tigrina, una reazione che ha fatto parlare di rwandizzazione per descrivere la reazione antitigrina. Difficile valutare se si tratta di esagerazioni, perché Abiy Ahmed ha fatto tesoro della esperienza da ministro delle comunicazioni, quando ha imparato a gestire e controllare i flussi di informazioni telematici: infatti trapelano pochissime notizie.

Il primo tassello da cui partire per descrivere la situazione è dunque l’ancora forte determinazione della minoranza tigrina a contrastare il nazionalismo identitario di Abiy – che dapprima ha dovuto fronteggiare per lo stesso motivo le rimostranze della sua stessa etnia oromo, portato a interpretare la propensione a diluire le differenze tribali nella comune “identità” etiope come un tradimento della propria gente; in realtà la scelta è essenzialmente un cambio di orientamento del modello di sviluppo su istanza cinese, che vede nel Corno d’Africa e nel presidio dello stretto di Bab al Mandab (ovvero di Gibuti) uno snodo essenziale per la Belt Road Inititive. Per fare ciò Abiy ha bisogno di poter gestire centralmente le ingenti risorse del Tigray, di abbracciare il neoliberismo e di indicare simboli che possano rappresentare la nazione etiope, stretta attorno a lui e al suo nuovo corso: a questo scopo si presta perfettamente la Diga della Rinascita sul Nilo azzurro.

Neocolonialismo Corno d'Africa 2020

Infrastrutture, basi militari, territori contesi, vie di comunicazione nella Rift Valley

Qualche snodo storico, ma i fattori divisivi sono infiniti

La crisi del Tigray nasce dallo scontro politico con il Tpfl, che è stato a lungo il partito egemone in seno all’Ersdf: i tigrini avevano sconfitto trent’anni fa il regime comunista e deposto Menghistu (l’ultimo a lanciare un escalation militare in Tigray), gestendo il potere da allora in avanti, senza abbracciare pienamente il neoliberismo. Il Fronte tigrino si è sentito più volte preso di mira dalle riforme del nuovo premier, che intanto ha creato una propria formazione politica, il Partito della prosperità.  Nel Tigray le autorità locali hanno deciso di tenere elezioni indipendenti a settembre, quelle che erano state rinviate ad agosto con la scusa della epidemia di SarsCov2 e il Tpfl è stato riconfermato al governo regionale. Ora lo scontro è diventato militare, con il rischio che la rivalità politica si trasformi in conflitto interetnico. Mulu Nega è stato nominato da Ahmed nuovo governatore ad interim per la regione settentrionale del Tigray. Poco prima il parlamento aveva preso la risoluzione di stabilire un’amministrazione provvisoria.

Per dipanare questo groviglio ne abbiamo discusso con Angelo Ferrari all’interno della stessa trasmissione diffusa da Radio Blackout in cui avevamo proposto la ricostruzione del giovane etiope.

Ascolta “Chi sta sabotando la convivenza e l’integrazione etnica?” su Spreaker.

L’apertura liberista al capitale privato crea attriti nell’intera società; nel Tigray ancora di più; la penetrazione di militari nazionali nella regione settentrionale è quindi vista come intrusione e ha fatto esplodere gli attacchi di Macallè. Si rischia l’esatto opposto del tentativo di unificare: la frammentazione perché ciascuno non si sente rappresentato a sufficienza e la repressione di Addis Abeba può incendiare l’intera area. Intanto sono già 25.000 gli sfollati e innumerevoli i morti (si parla di 500 solo nel massacro del 10 novembre a Mai-Kadra, in Tigray).

Ancora uno scambio di opinioni tra i redattori dei “Bastioni di Orione” di Radio Blackout e l’analista di eventi africani Angelo Ferrari

Ascolta “Nazionalismo e svolta liberista di Ahmed” su Spreaker.

Traffici d’armi e colonialismo

Nel 2019 il governo giallo-verde aveva stipulato attraverso la ministra Trenta accordi militari con il presidente-nobel_per_la_pace_Ahmed: «Difesa e sicurezza, formazione e addestramento, assistenza tecnica, operazioni di supporto alla pace… trasferimento di struttura d’arma e apparecchiatura bellica… è auspicata la promozione di iniziative finalizzate a razionalizzare il controllo sui prodotti a uso militare»; lo smercio di armamenti è comune ai precedenti governi italiani, soprattutto di centrosinistra, che avevano appoggiato la parte eritrea, ora già coinvolta con esplosioni all’Asmara perché Macallè accusa il regime di Afewerki di appoggiare Ahmed, inoltre le milizie ahmara si sono schierate subito con Addis Abeba. Duecento ufficiali tigrini inquadrati nell’African Union Mission in Somalia sono stati disarmati; l’isolamento è totale, probabilmente perché tutte le forze che agiscono in quello scacchiere temono si estenda l’incendio e scommettono sul ridimensionamento del peso del Tigray sull’area.

Colonialismo novecentesco in Corno d'Africa

Etnie e date fondamentali nella corsa novecentesca al Posto al sole

Il mai realmente sopito colonialismo italiano sta cercando di tornare a essere protagonista nel Corno d’Africa, perché gli interessi energetici e di appalti per infrastrutture (la Diga della Rinascita vede allignare ditte italiane nella costruzione progetta a Pechino) fanno gola come il Posto al sole di memoria mussoliniana… e quindi soffierà sul fuoco della guerra in un’area popolata dagli apparati militari di tutte le potenze mondiali (a Gibuti sono presenti compound militari di tutte le potenze globali), che si stanno accaparrando fette di un territorio che controlla traffici, merci, risorse. Una vera operazione neocoloniale nascosta sotto la cooperazione allo sviluppo.

Ascolta “Etiopia meta del complesso militar-industriale italiano” su Spreaker.

Le nazioni sono al soldo di potenze straniere per ridisegnare la geopolitica internazionale come avvenne nel periodo coloniale classico: tutte le potenze sono intente a controllare il passaggio del Mar Rosso da Aden a Suez (infatti a Gibuti, snodo essenziale del Belt Road Initiative, sono presenti tutti i contingenti militari) e ogni mossa è un riposizionamento strategico

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Un complesso militar-industriale rinnovato e senza remore https://ogzero.org/nuovi-armamenti-e-suk-dell-usato-sicuro/ Thu, 12 Nov 2020 14:36:10 +0000 http://ogzero.org/?p=1722 A volte ritornano… le tangenti Lockheed Guerra e Pace. Pace e guerra. Distruzione e ricostruzione. Elementi fondamentali delle economie e delle contorte politiche mondiali. Appena incassati i cosiddetti “Accordi di Abramo” tra gli Emirati arabi e Israele, Donald Trump ha informato il Congresso della sua intenzione di vendere al piccolo stato arabo di fronte all’Iran […]

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A volte ritornano… le tangenti Lockheed

Guerra e Pace. Pace e guerra. Distruzione e ricostruzione. Elementi fondamentali delle economie e delle contorte politiche mondiali. Appena incassati i cosiddetti “Accordi di Abramo” tra gli Emirati arabi e Israele, Donald Trump ha informato il Congresso della sua intenzione di vendere al piccolo stato arabo di fronte all’Iran 50 caccia-bombardieri Lockheed Martin F-35-II, per una cifra che potrebbe aggirarsi attorno ai 10 miliardi di dollari (8421514000,00 euro). L’operazione ha bisogno dell’approvazione del Congresso e, indirettamente, di Israele che per bocca del suo premier Netanyahu, amico e complice del presidente uscente che farà i bagagli a fine gennaio, ha chiesto soltanto di far in modo che venisse mantenuto, come da accordi ormai consolidati dalla legislazione Usa, la superiorità militare del suo paese su tutte le altre nazioni arabe e del Vicino Oriente. E per mantenere questa superiorità serviranno nuove armi. Un funzionario della difesa israeliana ha atteso soltanto la conferma ufficiosa della sconfitta di Trump per dire al “Jerusalem Post” che non appena sarà possibile Tel Aviv vuole negoziare un nuovo pacchetto multimiliardario di assistenza militare da mettere in coda a quello stilato con Barak Obama e che scade nel 2027. Sicuramente dovrà tenere in considerazione la corsa degli arabi al F-35 e l’enorme quantità di armi acquistate dall’Arabia saudita negli ultimi anni. Sono stati che Israele considera alleati nella guerra all’Iran ma di cui si fida poco soprattutto per quanto riguarda la stabilità dei loro regimi. Stati clientelari per gli Usa che vi hanno basi militari importanti e che con i loro petro/gas-dollari continuano ad arricchire l’industria bellica americana. Spesso contro la volontà di una parte dell’establishment Usa, apparentemente incapace di contrastare la Casa bianca. Nel giugno di quest’anno l’Ispettore generale del Dipartimento di Stato (ossia il ministero degli esteri) fu licenziato su due piedi da Trump. Il presidente lo aveva scoraggiato dall’indagare sulla massiccia vendita di armi all’Arabia saudita portata avanti nonostante l’opposizione di una parte del Congresso. Il Regno era nel mirino dei parlamentari per il suo ruolo criminale nella guerra in Yemen; per l’assassinio del giornalista del “Washington Post” Jamal Khashoggi; e anche per i finanziamenti diretti o indiretti a organizzazioni islamiste collegate al terrorismo internazionale antioccidentale.

Nuovi armamenti sofisticati e suk dell’usato sicuro

È presto per capire cosa Joe Biden, sostenitore senza incertezze d’Israele, cambierà nella confusa politica Usa nei confronti di quella regione. È probabile un ritorno ai negoziati sul nucleare con l’Iran e forse ci sarà qualche passo per fermare l’idea – la “Abraham Peace” perorata da Trump e dal suo entourage di ebrei americani vicini a Netanyahu e alle sue idee estremiste – di mettere fine al conflitto arabo-israeliano, abbandonando completamente il popolo palestinese a un destino incomprensibile. Non è detto, però, che il Congresso bloccherà la vendita degli F-35 agli Emirati: non ha mai vietato una vendita già decisa al livello governativo. Di sicuro, se come probabile andrà avanti, favorirà una rinnovata corsa a nuovi più sofisticati armamenti da parte di tutti i giocatori, grandi e minuscoli, della regione. E con l’arrivo delle nuove armi, si movimenterà il solito grande suk dell’usato che come più di una volta in passato potrebbe portare armi “superate” ma più che efficienti nelle mani dei nemici degli Usa e dell’intero mondo occidentale.

Un filo di acciaio imbastisce l’industria bellica con la politica americana

Donald Trump, a differenza del suo predecessore Barak Obama, responsabile quanto meno della devastazione della Libia e, in qualche modo, anche della Siria, mantenendo le sue promesse pre-elettorali non ha avviato nuovi conflitti ma questo non significa che non abbia mantenuto quello stretto rapporto che da anni lega il mondo degli armamenti alla politica americana. E non solo americana. Oltre mezzo secolo dopo il famoso discorso-ammonimento d’addio dell’allora presidente Usa Dwight D. Eisenhower, i timori del generale passato alla politica sono diventati una realtà che influisce su tutti gli inquilini della sala ovale. E su chi aspira ad abitarci.

Dwight D. Eisenhower

Image from the broadcast of President Dwight D. Eisenhower and his farewell address to the nation on January 17, 1961, from the White House in Washington, D.C. (National Archives)

«Nei concili di governo dobbiamo guardarci dall’acquisizione di influenze che non diano garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro».

Ike didn’t like weapons?

Pochi allora vollero attribuire molta importanza a quelle parole di Eisenhower – il generale che aveva portato alla vittoria l’alleanza contro il nazifascismo – pronunciate il 17 gennaio 1961 nel momento in cui stava lasciando la Casa bianca. Era stato eletto nelle liste del Partito repubblicano, lo stesso di Donald Trump e di altri outsider alla politica come l’attore Ronald Reagan, di ben altro spessore grazie a una squadra di consiglieri più capaci. Ike, così era chiamato da tutti, era l’uomo più popolare degli Stati Uniti. Sei anni prima, il 17 giugno 1945, mia madre volle portarmi – avevo sei anni – dalla nostra casa nel Bronx fino a Manhattan per essere con i quattro milioni di americani che accolsero al suo ritorno negli Usa l’eroe della guerra. Indossavo orgoglioso una giacca “modello Ike” – di moda perché era stato adottato dal generale e da molte truppe – che la mamma aveva tagliato e cucito con le sue mani.

Per Eisenhower, furono sufficienti i due mandati, otto anni, alla Casa Bianca, per comprendere i rischi insiti in un’industria bellica capace di influenzare la politica di una grande potenza come erano diventati gli Stati Uniti. Voleva un’America in grado di difendersi dagli orrori che aveva visto con i suoi occhi in un’Europa devastata dalla ferocia delle menti e delle armi ma nutriva molto più di un sospetto sul mostro che era cresciuto in casa per combattere quei mali.

«Un elemento vitale nel mantenimento della pace sono le nostre istituzioni militari. Le nostre armi devono essere poderose, pronte all’azione istantanea, in modo che nessun aggressore potenziale possa essere tentato dal rischiare la propria distruzione…

Questa congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari e un’enorme industria di armamenti è nuovo nell’esperienza americana. L’influenza totale nell’economia, nella politica, anche nella spiritualità è sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del governo federale. Riconosciamo il bisogno imperativo di questo sviluppo. Ma tuttavia non dobbiamo mancare di comprenderne le gravi implicazioni. La nostra filosofia ed etica, le nostre risorse e il nostro stile di vita sono coinvolti; la struttura portante della nostra società.

Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito. Soltanto un popolo di cittadini allerta e consapevole può esercitare un adeguato compromesso tra l’enorme macchina industriale e militare di difesa e i nostri metodi pacifici e obiettivi a lungo termine in modo che sia la sicurezza che la libertà possano prosperare assieme».

Corruzione e finanziamenti nel traffico di armi

I rischi insiti nella politica degli armamenti Usa sono stati documentati e denunciati nel 2018 da uno studio approfondito di due ricercatori – A. Trevor Thrall e Caroline Dorminey – del Cato Institute: Risky Business: The Role of Arms Sales in U.S. Foreign Policy. Tra i pericoli illustrati e ampiamente documentati, le situazioni di guerra in cui le armi americane vendute a “paesi amici” finiscono nelle mani di nemici degli Usa e vengono usate contro le truppe americane. Il caso recente più clamoroso riguarda l’Iraq dove interi arsenali hanno armato gruppi di islamisti in lotta contro le forze occidentali in quel paese.

Tangenti Lockheed Martin nei decenni

Corruzione e finanziamenti sono all’ordine del giorno nel mondo degli armamenti. Per restare nella regione che ci interessa, Netanyahu e alcune personalità israeliane del mondo militare e civile sono sotto inchiesta per tangenti che sarebbero state pagate per un affare miliardario di sommergibili tedeschi. Qualcuno si chiederà se l’affare degli F-35 e le massicce vendite di armi all’Arabia saudita in questi ultimi anni sono servite a rafforzare economicamente le campagne elettorali del presidente uscente o di altri politici impegnati nelle lunghe costose campagne per presidenza, congresso e senato. Ipotesi basate su fatti avvenuti in passato. Gli stessi costruttori degli F-35 furono incriminati negli anni Settanta quando il Congresso americano accertò che la corruzione era un sistema diffuso da parte della Lockheed Corporation e della più piccola Northrop. Nel 1976 il “New York Magazine” scrisse che il senatore Church, capo della commissione d’inchiesta, «ha prove che la Lockheed ha pagato tangenti in almeno quindici paesi, e che in almeno sei paesi ha provocato gravi crisi di governo». L’Italia fu una di questi. Mario Tanassi, ministro della difesa, fu silurato per aver intascato una tangente di 50000 dollari su circa 2 milioni di dollari, destinati dalla Lockheed alla corruzione in Italia. Furono condannati anche il generale dell’aeronautica Duilio Fanali, il segretario di Tanassi Bruno Palmiotti, i faccendieri Ovidio Lefebvre e Antonio Lefebvre, e il presidente di Finmeccanica Camillo Crociani.

Nuovi armamenti e suk dell’usato sicuro

Torniamo in Vicino Oriente e dintorni. Non soltanto perché è il più grande mercato di armi di ogni tipo ma perché è il perfetto testing-ground, il terreno su cui le armi nuove possono essere sperimentate prima di finire sulla linea di produzione e poi sul mercato. Usa, Russia, Francia e Israele sono qui in prima linea. In tutti i sensi. Secondo una delle più recenti ricerche del Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), nella regione in guerra – dalla Siria, allo Yemen, dall’Iraq alla Palestina e poi al più distante Sud Sudan – le commesse sono aumentate del 61 per cento dal 2015 al 2019. Gli Usa sono in cima alla lista dei venditori lì e nel mondo: hanno ben 96 paesi-clienti. La Russia, ex superpotenza, ha perso una fetta importante del mercato dopo che l’India con un leader nazionalista di destra ha stretto rapporti con Israele dove ha trovato non soltanto una politica simile ma anche una delle più grandi, moderne e immorali delle industrie belliche pronte a vendere senza fare troppe domande. Nel maggio 2019 Amnesty International ha sottolineato che le armi israeliane vengono vendute a nazioni notoriamente colpevoli di violazioni dei diritti umani delle proprie popolazioni come Myanmar, Filippine, Sud Sudan e Sri Lanka. Negli ultimi mesi, bombe a grappolo israeliane, vietate dalle convenzioni internazionali, hanno seminato morte e feriti nella regione del Nagorno-Karabakh contesa tra Azerbaijan e Armenia. Grazie a testimonianze raccolte da giornalisti e analisi delle immagini dei bombardamenti nella capitale dell’autoproclamata repubblica dell‘Artsakh, Stepanakert, gli esperti di Amnesty hanno potuto confermare l’uso di bombe a grappolo di tipo M095 Dpicm, di fabbricazione israeliana. «Vecchi stock», hanno risposto da Tel Aviv per difendersi dalle critiche in uno scacchiere in cui le sue alleanze sono confuse. La guerra è guerra: la logica del potente apparato militare-industriale israeliano è strettamente controllato e gestito ai massimi livelli del governo.

Ma, ancora più importante della disponibilità a non fare domande o giudicare chi deve comprare, Israele offre (anche rispondendo a richieste specifiche quando possibile) di provare le armi nei conflitti dietro casa, da Gaza al Libano, alla Siria. Ci sono segnalazioni di richieste precise da parte di paesi acquirenti (gli Usa tra questi) perché certe armi sofisticate (come i droni e i loro armamenti ormai entrati in prima linea nelle moderne guerre) vengano usate in combattimento e approvate prima di finire sul mercato. La distruzione senza senso di abitazioni e altri edifici nella striscia di Gaza è spesso servita a questo scopo. E c’è chi – in Israele e fuori – vorrebbe assistere ad almeno uno scontro limitato con il meglio armato Hezbollah in Libano per mettere alla prova nuove generazioni di ordigni contro i bunker in profondità.

Nel 2017 le esportazioni di armi israeliane hanno raggiunto la cifra record di 9 miliardi di dollari. Questo non include il reddito delle società paramilitari che operano nel settore dell’informatica e della sicurezza. Un settore accusato di aver collaborato con regimi noti per i loro bassi voti nel rispetto dei diritti dei loro cittadini. E di spiare anche paesi amici.

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Trump o Biden? Per i palestinesi pari sono https://ogzero.org/trump-o-biden-per-i-palestinesi-pari-sono/ Fri, 06 Nov 2020 18:21:05 +0000 http://ogzero.org/?p=1674 Mentre il mondo è in trepida attesa che il bizzarro sistema elettorale statunitense consenta di sapere chi sarà l’uomo più potente del pianeta nei prossimi quattro anni, c’è chi sa già di non potersi aspettare niente di buono, comunque vada: i palestinesi. Non che non ci siano novità rilevanti. Per esempio, queste elezioni segnano il […]

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Mentre il mondo è in trepida attesa che il bizzarro sistema elettorale statunitense consenta di sapere chi sarà l’uomo più potente del pianeta nei prossimi quattro anni, c’è chi sa già di non potersi aspettare niente di buono, comunque vada: i palestinesi.

Non che non ci siano novità rilevanti. Per esempio, queste elezioni segnano il divorzio forse definitivo tra gli ebrei israeliani e quelli americani. Mentre nei sondaggi più del 63 per cento dei primi si augura la vittoria di Trump, Biden ha ottenuto l’appoggio di oltre il 70 per cento dei secondi. Solo tra gli ebrei ortodossi (circa il 10 per cento della comunità ebraica nordamericana) c’è una netta maggioranza a favore di Trump. Questa differenza di posizioni si era già manifestata in precedenza, per esempio nel caso di Obama, esecrato in Israele ed entusiasticamente votato dagli ebrei statunitensi. Tuttavia questa volta la polarizzazione esasperata indotta da Trump e le politiche sempre più razziste e annessioniste di Netanyahu sostenute dal presidente suprematista sembrano aver scavato un solco difficile da rimarginare, come sostiene Sylvain Cypel nel suo L’État d’Israël contre les juifs (Paris, La Découverte, 2020, pp. 237-262).

Trump: antisemita e filoisraeliano

È vero che l’elettorato ebraico è sempre stato più propenso a votare democratico, ma in questo caso evidentemente chi vive negli Stati Uniti è particolarmente preoccupato per le cattive frequentazioni, il razzismo più o meno esplicito e le tendenze autocratiche dell’inquilino della Casa Bianca. Durante incontri con organizzazioni ebraiche l’attuale presidente ha più volte accusato gli ebrei americani di essere sleali nei suoi confronti, dato tutto quello che ha fatto per Israele, e affermato che Israele «è il vostro paese» e che «Netanyahu è il vostro primo ministro». Si tratta di affermazioni che molti considerano antisemite. Infatti implicano che in realtà gli ebrei non sono a tutti gli effetti cittadini statunitensi, che il loro posto, il loro paese, è altrove. Ed è nota la vicinanza di Trump a gruppi suprematisti bianchi, il cui antisemitismo si è manifestato anche in episodi sanguinosi, come nel caso dell’attacco terroristico dell’ottobre 2018 contro una sinagoga conservatrice (che, a dispetto del nome, è una corrente religiosa ebraica non dogmatica) a Pittsburgh, costato la vita a 11 persone. La partecipazione di Trump alle esequie venne accompagnata da manifestazioni ostili, anche da parte della comunità ebraica locale, con slogan come le parole hanno un significato e costruiamo ponti e non muri, in riferimento all’ambiguità del presidente rispetto alle violenze dell’estrema destra e alle sue politiche contro l’immigrazione.

Trump ha fatto di tutto per ingraziarsi Israele e i suoi sostenitori. Da subito si è circondato di finanziatori di colonie, come il genero e consigliere per il Medio Oriente Jared Kushner e l’ambasciatore in Israele David Friedman, in precedenza suo avvocato. Ha nominato Mike Pompeo, un cristiano-sionista, segretario di stato. Uno dei suoi principali finanziatori è il miliardario Sheldon Adelson, altro benefattore delle colonie. Non si può dire che Trump abbia deluso la destra israeliana.

Accolti e ispirati tutti i più reconditi sogni sionisti

Nei quattro anni al potere, ignorando totalmente il diritto internazionale e l’Onu, ha riconosciuto la sovranità israeliana sulle Alture del Golan occupate, ha spostato l’ambasciata degli Usa a Gerusalemme, ha tagliato gli aiuti all’Autorità nazionale palestinese e all’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati infine ha affermato, come Israele, che non vanno più considerati tali. Ha proposto il cosiddetto “accordo del secolo”, che ignora praticamente ogni rivendicazione dei palestinesi. Esso prevede per loro uno stato frammentato, su modello dei bantustan sudafricani, ossia la formalizzazione dell’attuale situazione sul terreno, e quindi della colonizzazione israeliana dei territori palestinesi occupati. Ha spinto Emirati arabi uniti, Bahrein e Sudan a firmare accordi “di Abramo” per normalizzare le relazioni con Israele, rompendo il fronte solidale con i palestinesi. Negli ultimi giorni della campagna elettorale la sua amministrazione ha preso due iniziative clamorose.  Prima il segretario di Stato Mike Pompeo ha proposto di inserire nella lista delle organizzazioni antisemite alcune importanti ong per i diritti umani critiche con Israele, tra cui Amnesty International, Human Rights Watch e Oxfam. Poi l’amministrazione americana ha firmato un accordo che annulla il veto ai finanziamenti provenienti da Washington alle istituzioni scientifiche che si trovano nelle colonie, in particolare all’università di Ariel, già lautamente foraggiata da Adelson. Trattandosi di un accordo internazionale, la prossima amministrazione statunitense non potrà annullarlo unilateralmente. Oltre agli ovvi vantaggi economici, si tratta di un riconoscimento di fatto delle colonie israeliane, illegali in base al diritto internazionale.

Sette evangeliche, coloni e millenarismo cristiano-sionista

La predilezione di Trump per Israele non deriva solo dalla vicinanza con le posizioni nazionaliste e razziste che dominano ormai da anni il paese. Una parte consistente, e determinante per numero e attivismo, dell’elettorato dell’attuale presidente è rappresentato dalle sette evangeliche cristiano-sioniste. Non a caso due pastori di queste congregazioni hanno partecipato all’inaugurazione dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme. Si tratta di decine di milioni di fedeli, con posizioni molto conservatrici. Nell’ultimo numero de “L’Espresso” un articolo su di loro li descrive come tradizionalisti e antiabortisti, ma tace sulla loro allucinata visione escatologica che li porta a sostenere ciecamente Israele: il ritorno di tutto il popolo ebraico nella Terra promessagli da dio porterà alla fine del mondo e al giudizio universale. A quel punto gli ebrei che non si convertiranno alla vera fede verranno condannati alle pene dell’inferno. Il sionismo cristiano, risalente al cristianesimo apocalittico medievale, ha preceduto anche in epoca contemporanea il sionismo ebraico. Questa teologia millenarista corrisponde significativamente (tranne che per l’esito finale) con quella dei coloni israeliani più estremisti, come per esempio i nazional-religiosi di cui fa un quadro Renzo Guolo in Terra e redenzione. Il fondamentalismo nazional-religioso in Israele (Milano, Guerini e associati, 2005). Per loro la riconquista di tutta la terra dei padri (che, a seconda delle interpretazioni, può includere buona parte del Medio Oriente, e sicuramente tutta la Giordania) porterà alla comparsa del messia e alla liberazione dell’umanità. Sia per i nazional-religiosi che per i cristiano-sionisti un passo fondamentale è rappresentato dalla ricostruzione del Terzo Tempio sul luogo dove ora si trova la Spianata delle Moschee. Di questa teologia apocalittica, estremamente radicale e pericolosa, non si parla praticamente mai nelle cronache dal Medio Oriente, oppure viene considerata alla stregua di un’innocua bizzarria. Eppure vari deputati della Knesset e ministri dei governi Netanyahu fanno parte di questo movimento strettamente legato ai coloni più estremisti. Il rapporto tra le due correnti religiose è talmente stretto e il favore di cui godono i cristiano-sionisti presso il governo israeliano è tale che, nonostante il blocco determinato dalla seconda ondata del Covid-19, a una sessantina di cristiano sionisti è stato consentito di entrare in Israele per aiutare i coloni israeliani nella vendemmia.

Differenze apparenti, prassi consolidate

Ma la propensione a votare Biden da parte della comunità ebraica americana non significa di per sé un allontanamento da Israele, anche se la spudorata identificazione di Netanyahu con Trump ha alienato almeno in parte le simpatie nei confronti dell’attuale governo israeliano. Nonostante le note differenze tra i due candidati alla Casa Bianca, sulla questione del conflitto israelo-palestinese c’è un sostanziale accordo. Le differenze sono più di metodo che di merito. C’è da supporre che, se eletto, Biden sarà un presidente più felpato e non si muoverà con la delicatezza di un elefante in una cristalleria come il suo predecessore. Il candidato democratico è stato il vicepresidente di Obama, che ha più volte manifestato insofferenza, anche a livello personale, nei confronti delle intemperanze e della sfrontatezza di Netanyahu. L’accordo sul nucleare iraniano e il tentativo fallito di congelare la colonizzazione della Cisgiordania hanno messo i due politici in palese conflitto. Ma a fine mandato lo stesso Obama ha firmato un accordo per la concessione di aiuti militari a Israele: 10 miliardi di dollari in 10 anni, una cifra senza precedenti nella storia della politica estera statunitense.

Biden e Harris; un amore condizionato per Israele

La campagna per le primarie democratiche e poi per le presidenziali ha dimostrato la condiscendenza di Biden nei confronti di Israele. Su pressione della lobby israeliana, dal programma elettorale del partito democratico è stata tolta la definizione di Israele come “potenza occupante”. Inoltre il candidato democratico ha dichiarato che manterrà l’ambasciata americana a Gerusalemme occupata e appoggerà l’accordo di Abramo promosso da Trump tra Israele e alcuni paesi arabi. Pur affermando di essere a favore della soluzione a due stati (ormai di fatto impraticabile), ha dichiarato che si opporrà in tutti i modi a ogni risoluzione dell’Onu che condanni le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele. Quanto alla sostanza di quanto avviene sul terreno, se sarà eletto riprenderà l’estenuante manfrina dei “negoziati di pace”, che non sono altro che la foglia di fico diplomatica che ha finora consentito a Israele di continuare con la colonizzazione e l’occupazione. Inoltre pare che abbia un ottimo rapporto personale con Netanyahu. Infine Tony Blinken, consigliere di Biden, ha garantito l’impegno del futuro presidente per contrastare il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (Bds) contro Israele.

Per parte sua, Kamala Harris, candidata alla vice-presidenza, è ancora più filoisraeliana di Biden. Ha affermato che gli aiuti militari a Israele non saranno subordinati alle decisioni politiche del suo governo, garantendo implicitamente che non ci saranno reazioni significative nel caso in cui Israele annetta parte dei territori occupati. Harris ha partecipato a vari incontri con le organizzazioni della lobby filoisraeliana. Suo marito, l’avvocato ebreo Douglas Emhoff, durante un comizio in Florida ha affermato che per la moglie «Israele non è un gioco politico. Il suo futuro come stato ebreo e democratico sicuro non è negoziabile. Ve lo posso assicurare».

C’è infine da aggiungere che, oltre alle rispettive convinzioni personali, Biden e Harris devono adeguare la propria posizione agli interessi dei principali finanziatori della loro campagna elettorale, tra cui ci sono alcuni potenti gruppi e personaggi che appoggiano attivamente Israele.

Comunque Israele non sta perdendo tempo. La coordinatrice umanitaria dell’Onu per i territori palestinesi occupati ha denunciato che martedì scorso, proprio durante il voto Usa, forze israeliane hanno distrutto il villaggio palestinese Khirbet Humsa, lasciando senza casa 73 persone, tra cui 41 minori, nel pieno dell’autunno e con l’incombere dell’epidemia di Covid-19.

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Il vecchio sogno sionista lambisce il Sudan https://ogzero.org/il-vecchio-sogno-sionista-lambisce-il-sudan/ Wed, 28 Oct 2020 16:23:30 +0000 http://ogzero.org/?p=1628 Geopolitica. Termine attorno al quale prolificano think-tank di ogni colore con il compito di spiegare i disastri del nostro mondo: quello di ieri, di oggi e purtroppo del futuro. C’è un altro detto o termine più profondo e analitico, quasi banale, che ci può aiutare a comprendere da dove cominciare quasi ogni analisi. Qualcuno, senza […]

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Geopolitica. Termine attorno al quale prolificano think-tank di ogni colore con il compito di spiegare i disastri del nostro mondo: quello di ieri, di oggi e purtroppo del futuro. C’è un altro detto o termine più profondo e analitico, quasi banale, che ci può aiutare a comprendere da dove cominciare quasi ogni analisi. Qualcuno, senza prove o indizi validi, sostiene che ha origini arabe; altri si rifanno a un trattato di strategia militare di uno scrittore indiano. La verità, probabilmente, coinvolge, come troppi dei disastri del nostro mondo, la Bibbia e i suoi derivati. Nel suo secondo libro (Esodo 23.22), riferendosi a Dio è scritto: «Se tu ascolti la sua voce e fai quanto ti dirò, io sarò il nemico dei tuoi nemici e l’avversario dei tuoi avversari». In italiano, senza troppi fronzoli: «Il nemico del mio nemico è amico mio». Fu, nel 1971, monsignor Ubaldo Calabrese, nunzio apostolico con sede a Kartum a spiegarmi, con un sorriso e le cautele appropriate per un rappresentante ufficiale della Santa Sede, i giochi complessi della guerra civile che da quindici anni tormentava il Sudan meridionale.

La lunga mano del Vaticano

Non mi fece il nome di “Tarzan” (non mi riferisco a quello dei film con Jane e la scimmietta al seguito, ossia il personaggio di Edgar Rice Burroughs) ma tra una forchettata di rigatoni preparati con amore dalle suore che gestivano la nunziatura nella capitale sudanese e un bicchiere di vino, non ebbe difficoltà ad attribuire a Israele e ai suoi servizi segreti esteri – il Mossad – l’addestramento degli anya-anya che lottavano contro gli arabi musulmani del nord. Non andò oltre il sorriso quando gli chiesi se fosse vero, come raccontavano molte fonti (compresi gli stessi israeliani) che a finanziare la rivolta c’era anche la Caritas, lunga mano del Vaticano non sempre controllata dal Papa. Da anni la Chiesa cattolica, attraverso i colti missionari comboniani e altri gruppi religiosi, operava in tutto il paese, ma soprattutto tra i neri delle regioni meridionali quasi tutti animisti, per avvicinarli al Dio di Roma e difenderli contro i musulmani che controllavano le regioni settentrionali di quello che era, allora, lo stato più esteso – e, aggiungo io, più affascinante – del continente africano.

Tel Aviv e Kartum vanno a braccetto: il ricatto americano

Prima di cercare di spiegare i grandi giochi che stanno portando a un accordo di pace (o qualcosa di simile) tra il governo di Kartum e quello di Tel Aviv attraverso la mediazione-ricatto americano, facciamo un passo indietro al 1971 e l’ultimo capoverso di quanto scrissi in un lungo reportage da Juba (o Giuba), capoluogo della regione di Equatoria, per “Il Messaggero”.

«Uno degli elementi che rendono difficile, oggi, una soluzione del problema meridionale è il contesto che esso ha assunto nel quadro della situazione del Medio Oriente e nei rapporti tra le grandi potenze. Nimieiri [allora leader sudanese, N.d.R.] ha firmato accordi con il Ciad e con l’Etiopia cercando così di limitare l’attività dei consiglieri israeliani che operavano da basi in questi paesi. Come contropartita ha dovuto sospendere il suo appoggio al Frolinat, il Fronte di liberazione del Ciad, e al Fle, il fronte di liberazione dell’Eritrea. Dall’altra parte la presenza russa in Sudan e la posizione di questo paese nello schieramento arabo sono tra i fattori che giustificano gli sforzi di Tel Aviv di appoggiare i disordini nelle province meridionali. Potrebbe influire su questa linea di condotta l’eventuale composizione della vertenza meridionale e la svolta a Occidente del governo di Kartum concretizzata nell’ultimo mese con l’arresto di decine di membri del comitato centrale del Partito comunista e con l’invito fatto ad alcuni grandi complessi economici europei di interessarsi direttamente allo sviluppo del paese attraverso grossi investimenti nei settori agricolo e industriale».

Perché da 15 anni il Sudan è lacerato da un conflitto interno che oppone il Nord al Sud

Molta acqua è passata sotto i ponti del Nilo da allora – mezzo secolo di violenza, antagonismo, morte – e dall’altro giorno la Repubblica del Sudan, ormai diviso legalmente dal Sudan del Sud, sembra avviata a un accordo di pace e amicizia con Israele. Si combatte, ancora, in molte regioni delle due nazioni e le incertezze riguardo il futuro dei due stati africani non mancano. Per tentare di comprendere la situazione attuale e la sua, diciamo, politica estera è utile tornare alle origini del Sudan, paese indipendente dal 1956 quando le potenze coloniali – Regno Unito ed Egitto – si ritirarono ufficialmente. Già allora uomini d’affari israeliani e il Mossad si avvicinarono al nuovo governo di Kartum con offerte di aiuti economici e altro con lo scopo evidente di mettere i bastoni tra le ruote delle alleanze panarabe contro Israele.

Gli sforzi di Tel Aviv non furono capaci di vincere sul richiamo del carismatico leader egiziano Nasser e dopo uno dei tanti golpe militari il Sudan si schierò con il resto del blocco nazionalista arabo fino a inviare un minuscolo contingente militare a combattere a fianco dei soldati del Cairo nella Guerra dei sei giorni del 1967. Erano gli anni in cui gli schieramenti locali rispecchiavano lo scontro Usa/Urss e le forze armate sudanesi erano equipaggiate e addestrate da Mosca. Incontrai i loro consiglieri militari nel Sudan meridionale; il ministro della Difesa del Cremlino a Kartum intanto osservava fiero i carristi sudanesi che sfilavano per la festa della rivoluzione. Facevano poco per nascondersi. Tanto chi doveva sapere, sapeva tutto.

Tarzan del Mossad

Fu allora che, con il beneplacito di Washington, entrò in scena “Tarzan”, o meglio David Ben Uziel, con un gruppo scelto di agenti. Il loro compito: aiutare le tribù del Sud Sudan nella loro lotta storica contro il governo centrale di Kartum. Da basi in Kenia e Uganda piloti israeliani paracadutarono armi e munizioni ai ribelli mentre “Tarzan” e i suoi specialisti addestravano i ribelli e li guidavano nei loro attacchi contro le istallazioni militari delle truppe arabe musulmane.

Molte furono le imboscate ed efficace dal punto di vista della guerriglia la distruzione dei pochi ponti sul Nilo bianco. La guerra civile finì entro la metà degli anni Settanta ma il Mossad, come in molti paesi africani, aveva consolidato le sue posizioni in tutto il Sudan. Amicizie e ricatti consentirono agli israeliani di utilizzare conoscenze e basi segrete per far uscire dall’Etiopia gli ebrei neri – i cosiddetti “falascià” – di quel paese. Successivamente, quando il governo di Kartum si era troppo avvicinato all’Iran degli ayatollah, gli agenti segreti di Tel Aviv ormai di casa in Sudan, guidarono i loro cacciabombardieri che colpivano depositi e fabbriche di armi allestiti da o per conto di Teheran. Tutto questo mentre il Sud Sudan, divenuto indipendente, si rivolse a Israele per armarsi e in funzione di un’altra guerra civile tra gruppi tribali rivali in una competizione per il controllo delle risorse petrolifere locali.

Con la deposizione nell’aprile 2019, dopo trent’anni al potere, del generale Omar Hasan Ahmad al-Bashir, le cose cominciarono a cambiare anche nel Sudan (del Nord) non più considerato uno stato canaglia retto da un dittatore colpito da un mandato di cattura dalla Corte internazionale di Giustizia per crimini contro l’umanità. Stati Uniti e Israele avviarono contatti immediati con il nuovo regime, fragile e ancora senza legittimità costituzionale. Da anni, ormai, il nemico principale di Israele e di molti nemici d’Israele era diventato l’Iran. Le divisioni del mondo islamico erano venute al pettine e stavano trascinando soprattutto il Vicino Oriente verso lo scontro armato tra sunniti e sciiti. E così, l’elegante – non meno di James Bond – capo del Mossad, Yossi Cohen, uno 007 con licenza non solo di uccidere ma di fare politica internazionale, va tessendo per volere del premier Netanyahu, le nuove alleanze quanto meno tattiche di Tel Aviv.

Dopo i baci e abbracci tra gli israeliani e i leader degli Emirati e il Bahrein, ministati in cui le famiglie regnanti sono sunnite e la maggioranza delle popolazioni sciita, ora, spronato o meglio ricattato dal presidente americano Trump, anche il governo provvisorio del Sudan si è detto interessato ad avvicinarsi a Israele. Come ha fatto capire anche l’Oman e, con frasi costruite per cercare di non dimenticare la causa palestinese, anche alcuni dei leader dell’Arabia saudita, paese che da anni ha stretti rapporti di collaborazione con le autorità militari israeliane e con il Mossad. Sapremo di più nei prossimi giorni. Ma ci vorrà molto di più per comprendere in quale direzione andranno le cose nel vasto turbolento scacchiere mediorientale dove dominano due elementi: la questione sciita-sunnita da una parte e la consapevolezza che il petrolio, arma economica dei regni totalitari arabi del deserto, sta finendo.

Ascolta “Israele compra a saldo paesi arabi” su Spreaker.

Sarebbe sufficiente la fine del regime degli eredi di Khomeini per sbaragliare il quadro generale. E favorire il ritorno alla vecchia alleanza preferita da Israele: un rapporto privilegiato con l’Iran, paese a maggioranza musulmana che non ha mai partecipato alle guerre arabe contro Tel Aviv. E che negli anni in cui regnava lo Scià, aveva stabilito una forte amicizia anche con il Sudafrica dell’apartheid. Il Mossad, già allora arma letale del giovane stato sionista, addestrava i torturatori iraniani del Savak e quelli non meno feroci dei servizi segreti di Pretoria. Oggi, come sappiamo, il fronte è cambiato nel rispetto dell’equazione “il nemico del mio nemico è amico mio”: Israele e i paesi arabi sunniti contro l’Iran sciita. La loro parola d’ordine: impedire al regime degli ayatollah di ottenere un’arma nucleare. Paradossalmente, poco prima della rivoluzione che portò alla destituzione dello Scià, Israele, per ordine di uno dei suoi più noti leader storici, Shimon Peres padre della tecnologia bellica nucleare israeliana, stava per consegnare all’Iran gli strumenti per la costruzione di uno stabilimento atomico. Furono gli stessi anni in cui Tel Aviv sperimentò nelle acque a sud delle coste del Sudafrica razzista la sua prima bomba, molte volte più potente di quelle lanciate su Hiroshima e Nagasaki. Oggi Israele ha un arsenale stimato in più di cento testate nucleari montate su razzi terra-terra, caricate su bombe pronte a decollare nel giro di pochi minuti e a bordo dei sommergibili di costruzione tedesca che navigano nelle acque del Mediterraneo e dell’Oceano Indiano.

Chiara Cruciati è stata intervistata il 29 ottobre 2020 su Radio BlackOut . Trovate il podcast di approfondimento sugli Abraham Accords nello spreaker inserito in questo punctum.

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Considerazioni sul Libano che vanno oltre il Libano https://ogzero.org/considerazioni-sul-libano-che-vanno-oltre-il-libano/ Thu, 03 Sep 2020 09:08:42 +0000 http://ogzero.org/?p=1121 Archiviare i rapporti di forza coloniali in questo periodo di nazionalismi esasperati può ricondurre a modelli vecchi di secoli, anziché soddisfare le richieste di emancipazione dei popoli repressi: l'impero ottomano e quello russo tentano di ricreare le antiche sfere di influenza.

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«Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: “la Padania è una repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore”». Parole di Umberto Bossi nella sua dichiarazione d’indipendenza della Padania, 15 settembre 1996. Una sfida, una provocazione politica. Ma anche la realtà di un mondo in cui le Nazioni, come sono state disegnate negli ultimi secoli, non necessariamente corrispondono agli elementi coesivi che finora hanno consentito loro di sopravvivere in pace.

Anni fa sentivo un giovane militare israeliano stanco della guerra contro l’indipendentismo palestinese affermare: «A cosa serve tutto questo. Presto il mondo sarà globalizzato e le nazioni, come le conosciamo oggi, non esisteranno più. Ognuno vivrà dove meglio si trova». Quel futuro (non solo per il Covid) c’è e non c’è. E invece assistiamo a una lenta e spesso cruenta trasformazione del mondo come fu tracciato nella sabbia o sulle cime dei monti dai nostri nonni e bisnonni. Divisioni e non consolidamento.

Confini tracciati altrove

Da Bossi e la Padania, tra razzismo e settarismo religioso, non è difficile approdare sulle sponde meridionali del Mediterraneo. Non soltanto perché sono poche ore d’aereo ma perché il Vicino Oriente come lo vediamo sulle cartine geografiche e nelle cronache dei telegiornali, fu creato o disegnato nel Castello Devachan a Sanremo tra il 19 e il 26 aprile 1920 e consolidato – si fa per dire – pochi mesi dopo a Sèvres, in una antica fabbrica di porcellane a sud di Parigi. Il tutto sulle rovine di uno dei più longevi, affascinanti, poco studiati e spesso incompresi imperi della storia. Di cui anche il minuscolo territorio che conosciamo come Libano faceva parte.

Segno di cambiamento degli equilibri

L’esplosione del 4 agosto 2020 a Beirut, che ha ucciso oltre 200 persone e ferito altre 7000 devastando vaste zone della capitale libanese, ha riportato il paese dei cedri sulle prime pagine dei giornali. Accanto a dubbi, incertezze, ipotesi (attentato o incidente?) sono riprese le considerazioni sulla stabilità, direi quasi la sopravvivenza, del piccolo paese creato dalla Francia e di cui Parigi sembra rivendicare un diritto di tutela se non di più. I legami tra Francia e Libano risalgono al XVI secolo quando la monarchia parigina si rivolse al sultano ottomano per proteggere i cristiani di una regione che, dalla nascita di Gesù in poi, il mondo religioso cresciuto attorno alla sua memoria definisce “Terra santa” ma che per 623 anni, dal 1299 al 1922, faceva parte di uno degli imperi più longevi e potenti e spesso più illuminati della storia controllando, in nome dell’islam sunnita, fette importanti dell’Europa e dell’Asia.

Dove le feroci Crociate dei cristiani d’Europa non riuscirono nel loro intento di dominare la terra d’altri, la forza militare e la diplomazia degli imperi più recenti del vecchio continente ebbero maggiore successo. Con la sconfitta tedesca nella Prima guerra mondiale e la conseguente distruzione del suo alleato di comodo – l’impero Ottomano appunto – francesi, inglesi e italiani (con il consenso dello zar di tutte le Russie) si divisero le spoglie. Non fu un processo indolore. Il trattato di Sèvres provocò la reazione immediata dei nazionalisti turchi sopravvissuti alla sconfitta del vecchio impero. Mustafa Kemal Atatürk, il padre della Turchia moderna, guidò una serie di guerre per cacciare francesi, italiani, greci dall’Anatolia e dopo appena tre anni, con il Trattato di Losanna, gli europei furono costretti a fare un piccolo passo indietro riconoscendo i confini della Turchia di oggi. Un prezzo relativamente modesto visto come Gran Bretagna e Francia erano riusciti a consolidare la loro presenza nel Vicino Oriente e determinare la realtà di nuove entità come Siria, Iraq, e a gettare le basi, con il patto semiclandestino di Sykes-Picot (16 maggio 1916), per la creazione di Israele. Nelle loro menti probabilmente più che un regalo ai sionisti ebrei (peraltro quasi tutti europei) doveva essere un elemento di disturbo nel mondo arabo dominato dalle due anime principali dell’islam.

Mandato coloniale permanente?

Torniamo al Libano. La Società delle Nazioni, ratificando l’accordo Sykes-Picot, affidò la Grande Siria (la Siria attuale e cinque province che costituiscono l’attuale Libano) al controllo diretto della Francia. E Parigi agendo da padrone colonialista, nel settembre 1920 istituì la Repubblica libanese con Beirut come capitale sul territorio allora in gran parte cristiana ma con una forte minoranza musulmana (oggi maggioranza) e drusa. Il paese divenne indipendente alla fine della Seconda guerra mondiale. Fu adottata una Costituzione che voleva garantire i diritti delle varie comunità con un sistema di divisione del potere. Per molti anni ha funzionato trasformando il piccolo stato sulle rive del Mediterraneo in una specie di Svizzera del Medio Oriente: nel bene e nel male.

Gli sviluppi politici nella regione dopo la creazione dello stato d’Israele e, più di recente, con la rivoluzione khomeinista in Iran, assommato ai grandi cambiamenti demografici in Libano, hanno portato alla situazione che vediamo oggi. Con una provocatoria petizione online firmata da 60000 tra residenti e membri della grande e influente diaspora libanese, è stato chiesto alla Francia di tornare a prendersi cura del Libano con un nuovo Mandato. «La Francia non lascerà mai il Libano», parole del leader francese Macron in visita a Beirut devastata dall’esplosione al porto. «Il cuore del popolo francese batte ancora al polso di Beirut». Solo retorica o il neocolonialismo francese fatica a morire? Per sottolineare il legame storico, Macron ha fatto il bis tornando a Beirut il 1° settembre, cento anni dopo quel famoso “Mandato”. Ancora parole, ma forse la consapevolezza che troppi fattori, locali e regionali, giocano contro un ruolo di Parigi che vada oltre eventuali piogge di euro per sostenere un sistema corrotto e fallimentare. Di sicuro, con la divisione del potere costituzionale che non rispecchia più la realtà demografica del Libano, il futuro della piccola nazione è sempre più in bilico in un mondo in cui montano le tendenze autonomiste, si inasprisce lo scontro tra Iran e Arabia saudita, gestori delle due verità contrapposte dell’islam, e prendono impeto le aspirazioni di vecchie potenze imperiali, tra cui la Turchia. Una nota: gli stati nazionali radicati nella storia della regione di cui parliamo sono appena quattro: Egitto, Iran, Yemen e Turchia.

Il passato, un incubo rinnovabile

La disgregazione dell’Unione sovietica e della Jugoslavia hanno aggiunto nuove nazioni all’Onu e si è parlato molto negli ultimi anni di ridisegnare i confini del Medio Oriente per soddisfare le istanze, per esempio, dei curdi, traditi dalle spartizioni postimpero Ottomano. Stesse ipotesi aleggiano per risolvere il conflitto interno della Libia, altra realtà complessa disegnata dall’Italia coloniale dopo la cacciata dei turchi da Cirenaica e Tripolitania. In essenza, è in corso nel bacino del Mediterraneo un grande gioco i cui protagonisti rispecchiano più il passato che un’idea rivoluzionaria per il futuro. Mentre la Francia rincorre la sua gloria appassita e la Russia agisce pensando non tanto all’Urss, di relativamente breve memoria storica, quanto al grande impero degli zar che molti osservatori tendono a dimenticare, la Turchia (membro della Nato, formalmente alleato dell’Occidente e, purtroppo, più volte respinta come possibile membro dell’Unione europea) sembra voler ripristinare la gloria dell’impero d’Oriente e dell’islam sunnita che dominarono per sei secoli sulle rovine dell’impero cristiano di Costantinopoli. La nuova classe dirigente turca e buona parte degli ufficiali superiori rivendicano quanto meno un ruolo di potenza regionale soprattutto sul Vicino Oriente islamico.

Per i servizi segreti israeliani, che guardano con simpatia alle mosse di Macron, e per la Cia, in uno stato di confusione anche per la politica attuale della Casa Bianca, la Turchia di Erdoğan (in corso di collisione con la Grecia per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel Mediterraneo) «è più pericolosa dell’Iran» degli ayatollah. Di sicuro l’estensione della presenza militare di Ankara – dalla Libia a Siria, Libano settentrionale, Iraq, Qatar, Afghanistan, Somalia e i Balcani – non è mai stata tanto vasta dai giorni dell’Impero Ottomano. L’accordo tra gli Emirati arabi uniti (che hanno paura dell’Iran) e Israele (nemico principale di Tehran) fa parte del Grande gioco regionale che mette in difficoltà soprattutto le pedine più piccole e deboli. Quelle create a tavolino.

Assisteremo a nuove guerre e alla creazione di nuovi confini? Una piccola scintilla potrebbe far esplodere le istanze autonomiste di cui conflitti religiosi e tribali sono i sintomi sempre più evidenti. Se la nostra Padania non è veramente a rischio perché non vi esistono le condizioni fondamentali per rivendicare l’autodeterminazione, non è così per molte delle realtà nel Vicino Oriente (e non soltanto) dove vi sono popoli riconosciuti come tali sottomessi da governi non rappresentativi che li discrimina come razza, credo o colore.

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