Mar cinese meridionale Archivi - OGzero https://ogzero.org/regione/mar-cinese-meridionale/ geopolitica etc Tue, 24 Sep 2024 20:48:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Muay 4. Grosso disagio nei passaggi epocali https://ogzero.org/studium/muay-4-grosso-disagio-nei-passaggi-epocali/ Sat, 13 Jul 2024 11:27:12 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12771 L'articolo Muay 4. Grosso disagio nei passaggi epocali proviene da OGzero.

]]>

Dialoghi della Muay Thai 4. La parete in comune tra la Casa degli Usher e la Kanit House

Bollicine di Chanteclaire galleggiano sul Chao Praya

caro Gabbiere,

stiamo facendo scorrere troppo tempo nel flusso dei dialoghi. Ma ora ho un buon pretesto per riprenderli. Con gran facilità per me. Meno per te ma sei l’unico cui mi sento di affidare la decrittazione di un testo che mi ha raggiunto da Bangkok.
È il commento al mio, nostro, Bangkok. Lo ha scritto Maurizio Mistretta “Khunmau”, regista, autore, attore visionario che a me ricorda un po’ Jodorowsky, o forse Artaud. A Maurizio devo l’ispirazione per un capitolo di Bangkok, quello sugli “Utili Idioti”, come il titolo di un suo film.
Ecco quello che scrive. A te la risposta.

Papa Max

Finalmente sono riuscito a comperare il bellissimo libro di Massimo-Morello-BANGKOK, esempio fluorescente di comunicazione diagonale rovesciata. La comunicazione è diagonale per dar modo allo spettatore di visualizzare una realtà dove spazio e tempio [sic] generano un connesso spazio adiacente dove, finalmente anche le rette parallele si incontrano. Con mio sbalordimento totale c’è un capitolo dedicato a un mio vecchio film, Useful Idiots. Qui l’autore ne elogia troppo generosamente la bellezza che sicuramente c’è nascosta tra le pieghe delle stoffe che svolazzano allegramente come le nostre vite. Penso che Massimo abbia colto molto l’aspetto rovesciato del film e meno quello dritto, senza dubbio più convincente e umano e che non voglio rivelare per non svelarlo a coloro che sono desiderosi di gustarselo. L’aspetto sicuramente più curioso di questo splendido libro viola è che l’autore vive tra Bangkok (appunto) e Marsiglia, città divenuta simbolo grazie al suo sapone. Un sapone abbastanza irritante e avaro e spesso poco efficace per la pulizia corporea, tanto che preferisco lavarmi con la più tiepida acqua di sorgente. Nel vuoto centro commerciale in cui girovagavo senza ispirazione, mi è venuta comunque la voglia di comperare con i miei pochi risparmi almeno un esemplare del suddetto sapone, ma niente, non c’era. Avrei voluto urlare qualcosa di inconsulto, ma voltandomi a destra e poi a sinistra e poi ancora a sinistra e poi di nuovo a destra. Niente! Il vuoto assoluto. Erano tutti morti.

#controindicazioni>attenzione il post è in semirovesciata è va letto nello spazio connesso adiacente.

Khunmau

True Mirror

Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri

La chute de la Maison Usher, di Jean Epstein (1928)

C’è grosso disagio nei passaggi epocali

caro Papa Max,
credo che stavolta ti “ribalto” la facilità, interpellandoti sul tuo vissuto a cavallo tra mondi: gli ingredienti si prestano se impastellati nel surrealismo un po’ crudele con cui si è affrontato un aspetto non secondario del tuo lavoro su Bangkok… Ma andiamo con ordine.

Fando y Lis, di Alexandro Jodorowski (1968)

Il mito sacralizza il tempo, in questo caso direttamente divenuto tempio nel refuso che rende Kronos luogo di culto, territorio sacralizzato che fa da tramite verso un tempo diversamente perduto nel mito di uno spazio che fino a un certo momento si percepisce come contiguo e a tratti visitabile… anche quello dell’esotico, sia esso focese che siamese; il rito sacralizza invece lo spazio, in questo caso adiacente, parallelo, borgesiano… scomparso con lui, che per proprietà transitiva latina, sfocia in Fando y Lis, il paese dei desideri distopico di Jodorowski, il cileno che accortamente cogli come figura di crudeltà surreale che insapona, rendendo sfuggente Khunmau, inglobato in altri miti lisergici perduti da una generazione che si trova “nuda” alle soglie di un nuovo cambio epocale, senza attrezzatura: abbiamo dissolto tutto (ideologia e suo superamento, Storia e sua fine, narrazione e “comunicazione diagonale”, giovanilismo e gerontocrazia, prima combattuta e poi incarnata pervicacemente), svuotando il centro commerciale.

Sono comunque tutti mezzi di sacralizzazione di spazi e tempi non più raggiungibili nella loro forma auspicata e che fanno da ingresso nello specchio (Cocteau a monte di tutti questi transiti da un universo all’altro?), un riflesso di un mondo che sta lasciandosi alle spalle molte sue espressioni nel passaggio epocale facendo così trionfare il disagio, il malessere, lo smarrimento dati dall’assenza di ciò che, con un nuovo atteggiamento, può subentrare al vecchio che non se ne va e come nella versione di Epstein (non Netflix!) della Chute de la Maison Usher rischia di trascinarsi nella tomba in un unico gorgo chi è vicino e non riesce a sottrarsi all’abbraccio dell’usura… e che nemmeno il vecchio sapone di Marsiglia  può emendare, perché – come era scritto sui muri torinesi degli anni Settanta di un quartiere allora multiclassista e che ospitava uno dei più radicali Circoli del proletariato giovanile (i sopravvissuti dei Cangaceiros del Parco Rignon sono pochissimi, decimati dalla perdizione della persecuzione dello stato, della droga, del degrado neoliberista… della sconfitta): “La morte, quantitativamente sconfitta dai progressi della medicina, si impone qualitativamente nella sopravvivenza”. Pervade di sé ogni anfratto del racconto, per quanto lo si rovesci e si tenti di porlo in salvo in un universo sempre parallelo, che ancora non si manifesta con la parvenza del nuovo, che ancora non appare nel Mu (il vuoto), mentre il vecchio opera per trascinare con sé le vestigia del suo mondo consumato del tutto.

E allora ti chiedo, caro Papa Max, quel mondo rovesciato contiene insieme i Quai – Vieux Port marsigliesi di Izzo, riattati alla plastificazione della movida e i vuoti grattacieli che riempiono lo spazio del loro nulla disabitato divorandosi lo skyline di Bangkok come nella copertina del tuo splendido libro? è l’incubo che inquieto scruti sulla soglia del mondo adiacente quando riversa l’acqua del porto focese nel Golfo del Bengala? Si possono mescolare le acque senza apparire ridicoli?

el Gaviero

1. Vietnam cristallizzato 2. Il sesso altrui 3: Eclissi imperiali e riflessi di Orientalismo I Dialoghi della Muay Thai

Segui tutti i contenuti attinenti a questo Studium

L'articolo Muay 4. Grosso disagio nei passaggi epocali proviene da OGzero.

]]> Muay 3. Riflessi di Orientalismo https://ogzero.org/studium/muay-3-riflessi-di-orientalismo/ Fri, 29 Mar 2024 15:22:57 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12438 L'articolo Muay 3. Riflessi di Orientalismo proviene da OGzero.

]]>

Dialoghi della Muay Thai 3. Eclissi imperiali e riflessi di Orientalismo

La Rovinosa Caduta dell’Occidente

«Non si possono mescolare acqua e fuoco. Se l’occidentale si comportasse come un orientale diventerebbe ridicolo, e viceversa… Costruire ponti falsi o illusori sopra abissi vaneggianti è cosa inutile». Così scrisse Carl Gustav Jung, che pure dall’Oriente aveva tratto ispirazione.

Oggi quelle parole sono purtroppo superflue, forse inutili; perché gli occidentali non cercano di comportarsi come un orientale, si comportano come credono si comporterebbe un orientale. Non cercano ponti, cercano conferme alle loro illusioni.

Quei giovani, squallidi occidentali, in genere in acconciatura rasta e larghi pantaloni a disegni d’elefanti oggi tanto in voga, che chiedono l’elemosina di fronte alle stazioni della metropolitana di Bangkok ne sono un perfetto esempio. Li chiamano begpacker, contrazione di “begging” e “backpacking”, chiedere l’elemosina e viaggiare zaino in spalla. Credono o fanno finta di credere che la povertà sia davvero un ponte sull’abisso che separa la loro fantasia della povertà dalla povertà reale di chi magari vive in uno slum della citta degli Dei. Né comprendono che la loro falsa povertà non è considerata dai passanti come una prova d’ascetismo, di rinuncia. Nella migliore delle ipotesi sono considerati dei reietti, perché un occidentale, per definizione, non può essere povero. Non secondo i canoni di un orientale. E difatti non lo è. Tanto più considerando che l’elemosina non è richiesta per mangiare bensì per acquistare un biglietto di ritorno a casa o per continuare il viaggio. In altri casi quell’atteggiamento è considerato offensivo nei confronti dei locali, di quelli davvero poveri. Se poi quell’occidentale è davvero povero, beh, allora questa è la manifestazione di un karma orribile.

Altra categoria destinata a vedere infrangere le proprie illusioni è quella dei cosiddetti fighters. Dal fisico scolpito, i muscoli che animano tatuaggi di tigri e dragoni, sono qui per allenarsi nella Muay Thai, inseguono il sogno di trasformarsi in guerrieri, diventare campioni nei circuiti di Mixed Martial Arts. Per molti di loro il sogno si infrange subito, sgomentati dalla sorpresa quando vengono messi al tappeto da un thai molto più basso, magari con un po’ di pancetta, che ride allegramente al rumore della loro caduta. A sconfiggerli non è stato quel piccolo thai, è stata la loro arroganza, l’incapacità di sopportare il dolore, la sofferenza. Lo spirito stesso con cui affrontano un combattimento: anche quando si allenano non lo vivono con divertimento, sanuk, sono sopraffatti dallo spirito di competizione. Forse è per questo che fanno tanto rumore quando sono atterrati, perché sono grossi e perché con loro cade un grosso pezzo dell’Occidente.

Papa

Begpacker

Just a Perfect Day

De rerum natura Iuxta Propria Principia

Ogni cultura persegue i propri principi di giustizia secondo la propria natura… ma Bernardino Telesio non scriveva immerso in un mondo condizionato da decenni di globalizzazione pervasivi e con la produzione culturale regolata solo dalla moda mondiale: giungendo alla fine della fine del pensiero speculativo non resta che l’indistinto insito nel mondo a cui si ambisce di appartenere come maschere ridicole dello stereotipo.

Quando Simmel scriveva il suo saggio sul sistema della Moda durante il primo declino dell’impero moderno, con la Finis Austriae l’innamoramento per la supposta cultura orientale produsse un ibrido accattivante che non creò un ponte, significò solo il riflesso di stereotipi che l’occidente immaginava di proporre come “Orientalismo”, trasponendoli; ma non ne coglieva l’anima.

Le rivisitazioni meno snaturanti non scimmiottano le espressioni più esotiche di una cultura aliena; sono piuttosto frutto di meticciato, che ha bisogno di lunghi periodi di condizionamento reciproco a originare una crescita educata su principi comuni. Infatti nella commistione non ha diritto di cittadinanza la hybris che smarrisce gli smargiassi tatuati che si approcciano alla Muay Thai senza condividerne l’anima.

L’adesione all’esotico per Wenders trova in Perfect Day la sua misura calibrata nella esibizione di una quotidianità di un alter ego nipponico che ha recuperato un proprio preciso profilo autoctono di riferimento in un quartiere della Tokyo popolare dove abitare una casa di legno a un piano, con i soji, dormendo sul tatami e arrotolando meticolosamente il futon al risveglio, mangiando nei dì di festa in una piccola locanda famigliare… ma nei feriali in uno street food di un centro commerciale di stampo americano. E infatti ascolta su vecchie cassette solo musica americana degli anni Settanta (da cui il titolo ispirato da Lou Reed), prende sonno leggendo Faulkner e Patricia Highsmith (da cui il regista aveva tratto L’amico americano) e lavora con il fondale dei grattacieli, piovuti con la sconfitta dell’impero di Hirohito e la sudditanza nipponica allo stereotipo culturale dell’Occidente vincitore. L’olocausto nucleare estinse la società zen descritta da Ozu e le sue ombre sono impercettibilmente disperse dalla scheggia di un riflesso, il komorebi, unico possibile tra i giochi di luce delle innumerevoli foglie che filtrando lo splendore del sole non scardinano ma “orientano” la percezione del protagonista nippo-americano in direzione di un compiacimento contenuto, ottenuto dalla semplice raccolta di quel luccichio casuale e rappacificante.

el Gaviero

1. Vietnam cristallizzato 2. Il sesso altrui 4: La parete in comune I Dialoghi della Muay Thai

Segui tutti i contenuti attinenti a questo Studium

L'articolo Muay 3. Riflessi di Orientalismo proviene da OGzero.

]]> Muay 2. Il sesso altrui https://ogzero.org/studium/muay-2-il-sesso-altrui/ Fri, 29 Mar 2024 14:25:08 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12431 L'articolo Muay 2. Il sesso altrui proviene da OGzero.

]]>

Dialoghi della Muay Thai 2. L’erotizzazione dell’esotismo

Del Sesso e di altri Spiriti

Il sesso. Se vivi in Thailandia devi essere preparato. Prima o poi, più prima che poi, in modo più o meno sottinteso, malizioso, ammiccante, interessato, curioso, scandalizzato, ti chiederanno informazioni sul tema, accademiche o pratiche. Tanto più se il sesso è quello dei kathoey, i travestiti o transessuali (definiti anche Lady-boy) che in Thailandia rappresentano davvero un terzo genere, integrati (anche se spesso in modo caricaturale) in tutti gli strati sociali. Il Gabbiere, glielo riconosco, non ha mai sollevato l’argomento e prima o poi dovremo dialogare sul perché non l’abbia fatto. Ma anche lui ha manifestato una certa curiosità quando gli ho detto che sarei andato a vedere uno spettacolo di kathoey. «È il nostro prossimo dialogo», ha detto subito. Dal canto mio questo era un altro buon motivo per andare al Golden Dome, il teatro simile a un castello delle fate, dove viene messo in scena lo show. Non c’ero mai stato e forse anche questa lacuna meriterebbe un approfondimento.

Lo show, in realtà, mi ha abbastanza deluso. Piume di struzzo, costumi luccicanti, luci colorate. Ma in tono piuttosto dimesso. Alla fine mi è sembrato uno spettacolo per famiglie, qualcosa più simile ai varietà televisivi anni Sessanta che agli spettacoli en travesti allestiti nel quartiere parigino di Pigalle (sempre in quegli anni, in realtà). Più interessante il pubblico: per la maggior parte comitive di turisti cinesi, che sembravano apprezzare soprattutto le scenette comiche recitate in mandarino. C’era anche una famiglia musulmana che se n’è andata prima della fine e un gruppetto di occidentali imbarazzati al passaggio dei Lady-boy che invitavano a toccare tette e culi: i momenti di massima trasgressione dello spettacolo.

Intanto, io pensavo a come tutto questo potesse diventare oggetto di un dialogo col Gabbiere. Certo, poteva essere il pretesto per considerazioni sul concetto di sesso in Oriente e Occidente, sul paradosso dell’estremo pudore in un paese dove il sesso non è peccato, sulla trasgressione e sull’accettazione, su morale e moralità (tema che stavo ritrovando in un saggio di René Guenon: Oriente e Occidente). Ma nulla di tutto questo mi convinceva. Una vaga ispirazione m’era venuta sulla via del ritorno: la grande strada che porta al Golden Dome, nel quartiere di Huai Khwang, infatti è delimitata da una quinta di imponenti edifici che sembrano alberghi di lusso e che sono invece i più grandi bordelli di Bangkok. Eufemisticamente definiti centri di entertainment. Uno di questi, nei giorni successivi, è stato chiuso dalla polizia per il sospetto che sia uno dei centri di riciclaggio di denaro sporco delle Triadi cinesi.

Nello stesso quartiere si trova anche un tempio dedicato a Rahu, entità fantasmatica che nella tradizione delle scritture vediche rappresenta l’ombra, l’eclissi ma che può essere assunto a divoratore di incubi. I fedeli ne chiedono la protezione offrendogli fiori neri. Personalmente mi son fatto tatuare l’immagine di Rahu sulla schiena e colleziono sue immagini. Forse è un vezzo, forse lo considero un medium per le mie storie.

Mettendo assieme tutti questi elementi, mi dicevo, potevo cominciare un buon incrocio di storie. In fondo, i dialoghi della Muay Thai sono proprio questo. Poi una volta tornato a casa, mettendo ordine tra idee e appunti ho trovato la storia che, secondo me, mette a segno il colpo.

Mi sono ricordato della passione del Gabbiere per quello che lui chiama il Leucò langarolo. Nel suo esoterico linguaggio si riferisce a Cesare Pavese, ma nella versione dei Dialoghi con Leucò, come descritto da lui stesso, quello che

«Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po’ straccamente e ci sbadigliano un sorriso».

Sono andato allora a guardare se in quei dialoghi ci fosse qualcosa che servisse ad accompagnare una storia di sesso e altri spiriti.

Ecco cos’ho trovato:


  • Leucotea: Non sanno sorridere. 

  • Circe: Sì. Qualcuno di loro sa ridere davanti al destino, sa ridere dopo, ma durante bisogna che faccia sul serio o che muoia. Non sanno scherzare sulle cose divine, non sanno sentirsi recitare come noi. La loro vita è così breve che non possono accettare di far cose già fatte o sapute. Anche lui, l’Odisseo, il coraggioso, se gli dicevo una parola in questo senso, smetteva di capirmi e pensava a Penelope. 

  • Leucotea: Che noia

.

Papa

Oltre il buco della serratura…?

La preda nell’esotismo coloniale

Della tragica comicità del colonialismo erotico 

La sessualità scontatamente “esotica” del topos Bangkok mi solletica una pruderie quasi nulla, ma non tanto per remore seriose – e un po’ retrò – surdeterminate dalla istintiva avversione per certo orientalismo da turisti sessuali (intrisi di miti occidentali su un Oriente inventato). Nulla di così noioso… è più la ritrosia a inseguire il colonialismo anche sul piano dell’approccio sessuale, perché lo spettacolo immagino serva soprattutto all’estraneo al mondo siamese per dare un senso alla naturalezza dei “facili” costumi thailandesi, riconducendolo allo spettacolo inquadrabile in una prassi occidentale di normalizzazione agevolata dalla triste caricaturalità dei kathoey con le paillettes a stemperare la spudoratezza che già in Circe spaventava il langarolo nei suoi Dialoghi con Leucò.

In realtà la scarsa pruderie per le “trasgressioni sessuali thailandesi” affonda in ricordi di famiglia, legati a un cugino gay di mia madre, classe 1931, che nel grigio Fiatnam tra gli anni Cinquanta e Settanta faceva “per hobby” spettacoli en travesti, in cui anche un ragazzino cisgender qual ero non percepì mai alcunché di scandaloso, pur non trovandolo per nulla normalizzato nei suoi intonati gorgheggi da melomane amante della Callas, magari interpretando “Un bel dì vedremo” in kimono. Ecco, da questo ricordo affiora la figura di Cio-Cio san: un riflesso del gusto della sensualità esotica tipicamente coloniale che si costruisce – a partire onanisticamente dalla propria immaginazione – persino una femminilità descritta come asiatica e poi frutto della cultura Art Nouveau, intrisa di “Orientalismo”, che attraverso il motteggio della parodia en travesti sposta il centro dell’attenzione dalla tragicità dell’inganno di Pinkerton alla rappresentazione di una sensualità orientale, frutto dell’attribuzione occidentale, che nella parodia del cugino diventa, seppur diversamente orientata, in qualche modo colonizzata. Lasciando però un buco della serratura attraverso il quale gettare lo sguardo sul fuori-scena, oltre la normalizzazione.

Nella esibizione Trans della tradizione occidentale forse si coglie la differenza culturale della sessualità mitologica trasposta anche nei Dialoghi con Leucò quando si raccoglie lo sguardo spaventato e voglioso del sesso della “belva viva” di Endimione rispetto al rassicurante simulacro inscenato dal Lady-boy orientalista; con cui il cugino Queen aveva comunque in comune una prorompente vis comica che scaturiva da scenette quotidiane che riusciva a rendere esilaranti con due tocchi di battute, da cui la sua natura birichina da Pierino (di nome e di fatto) non poteva astenersi.

E proprio lì trovo che la normalizzazione passi con la complicità della battuta scollacciata che stempera la provocazione dirompente della trasgressione sessuale, creando un ponte (improvvisando una “traduzione”?) per i turisti che cercano una “facile” scorciatoia per comprendere la sbandierata assenza di scandalo sessuale nella cultura siamese; come il motteggio tragico la disinnescava nella esibizione di Pierino 60 anni fa nei cabaret della Torino brumosa che contemporaneamente sugli schermi rigorosamente eterosessuali della Rai di Bernabei si eccitava per l’africanità di Lola Falana – altra forma più esplicitamente coloniale dell’esotismo, in quanto africana: e infatti le coreografie si ispiravano a un approccio proprietario della preda selvaggia. Quella comicità irresistibile dà una regola alla trasgressione: diventa dovunque il tratto autocensorio che crea il recinto adattato a ogni situazione in cui la cultura locale può integrarla, avendola collocata in uno spettacolo (il “castello delle fate”) lontano dalla mimesi, stemperata nella comicità e nel vezzo ammiccante.

Ma forse altri Dialoghi più anticamente autentici delle parodie pavesiane meglio si prestano a superare l’impasse culturale al cospetto della “traNsgressione”: il Quinto dialogo delle cortigiane di Luciano di Samosata, quello tra Clonario e Leena, che svela alla collega la propria esperienza lesbica e il suo incontro con Megilla, una trans che la seduce e a cui Leena si concede con naturalezza anche in chiave saffica.

  • Odo una novità sul conto tuo, o Leena, che Megilla, quella ricca di Lesbo, è innamorata di te come un uomo, e che state insieme, e non so che fate tra voi. Dunque, o Lena, contami tutto, come prima ti tentò, come ti persuase, e in seguito ogni cosa.
    Mi cominciò a baciare come fanno gli uomini, non solo attaccando le labbra, ma aprendo un poco la bocca, e mi abbracciava, e mi titillava i capezzoli. Indi a poco Megilla essendosi riscaldata, si toglie del capo una parrucca ed era capelli naturali, e resta con la testa rasa come una mano, come l’hanno i più robusti atleti. Io mi spiritai a vederla, ed ella: “Hai veduto mai, o Lena, un così bel giovanotto?” – “Io non vedo, dissi, qui giovanotto, o Megilla”. – Ed essa: “Non mi fare femmina, ché io mi chiamo Megillo. Io son nata come tutte voi, ma l’inclinazione, il desiderio, e tutto il resto in me è d’uomo”. – Ed io: “E ti basta il desiderio?” Risposemi: “Statti, o Lenea, se non credi, e saprai che non sono da meno degli uomini: ho un altro strumento che fa lo stesso giuoco: statti, che vedrai”. – Mi stetti, o Clonario, per tante preghiere che mi fece, e mi regalò una bella collana, e un paio di camice fine. Io l’abbracciai come fosse un uomo, ed ella mi baciava, e faceva, e anelava, e mi pareva si struggesse del piacere.

Il testo di Luciano, come sempre i suoi dialoghi scanzonati e cinici, elimina il pathos e non svela l’ob-scene che rimane fuori dalla fotografia: la narrazione lascia intendere che l’approccio al sesso, allora come adesso, è più pragmatico e universale… il resto è per blandire i turisti.

  • Ma cosa faceva, Leena, e in che modo? È questo che voglio sapere!
    Non chiedermi i dettagli, sono davvero indicibili. Al punto che – per Afrodite Urania! – mi sa che non te li racconto!

el Gaviero

I Dialoghi della Muay Thai 1. Vietnam cristallizzato 3. Riflessi di Orientalismo 4. La parete in comune

Segui tutti i contenuti attinenti a questo Studium

L'articolo Muay 2. Il sesso altrui proviene da OGzero.

]]> Muay 1. Vietnam surgelato https://ogzero.org/studium/muay-1-vietnam-surgelato/ Fri, 29 Mar 2024 14:24:14 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12426 L'articolo Muay 1. Vietnam surgelato proviene da OGzero.

]]>

1. Vietnam cristallizzato in universi paralleli

Non nominare il nome del Vietnam invano 

Il Vietnam è divenuto una figura retorica. Una metafora. Un’allegoria, Un’evocazione. Una sineddoche generalizzante o particolarizzante, del tutto per la parte e viceversa. Pur con tante declinazioni è usata quasi sempre a sproposito, conferendole il valore che ha assunto in Occidente. Molto spesso, per esempio, indica una battaglia disperata conclusasi con la sconfitta. Che non sarebbe di certo l’interpretazione che un vietnamita darebbe della guerra combattuta e vinta contro gli americani, “la guerra americana”.

Nell’inconscio collettivo il Vietnam si è trasformato da toponimo a topos. Una mutazione che comincia sul finire degli anni Sessanta quando si intensifica il coinvolgimento statunitense e con questo il movimento di contestazione che diviene un fenomeno politico e culturale globale. La Storia diventa narrazione tre anni dopo la fine della guerra. Nel 1978 escono i film Tornando a Casa di Hal Ashby e Il cacciatore di Michael Cimino. Apocalypse Now di Francis Ford Coppola è presentato l’anno seguente. E così il Vietnam si trasforma in scenario di metafore esistenziali, denuncia politica, tragedie individuali e psicodramma nazionale americano. C’è poi un intermezzo politicamente scorretto con Rambo e Rambo 2 la vendetta (dell’82 e dell’85, entrambi interpretati da Sylvester Stallone). Il tema della “sporca guerra” torna sugli schermi in tutta la sua reale violenza nel 1986 con Platoon di Oliver Stone, seguito nel 1987 dallo straordinario Full Metal Jacket di Stanley Kubrick e nel 1989 da un altro film di Stone, Nato il Quattro Luglio, interpretato da Tom Cruise. C’è poco da stupirsi dell’affermazione di un operatore italiano in Vietnam: «La guerra? È stata un immenso spot pubblicitario».

In questa prospettiva il Vietnam si è cristallizzato in un periodo storico che non comprende né le cause né le conseguenze della guerra. È come se la riflessione, l’analisi fossero un elemento di disturbo, una complicazione inutile. Quanti sanno che l’ultima guerra in Vietnam fu combattuta contro i cinesi in seguito all’invasione vietnamita della Cambogia? Ragionare poi su queste diramazioni geopolitiche ci fa davvero entrare in una dimensione quantica, come se si parlasse di universi paralleli. Il Laos, la Cambogia, la Birmania, la Malaysia, l’Indonesia, la Thailandia, tutte le tessere del domino che componeva lo scenario delle guerre d’Indocina nel quadro della Guerra Fredda sembrano pianeti minori di un’altra galassia, storie di confine. A parte la Cambogia, forse, evocatrice dell’orrore dei Killing Fields. Quelli del film più che dei khmer rossi. I khmer rouges come alcuni, con vezzo sofisticato, ancora li chiamano, quasi fossero alla corte di Sihanouk.

Tutto questo m’è venuto in mente tra un round e l’altro di un allenamento alla Kru Pathee Muay Thai Gym, nome tanto lungo quanto è piccola la palestra appena aperta del maestro, Kru, Pathee. Guardavo le mail sul telefonino e vedevo una sequenza di Vietnam tra i Google alert. Riguardavano “Cirino Pomicino e il suo Vietnam in terapia intensiva”. Qualche giorno dopo, quando già avevo cominciato a riflettere su questa breve storia, sempre tra un round e l’altro di un allenamento, ecco altri Google alert vietnamiti: I Parioli hanno qualcosa di sinistro. Il film può sembrare un Apocalypse Now ai Parioli. Un Apocalypse After!. Intervista a Pietro Castellitto, Benedetta Porcaroli e Giorgio Quarzo Guarascio su Enea, film che racconta una Roma Nord da film di guerra”.

Non conosco il cuore di tenebra dei Parioli, ma in quel momento mi sono apparsi Conrad, Coppola, Marlon Brando, il colonnello Kurtz, Tim Page, il fotografo pazzo del Vietnam che nel film è interpretato da Dennis Hopper, i reporter scomparsi in quella guerra. Requiem.

Papa

Vietnam, il topos a sproposito

Vietnam, vecchio modello generazionale

I periodi di guerra si somigliano tutti 

È il periodare del loro racconto che risulta più o meno edulcorato, più o meno artificiale… più o meno orripilato, a seconda di quanto le industrie belliche e i poteri militari condizionano lo spirito del tempo.

Sono tante le figure – retoriche o meno – che affiorano dal lemma “Vietnam”, non tanto territorio geografico, quanto deposito di memoria generazionale a cui corre qualsiasi situazione bellica, come fosse la Ur-guerra – dopo quelle europee novecentesche – che, segnando la battuta d’arresto (ahimè, temporanea) dell’imperialismo coloniale, nasconde sempre la speranza che faccia da modello per l’ultimo conflitto scatenato in corso e di conseguenza iteri la débâcle dell’imperialismo americano. In questo senso non pare cristallizzato in quegli anni – “formidabili” nel ricordo di Minà, un genio a costruire miti: piuttosto è un paradigma negativo anche per la potenza bellicosa che attualmente bombarda e massacra, partendo dal campo occidentale.

Il primo scatto che evoca il Vietnam è Kim Phuc, la napalm girl fotografata l’8 giugno 1972 da Nick Ut – ho due anni in più di lei e un ricordo nitido di empatia che ha segnato la mia sensibilità per il reportage fotografico (visto due anni dopo da ginnasiale già “politicizzato); non poteva essere diversamente e senza dubbio quel Munch vietnamita ha contribuito a preparare la disfatta Usa innanzitutto nelle coscienze immacolate dei sinceri pacifisti, che poi trovarono conferme nei film di Coppola e Cimino. È la follia conradiana di Kurtz/Brando mescolata alla giustizia sommaria immortalata da Eddie Adams il 1° febbraio 1968 nello sparo del generale Nguyễn Ngọc Loan sul Viet Cong. Una brutalità che Idf ha moltiplicato in modo esponenziale su Gaza, ma evitando che si possa ricondurre il massacro al perpetratore, cautelandosi: Tzahal applica la stessa giustizia sommaria del colpo fissato da Adams nel Vietnam (quello originario – e forse Biden si riferiva a quel loro errore originale e non tanto all’Afghanistan, quando metteva sull’avviso Bibi) e schiaccia il grilletto prima che il giornalista possa divulgarlo… perché il Viet Cong giustiziato si è scambiato di ruolo con il reporter, anzi sono diventati 118 i giornalisti “vietcong” uccisi preventivamente senza nemmeno il particolare di un braccio con la pistola fumante a registrare il gesto tragico da tramandare. Anche Tim Page e Dennis Hopper sono morti, ma da vecchi e non per mano di un drone. La spersonalizzazione del testimone.

Nel decennio successivo il concetto di Guerra Sucia – per eccellenza di marca argentina – trovava il suo compimento a Las Malvinas, restituendo alla retorica coloniale per eccellenza, quella britannica per un po’ il suo ruolo, che poi continua a mettere a disposizione del proprio clone americano. E forse proprio lì comincia a imporsi il pennivendolo embedded, che racconta le guerre dalla parte degli eserciti; nascondendo l’eccidio non si crea horror vacui, ma semplice elencazione di numeri dei sacrificati. La spersonalizzazione della vittima.

Elucubro a seguito del mugugno di Papa puntellato a uno spigolo di uno stanzone in attesa di accedere agli sportelli di un’anagrafe torinese, tra un round e l’altro della burocrazia che sovrintende al conseguimento di un Atto notorio, un corpo a corpo con gli altri individuati da numerini della coda e con il moloch dei documenti, che solo può attestare l’esistenza in vita o in morte. Ben più di un bombardiere che cancella “solo” l’esistenza, lasciando unicamente agente orange, quel napalm – di nuovo un lemma mitico – ancora attivo nella sua missione di sterminio nella regione del Sudest asiatico.

el Gaviero

I Dialoghi della Muay Thai 2. Il sesso altrui 3. Riflessi di Orientalismo 4. La parete in comune

Segui tutti i contenuti attinenti a questo Studium

L'articolo Muay 1. Vietnam surgelato proviene da OGzero.

]]> I dialoghi della Muay Thai https://ogzero.org/studium/i-dialoghi-della-muay-thai/ Wed, 17 Jan 2024 00:03:04 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12307 L'articolo I dialoghi della Muay Thai proviene da OGzero.

]]>

I Dialoghi della Muay Thai

I dialoghi della Muay Thai affiorano dal fastidio per i topoi diffusi dalla sacralizzazione della superficialità; affondano nella convergenza da percorsi diversi al tentativo di incatenare il blob dell’ignoranza che sta debordando dagli schermi della rete, come nel 1958 Il Fluido mortale dalla sala cinematografica e per decenni dalla omonima trasmissione televisiva di Ghezzi.
Un’idea che nasce dagli allenamenti di Max Morello nella palestra di Bangkok, anzi nelle pause, rispecchiate dai corsivi dei dialoghi; il Gabbiere di OGzero ha aderito con entusiasmo a questa forma di confronto che consente di affrontare gli snodi epocali da punti di vista diversi tra loro ma originali rispetto alle banalità diffuse in un periodo di cambiamento, in cui questo non si palesa ancora e il vecchio è soverchiato dal nulla del pensiero.
In queste “botta e risposta” di una lotta verbale può trasparire talvolta il superamento di quei riferimenti asfittici di cui si sente bisogno per liberarsi delle sovrastrutture attraverso le quali ciascuno continua da 70 anni a leggere una realtà che è cambiata nel frattempo, collocandosi in un campo o nell’altro. L’intento è quello di cominciare sommessamente a proporre un’ermeneutica in costante adattamento e costruzione per lasciare alle spalle mondi asfittici e le loro narrazioni, riconducibili a categorie… scontate. Soprattutto le contrapposizioni fondate sul nulla tra Orientalismo e Occidentalismo.
Il criterio ricercato dai Dialoghi del Muay Thai è invece la stramberia.

1. Vietnam cristallizzato 2. Il sesso altrui 3. Riflessi di Orientalismo 4. La parete in comune

Segui tutti i contenuti attinenti a questo Studium

L'articolo I dialoghi della Muay Thai proviene da OGzero.

]]> L’epilogo comune del conflitto armato filippino? https://ogzero.org/conflitto-armato-filippino-l-epilogo-comune-del/ Sat, 02 Dec 2023 01:57:49 +0000 https://ogzero.org/?p=11994 Molto interessante la segnalazione di Gianni Sartori a proposito di un processo misconosciuto dai media mainstream – e anche i portali europei più attenti alle lotte di emancipazione non registrano gli “annientamenti” mirati contro i militanti più storici di una lotta che dura da 50 anni nell’arcipelago filippino. Ci sembra particolarmente significativo descrivere il processo […]

L'articolo L’epilogo comune del conflitto armato filippino? proviene da OGzero.

]]>
Molto interessante la segnalazione di Gianni Sartori a proposito di un processo misconosciuto dai media mainstream – e anche i portali europei più attenti alle lotte di emancipazione non registrano gli “annientamenti” mirati contro i militanti più storici di una lotta che dura da 50 anni nell’arcipelago filippino. Ci sembra particolarmente significativo descrivere il processo di “pacificazione” del conflitto armato filippino con la guerriglia maoista intrapreso dal potere a Manila assimilabile alle modalità in cui si stanno consumando le soluzioni dei conflitti “epocali” in tutto il mondo: il caso più macroscopico anche per quantità riguarda i palestinesi, ma l’esempio più avvicinabile è il lento stillicidio colombiano delle Farc e probabilmente un futuro curdo che si prospetta per le importanti esperienze del confederalismo democratico, così tristemente simile a un passato Tamil; parzialmente diverso è il caso birmano, dove le comunità temporaneamente alleate contro Tatmadaw sono unite da ragioni meno nobili degli altri “eserciti” di liberazione citati.
Una notazione che ci viene dalla proposta grafica che abbiamo trovato come illustrazione dell’intervento: il tratto o l’inquadratura esibiscono tutti una retorica che sembra provenire da un lontano passato che non è riuscito ad aggiornarsi e anche per questo ha perso il suo appeal sui giovani e perciò l’apparato iconografico dei trattati di pace si compiace di ritrarre vecchi esausti che riconoscono che la contrapposizione armata al potere non è una prassi in grado di portare a risultati in questa fase storica.


L’arcipelago in fiamme da mezzo secolo

Distrazione, correlazioni saltate, oppure… repressione globale?

Tra le tante guerre a (relativamente) “bassa intensità” quella che si svolge nelle Filippine non è certo tra le più conosciute o documentate. Fermo restando che sia le lotte per l’autodeterminazione (indipendentiste o meno) che le eventuali “soluzioni politiche” (dal Sudafrica all’Irlanda, dalla Colombia ai Paesi Baschi…), per quanto frutto di ragioni intrinseche (almeno quelle autentiche, non create ad hoc) dipendono anche – o soprattutto – da ben altro. In particolare dal contesto geopolitico. Per chi preferisce: il “campo” in cui schierarsi, volenti o nolenti.
Dalle Filippine, anche nell’anno in corso, sono arrivate notizie soprattutto di scontri tra militari e guerriglieri (in genere comunisti). Scontri che solitamente – stando almeno a quanto si conosce – si concludono a sfavore dei secondi.
Da segnalare poi come sempre più spesso vengano uccisi elementi di spicco (comandanti…). Un segnale di perfezionamento delle operazioni di intelligence?

Intensificazione di esecuzioni mirate

Tra gli episodi più recenti (inizio novembre 2023), la cattura a Barangay Buhisan (San Agustin) di Cristitoto Tejero, comandante in capo del Fronte di guerriglia 19 della New People’s Army – Comitato regionale del Nordest di Mindanao. Il militante maoista (57 anni) era da tempo ricercato per la sua attività guerrigliera e in particolare per l’uccisione di un militare.
Pochi giorni prima, il 26 di ottobre, un altro esponente della Bagong Hukbong Bayan (Npa) da tempo ricercato, Michael Cabayag (Ka Teddy, comandante del Fronte di guerriglia Sendong) era stato ucciso dai soldati del 10° battaglione di fanteria nel villaggio di Carmen (Misamis Occidentale). Nella stessa circostanza veniva catturato un altro militante, Armida Nabicis (Ka Yumi). Tra le armi trovate in loro possesso: un fucile M-16 Armalite, un CZ (AK-47), una carabina M653 e un lanciagranate M-203.

La mattanza di combattenti irriducibili… e “storici”
Un altro esponente di spicco della guerriglia maoista, Ray Masot Zambrano, era stato precedentemente abbattuto a Barangay Obial (Kalamansig) il 10 ottobre.
L’operazione veniva condotta dai militari della 603° brigata di fanteria. Quasi contemporaneamente un altro membro della Npa (di cui al momento non si era potuto accertare l’identità) soccombeva sulle montagne di Buneg (Lacub, Abra).

Ancora più tragico il bilancio del 29 settembre quando almeno cinque esponenti della Npa perdevano la vita nella città di Leon, provincia di Lloilo.
Tra loro la comandante Azucena Churesca Rivera (Rebecca Alifaro, conosciuta anche come Jing).
Nella guerriglia dal 1980, svolgeva funzioni di Segretaria del Fronte sud della Npa -Komiteng Rehiyon-Panay.
Altri due guerriglieri venivano uccisi da una pattuglia di polizia nei pressi dell’aeroporto di Bicol (tra i villaggi di Bascaran e Alobo).
L’ennesimo guerrigliero era deceduto qualche giorno prima a Esperanza (Agusan del Sur) e almeno sei il 21 settembre nel villaggio di Taburgon (Negros occidentale)
Rispettivamente dal 26° battaglione di fanteria e dal 47° battaglione.
I sei maoisti facevano parte del Fronte sud-ovest della NPA. Tra di loro, Alejo “Peter/Bravo” de los Reyes; Mélissa “Diana” de la Peña ; Marjon “Kenneth” Alvio ; Bobby “Recoy” Pedro e il medico Mario “Reco/Goring” Fajardo Mullon.
Quanto al sesto guerrigliero, all’epoca non era stato ancora identificato.
Oltre ad alcune armi i militari avevano recuperato molto materiale propagandistico e politico.

Ancora sei maoisti (altri sei) erano caduti in combattimento il 7 settembre nel corso di una serie di scontri a fuoco con i militari nella zona di Sitio Ilaya (provincia di Bohol) mentre, intercettati a un posto di blocco, tentavano di sganciarsi.

Invece il 20 marzo era stato un sottufficiale dell’esercito filippino a venir ucciso in un conflitto con una decina di guerriglieri della Npa nell’isola di Masbate.

Comunque un doloroso stillicidio, oltretutto senza apparente via d’uscita e che – stando ai dati ufficiali – avrebbe causato oltre 40.000 morti (in maggioranza civili) in circa mezzo secolo.
Ma recentemente, dopo che precedenti trattative si erano insabbiate, è apparso qualche segnale di possibile soluzione del conflitto. Innanzitutto l’amnistia per i ribelli in carcere e poi una dichiarazione congiunta tra il governo filippino e il National Democratic Front of the Philippines (Pambansang Demokratikong Hanay ng Pilipinas), con cui entrambi intendevano ricucire il dialogo bruscamente interrotto sei anni fa dall’allora presidente Rodrigo Duterte (ex guerrigliero maoista).
Buona parte del merito dell’iniziativa andrebbe al presidente Ferdinand Romuáldez Marcos Jr (eletto nel 2022 e che presumibilmente vuole riscattarsi dalle colpe del padre) il cui Assistente speciale Antonio Ernesto Lagdameo è stato nominato Negoziatore governativo.

Il Fronte, coalizione di una ventina di organizzazioni (tra cui, oltre alla Npa, il Communist Party of the Philippines), ne costituisce la “vetrina politica” e attualmente è guidato da Luis Jalandoni, un ex sacerdote (tra i membri anche la Christians for National Liberation da lui fondata).

Altre organizzazioni che ne fanno parte:
Moro Resistance and Liberation Organization (Mrlo), Katipunan ng Gurong Makabayan (Kaguma), Liga ng Agham para sa Bayan (Lab), Lupon ng Manananggol para sa Bayan (Lumaban), Malayang Kilusan ng Bagong Kababaihan (femministe), Revolutionary Council of Trade Unions (Rctu),Pambansang Katipunan ng Mambubukid (Pkm), Katipunan ng mga Samahang Manggagawa (Kasama), Cordillera People’s Democratic Front (Cpdf)
Un eterogeneo raggruppamento tattico di partiti, associazioni della società civile, sindacati e gruppi armati di sinistra, milizie etniche, tribali e altro che per certi aspetti può ricordare l’attuale coalizione antigovernativa del Myanmar.Se non addirittura –almeno in prospettiva, potenzialmente – la situazione del Rojava.

Le pacifiche soluzioni di Oslo

Il 23 novembre 2023 Jalandoni, rappresentante del Partito comunista, e Lagdameo, assistente di Marcos jr., hanno firmato a Oslo una dichiarazione con cui si impegnano «per una soluzione pacifica ed equa del conflitto armato» e per una “pace giusta e duratura”.

Sottolineando «la necessità di unità come nazione per fare fronte alle minacce esterne alla sicurezza», auspicando indispensabili riforme socio-economiche atte a superare l’attuale situazione alquanto disastrata (anche sotto il profilo ambientale).

Scomparse significative: residuali baluardi dissolti nel nuovo ordine globale

Forse ha indirettamente contribuito all’accelerazione del nuovo corso la recente scomparsa in esilio (nel dicembre 2022) del dirigente comunista maoista Jose Maria Sison.
E proprio per il Communist Party of the Philippines e per il suo “braccio armato” (Npa) è prevista una trasformazione in organizzazione politica (analogamente al processo che ha interessato le Farc colombiane).

 

 

L'articolo L’epilogo comune del conflitto armato filippino? proviene da OGzero.

]]>
Lettera22: luoghi e tempi per immaginare il sequel https://ogzero.org/lettera22-luoghi-e-tempi-per-immaginare-il-sequel/ Thu, 09 Nov 2023 16:17:25 +0000 https://ogzero.org/?p=11838 Nell’estate 2023 è uscito dopo una accorta e lunga gestazione, il numero zero di “Lettera22”, manifestazione in forma di rivista del consorzio omonimo di giornalisti indipendenti in occasione del trentennale della creazione del gruppo di professionisti che testimoniano la realtà dove si svolge, essendone esperti di lunga data. La produzione è descritta nell’editoriale come “lento […]

L'articolo Lettera22: luoghi e tempi per immaginare il sequel proviene da OGzero.

]]>
Nell’estate 2023 è uscito dopo una accorta e lunga gestazione, il numero zero di “Lettera22”, manifestazione in forma di rivista del consorzio omonimo di giornalisti indipendenti in occasione del trentennale della creazione del gruppo di professionisti che testimoniano la realtà dove si svolge, essendone esperti di lunga data.
La produzione è descritta nell’editoriale come “lento ruminare” che racconta l’addensarsi dell’esplorazione dello spazio scritto a specchio di quella dei luoghi dove gli eventi, liberati dalle colonne della cronaca geopolitica, fuoriescono per costituire i capitoli di un libro in forma di magazine; l’oggetto dell’esplorazione diventa così una “terra di mezzo”, come esplicitano gli autori che rivendicano l’ibridazione delle forme narrative: dalla graphic novel al saggio sociologico, dal reportage di viaggio al racconto storico immerso in un orto o in un aeroporto al momento dello scoppio di una “operazione militare speciale”… rigoroso, circostanziato, preciso, eppure godibile per la creatività spontanea.
Rilegate in una confezione raffinata le storie graficamente impreziosite dei complici dell’Associazione di giornalisti indipendenti ci portano a spasso per il mondo con storie che si dipanano tra Corno d’Africa e Sudest asiatico, dal preludio al ritorno dei Talebani in Afghanistan all’Italia del fascismo – quello precedente e parallelo alla contemporanea invasione nazista della Serbia descritta nei disegni inediti di Zograf

Alla fine della lettura abbiamo pensato che valesse la pena tornare su alcuni dei luoghi evocati nel libro-fascicolo: ciascuno degli interventi è corredato da un Secondo Tempo, ci sembra che un buon approccio per OGzero per interpretare l’utilità di questa formula editoriale – e proporne un processo di lettura in sintonia con gli obiettivi di entrambe le testate – sia quello di partire dalla realtà in cui si stanno evolvendo ora i processi che troviamo in nuge tra le righe di questo volume e rintracciarvi le tracce o i prodromi; una sorta di Terzo tempo che ritorna sulla meditazione dei testi proposti per rilanciarne la attualità che li ribadisce.


In the mook del giornalismo indipendente

Gli afgani collaterali

Il fascicolo si apre sul quartiere del Politecnico di Kabul dopo il ripristino della shari’a, ma la storia rievocata da Giuliano Battiston insieme al padre della vittima, a cui le illustrazioni pointilliste di Giacomo Nanni conferiscono cromatismi psichedelici, percorre il 3 maggio 2009 una strada vicino a Gozarah…

Illustrazione di Giacomo Nanni

Ora si è richiuso il sipario sul paese abbandonato dalla Nato definitivamente due anni fa, ma quell’episodio di sprezzo per la vita delle popolazioni civili autoctone da parte del contingente italiano ai tempi in cui Ignazio Benito era ministro della Difesa rimane irrisolto e il generale Rosario Castellano ha potuto andare in pensione come generale di corpo d’armata il 28 giugno 2023 senza macchia e con tutti gli onori; solo un ulteriore episodio del corollario di collateral damage, perla lessicale eufemistica coniata da Bush per le stragi perpetrate dagli eserciti alleati. Nei vent’anni di occupazione euro-americana l’Afghanistan è stato oggetto di aiuti che servivano di più alle organizzazioni e istituzioni occidentali, che hanno gestito il paese in maniera diversamente coloniale, spesso con disprezzo per una cultura che nessuno ha voluto conoscere e che le truppe non incrociavano nell’apartheid armato che vigeva e che causò l’omicidio al centro della ricostruzione di Battiston. Il risultato è la diffidenza restituita dagli afgani che si sono sentiti presi in giro e non hanno trovato motivi per resistere al ritorno dei Talebani a seguito di una nuova fuga dopo quelle dei britannici del Great Game e del generale Gromov, mentre attraversava il ponte della Fratellanza, prima crepa sul muro dell’imperialismo sovietico. Le condizioni del paese fanno da sfondo alla precisa restituzione della testimonianza del padre della vittima effettuata da Battiston e si ripresentano invariate: la situazione delle carceri, le spie, l’economia dell’oppio dell’Hellmand sostituita dalla produzione di metanfetamine, la prevenzione inesistente per i disastri dei terremoti (con il corredo di migliaia di morti nell’autunno delle province dell’Ovest), proprio dove operava quel contingente italiano.

OGzero ha frequentato spesso la tragedia afgana e raccolto i racconti dei ragazzi, le cui radici affondano in quella cerniera tra mondo persiano, continente indiano e corridoi per le merci dal mondo cinese al di là dell’Himalaya, da dove sono espatriati quasi vent’anni fa, mantenendo forti contatti con le famiglie, tornando tutti a sposare donne scelte dal clan, a volte ancora nelle case avite di Ghazni, in altri casi già trapiantati a Quetta fin dalla disfatta sovietica. La novità di questo periodo è quella che la diaspora di un popolo espulso dalle sue terre non ha fine e il governo pakistano ha decretato la cacciata degli afgani dal proprio territorio, adducendo il pretesto che molti degli attentati jihadisti sono attribuibili a profughi afgani.

 

 

Ma proprio quei ragazzi hazara ci invitano ad approfondire chi sarebbero quel paio di milioni di afgani che devono lasciare il Pakistan e la loro destinazione, per comprendere meglio il disegno che potrebbe nascondersi dietro il loro rimpatrio. Innanzitutto i senza documenti afgani non stanno a Quetta, ma a Nord e i Talebani afgani saprebbero già dove collocarli: sarebbero destinati al territorio confinante con il Tagikistan e l’Uzbekistan, perché nella regione a maggioranza tagika e uzbeca scarsi sono gli islamisti e la deportazione dei pashtun molto probabilmente affini ai talebani servirebbero a diventare maggioranza in un territorio in cui si è completato un canale, il Qosh Tepa, che dirotta le acque del Amu Darya, in grado di irrigare i terreni desertici e poco abitati, dando opportunità di lavoro a comunità poco rappresentate in zona. Ma soprattutto possono esportare nei paesi limitrofi il radicalismo islamista caro ai talebani, e in particolare l’Uzbekistan potrebbe essere a rischio di infiltrazione, ovvero la nazione a ridosso della quale si trova l’area più arretrata dell’Afghanistan, quella con minori risorse.

Mappa tratta dal volume La grande illusione (Rosenberg &Sellier, 2019)

A proposito di deportazioni e diaspore capitano a fagiolo due dei racconti del “Secondo tempo” di “Lettera22”, quello che vede protagonista Ahmad Naser Sarmast, fondatore dell’Istituto nazionale di musica, chiuso dai talebani provocando la fuga all’estero delle allieve musiciste e il breve racconto da Kandahar, la capitale delle melograne, dove il conflitto si fece aspro quando gli americani precipitosamente restituirono il paese all’oscurantismo e gli agricoltori dovettero abbandonare case e terreni. Ora «la guerra è finita e siamo tornati a lavorare i campi».

Questo avviene più al Sud del paese; al Nord si stanno preparando penetrazioni del jihad verso le repubbliche centrasiatiche, attraverso una possibile “sostituzione etnica”; proprio le due repubbliche che Francia e Unione europea hanno preso in considerazione per imbastire una rete di relazioni commerciali, in alternativa alle risorse minerarie di cui non riescono più ad approvvigionarsi in Africa. E il viaggio di un paio di giorni di Mattarella a Samarcanda non può non avere risvolti strategici in questo senso.

Una serie di dubbi di una serie con troppi spunti e ipotesi, che proprio il cofondatore di “Lettera22” ci aiuta a ricomporre in questo podcast:

“L’ingombrante presenza afgana in Pakistan risolta con l’espulsione?”.

 

Il giornalista a una dimensione: quella in viaggio

Uno dei fili rossi del numero zero di “Lettera22” si può individuare nel reportage, talvolta seguendo itinerari di camminanti alla scoperta di territori; più spesso i paesaggi sono di conflitti e talvolta di intrichi delittuosi; in altri casi si tratta di semplici brevi spostamenti nello spazio, ma sprofondati nell’utopia delle performance voguing inseguita in Germania o dislocamenti lontani nel tempo a disvelare delitti irrisolti nella Lucania insurrezionale postborbonica. Appassionanti comunque, non ci soffermiamo su questi apporti contenuti nel fascicolo solo perché il nostro ambito è già fin troppo ampio delimitandolo alle questioni geopolitiche.

La tassonomia coloniale come classificazione della specie

Illustrazione di Adriana Marineo

Un approccio neanche tanto nascosto tra le pieghe dell’intelligente apporto di Paola Caridi che mette al centro la Sicilia, quella dell’annuncio mussoliniano dell’impero dell’agosto 1937– sembra di assistere ancora una volta alle immagini dell’Istituto Luce – quello dalla vicina Libia e del remoto Corno d’Africa. Entrambe aree non a caso in fibrillazione: 120 anni di storia di un colonialismo (e protettorato dell’Agip/Eni) straccione hanno prodotto scollamento e odio intercomunitario come eredità delle nefandezze. La Sicilia al centro geografico dell’impero che rende colonialismo l’emigrazione, e ora diventa testimonianza di ciò che di quella Palermo hanno lasciato i bombardamenti: Villa Giulia e l’Orto botanico – “colonizzati” ora per contrappasso dall’immigrazione bengalese per praticare il cricket. Quella Sicilia al centro dello schieramento strategico Nato nel Mediterraneo: Sigonella, il Muos… come racconta un altro complice di “OGzero” e “Lettera22”, Antonio Mazzeo.

Come si vede s’intrecciano in poche pagine serie di argomenti che regolano i rapporti mondiali tuttora, affondando le radici in quel precedente regime fascista – e in quell’altra Guerra mondiale –, retaggi della storia che tornano, evocati da quei luoghi che nella storia hanno rappresentato le stazioni di molte tappe. Anche se ora il Giardino coloniale non esiste più fisicamente, però le piante dell’Altro ci hanno conquistato, dimostrando come si ripeta la seduzione eclettica della cultura aliena che aveva ellenizzato la vittoria militare della Roma antica. Ma soprattutto l’aggettivo del Giardino è importante nell’evoluzione dell’articolo di Paola Caridi che si può gustare da pagina 68 di “Lettera22” numero zero: l’approccio coloniale dell’Italia fascista rispunta nella sua brutalità come la gramigna sulla falsariga di britannici e soprattutto degli olandesi descritti da Amitav Gosh a proposito della noce moscata. Scrive l’estensore del saggio:

«L’agricoltura coloniale doveva imporre alle comunità native un modo di coltivare secondo la nostra impostazione agricola. Allo stesso tempo doveva formare tecnici italiani capaci di coltivare le specie locali», a cui nel trasporto in “patria” gli scienziati italiani avevano persino cambiato nome a piante che loro ritenevano di aver “scoperto” e riconducendole alla sistematica classificazione linneana, ma che stavano lì da sempre, con quell’atteggiamento che Gerima, il regista etiope, stigmatizza da sempre: l’imposizione di un punto di vista culturale esogeno che fa della “integrazione” delle Species plantarum un paradigma per quella delle “razze”, per dirla alla Almirante. E infatti nell’articolo di Caridi lo spostamento dall’Orto botanico palermitano a quello romano trova protagonista una donna di origine somala, lingua letteraria italiana e «cosmogonia botanica complessa», che mette in relazione lo stato «sofferente, striminzito, piccolo» di una pianta d’incenso, che erano le stesse condizioni in cui si sentiva l’animo della donna; per poi tornare all’Orto siciliano e lì ritrovare gli insegnamenti paterni e l’originario nome della coltura. Le jacaranda palermitane però sono solo una “citazione lontana” delle strade di Gaza… quando esisteva ancora: forse per non offuscare la bellezza della copia si è operato in modo da cancellare l’originale.

In questa tassonomia non poteva mancare la supponenza bonapartista della reinterpretazione in chiave orientalista della cultura dei popoli attraversati dalle armate francesi:

«Dare un nome alle piante significa non soltanto appropriarsene, ma cancellare completamente una storia. È la storia all’interno di un preciso ecosistema che viene resa invisibile, anche attraverso il “nominare”. E assieme a questo battesimo non richiesto ci son le ramificazioni scientifiche, mediche, culturali».

Le stesse usate da Bonaparte: è la cancellazione degli eventi precedenti all’arrivo del colonizzatore, in modo da restituire una verginità culturale su cui imbastire una narrazione occidentale che faccia sue le risorse altrui. Il pessimo ultimo colonialismo italiano si insediò con le scuole di agraria. Sempre meglio che esternalizzare lager in Albania.

Quel treno per Yunnan

E questo “orientalismo” ci consente di salire insieme a Emanuele Giordana sul Cina-Laos Express, senza provare l’ebbrezza del viaggio verso le terre evocate dall’Orient Express.

Mappa di Andrea Bruno

L’estensore aveva accennato a questo percorso già in un intervento radiofonico (dal minuto 45 di questo podcast) in cui illustrava con evidente ammirazione il percorso ferroviario che porta da Kunming nello Yunnan cinese a Singapore, attraverso Vientiane. Un ramo di quella rete di trasporti che i cinesi hanno inserito nella Belt Road Initiative per omogeneizzare e far crescere l’Asean, aggirando il chockpoint potenziale dello Stretto di Malacca:

“Il mattatoio birmano dopo 2 anni: dati, analisi, prospettive allargate all’Asean”.

Subito il pezzo di Emanuele Giordana si dipana dalla capitale del Laos, ma anche sollevando il velo del tempo sulla prima esperienza degli anni Settanta: facile il confronto… anche perché allora persino la Thailandia era coinvolta dagli Yankee nella guerra al Vietnam. Gli spostamenti e l’attraversamento come sempre relativi alla situazione epocale si alternano nel racconto che è sempre avventura: in questo caso si trascorre da ricordi “stupefacenti” di rivoluzioni e sostanze, monaci e Ak-47, bombe e principi rossi, a taxi carissimi e le difficoltà a muoversi autonomamente; cimeli museali di chemins de fer e “scommesse” (arriveremo a Boten in una delle tappe del treno: «centro del gioco d’azzardo con annessi e connessi») cinesi sul futuro avamposto laotiano, trascorrendo dal periodo coloniale classico al neocolonialismo, attraversando nuvole di oppio che escono dal treno su cui risaliamo a Vang Vieng, dopo una pausa narrativa tutta da godere nel Triangolo d’oro, di cui ancora vagheggiamo in certi articoli. Adesso i divertimenti sono equiparabili a divertifici economici a basso contenuto culturale e infima attenzione ecologica… ma si può proseguire alla tappa successiva Luang Prabang; ma soprattutto il viaggio racconta tante verità sul paese e sulla condizione dei laotiani (e forse di un po’ tutto il Sudest asiatico), che il testimone rileva da par suo: infrastrutture cinesi e platea di consumatori laotiani; appaltatori e tecnologie… ovvero il Bignami della Bri fatto tratta ferroviaria… con tutto il contorno di affari e presenza cinesi.

Illustrazione di Andrea Bruno

E allora si coglie la politica della rieducazione dell’intera area effettuata da Pechino alla propria cultura, alla propria lingua; e il treno – lo insegna il vecchio West e Sam Peckimpah – è fattore unificante e ficcante, utile per diffondere idee e modi di vita ad “alta velocità”.

E così arriviamo a Boten: come Oudom Xai è l’ombelico del mondo ferroviario, così Boten è la fenice locale che risorge sempre dalle sue ceneri… però solo il ricordo del viaggiatore, che negli ultimi decenni è transitato di qui periodicamente, può restituire l’evoluzione del territorio. E Boten è di nuovo un fulgido modello di molte città sul confine di stati, dove è concesso ciò che altrove non si può fare. E intanto il Laos muta la sua natura: ambiziosi progetti cinesi visti dal finestrino tolgono spazio al Laos agricolo e rurale… ma queste lampisterie non sono che alcuni passaggi di un racconto preciso e a tutto tondo dell’evoluzione del paese ai lati della ferrovia… che i cinesi vorrebbero portare fino a Bangkok, e infatti i tailandesi temono il progetto, perché con il treno si estende l’influenza di Pechino.

Ma questa è un’altra storia e vedremo di raccontarla sia con “Lettera22” che nei libri di “OGzero”

L'articolo Lettera22: luoghi e tempi per immaginare il sequel proviene da OGzero.

]]>
Una svolta culturale siamese non solo nelle urne thai: Move Forward https://ogzero.org/una-svolta-culturale-siamese-non-solo-nelle-urne-thai-move-forward/ Wed, 17 May 2023 22:21:48 +0000 https://ogzero.org/?p=11056 I due nostri riferimenti autoriali nel Sudest asiatico ci sono di aiuto per dare il corretto rilievo alla trasformazione in corso nella società thailandese, che ha visto nelle elezioni del 14 maggio l’emersione della volontà di “emancipazione” da parte della componente più giovane e che ha incarnato già nella Milk Tea Alliance preCovid la richiesta […]

L'articolo Una svolta culturale siamese non solo nelle urne thai: Move Forward proviene da OGzero.

]]>
I due nostri riferimenti autoriali nel Sudest asiatico ci sono di aiuto per dare il corretto rilievo alla trasformazione in corso nella società thailandese, che ha visto nelle elezioni del 14 maggio l’emersione della volontà di “emancipazione” da parte della componente più giovane e che ha incarnato già nella Milk Tea Alliance preCovid la richiesta di modernizzazione e il rifiuto dell’Orientalismo; per cominciare ad approcciarci allo spirito che si aggira nella monarchia costituzionale controllata dai militari dal golpe del 2014 riprendiamo un articolo di Emanuele Giordana apparso su “L’Atlante delle Guerre” a cui aggiungiamo una lunga chiacchierata fatta nella mattinata di martedì 16 maggio in Radio Blackout con Massimo Morello, che  vive a Bangkok da alcuni anni e ha le antenne giuste per cogliere alcune sfumature che sfuggono alla maggioranza degli analisti privi delle competenze culturali e sociologiche, da lui acquisite soltanto con l’immersione in quel mondo in fermento.

«Il voto di domenica segna la sconfitta dei militari e l’ascesa del partito Move Forward. Ma servono delle “larghe intese”», è l’incipit del pezzo di Emanuele Giordana: questo avviene per il sistema elettorale, che però – come spiega Massimo Morello – incide solo tangenzialmente, perché in realtà l’approccio thailandese è in grado di aggirare e rendere possibile ciò che la società sente e finisce con l’imporre.


L’aria di rinnovamento che spira a Bangkok…

Il Move Forward Party e il Pheu Thai, due organizzazioni che incarnano l’opposizione tailandese a un’imperfetta democrazia gestita da militari in doppiopetto, sono i due partiti più votati della Thailandia. Hanno vinto le elezioni di domenica scorsa e hanno subito formato una coalizione promossa del Move Forward che dovrebbe assicurare 309 voti al futuro governo, ben oltre la maggioranza richiesta di 250 seggi alla Camera Bassa per poter proporre un nuovo gabinetto. Ma non è così semplice formare un governo in Thailandia.
Trecentosettantasei è il numero su cui si gioca il futuro politico della Thailandia dopo che i risultati del voto di domenica hanno dato la maggioranza ai due maggiori partiti di opposizione umiliando quelli legati ai generali, che per un decennio hanno tenuto in scacco la fragile democrazia siamese. La somma aritmetica e costituzionale che il futuro gabinetto deve ottenere dal voto a Camere riunite è infatti 376.

IL PROBLEMA è che le due Camere, il cui totale fa 750 scranni, sono assai diverse: la nuova Camera Bassa infatti si formerà sulla base del voto del 14 maggio, assicurando poco meno di 300 seggi ai due partiti di opposizione che hanno de facto vinto le elezioni: il Move Forward e il Pheu Thai. Ma la Camera Alta, il Senato dell’imperfetta monarchia costituzionale tailandese, è invece di nomina militare. I 500 voti dell’Assemblea – dove ha vinto l’opposizione – sommati ai 250 del Senato richiedono dunque una maggioranza di 376 voti perché il premier in pectore e il suo governo passino l’esame del parlamento. In buona sostanza i partiti dei militari, dei generali Prayut e Prawit – entrambi ex premier – possono farcela pur avendo raggranellato un’umiliante percentuale (meno di 80 seggi) in un’elezione che, a sorpresa, ha premiato il partito Move Forward di Pita Limjaroenrat (151 seggi) che i sondaggi non davano così in alto nei cuori dei tailandesi; è un partito che vuole riformare la legge durissima che punisce chi critica il re (articolo 112 della Costituzione) ed è un partito che vuole migliorare il welfare. Piace ai giovani ma anche agli imprenditori. Quanto ai senatori però, secondo il “Bangkok Post”, non avrebbero nessuna intenzione di approvare la candidatura di un “antimonarchico” per quanto blando, Ma, mai dire mai. C’è chi potrebbe invece farci un pensierino.
Sarà una marcia longa anche se poi tutto si giocherà a breve: nella capacità del Move Forward di tenere insieme la coalizione appena annunciata con altri 5 partiti, tra cui ovviamente Pheu Thai (in dote porta 141 seggi), di cooptare magari altri cespugli o nella possibilità che si formi alla fine un governo di “larghe intese” che faccia leva anche su parte delle minoranze. O ancora che qualcuno nel Senato, fiutando l’aria che tira, non cambi casacca. All’orizzonte dunque ci sono molte incognite e forse molte sorprese. Compresa l’ombra dell’ennesimo golpe anche se tutti lo ritengono ormai improbabile. E il re? Il monarca attuale, non molto amato nel regno, vorrà dire la sua?

QUEL CHE È CERTO è che dal 14 maggio la Thailandia respira un’aria diversa a cominciare da una partecipazione al voto di oltre il 70% degli aventi diritto. Move Forward poi, erede di un partito espulso dal parlamento e senza ombra di dubbio progressista, ha superato le aspettative: col voto giovanile, col voto di chi non vuole una Paese a democrazia limitata e una monarchia intoccabile, col voto di chi non crede nelle ricette neoliberiste del Pheu Thai (che si ispira al tycoon Thaksin Shinawatra che a capo del partito ha messo la figlia Paetongtarn), col voto di chi è stufo di dinastie, stellette e di un’asfittica libertà vigilata. Ora bisogna vedere se la neo coalizione (310 voti) terrà la strada. Ma una cosa è certa: essendo chiaro che il vincitore è Pita, e con lui l’opposizione, qualsiasi tentativo di scavalcarli non andrebbe liscio come in passato. Fuori dai palazzi c’è una piazza che ha già dimostrato – anche col voto – di voler un cambio.

… quell’aria potrebbe soffiare anche altrove in Asean?

VISTE DALL’EUROPA le elezioni thai possono forse sembrare solo un esotico balletto da cui dipende il destino di 70 milioni di sudditi. Ma visto dall’Asia il voto ha ben altro sapore. Queste elezioni sono state seguite con apprensione dall’India – dove ci troviamo – all’Indonesia, ora presidente di turno dell’Asean, l’organizzazione regionale dove siede – benché sotto schiaffo – anche il Myanmar. Al cambio di vertice a Bangkok corrisponderebbe un cambio di marcia verso la giunta birmana. Pita ha già detto – facendo felice Giacarta – che sosterrà l’Asean e la sua mediazione in 5 punti il che vorrebbe dire forse accantonare l’iniziativa (Track 1.5), caldeggiata da Delhi, che aveva il compito di ammorbidire i rapporti con la giunta. Destinati quindi a inasprirsi. Pita lo ha chiarito a poche ore dai primi risultati mostrando di avere idee molto chiare sulla democrazia. E non solo su quella tailandese. «Sarò premier», ha detto. In molti ci sperano.


A corredo di questa precisa analisi del voto di Emanuele siamo andati a Bangkok a incontrare Massimo Morello per collocare questo risultato nel contesto che lo ha reso possibile e nelle parole del reporter che vive da 15 anni nella capitale siamese si coglie l’intuizione che si tratti della scvolta che la generazione Z sia riuscita a imporre la modernizzazione del costume troppo stretto e anacronistico che la tradizione impone con le sue strutture sistemiche, travolte dallo spirito del paese.

“Move Forward è una vera rivoluzione del costume thai”.

L'articolo Una svolta culturale siamese non solo nelle urne thai: Move Forward proviene da OGzero.

]]>
La guerra birmana esplode al Casinò e uccide a Sagaing https://ogzero.org/la-guerra-birmana-esplode-al-casino-e-uccide-a-sagaing/ Wed, 03 May 2023 21:01:19 +0000 https://ogzero.org/?p=10898 Con il Myanmar OGzero ha un legame particolare fin dallo Studium collegato a Burma Blue, il libro dedicato da Max Morello al paese. Claudio Canal ha scritto un articolo interessante pubblicato su “Volere la Luna“, da dove lo recuperiamo corredato di un’integrazione: un podcast registrato da Radio Blackout con Emanuele Giordana, appena tornato dal confine […]

L'articolo La guerra birmana esplode al Casinò e uccide a Sagaing proviene da OGzero.

]]>
Con il Myanmar OGzero ha un legame particolare fin dallo Studium collegato a Burma Blue, il libro dedicato da Max Morello al paese. Claudio Canal ha scritto un articolo interessante pubblicato su “Volere la Luna“, da dove lo recuperiamo corredato di un’integrazione: un podcast registrato da Radio Blackout con Emanuele Giordana, appena tornato dal confine birmano-thailandese. Le due testimonianze si compenetrano perfettamente nella descrizione informata degli eventi e nella analisi socio-culturale delle comunità coinvolte e degli interessi stranieri sul territorio, le esigenze del riciclaggio e dei traffici, che si combinano con la militarizzazione della società a cominciare dal controllo economico da parte degli eserciti.
Il ministro degli esteri cinese Qin Gang è giunto il 3 maggio in Myanmar, avvicinandosi alla riunione dei ministri della Shanghai cooperation organization, chiedendo anche lì di «mantenere confini chiari e stabili», le stesse parole usate da Xi entrando in medias res belliche; in questo caso mettendo in guardia da una “ricaduta” dell’escalation di violenza nel paese del Sudest asiatico e «reprimere la criminalità transfrontaliera» (Scmp, 3 maggio 2023). Il fatto che abbia
 sottolineato l’importanza di mantenere la stabilità nella regione e di promuovere una “cooperazione amichevole” tra i paesi confinanti risulta comprensibile dalla lettura e dall’ascolto di questi due contributi che vi proponiamo.


I can(n)oni di guerra sembrano lontani se tuonano in Myanmar

C’è una guerra in Europa, ci fa paura e ci divide in opposte tifoserie. Ci sono altre guerre nel mondo, non incutono timore perché ci sono ignote o perché ci abbiamo fatto il callo. Siccome l’arte della guerra gode di uno straordinario successo tra gli esseri umani, pensiamo di riconoscerla ovunque. C’è un paese in Asia, tra i più ricchi di risorse e dotato di una crudele bellezza, la Birmania-Myanmar, in cui è in corso una guerra che interpreta fedelmente i canoni dei manuali novecenteschi: eserciti schierati, bombardamenti aerei, artiglieria, guerriglia.

«Ma è così da più di settant’anni!» afferma chi conosce un po’ la storia di questo paese. Infatti, dal momento dell’indipendenza dal colonialismo britannico nel 1947, quando ci si prepara a inventare la nazione, una parte consistente degli abitanti delle Aree di Frontiera, escogitate e così marchiate dagli inglesi, si oppone senza tentennamenti. Le Aree sono refrattarie al progetto politico che la cultura maggioritaria – i Bamar/Bramar/Birmani, principalmente buddhisti  intende realizzare costituendosi come centro egemone di una nazione mai esistita prima, birmanizzando e, in qualche modo, buddhizzando tutto il resto.

Tradizionali guerre per i soliti traffici “etnici” vs. l’“esercito” del potere

Prendono così avvio le interminabili guerre e subguerre che hanno straziato fino a oggi la Birmania e reso l’esercito birmano, il Tatmadaw, un apparato estremamente distruttivo e la più importante potenza economica del paese, senza che sia mai riuscito a vincere una delle guerre che le forze armate locali gli hanno mosso e che mai si sia confrontato con un nemico esterno. Una forma molto originale di esercizio del potere: la guerra come istituzione costituente, la guerra per la guerra, la “guerra civile permanente”, diremmo noi in Europa. Alcune delle formazioni politiche e militari che combattono il potere centrale lo fanno per salvaguardare la loro diversità culturale, linguistica, religiosa; altre per non perdere gli incassi dalla produzione e coltivazione di metanfetamine, oppio, giada, legno pregiato; altre ancora per entrambe le ragioni. Forse perché non riescono più a immaginarsi a fare altro. Un paese dunque predisposto come poligono di tiro diffuso e residence per dittature militari da cui, nei recenti e limitati anni di democrazia approssimativa, sperava di disintossicarsi.

Le efferatezze di Tatmadaw, coacervo di sangue, narcos e crypto-crony capitalism

Un esercito che si identifica con lo stato, sacralizzato da una storia mitica di eroi guerrieri, «impregnato di crony capitalism cronico», una delle tante “apparizioni” del capitalismo, quello della solida rete di compari e amici degli amici attestati nei gangli economici e finanziari. È un impianto sociale di corruzione generalizzata, costruito sul rapporto servo-padrone, sulla impunità garantita, incapace e non particolarmente interessato a costruire l’unificazione dall’alto del paese mediando tra le molteplicità. Nonostante la sua smisurata forza, gli appoggi e gli armamenti ricevuti da Russia e Cina, a tutt’oggi controlla, a esser larghi, la metà del paese. Un esercito così conformato non impiega solo la mascolina brutalità, ma amministra leve materiali e simboliche che gli consentono di non intimorirsi troppo e perfino di esercitare ancora una egemonia culturale debilitata ma non moribonda.

Tradizionali appoggi monastici in periodi di magre elemosine

La manforte la riceve dal sangha, la numerosissima e autorevole comunità monacale buddhista, di scuola Theravada come altri buddhismi del Sudest asiatico, che si compiace del ruolo di avanguardia politica svolto dai monaci durante la lotta anticoloniale contro gli inglesi nella prima metà del Novecento e della loro a tutt’oggi capillare presenza tra la popolazioneMezza comunità è dedita allo studio e alla meditazione, in attesa di tempi migliori; un quarto è dichiaratamente antiregime; il resto è un segmento militante molto eccitato che ha assunto da diversi anni una posizione ultranazionalista, xenofoba, razzista e di conseguenza entusiasta sostenitrice e istigatrice della giunta militare. Nessuna novità, verrebbe da dire, tutto già visto in Birmania. E non solo lì.

Uno dei territori in cui lo scontro è più rabbioso è la zona centrale del paese, in particolare la regione Sagaing, grande quanto l’Italia Settentrionale. Cioè il cuore culturale e storico della Birmania. Abitato da una popolazione in stragrande maggioranza buddhista, partecipe di un ordine simbolico che fino a non molto tempo fa guidava la birmanizzazione forzata del paese. È la prima volta dal dopoguerra e questa innovazione trasforma in modo radicale la geometria politica nazionale che diventa centro contro centro e non solo centro contro periferia. Una parte dell’insurrezione è condotta dal People’s Defence Force (Pdf), braccio armato del National Unity Government (Nug), il governo in esilio o governo ombra che cerca il riconoscimento internazionale e, soprattutto, l’alleanza con le forze politiche e gli eserciti delle Aree di frontieraNon è detto che ci riesca in tempi brevi, ma il progetto è partito.

La strage dal cielo sulle coste dell’Irrawaddy nel centro del Mandalay

Intanto la guerra in sé e per sé va avanti, bombardamenti a tappeto, villaggi in fiamme, droni funesti, imboscate letali [l’esercito birmano perde in media 100 uomini alla settimana], attacchi alle infrastrutture [giovedì 6 aprile l’aeroporto internazionale di Yangon è stato chiuso nella notte perché colpito da artiglieria], incendio e distruzione delle stazioni di polizia, fuga delle popolazioni coinvolte e fioritura di campi profughi… L’Expo dell’arsenale non chiude mai. Il caos e l’emergenza come regola della vita sociale, in un paese tra i più colpiti al mondo dai cambiamenti climatici. La sofferenza dei viventi non incontra ostacoli. Intanto l’Irrawaddy continua bonario a scorrere lungo i suoi 2500 chilometri, i delfini meditano forse sulla loro estinzione e pure gli operosi esseri umani che condividono la vita del fiume.

E il doppio “gioco” cinese in periferia

Quanto durerà la guerra? Movimenti di riforma interni all’esercito? Torneranno nelle caserme i soldati? Un golpe? Un’implosione generale? Impossibili per ora risposte creative a queste domande. Nuove leadership si manifestano nelle Aree di frontiera. Aspirano, come minimo, a uno Stato molto, molto federale. Nel frattempo, il gigante di confine, la Cina, gioca come al solito su due tavoli. Sostiene e foraggia la giunta militare, e nello stesso tempo sussidia generosamente di armamenti e merci il Kokang e lo “Stato” Wa, regioni della Birmania in lotta armata contro la giunta militare.

Cronaca

Aung San Suu Kyi è in isolamento in carcere nella capitale surreale Naypyidaw a scontare i 33 anni a cui è stata condannata. Gli sgherri sono specialisti in vendetta. La resistenza è anche radicata nei mille gruppi e reti che continuano a far funzionare le scuole, a procurare medicine e a fare quanto è possibile in un welfare dal basso ricco di sorrisi e di delicatezze. Il regime ha appena tagliato 200 alberi di Poinciana reale o albero di fuoco nella 38ª strada di Mandalay, nei pressi dell’incantevole mercato della giada. I suoi fiori rosso fiamma rimandavano al colore della Lnd [Lega Nazionale per la Democrazia], il partito di Aung San Suu Kyi, a cui la via era stata intitolata. Terrorismo vegetale

.

Non essere indeciso,
il detonatore della rivoluzione
sei solo tu, o io.
(K Za Win [1982-2021] poeta,
ucciso dalla polizia durante una manifestazione da lui organizzata contro la giunta, 3 marzo 2021)


 

La malavita cinese naviga sulle coste del Moei tra Thailandia e Myanmar

Emanuele Giordana a sua volta descrive i legami tra tutti i protagonisti in tragedia, senza indulgenza per una fazione o l’altra: la fotografia che si ricava è quella del malaffare generalizzato che non lascia spazio a interpretazioni desumibili da una qualunque etica: gli affari contrapposti animano le rive del Moei e si vedono sorgere città poi abbandonate, dove tutto è consentito, anzi è il malaffare la legge di una terra senza alcuna regola se non quella della truffa e dell’inganno, ora sempre più finanziario, che ha surclassato persino in parte la destinazione d’uso dei paradisi sessuali e del gioco d’azzardo. Manovre ad altissimo livello internazionale sovrintendono all’occupazione del territorio e alla cooptazione degli addetti nella zona del Karen State.

«Con le false credenziali della Belt and Road Initiative – messe in discussione dal precedente governo del Myanmar guidato da Aung San Suu Kyi e pubblicamente sconfessate dall’ambasciata cinese in Myanmar nel 2020 – la città si trova appena a nord di Mae Sot, in Thailandia. Secondo il materiale promozionale, la città avrà “parchi industriali scientifici e tecnologici, aree per il tempo libero e il turismo, aree per la cultura etnica, aree commerciali e logistiche e aree per l’agricoltura ecologica”. Ci sarà anche una struttura per “l’addestramento alle armi da fuoco”. Shwe Kokko è stato anche definito “la Silicon Valley del Myanmar” e una stazione chiave lungo la “Via della Seta marittima”» (NikkeiAsia), parte di un ponte terrestre tra l’Oceano Indiano che permette di aggirare i pericoli e i dazi della navigazione tra gli stretti del Mar Cinese Meridionale, avvalendosi di una ferrovia che unirà lo Yunnan al mar delle Andamane.  

 

“Shwe Kokko e i suoi modelli”.

L'articolo La guerra birmana esplode al Casinò e uccide a Sagaing proviene da OGzero.

]]>
Armi a regimi feroci: storia della diplomazia israeliana in Myanmar https://ogzero.org/armi-a-regimi-feroci-storia-della-diplomazia-israeliana-in-myanmar/ Thu, 27 Oct 2022 16:11:17 +0000 https://ogzero.org/?p=9267 Il 24 ottobre Israele ha bombardato i siti iraniani che riforniscono di armi la Russia: una scelta di campo precisa e non scontata, visti i rapporti tra le due potenze militari di reciproca tolleranza e spesso di collaborazione a prescindere da qualunque considerazione morale, che arriva a otto mesi dall’inizio della invasione dell’Ucraina. Infatti è […]

L'articolo Armi a regimi feroci: storia della diplomazia israeliana in Myanmar proviene da OGzero.

]]>
Il 24 ottobre Israele ha bombardato i siti iraniani che riforniscono di armi la Russia: una scelta di campo precisa e non scontata, visti i rapporti tra le due potenze militari di reciproca tolleranza e spesso di collaborazione a prescindere da qualunque considerazione morale, che arriva a otto mesi dall’inizio della invasione dell’Ucraina.
Infatti è prassi per i governi di Tel Aviv intrattenere traffici con le peggiori dittature e i regimi più brutali, rifornendoli – spesso in gran segreto – di sofisticati sistemi di morte. Attingendo anche a un recente dossier pubblicato su “Haaretz” a firma dell’attivista Eitay Mack e ai dossier dell’attivismo di Justice for Myanmar, Eric Salerno ricostruisce la storia emblematica dei rapporti tra Israele dalla sua nascita con  Burma-Myanmar. Sul filo di eventi di sessant’anni fa si vede in tralice come il sistema della condivisione di armi e sistemi bellici con i regimi più autocratici sia rimasta invariata per Israele fin dalla sua fondazione; e un nuovo rapporto sull’uso di armi biologiche nel 1948 da parte dell’Haganà per avvelenare interi villaggi arabi in Palestina confermerebbe questa predisposizione. «Le cose da allora non sono cambiate», chiosa Eric, ed è interessante andare a scoprire i meccanismi ripetuti fino a oggi, che forse non a caso ora sono oggetto di studi accademici seri e circostanziati come quello di Benny Morris della Ben Gurion University e Benjamin Z. Kedar della Hebrew University di Gerusalemme sulla Guerra biologica dei sionisti.


«Sapevano, o avrebbero dovuto sapere, di essere coinvolti nella corruzione e nella cospirazione in Myanmar»

Così scrive Eitay Mack a proposito di una società in Myanmar implicata in crimini e corruzione – i cui responsabili ai massimi livelli sono stati arrestati in Thailandia con l’accusa di riciclaggio di droga e denaro. Avrebbe svolto un ruolo da intermediario tra gli esportatori di armi israeliani e la brutale giunta militare che governa il paese secondo i documenti svelati da Justice for Myanmar. Gli alti dirigenti della società mantengono legami d’affari e familiari con esponenti di spicco della giunta e dell’esercito del Myanmar. La Gran Bretagna ha imposto sanzioni alla società, Star Sapphire Trading, per i suoi legami con l’esercito di Naypyidaw durante la pulizia etnica dei Rohingya.

I documenti trapelati, e di cui l’organizzazione è entrata in possesso, sono oggetto di una lettera inviata dall’avvocato israeliano Eitay Mack al procuratore generale Gali Baharav-Miara, chiedendo l’avvio di un’indagine contro l’industria aerospaziale israeliana, Elbit e Cantieri navali israeliani per aver procurato sistemi d’arma usati per crimini contro l’umanità e genocidio , e contro figure di spicco dei ministeri della Difesa e degli Affari Esteri, incaricate di supervisionare, regolamentare e approvare commercializzazione ed esportazione di quei sistemi d’arma in Myanmar. Risulta che siano stati trasferiti a Tatmadaw anche droni, venduti da Elbit Systems e usati per commettere crimini di guerra, e i pattugliatori veloci Super Dvora MK III venduti da IAI (entrambe compagnie pubbliche controllate dal governo israeliano).

La tradizionale (e criminale) cooperazione militare

La denuncia è sempre la stessa. E l’alleanza Israele-Myanmar è soltanto un tassello di un quadro molto più vasto e inquietante. Tutti i governi israeliani, da quando è stato fondato lo stato nel 1948, hanno visto la corruzione di alcuni eserciti, certe guerre civili, la violenza di taluni regimi dittatoriali come una importante opportunità diplomatica per Israele e affaristica per l’esercito di quel paese mediorientale nonché per le industrie militari israeliane. Uno dei casi più eclatanti è stato recentemente raccontato sul quotidiano di Tel Aviv, “Haaretz”, da Eitay Mack, avvocato e attivista per i diritti umani, che ha analizzato 25.000 pagine degli archivi del ministero degli Esteri di Gerusalemme recentemente resi pubblici. Quello che deriva è un comportamento, o meglio una politica, che va avanti da sempre. Da pochi anni dopo la sua nascita, Israele infatti ha mantenuto relazioni militari con il paese asiatico che si chiamava Burma all’epoca e soltanto dal 1989 è noto come Myanmar.

«Una guerra civile assassina? Tortura? Massacro? Per Israele è terreno fertile per la cooperazione»

Riproponiamo qui con lo stesso ruolo uno dei sottotitoli del lungo e circostanziato articolo pubblicato dal quotidiano di Tel Aviv nel quale Mack, citando documenti ufficiali, dimostra come Israele ha armato, addestrato e per decenni rafforzato i regimi militari del Myanmar.

«Israele ha aiutato l’esercito a riorganizzarsi come una forza moderna, lo ha armato e addestrato e ha contribuito in modo drammatico a costruire la sua potenza e consolidare la sua presa come l’elemento più potente del paese. Quel potere inizialmente permise all’esercito di gestire il paese da dietro le quinte, e in seguito di rimuovere la leadership civile e forgiare una varietà di diversi regimi militari».

Mack è preciso, le carte che cita ufficiali e circostanziate. Non interessava ai successivi governi israeliani, scrive, che l’aiuto militare non fosse inteso a scopo di difesa contro nemici esterni, ma fosse usato per fare la guerra contro gli abitanti di quei paesi: «In tutte le migliaia di pagine, che coprono 30 anni di relazioni, non c’è nemmeno un rappresentante israeliano che esprima un’obiezione alla vendita di armi al Myanmar». Vale la pena riprendere alcune delle affermazioni di Mack tratte dalla documentazione ufficiale.

«Un cablogramma inviato dall’ambasciatore israeliano in Birmania nel dicembre 1981 riassume bene l’essenza delle relazioni tra i paesi dal 1949. L’ambasciatore, Kalman Anner, ha riferito al direttore dell’Asia Desk del ministero degli Esteri di aver incontrato il ministro degli Esteri birmano nel tentativo di persuaderlo a sostenere Israele nelle votazioni delle Nazioni Unite. “Israele è uno dei paesi più amichevoli con la Birmania, e la Birmania è un paese estremamente amichevole con Israele”, scrisse nel 1955 Mordechai Gazit, membro dello staff dell’ambasciata israeliana a Rangoon (ora Yangon), mentre riferiva di un incontro con il capo segretario del primo ministro birmano U Nu. “[Il segretario capo] ha osservato che i due paesi stanno cooperando strettamente nell’arena delle Nazioni Unite. Spiegando da dove deriva questa amicizia, ha notato che Israele e la Birmania sono gli unici paesi socialisti in Asia”».

La parola “socialismo” fu ampiamente usata, direi abusata, per giustificare la vicinanza politica dei due paesi: «Un cablogramma – scrive Mack – fu inviato al primo ministro David Ben-Gurion dal ministero degli Esteri nel settembre 1952 in cui affermava che la guerra civile in Birmania aveva causato fino ad allora 30.000 vittime e che “il 55% del bilancio statale è stanziato fino a oggi per scopi di difesa”».

Parlamento birmano negli anni Cinquanta

Gli accordi del 1955

Nel 1955, i due paesi arrivarono a un accordo: armamento massiccio e addestramento militare, in cambio di spedizioni annuali di migliaia di tonnellate di riso dalla Birmania. La corrispondenza vista da Mack e resa pubblica in Israele offre un quadro preciso e dettagliato dell’accordo. Da Tel Aviv, in cambio delle spedizioni di riso, sono arrivati nell’ex Birmania 30 aerei da combattimento, munizioni, 1500 bombe al napalm, 30.000 canne di fucile, migliaia di ordigni di mortaio e equipaggiamento militare, dalle tende all’attrezzatura per il paracadutismo. Inoltre, dozzine di esperti israeliani venivano inviati in Birmania per addestrare i soldati mentre ufficiali dell’esercito birmano furono condotti in Israele per un’istruzione completa sulle basi dell’Idf. Dai documenti risultano l’addestramento dei paracadutisti e quello per i piloti di caccia dell’aviazione birmana. In collaborazione con l’esercito birmano, Israele ha anche fondato in Myanmar società di navigazione, agricoltura, turismo e costruzioni.

«I birmani menzionavano spesso il grande aiuto che ricevevano da noi», risulta questo scritto da un delle carte del ministero degli Esteri, Shalom Levin, un diplomatico israeliano a Rangoon, inviata al direttore generale del ministero della Difesa Shimon Peres nel dicembre 1957. «L’equipaggiamento arrivava proprio quando ne avevano bisogno, per le operazioni contro i ribelli».

La società militarizzata, un modello targato Idf

Risulta che Israele abbia istituito una scuola per il combattimento aereo e terrestre in Birmania e la Birmania attinto all’assistenza di Israele per organizzare il suo esercito sulla base del modello dell’IDF di una divisione in corpi e in forze regolari e riserviste. Una serie di cablogrammi inviati alle legazioni israeliane nell’Asia orientale e citate da “Haaretz” ha fornito dettagli su una delegazione birmana di alto rango che era venuta in Israele per «imparare i metodi dell’Idf». La delegazione ha visitato una base di assorbimento e addestramento, il produttore di armi Israel Military Industries, basi di addestramento per l’amministrazione militare e per le nuove reclute, il comando centrale, una brigata di fanteria e il corpo di artiglieria. Inoltre, secondo un documento, «ufficiali di stato maggiore sono stati inviati per studiare la questione della mobilitazione della manodopera in Israele, i metodi di mobilitazione, la legge sul servizio di difesa [coscrizione obbligatoria] e simili».

Nel 1958 all’ombra di una profonda crisi politica ed economica e sullo sfondo della guerra civile in corso – infuriava da un decennio – il governo birmano crollò e subentrò un regime guidato dal gen. Ne Win. «L’esercito sta prendendo il controllo di molte aree della vita», ha scritto Zvi Kedar, il secondo segretario dell’ambasciata israeliana a Rangoon, in un cablogramma del dicembre dello stesso anno. «La stessa stampa è stata anche colpita dalla promulgazione di leggi di emergenza che limitano la libertà di scrittura… Sono stati effettuati ampi arresti tra i leader di gruppi di sinistra che hanno legami con i ribelli».

Ben Gurion passa in rassegna le truppe con Ne Win nel 1959

Israele, tuttavia, ha visto dei benefici nell’arrivo di un generale a capo del governo:

«Nonostante le numerose crisi interne che hanno afflitto la Birmania negli ultimi anni, l’amicizia Israele-Birmania rimane salda ed è stata in realtà notevolmente rafforzata nell’ultimo anno, da quando il governo è effettivamente passato nelle mani dell’esercito», ha scritto un ministero degli Esteri del giugno 1959. «Gli amici più fedeli di Israele sono principalmente nei circoli dell’esercito».

Ne Win visitò Israele quel mese. Incontro il primo ministro Ben-Gurion e il capo di stato maggiore, il capo della polizia, alcuni ufficiali dell’Idf, ha visitato le basi dell’esercito e, rilevano i documenti ufficiali dell’epoca, ha ricevuto in regalo un centinaio di fucili mitragliatori Uzi. Armi moderne considerate le più efficienti dell’epoca. Mark cita un episodio che definisce particolarmente strano nel coinvolgimento di Israele in Birmania. «I birmani, a quanto pare, consideravano Israele un’ispirazione per i programmi di insediamento di terre e tentavano di insediare personale militare in regioni abitate da minoranze etniche ribelli, nello stile degli avamposti della Brigata Nahal dell’Idf». Un’indagine del giugno 1959 redatta dall’Asia Desk del ministero degli Esteri citava un piano in Birmania per stabilire «locali di insediamento costruiti secondo il piano del distretto di Lachish, nel formato di un moshav dei lavoratori cooperativi israeliani, con i gruppi principali [di coloni] composto da ex militari». Agli esperti agricoli israeliani inviati nel cuore della patria della minoranza etnica shan, che si era ribellata al governo centrale era subito chiaro che la popolazione locale era ferocemente contraria al piano, vedendolo come un tentativo di invasione. «Lo stato Shan non ha assolutamente alcun desiderio per un piano di insediamento birmano o israeliano, e certamente non il nostro piano congiunto», scrisse Daniel Levin, ambasciatore di Israele in Birmania, nel 1958.

Col tempo cambiano i leader, non le prassi

Cambiarono i leader politici ma non la politica e la collaborazione tra il paese asiatico e Israele. «Questa sera l’esercito ha preso il potere», riferì a Gerusalemme in un cablogramma nel marzo 1962 l’ambasciata israeliana in Birmania. «Secondo notizie non confermate, tutti i ministri tranne il primo ministro e i ministri dell’istruzione e delle finanze sono agli arresti domiciliari. Tutto il traffico aereo è stato interrotto. Pattuglie dell’esercito in tutti gli angoli della capitale. Prevale la quiete assoluta». Tre mesi dopo quel colpo di stato, il viceministro della Difesa, Shimon Peres giunse in Birmania per incontrare i vertici del governo militare. «Il signor Peres ha dichiarato a nome del primo ministro che Israele è interessato, come sempre, ad aiutare su ogni argomento e in qualsiasi modo deciderà il generale», si legge in un memorandum.

Poche settimane dopo l’incontro con Peres, Ne Win, a quel punto capo del Consiglio Rivoluzionario, ordinò il massacro degli studenti che stavano tenendo manifestazioni a Rangoon: «I soldati hanno sparato sulla folla», scrisse Michael Elitzur, un consigliere dell’ambasciata israeliana, nel luglio 1962. Raccontò come l’esercito avesse demolito un edificio universitario dove gli studenti si erano barricati. Le autorità hanno fatto in modo che non si tenessero funerali pubblici per le vittime. È stato uno spettacolo scioccante vedere centinaia di persone – molte delle quali genitori e parenti di coloro che sono stati uccisi e feriti – riunirsi nel silenzio più totale intorno al Policlinico… Due giorni dopo, è stata ordinata la chiusura di tutti gli istituti di istruzione in tutto il paese. Elitzur riferì inoltre che i servizi di sicurezza avevano fatto sparire dozzine di altri studenti. I massacri da parte di Tatmadaw non sono mai stati sospesi fino all’ultimo raid –per ora – del 24 ottobre 2022: 4 bombe su un concerto per celebrazione dell’organizzazione per l’indipendenza kachin sganciate da un aereo militare che hanno ucciso 80 persone, ferendone almeno 70.

Kansi, una cittadina del distretto di Hkpant nello Stato nordorientale del Kachin, bombardata dall’aviazione birmana durante un concerto in corso per celebrare la resistenza Kachin il 23 ottobre 2022

Molti altri i documenti citati da Mack che ha rilevato come «La rottura, per periodo breve, del rapporto economico non ha portato Israele a smettere di sostenere la Birmania all’Onu, né ha comportato la cessazione degli aiuti militari al regime. Una parte considerevole delle esportazioni israeliane verso la Birmania è destinata all’esercito birmano (equipaggiamento militare, provviste, prodotti chimici delle industrie militari israeliane e così via)», scrisse Daniel Levin, allora direttore dell’Asia Desk, nel gennaio 1966.

Consiglieri militari, addestratori all’antiguerriglia… e al pogrom

In un cablogramma dell’aprile 1966, l’addetto militare israeliano in Birmania, il colonnello Asher Gonen, chiese l’approvazione al colonnello Rehavam Ze’evi, all’epoca assistente capo della divisione operativa dell’Idf, per un nuovo programma per addestrare i comandanti del battaglione birmano in Israele, con l’obiettivo di combattere i ribelli. Il programma includeva un corso da quattro a sei mesi in Israele con addestramento per una brigata di fanteria e una brigata aviotrasportata, integrazione della difesa territoriale, operazioni con il paracadute, problemi di manutenzione, artiglieria, comunicazioni, combattimento e partecipazione alle manovre. Nel marzo 1966, l’allora capo di stato maggiore Yitzhak Rabin visitò la Birmania. Un anno più tardi – giugno 1967 –, il diplomatico Zeev Shatil, rilevò che «a partire dalle 11:00 [AM], iniziò un pogrom organizzato e sistematico contro i residenti cinesi di Rangoon, che è davvero difficile da descrivere. Gruppi organizzati andavano di casa in casa e di negozio in negozio, buttavano via tutti i loro averi, li ammucchiavano e vi appiccavano il fuoco per le strade. Dalle finestre dei piani superiori sono stati lanciati oggetti in strada e nelle strade sono state date alle fiamme le auto… Fonti, non confermate, parlano di circa 30 morti e più di 100 feriti, alcuni gravemente».

La situazione non migliorò e pochi anni dopo, nel gennaio 1982, un funzionario dell’ambasciata, Avraham Naot, scrisse di aver parlato con un alto funzionario del ministero degli Esteri birmano di un’altra “crisi”: «Era chiaro … che il paese deve fare tutto il possibile per impedire alla popolazione musulmana in Birmania di crescere attraverso l’immigrazione dai paesi vicini». Nel mirino c’erano e ci sono ancora i Rohingya. Israele e Birmania hanno creato un collegamento tra servizi segreti e ambasciata israeliana in Birmania che ha ricevuto una busta dal Mossad contenente materiale di intelligence da trasmettere alla sua controparte birmana in merito alla attività «sotterranea musulmana nel Sudest asiatico [che opera sotto l’ispirazione] dell’Iran e della Libia». Le cose da allora non sono cambiate e nel novembre 2019, Ronen Gilor, ambasciatore di Israele in Myanmar, ha twittato un messaggio di sostegno e auguri di successo ai capi dell’esercito del Myanmar in merito alle deliberazioni in corso contro di loro presso la Corte internazionale di giustizia a L’Aia con l’accusa di genocidio contro il popolo Rohingya. «Incoraggiamento per un buon verdetto e buona fortuna!» Gilor ha scritto.

L'articolo Armi a regimi feroci: storia della diplomazia israeliana in Myanmar proviene da OGzero.

]]>
Bangkok https://ogzero.org/studium/bangkok/ Thu, 01 Sep 2022 11:33:31 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=8510 L'articolo Bangkok proviene da OGzero.

]]>

BanGog è a Bangkok

Massimo Morello ha accettato di scrivere per noi di una “città visibile”: la sua Bangkok. Qui raccogliamo le sue idee in preparazione del libro, in uscita entro l’estate 2023, le intuizioni che si svilupperanno, immagini e anime dei luoghi che l’autore vorrà raccontarci.

«BanGog mi è apparsa a Bangkok dopo che mi sono fatto tatuare la figura di Rahu sulla schiena. Il che è accaduto mentre iniziavo a scrivere questo libro su Bangkok in cui Rahu e l’indovino che mi ha indotto al tatuaggio hanno una parte importante.
BanGog, in quella realtà di Bangkok, è un luogo immaginario. E questa è la prima delle innumerevoli contraddizioni che si susseguiranno. Un luogo immaginario che materializza una città invisibile, come quelle descritte da Italo Calvino, simbolo della complessità e del disordine della realtà, in cui ti ritrovi a ricercare le combinazioni interpretative nascoste nell’opera e nel linguaggio stesso.
Il che ci porterebbe a considerazioni sull’ermeneutica quale interpretazione dei significati più profondi dell’esistenza. Ma così il rischio di perdersi tra combinazioni e correlazioni aumenta di riga in riga. Meglio quindi scomporre il toponimo.
“Ban”, o “baan”, in thai è “casa”. “Bang” significa villaggio in riva al fiume. “Gog” richiama una figura mitica della tradizione biblica e islamica, rappresentata soprattutto come demone, mostro, essere sovrannaturale che vive nella terra di Magog. Una terra che nella tradizione medievale si colloca all’estremo dell’Oriente. Da cui deriva il popolare “andare in goga e magoga”, “andare in un paese molto lontano”.
Resta “OG”, che qui richiama l’acronimo di Orizzonti Geopolitici, progetto editoriale, community, laboratorio per delineare una mappa di un mondo aleatorio, stocastico.
Il toponimo così composto diviene quindi un abracadabra. “Gog”, allora, può evocare l’immagine di Rahu, entità fantasmatica che nella tradizione delle scritture vediche rappresenta l’ombra, l’eclissi ma che può essere assunto a divoratore di incubi. È quasi il simbolo del contrasto tra le “Città invisibili” di Calvino e le città che OG vuole rendere visibili. Una dicotomia che riflette le ambiguità delle megalopoli moderne.
Come dice il Marco Polo di Calvino: «Tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra».
Bangog, nasconde e rappresenta Bangkok. E viceversa.
Come Gog e Rahu»

Massimo Morello

La quinta della serie Le città visibili,

rese tali dagli autori di OGzero


Mappa Bangkok

Massimo Morello

Massimo Morello è nato ad Ancona in un anno del bufalo, laureato in storia e filosofia, giornalista. Dopo diverse esperienze professionali, per oltre vent’anni ha girato il mondo da free lance, dedicandosi soprattutto a reportage geografici e d’esplorazione: dall’Amazzonia al Borneo, dalla Nuova Guinea ai deserti australiani. In seguito si è focalizzato sulla geopolitica e la cultura asiatica che studia e pratica in diverse forme, con passione e confusione. Da molti anni vive a Bangkok, in un grattacielo da cui vede il fiume e da dove continua a muoversi per tutta la regione. Quando non è in Asia lo trovate a Marsiglia, in una casa di fronte al mare.
Ha collaborato e collabora con i maggiori giornali italiani. È autore di guide, libri di viaggio, racconti, saggi. Per la collana Orizzonti Geopolitici (Rosenberg&Sellier) ha pubblicato Burma Blue, dove viene in superficie la profonda conoscenza del Myanmar, aggiornato in ultima bozza a cavallo del golpe che il 1° febbraio 2021 ha oscurato l’orizzonte della Birmania.

Tornare dall’ombra

Come dice Yuri Orlov, il personaggio interpretato da Nicolas Cage alla fine del film “Lord of War”: «A volte hanno bisogno di un free lance come me. Mi chiami demone, ma sono un demone necessario».

Si conclude così la prima stesura di un capitolo di “Bangkok” per OGZero. Il capitolo, “La giungla degli specchi”, presenta una Bangkok dove «la possibilità di un pericolo, come un battito cardiaco irregolare, è imprevedibile», una Bangkok definita da personaggi che vivono spesso nell’ombra, i duri, i giocatori, i perdenti, le anime tormentate e perdute.

Uno di questi è Viktor Anatolyevich Bout, ex ufficiale dell’Armata Rossa divenuto trafficante d’armi. Su di lui avevano scritto un libro, “Merchant of Death: money, guns, planes, and the man who makes war possible” e il libro aveva anche ispirato il film “Lord of War” interpretato da Nicholas Cage.
Nel 2008 Bout era stato arrestato al Sofitel Silom Hotel di Bangkok da agenti del Csd, la Crime Suppression Division thailandese, e della Dea, la Drug Enforcement Administration americana. Nel novembre 2010 fu estradato negli Stati Uniti e l’anno seguente una corte federale di Manhattan lo dichiarò colpevole di “cospirazione” per aver cercato di vendere armi a organizzazioni terroristiche che progettavano l’uccisione di cittadini statunitensi.
Viktor, scrivevo, «è entrato nell’ombra dei fantasmi, ma potrebbe riapparire quando meno te l’aspetti».

È riapparso a fine luglio, quando l’amministrazione Biden si è offerta di rilasciarlo. Antony Blinken, segretario di stato americano, discuterà con il suo omologo russo Sergei Lavrov dell’accordo siglato sul grano che procede a stento e di uno scambio di prigionieri.
Washington offre Bout in cambio della cestista americana Brittney Griner, accusata dai russi di possesso e utilizzo di droga e incarcerata dal giorno dell’arresto (aveva con sé delle sigarette elettroniche con ricarica alla marijuana) senza contatti con la famiglia, e di Paul Whelan, canadese con cittadinanza americana, in carcere dal 2018 e condannato dai russi a 16 anni di carcere per spionaggio).
Probabilmente Viktor pensa di valere molto di più. Ed è così, considerando la sua amicizia con Putin.

Un approfondimento a due voci tra frequentatori assidui da mezzo secolo di quelle regioni di cui Bangkok è uno dei riferimenti culturali più controversi e affascinanti: un duetto che vede i luoghi di culto siamesi di Emanuele Giordana e i topoi del suo ospite anfitrione Massimo Morello tra grattacieli e anse di fiumi da loro conosciuti bene nella realtà e nella letteratura

Una occasione per parlare in un luogo quasi altrettanto magico dei luoghi sulfurei della capitale thailandesi, la Librairie Internationale di Marseille di Anne-Sophie. Il discorso scaturito dalle domande di Annie Pampinello ha messo in evidenza la percezione prima di tutto culturale e poi sociale e di conseguenza politica del mondo comunque incomprensibile – ma descrivibile – che compone le infinite Bangkok che si sono dischiuse in tutti questi decenni davanti agli occhi di Massimo Morello

<iframe width=”560″ height=”315″ src=”https://www.youtube.com/embed/QUNBDs4gB7U?si=asyZcp2TGYjALnXa&amp;start=82″ title=”YouTube video player” frameborder=”0″ allow=”accelerometer; autoplay; clipboard-write; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture; web-share” referrerpolicy=”strict-origin-when-cross-origin” allowfullscreen></iframe>

<iframe width=”560″ height=”315″ src=”https://www.youtube.com/embed/IdxHaED2huM?si=qDbxJeKzU5w4oQVE” title=”YouTube video player” frameborder=”0″ allow=”accelerometer; autoplay; clipboard-write; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture; web-share” referrerpolicy=”strict-origin-when-cross-origin” allowfullscreen></iframe>

Elezioni thailandesi 14 maggio 2023. Una epocale svolta culturale

Il rischio della “sindrome birmana”della Thailandia post-voto
“Il Foglio”, 15 maggio 2023

Abbiamo sentito  Massimo Morello per Radio Blackout martedì 16 maggio e ne è scaturita una bella chiacchierata:

La Thailandia al voto con l’ombra dell’ennesimo colpo di stato
“Il Foglio”, 11 maggio 2023

Perché Bangkok?

Il Very Thai è una delle formule per comprendere la Thailandia e Bangkok. Anzi, la formula principale: ogni cosa è fatta al modo thai, e tu non riuscirai a capirla se non capisci che cos’è il modo thai, che però non puoi capire se non sei thai. Un paradosso, un Comma 22, che regola tutto, che va premesso a qualsiasi non-spiegazione della Thailandia.

Capito che non si può capire si può procedere.  E da questo primo comma si passa al seguente, che a Bangkok trova una sua definizione plastica. La fine della globalizzazione e la rinascita della Globalasian. Un fenomeno in atto già ma che il Covid ha alimentato, riuscendo in ciò che non era riuscito a Pol Pot nella sua volontà antiglobalista e ultra-tradizionalista.

«Una domenica di fine marzo a Bangkok. Caldo e acquazzoni. Una buona giornata per lavorare a un progetto che ormai è quasi un libro su Bangkok. La rassegna stampa quotidiana mi porta ad archiviare un articolo del quotidiano di Singapore, “The Straits Times”, sulla questione, più filologica che altro, del nome di Bangkok. Ma quell’articolo mi rimanda a un altro del gennaio 2021 sul piccolo tempio di Chao Mae Thap Thim. Il tempio si trova nella zona nord-est di Bangkok, poco oltre il Siriraj Hospital, il grande ospedale diventato una vera e propria cittadella medica da quando vi fu a lungo ricoverato re Bhumibol. Lo sviluppo dell’ospedale ha anche modificato l’area in un processo di gentrificazione che minaccia anche quel piccolo tempio.

Un articolo interessante, dunque, per il progetto cui sto lavorando. Senza contare che il tempio è anche consacrato a Mazu, è la Dea dei Mari, che ho sempre considerato uno dei miei spiriti protettori.

Quindi approfittando di una schiarita quel tempio diventa l’obiettivo perfetto per un giro in moto. E così mi avvio e, come quasi sempre mi accade, nonostante l’ausilio di Google Maps, mi perdo. Non esattamente. In realtà devio, allungo, forse perché non ho un supporto per il telefono e mi capita di riguardare il percorso proprio dopo aver superato il punto in cui avrei dovuto girare.

Alla fine, ci arrivo e come sempre, ancora una volta, soprattutto a Bangkok, il percorso si rivela più interessante della destinazione. Purtroppo, il tempio è chiuso e l’unico rammarico è di non poter vedere la statua della Dea. Per il resto appare molto simile a tante altre piccole pagode taoiste, senza alcun elemento di particolare rilievo. Ma questo è un altro discorso relativo al concetto artistico e architettonico religioso asiatico. Vedremo se sarà il caso di approfondirlo.

Il tempio, dicevamo, non ha nulla di particolare. Anzi, se ne vedono di più belli. E, almeno per ora, sembra scampato alla gentrificazione. In realtà l’ambiente circostante più che un nuovo quartiere residenziale appare l’immagine di una periferia industriale, di deposito, sotto l’ennesimo cavalcavia. 

Arrivando qua mi sono venuti in mente i “Padroni della Mappa”. Claudio Sopranzetti, giovane antropologo italiano definisce così i guidatori di mototaxi che nella “rivolta” popolare del 2010 svolsero il duplice ruolo di operatori del trasporto e mobilitatori sociali e quindi attori politici. Nel saggio Owners of the Map: Mobility and Mobilization among Motorcycle Taxi Drivers in Bangkok Sopranzetti analizza in modo originale le strategie di protesta urbana che a Bangkok furono accelerate e amplificate dai  “padroni della mappa”.

Bangkok

Personalmente quella definizione mi piace in termini psicogeografici, mi dà l’idea che solo muovendosi sul territorio in moto, quindi immersi in un contesto di strade, stradine, vicoli, aggirando regole codificate, si può “possederlo”. E così ripenso e riprendo coscienza di mappe perdute.

Più di dieci anni fa vivevo da queste parti, in un residence dall’altro lato del Siriraj, sopra un piccolo mercato. Un posto bello, tranquillo, tanto vicino al fiume quanto lontano dalla Bangkok della contemporaneità e degli expat. Me ne sono andato perché non era semplice vivere là. Troppo lontano da tutto. Forse avrei dovuto restare, e forse ci sono rimasto perché è là che è ambientato l’inizio di un altro libro».

Bangkok rizomatica

A questo punto comincia a delinearsi in modo abbastanza preciso il senso della scelta di Bangkok quale tema del libro, tanto più nell’ottica delle trasformazioni. È un percorso di modifica in atto ormai da lungo tempo. E sembra che Bangkok si adatti plasticamente a tutti i cambiamenti e a tutte le fluttuazioni della contemporaneità. Dal Covid, appunto, alla guerra in Ucraina, dal rinascere degli autoritarismi asiatici, al fenomeno (di cui credo che Bangkok sia un laboratorio) della tribalizzazione.

Come epifenomeni Bangkok è un catalogo delle sindromi che connotano il Sudest asiatico: il governo militare, gli intrighi di palazzo, la corruzione, le divisioni in caste-classi, l’economia di frontiera. Più il grande specifico della Thailandia, la casa reale e il tabù che la circonda. Un classico esempio di totem&tabù.

Il testo che segue, di diversi anni fa, mi sembra renda l’idea delle mutazioni che sono il segno di Bangkok, una megalopoli che continua a replicarsi nel cambiamento sino a divenire un archetipo.

«“Bangkok, sta a cavallo del confine tra acre e dolce, soffice e duro, sacro e profano. È una sega circolare di seta, un martello pneumatico laccato, una seduzione cinta d’acciaio, una preghiera digitale” ha scritto Tom Robbins nel romanzo Villa Incognito. Il libro è del 2003 ma ancor oggi è difficile trovare una descrizione migliore di Bangkok.

“La città del collasso”. Così la definiva Gaia Scagnetti, studiosa di scienza della complessità, quando insegnava alla Chulalongkorn University. Il suo era un pensiero critico, non una critica. “È un collasso positivo: la città vecchia e quella nuova non si sono trasformate in qualcos’altro, sono collassate nello stesso punto, combaciano. Se il termine collasso è ambiguo, cambiamo: Bangkok è rizomatica, come un rizoma, una radice che riproduce altre piante”.

Su queste contaminazioni si espande il rizoma di Bangkok. “Se vuoi capire Bangkok, però, devi scegliere se focalizzarti sui luoghi o sul movimento che generano. È il principio d’indeterminazione” dice Christopher G. Moore, scrittore che vive e ambienta qui i suoi noir.

“Come scrittore ho focalizzato la mia attenzione sulla contraddizione creata dal confronto tra tradizione e modernità. Specie nella surrealtà urbana” concorda Tew Bunnag, scrittore e maestro di arti marziali, appartenente a una delle più nobili dell’ammart, l’élite thai, che ha scelto di vivere in bilico tra le contraddizioni.  “La ricerca, anche nel fraintendimento, è importante” dice. “Serve per arrivare alla nozione di Dio”.

Ma ancora, nonostante Bangkok si riveli sempre di più un laboratorio della complessità, un incubatore di quel “pensiero debole” che ha preso atto della dissoluzione delle certezze e dei valori assoluti, da molti è rappresentata con un certo torbido compiacimento, come un santuario di vizi, un “cuore di tenebra”. È un’immagine alimentata anche dagli stessi noir di Christopher Moore o di John Burdett (ex avvocato inglese), che fa muovere il suo personaggio, un investigatore con trascorsi da monaco, tra magie, trafficanti e prostitute.

Il romanzesco è realtà. Parte della città si dice, sta collassando per l’acqua pompata dal sottosuolo per alimentare le jacuzzi delle sale massaggio – eufemismo per bordelli – grandi come alberghi (120 quelle registrate). È un fenomeno che ha ragioni altrettanto profonde dell’acqua, che si alimentano a una cultura edonistica, a una religione che non considera il sesso come un peccato capitale, e che si è amplificato negli anni Settanta quando Bangkok divenne la meta dei militari americani in licenza dal Vietnam. In quegli stessi anni Bangkok era l’ultimo terminale dei “vagabondi dell’Asia” in cerca di misticismi e paradisi artificiali. Per anni, poi, Bangkok è stata lo snodo di traffici d’ogni genere e santuario di trafficanti e rifugiati. Infine, è divenuta la meta di espatriati attratti più che dalla volontà di rifarsi una vita, quanto dal desiderio di migliorarne la qualità nel paese del sorriso, del sanuk, la filosofia del divertimento, dove la pensione vale di più e la vecchiaia sembra sospesa. Alcuni ci riescono, per molti altri si rivela una delusione e scatena depressione, tanto da indurli al suicidio. È una vera e propria sindrome culturale. “È come confrontarsi con la prima nobile verità del Buddha, il dukka, l’inevitabile sofferenza che segna l’esistenza” dice Tew Bunnag. “A Bangkok vivi nella sensazione di questo sottile equilibrio tra il dukka e il tentativo di cogliere ogni attimo di piacere che ti offre la vita”.

Un buon posto per trovare questo equilibrio, meditando in sale disseminate di cuscini a forma di pietra, è il Bia, il Buddhadasa Indapanyo Archives, edificio dall’architettura organica, a colonne sull’acqua del laghetto nel parco di Suan Rot Fai (accanto al famosissimo mercato di Chatuchak). Prende nome da Buddhadhasa Bhikkhu, “pensatore buddhista per il mondo moderno”, secondo cui secolare e spirituale non sono entità separate. È anche alla sua filosofia che si ricollegano molti artefici dell’ultima metamorfosi di Bangkok, che, come direbbe Gaia Scagnetti, sta facendo collassare gli stereotipi: sessuali, criminali, culturali.

“Bangkok ha bisogno di una visione” dice l’architetto Duangrit Bunnag, uno degli artefici del rinascimento culturale di Bangkok, di quegli intellettuali che credono nel caos creativo, nell’entropia del riutilizzo piuttosto che nella nuova costruzione. La sua visione, dunque, non è quella della grandeur in salsa thai. Anzi, è molto critica dell’attuale politica. È più vicina a quella del suo omonimo scrittore: collega la cultura al senso della vita. “Per rispettare la tua cultura la devi abbracciare, la devi smaterializzare, liberare dai condizionamenti finanziari”.

“Thai significa libero” dice Bunnag. “Il futuro della Thailandia sta tutto in una nuova generazione di creativi che pensi liberamente”».

 Bangkok noire

A poco a poco emergono tutte le caratteristiche che hanno fatto del toponimo Bangkok un brand, un coagulo di miti d’oggi (à la Barthes, evidentemente) ma anche riti, formati da letteratura, film, musica, tv, esotismo, orientalismo, immaginazione popolare thai e immaginario collettivo occidentale. Tutto “Very Bangkok” (sequel di “Very Thai”).

Come l’introduzione a Bangkok Noir, raccolta di racconti curata da Christopher G. Moore, che ben rappresenta alcuni dei miti, letterari e non solo, di Bangkok, in cui si ritrovano storie che ricorreranno nel libro. Ma soprattutto ne fa venire in mente altre. Come quella di The Serpent, la storia di Charles Sobhraj, alias Alain Gautier, un serial killer franco-vietnamita che negli anni Settanta ha ucciso almeno una dozzina di giovani occidentali per impadronirsi dei loro passaporti, dei contanti e dei traveller’s cheque che erano la forma di pagamento più diffusa. Una storia che era conosciuta solo dai cultori dei miti di Bangkok ma che è divenuta famosa per la serie Netflix. Su cui ho scritto un lungo testo, di quelli che andranno a far parte del libro e che mi coinvolge personalmente per molte coincidenze, a cominciare dal fatto che il colonnello thailandese dell’Interpol che è stato uno degli artefici della sua cattura vive nel mio stesso condominio.

Altra storia interessante e è quella dei “ladri di cadaveri”, che è divenuta una serie per Netflix col titolo Bangkok Breaking. Tra film, libri, racconti e articoli (anche miei) su spie, maghi, fantasmi, rapinatori si può scrivere un altro libro. Tutti uniti anche da luci, colori, umori, sensi di vita e paure di morte.

«La possibilità di un pericolo, come un battito cardiaco irregolare, è imprevedibile», ha scritto Moore nel testo precedente e non riesco a distaccarmi da quel pensiero. Una nota, come molte altre che può personalizzare questo Bangkok.

Considerando tutti questi elementi di fascinazione appare poco comprensibile a una mentalità occidentale o comunque esterna la decisione di sostituire progressivamente il toponimo “Bangkok” con Krung Thep Maha Nakhon. Certo per molti thai Bangkok mantiene un sottinteso ambiguo, equivoco. Quello che gli hanno dato molti occidentali di lingua inglese giocando su Bang, fottere e cock, cazzo. Battuta che ho personalmente sentito diverse volte, io stesso infastidito.

Il cambio di nome, in realtà, fa parte dell’ennesima mutazione della città, del suo percorso di asiatizzazione, di ricerca di una identità. Perché Bangkok presenta anche questo fenomenale paradosso: pur avendo un’immagine così forte, ancora non riesce a definirsi autonomamente, come vorrebbe o come vorrebbero i suoi abitanti. Forse i veri bangkokian sono gli espatriati.

Fuori dagli stereotipi

Tutto quello che precede è una sorta di perché un libro su Bangkok possa rivelarsi interessante e ancor più affascinante. Inoltre, si dovrebbero cogliere i motivi di novità nella presentazione di una megalopoli che ancor oggi ha difficoltà a liberarsi dagli stereotipi e a essere inquadrata in un contesto geopolitico ben più ampio.

In un certo senso uno degli obiettivi che mi prefiggo con questo libro è di rovesciare le prospettive poste dalla “Bangkok” di Lawrence Osborne.

A questo punto, seguendo le linee guida proposte dai curatori (che sembrano delineate proprio per Bangkok), indico di volta in volta alcune “scene” che verranno sviluppate.

A cominciare dal genius loci. Che ho identificato nell’Erawan Shrine, che si può ben definire il centro del centro della Bangkok moderna, commerciale, residenziale, dello shopping. È un altare con la statua del dio Brahma dai quattro volti sul suo elefante Erawan. Eretto settant’anni fa per propiziare la costruzione dell’hotel Erawan, è uno dei luoghi sacri più frequentati di Bangkok, dove, prima o poi, passano tutti a chiedere fortuna, denaro, amore, salute. Nel piccolo spazio attorno si esibisce in permanenza una compagnia di danza tradizionale, stazionano indovini, venditori di biglietti della lotteria, di incensi e ghirlande. Nel marzo 2006 la statua fu decapitata da uno squilibrato (linciato dalla folla). Il fatto fu interpretato come un segno di malaugurio nei confronti dell’allora premier. L’altare fu restaurato in meno di due mesi, ma ciò non cambiò la sorte del governo. Nel 2010, poi, tutta la zona attorno all’altare fu il fulcro delle manifestazioni delle “camicie rosse”, il movimento di tendenza popolare avverso all’establishment che occupò il centro di Bangkok. Proprio di fronte all’altare, a mia memoria, era collocato il centro stampa del movimento.

La zona attorno all’altare è indicata come la via della trasformazione thailandese alla modernità in un testo di Koompong Noobanjong, professore di architettura al King Mongkut’s Institute of Technology.

Bangkok

Questa stessa zona, in effetti, è oggetto di molte analisi sociologiche, antropologiche, urbanistiche. Per esempio: War, Trade and Desire: Urban Design and the Counter Public Spheres of Bangkok. In un altro mio testo veniva già presentata come Genius loci. Anzi, anima dei luoghi.

«“Il vero compito è trovare l’anima proprio dove all’inizio sembra impossibile” scrive James Hillman nel saggio L’anima dei luoghi. Il grande filosofo e psicologo recupera l’antica nozione di un’anima che tutto pervade, anche i luoghi estremi della società del consumo. E se c’è un luogo che dimostra la sua idea in modo esemplare, questo è il centro commerciale di Bangkok. Apparentemente le sue attrazioni sono i mega shopping-mall, i ristoranti, i bar, i locali notturni. Ma questi stessi sono i segni della ultramodernità asiatica, significativa nei suoi aspetti architettonici, economici e culturali. È proprio qui che la vita della città si manifesta in tutte le sue contraddizioni. Una zona, insomma, dove accade di mangiare un’ottima pizza napoletana a un tavolino sulla strada dove un elefantino, condotto in giro per vendere ai turisti noccioline da dargli da mangiare, blocca una lussuosa berlina tedesca guidata da un autista in livrea che trasporta una coppia di thai hi-so che hanno un tavolo riservato nel ristorante accanto. 

“A Bangkok non esisteva una strada dove passeggiare, non c’erano piazze. Adesso l’impianto urbano si sta modificando. Attorno ai grandi centri commerciali vengono aperti spazi pedonali, punti d’incontro. Il progetto è di creare a poco a poco una direttrice metropolitana come la Orchard road di Singapore”, afferma l’architetto Pat Chalermpanth, titolare di uno studio d’architettura di Bangkok. La sua osservazione vale soprattutto per la grande via Rama I (proseguimento della Sukhumvit verso ovest) e in particolare la cosiddetta “central shopping area”, cha ha come fulcro la fermata di Siam, dove s’incrociano le due linee dello skytrain. Una vera e propria piazza, anche questa con una fontana con giochi d’acqua, è stata aperta sul lato nord, a fronteggiare The Siam Paragon, lo shopping mall che si autodefinisce il più lussuoso di tutta l’Asia. E l’acqua scende a cascate sulle pareti di pietra della gradinata delimitata da palme che dalla piazza conduce al Siam Ocean World, il più grande acquario di tutto l’emisfero sud.

Poco oltre il Paragon, letteralmente incastrato tra questo e il grattacielo d’uffici di Central World, si trova il Wat Pathumwanaram, un “tempio reale di terzo grado”, costruito nella seconda metà dell’Ottocento da Rama IV. La sua peculiarità e unicità sta nella posizione, a comporre una specie di oasi sacra, profumata da grandi alberi di frangipani, in quello che sembra essere il regno del consumismo e degli affari. È, per l’appunto, “un’anima dei luoghi”».

 Il Wat Pathumwanaram diventerà poi tristemente famoso perché fu qui che vennero trovati sei corpi di manifestanti uccisi il 19 maggio 2010, al termine di tre mesi di proteste antigovernative, quando esercito e polizia entrarono nella zona occupata dalle camicie rosse.

Il Wat Pathumwanaram, il genius loci, l’anima dei luoghi, sono lo spunto per articolare un’idea che appare fondamentale nelle linee guida, ossia quella delle trasformazioni urbane a ogni livello. In questo caso Bangkok, capitale di un mondo così influenzato dal saiyasat, il sovrannaturale, presenta un unicum (forse solo paragonabile ad alcune città indiane o a Kathmandu), ossia tutto ciò che nella metropoli è legato alla religione, alla spiritualità, al misticismo, alla magia. E anche in questo sta subendo una metamorfosi. «Le forme contemporanee della religiosità thai ora sono più visibili dove la religione popolare è presentata come un prodotto, confezionata, mercificata e consumata», scrive l’antropologa Pattana Kitiarsa in Medium Monks and Amulets.

Le case degli spiriti

Questa parte, quindi, è dedicata a templi, monasteri, centri sacri, luoghi di culto, indovini, maghi, e case degli spiriti. Alle case degli spiriti come simbolo di un sincretismo religioso e magico è dedicato il testo seguente che s’intreccia anche ad altri temi già citati.

«Ogni mattino, alle sei in punto, una vecchia esce dalla sua casa affacciata su un soi, un vicolo, con una scopa e un cestino con qualche frutto, fiori e bastoncini d’incenso. Per dieci minuti si dedica alle pulizie e alle offerte della san phra phum, la casa degli spiriti, un tempietto dedicato agli spiriti, che si trova all’angolo con la Shukumvit, la via centrale di Bangkok. Poco dopo una ragazza vestita alla moda che sta andando al lavoro si ferma in meditazione bruciando un mazzetto di incenso. Ne seguono e passano molti altri, magari solo per un attimo di raccoglimento, sussurrare una rapida preghiera nel tempo di un wai. Le stesse scene si ripetono di fronte alla casa degli spiriti accanto all’Oriental hotel, allo shopping centre Emporium, alle sale di massaggio, ovunque. Le case degli spiriti segnano il territorio thai come punti di riferimento individuali e sociali, fanno parte del panorama urbano e rurale, sottintendendo l’esistenza di una dimensione parallela popolata dai phi, gli spiriti.

I phi sono entità immanenti alla natura di ogni essere, di ogni cosa e di ogni azione, determinano o possono determinare la vita, la storia, la natura. Nel bene e nel male un tale potere deriva – come accade in tutte le culture animiste – dal fatto stesso di crederci, dai pensieri, dalle parole e dalle preghiere rivolte agli spiriti. In Thailandia l’animismo che li ha generati si è poi alimentato ad altre fonti che, a loro volta lo hanno assimilato, canonizzato e adattato a una società e una cultura in trasformazione. I cinesi hanno trasmesso il culto degli antenati (che trovano anch’essi posto nelle case degli spiriti), mentre gli indiani si sono fatti portatori del pantheon dell’hindu-dharma, un sistema che include religione, misticismo, filosofia, arti, scienze e cultura come parti di una singola realtà. In questa corrente di pensiero vanno a confluire le diverse forme di buddhismo delle origini, in cui era più forte una componente magica: gli eremiti e gli arhat, gli illuminati, convivono con dei, semidei, eroi mitici e spiriti.

Questo intreccio mistico-esoterico non si manifesta solo nel gesto del wai o nelle offerte alle case degli spiriti, ma compone la trama di tutta la vita thailandese. La natura come luogo degli spiriti è la scena della nouvelle vague letteraria, così come le catastrofi naturali sono interpretate quali presagi di rivolgimenti politici. Secondo l’astrologo Samrit Klomkliang, per esempio, lo tsunami del 2004 era la nam thuam lok, la piaga delle acque, manifestazione di un ordine cosmico turbato dal comportamento umano (nel caso specifico del premier Thaksin). La stessa causa ha provocato l’ha kin muang, la piaga che distrugge la città, manifestatasi il 21 marzo 2006, quando un giovane ha decapitato a colpi d’ascia il Pha Phrom, la statua del dio Brahma dai quattro volti, collocata nell’Erawan shrine.

La commistione magico-religiosa appare in tutta la sua evidenza proprio nei luoghi di culto canonizzati, sconcertando il visitatore occidentale. Gli indovini, i maghi, i cartomanti, svolgono la loro attività indifferentemente nei mercati o all’interno dei monasteri (che nei giorni di festa divengono essi stessi luogo di mercato). Il Wat Mahatthat di Bangkok ospita quella che è ritenuta la più importante università buddhista del Sudest asiatico, nonché l’International Buddhist Meditation Centre, ma le strade e i vicoli dell’area circostante sono consacrate a un immenso mercato di amuleti, talismani, rimedi naturali che spesso ricordano le pozioni delle streghe».

Bangkok

È difficile separare la superstizione dal sincretismo (così come può verificarsi per alcuni aspetti della religione cristiana), soprattutto per un difetto di conoscenza delle religioni e della cultura che sono alla base dello spiritualismo thailandese (e orientale in genere). Così si possono osservare con divertito scetticismo le cerimonie di un monaco di un Wat di campagna, un santone cui si rivolgono i contadini per esorcizzare gli spiriti, guarire le malattie, ammansire i bambini “cattivi”, predire il futuro. Ma analizzando i suoi riti in modo meno superficiale, se non addirittura strutturale, si scopre che sono modi di volgarizzare norme morali e tecniche di comportamento trasmesse dall’induismo e dal buddhismo, riconducendole a una forma animistica più comprensibile. Traducendo la formula “magica” con cui scaccia il malocchio, ci si rende conto che non sta facendo altro che ripetere le regole dell’Ottuplice Sentiero, dal corretto pensiero alla meditazione, su cui si basa l’etica buddhista e che permettono di raggiungere la salvezza.

Conservare e reinterpretare

Conservazione monumentale / reinterpretazione delle rovine: questo tema è piuttosto complesso, anche per le implicazioni religiose. Nel buddhismo Theravada, infatti, uno dei modi di guadagnare meriti per il proprio karma è fare donazioni ai monasteri affinché vengano riportai allo stato originale. Il che impedisce a molti monumenti di trasformarsi in rovine, ma è anche un concetto che ha impedito a lungo un’evoluzione artistica e architettonica.

Le tracce da seguire in questa parte sono molte.

Innanzitutto, il processo di Singaporizzazione. Anche o proprio perché si dimostra velleitaristico e impossibile per differenze culturali, sociali, religiose e determinato soprattutto da una mal concepita grandeur da parte dei militari.

Nell’ambito della reinterpretazione delle rovine un particolare impatto hanno i graffiti che stanno letteralmente ridisegnando Bangkok. In questa prospettiva rientra anche il recupero (a volte solo apparente) di alcuni quartieri specie sul lungofiume destinati a nuove categorie sociali come quella dei Ba-Bo-Bo Bangkokian Bourgeois and Bohemien. Ed è qui che si inserisce il tema delle shophouse, le vecchie case bottega della comunità cinese. In molti casi sono abbandonate. In altre si assiste a un tentativo di recupero (molto spesso vanificato), in altri ancora sono il nuovo oggetto di speculazione.

Le speculazioni immobiliari maggiori vanno a collegarsi a un sistema feudale di proprietà.

I grandi condomini destinati a espatriati e, ancor più, a possibili investitori cinesi, che rappresentano un’economia parallela oggi destinata a collassare. Sembra riprodursi il fenomeno verificatosi nel 1997 dopo la crisi finanziari delle borse asiatiche. Di cui è esempio la “Ghost Tower”, un grattacielo oggi destinazione di culto per i cacciatori di brividi, i graffitari, gli amanti del mistero, dei fantasmi, dei suicidi.

Bangkok

Gli slum

Altro elemento interessante sono gli spazi degli slum. Anche perché a Bangkok gli slum sono incorporati nel tessuto urbano spesso accanto a zone molto ricche. Su questo tema ho ritrovato gli appunti del giorno in cui visitai lo slum di Bang Sue. Riguardandoli mi sembrano ben più forti di un pezzo strutturato ed elaborato. Tanto che comincio a chiedermi se non sarebbe il caso di riprendere gli appunti raw in molte più situazioni. Il crudo e non il cotto.

Slum di Bang Sue. Vicino alla ferrovia. Più a nord poco dell’ultima fermata della BTS. Dice ci vivono circa 16.000 persone. Sembra sia uno dei più pericolosi. Specie per trafficanti di ya baa e killer che vengono reclutati qui per poche centinaia di dollari. Da qui, sembra, siano provenuti molti rossi di quelli pagati.

La stranezza degli slum di Bangkok, integrati nella città.

Padre Adriano dice che sono popolati da 4 milioni di persone. Molti venuti qua a cercare fortuna. Quando il raccolto nell’Isaan va male vengono a Bangkok. Molti fanno i taxisti. Affittano il taxi dal padroncino per circa 1000 baht al giorno.

Molte donne fanno i fiori di carta o fibra di legno per i funerali. Il lavoro viene svolto a catena. Ogni donna ne fa un pezzo. La paga media è di 2.5 baht a pezzo.

Qui fanno lavori che sono il primo anello di una catena di tante cose prodotte in Thailandia.

Una donna, prima la chiamavano la madre yaa, pazza. Adesso la madre amore.

Si cammina su passerelle, in mezzo a una specie di palude. Povertà e soprattutto malattia, soprattutto aids. Lei ha due figli.

Anche le case degli spiriti sono baracche.

Oggi è giorno di festa.

Molta gente al tempio, i bambini a casa.

In tutte le baracche ritratti del re.

La donna vive qui da 8 anni.

La casa gliel’ha comperata padre Adriano perché i malati di aids non erano accettati.

I bambini sorridenti. Tanti wai, molto alti.

Una delle ragazze che lavorano qui l’hanno aiutata ad andare in Italia a studiare. Poi sperano che torni qui ad aiutare.

Interessante sentire come Padre Adriano si rapporta a questa gente. Sembra che racconti favole.

Il cambiamento avviene quando non si limitano a ricevere aiuto ma aiutano gli altri, dice.

La difficoltà del microcredito.

Il gesto della benedizione è quasi sciamanico. Riprende in parte quello dei monaci. Ma il fatto sorprendente è che si facciano toccare la testa. Segno che riconoscono una sorta di potere a padre Adriano.

Non cristiani ma si fanno benedire. La trasmissione di energie positive, ma anche il piacere di essere toccati perché nessuno li sfiora.

Tutto avviene qui, all’interno: vendita di droga, prostituzione, traffico di esseri umani. Una situazione di degrado umano più che di povertà assoluta, almeno secondo i parametri di questa parte di mondo.

Sotto la casa comune un coltello dentro un giornale.

Donna anziana che non si lavava mai.

La prostituta ancora attiva in visita al figlio.

Vengono qui a reclutare bambini e bambine. Le bambine come prostitute. I bambini come compagni di giochi per signori ricchi. Che li mantengono bene e li fanno studiate. Le famiglie quasi sempre sono complici. Anche se il termine non è giusto. In molti casi lo vedono come un bene.

Altra donna. Marito in carcere. La figlia sembra balli bene. Probabilmente avviata ai bar. Ha 12 anni. Secondo un’altra versione fa la maestra di danza. Comunque sia mantiene la madre. Differenze di visioni.

Tutti col telefonino. Vecchi tv.

Il figlio è voluto andare nella casa-famiglia di padre Adriano perché qui litigavano, lo picchiavano.

La donna mostra sacchetti di pillole e medicine per stress, pressione alta, depressione, aids.

Le fogne sotto le case, paludi e stagni con serpentelli d’acqua.

Un piccolo boss locale tatuato accucciato all’interno dello scheletro di una casa.

Il kathoey.

Non sembra esserci traccia di politica. Ma qui ti rendi conto di molte cose e di come la rivolta possa esplodere all’interno stesso di Bangkok.

Il ragazzo che fa l’università aiutato dal Pime e adozioni a distanza. Aiuterà gli altri? Un ciclo. Intrecci di piccole storie.

Popolazione che può superare la rassegnazione e arrabbiarsi.

Le donne raccolte a pregare.

Bangkok

Foto Shutterstock / Waruto Sama Studio

Le differenze verticali

Il tema dei cambi di destinazioni d’uso di territori, quartieri, dei dislocamenti; dei cambi di flussi di merci; del cambio di flussi migratori. Tutti questi temi a Bangkok sono tra i più complessi da sviluppare.

A Bangkok le differenze, più che orizzontali, differenze di quartieri ecc., sono verticali. È una metropoli postmoderna, divisa in un sopra di grattacieli e centri di potere e in un sotto di bassifondi al neon, disseminati da banchetti di street-food. Un’immagine “Bladerunneresque”. Il termine è stato coniato nel 1998 dal thailandese S.P. Somtow, compositore, direttore d’orchestra, scrittore di fantascienza, fantasy, horror. Somtow, a sua volta, si rifaceva a Blade Runner, il film uscito nel 1982 che presentava una Los Angeles del 2019 asiatizzata. Col passaggio del millennio e il trascorrere dei decenni nell’immaginario collettivo la scena si è spostata a Occidente (rispetto a Los Angeles: curioso il relativismo delle coordinate geografiche) ossia in Asia.

L’immigrazione dall’Isaan, il Nordest della Thailandia, la regione più povera, è un altro punto che ricorre in tutto il libro in diverse forme. Un fenomeno descritto nella Graphic Novel del già citato Claudio Sopranzetti, Il re di Bangkok. Un fenomeno che oggi si sta invertendo col ritorno ai villaggi e alle campagne di tutti e tutte coloro che hanno perso il lavoro per il Covid.

Nel frattempo, si è modificato il fenomeno migratorio birmano. Dopo il colpo di stato del febbraio 2020 è aumentato il numero di birmani “ricchi” che si sono rifugiati in Thailandia sia perché contrari al nuovo regime sia perché pur essendo legati ai militari volevano evitare una situazione potenzialmente pericolosa e, soprattutto, disagevole. Al tempo stesso, causa Covid, si è ridotto il numero dei lavoratori frontalieri ed è aumentato il numero dei profughi. Fenomeni che toccano Bangkok, pur marginalmente. Molte domestiche e camerieri nei ristoranti, infatti, provenivano dalla Birmania.

Altra componente fluttuante della popolazione di Bangkok che incide profondamente sulla struttura urbana è quella degli expat. In alcuni casi le comunità di espatriati hanno creato vere e proprie enclave (specie lungo la zona di Sukhumvit) che in seguito sono divenute poli d’attrazione per diverse classi sociali.

Specifico anche il tema della comunità cinese (che ritroviamo anche in altre sezioni) in un percorso storico che passa dalla prima immigrazione – che ha poi formato la comunità sino-thai divenuta la più importante economicamente – sino all’ultima generazione di cinesi che più che spostare la famiglia, come accadeva, spostano capitali investendo in Thailandia (soprattutto nel settore immobiliare). Un fenomeno che però sta rallentando se non fermandosi in seguito al Covid con conseguenze disastrose per l’economia thai.

 Bangkok e il suo caos

Un altro mio testo, emblematico della ricchezza di diversità di questa città. È sul quartiere di Kadeejeen, che rappresenta un unicum nella stessa Bangkok.

«È una sera di dopo pioggia: l’aria è ancora fresca prima di divenire afosa e profuma dei fiori di frangipani. Passeggio su una banchina lungo il Chao Phraya, il fiume di Bangkok. Non c’è rumore di traffico, solo dei battelli. Le luci sono i lampioni sulla banchina e le lanterne di un tempio. Sullo sfondo si accende lo skyline di grattacieli del centro. Vedo anche casa mia. Ci si può arrivare a piedi ma sembra all’orizzonte.

È strano. Anche chi ci abita vicino non lo conosce. E quando lo scopre magari vorrebbe venirci a vivere» dice Niramon Kulsrisombat, giovane professoressa dello Urban Design and Development Center dell’università Chulalongkorn. Parla di Kadeejeen, un chilometro quadrato di quartiere intersecato da trok e khlong, le calli e i canali che rendevano Bangkok la Venezia d’Oriente, dove convivono comunità buddhiste, taoiste, cristiane e musulmane.

Si trova sulla riva destra del fiume, poco a sud del Wat Arun, il tempio dell’alba, uno dei più famosi monumenti della capitale thai. Sull’altra sponda, c’è la festa mobile del Pak Klong Talad, il mercato dei fiori, e di Chinatown, una delle più grandi dell’Asia. A osservarlo da quella riva, Kadeejeen appare un panorama discontinuo: la guglia verde di una moschea, i pinnacoli bianchi dei chedi, i reliquiari buddhisti, i tetti ricurvi coperti da tegole dei templi cinesi, magazzini e facciate di case in legno, spazi che sembrano lembi di boscaglia da dove spuntano alberi di mango, papaya e banani, la facciata neoclassica della chiesa cattolica che ha “battezzato” il quartiere. 

Kadeejeen significa “abitazione cinese dei monaci”: la chiesa di Santa Cruz, costruita nel 1769 da un vescovo francese e dai suoi fedeli portoghesi, fu distrutta da una delle cicliche esondazioni e ricostruita nel 1835 imitando lo stile delle pagode cinesi. Quella che si vede oggi è la terza versione, costruita nel 1916 su disegno degli architetti italiani Annibale Rigotti and Mario Tamagno. Le dook malai, le ghirlande di fiori offerte agli spiriti degli antenati e al Buddha, sono deposte sotto la statua della Madonna».  

Bangkok

Fonte: Sitta Kongsasana

«“Una lettura del caos di Bangkok è un esercizio di comprensione della funzione del caos nella vita d’ogni giorno”, ha scritto Ross King, studioso delle “identità contestate” nelle città asiatiche. Secondo King il “caos” di Kadeejeen ha determinato la “giustapposizione”, l’accostamento tra elementi diversi. Altrove, alla ricerca dell’ordine, si verifica una “sovrapposizione”.

“La maggioranza dei parrocchiani sono thai-cinesi, ma gli antenati sono portoghesi”, dice la signora Tang, segretaria-perpetua di Santa Cruz, rivendicando sia la propria ascendenza lusitana e religione cattolica, sia il culto degli antenati che il buddhismo thai ha sincretizzato da quello cinese.

“Quest’area è l’epitome della composizione urbana di Bangkok. Ogni comunità riflette il proprio patrimonio culturale in tutti i suoi aspetti ma tutte sono strutturate secondo il tradizionale sistema sociale di “Baan-Wat-Rongrian”, comunità-tempio-scuola dice Niramon.

“Nella nostra scuola solo il dieci per cento degli è cattolico”, dice J. “Bosco” Wittaya Kooviratana, parroco di Santa Cruz. “Gli altri sono buddhisti e musulmani. L’insegnamento di religione è sia cattolico sia buddhista. I ragazzi musulmani, invece, la studiano nelle scuole della moschea, ma gli imam locali vengono spesso qui per incontrarsi con me e i monaci buddhisti. C’è armonia”. 

Secondo Niramon deriva da una tradizione cosmopolita. Qui, infatti, si trovava la dogana dove si fermavano le navi mercantili dirette ad Ayutthaya, settanta chilometri più a nord. Capitale del Regno del Siam sino al 1767, che aveva stretto relazioni con Cina, Giava, Malesia, India, Ceylon, Persia, Giappone, Portogallo, Francia, Olanda e Inghilterra. Kadeejeen divenne poi il centro di Thonburi, nuova capitale tra il 1767 e il 1772, dove il re Taksin il Grande fu seguito dai suoi alleati portoghesi, da mercanti cinesi e vietnamiti. Con la deposizione di quel re e il trasferimento della capitale sulla riva sinistra del Chao Phraya, è iniziato anche il declino di Kadeejeen. In tempi più recenti il quartiere è stato penalizzato dalla sua struttura: non è accessibile in auto ed è stato abbandonato da chi ha trovato lavoro nei nuovi insediamenti industriali.

“Molti degli abitanti hanno affittato le loro case a gente venuta da fuori, che non rispetta le nostre regole”, lamenta Vorachai Pilasrom uno dei leader della comunità.

“A chi vuole visitarlo consiglio sempre di mangiare e bere prima”, scherza Niramon. Il che, in una città dove a ogni angolo si trova almeno un banchetto che vende zuppe, è più che un paradosso.

In compenso, girovagando per i trok, dove le porte sono sovrastate dalle immagini della Sacra famiglia, della Madonna, dagli specchi taoisti per respingere i demoni o da piccoli azulejo, si scopre una bottega dove preparano i khanom farang, i “dolcetti stranieri” che riprendono una ricetta portoghese. Non sono quelli che mangiava Pessoa al “Café a Brasileira” di Lisbona – anche perché qui usano uova d’anatra e non c’è ripieno – ma Jek e Maam, le sorelle che rappresentano la quinta generazione di pasticceri, assicurano di prepararli come 200 anni fa. “Abbiamo solo ristrutturato il locale. Più alla moda”.

È uno dei piccoli segni di ciò che Nirman chiama la “nostalgia per le belle vecchie cose che si diffonde nella società thai” e che può innescare un processo di “rigenerazione” urbana sostenuto dalla “nuova attenzione della politica per la cultura”.

Seguendo questo progetto i trok sono stati ridefiniti come “piste ciclabili” ed è stato realizzato un tratto di passeggiata lungofiume che va dal monastero buddhista di Wat Kalaya sino alla base del Memorial Bridge costeggiando il tempio dao-buddhista di Kian An Ken e la parrocchia di Santa Cruz. Il piano era di proseguire, collegandosi alla zona sud di Kadeejeen. Peccato che il percorso sia bloccato da una palazzina in cemento. Dicono sia un casinò gestito dalla mafia locale.

Aggregazione, mercati e socialità

“I luoghi di aggregazione attorno allo scambio di merci, come i mercati popolari e la proliferazione come un virus di elementi alieni come gli outlet”.

Questo punto delle linee guida tocca una delle specificità di Bangkok, attrazione turistica, parte stessa del tessuto urbano, I mercatini sono aperti ovunque, lungo le strade principali, nei soi, attorno ai templi e alle zone monumentali. Sono, come nell’uso asiatico, un conglomerato di prodotti di ogni tipo e genere, destinati sia ai turisti (in epoca pre-Covid) sia ai locali. Uno per tutti quello di Chatuchak. È la madre di tutti i mercati thailandesi, probabilmente uno dei più grandi di tutta l’Asia, visitato ogni weekend da oltre 200.000 persone. Comprende quasi 10.000 punti vendita Chatuchak è un piccolo mondo a sé, un microcosmo di cultura e tradizioni thai. Altri mercati come il Tha Prachan, il mercato degli amuleti e dei talismani, o il Pak Klong Talaat, il più grande mercato all’ingrosso di fiori, piante e prodotti ortofrutticoli rappresentano un unicum di Bangkok. In realtà i mercati rappresentano un metaverso di Bangkok che credo debba proprio essere analizzato in quanto tale.

Il fenomeno ha una sua deviazione in quello degli shopping-mall, i templi della Bangkok contemporanea. Attenzione però a non considerarli non-luoghi in opposizione ai mercati in quanto anche i mall sono un’espressione della cultura edonistica thailandese.

I mercati e i mall hanno tutti subito profonde mutazioni (in alcuni casi sono divenuti “rovine” nel senso dato al termine da Marc Augé) in conseguenza del Covid e della crisi economica. Solo i mercati, invece, sono toccati dal processo di singaporizzazione in atto che li limita, li circoscrive, quando non li abolisce quali luoghi simbolo di un’identità misera, sporca. Problema che così non solo non viene risolto ma addirittura amplificato. Eliminando banchetti e bancarelle, infatti, viene a mancare chi si occupava della pulizia della strada.

In questo specifico ci sono poi casi più complessi. Innanzitutto quello di Chinatown, in quanto quartiere di mercati, di aggregazione, centro gastronomico e culturale, toccato sia dalla volontà dei governi semicivili di cambiare volto a Bangkok, sia dal Covid, con la conseguente scomparsa del turismo cinese.

Altro esempio interessante che s’interseca (come i precedenti, peraltro) con la tematica degli spazi adibiti o riservati ad aggregazione improntata alla socialità, è quello del quartiere di Banglampoo e, in particolare di Khaosan Road, il nucleo storico degli hippies, poi dei backpackers con tutte le luci e le ombre, i problemi, gli equivoci, gli stereotipi che questo comporta. Il che non piaceva a Sakoltee Phattiyakul, vicegovernatore di Bangkok che ha proceduto a un’operazione di maquillage che ha totalmente snaturato il genius loci.

La smart city

Il tema delle smart cities trova a Bangkok una rappresentazione plastica, sia pure in divenire. È One Bangkok, un iperprogetto di quartiere nel bel mezzo della città. E proprio accanto ai margini dello slum di Khlong Toey. Il tutto, ovviamente, amplifica sia i meccanismi di controllo sia l’immagine bladerunneresque.

La mobilità urbana si esprime soprattutto nel contrasto tra il sistema integrato del rapid transit (metropolitana, skytrain, ossia la metropolitana sopraelevata, monorotaia e bus rapidi) e il sistema di trasporti pubblici di bus e songtaew (pick-up adibiti al trasporto persone). Tanto il primo è efficiente, rapido e comodo, tanto l’altro è scomodo, soggetto a un traffico interminabile e soprattutto sprovvisto di aria condizionata. In compenso quest’ultimo è economico mentre il primo è molto costoso, tanto che è utilizzato solo dal 3 per cento della popolazione locale. Un tema che andrebbe ampliato riconsiderando l’importanza dei mototaxi.

Efficienza sanitaria: hospitality e servizi

Il sistema sanitario thailandese e il livello delle sue strutture ospedaliere, almeno considerandolo in relazione all’area Asean, si può considerare tra i migliori, se non il migliore. La stessa immagine del Siriraj hospital, dove ha praticamente trascorso gli ultimi anni della sua vita il precedente re, è la rappresentazione di un sistema efficiente.

A livello personale osservo ogni giorno le code di persone che attendono per un tampone o per la vaccinazione nell’ospedale accanto al mio condominio e ne ricavo un’impressione “tranquillizzante”.

Il testo che segue presenta un’altra realtà del sistema, quello degli ospedali privati e del loro impatto nella struttura sociale e urbana, ma dà anche qualche cenno sul pubblico.

«La card del BNH (il Bangkok Nursing Home Hospital) o del Bumurngrad Hospital, è una specie di talismano per viaggiatori ed espatriati in Sudest asiatico.

Basta telefonare appena sbarcati al Suvarnabhumi Airport e mezz’ora dopo si è accolti da un’efficiente, impeccabile impiegata in tailleur che ti accompagna al reparto dove ti attende il medico. Se devi ripartire da Bangkok il giorno seguente, ti consiglia un ricovero in day hospital per le analisi del caso. Nelle ore che seguono sei costantemente accudito da sorridenti infermiere e più tardi, in genere dopo aver consumato un pasto scelto tra quattro menù (due orientali e due occidentali) oppure à la carte, il medico ti illustra in dettaglio il tuo quadro clinico, che sarà poi inviato via mail con tutti i risultati delle analisi. Se non ci sono problemi, ti dimettono, consegnandoti un sacchetto che sembra quello di una boutique di Gucci, con la fattura, il referto e le medicine.

Ospedali come il BNH o il Bumurngrad sono anche la meta per il check-up annuale, che si svolge in giornata (previa prenotazione ventiquattro ore prima),

Ma considerarli solo per le emergenze o il controllo periodico è riduttivo. Almeno secondo Thanasit Siripokhakul, responsabile marketing del BNH. “Il turismo medico sta entrando in una nuova fase. Non si approfitta più della vacanza per un check-up ma ci si va a far curare e se ne approfitta per una vacanza. In quest’ottica si valuta il rapporto qualità-prezzo, non il risparmio” dice Thanasit, che vanta l’altissima specializzazione del suo istituto nel campo della chirurgia spinale mini-invasiva.

Tecnologie d’avanguardia, standard medico, ottimo rapporto qualità-prezzo e la cultura thai per l’ospitalità, hanno reso la Thailandia un medical hub, destinazione privilegiata per viaggiatori che hanno scelto di curarsi qui. Secondo il Kasikorn Research Centre sono un milione e mezzo circa di pazienti di 150 nazioni.  «Senza contare gli expat, gli stranieri residenti in Thailandia, ci sono diverse tipologie di turismo medico» spiega Ruben Toral, direttore marketing del Bumurngrad. “C’è chi approfitta di una vacanza per sottoporsi a trattamenti soft: cure dentistiche, interventi estetici. Ci sono business traveller che si prendono un giorno libero per un check-up. C’è chi è arrivato per cure più importanti ma vuole cogliere l’occasione di andarsene un po’ in giro”.

Il Bumrungrad International Hospital Campus di Bangkok.

Per soddisfare le esigenze di tutti, gli ospedali finalizzati al turismo medico e al mercato degli expat hanno aperto nelle centrali Shukumvit e Sathorn road, tra i grandi alberghi e i grattacieli delle banche e delle multinazionali, e si sono attrezzati con business centre, agenzie di viaggio e disbrigo pratiche, interpreti. Oltre a tutti i servizi di un hotel cinque stelle: ristoranti, coffee shop, Spa.

L’attrazione maggiore dell’hospitality, dunque, è rappresentata dai servizi. I costi sono un richiamo soprattutto per gli americani, che qui risparmiano circa otto volte. Per i cittadini della Comunità Europea, grazie alle politiche di welfare, la convenienza è limitata alle prestazioni non coperte dai servizi sanitari nazionali e il risparmio maggiore è soprattutto nei tempi di attesa, praticamente azzerati.

Lo sviluppo della Thailandia come medical hub, tuttavia, ha creato qualche timore sulle conseguenze sul sistema medico nazionale. Un ragionevole dubbio riguarda dove preferiscano lavorare i medici. Difficile credere che siano molti gli “illuminati” che sceglieranno di operare nelle più remote province del paese, anziché in un ospedale privato. Secondo il dottor Nabahawacharakul, però, i problemi sono compensati dai progressi: “Sono molto orgoglioso del servizio medico thailandese: sono stati fatti enormi passi avanti da quando mi sono laureato, vent’anni fa”.

Orgoglio a parte, è un fatto che il sistema sanitario thai si sia rivelato efficace: gli indici di aspettativa di vita e mortalità infantile sono tra i più positivi dei paesi in via di sviluppo e nettamente migliori di quelli dei paesi dell’area. Dal 1975, infatti, il governo ha iniziato un programma di welfare per assistere le fasce più povere. Quindi è stato istituito il Social Security Scheme, un sistema di previdenza misto (contributi obbligatori e assicurazioni private), in cui la contribuzione media era del 4.5% sullo stipendio. Nell’ottobre del 2001, per garantire a tutti l’assistenza medica, è stato introdotto lo Universal Health Care Scheme, più conosciuto come “piano dei 30 bath”, un programma di assistenza medica secondo cui ogni cittadino può essere visitato a una tariffa standard di 30 bath (circa 60 centesimi) per visita, mentre i medicinali sono gratuiti.

Per far fronte all’aumento della spesa si sta rivalutando la medicina tradizionale: è stato calcolato che il solo uso delle erbe medicinali anziché farmaci di sintesi può far risparmiare allo stato circa 3 miliardi di bath l’anno (62 milioni di euro). Il valore della medicina tradizionale, però, non è solo economico. “La medicina occidentale richiede ricerche e dati. La nostra comprende una quantità di fattori che non si possono verificare con l’esperienza. Si basa su un concetto di forze che devono essere poste in equilibrio, piuttosto che sul concetto sintomo-analisi-cura. Ma quando il sapere popolare è tradotto in cultura contemporanea, si possono scoprire nuovi modelli terapeutici” spiega Pennapa Subcharoen, direttrice del National Institute of Thai Traditional Medicine».

La cultura globale asiatica a Bangkok

Lo spirito della città dal punto di vista della storia culturale, la custodia e la valorizzazione delle espressioni artistiche, la creazione di eventi e delle loro interpretazione tra musica, arte, discipline artistiche e loro influenza… Sarebbe bello riuscire a ricondurre a questa analisi più scientifica l’atmosfera della città, per cui il piglio è assolutamente lasciato all’estro dell’estensore: narrazione personale, analisi impersonale, dati su cui improntare il fulcro della propria esperienza amalgamando lo sguardo esterno con il coinvolgimento emotivo.

«A Bangkok ti rendono protagonista. Se sei bravo o no, non importa», dice Andy Martin, un vecchio musicista e viaggiatore. Se dopo molti vagabondaggi si è stabilito qui – si esibisce all’Adhère, un club di Banglamphu – è per lo spirito di Bangkok. Secondo lui è blues.

La linea guida, che condivido appieno, è tutta qui, con una coincidenza assolutamente non casuale.

Questa parte è una delle più complesse del libro. Cito alcuni elementi:

  • Bangkok come location di film. Pre-Covid ne venivano girati oltre mille.
  • Come tema di film.
  • Oggetto di serie televisive Netflix.
  • Bangkok come scena letteraria, nei romanzi di Tew Bunnag, Prabda Yoon, figura di spicco dell’ambiente culturale e creativo thailandese o Saneh Sangsuk.
  • Bangkok come scena musicale. Da quella dei locali di jazz e blues a quella dei gruppi rap, una realtà molto attiva e interessante. Il più noto è Rap Against Dictatorship, il cui primo lavoro “Prathet Ku Mi” (Questo è il mio paese) è divenuto virale globalmente. Vi consiglio di guardare il video.

Per quanto il milieu culturale possa apparire a volte ingenuo e superficiale (sempre condizionato dall’edonismo dello spirito thai) Bangkok comincia a divenire uno dei centri della cultura globale asiatica, un melting pot di tendenze, un laboratorio di visioni. È come se tutti qui venissero contagiati da una specie di realismo magico che s’infiltra in ogni narrazione.

«Hai già mangiato?»

Le linee guida del libro suggeriscono “l’analisi dell’incidenza del comparto eno-gastronomico su una città, se questo è particolarmente rappresentativo”. A Bangkok lo è (solo quello gastronomico, non enologico, anche se i thai iniziano ad apprezzare il vino).

Qui un testo dedicato alla gastronomia, in particolare allo street food. È stato realizzato in epoca prepandemica. Ora la scena ha subito una profonda mutazione che credo sia destinata a mantenersi. Ma lo street food sarà sempre più centrale nella vita dei bangkokiani anche per le ristrettezze economiche.

«Altra iniziativa di marketing governativo è l’edizione della guida Michelin dedicata a Bangkok, che ha riscosso più attenzione mediatica del rinvio delle elezioni al 2019.  Ciò che ha fatto davvero notizia è l’assegnazione di una stella al Jay Fai, un “umile” ristorante a pochi passi dal quartiere dei backpackers (l’omelette al granchio è davvero stellare).

“Kin khao reu yang?”. In Thailandia è un saluto comune, specie tra le classi popolari. Significa “Hai già mangiato?”. Qualunque sia la risposta, in genere è seguita da un Kong kob kiao, un invito a “mangiare una cosa”.

I thai mangiano tre volte il giorno, a colazione, pranzo e cena, ma soprattutto alternano i pasti principali, piuttosto leggeri, con una serie di spuntini. Sono momenti di sanuk, gioia di vivere, concetto basilare nella cultura locale. Proprio per questo preferiscono farlo in compagnia e fuori casa. Nella maggior parte dei casi si ritrovano “foot bat”, sul marciapiede, con un’espressione anglo-thai che indica lo street food, il mangiare per strada, generalmente seduti di fronte a un rot khen, un carretto-cucina, a un banchetto o in un piccolo ristorante sotto una tettoia. A Bangkok ne sono censiti circa 1600, cui si aggiungono quelli senza licenza. Senza contare gli hahp, i banchetti umani, quei bilancieri di bambù cui sono sospese due ceste di cibi pronti che il venditore porta in giro sin nei vicoli più stretti. All’opposto, nei più lussuosi shopping mall, interi piani sono consacrati allo street food in versione hi-tech. Ideali per chi vuole provare il cibo di strada senza preoccupazioni igienico-sanitarie.

Bangkok

Come non c’è angolo della metropoli in cui non si ritrovi un banchetto, persino ai piedi dei grattacieli delle multinazionali di Sathorn road, ogni momento è buono per uno snack. I rot khen e le cucine dei mercati aprono verso le 5 del mattino e proseguono ininterrottamente sino alle 21. Durante le ore d’ufficio è un andirivieni ai banchetti di kanom, dolcetti a base di riso glutinoso, pasta di cocco e gelatine. Sono il pretesto per una pausa, l’equivalente thai dell’espresso. David Johnson, inglese stabilito in Thailandia, direttore della casa editrice Asia, lo chiama “Kanom Factor”: “Può risolvere quei momenti di tensione che si creano in ufficio” assicura.

In serata ci si sposta ai tavoli dei night market, i mercati notturni (che aprono verso le 18), dove i banchi di gastronomia si alternano a quelli d’abbigliamento. Da mezzanotte in poi il punto d’incontro sono i venditori ambulanti che battono i quartieri a luci rosse come Nana o Patpong e i soi, le vie, laterali di Sukhumvit road, l’arteria principale di Bangkok. La loro specialità sono i takataen, i grilli fritti: le ragazze dei bar ne sono ghiotte.

“Finché c’è riso nei prati e pesce nei fiumi, la gente sarà felice” recita un antico detto thai. Ma la cultura gastronomica nazionale va ben oltre questa semplicità buddhista. Da secoli la Thailandia è polo d’attrazione per migranti, mercanti e trafficanti di ogni parte dell’Asia, che prima o poi si ritrovano tutti a Bangkok, portando con sé dei, demoni, droghe e spezie.

Bangkok

«A Bangkok si può gustare il miglior street food del mondo perché il mondo s’incontra nelle strade di Bangkok”, sostiene Vatcharin Bhumichitr, guru della cucina thai. Vi si ritrovano gusti e sapori khmer, lao, malaysiani, indiani, birmani, cinesi».

“I noodles sono una delle grandi religioni laiche della Thailandia”, ha scritto Ung-aang Talay, il più noto dei critici gastronomici locali. E i tagliolini, in tutte le loro varianti, sono la base dello street food».

Luci rosse

«La collocazione e la gestione degli eventuali quartieri a luci rosse e come si inseriscono all’interno del funzionamento cittadino» è un tema proposto nelle linee guida. Per Bangkok è un tema inevitabile, complesso, ambiguo, che molto spesso falsa qualunque immagine della città e del paese. Un tema che intendo sviluppare sia in forma narrativa, sia “antropologica”.

«L’industria del sesso si è sviluppata dagli anni Cinquanta e Sessanta, durante le guerre di Corea e del Vietnam, quando i militari americani trascorrevano in Thailandia il periodo di R&R, rest and recreation. Da allora ha continuato a espandersi. Ma se il fenomeno è divenuto così rilevante, la responsabilità non va ascritta all’influenza occidentale, come spesso fanno i critici della “globalizzazione”. Deriva da un atteggiamento culturale locale. «La società ha sempre accettato il concubinaggio e la prostituzione» spiega la professoressa Pasuk Phongpaichit. E frequentare i bordelli è una forma di socializzazione. Alcuni sono un vero e proprio status symbol, club esclusivi a cui possono accedere solo i rappresentanti dell’élite. Contrariamente a quanto si crede, gli imprenditori e i manager occidentali si trovano spesso in imbarazzo quando sono invitati a concludere la giornata di lavoro “in compagnia”.

Secondo questa cultura in cui il sesso non è “peccato”, la prostituzione non comporta un giudizio negativo. Lo si avverte in modo preciso nei villaggi più remoti, dove ci si vanta della figlia che “è andata a lavorare a Bangkok”. Per molte donne la prostituzione diviene così la scelta più comoda: per l’acquisto di abiti firmati, superare un momento di delusione o addirittura per elevarsi socialmente. In molti casi, stanche di lavorare come cameriere, cominciano a prostituirsi e tornano nel ristorante dove servivano per esibire i segni materiali dei nuovi guadagni. Magari con un fidanzato che mantengono solo per dimostrare che esercitano potere su qualcuno.

Per moltissime giovani, poi, la prostituzione è un obbligo determinato dal vincolo del debito. Le donne, infatti, non possono divenire bikkhuni, ossia monache Theravada. Il che significa che alle bambine di famiglie povere, specie nelle remote zone rurali, è praticamente preclusa ogni forma d’istruzione. Ancor maggiori le implicazioni psicosociali: col noviziato, infatti, i ragazzi acquisiscono meriti non solo per il loro karma, ma anche per quello dei loro genitori. Il che consente di ripagare il debito morale (e materiale) contratto con loro. Le ragazze, invece, non hanno tale possibilità e questa, in alcuni casi, è la ragione che le spinge in città cercando di far fortuna come prostitute.

Alcune di loro, le più belle o fortunate, si assicurano una vita migliore come “mia noi”, moglie minore. Figura difficile da definire negli schemi socioculturali occidentali, aiuta a comprendere la concezione thai del rapporto sessuale: è un’amante, ma di status superiore, anche perché è lei stessa uno status symbol e, in quanto tale, è spesso accettata dalla moglie “maggiore”. La stessa concezione del sesso distinto da valutazioni morali spiega anche la presenza così evidente dei kathoey, i travestiti o transessuali (spesso definiti anche lady boy) che in Thailandia rappresentano davvero il terzo genere, nel senso che sono accettati (anche se spesso in modo caricaturale) in tutti gli strati sociali.

È chiaro tuttavia che tanta disinvoltura e lo sfruttamento economico che ne è derivato abbiano creato non solo equivoci ma anche deviazioni culturali.

“Le tre cose più importanti per un uomo sono il sesso, il denaro e il potere”. Parola di Chuwit Kamolvisit, fondatore del Phak Rak Prathet Thai, Amare la Thailandia, un partito ultrapopulista. Chuwit, noto come “il re delle sale da massaggio” è l’ideatore dei bordelli di lusso thai. “Ho applicato lo stile della lounge alla sala da massaggio per creare un ambiente rilassante”, spiega Chuwit, che ha introdotto anche altre innovazioni. “Le ragazze sono free-lance, vanno e vengono quando vogliono e possono rifiutare un cliente. In questo modo ho reclutato quelle che non sarebbero state disponibili». È nelle salette Vip dei suoi locali che si ritrovano, senza cercare di nascondersi, i rappresentanti politici ed economici dell’ammart, l’élite thailandese. “In parlamento ho incontrato molti vecchi clienti”, dice Chuwit.

“La nostra società ha sempre accettato il concubinaggio e la prostituzione. Perdere la verginità in un bordello è un rito di passaggio per i giovani thai”, spiega la professoressa Pasuk Phongpaichit della Chulalongkorn University di Bangkok, autrice di “Guns, Girls, Gambling, Ganja”, saggio sull’economia illegale. «Frequentare i bordelli è una forma di socializzazione, un’occasione d’incontro tra colleghi, un modo informale di fare affari. Alcuni sono un vero status symbol riservati ai rappresentanti delle élite».

“Per la nostra concezione del sesso, così intrecciata alla religione, non riusciamo a comprendere gli orientali”, dice John Burdett, ex avvocato inglese espatriato in Thailandia, autore di thriller che hanno per protagonista un detective buddhista. “Per loro è più importante assolvere i propri obblighi nei confronti della famiglia, del villaggio, non ‘perdere la faccia’ con comportamenti che possano danneggiarli. E il sesso non rientra tra questi. Personalmente mi sento molto più libero qui”.

Tanta “libertà” può essere motivo d’imbarazzo per gli occidentali in cui sia più radicata la cultura della colpa. Tanto che una guida per businessman in Thailandia mette in guardia contro gli inviti alle cene di lavoro avvertendo che spesso si concludono in un bordello. Una volta là, non ci si può limitare a bere un whiskey. Rifiutare la compagnia sarebbe considerato scortese, significherebbe davvero far perdere la faccia al proprio ospite.

Contrariamente all’opinione diffusa secondo cui sarebbe stata l’influenza occidentale a “corrompere” l’originaria innocenza orientale, quindi, sono gli occidentali, in particolare gli anglosassoni, a sentirsi minacciati dalla disinvoltura sessuale asiatica».

Lo spettacolo della Condition Humaine

«“Siedi e goditi lo spettacolo della Condition Humaine”, dice Eric, un francese espatriato in Thailandia. Il suo palco è il bancone di un pub all’ingresso del NEP, il Nana Entertainment Plaza, una delle zone a luci rosse di Bangkok. È una specie di corte occupata da una decina di locali identici: un tavolo da biliardo e un bar dove siedono ragazze in top e microshort. Nei palazzi attorno, sulle scale e sulle terrazze, si aprono altri bar, ristoranti, bordelli, sale massaggi. Ai piedi di una rampa di scale mobili è collocato un san phra phum, un tempietto dedicato ai Phi, gli Spiriti. Le ragazze s’inchinano, giungono le mani sulla fronte nel gesto del wai, bruciano un mazzetto d’incenso, depongono un mango o un dolcetto per propiziarsi una serata proficua. “I farang, gli stranieri, non capiscono che per queste ragazze loro sono soprattutto un mezzo di emancipazione sociale. Quando una cameriera comincia a prostituirsi vuole tornare nel ristorante dove lavorava per far vedere che ce l’ha fatta. Magari ci va con un fidanzato che lei mantiene. E le sue colleghe la osservano con invidia”. Per molte giovani, poi, la prostituzione è un obbligo determinato dal vincolo del debito morale contratto con i genitori. In Thailandia, poiché non è loro concesso di far parte della comunità monastica e quindi estinguerlo in tal modo – guadagnando meriti per la famiglia – spesso sono costrette a prostituirsi per compensarli in denaro.

Tutto ciò ha radicalizzato l’equivoco che grava sul viaggio in Thailandia, identificato come un pretesto per uomini in cerca di sesso facile. Spesso è così, ma ce ne sono molti altri che cercano l’ultima occasione della vita: realizzare il sogno di un posto di tranquillo esotismo, dove non c’è stress e possono sentirsi liberi in dolce compagnia. Lo dimostra il costante aumento delle “mia farang”, le mogli di stranieri. “Le donne thai hanno meno pretese e sono più disponibili a comportarsi secondo il ruolo tradizionale femminile”, dice l’ineffabile Eric. Una delle parole inglesi più ripetute da queste donne è handsome: bello, prestante. L’aggettivo, applicato indiscriminatamente, alimenta le illusioni degli occidentali che pensano di avere uno speciale charme o speciali attributi».

Segui tutti i contenuti attinenti a questo Studium

L'articolo Bangkok proviene da OGzero.

]]> Giappone: la tollerabile gravità del nulla https://ogzero.org/abe-shinzo-e-il-giappone-la-tollerabile-gravita-del-nulla/ Sat, 23 Jul 2022 00:04:29 +0000 https://ogzero.org/?p=8252 Già Wim Wenders aveva sottolineato in Tokyo-ga il carattere inciso sulla tomba di Ozu Yazujiro: mu, che vuol dire “nulla” (sequenza a cui fa riferimento l’immagine in copertina); Roland Barthes ragionava sul fatto che al centro dell’impero nipponico ci sia un’immensa oasi di vuoto attorno alla casa dell’imperatore. Il senso di assenza di materia come […]

L'articolo Giappone: la tollerabile gravità del nulla proviene da OGzero.

]]>
Già Wim Wenders aveva sottolineato in Tokyo-ga il carattere inciso sulla tomba di Ozu Yazujiro: mu, che vuol dire “nulla” (sequenza a cui fa riferimento l’immagine in copertina); Roland Barthes ragionava sul fatto che al centro dell’impero nipponico ci sia un’immensa oasi di vuoto attorno alla casa dell’imperatore. Il senso di assenza di materia come motore culturale dell’arcipelago giapponese può essere una delle chiavi adottate in questa analisi di Carlotta Caldonazzo riguardo a strategie geopolitiche e forme di lutto nazionale per la morte di un simbolo come Abe Shinzo.

Tokyo è forse il fulcro della talassocrazia statunitense ed è l’alleato chiave per Washington tanto nella strategia di contenimento dell’intraprendenza geoeconomica (e geopolitica) cinese, quanto su un eventuale fronte russo sul Pacifico. Sul piano interno, intanto, un’apparente «continuità» cela un tessuto sociale devastato dalle diseguaglianze e da fratture storiche, che affondano le radici soprattutto nella tensione tra la necessità di accettare la propria condizione di sovranità mutilata e l’aspirazione allo status di potenza.


Molto rumore per nulla?

Come ha osservato Marco Zappa in un’intervista trasmessa da Radio Blackout, al di là delle riflessioni di buona parte della stampa internazionale sulla sua importanza storica e sulla sua eredità, l’uccisione dell’ex primo ministro giapponese Abe Shinzo ha avuto sulla popolazione un impatto emotivo minimo. Lo si evince dai risultati delle elezioni senatoriali del 10 luglio, vinte in larga misura dal Partito liberaldemocratico (Pld, partito di Abe), e dalla sua coalizione, come preannunciato dai sondaggi, e dal basso tasso di affluenza alle urne, rimasto sostanzialmente invariato rispetto alle precedenti consultazioni del 2019.

Eppure, l’uccisione dell’ex primo ministro ha rivelato le falle di un sistema di sicurezza basato sul controllo capillare del tessuto urbano da parte della polizia, al quale le istituzioni attribuivano una buona parte del merito del basso tasso di criminalità nel paese. In sostanza, sul piano politico-elettorale sembra dunque aver prevalso la linea della continuità, già tracciata a ottobre 2021, al momento della successione tra Abe Shinzo e l’attuale primo ministro Kishida Fumio, ministro degli Esteri dal 2012 al 2017. Scelta oculata, che ha rassicurato Washington sulla fedeltà dell’alleato nipponico, il cui peso geostrategico continua a crescere in ragione dell’inasprimento delle relazioni internazionali, in particolare tra Stati uniti e Russia, per ora impegnati sul fronte europeo orientale, e tra Stati uniti e Cina, il cui terreno di scontro privilegiato è l’Indo-Pacifico.

La teoria degli oceani comunicanti

La stessa espressione Indo-Pacifico, in realtà, suggerendo una continuità tra oceano Pacifico e oceano Indiano, sintetizza la visione strategica di Abe, che ha sempre sostenuto i vantaggi di un coinvolgimento dell’India nel contenimento della proiezione di potenza di Pechino sui mari. Una mossa che, di fronte a un avversario come l’Impero del Centro, che storicamente è una potenza di terra, dovrebbe contribuire a preservare la talassocrazia statunitense, ostacolando l’aspirazione cinese sia al controllo dei traffici marittimi nel Pacifico, sia al potenziamento della propria capacità offensiva per mare.

Abe Shinzo: il nazionalista riluttante

Rapporti indopacifici

In fondo, benché non si siano create, almeno finora, le condizioni per la costituzione di un’alleanza militare sul modello dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico Nord (Nato/Otan), Abe aveva cercato di elaborare un piano efficace per impedire l’ascesa della potenza cinese; tanto sul piano commerciale e finanziario, tentando di sottrarre partner asiatici a Pechino, quanto a livello geopolitico e militare, trovando una possibile chiave nel coinvolgimento di New Delhi. Contestualmente, sempre allo stesso scopo, Abe aveva intensificato la cooperazione economica e di sicurezza, oltre che con gli Usa, anche con Australia, Regno unito (i tre componenti dell’asse denominato Aukus, dalle loro iniziali) e Nuova Zelanda. Quanto all’economia interna, la cosiddetta “Abenomics” e i toni trionfalistici che avevano accompagnato la realizzazione delle riforme neoliberali in essa incluse, nonostante il loro discutibile impatto sociale e i dubbi sulla reale uscita dalla stagnazione decennale che avrebbero comportato, avevano diffuso nel panorama mediatico internazionale l’immagine di un Giappone pronto a cavalcare una straordinaria ripresa economica, pur continuando a rinunciare allo status di potenza regionale e pur restando subordinato agli interessi strategici statunitensi.

Tre frecce
«La strategia economica, fiscale e finanziaria della “Abenomics” consisteva nelle cosiddette “tre frecce”: 1. quantitative easing (QE) della banca centrale (BoJ), 2. Massiccio stimolo fiscale e 3. Riforme strutturali. Come è emerso, tuttavia, due di queste tre politiche – quantitative easing e stimolo fiscale – dopo aver avuto successo nel breve termine appaiono oggi sempre più insostenibili e troppo costose, con possibili danni ben più gravi nel lungo termine. L’unica freccia della ‘Abenomics’ in grado di poter creare ancora maggior valore rimane quella delle riforme strutturali. Molte delle riforme che Abe ha promesso devono però ancora essere implementate mentre ne rimarrebbero altre utili per il paese che però non sono ancora nell’agenda politica di Tokyo» (Axel Berkofsky).

Neoimperialismo tradizionalista

Tuttavia, l’adozione, da parte dell’ex primo ministro giapponese, della tradizionale dialettica imperiale nipponica, contestuale all’ascesa delle correnti più nazionaliste del Pld, per le quali Abe era un riferimento politico importante, da un lato aveva deteriorato le relazioni non solo con la Cina, ma anche con la Corea del Sud, utile alleato degli Usa. Con la Russia, invece, Abe aveva portato avanti i negoziati per giungere a un accordo definitivo sullo status delle isole Curili, ma i colloqui sono stati interrotti a seguito dell’esplosione del conflitto russo-statunitense in Ucraina, in merito al quale Tokyo si è subito schierata al fianco di Washington. Una presa di posizione che, peraltro, ha isolato in un certo senso l’India all’interno del Quad (dialogo quadrilaterale) indo-pacifico. New Delhi, infatti, che nel conflitto sino-statunitense appare disponibile ad assecondare gli interessi di Washington, sul fronte russo finora ha scelto una sostanziale neutralità, preferendo mantenere gli storici rapporti con Mosca, soprattutto in ambito militare. D’altronde, a differenza di Usa, Giappone e Australia, l’India è membro fondatore del Movimento dei paesi non-allineati.

Il giorno dell’auto(in)determinazione

Intanto, coltivando l’aspirazione a fare del Giappone una potenza almeno regionale, durante i suoi vari mandati, Abe aveva riportato in auge il dibattito politico sulla modifica della costituzione pacifista imposta dal generale Douglas McArthur nel 1947, soprattutto dell’articolo 9, che obbliga Tokyo a rinunciare alla guerra e a dotarsi di forze armate proprie, condannandolo di fatto alla dipendenza da Washington. Tra i primi ad affrontare apertamente questo tema, fu, nel 1985, sul finire della guerra fredda, il primo ministro Nakasone Yasuhiro (anch’egli appartenente al Pld), che, in precedenza, aveva adottato la strategia, più prudente, della reinterpretazione, analoga a quella scelta a più riprese da Abe: aumento progressivo delle spese militari, sempre ufficialmente con finalità difensive; ipotesi di dotare il paese di un arsenale atomico proprio o, laddove ciò fosse impossibile, di ospitare testate nucleari gestendone in modo congiunto con gli Usa; istituzione, nel 2013, di un Consiglio di sicurezza nazionale (ufficialmente finalizzato alla difesa da eventuali attacchi cinesi). Da parte sua, l’ex primo ministro Koizumi Junichiro (Pld), nei primi anni Duemila, rafforzando l’alleanza militare con la superpotenza statunitense impegnata nella «guerra al terrorismo», aveva proposto un emendamento costituzionale per consentire al Giappone un maggior coinvolgimento nelle sfide di sicurezza globale. Parole allettanti per Washington, soprattutto perché provengono da un paese che aveva fornito la più cospicua assistenza finanziaria all’invasione dell’Iraq nel 1991 (come riporta il ministero degli Esteri giapponese). Nella prospettiva dei nazionalisti nipponici, infatti, la pesante ingerenza Usa, oltre a essere un impedimento è anche, in certa misura, un alibi per portare avanti gli interessi strategici del paese, considerati sempre più in chiave nazionalista e militarista. Un’evoluzione, che, d’altronde, non riguarda solo il Giappone degli ultimi decenni, stando alle stime dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri). La peculiarità nipponica è stata, invece, l’abilità di trarre sistematicamente vantaggio dalle convergenze strategiche con la potenza occupante, sapendone interpretare anche le virate reali o apparenti. Almeno finora, anzi, fino al periodo della presidenza statunitense di Donald Trump. Quest’ultimo, infatti, aveva lasciato intendere a satelliti e alleati che Washington intendeva diminuire il più possibile la propria presenza diretta in prossimità delle varie faglie geopolitiche, Pacifico in primis. È stato proprio Abe a cogliere l’occasione per aumentare le proprie «capacità difensive», forse inducendo Tokyo a illudersi della possibilità di un percorso verso l’autodeterminazione.

«È naturale per il governo garantire una spesa per la difesa equivalente al 2 per cento del Pil» (Abe Shinzo, 27 maggio 2022)

Illusione che l’attuale presidente Usa Joe Biden non sembra intenzionato a coltivare, se non altro per scongiurare il rischio di trovarsi di fronte una Turchia del Pacifico, tanto più che il Giappone ospita importanti basi militari statunitensi, tra cui quella di Yokosuka, la più grande al di fuori del territorio statunitense, sede del comando della potente Settima flotta. Senza considerare che Tokyo è tra i grandi detentori (recentemente, peraltro, ha conquistato il primo posto) del debito statunitense.

Tra metus hostilis e bellum factionum

In effetti, come ha rilevato Marco Zappa nella medesima intervista, Abe era l’esponente più «carismatico» delle fazioni più militariste e nazionaliste del Pld. Inoltre, in quanto fervente scintoista, era una figura di raccordo e di equilibrio tra il mondo politico e la sfera del culto: un ruolo importante, in un paese dove il potere e l’influenza delle sette religiose sono significativi. Intanto, la frantumazione sociale, aggravata nell’ultimo decennio dalla diffusione esponenziale del lavoro precario e somministrato, promossa dalla Abenomics come misura di modernizzazione neoliberista e produttivista, si riflette nello scontro latente e a bassa intensità tra le fazioni politiche (e religiose), in particolare tra quelle che compongono il Pld. Per esempio, una delle fazioni concorrenti di quella che faceva riferimento ad Abe, si raduna intorno a Kishida, che prima di essere nominato primo ministro, in campagna elettorale, aveva indicato diversi elementi di discontinuità rispetto al suo predecessore. A partire proprio dalla Abenomics, di cui ammetteva la responsabilità nell’acuirsi delle diseguaglianze, lanciando un appello (generico) a concepire e a mettere in atto un nuovo capitalismo in grado di trovare una soluzione efficace alle questioni sociali più cogenti. Anche nelle relazioni internazionali, da ex ministro degli Esteri, Kishida ha sin da subito mostrato un atteggiamento più moderato, lasciando la porta aperta a una visita del presidente cinese Xi Jinping, dopo l’annullamento dell’ultima, fissata nel 2020, ufficialmente a causa delle restrizioni dovute all’emergenza sanitaria.  Nondimeno è probabile che l’attuale primo ministro si trovi, in autunno, ad affrontare, anche nel dibattito parlamentare, il delicato tema della modifica della costituzione.

«Vorrei proseguire gli sforzi per giungere alla proposta di una revisione il prima possibile» (dell’articolo 9 della costituzione pacifista; dichiarazione di Kishida Fumio ripresa da “Kyodo News”, durante una conferenza stampa sui risultati elettorali dell’LDP e riportata da Deutsche Welle”).

Malgrado le critiche riguardo la gestione delle diseguaglianze sociali e della pandemia da Covid-19, infatti Abe aveva reso il Giappone capace, in termini di tecnologia e di competenze, di dotarsi di armi nucleari nel giro di poche settimane, come sottolineato a più riprese dagli autori della rivista “Limes”. Anche per questo è stato definito da molti analisti il personaggio più importante della storia giapponese degli ultimi decenni, tanto a livello di gestione politica interna, quanto sul piano geopolitico. Le sue dimissioni nel 2021, ufficialmente per motivi di salute, avevano già lasciato intendere il declino della sua fazione politica, cui ha probabilmente contribuito una diminuzione del sostegno di Washington: anzitutto durante la presidenza Trump, caratterizzata dal disimpegno, poi dall’insediamento di Biden, che sembra adottare l’equazione, che Pechino definisce «da guerra fredda», tra l’impegno e un controllo che rasenta l’asservimento. Abe e la sua fazione, da parte loro, sembravano invece premere nella direzione di una maggiore autonomia strategica di Tokyo, in ragione del suo peso geostrategico crescente.

Il nazionalismo «moderato» di Kishida Fumio

L’attuale primo ministro, invece, oltre a ostentare toni meno aggressivi e un atteggiamento più pragmatico nei confronti della Cina e, soprattutto, della Corea del Sud, si mostra anche più propenso a fare a meno dell’autonomia strategica, e maggiormente concentrato sulla crescita economica, sulla gestione del malcontento sociale (un tema quasi sconosciuto al dibattito pubblico giapponese) e sul progresso e l’innovazione tecnologici. Inoltre, almeno finora, è parso meno insistente del suo predecessore nel chiedere agli Usa di rompere la storica ambiguità strategica riguardo Taiwan e di prendere una posizione più netta in suo sostegno. Una postura politica, forse, più rassicurante per Washington, la cui considerazione per il Giappone dal punto di vista geostrategico si comprende anche dalla scelta di Tokyo come luogo dell’ultima riunione del Quad, tenutasi alla fine di maggio.

Cinque pilastri per un Indo-Pacifico libero e aperto
«Questo si basa essenzialmente su cinque pilastri che andranno a ispirare l’azione politica giapponese sul piano internazionale: promuovere lo stato di diritto internazionale, rafforzare le capacità di difesa nazionale, impegnarsi per la denuclearizzazione, lavorare a una riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e migliorare la cooperazione internazionale soprattutto in materia economica» (Kishida al meeting di Shangri-La a Singapore).

Un vertice di fondamentale importanza strategica, perché incentrato sul contenimento della potenza cinese dal punto di vista, simultaneamente, militare e finanziario, con l’annuncio da parte di Biden dell’Indo-Pacific Economic Forum (Ipef). Il piano, o meglio, la cornice economica mediante la quale Washington, con una strategia analoga a quella di Abe, intende mettere i bastoni tra le ruote alle nuove vie della seta cinesi, note con l’espressione inglese Belt and Road Initiative (Bri), che sintetizzano la politica di potenza di Xi Jinping. Di conseguenza, sarebbe meglio per gli Usa non correre il rischio che l’Impero del Sol Levante, sia pure nell’impossibilità di modificare il testo costituzionale, introduca il concetto di «attacco preventivo» (analogo a quello sbandierato dall’ex presidente Usa George W. Bush nei primi anni Duemila) nella nuova Strategia per la sicurezza nazionale, che sarà promulgata entro il prossimo autunno. Questo concetto, infatti, rischierebbe di erodere il pacifismo giapponese dall’interno, offrendo il fianco a un’ulteriore, e soprattutto più offensiva, corsa al riarmo. Nondimeno, anche un riarmo sotto l’egida statunitense, soprattutto in una fase di inasprimento delle relazioni internazionali, rischia di spingere l’Impero del Sol Levante verso un nuovo pericoloso imperialismo.

Fratture scomposte

Infine, Marco Zappa ha notato che, in un contesto di declino demografico, dopo tre decenni di stagnazione economica, l’uccisione di Abe da parte del quarantunenne Yamagami Tetsuya ha aperto due piste di riflessione sociologica e socio-politica sul Giappone: anzitutto la commistione tra partiti politici e movimenti religiosi (la madre di Yamagami aveva donato un’ingente somma di denaro alla Chiesa dell’Unificazione, con cui Abe aveva legami indiretti); in secondo luogo, un disagio sociale diffuso, soprattutto tra le fasce di popolazione non coperte neppure dal welfare. Si pensi, per esempio, che la madre di Yamagami, secondo quanto reso noto da Tokyo, ha cresciuto da sola due figli, dei quali il maggiore sarebbe morto suicida, come riporta lo stesso Marco Zappa.

“Mondi e disagi intrecciati nel Pacifico: il caso del Giappone”.

La compresenza di estrema innovazione tecnologica e superstizione arcaica

D’altra parte, il Giappone è caratterizzato dalla costante tensione non solo tra subalternità e autonomia geostrategiche, ma anche tra un forte avanzamento tecnologico accompagnato da uno strenuo impegno nell’innovazione, soprattutto nei settori della robotica e dell’intelligenza artificiale, e consuetudini e credenze arcaiche. Un’altra dicotomia peculiare della cultura giapponese sin da tempi remoti è quella tra tatemae, il volto pubblico, e honne, la vera essenza, ossia la dimensione interiore. Per esempio, nel dibattito pubblico interno, stampa inclusa, non solo non viene affrontato il tema del disagio e del malcontento sociali, ma non si discute neppure del disagio mentale all’interno di una società ossessionata tradizionalmente dalla codificazione e dal controllo, in cui negli ultimi decenni, in particolare con le riforme liberali lanciate all’inizio del millennio, si sono accentuati gli aspetti più disfunzionali, soprattutto quelli legati all’iperproduttivismo. Nel corso dell’intervista a Marco Zappa a Radio Blackout, per esempio, si è fatto riferimento al karoshi, la morte causata da iperlavoro, ma si potrebbe citare anche il fenomeno, emerso con la crisi economica dell’inizio degli anni Novanta, degli hikikomori, individui che trascorrono la propria vita reclusi nelle rispettive abitazioni, contando sui familiari per il sostentamento.

Banzaiii…! ma troppo vecchi per combattere?

In Giappone, dunque, un paese che sin dalla Rivoluzione/Restaurazione Meiji della seconda metà del Diciannovesimo secolo ha saputo conservare intatta la propria essenza, pur in una continua e febbrile metamorfosi materiale, numerose sono le forze contrastanti che covano sotto l’aspetto di un tessuto sociale stabile e controllato. Terreno fertile per le strumentalizzazioni della dialettica imperiale da parte delle forze politiche, anche se quando si parla di disposizione alla guerra non si può prescindere dal cosiddetto fattore umano. In altri termini, anche se Tokyo arrivasse a modificare la costituzione del 1947, non è detto che una popolazione con un alto tasso di senescenza possa favorire l’ascesa di partiti e movimenti che porterebbero il paese a impegnarsi in un conflitto armato.

L'articolo Giappone: la tollerabile gravità del nulla proviene da OGzero.

]]>
Le città visibili https://ogzero.org/studium/le-citta-visibili/ Fri, 29 Apr 2022 16:47:51 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=7172 L'articolo Le città visibili proviene da OGzero.

]]>

OGzero nelle città

È possibile individuare un genius loci che rappresenti una costante nel tempo e negli spazi urbani utilizzati? Nella collana “Le città visibili”, sì.

Città rese visibili attraverso la narrazione dell’esperienza personale degli autori, coadiuvati dalle voci dei testimoni e degli abitanti che forniranno un’interpretazione del territorio, della sua trasformazione e degli elementi alieni che proliferano tramite flussi di merci e di persone a provocare le contrazioni di spazi, come le loro estensioni, urbane e demografiche. Autori che esamineranno le strategie di conservazione monumentale e di “reinterpretazione delle rovine” viaggiando tra smart cities, improntate alla sicurezza digitale, che accentuano – costituendosi come ascensori e discensori sociali – la differenza nella struttura e nella mobilità urbana tra periferie e downtown. Esploreranno i luoghi di aggregazione attorno allo scambio di merci, come i mercati popolari e i centri della grande distribuzione, cercheranno di illustrare il cambio di destinazioni d’uso che prelude ai grandi progetti di infrastrutture e di conseguenza l’impatto sul tessuto urbano. Impossibile non collegare a tutto ciò i flussi migratori, con l’inclusione di nuovi arrivi e l’evoluzione della loro tipologia e l’eventuale marginalizzazione dei migranti – interni o esterni che siano; a cui si correlano anche l’esclusione di massa e lo svuotamento di aree, le ghost-town e i quartieri già progettati e costruiti come ghetti, o la gentrificazione causata da interessi immobiliari.
Gli autori di questa serie ci porteranno per mano nei loro luoghi del cuore, come guide capaci di farci sentire l’atmosfera delle città, permettendoci di intuirne realmente le attuali peculiarità senza dimenticare la Storia passata per quelle strade.

Clicca qui sotto sul nome della città per approfondire



Già Visibili in libreria


GERUSALEMME NAIROBI FREETOWN LUSAKA BANGKOK BRAZZAVILLE BOBO-DIOULASSO

In questa sezione venite indirizzati a materiali e indicazioni inerenti ai volumi già pubblicati nella collana dedicata alle città rese visibili attraverso la penna e gli occhi di autori che conoscono bene il genius loci di ciascuno di quei territori che han dato luogo a quella realtà urbana identificata dal nome della città in copertina.



Visibilità ancora in preparazione


ISTANBUL BEIRUT BUENOS AIRES BAMAKO PECHINO KIGALI PANAMÁ y COLÓN

La produzione di un libro proviene da un lungo percorso di individuazione della città che può suscitare interesse all’interno della collana, del suo potenziale autore e poi lo sviluppo del testo a seguito della raccolta degli argomenti e delle testimonianze, delle immagini e delle mappe da integrare. Ma anche del confronto e della elaborazione della sostanza che sta costituendo la base del futuro volume in via di realizzazione. Queste sono per ora le città su cui abbiamo cominciato a focalizzare la nostra attenzione e che sono già state affidate alla penna di esperti conoscitori di quelle comunità urbane.

Intanto traspaiono potenziali visibilità altrove…


Esistono poi situazioni urbanistiche e di agglomerazione umana particolarmente interessanti e che non riusciamo ancora a ricondurre a un formato editoriale di pubblicazione da proporre in libreria. Però assumono già una forma tale che… racchiudono già in embrione una… svolgono una narrazione riconducibile a… colgono una particolare situazione metropolitana che… riteniamo abbiano diritto a venire divulgate in questa sezione delle nostre proposte. Insomma finiscono con l’essere tutte collegate dal filo rosso della abitabilità di un territorio, dallo sviluppo della forma “città” e potrebbero contenere in sé un’idea che informa l’intera superficie metropolitana a cui ricondurre magari una nuova impresa libraria.

Per ora aggiungiamo queste suggestioni al dossier dedicato alle comunità urbane, come proposte di lettura collaterali ai volumi:

_ L’ultimo racconto di Diego Battistessa si dipana tra Savador de Bahia, Liverpool/Mancheser e prende spunto da Gorée/Saint-Louis. Il Triangolo del Mercantilismo

_ Avevamo cominciato con le favelas brasiliane. Il racconto di Diego Battistessa si dipana tra Rio de Janeiro, São Paulo e Brasilia

_ E proseguito con il 40ennale della costituzione di Yamoussoukro, la capitale della Costa d’Avorio, descritta da Angelo Ferrari e fortemente voluta da Boigny

400 anni di modello geopolitico schiavista

_ Per fondare un Capitalismo duraturo bisogna “scoprire” territori da “colonizzare” esterni al mondo regolato da diritti, i cui abitanti vanno deumanizzati per motivare la loro schiavizzazione.
E questo è stato perpetuato dal sistema negli ultimi secoli con poche varianti, dettate soprattutto dalle esigenze della tecnologia e dalle richieste di beni da depredare e di genti da sfruttare.

_ La terra dei caporali: dovunque lo schiavismo perpetua il suo orrore c’è un Eichmann che obbedisce?
Quando Diego ci ha proposto di analizzare questa triangolazione di porti nel colonialismo storico abbiamo pensato che poteva essere utile individuare in quali meccanismi il capitalismo si è andato perpetuando fin dalle sue basi date dall’allargamento dei potenziali mercati di merci e braccia con le scoperte geografiche della modernità (che non a caso viene datata da quel periodo di nuove tecnologie come la polvere da sparo, e le nuove rotte marittime più convenienti), adattandoli via-via alla “tecnologia” più attuale che sostiene la logistica da un lato – tracciando le rotte –, e quali organizzazioni possono sovrintendere all’approvvigionamento di manodopera schiavizzata nell’interno, che si avvale di percorsi paralleli o subalterni alle stesse vie battute da armi, droga, merci grezze dall’altro. Questi sono i meccanismi innaturali che tengono in piedi il capitalismo, senza i quali quel sistema energivoro e oligarchico non potrebbe reggersi. E l’operazione di Diego funge molto bene da memoria di quel che è stata la culla dell’attuale sfruttamento globale della migrazione, ma anche a rievocare quegli stessi meccanismi inventati con il mercantilismo e che regolano tutt’ora economia, politica e morale.
Ovviamente maggiore è l’investimento e la conseguente copertura degli stati-nazione, più ampi sono gli interessi e più si allarga il coinvolgimento finanziario, incontrastabile anche se nocivo quando la soglia del capitale profuso supera il livello di rischio di rientro qualora l’operazione fallisse: sia essa incentrata su estrazione, sfruttamento, riduzione in schiavitù, saccheggio e occupazione di territorio, ammantato da regole di controllo commerciale adattate agli stati più potenti. E tuttora diversamente – ma non meno ferocemente – coloniali, a cominciare dall’apartheid israeliano.

_ Saccheggio e debito infrastrutturale: le triangolazioni imperialiste descritte dal presidente del Burkina Faso Ibrahim Traoré sembrano – nel tentativo di collegarsi all’insegnamento anticoloniale di Sankara – ricalcare le stesse impronte triangolari su cui si fonda il capitalismo dal mercantilismo Secentesco in poi, che è l’argomento di questa serie di articoli di Diego Battistessa attorno a tre città: Salvador de Bahia, Gorée/Saint-Louis, Liverpool/Manchester.
La triangolazione si ripete identica con i medesimi meccanismi del mercantilismo emerso con la nascita dell’epoca industriale, perché il depauperamento dei territori di provenienza è prodotto dal saccheggio delle risorse da parte del capitalismo globale che attinge ai beni africani attraverso l’estrattivismo e impone infrastrutture che creano debito per paesi che sono così schiacciati dalla finanza mondiale; attraverso l’ipocrisia della Comunità europea che stanzia fondi contro la fame e poi sottrae ai pescatori proprio di Saint-Louis i prodotti dell’Oceano per farne mangimi per salmoni destinati a tavole non esattamente affamate (film di Francesco De Agustinis, Until the end of the world); lasciando “sgocciolare” soltanto la gestione della manodopera ai livelli inferiori di mera manovalanza mantenuta nella miseria e marginalità – e in alcuni casi nemmeno quella –, in modo da essere spinta a emigrare nella terra dei caporali dove il marchio “clandestino” cancella i diritti, riproponendo il modello dell’apartheid; e dovunque abbassa i livelli di contrattazione delle classi lavoratrici. Una migrazione gestita attraverso le organizzazioni di intermediazione che usano gommoni quando va bene, se non scafi assemblati con saldature di pezzi di acciaio, imbarcazioni assimilabili alle galere dello schiavismo seicentesco. Ma più pericolose.

_ Meglio le stive delle galere di quelle dei barconi? Una tratta gestita da scafisti africani, ma organizzata grazie alle leggi degli europei che realizzano le condizioni perché i padroni possano usufruire di manodopera schiava a basso o nullo costo, facendo finta di chiudere le frontiere per lasciar passare solo i sopravvissuti tra i disperati pronti a tutto e privi di diritti, senza documenti e quindi inesistenti come umani: non pesano in nessun bilancio di spesa e nella stessa condizione degli africani deportati in America sulle galere.

_ Capitali europei, merci esotiche… schiavi africani. Forse per seguire il bandolo storico della matassa ordita da Diego Battistessa si può partire da Liverpool, dove si sono stanziati i denari per armare i vascelli, usando i proventi derivanti dal commercio di schiavi – e, se ci si chiede ancora come sia stato possibile che una cultura come quella inglese (in grado di pensare di ripulirsi la coscienza riconoscendo in un museo le sue colpe, esibendole e così annientando nuovamente la cultura africana, collocata in bacheca e resa innocua) abbia potuto ordire una tratta così razzista, bastano le immagini di agosto 2024 che ritraggono i fanatici sovranisti britannici impegnati nel loro sport preferito, la caccia all’emigrato.


Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

Anche se, mettendo al centro la manovalanza, salpare da Gorée (o meglio Saint-Louis) è probabilmente il moto più immediato, perché viene umanamente spontaneo seguire il destino dei deportati africani.


Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

O piuttosto considerare centrale Bahia, dove si assorbiva la manodopera schiavizzata e si caricavano preziose merci per i porti occidentali… Liverpool/Manchester in testa, a chiudere il cerchio di The Birth of a Capitalism (per parafrasare il film di Griffith, forse il più nazionalista, e razzista, della storia del cinema).


Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

Sta di fatto che l’importanza dei porti lievita con l’apertura di rotte commerciali globali che spostano sugli oceani gran parte del commercio dell’interno, che si configura come percorso per raggiungere il porto attrezzato più vicino e competitivo. Infatti questa triangolazione documentata da Diego Battistessa si inserisce in un sistema che creò molte altre triangolazioni e tutte si vanno conglobando all’interno di un unico sistema che sullo Schiavismo costituì (e continua a costituire) l’embrione dello sfruttamento globale chiamato Capitalismo.


Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

Le grandi capitali senza storia 

Capitali: sono le città che ospitano le sedi del governo di uno stato. Spesso sono rappresentative anche dello spirito del paese che le ospita, quando non capita è perché sono frutto di una operazione artificiale. Abbiamo già considerato l’atto di erigere capitali dal nulla, in particolare dando un quadro del sistema di potere militare birmano con la capitale Naypyidaw; oppure con la altrettanto spettacolare Brasilia –  comunque in questi 60 anni di “vita” maggiormente percorsa dalla Storia, non foss’altro perché il visionario che le ha insufflato lo spirito si chiamava Niemeyer.

Tutti esempi accomunati dalla pretesa di imporre una agglomerazione dove manca la comunità, tenuta insieme da cultura, storia, riconoscimento nazionale, riferimento amministrativo e commerciale, vie e snodo di traffici… tutte prerogative mancanti a Yamoussoukro

Tutto questo è sviluppato da Angelo Ferrari che coglie l’occasione del quarantesimo anniversario della hybris di Boigny, che volle far assurgere il suo villayet avito al rango di grande capitale. Ma ciò che non può vantare una grande tradizione, non è stata attraversata dalla storia o non può vantare grandi produzioni culturali è destinato a trasmettere un senso di vacuità, di artificioso e una freddezza che deriva dalla mancanza di sostrato culturale e di storie. Oltre che di Storia. Questa la descrizione di una capitale – Yamoussoukro – voluta dal dispotico padre della patria ivoriana.  


Yamoussoukro

Favelas nelle città

Favela: una parola brasiliana che oramai è entrata nel nostro lessico e nell’immaginario collettivo. Sei lettere che descrivono un luogo che abita una dimensione marginale, periferica e volontariamente dimenticata dallo stato. Favelado/a colui o colei che è costretto a una (non) vita nella favela.
La spinta all’industrializzazione dell’Estado Novo di Getúlio Vargas trascinò centinaia di migliaia di migranti nell’ex Distretto Federale all’interno del disegno del Estado Novo, creando un’esplosione delle baraccopoli, il cui nome istituzionale era ormai diventato favelas.

La sconfitta delle elite pauliste a livello nazionale con la dittatura di Getulio Vargas non portò però a uno stop di quell’impulso che trasformò completamente il volto urbano di São Paulo, coprendo i terreni delle vecchie fazendas con nuovi e moderni quartieri e proiettandosi verso un grande salto industriale che si sarebbe pienamente compiuto durante la Seconda guerra mondiale. São Paulo aveva già iniziato dunque quel cammino che l’ha portata oggi a essere la città più popolosa del Brasile e suo vero centro economico e finanziario. Negli stessi anni in cui a Rio de Janeiro, l’amministrazione pubblica istituzionalizzava le favelas, a São Paulo entrava in scena il futuro, sotto forma di un edificio oggi iconico, Esther…

Negli anni Quaranta su Rio si riversò un potente flusso migratorio. Su questi migranti stava però per abbattersi una nuova grande “disgrazia” economica, manifestatasi sotto il nome di Brasilia. Progettata infatti come una metropoli futuristica nel mezzo della pianura dello stato del Goiás, Brasilia fu inaugurata il 21 aprile 1960 dall’allora presidente Juscelino Kubitschek.

Un Brasile che viaggiava dunque a due velocità e che negli anni Settanta, con la dittatura militare, inaugurò un progetto politico di sradicamento della favela: furono cacciati fisicamente dalle loro case centinaia di migliaia di residenti. Durante l’amministrazione di Carlos Lacerda, molti furono trasferiti in progetti di edilizia popolare come Cidade de Deus.

Negli anni Ottanta si assistette invece allo scoppio della violenza associata al fiorente commercio di droga, che aveva fatto diventare le metropoli snodi logistici molto importanti per i carichi di cocaina destinati all’Europa. Le favelas, luoghi nei quali lo stato non esisteva, si riempirono di armi e lo spazio lasciato vuoto dalle istituzioni venne presto riempito da gruppi criminali.

Le favelas in Brasile, possono essere caratterizzate con ordini di grandezza diversi a seconda per esempio della densità demografica o dello sviluppo urbano delle stesse: in estensione verticale sulle colline (come quella di Vidigal a Rio de Janeiro) o in estensione orizzontale (come Cidade de Deus a Rio de Janeiro o Paraisópolis a São Paulo, in modo paradossale perché a ridosso di un’estensione verticale di un grattacielo di lusso al di là del muro – apparentando questo dossier con quello che OGzero va sviluppando sulle Barriere).

La tensione tra le due dimensioni abitative della città, quella delle favelas e quella “ordinata” del Brasile proiettato nel futuro, rimane alta. Un esempio di questo è il Parco Nazionale di Tijuca, situato nella zona Sud di Rio de Janeiro, considerato la più grande “foresta urbana” del mondo e dichiarata Riserva della Biosfera dall’Unesco nel 1991. L’integrità di quest’area è stata minacciata dall’avanzare degli insediamenti informali, che sono cresciuti esponenzialmente sulle pendici delle montagne e delle colline che formano il Parco Nazionale.

Il 19 novembre 2008 nella città di Rio de Janeiro venne installata la prima UPP – Unità di Polizia di Pacificazione, il germe di un nuovo paradigma di presenza militare del governo in aeree fino a quel momento completamente dimenticate. Da quella cultura repressiva sono usciti quelli che hanno ucciso Marielle Franco, filha da Maré (figlia carioca della favela Maré). Marielle come Carolina Maria de Jesús, voce afrobrasiliana delle favelas paulista che negli anni Sessanta prese letteralmente “a pugni” il Brasile e il mondo squarciando il velo che copriva le reali condizioni di vita dei favelados.

Tutto questo è sviluppato da Diego Battistessa in un flusso analitico e narrativo che abbiamo cadenzato nelle 6 pagine accessibili attraverso i pulsanti che trovate qui


RIO DE JANEIRO SÃO PAULO BRASILIA CIUDADE DE DEUS PARAISÓPOLIS ROCINHA MARÉ GÁVEA CANINDÉ RECIFE

Segui tutti i contenuti attinenti a questo Studium

L'articolo Le città visibili proviene da OGzero.

]]> Potenze coloniali, mandarini e conseguenze di lungo periodo https://ogzero.org/volpicelli/ Wed, 03 Nov 2021 21:55:31 +0000 https://ogzero.org/?p=5267 All’inizio della fine dell’Impero ottomano  scoviamo in un’intuizione di Luigi Barzini senior le radici del risveglio della potenza cinese nel momento in cui le scelte propulsive di Xi Jinping sono poste sotto pressione a livello globale: la produzione cinese rallenta ormai per il secondo trimestre di seguito; problemi di approvvigionamento, tensioni muscolari nel Pacifico, diminuzione […]

L'articolo Potenze coloniali, mandarini e conseguenze di lungo periodo proviene da OGzero.

]]>
All’inizio della fine dell’Impero ottomano  scoviamo in un’intuizione di Luigi Barzini senior le radici del risveglio della potenza cinese nel momento in cui le scelte propulsive di Xi Jinping sono poste sotto pressione a livello globale: la produzione cinese rallenta ormai per il secondo trimestre di seguito; problemi di approvvigionamento, tensioni muscolari nel Pacifico, diminuzione dei consumi ancora in seguito alla pandemia, che ha prodotto costi cospicui, hanno colpito l’economia che s’incentra sulla Belt Road Initiative. Dimostrando così che ormai Pechino è centrale negli interscambi e regola il mercato, essendosi inserita in ogni ganglio dell’interscambio e della produzione di beni, come mettevano sull’avviso con lungimiranza Barzini e il mandarino di 4° grado Volpicelli.


Un secolo di “Made in China”

«Noi non abbiamo idea delle grandi forze latenti della Cina, dell’intelligenza acuta, della perspicacia e dell’abilità del cinese. Ma lasciamolo dormire in pace questo immenso popolo sonnacchioso e divertente; sarà tanto meglio per noi. Guardate i giapponesi che cosa hanno saputo fare in poco tempo! I cinesi sarebbero capaci di ammazzare in cinquant’anni tutte le nostre industrie e quelle americane. Quattrocento milioni di uomini instancabili, intelligenti, sobri: ma che vi pare! Troveremo il “made in China” persino in fondo alle nostre mutande» [Luigi Barzini].

Il grande inviato del “Corriere della Sera” Luigi Barzini, 120 anni fa più o meno, aveva capito tutto. Gli era bastato poco tempo in giro per l’Asia per scrivere queste righe di ammonimento che ho ritrovato mentre anni fa andavo alla scoperta di quel mondo per raccontare la storia di un interprete-diplomatico italiano che vi visse buona parte della sua vita adulta. Noi italiani e le grandi potenze occidentali eravamo i conquistatori, i colonizzatori. E Barzini oltre a raccontare le violenze perpetrate contro la popolazione cinese dalle armate civilizzatrici, le stesse che si erano impegnate nel grande continente africano e in America Latina, aveva compreso ciò che molti analisti di oggi non vogliono ancora accettare. Forse perché, come per altre realtà, evitano di leggere la storia.

Scavando per ricostruire le vicende di Eugenio Felice Maria Zanoni Hind Volpicelli mi erano capitate anche altre valutazioni su ciò che stava accadendo e poteva succedere in quel mondo così lontano  e che raccontai nel mio Dante in Cina (il Saggiatore, 2018). Queste le parole di Lord Wolseley, uno dei più grandi generali britannici dell’epoca vittoriana, in un’intervista pubblicata il 6 luglio 1900:

«La Cina ha tutti i requisiti per conquistare il mondo. Ha una popolazione di 400 milioni che parlano tutti la stessa lingua o dialetti comprensibili da un lato all’altro dell’Impero. Ha un’enorme ricchezza in attesa di essere sviluppata. Oltretutto non hanno paura della morte. Comincia con una base di milioni e milioni di possibili soldati come questi e ditemi se ci riuscite quale sarà la fine».

Il protagonista della mia ricerca si era formato in ciò che era, per molti versi, la grande scuola dei colonialisti. L’Orientale di Napoli ha le sue radici nel colonialismo religioso, precursore di quello nazional-economico. Là si preparavano giovani cinesi per estendere la presenza della chiesa e del pensiero cattolico a casa loro. Là, all’ombra del Vesuvio, all’epoca di Volpicelli, ossia nell’Ottocento, vi si istruivano, tra gli altri, gli interpreti indispensabili per la penetrazione della Cina, del Giappone e delle terre contese del Sud asiatico. E per la gestione del bottino. Diplomatici e tecnici, al servizio delle grandi potenze occidentali:

«Quando il governo britannico cercava di stabilire relazioni diplomatiche con la Cina, l’unico posto in Europa dove riuscì a trovare un interprete fu nel Collegio dei cinesi a Napoli», avrebbe scritto il protagonista del mio libro.

Per meglio comprendere le cronache degli scontri, delle tensioni montanti tra la Cina comunista-capitalista proiettata verso il mondo e le grandi potenze che sono le stesse di allora, come l’Europa e la Russia e persino gli Usa, che a cento anni erano ancora relativamente giovani e appaiono oggi, dopo altri cento anni, consumati e sulla difensiva, potrebbe aiutare questo capitolo tratto da Dante in Cina.

Volpicelli presenzia alla cerimonia per il secentenario dantesco a Hong Kong con la fascia rossa al braccio

Console, console generale, Hong Kong e i pirati

Un “raccoglitore di notizie”, come si autodefinisce Volpicelli in un dispaccio diretto ai suoi superiori, non è necessariamente una spia. L’interprete italiano, nel 1898, non era più alle dipendenze delle Dogane imperiali. Dopo quattro mesi tra Siberia e Russia europea era tornato a Roma per essere formalmente reclutato dal servizio consolare del Regno e ricevette le sue istruzioni per una carica amministrativa. La sua giurisdizione – Hong Kong, Canton e tutta la Cina meridionale – aveva un’importanza che andava molto al di là della presenza fisica degli italiani nella regione. Con l’approfondimento delle lingue Volpicelli si era preparato a compiti più vasti di quelli svolti per l’amministrazione delle Dogane. Con i suoi viaggi in Cina, Russia e Giappone si era fatto una conoscenza diretta dei tre paesi; dei costumi e delle usanze della gente comune. Aveva studiato a fondo i loro apparati militari. I suoi contatti si erano estesi anche al di fuori della cerchia stretta dei leader e degli amministratori che aveva frequentato fino ad allora. Nei primi anni dell’ultima decade del secolo, il nostro interprete aveva stupito la vasta comunità straniera di Shanghai con le sue pubblicazioni e conferenze. C’è chi tra gli storici moderni cita ancora i suoi studi e ricerche sugli antichi rapporti commerciali, politici e militari della Cina con il resto del mondo. Molti applausi ebbe dai soci della Royal Asiatic Society parlando del commercio degli arabi con la Cina e dei primi insediamenti coloniali portoghesi: giochi diplomatici e strategie globali come le complesse partite di Wei Yi che da tempo aveva spiegato agli occidentali.

Con il suo corpo alto e atletico, una folta barba che ricordava quella del rivoluzionario russo Bakunin che tanto gli piaceva e anche dell’intellettuale italiano un po’ anarchico De Gubernatiis, imparentato con lo stesso Bakunin, Zanoni entrò con il piede giusto nella colonia inglese in un momento cruciale per la Cina e per chi la voleva dominare. Si fece subito notare per la sua cultura e intraprendenza. Compiva tutte le mosse e i riti che spettavano al nuovo arrivato e anche quelle che non rientravano nel protocollo diplomatico. Gli avvenimenti importanti si susseguivano con una velocità insolita e lui si sarebbe ritrovato al centro non soltanto delle questioni diplomatiche ma anche dell’attività del Corpo di spedizione italiano che si sarebbe unito alle marine delle altre potenze e ai progetti di espansione territoriale europee e del Giappone.

La Germania, arrabbiata per l’uccisione di due missionari tedeschi a Shantung chiese, o meglio impose con la minaccia delle armi, di essere ricompensata con la consegna di Kiano Chow e la sua baia. La Russia occupò Port Arthur, una base navale situata in Manciuria ora chiamata Lüshunkou. La Francia si piazzò a Guangzhouwan, ossia “Baia di Guangzhou”, una piccola enclave sulla costa meridionale della Cina collegata all’Indochina. A giugno, l’Inghilterra ottenne l’estensione della sua concessione di Hong Kong allargando i possedimenti fino a Kowloon e un mese dopo fino a Weihaiwei. A settembre il giovane imperatore Kuang Hsu, fu messo agli arresti nel proprio palazzo, il premier Li Hung Chang fu spedito a casa e l’imperatrice Dowager – un termine in inglese che significa vedova o ereditiera – salì al trono del Dragone. Da lì a poco Londra avrebbe preteso i cosiddetti Nuovi territori per allargare ulteriormente Hong Hong.

Vi è compresa Lantao con la sua cima imponente, radicata nelle tradizioni e nella mitologia locali. Oggi l’isola ospita il modernissimo aeroporto internazionale. I Nuovi territori, tra vasti parchi naturali, una splendida università e zone residenziali edificate nel rispetto dello spazio e anche dell’uomo, costituiscono una magnifica lezione di urbanistica. Centoquindici anni fa, Hong Kong era già una colonia importante alla quale l’Inghilterra aveva dedicato enormi investimenti visibili ancora oggi che l’intero territorio (con uno status di autonomia amministrativa) è stato restituito alla Repubblica popolare cinese.

Volpicelli, prima di approdare a Hong Kong aveva girato per lungo e per largo la Cina, muovendosi tra Canton e Shanghai, tra Macao e Pechino. Conosceva tutti. Era rispettato. Il suo nome era ben noto: circolava anche fuori dal cerchio degli addetti ai lavoro, grazie al giornale inglese di Shanghai. Il North China Herald pubblicava di tutto, dalle notizie più importanti giunte dall’Europa e dagli Stati Uniti, alla cronaca quotidiana dell’Impero. Una rubrica annottava arrivi e partenze, conferenze, nozze e battesimi. Al ballo annuale della comunità straniera di Shanghai dedicarono una pagina intera con i nomi di tutti gli invitati, compresi “i signori Volpicelli”. Sotto il titolo “Funzione interessante”, nel dicembre 1899, i cronisti raccontarono la consegna a un caporale inglese di una medaglia al valore conferitogli dal Re d’Italia per aver salvato un marinaio italiano a Candia, sull’isola di Creta. «Il generale Cascogne pronunciò un discorso e strinse la mano all’eroe e il signor Volpicelli appuntò la decorazione sul petto del caporale. Nel suo discorso il Console espresse la sua alta ammirazione per le qualità splendide dei soldati britannici».

Erano gli anni della nuova colonizzazione e l’Italia voleva la sua fetta. A Roma il parlamentare Angelo Valle aprì una discussione vivace che, diceva, «deve elevarsi ai più alti concetti e ai maggiori interessi dello stato». Era il primo maggio 1899, pochi anni dopo che quel giorno era stato fissato per legge la festa dei lavoratori.

«La Camera decida se vuol seguire una politica, quale spetta all’Italia per le sue tradizioni, per la sua posizione geografica, per lo spirito nazionale, per il suo genio, per la sua intraprendenza e attività — prendendo parte a tutte le questioni mondiali;— oppure — se rinnegando il passato — voglia restringersi nel suo guscio, seguitando una politica che la ridurrebbe all’anemia, alla miseria, all’isolamento…». Angelo Valle guardava nella direzione in cui ci avrebbe portato Mussolini con la sua via dei Fori Imperiali, lastricata di conquiste, crimini e false speranze per il futuro di Roma.

«Vorrà l’Italia, un tempo la prima e più potente nazione colonizzatrice del mondo, rimanere ultima in questo movimento generale? La trasformazione del Mondo è inevitabile; può l’Italia disinteressarsene? L’Italia deve domandare il suo risorgimento economico non alla sola agricoltura, ma altresì all’attività degli scambi, alla sua produzione industriale, quindi la necessità delle colonie allo sviluppo economico di un popolo. Senza colonie non può esservi commercio esterno. Senza una politica coloniale non è possibile a una grande potenza ma ben presto quello immigrante, che perde lingua e nazionalità, A me piacciono colonie che abbiano costumi, leggi, Governo italiano, a seconda del classico concetto Romano, adottato oggi dagli inglesi.

Il mondo comincia a divenir piccolo e quindi è necessario affrettarsi a prenderne la nostra parte. Non dobbiamo spaventarci degli insuccessi in Africa, né prendersi paura dell’ignoto. Né dobbiamo fare della politica coloniale una questione di partito, ma seguire il nobile esempio dei Parlamenti inglese, franasse e tedesco, ove, quando sorgono questioni di politica estera, le opposizioni, meno i socialisti, si affrettano a dichiarare ai rispettivi Governi, che nella politica estera avranno il loro appoggio incondizionato».

E ancora: «La Cina è la grande carcassa dell’Asia, e sei aquile europee e americane vi girano attorno premendosi e spingendosi l’una sull’altra. Essa è destinata ad essere assorbita alle potenze europee, e perché noi non dovremmo averne la nostra parte?…»

Lelio Bonin Longare, sottosegretario agli Esteri, nel corso del dibattito parlamentare offrì una sua interessante intuizione: «…a parer mio, il maggior pericolo che può attendere un giorno gli stati che mettono piede nell’Estremo Oriente per procurarvisi possedimenti territoriali può venire dai cinesi medesimi. Noi troppo spesso, parlando della Cina, dimentichiamo i cinesi, ed è un errore che si spiega facilmente perché succede di frequente a tutti di confondere la Cina ufficiale con la nazione, cinese, o piuttosto con quel conglomerato di popoli è di razze differenti, uniti insieme dai vincoli di antichissime tradizioni, che per comodità di linguaggio si può chiamare nazione cinese».

Mandarino di 4° grado

Volpicelli, console rispettato in quanto rispettoso della cultura cinese

E andò avanti per ricordare un episodio della storia coloniale nel quale Volpicelli, ancora non console e nemmeno al servizio dell’Italia, era stato coinvolto come interprete. «Non dimentichiamo quello che è successo alla Francia nel Tonchino dove i francesi, più che con l’esercito regolare, ebbero a fare con irregolari e con la popolazione. Quella campagna segnò alcune delle date più tristi della storia militare della vicina Repubblica. Ed oggi pure non mancano i segni ammonitori: nel settembre scorso il Kwang-sì era in mano di un esercito di 20.000 ribelli che saccheggiarono ed incendiarono intere città, e nel mese di ottobre il settlement francese di Shanghai era attaccato dalla popolazione e dovette essere difeso dai marinai delle navi ancorate nella rada.

Abbiamo di questi giorni veduti i Tedeschi a Kiao-Tchiao e gli Inglesi a Hong Kong intraprendere spedizioni all’interno per domare alcune ribellioni. Si vede già all’opera l’azione agitatrice di sette politiche, che il Brandt paragona agli Armeni dell’Anatolia, uomini dal più ardente patriottismo e poco scrupolosi nella scelta dei lezzi coi quali possono nuocere ai loro nemici».

Hong Kong nell’estate del 1993, vista dal Peak Victoria. All’incirca dallo stesso punto di vista della copertina.

Volpicelli, per quanto ancora figura dai tratti incerti e misteriosi, era decisamente un anticolonialista (e anche un antifascista al punto da rinunciare alla vecchiaia in Italia e alla compagnia di sua moglie e finire la sua vita in Giappone). Odiava talmente tanto l’espansionismo britannico da apparire agli occhi di Londra come un alleato, quasi un agente della Germania avviata a essere nazista. Purtroppo i giochi ambigui di quel mondo sono ampiamente specchiati in quelli delle diplomazie occidentali di oggi incapaci di affrontare con coerenza e una strategia comune il risveglio di quell’immenso popolo sonnacchioso visto e analizzato poco più di un secolo fa dall’inviato del “Corriere della Sera”.

L'articolo Potenze coloniali, mandarini e conseguenze di lungo periodo proviene da OGzero.

]]>
Aukus: la Cina pesa pro e contro https://ogzero.org/loperazione-aukus-e-la-disputa-del-mar-cinese-meridionale/ Sat, 25 Sep 2021 08:30:51 +0000 https://ogzero.org/?p=4969 L’operazione Aukus è l’essenza della strategia geopolitica di questo biennio, che rivendica postuma la capacità americana di impostare alleanze volte ad assediare il nemico, al punto di fare figure barbine a Kabul, pur di affrontare la Cina assicurandosi la piena potenza di fuoco per presidiare il Pacifico; anche a costo di offendere i permalosi francesi, […]

L'articolo Aukus: la Cina pesa pro e contro proviene da OGzero.

]]>
L’operazione Aukus è l’essenza della strategia geopolitica di questo biennio, che rivendica postuma la capacità americana di impostare alleanze volte ad assediare il nemico, al punto di fare figure barbine a Kabul, pur di affrontare la Cina assicurandosi la piena potenza di fuoco per presidiare il Pacifico; anche a costo di offendere i permalosi francesi, suscettibili ai miliardi, ma soprattutto allo schiaffo inferto con la dimostrazione che i giochi si fanno altrove, lontano dalla grandeur parigina. In quell’altrove sulle coste occidentali del Pacifico dove si ordiscono trame, s’inventano trattati, si pongono veti, si tracciano rotte, si affronta il nuovo “pericolo rosso”. Tutto ciò che capita in giro in qualche modo è condizionato dalla profusione di energie da dedicare alla disputa del Mar cinese meridionale.

Della questione dei sommergibili, attorno ai quali si cominciano a vedere i contorni di un accordo più ampio (anche i droni saranno forniti all’Australia dalla Boeing – per spiegare a Parigi qual è il vero livello del Gioco), si sono occupati tutti, ma sempre trattando il problema in un’ottica neocolonialista, pochi hanno provato ad assumere il punto di vista delle potenze locali. “China Files” ci aiuta a colmare questa lacuna: questo articolo pubblicato da Alessandra Colarizi ci sembra evidenziare gli aspetti più interessanti della situazione che vede contrapposti Usa e Cina; e l’intervento di Sabrina Moles (anche lei redattrice di “China files”) su Radio Blackout, di cui proponiamo il podcast, risulta complementare. Con una appendice di affari interni sull’implosione della bolla Evergrande, che completa le questioni che attanagliano Pechino, gettando una luce su manovre strategiche interne alla Cina, ma che si possono analizzare in chiave internazionale ed estendere alla speculazione di tutte le borse internazionali.    


Grandi manovre geopolitiche nell’Asia-Pacifico: da una parte ci sono i raggruppamenti militari di Washington, dall’altra le alchimie economiche di Pechino. Nel mezzo i rispettivi partner asiatici e transatlantici che, chiamati a scegliere tra la sicurezza americana e le banconote cinesi, potrebbero finire per giocare la vera partita sullo scacchiere indopacifico.

Biden l’aveva messo in chiaro: al disimpegno americano dall’Asia Centrale sarebbe seguito un maggiore protagonismo nel quadrante asiatico. La nuova alleanza con Australia e Gran Bretagna – l’ “Aukus” – aggiunge un’altra freccia alla faretra di Washington. Come il Quad e i Five Eyes, la nuova sigla mira tra le righe a contrastare la crescente presenza e influenza militare della Cina nel Pacifico. Ma ha fatto infuriare i francesi, scippati di un accordo militare a nove zeri. L’Unione europea insorge, e non per semplice solidarietà comunitaria. Per la seconda volta dal ritiro statunitense dall’Afghanistan, gli States hanno ignorato l’opinione degli alleati europei. Lo strappo rischia di diventare una voragine.

Oltre la Grande Muraglia si pesano sulla bilancia pro e contro. Dopo l’esclusione di Huawei dal 5G australiano e l’indagine sull’origine del Covid-19, le relazioni tra Canberra e Pechino sono precipitate ai minimi storici. La creazione del nuovo triumvirato è un segnale inequivocabile del disagio provocato dalla crescente assertività cinese tra le potenze medie del quadrante asiatico. Ma non tutto il male viene per nuocere. Vediamo perché.

L’Aukus e la “deterrenza integrata”

Tutto è cominciato a febbraio, quando l’amministrazione Biden ha avviato una massiccia revisione delle forze armate americane a livello globale. Il prodotto finale è una “strategia della deterrenza integrata” che valorizza la fitta ragnatela di alleanze americane. In Asia, dove Washington vanta rapporti storici, le maglie della ragnatela sono piuttosto fitte. Fattore che, oltre a proteggere gli asset militari americani da eventuali attacchi, consente operazioni più vicine al territorio cinese. Oltre a dotare Canberra di sottomarini a propulsione nucleare, l’ “Aukus” si prefigge di rafforzare la presenza americana nella regione. Soprattutto dopo le incursioni marittime cinesi nei pressi di Guam. L’Australia si trova in una posizione particolarmente strategica, in quanto fuori dalla portata dell’arsenale cinese fatta eccezione per i missili a più lunga gittata. Secondo Euan Graham, senior fellow presso l’Institute for International Strategic Studies di Singapore, gli Stati Uniti starebbero cercando di collaudare un format già messo in pratica nei primi anni Quaranta, quando Washington e Canberra combatterono insieme il Giappone durante la Seconda guerra mondiale. La tecnologia cambia negli anni, ma la geografia no. Stando agli esperti, gli States ambiscono a parcheggiare i loro sottomarini a propulsione nucleare nella base militare di HMAS Stirling, a Perth, mentre l’isola australiana di Cocos (arcipelago delle Keeling), nell’Oceano Indiano, fa gola per l’affaccio sulle acque contese del Mar cinese meridionale. Una ridistribuzione delle forze di difesa nell’Asia-Pacifico permetterebbe di compensare nell’immediato la superiorità numerica della flotta cinese, la più estesa al mondo e in rapidissima crescita, per quanto ritenuta ancora meno performante di quella americana. Il tempo è dalla parte di Pechino. Secondo gli esperti, infatti, ci vorranno circa dieci anni prima che Canberra ottenga materialmente i nuovi supersommergibili.

Base militare di HMAS Stirling, a Perth

Il nemico del mio nemico è mio amico

Una “coltellata alla schiena”. Così la Francia ha definito la nuova alleanza tripartita, incassando il supporto dei vertici comunitari. Sentendosi nuovamente tradita dal vecchio alleato dopo il frettoloso ritiro dall’Afghanistan, non è escluso che l’Ue decida di optare per un cauto riavvicinamento alla Cina. Nello specifico, a trovare nuovo slancio potrebbe essere l’accordo sugli investimenti bilaterali (CAI), firmato alla fine del 2020 e congelato dal parlamento di Strasburgo a maggio dopo le tariffe incrociate sullo Xinjiang. Una possibilità remota (considerando il sentimento anticinese di molti eurodeputati), ma non da escludere dato il ruolo svolto da Francia e Germania negli annosi negoziati. Con l’imminente uscita di scena di Angela Merkel, ci si attende sarà proprio Macron – in caso di riconfermata alle presidenziali francesi del prossimo anno – a dettare l’agenda cinese dell’Ue nel prossimo futuro. Dopo il voltafaccia americano, è lecito presupporre una spinta anche maggiore verso l’“autonomia strategica” rivendicata dal blocco dei 27. Da tempo il gigante asiatico cerca di sfruttare le divergenze tra Bruxelles e Washington per aprire una breccia nell’alleanza atlantica. Le recenti frizioni rischiano di depotenziare la strategia indopacifica – presentata da Josep Borrell poche ore dopo la nascita di “Aukus” – che prefigura «modi per garantire dispiegamenti navali rafforzati da parte degli stati membri dell’Ue per aiutare a proteggere le linee marittime di comunicazione e la libertà di navigazione». Evidente riferimento a una presenza più massiccia nelle acque rivendicate da Pechino. Non è ancora chiaro cosa questo implicherà. Ma Parigi sta già ripensando le sue alleanze indopacifiche. Dopo lo smacco inferto da Canberra, proprio in queste ore si discute di una possibile cessione dei sottomarini francesi a Nuova Delhi. È troppo presto per dire se l’ira di Parigi (attenuata dopo la telefonata tra Biden e Macron) avrà ripercussioni più ampie per l’asse Washington-Bruxelles. Lo sapremo probabilmente il prossimo 29 settembre quando si terrà il primo incontro del Trade and Tech Council (TTC), piattaforma lanciata per promuovere il coordinamento su temi come il commercio, lo scambio di tecnologia e la protezione della supply chain, con i “valori democratici condivisi” come unico comune denominatore. L’impressione è che la fiducia sia ormai persa. Ma davanti alla minaccia cinese nessuno vuole rischiare che l’ “autonomia strategica” sfoci in un isolamento diplomatico.

Pechino gioca la carta commerciale

Solo poche ore dopo l’annuncio dell’“Aukus”, la Cina ha ufficializzato la richiesta di accesso alla Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), l’accordo di libero scambio fortemente voluto da Obama col nome di TPP e diventato il ritratto dell’“America First” dopo il ritiro di Trump. La carica simbolica della mossa cinese è quindi fortissima. Non solo Pechino potrebbe appropriarsi di un tassello fondamentale dell’ex Pivot to Asia obamiano. La contromossa cinese mette in evidenza come, davanti allo sfoggio di muscoli di Washington, la seconda potenza mondiale preferisca ricorrere ancora al “soft power”. Nonostante la minitrade war con Canberra, nell’ultimo anno la Cina ha chiuso, tra gli altri, un accordo di libero scambio con la Nuova Zelanda e ha strappato la scena all’Asean guidando le trattative per la Regional Comprehensive Economic Partnership, concluse a novembre. Presa da altro, invece, l’amministrazione Biden non sembra troppo interessata a sedersi ai tavoli negoziali. Per Pechino, invece, sta diventando sempre più un esercizio diplomatico. Molti dei paesi inclusi nel partenariato (come il Canada) hanno conti in sospeso con la Cina. Giocare la carta commerciale può servire a riannodare il dialogo. Per il momento il semaforo è rosso. Canberra – che come ciascuno degli 11 membri attuali ha potere di veto – ha già messo in chiaro che non permetterà un ingresso cinese a meno che Pechino non rimuova le ritorsioni commerciali imposte negli ultimi due anni. A prescindere dall’esito, gli analisti considerano il tentativo una mossa strategica che permetterà al gigante asiatico di rallentare le negoziazioni tra gli altri paesi compresi nella CPTPP, complicando l’ingresso della Gran Bretagna e, soprattutto, di Taiwan, che ha avanzato la propria candidatura solo pochi giorni dopo la Cina.

“Se lo fanno gli altri perché non noi?”

Tra le critiche mosse da Pechino contro l’ “Aukus” c’è quella di catalizzare la corsa all’atomo. Mentre infatti non è previsto siano armati con ordigni nucleari, tuttavia, i famigerati sommergibili saranno alimentati con uranio fornito dagli Stati Uniti e arricchito allo stesso livello usato per le bombe nucleari. “Se lo fanno gli altri perché non dovremmo noi?” potrebbero chiedersi a Pechino. Recentemente, il programma bellico cinese è tornato sotto i riflettori dopo la diffusione di immagini satellitari che identificano centinaia di silos adatti al lancio di missili balistici nucleari dispiegati nello Xinjiang e della Mongolia interna. Durante un incontro dell’International Atomic Energy Agency, Wang Qun, inviato della Cina presso le Nazioni Unite, ha invitato la comunità internazionale ad opporsi all’alleanza trilaterale, definendola un “puro atto di proliferazione nucleare”. Il trattato di non proliferazione nucleare (tpn) del 1968 che proibisce agli stati firmatari “non-nucleari” (come l’Australia) di procurarsi tali armamenti e agli stati “nucleari” (come gli Stati uniti) di trasferire a chicchessia armi nucleari o altri congegni nucleari esplosivi. Sino a oggi Pechino ha continuato ad additare il numero crescente di testate nucleari altrui per giustificare l’espansione del proprio arsenale. E proprio di recente l’ex ambasciatore cinese all’Onu per il disarmo ha suggerito di rivedere la “no-first-use policy”, che impone alla Cina – unica tra i firmatari del tpn – a non utilizzare per prima le armi nucleari contro qualsiasi altro stato.  La contrarietà di Pechino all’“Aukus” trova forza nei timori condivisi dagli altri attori regionali. La Nuova Zelanda ha fatto sapere che la flotta australiana non sarà esonerata dalla messa al bando di vascelli a propulsione nucleare dalle acque territoriali. A sollevare qualche preoccupazione per un possibile riarmo sono stati persino paesi come l’Indonesia e la Malaysia, con cui la Cina intrattiene rapporti non idilliaci. I toni rodomonteschi degli States da tempo mettono a disagio i player regionali, chiamati – loro malgrado – a scegliere tra le due superpotenze. Anziché svolgere una funzione contenitiva, l’ultima mossa di Washington potrebbe persino aiutare il gigante asiatico a ricostruire rapporti di buon vicinato.    


L’ottima analisi sullo specifico di Alessandra Colarizi si può integrare con le considerazioni di Sabrina Moles, che allarga all’intera area lo sguardo proprio partendo da Aukus, affrontando l’implosione di Evergrande, per arrivare a una nuova epoca di interventi per riformare nuovamente il sistema, affrontando le sfide che vengono dall’aggressività americana e dalla consunzione delle prassi interne di creazione di ricchezza: 

“25 La bolla di Evergrande e l’accerchiamento di Aukus: sfide al sistema”.

L'articolo Aukus: la Cina pesa pro e contro proviene da OGzero.

]]>
Asean tra decimazione pandemica e decrescita tradizionalista https://ogzero.org/covid-golpe-birmano-e-repressione-thai-l-oriente-a-pezzi/ Wed, 01 Sep 2021 20:09:40 +0000 https://ogzero.org/?p=4769 Covid, golpe birmano, repressione thailandese: elementi di stravolgimento innescati per un cambio di rotta di difficile elaborazione per i criteri occidentali. Il Sudest asiatico va decifrato immergendosi in quel mondo altro e sfuggente ai parametri europei, però in grado di elaborare svolte che risultano incomprensibili per i farang, se non dopo che i processi si […]

L'articolo Asean tra decimazione pandemica e decrescita tradizionalista proviene da OGzero.

]]>
Covid, golpe birmano, repressione thailandese: elementi di stravolgimento innescati per un cambio di rotta di difficile elaborazione per i criteri occidentali. Il Sudest asiatico va decifrato immergendosi in quel mondo altro e sfuggente ai parametri europei, però in grado di elaborare svolte che risultano incomprensibili per i farang, se non dopo che i processi si sono ormai proiettati in una direzione inattesa per quanto linearmente coerente a quell’universo di riferimenti, ma di difficile interpretazione al di fuori di quelli, producendo svolte che estromettono gli elementi alieni alla comunità, che si ritrae nei valori tradizionali, forse per trovarvi nuova linfa in prospettiva futura, benché al momento appaia semplicemente reclinata in uno spirito conservatore e retrivo.

Solo una frequentazione ventennale dell’area come quella di Max Morello può cogliere gli elementi di affanno in cui si sta dibattendo innanzitutto la cultura del Sudest asiatico. E questo produce in lui un moto di delusione per l’implosione della sua fascinazione verso l’approccio filosofico delle società asiatiche che aveva imparato a frequentare, l’illusione di potersi lentamente avvicinare a interpretare quel mondo attraverso la conoscenza della filosofia che lo permea; ora sono quasi irriconoscibili nel loro travaglio… e l’inaudito è che questo forse consente di tornare a riconsiderare l’approccio della cultura occidentale, vista l’assenza di spunti progressivi per uscire da una crisi non solo economica e sanitaria da parte di una filosofia che invece risultava affascinante perché appariva capace di proposte globali e non identitarie.


Il grotesque della danse macabre

«Questa mattina è morto il padre di Cho. Soffocato. Non si trova più l’ossigeno… I militari se lo prendono per loro e i loro protetti. Negli ospedali pubblici c’è l’esercito che decide chi ha diritto al respiratore…».

Così mi ha scritto un amico che per fuggire dal caos e dal virus dilagante in Birmania ha abbandonato la casa che si era costruito a Yangon e si è trasferito in un condominio a Bangkok con il figlio e la moglie Cho.

«Non voglio fare il cinico ma mi sembra inutile fare il conto dei morti in Birmania. Qui si moriva comunque per qualsiasi altra malattia. La differenza è che adesso si muore soffocati»,

mi dice un altro amico rimasto in quel paese. Lui ha cercato di evitare il contagio, le manifestazioni e i combattimenti continuando a spostarsi tra i villaggi più isolati.

La Birmania, Yangon in particolare, è divenuta la scena di una tremenda rappresentazione pulp, splatter, horror, da teatro dell’assurdo e della crudeltà. I paragoni con generi o forme di spettacolo, di patologie psichiche reali o diaboliche, di miti e superstizioni non sono un espediente letterario. Servono a rappresentare una realtà che diviene sempre più difficile da credere, immaginare e descrivere se non si ricorre alla dimensione fantastica, a un vero e proprio lessico dell’orrore che si ritrova nei titoli, negli articoli, nei post, nei tweet.

A fine agosto le vittime della repressione militare sono oltre 1000. Circa 15.000 i morti per Covid. Entrambe le cifre, probabilmente, errate per difetto e sicuramente destinate ad aumentare. Soprattutto la seconda. In alcune zone metà della popolazione potrebbe essere già infetta. A Yangon i morti superano i 2000 al giorno.

Catastrofe umanitaria multidimensionale

«Stiamo morendo tutti. Il Myanmar è sull’orlo della decimazione»,

mi dice un altro amico ancora stremato dal contagio. I cadaveri vengono bruciati anche negli inceneritori, sepolti in fosse comuni o addirittura in discariche. Il Covid si diffonde ulteriormente tra i volontari che li trasportano. Molti muoiono in casa, soffocati, aspettando l’ossigeno che non arriva. L’esercito si riserva il controllo dell’ossigeno le cui scorte vanno esaurendosi.

La perfetta rappresentazione, anche semantica, di questa situazione sta tutta nella dichiarazione di Michelle Bachelet, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. Riferendosi alla situazione in Myanmar ha definito una crisi che sta precipitando in una “catastrofe umanitaria multidimensionale”. Espressione che ingloba l’angoscia, l’orrore, la miseria, la violenza del covid e del golpe.

Solo il 40% del già ridotto sistema sanitario birmano è operativo, secondo le stime più ottimistiche solo il 6% di una popolazione di 54 milioni è vaccinato. Molti medici vengono arrestati per aver violato il coprifuoco per visitare qualcuno o portargli ossigeno. Altri medici e infermiere finiscono in prigione per essersi rifiutati di lavorare negli ospedali dei militari. Migliaia di persone si ammalano e muoiono di Covid in carcere. I dirigenti anziani della National League for Democracy sono letteralmente decimati. Si estingue così una generazione sopravvissuta a decenni di lotte e persecuzioni. Insomma, il Covid diviene il miglior mezzo di controllo e repressione: sta stremando l’opposizione, è perfetta scusa alle morti per tortura. Ma soprattutto il Covid riduce la popolazione in uno stato di attonita impotenza, esacerbando diseguaglianze già abissali, condannando i più poveri, il cui numero è destinato a raddoppiare, a soffrire senza possibilità di reazione. Intanto è più che triplicato il numero dei rifugiati interni, uomini donne e bambini che hanno abbandonato i loro villaggi per sfuggire ai conflitti tra esercito e milizie etniche che si sono riaccesi in tutta la Birmania.

È una tempesta perfetta…

in cui non sembra aprirsi alcuno spiraglio. Le milizie sono vittime del “dilemma del prigioniero”: pur sapendo che l’unica possibilità di reale opposizione sta in un’alleanza, non riescono a unirsi per reciproca diffidenza e per l’incapacità di valutare rischi e benefici. Il People’s Defence Force (Pdf), braccio armato del National Unity Government (Nug), a sua volta, sembra paralizzato dal mancato appoggio delle milizie e dalla difficoltà di convertirsi alla lotta armata da parte di un’opposizione che, sotto la guida di Aung San Suu Kyi aveva fatto della non-violenza la sua forza. In molti casi, quindi, i gruppi di resistenza sembrano mossi dalla disperazione, pronti a un sacrificio rituale. Com’è accaduto ai giovani che si sono gettati da una finestra per evitare la cattura e la tortura.

A poco a poco, tuttavia, sembra che alcuni gruppi stiano evolvendo verso forme più organizzate e sofisticate di guerriglia, come l’agguato in cui sono stati uccisi cinque poliziotti proprio come rappresaglia per il suicidio degli studenti.

Sul fronte opposto la giunta militare non sembra in grado di vincere una guerra civile che non aveva previsto. Le forze armate, Tatmadaw, sono decimate anch’esse dal Covid, forse perché ai militari è stato somministrato a loro insaputa il Covaxin, un vaccino indiano ancora non approvato. Secondo fonti dell’opposizione, inoltre, sarebbero già più di 2000 i disertori – soprattutto soldati semplici, sottufficiali e poliziotti – che si sono uniti al Civil Disobedience Movement (Cdm).

In questo scenario da incubo, il programma politico presentato dal generale Min Aung Hlaing, artefice del golpe e autoproclamato primo ministro, appare come un “manifesto di pazzia”, paragonabile a quello dell’Angkar, l’organizzazione dei khmer rossi di Pol Pot, secondo cui chiunque si opponga all’organizzazione stessa è un nemico da sterminare. Anche se ciò significa far strage del proprio popolo. In questo delirio il nemico diviene l’incarnazione del male: Aung San Suu Kyi e la sua Nld sono addirittura accusati di aver violato il dharma, la legge buddhista di cui i militari si ergono a protettori e difensori. Una missione sacra che, secondo i monaci più fanatici, è stata premiata dalla divinità che ha fatto guarire dal Covid l’ultraottantenne generale Than Shwe, dittatore della Birmania dal 1992 al 2011, autore di una sanguinosa repressione con migliaia di dissidenti torturati e imprigionati. Il fatto che Than Shwe e sua moglie abbiano potuto godere di cure precluse al resto della popolazione è anch’esso da considerare come il segno di un karma miracoloso. Al contrario la Signora sarebbe stata punita per la sua incapacità nell’affrontare la crisi sanitaria, nel trovare un accordo con i diversi gruppi etnici e nel mantenere il sostegno dell’Occidente in seguito alla crisi determinata dalle violenze sui rohingya.

Accusa, quest’ultima, che appare grottesca pensando alle responsabilità di buona parte dell’intelligenza occidentale che ha abbandonato Aung San Suu Kyi – e con lei i rohingya – al proprio destino, accusandola di crimini contro l’umanità e genocidio per non essersi opposta con sufficiente forza alla persecuzione compiuta dai militari. È stato proprio l’Occidente, dunque, accecato da una hybris, a creare le condizioni per il golpe.

… per un’epidemia golpista

La situazione in Myanmar sta generando un effetto contagio in tutta l’area. Oltre a ridefinirsi come stato paria, è condannato a essere anche untore. E non solo per le decine di migliaia di persone in fuga. È come se tutti gli orrori della ex Birmania si replicassero o venissero alla luce nelle altre nazioni dell’Asean: la scarsità di ossigeno e di vaccini, il mistero sul numero di morti o contagiati, i cadaveri bruciati nei crematori dei monasteri o sepolti in fosse comuni, la miseria che rende un tampone un lusso (nelle Filippine, per esempio, costa otto volte il minimo salario giornaliero), la rinascita di pratiche magiche in sostituzione di cure mediche inesistenti, l’acuirsi di tensioni etniche, religiose e razziali in cui ognuno cerca nell’altro un capro espiatorio.

Inizialmente sembrava che la resistenza al virus dei popoli del Sudest asiatico fosse l’ennesima prova di una cultura che aveva gli anticorpi per contrastarlo. Per alcuni ricercatori, come l’italiano Antonio Bertoletti dell’Università di Singapore, poteva essere così, ma solo perché si era creata una sorta d’immunità dovuta all’esposizione a virus come la Sars.

Poi, nell’aprile scorso, è arrivata la variante Delta. I contagi e i decessi sono aumentati in modo esponenziale con una crescita superiore a ogni altra parte del mondo. Il Sudest asiatico e i suoi 655 milioni di abitanti sono divenuti l’ultimo hotspot della pandemia, rivelando i malfunzionamenti strutturali della regione: l’autoritarismo o la democrazia limitata, la corruzione e la burocrazia che l’alimenta, le diseguaglianze, il potere delle élite e delle oligarchie, l’assenza di un adeguato sistema di assistenza sociale e sanitaria.

La società disfunzionale e la trasmissione sessuale del virus

La Thailandia è un esempio perfetto di questa società disfunzionale: è stata modello per il golpe birmano e quindi vittima della stessa contaminazione tra Covid e politica, sia pure in forma meno virulenta. Dall’inizio della pandemia sino ad aprile 2021, i casi di Covid erano stati circa 28.000, con 98 morti. Da aprile a fine agosto i contagiati sono circa 400.000, i morti oltre 11.000.

L’epicentro di questa nuova ondata sono stati quei locali, come il Krystal Exclusive Club o l’Emerald, frequentati dai cosiddetti Vvip. Non semplicemente vip, bensì very very important person, che in quei locali incontrano ragazze che non sono semplici escort bensì aspiranti mia noi, moglie minore, amanti ufficiali, cui pagare l’affitto in un residence di lusso (o intestare un appartamento) e assicurare un tenore di vita adeguato allo status del Vvip.

La trasmissione del virus per via sessuale (in senso del tutto traslato), del resto, sembra comune ai paesi del Sudest asiatico. È accaduto anche in Cambogia dove i primi casi della nuova ondata si sono verificati tra i Vvip frequentatori del N8, esclusivo locale di Phnom Penh. A infettarli sarebbero state due delle quattro ragazze arrivate pochi giorni prima da Dubai a bordo di un jet privato.

In pochi giorni il Covid si è diffuso in modo tanto rapido e violento quanto inaspettato. In Thailandia il contagio e la morte, sempre più rapidamente, si sono spostati dai quartieri delle élite come Thonglor e Suan Luang, alle prigioni, ai dormitori dei lavoratori edili, agli slum come Khlong Toey, dove è impossibile qualunque distanziamento sociale, le condizioni igieniche sono precarie, l’assistenza medica limitata. E dove la malattia è vissuta come un ulteriore stigma sociale, il segno di un karma malefico.

Interessi regali in campagne vaccinali thailandesi

La crisi è aggravata dai ritardi nella campagna vaccinale. Il governo thailandese, infatti, l’aveva pianificata con l’uso quasi esclusivo del vaccino AstraZeneca, prodotto dalla compagnia nazionale Siam BioScience, su cui, a quanto sembra, facevano conto anche altri paesi del Sudest asiatico. A fine agosto, solo l’11% della popolazione era completamente vaccinato. Secondo alcuni siti dell’opposizione molte dosi sono state vendute all’estero. Ma sarà impossibile determinare responsabilità o cause: la società farmaceutica, infatti, fa parte del patrimonio della corona, controllato direttamente da re Vajiralongkorn. E qualsiasi critica o semplice dubbio rientra ineluttabilmente sotto la legge di lesa maestà.

Altro responsabile dei ritardi vaccinali è l’ineffabile ministro della Sanità Anutin Charnvirakul, già noto per aver dichiarato che i farang, gli occidentali, erano potenziali untori in quanto “sporchi”. Secondo molte indiscrezioni Anutin avrebbe dichiarato che il vaccino Pfizer non aveva dimostrato la sua efficacia sulle popolazioni asiatiche. Quindi avrebbe dato più fiducia al cinese Sinovac (che secondo le stesse indiscrezioni è in parte controllato da una delle più ricche famiglie thai).

Nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi mesi abbiano contenuto il dilagare della crisi sanitaria, il virus ha innescato la peggior crisi economica che abbia colpito la Thailandia negli ultimi vent’anni e 21 milioni di persone rischiano di non avere più mezzi di sostentamento. La Thailandia, che secondo un rapporto del 2018 era al primo posto nella graduatoria delle diseguaglianze sociali, rischia di incrementare in modo esponenziale il suo primato.

Ritorno al futuro della decrescita nella felice vita tradizionale 

La pretestuosità dei valori khwampenthai, la rivolta in salsa prik…

In una situazione del genere appare allucinante una delle soluzioni proposte dall’establishment, ispirata ai valori della khwampenthai, la thailandesità, più che a teorie macroeconomiche: un programma di decrescita felice secondo cui il popolo thai dovrebbe tornare a uno stile di vita tradizionale, che sembra finalizzato soprattutto a un maggior controllo. Sempre più detenuto dalle cinquanta famiglie più potenti del regno, il cui patrimonio combinato ha raggiunto la cifra record di 160 miliardi di dollari. A ogni buon conto, per evitare possibili conseguenze personali per qualsiasi eventuale errore, il ministro Anutin si è fatto latore di una legge che scarichi di qualsiasi responsabilità nella gestione del covid operatori sanitari e funzionari di ogni livello.

In questo clima era inevitabile che riprendessero le manifestazioni di piazza. Ma se prima si trattava soprattutto di una protesta d’élite che metteva in discussione la cultura gerarchica della tradizione thai, compreso il totem e tabù della monarchia, e si svolgevano secondo forme e modi da “indiani metropolitani” in salsa prik, piccante, oggi sono rivolte antigovernative, rabbiose, spesso violente, innescate dalla paura del virus e dal risentimento verso un sistema corrotto che non è riuscito a contenerlo. Altrettanto violenta la reazione della polizia che sempre più spesso fa uso della forza e sembra voler contendere all’esercito il ruolo di gendarme del governo, riappropriandosi del controllo delle strade (con tutti i benefici che ne conseguono).

… e i bachi nei principi della sapienza tradizionale

«La Thailandia sta precipitando in un nuovo caos», ha dichiarato un attivista di Human Rights Watch.

«C’è un certo conforto nella decadenza. È come confrontarsi con la prima nobile verità del Buddha, il dukka, l’inevitabile sofferenza che segna l’esistenza»,

mi aveva detto lo scrittore thailandese Tew Bunnag. Figlio lui stesso dell’ammart, l’élite, che ha ripudiato la sua classe sociale per dedicarsi alla meditazione e all’assistenza ai malati terminali, Bunnag commentava così il suo libro Il viaggio del Naga in cui il serpente gigante della mitologia hindu-buddista simboleggiava la natura che governa i destini umani.

«Vivi nella sensazione di questo sottile equilibrio tra il dukka e il tentativo di cogliere ogni attimo di piacere che ti offre la vita».

Il naga, oggi, sembra incarnarsi nel Coronavirus, ma sembra che la massa della popolazione thai abbia perduto la disperata capacità di cogliere il sanuk, quel piacere che allevia la sofferenza.

La pandemia di Covid-19, insomma, sta facendo crollare quella House of Cards, il castello di carte, che si reggeva sul principio del pii-nong, maggiore-minore, che riguarda l’età, il ruolo familiare, lo status professionale, economico, sociale, culturale, l’esperienza. Un complesso rapporto che era uno degli elementi della khwampenthai, divenuta espressione di un crescente orgoglio nazionale. Per la maggior parte dei locali, che fossero phrai o ammart, membri del popolo o delle élite, uniti in questo come nella passione per il som tam, l’insalata di papaya verde, la salvezza era insita nella loro capacità di rispettare le regole, nei loro rituali, come il wai, il modo di salutarsi giungendo le mani di fronte al volto, che evita ogni contatto.

Gli asiatici, infatti, giustificano ineguaglianze, colpi di stato, restrizioni e violazioni dei diritti umani affermando che per loro non si possono applicare i valori dell’Occidente. Al tempo stesso quegli stessi valori vengono contestati in funzione di una pretesa superiorità morale che deriverebbe dal mantenere immutati i propri valori. È qualcosa che va contro uno dei cardini della logica aristotelica: il principio di non-contraddizione. Ma, ancora una volta, parliamo di una logica occidentale, lineare, ben diversa da quella orientale. Qui vige un principio circolare in cui tutto è o può essere il contrario di tutto.

Il fallimento del minilateralismo

Quello che alcuni osservatori locali hanno definito “minilateralismo” dell’Asean a indicare un modello virtuoso di sviluppo in cui si confrontano gruppi di paesi, si sta rivelando come l’ulteriore limite di un’organizzazione sovrannazionale priva di visione strategica, di quella “centralità” che definisce la capacità di affrontare le sfide esterne al gruppo di nazioni. E come l’Asean si è rivelata del tutto incapace di gestire la crisi politica in Myanmar, ancor meno sembra capace di prendere posizione tra i grandi giocatori che si confrontano nello scacchiere dell’Asia orientale, in particolare nel Mar della Cina meridionale. Quella dell’Asean appare una vera e propria manifestazione di ignavia: i problemi non vengono risolti non tanto per divisioni interne, quanto perché non sono posti o sono rimossi. Ancora una volta si manifesta quel principio che in Thailandia è sintetizzato nell’espressione “mai pen rai”: non pensarci, non preoccuparti. Potrebbe accadere così anche per la ripresa dell’estremismo islamico nell’area – che non ha rinunciato al progetto di un califfato in Sudest asiatico.

Ripiegamento dall’arrembaggio asiatico…

In effetti sta accadendo il contrario di ciò che molti preconizzavano: il “Tramonto dell’Occidente” cui doveva succedere l’alba del “Nuovo secolo asiatico” sembra essersi arrestato al crepuscolo, cui sta seguendo un’improvvisa aurora che illumina l’ovest. Il “Post-Western World” sembra trascorso o comunque si è ristretto entro i confini dell’Impero di Mezzo. Sembra invertito un ordine che aveva assunto le caratteristiche di un processo naturale, quasi genetico, come se l’evoluzione della Repubblica Popolare Cinese si diffondesse in tutta l’Asia per partenogenesi. Un processo di cui facevano vanto soprattutto le nuove tigri asiatiche, le nazioni dell’Asean, del Sudest asiatico. Oggi invece la Cina diventa sempre più inaccessibile: le autorità della provincia dello Yunnan che segna il confine con il Sudest asiatico stanno progettando un muro che li protegga da ondate di profughi.

… e il ripiegamento dall’esotico

Agli occhi di un farang, quell’altrove dove anche le zone d’ombra facevano parte di uno scenario esotico in cui si compiaceva di vivere senza subirne le conseguenze, diviene un teatro della crudeltà dove non può più sottrarsi alla realtà, dove anche lui può divenire una vittima. La prima, più forte reazione a questa presa di coscienza è un desiderio di fuga, di ritorno in patria, con la pretesa di essere accolti come un figliol prodigo. È il preludio alla riconversione, al mea culpa, alla dichiarazione d’appartenenza a un mondo che, pur con tutti i suoi limiti, garantisce i fondamentali diritti umani, si basa su quei valori universali che si era stati tentati di rinnegare per la fatale attrazione degli “Asian Values” che apparivano più efficienti e adatti ad affrontare le sfide del nuovo millennio.

Ancora una volta la dicotomia è il velo alla semplificazione perché l’Asia stessa, i suoi valori cambiano profondamente in funzione geografica, culturale, religiosa, storica: Asia del Sud, centrale, orientale, Sudest asiatico, confucianesimo, buddismo (con le profonde differenze tra il Mahayana e il Theravada), islam, eredità coloniali, ideologia comunista o postmarxista, autocrazia e democrazia entrambe in più varianti del Covid.

Fallimento del policentrismo multipolare

«L’Asia è policentrica, multipolare… In Asia non c’è uniformità in termini di geopolitica e cultura e ognuna di quelle nazioni è un mondo a sé stante».

Lo ha scritto Francis Fukuyama in epoca prepandemica, quando il policentrismo appariva un antidoto alla globalizzazione, una nuova forma evolutiva. Oggi, però, si sta rivelando disfunzionale: la gestione della pandemia si è rivelata tra le peggiori al mondo (almeno secondo il Nikkei Covid-19 Recovery Index), circa 90 milioni di persone sono regredite alla condizione di povertà, la middle class è stata uccisa in culla, l’illiberalismo, l’autocrazia, l’etnonazionalismo e l’integralismo religioso si diffondono col virus. Le nazioni del Sudest asiatico si dimostrano non le nuove tigri bensì anatre zoppe che si dibattono in una palude distopica.

Resistenza confuciana?

In questo scenario apocalittico sembrano “salvarsi” solo Vietnam e Singapore, entrambi accomunati dalla comune radice confuciana. In Vietnam, che pure sta subendo una nuova e grave ondata del Covid, il controllo esercitato dal Partito, una classe dirigente più preparata e una lunghissima esperienza delle emergenze hanno contenuto il contagio e la crisi economica. Singapore, sempre più lanciata nella sua corsa verso la realizzazione di un’utopica Elysium, sta procedendo dalla pandemia all’endemia, ossia alla coesistenza col virus tenuto sotto controllo dai vaccini, dalle nuove terapie e da forme di rilevazione rapida del virus come l’analizzatore del respiro. Sono soprattutto questi modelli che hanno creato in molti occidentali l’illusione che tutto il Sudest asiatico potesse rappresentare un’alternativa politica ed esistenziale. Un equivoco, dunque, all’interno di un inganno.

Resilienza occidentalista?

In questa prospettiva culturale bisognerebbe ripensare a tutte le criticità europee rivalutando un sistema che si sta rivelando davvero resiliente. Tanto per usare in modo adeguato un termine abusato. Nel confronto con le nazioni dell’Asean si può comprendere e apprezzare il vero senso della libertà di cui godiamo. Proprio nei beni immateriali – quali la governance, l’innovazione, lo stato di diritto, il welfare, la cultura della libertà di pensiero e d’espressione – l’Europa può riaffermare il suo ruolo, definire un modello culturale. A condizione che ne abbia coscienza e capacità di affermarlo.

«Senza memoria, non vi è identità. E senza identità, siamo solo polvere sulla superficie dell’infinito», ha detto Jonathan Sacks, leader ecumenico, filosofo. Che avvertiva: «Le civiltà cominciano a morire quando perdono la passione morale che li ha portati a esistere».

  


Il pezzo che abbiamo proposto qui è un aggiornamento e un approfondimento operati dall’autore dopo la pubblicazione di un articolo che Massimo Morello stesso aveva scritto per “Il Foglio” uscito il 29 luglio 2021. Come già nella raffinata operazione iconografica operata da Roland Barthes – le due fotografie che corredavano L’Impero dei segni e riproducevano il ritratto di un medesimo giapponese con lievi, ma sostanziali differenze tra il volto nel primo frontespizio della prima illustrazione e la sua versione modificata al fondo del libro – qui si possono confrontare le due versioni e si noterà un’accresciuta amarezza orrifica proveniente sia dalle testimonianze aggiunte, sia dai nuovi dati sulla pandemia e il montaggio diverso nei due pezzi di argomenti simili e dati aggiornati restituisce moltiplicata la delusione dell’orientalista, il travaglio di una società che sembra fornire solo formule contraddittorie e regressive…

L’Oriente a pezzi

 

L'articolo Asean tra decimazione pandemica e decrescita tradizionalista proviene da OGzero.

]]>
L’influenza russa nel Sudest asiatico passa per le armi https://ogzero.org/l-industria-bellica-di-mosca-e-il-sudest-asiatico/ Wed, 21 Jul 2021 17:04:12 +0000 https://ogzero.org/?p=4340 L’attenzione prestata da OGzero nei mesi scorsi alla vicenda birmana e all’intero Sudest asiatico e i molti interventi da noi ospitati riguardo alla strategia geopolitica russa ci hanno indotto a riprendere oggi questo interessante articolo scritto da Agnese Ranaldi per l’Associazione Italia-Asean il 9 luglio, perché segnala sforzi, difficoltà, offerte e penetrazioni di mercati da parte […]

L'articolo L’influenza russa nel Sudest asiatico passa per le armi proviene da OGzero.

]]>
L’attenzione prestata da OGzero nei mesi scorsi alla vicenda birmana e all’intero Sudest asiatico e i molti interventi da noi ospitati riguardo alla strategia geopolitica russa ci hanno indotto a riprendere oggi questo interessante articolo scritto da Agnese Ranaldi per l’Associazione Italia-Asean il 9 luglio, perché segnala sforzi, difficoltà, offerte e penetrazioni di mercati da parte dell’industria bellica di Mosca che ci sembra possano compendiare e integrare le analisi sui traffici che si stanno compiendo in quell’area. Riproponiamo questo articolo nei giorni in cui cinque clienti stranieri hanno già inviato delle offerte per l’acquisto del nuovo caccia russo Su-57 di quinta generazione: l’annuncio del direttore di Rosoboronexport, Aleksandr Mikheev, è stato diffuso in occasione del salone dell’aeronautica di Mosca Maks-2021. Lasciamo a voi, dopo la lettura di questo articolo, la risposta su quali siano i 5 clienti della società per l’export militare di Putin che hanno opzionato il nuovo caccia da guerra.


All’inizio del mese di luglio del 2021 il Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha incontrato l’omonimo laotiano Saleumxay Kommasith a Vientiane, capitale del Laos. Il Ministro Kommasith ha ringraziato la Russia per l’aiuto ricevuto durante la pandemia da Covid-19. L’incontro si innesta nel quadro della più ampia politica Turn to the East perseguita da Mosca come strategia per rafforzare le relazioni con l’Asia-Pacifico, che si impernia sul primato russo nella vendita di armi e negli investimenti difensivi. Strategia che proprio di recente ha visto sviluppi in Laos, con l’avvio della costruzione congiunta di un aeroporto e di infrastrutture difensive.

Vladimir Putin riconosce nel Sudest asiatico un grande potenziale, e avanza i propri obiettivi strategici puntando sulla diplomazia della difesa. Questa enfasi sull’hard power è  una peculiarità della politica estera del Cremlino, la cui cultura politica valorizza meno la pervasività del soft power. Secondo diversi analisti, sono proprio le velleità geostrategiche e gli imperativi di sicurezza di Mosca che hanno consentito un rafforzamento della cooperazione con la regione dell’Asia-Pacifico.

Negli ultimi anni Mosca ha intensificato gli sforzi per la vendita di armi in Asia orientale. Il primato incontestato nella vendita di forniture militari nella regione sembra mostrare, però, segni di cedimento. Le esportazioni sono in declino, perlopiù per via del Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act (Caatsa), approvato nel 2017 dall’amministrazione Trump. Davanti al continuo coinvolgimento della Russia nelle guerre in Ucraina e Siria e alla sua interferenza nelle elezioni statunitensi del 2016, la reazione di Washington non si è fatta attendere: la legge impone sanzioni a chiunque abbia rapporti commerciali col complesso militare-industriale russo. Nel periodo 2015-19, le esportazioni di armi della Russia nella regione dell’Asia sudorientale ammontavano a 2,7 miliardi di dollari, in calo rispetto 4,7 miliardi di dollari del 2010-14, secondo Ian Storey dell’Institute for Southeast Asian Studies (Iseas). Tra il 2010 e il 2019 anche le esportazioni globali della Russia sono diminuite, scendendo da 36,8 miliardi di dollari nel 2010 a 30,1 miliardi di dollari nel 2019 con un calo del 18 per cento.

I paesi del Sudest asiatico rivestono un ruolo strategico. La crescita della spesa nazionale per la difesa è andata di pari passo con lo sviluppo economico. «Le armi sono affluite nel Sudest asiatico negli ultimi anni in parte perché le nazioni dell’Asean possono ora permettersi di acquistarle» ha dichiarato Siemon Wezeman, ricercatore presso lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri). Il commercio con la Russia presenta diversi vantaggi: i prezzi delle armi russe sono decisamente più competitivi di quelli dei concorrenti quali Usa, Cina ed Unione Europea. In più «La Russia è flessibile sui metodi di pagamento diversi dai contanti, il che le dà un vantaggio nelle economie in via di sviluppo», ha affermato Shinji Hyodo, direttore degli studi politici presso l’Istituto Nazionale Giapponese per gli Studi sulla Difesa. Per esempio, l’Indonesia dovrebbe pagare metà del suo pagamento per i jet Su-35 con esportazioni di olio di palma, gomma e altri prodotti. Ma il vero vantaggio strategico è il fatto che Mosca non richiede alcuna contropartita ideologica, al contrario di quanto accade con Stati Uniti ed UE, che richiedono garanzie sul trattamento dei diritti umani e sulla democrazia. A questo proposito, il Myanmar non può importare armi dall’UE per via di un embargo in vigore già dal 1990 e anche in Thailandia il colpo di stato militare del 2014 ha provocato restrizioni da parte dei fornitori europei.

Vietnam e Myanmar sono invece le principali destinazioni di armi russe, seguite da Malaysia, Indonesia e Laos. In Vietnam la Russia domina il 60 per cento delle importazioni per la difesa. In Myanmar il ruolo di fornitore di armi è oggi particolarmente controverso, a causa del recente colpo di stato militare. Il mese scorso una delegazione russa ha visitato segretamente la giunta militare golpista, tra le proteste degli attivisti per i diritti umani. Tra gli altri membri della delegazione anche una rappresentante di Rosoboronexport – agenzia statale che si occupa di esportazioni di beni e servizi legati alla difesa. Il Generale golpista birmano Min Aung Hlaing ha ricambiato la visita il 22 giugno, a riprova che la cooperazione militare tra i due paesi non sembra mostrare segni di cedimento. Anzi: la Russia è stata tra i paesi che alle Nazioni Unite si sono astenuti alla risoluzione assembleare che richiedeva un embargo sulle armi in Myanmar: Russia e Cina sono infatti i due maggiori fornitori di armi del paese.

I paesi della regione si stanno ritagliando un ruolo autonomo dell’arena politica internazionale, e i vantaggi competitivi rappresentati dalla Russia potrebbero essere surclassati da calcoli diversi. All’urgenza di gestire questioni securitarie come il Myanmar e il Mar Cinese meridionale, si aggiunge il desiderio di tutelare la stabilità regionale e il quieto vivere dei suoi abitanti. La diplomazia della difesa del Cremlino dovrà diversificare la sua offerta di beni e servizi legati alla difesa se vorrà competere con l’aumento della concorrenza internazionale.

L'articolo L’influenza russa nel Sudest asiatico passa per le armi proviene da OGzero.

]]>
Taipei, ossessione cinese in un mare conteso https://ogzero.org/taiwan-e-snodo-essenziale-tra-loccidente-e-il-sogno-cinese/ Wed, 14 Apr 2021 20:33:17 +0000 https://ogzero.org/?p=3084 Taiwan è snodo essenziale nella geopolitica dell’era Biden, che intende recuperare un po’ del prestigio perduto tra i flutti del Mar Cinese meridionale dalla passata amministrazione Trump, soprattutto dopo l’epilogo della disputa hongkonghese, che vede l’isola definitivamente inglobata nella Cina popolare; ora tocca a Taipei. L’isola rappresenta anche il maggior produttore di microchip quasi in […]

L'articolo Taipei, ossessione cinese in un mare conteso proviene da OGzero.

]]>
Taiwan è snodo essenziale nella geopolitica dell’era Biden, che intende recuperare un po’ del prestigio perduto tra i flutti del Mar Cinese meridionale dalla passata amministrazione Trump, soprattutto dopo l’epilogo della disputa hongkonghese, che vede l’isola definitivamente inglobata nella Cina popolare; ora tocca a Taipei. L’isola rappresenta anche il maggior produttore di microchip quasi in regime di monopolio per quelli sotto i 10 nanometri – dunque motivo di preoccupazione per l’Occidente, se dovesse finire sotto il controllo di Pechino, che proprio per questo motivo potrebbe trovare ulteriore incentivo alla riunificazione. Di contro l’attuale amministrazione americana sta rivedendo l’approccio, promuovendo assistenza economica, relazioni diplomatiche e traffico di armi con il governo di Tsai Ing-wen. Per questa serie di ingarbugliate risoluzioni strategiche proponiamo l’indispensabile approfondimento storico di Alessandra Colarizi per collocare la nuova guerra che nel prossimo futuro vedrà al centro l’autonomia di Taipei dalla Cina continentale, le cui navi continuano a solcare un mare conteso e i cui piloti volano nei cieli di Formosa.


La guerra tra il Partito comunista cinese e i nazionalisti del Kuomintang (Kmt) è iniziata negli anni Venti, si è fermata durante la Seconda guerra sino-giapponese (1937-1945), per poi culminare, quattro anni più tardi, nella fuga del Kmt sull’isola di Taiwan. Ma la guerra civile cinese, in realtà, non è mai finita. Seppur con modalità e dinamiche diverse, è una guerra psicologica che – senza spargimenti di sangue – continua ancora oggi.

Per gli esperti, il 2020 è stato l’anno più turbolento dalla terza crisi dello Stretto di Formosa, quando tra il 1995 e il 1996 la Cina rispose alla visita negli States dell’allora presidente taiwanese Lee Teng-hui con esercitazioni missilistiche.. Negli ultimi mesi Pechino ha aumentato le sue incursioni nella zona di identificazione aerea di Taiwan (Aidz) con voli quasi giornalieri di aerei spia e jet militari arrivando persino ad attraversare la linea mediana, la frontiera simbolica tra le due Cine rimasta inviolata per settant’anni. Secondo Philip Davidson, comandante delle Forze Usa nell’Indopacifico, un tentativo di riunificazione manu militari – mai escluso dalla leadership comunista – potrebbe concretizzarsi nel giro di sei anni. Verosimilmente, molto dipenderà dalla postura di Washington, tenuto a sostenere l’autosufficienza bellica di Taipei, ma sollevato da obblighi difensivi fin dall’interruzione del Sino-American Mutual Defense Treaty nel 1980, un anno dopo l’istituzione di rapporti ufficiali con la Repubblica popolare.

Negli ambienti militari cinesi circola la convinzione che la pandemia abbia accelerato l’inesorabile declino della potenza statunitense nel quadrante asiatico. Ormai sceriffo senza stella, una volta persa Taiwan, Washington rischia una crisi di credibilità tra gli alleati regionali, che il gigante asiatico punta a cavalcare. «Il timore di un danno frena. L’azione logora. La prospettiva di un vantaggio incita», scriveva lo stratega cinese Sun Tzu. Ma leggere l’escalation tra Pechino e Taipei attraverso il prisma dell’intervento a stelle e strisce è un esercizio tanto intrigante quanto ingannevole. Come ripetono i media statali, quella taiwanese è una “questione interna”. Propaganda a parte, la retorica muscolare della leadership comunista risponde realmente a dinamiche intestine.

Taiwan, questa sconosciuta

Quella di Taiwan è una storia antica ma non troppo. Come spiega sul blog della Yale University Press Bill Hayton, autore di The Invention of China, dall’occupazione giapponese (1895) all’arrivo dei nazionalisti, la mainland non si è data particolare pensiero della sorte dell’isola, considerata all’epoca inospitale e abitata da popolazioni primitive. Nel 1895, un editto imperiale vietò ogni supporto al governatorato locale istituito dalla dinastia Qing una decina di anni prima quando, in virtù del posizionamento strategico per i commerci con le potenze coloniali, Taiwan fu scorporata dal Fokien e resa provincia. Ben 200 anni dopo essere stata annessa al Celeste Impero. Non godette di maggiori attenzioni nemmeno durante il breve esperimento repubblicano di Sun Yat-sen. Nei piani del fondatore del Kuomintang, l’ex Formosa doveva servire come base d’appoggio per sovvertire la decrepita dinastia mancese, ma non venne mai ufficialmente inclusa tra le nuove 22 province, nonostante la Repubblica di Cina rivendicasse confini in larga parte sovrapponibili ai territori Qing. Questa ambiguità di fondo non cessò nemmeno dopo la vittoria comunista. Anziché ambire a una riunificazione, Mao e compagni auspicavano piuttosto che l’isola riuscisse a ottenere l’indipendenza dal Giappone, tanto che durante il sesto Congresso del Pcc il popolo taiwanese venne espressamente definito una minzu (nazionalità) a sé. Posizione mantenuta fino ai primi anni Quaranta. Più precisamente fino all’attacco nipponico di Pearl Harbour e al conseguente ingresso americano nella Seconda guerra mondiale. Solo allora, fiutando l’imminente sconfitta del Sol Levante, i nazionalisti del generalissimo Chiang Kai-shek scorsero nell’isola selvaggia un riparo temporaneo da cui programmare una riconquista della Cina continentale. Sappiamo che questo non avvenne mai. Ma le rivendicazioni del governo “illegittimo” oltre lo Stretto continuano tutt’oggi ad agitare i sonni dell’establishment comunista. «Sacro territorio inalienabile», così la costituzione cinese definisce dal 1982 l’ex Formosa.

Il senso di Pechino per Taiwan

Per capire l’ossessione cinese per l’isola bisogna scavare tra le pieghe della storia recente. Negli ultimi trent’anni, le due Cine hanno preso strade divergenti: una ha rinnegato il dispotismo militarista di Chiang Kai-shek, diventando un raro esempio asiatico di democrazia illuminata. L’altra ha cambiato diversi “Timonieri”, appeso al chiodo la divisa rivoluzionaria, ma ha giurato amore eterno al sistema monopartitico. Generazione dopo generazione l’involucro è rimasto tale e quale.

Ma gli ideali che un tempo ispirarono i fondatori della patria nella lotta contro i nazionalisti hanno ceduto il posto al “socialismo con caratteristiche cinesi”, quel “capitalismo di stato” che, mixando piani quinquennali e imprenditoria privata, ha sì reso la Cina seconda economia mondiale, ma anche provocato effetti collaterali, come corruzione dilagante e diseguaglianze sociali. Il tutto mentre sull’altra sponda dello Stretto molteplici forze politiche si contendono il voto dei cittadini nella cornice di vivaci campagne elettorali. Taiwan rischia di diventare motivo di imbarazzo per Pechino. Non è facile difendere la superiorità del “modello cinese” con una Cina democratica determinata a ottenere un maggior riconoscimento sullo scacchiere mondiale. Soprattutto da quando l’ottima gestione del coronavirus le è valso il plauso internazionale.

Assicurare stabilità sociale e prosperità economica è quanto, fino a oggi, ha permesso alla leadership comunista di mantenere il consenso popolare anche in tempi di crisi ideologica. Ma le incertezze del contesto globale espongono il binomio sicurezza e benessere a rischiose variabili esterne. Lo dimostrano la pandemia e i chiari di luna con Washington. Ecco perché, nella “Nuova Era” di Xi Jinping, il partito/stato si è rivolto al nazionalismo per consolidare la propria legittimità. Complice la fase decadentista vissuta dall’Occidente democratico. Bu wang chuxin (“Non dimenticare l’intenzione originaria”): il monito riecheggia costantemente nei discorsi del presidente, rievocando una concezione paternalistica del potere che, come al tempo della rivoluzione comunista, si serve di una minaccia esterna – reale o presunta – per unire la popolazione e legittimare la propria sopravvivenza.

Il patriottismo “strabico” di Pechino

Per quanto piuttosto efficace, la strategia del fanatismo patriottico come collante sociale non è priva di ambiguità. Cominciata alla fine dell’Ottocento su ispirazione giapponese, la formazione di un sentimento nazionalista oltre la Grande Muraglia non solo precede la fondazione del Partito comunista, ma è anche strettamente associata alle origini del Kmt e ai “tre principi del popolo” di Sun Yat-sen: minquan (democrazia), minsheng (benessere del popolo) e minzu (nazionalismo) inteso come l’unione di tutte le etnie cinesi in chiave antimperialista. Al contempo il processo di costruzione nazionale, avviato nella Cina continentale intorno agli anni Trenta, non riguardò l’isola oltre lo Stretto, all’epoca ancora nell’orbita nipponica. E, sebbene l’arrivo a Taiwan del governo nazionalista in fuga segnò l’importazione del nation building cinese, all’inizio del nuovo millennio l’ascesa del filoindipendentista Democratic Progressive Party ha sancito la formazione di una vera e propria identità taiwanese, arrivando persino a rinnegare le antiche radici cinesi. Da allora il percorso delle due Cine si è biforcato nuovamente, mettendo a rischio la narrazione delle origini condivise promossa da Pechino. Questo strabismo storico si riflette nella rilettura della controversa figura di Chiang Kai-shek. Considerato un tempo “nemico del popolo”, negli ultimi anni l’industria culturale cinese ha cercato di riabilitare la figura del generalissimo nel nome di un comune patriottismo antigiapponese, laddove a Taiwan, negli ambienti più progressisti, si sta cercando di cancellarne ogni traccia. Per molti taiwanesi Chiang è il ricordo di quarant’anni di arresti e stragi indiscriminate. Per il governo comunista, invece, Chiang è la prova che c’è sempre stata “una sola Cina”.

Taiwan e il “Chinese Dream”

Il ritorno alla madrepatria «non può aspettare di generazione in generazione», aveva sentenziato Xi Jinping nel 2013, appena assunto l’incarico di presidente. In quello stesso anno prendeva forma il “sogno cinese”, concetto evocativo che sintetizza l’impegno del partito/stato non solo ad assicurare benessere economico per la popolazione, ma anche a ripristinare lo standing internazionale dell’ex “malata d’Asia” dopo l’umiliazione subita nell’Ottocento per mano delle potenze imperialiste. Concludere definitivamente la guerra civile è strumentale al raggiungimento dell’agognata “rinascita nazionale”. Un obiettivo che passa per la difesa della sovranità territoriale e l’assoggettamento delle aree periferiche del paese ancora refrattarie all’autorità del governo centrale. Ma le proteste di Hong Kong e la sinizzazione forzata del Tibet e della regione islamica dello Xinjiang hanno reso la prospettiva di un’assimilazione politica anche più invisa alla popolazione taiwanese. Diversi segnali suggeriscono un parziale ripensamento di Pechino davanti alla scarsa persuasività della vecchia strategia dell’annessione pacifica a base di isolamento internazionale e corteggiamento economico. La perdita di sette alleati e l’offerta di una semiautonomia in stile hongkonghese non hanno ammorbidito la posizione di Taipei. E il tempo stringe. La Cina ambisce a diventare una “potenza socialista moderna” entro il 1° ottobre 2049, centenario della Repubblica popolare. Ma tappe e obiettivi anche più ravvicinati incombono minacciosi. Andando a ritroso, il 2027 potrebbe già riservare preoccupanti colpi di scena. Nei piani di Pechino, il centesimo compleanno dell’Esercito popolare di liberazione dovrà coincidere con la fine dell’ambiziosa riforma militare avviata nel 2015 per supportare il “sogno cinese”. C’è chi teme che, una volta ottenuti i mezzi necessari, la leadership cinese possa decidere di assumersi il rischio di una guerra con gli Stati Uniti. Chi invece, anche tra le fila dell’esercito cinese, considera un intervento armato uno spreco di risorse utilizzabili per “migliorare il tenore di vita della popolazione cinese”. Vero obiettivo del “Chinese Dream”.

 

Il sogno di Xi

I prossimi due anni potrebbero rivelarsi determinanti per le relazioni con Taipei. Il biennio 2021-2022 vedrà succedersi a stretto giro il centenario e il 20° Congresso del Partito comunista, che sancirà un parziale ricambio ai vertici della nomenklatura cinese. Un momento delicato che, con ogni probabilità, vedrà Xi sfondare il limite dei due mandati con l’intento di continuare a presiedere la roadmap dei due centenari, potenzialmente sine die. Consolidare l’eredità politica del lider maximo cinese pare conti almeno quanto raggiungere l’obiettivo del “ringiovanimento nazionale”. In questo processo Taiwan ricopre un ruolo centrale. Lo dimostra lo storico incontro tra Xi e l’ex presidente nazionalista Ma Ying-jeou, pochi mesi prima che nel gennaio 2016 la vittoria elettorale della leader del Dpp Tsai Ing-wen facesse naufragare ogni speranza di una riconciliazione pacifica.

Per Xi, la riunificazione è una questione personale. Una questione di famiglia, diciamo. Una storia dimenticata racconta di come la guerra civile intersecò le vicende famigliari del presidente. Perché se i media ufficiali amano ricordare le gesta del padre di Xi, il rivoluzionario Xi Zhongxun rimasto fedele al partito nonostante le purghe maoiste, il nonno materno del presidente, Qi Houzhi, militò nel braccio armato del Kmt durante la spedizione del Nord contro i signori della guerra. Un ruolo che gli permise di intercedere per la liberazione della figlia Qi Yun, zia di Xi Jinping, arrestata dai nazionalisti nel 1937 a causa delle sue note simpatie comuniste. Dopo la vittoria delle truppe maoiste, quel gesto paterno protesse Qi Houzhi dalla campagna contro gli elementi di destra. Non è andata altrettanto bene alla famiglia della first lady Peng Liyuan: il padre fu perseguitato per anni dopo che uno zio fuggì con i nazionalisti a Taiwan. Ancora governatore del Fujian – la provincia davanti allo Stretto – nel 2000 Xi riconobbe l’importanza dei trascorsi famigliari nella sua formazione personale. Probabilmente, lo stesso vale per molti altri cinesi. Senza dubbio, ricucire lo strappo con l’altra Cina darebbe a Xi un posto di primo piano nella storia. La riunificazione «è inevitabile», ha sentenziato il leader. La vera domanda continua a essere “come e quando?”.

L'articolo Taipei, ossessione cinese in un mare conteso proviene da OGzero.

]]>
Burma blue: riavvolgere il nastro dalla fine https://ogzero.org/studium/burma-blue-riavvolgere-il-nastro-dalla-fine/ Mon, 22 Mar 2021 16:37:27 +0000 http://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=972 L'articolo Burma blue: riavvolgere il nastro dalla fine proviene da OGzero.

]]>

Sliding doors a Burma

Da più di un paio di anni OGzero si sta occupando come curatore della collana Orizzonti Geopolitici di un volume di Massimo Morello (uscito il 6 maggio per Rosenberg & Sellier), il cui titolo è “Burma Blue”; la sua chiusura era prevista per il 1° febbraio scorso. Una data in cui le sorti del paese sono cambiate improvvisamente.
Massimo si trovava all’aeroporto di Bangkok quando è stato raggiunto dalla notizia: il volume necessitava di un differente epilogo. Non si poteva mandare in stampa senza una testimonianza e un’analisi degli ultimi eventi… e ancora non avevamo assistito alle imponenti manifestazioni e alla mano pesante di Tatmadaw.
Questa situazione ha prodotto una serie di possibili, diverse interpretazioni nei giorni e nelle settimane che sono intercorse e Morello dalla vicina Thailandia è andato cercando il bandolo della matassa attraverso diverse possibili chiose, ciascuna verosimile a suo modo, ma per qualche motivo nessuna di queste ha trovato la via per entrare a far parte del libro… e l’epilogo è quello che potete trovare in libreria. In questa pagina dedicata al Myanmar andiamo riversando notizie e impressioni un po’ a completamento delle considerazioni contenute nel volume, un po’ abbiamo tratto brani dalle corrispondenze per “Il Foglio” redatte dal confine a Mae Sot o da Bangkok, arricchendole con le elucubrazioni che Massimo, rientrato in Italia il 4 maggio, inoltrava asincronicamente in anticipo sul nostro fuso orario; e un po’ abbiamo continuato a mantenere il doppio sguardo sul Myanmar contenuto in “Burma blue”, proponendo alcuni articoli pubblicati su “il manifesto” da Emanuele Giordana, che ha curato la postfazione che potete gustare nelle ultime pagine del libro, prima di due immagini di Andrea Pistolesi, che ci ha permesso di proporre alcuni suoi scatti che congelano quel Burma nel suo ‘blue’.

100%

Avanzamento


L’Alleanza fraterna mette in crisi Tatmadaw

Ancora su Radio Blackout  Massimo Morello ha analizzato in profondità questa situazione, focalizzandosi sia sulla natura degli eserciti, sia sulle prese di posizione della Rpc collocandole nell’ottica degli affari cinesi e negli equilibri interni all’Asean, facendo riferimento alla grande frammentazione del Myanmar e ironizzando su quale possa essere realmente il collante  tra gli eserciti cosiddetti etnici, che infatti si collocano territorialmente agli estremi opposti dello stato, con lingue e cultura, diversi. Gli affari sono assimilabili: il settore dei narcotici.

Max ha preso anche in considerazione i contraccolpi che si possono avvertire nei paesi limitrofi, in particolare la Thailandia, nella cui capitale abita e ha potuto cogliere la costante trasformazione nel libro pubblicato da OGzero, che inserisce Bangkok tra le Città visibili

“Cos’è la Brotherhood Alliance nella frammentazione del Myanmar”.

Pechino ai birmani: “cessate il fuoco”

Dopo la presa di Chinshwehaw da parte degli eserciti etnici della città del Myanmar al confine con la Cina, la RPC alza la voce per la prima volta

di Theo Guzman

Le forze congiunte di tre “eserciti etnici”, come vengono chiamate le milizie regionali da anni in lotta coi Governi centrali birmani, hanno preso la città strategica di Chinshwehaw e la Giunta Militare birmana perde il controllo di una città di frontiera con la Cina nel Nord dello Stato Shan. Ma la vera notizie è che, dopo l’annuncio della Giunta che la città era in mano ai ribelli, Pechino ha fatto un appello per il dialogo e il cessate il fuoco.

È la prima volta che la Cina prende una posizione pubblica così forte, affidata al portavoce del Ministro degli Esteri, Wang Wenbin:

“La Cina – ha detto in un video diffuso dall’agenzia France Presse giovedì – chiede un cessate il fuoco immediato nei combattimenti in corso nel Nord del Myanmar, dopo che l’esercito ha dichiarato di aver perso il controllo di una città strategica del Nord al confine cinese a seguito di scontri con gruppi armati etnici”. Bisogna, aggiunge il diplomatico, “perseverare nel risolvere le divergenze con mezzi pacifici”.

Ma è quella richiesta di “cessate il fuoco immediato” a fare la differenza. La Repubblica Popolare Cinese (RPC) non ha mai criticato il golpe e, anche se li rifornoisce di armi e altro, mal li sopporta: la Cina non ha mai amato i militari birmani. Un segnale di svolta?.

Giovedì la Brotherhood Alliance, l’Alleanza della Fratellanza che raccoglie Arakan Army (Arakan), Myanmar National Democratic Alliance Army (Kogang) e Ta’ang National Liberation Army (Palaung), ha dichiarato che sono state occupate nel Nord Shan almeno 92 basi del regime e quattro città. Le forze anti Giunta sono anche riuscite a bloccare in diversi punti l’autostrada Mandalay-Lashio che serve a spostare rinforzi, armi pesanti e munizioni dalla regione sotto relativo controllo di Mandalay allo Stato Shan. È la stessa strada che porta a Chinshwehaw, hub chiave nel commercio con la Cina. Secondo al Jazeera, che cita fonti giornalistiche locali, dalla città di confine con lo Yunnan, sarebbe passato tra aprile a settembre oltre un quarto del flusso commerciale birmano verso la RPC.

C’è però un altro fatto rilevante di questa offensiva iniziata una settimana fa. La Fratellanza è un’alleanza nata nel 2019 ma rimasta in disparte al momento del golpe militare del 2021: l’Arakan Army in particolare sembrava incerto sulla scelta da fare. Ma nei combattimenti di questi giorni hanno partecipato sia il Kachin National Army (anti-giunta della prima ora), sia le Mandalay People’s Defense Force, brigate della società civile armata che rispondono al Governo di Unità Nazionale clandestino (Nug) e sono addestrate dagli eserciti etnici (qui il loro comunicato).

La caduta di una città di frontiera non è una novità in un paese dove la Giunta controlla a stento solo alcuni dei transiti stradali per l’estero e a volte solo quelli, riforniti via elicottero perché il territorio delle regioni periferiche è quasi totalmente fuori controllo. Secondo un rapporto del settembre 2022, la Giunta militare golpista aveva una presa “stabile” su solo 72 delle 330 municipalità del Paese con un’area al di fuori del pieno controllo di Tatmadaw (l’esercito governativo) pari al 52% del territorio, ma fino al 90% nelle aree periferiche, tra zone contese o perse. Alcune settimane fa un’esponente del NUG ha detto che la zona fuori controllo sarebbe ormai dell’80%

L’articolo è stato pubblicato in originale il 4 novembre 2023 dall’“Atlante delle guerre

Lo strano caso della azienda siderurgica Danieli in Myanmar

di Emanuele Giordana

C’è un piccolo giallo che riguarda un’importante azienda italiana che opera in Myanmar da diversi anni e che sembrerebbe aver chiuso le attività dopo il golpe per riaprirle registrando nuovamente lo stesso brand. Un giallo perché guardando le fonti aperte, risultano in effetti due indirizzi a Yangon (Aye Yeik Thar 1 Street e Pyi Thar Yar St) che sono distanti una passeggiata di 15 minuti a piedi nel centro dell’ex capitale. Il mistero si infittisce quando chiediamo lumi all’azienda – la Danieli – che ci risponde laconicamente che a breve fornirà un chiarimento. Mai arrivato. Il giallo aumenta guardano la lista Danieli delle sue sussidiarie in Asia: nessuna sede risulta in Myanmar.

La Danieli, colosso nazionale dell’ingegneria, della robotica e del settore minerario è una multinazionale con sede a Buttrio (Friuli) ed è una delle leader mondiali nella produzione di impianti siderurgici. Con qualche miliardo di fatturato, quotata in borsa, è una società che non nasconde la velleità di posizionarsi tra le prime aziende italiane del settore: Giacomo Mareschi, Chief Executive Officer del gruppo, nell’ottobre del 2021 aveva dichiarato che, con un utile di oltre 80 milioni nell’anno, puntava a un fatturato «di 4 miliardi entro due».

Il fatto è che ci sono una serie di strane coincidenze su cui sarebbe stato utile avere chiarimenti dall’azienda. A fine agosto 2021, a sette mesi dal golpe militare di febbraio, il capo dell’esercito e del governo generale Min Aung Hlaing annuncia la riapertura dell’acciaieria Myingyan. Circa un mese dopo, il 24 settembre, pur avendo già una filiale in Myanmar, Danieli registra una nuova società estera nel Paese con un nome che poco si discosta dal brand della vecchia (che sembrerebbe inattiva essendo il Myanmar sottoposto a sanzioni). Qui sta l’interrogativo. È insolito per un’azienda già registrata tirarne in piedi un’altra nello stesso posto. Le voci raccolte tra la dissidenza birmana sostengono che il governo militare non possa aprire l’acciaieria di Myingyan senza l’assistenza di Danieli, che possiederebbe competenze e attrezzature nel sito in questione.

La nuova registrazione coinvolge direttamente i massimi vertici dell’azienda: Giacomo Mareschi e Alessandro Brussi, che sono gli unici due nomi in chiaro (altri sono segnati solo col nome di battesimo). Le carte dicono che la nuova registrazione di settembre è stata fatta al Directorate of Investment and Company Administration (Dica). Sono dati abbastanza inconfutabili visto che provengono dallo stesso database utilizzato da un Paese terzo per imporre le sanzioni e che il manifesto ha potuto vedere. Per altro proprio martedi, Italia Birmania Insieme chiederà lumi in Parlamento sull’operato della Danieli in Myanmar. Per ora, a una lettera indirizzata a Di Maio dall’associazione italo birmana in cui si chiedevano chiarimenti sulla Danieli, il segretario generale della Farnesina, Ettore Sequi, ha risposto parlando di tutto fuor che della società italiana e delle sue attività in Myanmar forse semplicemente per il fatto di non conoscerle.

L’articolo è stato pubblicato in originale dall’“Atlante delle guerre

Il Caso Danieli è stato affrontato anche durante l’audizione informale dell’associazione Italia-Birmania Insieme” in 3a Commissione Senato presieduta dalla presidente Stefania Craxi


Emanuele Giordana ci ha raccontato in un intervento su Radio Blackout la sua inchiesta relativa alla “particolare” conduzione degli affari della Danieli, azienda leader nella siderurgica e soprattutto nella robotica, le sue domande senza risposta restituiscono forse il sostrato di un assordante e significativo silenzio sistematico in cui gli affari si perpetuano senza remore etiche… e ben venga l’appalto di Tatmadaw.

Ascolta “Tanti tasselli birmani ambigui per la robotica della Danieli” su Spreaker.

In moto al confine birmano

Racconto di racconti con libri, cartine e foto dal confine settentrionale segnato dai fiumi Pai Kong in quel Sudest asiatico in crisi di identità, oltreché attraversato da guerra e pandemia. Max Morello invia da quell’avamposto le parole e le immagini per narrare la sua ricerca di tracce del dharma, accompagnato da Kerouac e Malraux

Tra Loi Kaw e Mae Hong Son in moto contro il Tatmadaw

19 febbraio 2022

Max Morello scorrazza novello Easy Rider su una moto lanciata sulle strade a pochi chilometri di foresta dalla birmana Loi Kaw, il centro degli scontri in questo periodo e altro terminale di profughi, sull’altro lato della frontiera rispetto alla thai Mae Hong Son, uno dei paradisi hippie degli anni Settanta e ancora adesso paradiso di metanfetamine. Il racconto cerca tracce del tempo in mezzo all’abbandono del periodo, dove donne giraffa – private da sguardi appoggiati sopra di loro – si confondono con campi profughi e con gli echi dei bombardamenti di Tatmadaw

Donna giraffa a Ban Nai Soi

Attraente, senza essere attrazione, donna prima che giraffa: sparito il turismo, rimangono le ragazze padong, di comunità karen… da questo e dall’altro lato della frontiera sono abitanti di quella giungla del Sudest asiatico

“Se cavalchi una tigre devi cercare di non scendere”.
Brano tratto dalla trasmissione Nessun luogo è lontano, condotta da Giampaolo Musumeci @giampaz, puntata del 27 maggio 2021

Recensione apparsa su “Il Foglio” il 27 maggio 2021

Clicca qui per aggiungere il proprio testo

Come Total finanzia i militari golpisti in Myanmar

Marina Forti

[questo articolo è comparso il 7 maggio su “terraterra-online“]

Dopo il colpo di stato militare del 1° febbraio, Myanmar (o la Birmania, come si preferisce) è piombata in un nuovo ciclo di repressione. Le proteste si susseguono e il governo militare ha risposto con la forza: centinaia di manifestanti uccisi, feriti, migliaia di arresti, esecuzioni extragiudiziarie di oppositori e giornalisti, torture. Il Rapporteur delle Nazioni unite sui diritti umani in Birmania parla di crimini contro l’umanità. Numerosi governi occidentali hanno condannato la repressione e adottato alcune sanzioni verso il regime militare. Diverse organizzazioni per i diritti umani chiedono alle grandi imprese straniere presenti in Myanmar di ritirarsi, per non dare ulteriore sostegno economico al governo militare.

Una di queste è la compagnia petrolifera francese Total. Dopo il colpo di stato, organizzazioni francesi per i diritti umani, ambientaliste e per la trasparenza hanno chiesto a Total di sospendere le operazioni per non dare sostegno finanziario a una giunta militare. La compagnia francese ha risposto finora in modo evasivo: afferma di rispettare i diritti umani e i codici di condotta, esprime “preoccupazione”, dice che sta “valutando la situazione” .

La realtà, secondo il quotidiano “Le Monde”, è che la Total finanzia direttamente i vertici dell’esercito birmano, con cui da molti anni spartisce i profitti di un ricco giacimento di gas naturale attraverso conti off shore.

Andiamo con ordine. Total è una presenza consolidata, in Myanmar. Dal 1989 sfrutta il giacimento di gas di Yadana, off shore nel mar delle Andamane, in società con la statunitense Unocal (in seguito assorbita da Chevron) e con l’impresa di stato per gli idrocarburi, la Myanmar Oil and Gas Enterprise (Moge): Total ha il 31 per cento, Chevron il 28, il resto è diviso tra una società thailandese e la Moge. Il gas viene trasferito a un terminal in Thailandia meridionale attraverso un gasdotto, costruito a metà degli anni Novanta, di cui sono proprietarie le stesse due imprese, sempre con l’impresa di stato Moge.

Nei bilanci pubblicati da Total si legge che nel 2019 ha versato quasi 230 milioni di euro (257 milioni di dollari) allo stato birmano, come royalties e tasse dovute per il gas estratto.

Ma è proprio così? L’organizzazione Justice for Myanmar afferma che gran parte del denaro pagato dalle compagnie straniere non va nelle casse dello stato ma passa per la Moge, notoriamente legata ai militari (tanto che nella sua relazione del 4 marzo, il Relatore dell’Onu per i diritti umani in Myanmar chiede che la Moge sia sottoposta a sanzioni). E non si tratta solo di tasse e royalties.

Ora l’inchiesta di “Le Monde” spiega che Total ha versato milioni di dollari alla Moge, cioè ai vertici militari, su conti nelle Bermude, in cambio di agevolazioni fiscali che hanno garantito all’impresa ottimi profitti.

Il meccanismo ruota attorno al gasdotto che collega i pozzi nel mar delle Andamane al terminal petrolifero in Thailandia, 346 chilometri di tracciato in parte sottomarino, in parte attraverso la penisola di Tenasserim, dove corre la frontiera tra i due paesi. Il gasdotto appartiene alla Moattama Gas Transportation Company (Mgtc), di cui Total è l’operatore e il primo azionista (gli altri sono gli stessi soci nel giacimento di Yadana).

1910, pozzi di petrolio a Yenangyaung

Dunque il gasdotto e i pozzi di gas naturale hanno la stessa proprietà: però dalle carte studiate da “Le Monde” risulta che il gasdotto fattura costi altissimi per il trasporto del gas, che così vengono detratti dai profitti del giacimento. Ciò permette di pagare meno tasse allo stato birmano. E di stornare considerevoli profitti, che sono spartiti con la Moge (cioè alcuni militari) attraverso la società del gasdotto, che è domiciliata alle Bermude, noto paradiso fiscale. Nel 2020 le somme versate da Total alla Moge sono tre o quattro volte più alte di quelle versate allo stato come tasse.

“Le Monde” ha pubblicato la sua inchiesta martedì, il 4 maggio. In risposta, la Total ha messo online per intero le risposte che aveva dato ai giornalisti del quotidiano prima della pubblicazione. Dove spiega per esempio che la società del gasdotto era stata registrata nel 1994 alle Bermude per “tenere conto delle diverse nazionalità degli azionari”. (Dunque il meccanismo descritto da “Le Monde” va avanti da un quarto di secolo).

Tutto questo però ha un precedente, che chiama in causa anche la socia Chevron.

Infatti la costruzione del gasdotto di Yadana è stato una immane tragedia per la popolazione locale. Tra il 1993 e il 1994 circa centocinquantamila persone sono state espulse dai loro villaggi per “preparare” il territorio sul tracciato del gasdotto, persone che hanno perso le case e la terra da coltivare, i mezzi di sopravvivenza, e la stessa libertà. Negli anni seguenti molti sono stati reclutati a forza per lavorare alla sua costruzione (avvenuta tra il 1995 e il 1998), in condizioni di semischiavitù; molti altri sono fuggiti oltre la frontiera thailandese.

Questa storia è stata documentata da sindacalisti e organizzazioni per i diritti umani birmani e internazionali (l’avevo raccontata in La signora di Narmada, capitolo terzo: “Un gasdotto in tribunale”). Infine la Unocal è stata citata in giudizio da un gruppo di sopravvissuti, in California, grazie alla legge statunitense che permette di giudicare in patria torti commessi da imprese Usa all’estero (il tribunale statunitense però dichiarò la sua incompetenza a giudicare la Total, perché francese).

Il processo Doe vs. Unocal, nei primi anni Duemila, ha visto i sopravvissuti testimoniare in aula, insieme a sindacalisti e ricercatori. L’istruttoria ha stabilito che Unocal era a conoscenza del regime di terrore instaurato dal governo militare birmano attorno a quel gasdotto (l’impresa statunitense ha infine accettato di pagare risarcimenti alle famiglie dei sopravvissuti).

Allora Total era riuscita a restarne fuori. Questa volta dovrà rispondere qualcosa di più.

@fortimar


Burma Blue: malinconia per una modernizzazione appena iniziata e già finita

6 maggio. Massimo Morello dipinge un Sudest asiatico distopico

“Burma Blue: malinconia per una modernizzazione appena iniziata e già finita”.

Preludio alla creazione di un medioevo birmano, fatto di “principati” controllati etnicamente… o da narcomilizie?
Più nessuna tentazione modernista come i pericolosi social, tutto sarà sotto controllo e imbalsamato per la gioia di turisti d’accatto e affaristi che potranno riprendere a fare affari attraversando un territorio la cui vocazione è da sempre fare cerniera tra il mondo cinese e il golfo del Bengala.
Vero è che i militari non hanno considerato che – appunto – non si è più nel 1988 e con la diffusione dell’informazione attuale dovevano aspettarsi che ci sarebbe stata una rivolta unanime e capace di farsi sentire anche all’estero, tanto che è paradossale come l’assenza di inchiostro possa mettere in ginocchio un’economia che all’asfissia – e incapace di pagare la truppa – vorrebbe rispondere stampando moneta, ma non ha l’inchiostro per farlo… e questo funziona più di molti embarghi globali.


Nasce una forza armata del governo ombra che dovrebbe ergersi a difesa del popolo birmano: a parte la disparità delle forze, anche considerando tutti gli eserciti etnici, che ora sembrano diventati il sogno del mondo occidentale che non si rende conto delle rivalità, degli interessi divergenti e della mentalità diversa, bisogna comunque considerare l’importanza della Cina nella regione, che è l’unica vera potenza della regione e perciò non trae vantaggio da queste tensioni che possono ostacolare gli affari (petrolio off shore lavorato da Total, a cui si accede pagando il pizzo ai generali, come si legge nell’articolo di Marina Forti, tratto da “terraterra”), anzi aveva siglato decine di importanti contratti, primo dei quali quello del porto di Kyaukpyu, terminale di pipeline e possibile porto militare per sottomarini nucleari cinesi… L’unica potenza che può ottenere nuove prese di posizione è la Russia, che infatti sostiene anche pubblicamente Tatmadaw, che ha una potenza enorme e pronto a fare stragi. Max Morello è molto scettico che si possa trovare una sintesi nelle migliaia di sigle e associazioni diverse; dal suo osservatorio la sensazione è che ciascuno stia cercando una visibilità, un modo per trovare un ruolo spendibile, uno strapuntino vicino a una forma di potere. E che Aung San Suu Kyi venga relegata ai domiciliari o in esilio, ormai senza alcun ruolo, delegittimata dall’Occidente soprattutto usando la leva rohingya e così tutto è stato sbilanciato verso la Cina.


Cambia un po’ nelle zone etniche il divario di forze rispetto alle città: karen, wa, shan, kachin hanno esercite, non milizie smadrappate. I karen hanno anche conquistato postazioni di Tatmadaw e potrebbero riuscire a mantenere il controllo di quelli che si possono considerare loro territori. Ancora maggiori possibilità possono avere wa e shan, che hanno alle spalle i cinesi. Ma chi comanda realmente in una sorta di cln fatto da narcotrafficanti, contrabbandieri… comunque sottomessi agli interessi cinesi fatti di giada, terre rare, petrolio?

Fonte: Burma Blue (Rosenberg & Sellier, 2021)


Aung San Suu Kyi è anziana non ha lasciato spazio ai giovani e non si era abbastanza spesa – per gli organi occidentali – per quei rohingya che ora sono ancora più perseguitati, dunque è destinata a essere accantonata; e far spazio a una Birmania destinata a tornare a essere com’era. E il covid sta facilitando le manovre reazionarie di ogni stato, a maggior ragione nell’area indo-pacifica, e contemporaneamente è una cartina al tornasole che dimostra come Modi in India o Prayut in Thailandia scontano la cattiva gestione della pandemia; ma così anche l’alternativa indiana a Pechino viene indebolita dalla gestione della pandemia… e con lei il Quad o il sistema inventato per contrastare lo strapotere cinese nell’area.

Rohingya: il genocidio silenzioso

Asean auspica… ma Asean legittima Tatmadaw, invitando Liang e non gli oppositori (o finti tali, come il Dottor Sasa)… addirittura i legaioli nostrani impongono sanzioni ai coltivatori di riso birmani perché sono sottoposti a un regime dittatoriale: sciacallaggio… Total che continua a fare affari, o la finanziaria Posco: nessuno si sacrifica per la Birmania. E oltretutto sarebbe anche rischioso tirare la corda in un contesto simile, che potrebbe portare a un conflitto nucleare ☢

 

Global Myanmar spring Revolution_#May2Coup


Global Spring Revolution

Today, #May2Coup , Civilians who support the Spring Revolution are protesting against the military dictatorship,
not only in cities and towns across #Myanmar, but also around the world.
#WhatsHappeningInMyanmar

La porosità dei confini e la guerra asimmetrica


L’emisfero del cervello percorso da fiumi e svolte nella foresta

«La mappa non è il territorio»:  l’aforisma di Alfred Korzybski m’è rimasto impresso perché è una battuta di Robert De Niro nel film Ronin. Appena posso lo cito. L’ho citato anche in Burma Blue [in libreria dal 6 maggio 2021].

In realtà, com’è accaduto molte volte proprio nelle storie di Burma Blue, la mappa può essere il territorio. È l’interpretazione di quell’avventuriero del pensiero che era Gregory Bateson: «Forse la distinzione tra il nome e la cosa designata, o tra la mappa e il territorio, è tracciata in realtà solo dall’emisfero dominante del cervello. L’emisfero simbolico o affettivo, di solito quello destro, è probabilmente incapace di distinguere il nome dalla cosa designata: certo non si occupa di questo genere di distinzioni». Anche questa interpretazione l’ho citata spesso. Ma non m’era mai capitato di vederla materializzare. È accaduto con la foto che mi riprende accanto a David Eubank, nella sua casa-ranch nella campagna nei dintorni di Chiang Mai, nel nord della Thailandia.

David è un ex ranger delle forze speciali americane, un pastore evangelico, il fondatore dei Free Burma Rangers. Con i suoi “ragazzi” s’infiltra in Birmania per portare aiuto alle popolazioni colpite dai militari. Se poi i militari cercano di impedirglielo, lui risponde al fuoco. È un avventuriero buono, con tutte le declinazioni mistiche che gli vengono dalla sua visione religiosa. «God bless you» è il suo mantra. Lo ripete quando t’incontra e quando ti saluta. Prima e durante ogni missione. A volte allarga le braccia in un gesto di benedizione mentre recita una breve preghiera. Ammetto che sembra credibile. Ognuno, in fondo, si costruisce la propria immagine in funzione del proprio sogno.

In quella foto David mi indica dove si trova la sua prossima base. Beh, più o meno. Partirà un’ora dopo il nostro incontro. Mi ha anche chiesto se volevo accompagnarlo. Confesso che ero molto tentato. Il problema era che non sapeva quando sarei potuto tornare. Non perché potesse accadermi qualcosa, che pure era una possibilità. Ma perché  non poteva distaccare qualcuno per farmi accompagnare indietro: rischiavo di rimanere in Birmania per qualche mese. Senza contare che i thailandesi, in questo periodo, tra covid e tensioni locali non sono molto disponibili a chiudere un occhio sulle avventure dei farang, gli stranieri. Se mi avessero fermato mentre passavo o ripassavo il confine sarei stato espulso dal regno per sempre. Credo che il coraggio vero sia proprio questo: mettere a rischio progetti e programmi di vita.

Per tutti questi pensieri e le chiacchiere con David la mappa diventava il territorio. L’emisfero destro del mio cervello non riusciva a vedere la distinzione, si proiettava all’interno di quel campo di avventure. Sentire David raccontare il suo percorso tra i fiumi e la foresta, che indicava sulla mappa tra sottili linee azzurre e  curve di livello, mi dava la percezione fisica di quel viaggio.

Personaggi come lui danno vita alle storie di chi, come me, va a caccia di storie e di sogni.

[In realtà, com’è accaduto molte volte proprio nelle storie di Burma Blue, la mappa del territorio di Massimo Morello è fatta di figure “strane” da lui abitate, percorse, con cui si confronta, da cui si fa disegnare, sedurre… e forse incrocerà di nuovo in altre strane avventure].

Il superamento delle divisioni etniche?

Il Crph ha annunciato la formazione di un governo ombra che include una quota di appartenenti a minoranze etniche, compresi i kachin e i karen. Min No Naing che lo ha annunciato è un attivista della generazione dell’Ottantotto. Come si può interpretare la notizia rilanciata da Francesco Radicioni che la CCTV, la televisione di Stato di Pechino, abbia dato notizia che «il comitato dei parlamentari dell’Unione di #Myanmar hanno dichiarato la formazione del governo di unità nazionale. Win Myint presidente, Aung San Suu Kyi consigliere di Stato»: in qualche modo la Cina non ha del tutto sepolto l’alternativa ai militari?

La riunione dell’Asean a Giacarta il 24 aprile ha aggirato la scelta che sembrava non poter che essere univoca tra l’invito alla giunta golpista del Tatmadaw, oppure all’organismo costituito dagli eletti nella consultazione elettorale di novembre esautorati dalla violenza dei militari. Con la consueta mossa di raffinata diplomazia asiatica l’invito è andato a chi in questo momento esercita il potere – pur trattando Min Aung Hlaing con un certo distacco –, per sottoscrivere 5 punti che chiedono cessazione di violenze, inizio del dialogo, la presenza di un mediatore dell’associazione del Sudest asiatico, che fornirà assistenza umanitaria, assicurando un incontro con tutte le parti interessate. Riconoscendo dunque il Nug.

Summit Asean del 24 aprile 2021

Articolo pubblicato su “il manifesto” del 25 aprile 2021 a firma di Emanuele Giordana

16 aprile.

Storia di ordinaria Resistenza

16 aprile. Il collasso del sistema fotografato sul fiume Saluen.

Capodanno birmano

Massimo Morello fotografa il collasso del sistema su cui reggevano le realtà (e le merci) sui due lati del fiume Saluen. Ora sul lato tailandese si aspettano profughi immersi in un paesaggio reso spettrale dal covid

Twilight Myanmar

Articolo comparso su “Il Foglio” del 16 aprile 2021 a firma Massimo Morello dal confine sul Saluen tra Songkran tailandese e Thingyan in Myanmar, durante il capodanno birmano. Mondi opposti ai confini della realtà

Storie di ordinaria dittatura

Intimidazioni, minacce e arresti dei sanitari che prestano la loro opera nell’emergenza creata dal golpe militare (oltre che dal covid che non trova attenzione visto l’eccidio mirato di giovani che manifestano), curando i feriti e i moribondi del movimento. Intanto nelle aree di confine si scontrano gli eserciti etnici con Tatmadaw e i residenti sono costretti a nascondersi nei rifugi antiaerei.

Medici sotto tiro

Emanuele Giordana inquadra la condizione dei medici birmani, perseguitati dall’esercito: pestati, arrestati… per la loro opera di assistenza a feriti e moribondi

Il buio è definitivamente sceso sul Myanmar?

9 aprile. Superando le barriere del confine digitale imposto a Internet

Questa è una mail filtrata da un’amica birmana.

To all my foreign friends, some of you may think we Myanmar are very sensitive and very emotional just because of the Military Coup. But What you know is just the surface. Here is short summary of on daily what is happening in Myanmar.

1. If anyone has been arrested alive at night, next morning only the dead body will be returned

2. If you are a medical staff and helping injuried protesters, then you will be arrested and tortured or get killed.

3. Doesnt matter you stay home or you go out for protesting, you can get killed anytime without any reason

4. Doesnt matter you are a pregnant lady or you are a 6yrs old baby or you are a woman, you can get killed anytime without any reason

5. Even if you are not protesting, you can get beaten and tortured anytime and anywhere (day or night)

6. Anytime anywhere anyplace they loot.

Myanmar is not a War Zone. War means at least all parties are having weapons. But we the People of Myanmar do not have any military weapons but we are fighting this fully armed Brutal Terrorists.

Best,

Nyein


Abbiamo interpellato Stefano Ruzza per cercare di ipotizzare scenari possibili e ne è risultato un flusso altalenante tra auspici di individuare il punto sensibile del regime – più facilmente toccando gli aspetti economici di Tatmadaw – e scarse speranze che nell’immediato appaiono luttuose

Ascolta “Chi ha più filo da tessere: l’apparato bellico o il bisogno di libertà?” su Spreaker.

Tatmadaw sta sterminando il suo popolo?

9 aprile. Oltre il confine della repressione più brutale e silenziata

Stavolta Massimo Morello si trova a Mae Sariang e ci ha scritto questo spunto che avrebbe potuto trovare spazio nella chiosa:.

Mae Sariang

E allora a libro finito, nel mezzo di un altro viaggio, quando credevo che libro e viaggi fossero finiti, penso sia ora di ricominciare e riprendere a raccontare. Lo so, sembra un koan, poi mi spiego meglio. Per ora mi prende così dopo aver passato due giorni con un missionario del Pime parlando di teologia, pagani, papi, aver visto una messa celebrata in thai e tradotta in Lahu, essere arrivato a un metro dal confine con la Birmania e sentito i piani per l’evacuazione dei villaggi nel caso il conflitto tra esercito e milizie si estenda a quella zona. Il tutto tra paesaggi splendidi e piantagioni di tè.

Adesso scrivo da una guest house con una terrazza rivolta a ovest sopra un piccolo fiume. Domani raggiungo un campo profughi sul Salwen a ridosso del parco nazionale

Purtroppo però da Inside Burma, seguendo gli hashtag

#WhatsHappeningInMyanmar

#Apr9Coup

si scopre che

20 dimostranti sono stati giustiziati. Uccisi in seguito a una sentenza di morte;

30 civili sono stati uccisi da Tatmadaw a Bago all’alba usando armi pesanti:

This morning Myanmar soldiers shot in residential areas in Bago town; using RPGs. More than 30  youth were killed and the bodies were piled and were not allowed to take back. Ambulances were not allowed to come in . Blood stains on road were covered with sand.

Updated:

Bago: More than 60 civilians/protesters have been killed. Military are not allowing to pick up dead bodies. Wounded people also with them. Ambulances are blocked. Terrorists blocked all roads.

So far, the military is still shooting in Bago

– Nightly internet outage 55 nights 

– Mobile data disabled 26 days

– Public wifi limited 24 days

– Wireless broadband cutdown 8 days

– Platforms filtered since Feb.

La periferia è centrale

15 marzo. Al confine della repressione sul fiume Moei

«I thai hanno preparato dei rifugi di fortuna lungo il fiume per i birmani che scapperanno», mi dice la responsabile di una ong di Mae Sot, città sul fiume Moei, che segna un confine tra Thailandia e Birmania. «Si preparano allo scenario peggiore».

Questa era una delle chiose preparate nella seconda stesura dell’epilogo del libro di Morello, poi la repressione è diventata strage e ora si trasforma in guerra civile, con la mobilitazione degli eserciti etnici; le prime scaramucce, la porosità del confine, le scarne notizie da un internet ancora più filtrato.


4 marzo. In Myanmar non andrà tutto bene

In Birmania non andrà tutto bene. Al contrario dell’“Everything will be Ok” scritto sulla maglietta di Angel, la ragazza di 19 anni uccisa mentre partecipava a un sit-in pacifico. Una giornata di manifestazioni conclusa conaltri 51 morti.

Le minoranze etniche potrebbero essere il “Fattore X” che deciderà il destino del golpe. Ma molti non distinguono le minoranze dalle milizie che spesso le rappresentano, veri e propri eserciti che in questo momento sembrano mantenere un basso profilo. Forse aspettano che la crisi si risolva in un’implosione del Myanmar che vedrebbe il paese frammentarsi in territori tribali.

Se la Cina, in un modo o nell’altro, è la grande protagonista di questa vicenda, c’è un convitato di pietra tanto potente quanto nascosto: la Russia. Sino agli anni Ottanta, come Unione Sovietica, dirigeva il grande gioco in Sudest asiatico. Con l’implosione dell’Urss è uscita di scena. Ma non è improbabile che voglia ripresentarsi.

Anche questo del 4 marzo era un potenziale epilogo che era parte delle considerazioni finali del libro di Massimo prima della repressione del 27 marzo. Alcune considerazioni geopolitiche continuano a interagire con quello che è il conflitto interno ai confini birmani, ma collegato a quanto viene giocato al loro esterno. Passata la linea rossa con queste repressioni; il reale punto debole  di Tatmadaw è che abbiano sottovalutato la capacità di nuove forme di resistenza che hanno impedito la riuscita del golpe dal primo giorno, dice Gabusi nell’audio qui riportato, tratto dallo Special Myanmar a cura di Giovanna Reanda per Radio Radicale.

Il rischio è il collasso dello stato birmano?

3 aprile. Al confine della repressione sul fiume Saluen

Stavolta Massimo Morello e Francesco Radicioni si trovano in territori non più abitati da karen come la zona di Mae Sot, ma sono a Chiang Mai, territorio shan; e la via d’acqua a marcare il confine tra Thailandia e Myanmar è il Saluen, più a nord rispetto a Mae Sot. Condividiamo il reportage andato in onda su Radio Radicale, con la partecipazione di Giuseppe Gabusi, impegnato nel centro ricerche T.wai e docente all’Università di Torino. Centrale nel loro racconto è l’importanza e la difficoltà di creare entro i confini birmani una nazione coesa, viste le 130 etnie diverse e con interessi differenti.

Dopo le prime schermaglie nella zona karen, un’escalation che era già monitorabile a seguito della preparazione ad affrontare l’esodo da parte tailandese già 3 settimane fa, si sta estendendo il confronto tra Tatmadaw e gli eserciti etnici, anche e soprattutto più a nord di Mae Sot, nella zona Shan, e questo nuovo teatro bellico è reso ancora più probabile dall’incremento di contrabbando d’armi registrato negli ultimi giorni sul confine del Saluen, il fiume che attraversa i territori anche della popolazione kachin – tutte etnie dotate di eserciti agguerriti. E senz’altro ai più di 700 morti di cui si parla ufficialmente (solo per gli scontri nelle piazze) vanno aggiunte centinaia di altre vittime nelle zone etniche periferiche rispetto alle grandi città lungo l’Irrawaddy, che sono bombardate dalla aviazione di Tatmadaw.

Ma le etnie sono moltissime e divise tra loro e al loro interno, soprattutto generazionalmente, come avviene per i kokang (di nuovo affini ai cinesi come gli wa e protagonisti nel 2015 della rivolta che Claudio Canal ben descrive, denunciando 100.000 rifugiati nello Yunnan, quegli stessi che Radicioni cita nel podcast): il divide et impera ha funzionato in tutti questi decenni di prove di mantenimento di un’unità nazionale fondata sulla impossibilità di contrapporsi unitariamente alla coesione sbandierata dal governo centrale, che con la finta apertura alla democrazia ha cercato di ergersi a elemento unitario di un paese di 135 etnie.

Molto interessante in questo podcast concesso da Radio Radicale scoprire nelle parole di Gabusi e Morello, i reali rapporti di forza tra i vari eserciti (quello birmano è molto ben attrezzato e conta su 400.000 uomini) e quanto incidono le potenze sul controllo di certe parti del territorio attraverso le milizie (per esempio l’esercito wa – i tagliatori di teste nella tradizione letteraria –, composto da almeno 30.000 effettivi, sostenuto da Pechino) e di conseguenza quale potrà essere il coinvolgimento di Cina e Russia. E la Russia ha partecipato con il viceministro della difesa alla parata militare, dunque Mosca non sta alla finestra.

Altre protagoniste imbarazzate sono le Triadi cinesi, che in Birmania fanno enormi traffici di giada, esseri umani, oltre che droga e ora si trovano con i traffici dimezzati dalla guerra. In realtà cercare di acquisire notizie che si accumulano gettando luce su ogni singola tendenza, ogni interesse di parti potenti in causa, di capire in che direzione propenderanno le grandi potenze coinvolte loro malgrado e futuribili basi sommergibilistiche cinesi nel golfo del Bengala, la situazione delle frontiere e lo scontro nelle città… ipotizzare non crea che confusione e formulazioni (forse) assurde, che probabilmente ricercando nelle pieghe del libro di Morello riusciremo a comprendere in che direzione avranno potuto evolversi; questa invece è l’ora di indagare con gli occhi di Morello e Radicioni che si trovano sul confine e di lì possono raccontare con la loro sensibilità addestrata da decenni di frequentazioni del Sudest asiatico.

[Una soluzione che Xi potrebbe prendere in considerazione può essere la spartizione del territorio nel caso di implosione del potere di Naypyidaw, con la Cina interessata al gasdotto che arriverebbe a Nanning dal porto di Kyaukpyu e al controllo dei territori del confine orientale – il bacino che in fondo fa parte del sistema Mekong – attraverso le milizie, mentre Tatmadaw continuerebbe a controllare le grandi città: il “vero stato birmano”].

Questa chiosa nasce da un accenno al ruolo delle milizie etniche compreso nel video di Radio Radicale qui riproposto e come risposta a un dubbio ipotetico che abbiamo rivolto a Massimo Morello, attoniti di fronte alle immagini che giungono in Occidente dalle strade di Mandalay, Naypyidaw, Yangon… e il 28 marzo cominciano a filtrare notizie di attacchi del Karen National Liberation Army a caserme dell’esercito birmano

E le milizie etniche aspettano…

Con le risorse belliche e le armi di cui dispongono le molte milizie regionali che da sempre contendono territori e traffici a Tatmadaw non potrebbero fare la differenza nella contesa? Se volessero solidarizzare con i civili, potrebbero apportare la loro forza militare nello scontro e quindi preoccupare un po’ i golpisti. Sono i cinesi che non vogliono? È una presa di posizione che si smarca da quelle rivendicazioni democratiche? Fa parte della teoria del tribalismo e quindi collocherebbe il movimento di protesta in un’ottica panbirmana, mentre le varie guerriglie sono etniche?

21 marzo 2021, mail di Massimo dalla Thailandia 

Gli eserciti etnici possono preoccupare la giunta. Ma ci sono molti “se” da entrambe le parti: se i militari vogliono ancora uno stato monolitico o cedono alle richieste delle milizie, se le milizie restano nei propri territori, se si alleano e per quanto può durare tale alleanza…
Ma per tentare una risposta: non credo sia perché i cinesi non vogliono. Sono le milizie che aspettano. Non dimentichiamo che il vero motivo della loro esistenza non è un’ideale, o la democrazia o la difesa del loro popolo. È il narcotraffico (o quello di giada o di legname o di qualsiasi altri cosa), il potere personale. Una cosa sono le etnie altro le milizie etniche. Che regolano alleanze e scelte in funzione del momento. Ora potrebbero anche attaccare i militari per negoziare l’accordo. Pace in cambio di minor interferenza nei loro affari. I cinesi, a loro volta, si servono delle milizie in funzione dei loro interessi.
Personalmente sono sempre più convinto che sia difficile distinguere tra buoni e cattivi, vittime e carnefici. La parti sono intercambiabili.


Massimo Morello, Guardando il Myanmar intrappolato dagli incubi, articolo comparso su “Il Foglio”, 23 marzo 2021

Nelle zone di confine dove le milizie etniche combattono da decenni – per l’autodeterminazione, il controllo dei traffici o entrambi – la situazione sta diventando sempre più instabile. Probabilmente perché il governo militare appare in crisi. Oltre i  Karen, quindi, si stanno mobilitando i Kachin, stanziati all’estremo nord, il cui Kachin Independence Army (Kia), uno dei più forti gruppi armati etnici, ha infranto la tregua con Tatmadaw a metà marzo. Gli ultimi, e probabilmente più pericolosi a scendere in campo, dovrebbero essere gli Shan, cui si attribuisce l’eliminazione di quattro militari. Il fattore più interessante è che forse per la prima volta le organizzazioni e le milizie etniche assicurano sostegno e protezione a tutti, di qualunque etnia siano e qualunque sia “l’intensità” con cui si oppongono al regime. “Quando diciamo ‘proteggere il popolo’ intendiamo tutto il popolo della Birmania”, ha dichiarato un ufficiale del Kia.

“Hanno sempre usato il concetto del divide et impera ma questa volta non funziona”, dice un giovane di Mae Sot, un pacifista che parla di un possibile esercito di autodifesa formato da tutti i gruppi etnici con l’appoggio dei movimenti di disobbedienza civile e la benedizione del Committee Representing the Pyidaungsu Hluttaw (Crph), il comitato degli eletti nelle due camere (il Pyidaungsu Hluttaw). “Non credo che i militari abbiano il potere. Hanno le armi ma non hanno il potere”, dice ancora quel giovane, testimone di una generazione che “non vuole tornare indietro”. Per quei giovani il nuovo mantra è “democrazia federale”, mentre “negoziazione”, “riconciliazione nazionale” sono divenuti termini tabù. Il paradosso è che qualcuno comincia a credere che il golpe possa rivelarsi l’occasione per un’alternativa al governo di Aung San Suu Kyi che non è riuscito a rinnovarsi. Sembra uno psicodramma. “Il primo febbraio è morta la speranza che era nata nel 1988. La Signora era la speranza”, commenta una fonte de “Il Foglio” rimasta a Yangon.

“È come se fosse morta la mamma”. Per elaborare il lutto i giovani cercano di dimenticare ciò che è stato fatto e hanno perduto, pensando di costruire un futuro libero dal passato, trasformano la Madre in matrigna. È un po’ quello che accade ai militari. Secondo voci popolari sarebbero ossessionati dai fantasmi di coloro che hanno ucciso. L’ultimo, a mezzogiorno del 22, è un ragazzino di tredici anni. In Birmania sembrano tutti intrappolati nei propri sogni o incubi, in una situazione incancrenita dove la guerra civile è considerata un’alternativa allo svolgimento della festa delle forze armate, prevista per il 27. Intanto nello scenario Indo-Pacifico il paese diviene il Parco della Vittoria, il terreno di maggior pregio, nel Monopoli a cui partecipano sempre nuovi giocatori.

Poi abbiamo visto la carneficina della parata militare, a cui ha partecipato il viceministro della Difesa russo

15 marzo 2021, Massimo dal ponte sul fiume Moei 

Abbiamo ripreso un intervento di Massimo Morello su Radio24 all’interno dello spazio di Giampaolo Musumeci Nessun luogo è lontano, andato in onda da Mae Sot in diretta il 15 marzo. 

“Intuire la Birmania dopo il golpe dal lato thai del fiume dei karen”.

Da inside Burma continuano ad arrivare a Mae Sot uomini in fuga e storie dell’orrore

Mae Sot: confine blindato ora e poroso in qualche senso. Era fatto anche di “trafficanti e rifugiati”, di killer e ong… fino a poco tempo fa, poi la democrazia lo rese uno snodo commerciale, fatto di businessmen. Una cartina al tornasole sensibile a qualsiasi cambiamento; ora infatti si vede al di là del fiume Moei di cosa è fatto dopo il golpe il territorio karen in Birmania…

Nella zona di Mae Sot sembra fosse il Democratic Karen Buddhist Army (Dkba) ad avere il monopolio dei traghetti sul fiume Moei (che siano piccole barche o camere d’aria da camion) che trasportano i frontalieri birmani a lavorare nelle fabbriche tessili thai.

E invece da questo lato ritratti di persone che sono riferimenti da anni attorno a quel confine, professionisti determinati a cui comincia a vacillare la speranza come Cynthia Maung, dottoressa che nel 1988, dopo aver partecipato al movimento che richiedeva libertà in Birmania, attraversò il fiume per offrire un rifugio sanitario, anche a chi fuggiva in Thailandia, sempre in territorio karen.

Massimo Morello, Burma blue, volume in corso di pubblicazione per Rosenberg & Sellier, p. 45

La clinica Mae Tao è stata fondata nel 1989 dalla dottoressa Cynthia Maung. Di famiglia karen, è fuggita dalla Birmania dopo i moti del 1988 portando gli strumenti chirurgici che aveva sterilizzato in una pentola. Un anno dopo ha aperto questa clinica a Mae Sot. «Pensai che sul confine c’erano più opportunità di aiutare la gente. La clinica è la mia patria», spiega. «Non ci sono solo i rifugiati. Le emergenze mediche sono una lista lunghissima, dalle mine antiuomo alla malaria. Il problema maggiore è l’impatto quotidiano della violenza: i giovani ne sono devastati». Oggi accoglie duecento pazienti, assicura cure gratuite alla popolazione karen e dispone di un centro di protesi e riabilitazione per quelli che hanno provato a tornare nei villaggi e sono saltati su una mina. Nel 2003 “Time” l’ha inserita nella lista degli “Eroi dell’Asia” definendola «guaritrice delle anime spezzate».

Alla clinica, inoltre, è addestrato il personale paramedico che possa intervenire inside Burma. Dicono tutti così: “dentro la Birmania”, come se un’intera nazione fosse un campo di concentramento. Gli uomini e le donne che operano inside Burma sono noti come backpacks medics: circa trecento persone, suddivisi in gruppi di tre, cinque membri, che si spostano a piedi nella foresta. «Non siamo forti, siamo abituati a sopportare», dice Mahn Mahn, direttore del quartier generale di Mae Sot. «Significa continuare a portare la gente anche quando ti dici “ma questo è già morto” e alla fine scopri che è ancora vivo». Per continuare a portare e salvare gente, sono morti quasi cento backpacks medics.

Da inside Burma, intanto, continuano ad arrivare a Mae Sot uomini in fuga e storie dell’orrore. 

La strage annunciata e perpetrata da Tatmadaw ai danni dei manifestanti in concomitanza con la parata dell‘anniversario dell’Indipendenza birmana è uno snodo che pone un chiaro punto fermo nella storia del paese. Indietro non si può tornare: qualunque sia la prospettiva dopo questo Bloody Saturday la nazione che esisteva fino al sabato 27 marzo non potrà più esistere… un motivo in più per alimentare quel Blue Burma che Massimo aveva già cominciato a percepire. Qui proponiamo i due articoli scritti da Emanuele Giordana e da Massimo Morello sulla medesima giornata luttuosa




Il generale Min Aung Hlaing, artefice del colpo di stato, ha promesso di “salvaguardare la democrazia” e ha minacciato i manifestanti d’essere uccisi con un colpo alla testa. Nelle ore successive la minaccia si è materializzata con una brutalità primitiva. Il ruolo della Cina e soprattutto quello della Russia di Putin.

Non hanno avuto paura dei fantasmi di chi hanno ammazzato, quei fantasmi che li avrebbero perseguitati nel giorno della loro festa, sabato 27 marzo, la festa del Tatmadaw, le forze armate birmane.

Al contrario di quanto prediceva qualcuno, la festa si П svolta in tutta la sua agghiacciante pompa nazi-comunista nell’immensa piazza d’armi della capitale Naypyitaw, sovrastata dalle tre statue dei re che dominarono il paese. La terza rappresenta re Alaung Phaya, meglio conosciuto come U Aung Zeya, il vittorioso. A quanto si mormora, il generale Than Shwe, il grande vecchio della tirannide birmana, colui cui s’ispirano ancora i militari del Tatmadaw, П convinto di essere la sua reincarnazione.

È questo lo scenario in cui il generale Min Aung Hlaing, psicopatico artefice del colpo di stato del primo febbraio, ha promesso di “salvaguardare la democrazia” e ha minacciato i manifestanti d’essere uccisi con un colpo alla testa. CosУ come gli aveva suggerito il monaco che è il suo weizka, mago, personale.

Nelle ore successive la minaccia del generale si П materializzata. Le scene, riprese dai telefonini e rimbalzate sui social in foto e video, trasmettono una brutalità primitiva che non può essere finzione: le vittime sembrano manichini disarticolati e i carnefici zombie che si nutrono di metanfetamine.

«Sono mostri, mostri», grida su Signal una fonte del Foglio a Yangon. È la prima volta che la realà supera il suo racconto. Secondo fonti attendibili, al tramonto, quando è quasi impossibile ricevere notizie dalla Birmania, il numero delle vittime è cresciuto in modo inversamente proporzionale alla loro età. Sono circa 91, il che porta il totale a quasi mezzo migliaio. Tra loro “almeno” (uno dei termini piЭ usati nelle cronache birmane, unito a morti, feriti, scomparsi) due bambini di 5 e 10 anni e due ragazzini di 13 e 15. “Almeno” altri due, di un anno e 7, sono stati gravemente feriti. Il più piccolo forse ha perso un occhio.

Ormai la giunta birmana ha superato ogni definizione di crimini contro l’umanità. E ha scoperchiato un vaso di Pandora che non si sa come o quando potrà essere richiuso, quanti morti saranno necessari per placare la maledizione. C’è chi spera e invoca l’aiuto delle Eao, le ethnic armed organisations che controllano buona parte del territorio birmano e che hanno dichiarato, sia pure con diversa intensità, la propria opposizione al regime della giunta. Ma potrebbero opporsi a Tatmadaw solo coalizzandosi, sacrificando rivendicazioni etniche, fedi religiose, tradizioni, ostilità ataviche in nome di un bene comune. Un’alleanza, comunque, che sarebbe inevitabilmente destinata a cadere in pezzi per il controllo dei traffici di stupefacenti. Senza contare che anche le Eao aspettano di capire quali saranno le vere forze in gioco.

Per molti, nell’area come in occidente, il grande burattinaio è la Cina. Per Pechino la Birmania è la tessera centrale nel domino della Belt and Road Initiative. Senza il controllo della Birmania, non avrebbe accesso al Golfo del Bengala – soprattutto alle acque profonde al largo del Rakhine, indispensabili alle manovre dei sottomarini classe Jin armati di missili balistici – e vedrebbe spezzati l’oleodotto e il gasdotto che raggiungono lo Yunnan. La Cina inoltre è favorita dalla comune discendenza con alcune etnie del nord, come gli ex tagliatori di teste Wa, che attualmente possono mettere in campo la più potente milizia, lo United Wa State Army, forte di 30.000 uomini e armata con mezzi dell’arsenale dell’esercito di liberazione popolare.

Ma c’è un nuovo giocatore che ha manifestato la volontà di scendere in campo in occasione della festa delle forze armate: la Russia. Il viceministro della difesa Alexander Formin era l’unico rappresentante d’alto rango di un paese straniero presente alla parata. Accompagnato a Naypyitaw, a quanto si dice, da una delegazione di circa 200 funzionari. “La Russia è un vero amico”, ha dichiarato il generale Hlaing, che pochi giorni prima del golpe era andato a Mosca. E in Russia sono stati addestrati molti degli ufficiali di Tatmadaw.

La Russia, secondo molti analisti, vorrebbe riprendere il ruolo che aveva nel Sudest asiatico l’Unione Sovietica. Un ruolo che tra il 1970 e il 1980 l’aveva messa in rotta di collisione con la Cina (che ebbe il suo climax tra il 1977 e il 1979 nella “terza guerra indocinese”, la sequenza di conflitti tra Vietnam, sostenuto dall’Urss, e Cambogia, sostenuta dalla Cina, e poi tra Cina e Vietnam). La presenza di Vladimir Putin al summit dell’Asean svolto a Singapore nel novembre 2018 era stato il primo segnale di questa nuova politica “euro-asiatica” della Russia, come l’aveva definita lo stesso Putin.

Oggi, però, sembra che la Russia voglia evitare gli errori del passato, cercando un accordo con Pechino anziché un confronto. Favorito dall’assenza degli Stati Uniti in Sudest asiatico creata durante l’amministrazione Trump (che aveva disertato quel summit a Singapore). Quella che appariva un’ipotesi fantapolitica, la divisione della Birmania in sfere d’influenza tra Russia e Cina, comincia a divenire una possibile soluzione per una crisi che potrebbe portare a un’implosione del Myanmar, una guerra civile destinata a frammentarsi in conflitti tribali.

28 febbraio La “sindrome cinese” in Myanmar

Questa era una possibile chiosa che Massimo Morello aveva ipotizzato per Burma Blue. Si collega con uno degli argomenti della trasmissione di Radio Radicale documentata dal video che ci è stato gentilmente concesso e a cui avrebbe partecipato da Mae Sot un paio di settimane dopo questo spunto… 

Le manifestazioni birmane vengono assimilate a quelle in Thailandia e Hong Kong, alla Milk Tea Alliance che definisce il fronte d’opposizione alla dittatura in quei paesi, dove il tè è consumato col latte, a differenza della Cina. Difficile stabilire che cosa abbia innescato questa sindrome. Forse la straordinaria vittoria di Aung San Suu Kyi alle elezioni di novembre. Forse qualche suo errore nella gestione della vittoria. Forse la paura dei generali di perdere potere e veder crollare i loro affari. Quasi sicuramente ha contribuito la sua delegittimazione in Occidente per la questione rohingya. Ma la Cina appare scagionata. Come ha dichiarato il suo ambasciatore Chen Hai, ciò che sta accadendo è «qualcosa che la Cina non avrebbe assolutamente voluto vedere».

Negli ultimi cinque anni la leader della National League for Democracy era stata spesso ospite di Xi, siglando numerosi accordi finalizzati allo sviluppo del China-Myanmar Economic Corridor, vitale per la Belt Road Initiative. Il fatto che la Cina non abbia ispirato il golpe, tuttavia, non significa che sia disponibile a destabilizzare ulteriormente il paese.

I gradi di complessità del coinvolgimento degli attori…

Il 17 marzo Massimo Morello e Serena Console hanno affiancato Francesco Radicioni e Valeria Manieri nella trasmissione che Radio Radicale dedica alla situazione che era già molto critica in Myanmar. La riproponiamo sia perché è un altro tassello dell’analisi di Massimo e di altri suoi colleghi ed esperti, che è indispensabile al puzzle che va costruendo per trovare (e farsi) una ragione che illumini i futuri potenziali sviluppi, per poter individuare equilibri nel Myanmar e anche nel proprio personale approccio al concetto di Birmania, senza potersi avvalere di indovini per distinguere il bene dal male.

Cercando di collocare tutti gli attori in commedia: le milizie etniche – veri e propri eserciti di decine di arruolati ben armati. Le armi – come dimostrato dall’inchiesta di Atlante delle Guerre – provengono da Cina, Russia… ma anche dall’Italia; ma le milizie sono interessate al narcotraffico e a quello della giada e delle altre pietre preziose di cui è ricco il suolo birmano. I ragazzi che si oppongono alla dittatura sono disarmati e un po’ manipolati da chi li manda al macello? Il livello di complessità è alto e non si può semplificare senza rischiare di perdere il senso: ogni realtà va collocata sul terreno a tuttotondo, compresa Aung San Suu Kiy, che comunque ha chiuso accordi con la Cina, che probabilmente non ha nulla da guadagnare dal golpe.

Ma anche i percorsi di oleodotti e risorse nelle reti infrastrutturali della Bri; affacci sul Golfo e percorsi di merci, snodi stradali che entrano nel business sensibile a ogni minima scossa; informazioni, tecnologie, utili al controllo. E forse il sentimento anticinese già forte nella tradizione popolare birmana, viene rinfocolato da queste interferenze

Il golpe in Myanmar all’epoca del tribalismo

Massimo Morello corrisponde da Bangkok con il cuore a Mandalay, ed è convincente la sua analisi che sfocia nella teorizzazione del Tribalismo asiatico. Ovvero: la suddivisione del mondo secondo sfere di influenza vede il Sudest asiatico assegnato definitivamente alla Cina e questo contribuisce al Tribalismo come espressione nazionale (o, come nel caso birmano, dove si sta scivolando nelle comunità  dotate di eserciti propri contrapposti a Tatmadaw) di una consapevolezza identitaria che però si estende all’intera area in chiave antineocolonialista, elaborando una sorta di intolleranza passiva nei confronti dell’Occidente che viene escluso completamente dal proprio orizzonte, mentre il riferimento principale rimane la Cina, attenta soltanto ai propri interessi, che possono essere fatti con Aung San Suu Kiy o con i militari indifferentemente – il che alimenta la suddivisione tra tribù. Da sempre quest’area ragione in termini tribali (si pensi alle 130 diverse appartenenze birmane): i manifestanti della Milk&Tea alliance si suddividono in un’infinità di tribù più postmoderne, come i giovani cresciuti a videogame e muoiono come in un gioco; i vecchi reduci dei movimenti comunisti dell’area; frammentazioni anche nel campo militare tra giovani turchi e vecchi apparati orientati solo ai traffici… divisioni incatalogabili, anche perché riemerge la superstizione, la cabala sfuggente. Poco importa se verranno determinate sanzioni più o meno marcate, perché sbocchi di mercati per gli stati dell’area sono assicurati non solo dalla Cina di Xi, ma anche dalla Russia di Putin – ben felice che i cinesi debbano risolvere questa matassa. E anche l’Asean non ha preso una posizione tanto determinata contro Tatmadaw. E si torna al tribalismo degli eserciti che controllano il traffico di droga dell’intera area.
E nella vicina Thailandia, altrettanto militarizzata nel controllo governativo (una tendenza che si estende anche ai paesi occidentali) si assiste a una radicalizzazione del Movimento, dove gli scontri vedono protagonisti giovani molto più determinati che non disdegnano il confronto violento con le guardie. La Thailandia però vede un supporto di metà della società civile per il regime militarista e la tribalizzazione è una conseguenza della asiatizzazione e viaggia in contrasto con la globalizzazione. E questo vale per l’ossimorica affermazione della “democrazia fiorente nella disciplina” ritagliata su questi paesi congiunzione tra Golfo del Bengala e Mar cinese meridionale con credenze e forzature cabalistiche condivise a livello di tribù.

Ascolta “Il golpe in Myanmar all’epoca del Tribalismo” su Spreaker.

3 marzo. La crisi in Myanmar dà inizio all’epoca del tribalismo

L’hashtag che circolava tra i social birmani domenica 28 febbraio, conclusa con oltre 20 morti tra i manifestanti, era #WeNeedR2PInMyanmar. R2P si riferisce a Responsibility to Protect, principio adottato in seguito al genocidio del 1994 in Ruanda, secondo cui la comunità internazionale è autorizzata a intervenire in un paese qualora il governo non sia in grado di proteggere la popolazione da crimini di guerra o pulizia etnica.

«È finita l’epoca post coloniale» mi dice un uomo d’affari che osserva gli avvenimenti con timore e curiosità. Ipotesi interessante. Secondo la “teoria post coloniale” il colonialismo non era scomparso ma si manifestava in altre forme di dominazione. Oggi, stiamo per entrare nell’epoca della dominazione regionale cinese e della tribalizzazione. Complice la pandemia, le vecchie categorie della geopolitica si trasformano

Segui tutti i contenuti attinenti a questo Studium

Clicca qui per aggiungere il proprio testo

L'articolo Burma blue: riavvolgere il nastro dalla fine proviene da OGzero.

]]> Il Vietnam digitale al XIII Congresso del Partito https://ogzero.org/cresce-lo-status-del-vietnam/ Sun, 31 Jan 2021 01:26:06 +0000 http://ogzero.org/?p=2348 Vietnam all’alba del 13° Congresso Nazionale del Partito: emergere all’inizio dei nuovi anni Venti Il 2021 sarà un anno chiave per capire la direzione intrapresa dall’Asia verso il futuro – ora più che mai incerto. Il Vietnam in questo senso rappresenta una pedina che sta lentamente assumendo importanza sullo scacchiere regionale, dove a nuove sfide […]

L'articolo Il Vietnam digitale al XIII Congresso del Partito proviene da OGzero.

]]>
Vietnam all’alba del 13° Congresso Nazionale del Partito: emergere all’inizio dei nuovi anni Venti

Il 2021 sarà un anno chiave per capire la direzione intrapresa dall’Asia verso il futuro – ora più che mai incerto. Il Vietnam in questo senso rappresenta una pedina che sta lentamente assumendo importanza sullo scacchiere regionale, dove a nuove sfide nelle alleanze si alternano nuove opportunità economiche e politiche. Dal 25 gennaio al 2 febbraio Hanoi ospiterà il XIII Congresso nazionale del Partito comunista del Vietnam (Pcv): durante questo evento, che si tiene ogni cinque anni, verranno dettate le linee guida per il paese, oltre a decretare le posizioni apicali all’interno del partito e degli organi legislativi. In quest’ultimo caso si tratta di una pura formalità: nelle settimane precedenti una serie di incontri stabilisce ex ante i candidati da proporre al Congresso – dove vengono ratificate le scelte avvenute dietro le quinte. Il Vietnam, dall’assetto politico in parte somigliante a quello cinese (una repubblica socialista monopartitica), si distingue per una concentrazione meno personalistica dell’autorità principale. Il cambio di leadership che i 1500 delegati dovranno avvallare consiste in 200 membri del Congresso Nazionale, 14-19 membri del Politburo e i cosiddetti “quattro pilastri”: il segretario generale del partito del Vietnam, il presidente dello stato, il primo ministro e il presidente dell’Assemblea nazionale. Come altri paesi al mondo con una storia di rapida evoluzione economica nel XX secolo, anche la storia del Vietnam è legata da un doppio filo alla figura di Ho Chi Minh e al Partito comunista, di cui si sono appena festeggiati i 90 anni dalla fondazione. La selezione dei candidati con il compito di guidare il paese è considerata il fulcro per il funzionamento della politica domestica e il raggiungimento degli obiettivi previsti dai piani quinquennali. Al centro della strategia auspicata da Hanoi vi saranno i candidati scelti dal Comitato Centrale, i quali dalle prime indiscrezioni vengono esaltati per le qualifiche: persone di grandi doti morali, talento e alto potenziale. La parola d’ordine è continuità: mentre il paese sta cambiando sotto le allettanti prospettive che i mercati globali aprono al Vietnam, l’apparato politico riafferma le proprie posizioni e la centralità nel determinarne la via. Ciò non impedisce che il XIII Congresso potrebbe riservare, come spesso accade, delle sorprese.

Cresce lo status del Vietnam

Il punto di partenza dello sviluppo vietnamita: le venditrici ambulanti a Hanoi nel dopoguerra, diapositive viventi sullo schermo della continuità

Una politica interna a rischio

L’attuale presidente e segretario generale del Partito è Nguyen Phu Trong, 77 anni e già oltre il limite stabilito per le cariche governative, di 65 anni. Trong è stato apprezzato negli ultimi anni per la lotta alla corruzione, ma ha anche dimostrato di avere una forte presa sul Partito. Il suo intervento ha portato a stravolgere anche alcune cariche apicali, come quando rimosse il precedente primo ministro nel 2016 e fece arrestare Dinh La Thang, il capo del Partito a Ho Chi Minh City, primo ex membro del Politburo nella storia del Vietnam a venir incarcerato.

Trong è stato riconfermato segretario di Partito, nonostante abbia superato i due mandati, mentre l’incarico di presidente – carica che Trong non può più ricoprire avendo superato i due mandati – potrebbe invece essere affidata all’attuale primo ministro, Nguyen Xuan Phuc, anch’egli ormai in età avanzata per ricoprire la carica, 67 anni. Si tratta di scelte anomale rispetto ai precedenti Congressi, segnale di una volontà di regolare le tensioni interne tra fazioni e un’impasse sulla nomina del prossimo leader.

Per gli analisti la mossa potrebbe anche nascondere una crisi interna al Partito, giunto a un punto di svolta generazionale e di grandi sfide interne ed esterne al paese. Nguyen Phu Trong rappresenterebbe dunque un punto di coesione, l’“uomo forte” in grado di mantenere la stabilità all’interno del Pcv. Un’altra nota interessante riguarda la provenienza dei presunti nuovi pilastri della politica vietnamita, tutti originari del Nord del paese. Un fattore che romperebbe con la consuetudine per cui le cariche apicali dovrebbero rappresentare in egual misura entrambe le macroregioni del Sud e del Nord.

Cresce lo status del Vietnam

Il XIII Congresso del Partito comunista vietnamita dal 25 genanio al 2 febbraio 2021

A determinare gli sviluppi della politica interna sono soprattutto alcune tendenze in forte crescita: un’economia rampante ma anche una presa sulla popolazione sempre più attenta alle critiche.

Il 2020 è stato un anno chiave per raggiungere gli obiettivi del piano quinquennale, un anno di successi economici significativi: oltre a Taiwan e Cina è stato l’unico paese a chiudere l’anno con un segno di crescita positivo secondo gli ultimi dati della Banca Mondiale. Ma è anche un record al ribasso dopo anni di crescita rampante e che motiva Hanoi a puntare per il 2021 al +6,5% di crescita del Pil, annunciata da una risoluzione a inizio anno in preparazione degli incontri del partito. Il debito sovrano è in calo, e si prevede di raggiungere nel 2021 la quota del 52,5% rispetto al Pil: secondo la maggior parte degli economisti uno status “virtuoso”, che rende un paese meno vulnerabile in tempi di crisi. Considerato paese politicamente stabile nella regione, le agenzie di rating ne danno una prospettiva molto positiva di sviluppo economico e di sicurezza per gli investimenti esteri. Nonostante il rallentamento causato dalla pandemia di Covid-19, gli investimenti nel paese continuano a mostrare una tendenza positiva – ma rimane invariata la presenza dei vicini asiatici nella classifica dei maggiori investitori: Singapore, Cina e Taiwan sono i maggiori player della zona, con investimenti nel 2020 del valore di circa 28,5 miliardi di dollari. Si punta soprattutto alla manifattura, seguita dalla produzione di energia elettrica e le relative infrastrutture per la distribuzione di elettricità.

In questo contesto emerge una terza figura importante per la politica vietnamita: Nguyen Tan Dung. Grande riformista e primo ministro nel 2006, è considerato l’artefice delle iniziative che hanno aiutato il Vietnam a ottenere buoni risultati in termini di occupazione e crescita economica. Il politico è stato fautore dell’ingresso del Vietnam nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) e viene da alcuni addirittura considerato un “Deng Xiaoping vietnamita”: questo perché la sua persona avrebbe ridato slancio a quella serie di politiche di riforma e apertura iniziate nel 1986 e note come Đổi Mới – “il rinnovamento”.

Cresce lo status del Vietnam

Si solleva il sipario sul Đổi Mới – “il rinnovamento” – la transizione digitale

Tra i nodi cruciali dello sviluppo 2.0 del Vietnam rientrano le tecnologie all’avanguardia e la gestione dell’economia digitale: in pochi anni il paese ha raggiunto i 55,19 milioni di utenti internet, circa il 60% della popolazione totale. La transizione verso il digitale è al centro della ripresa post-Covid, ha dichiarato all’internet day Nguyen Huy Dung, direttore del dipartimento di Tecnologia dell’informazione, ministero dell’Informazione e delle Comunicazioni e viceministro più giovane della storia della repubblica. Con la transizione digitale il Partito punta soprattutto a elaborare una governance digitale coerente, fatta di rapida inclusione delle tecnologie digitali per snellire la burocrazia e far avanzare i nuovi settori produttivi dove il machine learning e una rete infrastrutturale efficiente sono essenziali.

L’internet economy nel paese continua a crescere a doppia cifra, accompagnata dalle osservazioni sulla tutela della “sovranità digitale” del Vietnam. Il paese negli ultimi anni ha infatti aumentato la stretta nei confronti dei dissidenti, riuscendo a ottenere la collaborazione di Facebook e Google nell’eliminazione dei contenuti “sovversivi”. È record anche di prigionieri politici, che vengono sottoposti a pene più lunghe mentre sono sempre più energiche le ripercussioni sugli attivisti rintracciati attraverso internet. L’unità cyber-militare vietnamita oggi conta circa 10.000 individui, che insieme a collaboratori civili hanno il compito di scovare le attività online illecite, tra cui rientra ampiamente la critica all’establishment. Il concetto di sovranità digitale, che sta assumendo le inclinazioni di Pechino ma senza arrivare a chiudere i confini virtuali ai big tech americani, sarà uno dei principali rompicapi per Hanoi.

Dalla sovranità soft a quella reale: il Vietnam verso lo status di potenza media?

Due sono gli elementi essenziali della strategia politica estera di Hanoi: salvaguardia della sovranità e indipendenza.

Gli accordi commerciali che il Vietnam è riuscito a chiudere con diversi partner in tutto il mondo stanno portando il paese ad avere una posizione economica sempre più prestigiosa nel contesto del sudest asiatico. Prima l’accordo di libero scambio con l’Unione Europea, poi la Regional Cooperation Economic Partnership (Rcep) con altri quattordici paesi asiatici hanno contribuito ad aumentare la percezione di apertura economica “facile e veloce” del Vietnam. Molte aziende decidono di trasferirvisi per godere degli incentivi statali a fronte di una manodopera ormai più conveniente della Cina, oltre alle ottime prospettive di evoluzione infrastrutturale e finanziaria. La Cina gioca un ruolo centrale in questo processo, con la guerra commerciale che ha favorito l’allontanamento di alcuni partner dai modelli di business saldamente orientati all’esportazione di beni e servizi a prezzi competitivi. Allo stesso tempo nel settore del commercio internazionale crescono le speranze verso un potenziale boom del mercato dei consumi in Vietnam, dove arrivare prima dei competitor rappresenta un vantaggio importante per le aziende.

Proprio questo multilateralismo apparentemente equanime nei confronti dei partner commerciali ha permesso al Vietnam di crearsi un’immagine tutt’altro che polarizzante in politica estera. La politica dei “tre no” rimane un caposaldo della diplomazia vietnamita: nessuna alleanza, nessuna presa di posizione in caso di tensioni geopolitiche e nessuna base militare ammessa sul suolo nazionale. Questo sistema oggi è sempre più messo in discussione da alcune mosse in politica estera che hanno permesso al Vietnam un posizionamento crescente sullo scacchiere asiatico. Storicamente la Cina ha sempre prevalso come potenza sul Vietnam e l’asimmetria tra i due paesi continua a influire sulle scelte che Hanoi deve fare per mantenere la stabilità intorno ai propri confini. Questo rapporto è sempre stato turbolento e altalenante, nonostante queste frizioni rimangano spesso sopite sotto il velo della retorica della solidarietà ideologica, radicata nel cameratismo dei primi anni Cinquanta, quando la Repubblica popolare cinese fu l’unica a riconoscere formalmente il Vietnam. Oggi un tentativo di Hanoi di bilanciare Pechino attraverso posizioni più assertive risponde alla necessità di mantenere un’apparenza di equilibrio geopolitico nella regione in grado di preservare gli interessi del Vietnam.

A mettere in discussione lo status quo sono però due elementi vitali per il paese asiatico: il Mar Cinese Meridionale e la regione del Delta del Mekong.

La necessità di prendere parte attiva in due delle questioni più spinose – ma vitali – per l’area del Sudest asiatico, ha accresciuto lo status del Vietnam, che alcuni analisti vedono sulla strada per diventare una potenza media con possibilità di avere un impatto anche importante nella regione. Questo si evince in particolare dall’impegno diplomatico del paese a dare voce a queste due istanze condivise per raccogliere le energie sufficienti a contrastare i giganti dell’area, in particolare la Cina. Definire il Vietnam una media potenza già in atto e non in divenire è una sentenza complessa e non completamente esatta a oggi. Ma non è possibile ignorare come negli ultimi vent’anni la politica estera del Vietnam ha avuto una svolta: a partire dal 2001 il Partito ha introdotto per la prima volta una politica più aperta e mirata a diversificare le alleanze, dando il via a un processo i cui risultati sono evidenti oggi.

Nel 2019 il Vietnam ospita il secondo vertice del dialogo Usa-Corea del Nord e da qualche anno invia con regolarità alcune truppe alle missioni Onu. Nel 2020 assume la presidenza dell’Asean e riesce a coordinare i paesi nella lotta al Covid-19. Nelle ultime settimane Hanoi annuncia un nuovo piano per il Delta del Mekong, invitando tutti i paesi coinvolti a partecipare attivamente per contrastare l’attività a monte delle dighe cinesi, che insieme ai cambiamenti climatici in atto stanno riducendo drasticamente un flusso d’acqua che tiene in vita un’intera regione. Più vicine anche le posizioni verso gli Stati Uniti, dato che Washington fino a oggi ha sostenuto qualsiasi forma di opposizione alla Cina nel Mar Cinese Meridionale. L’opportunità rischia però di diventare rischio: Pechino è la grande protagonista della regione, mentre l’America rimane fisicamente – e diplomaticamente – lontana. Non da ultimo il Vietnam si trova stretto in un gioco dove alle minacce di sanzioni fanno da contraltare richieste di maggiore apertura e flessibilità finanziaria.

Mentre l’unico vero alleato che il Vietnam abbia mai dichiarato – il Laos – dall’elezione del nuovo primo ministro Thongloun Sisoulith si è nettamente avvicinato a Pechino, l’India ricompare spesso nelle considerazioni sull’area. Vi è infatti tra i due governi una vicinanza di idee in termini di sicurezza regionale, quel desiderio di stabilità senza giochi di potere e alleanze. Ma è cresciuta l’incertezza da quando il governo Modi e la politica americana per l’Indo-pacifico hanno iniziato a ipotizzare un’alleanza tra democrazie asiatiche.

Se il 2020 è stato l’anno che ha richiamato l’attenzione del mondo sull’Asia, il 2021 potrebbe riservare un posto da protagonista per il Vietnam. Quel “basso profilo” che tanto ricorda i primi anni della ripresa cinese dopo il 1978, oggi è chiamato a rispondere di questioni critiche che richiedono la fermezza di una media potenza regionale. Partire dalle nuove sfide interne è una chiave di lettura per comprendere il livello di sicurezza che mostrerà il Partito nell’esporsi sul palcoscenico geopolitico del Sudest asiatico.

L'articolo Il Vietnam digitale al XIII Congresso del Partito proviene da OGzero.

]]>
«Abbiamo bisogno di cambiamento». Chiavi thai per una rivoluzione culturale nel regno del Siam https://ogzero.org/abbiamo-bisogno-di-cambiamento-chiavi-thai-per-una-rivoluzione-culturale-nel-regno-del-siam/ Sat, 23 Jan 2021 16:47:42 +0000 http://ogzero.org/?p=2288 Le trame della realtà affondano in radici magiche e simboli culturali «Pensa alla magia, non alla politica». È il consiglio, a volte inquietante, che spesso viene rivolto a uno studioso del mondo magico thailandese. Lui stesso un “indovino”, un mo du [il dottore che osserva], colui che vede il destino. Che sia un farang, come […]

L'articolo «Abbiamo bisogno di cambiamento». Chiavi thai per una rivoluzione culturale nel regno del Siam proviene da OGzero.

]]>
Le trame della realtà affondano in radici magiche e simboli culturali

«Pensa alla magia, non alla politica». È il consiglio, a volte inquietante, che spesso viene rivolto a uno studioso del mondo magico thailandese. Lui stesso un “indovino”, un mo du [il dottore che osserva], colui che vede il destino. Che sia un farang, come in Thailandia chiamano gli stranieri, complica le cose. Per i thai è un’anomalia nel mondo della khwampenthai, la “thailandesità”. Per gli occidentali sfugge ai codici canonici dell’accademico.

Edoardo Siani, giovane italiano dalla storia romanzesca, antropologo, docente di studi del Sudest asiatico all’università Ca’ Foscari di Venezia, reincarna quegli studiosi come Elémire Zolla, “il conoscitore di segreti”, che interpretano la realtà ricercandone le radici magiche e psicologiche.

Le vicende della contemporaneità thai vanno osservate come se si assistesse al Ramakien – il poema ispirato all’indiano Ramayana – in cui le trame e i simboli sono al tempo stesso struttura culturale. Nella versione rappresentata oggi nella scena thai gli episodi vedono l’apparizione di nuovi personaggi in nuove trame: la pandemia, la rivoluzione culturale e la restaurazione.

Le analisi compiute con questo metodo spesso riescono a spiegare ciò che è incomprensibile a molti osservatori che si ostinano ad applicare una logica occidentale nello scenario del buddhismo theravada. In Thailandia, il dharma, le regole che governano il cosmo, è in uno stato di fluttuazione perché soggetto all’anijja, l’“impermanenza”: la transitorietà dei fenomeni.

Prathet Ku Mee

Rivendicazioni che mantengono la struttura dei 10 punti rivendicati dal Free Youth Movement

Dharma, anija e sanuk: evitano l’Orientalismo e… spiegano anche l’epidemia

Il dharma e l’impermanenza sono la chiave per approfondire le nuove trame thai evitando le banalizzazioni narrative, l’Orientalismo. «Come recita la legge buddhista dell’impermanenza, ogni cosa, anche la legge sulla lesa maestà, si manifesta, esiste e scompare, al pari delle norme etiche e culturali della società. Nulla è permanente» scrive Matthew Wheeler dell’International Crisis Group, riferendosi al tabù che è anche il nodo centrale della politica thai.

Per uno di quei fenomeni di sincronicità, coincidenze casuali, che sono tra i concetti cardine del pensiero junghiano, maestro del pensiero magico come medium di psicanalisi, l’attesa di un ritorno in Thailandia, che appare sempre più come un’anabasi esistenziale, diviene prova e manifestazione dell’impermanenza.

Un farang che oggi cerchi di tornare in quel paese permane sull’orlo di una crisi di nervi: per la burocrazia e i costi da affrontare. Ma pochi rinunciano: troppo forte è l’attrazione del clima, dell’apparente sicurezza del regno. E soprattutto del sanuk. Letteralmente significa divertimento, ma ha un contenuto più profondo. Si può definire “la via della gioia di vivere”, base dell’edonistica cultura thai. Le sue forme d’espressione sono innumerevoli: feste e gioco, teatro tradizionale e soap opera, muay thai e combattimenti dei galli, shopping e spiagge. E, ovviamente, il sesso. Per ravvivare il turismo, nel settembre scorso era stato proposto di permettere ai turisti di frequentare le “sale massaggi” vicine agli alberghi dove trascorrevano la quarantena.

Ma all’inizio dello scorso anno, quando la pandemia sembrava circoscritta a Cina e dintorni (come nel 2002 con la prima epidemia di Sars) e si temeva di restare bloccati in un incubo virale, quegli stessi farang tempestavano le ambasciate, le compagnie aeree, per trovare una via di fuga che li riportasse nella comfort-zone dell’Occidente. La Thailandia, Bangkok in particolare, era in pieno lockdown, sottoposta a coprifuoco, materializzava un Hotel California da cui non si può fuggire, dove lo straniero è intrappolato dai suoi stessi desideri.

Il futuro prossimo potrebbe segnare un’ulteriore transitorietà. Se fino a metà dicembre il Thailand Center for Covid-19 segnalava una situazione stabile con poco più di 4000 casi di contagio e 60 decessi, a metà gennaio i casi erano saliti a oltre 11000 e 70 morti. Nel frattempo, il 4 gennaio è stato dichiarato un nuovo, parziale lockdown dopo mesi di apertura.

La pandemia diventa contaminazione culturale

Rispetto alla prima ondata sono cambiati gli untori. Ora sono i lavoratori birmani, dato che il contagio è ripreso in un mercato del pesce vicino a Bangkok e si è diffuso nei quartieri ghetto dei migranti birmani. Il rischio è che divengano ancor più “dannati”, vittime di quel senso di superiorità diffuso in Sudest asiatico nei confronti dei più poveri.

Nella prima ondata, invece, la xenofobia era nei confronti dei farang, giudicati sporchi (come ebbe a dichiarare il ministro della Sanità), ma soprattutto portatori di comportamenti malsani. Il virus che possono trasmettere non è solo il Covid, bensì qualcosa di più insidioso: la contaminazione culturale.

È un fenomeno anch’esso virale: tutto il Sudest asiatico appare circondato da una nuova cortina di bambù. Secondo molti asiatici, sul tramonto dell’Occidente è ormai scesa la notte. Ci attende l’alba di una storia postpandemica: gli autoritarismi asiatici, “la democrazia fiorente nella disciplina”, si sono rivelati più efficaci delle democrazie occidentali. Un nuovo ordine mondiale post-covid di conflitti e contraddizioni è il titolo di un articolo del Commodoro C. Uday Bhaskar, direttore della “Society for Policy Studies” di Delhi. «Per i thai è troppo tardi per sfuggire all’abbraccio cinese, possiamo solo cercare di non farcene soffocare» ha dichiarato un diplomatico di Bangkok. Pechino segue la politica – che in Occidente definiamo “amorale” – di non interferenza negli affari interni dei paesi dell’area e ora ha rinforzato questo “soft power” con la “Vaccine diplomacy”. La Thailandia, per esempio, dovrebbe ricevere entro il prossimo mese le prime 200.000 dosi del Sinovac anti-Covid. In Occidente, in compenso, anziché cercare di comprendere ciò che si sperimenta in Asia, tutto viene assunto a prova di una marginalità asiatica, di una sua alterità, a volte mostruosità (di cui è simbolo il “virus cinese” diffuso in orridi “wet market”).

A fari della democrazia spenti nella notte

Il caos delle elezioni americane (che per gli osservatori delle vicende asiatiche è stato ancor più traumatico nel paragone con la “normalità” di quelle svolte in Birmania dopo solo una settimana) è apparso come un ulteriore segno della decadenza del paese considerato faro di democrazia. In Thailandia i sostenitori del generale Prayuth, denunciando interferenze a favore delle proteste, non hanno mancato di rilevare che per l’America è sempre più difficile ergersi a giudice.

Da parte dell’opposizione democratica thai, invece, Trump è stato paragonato (anche in molte vignette) a Suthep Thaugsuban, leader del People’s Democratic Reform Committee (Pdrc), la formazione ultraconservatrice delle “camicie gialle” che con le manifestazioni del 2014 aprì la strada al golpe di quell’anno. Paragone tanto realistico quanto inquietante.

Suthep Thaugsuban come Donald Trump

Sovranisti di tutto il mondo uniti… nell’ironia delle vignette

In Thailandia, dunque, la pandemia è stata un’ottima scusa per dichiarare una sorta di legge marziale. La chiusura quasi totale del paese, giustificata per tutelare il regno da contagi, ha generato una crisi economica i cui effetti potrebbero avere conseguenze interne e internazionali difficilmente valutabili secondo gli standard occidentali, considerando che in Thailandia l’1% della popolazione controlla il 66,9% della ricchezza. Ma anche la crisi è divenuta lo strumento per propagandare un nuovo modello di sviluppo. Come dimostra uno spot televisivo che inneggia alla decrescita felice, al ritorno alle radici tradizionali, una recherche dell’antico regno del Siam.

In questo brodo di coltura la protesta si è sviluppata come una variante del virus. Le manifestazioni studentesche sono iniziate nel febbraio 2020 a seguito dello scioglimento di Future Forward (Ffp), il partito d’opposizione fondato dal giovane miliardario Thanathorn Juangroongruangkit che aveva ottenuto un eccezionale risultato alle elezioni del marzo 2019.

Il Free Youth Movement e i precedenti

Alla base delle manifestazioni – interrotte per Covid in aprile e poi riprese con forza alla fine di luglio con un picco tra agosto e novembre – c’è la richiesta di dimissioni del premier Prayuth Chan-ocha, la riforma costituzionale e il ritorno a una vera democrazia. L’ex generale Prayuth è al governo dal 2014, prima al comando della giunta militare che prese il potere (il diciannovesimo golpe dopo l’istituzione della monarchia costituzionale nel 1932), poi primo ministro autonominato, infine premier di un partito che alle elezioni del 2019 ha ottenuto la maggioranza grazie a una modifica costituzionale ad hoc. Ma non è bastata a quello che ormai va definendosi come l’espressione dell’Ancien Régime: il Ffp appariva una variante troppo pericolosa perché trasmessa dai figli di una borghesia medio-alta. Non più quei “bufali rossi” com’erano sprezzantemente definite le “camicie rosse”, i popolani e i contadini dell’Isaan, la regione più povera del paese, che nel 2010 occuparono Bangkok in una protesta repressa nel sangue.

Secondo Duncan McCargo e Anyarat Chattharakul, analisti di politica thai, nel saggio Future Forward: The Rise and Fall of a Thai Political Party, quel partito guidato da un “hyperleader” che sfidava sia il potere dei militari sia delle grandi famiglie che monopolizzano l’economia (per quanto anche lui ne sia figlio)  ha avuto un effetto “più emozionale che razionale”, riuscendo a coagulare consensi che apparivano più simili a quelli di un gruppo K-pop che non a un movimento politico tradizionale. A questi si univano i “fans radical” di Piyabutr Saengkanokkul, altro fondatore dell’Ffp, attivista legale, “seguace” della Rivoluzione Francese (che in una monarchia come la thai appare una minaccia contemporanea, considerando che nel 1932, il People’s Party, un gruppo di giovani turchi ispirati agli ideali della Rivoluzione Francese rovesciò la monarchia assoluta promulgando la prima costituzione).

Le rivoluzioni francesi, del 1789 come del 1968, sembrano ispirare la contestazione. Se n’è avuta dichiarazione il 3 agosto, quando l’avvocato Anon Nampa ha proclamato la necessità della riforma della monarchia. Ancor più la sera del 10 agosto, nel campus della Thammasat University di Bangkok, quando la ventunenne Panusaya “Rung” Sithijirawattanakul ha letto il manifesto della contestazione: dieci punti che richiedevano una forte limitazione dei poteri reali. È stata anche la scenografica rappresentazione di quel momento che l’ha fatta divenire la star del movimento e inserire nella lista della Bbc delle 100 donne più “ispiratrici” del 2020.

cambiamento in chiave thai

10 richieste per il cambiamento

Dalle rivoluzioni nate a Parigi sono derivati anche gli slogan di Bangkok. “Né dio, né re, solo umano” riecheggia quelli del Sessantotto. Alla trinità “Nazione, religione, monarchia” i manifestanti hanno opposto lo slogan, “Nazione, religione, il popolo”. Il gesto simbolo delle manifestazioni, il braccio alzato con tre dita unite, ripreso dal film Hunger Games per indicare l’opposizione alla tirannide, è interpretato come l’unione dei valori di Liberté, Égalité, Fraternité della Rivoluzione Francese. La rappresentazione plastica dei fantasmi evocati dalla rivoluzione è la foto, forse casuale, che ritrae il passaggio dell’auto della regina Suthida tra due ali di manifestanti il 14 ottobre. Il volto della regina, perfettamente a fuoco dietro il finestrino, appare smarrito, quasi impaurito. Era la prima volta che una folla di manifestanti arrivava così vicino a un membro della famiglia reale, salvo quando si trattava di manifestazioni di devozione e la folla era in ginocchio.

[riproponiamo qui un’analisi di Massimo Morello che puntualizza bene i motivi della sollevazione, ringraziando Giampaolo Musumeci e Radio24 per averci permesso di utilizzare il suo intervento trasmesso all’interno della puntata di Nessun luogo è lontano del 15 ottobre 2020 («raccontare, raccontare, raccontare…»)]
Ascolta “Cosa scuote il sistema pi-nong, impalcatura della monarchia tailandese?” su Spreaker.

 

Nuovi modelli di cultura thai

«La Thailandia è in una crisi di legittimazione, d’identità senza precedenti e deve confrontarsi con una nuova generazione intelligente, che propone una visione del tutto nuova della società, che sia nella filosofia politica, nelle diversità di genere, nelle questioni etniche…», ha scritto David Streckfuss, storico del Sudest asiatico. Questa interpretazione, un po’ falsata dalla sociologia occidentale, ha fatto sì che molti paragonassero le proteste di Bangkok a quelle di Hong Kong. Forse la contestazione thai è più importante per i giovani hongkonger, che la vedono come prova del contagio democratico in Asia. In Thailandia Hong Kong è un modello soprattutto stilistico, in una forma che fonde modelli e segni della cultura pop asiatica (come le papere gonfiabili utilizzate come scudi agli idranti), l’uso di flash mob e dei social che diviene quasi una performance al pari dei video del gruppo Rap Against Dictatorship, il cui primo lavoro Prathet Ku Mi (Questo è il mio paese) è divenuto virale, mentre l’ultimo Reform è stato bloccato su YouTube thai.

La patriottica metafora malata

Nella Thailandia del Covid si ritrovano diverse storie e le loro narrazioni sono un’intricata trama di politica, economia, magia, virus, sanuk, totem e tabù. La contestazione in atto, più che politica è culturale, contesta un sistema di norme che costituisce l’impalcatura della società. Quel sistema è definibile nel rapporto pii-nong, “maggiore-minore”. Un rapporto gerarchico e di deferenza molto complesso: riguarda l’età, le gerarchie familiari, professionali, economiche, sociali, culturali. È un sistema che negli ultimi anni ha creato notevoli tensioni perché cristallizza le stratificazioni sociali, già viste come un’espressione del karma, un destino assegnato in funzione delle vite precedenti. Secondo lo studioso realista Bowornsak Uwanno, per esempio, ogni limite alla libertà d’espressione «riflette le norme etiche e culturali che ogni thai dovrebbe seguire». Seguendo tale assioma, chi richiede una riforma della monarchia è un “eretico”. Per il generale Apirat Kongsompong, ex capo di stato maggiore e oggi viceciambellano di corte, i contestatori sono individui “malati”, soffrono di chang chart, “odio verso la madrepatria”, sindrome molto più grave dello stesso Covid. Più reali le sindromi da stress e depressione che colpiscono molti manifestanti, dovute sia al rischio delle loro azioni sia alle pressioni dei genitori che li accusano di disonorarli, tanto che è stato proposto di diseredare i figli ribelli. In Thailandia, inoltre, ogni problema psicologico è marchiato da uno stigma sociale e religioso in quanto considerato effetto di un karma negativo.

cambiamento in chiave thai

Prathet Ku Mee dei Rap Against Dictatorship è diventata virale, perché sciorina tutte le storture del sistema pii-nong

Il tracollo della monarchia etica

In questa dimensione psicopolitica la situazione è resa ancor più oscura dalla presenza di un “cigno nero”, un evento imprevedibile in quanto dipendente anch’esso dall’impermanenza: la monarchia. Re Rama IX, sua maestà Bhumibol Adulyadej, scomparso nel 2016 dopo settant’anni di regno, per la maggior parte dei thai resta l’incarnazione delle virtù buddiste, un Dhammaraja, che governa secondo il Dasarajadhamma, “i principi del re virtuoso”. Nel periodo del Bhumibol consensus, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta, riuscì a evitare che la Thailandia subisse lo stesso destino degli altri paesi dell’area, là dove la Guerra Fredda divenne incandescente. Con i suoi programmi di economia sostenibile – forse non compiuti ma certo preveggenti – e i suoi spostamenti nel paese per promuovere progetti quali la riconversione delle colture da oppio, era considerato un innovatore, forte del consenso sino alla venerazione popolare.

Come è stato osservato, la società thai si è sviluppata in uno stato di “caos controllato” e il re ha svolto il ruolo di controllore. «La sua autorità morale è enorme: per i thai è un punto di riferimento nei momenti di sfiducia nei confronti dei politici». Il che, commenta Thitinan Pongsudhirak, professore di dottrine politiche, «induce a una riflessione sulle carenze della nostra democrazia. Quando ci troviamo di fronte in un’impasse, il popolo guarda al re come il solo che può risolvere la situazione».

La crisi attuale è detonata con la morte di Rama IX. Rama X, suo figlio Maha Vajiralongkorn, non gode dello stesso favore. È sempre apparso come l’antitesi del “re virtuoso”, ma sembra credersi un Devaraja, “il dio-re”, cui tutto è concesso. Ha accentrato un enorme potere, compresa la nomina del Supremo Patriarca buddhista e il controllo del patrimonio della corona, circa 40 miliardi di dollari, con interessi in ogni settore. Sua anche la Siam Bioscience che con AstraZeneca produrrà il secondo vaccino usato in Thailandia. Per proteggere tale potere ha affidato alla guardia reale (vero e proprio corpo di pretoriani) il controllo della capitale. Inoltre il nuovo re si è alienato le simpatie popolari (e non solo) perché trascorre più tempo in Germania che in Thailandia e per un comportamento, come ripristinare lo status speciale per le concubine reali, che fa “perdere la faccia” al paese.

Ma Vajiralongkorn è anche un “Principe” in senso machiavellico, diverso da come lo descrivono molti osservatori occidentali. «La Thailandia è la terra del compromesso» ha risposto a un giornalista straniero che gli ha chiesto se e come si potesse risolvere la crisi. E negli ultimi tempi ha fatto numerose apparizioni in pubblico, quasi sempre al fianco della regina Suthida, spesso intrattenendosi con i sudditi. Un comportamento che, pare, ha fatto crescere la sua popolarità. Per ammissione dello stesso primo ministro Prayuth, è stato il re a chiedere di non ricorrere alla draconiana legge sulla lesa maestà quale forma di deterrenza.

cambiamento in chiave thai

Restart Thailand – Revolution Thai – Republic of Thailand

In questo flusso d’impermanenza, il movimento d’opposizione ha commesso un clamoroso errore. Il Free Youth Movement ha lanciato un nuovo simbolo: RT. Che ufficialmente significa Restart Thailand, per altri indica Revolution Thai. Per altri ancora il significato è più minaccioso: Republic of Thailand. Un simbolo, inoltre, rappresentato con un altro simbolo: la falce e martello (disegnate da R e T).

Come ha scritto il nostro mo du Siani: «Sovraimporre l’identità marxista al movimento è pericoloso». Perché implica quell’idea di repubblica che è lo spettro dei conservatori, perché il comunismo per la maggior parte dei thai identifica coloro “senza religione”, perché potrebbe portare a una restaurazione della monarchia assoluta o a una repressione come quella del 1976, quando furono massacrati un centinaio di studenti. Allora lo scenario geopolitico era profondamente diverso: la Thailandia era la pedina centrale nel “domino” del Sudest Asiatico tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Ma il ricordo della guerra è ancora radicato nell’inconscio collettivo. «Muoio perché ho ucciso troppi comunisti» dice Lung Bunmi Raluek Chat [Lo zio Boonmee che può richiamare le sue precedenti vite], personaggio che dà titolo al film del thailandese Apichatpong Weerasethakul, vincitore del 63° Festival di Cannes. Di fatto sembra che il riapparire di antichi spettri abbia segnato un nuovo colpo di scena. «La legge sulla lesa maestà si manifesta con un’escalation senza precedenti», ha commentato il politologo Thitinan Pongsudhirak.

 

[a proposito del reato di lesa maestà è interessante ascoltare un intervento di Sabrina Moles su Radio Blackout del 21 gennaio 2021, un paio di giorni dopo la stesura di questo articolo di Massimo Morello: un intervento che prende spunto dalla legge 112, per collocare l’episodio che vede Anchan Preelert protagonista, utilizzandolo per spiegare il contesto attuale, il momento del golpe – periodo storico in cui è avvenuto il reato contestato ad Anchan e il mondo di riferimento delle nuove generazioni]

Ascolta “Una condanna esemplare del retrivo regno del Siam” su Spreaker.

La crisi è sembrata risolversi a dicembre, quando i leader della protesta hanno annunciato una tregua durante la stagione delle festività. Secondo la maggior parte dei commentatori era la dimostrazione dei primi dissidi all’interno del movimento e una forma di ritirata di fronte all’inasprirsi della repressione. Ma potrebbe anche essere l’ennesima espressione del sanuk, il pervasivo edonismo thai.

Per il momento è difficile capire come si manifesterà l’impermanenza, perché a gennaio, con l’aumento dei casi di Covid ogni manifestazione pubblica è stata bandita e la tregua prolungata sino a metà 2021. Nel frattempo, come a metà gennaio, potrebbero verificarsi nuovi scontri, magari in seguito ai dissidi tra i gruppi del servizio d’ordine, crearsi nuove alleanze, per esempio tra studenti e camicie rosse, Thanathorn potrebbe ripresentarsi sulla scena, oppure potrebbero riapparire le camicie gialle realiste.

 

cambiamento in chiave thai

Dove andrà la loro nazione senza dirlo?

In Thailandia il futuro è nelle mani dei maghi.

L'articolo «Abbiamo bisogno di cambiamento». Chiavi thai per una rivoluzione culturale nel regno del Siam proviene da OGzero.

]]>
“L’occhio del Buddha” e la Realpolitik di Aung San Suu Kyi https://ogzero.org/myanmar-la-realpolitik-della-signora-e-locchio-del-buddha/ Wed, 02 Dec 2020 20:05:02 +0000 http://ogzero.org/?p=1916 «La spiegazione è semplice: la gente non dimentica» dice un vecchio amico che vive in Birmania da più di vent’anni, un uomo per tutte le stagioni. «La gente sta meglio e ha paura di perdere quel poco che ha guadagnato». La memoria di un passato prossimo vissuto nella paura e la percezione del cambiamento spiegherebbero […]

L'articolo “L’occhio del Buddha” e la Realpolitik di Aung San Suu Kyi proviene da OGzero.

]]>
«La spiegazione è semplice: la gente non dimentica» dice un vecchio amico che vive in Birmania da più di vent’anni, un uomo per tutte le stagioni. «La gente sta meglio e ha paura di perdere quel poco che ha guadagnato». La memoria di un passato prossimo vissuto nella paura e la percezione del cambiamento spiegherebbero il successo di Aung San Suu Kyi e della sua National League alle elezioni dell’8 novembre.

Una vittoria schiacciante per la Nld

I risultati vanno oltre il “landslide”, la valanga di voti, ottenuta nel 2015. La Nld ha conquistato l’83,2% dei voti di 37 milioni di votanti, aggiudicandosi 396 seggi su 476 nelle due Hluttaw (le camere). L’Usdp, lo Union Solidarity and Development Party, avatar civile di Tatmadaw, le forze armate, ha ottenuto solo il 6,9% dei voti: una “umiliante disfatta”, è la ricorrente definizione, che rischia di essere pagata a carissimo prezzo dai suoi leader. I militari conservano il 25% dei seggi in parlamento, come previsto dalla costituzione creata su misura nel 2008 che assicura loro l’effettivo mantenimento del potere, ma grazie a questo risultato la Nld può formare il nuovo governo e “nominare” il prossimo presidente.

«Un risultato comunque inatteso che dimostra che il popolo la ama e la segue. Rispetto alle precedenti elezioni, queste le conferiscono un vero mandato per il cambiamento. E sono la prova di discontinuità con il passato», commenta un diplomatico, uno di quelli che hanno cercato di far comprendere quanto la realtà locale fosse lontana dall’opinione pubblica occidentale.

«Secondo me ha vinto perché l’hanno vista all’Aja. Lei non ha difeso i militari, ha difeso la nazione» spiega un missionario che percorre le vie meno battute della Birmania, riferendosi all’intervento di Aung San Suu Kyi alla Corte Internazionale dell’Aia per opporsi alle accuse di genocidio nei confronti dei rohingya, l’ormai tragicamente famosa etnia musulmana. «Se la prima volta era entusiasmo, questa volta la vittoria è pensata. Lei rappresenta l’unità. E sono stati proprio i rohingya che hanno unito la nazione».

Burma: “hermit kingdom”

Bisogna ancora affidarsi a “voci” di personaggi che per lunga abitudine preferiscono restare anonimi, per sapere che cosa accade “inside Burma”, all’interno della Birmania, come si diceva sino a dieci anni fa. Allora il paese era un “hermit kingdom”, una nazione, come la Corea del Nord (che ne era uno dei maggiori sostenitori) autoisolata, metaforicamente e fisicamente, dal resto del mondo per proteggere un ordine autocratico. Allora la stessa denominazione del paese, Birmania versus Myanmar, era segno di una presa di posizione, dissidente nel primo caso, ufficiale o “collaborazionista” nel secondo. Allora le voci che arrivavano a noi erano messaggi trasmessi da dissidenti, reporter più o meno in incognito, informatori. E per trasmetterli era necessario un programma per bypassare i blocchi del governo.

Oggi il Myanmar (ormai il termine è divenuto politicamente accettabile, intercambiabile con Birmania) è nuovamente chiuso. Ma ora è per proteggersi da una pandemia che qui potrebbe avere conseguenze inimmaginabili. Se il Myanmar è sfuggito alla prima ondata, con 800 contagi alla fine di agosto, la seconda si è rivelata brutale, con oltre 85.000 casi e 1800 morti a fine novembre. Le notizie, tuttavia, continuano ad arrivare: via mail, consultando siti locali, tramite telefonate, Messenger, WhatsApp, Facebook. In alcuni casi le “voci” si confondono, sovrappongono, appaiono fake, raccontano oscuri complotti, citano altre voci o esprimono analisi geopolitiche.

Le Covid-elections

Tutte quelle voci, nel mattino italiano dell’8 novembre, quando le urne stavano per chiudersi in Birmania, parlavano di lunghissime code ai seggi aperti alle 6 locali, di «banchetti di cibo allestiti dai militari di fronte ai seggi, ma che la gente non mangiava», oppure dell’organizzazione dei seggi «dove erano fornite gratis mascherine N-95 e gel igienizzanti».

Le “Covid elections”, come definite da molti osservatori, hanno “dominato la psiche locale” per oltre un mese, dal giorno in cui Suu Kyi ha affermato che le elezioni «erano più importanti del Covid». Secondo i suoi oppositori, lo ha fatto per sfruttare la visibilità ottenuta con la gestione dell’emergenza. Ma è più probabile che l’abbia fatto perché i militari chiedevano un rinvio, in seguito a cui avrebbero potuto dichiarare lo stato d’emergenza – previsto dalla costituzione del 2008 – quindi sciogliere il parlamento e reclamare il potere in nome della salvezza nazionale.

In questa situazione le elezioni di domenica 8 novembre, si possono rivelare le più critiche e decisive per il futuro del paese proprio perché Aung San Suu Kyi ha ormai maturato quella Realpolitik che invece le ha fatto perdere il consenso dell’Occidente.

Un modello di normalizzazione

È una storia che comincia con le elezioni del 1990, le prime dopo quasi trent’anni di dittatura. Anche allora vinse la Nld, ma furono annullate dai militari anche per una forma d’ingenuità da parte di Aung San Suu Kyi e del suo partito, che aveva proposto un processo contro gli stessi generali. Da allora nemmeno il Nobel per la pace conferitole nel 1991 riuscì a proteggerla dagli arresti e dagli attentati.

«La Signora ha vissuto all’estero sino al 1988. Non conosceva il suo paese, non aveva esperienza politica» dice una delle “voci” che commentano le elezioni da Yangon. «Adesso sembra accettare il compromesso. Si metterà d’accordo con i giovani militari perché anche i militari non sono quelli di un tempo. Vogliono essere considerati un esercito di professionisti».

Con più sottigliezza politica (frutto di una lunga militanza nella sinistra democratica) è la stessa opinione della senatrice Albertina Soliani, Presidente dell’Associazione Amicizia Italia-Birmania e amica personale di Aung San Suu Kyi. «C’è bisogno di normalizzazione. Anche lei pensa a una nuova generazione di militari. Che si distacchino dalla politica in cambio di una legittimazione».

La storia si evolve con le prime elezioni semilibere del 2010, quando la Birmania sembra avviarsi sulla “road map” verso la democrazia. Anzi: “una democrazia fiorente nella disciplina”, come in molti paesi asiatici. Allora la National League di Aung San Suu Kyi, ancora icona di democrazia, rifiutò di partecipare. Nel 2015, invece, le elezioni furono vinte dalla Nld in un vero e proprio plebiscito. Il Myanmar apparve come una sorta di “modello” per tutto il Sud-est asiatico: un compromesso storico tra un partito democratico e popolare, i militari e le rappresentanze della miriade di etnie che si contendono larghe aree del paese.

L’Affair Rohingya

La crisi di questo modello è stata innescata proprio dal problema etnico, sommato alla questione rohingya. La crisi è stata esacerbata dall’atteggiamento dell’Occidente che ha giudicato e condannato “in remoto” (forse influenzata da lobby finanziarie islamiche) arrivando ad annunciare sanzioni che avrebbero effetti devastanti in un paese dove le milizie etniche sono veri e propri eserciti (come dimostra lo stesso Arakan Army, che si oppone al governo e condanna Aung San Suu Kyi giudicata “complice” dei rohingya). Non è un caso che l’Ashin (il Maestro) Wirathu, monaco ultranazionalista definito “il volto del terrore buddhista”, latitante da 18 mesi in quanto “fomentatore d’odio”, si sia costituito a pochi giorni dalle elezioni. Per sua ammissione, così poteva «chiamare il popolo a votare contro Aung San Suu Kyi e il ‘demone’ della National League for Democracy». Per alcuni dei suoi seguaci, Wirathu è un weikza, un mago. In questo caso però si è scontrato con una figura più forte, Amay Suu, Madre Suu, che incarna quello che è stato definito il “culto dell’eroe” diffuso in Birmania (e in tutta l’Asia, del resto, secondo gli studi di mitologia e religione comparata di Joseph Campbell).

Centinaia di rohingya passano il confine con il Bangladesh

Riconciliazione nazionale: un processo schizofrenico

I birmani, evidentemente, credono che la Signora sia la sola ad avere l’autorità politica e morale per evitare che il paese torni a essere una dittatura, realizzare la riforma costituzionale e sviluppare un’economia equa e solidale in un paese dove il 24% della popolazione vive sotto il livello di povertà. Obiettivi che dipendono da un processo di riconciliazione nazionale che procede in modo schizofrenico. È accaduto anche in queste elezioni, cancellate in molti distretti controllati da milizie etniche (negli stati Rakhine, Shan e Kachin). La decisione è stata presa per “ragioni di sicurezza” giustificate sia dagli scontri tra Tatmadaw e milizie, sia dagli appelli alla violenza di estremisti come Wirathu, e apparentemente ha ottenuto il solo risultato d’inasprire le tensioni. A differenza di quanto accaduto nel 2015, però, quando il governo eletto aveva peccato d’arroganza pensando che fosse sufficiente il sostegno della maggioranza d’etnia bamar, questa volta il portavoce della Nld ha immediatamente dichiarato la volontà di formare un governo d’unità nazionale con i partiti etnici.

A contestare il risultato delle elezioni è rimasto solo l’ex generale Than Htay, segretario dell’Usdp, che ha denunciato brogli d’ogni genere e, seguendo l’esempio di Trump, ha richiesto nuove elezioni. Peccato sia stato subito sconfessato dagli stessi militari, in particolare dal Comandante in Capo di Tatmadaw, il generale Min Aung Hlaing che ha dichiarato di accettare l’esito delle urne. A nulla è valso il supporto del segretario di stato americano Mike Pompeo, che è sembrato voler accomunare nell’ingiustizia Trump e Than Htay, senza rendersi conto di quanto potesse apparire grottesco.

Sia pure con motivazioni diverse, la vittoria della Nld appare malaccetta in gran parte dell’Occidente, dove sembra ci sia un rifiuto concettuale di ciò che hanno affermato tutte le nostre “voci” birmane: Aung San Suu Kyi è amata e gode della fiducia del suo popolo. Analisti e osservatori occidentali non cercano risposte bensì conferme alle loro opinioni. Nella maggior parte degli articoli sulle elezioni birmane la parola rohingya appare sin dalle prime righe, condizionando le analisi, piegandole alla tesi secondo cui l’utopia birmana incarnata da Aung San Suu Kyi sia mutata nell’ennesima manifestazione di dittatura.

Miscuglio febbrile

Sfugge così la complessità della situazione. «La Birmania somiglia a parti dell’Europa e del Nord America nel XIX secolo: un miscuglio febbrile di nuove libertà e nuovi nazionalismi, capitalismo sfrenato, nuove ricchezze e nuova povertà, città e baraccopoli che spuntano come funghi, governi eletti, popoli esclusi e violente guerre di frontiera; uno specchio del passato, turbo-esasperato da Facebook e dalla vicina potenza ad alta industrializzazione, la Cina» scrive Thant Myint-U nel saggio L’altra storia della Birmania. Myint-U è lui stesso un “miscuglio”: storico, ex funzionario dell’Onu, nipote di quel Maha Thray Sithu U Thant che tra il 1961 e il 1971 fu segretario generale delle Nazioni Unite, nel 2011 ha iniziato a collaborare col governo come consigliere del presidente Thein Sein, ex generale che è il vero artefice della transizione verso la semidemocrazia. Nei suoi libri la Birmania è una metafora della geopolitica asiatica. È “L’occhio del Budda”, a indicare l’importanza strategica della Birmania nello scenario della regione che era definita Indocina, punto di unione e collisione delle grandi civiltà asiatiche.

Accordi e disaccordi: rotte e trattati

Oggi unione e collisione sono tra Cina e Stati Uniti. Anzi, tra Asia e Occidente. Negli ultimi anni i fronti sono divenuti ancor più fluidi: Occidente significa Stati Uniti e Unione Europea, Asia vuol dire Cina, India, Asean (l’associazione delle nazioni del Sudest asiatico) e Asia orientale (Giappone e Corea).

Il Myanmar firma il Regional Comprehensive Economic Partnership

«Entrambe le parti, Nld e militari, seguono una linea di bilanciamento fra le grandi potenze secondo la politica sancita con la conferenza di Bandung», afferma una delle “voci” di Yangon riferendosi alla conferenza del 1955 che segnò l’affermazione del movimento dei non-allineati. Ma nella geopolitica contemporanea appare sempre più difficile – specie per paesi come il Myanmar – sfuggire all’orbita della megastrategia cinese. Se ne è avuta rappresentazione una settimana dopo il voto, il 15 novembre, quando è stato siglato il Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) l’accordo economico-commerciale tra i 10 paesi dell’Asean plus Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. Il Rcep, oltre a creare il blocco commerciale e d’investimento più grande al mondo, si integra nei progetti della Belt Road Iniziative (Bri), le nuove vie della seta, e segna lo spostamento dell’Asean nella sfera d’influenza di Pechino. È un movimento di dimensione tettonica provocato anche dalla politica estera statunitense. Il presidente Trump, per marcare il distacco dal “pivot to Asia” di Obama, che affermava il ruolo strategico dell’Asia extracinese, e ribadire il suo “America First”, nel 2017 si è ritirato dalla Trans-Pacific Partnership, l’accordo di libero scambio tra gli Usa, il Canada e altri 10 paesi del Pacifico che sino ad allora si era rivelato il maggior ostacolo al progetto della Rcep. Ironia della sorte: il 17 novembre il presidente Xi Jinping ha annunciato la disponibilità ad aderire alla Tpp.

India: la grande esclusa

Oltre all’America, altro grande assente dal Rcep è l’India, preoccupata dallo strapotere cinese. Per questo, almeno in apparenza, affianca gli Stati Uniti nella strategia per «un Indo-Pacifico libero, aperto e inclusivo». In realtà è probabile che l’India, con Giappone e Corea del Sud, cerchi di bypassare i progetti cinesi di collegare Oceano Indiano e Pacifico Occidentale. Progetti che hanno il loro centro nell’occhio del Buddha, il porto birmano di Kyaukphyu, terminale che collegherebbe la baia del Bengala con la provincia dello Yunnan e da là, seguendo uno dei corridoi delle vie della seta, con il Mar della Cina Orientale. Non a caso l’India si è rivelata ben più proattiva dell’America, “regalando” al Myanmar un sottomarino. «I militari adorano questi giocattoli e non amano troppo la dipendenza dalla Cina» aggiunge la “voce” da Yangon appassionata di questo risiko.

«Dopo le elezioni dovrebbe aprirsi una nuova stagione di partnership», dice la Soliani. Ma si riferisce a quelle americane. La senatrice, infatti, afferma che il presidente eletto Joe Biden avrebbe stabilito un rapporto personale con Aung San Suu Kyi sin dal 2016, quando era vicepresidente e incontrò la Signora a Washington, un anno dopo la visita di Obama a Yangon. Secondo la Soliani, inoltre, Suu Kyi e la nuova vicepresidente Kamala Harris sono accomunate dall’influenza del pensiero di Gandhi.

Il piano di rilancio economico

Biden ha già manifestato attenzione verso l’Asean e annunciato un piano di commercio internazionale che potrebbe contrastare la Rcep, ma sembra difficile che in Birmania se ne possano avvertire le conseguenze nel breve termine. Più probabile che la combinazione di un presidente americano attento al Sudest asiatico e l’eclatante vittoria della Nld possano invertire la tendenza di Stati Uniti e Unione Europea nei confronti di una nazione criminalizzata ma che invece esprime un percorso democratico più avanzato rispetto a molti paesi dell’area. È anche grazie al rafforzamento della Nld, inoltre, che il governo del Myanmar sta per lanciare un ambizioso piano di riforme economiche, il Myanmar Economic Resilience and Reform Plan (Merrp).

La Birmania come Singapore?

«Tutti sognano Singapore. Aung San Suu Kyi potrebbe essere come Lee Kuan Yew», dice un vecchio amico di Yangon che dimostra una fiducia totale nella Signora, tanto da paragonarla al demiurgo della città-stato. E per sottolineare quanto la Birmania stia mutando su quel modello fa un’osservazione bizzarra ma significativa riferendosi alle chiazze gialle delle cicche di betel (impasto euforizzante di noce d’areca, foglie di betel e calce) che disseminavano le strade di Yangon e di tutta la Birmania. «Per terra non c’è uno sputo di betel».

L'articolo “L’occhio del Buddha” e la Realpolitik di Aung San Suu Kyi proviene da OGzero.

]]>
Geopolitica della siccità: chi ha ucciso il Mekong? https://ogzero.org/la-minaccia-della-siccita-chi-ha-ucciso-il-mekong/ Sun, 29 Nov 2020 19:04:58 +0000 http://ogzero.org/?p=1889 La “madre delle acque” Per il secondo anno consecutivo, la siccità sta divorando il bacino del Mekong. Le piogge monsoniche, che investono il Sudest asiatico tra maggio e agosto, sono state esigue. In ottobre, quando il fiume dovrebbe essere in piena, il livello dell’acqua era invece appena un terzo del normale. Lo stesso era successo […]

L'articolo Geopolitica della siccità: chi ha ucciso il Mekong? proviene da OGzero.

]]>
La “madre delle acque”

Per il secondo anno consecutivo, la siccità sta divorando il bacino del Mekong. Le piogge monsoniche, che investono il Sudest asiatico tra maggio e agosto, sono state esigue. In ottobre, quando il fiume dovrebbe essere in piena, il livello dell’acqua era invece appena un terzo del normale. Lo stesso era successo nel 2019. La Mekong River Commission, organismo intergovernativo che rappresenta i quattro paesi del basso bacino fluviale (Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam), parla di “siccità estrema”. La pesca e l’agricoltura da cui dipendono milioni di persone sono in crisi. E mentre la regione indocinese comincia a contare i danni, economici quanto ecologici, un istituto statunitense che usa immagini satellitari per monitorare i cambiamenti climatici accusa la Cina: avrebbe trattenuto preziosa acqua nei reservoir formati dalle sue undici dighe sull’alto corso del fiume, provocando il disastro a valle. Pechino respinge l’accusa. Ancora una volta, il Mekong si rivela un caso paradigmatico delle tensioni politico-diplomatiche, ambientali e sociali della convivenza lungo un grande fiume dall’ecosistema fragile e dalla storia tormentata.

dighe sul Mekong

Dighe già operative, in costruzione o in fase di progetto sul corso del Mekong

Le parti in causa sono sei paesi. Il Mekong infatti nasce sull’altopiano tibetano, oltre i 4500 metri d’altezza, e scorre per 4900 chilometri fino al Mar Cinese meridionale. La prima metà del suo percorso è in Cina, attraversa la provincia dello Yunnan tra gole spettacolari dove perde circa il 90 per cento del suo dislivello totale: questo è il “bacino dell’Alto Mekong”. Poi entra in Laos nella regione detta “triangolo d’oro”, segna il confine tra Laos e Myanmar e più a valle tra Laos e Thailandia; attraversa la Cambogia e infine forma un grande delta nel Vietnam meridionale: e questo è il “bacino del Basso Mekong”. La distinzione riflette la geografia, ma ancora di più la storia e la geopolitica della regione. A cominciare dal nome: in Cina è il Lancang Jang (“fiume turbolento”), nel resto del mondo è noto con il nome derivato dalla lingua thai, Mae Nam Khong, “madre delle acque”.

Il fiume che “respira”

La Mekong River Commission (Mrc) annuncia quest’anno una situazione ancora più grave che nel 2019.

I segni del disastro sono visibili nel delta, dove la portata d’acqua è così scarsa che i dodici bracci del fiume sono ridotti a rigagnoli e l’acqua salina del Mar Cinese meridionale sta penetrando sempre più all’interno. Più a monte, in Laos, dove il corso del Mekong è disseminato di scogli e rapide, l’inverno scorso il fiume era ridotto a pozze isolate tra ampi tratti in secca: questo inverno ci si aspetta la stessa scena.

Il segno più tangibile del disastro è che quest’anno il Tonle Sap (“grande lago”) non si è riempito. La particolarità del Mekong infatti è che la sua corrente cambia secondo le stagioni. Tra maggio e l’estate, alimentato dallo scioglimento dei ghiacci himalayani e dalle piogge monsoniche, il fiume si gonfia, la corrente è turbolenta e la piena allaga le zone pianeggianti ricoprendole di limo. Poco prima di raggiungere la capitale cambogiana Phnom Penh però la corrente cambia direzione e l’acqua risale un affluente laterale, il Tonle Sap, fino all’omonimo lago. Tra agosto e novembre questo cresce fino a cinque volte per superficie e volume d’acqua; poi si stabilizza e nell’inverno l’acqua riprende a scorrere verso il Mekong e il suo delta. Come se il fiume respirasse, e il Tonle Sap fosse il suo cuore.

Tonle Sap

Villaggio galleggiante sul lago Tonle Sap, sempre più secco, in Cambogia

Da questo “respiro” dipende il ciclo della vita fluviale, e in primo luogo la pesca. Gran parte dei pesci del Mekong sono specie migratorie, che risalgono la corrente nella stagione secca per riprodursi tra gli scogli a monte, per poi scendere con la piena a ingrassare nel Tonle Sap.  Secondo la Fao il basso bacino del Mekong è la più produttiva regione di pesca d’acqua dolce al mondo, con circa il 15 per cento del pescato mondiale (secondo altre fonti arriva al 20 o al 25 per cento del totale); tra pesca e acquacoltura, si stima una produzione annua di circa 4,5 milioni di tonnellate di pesce e altri organismi acquatici. Questo non include del tutto la pesca artigianale, a cui è legata la sussistenza di milioni di persone. Pesce e organismi acquatici sono la principale fonte di proteine animali per gli abitanti della regione (tra 40 e 60 per cento in media, fino all’80 per cento per la popolazione rurale e più povera). Nel Tonle Sap, le circa 500.000 tonnellate di pesce pescate nelle annate normali sono una parte consistente dell’economia locale. In queste settimane però le cronache raccontano di reti vuote, pescatori disperati, interi villaggi rurali sul lastrico. Anche l’agricoltura stagionale è in crisi: di solito, quando la piena si ritira, milioni di abitanti rivieraschi  coltivano orti e risaie sulle terre concimate dal limo, che quest’anno non è arrivato. E il livello del fiume è così basso che le pompe per l’irrigazione dei campi non arrivano a pescare acqua.

Bisogna pensare che circa 60 milioni di persone abitano il basso bacino del Mekong, di cui circa la metà vive entro 15 chilometri dal fiume e ne dipende direttamente. In altre parole, la siccità  minaccia l’economia e la sicurezza alimentare di milioni di persone, e in particolare della popolazione rurale.

Il clima e le dighe

La causa di tutto questo, afferma la Mekong River Commission, sono piogge monsoniche arrivate tardi e troppo scarse, conseguenza del fenomeno meteorologico detto “El Niño”.

Ma se le condizioni climatiche non fossero l’unica causa della crisi? Se il Mekong fosse in secca perché l’acqua viene trattenuta dalle dighe costruite nell’alto corso fluviale, cioè in Cina?

È proprio questa l’accusa lanciata da un istituto di ricerca statunitense, Eyes on Earth, in uno studio pubblicato nell’aprile di quest’anno e condotto insieme a un altro centro specializzato, il Global Environmental Satellite Applications. Sulla base di accurate osservazioni satellitari, lo studio conclude che nei sei mesi centrali del 2019, mentre il basso bacino del Mekong era a corto di piogge, nella parte alta del fiume le precipitazioni erano abbondanti e nel Lancang è affluita una quantità d’acqua superiore alla norma: ma è rimasta quasi tutta a monte, nei reservoir costituiti dalle dighe, e non è defluita a valle. L’accusa è precisa: «Le dighe sul tratto cinese hanno  trattenuto una quantità d’acqua senza precedenti», ha scritto Brian Eyler, direttore del Programma per il Sudest asiatico del Stimson Center (un’altra istituzione di ricerca statunitense), che ha ripreso quello studio in un articolo su “Foreign Policy”. Lo studio americano afferma inoltre che già da alcuni anni la Cina trattiene quantità crescenti d’acqua, cosa che già in passato ha creato condizioni di siccità a valle. Sostiene poi che la gestione delle dighe a monte, con improvvisi rilasci d’acqua, spiega anche le strane ondate di piena viste in passato nella stagione secca, che hanno provocato inondazioni lungo la frontiera laotiano-thailandese.

Toni da guerra fredda tra Cina e Usa

Lo studio qui citato ha monitorato la situazione nel decennio dal 2010 al 2019, con una metodologia che ha passato il vaglio di una peer-review (cioè la revisione di idrologi e climatologi, che hanno trovato convincenti le conclusioni). Eye on Earth è un’istituzione privata, ma lo studio è stato sostenuto dalla Lower Mekong Initiative, una “partnership multinazionale” avviata dagli Stati uniti con Cambogia, Laos, Myanmar, Thailandia e Vietnam, come si legge sul sito Mekongwater.org (fondato dal Dipartimento di stato Usa).

Così non stupisce che Pechino abbia risposto, più o meno con gli stessi strumenti. In luglio un gruppo di istituzioni accademiche coordinate dalla Tsinghua University, la più prestigiosa università statale cinese, ha pubblicato uno studio secondo cui le dighe sul Lancang hanno un effetto positivo nell’alleviare la siccità. «L’ultimo studio di ricercatori cinesi confuta i nessi causali e le sprezzanti accuse di alcuni media statunitensi», osserva il “Global Times”, media cinese in lingua inglese (Gli autori dello studio americano hanno poi ribattuto con un commento sul “Bangkok Post”, principale quotidiano thailandese in inglese).

I toni da guerra fredda sono evidenti. Ciò non toglie che i dati raccolti da Eye on Earth sembrano dare conferma a sospetti annosi.

Infatti è da quando la Cina ha cominciato a pianificare una serie di sbarramenti tra le gole del Lancang-Mekong, fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, che il malumore dei paesi a valle è andato crescendo. Anche perché Pechino non ha condiviso molto dei suoi progetti. La diga di Man Wan, la prima, costruita senza consultare i vicini, è entrata in attività nel 1996 (fornisce energia elettrica alla regione industriale di Kunming, capitale dello Yunnan). Poi la costruzione si è intensificata; oggi le dighe sono undici, e altre sono in progetto. Il governo della Repubblica popolare cinese le chiama la “cascata di dighe”. La più imponente oggi è quella di Nouzhadu, entrata in attività tra il 2012 e il 2014. (Secondo l’analisi di Eye on Earth è proprio da allora che il volume d’acqua trattenuto in territorio cinese è aumentato drasticamente).

Si capisce il nervosismo dei paesi a valle: con le sue dighe, la Cina può controllare il flusso d’acqua che raggiunge il basso Mekong. Senza contare che le dighe trattengono una buona parte dei sedimenti indispensabili all’agricoltura, come sottolinea un’organizzazione non governativa come International Rivers, che lavora per la difesa degli ecosistemi fluviali.

Mekong River Commission, ma senza la Cina

Del resto la Cina (insieme a Myanmar) non ha mai voluto aderire alla Mekong River Commission, nata nel 1995, prima e tuttora unica organizzazione stabile di cooperazione regionale nella regione indocinese (il peso dei conflitti indocinesi nell’ultima metà del Novecento è evidente). La Cina è riluttante perfino a condividere le osservazioni delle sue centrali di monitoraggio fluviale, cosa che fa solo in parte. Nel 2016 ha invece fondato il “suo” organismo parallelo, chiamato Lancang-Mekong Cooperation Framework, con Laos, Thailandia, Myanmar, Cambogia e Vietnam, per promuovere la cooperazione tecnica – in un organismo però in cui è dominante, accusano i critici.

La Cina è un vicino ingombrante, ma anche i paesi del basso Mekong si sono lanciati a costruire dighe. In particolare il Laos, povero e stretto tra vicini più potenti, ha fatto della produzione idroelettrica l’elemento portante della sua strategia di sviluppo, e dalla metà degli anni Novanta ha costruito una decina di impianti sugli affluenti del Mekong per esportare energia.

In questa strategia ci sono due momenti chiave. Uno è nei primi anni Duemila quando la Banca Asiatica di Sviluppo ha lanciato un programma regionale di infrastrutture per la “Greater Mekong Subregion”, che include tutti i sei paesi rivieraschi. Al centro del progetto ci sono corridoi stradali e una rete di trasmissione di energia elettrica, oltre a progetti di sviluppo del commercio e del turismo. Tutto alimentato da investimenti propiziati dalla Banca Asiatica di Sviluppo e in parte la Banca Mondiale. In altre parole, la prima sede di “integrazione regionale” non è stato un organismo di cooperazione intergovernativo, ma un programma di investimenti gestito da organismi finanziari internazionali. Inutile dire che una parte considerevole degli investimenti diretti in Laos e Cambogia (le due economie più deboli della regione) sono di fonte cinese, oltre che thailandese e vietnamita.

L’altro momento chiave, per motivi diversi, è stato il 2006, quando i governi di Laos, Cambogia e Thailandia hanno autorizzato i primi studi di fattibilità per costruire dighe sul basso Mekong: non più gli affluenti, ma il fiume principale. La cosa ha suscitato grandi controversie; non solo organizzazioni ambientaliste ma perfino l’intergovernativa e prudente Mekong River Commission ha pubblicato studi estremamente allarmati: sbarrare il fiume avrebbe creato danni irreversibili all’intera vita fluviale, interrotto le vie di migrazione dei pesci e il ciclo delle inondazioni. Un impatto mortale per il fiume, come argomenta la più recente analisi di International Rivers che riprende studi della Mekong Rivers Commission.

Nonostante tutto, il Laos ha costruito la prima diga sul Mekong nella parte centro-settentrionale  del paese (diga di Xayaburi) e un’altra al confine con la Cambogia presso le Siphandone – un punto dove il Mekong forma diversi canali per aggirare una miriade di piccole isole, formando salti e rapide spettacolari (da cui il nome: si-phan-don significa “mille isole” in lingua lao). Altre dighe sul Mekong sono in progetto; almeno tre progetti sono nella fase delle “consultazioni” presso la Mrc. Inutile dire che in queste imprese si sono riscontrati forti investimenti cinesi, oltre che di aziende thailandesi, sudcoreane, e altre.

La diga di Xayaburi in Laos

Nel frattempo il governo laotiano ha messo a tacere le conseguenze del disastro avvenuto due anni fa con il crollo di una diga nel sud del paese (la diga Xe-Pian Xe-Namnoy, di costruzione sudcoreana): 70 persone sono morte o disperse e 7000 sono sfollate, ma le richieste di giustizia sono rimaste vane. Del resto, la sorte degli sfollati di tante dighe non è mai stata all’ordine del giorno, per i governi della regione. Uniche buone notizie, per il fiume: la Cambogia ha annunciato di aver sospeso fino al 2030 ogni progetto di nuove dighe sul suo tratto del Mekong, perché il fabbisogno energetico è ampiamente coperto. Mentre la Thailandia ha sospeso il progetto di dinamitare le rapide del fiume a nord per renderlo navigabile.

È una piccola tregua per la “madre delle acque”. Perché a lavorare per ucciderla sono in molti.

L'articolo Geopolitica della siccità: chi ha ucciso il Mekong? proviene da OGzero.

]]>
Bangkok: la reazione alla vittoria della piazza https://ogzero.org/bangkok-la-reazione-alla-vittoria-della-piazza/ Thu, 15 Oct 2020 17:35:04 +0000 http://ogzero.org/?p=1521 Un nuovo aggiornamento proviene dal Movimento di nuovo sceso in piazza in forze il 2 dicembre 2020, in occasione della sentenza della Corte costituzionale thailandese . [OGzero] Interpellato anche stavolta Emanuele Giordana lascia trapelare ammirazione per la fresca efficacia del Movimento che da febbraio supera difficoltà da pandemia e si fa gioco della polizia di Bangkok, […]

L'articolo Bangkok: la reazione alla vittoria della piazza proviene da OGzero.

]]>
Un nuovo aggiornamento proviene dal Movimento di nuovo sceso in piazza in forze il 2 dicembre 2020, in occasione della sentenza della Corte costituzionale thailandese . [OGzero]

Interpellato anche stavolta Emanuele Giordana lascia trapelare ammirazione per la fresca efficacia del Movimento che da febbraio supera difficoltà da pandemia e si fa gioco della polizia di Bangkok, manifestando gioiosamente e inventando strumenti utili alla difesa ma anche validi gadget sfruttati efficacemente sui social e predisposti all’adozione da parte dei media globali, confermando una proposta innovativa di proporre movimenti di protesta innanzitutto comunicativi.
Qui si trovano i 4 podcast dell’analisi di Emanuele: il primo risale all’8 ottobre, gli altri tre sono stati registrati il 2 dicembre, anche questi provengono dalle mattinate info di radio blackout

Ascolta “10 richieste per il cambiamento” su Spreaker.

Dopo la proclamazione l’8 ottobre dello stato di emergenza, la polizia ha sciolto la manifestazione accampatasi attorno al palazzo presidenziale da ieri pomeriggio quando un vasto corteo di migliaia di thailandesi ha marciato dal monumento alla democrazia nel centro di Bangkok fino alla sede dell’esecutivo chiedendo la testa del premier e una revisione della Costituzione. La polizia, che ha schierato 2000 agenti per evitare nuovi assembramenti, ha arrestato diversi manifestanti tra cui Panusaya “Rung” Sithijirawattanakul, Arnon Numpha, Parit Chiwarak and Prasit Krutharote, i volti più noti della protesta. Il decreto, firmato dal Premier Prayut, vieta riunioni pubbliche di oltre 5 persone e vieta la pubblicazione di “messaggi illegali” sui social media. La svolta di questa mattina è la risposta alla giornata di mercoledì che si è dimostrata un successo per gli organizzatori di una protesta che va avanti ormai da mesi e che, per la prima volta nella storia recente del regno siamese, mette sotto accusa anche la casa reale che la Costituzione privilegia del diritto di punire duramente la lesa maestà.

Migliaia in corteo contro Governo e privilegi

La manifestazione, che era prevista ieri alle 2 del pomeriggio di mercoledì è in realtà iniziata in anticipo, alle 8, per protestare contro l’arresto la sera prima di alcuni attivisti che si aggiravano attorno alla piazza centrale dove campeggia il monumento alla democrazia, divenuto ormai simbolo della protesta e che ieri si è riempito nuovamente di migliaia di manifestanti con l’idea di marciare sul palazzo del Governo per chiedere conto delle richieste popolari finora non esaudite (il dibattito sulla Costituzione è stato rinviato).

Quando il corteo si è mosso si è trovato di fronte le “camicie gialle”, gruppi di lealisti fedelissimi della corona che avevano organizzato – molte bandiere ma poca gente – una contro manifestazione. La polizia è intervenuta per evitare incidenti ma qualche calcio e pugno è volato. Non è stata l’unica sorpresa. Re e consorte hanno pensato bene di attraversare l’area interessata dal corteo forse per ribadire il diritto del monarca a fare le strade che più gli aggradano. Una provocazione, non è chiaro quanto studiata, ma a cui i manifestanti hanno reagito solo salutando il corteo reale con le tre dita alzate, il simbolo della protesta. Intanto la polizia bloccava gli accessi alla strada che porta verso il palazzo del Governo dove il corteo avrebbe voluto dirigersi.

Sovrani tailandesi di passaggio a Bangkok

Una vittoria della piazza

Passato il re ed esauritosi il confronto con le camice gialle (portate dalla polizia, secondo i manifestanti, lungo il tragitto che avrebbe percorso il re), il corteo è comunque riuscito a dirigersi verso il palazzo dell’esecutivo dove ha aspettato il calar delle tenebre e dove si è deciso di rimanere a vegliare gli affari del Governo per tre giorni. La prova di forza dunque è riuscita: il corteo ha avuto luogo e i numeri sono nell’ordine delle decine di migliaia. Anzi, delle centinaia di migliaia, almeno secondo alcuni manifestanti che, riportava ieri il “Bangkok Post”, rivendicano una presenza di 300.000 persone. Una valutazione forse per eccesso. La polizia comunque è rimasta ferma e adesso la palla torna nel campo del governo che, per il momento, ha deciso una repressione leggera in una battaglia che finora vede vincere la piazza.

Intanto, mentre i manifestanti iniziavano a prepararsi per la marcia, martedì sera arrivava a Bangkok il ministro degli Esteri cinese Wang Yi. La scelta del momento ha un risvolto prevalentemente economico ma, data la protesta, anche politico visto che per la Cina Prayut resta il Premier checché ne dica un movimento che assomiglia molto a quello di Hong Kong. Una visita ufficiale adesso equivale dunque a un sostegno al primo ministro con cui Bangkok ha iniziato a uscire, seppur con cautela, dalla sola sfera di influenza americana. I cinesi vogliono rafforzare i loro investimenti al Corridoio economico orientale (Eec), agenzia pubblica nata per incoraggiare gli investimenti, aumentare l’innovazione e la tecnologia avanzata in Thailandia per trasformarla in hub tecnologico. L’anno scorso – ricorda il South China Morning Post – la Cina ha sostituito il Giappone come principale fonte di investimenti esteri con scambi bilaterali che ora valgono quasi 80 miliardi di dollari. La Thailandia spera nei cinesi per superare l’impasse Covid e vendere più prodotti agricoli mentre Pechino spera che Bangkok superi finalmente i dubbi sul collegamento ferroviario ad alta velocità che dallo Yunnan – passando per Laos, Thailandia e Malaysia – arriverà a Singapore. Va anche ricordato che la Thailandia, tradizionale mercato di Washington, ha anche già acquistato carri armati, sottomarini e tecnologia militare cinese.

Le immagini sono fotogrammi tratti da servizi trasmessi su Channel News Asia.

L'articolo Bangkok: la reazione alla vittoria della piazza proviene da OGzero.

]]>
La politica estera europea guarda a Oriente https://ogzero.org/la-politica-estera-europea-guarda-a-oriente/ Wed, 14 Oct 2020 19:58:13 +0000 http://ogzero.org/?p=1516 Quando il presidente cinese Xi Jinping visitò Berlino nel marzo 2014, Angela Merkel lo omaggiò di una ristampa tedesca della mappa realizzata dal cartografo francese Jean-Baptiste Bourguignon d’Anville nel 1735 sulla base del precedente lavoro dei gesuiti francesi che, durante il regno dell’imperatore Kangxi dei Qing (1661-1722), furono incaricati di mappare per la prima volta […]

L'articolo La politica estera europea guarda a Oriente proviene da OGzero.

]]>
Quando il presidente cinese Xi Jinping visitò Berlino nel marzo 2014, Angela Merkel lo omaggiò di una ristampa tedesca della mappa realizzata dal cartografo francese Jean-Baptiste Bourguignon d’Anville nel 1735 sulla base del precedente lavoro dei gesuiti francesi che, durante il regno dell’imperatore Kangxi dei Qing (1661-1722), furono incaricati di mappare per la prima volta con criteri scientifici l’estensione territoriale del Celeste Impero.

Il pennuto di D’Anville senza coda né zampe

A quasi tre secoli di distanza, il valore storico della Carte générale de la Chine Dressée sur les Cartes particulières que l’Empereur Cang-hi a fait lever sur les lieux par les Jésuites missionaires dans cet Empire assume sfumature geopolitiche. Anziché un gallo, la Cina di d’Anville è un pennuto senza coda né zampe: le parti mancanti corrispondono, a nordovest, alle attuali regioni autonome del Xinjiang e del Tibet e, a sudest, al Mar Cinese Meridionale, teatro di schermaglie territoriali tra il gigante asiatico e i vicini rivieraschi. Un colore diverso definisce implicitamente le isole di Taiwan e Hainan come realtà distinte.

Rotte commerciali marittime “libere e sicure”

Durante quello stesso incontro, la cancelliera tedesca, citando il “diritto internazionale”, invitò la Cina «a risolvere le dispute territoriali» nelle «corti multinazionali» al fine di «mantenere le rotte commerciali marittime libere e sicure». Chiaro riferimento alla sentenza con cui nel 2016 il Tribunale internazionale dell’Aja contestò i diritti storici rivendicati da Pechino nel Mar Cinese Meridionale, accogliendo la richiesta delle Filippine.

Gli ammonimenti della Merkel sono stati codificati all’inizio di settembre, quando la Germania ha annunciato ufficialmente le nuove linee guida per la politica estera nell’Indo-Pacifico, concetto inaugurato negli anni Venti proprio da un tedesco – il geografo Karl Ernst Haushofer – ripreso nel 2007 dall’ex premier giapponese Shinzo Abe, e rilanciato dieci anni più tardi dall’amministrazione Trump.

L’Indo-Pacifico è un concetto politico variabile

In termini puramente geografici, per Indo-Pacifico si intende una regione biogeografica oceanica che comprende le zone tropicali e subtropicali dell’oceano Indiano e della parte occidentale dell’oceano Pacifico a est, fino alle Hawaii e all’Isola di Pasqua. Ma la sua interpretazione politica cambia da paese a paese. Per Washington, parlare di Indo-Pacifico serve a ridimensionare il ruolo della Cina e della Belt and Road per dare maggiore centralità agli alleati regionali – Australia, Giappone e soprattutto India – in materia di sicurezza e scambi commerciali, con malcelate finalità protezionistiche. E per Berlino? Sfogliando il corposo fascicolo (quasi settanta pagine), si nota l’intenzione di «rafforzare lo stato di diritto e i diritti umani» ma anche e soprattutto l’impegno a «evitare la dipendenza unilaterale [dalla Cina] diversificando le partnership».

L’Europa volge lo sguardo a Oriente, specialmente la Germania

Riconoscendo il valore economico e geopolitico dell’Indo-Pacifico – dove ha sede il 60% della popolazione e un terzo del commercio mondiale – la Germania sfrutta il riposizionamento nel quadrante per rilanciare il multilateralismo e il libero scambio, invocando un dialogo europeo con la NATO e gli attori regionali: Giappone, Corea del Sud, India (citata ben 57 volte) ma anche l’ASEAN, l’organizzazione politica, economica e culturale che riunisce 10 nazioni del Sudest asiatico. La sigla comprende i principali avversari di Pechino nel Mar Cinese Meridionale: Vietnam, Malaysia, Brunei, Filippine e Indonesia. Come sottolinea l’Associazione Italia-ASEAN, è una visione che la Germania punta a trasmettere a livello comunitario, come traspare dal Trio Program formulato dalla presidenza del Consiglio dell’Unione europea, che Berlino lascerà il 31 dicembre al Portogallo e in seguito alla Slovenia.

Mentre le linee guida tedesche segnano un ritorno della prima economia europea tra le Gestaltungsmächten (le “shaping powers” ) – dopo il ridimensionamento militare cominciato alla fine della Guerra Fredda – e un avanzamento in Asia – dopo le distrazioni russe nell’Europa orientale – la Germania non è l’unico paese del Vecchio Continente ad aver voltato lo sguardo a Oriente. Nel 2019, la Francia ha riconosciuto ufficialmente l’importanza della regione con la pubblicazione di un documento programmatico che ne esalta la centralità economica, il peso demografico e la ricchezza di risorse naturali ed energetiche. Anche Parigi parla di “libero commercio”, “multilateralismo” e di un “ordine multipolare”. Ma la svolta indo-pacifica della Germania ha un valore simbolico inedito trattandosi del primo paese “extra-regionale” ad aver formulato una propria strategia, laddove gli interessi francesi sono sostenuti da una presenza fisica massiva.

Come ricorda il documento fin dalle prime righe alludendo ai possedimenti d’oltremare, «il 93% della zona economica esclusiva (ZEE) [della Francia] si trova nell’Oceano Indiano e nel Pacifico, un’area che ospita 1,5 milioni di cittadini francesi e 8000 soldati». La conferma della sovranità sulla Nuova Caledonia – dove è presente la più importante base militare francese del Pacifico – consolida la presa tentacolare di Parigi nella regione, fugando i timori di quanti temevano che un divorzio dalla madrepatria avrebbe lasciato l’arcipelago ricco di nickel in balia della Cina. Mentre l’Indo-Pacific Defense Startegy auspica a chiare lettere maggiori sinergie con Stati Uniti, Giappone, Australia e India, si moltiplicano i segni di un maggior coordinamento anche sul versante europeo.

Francia e Gran Bretagna nel Mar Cinese Meridionale: l’unione fa la forza

Nell’aprile 2017, la missione francese Jeanne d’Arc ha guidato attraverso il Mar Cinese Meridionale una spedizione composta da 52 membri della Royal Navy britannica, 12 ufficiali di varie nazionalità europee e un funzionario UE.  «Visione e valori condivisi» rendono la Gran Bretagna un partner naturale di Parigi. In futuro lo sarà sempre di più. Secondo gli esperti, la minaccia di un no deal con l’Unione europea spingerà gli interessi di Londra anche più a Est. In fondo, si tratterebbe di resuscitare quanto seminato in cinque secoli di colonialismo britannico. Ma il governo di Boris Johnson non sembra volersi fermare qui. L’avvio di trattative per una possibile adesione alla Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership – l’ex TPP da cui l’America di Trump si è sfilata nel 2017 – ha coinciso con l’emergere di indiscrezioni sulla presunta decisione di inviare, per la prima volta, una delle due portaerei britanniche nella regione. Verosimilmente anche nel Mar Cinese Meridionale. Certo, un maggiore dinamismo economico richiede maggiore stabilità e sicurezza. Ma non giova che l’attivismo militare di Londra giunga proprio mentre Hong Kong e il 5G attentano alla longevità dei rapporti con Pechino. Per contenere lo strappo, le potenze europee paiono aver adottato una vecchia tecnica: in Cina si dice «yī gēn kuàizi róngyì zhé, yī bǎ kuàizi nán zhéduàn». Da noi, semplicemente, «l’unione fa la forza».

Questa non è una Zee

Poco dopo l’annuncio delle linee guida tedesche, nel mese di settembre Germania, Francia e Gran Bretagna hanno rilasciato un comunicato congiunto per denunciare le operazioni dell’Esercito popolare di liberazione nel Mar cinese meridionale. La nota, presentata alle Nazioni Unite, fa eco alle rimostranze di Malaysia, Australia, Indonesia, Vietnam e Filippine, sottolineando «l’importanza di un esercizio senza ostacoli della libertà in alto mare, in particolare la libertà di navigazione e di sorvolo, nonché del diritto di passaggio». Rievocando la sentenza del 2016, i tre paesi hanno anche sottolineato che «i diritti storici – rivendicati da Pechino – non sono conformi al diritto internazionale» e che le isole contese – in quanto artificiali – non generano una zona economica esclusiva, l’area adiacente le acque territoriali, in cui uno stato costiero ha diritti sovrani per la gestione delle risorse naturali, giurisdizione in materia di installazione e uso di strutture artificiali o fisse, ricerca scientifica, protezione e conservazione dell’ambiente marino. Nello specifico, Parigi, Berlino e Londra contestano che le Paracelso costituiscano un arcipelago ai fini della tracciabilità delle cosiddette “linee di base diritte”, metodo utilizzato quando la costa è profondamente incavata e frastagliata per misurare la larghezza del mare territoriale. La questione non è nuova. Nel 2018 il Regno Unito aveva già espresso la propria contrarietà passando entro le 12 miglia nautiche dagli isolotti. Ma è la prima volta che Germania e Francia assumono una posizione chiara a riguardo. Quella dell’Unione europea, invece, continua a esserlo molto meno.

La “neutralità” di Bruxelles…

Come articolato nella EU Global Strategy del 2016, la politica estera di Bruxelles tiene fede a un mix di “pragmatismo” e “Realpolitik con caratteristiche europee”. Una formula che permette al blocco di vendere armi ai paesi ASEAN e, contemporaneamente, rifornire Pechino di “tecnologia dual-use”. Quanto ai contenziosi territoriali, Bruxelles si definisce “neutrale”; invoca la necessità di trovare soluzioni pacifiche all’interno di una cornice normativa condivisa. Si appella alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) – pilastro della EU Maritime Security Strategy – e auspica l’introduzione di un Codice di condotta (Coc) tra le parti. Ma delega ai singoli paesi membri l’onere di «sostenere la libera navigazione» e «combattere le attività illecite». Come per altri dossier, anche nel Mar Cinese Meridionale la mancanza di coesione interna ostacola la formulazione di una risposta concertata, specie quando in gioco ci sono gli interessi economici con il gigante asiatico. Un esempio? La risoluzione UE sull’arbitrato dell’Aja, edulcorata in seguito alle pressioni di Grecia, Ungheria, Slovenia e Croazia. A ciò si aggiunge la necessità di mantenere una delicata equidistanza tra la Cina, primo partner commerciale UE, e gli Stati Uniti, principale alleato militare. Un’impresa sempre più difficile.

… che si avvicina a Taiwan

Ammiccando a Bruxelles, Angela Merkel lo ha detto chiaramente: «la nostra prosperità e la nostra influenza geopolitica degli anni a venire dipenderanno da come collaboreremo con l’Indo-Pacifico». Non solo la regione conta per oltre un terzo degli scambi tra il blocco e i paesi extraeuropei. Davanti a Covid e al rischio di un “decoupling”, questa parte di mondo assumerà anche maggiore rilevanza nell’ottica di una crescente diversificazione della catena di approvvigionamento. In tempi recenti, l’interesse di Bruxelles per il quadrante si è esplicitato in un inedito avvicinamento a Taiwan, l’isola che Pechino considera una “provincia ribelle” da riannettere ai propri territori. Circa una quindicina di nazioni europee – comprese Germania, Francia e Italia – hanno recentemente partecipato per la prima volta a un forum sugli investimenti organizzato dall’European Economic and Trade Office, l’“ambasciata” UE a Taipei. Come auspicato dalla presidente taiwanese Tsai Ing-wen, la nuova piattaforma introduce la possibilità che in futuro il dialogo confluisca nella firma di un trattato bilaterale sugli investimenti all’insegna dell’«apertura, della trasparenza e dell’imparzialità». Tutti qualità per le quali la Cina non eccelle.

L'articolo La politica estera europea guarda a Oriente proviene da OGzero.

]]>
Richieste di cambiamento a Bangkok https://ogzero.org/10-richieste-per-cambiare-a-bangkok/ Mon, 12 Oct 2020 12:04:02 +0000 http://ogzero.org/?p=1488 Sfida all’ultima monarchia assoluta Il 14 ottobre è una giornata importante per il movimento tailandese che da mesi attraversa le piazze di Bangkok e di altre città della Thailandia chiedendo le dimissioni del premier e una riforma costituzionale che riveda la legge elettorale e limiti i poteri della monarchia, una delle più longeve del pianeta. […]

L'articolo Richieste di cambiamento a Bangkok proviene da OGzero.

]]>
Sfida all’ultima monarchia assoluta

Il 14 ottobre è una giornata importante per il movimento tailandese che da mesi attraversa le piazze di Bangkok e di altre città della Thailandia chiedendo le dimissioni del premier e una riforma costituzionale che riveda la legge elettorale e limiti i poteri della monarchia, una delle più longeve del pianeta. Per quella data il movimento degli studenti, che nel tempo ha raccolto consensi anche tra la classe media e tra alcuni membri dell’opposizione in parlamento, si è nuovamente dato appuntamento nella centrale piazza di Bangkok dove campeggia un simbolico monumento alla democrazia per quella che è l’ennesima prova di forza con il governo di Prayut Chan-o.Cha, un ex generale golpista che si è assicurato un nuovo mandato nel 2019 grazie a una maggioranza blindata garantita da un senato non eletto. Ma la prova di forza è anche con il re Rama X, un monarca poco amato dal suo popolo ma protetto da una delle più dure leggi contro chi diffama la casa reale, reato per cui vengono comminate pene severissime.

Ascolta “10 richieste per il cambiamento” su Spreaker.

Milk Tea Alliance: Bangkok come HK e Taiwan

Il movimento, che ha già dei leader consacrati come Parit “Penguin” Chiwarak e la collega Panasaya “Rung” Sitthijirawattanakul (studentessa come lui dell’università Thammasat della capitale), già passati per le maglie di una repressione che per ora li ha però lasciati in libertà, ha la sua fucina proprio alla Thammasat, dove Rung il 10 agosto ha letto un Manifesto in dieci punti in cui, per la prima volta, si faceva esplicito riferimento al re e ai suoi poteri.

Autoidentificatosi come Free Youth Movement, il movimento ha come simboli le tre dita alzate – mediate dal film di fantascienza del 2012 Hunger Games –, il monumento alla democrazia nel centro di Bangkok e una sorta di alleanza regionale (Milk Tea Alliance) con altri movimenti giovanili abbastanza simili: a Taiwan e Hong Kong soprattutto. E la piazza tailandese non sembra aver nulla da invidiare ai colleghi dell’ex colonia britannica: sfidare il re che vive nel palazzo reale di Bangkok non è meno rischioso che sfidare Pechino. La nuova sigla che fa da ombrello alle varie anime del movimento è quella del “People’s Party 2020”, un riferimento al gruppo di militari e civili che rovesciarono la monarchia assoluta nel 1932 e stabilirono un governo parlamentare. Episodio divenuto un altro simbolo della protesta.

 

Trame parlamentari tangenziali al movimento

Proprio la vicenda della contestazione monarchica, speculano gli osservatori locali, farebbe però correre il rischio di un minor consenso alla piazza che mercoledì 14 dovrà dimostrare con i numeri di averne a sufficienza per non farsi schiacciare da una repressione per ora morbida ma che in Thailandia, paese dominato oltreché dalla monarchia dalla casta militare; potrebbe essere molto dura specie se il movimento dovesse sgonfiarsi.

In realtà per ora a tirarsi indietro sarebbero solo le “camice rosse” dell’United Front for Democracy Against Dictatorship, un’organizzazione che fa riferimento al partito Pheu Thai, espressione della famiglia Shinawatra (l’ex premier-tycoon Thaksin, che fu soprannominato il Berlusconi d’Asia, e sua sorella pure lei ex premier Yingluck, entrambi in esilio). I parlamentari del Pheu Thai sarebbero divisi: alcuni vorrebbero appoggiare il movimento (come già hanno fatto uscendo dal parlamento dopo il rinvio del voto sugli emendamenti costituzionali il 24 settembre scorso) ma la de facto nuova leader del partito – Khunying Potjaman (ex moglie di Thaksin Shinawatra) – sarebbe contraria: riapparsa sulla scena nei giorni scorsi mentre scadeva il mandato della leadership del partito, ha pensato bene di farsi veder a una cerimonia reale così da far subito capire da che parte deve andare il Pheu Thai.

Restano ancora i parlamentari del Move Forward Party, erede del Future Forward Party, partito progressista squalificato dopo le elezioni del 2019 dove aveva ottenuto un’ottima affermazione. Proprio i cavilli legali con cui il Ffp fu escluso dall’arena – gli stessi con cui è stato espulso dal parlamento il suo leader, il miliardario progressista e socialdemocratico Thanathorn Juangroongruangkit – erano stati la goccia che aveva fatto traboccare il vaso dando la stura alle proteste che poi sono sempre più cresciute, nonostante le misure anticovid.

10 punti verso lo sciopero generale del 14 ottobre

Da luglio, quando le misure si sono allentate, il movimento ha ripreso fiato arrivando il 10 agosto alla famosa lettura in piazza del Manifesto in dieci punti con cui, oltre a chiedere le dimissioni di Prayut e una nuova Costituzione, il movimento criticava apertamente il ruolo della monarchia, chiedendo la divisione dei suoi beni (tra quelli personali del re e quelli della corona) e un diritto di critica che equivale nel regno a lesa maestà.

C’è da aggiungere che il Pheu Thai – al netto dei calcoli della famiglia Shinawatra che spera sempre in un ritorno di Thaksin e dunque nel perdono del monarca – aveva preso subito le distanze da quell’uscita poco consona alle regole tradizionali anche se poi si era schierato con gli studenti, appoggiando il movimento e dando battaglia in parlamento. Adesso le carte sono tutte sul tavolo e il gioco si fa sempre più impegnativo. E, per il movimento, gravido di rischi. Non certo per l’assenza delle camicie rosse quanto per la presenza di oltre 3000 agenti già schierati nella capitale.

Thailandia in Movimento

Le 10 Richieste

«These demands are not a proposal to topple the monarchy. They are a good-faith proposal made for the monarchy to be able to continue to be esteemed by the people within a democracy»

  1. Revoke Article 6 of the 2017 Constitution that forbids any accusation against the King. And add an article to allow parliament to examine wrongdoing of the King, as was stipulated in the constitution promulgated by the People’s Party.
  2. Revoke Article 112 of the Criminal Code, to allow the people to exercise freedom of expression about the monarchy and amnesty all those prosecuted for criticizing the monarchy.
  3. Revoke the Crown Property Act of 2018 and make a clear division between the assets of the King under the control of the Ministry of Finance and his personal assets.
  4. Reduce the amount of the national budget allocated to the King in line with the economic conditions of the country.
  5. Abolish the Royal Offices. Units with a clear duty, such the Royal Security Command, should be transferred and placed under other agencies. Unnecessary units, such as the Privy Council, should be disbanded.
  6. Cease all giving and receiving of donations by royal charity funds in order for all assets of the monarchy to be open to audit.
  7. Cease the exercise of the royal prerogative over the expression of political opinions in public.
  8. Cease all public relations and education that excessively and one-sidedly glorifies the monarchy.
  9. Investigate the facts about the murders of those who criticized or had some kind of relation with the monarchy.
  10. The king must not endorse any further coups.

L'articolo Richieste di cambiamento a Bangkok proviene da OGzero.

]]>
Catene di isole nella corrente del grande gioco indopacifico https://ogzero.org/studium/catene-di-isole-nella-corrente-del-grande-gioco-indo-pacifico/ Fri, 31 Jul 2020 07:11:27 +0000 http://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=956 L'articolo Catene di isole nella corrente del grande gioco indopacifico proviene da OGzero.

]]>

Catene di isole nella corrente del grande gioco indo-pacifico

La Belt Road Initiative sembrava inarrestabile. Dopo la pandemia e la definitiva cinesizzazione di Hong Kong il progresso di questo imponente flusso di infrastrutture, vie di comunicazione, isole “create” nell’oceano e ferrovie che corrono nel deserto non sembra aver perso impulso nelle intenzioni di Xi. Questo Studium prende però le mosse dall’ipotesi che cominci a incontrare la resistenza di una rete internazionale, intessuta per imbrigliare i traffici di questa sorta di neocolonialismo cinese… innanzitutto costituita da una cortina stesa a partire dalle intasate miglia del Mar cinese fino ai contesi dirupi del Kashmir.

40%

Avanzamento

Attori europei sul palco indo-pacifico

Riconoscendo il valore economico e geopolitico dell’Indo-Pacifico – dove ha sede il 60% della popolazione e un terzo del commercio mondiale – la Germania sfrutta il riposizionamento nel quadrante per rilanciare il multilateralismo e il libero scambio, invocando un dialogo europeo con la NATO e gli attori regionali, non è l’unico paese del Vecchio Continente ad aver voltato lo sguardo a Oriente.

Nel 2019 anche Parigi parla di “libero commercio”, “multilateralismo” e di un “ordine multipolare” nella zona e l’avvio di trattative per una possibile adesione alla partnership per l’ex TPP da cui l’America di Trump si è sfilata nel 2017 – ha coinciso con l’emergere di indiscrezioni sulla presunta decisione di inviare, per la prima volta, una delle due portaerei britanniche nella regione.

Ultimamente, l’interesse di Bruxelles (che si era dichiarata neutrale) per il quadrante si è esplicitato in un inedito avvicinamento a Taiwan.


Il futuro del quadrante indo-pacifico: porti cinesi come in un filo di perle

Si inaspriscono i rapporti tra i colossi economici mondiali che mostrano i muscoli con operazioni di militarizzazione che in realtà vanno al di là delle questioni dei diritti nazionali rivendicati e rispecchiano i rispettivi interessi economici nell’area indo-pacifica. Questo antico Risiko vede contrapposti per esempio Cina e India (sulla Line of Actual Control che fa da confine ad alta quota) con ripercussioni sul vicino Pakistan, una triangolazione che favorisce gli Stati uniti nella sua Guerra Fredda contro Pechino.

E i conflitti non sono solo in terra ma anche sui mari, dove la conquista dei porti in punti strategici da parte della Cina rende più aspri anche i rapporti con i vicini regionali interessati economicamente a quelle aree che intessono così alleanze di comodo e scatenano l’interventismo americano nella regione. Inoltre gli scontri diplomatici (e non) che riguardano Hong Kong si riverberano anche sugli accordi tra la Santa Sede e Pechino che avevano preso, con l’attuale papa, una strada di riavvicinamento con l’Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi, disaccordi che fanno buon gioco a Washington (e all’India di Modi) nel suo tentativo di arginare la potenza cinese.

Emanuele Giordana analizza in questo Punctum come si sviluppa il gioco globale in questa zona del mondo.


Alla conquista del Mar cinese, un pezzo alla volta

I rapporti tra Cina e Stati Uniti sono sempre più tesi, anche a causa della disputa territoriale nel Mar cinese meridionale – area che ospita un terzo del commercio marittimo mondiale –, che vede la Cina accusata di militarizzare la zona, alimentando il contrasto con altre potenze (Brunei, Malesia, Filippine, Taiwan e Vietnam, e anche con l’Australia che nelle isole del Pacifico ha sempre investito e ora sta assumendo una posizione difensiva con un piano decennale da 270 miliardi di dollari per rafforzare i propri sistemi difensivi) che ambiscono al controllo di quelle zone del Pacifico come gli arcipelaghi delle Paracel e delle Spratly o le isole Marshall e le Pratas.

La Cina, dal canto suo, accusa gli Stati uniti di ingerenza in affari regionali che non li riguardano, ingerenza dimostrata dalle sempre più frequenti incursioni in quel quadrante.


Segui tutti i contenuti attinenti a questo Studium

L'articolo Catene di isole nella corrente del grande gioco indopacifico proviene da OGzero.

]]> Il piatto mare-monti tra Cina e Usa https://ogzero.org/il-piatto-mare-monti-tra-cina-e-usa/ Tue, 14 Jul 2020 13:25:48 +0000 http://ogzero.org/?p=462 Anche il recente scontro tra Delhi e Pechino va ricondotto a una battaglia più grande nella regione indo-pacifica. Un gioco globale su più tavoli soprattutto tra Usa e Rpc che passa persino per gli abiti talari Il faccia a faccia sino-indiano iniziato a maggio sulle vette himalayane, da sempre teatro di tensione per la questione […]

L'articolo Il piatto mare-monti tra Cina e Usa proviene da OGzero.

]]>
Anche il recente scontro tra Delhi e Pechino va ricondotto a una battaglia più grande nella regione indo-pacifica. Un gioco globale su più tavoli soprattutto tra Usa e Rpc che passa persino per gli abiti talari

Il faccia a faccia sino-indiano iniziato a maggio sulle vette himalayane, da sempre teatro di tensione per la questione del Kashmir e per le mai sopite rivendicazioni di confine tra India e Cina, ha registrato la notte del 15 giugno il primo scontro violento tra i due eserciti da quasi 50 anni a questa parte seppur senza l’uso di armi da fuoco. Il bilancio dei morti resta incerto ma, nonostante le dichiarazioni che da ambo le parti, sostengono di voler riportare la questione nell’ambito di una pacifica e diplomatica risoluzione del contenzioso, la tensione resta elevata. E rischia di farla aumentare anche nelle relazioni sempre tese tra Delhi e Islamabad, alleata di Pechino.

Lo scontro economico tra Cina e India

Dietro allo scontro ci sono molti fattori che non riguardano solo i confini ma il confronto tra due grandi potenze mondiali – India e Cina – e, più in generale, la guerra dell’egemonia globale dove si affacciano ovviamente altri attori, soprattutto gli Stati Uniti (la Russia appare in Asia su posizioni arretrate). Con il premier Narendra Modi, l’India ha avuto una sterzata fortemente anticinese di cui si è avuta prova quando Delhi ha fatto fallire, nel novembre 2019, l’accordo di libero scambio Rcep: è l’acronimo del Partenariato economico globale regionale proposto nella regione indo-pacifica da dieci stati del Sudest asiatico riuniti nell’Asean e Australia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud e appunto India. Fu la paura dei beni a basso prezzo cinesi sul mercato indiano a preoccupare Delhi. Uno spettro riassunto dalla giornalista indiana Barkha Dutt, autrice di This Unquiet Land: Stories from India’s Fault Lines (non a caso sul “Washington Post”) a commento degli scontri al confine sull’Himalaya, a oltre 4000 metri di altezza e lungo la Linea di controllo (Line of Actual Control: Lac) che fa da confine tra India e Cina. «Il deficit commerciale dell’India con la Cina è di 53 miliardi di dollari», scrive, aggiungendo che sarebbe «un suicidio consentire alla Cina di avere libero accesso ai mercati e ai consumatori indiani mentre costruisce strade e infrastrutture attraverso le parti del Kashmir occupate dal Pakistan».

Dall’altro lato del confine, in Pakistan, prevale la prudenza ma un editoriale di “The Dawn” del 18 giugno chiarisce come la vedono a Islamabad: «Sfortunatamente, l’India ha una storia di bullismo nei confronti dei suoi vicini e cerca di giocare a egemone regionale. Il Pakistan ha da tempo sottolineato la necessità di affrontare la questione del Kashmir al tavolo negoziale, una posizione che l’India ha arrogantemente respinto». Un fatto che purtroppo, al di là delle responsabilità anche pachistane nel conflitto, ha un fondo di verità.

Non solo riflessi regionali

Ovviamente, un conflitto tra Cina e India non ha solo riflessi regionali. Se tocca i vicini come il Pakistan, rientra nel grande gioco internazionale e non è difficile capire dunque come gli Stati Uniti possano servirsene nella neoguerra fredda, soprattutto commerciale, con Pechino. Una guerra fredda commerciale e a parole ma che, come vedremo, è anche armata. È un elemento che desta preoccupazione in tutta l’Asia come ha scritto ai primi di giugno su “Foreign Affairs” Lee Hsien Loong, primo ministro di Singapore: «L’Asia ha prosperato – scrive – perché la Pax Americana dalla fine della Seconda guerra mondiale ha fornito un contesto strategico favorevole. Ma ora, la travagliata relazione tra Stati Uniti e Cina solleva profonde domande sul futuro dell’Asia e sulla forma dell’ordine internazionale emergente».

Ma oltre alle montagne ci sono soprattutto i mari. La regione del Pacifico, o meglio dell’Indo-Pacifico (come ora viene chiamata), comprende la Cina, il Mar cinese orientale e il Mar Cinese meridionale, tutti i paesi che vi si affacciano (dal Giappone all’Indonesia) e il Golfo del Bengala, territorio marino presidiato dall’India che lo ritiene il suo cortile di casa acquatico. I mari sono vie di collegamento commerciali fondamentali, luoghi di caccia, presidi militari e infine riserve energetiche, come rivela la querelle sulle isolette Paracel e Spratly. Su tutta una serie di atolli cinesi a tutti gli effetti, Pechino ha allestito piste di atterraggio, magazzini, baracche militari e il contenzioso su Paracel e Spratly, rivendicati da più nazioni, ha fatto salire il livello di allarme ormai da anni. La storia è antica perché Pechino rivendica un’area estesa per circa mille miglia dalle sue coste e la controlla con navi militari, aerei e pescherecci. Una forza di pressione che nel 2018 obbligò Hanoi – che ha rivendicazioni territoriali in quello specchio di mare assieme a Malaysia, Brunei, Filippine e Taiwan – a sospendere i progetti di trivellazione petrolifera della spagnola Repsol. A fine aprile 2020 tra l’altro, il Vietnam ha protestato con Pechino contro l’istituzione di due distretti sull’isola cinese di Hainan col compito di governare Paracel e Spratly.

Piccole isole grandi problemi

Il contenzioso, come dicevamo, preoccupa un po’ tutti: i più teneri con Pechino sono i filippini, i più agguerriti sono i vietnamiti. E non è un caso se Hanoi stringe relazioni sempre più forti con Washington che sono invece ai minimi storici con Manila. Ma la partita è molto più ampia: la Nuova Via della Seta (Belt Road Initiative) si basa anche su un “filo di perle” marittime che sono i porti di Chittagong in Bangladesh, Sihanoukville in Cambogia, Hambantota in Sri Lanka e Gwadar in Pakistan più altri progetti (in Myanmar, Thailandia…) per la costruzione di nuove infrastrutture portuali e in alcuni casi anche militari. Una recente analisi di “Al Jazeera” ha fatto i conti in tasca alla potenza militare marittima cinese: fregate, portaerei, sottomarini, pattugliatori (acquistati ma sempre più costruiti in loco) con una forza militare navale di circa 100000 uomini, la seconda al mondo dopo gli Stati Uniti (quasi il doppio) e subito prima della Corea del Sud.

Gli americani non sono rimasti a guardare. Nell’area è dislocata la Settima flotta, la più grande di quelle dispiegate dalla marina statunitense con oltre 50-70 navi e sottomarini, 140 aerei e circa 20000 marinai in grado di reagire rapidamente. Il Comando generale dell’area (Usindopacom) conta infine oltre 370000 uomini tra personale di terra, aria, mare. Proprio recentemente sono state rafforzate una serie di manovre di pattugliamento, sorveglianza, osservazione che hanno innervosito i cinesi. Un esercizio muscolare mentre si scaldava il dossier Covid-19, il caso Hong Kong e quello mai chiuso su Taiwan.

Washington scalda i muscoli

L’idea di potenziare la difesa americana nel Pacifico ha cominciato per altro a circolare ai primi di aprile di quest’anno quando le conclusioni di un rapporto dell’ammiraglio Phil Davidson, a capo del Comando Usindopacom, hanno chiesto al Congresso 20 miliardi di dollari per rafforzare operazioni navali, aeree e terrestri nella regione (sistemi d’arma, logistica, training, intelligence…). Nel giro di 15 giorni la richiesta è diventata una proposta di legge, presentata al Congresso il 23 aprile dal repubblicano Mac Thornberry a capo dell’Armed Services Committee della Camera, comitato con compiti di sorveglianza su Pentagono, servizi militari e agenzie del Dipartimento della Difesa, compresi budget e politiche. Falco texano, Thornberry presenta la “Indo-Pacific Deterrence Initiative” come il corollario orientale necessario della “European Deterrence Initiative” che, per controbilanciare l’espansionismo russo a occidente, ha già messo sul tavolo fino al 2021 oltre 26 miliardi di dollari. Nel progetto di legge se ne chiedono più di sei per la sola regione indo-pacifica e per il solo 2021 con un piano che probabilmente arriverà ai 20 miliardi chiesti dall’ammiraglio Davidson nel giro dei prossimi esercizi finanziari.

Naturalmente, come nel “dialogo” tra Cina e India, anche in quello tra Usa e Cina le manifestazioni pubbliche sono sempre “costruttive”. Ma gli incontri faccia faccia danno più la sensazione che gli avversari vogliano soprattutto studiarsi più che mettersi realmente d’accordo. Ne sembra la prova il summit di metà giugno (la battaglia indo-cinese era appena avvenuta) tra il diplomatico cinese Yang Jiechi e il segretario di stato americano Mike Pompeo che si sono incontrati il 17 giugno per un colloquio alle Hawaii preparato in gran segreto, sembra soprattutto per volontà americana. Ma la montagna ha partorito un topolino. Al di là di dichiarazioni assai vaghe, le indiscrezioni emerse a seguito dell’incontro dicono chiaramente che l’unico fatto positivo è semmai che l’incontro c’è stato. Un incontro durato sette ore con cena. Taiwan, Hong Kong e la repressione nello Xinjiang avrebbero dominato il summit – definito appunto “costruttivo” – tra Mike Pompeo e Yang Jiechi. Pechino si sarebbe impegnata a migliorare il suo rapporto con Washington – ha scritto il ben informato “South China Morning Post” – ma avrebbe anche avvertito gli Stati Uniti che la Rpc difenderà risolutamente i suoi interessi. Alla fine l’incontro sembra aver solo offerto la prova di un desiderio condiviso di impedire che i rapporti si inaspriscano ulteriormente. Un modo forse per poter continuare a studiare l’avversario. Gli americani del resto hanno ottenuto che l’incontro si tenesse in un luogo non proprio neutro: le Hawaii dove è dislocato il Comando di Usindopacom in un momento in cui gli americani hanno rafforzato un esercizio muscolare navale davvero bizzarro se si vuole raffreddare il rapporto con la Cina. Un esercizio rafforzato da atteggiamenti sempre più anticinesi dell’alleato australiano e della Nuova Zelanda.

 

La guerra con la tonaca

Ma il virus della guerra Cina/Usa non passa solo dalle accuse di aver strumentalizzato l’Oms, dal quadrante marittimo del Pacifico o dalle battaglie sul commercio e, seppur indirettamente, dalle schermaglie sulle vette himalayane. Ci sono risvolti più o meno aperti e manovre più o meno sotterranee come rivela un caso recente che riguarda Hong Kong, tallone d’Achille della Rpc. “UcaNews”, la più diffusa e potente agenzia cattolica in Asia ha scritto recentemente che il cardinale Zen e il vescovo Ha Chi-shing, due leader religiosi cattolici di Hong Kong che non hanno mai nascosto il loro sostegno ai movimenti nell’ex colonia: «potrebbero essere inviati nella Cina continentale per essere processati» dopo che la nuova proposta legislativa sulla sicurezza a Hong Kong voluta da Pechino è diventata legge. Si tratta in realtà più di un’ipotesi che di una probabilità reale, ma quel che è certo è che i due prelati sono invisi alla Rpc per aver sempre remato contro. Zen, in particolare, che cercò di boicottare persino lo storico accordo tra Pechino e Santa Sede (Accordo Provvisorio sulla nomina dei Vescovi) firmato il 22 settembre 2018 sotto il pontificato di papa Francesco. Fu l’atto che segnava l’inizio della fine della guerra tra Roma e Pechino sulla cosiddetta Chiesa parallela (per cui la Cina sceglieva i vescovi e Roma non li riconosceva) e l’avvio di future relazioni diplomatiche tra i due paesi. Ora che anche l’ultimo vescovo è stato riconosciuto, la deportazione di Zen e Ha Chi-shing manderebbe all’aria la faticosa ma ben avviata riconciliazione tra i due stati.

La bozza ufficiale della legge sulla sicurezza nell’occhio del ciclone non è ancora ufficiale e il suo corpus dovrebbe essere approvato dal Comitato Centrale del Partito entro luglio ma, scrive l’agenzia cattolica: «Il dettaglio più recente – cioè che la Cina ha la possibilità di decidere di processare gli accusati in continente – è emerso in una conferenza a Shenzhen il 15 giugno», quando Deng Zhonghua, vicedirettore del gabinetto di Hong Kong e dell’ufficio affari di Macao, ha spiegato che «in circostanze molto speciali, il governo centrale manterrà la giurisdizione su alcuni casi che coinvolgono atti criminali che mettono gravemente a repentaglio la sicurezza nazionale». Da questo agli arresti di Zen ce ne corre: la mossa – che farebbe del cardinale un martire – inasprirebbe inutilmente i rapporti in via di sempre maggior distensione tra Rpc e Vaticano e non farebbe comodo a nessuno dei due: «probabilmente – dice una fonte vaticana – piacerebbe agli americani che hanno sempre ostacolato il processo e hanno sempre sostenuto Zen. C’è una partita geopolitica più ampia intorno ai rapporti tra Rpc e Santa Sede e che fa anche parte della guerra tra Washington e Pechino».

I piccoli tasselli del grande gioco

Joseph Zen Ze-kiun (classe 1932) è stato il sesto vescovo di Hong Kong ed è cardinale dal 2006. Molto duro con la Cina si è sempre esposto anche dopo che nel 2009 si è ritirato per limiti di età, senza per altro perdere influenza. Joseph Ha Chi-shing è uno dei quattro vescovi ausiliari di Hong Kong che assistono il cardinale John Tong Hon nella gestione della diocesi, al cui posto Zen avrebbe invece voluto il suo pupillo. Non sono gli unici ferventi anticinesi nel mondo cattolico asiatico. Recentemente, suscitando stupore e imbarazzo, si è schierato anche il cardinale Charles Bo, arcivescovo di Yangon e presidente della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche. In una lettera a proposito del Covid-19 apparsa il 2 aprile proprio su “UcaNews” ha accusato la Cina di «atteggiamento negligente, in particolare il suo dispotico partito… Attraverso la sua gestione disumana e irresponsabile, il Pcc ha dimostrato ciò che molti pensavano in precedenza: che è una minaccia per il mondo». Musica per le orecchie di Zen e per quelle di Washington. Probabilmente anche per quelle di Narendra Modi.

L'articolo Il piatto mare-monti tra Cina e Usa proviene da OGzero.

]]>
Collane di atolli, rotte commerciali e cavi sottomarini https://ogzero.org/collane-di-atolli-rotte-commerciali-e-cavi-sottomarini/ Tue, 14 Jul 2020 13:17:36 +0000 http://ogzero.org/?p=574 Lattuga, cavolo cinese, bok choi e molto altro. Non siamo in un mercato di Shanghai, bensì a Woody Island, una delle isole artificiali costruite da Pechino nell’arcipelago delle Paracel, nel Mar cinese meridionale, dove la marina militare cinese ha raccolto 750 chili di vegetali dopo aver reso coltivabili 2000 metri quadrati di spiaggia mescolando alla […]

L'articolo Collane di atolli, rotte commerciali e cavi sottomarini proviene da OGzero.

]]>
Lattuga, cavolo cinese, bok choi e molto altro. Non siamo in un mercato di Shanghai, bensì a Woody Island, una delle isole artificiali costruite da Pechino nell’arcipelago delle Paracel, nel Mar cinese meridionale, dove la marina militare cinese ha raccolto 750 chili di vegetali dopo aver reso coltivabili 2000 metri quadrati di spiaggia mescolando alla sabbia una soluzione a base di cellulosa. Una tecnica messa a punto dagli scienziati della Chongqing Jiaotong University nella Mongolia Interna che permetterà di tenere stabili le forniture alimentari dei soldati dislocati in questo strategico tratto di mare.

Controllata dalla Cina fin dal 1956, Woody Island è uno degli atolli al centro delle dispute territoriali che da decenni coinvolgono le Paracel, la catena delle Spratly, le isole Pratas e altri scogli semisommersi contesi con Vietnam, Filippine, Malaysia, Taiwan e Brunei. A partire dal 2013, il gigante asiatico ha trasformato sette barriere coralline in vere e proprie postazioni insulari protette da missili, di cui tre dotate di piste d’atterraggio “dual use”. Si tratta di un’area che si estende per 3,6 milioni di chilometri quadrati, dalla Cina all’Indonesia, e di cui Pechino rivendica come proprio oltre l’80 per cento sulla base di “diritti storici”.

Undici antichi documenti, presentati in sede di disputa internazionale, proverebbero che già intorno al 210 a.C. la dinastia Han aveva costruito un avamposto amministrativo sull’isola di Hainan, estendendo la propria sfera d’influenza fino agli arcipelaghi menzionati. Le vecchie mappe ingiallite non hanno convinto il Tribunale Permanente di Arbitrato dell’Aia che, chiamato in causa da Manila, nel 2016 ha dichiarato illegittime le rivendicazioni cinesi. Ma la sentenza non è bastata a scoraggiare le pretese di Pechino. Da allora, l’avanzata tentacolare del gigante asiatico nella regione ha continuato a inglobare territori disabitati seguendo la cosiddetta tattica salami-slicing: un pezzetto per volta.

Lo scorso maggio, mentre l’emergenza Covid-19 distraeva i vicini rivieraschi, la situazione nel Mar cinese meridionale è tornata d’attualità dopo che la Repubblica Popolare ha annunciato la creazione di due nuove unità amministrative – il distretto di Xisha, che include le Paracel e il Macclesfield Bank (rivendicato da Taiwan e Filippine), e il distretto di Nansha, concentrato sulle isole Spratly (contese con Vietnam, Filippine, Malaysia, Taiwan e Brunei) – che cadranno sotto l’autorità di Sansha, la città-prefettura istituita nel 2012 su Woody Island e parte della provincia di Hainan. La decisione ha coinciso con l’assegnazione di un nome a un’ottantina di formazioni naturali per la prima volta dal 1983. Secondo indiscrezioni del “South China Morning Post”, la prossima mossa potrebbe prevedere l’istituzione di una “zona di identificazione aerea” (Adiz), come già avvenuto nel Mar cinese orientale, dove Pechino contesta la sovranità del Giappone sulle isole Diaoyu/Senkaku.

Per la Cina, ancora ferita dalle umiliazioni ottocentesche, il Mar cinese è soprattutto una questione di sovranità. Ma, come spesso accade nelle dispute territoriali, all’afflato nazionalistico si intrecciano importanti interessi economici. Secondo dati del 2016 raccolti dal Center for Strategic and International Studies, il Mar cinese meridionale ospita circa il 10 per cento del pescato a livello mondiale e risorse energetiche per un valore di 2500 miliardi di dollari. Un terzo del commercio marittimo globale, il 30 per cento delle forniture di greggio e il 64 per cento degli scambi tra la Cina e il resto del mondo solca le sue turbolente acque. E, con il recente sorpasso dell’Asean sull’Unione Europea come prima destinazione dell’export cinese, il traffico regionale è destinato presumibilmente ad aumentare.

Le manovre cinesi nel cortile di casa potrebbero presto raggiungere le acque dell’Oceano più grande del mondo. L’area contesa lambisce la cosiddetta “prima catena di isole”, un termine preso in prestito dagli Stati uniti che negli anni Cinquanta individuarono nella cintura insulare dalle Curili – tra l’estremità nordorientale dell’isola giapponese di Hokkaidō e la penisola russa della Kamčatka – fino al Borneo, un avamposto per circondare l’Unione Sovietica e la Cina. Il piano non decollò mai, ma la minaccia è ancora presente. Sigillare il tratto di mare tra la costa cinese e il Pacifico è diventata una priorità assoluta per Pechino, specialmente da quando Washington ha incrementato le proprie incursioni nel quadrante in supporto alle rivendicazioni marittime degli alleati asiatici. Una posizione ufficializzata per la prima volta il 13 luglio dal dipartimento di Stato con il comunicato “U.S Position on Maritime Claims in the South China Sea”.

Questo spiega la sempre più frequente presenza di aerei e sottomarini cinesi nel canale di Bashi e nello stretto di Miyako, cerniera naturale tra il Mar cinese e il Pacifico occidentale. Stando alle indiscrezioni della stampa nipponica, il Dragone avrebbe già individuato la prossima preda: il piccolo arcipelago delle Pratas controllato da Taiwan, l’isola “ribelle” che la Repubblica popolare vuole riannettere ai propri territori e che Washington, in assenza di relazioni ufficiali, sostiene militarmente.

Pechino giustifica il proprio attivismo regionale in ottica “difensiva”. Ma lo sfoggio di muscoli soverchia i toni rassicuranti del diplomatichese. Con oltre 330 navi da guerra (ma solo due portaerei), la marina cinese ha superato numericamente quella statunitense (285 alla fine del 2019). E se al vantaggio quantitativo non corrisponde una superiorità in termini di efficienza, vero è che l’epidemia da coronavirus – messa ko la marina a stelle e strisce – ha scoperchiato l’evanescenza della supremazia delle undici portaerei americane in situazioni di crisi. Secondo un rapporto del Congressional Research Service, think tank del Congresso statunitense, l’espansionismo cinese costituisce una minaccia per «il controllo [americano] sulle acque profonde del Pacifico occidentale in stato di guerra».

Più a sud il livello d’allarme non è inferiore. «Is China using its South China Sea strategy in the South Pacific?»: è quanto si chiede il think tank governativo Australian Strategic Policy Institute (Aspi), che in un rapporto spiega come il Pacifico meridionale condivida con il Mar cinese meridionale quattro caratteristiche particolarmente attraenti: è ricco di risorse naturali; ospita atolli disabitati e cavi sottomarini; racchiude snodi strategici per le merci globali; dipende economicamente dalla Cina. Queste somiglianze, conclude l’istituto, potrebbero consentire a Pechino di sfruttare canali scientifici e commerciali come pretesto per migliorare la propria conoscenza del territorio in chiave militare.

Con un pil complessivo di appena 33,7 miliardi di dollari e 10 milioni di abitanti – meno della popolazione della Svezia – le isole del Pacifico sono da sempre stati-satellite di Canberra, che con fare paternalistico ne ha supportato economicamente la sopravvivenza investendo a fondo perduto nei servizi di base – sanità e istruzione in primis –, e difeso la stabilità sociale come previsto da accordi stretti con Stati Uniti e Nuova Zelanda negli anni Cinquanta. È stato così fino a quando, nei primi anni Duemila, la “diplomazia dei dollari” perseguita da Pechino in Africa non ha raggiunto questo remoto angolo di mondo. La svolta ha coinciso con la storica visita di Wen Jiabao, nel 2006, la prima di un premier cinese nelle isole del Pacifico. Da allora, il gigante asiatico ha speso almeno 6 miliardi di dollari nelle repubbliche insulari, per lo più in progetti estrattivi e infrastrutturali. La fetta più consistente risulta concentrata nei sette anni di Belt and Road, il progetto con cui Pechino punta a cementare i rapporti economici e diplomatici strappando assegni nei paesi emergenti. C’è chi le definisce vere e proprie delazioni prezzolate quando si prendono in esame le acque del Pacifico. Qui, infatti, si consuma lo scontro più acceso con Taiwan, “l’isola che non c’è” riconosciuta formalmente ormai da appena quindici paesi, di cui quattro (Palau, Nauru, Tuvalu e Isole Marshall) situati proprio nel “nuovissimo continente”. Le numerose defezioni dell’ultimo anno non sembrano aver alterato la strategia regionale di Taipei, che giorni fa ha annunciato la riapertura della sede consolare di Guam con lo scopo conclamato di «facilitare gli scambi con gli alleati del Pacifico».

La resistenza taiwanese ha implicazioni che trascendono il braccio di ferro tra le “due Cine”. Da anni si teme che l’operosità di Pechino negli arcipelaghi a cavallo tra i due emisferi possa assumere connotazioni militaresche, come avvenuto nel Mar cinese meridionale. Basta pensare alle declinazioni strategiche della stazione spaziale cinesi di Kiribati, le isole sottratte a Taiwan lo scorso settembre. Secondo un rapporto della US-China Review Commission, fortificazioni cinesi nel Pacifico meridionale potrebbero bloccare l’accesso americano alla regione e compromettere la stabilità di Australia e Nuova Zelanda. In tempi di “American First” e crisi epidemica, potrebbero essere proprio i player regionali “minori” a dover dettare una linea comune per arginare l’avanzata di Pechino, prescindendo dalle zoppicanti piattaforme multilaterali istituite da Washington nel cosiddetto “Indo-Pacifico”. Come membro del Quadrilateral Security Dialogue (Quad), Canberra è un frequentatore assiduo del Mar cinese meridionale, sebbene non abbia ancora accolto l’invito americano a condurre “operazioni di libera navigazione”, il provocatorio passaggio entro le 12 miglia nautiche dalle isole contese.

Certo, serviranno capacità funamboliche per tutelare gli interessi nazionali senza sfilacciare le relazioni economiche già pregiudicate dalle polemiche sul 5G e la paternità del coronavirus. Tanto più che il peso cinese nelle dinamiche commerciali del quadrante potrebbe aumentare esponenzialmente se, come ventilato dal primo ministro Li Keqiang, il gigante asiatico – già promotore della Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) – dovesse entrare anche nella Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp), il mega accordo fortemente voluto da Obama quando ancora si chiamava Tpp e da cui Trump ha annunciato il ritiro tre giorni dopo l’inizio del suo mandato. Così, mentre Canberra si prepara a rafforzare i propri sistemi difensivi con un piano decennale da 270 miliardi di dollari, non tutti approvano un coinvolgimento australiano nel braccio di ferro tra le due superpotenze. Almeno non quando implica missioni in acque più lontane.

In uno studio dal titolo eloquente (Australia and the US: great allies but different agendas in the South China Sea), il think tank di Sydney Lowy Institue, ricordando come solo il 20 per cento dei commerci con l’Australia passa per il Mar cinese meridionale, nel 2015 concludeva che, se «lo spirito materno impone di difendere la libertà di navigazione», in realtà «solo gli Stati Uniti hanno veramente interesse a condurre attività militari» nelle acque contese.

L'articolo Collane di atolli, rotte commerciali e cavi sottomarini proviene da OGzero.

]]>