Himalaya Archivi - OGzero https://ogzero.org/regione/himalaya/ geopolitica etc Mon, 22 Mar 2021 17:05:06 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Il dramma dimenticato degli hazara in Pakistan https://ogzero.org/gli-hazara-di-quetta/ Thu, 11 Feb 2021 17:27:11 +0000 http://ogzero.org/?p=2405 Emozioni elitarie ad alta quota Vuoi per “provocazione amichevole”, vuoi per sapere cosa ne penso (in riferimento al polverone sollevato l’anno scorso dal mio articolo sulla relazione tra alpinismo e colonialismo), qualche compagno ha voluto scomodarsi per aggiornarmi su alcune recenti “imprese” alpinistiche extraeuropee. Vedi sul K2 destinato – azzardo – a diventare la nuova, […]

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Emozioni elitarie ad alta quota

Vuoi per “provocazione amichevole”, vuoi per sapere cosa ne penso (in riferimento al polverone sollevato l’anno scorso dal mio articolo sulla relazione tra alpinismo e colonialismo), qualche compagno ha voluto scomodarsi per aggiornarmi su alcune recenti “imprese” alpinistiche extraeuropee. Vedi sul K2 destinato – azzardo – a diventare la nuova, costosa meta di prestigio per ricchi turisti in cerca di emozioni elitarie (e presumibilmente a trasformarsi nella seconda grande discarica d’alta quota, dopo l’ormai inflazionato Everest).

Cos’altro posso dire che non abbia già detto?  Forse soltanto: “A volte ritornano” (crisi d’astinenza o coazione a ripetere?).

Peccato comunque per i leopardi delle nevi che nel corso del 2020 – come sostenevano alcuni naturalisti – si stavano  riappropriando dei legittimi spazi e territori. Grazie alla consistente rarefazione di turisti-alpinisti (effetto collaterale – benigno – del Covid-19).

Peccato, ripeto. Resta sempre il problema di come si possa fare serenamente del turismo – se pure d’alta quota – in un paese che opprime e reprime donne, diseredati e minoranze.

In precedenza mi ero occupato dei beluci. Non sono gli unici naturalmente.

Una premessa di carattere generale: tutto il mondo è paese

Inoltrandosi nel complicato “groviglio” orientale può capitare, per quanto in buonafede, di trascurare alcune “minoranze” (termine riduttivo, in realtà si dovrebbe parlare di “popoli minorizzati”, in genere forzatamente).

Popolazioni che talvolta emergono dall’anonimato in cui le vorrebbe segregate qualche potenza regionale (magari cambiando denominazione: vedi l’epiteto di “turchi di montagna” usato per i curdi del Bakur) soltanto per qualche rivolta disperata a cui segue – fatalmente – un’impietosa repressione. Oppure quando qualche potenza concorrenziale cerca di utilizzarli per scopi non certo disinteressati.

O ancora, sempre pensando ai curdi (ma stavolta del Bashur), ripercorrendo quanto avvenne 30 anni fa con la prima guerra del Golfo, quando le rivolte curda (a nord) e sciita (a sud) stavano per abbattere autonomamente – sia pure come effetto collaterale dell’attacco statunitense – il regime (e non solo l’ormai impresentabile Saddam, alleato storico dell’Occidente). Temendo che la situazione sfuggisse loro di mano, gli Usa preferirono liberare e riarmare – con elicotteri e carri armati in parte di produzione italica – i soldati iracheni già sconfitti e catturati. Consentendo loro di scatenare l’ennesima, sanguinosa repressione. Fatte le debite proporzioni, ricordava quanto avvenne in Francia all’epoca della Commune. Quando i prussiani – temendo il “contagio” della grandiosa sollevazione popolare – ugualmente liberarono e riarmarono i soldati francesi. Per consentirgli di “ristabilire l’ordine a Parigi” massacrando i comunardi.

Gli hazara del Pakistan, minoranza nativa sciita

Messi da parte contrasti e inimicizie, alla fine – quasi sempre – i potenti trovano un accordo. Perlomeno quando si tratta di conservare il controllo, la sottomissione di classi subalterne, minoranze indocili e popoli ribelli.

Ma non tutti i popoli, purtroppo, approdano in maniera significativa alle pagine dei giornali o del web.

È questo – mi pare – il caso degli hazara insediati nella regione pachistana del Belucistan (la maggior parte, circa 500.000, a Quetta). Da considerare ormai alla stregua di “minoranza nativa” in quanto discendono da coloro che qui emigrarono dall’Afghanistan più di un secolo fa.

Di religione sciita, periodicamente sono sottoposti a uccisioni mirate, rapimenti e massacri.

Una mappa dei gruppi etnolinguistici dell’area, tratta da “La Grande Illusione”, a cura di Emanuele Giordana, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

E non da ora. Risalendo indietro nel tempo, vediamo che tra il 2001 e il 2011 almeno 600 hazara avevano perso la vita in attacchi settari. Solo nei primi tre mesi del 2012 altri 30.

All’epoca la maggior parte degli attentati vennero rivendicati dai fondamentalisti sunniti di Lashkar-e-Jhangvi Al-Alami, braccio armato del Sipah Sahaba Pakistan (Ssp), entrambi – presumibilmente – manipolati dai servizi segreti pachistani.

Dopo essere state dichiarate illegali, le due organizzazioni si ricostituirono come Millat Islamia Pakistan e Ahl-e-Sunnat Wal Jamat.

Quetta, attivisti di Ahle Sunnat Wal Jamat (ASWJ, fondamentalisti sunniti) cantano slogan contro la dissacrazione del Corano durante una protesta nel dicembre 2013 (foto Arsalan Naseer/PPI Images).

La ribellione senza velleità separatiste

Da parte loro, gli hazara rispondevano solo politicamente, con scioperi e proteste. E, particolare non irrilevante, senza particolari velleità separatiste (anche per non fornire alibi alla repressione governativa).

La manifestazione del 21 settembre 2011 – indetta per protestare contro una strage di pellegrini sciiti che viaggiavano in autobus – era entrata nella storia per la grande partecipazione popolare.

Ma solo dopo pochi giorni, il 4 ottobre 2011, la violenza settaria colpiva un altro autobus e diversi hazara – operai che andavano al lavoro – perdevano la vita.

Con le stesse modalità il 29 marzo 2012 venivano ammazzati otto hazara, mentre il 6 aprile altri sei venivano trucidati in una bottega artigianale. Nei primi mesi del 2013 si parlava addirittura di quasi 200 hazara morti in attentati settari.

In precedenza, nel 2010, era stato assassinato Hussein Ali Youssafi, presidente del Partito democratico hazara (fondato nel 2003). A lui subentrava Abdul Khaliq Hazara che – quando si recò a Islamabad per denunciare la situazione in cui versava il suo popolo – si sentì chiedere di sospendere le manifestazioni di protesta.

L’ingerenza saudita

Per la cronaca, circa nello stesso periodo i fondamentalisti sunniti tornavano a colpire anche gli hazara dell’Afghanistan (oltre due milioni), accusandoli – ovviamente – di essere “infedeli”. Venne poi accertato che alcuni degli attentati più devastanti erano opera non dei talebani afgani, ma di miliziani provenienti dal Pakistan legati a Lashkar-e-Jhangvi Al-Alami.

Intanto continuava lo stillicidio di omicidi settari e vere e proprie stragi nelle strade di Quetta (e alcuni osservatori vi intravedono ingerenze, infiltrazioni e finanziamenti sauditi).

A Quetta (2,3 milioni di abitanti) vivono sia pasthun che beluci e aimak, ma è fuori discussione che – almeno in percentuale – il maggior numero di vittime sono hazara.

Non solo. Per anni questa “comunità sotto controllo” è vissuta praticamente confinata, segregata in enclave circondate da posti di blocco (tipo Irlanda del Nord). In teoria potrebbero circolare liberamente per la città, ma a proprio rischio e pericolo.

Gli hazara di Quetta

E la comunità internazionale?

Quanto alla comunità internazionale – Usa e Unione europea in particolare – non sembra aver mai mostrato particolare interesse per le vicende di tale minoranza che in quanto sciiti venivano – e vengono – considerati potenziali alleati di Teheran. Così come, coincidenza o analogia, all’epoca nessuno mostrò particolare interesse per la “primavera” sciita nel Barhein (repressa con l’intervento di Arabia Saudita e Qatar e il tacito assenso dell’Occidente).

E invece l’Iran «non ci aiuta, cerca piuttosto di infiltrarci e controllarci tramite la religione».

O almeno così sosteneva, ritengo a ragion veduta, in una conferenza stampa Khaliq Hazara.

Comunque, proseguiva «grazie ai finanziamenti di Teheran, gruppi filoiraniani come Tehreik-e-NifazFiqa-e-Jafria avevano aperto a Quetta dozzine di scuole coraniche, ma noi siamo laici e lottiamo per la giustizia sociale, la democrazia, il rispetto della vita umana e la tolleranza».

Ricordando che «i due milioni di hazara (in gran parte rifugiati dall’Afghanistan N. d. A.) che vivono in Iran sono trattati come cittadini di serie C». In qualche modo ostaggi dei conflitti di influenza tra l’Iran sciita e l’Arabia saudita sunnita (e non si può escludere che talvolta i responsabili vadano individuati tra i beluci sunniti).

Le violenze continuano anche in Afghanistan

Ai nostri giorni le violenze ai danni degli sciiti hazara, delle loro scuole e luoghi di culto proseguono inesorabili.

Per esempio, nel settembre dell’anno scorso, un attentato suicida (rivendicato da Wahhabi Daesh e da Lashkar-e- Jhangvi) ha causato più di venti morti e oltre cinquanta feriti in un mercato.

Quest’anno, il 3 gennaio, 11 membri della comunità hazara sono stati prima sequestrati e poi assassinati dall’Isis nella città di Machh. Si trattava di minatori qui emigrati – spinti dalla miseria – da Daikondi (Afghanistan).

Le famiglie delle vittime avevano espresso la loro rabbia manifestando nelle strade contro il governo (definito “complice”). Addirittura si rifiutavano di seppellire i morti come forma di protesta per la mancata protezione.

Anche se poi, come hanno dichiarato alcuni familiari: «alla fine dovremo seppellirli e non avremo altra scelta che chiedere ai nostri parenti in Afghanistan e all’estero di aiutarci a pagare». Una ulteriore umiliazione per chi versa in condizioni di estrema povertà. Peraltro da entrambe le parti della Durand Line.

E non sono certo bastate a placare gli animi le pubbliche dichiarazioni – di circostanza – venute da vari esponenti dell’apparato politico-militare al potere. Comprese quelle del primo ministro Imran Khan che in varie occasioni ha espresso solidarietà alle vittime.

Nessuna risposta, nessuna protesta

Amnesty International ha condannato con forza le molteplici violazioni dei diritti umani subite dagli hazara. In particolare ha chiesto che «il capo di Stato maggiore dell’esercito venga a Quetta per vedere di persona la miseria e le difficoltà del popolo hazara».

Senza – almeno per ora – ricevere risposta.Tutto questo, ripeto, nel paese che un sempre maggior numero di scanzonati turisti benestanti d’alta quota (il cui livello di consapevolezza sociale e ambientale lascia quantomeno a desiderare) ha individuato come “parco giochi spettacolare”. Invece di boicottarlo come ai vecchi tempi si faceva con il Sudafrica dell’apartheid.

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Il piatto mare-monti tra Cina e Usa https://ogzero.org/il-piatto-mare-monti-tra-cina-e-usa/ Tue, 14 Jul 2020 13:25:48 +0000 http://ogzero.org/?p=462 Anche il recente scontro tra Delhi e Pechino va ricondotto a una battaglia più grande nella regione indo-pacifica. Un gioco globale su più tavoli soprattutto tra Usa e Rpc che passa persino per gli abiti talari Il faccia a faccia sino-indiano iniziato a maggio sulle vette himalayane, da sempre teatro di tensione per la questione […]

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Anche il recente scontro tra Delhi e Pechino va ricondotto a una battaglia più grande nella regione indo-pacifica. Un gioco globale su più tavoli soprattutto tra Usa e Rpc che passa persino per gli abiti talari

Il faccia a faccia sino-indiano iniziato a maggio sulle vette himalayane, da sempre teatro di tensione per la questione del Kashmir e per le mai sopite rivendicazioni di confine tra India e Cina, ha registrato la notte del 15 giugno il primo scontro violento tra i due eserciti da quasi 50 anni a questa parte seppur senza l’uso di armi da fuoco. Il bilancio dei morti resta incerto ma, nonostante le dichiarazioni che da ambo le parti, sostengono di voler riportare la questione nell’ambito di una pacifica e diplomatica risoluzione del contenzioso, la tensione resta elevata. E rischia di farla aumentare anche nelle relazioni sempre tese tra Delhi e Islamabad, alleata di Pechino.

Lo scontro economico tra Cina e India

Dietro allo scontro ci sono molti fattori che non riguardano solo i confini ma il confronto tra due grandi potenze mondiali – India e Cina – e, più in generale, la guerra dell’egemonia globale dove si affacciano ovviamente altri attori, soprattutto gli Stati Uniti (la Russia appare in Asia su posizioni arretrate). Con il premier Narendra Modi, l’India ha avuto una sterzata fortemente anticinese di cui si è avuta prova quando Delhi ha fatto fallire, nel novembre 2019, l’accordo di libero scambio Rcep: è l’acronimo del Partenariato economico globale regionale proposto nella regione indo-pacifica da dieci stati del Sudest asiatico riuniti nell’Asean e Australia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud e appunto India. Fu la paura dei beni a basso prezzo cinesi sul mercato indiano a preoccupare Delhi. Uno spettro riassunto dalla giornalista indiana Barkha Dutt, autrice di This Unquiet Land: Stories from India’s Fault Lines (non a caso sul “Washington Post”) a commento degli scontri al confine sull’Himalaya, a oltre 4000 metri di altezza e lungo la Linea di controllo (Line of Actual Control: Lac) che fa da confine tra India e Cina. «Il deficit commerciale dell’India con la Cina è di 53 miliardi di dollari», scrive, aggiungendo che sarebbe «un suicidio consentire alla Cina di avere libero accesso ai mercati e ai consumatori indiani mentre costruisce strade e infrastrutture attraverso le parti del Kashmir occupate dal Pakistan».

Dall’altro lato del confine, in Pakistan, prevale la prudenza ma un editoriale di “The Dawn” del 18 giugno chiarisce come la vedono a Islamabad: «Sfortunatamente, l’India ha una storia di bullismo nei confronti dei suoi vicini e cerca di giocare a egemone regionale. Il Pakistan ha da tempo sottolineato la necessità di affrontare la questione del Kashmir al tavolo negoziale, una posizione che l’India ha arrogantemente respinto». Un fatto che purtroppo, al di là delle responsabilità anche pachistane nel conflitto, ha un fondo di verità.

Non solo riflessi regionali

Ovviamente, un conflitto tra Cina e India non ha solo riflessi regionali. Se tocca i vicini come il Pakistan, rientra nel grande gioco internazionale e non è difficile capire dunque come gli Stati Uniti possano servirsene nella neoguerra fredda, soprattutto commerciale, con Pechino. Una guerra fredda commerciale e a parole ma che, come vedremo, è anche armata. È un elemento che desta preoccupazione in tutta l’Asia come ha scritto ai primi di giugno su “Foreign Affairs” Lee Hsien Loong, primo ministro di Singapore: «L’Asia ha prosperato – scrive – perché la Pax Americana dalla fine della Seconda guerra mondiale ha fornito un contesto strategico favorevole. Ma ora, la travagliata relazione tra Stati Uniti e Cina solleva profonde domande sul futuro dell’Asia e sulla forma dell’ordine internazionale emergente».

Ma oltre alle montagne ci sono soprattutto i mari. La regione del Pacifico, o meglio dell’Indo-Pacifico (come ora viene chiamata), comprende la Cina, il Mar cinese orientale e il Mar Cinese meridionale, tutti i paesi che vi si affacciano (dal Giappone all’Indonesia) e il Golfo del Bengala, territorio marino presidiato dall’India che lo ritiene il suo cortile di casa acquatico. I mari sono vie di collegamento commerciali fondamentali, luoghi di caccia, presidi militari e infine riserve energetiche, come rivela la querelle sulle isolette Paracel e Spratly. Su tutta una serie di atolli cinesi a tutti gli effetti, Pechino ha allestito piste di atterraggio, magazzini, baracche militari e il contenzioso su Paracel e Spratly, rivendicati da più nazioni, ha fatto salire il livello di allarme ormai da anni. La storia è antica perché Pechino rivendica un’area estesa per circa mille miglia dalle sue coste e la controlla con navi militari, aerei e pescherecci. Una forza di pressione che nel 2018 obbligò Hanoi – che ha rivendicazioni territoriali in quello specchio di mare assieme a Malaysia, Brunei, Filippine e Taiwan – a sospendere i progetti di trivellazione petrolifera della spagnola Repsol. A fine aprile 2020 tra l’altro, il Vietnam ha protestato con Pechino contro l’istituzione di due distretti sull’isola cinese di Hainan col compito di governare Paracel e Spratly.

Piccole isole grandi problemi

Il contenzioso, come dicevamo, preoccupa un po’ tutti: i più teneri con Pechino sono i filippini, i più agguerriti sono i vietnamiti. E non è un caso se Hanoi stringe relazioni sempre più forti con Washington che sono invece ai minimi storici con Manila. Ma la partita è molto più ampia: la Nuova Via della Seta (Belt Road Initiative) si basa anche su un “filo di perle” marittime che sono i porti di Chittagong in Bangladesh, Sihanoukville in Cambogia, Hambantota in Sri Lanka e Gwadar in Pakistan più altri progetti (in Myanmar, Thailandia…) per la costruzione di nuove infrastrutture portuali e in alcuni casi anche militari. Una recente analisi di “Al Jazeera” ha fatto i conti in tasca alla potenza militare marittima cinese: fregate, portaerei, sottomarini, pattugliatori (acquistati ma sempre più costruiti in loco) con una forza militare navale di circa 100000 uomini, la seconda al mondo dopo gli Stati Uniti (quasi il doppio) e subito prima della Corea del Sud.

Gli americani non sono rimasti a guardare. Nell’area è dislocata la Settima flotta, la più grande di quelle dispiegate dalla marina statunitense con oltre 50-70 navi e sottomarini, 140 aerei e circa 20000 marinai in grado di reagire rapidamente. Il Comando generale dell’area (Usindopacom) conta infine oltre 370000 uomini tra personale di terra, aria, mare. Proprio recentemente sono state rafforzate una serie di manovre di pattugliamento, sorveglianza, osservazione che hanno innervosito i cinesi. Un esercizio muscolare mentre si scaldava il dossier Covid-19, il caso Hong Kong e quello mai chiuso su Taiwan.

Washington scalda i muscoli

L’idea di potenziare la difesa americana nel Pacifico ha cominciato per altro a circolare ai primi di aprile di quest’anno quando le conclusioni di un rapporto dell’ammiraglio Phil Davidson, a capo del Comando Usindopacom, hanno chiesto al Congresso 20 miliardi di dollari per rafforzare operazioni navali, aeree e terrestri nella regione (sistemi d’arma, logistica, training, intelligence…). Nel giro di 15 giorni la richiesta è diventata una proposta di legge, presentata al Congresso il 23 aprile dal repubblicano Mac Thornberry a capo dell’Armed Services Committee della Camera, comitato con compiti di sorveglianza su Pentagono, servizi militari e agenzie del Dipartimento della Difesa, compresi budget e politiche. Falco texano, Thornberry presenta la “Indo-Pacific Deterrence Initiative” come il corollario orientale necessario della “European Deterrence Initiative” che, per controbilanciare l’espansionismo russo a occidente, ha già messo sul tavolo fino al 2021 oltre 26 miliardi di dollari. Nel progetto di legge se ne chiedono più di sei per la sola regione indo-pacifica e per il solo 2021 con un piano che probabilmente arriverà ai 20 miliardi chiesti dall’ammiraglio Davidson nel giro dei prossimi esercizi finanziari.

Naturalmente, come nel “dialogo” tra Cina e India, anche in quello tra Usa e Cina le manifestazioni pubbliche sono sempre “costruttive”. Ma gli incontri faccia faccia danno più la sensazione che gli avversari vogliano soprattutto studiarsi più che mettersi realmente d’accordo. Ne sembra la prova il summit di metà giugno (la battaglia indo-cinese era appena avvenuta) tra il diplomatico cinese Yang Jiechi e il segretario di stato americano Mike Pompeo che si sono incontrati il 17 giugno per un colloquio alle Hawaii preparato in gran segreto, sembra soprattutto per volontà americana. Ma la montagna ha partorito un topolino. Al di là di dichiarazioni assai vaghe, le indiscrezioni emerse a seguito dell’incontro dicono chiaramente che l’unico fatto positivo è semmai che l’incontro c’è stato. Un incontro durato sette ore con cena. Taiwan, Hong Kong e la repressione nello Xinjiang avrebbero dominato il summit – definito appunto “costruttivo” – tra Mike Pompeo e Yang Jiechi. Pechino si sarebbe impegnata a migliorare il suo rapporto con Washington – ha scritto il ben informato “South China Morning Post” – ma avrebbe anche avvertito gli Stati Uniti che la Rpc difenderà risolutamente i suoi interessi. Alla fine l’incontro sembra aver solo offerto la prova di un desiderio condiviso di impedire che i rapporti si inaspriscano ulteriormente. Un modo forse per poter continuare a studiare l’avversario. Gli americani del resto hanno ottenuto che l’incontro si tenesse in un luogo non proprio neutro: le Hawaii dove è dislocato il Comando di Usindopacom in un momento in cui gli americani hanno rafforzato un esercizio muscolare navale davvero bizzarro se si vuole raffreddare il rapporto con la Cina. Un esercizio rafforzato da atteggiamenti sempre più anticinesi dell’alleato australiano e della Nuova Zelanda.

 

La guerra con la tonaca

Ma il virus della guerra Cina/Usa non passa solo dalle accuse di aver strumentalizzato l’Oms, dal quadrante marittimo del Pacifico o dalle battaglie sul commercio e, seppur indirettamente, dalle schermaglie sulle vette himalayane. Ci sono risvolti più o meno aperti e manovre più o meno sotterranee come rivela un caso recente che riguarda Hong Kong, tallone d’Achille della Rpc. “UcaNews”, la più diffusa e potente agenzia cattolica in Asia ha scritto recentemente che il cardinale Zen e il vescovo Ha Chi-shing, due leader religiosi cattolici di Hong Kong che non hanno mai nascosto il loro sostegno ai movimenti nell’ex colonia: «potrebbero essere inviati nella Cina continentale per essere processati» dopo che la nuova proposta legislativa sulla sicurezza a Hong Kong voluta da Pechino è diventata legge. Si tratta in realtà più di un’ipotesi che di una probabilità reale, ma quel che è certo è che i due prelati sono invisi alla Rpc per aver sempre remato contro. Zen, in particolare, che cercò di boicottare persino lo storico accordo tra Pechino e Santa Sede (Accordo Provvisorio sulla nomina dei Vescovi) firmato il 22 settembre 2018 sotto il pontificato di papa Francesco. Fu l’atto che segnava l’inizio della fine della guerra tra Roma e Pechino sulla cosiddetta Chiesa parallela (per cui la Cina sceglieva i vescovi e Roma non li riconosceva) e l’avvio di future relazioni diplomatiche tra i due paesi. Ora che anche l’ultimo vescovo è stato riconosciuto, la deportazione di Zen e Ha Chi-shing manderebbe all’aria la faticosa ma ben avviata riconciliazione tra i due stati.

La bozza ufficiale della legge sulla sicurezza nell’occhio del ciclone non è ancora ufficiale e il suo corpus dovrebbe essere approvato dal Comitato Centrale del Partito entro luglio ma, scrive l’agenzia cattolica: «Il dettaglio più recente – cioè che la Cina ha la possibilità di decidere di processare gli accusati in continente – è emerso in una conferenza a Shenzhen il 15 giugno», quando Deng Zhonghua, vicedirettore del gabinetto di Hong Kong e dell’ufficio affari di Macao, ha spiegato che «in circostanze molto speciali, il governo centrale manterrà la giurisdizione su alcuni casi che coinvolgono atti criminali che mettono gravemente a repentaglio la sicurezza nazionale». Da questo agli arresti di Zen ce ne corre: la mossa – che farebbe del cardinale un martire – inasprirebbe inutilmente i rapporti in via di sempre maggior distensione tra Rpc e Vaticano e non farebbe comodo a nessuno dei due: «probabilmente – dice una fonte vaticana – piacerebbe agli americani che hanno sempre ostacolato il processo e hanno sempre sostenuto Zen. C’è una partita geopolitica più ampia intorno ai rapporti tra Rpc e Santa Sede e che fa anche parte della guerra tra Washington e Pechino».

I piccoli tasselli del grande gioco

Joseph Zen Ze-kiun (classe 1932) è stato il sesto vescovo di Hong Kong ed è cardinale dal 2006. Molto duro con la Cina si è sempre esposto anche dopo che nel 2009 si è ritirato per limiti di età, senza per altro perdere influenza. Joseph Ha Chi-shing è uno dei quattro vescovi ausiliari di Hong Kong che assistono il cardinale John Tong Hon nella gestione della diocesi, al cui posto Zen avrebbe invece voluto il suo pupillo. Non sono gli unici ferventi anticinesi nel mondo cattolico asiatico. Recentemente, suscitando stupore e imbarazzo, si è schierato anche il cardinale Charles Bo, arcivescovo di Yangon e presidente della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche. In una lettera a proposito del Covid-19 apparsa il 2 aprile proprio su “UcaNews” ha accusato la Cina di «atteggiamento negligente, in particolare il suo dispotico partito… Attraverso la sua gestione disumana e irresponsabile, il Pcc ha dimostrato ciò che molti pensavano in precedenza: che è una minaccia per il mondo». Musica per le orecchie di Zen e per quelle di Washington. Probabilmente anche per quelle di Narendra Modi.

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