Mar cinese orientale Archivi - OGzero https://ogzero.org/regione/mar-cinese-orientale/ geopolitica etc Sat, 13 Jul 2024 12:58:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Muay 3. Riflessi di Orientalismo https://ogzero.org/studium/muay-3-riflessi-di-orientalismo/ Fri, 29 Mar 2024 15:22:57 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12438 L'articolo Muay 3. Riflessi di Orientalismo proviene da OGzero.

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Dialoghi della Muay Thai 3. Eclissi imperiali e riflessi di Orientalismo

La Rovinosa Caduta dell’Occidente

«Non si possono mescolare acqua e fuoco. Se l’occidentale si comportasse come un orientale diventerebbe ridicolo, e viceversa… Costruire ponti falsi o illusori sopra abissi vaneggianti è cosa inutile». Così scrisse Carl Gustav Jung, che pure dall’Oriente aveva tratto ispirazione.

Oggi quelle parole sono purtroppo superflue, forse inutili; perché gli occidentali non cercano di comportarsi come un orientale, si comportano come credono si comporterebbe un orientale. Non cercano ponti, cercano conferme alle loro illusioni.

Quei giovani, squallidi occidentali, in genere in acconciatura rasta e larghi pantaloni a disegni d’elefanti oggi tanto in voga, che chiedono l’elemosina di fronte alle stazioni della metropolitana di Bangkok ne sono un perfetto esempio. Li chiamano begpacker, contrazione di “begging” e “backpacking”, chiedere l’elemosina e viaggiare zaino in spalla. Credono o fanno finta di credere che la povertà sia davvero un ponte sull’abisso che separa la loro fantasia della povertà dalla povertà reale di chi magari vive in uno slum della citta degli Dei. Né comprendono che la loro falsa povertà non è considerata dai passanti come una prova d’ascetismo, di rinuncia. Nella migliore delle ipotesi sono considerati dei reietti, perché un occidentale, per definizione, non può essere povero. Non secondo i canoni di un orientale. E difatti non lo è. Tanto più considerando che l’elemosina non è richiesta per mangiare bensì per acquistare un biglietto di ritorno a casa o per continuare il viaggio. In altri casi quell’atteggiamento è considerato offensivo nei confronti dei locali, di quelli davvero poveri. Se poi quell’occidentale è davvero povero, beh, allora questa è la manifestazione di un karma orribile.

Altra categoria destinata a vedere infrangere le proprie illusioni è quella dei cosiddetti fighters. Dal fisico scolpito, i muscoli che animano tatuaggi di tigri e dragoni, sono qui per allenarsi nella Muay Thai, inseguono il sogno di trasformarsi in guerrieri, diventare campioni nei circuiti di Mixed Martial Arts. Per molti di loro il sogno si infrange subito, sgomentati dalla sorpresa quando vengono messi al tappeto da un thai molto più basso, magari con un po’ di pancetta, che ride allegramente al rumore della loro caduta. A sconfiggerli non è stato quel piccolo thai, è stata la loro arroganza, l’incapacità di sopportare il dolore, la sofferenza. Lo spirito stesso con cui affrontano un combattimento: anche quando si allenano non lo vivono con divertimento, sanuk, sono sopraffatti dallo spirito di competizione. Forse è per questo che fanno tanto rumore quando sono atterrati, perché sono grossi e perché con loro cade un grosso pezzo dell’Occidente.

Papa

Begpacker

Just a Perfect Day

De rerum natura Iuxta Propria Principia

Ogni cultura persegue i propri principi di giustizia secondo la propria natura… ma Bernardino Telesio non scriveva immerso in un mondo condizionato da decenni di globalizzazione pervasivi e con la produzione culturale regolata solo dalla moda mondiale: giungendo alla fine della fine del pensiero speculativo non resta che l’indistinto insito nel mondo a cui si ambisce di appartenere come maschere ridicole dello stereotipo.

Quando Simmel scriveva il suo saggio sul sistema della Moda durante il primo declino dell’impero moderno, con la Finis Austriae l’innamoramento per la supposta cultura orientale produsse un ibrido accattivante che non creò un ponte, significò solo il riflesso di stereotipi che l’occidente immaginava di proporre come “Orientalismo”, trasponendoli; ma non ne coglieva l’anima.

Le rivisitazioni meno snaturanti non scimmiottano le espressioni più esotiche di una cultura aliena; sono piuttosto frutto di meticciato, che ha bisogno di lunghi periodi di condizionamento reciproco a originare una crescita educata su principi comuni. Infatti nella commistione non ha diritto di cittadinanza la hybris che smarrisce gli smargiassi tatuati che si approcciano alla Muay Thai senza condividerne l’anima.

L’adesione all’esotico per Wenders trova in Perfect Day la sua misura calibrata nella esibizione di una quotidianità di un alter ego nipponico che ha recuperato un proprio preciso profilo autoctono di riferimento in un quartiere della Tokyo popolare dove abitare una casa di legno a un piano, con i soji, dormendo sul tatami e arrotolando meticolosamente il futon al risveglio, mangiando nei dì di festa in una piccola locanda famigliare… ma nei feriali in uno street food di un centro commerciale di stampo americano. E infatti ascolta su vecchie cassette solo musica americana degli anni Settanta (da cui il titolo ispirato da Lou Reed), prende sonno leggendo Faulkner e Patricia Highsmith (da cui il regista aveva tratto L’amico americano) e lavora con il fondale dei grattacieli, piovuti con la sconfitta dell’impero di Hirohito e la sudditanza nipponica allo stereotipo culturale dell’Occidente vincitore. L’olocausto nucleare estinse la società zen descritta da Ozu e le sue ombre sono impercettibilmente disperse dalla scheggia di un riflesso, il komorebi, unico possibile tra i giochi di luce delle innumerevoli foglie che filtrando lo splendore del sole non scardinano ma “orientano” la percezione del protagonista nippo-americano in direzione di un compiacimento contenuto, ottenuto dalla semplice raccolta di quel luccichio casuale e rappacificante.

el Gaviero

1. Vietnam cristallizzato 2. Il sesso altrui 4: La parete in comune I Dialoghi della Muay Thai

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]]> Muay 2. Il sesso altrui https://ogzero.org/studium/muay-2-il-sesso-altrui/ Fri, 29 Mar 2024 14:25:08 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12431 L'articolo Muay 2. Il sesso altrui proviene da OGzero.

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Dialoghi della Muay Thai 2. L’erotizzazione dell’esotismo

Del Sesso e di altri Spiriti

Il sesso. Se vivi in Thailandia devi essere preparato. Prima o poi, più prima che poi, in modo più o meno sottinteso, malizioso, ammiccante, interessato, curioso, scandalizzato, ti chiederanno informazioni sul tema, accademiche o pratiche. Tanto più se il sesso è quello dei kathoey, i travestiti o transessuali (definiti anche Lady-boy) che in Thailandia rappresentano davvero un terzo genere, integrati (anche se spesso in modo caricaturale) in tutti gli strati sociali. Il Gabbiere, glielo riconosco, non ha mai sollevato l’argomento e prima o poi dovremo dialogare sul perché non l’abbia fatto. Ma anche lui ha manifestato una certa curiosità quando gli ho detto che sarei andato a vedere uno spettacolo di kathoey. «È il nostro prossimo dialogo», ha detto subito. Dal canto mio questo era un altro buon motivo per andare al Golden Dome, il teatro simile a un castello delle fate, dove viene messo in scena lo show. Non c’ero mai stato e forse anche questa lacuna meriterebbe un approfondimento.

Lo show, in realtà, mi ha abbastanza deluso. Piume di struzzo, costumi luccicanti, luci colorate. Ma in tono piuttosto dimesso. Alla fine mi è sembrato uno spettacolo per famiglie, qualcosa più simile ai varietà televisivi anni Sessanta che agli spettacoli en travesti allestiti nel quartiere parigino di Pigalle (sempre in quegli anni, in realtà). Più interessante il pubblico: per la maggior parte comitive di turisti cinesi, che sembravano apprezzare soprattutto le scenette comiche recitate in mandarino. C’era anche una famiglia musulmana che se n’è andata prima della fine e un gruppetto di occidentali imbarazzati al passaggio dei Lady-boy che invitavano a toccare tette e culi: i momenti di massima trasgressione dello spettacolo.

Intanto, io pensavo a come tutto questo potesse diventare oggetto di un dialogo col Gabbiere. Certo, poteva essere il pretesto per considerazioni sul concetto di sesso in Oriente e Occidente, sul paradosso dell’estremo pudore in un paese dove il sesso non è peccato, sulla trasgressione e sull’accettazione, su morale e moralità (tema che stavo ritrovando in un saggio di René Guenon: Oriente e Occidente). Ma nulla di tutto questo mi convinceva. Una vaga ispirazione m’era venuta sulla via del ritorno: la grande strada che porta al Golden Dome, nel quartiere di Huai Khwang, infatti è delimitata da una quinta di imponenti edifici che sembrano alberghi di lusso e che sono invece i più grandi bordelli di Bangkok. Eufemisticamente definiti centri di entertainment. Uno di questi, nei giorni successivi, è stato chiuso dalla polizia per il sospetto che sia uno dei centri di riciclaggio di denaro sporco delle Triadi cinesi.

Nello stesso quartiere si trova anche un tempio dedicato a Rahu, entità fantasmatica che nella tradizione delle scritture vediche rappresenta l’ombra, l’eclissi ma che può essere assunto a divoratore di incubi. I fedeli ne chiedono la protezione offrendogli fiori neri. Personalmente mi son fatto tatuare l’immagine di Rahu sulla schiena e colleziono sue immagini. Forse è un vezzo, forse lo considero un medium per le mie storie.

Mettendo assieme tutti questi elementi, mi dicevo, potevo cominciare un buon incrocio di storie. In fondo, i dialoghi della Muay Thai sono proprio questo. Poi una volta tornato a casa, mettendo ordine tra idee e appunti ho trovato la storia che, secondo me, mette a segno il colpo.

Mi sono ricordato della passione del Gabbiere per quello che lui chiama il Leucò langarolo. Nel suo esoterico linguaggio si riferisce a Cesare Pavese, ma nella versione dei Dialoghi con Leucò, come descritto da lui stesso, quello che

«Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po’ straccamente e ci sbadigliano un sorriso».

Sono andato allora a guardare se in quei dialoghi ci fosse qualcosa che servisse ad accompagnare una storia di sesso e altri spiriti.

Ecco cos’ho trovato:


  • Leucotea: Non sanno sorridere. 

  • Circe: Sì. Qualcuno di loro sa ridere davanti al destino, sa ridere dopo, ma durante bisogna che faccia sul serio o che muoia. Non sanno scherzare sulle cose divine, non sanno sentirsi recitare come noi. La loro vita è così breve che non possono accettare di far cose già fatte o sapute. Anche lui, l’Odisseo, il coraggioso, se gli dicevo una parola in questo senso, smetteva di capirmi e pensava a Penelope. 

  • Leucotea: Che noia

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Papa

Oltre il buco della serratura…?

La preda nell’esotismo coloniale

Della tragica comicità del colonialismo erotico 

La sessualità scontatamente “esotica” del topos Bangkok mi solletica una pruderie quasi nulla, ma non tanto per remore seriose – e un po’ retrò – surdeterminate dalla istintiva avversione per certo orientalismo da turisti sessuali (intrisi di miti occidentali su un Oriente inventato). Nulla di così noioso… è più la ritrosia a inseguire il colonialismo anche sul piano dell’approccio sessuale, perché lo spettacolo immagino serva soprattutto all’estraneo al mondo siamese per dare un senso alla naturalezza dei “facili” costumi thailandesi, riconducendolo allo spettacolo inquadrabile in una prassi occidentale di normalizzazione agevolata dalla triste caricaturalità dei kathoey con le paillettes a stemperare la spudoratezza che già in Circe spaventava il langarolo nei suoi Dialoghi con Leucò.

In realtà la scarsa pruderie per le “trasgressioni sessuali thailandesi” affonda in ricordi di famiglia, legati a un cugino gay di mia madre, classe 1931, che nel grigio Fiatnam tra gli anni Cinquanta e Settanta faceva “per hobby” spettacoli en travesti, in cui anche un ragazzino cisgender qual ero non percepì mai alcunché di scandaloso, pur non trovandolo per nulla normalizzato nei suoi intonati gorgheggi da melomane amante della Callas, magari interpretando “Un bel dì vedremo” in kimono. Ecco, da questo ricordo affiora la figura di Cio-Cio san: un riflesso del gusto della sensualità esotica tipicamente coloniale che si costruisce – a partire onanisticamente dalla propria immaginazione – persino una femminilità descritta come asiatica e poi frutto della cultura Art Nouveau, intrisa di “Orientalismo”, che attraverso il motteggio della parodia en travesti sposta il centro dell’attenzione dalla tragicità dell’inganno di Pinkerton alla rappresentazione di una sensualità orientale, frutto dell’attribuzione occidentale, che nella parodia del cugino diventa, seppur diversamente orientata, in qualche modo colonizzata. Lasciando però un buco della serratura attraverso il quale gettare lo sguardo sul fuori-scena, oltre la normalizzazione.

Nella esibizione Trans della tradizione occidentale forse si coglie la differenza culturale della sessualità mitologica trasposta anche nei Dialoghi con Leucò quando si raccoglie lo sguardo spaventato e voglioso del sesso della “belva viva” di Endimione rispetto al rassicurante simulacro inscenato dal Lady-boy orientalista; con cui il cugino Queen aveva comunque in comune una prorompente vis comica che scaturiva da scenette quotidiane che riusciva a rendere esilaranti con due tocchi di battute, da cui la sua natura birichina da Pierino (di nome e di fatto) non poteva astenersi.

E proprio lì trovo che la normalizzazione passi con la complicità della battuta scollacciata che stempera la provocazione dirompente della trasgressione sessuale, creando un ponte (improvvisando una “traduzione”?) per i turisti che cercano una “facile” scorciatoia per comprendere la sbandierata assenza di scandalo sessuale nella cultura siamese; come il motteggio tragico la disinnescava nella esibizione di Pierino 60 anni fa nei cabaret della Torino brumosa che contemporaneamente sugli schermi rigorosamente eterosessuali della Rai di Bernabei si eccitava per l’africanità di Lola Falana – altra forma più esplicitamente coloniale dell’esotismo, in quanto africana: e infatti le coreografie si ispiravano a un approccio proprietario della preda selvaggia. Quella comicità irresistibile dà una regola alla trasgressione: diventa dovunque il tratto autocensorio che crea il recinto adattato a ogni situazione in cui la cultura locale può integrarla, avendola collocata in uno spettacolo (il “castello delle fate”) lontano dalla mimesi, stemperata nella comicità e nel vezzo ammiccante.

Ma forse altri Dialoghi più anticamente autentici delle parodie pavesiane meglio si prestano a superare l’impasse culturale al cospetto della “traNsgressione”: il Quinto dialogo delle cortigiane di Luciano di Samosata, quello tra Clonario e Leena, che svela alla collega la propria esperienza lesbica e il suo incontro con Megilla, una trans che la seduce e a cui Leena si concede con naturalezza anche in chiave saffica.

  • Odo una novità sul conto tuo, o Leena, che Megilla, quella ricca di Lesbo, è innamorata di te come un uomo, e che state insieme, e non so che fate tra voi. Dunque, o Lena, contami tutto, come prima ti tentò, come ti persuase, e in seguito ogni cosa.
    Mi cominciò a baciare come fanno gli uomini, non solo attaccando le labbra, ma aprendo un poco la bocca, e mi abbracciava, e mi titillava i capezzoli. Indi a poco Megilla essendosi riscaldata, si toglie del capo una parrucca ed era capelli naturali, e resta con la testa rasa come una mano, come l’hanno i più robusti atleti. Io mi spiritai a vederla, ed ella: “Hai veduto mai, o Lena, un così bel giovanotto?” – “Io non vedo, dissi, qui giovanotto, o Megilla”. – Ed essa: “Non mi fare femmina, ché io mi chiamo Megillo. Io son nata come tutte voi, ma l’inclinazione, il desiderio, e tutto il resto in me è d’uomo”. – Ed io: “E ti basta il desiderio?” Risposemi: “Statti, o Lenea, se non credi, e saprai che non sono da meno degli uomini: ho un altro strumento che fa lo stesso giuoco: statti, che vedrai”. – Mi stetti, o Clonario, per tante preghiere che mi fece, e mi regalò una bella collana, e un paio di camice fine. Io l’abbracciai come fosse un uomo, ed ella mi baciava, e faceva, e anelava, e mi pareva si struggesse del piacere.

Il testo di Luciano, come sempre i suoi dialoghi scanzonati e cinici, elimina il pathos e non svela l’ob-scene che rimane fuori dalla fotografia: la narrazione lascia intendere che l’approccio al sesso, allora come adesso, è più pragmatico e universale… il resto è per blandire i turisti.

  • Ma cosa faceva, Leena, e in che modo? È questo che voglio sapere!
    Non chiedermi i dettagli, sono davvero indicibili. Al punto che – per Afrodite Urania! – mi sa che non te li racconto!

el Gaviero

I Dialoghi della Muay Thai 1. Vietnam cristallizzato 3. Riflessi di Orientalismo 4. La parete in comune

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]]> I dialoghi della Muay Thai https://ogzero.org/studium/i-dialoghi-della-muay-thai/ Wed, 17 Jan 2024 00:03:04 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12307 L'articolo I dialoghi della Muay Thai proviene da OGzero.

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I Dialoghi della Muay Thai

I dialoghi della Muay Thai affiorano dal fastidio per i topoi diffusi dalla sacralizzazione della superficialità; affondano nella convergenza da percorsi diversi al tentativo di incatenare il blob dell’ignoranza che sta debordando dagli schermi della rete, come nel 1958 Il Fluido mortale dalla sala cinematografica e per decenni dalla omonima trasmissione televisiva di Ghezzi.
Un’idea che nasce dagli allenamenti di Max Morello nella palestra di Bangkok, anzi nelle pause, rispecchiate dai corsivi dei dialoghi; il Gabbiere di OGzero ha aderito con entusiasmo a questa forma di confronto che consente di affrontare gli snodi epocali da punti di vista diversi tra loro ma originali rispetto alle banalità diffuse in un periodo di cambiamento, in cui questo non si palesa ancora e il vecchio è soverchiato dal nulla del pensiero.
In queste “botta e risposta” di una lotta verbale può trasparire talvolta il superamento di quei riferimenti asfittici di cui si sente bisogno per liberarsi delle sovrastrutture attraverso le quali ciascuno continua da 70 anni a leggere una realtà che è cambiata nel frattempo, collocandosi in un campo o nell’altro. L’intento è quello di cominciare sommessamente a proporre un’ermeneutica in costante adattamento e costruzione per lasciare alle spalle mondi asfittici e le loro narrazioni, riconducibili a categorie… scontate. Soprattutto le contrapposizioni fondate sul nulla tra Orientalismo e Occidentalismo.
Il criterio ricercato dai Dialoghi del Muay Thai è invece la stramberia.

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]]> L’epilogo comune del conflitto armato filippino? https://ogzero.org/conflitto-armato-filippino-l-epilogo-comune-del/ Sat, 02 Dec 2023 01:57:49 +0000 https://ogzero.org/?p=11994 Molto interessante la segnalazione di Gianni Sartori a proposito di un processo misconosciuto dai media mainstream – e anche i portali europei più attenti alle lotte di emancipazione non registrano gli “annientamenti” mirati contro i militanti più storici di una lotta che dura da 50 anni nell’arcipelago filippino. Ci sembra particolarmente significativo descrivere il processo […]

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Molto interessante la segnalazione di Gianni Sartori a proposito di un processo misconosciuto dai media mainstream – e anche i portali europei più attenti alle lotte di emancipazione non registrano gli “annientamenti” mirati contro i militanti più storici di una lotta che dura da 50 anni nell’arcipelago filippino. Ci sembra particolarmente significativo descrivere il processo di “pacificazione” del conflitto armato filippino con la guerriglia maoista intrapreso dal potere a Manila assimilabile alle modalità in cui si stanno consumando le soluzioni dei conflitti “epocali” in tutto il mondo: il caso più macroscopico anche per quantità riguarda i palestinesi, ma l’esempio più avvicinabile è il lento stillicidio colombiano delle Farc e probabilmente un futuro curdo che si prospetta per le importanti esperienze del confederalismo democratico, così tristemente simile a un passato Tamil; parzialmente diverso è il caso birmano, dove le comunità temporaneamente alleate contro Tatmadaw sono unite da ragioni meno nobili degli altri “eserciti” di liberazione citati.
Una notazione che ci viene dalla proposta grafica che abbiamo trovato come illustrazione dell’intervento: il tratto o l’inquadratura esibiscono tutti una retorica che sembra provenire da un lontano passato che non è riuscito ad aggiornarsi e anche per questo ha perso il suo appeal sui giovani e perciò l’apparato iconografico dei trattati di pace si compiace di ritrarre vecchi esausti che riconoscono che la contrapposizione armata al potere non è una prassi in grado di portare a risultati in questa fase storica.


L’arcipelago in fiamme da mezzo secolo

Distrazione, correlazioni saltate, oppure… repressione globale?

Tra le tante guerre a (relativamente) “bassa intensità” quella che si svolge nelle Filippine non è certo tra le più conosciute o documentate. Fermo restando che sia le lotte per l’autodeterminazione (indipendentiste o meno) che le eventuali “soluzioni politiche” (dal Sudafrica all’Irlanda, dalla Colombia ai Paesi Baschi…), per quanto frutto di ragioni intrinseche (almeno quelle autentiche, non create ad hoc) dipendono anche – o soprattutto – da ben altro. In particolare dal contesto geopolitico. Per chi preferisce: il “campo” in cui schierarsi, volenti o nolenti.
Dalle Filippine, anche nell’anno in corso, sono arrivate notizie soprattutto di scontri tra militari e guerriglieri (in genere comunisti). Scontri che solitamente – stando almeno a quanto si conosce – si concludono a sfavore dei secondi.
Da segnalare poi come sempre più spesso vengano uccisi elementi di spicco (comandanti…). Un segnale di perfezionamento delle operazioni di intelligence?

Intensificazione di esecuzioni mirate

Tra gli episodi più recenti (inizio novembre 2023), la cattura a Barangay Buhisan (San Agustin) di Cristitoto Tejero, comandante in capo del Fronte di guerriglia 19 della New People’s Army – Comitato regionale del Nordest di Mindanao. Il militante maoista (57 anni) era da tempo ricercato per la sua attività guerrigliera e in particolare per l’uccisione di un militare.
Pochi giorni prima, il 26 di ottobre, un altro esponente della Bagong Hukbong Bayan (Npa) da tempo ricercato, Michael Cabayag (Ka Teddy, comandante del Fronte di guerriglia Sendong) era stato ucciso dai soldati del 10° battaglione di fanteria nel villaggio di Carmen (Misamis Occidentale). Nella stessa circostanza veniva catturato un altro militante, Armida Nabicis (Ka Yumi). Tra le armi trovate in loro possesso: un fucile M-16 Armalite, un CZ (AK-47), una carabina M653 e un lanciagranate M-203.

La mattanza di combattenti irriducibili… e “storici”
Un altro esponente di spicco della guerriglia maoista, Ray Masot Zambrano, era stato precedentemente abbattuto a Barangay Obial (Kalamansig) il 10 ottobre.
L’operazione veniva condotta dai militari della 603° brigata di fanteria. Quasi contemporaneamente un altro membro della Npa (di cui al momento non si era potuto accertare l’identità) soccombeva sulle montagne di Buneg (Lacub, Abra).

Ancora più tragico il bilancio del 29 settembre quando almeno cinque esponenti della Npa perdevano la vita nella città di Leon, provincia di Lloilo.
Tra loro la comandante Azucena Churesca Rivera (Rebecca Alifaro, conosciuta anche come Jing).
Nella guerriglia dal 1980, svolgeva funzioni di Segretaria del Fronte sud della Npa -Komiteng Rehiyon-Panay.
Altri due guerriglieri venivano uccisi da una pattuglia di polizia nei pressi dell’aeroporto di Bicol (tra i villaggi di Bascaran e Alobo).
L’ennesimo guerrigliero era deceduto qualche giorno prima a Esperanza (Agusan del Sur) e almeno sei il 21 settembre nel villaggio di Taburgon (Negros occidentale)
Rispettivamente dal 26° battaglione di fanteria e dal 47° battaglione.
I sei maoisti facevano parte del Fronte sud-ovest della NPA. Tra di loro, Alejo “Peter/Bravo” de los Reyes; Mélissa “Diana” de la Peña ; Marjon “Kenneth” Alvio ; Bobby “Recoy” Pedro e il medico Mario “Reco/Goring” Fajardo Mullon.
Quanto al sesto guerrigliero, all’epoca non era stato ancora identificato.
Oltre ad alcune armi i militari avevano recuperato molto materiale propagandistico e politico.

Ancora sei maoisti (altri sei) erano caduti in combattimento il 7 settembre nel corso di una serie di scontri a fuoco con i militari nella zona di Sitio Ilaya (provincia di Bohol) mentre, intercettati a un posto di blocco, tentavano di sganciarsi.

Invece il 20 marzo era stato un sottufficiale dell’esercito filippino a venir ucciso in un conflitto con una decina di guerriglieri della Npa nell’isola di Masbate.

Comunque un doloroso stillicidio, oltretutto senza apparente via d’uscita e che – stando ai dati ufficiali – avrebbe causato oltre 40.000 morti (in maggioranza civili) in circa mezzo secolo.
Ma recentemente, dopo che precedenti trattative si erano insabbiate, è apparso qualche segnale di possibile soluzione del conflitto. Innanzitutto l’amnistia per i ribelli in carcere e poi una dichiarazione congiunta tra il governo filippino e il National Democratic Front of the Philippines (Pambansang Demokratikong Hanay ng Pilipinas), con cui entrambi intendevano ricucire il dialogo bruscamente interrotto sei anni fa dall’allora presidente Rodrigo Duterte (ex guerrigliero maoista).
Buona parte del merito dell’iniziativa andrebbe al presidente Ferdinand Romuáldez Marcos Jr (eletto nel 2022 e che presumibilmente vuole riscattarsi dalle colpe del padre) il cui Assistente speciale Antonio Ernesto Lagdameo è stato nominato Negoziatore governativo.

Il Fronte, coalizione di una ventina di organizzazioni (tra cui, oltre alla Npa, il Communist Party of the Philippines), ne costituisce la “vetrina politica” e attualmente è guidato da Luis Jalandoni, un ex sacerdote (tra i membri anche la Christians for National Liberation da lui fondata).

Altre organizzazioni che ne fanno parte:
Moro Resistance and Liberation Organization (Mrlo), Katipunan ng Gurong Makabayan (Kaguma), Liga ng Agham para sa Bayan (Lab), Lupon ng Manananggol para sa Bayan (Lumaban), Malayang Kilusan ng Bagong Kababaihan (femministe), Revolutionary Council of Trade Unions (Rctu),Pambansang Katipunan ng Mambubukid (Pkm), Katipunan ng mga Samahang Manggagawa (Kasama), Cordillera People’s Democratic Front (Cpdf)
Un eterogeneo raggruppamento tattico di partiti, associazioni della società civile, sindacati e gruppi armati di sinistra, milizie etniche, tribali e altro che per certi aspetti può ricordare l’attuale coalizione antigovernativa del Myanmar.Se non addirittura –almeno in prospettiva, potenzialmente – la situazione del Rojava.

Le pacifiche soluzioni di Oslo

Il 23 novembre 2023 Jalandoni, rappresentante del Partito comunista, e Lagdameo, assistente di Marcos jr., hanno firmato a Oslo una dichiarazione con cui si impegnano «per una soluzione pacifica ed equa del conflitto armato» e per una “pace giusta e duratura”.

Sottolineando «la necessità di unità come nazione per fare fronte alle minacce esterne alla sicurezza», auspicando indispensabili riforme socio-economiche atte a superare l’attuale situazione alquanto disastrata (anche sotto il profilo ambientale).

Scomparse significative: residuali baluardi dissolti nel nuovo ordine globale

Forse ha indirettamente contribuito all’accelerazione del nuovo corso la recente scomparsa in esilio (nel dicembre 2022) del dirigente comunista maoista Jose Maria Sison.
E proprio per il Communist Party of the Philippines e per il suo “braccio armato” (Npa) è prevista una trasformazione in organizzazione politica (analogamente al processo che ha interessato le Farc colombiane).

 

 

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Giappone: la tollerabile gravità del nulla https://ogzero.org/abe-shinzo-e-il-giappone-la-tollerabile-gravita-del-nulla/ Sat, 23 Jul 2022 00:04:29 +0000 https://ogzero.org/?p=8252 Già Wim Wenders aveva sottolineato in Tokyo-ga il carattere inciso sulla tomba di Ozu Yazujiro: mu, che vuol dire “nulla” (sequenza a cui fa riferimento l’immagine in copertina); Roland Barthes ragionava sul fatto che al centro dell’impero nipponico ci sia un’immensa oasi di vuoto attorno alla casa dell’imperatore. Il senso di assenza di materia come […]

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Già Wim Wenders aveva sottolineato in Tokyo-ga il carattere inciso sulla tomba di Ozu Yazujiro: mu, che vuol dire “nulla” (sequenza a cui fa riferimento l’immagine in copertina); Roland Barthes ragionava sul fatto che al centro dell’impero nipponico ci sia un’immensa oasi di vuoto attorno alla casa dell’imperatore. Il senso di assenza di materia come motore culturale dell’arcipelago giapponese può essere una delle chiavi adottate in questa analisi di Carlotta Caldonazzo riguardo a strategie geopolitiche e forme di lutto nazionale per la morte di un simbolo come Abe Shinzo.

Tokyo è forse il fulcro della talassocrazia statunitense ed è l’alleato chiave per Washington tanto nella strategia di contenimento dell’intraprendenza geoeconomica (e geopolitica) cinese, quanto su un eventuale fronte russo sul Pacifico. Sul piano interno, intanto, un’apparente «continuità» cela un tessuto sociale devastato dalle diseguaglianze e da fratture storiche, che affondano le radici soprattutto nella tensione tra la necessità di accettare la propria condizione di sovranità mutilata e l’aspirazione allo status di potenza.


Molto rumore per nulla?

Come ha osservato Marco Zappa in un’intervista trasmessa da Radio Blackout, al di là delle riflessioni di buona parte della stampa internazionale sulla sua importanza storica e sulla sua eredità, l’uccisione dell’ex primo ministro giapponese Abe Shinzo ha avuto sulla popolazione un impatto emotivo minimo. Lo si evince dai risultati delle elezioni senatoriali del 10 luglio, vinte in larga misura dal Partito liberaldemocratico (Pld, partito di Abe), e dalla sua coalizione, come preannunciato dai sondaggi, e dal basso tasso di affluenza alle urne, rimasto sostanzialmente invariato rispetto alle precedenti consultazioni del 2019.

Eppure, l’uccisione dell’ex primo ministro ha rivelato le falle di un sistema di sicurezza basato sul controllo capillare del tessuto urbano da parte della polizia, al quale le istituzioni attribuivano una buona parte del merito del basso tasso di criminalità nel paese. In sostanza, sul piano politico-elettorale sembra dunque aver prevalso la linea della continuità, già tracciata a ottobre 2021, al momento della successione tra Abe Shinzo e l’attuale primo ministro Kishida Fumio, ministro degli Esteri dal 2012 al 2017. Scelta oculata, che ha rassicurato Washington sulla fedeltà dell’alleato nipponico, il cui peso geostrategico continua a crescere in ragione dell’inasprimento delle relazioni internazionali, in particolare tra Stati uniti e Russia, per ora impegnati sul fronte europeo orientale, e tra Stati uniti e Cina, il cui terreno di scontro privilegiato è l’Indo-Pacifico.

La teoria degli oceani comunicanti

La stessa espressione Indo-Pacifico, in realtà, suggerendo una continuità tra oceano Pacifico e oceano Indiano, sintetizza la visione strategica di Abe, che ha sempre sostenuto i vantaggi di un coinvolgimento dell’India nel contenimento della proiezione di potenza di Pechino sui mari. Una mossa che, di fronte a un avversario come l’Impero del Centro, che storicamente è una potenza di terra, dovrebbe contribuire a preservare la talassocrazia statunitense, ostacolando l’aspirazione cinese sia al controllo dei traffici marittimi nel Pacifico, sia al potenziamento della propria capacità offensiva per mare.

Abe Shinzo: il nazionalista riluttante

Rapporti indopacifici

In fondo, benché non si siano create, almeno finora, le condizioni per la costituzione di un’alleanza militare sul modello dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico Nord (Nato/Otan), Abe aveva cercato di elaborare un piano efficace per impedire l’ascesa della potenza cinese; tanto sul piano commerciale e finanziario, tentando di sottrarre partner asiatici a Pechino, quanto a livello geopolitico e militare, trovando una possibile chiave nel coinvolgimento di New Delhi. Contestualmente, sempre allo stesso scopo, Abe aveva intensificato la cooperazione economica e di sicurezza, oltre che con gli Usa, anche con Australia, Regno unito (i tre componenti dell’asse denominato Aukus, dalle loro iniziali) e Nuova Zelanda. Quanto all’economia interna, la cosiddetta “Abenomics” e i toni trionfalistici che avevano accompagnato la realizzazione delle riforme neoliberali in essa incluse, nonostante il loro discutibile impatto sociale e i dubbi sulla reale uscita dalla stagnazione decennale che avrebbero comportato, avevano diffuso nel panorama mediatico internazionale l’immagine di un Giappone pronto a cavalcare una straordinaria ripresa economica, pur continuando a rinunciare allo status di potenza regionale e pur restando subordinato agli interessi strategici statunitensi.

Tre frecce
«La strategia economica, fiscale e finanziaria della “Abenomics” consisteva nelle cosiddette “tre frecce”: 1. quantitative easing (QE) della banca centrale (BoJ), 2. Massiccio stimolo fiscale e 3. Riforme strutturali. Come è emerso, tuttavia, due di queste tre politiche – quantitative easing e stimolo fiscale – dopo aver avuto successo nel breve termine appaiono oggi sempre più insostenibili e troppo costose, con possibili danni ben più gravi nel lungo termine. L’unica freccia della ‘Abenomics’ in grado di poter creare ancora maggior valore rimane quella delle riforme strutturali. Molte delle riforme che Abe ha promesso devono però ancora essere implementate mentre ne rimarrebbero altre utili per il paese che però non sono ancora nell’agenda politica di Tokyo» (Axel Berkofsky).

Neoimperialismo tradizionalista

Tuttavia, l’adozione, da parte dell’ex primo ministro giapponese, della tradizionale dialettica imperiale nipponica, contestuale all’ascesa delle correnti più nazionaliste del Pld, per le quali Abe era un riferimento politico importante, da un lato aveva deteriorato le relazioni non solo con la Cina, ma anche con la Corea del Sud, utile alleato degli Usa. Con la Russia, invece, Abe aveva portato avanti i negoziati per giungere a un accordo definitivo sullo status delle isole Curili, ma i colloqui sono stati interrotti a seguito dell’esplosione del conflitto russo-statunitense in Ucraina, in merito al quale Tokyo si è subito schierata al fianco di Washington. Una presa di posizione che, peraltro, ha isolato in un certo senso l’India all’interno del Quad (dialogo quadrilaterale) indo-pacifico. New Delhi, infatti, che nel conflitto sino-statunitense appare disponibile ad assecondare gli interessi di Washington, sul fronte russo finora ha scelto una sostanziale neutralità, preferendo mantenere gli storici rapporti con Mosca, soprattutto in ambito militare. D’altronde, a differenza di Usa, Giappone e Australia, l’India è membro fondatore del Movimento dei paesi non-allineati.

Il giorno dell’auto(in)determinazione

Intanto, coltivando l’aspirazione a fare del Giappone una potenza almeno regionale, durante i suoi vari mandati, Abe aveva riportato in auge il dibattito politico sulla modifica della costituzione pacifista imposta dal generale Douglas McArthur nel 1947, soprattutto dell’articolo 9, che obbliga Tokyo a rinunciare alla guerra e a dotarsi di forze armate proprie, condannandolo di fatto alla dipendenza da Washington. Tra i primi ad affrontare apertamente questo tema, fu, nel 1985, sul finire della guerra fredda, il primo ministro Nakasone Yasuhiro (anch’egli appartenente al Pld), che, in precedenza, aveva adottato la strategia, più prudente, della reinterpretazione, analoga a quella scelta a più riprese da Abe: aumento progressivo delle spese militari, sempre ufficialmente con finalità difensive; ipotesi di dotare il paese di un arsenale atomico proprio o, laddove ciò fosse impossibile, di ospitare testate nucleari gestendone in modo congiunto con gli Usa; istituzione, nel 2013, di un Consiglio di sicurezza nazionale (ufficialmente finalizzato alla difesa da eventuali attacchi cinesi). Da parte sua, l’ex primo ministro Koizumi Junichiro (Pld), nei primi anni Duemila, rafforzando l’alleanza militare con la superpotenza statunitense impegnata nella «guerra al terrorismo», aveva proposto un emendamento costituzionale per consentire al Giappone un maggior coinvolgimento nelle sfide di sicurezza globale. Parole allettanti per Washington, soprattutto perché provengono da un paese che aveva fornito la più cospicua assistenza finanziaria all’invasione dell’Iraq nel 1991 (come riporta il ministero degli Esteri giapponese). Nella prospettiva dei nazionalisti nipponici, infatti, la pesante ingerenza Usa, oltre a essere un impedimento è anche, in certa misura, un alibi per portare avanti gli interessi strategici del paese, considerati sempre più in chiave nazionalista e militarista. Un’evoluzione, che, d’altronde, non riguarda solo il Giappone degli ultimi decenni, stando alle stime dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri). La peculiarità nipponica è stata, invece, l’abilità di trarre sistematicamente vantaggio dalle convergenze strategiche con la potenza occupante, sapendone interpretare anche le virate reali o apparenti. Almeno finora, anzi, fino al periodo della presidenza statunitense di Donald Trump. Quest’ultimo, infatti, aveva lasciato intendere a satelliti e alleati che Washington intendeva diminuire il più possibile la propria presenza diretta in prossimità delle varie faglie geopolitiche, Pacifico in primis. È stato proprio Abe a cogliere l’occasione per aumentare le proprie «capacità difensive», forse inducendo Tokyo a illudersi della possibilità di un percorso verso l’autodeterminazione.

«È naturale per il governo garantire una spesa per la difesa equivalente al 2 per cento del Pil» (Abe Shinzo, 27 maggio 2022)

Illusione che l’attuale presidente Usa Joe Biden non sembra intenzionato a coltivare, se non altro per scongiurare il rischio di trovarsi di fronte una Turchia del Pacifico, tanto più che il Giappone ospita importanti basi militari statunitensi, tra cui quella di Yokosuka, la più grande al di fuori del territorio statunitense, sede del comando della potente Settima flotta. Senza considerare che Tokyo è tra i grandi detentori (recentemente, peraltro, ha conquistato il primo posto) del debito statunitense.

Tra metus hostilis e bellum factionum

In effetti, come ha rilevato Marco Zappa nella medesima intervista, Abe era l’esponente più «carismatico» delle fazioni più militariste e nazionaliste del Pld. Inoltre, in quanto fervente scintoista, era una figura di raccordo e di equilibrio tra il mondo politico e la sfera del culto: un ruolo importante, in un paese dove il potere e l’influenza delle sette religiose sono significativi. Intanto, la frantumazione sociale, aggravata nell’ultimo decennio dalla diffusione esponenziale del lavoro precario e somministrato, promossa dalla Abenomics come misura di modernizzazione neoliberista e produttivista, si riflette nello scontro latente e a bassa intensità tra le fazioni politiche (e religiose), in particolare tra quelle che compongono il Pld. Per esempio, una delle fazioni concorrenti di quella che faceva riferimento ad Abe, si raduna intorno a Kishida, che prima di essere nominato primo ministro, in campagna elettorale, aveva indicato diversi elementi di discontinuità rispetto al suo predecessore. A partire proprio dalla Abenomics, di cui ammetteva la responsabilità nell’acuirsi delle diseguaglianze, lanciando un appello (generico) a concepire e a mettere in atto un nuovo capitalismo in grado di trovare una soluzione efficace alle questioni sociali più cogenti. Anche nelle relazioni internazionali, da ex ministro degli Esteri, Kishida ha sin da subito mostrato un atteggiamento più moderato, lasciando la porta aperta a una visita del presidente cinese Xi Jinping, dopo l’annullamento dell’ultima, fissata nel 2020, ufficialmente a causa delle restrizioni dovute all’emergenza sanitaria.  Nondimeno è probabile che l’attuale primo ministro si trovi, in autunno, ad affrontare, anche nel dibattito parlamentare, il delicato tema della modifica della costituzione.

«Vorrei proseguire gli sforzi per giungere alla proposta di una revisione il prima possibile» (dell’articolo 9 della costituzione pacifista; dichiarazione di Kishida Fumio ripresa da “Kyodo News”, durante una conferenza stampa sui risultati elettorali dell’LDP e riportata da Deutsche Welle”).

Malgrado le critiche riguardo la gestione delle diseguaglianze sociali e della pandemia da Covid-19, infatti Abe aveva reso il Giappone capace, in termini di tecnologia e di competenze, di dotarsi di armi nucleari nel giro di poche settimane, come sottolineato a più riprese dagli autori della rivista “Limes”. Anche per questo è stato definito da molti analisti il personaggio più importante della storia giapponese degli ultimi decenni, tanto a livello di gestione politica interna, quanto sul piano geopolitico. Le sue dimissioni nel 2021, ufficialmente per motivi di salute, avevano già lasciato intendere il declino della sua fazione politica, cui ha probabilmente contribuito una diminuzione del sostegno di Washington: anzitutto durante la presidenza Trump, caratterizzata dal disimpegno, poi dall’insediamento di Biden, che sembra adottare l’equazione, che Pechino definisce «da guerra fredda», tra l’impegno e un controllo che rasenta l’asservimento. Abe e la sua fazione, da parte loro, sembravano invece premere nella direzione di una maggiore autonomia strategica di Tokyo, in ragione del suo peso geostrategico crescente.

Il nazionalismo «moderato» di Kishida Fumio

L’attuale primo ministro, invece, oltre a ostentare toni meno aggressivi e un atteggiamento più pragmatico nei confronti della Cina e, soprattutto, della Corea del Sud, si mostra anche più propenso a fare a meno dell’autonomia strategica, e maggiormente concentrato sulla crescita economica, sulla gestione del malcontento sociale (un tema quasi sconosciuto al dibattito pubblico giapponese) e sul progresso e l’innovazione tecnologici. Inoltre, almeno finora, è parso meno insistente del suo predecessore nel chiedere agli Usa di rompere la storica ambiguità strategica riguardo Taiwan e di prendere una posizione più netta in suo sostegno. Una postura politica, forse, più rassicurante per Washington, la cui considerazione per il Giappone dal punto di vista geostrategico si comprende anche dalla scelta di Tokyo come luogo dell’ultima riunione del Quad, tenutasi alla fine di maggio.

Cinque pilastri per un Indo-Pacifico libero e aperto
«Questo si basa essenzialmente su cinque pilastri che andranno a ispirare l’azione politica giapponese sul piano internazionale: promuovere lo stato di diritto internazionale, rafforzare le capacità di difesa nazionale, impegnarsi per la denuclearizzazione, lavorare a una riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e migliorare la cooperazione internazionale soprattutto in materia economica» (Kishida al meeting di Shangri-La a Singapore).

Un vertice di fondamentale importanza strategica, perché incentrato sul contenimento della potenza cinese dal punto di vista, simultaneamente, militare e finanziario, con l’annuncio da parte di Biden dell’Indo-Pacific Economic Forum (Ipef). Il piano, o meglio, la cornice economica mediante la quale Washington, con una strategia analoga a quella di Abe, intende mettere i bastoni tra le ruote alle nuove vie della seta cinesi, note con l’espressione inglese Belt and Road Initiative (Bri), che sintetizzano la politica di potenza di Xi Jinping. Di conseguenza, sarebbe meglio per gli Usa non correre il rischio che l’Impero del Sol Levante, sia pure nell’impossibilità di modificare il testo costituzionale, introduca il concetto di «attacco preventivo» (analogo a quello sbandierato dall’ex presidente Usa George W. Bush nei primi anni Duemila) nella nuova Strategia per la sicurezza nazionale, che sarà promulgata entro il prossimo autunno. Questo concetto, infatti, rischierebbe di erodere il pacifismo giapponese dall’interno, offrendo il fianco a un’ulteriore, e soprattutto più offensiva, corsa al riarmo. Nondimeno, anche un riarmo sotto l’egida statunitense, soprattutto in una fase di inasprimento delle relazioni internazionali, rischia di spingere l’Impero del Sol Levante verso un nuovo pericoloso imperialismo.

Fratture scomposte

Infine, Marco Zappa ha notato che, in un contesto di declino demografico, dopo tre decenni di stagnazione economica, l’uccisione di Abe da parte del quarantunenne Yamagami Tetsuya ha aperto due piste di riflessione sociologica e socio-politica sul Giappone: anzitutto la commistione tra partiti politici e movimenti religiosi (la madre di Yamagami aveva donato un’ingente somma di denaro alla Chiesa dell’Unificazione, con cui Abe aveva legami indiretti); in secondo luogo, un disagio sociale diffuso, soprattutto tra le fasce di popolazione non coperte neppure dal welfare. Si pensi, per esempio, che la madre di Yamagami, secondo quanto reso noto da Tokyo, ha cresciuto da sola due figli, dei quali il maggiore sarebbe morto suicida, come riporta lo stesso Marco Zappa.

“Mondi e disagi intrecciati nel Pacifico: il caso del Giappone”.

La compresenza di estrema innovazione tecnologica e superstizione arcaica

D’altra parte, il Giappone è caratterizzato dalla costante tensione non solo tra subalternità e autonomia geostrategiche, ma anche tra un forte avanzamento tecnologico accompagnato da uno strenuo impegno nell’innovazione, soprattutto nei settori della robotica e dell’intelligenza artificiale, e consuetudini e credenze arcaiche. Un’altra dicotomia peculiare della cultura giapponese sin da tempi remoti è quella tra tatemae, il volto pubblico, e honne, la vera essenza, ossia la dimensione interiore. Per esempio, nel dibattito pubblico interno, stampa inclusa, non solo non viene affrontato il tema del disagio e del malcontento sociali, ma non si discute neppure del disagio mentale all’interno di una società ossessionata tradizionalmente dalla codificazione e dal controllo, in cui negli ultimi decenni, in particolare con le riforme liberali lanciate all’inizio del millennio, si sono accentuati gli aspetti più disfunzionali, soprattutto quelli legati all’iperproduttivismo. Nel corso dell’intervista a Marco Zappa a Radio Blackout, per esempio, si è fatto riferimento al karoshi, la morte causata da iperlavoro, ma si potrebbe citare anche il fenomeno, emerso con la crisi economica dell’inizio degli anni Novanta, degli hikikomori, individui che trascorrono la propria vita reclusi nelle rispettive abitazioni, contando sui familiari per il sostentamento.

Banzaiii…! ma troppo vecchi per combattere?

In Giappone, dunque, un paese che sin dalla Rivoluzione/Restaurazione Meiji della seconda metà del Diciannovesimo secolo ha saputo conservare intatta la propria essenza, pur in una continua e febbrile metamorfosi materiale, numerose sono le forze contrastanti che covano sotto l’aspetto di un tessuto sociale stabile e controllato. Terreno fertile per le strumentalizzazioni della dialettica imperiale da parte delle forze politiche, anche se quando si parla di disposizione alla guerra non si può prescindere dal cosiddetto fattore umano. In altri termini, anche se Tokyo arrivasse a modificare la costituzione del 1947, non è detto che una popolazione con un alto tasso di senescenza possa favorire l’ascesa di partiti e movimenti che porterebbero il paese a impegnarsi in un conflitto armato.

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Potenze coloniali, mandarini e conseguenze di lungo periodo https://ogzero.org/volpicelli/ Wed, 03 Nov 2021 21:55:31 +0000 https://ogzero.org/?p=5267 All’inizio della fine dell’Impero ottomano  scoviamo in un’intuizione di Luigi Barzini senior le radici del risveglio della potenza cinese nel momento in cui le scelte propulsive di Xi Jinping sono poste sotto pressione a livello globale: la produzione cinese rallenta ormai per il secondo trimestre di seguito; problemi di approvvigionamento, tensioni muscolari nel Pacifico, diminuzione […]

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All’inizio della fine dell’Impero ottomano  scoviamo in un’intuizione di Luigi Barzini senior le radici del risveglio della potenza cinese nel momento in cui le scelte propulsive di Xi Jinping sono poste sotto pressione a livello globale: la produzione cinese rallenta ormai per il secondo trimestre di seguito; problemi di approvvigionamento, tensioni muscolari nel Pacifico, diminuzione dei consumi ancora in seguito alla pandemia, che ha prodotto costi cospicui, hanno colpito l’economia che s’incentra sulla Belt Road Initiative. Dimostrando così che ormai Pechino è centrale negli interscambi e regola il mercato, essendosi inserita in ogni ganglio dell’interscambio e della produzione di beni, come mettevano sull’avviso con lungimiranza Barzini e il mandarino di 4° grado Volpicelli.


Un secolo di “Made in China”

«Noi non abbiamo idea delle grandi forze latenti della Cina, dell’intelligenza acuta, della perspicacia e dell’abilità del cinese. Ma lasciamolo dormire in pace questo immenso popolo sonnacchioso e divertente; sarà tanto meglio per noi. Guardate i giapponesi che cosa hanno saputo fare in poco tempo! I cinesi sarebbero capaci di ammazzare in cinquant’anni tutte le nostre industrie e quelle americane. Quattrocento milioni di uomini instancabili, intelligenti, sobri: ma che vi pare! Troveremo il “made in China” persino in fondo alle nostre mutande» [Luigi Barzini].

Il grande inviato del “Corriere della Sera” Luigi Barzini, 120 anni fa più o meno, aveva capito tutto. Gli era bastato poco tempo in giro per l’Asia per scrivere queste righe di ammonimento che ho ritrovato mentre anni fa andavo alla scoperta di quel mondo per raccontare la storia di un interprete-diplomatico italiano che vi visse buona parte della sua vita adulta. Noi italiani e le grandi potenze occidentali eravamo i conquistatori, i colonizzatori. E Barzini oltre a raccontare le violenze perpetrate contro la popolazione cinese dalle armate civilizzatrici, le stesse che si erano impegnate nel grande continente africano e in America Latina, aveva compreso ciò che molti analisti di oggi non vogliono ancora accettare. Forse perché, come per altre realtà, evitano di leggere la storia.

Scavando per ricostruire le vicende di Eugenio Felice Maria Zanoni Hind Volpicelli mi erano capitate anche altre valutazioni su ciò che stava accadendo e poteva succedere in quel mondo così lontano  e che raccontai nel mio Dante in Cina (il Saggiatore, 2018). Queste le parole di Lord Wolseley, uno dei più grandi generali britannici dell’epoca vittoriana, in un’intervista pubblicata il 6 luglio 1900:

«La Cina ha tutti i requisiti per conquistare il mondo. Ha una popolazione di 400 milioni che parlano tutti la stessa lingua o dialetti comprensibili da un lato all’altro dell’Impero. Ha un’enorme ricchezza in attesa di essere sviluppata. Oltretutto non hanno paura della morte. Comincia con una base di milioni e milioni di possibili soldati come questi e ditemi se ci riuscite quale sarà la fine».

Il protagonista della mia ricerca si era formato in ciò che era, per molti versi, la grande scuola dei colonialisti. L’Orientale di Napoli ha le sue radici nel colonialismo religioso, precursore di quello nazional-economico. Là si preparavano giovani cinesi per estendere la presenza della chiesa e del pensiero cattolico a casa loro. Là, all’ombra del Vesuvio, all’epoca di Volpicelli, ossia nell’Ottocento, vi si istruivano, tra gli altri, gli interpreti indispensabili per la penetrazione della Cina, del Giappone e delle terre contese del Sud asiatico. E per la gestione del bottino. Diplomatici e tecnici, al servizio delle grandi potenze occidentali:

«Quando il governo britannico cercava di stabilire relazioni diplomatiche con la Cina, l’unico posto in Europa dove riuscì a trovare un interprete fu nel Collegio dei cinesi a Napoli», avrebbe scritto il protagonista del mio libro.

Per meglio comprendere le cronache degli scontri, delle tensioni montanti tra la Cina comunista-capitalista proiettata verso il mondo e le grandi potenze che sono le stesse di allora, come l’Europa e la Russia e persino gli Usa, che a cento anni erano ancora relativamente giovani e appaiono oggi, dopo altri cento anni, consumati e sulla difensiva, potrebbe aiutare questo capitolo tratto da Dante in Cina.

Volpicelli presenzia alla cerimonia per il secentenario dantesco a Hong Kong con la fascia rossa al braccio

Console, console generale, Hong Kong e i pirati

Un “raccoglitore di notizie”, come si autodefinisce Volpicelli in un dispaccio diretto ai suoi superiori, non è necessariamente una spia. L’interprete italiano, nel 1898, non era più alle dipendenze delle Dogane imperiali. Dopo quattro mesi tra Siberia e Russia europea era tornato a Roma per essere formalmente reclutato dal servizio consolare del Regno e ricevette le sue istruzioni per una carica amministrativa. La sua giurisdizione – Hong Kong, Canton e tutta la Cina meridionale – aveva un’importanza che andava molto al di là della presenza fisica degli italiani nella regione. Con l’approfondimento delle lingue Volpicelli si era preparato a compiti più vasti di quelli svolti per l’amministrazione delle Dogane. Con i suoi viaggi in Cina, Russia e Giappone si era fatto una conoscenza diretta dei tre paesi; dei costumi e delle usanze della gente comune. Aveva studiato a fondo i loro apparati militari. I suoi contatti si erano estesi anche al di fuori della cerchia stretta dei leader e degli amministratori che aveva frequentato fino ad allora. Nei primi anni dell’ultima decade del secolo, il nostro interprete aveva stupito la vasta comunità straniera di Shanghai con le sue pubblicazioni e conferenze. C’è chi tra gli storici moderni cita ancora i suoi studi e ricerche sugli antichi rapporti commerciali, politici e militari della Cina con il resto del mondo. Molti applausi ebbe dai soci della Royal Asiatic Society parlando del commercio degli arabi con la Cina e dei primi insediamenti coloniali portoghesi: giochi diplomatici e strategie globali come le complesse partite di Wei Yi che da tempo aveva spiegato agli occidentali.

Con il suo corpo alto e atletico, una folta barba che ricordava quella del rivoluzionario russo Bakunin che tanto gli piaceva e anche dell’intellettuale italiano un po’ anarchico De Gubernatiis, imparentato con lo stesso Bakunin, Zanoni entrò con il piede giusto nella colonia inglese in un momento cruciale per la Cina e per chi la voleva dominare. Si fece subito notare per la sua cultura e intraprendenza. Compiva tutte le mosse e i riti che spettavano al nuovo arrivato e anche quelle che non rientravano nel protocollo diplomatico. Gli avvenimenti importanti si susseguivano con una velocità insolita e lui si sarebbe ritrovato al centro non soltanto delle questioni diplomatiche ma anche dell’attività del Corpo di spedizione italiano che si sarebbe unito alle marine delle altre potenze e ai progetti di espansione territoriale europee e del Giappone.

La Germania, arrabbiata per l’uccisione di due missionari tedeschi a Shantung chiese, o meglio impose con la minaccia delle armi, di essere ricompensata con la consegna di Kiano Chow e la sua baia. La Russia occupò Port Arthur, una base navale situata in Manciuria ora chiamata Lüshunkou. La Francia si piazzò a Guangzhouwan, ossia “Baia di Guangzhou”, una piccola enclave sulla costa meridionale della Cina collegata all’Indochina. A giugno, l’Inghilterra ottenne l’estensione della sua concessione di Hong Kong allargando i possedimenti fino a Kowloon e un mese dopo fino a Weihaiwei. A settembre il giovane imperatore Kuang Hsu, fu messo agli arresti nel proprio palazzo, il premier Li Hung Chang fu spedito a casa e l’imperatrice Dowager – un termine in inglese che significa vedova o ereditiera – salì al trono del Dragone. Da lì a poco Londra avrebbe preteso i cosiddetti Nuovi territori per allargare ulteriormente Hong Hong.

Vi è compresa Lantao con la sua cima imponente, radicata nelle tradizioni e nella mitologia locali. Oggi l’isola ospita il modernissimo aeroporto internazionale. I Nuovi territori, tra vasti parchi naturali, una splendida università e zone residenziali edificate nel rispetto dello spazio e anche dell’uomo, costituiscono una magnifica lezione di urbanistica. Centoquindici anni fa, Hong Kong era già una colonia importante alla quale l’Inghilterra aveva dedicato enormi investimenti visibili ancora oggi che l’intero territorio (con uno status di autonomia amministrativa) è stato restituito alla Repubblica popolare cinese.

Volpicelli, prima di approdare a Hong Kong aveva girato per lungo e per largo la Cina, muovendosi tra Canton e Shanghai, tra Macao e Pechino. Conosceva tutti. Era rispettato. Il suo nome era ben noto: circolava anche fuori dal cerchio degli addetti ai lavoro, grazie al giornale inglese di Shanghai. Il North China Herald pubblicava di tutto, dalle notizie più importanti giunte dall’Europa e dagli Stati Uniti, alla cronaca quotidiana dell’Impero. Una rubrica annottava arrivi e partenze, conferenze, nozze e battesimi. Al ballo annuale della comunità straniera di Shanghai dedicarono una pagina intera con i nomi di tutti gli invitati, compresi “i signori Volpicelli”. Sotto il titolo “Funzione interessante”, nel dicembre 1899, i cronisti raccontarono la consegna a un caporale inglese di una medaglia al valore conferitogli dal Re d’Italia per aver salvato un marinaio italiano a Candia, sull’isola di Creta. «Il generale Cascogne pronunciò un discorso e strinse la mano all’eroe e il signor Volpicelli appuntò la decorazione sul petto del caporale. Nel suo discorso il Console espresse la sua alta ammirazione per le qualità splendide dei soldati britannici».

Erano gli anni della nuova colonizzazione e l’Italia voleva la sua fetta. A Roma il parlamentare Angelo Valle aprì una discussione vivace che, diceva, «deve elevarsi ai più alti concetti e ai maggiori interessi dello stato». Era il primo maggio 1899, pochi anni dopo che quel giorno era stato fissato per legge la festa dei lavoratori.

«La Camera decida se vuol seguire una politica, quale spetta all’Italia per le sue tradizioni, per la sua posizione geografica, per lo spirito nazionale, per il suo genio, per la sua intraprendenza e attività — prendendo parte a tutte le questioni mondiali;— oppure — se rinnegando il passato — voglia restringersi nel suo guscio, seguitando una politica che la ridurrebbe all’anemia, alla miseria, all’isolamento…». Angelo Valle guardava nella direzione in cui ci avrebbe portato Mussolini con la sua via dei Fori Imperiali, lastricata di conquiste, crimini e false speranze per il futuro di Roma.

«Vorrà l’Italia, un tempo la prima e più potente nazione colonizzatrice del mondo, rimanere ultima in questo movimento generale? La trasformazione del Mondo è inevitabile; può l’Italia disinteressarsene? L’Italia deve domandare il suo risorgimento economico non alla sola agricoltura, ma altresì all’attività degli scambi, alla sua produzione industriale, quindi la necessità delle colonie allo sviluppo economico di un popolo. Senza colonie non può esservi commercio esterno. Senza una politica coloniale non è possibile a una grande potenza ma ben presto quello immigrante, che perde lingua e nazionalità, A me piacciono colonie che abbiano costumi, leggi, Governo italiano, a seconda del classico concetto Romano, adottato oggi dagli inglesi.

Il mondo comincia a divenir piccolo e quindi è necessario affrettarsi a prenderne la nostra parte. Non dobbiamo spaventarci degli insuccessi in Africa, né prendersi paura dell’ignoto. Né dobbiamo fare della politica coloniale una questione di partito, ma seguire il nobile esempio dei Parlamenti inglese, franasse e tedesco, ove, quando sorgono questioni di politica estera, le opposizioni, meno i socialisti, si affrettano a dichiarare ai rispettivi Governi, che nella politica estera avranno il loro appoggio incondizionato».

E ancora: «La Cina è la grande carcassa dell’Asia, e sei aquile europee e americane vi girano attorno premendosi e spingendosi l’una sull’altra. Essa è destinata ad essere assorbita alle potenze europee, e perché noi non dovremmo averne la nostra parte?…»

Lelio Bonin Longare, sottosegretario agli Esteri, nel corso del dibattito parlamentare offrì una sua interessante intuizione: «…a parer mio, il maggior pericolo che può attendere un giorno gli stati che mettono piede nell’Estremo Oriente per procurarvisi possedimenti territoriali può venire dai cinesi medesimi. Noi troppo spesso, parlando della Cina, dimentichiamo i cinesi, ed è un errore che si spiega facilmente perché succede di frequente a tutti di confondere la Cina ufficiale con la nazione, cinese, o piuttosto con quel conglomerato di popoli è di razze differenti, uniti insieme dai vincoli di antichissime tradizioni, che per comodità di linguaggio si può chiamare nazione cinese».

Mandarino di 4° grado

Volpicelli, console rispettato in quanto rispettoso della cultura cinese

E andò avanti per ricordare un episodio della storia coloniale nel quale Volpicelli, ancora non console e nemmeno al servizio dell’Italia, era stato coinvolto come interprete. «Non dimentichiamo quello che è successo alla Francia nel Tonchino dove i francesi, più che con l’esercito regolare, ebbero a fare con irregolari e con la popolazione. Quella campagna segnò alcune delle date più tristi della storia militare della vicina Repubblica. Ed oggi pure non mancano i segni ammonitori: nel settembre scorso il Kwang-sì era in mano di un esercito di 20.000 ribelli che saccheggiarono ed incendiarono intere città, e nel mese di ottobre il settlement francese di Shanghai era attaccato dalla popolazione e dovette essere difeso dai marinai delle navi ancorate nella rada.

Abbiamo di questi giorni veduti i Tedeschi a Kiao-Tchiao e gli Inglesi a Hong Kong intraprendere spedizioni all’interno per domare alcune ribellioni. Si vede già all’opera l’azione agitatrice di sette politiche, che il Brandt paragona agli Armeni dell’Anatolia, uomini dal più ardente patriottismo e poco scrupolosi nella scelta dei lezzi coi quali possono nuocere ai loro nemici».

Hong Kong nell’estate del 1993, vista dal Peak Victoria. All’incirca dallo stesso punto di vista della copertina.

Volpicelli, per quanto ancora figura dai tratti incerti e misteriosi, era decisamente un anticolonialista (e anche un antifascista al punto da rinunciare alla vecchiaia in Italia e alla compagnia di sua moglie e finire la sua vita in Giappone). Odiava talmente tanto l’espansionismo britannico da apparire agli occhi di Londra come un alleato, quasi un agente della Germania avviata a essere nazista. Purtroppo i giochi ambigui di quel mondo sono ampiamente specchiati in quelli delle diplomazie occidentali di oggi incapaci di affrontare con coerenza e una strategia comune il risveglio di quell’immenso popolo sonnacchioso visto e analizzato poco più di un secolo fa dall’inviato del “Corriere della Sera”.

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Aukus: la Cina pesa pro e contro https://ogzero.org/loperazione-aukus-e-la-disputa-del-mar-cinese-meridionale/ Sat, 25 Sep 2021 08:30:51 +0000 https://ogzero.org/?p=4969 L’operazione Aukus è l’essenza della strategia geopolitica di questo biennio, che rivendica postuma la capacità americana di impostare alleanze volte ad assediare il nemico, al punto di fare figure barbine a Kabul, pur di affrontare la Cina assicurandosi la piena potenza di fuoco per presidiare il Pacifico; anche a costo di offendere i permalosi francesi, […]

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L’operazione Aukus è l’essenza della strategia geopolitica di questo biennio, che rivendica postuma la capacità americana di impostare alleanze volte ad assediare il nemico, al punto di fare figure barbine a Kabul, pur di affrontare la Cina assicurandosi la piena potenza di fuoco per presidiare il Pacifico; anche a costo di offendere i permalosi francesi, suscettibili ai miliardi, ma soprattutto allo schiaffo inferto con la dimostrazione che i giochi si fanno altrove, lontano dalla grandeur parigina. In quell’altrove sulle coste occidentali del Pacifico dove si ordiscono trame, s’inventano trattati, si pongono veti, si tracciano rotte, si affronta il nuovo “pericolo rosso”. Tutto ciò che capita in giro in qualche modo è condizionato dalla profusione di energie da dedicare alla disputa del Mar cinese meridionale.

Della questione dei sommergibili, attorno ai quali si cominciano a vedere i contorni di un accordo più ampio (anche i droni saranno forniti all’Australia dalla Boeing – per spiegare a Parigi qual è il vero livello del Gioco), si sono occupati tutti, ma sempre trattando il problema in un’ottica neocolonialista, pochi hanno provato ad assumere il punto di vista delle potenze locali. “China Files” ci aiuta a colmare questa lacuna: questo articolo pubblicato da Alessandra Colarizi ci sembra evidenziare gli aspetti più interessanti della situazione che vede contrapposti Usa e Cina; e l’intervento di Sabrina Moles (anche lei redattrice di “China files”) su Radio Blackout, di cui proponiamo il podcast, risulta complementare. Con una appendice di affari interni sull’implosione della bolla Evergrande, che completa le questioni che attanagliano Pechino, gettando una luce su manovre strategiche interne alla Cina, ma che si possono analizzare in chiave internazionale ed estendere alla speculazione di tutte le borse internazionali.    


Grandi manovre geopolitiche nell’Asia-Pacifico: da una parte ci sono i raggruppamenti militari di Washington, dall’altra le alchimie economiche di Pechino. Nel mezzo i rispettivi partner asiatici e transatlantici che, chiamati a scegliere tra la sicurezza americana e le banconote cinesi, potrebbero finire per giocare la vera partita sullo scacchiere indopacifico.

Biden l’aveva messo in chiaro: al disimpegno americano dall’Asia Centrale sarebbe seguito un maggiore protagonismo nel quadrante asiatico. La nuova alleanza con Australia e Gran Bretagna – l’ “Aukus” – aggiunge un’altra freccia alla faretra di Washington. Come il Quad e i Five Eyes, la nuova sigla mira tra le righe a contrastare la crescente presenza e influenza militare della Cina nel Pacifico. Ma ha fatto infuriare i francesi, scippati di un accordo militare a nove zeri. L’Unione europea insorge, e non per semplice solidarietà comunitaria. Per la seconda volta dal ritiro statunitense dall’Afghanistan, gli States hanno ignorato l’opinione degli alleati europei. Lo strappo rischia di diventare una voragine.

Oltre la Grande Muraglia si pesano sulla bilancia pro e contro. Dopo l’esclusione di Huawei dal 5G australiano e l’indagine sull’origine del Covid-19, le relazioni tra Canberra e Pechino sono precipitate ai minimi storici. La creazione del nuovo triumvirato è un segnale inequivocabile del disagio provocato dalla crescente assertività cinese tra le potenze medie del quadrante asiatico. Ma non tutto il male viene per nuocere. Vediamo perché.

L’Aukus e la “deterrenza integrata”

Tutto è cominciato a febbraio, quando l’amministrazione Biden ha avviato una massiccia revisione delle forze armate americane a livello globale. Il prodotto finale è una “strategia della deterrenza integrata” che valorizza la fitta ragnatela di alleanze americane. In Asia, dove Washington vanta rapporti storici, le maglie della ragnatela sono piuttosto fitte. Fattore che, oltre a proteggere gli asset militari americani da eventuali attacchi, consente operazioni più vicine al territorio cinese. Oltre a dotare Canberra di sottomarini a propulsione nucleare, l’ “Aukus” si prefigge di rafforzare la presenza americana nella regione. Soprattutto dopo le incursioni marittime cinesi nei pressi di Guam. L’Australia si trova in una posizione particolarmente strategica, in quanto fuori dalla portata dell’arsenale cinese fatta eccezione per i missili a più lunga gittata. Secondo Euan Graham, senior fellow presso l’Institute for International Strategic Studies di Singapore, gli Stati Uniti starebbero cercando di collaudare un format già messo in pratica nei primi anni Quaranta, quando Washington e Canberra combatterono insieme il Giappone durante la Seconda guerra mondiale. La tecnologia cambia negli anni, ma la geografia no. Stando agli esperti, gli States ambiscono a parcheggiare i loro sottomarini a propulsione nucleare nella base militare di HMAS Stirling, a Perth, mentre l’isola australiana di Cocos (arcipelago delle Keeling), nell’Oceano Indiano, fa gola per l’affaccio sulle acque contese del Mar cinese meridionale. Una ridistribuzione delle forze di difesa nell’Asia-Pacifico permetterebbe di compensare nell’immediato la superiorità numerica della flotta cinese, la più estesa al mondo e in rapidissima crescita, per quanto ritenuta ancora meno performante di quella americana. Il tempo è dalla parte di Pechino. Secondo gli esperti, infatti, ci vorranno circa dieci anni prima che Canberra ottenga materialmente i nuovi supersommergibili.

Base militare di HMAS Stirling, a Perth

Il nemico del mio nemico è mio amico

Una “coltellata alla schiena”. Così la Francia ha definito la nuova alleanza tripartita, incassando il supporto dei vertici comunitari. Sentendosi nuovamente tradita dal vecchio alleato dopo il frettoloso ritiro dall’Afghanistan, non è escluso che l’Ue decida di optare per un cauto riavvicinamento alla Cina. Nello specifico, a trovare nuovo slancio potrebbe essere l’accordo sugli investimenti bilaterali (CAI), firmato alla fine del 2020 e congelato dal parlamento di Strasburgo a maggio dopo le tariffe incrociate sullo Xinjiang. Una possibilità remota (considerando il sentimento anticinese di molti eurodeputati), ma non da escludere dato il ruolo svolto da Francia e Germania negli annosi negoziati. Con l’imminente uscita di scena di Angela Merkel, ci si attende sarà proprio Macron – in caso di riconfermata alle presidenziali francesi del prossimo anno – a dettare l’agenda cinese dell’Ue nel prossimo futuro. Dopo il voltafaccia americano, è lecito presupporre una spinta anche maggiore verso l’“autonomia strategica” rivendicata dal blocco dei 27. Da tempo il gigante asiatico cerca di sfruttare le divergenze tra Bruxelles e Washington per aprire una breccia nell’alleanza atlantica. Le recenti frizioni rischiano di depotenziare la strategia indopacifica – presentata da Josep Borrell poche ore dopo la nascita di “Aukus” – che prefigura «modi per garantire dispiegamenti navali rafforzati da parte degli stati membri dell’Ue per aiutare a proteggere le linee marittime di comunicazione e la libertà di navigazione». Evidente riferimento a una presenza più massiccia nelle acque rivendicate da Pechino. Non è ancora chiaro cosa questo implicherà. Ma Parigi sta già ripensando le sue alleanze indopacifiche. Dopo lo smacco inferto da Canberra, proprio in queste ore si discute di una possibile cessione dei sottomarini francesi a Nuova Delhi. È troppo presto per dire se l’ira di Parigi (attenuata dopo la telefonata tra Biden e Macron) avrà ripercussioni più ampie per l’asse Washington-Bruxelles. Lo sapremo probabilmente il prossimo 29 settembre quando si terrà il primo incontro del Trade and Tech Council (TTC), piattaforma lanciata per promuovere il coordinamento su temi come il commercio, lo scambio di tecnologia e la protezione della supply chain, con i “valori democratici condivisi” come unico comune denominatore. L’impressione è che la fiducia sia ormai persa. Ma davanti alla minaccia cinese nessuno vuole rischiare che l’ “autonomia strategica” sfoci in un isolamento diplomatico.

Pechino gioca la carta commerciale

Solo poche ore dopo l’annuncio dell’“Aukus”, la Cina ha ufficializzato la richiesta di accesso alla Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), l’accordo di libero scambio fortemente voluto da Obama col nome di TPP e diventato il ritratto dell’“America First” dopo il ritiro di Trump. La carica simbolica della mossa cinese è quindi fortissima. Non solo Pechino potrebbe appropriarsi di un tassello fondamentale dell’ex Pivot to Asia obamiano. La contromossa cinese mette in evidenza come, davanti allo sfoggio di muscoli di Washington, la seconda potenza mondiale preferisca ricorrere ancora al “soft power”. Nonostante la minitrade war con Canberra, nell’ultimo anno la Cina ha chiuso, tra gli altri, un accordo di libero scambio con la Nuova Zelanda e ha strappato la scena all’Asean guidando le trattative per la Regional Comprehensive Economic Partnership, concluse a novembre. Presa da altro, invece, l’amministrazione Biden non sembra troppo interessata a sedersi ai tavoli negoziali. Per Pechino, invece, sta diventando sempre più un esercizio diplomatico. Molti dei paesi inclusi nel partenariato (come il Canada) hanno conti in sospeso con la Cina. Giocare la carta commerciale può servire a riannodare il dialogo. Per il momento il semaforo è rosso. Canberra – che come ciascuno degli 11 membri attuali ha potere di veto – ha già messo in chiaro che non permetterà un ingresso cinese a meno che Pechino non rimuova le ritorsioni commerciali imposte negli ultimi due anni. A prescindere dall’esito, gli analisti considerano il tentativo una mossa strategica che permetterà al gigante asiatico di rallentare le negoziazioni tra gli altri paesi compresi nella CPTPP, complicando l’ingresso della Gran Bretagna e, soprattutto, di Taiwan, che ha avanzato la propria candidatura solo pochi giorni dopo la Cina.

“Se lo fanno gli altri perché non noi?”

Tra le critiche mosse da Pechino contro l’ “Aukus” c’è quella di catalizzare la corsa all’atomo. Mentre infatti non è previsto siano armati con ordigni nucleari, tuttavia, i famigerati sommergibili saranno alimentati con uranio fornito dagli Stati Uniti e arricchito allo stesso livello usato per le bombe nucleari. “Se lo fanno gli altri perché non dovremmo noi?” potrebbero chiedersi a Pechino. Recentemente, il programma bellico cinese è tornato sotto i riflettori dopo la diffusione di immagini satellitari che identificano centinaia di silos adatti al lancio di missili balistici nucleari dispiegati nello Xinjiang e della Mongolia interna. Durante un incontro dell’International Atomic Energy Agency, Wang Qun, inviato della Cina presso le Nazioni Unite, ha invitato la comunità internazionale ad opporsi all’alleanza trilaterale, definendola un “puro atto di proliferazione nucleare”. Il trattato di non proliferazione nucleare (tpn) del 1968 che proibisce agli stati firmatari “non-nucleari” (come l’Australia) di procurarsi tali armamenti e agli stati “nucleari” (come gli Stati uniti) di trasferire a chicchessia armi nucleari o altri congegni nucleari esplosivi. Sino a oggi Pechino ha continuato ad additare il numero crescente di testate nucleari altrui per giustificare l’espansione del proprio arsenale. E proprio di recente l’ex ambasciatore cinese all’Onu per il disarmo ha suggerito di rivedere la “no-first-use policy”, che impone alla Cina – unica tra i firmatari del tpn – a non utilizzare per prima le armi nucleari contro qualsiasi altro stato.  La contrarietà di Pechino all’“Aukus” trova forza nei timori condivisi dagli altri attori regionali. La Nuova Zelanda ha fatto sapere che la flotta australiana non sarà esonerata dalla messa al bando di vascelli a propulsione nucleare dalle acque territoriali. A sollevare qualche preoccupazione per un possibile riarmo sono stati persino paesi come l’Indonesia e la Malaysia, con cui la Cina intrattiene rapporti non idilliaci. I toni rodomonteschi degli States da tempo mettono a disagio i player regionali, chiamati – loro malgrado – a scegliere tra le due superpotenze. Anziché svolgere una funzione contenitiva, l’ultima mossa di Washington potrebbe persino aiutare il gigante asiatico a ricostruire rapporti di buon vicinato.    


L’ottima analisi sullo specifico di Alessandra Colarizi si può integrare con le considerazioni di Sabrina Moles, che allarga all’intera area lo sguardo proprio partendo da Aukus, affrontando l’implosione di Evergrande, per arrivare a una nuova epoca di interventi per riformare nuovamente il sistema, affrontando le sfide che vengono dall’aggressività americana e dalla consunzione delle prassi interne di creazione di ricchezza: 

“25 La bolla di Evergrande e l’accerchiamento di Aukus: sfide al sistema”.

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Taipei, ossessione cinese in un mare conteso https://ogzero.org/taiwan-e-snodo-essenziale-tra-loccidente-e-il-sogno-cinese/ Wed, 14 Apr 2021 20:33:17 +0000 https://ogzero.org/?p=3084 Taiwan è snodo essenziale nella geopolitica dell’era Biden, che intende recuperare un po’ del prestigio perduto tra i flutti del Mar Cinese meridionale dalla passata amministrazione Trump, soprattutto dopo l’epilogo della disputa hongkonghese, che vede l’isola definitivamente inglobata nella Cina popolare; ora tocca a Taipei. L’isola rappresenta anche il maggior produttore di microchip quasi in […]

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Taiwan è snodo essenziale nella geopolitica dell’era Biden, che intende recuperare un po’ del prestigio perduto tra i flutti del Mar Cinese meridionale dalla passata amministrazione Trump, soprattutto dopo l’epilogo della disputa hongkonghese, che vede l’isola definitivamente inglobata nella Cina popolare; ora tocca a Taipei. L’isola rappresenta anche il maggior produttore di microchip quasi in regime di monopolio per quelli sotto i 10 nanometri – dunque motivo di preoccupazione per l’Occidente, se dovesse finire sotto il controllo di Pechino, che proprio per questo motivo potrebbe trovare ulteriore incentivo alla riunificazione. Di contro l’attuale amministrazione americana sta rivedendo l’approccio, promuovendo assistenza economica, relazioni diplomatiche e traffico di armi con il governo di Tsai Ing-wen. Per questa serie di ingarbugliate risoluzioni strategiche proponiamo l’indispensabile approfondimento storico di Alessandra Colarizi per collocare la nuova guerra che nel prossimo futuro vedrà al centro l’autonomia di Taipei dalla Cina continentale, le cui navi continuano a solcare un mare conteso e i cui piloti volano nei cieli di Formosa.


La guerra tra il Partito comunista cinese e i nazionalisti del Kuomintang (Kmt) è iniziata negli anni Venti, si è fermata durante la Seconda guerra sino-giapponese (1937-1945), per poi culminare, quattro anni più tardi, nella fuga del Kmt sull’isola di Taiwan. Ma la guerra civile cinese, in realtà, non è mai finita. Seppur con modalità e dinamiche diverse, è una guerra psicologica che – senza spargimenti di sangue – continua ancora oggi.

Per gli esperti, il 2020 è stato l’anno più turbolento dalla terza crisi dello Stretto di Formosa, quando tra il 1995 e il 1996 la Cina rispose alla visita negli States dell’allora presidente taiwanese Lee Teng-hui con esercitazioni missilistiche.. Negli ultimi mesi Pechino ha aumentato le sue incursioni nella zona di identificazione aerea di Taiwan (Aidz) con voli quasi giornalieri di aerei spia e jet militari arrivando persino ad attraversare la linea mediana, la frontiera simbolica tra le due Cine rimasta inviolata per settant’anni. Secondo Philip Davidson, comandante delle Forze Usa nell’Indopacifico, un tentativo di riunificazione manu militari – mai escluso dalla leadership comunista – potrebbe concretizzarsi nel giro di sei anni. Verosimilmente, molto dipenderà dalla postura di Washington, tenuto a sostenere l’autosufficienza bellica di Taipei, ma sollevato da obblighi difensivi fin dall’interruzione del Sino-American Mutual Defense Treaty nel 1980, un anno dopo l’istituzione di rapporti ufficiali con la Repubblica popolare.

Negli ambienti militari cinesi circola la convinzione che la pandemia abbia accelerato l’inesorabile declino della potenza statunitense nel quadrante asiatico. Ormai sceriffo senza stella, una volta persa Taiwan, Washington rischia una crisi di credibilità tra gli alleati regionali, che il gigante asiatico punta a cavalcare. «Il timore di un danno frena. L’azione logora. La prospettiva di un vantaggio incita», scriveva lo stratega cinese Sun Tzu. Ma leggere l’escalation tra Pechino e Taipei attraverso il prisma dell’intervento a stelle e strisce è un esercizio tanto intrigante quanto ingannevole. Come ripetono i media statali, quella taiwanese è una “questione interna”. Propaganda a parte, la retorica muscolare della leadership comunista risponde realmente a dinamiche intestine.

Taiwan, questa sconosciuta

Quella di Taiwan è una storia antica ma non troppo. Come spiega sul blog della Yale University Press Bill Hayton, autore di The Invention of China, dall’occupazione giapponese (1895) all’arrivo dei nazionalisti, la mainland non si è data particolare pensiero della sorte dell’isola, considerata all’epoca inospitale e abitata da popolazioni primitive. Nel 1895, un editto imperiale vietò ogni supporto al governatorato locale istituito dalla dinastia Qing una decina di anni prima quando, in virtù del posizionamento strategico per i commerci con le potenze coloniali, Taiwan fu scorporata dal Fokien e resa provincia. Ben 200 anni dopo essere stata annessa al Celeste Impero. Non godette di maggiori attenzioni nemmeno durante il breve esperimento repubblicano di Sun Yat-sen. Nei piani del fondatore del Kuomintang, l’ex Formosa doveva servire come base d’appoggio per sovvertire la decrepita dinastia mancese, ma non venne mai ufficialmente inclusa tra le nuove 22 province, nonostante la Repubblica di Cina rivendicasse confini in larga parte sovrapponibili ai territori Qing. Questa ambiguità di fondo non cessò nemmeno dopo la vittoria comunista. Anziché ambire a una riunificazione, Mao e compagni auspicavano piuttosto che l’isola riuscisse a ottenere l’indipendenza dal Giappone, tanto che durante il sesto Congresso del Pcc il popolo taiwanese venne espressamente definito una minzu (nazionalità) a sé. Posizione mantenuta fino ai primi anni Quaranta. Più precisamente fino all’attacco nipponico di Pearl Harbour e al conseguente ingresso americano nella Seconda guerra mondiale. Solo allora, fiutando l’imminente sconfitta del Sol Levante, i nazionalisti del generalissimo Chiang Kai-shek scorsero nell’isola selvaggia un riparo temporaneo da cui programmare una riconquista della Cina continentale. Sappiamo che questo non avvenne mai. Ma le rivendicazioni del governo “illegittimo” oltre lo Stretto continuano tutt’oggi ad agitare i sonni dell’establishment comunista. «Sacro territorio inalienabile», così la costituzione cinese definisce dal 1982 l’ex Formosa.

Il senso di Pechino per Taiwan

Per capire l’ossessione cinese per l’isola bisogna scavare tra le pieghe della storia recente. Negli ultimi trent’anni, le due Cine hanno preso strade divergenti: una ha rinnegato il dispotismo militarista di Chiang Kai-shek, diventando un raro esempio asiatico di democrazia illuminata. L’altra ha cambiato diversi “Timonieri”, appeso al chiodo la divisa rivoluzionaria, ma ha giurato amore eterno al sistema monopartitico. Generazione dopo generazione l’involucro è rimasto tale e quale.

Ma gli ideali che un tempo ispirarono i fondatori della patria nella lotta contro i nazionalisti hanno ceduto il posto al “socialismo con caratteristiche cinesi”, quel “capitalismo di stato” che, mixando piani quinquennali e imprenditoria privata, ha sì reso la Cina seconda economia mondiale, ma anche provocato effetti collaterali, come corruzione dilagante e diseguaglianze sociali. Il tutto mentre sull’altra sponda dello Stretto molteplici forze politiche si contendono il voto dei cittadini nella cornice di vivaci campagne elettorali. Taiwan rischia di diventare motivo di imbarazzo per Pechino. Non è facile difendere la superiorità del “modello cinese” con una Cina democratica determinata a ottenere un maggior riconoscimento sullo scacchiere mondiale. Soprattutto da quando l’ottima gestione del coronavirus le è valso il plauso internazionale.

Assicurare stabilità sociale e prosperità economica è quanto, fino a oggi, ha permesso alla leadership comunista di mantenere il consenso popolare anche in tempi di crisi ideologica. Ma le incertezze del contesto globale espongono il binomio sicurezza e benessere a rischiose variabili esterne. Lo dimostrano la pandemia e i chiari di luna con Washington. Ecco perché, nella “Nuova Era” di Xi Jinping, il partito/stato si è rivolto al nazionalismo per consolidare la propria legittimità. Complice la fase decadentista vissuta dall’Occidente democratico. Bu wang chuxin (“Non dimenticare l’intenzione originaria”): il monito riecheggia costantemente nei discorsi del presidente, rievocando una concezione paternalistica del potere che, come al tempo della rivoluzione comunista, si serve di una minaccia esterna – reale o presunta – per unire la popolazione e legittimare la propria sopravvivenza.

Il patriottismo “strabico” di Pechino

Per quanto piuttosto efficace, la strategia del fanatismo patriottico come collante sociale non è priva di ambiguità. Cominciata alla fine dell’Ottocento su ispirazione giapponese, la formazione di un sentimento nazionalista oltre la Grande Muraglia non solo precede la fondazione del Partito comunista, ma è anche strettamente associata alle origini del Kmt e ai “tre principi del popolo” di Sun Yat-sen: minquan (democrazia), minsheng (benessere del popolo) e minzu (nazionalismo) inteso come l’unione di tutte le etnie cinesi in chiave antimperialista. Al contempo il processo di costruzione nazionale, avviato nella Cina continentale intorno agli anni Trenta, non riguardò l’isola oltre lo Stretto, all’epoca ancora nell’orbita nipponica. E, sebbene l’arrivo a Taiwan del governo nazionalista in fuga segnò l’importazione del nation building cinese, all’inizio del nuovo millennio l’ascesa del filoindipendentista Democratic Progressive Party ha sancito la formazione di una vera e propria identità taiwanese, arrivando persino a rinnegare le antiche radici cinesi. Da allora il percorso delle due Cine si è biforcato nuovamente, mettendo a rischio la narrazione delle origini condivise promossa da Pechino. Questo strabismo storico si riflette nella rilettura della controversa figura di Chiang Kai-shek. Considerato un tempo “nemico del popolo”, negli ultimi anni l’industria culturale cinese ha cercato di riabilitare la figura del generalissimo nel nome di un comune patriottismo antigiapponese, laddove a Taiwan, negli ambienti più progressisti, si sta cercando di cancellarne ogni traccia. Per molti taiwanesi Chiang è il ricordo di quarant’anni di arresti e stragi indiscriminate. Per il governo comunista, invece, Chiang è la prova che c’è sempre stata “una sola Cina”.

Taiwan e il “Chinese Dream”

Il ritorno alla madrepatria «non può aspettare di generazione in generazione», aveva sentenziato Xi Jinping nel 2013, appena assunto l’incarico di presidente. In quello stesso anno prendeva forma il “sogno cinese”, concetto evocativo che sintetizza l’impegno del partito/stato non solo ad assicurare benessere economico per la popolazione, ma anche a ripristinare lo standing internazionale dell’ex “malata d’Asia” dopo l’umiliazione subita nell’Ottocento per mano delle potenze imperialiste. Concludere definitivamente la guerra civile è strumentale al raggiungimento dell’agognata “rinascita nazionale”. Un obiettivo che passa per la difesa della sovranità territoriale e l’assoggettamento delle aree periferiche del paese ancora refrattarie all’autorità del governo centrale. Ma le proteste di Hong Kong e la sinizzazione forzata del Tibet e della regione islamica dello Xinjiang hanno reso la prospettiva di un’assimilazione politica anche più invisa alla popolazione taiwanese. Diversi segnali suggeriscono un parziale ripensamento di Pechino davanti alla scarsa persuasività della vecchia strategia dell’annessione pacifica a base di isolamento internazionale e corteggiamento economico. La perdita di sette alleati e l’offerta di una semiautonomia in stile hongkonghese non hanno ammorbidito la posizione di Taipei. E il tempo stringe. La Cina ambisce a diventare una “potenza socialista moderna” entro il 1° ottobre 2049, centenario della Repubblica popolare. Ma tappe e obiettivi anche più ravvicinati incombono minacciosi. Andando a ritroso, il 2027 potrebbe già riservare preoccupanti colpi di scena. Nei piani di Pechino, il centesimo compleanno dell’Esercito popolare di liberazione dovrà coincidere con la fine dell’ambiziosa riforma militare avviata nel 2015 per supportare il “sogno cinese”. C’è chi teme che, una volta ottenuti i mezzi necessari, la leadership cinese possa decidere di assumersi il rischio di una guerra con gli Stati Uniti. Chi invece, anche tra le fila dell’esercito cinese, considera un intervento armato uno spreco di risorse utilizzabili per “migliorare il tenore di vita della popolazione cinese”. Vero obiettivo del “Chinese Dream”.

 

Il sogno di Xi

I prossimi due anni potrebbero rivelarsi determinanti per le relazioni con Taipei. Il biennio 2021-2022 vedrà succedersi a stretto giro il centenario e il 20° Congresso del Partito comunista, che sancirà un parziale ricambio ai vertici della nomenklatura cinese. Un momento delicato che, con ogni probabilità, vedrà Xi sfondare il limite dei due mandati con l’intento di continuare a presiedere la roadmap dei due centenari, potenzialmente sine die. Consolidare l’eredità politica del lider maximo cinese pare conti almeno quanto raggiungere l’obiettivo del “ringiovanimento nazionale”. In questo processo Taiwan ricopre un ruolo centrale. Lo dimostra lo storico incontro tra Xi e l’ex presidente nazionalista Ma Ying-jeou, pochi mesi prima che nel gennaio 2016 la vittoria elettorale della leader del Dpp Tsai Ing-wen facesse naufragare ogni speranza di una riconciliazione pacifica.

Per Xi, la riunificazione è una questione personale. Una questione di famiglia, diciamo. Una storia dimenticata racconta di come la guerra civile intersecò le vicende famigliari del presidente. Perché se i media ufficiali amano ricordare le gesta del padre di Xi, il rivoluzionario Xi Zhongxun rimasto fedele al partito nonostante le purghe maoiste, il nonno materno del presidente, Qi Houzhi, militò nel braccio armato del Kmt durante la spedizione del Nord contro i signori della guerra. Un ruolo che gli permise di intercedere per la liberazione della figlia Qi Yun, zia di Xi Jinping, arrestata dai nazionalisti nel 1937 a causa delle sue note simpatie comuniste. Dopo la vittoria delle truppe maoiste, quel gesto paterno protesse Qi Houzhi dalla campagna contro gli elementi di destra. Non è andata altrettanto bene alla famiglia della first lady Peng Liyuan: il padre fu perseguitato per anni dopo che uno zio fuggì con i nazionalisti a Taiwan. Ancora governatore del Fujian – la provincia davanti allo Stretto – nel 2000 Xi riconobbe l’importanza dei trascorsi famigliari nella sua formazione personale. Probabilmente, lo stesso vale per molti altri cinesi. Senza dubbio, ricucire lo strappo con l’altra Cina darebbe a Xi un posto di primo piano nella storia. La riunificazione «è inevitabile», ha sentenziato il leader. La vera domanda continua a essere “come e quando?”.

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Catene di isole nella corrente del grande gioco indopacifico https://ogzero.org/studium/catene-di-isole-nella-corrente-del-grande-gioco-indo-pacifico/ Fri, 31 Jul 2020 07:11:27 +0000 http://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=956 L'articolo Catene di isole nella corrente del grande gioco indopacifico proviene da OGzero.

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Catene di isole nella corrente del grande gioco indo-pacifico

La Belt Road Initiative sembrava inarrestabile. Dopo la pandemia e la definitiva cinesizzazione di Hong Kong il progresso di questo imponente flusso di infrastrutture, vie di comunicazione, isole “create” nell’oceano e ferrovie che corrono nel deserto non sembra aver perso impulso nelle intenzioni di Xi. Questo Studium prende però le mosse dall’ipotesi che cominci a incontrare la resistenza di una rete internazionale, intessuta per imbrigliare i traffici di questa sorta di neocolonialismo cinese… innanzitutto costituita da una cortina stesa a partire dalle intasate miglia del Mar cinese fino ai contesi dirupi del Kashmir.

40%

Avanzamento

Attori europei sul palco indo-pacifico

Riconoscendo il valore economico e geopolitico dell’Indo-Pacifico – dove ha sede il 60% della popolazione e un terzo del commercio mondiale – la Germania sfrutta il riposizionamento nel quadrante per rilanciare il multilateralismo e il libero scambio, invocando un dialogo europeo con la NATO e gli attori regionali, non è l’unico paese del Vecchio Continente ad aver voltato lo sguardo a Oriente.

Nel 2019 anche Parigi parla di “libero commercio”, “multilateralismo” e di un “ordine multipolare” nella zona e l’avvio di trattative per una possibile adesione alla partnership per l’ex TPP da cui l’America di Trump si è sfilata nel 2017 – ha coinciso con l’emergere di indiscrezioni sulla presunta decisione di inviare, per la prima volta, una delle due portaerei britanniche nella regione.

Ultimamente, l’interesse di Bruxelles (che si era dichiarata neutrale) per il quadrante si è esplicitato in un inedito avvicinamento a Taiwan.


Il futuro del quadrante indo-pacifico: porti cinesi come in un filo di perle

Si inaspriscono i rapporti tra i colossi economici mondiali che mostrano i muscoli con operazioni di militarizzazione che in realtà vanno al di là delle questioni dei diritti nazionali rivendicati e rispecchiano i rispettivi interessi economici nell’area indo-pacifica. Questo antico Risiko vede contrapposti per esempio Cina e India (sulla Line of Actual Control che fa da confine ad alta quota) con ripercussioni sul vicino Pakistan, una triangolazione che favorisce gli Stati uniti nella sua Guerra Fredda contro Pechino.

E i conflitti non sono solo in terra ma anche sui mari, dove la conquista dei porti in punti strategici da parte della Cina rende più aspri anche i rapporti con i vicini regionali interessati economicamente a quelle aree che intessono così alleanze di comodo e scatenano l’interventismo americano nella regione. Inoltre gli scontri diplomatici (e non) che riguardano Hong Kong si riverberano anche sugli accordi tra la Santa Sede e Pechino che avevano preso, con l’attuale papa, una strada di riavvicinamento con l’Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi, disaccordi che fanno buon gioco a Washington (e all’India di Modi) nel suo tentativo di arginare la potenza cinese.

Emanuele Giordana analizza in questo Punctum come si sviluppa il gioco globale in questa zona del mondo.


Alla conquista del Mar cinese, un pezzo alla volta

I rapporti tra Cina e Stati Uniti sono sempre più tesi, anche a causa della disputa territoriale nel Mar cinese meridionale – area che ospita un terzo del commercio marittimo mondiale –, che vede la Cina accusata di militarizzare la zona, alimentando il contrasto con altre potenze (Brunei, Malesia, Filippine, Taiwan e Vietnam, e anche con l’Australia che nelle isole del Pacifico ha sempre investito e ora sta assumendo una posizione difensiva con un piano decennale da 270 miliardi di dollari per rafforzare i propri sistemi difensivi) che ambiscono al controllo di quelle zone del Pacifico come gli arcipelaghi delle Paracel e delle Spratly o le isole Marshall e le Pratas.

La Cina, dal canto suo, accusa gli Stati uniti di ingerenza in affari regionali che non li riguardano, ingerenza dimostrata dalle sempre più frequenti incursioni in quel quadrante.


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]]> Collane di atolli, rotte commerciali e cavi sottomarini https://ogzero.org/collane-di-atolli-rotte-commerciali-e-cavi-sottomarini/ Tue, 14 Jul 2020 13:17:36 +0000 http://ogzero.org/?p=574 Lattuga, cavolo cinese, bok choi e molto altro. Non siamo in un mercato di Shanghai, bensì a Woody Island, una delle isole artificiali costruite da Pechino nell’arcipelago delle Paracel, nel Mar cinese meridionale, dove la marina militare cinese ha raccolto 750 chili di vegetali dopo aver reso coltivabili 2000 metri quadrati di spiaggia mescolando alla […]

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Lattuga, cavolo cinese, bok choi e molto altro. Non siamo in un mercato di Shanghai, bensì a Woody Island, una delle isole artificiali costruite da Pechino nell’arcipelago delle Paracel, nel Mar cinese meridionale, dove la marina militare cinese ha raccolto 750 chili di vegetali dopo aver reso coltivabili 2000 metri quadrati di spiaggia mescolando alla sabbia una soluzione a base di cellulosa. Una tecnica messa a punto dagli scienziati della Chongqing Jiaotong University nella Mongolia Interna che permetterà di tenere stabili le forniture alimentari dei soldati dislocati in questo strategico tratto di mare.

Controllata dalla Cina fin dal 1956, Woody Island è uno degli atolli al centro delle dispute territoriali che da decenni coinvolgono le Paracel, la catena delle Spratly, le isole Pratas e altri scogli semisommersi contesi con Vietnam, Filippine, Malaysia, Taiwan e Brunei. A partire dal 2013, il gigante asiatico ha trasformato sette barriere coralline in vere e proprie postazioni insulari protette da missili, di cui tre dotate di piste d’atterraggio “dual use”. Si tratta di un’area che si estende per 3,6 milioni di chilometri quadrati, dalla Cina all’Indonesia, e di cui Pechino rivendica come proprio oltre l’80 per cento sulla base di “diritti storici”.

Undici antichi documenti, presentati in sede di disputa internazionale, proverebbero che già intorno al 210 a.C. la dinastia Han aveva costruito un avamposto amministrativo sull’isola di Hainan, estendendo la propria sfera d’influenza fino agli arcipelaghi menzionati. Le vecchie mappe ingiallite non hanno convinto il Tribunale Permanente di Arbitrato dell’Aia che, chiamato in causa da Manila, nel 2016 ha dichiarato illegittime le rivendicazioni cinesi. Ma la sentenza non è bastata a scoraggiare le pretese di Pechino. Da allora, l’avanzata tentacolare del gigante asiatico nella regione ha continuato a inglobare territori disabitati seguendo la cosiddetta tattica salami-slicing: un pezzetto per volta.

Lo scorso maggio, mentre l’emergenza Covid-19 distraeva i vicini rivieraschi, la situazione nel Mar cinese meridionale è tornata d’attualità dopo che la Repubblica Popolare ha annunciato la creazione di due nuove unità amministrative – il distretto di Xisha, che include le Paracel e il Macclesfield Bank (rivendicato da Taiwan e Filippine), e il distretto di Nansha, concentrato sulle isole Spratly (contese con Vietnam, Filippine, Malaysia, Taiwan e Brunei) – che cadranno sotto l’autorità di Sansha, la città-prefettura istituita nel 2012 su Woody Island e parte della provincia di Hainan. La decisione ha coinciso con l’assegnazione di un nome a un’ottantina di formazioni naturali per la prima volta dal 1983. Secondo indiscrezioni del “South China Morning Post”, la prossima mossa potrebbe prevedere l’istituzione di una “zona di identificazione aerea” (Adiz), come già avvenuto nel Mar cinese orientale, dove Pechino contesta la sovranità del Giappone sulle isole Diaoyu/Senkaku.

Per la Cina, ancora ferita dalle umiliazioni ottocentesche, il Mar cinese è soprattutto una questione di sovranità. Ma, come spesso accade nelle dispute territoriali, all’afflato nazionalistico si intrecciano importanti interessi economici. Secondo dati del 2016 raccolti dal Center for Strategic and International Studies, il Mar cinese meridionale ospita circa il 10 per cento del pescato a livello mondiale e risorse energetiche per un valore di 2500 miliardi di dollari. Un terzo del commercio marittimo globale, il 30 per cento delle forniture di greggio e il 64 per cento degli scambi tra la Cina e il resto del mondo solca le sue turbolente acque. E, con il recente sorpasso dell’Asean sull’Unione Europea come prima destinazione dell’export cinese, il traffico regionale è destinato presumibilmente ad aumentare.

Le manovre cinesi nel cortile di casa potrebbero presto raggiungere le acque dell’Oceano più grande del mondo. L’area contesa lambisce la cosiddetta “prima catena di isole”, un termine preso in prestito dagli Stati uniti che negli anni Cinquanta individuarono nella cintura insulare dalle Curili – tra l’estremità nordorientale dell’isola giapponese di Hokkaidō e la penisola russa della Kamčatka – fino al Borneo, un avamposto per circondare l’Unione Sovietica e la Cina. Il piano non decollò mai, ma la minaccia è ancora presente. Sigillare il tratto di mare tra la costa cinese e il Pacifico è diventata una priorità assoluta per Pechino, specialmente da quando Washington ha incrementato le proprie incursioni nel quadrante in supporto alle rivendicazioni marittime degli alleati asiatici. Una posizione ufficializzata per la prima volta il 13 luglio dal dipartimento di Stato con il comunicato “U.S Position on Maritime Claims in the South China Sea”.

Questo spiega la sempre più frequente presenza di aerei e sottomarini cinesi nel canale di Bashi e nello stretto di Miyako, cerniera naturale tra il Mar cinese e il Pacifico occidentale. Stando alle indiscrezioni della stampa nipponica, il Dragone avrebbe già individuato la prossima preda: il piccolo arcipelago delle Pratas controllato da Taiwan, l’isola “ribelle” che la Repubblica popolare vuole riannettere ai propri territori e che Washington, in assenza di relazioni ufficiali, sostiene militarmente.

Pechino giustifica il proprio attivismo regionale in ottica “difensiva”. Ma lo sfoggio di muscoli soverchia i toni rassicuranti del diplomatichese. Con oltre 330 navi da guerra (ma solo due portaerei), la marina cinese ha superato numericamente quella statunitense (285 alla fine del 2019). E se al vantaggio quantitativo non corrisponde una superiorità in termini di efficienza, vero è che l’epidemia da coronavirus – messa ko la marina a stelle e strisce – ha scoperchiato l’evanescenza della supremazia delle undici portaerei americane in situazioni di crisi. Secondo un rapporto del Congressional Research Service, think tank del Congresso statunitense, l’espansionismo cinese costituisce una minaccia per «il controllo [americano] sulle acque profonde del Pacifico occidentale in stato di guerra».

Più a sud il livello d’allarme non è inferiore. «Is China using its South China Sea strategy in the South Pacific?»: è quanto si chiede il think tank governativo Australian Strategic Policy Institute (Aspi), che in un rapporto spiega come il Pacifico meridionale condivida con il Mar cinese meridionale quattro caratteristiche particolarmente attraenti: è ricco di risorse naturali; ospita atolli disabitati e cavi sottomarini; racchiude snodi strategici per le merci globali; dipende economicamente dalla Cina. Queste somiglianze, conclude l’istituto, potrebbero consentire a Pechino di sfruttare canali scientifici e commerciali come pretesto per migliorare la propria conoscenza del territorio in chiave militare.

Con un pil complessivo di appena 33,7 miliardi di dollari e 10 milioni di abitanti – meno della popolazione della Svezia – le isole del Pacifico sono da sempre stati-satellite di Canberra, che con fare paternalistico ne ha supportato economicamente la sopravvivenza investendo a fondo perduto nei servizi di base – sanità e istruzione in primis –, e difeso la stabilità sociale come previsto da accordi stretti con Stati Uniti e Nuova Zelanda negli anni Cinquanta. È stato così fino a quando, nei primi anni Duemila, la “diplomazia dei dollari” perseguita da Pechino in Africa non ha raggiunto questo remoto angolo di mondo. La svolta ha coinciso con la storica visita di Wen Jiabao, nel 2006, la prima di un premier cinese nelle isole del Pacifico. Da allora, il gigante asiatico ha speso almeno 6 miliardi di dollari nelle repubbliche insulari, per lo più in progetti estrattivi e infrastrutturali. La fetta più consistente risulta concentrata nei sette anni di Belt and Road, il progetto con cui Pechino punta a cementare i rapporti economici e diplomatici strappando assegni nei paesi emergenti. C’è chi le definisce vere e proprie delazioni prezzolate quando si prendono in esame le acque del Pacifico. Qui, infatti, si consuma lo scontro più acceso con Taiwan, “l’isola che non c’è” riconosciuta formalmente ormai da appena quindici paesi, di cui quattro (Palau, Nauru, Tuvalu e Isole Marshall) situati proprio nel “nuovissimo continente”. Le numerose defezioni dell’ultimo anno non sembrano aver alterato la strategia regionale di Taipei, che giorni fa ha annunciato la riapertura della sede consolare di Guam con lo scopo conclamato di «facilitare gli scambi con gli alleati del Pacifico».

La resistenza taiwanese ha implicazioni che trascendono il braccio di ferro tra le “due Cine”. Da anni si teme che l’operosità di Pechino negli arcipelaghi a cavallo tra i due emisferi possa assumere connotazioni militaresche, come avvenuto nel Mar cinese meridionale. Basta pensare alle declinazioni strategiche della stazione spaziale cinesi di Kiribati, le isole sottratte a Taiwan lo scorso settembre. Secondo un rapporto della US-China Review Commission, fortificazioni cinesi nel Pacifico meridionale potrebbero bloccare l’accesso americano alla regione e compromettere la stabilità di Australia e Nuova Zelanda. In tempi di “American First” e crisi epidemica, potrebbero essere proprio i player regionali “minori” a dover dettare una linea comune per arginare l’avanzata di Pechino, prescindendo dalle zoppicanti piattaforme multilaterali istituite da Washington nel cosiddetto “Indo-Pacifico”. Come membro del Quadrilateral Security Dialogue (Quad), Canberra è un frequentatore assiduo del Mar cinese meridionale, sebbene non abbia ancora accolto l’invito americano a condurre “operazioni di libera navigazione”, il provocatorio passaggio entro le 12 miglia nautiche dalle isole contese.

Certo, serviranno capacità funamboliche per tutelare gli interessi nazionali senza sfilacciare le relazioni economiche già pregiudicate dalle polemiche sul 5G e la paternità del coronavirus. Tanto più che il peso cinese nelle dinamiche commerciali del quadrante potrebbe aumentare esponenzialmente se, come ventilato dal primo ministro Li Keqiang, il gigante asiatico – già promotore della Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) – dovesse entrare anche nella Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp), il mega accordo fortemente voluto da Obama quando ancora si chiamava Tpp e da cui Trump ha annunciato il ritiro tre giorni dopo l’inizio del suo mandato. Così, mentre Canberra si prepara a rafforzare i propri sistemi difensivi con un piano decennale da 270 miliardi di dollari, non tutti approvano un coinvolgimento australiano nel braccio di ferro tra le due superpotenze. Almeno non quando implica missioni in acque più lontane.

In uno studio dal titolo eloquente (Australia and the US: great allies but different agendas in the South China Sea), il think tank di Sydney Lowy Institue, ricordando come solo il 20 per cento dei commerci con l’Australia passa per il Mar cinese meridionale, nel 2015 concludeva che, se «lo spirito materno impone di difendere la libertà di navigazione», in realtà «solo gli Stati Uniti hanno veramente interesse a condurre attività militari» nelle acque contese.

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