Golfo di Guinea Archivi - OGzero https://ogzero.org/regione/golfo-di-guinea/ geopolitica etc Fri, 30 Aug 2024 12:56:13 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Annessione perpetua https://ogzero.org/studium/annessione-perpetua/ Wed, 28 Aug 2024 06:40:17 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=13120 L'articolo Annessione perpetua proviene da OGzero.

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Tutto inizia a Saint-Louis

Già all’inizio del 1600 i francesi arrivarono nel nord dell’attuale Senegal, colonizzando un’isola che venne chiamata Saint Louis. Sulla stessa isola venne costruita più tardi una base commerciale di rilievo (1659) e nel 1673, su ordine del Re Sole, venne costituita la Compagnie du Senegal. Una compagnia coloniale che doveva dedicarsi all’amministrazione del fiorente commercio di schiavi africani (traite négrière in francese) e che seguiva le orme dell’inglese Royal African Company, fondata nel 1660 (con licenza di monopolio per il traffico di schiavi a partire dal 1663). L’espansione francese portò all’occupazione dell’isola di Gorée nel 1677 e a un commercio che già all’epoca si differenziava tra oro, gomma arabica e tratta di persone. L’anno successivo, nel 1678, ebbe termine la guerra franco-olandese (iniziata nel 1672) con una vittoria della Francia che manifestò la sua supremazia militare sul continente europeo. Una supremazia che si vedeva riflessa anche in Africa occidentale, dove nel 1696 venne creata una nuova compagnia, questa volta chiamata Compagnie Royale de Senegal, Cap-Verd et côtes d’Affrique.

Carta ideale della Concessione ottenuta dalla Compagnie Royale du Sénégal consegnata il 31 dicembre 1719 al signor de St Robert dal signor Brüe. Va da Cap-blanc a Bissaux, sancendo fin da allora i confini di un territorio che ha condiviso il medesimo destino

 

Due secoli di scontro anglo-francese per l’affaire mercantilista della storia moderna

Eliminati dunque dalla competizione per il Senegal, sia il Portogallo, che la Spagna, che la Repubblica delle Sette Province Unite, per l’impero francese rimaneva un solo grande avversario, l’Inghilterra, che dal canto suo stava provando a consolidare la sua presenza in Africa. Già dalla metà del Seicento infatti gli inglesi penetrarono lungo la valle del fiume Gambia, iniziando un fiorente commercio che portò nel secolo successivo a uno scontro aperto e costante con la Francia. Il Diciottesimo secolo fu infatti segnato da continue guerre tra Francia e Inghilterra e precisamente alle fine di una di queste, la guerra dei sette anni (1756-1763), la Francia sconfitta dovette rinunciare a tutte le basi che possedeva in Senegal. Solo vent’anni dopo però la partecipazione delle truppe francesi a sostegno degli insorti durante la rivoluzione americana (1776) consentì al governo di Parigi di sedere al tavolo della pace. Con il trattato di Versailles (3 settembre 1783) l’impero inglese, sconfitto, riconosceva l’indipendenza degli Stati Uniti d’America e restituiva alla Francia i porti senegalesi occupati due decenni prima.

Senegambia in una mappa del 1707 intitolata Carte de la Barbarie de la Nigritie et de La Guinee. Il destino di quel territorio e dell’incremento della tratta schiavista è condizionato dallo scontro tra Francia e Inghilterra – e di nuovo diventa centrale la sponda atlantica dell’America – con la parentesi delle Rivoluzioni di fine Settecento

Sospensione rivoluzionaria e Restaurazione coloniale

Pochi anni dopo però arrivò la rivoluzione francese, iniziata con la presa della Bastiglia il 14 luglio 1789 e seguita dalle guerre napoleoniche. Eventi che frenarono (se non proprio interruppero) la politica coloniale della Francia, facendo passare di nuovo i possedimenti francesi in Senegal, sotto il controllo inglese. Per il ritorno della Francia in Senegal bisognerà aspettare il 1816, dopo il crollo dell’impero Napoleonico e la “restaurazione” figlia del Congresso di Vienna (1° novembre 1814 – 9 giugno 1815).

☞Porti e mari “britannici”

Gorée – St-Louis: basi schiavistiche del colonialismo della Françafrique

Pax coloniale francese

Con la Restaurazione postbonapartista la Francia rientrò in possesso delle sue basi coloniali, iniziando un’opera espansiva di sistematica conquista di tutto il territorio, creando un tessuto amministrativo e di “sviluppo” per la creazione di una vera e propria colonia. Nel 1816, Luigi XVIII, appena ritornato sul trono di Francia, nominò il colonnello Julien-Désiré Schmaltz come amministratore dei possedimenti francesi sulla costa senegalese, con il compito di dare il via alla conquista dell’interno del territorio. Tra il 1817 e il 1845 le truppe francesi occuparono la regione di Waalo (ex provincia del regno Djolof) annientando il fragile regime teocratico instaurato nel 1830 dal marabut Diile. Nel 1854, Napoleone III incaricò un intraprendente ufficiale francese, Louis Faidherbe (che all’epoca aveva solo 36 anni), di governare ed espandere il mercato coloniale e di modernizzare l’economia del Senegal. Faidherbe costruì una serie di forti lungo il fiume Senegal, formò alleanze con i leader dell’interno del paese e inviò spedizioni contro coloro che resistevano al dominio francese. Nel 1857 fondo la città di Dakar, costruendo un nuovo porto, installando linee telegrafiche, costruendo strade, e propiziando quella che successivamente sarebbe stata la linea ferroviaria tra la capitale Dakar con il primo insediamento francese nel Nord, Saint Louis. L’opera di Faidherbe, ingegnere militare che fu impegnato anche in Algeria, era impregnata di quella che lui considerava una missione civilizzatrice e per questo costruì scuole, ponti (il ponte principale di St-Louis porta oggi il suo nome) e sistemi per fornire acqua potabile alle città. A livello agricolo introdusse la coltivazione su larga scala di arachidi, espandendo i possedimenti francesi. fino alla Valle del Niger e facendo diventare il Senegal (e la sua nuova capitale Dakar) la principale base nell’Africa Occidentale Francese (Aof). Rimase in carica fino al 1865 (gli succedette come governatore l’ammiraglio Jauréguiberry) e nel 1889 (anno della sua morte) venne pubblicato il suo libro dal titolo Le Sénégal: la France dans l’Afrique occidental (Il Senegal, la Francia nell’Africa Occidentale).

Foto di Diego Battistessa

L’annessione

I governatori che succedettero a Faidherbe conquistarono i regni di Fouta Toro, del Baol, del Kaydor e del Saloum e nel 1889 si arrese ai francesi anche Ali Bouri, l’ultimo sovrano wolof. Mentre venne annessa solo nel 1896 la regione meridionale del Casamance che fino a quel momento era rimasta sotto il controllo del Portogallo. A quel punto la Francia considerò il Senegal come un territorio “pacificato” e nel 1904 venne nominato il primo governatore civile dell’Aof, una federazione fondata nel 1895 con capitale Dakar e che comprendeva Senegal, Niger, Costa d’Avorio, Ciad, Dahomey, Guinea, Alto Volta (attuale Burkina Faso) e Mauritania.

Egalité eurocentrica nella Françafrique

Come ci spiega Papa Saer Sako, nel suo libro Senegal (edizioni Pendragon): «La filosofia coloniale francese si ispirava agli ideali della rivoluzione del 1789, condizionati però da un radicale eurocentrismo, il cui presupposto poggiava sulla convinzione che i popoli colonizzati avrebbero potuto accedere a un superiore grado di civiltà solo adottando i fondamenti della cultura europea. Le autorità coloniali, dunque, si ritennero investite della missione di civilizzare popolazioni considerate ancora immerse nella barbarie, riconoscendo loro una potenziale eguaglianza di diritti in quanto esseri umani, ma rigettando e soffocando ogni aspetto della cultura africana».

Nonostante il forte controllo culturale ed economico francese, su una società complessa e multietnica (composta dalle etnie Wolof, Sérère, Lébou, Peul o Foulbé, Toucouleur, Diola, Mandingo, Sarakholé e Bassari) tra il 1910 e il 1912 nacquero le organizzazioni dell’Aurora di St-Louise quella dei Giovani Senegalesi, le prime organizzazioni finalizzate a dar voce alle aspirazioni dei nativi. Solo due anni dopo, per la prima volta nella storia, un deputato di origine africana, Blaise Diagne, sedette nell’Assemblea Nazionale di Parigi. Ci vorranno però ancora 15 anni di costruzione del tessuto politico senegalese perché nel 1929, prenda vita il Partito della Solidarietà Senegalese, tra i cui membri troviamo Lamine Gueye e soprattutto Sédar Senghor. Quest’ultimo verrà eletto nel 1945 come rappresentante del Senegal nel parlamento francese e tra il 1959 e il 1960 il Senegal e il Sudan francese si unirono nella Federazione del Mali, con Senghor come presidente della nuova Repubblica.

In questo 2024 si è assistito a molte rivolte di giovani africani colti e consapevoli del condizionamento coloniale ancora perdurante: in Kenya contro il presidente Ruto, in Sahel con la presa di potere di giovani militari che hanno espulso l’esercito francese “diversamente occupante”… il Senegal ha tradizioni saldamente democratiche e la comunità si è liberata del burattino francese Macky Sall, completando una presa di coscienza dell’intera comunità, costituita da una ventina di realtà culturali e linguistiche diverse, che attingono alle radici precoloniali; un percorso interno all’Africa che può essere paragonato alla riappropriazione parallela a quella che guarda alle componenti afrodiscendenti in America, come superamento del male coloniale che ha però trasferito in America una cultura, la cui componente si chiede venga riconosciuta nella costituzione delle inter comunità oltreatlantico.

☞Un ponte tra Bahia e Benin

Per i francesi però tutto ebbe inizio a Saint-Louis

«Immense barche (Cayucos), molte volte policromate dai toni accesi e sempre ricche di bandiere e simboli, preghiere e auguri: ciascuna affidata al rispettivo marabù (leader religioso) e/o a Mame Coumba Bang, lo spirito femminile che li protegge dall’ira dell’oceano e, quindi per estensione, protettore anche delle città evitando che vengano fatte scomparire dalle inondazioni. Barche realizzate artigianalmente partendo da un unico pezzo di albero, che trasportano ogni giorno centinaia di pescatori…

Foto di Diego Battistessa

Il fiume Senegal si butta in mare avidamente, dopo aver attraversato altri tre paesi e circa 1700 chilometri, in questo angolo peculiare del pianeta. L’Oceano Atlantico attacca con furia eterna questa lingua di sabbia e dune lunga una trentina di chilometri e larga appena 500 metri, e punisce tutto ciò che incontra sul suo cammino (oggi ancor più a causa dell’impatto dei cambiamenti climatici e della mano artificiale dell’uomo manifestatasi con l’apertura di una breccia nel 2003 nella zona, che ha diviso in due la lingua aumentando l’ansia dominatrice del mare) … Gli autoctoni dicono che nessuno è come i pescatori di queste acque, che lottano per emergere vittoriosi contro le mortali onde oceaniche che già tanti naufragi hanno causato. Nessuno. E attenzione, non solo l’uscita in mare è pericolosa, ma anche il ritorno, “perché sbarcare a St-Louisnon è una cosa qualunque”, sottolineano.
Il sociale, l’economico, il politico, il culturale, il gastronomico, il festivo, l’ambientale… Tutto ruota attorno alla pesca a St-Louis(circa 250.000 abitanti), un tempo capitale dell’Africa occidentale francese e del Senegal e della Mauritania; la seconda città del Paese da quando Dakar divenne capitale nel 1857. Basta guardare una mappa per apprezzare la sua peculiarità geografica, il suo valore strategico nel Nord del Paese. St-Louisè il confine con la Mauritania, per alcuni è il punto finale del deserto del Sahara, per altri ne è la porta d’ingresso…
Città creata dai francesi nel 1659 come primo insediamento europeo nell’Africa occidentale, ma prima di loro la storia qui già cresceva, proprio come crescono i baobab…»

Queste parole, che travolgono come fossero colori di un dipinto su tela, sono della giornalista Lola Huete Machado, che nel 2019 pubblicò sul “El Páis” un articolo che coglieva l’anima di Saint-Louis. E chiunque l’abbia visitata non può non sentire vibrare quelle parole, sovrapponendole alle immagini di una città i cui tratti coloniali sono ancora ben visibili, sia nell’architettura ma anche nell’economia che vede nel turismo (maggioritariamente europeo e specialmente francese) una fonte importante di ingresso.

Foto di Diego Battistessa

Una città dalle molte sfaccettature, con hotel di lusso a pochi metri da una linea di costa dove l’impoverimento e l’economia di sussistenza scandiscono il tempo marcato dall’andare e venire dalle onde. Sulla spiaggia, piena di rifiuti dove deambulano in cerca di cibo capre, pecore e cavalli (spesso di una magrezza non compatibile con la vita), ci sono decine di cayucos, descritti magistralmente da Lola Huete Machado. Accanto a loro un uomo anziano che ha voglia di parlare, lui li ripara i cayucos, mi spiega in francese. Oramai è troppo vecchio per salire su uno di quelli che vanno verso un futuro possibile, verso l’Europa.

Mi indica un’ombra nell’orizzonte, una lingua di terra nascosta dalla foschia che si crea per il troppo calore: «Quella è la Mauritania», mi dice. E poi, spostando il dito un po’ più in là, verso l’oceano, verso la vastità dell’azzurro orizzonte mi dice con fermezza. «Quella invece è l’Europa, tu non la vedi, ma in quella direzione ci sono le Canarie, c’è la Spagna, c’è la speranza».

Foto di Diego Battistessa

Ma se un da lato l’isola di Saint Louis, chiamata anche la “Venezia africana”, è parte di una rotta che da anni è percorsa da migliaia di persone che cercano un miglior futuro, dall’altra è anche (dal 2000) annoverata dall’Unesco come patrimonio dell’umanità.  Un riconoscimento che ha portato a un programma di rinnovamento e riqualificazione di vecchi edifici coloniali, trasformando molti di questi in ristoranti e hotel (gestiti spesso da europei).

Città del Mercantilismo Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù
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Fatale attrazione schiavista tra iberici e mauritani

Ancora adesso in Mauritania – paese che ha contribuito alla presenza di un’ultima colonia sul suolo africano: il Sahara occidentale – vige una legislazione che prevede lo schiavismo, una pratica – denunciata soprattutto dal movimento abolizionista fondato da Biram Dah Abeid, ex schiavo – perpetrata dalla minoranza “bianca” berbera, discendente da antichi nobili beydens, che vessano da secoli la maggioranza nera haratine, piantando in antichità semi panafricani per quello sfruttamento europeo della schiavitù su scala globale benedetto da bolle papali ancora precedenti l’impulso alla tratta derivante dalla spedizione di Cristobal Colon: Niccolò V prendeva semplicemente atto degli enormi interessi e ricchezze provenienti dalla deportazione e dal colonialismo, dunque lo benediva.
Come si legge in questo estratto dal volume di Diego Battistessa America Latina Afrodiscendente: una storia di (R)esistenza, esistono porte che mettono in comunicazione mondi diversi, in cui lo schiavismo si incista perfettamente sugli affari dei rispettivi gruppi dominanti su sistemi diversi tra loro ma complementari nello sfruttamento.

L’impero portoghese (l’ultimo impero a sciogliersi dopo la Rivoluzione dei Garofani, 1415 -1975) è stato indissolubilmente caratterizzato dalla tratta degli schiavi che divenne la colonna portante delle attività economiche d’oltremare. Il Portogallo in Africa si occupò di istituzionalizzare la pratica della schiavitù (già operata in diverse forme dai regni locali) e di darle un apparato legale e amministrativo. Non a caso la cittadina di Lagos, in Algarve, nel sud del Portogallo è conosciuta come la porta europea della tratta degli schiavi africani. Nel 1444, in un giorno infausto, arrivarono in quel porto 200 schiavi africani sequestrati in una retata partita da un porto commerciale che il Principe Enrique (conosciuto come El Navegante) aveva stabilito sulle coste dell’attuale Mauritania.

Cronologia e rotte dei principali movimenti della tratta degli schiavi. Mappa: NGM-P. Fonte: An Atlas of the Transatlantic Slave Trade, di David Eltis e David Richardson, riprodotto con il permesso della Yale University Press.

I profitti della vendita di quegli esseri umani spinsero molti altri a cercare fortuna con spedizioni verso le coste africane. Nei dieci anni successivi centinaia di africani arrivarono al porto di Lagos che si trasformò in breve tempo nel primo mercato europeo di vendita di schiavi provenienti dall’Africa. Questo è il punto di inizio dell’industrializzazione della tratta di esseri umani che portò più di 12 milioni di persone a essere “trafficate” verso le Americhe (oggi a Lagos esiste il Museo della Schiavitù, monito di quel passato di infamia e terrore diffuso ormai nei luoghi topici dello schiavismo: Gorée, Bahia, Liverpool, Amsterdam).

Foto di Diego Battistessa

Solo 8 anni dopo l’arrivo dei primi schiavi a Lagos, venne concessa la benedizione papale al re del Portogallo Alfonso V per legalizzare, agli occhi della comunità cristiana, quell’abominevole pratica. Il commercio di esseri umani fioriva, il centro delle operazioni si era spostato da Lagos alla capitale Lisbona e si cominciavano a stabilire regole e tariffe standard per normare la tratta e la vendita di esseri umani provenienti dall’Africa.

Dum diversas

Il papa Niccolò V (Tommaso Parentucelli) con la bolla Dum diversas del 16 giugno 1452 (quindi ben quarant’anni prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo nelle Americhe) legalizzava per volere di Dio la schiavitù e concedeva al re del Portogallo Alfonso V di «ridurre in perpetua schiavitù saraceni, pagani, infedeli e nemici di Cristo». Qui un estratto della bolla papale:

«Noi, rafforzati dall’amore divino, spinti dalla carità cristiana, e costretti dagli obblighi nel nostro ufficio pastorale, desideriamo, come si conviene, incoraggiare ciò che è pertinente all’integrità e alla crescita della Fede, per la quale Cristo, nostro Dio, ha versato il suo sangue, e sostenere in questa santissima impresa il vigore delle anime di coloro che sono fedeli a noi e alla vostra Maestà Reale. Quindi, in forza dell’autorità apostolica, col contenuto di questa lettera, noi vi concediamo la piena e libera facoltà di catturare e soggiogare Saraceni e pagani, come pure altri non credenti e nemici di Cristo, chiunque essi siano e dovunque abitino; di prendere ogni tipo di beni, mobili o immobili, che si trovino in possesso di questi stessi Saraceni, pagani, non credenti e nemici di Cristo; di invadere e conquistare regni, ducati, contee, principati; come pure altri domini, terre, luoghi, villaggi, campi, possedimenti e beni di questo genere a qualunque re o principe essi appartengano e di ridurre in sudditanza i loro abitanti; di appropriarvi per sempre, per voi e i vostri successori, i re del Portogallo, dei regni, ducati, contee, principati; come pure altri domini, terre, luoghi, villaggi, campi, possedimenti e beni di questo genere, destinandoli a vostro uso e vantaggio, e a quelli dei vostri successori…» (Niccolò V, Dum diversas)

Mexico, Distrito Federal, Palazzo Nazionale, murales di Diego Rivera dipinti sulla civiltà precolombiana

☞Conseguenze misericordiose del possesso di uomini

L’asse lusitano Gorée-Lagos diventa commercio transoceanico con Bahia

Nel 1536 dunque i portoghesi stabilirono una redditizia base commerciale sull’isola di Gorée ma le vicende del continente africano (e in questo caso la colonizzazione del Senegal) sono sempre state strettamente legate alle vicende interne del continente europeo. Nel 1580 infatti, con l’annessione del Portogallo alla corona di Spagna, la corte di Madrid prese possesso anche di tutti i territori che fino a quel momento erano stati sotto il dominio portoghese in Africa; e non solo…

L’unione iberica tra Spagna e Portogallo, tra il 1580 e il 1640, sotto l’egida della casa reale degli Asburgo dette origine a un conglomerato territoriale che comprendeva possedimenti in tutto il mondo: Messico, gli attuali Stati Uniti occidentali e meridionali, America centrale, Caraibi, Sud America, Filippine, Timor orientale, Paesi Bassi spagnoli (eccetto Paesi Bassi), nonché nuclei costieri e diverse enclave in Barberia (termine utilizzato per riferirsi alle zone costiere di Marocco, Algeria, Tunisia e Libia), Guinea, Angola, Mozambico e altre basi in Africa orientale, Golfo Persico, India, regni e ducati territoriali in Francia e in Italia e nel Sudest asiatico, (Macao, Molucche e Formosa).

Infatti il commercio portoghese non entrerà mai nello schema della Triangolazione: contando direttamente sui possedimenti intermedi di Capo Verde, San Paulo, Fernando de Nouronha tra Guinea, Angola, Mozambico e coste del “vicino Brasile (Salvador de Bahia)”, finché la tratta degli schiavi fu un affare iberico non transitò dall’Europa, ma andò direttamente dal Golfo di Guinea al Pernambuco.

Nonostante ciò però, la priorità che la Spagna dava allo sfruttamento delle enormi ricchezze delle colonie del “Nuovo Mondo” e la lunga e logorante guerra navale con l’Inghilterra (scoppiata proprio perché lo schiavismo industriale inglese andava a collidere su zone di influenza spagnole) fece passare in secondo piano il progetto di espansione nel continente africano, aprendo la porta all’arrivo di nuove potenze coloniali europee, come la Repubblica delle Sette Province Unite (1581-1795, territori calvinisti che oggi costituiscono i Paesi Bassi renani dalla Frisia a Rotterdam, in contrapposizione alle 8 province meridionali cattoliche, corrispondenti alle Fiandre, Artois, Brabante e Lussemburgo) che presto stabilì una base proprio sull’isola di Gorèe.

La piazza della borsa di Amsterdam come simbolo del nascente capitalismo, che si sviluppò soprattutto in Olanda e Inghilterra (alleate contro Luigi XIV). Capitale economica d’Europa nel Seicento, Amsterdam basò la sua fortuna soprattutto sull’attività commerciale e finanziaria; nella borsa venivano trattati i prezzi di tutte le merci e vi investivano anche i piccoli agricoltori e gli artigiani. Dipinto del 1659 (Rotterdam, Museum Boymans – Van Beuningen)

Arrivo in Senegal della Repubblica delle Sette Province Unite

Il settore tessile era alla base dell’economia olandese e inglese; il cotone ovviamente proveniva dal commercio della triangolazione schiavista. La tratta degli schiavi olandesi – avvenuta tra il XVII e il XIX secolo – è stata determinante per lo sviluppo economico e sociale del paese. Dipinto di Isaac Claesz van Swanenburgh in cui si vede il momento della filatura, che veniva eseguita prevalentemente dalle donne. (Leida, Stedelijk Museum de Lakenhal)


Stampa custodita nel National Museum of World Cultures in Amsterdam, Netherlands. Il Museo Nazionale della Schiavitù, un progetto a lungo atteso dai discendenti delle comunità africane delle ex colonie olandesi in Suriname (Sud America) e nelle Antille Olandesi (Caraibi), sta finalmente prendendo forma e l’apertura è prevista per il 2030

L’arrivo dei commercianti della Repubblica delle Sette Province Unite in quello che oggi è il Senegal (per gli olandesi Senegambia, o in dutch Bovenkust), ha coinciso con la progressiva perdita di controllo del territorio da parte del Portogallo. Le prime basi commerciali della Dutch West India Company furono stabilite sull’isola tra il 1588 e il 1617, periodo nel quale l’isola assunse il suo nome attuale partendo dal Goede Reede olandese e derivato poi nel francese Gorée. In quest’epoca vennero costruiti la maggior parte dei forti e dei magazzini che furono successivamente utilizzati per il massivo “stoccaggio” e commercio delle persone schiavizzate, mentre la prima base commerciale permanente fu installata solo nel 1621 (quando l’isola venne annessa alla Repubblica delle Sette Province Unite, comprandola dal Portogallo). Nel giugno di quell’anno infatti, venne fondata dai fiamminghi Willem Usselincx e Joannes de Laet, la Compagnia delle Indie Occidentali (Geoctroyeerde West-Indische Compagnie – WIC): una compagnia della marina mercantile olandese che rimase operativa fino al 1792. La sua sede si trovava ad Amsterdam e nel 1621, la Repubblica delle Sette Province Unite gli concesse una licenza per un monopolio commerciale nelle Antille olandesi, autorizzando la partecipazione olandese alla tratta degli schiavi atlantica, brasiliana, caraibica e del Nordamerica. L’area in cui la compagnia poteva operare era costituita dall’Africa occidentale (tra il Tropico del Cancro e il Capo di Buona Speranza) e dalle Americhe, inclusi l’Oceano Pacifico e la Nuova Guinea orientale. Lo scopo della licenza era eliminare la concorrenza, in particolare spagnola e portoghese, tra le varie stazioni commerciali.

☞La Casa degli schiavi inaugurata dagli olandesi

L’importanza dei porti atlantici nel Mercantilismo

La Repubblica delle Sette Province Unite non riuscì a mantenere però per molto tempo il controllo totale dell’isola anche perché proprio nella seconda metà del Diciassettesimo secolo si consumò una sfibrante lotta tra l’Olanda e la Francia di Luigi XIV (il Re Sole), confronto che portò a un progressivo tramonto del dominio olandese sui mari, a favore della già citata Francia (i porti atlantici di Nantes innanzi a tutti, e poi La Rochelle, Le Havre e Bordeaux in particolare) e dell’Inghilterra con i suoi porti (Liverpool soprattutto, e poi Londra, Bristol).

Una nota importante quando parliamo di commercio di persone e di Africa è data dalla comprensione del tipo di scambio che veniva proposto dalle potenze coloniali europee ai regni africani, che erano i principali “fornitori” di schiavi. I trafficanti europei intercambiavano diversi tipi di mercanzie nelle coste africane per l’acquisto di schiavi: tessuti, alcool, armi, diversi tipi di utensili e anche un particolare tipo di conchiglia molto ricercata e ambita dai nobili, sacerdoti e guerrieri locali, chiamata cauri. Il cauri è una piccola conchiglia che possiede una spiccata lucentezza, tanto da farla assomigliare alla porcellana e per questo in passato è stata utilizzata alla stregua di una pietra preziosa, assumendo un valore commerciale molto alto.

Una stampa del 1845 che mostra come le conchiglie cowry venissero usate come moneta corrente da un commerciante arabo. Il Ghana ha adottato l’immagine della conchiglia come moneta aggiungendo per antifrasi “Libertà e Giustizia”

Queste conchiglie sono “la casa” di un mollusco della famiglia Cypraeidae, che si ritiene essere originario delle Maldive, sebbene si trovi anche in diverse aree non solo nell’Oceano Indiano, ma anche nel Pacifico. I grandi imperi coloniali erano gli unici che potevano acquisire grosse quantità di cauri, che veniva poi scambiato con persone, sulle coste occidentali dell’Africa. In questo senso, un altro elemento da sottolineare (e molto spesso poco considerato), era la dinamica attraverso la quale gli schiavi venivano catturati e posteriormente venduti ai commercianti europei.

 

Le tratte dello schiavismo nell’interno africano

Questi ultimi infatti non si addentravano nel cuore del continente africano per ridurre in schiavitù le popolazioni native, ma promuovevano quest’attività tra i regni locali.

Così il compito di catturare e schiavizzare uomini e donne africane ricadeva sui sovrani delle tribù locali che dominavano le relazioni commerciali nel continente, lasciando agli europei la parte della navigazione e della distribuzione degli schiavi nei territori coloniali oltre oceano. Gli schiavizzati venivano catturati durante i conflitti tra le popolazioni locali, portati fino alla costa e poi venduti ai trafficanti europei. Non mancavano però casi di persone, appartenenti alle stesse comunità che commerciavano con gli europei che, o per aver commesso un crimine o semplicemente per essere caduti in disgrazia agli occhi del sovrano, venivano venduti come schiavi. Questo ci permette di poter affermare che in sostanza gli europei controllavano solo la parte costiera oceanica del traffico degli schiavi africano, che vedeva nello stesso continente un forte protagonismo dei sovrani locali, veri signori e padroni del commercio di esseri umani nel continente.

☞ La cattura degli africani sugli africani

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Nhara lusitana – signare francese: tenutarie amministrative

La più grande Casa degli Schiavi dell’isola di Gorée (e ultima) fu aperta dagli olandesi nel 1776. Questa “casa degli orrori” era amministrata da Anna Colas Pépin e oggi è stata convertita dall’Unesco in un museo della memoria e santuario per la riconciliazione.  La stessa Unesco che dichiarò nel 1978 patrimonio dell’umanità questa isola di soli 17 ettari che si trova a 15 minuti di traghetto dal porto di Dakar.

Edouard-Auguste Nousveaux, Il principe di Joinville assiste a un ballo sull’isola di Gorée, dicembre 1842 – Collezioni del castello di Versailles – (Tra le persone che lo ricevono si può vedere la figura di quella che potrebbe essere Anna Colas Pépin)

Anna Colas Pépin era una signare che gestì nel Diciannovesimo secolo quella che oggi è la casa museo sull’isola di Gorée. “Annacolas” Pépin (1787-1872), ostentò il prestigioso ruolo di signare, nome dato alle donne mulatte franco-africane dell’isola di Gorée e della città di Saint-Louis nel Senegal coloniale francese tra il Settecento e l’Ottocento, diventando una delle persone più rilevanti nel commercio dell’isola. Esisteva una parola anche in portoghese per definire lo stesso ruolo, nhara, che identificava le donne d’affari afro-portoghesi che hanno svolto un ruolo importante come agenti d’affari attraverso i loro legami con le popolazioni portoghesi e africane.

Belle vite tra mito e romanzo storico su sfondo schiavista

Il ruolo delle signare era importantissimo e spesso fungeva anche da vincolo sociale e culturale con le amministrazioni coloniali dei territori sotto il controllo delle potenze europee. Queste relazioni non si limitavano allo spazio commerciale e al traffico di influenze ma spesso includevano anche relazioni amorose più o meno ufficiali, con alti rappresentanti della colonia. Il loro mito e la loro influenza hanno attraversato varie generazioni e le troviamo anche in opere letterarie di enorme spessore, come nel romanzo storico Segu (1988), della recentemente scomparsa scrittrice e giornalista dell’arcipelago della Guadalupa (Caraibi), Marise Liliane Appoline Boucolon (Maryse Condé). In questa magnifica e già immortale opera, Maryse Condé, ci parla nella prima parte del capitolo 9, di Anna Pépin (zia di Anna Colas Pépin).

 

La memoria controversa in epoca contemporanea

Il diverso significato museale

Ciascuno dei vertici del triangolo mercantilista propone un suo approccio alla memoria, museificando gli aspetti con cui si trova a fare maggiormente i conti dal proprio punto di vista della tratta: a Bahia il museo della coscienza nera, a Liverpool quello delle scuse vergognose, in Algarve quello della memoria rimossa delle deportazioni portoghesi da Gorée, tanto poco riconosciuto da essere in madrepatria lusitana.

Il Museo della memoria e la Maison des Esclaves

«Sdraiata su una stuoia sul balcone della sua casa sull’isola di Gorée, Anne Pépin si annoiava. Si annoiava da dieci anni, da quando il suo amante, il gentiluomo di Boufflers, che era stato governatore dell’isola, era tornato in Francia. Aveva messo da parte abbastanza soldi per sposare la sua bella amica, la contessa di Sabran. Anne restava sveglia la notte pensando alla sua ingratitudine. Non aveva potuto dimenticare che per alcuni mesi aveva organizzato feste di alta classe e balli in maschera, intrattenimenti teatrali come quelli della corte del re di Francia. Ma ormai tutto era finito e lei era lì, abbandonata nel suo pezzo di basalto gettato in mare davanti a Capo Verde, unico insediamento francese in Africa, a parte Saint-Louis alla foce del fiume Senegal» (Maryse Condé, Segu).

Per un approfondimento sulla storia e creazione di questa casa museo, possiamo fare riferimento a un articolo della Ph.D Deborah L. Mack, pubblicato dall’American Alliance of Museums (AAM) – un’associazione senza scopo di lucro che si occupa di riunire i musei degli Stati Uniti sin dalla sua fondazione nel 1906.

Mack ci spiega come che nel Novecento i membri della famiglia di Boubacar Joseph Ndiaye (nativo di Gorée) acquisirono una residenza del Diciottesimo secolo che fu la casa di una ricca imprenditrice senegalese e signare di nome Anna Colas Pépin. Ndiaye passò diversi anni della sua infanzia in questa residenza e dopo l’indipendenza del Senegal dalla Francia, con l’incoraggiamento personale di Léopold Sédar Senghor (illustre poeta e primo presidente del Senegal indipendente dal 1960 al 1980), Ndiaye iniziò la sua ricerca storica sull’edificio. Investendo in proprio tempo e risorse economiche, Ndiaye “scavò” nel passato sociale e architettonico della residenza Pépin. scoprendo un infame passato che lo portò a ribattezzare la casa come Maison des Esclaves (la Casa degli Schiavi). Il lavoro di Ndiaye come curatore prima e fondatore del museo poi, è durato fino alla data della sua morte, avvenuta nel 2008.

Foto di Diego Battistessa

Dall’industria schiavistica a quella turistica

Con l’abolizione della schiavitù finì l’epoca di splendore di Gorée che doveva la sua fama e la sua ricchezza al commercio di quello che all’epoca veniva chiamato “avorio nero”, una forma mercantilista e disumanizzante di chiamare le persone vittime della tratta.

Di fronte alle sue coste nacque Dakar, la futura capitale del Senegal, e Gorée si svuotò progressivamente. Dei 5000 abitanti che contava alla fine dell’Ottocento, oggi se ne contano poco più di 1000. L’isola divenne un luogo di riposo e svago per le famiglie benestanti dei politici coloniali in cerca di tranquillità e oggi, anche grazie al lavoro svolto dall’Unesco, è un luogo che riceve un flusso importante di turisti internazionali.

L’orrore dello schiavismo in epoca moderna

Per le strade dell’isola, dove non circolano automobili e il tempo sembra essersi fermato, le costruzioni color pastello si alternano a edifici in rovina che ricordano antichi fasti del tempo che fu. Una ricchezza che nascondeva un orrore senza pari, perché mentre al secondo piano di queste mansioni si consumava la vita in stile “europeo” con cerimonie, balli e riunioni d’affari, al piano terra “vivevano” un vero e proprio inferno le persone “ammassate” in attesa di essere vendute: infatti mentre al piano superiore viveva il proprietario della Masion des Esclaves, al piano inferiore tutto era stato costruito nei minimi dettagli per il commercio umano. Un’architettura della tortura con celle anguste dove venivano divisi uomini, donne e bambini; ma esistevano anche prigioni (luoghi ancora più angusti e claustrofobici), dove annientare la resistenza psicologica dei più ribelli, oltre a una stanza utilizzata per l’alimentazione. In quest’ultimo spazio venivano “ingrassati” gli schiavi prima di essere venduti, secondo dei protocolli che prevedevano di raggiungere un certo peso prima delle trattative con i proprietari delle navi negriere.  Si creava volontariamente anche una separazione fisica tra i bambini (da 4 a 12 anni) e le loro madri, per impedire a queste ultime di udire il pianto dei figli, e preservare così la loro “salute” e quindi il prezzo di vendita della “merce”. La Casa Museo dell’isola di Gorée è il perfetto esempio di queste costruzioni del terrore. Il pianoterra di questo edificio poteva arrivare a contenere fino a 200 persone, divise in celle di poco più di 2 metri quadrati, dove erano costrette a rimanere in piedi ed espletare i loro bisogni nella stessa posizione. All’arrivo i prigionieri passavano la prima ispezione dove si controllava la dentatura, si cercavano segni di malattie, cicatrici, qualsiasi indizio che potesse diminuire il prezzo. Gli uomini, in forza, che pesavano almeno 60 kg erano destinati immediatamente alla vendita. Tra il primo e il secondo piano della mansione, due scale semicurve, venivano esposte le persone sequestrate e schiavizzate per essere mostrate e negoziarne il prezzo con i potenziali acquirenti.

Foto di Diego Battistessa

Una volta acquistati, non veniva dato il loro tempo di dire addio a nessuno, venivano fatti passare per un angusto corridoio nella cui parte finale si trovava una porta affacciata sul mare: il luogo tristemente noto come la porta del non ritorno. L’ultimo punto di contatto fisico con il proprio continente, la propria terra, il proprio universo: il primo passo nella tratta oceanica che li avrebbe portati vero il “Nuovo Mondo“.

Ile de Goré

Una simbolica porta sull’isola di Gorée, da dove le imbarcazioni schiaviste salpavano verso il continente americano, trasportando nelle stive gli schiavi catturati come manodopera nei campi oltreatlantico. Foto di Adriano Boano

Merce all’ingrasso

Chi però non pesava almeno 60 kg e non dimostrava di essere sufficientemente in forza, veniva obbligato a mangiare, secondo le stesse pratiche usate per ingrassare il bestiame. Catene, ceppi e pesanti palle di ferro logoravano polsi, collo e caviglie, impedendo ogni tentativo di fuga, rompendo la resistenza psicologica e facendo piombare queste persone nella più totale rassegnazione. L’incapacità di comunicare tra loro (spesso venivano da luoghi, etnie e culture diverse) aumentava il sentimento di solitudine, portando alcuni di loro a tentare il suicido. Morirono a migliaia, in queste e nelle altre case degli schiavi dell’isola. Morirono di malattie, morirono di botte, morirono di paura, violentati in ogni modo possibile e immaginabile, abusati in ogni aspetto della dignità umana: morirono anche quelli che restarono vivi.

☞e continuarono a morire in catene oltreatlantico

Edifici tra le rovine: la riconciliazione impossibile

Sull’isola sono presenti oggi altri luoghi simbolo che rendono testimonianza di un passato lontano dall’abbandono del presente. Arrivando dal mare, con La Chaloupe de Gorée (barca Gorée) che parte dal Porto di Dakar (Terminal dei Traghetti), la prima cosa che si vede è il Fort d’Estrées. Un forte con una importante batteria di cannoni, costruito dai francesi tra il 1852 e il 1856 per proteggere l’ingresso del porto della recentemente fondata Dakar. Oggi questo spazio ospita un museo, gestito dall’Institut fondamental d’Afrique noire (Ifan), dedicato alla memoria africana. Nella stessa zona trovavamo anche un simbolo che voleva essere di riconciliazione ma che ha acceso più di una controversia. Proprio di fronte al museo si trovava infatti la piazza Europa, per celebrare gli aiuti che l’Unione europea ha destinato per il ripristino dei valori storici dell’isola. Nel giugno 2020 però l’amministrazione locale ha deciso di ribattezzare il luogo come “Place de la Liberté et de la Dignité humaine”, così come spiegato in questo articolo di “Le Monde”.

Foto di Diego Battistessa

Lasciandosi alle spalle il forte-museo si può iniziare una passeggiata (tra le poche strade che intrecciano l’isola) circondati da baobab e rigogliose bouganville, antiche case coloniali, ristoranti, piccoli punti di vendita di prodotti artigianali, alcune pensioni per il pernottamento e alcuni edifici in rovina. Possiamo trovare anche una chiesa, una moschea, una scuola e una piccola spiaggia di sabbia dove spiccano i variopinti tipici cayucos senegalesi.

Foto di Adriano Boano

Una passeggiata obbligata è quella che porta dal Mercato dell’Artigianato attraverso il sentiero dei Baobab, poche centinaia di metri che aprono lo sguardo verso i resti del Fort Saint-Michel, costruito dagli olandesi dopo aver acquistato l’isola dai portoghesi. L’isola è inoltre oggi sede e musa ispiratrice di una grande comunità artistica, le cui opere sono ben visibili in ogni angolo di questo piccolo pezzo di terra circondato dal mare.

Approcci diversi tra afrorappresentanti di opposte provenienze

Foto di Diego Battistessa


Foto di Diego Battistessa

L’isola di Gorée è diventata con il tempo anche un luogo di pellegrinaggio e manifesto politico per grandi leader mondiali contemporanei, tra i quali spiccano sicuramente Nelson Mandela e Barack Obama. Il 25 novembre 1991 Mandela visitò Gorée e nello specifico il Museo della Casa degli Schiavi, entrando una delle anguste celle di punizione e rimanendoci per svariati minuti. Quando lasciò la cella si racconta che non poté trattenere l’emozione, spiegando come quel posto gli ricordava Robben Island, in Sudafrica, dove era stato prigioniero.

Ancora presenti sul web, sono invece le immagini del presidente degli Usa, Barack Obama, che nel giugno del 2013 visitò l’isola di Gorée: occasione sfruttata dai suoi detrattori per strumentalizzare revisionisticamente il dibattito sulla reale o presunta importanza dell’isola e sul suo reale impatto numerico nella tratta transatlantica di persone.

☞c’è toponomastica e toponomastica

Città del Mercantilismo Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis
Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda
Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

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Prime contaminazioni europee

Tra il 1444 e il 1445 l’esploratore portoghese Dinis Dias fece rotta dal Portogallo verso sud, verso le coste occidentali dell’Africa. Nel suo viaggio non si applicò nella cattura di persone da schiavizzare e da poter rivendere nel nascente mercato di esseri umani di Lagos, bensì si concentrò nell’esplorazione di nuove terre e nuove rotte marittime. Dias giunse in quella che oggi è la penisola della regione di Dakar, battezzandola come penisola di Cabo Verde.

L’esploratore portoghese non sapeva di aver raggiunto la parte più occidentale del continente africano e di tutto il congiunto territoriale dell’Eurafrasia (Vecchio Mondo o Continente antico), quello che però vedeva era un eccellente porto naturale di fronte al quale si trovava un’isola che sarebbe diventata tristemente famosa in tutto il mondo: l’isola di Gorée (in francese, Île de Gorée; in portoghese, Ilha de Goreia) che fu per più di tre secoli uno dei mercati di persone che “rifornirono” le economie schiaviste di Stati Uniti d’America, Caraibi e Brasile. Dagli abitanti locali l’isola era chiamata Berzeguiche, però l’esploratore portoghese la battezzò come Ilha de Palma (l’isola delle Palme) e anche se non fu usata immediatamente come base permanente, il luogo venne utilizzato come punto di sbarco e commercio nella regione: cristianizzato nel 1481 con la costruzione di una cappella per i riti religiosi.

 

L’interesse delle potenze coloniali

Fu 84 anni dopo l’arrivo di Dinis Dias che i portoghesi costruirono sull’isola la prima Casa degli Schiavi, una data marcata a fuoco nella storia: il 1536 è l’anno che inaugurò uno dei processi più oscuri dell’umanità. L’isola passò di “mano in mano” più volte, giacché le potenze coloniali e marittime dell’epoca (Portogallo, Francia, Inghilterra e Paesi Bassi) a partire dal Sedicesimo secolo si dedicarono all’installazione di forti e insediamenti militari dal Senegambia (un’area geografica che corrisponde approssimativamente ai bacini dei fiumi Senegal e Gambia) fino al Golfo di Guinea. Fortezze che fungevano sia da scalo economico che come rifugio dalle aggressioni dalle potenze europee rivali e contro gli attacchi dei vicini stati africani.

Adolphe d’Hastrel, Casa della signara Anna Colas a Gorée, 1839

Dopo l’arrivo dei portoghesi giunsero sull’isola anche i naviganti della repubblica delle Sette Province Unite (attualmente Paesi Bassi) che nel 1588 ne iniziarono la colonizzazione, costruendo nel 1621 un insediamento per proteggere la loro attività di commercio di schiavi. Ed è proprio in riferimento al periodo di dominio dei Paesi Bassi che si fa risalire il nome dell’isola, giacché per la sua posizione strategica, questo piccolo pezzo di terra in mezzo al mare offriva un porto sicuro per l’ancoraggio delle navi, da qui perciò l’origine del suo nome: chiamata Goede Reede dagli olandesi (Baia buona). Nel 1677 arrivarono anche i francesi (dalla vicina e recentemente consolidata, nel 1659, base commerciale di Saint Louis), che assunsero il controllo e stabilirono una piccola base commerciale sull’isola. I francesi rimasero in possesso (in modo alterno) dell’isola fino al 4 aprile 1960 (data dell’indipendenza del Senegal) però a partire dall’abolizione della schiavitù in Francia e nelle colonie, avvenuta nel 1848, Gorée soffrì un enorme declino economico, che aumentò ancora di più con la fondazione della città di Dakar nel 1857 (attuale capitale del Senegal).

☞I francesi arrivano per rimanere

 

Destinazione d’uso schiavista

Fu così come questo piccolo lembo di terra si trasformò, secondo quanto riporta l’Unesco, in un quartier generale (prima legale e poi clandestino) della tratta di persone schiavizzate, dove arrivarono a operare contemporaneamente 28 Case di Schiavi, che “stipavano” in condizioni disumane (dentro veri e proprio ergastulum di romana memoria), persone rapite da varie parti dell’Africa occidentale. Persone schiavizzate (donne, uomini, bambini) che venivano imprigionati, incatenati e poi fatti salire su delle barche che li avrebbero portati (dopo orribili mesi di navigazione) a destinazione, in porti come quello di Salvador da Bahia, dove sarebbero stati marchiati a fuoco e venduti.

1. Le navi negriere

Vittime di una guerra etnica o del capriccio di un sovrano, catturati, fatti camminare incatenati per chilometri prima di raggiungere la costa africana dell’Oceano Atlantico. Lì, privati del loro nome, della loro identità, di tutti i diritti.

Vengono fatti salire su una nave: la prima che molte di quelle persone avessero mai visto. Di fronte a loro un viaggio di mesi attraversando l’Atlantico per raggiungere le piantagioni di canna da zucchero dove avrebbero lavorato fino a morire di stenti.

Una folla di neri di ogni tipo incatenati insieme, che a malapena hanno spazio per voltarsi, che viaggiano per mesi, storditi, circondati dalla sporcizia e da grandi contenitori pieni di vomito, in cui spesso cadono e muoiono soffocati i bambini. Le grida delle donne e il lamento dei morenti trasformano l’intera scena in un inconcepibile orrore. Morte e malattie sono ovunque e una persona su sei non sopravviverà a questo viaggio e al lavoro brutale ed estenuante che seguirà (Organizzazione delle Nazioni Unite – Onu)

Il “middle passage” (passaggio intermedio) era la parte del commercio triangolare che prevedeva un viaggio disumano (che durava dai due ai tre mesi) dai porti africani verso le coste del continente americano; questo commercio dalla rotta triangolare è il legame che tiene insieme il trittico proposto in questo dossier. Questa rotta stabilita nell’oceano Atlantico a partire dal Diciassettesimo secolo fino al Diciannovesimo secolo prevedeva l’acquisto di schiavi nei porti africani (specialmente nel Golfo di Guinea) per vendere le persone schiavizzate nei porti del “Nuovo Mondo”, dopo un lungo e penoso viaggio in mare di mesi (middle passage). Le barche quindi cariche di merci acquisite con la vendita degli schiavi, tornavano nei porti europei chiudendo il triangolo. Le barche destinate al trasporto di schiavi prendevano il nome di barche negriere. Le imbarcazioni venivano modificate dagli armatori in modo da poter contenere il maggior numero di persone possibile: il livello di sovraffollamento, mancanza di igiene e di qualsiasi minima considerazione umana, rendeva queste barche un vero inferno.

La storia infinita di abusi, sfruttamento, contenzione e scafisti

Il carico di persone schiavizzate (che in alcuni casi arrivò anche a 400 per una singola imbarcazione) veniva diviso tra uomini, adolescenti e donne insieme ai bambini. Le donne venivano costantemente stuprate dal capitano e dal resto dell’equipaggio, gli uomini venivano utilizzati per alcuni lavori minori e si cercava di tenerli in allenamento per mantenere la loro forza fisica. Alle donne venivano dati alcuni abiti per coprire i loro corpi mentre gli uomini spesso erano lasciati completamenti nudi. Le donne si occupavano anche di preparare il cibo per l’equipaggio e spesso agli schiavi veniva richiesto di intrattenere i marinai con balli e canti: negarsi voleva dire guadagnarsi una punizione fisica.

Domanda di merce abbondante e non avariata

Da un lato il capitano della barca negriera doveva assicurarsi di poter caricare quanti più schiavi possibile per massimizzare il suo guadagno, dall’altro però era necessario contenere le epidemie e le morti per denutrizione. Gli schiavi viaggiavano non solo in spazi angusti, senza luce, stipati come merce nella stiva o in sottocoperta ma anche incatenati. Durante la maggior parte delle infinte giornate di navigazione non potevano quasi muoversi. La dissenteria era la maggior causa di morte tra gli schiavizzati, che però molto spesso venivano colpiti anche dalla malaria, febbre gialla, scorbuto, problemi respiratori e infezioni. Non possiamo sapere per certo quali fossero le condizioni psicologiche delle persone che vivevano questa disumana situazione, né quanti casi di suicidio (o di tentato suicidio) ci siano stati: diventa però comprensibile immaginare che non fosse solo la dolenza fisica la causa di tante morti. La reale percentuale di morti, delle persone che dall’Africa venivano portate in schiavitù verso le Americhe è ancora fonte di dibattito, ma il punto di partenza comune degli storici è che si tratti di una cifra superiore al 15 per cento del totale.

I cimiteri nei mari

Quando una persona schiavizzata moriva sulla barca negriera non gli veniva concesso nessun rito funebre, veniva semplicemente gettata nell’oceano. Il compito dei marinai, spesso gente senza scrupoli e senza futuro (l’ultimo posto sul quale avrebbe voluto lavorare un marinaio bianco europeo dell’epoca, era una barca negriera), ero quello di prevenire le ribellioni, mantenere vivi gli schiavi e preparali (tagliare loro barba e capelli, curare le ferite superficiali, etc.…) per la vendita, prima di giungere a destinazione.

Una volta raggiunti i porti delle Americhe venivano fatti passare per un controllo sanitario e dopo il passaggio alla dogana venivano presi in carica dal commerciante locale autorizzato (che contava con una particolare licenza) che procedeva a marchiarli con un ferro incandescente per stabilirne la proprietà.

Estratto dal libro America Latina Afrodiscendente: una storia di (R)esistenza, di Diego Battistessa

Il Mercato e la Capoheira☜

 

Africa di David Diop

Difficile immaginare cosa abbia voluto dire, difficile provare a sentire quello che hanno sentito quelle persone, difficile se non impossibile immedesimarci in quel terrore, in quello spaesamento, in quella rabbia e in quell’angoscia. Lasciamo allora che siano le parole di David Mandessi Diop (9 luglio 1927 – 29 agosto 1960) un poeta senegalese (morto troppo giovane in un incidente aereo) che ha contribuito enormemente con il suo lavoro, che parte da un forte e convinta posizione anticoloniale, al movimento letterario della Négritude. In questa poesia Diop fa dialogare l’Africa con un discendente di quelle persone trafficate, che idealmente possiamo immaginare si trovi ora nel continente americano.

A mia madre

Africa, mia Africa

L’Africa e i fieri guerrieri negli antichi deserti

L’Africa cantata da mia nonna

Sul bordo del suo fiume lontano

Io non ti ho mai conosciuto

Ma il mio sguardo è pieno del tuo sangue

Il tuo buon sangue nero è stato versato sui campi

Il sangue del tuo sudore

Il sudore del tuo lavoro

L’opera della schiavitù

La schiavitù dei tuoi figli

Africa, dimmi Africa

Sei tu allora quella schiena che si curva

E che cade sotto il peso dell’umiliazione

Quella spada tremante, macchiata di rosso

Chi dice sì alla frusta nel lavoro di mezzogiorno

Ed ecco che gravemente, mi risponde una voce

Figlio impetuoso, quell’albero giovane e robusto

Quell’albero laggiù

Splendidamente solo tra i fiori appassiti

È l’Africa, la tua Africa che rinasce ancora

Che germoglia di nuovo con paziente ostinazione

I cui frutti acquisiscono a poco a poco

Il sapore amaro della libertà.

☞e una voce risponde oltreatlantico

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La Rivoluzione industriale di Cottonopolis

La ricchezza dei paesi imperiali è anche la nostra ricchezza.
Frantz Fanon, Les damnés de la terre

Quasi il 90 per cento del cotone coltivato in Alabama, Mississippi e Louisiana veniva venduto a Manchester, trasformato in tessuto da cinquemila stabilimenti tessili del Lancashire procurando cibo per le tavole delle classi lavoratrici. Così si potrebbe riassumere l’esplosione della rivoluzione industriale che coinvolse Manchester e che la vincolò, attraverso il porto di Liverpool a un commercio che incoraggiava e traeva enormi profitti dalla schiavitù. La zona del Lancashire era già molto famosa per i cotonifici alimentati dall’acqua ma l’apertura del primo stabilimento al mondo azionato a vapore in Miller Street, da parte di Richard Arkwright nel 1781, cambiò tutto. A poco a poco la meccanizzazione dei processi rivoluzionò in modo sostanziale la produzione, trasformando le fiorenti industrie tessili di Manchester nel primo centro di produzione di massa al mondo.

Nei paesi coloniali il popolo colonizzato e la classe operaia del paese colonialista hanno interessi comuni. La storia delle guerre di liberazione, condotta dai popoli colonizzati, è la dimostrazione della falsità di questa tesi
Frantz Fanon, Pour la révolution africaine : écrits politiques

Infatti spesso il Lumpenproletariat e le classi meno abbienti vedono i migranti come rivali proprio nell’attribuzione del lavoro più sfruttato e sottopagato, finendo con il fare il gioco dei padroni e dei fascisti più retrivi e razzisti.

Il ruolo dell’informazione e il controllo della narrazione

Il vincolo di Manchester con il passato schiavista del Regno Unito è così forte che recentemente (nel 2023) anche “the Guardian”, il principale quotidiano di sinistra britannico si è scusato. Il giornale fondato a Manchester nel 1821, ha infatti riconosciuto i suoi legami con la tratta e lo sfruttamento degli schiavi negli Stati Uniti d’America facendo riferimento agli uomini che iniziarono quest’impresa editoriale. Il giornale fu fondato da John Edward Taylor, un giornalista che era però anche un commerciante di cotone, attività che lo portò ad associarsi in numerose occasioni alle piantagioni negli Stati Uniti d’America: piantagioni che utilizzavano manodopera schiava. Però non solo John Edward Taylor: infatti almeno nove degli undici investitori originari possedevano società che ricavavano buona parte del loro capitale dal commercio di cotone, zucchero e prodotti tessili, industrie intrinsecamente legate alla schiavitù.

Ne risulta dunque che “the Guardian” è stato costruito e finanziato con denaro procedente dal commercio e dallo sfruttamento della schiavitù. Ole Jacob Sunde, direttore dello Scott Trust (che oggi possiede “the Guardian”), ha dichiarato:

«Lo Scott Trust è profondamente dispiaciuto per il ruolo che John Edward Taylor e i suoi sostenitori hanno avuto nell’economia della schiavitù. Riconosciamo che chiedere scusa e condividere questi fatti in modo trasparente è solo il primo passo per affrontare i legami storici di “the Guardian” con la schiavitù transatlantica, che è stata un crimine contro l’umanità. In risposta ai risultati della ricerca, lo Scott Trust si impegna a finanziare un programma di giustizia riparativa nel prossimo decennio, che sarà progettato e portato avanti in consultazione con le comunità discendenti negli Stati Uniti, in Giamaica, nel Regno Unito e altrove, focalizzato su progetti a lungo termine e iniziative di impatto significativo».

Foto di Diego Battistessa

Orrore schiavista Usa <-> Sfruttamento industriale GB

“The Guardian” però non si è limitato a stabilire le origini della sua fondazione, ma ha lanciato nel 2023 un enorme lavoro di giornalismo investigativo che ha prodotto un grande impatto nella società britannica. Stiamo parlando di Cotton Capital, how slavery changed the Guardian, Britain and the world. Una ricerca accademica, commissionata alla fine del 2020 dallo Scott Trust e condotta in tre fasi dall’Istituto per lo studio sulla schiavitù dell’Università di Nottingham e dal Wilberforce Institute for the Study of Slavery and Emancipation dell’Università di Hull, ha infatti stabilito una serie di connessioni tra il commercio transatlantico di persone schiavizzate, la città di Manchester e la Gran Bretagna in generale. Una serie di articoli, reportage, podcast e documenti che ricostruiscono e spiegano nel dettaglio l’oscuro passato di Cottonopolis.

Foto di Diego Battistessa

«Quando ci prendiamo un momento per pensare agli orrori della schiavitù americana raramente siamo portati a fare collegamenti con gli stabilimenti di Manchester».
David Olusoga, storico e ricercatore dello Scott Trust

lo schiavismo reso possibile dai porti britannici ☜

L’inchiesta di “The Guardian”

Qui alcune parti, accessibili gratuitamente, della ricerca intitolata Cotton Capital dal quotidiano progressista di Manchester, che si collega direttamente al vertice del Triangolo sviluppato a Bahia.

Dalla pagina web del museo, possiamo leggere:

«Soprannominata “Cottonopolis”, Manchester un tempo era il centro internazionale dell’industria mondiale del cotone. La città importava fino a un miliardo di tonnellate di cotone grezzo all’anno, città come Bolton e Preston divennero centri di produzione e la Platt Brothers & Co. Ltd. di Oldham costruì macchine tessili per stabilimenti di tutto il mondo.
L’industria tessile di Manchester ha portato una grande ricchezza a molte persone. Tuttavia, innovazione e profitti sono andati di pari passo con la disuguaglianza e lo sfruttamento, su scala locale e globale. Nel 1860, oltre l’80 per cento del cotone lavorato negli stabilimenti di Manchester e dintorni veniva coltivato da africani schiavi nelle piantagioni del sud degli Stati Uniti. Era solo grazie a questo sistema di sfruttamento umano, che i produttori di Manchester ottenevano il cotone nelle quantità e ai prezzi desiderati».

☞come avveniva per le tessitrici olandesi

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Tentativo di riscatto

A oggi cosa sta facendo la città di fronte alle evidenze storiche di sfruttamento dello schiavismo su cui si fonda il benessere dell’Impero britannico? Liverpool ha deciso di non nascondere la testa sotto la sabbia” e in un atto che ha generato non poche polemiche, il consiglio comunale della città ha deciso di non cambiare la toponomastica dei luoghi pubblici, ma di “conservare e spiegare” i nomi delle strade che commemorano le persone coinvolte nella tratta e nello sfruttamento degli schiavi. Invece di rinominare queste strade dunque, il Comune ha deciso di erigere delle targhe accanto ai segnali stradali per fornire informazioni sui vincoli che legano il personaggio in questione con la schiavitù.

La stessa cosa è stata fatta anche nella Walker Art Gallery (una delle collezioni di dipinti più importanti e rinomate del Regno Unito), che oggi espone insieme ai quadri delle personalità di Liverpool, oggetti che prima facevano parte della collezione del museo della schiavitù. In particolare possiamo fare riferimento ad alcune catene da caviglia in ferro battuto, che sono state permanentemente trasferite alla Walker Art Gallery nel tentativo di affrontare ed esibire i legami coloniali tra schiavitù e arte. Catene del tipo utilizzato durante il viaggio sulle navi negriere per trattenere e imprigionare gli africani sottocoperta nella stiva della nave, che sono oggi esposte accanto al quadro della famiglia Sandbach, noti commercianti e proprietari di piantagioni nelle Americhe.

Foto di Diego Battistessa

Vediamo dunque come attraverso degli sforzi congiunti si provi ad affrontare in modo diretto questo passato scomodo e pieno di soprusi, sforzi che si centrano anche nel dare spazio alle generazioni di nuovi artisti afrodiscendenti e africani che trattano la tematica della tratta degli schiavi e del loro commercio da diverse latitudini, geografiche ed emotive. Un esempio di questi nuovi progetti dirompenti ospitati dal Museo della Schiavitù è offerto dal dipinto di Shane D’Allessandro dal titolo Contributions (2020): un artista visivo emergente di origini giamaicane e italiane, originario del Suffolk britannico e attualmente residente a Londra.

Foto di Diego Battistessa

There Ain’t No Black in the Union Jack, espressione presa dal titolo del libro d Paul Gilroy del 1987 e che denuncia come non ci sia traccia del contributo delle comunità nere all’identità britannica nel simbolo ultimo della patria, la bandiera, chiamata in modo informale “The Union Jack”. Partendo da questa domanda, “Non c’è nero nella Union Jack”? l’autore spiega che «il mio dipinto reinventa la bandiera britannica per racchiudere le comunità nere dei Caraibi che, come molte altre comunità, hanno dato e contribuito così tanto, spesso senza riconoscimento o ringraziamento. Pur non includendo tutte le bandiere dei Caraibi nel mio dipinto, spero che sia comunque in grado di invocare sentimenti di solidarietà per tutti i neri di questo paese, indipendentemente dalla loro provenienza».

Nel dipinto vengono incorporate alla Union Jack le bandiere di Aruba, Bahamas, Barbados, Cuba, Repubblica Domenicana, Grenada, Giamaica, St. Lucia, Saint Kitts e Nevis, St Vincent e Grenadine, Trinidad e Tobago.

Foto di Diego Battistessa

☞e questo fa il paio con la memoria del Muncab di Bahia

Dopo questo viaggio toponomastico della città di Liverpool e nel passato coloniale britannico, possiamo comprendere la connessione innegabile che questa città ha con la tratta delle persone africane schiavizzate e con il profitto sul lavoro delle stesse nelle piantagioni del “Nuovo Mondo”. Non solo Beatles e calcio, dunque ma un passato che consegna una pesante eredità con la quale fare i conti. Liverpool ha giocato un ruolo da protagonista nell’espansione del traffico di persone africane schiavizzate (come Bristol, altro porto tristemente famoso per gli stessi motivi), una memoria che non può e non deve essere sepolta. Gli sforzi che vanno in questa direzione oggi sono molti, un impegno verso un’opera di riscrittura della “verità” collettiva che passa verso la messa in discussione della Storia raccontata dai vincitori e per una necessaria riparazione verso la comunità afrodiscendente. La complessità di una città portuale come Liverpool, che ha visto per esempio l’arrivo di milioni di irlandesi tra il Settecento e l’Ottocento (la maggior parte di loro come scalo a New York e Londra, ma molti altri rimasero; ragione per la quale si calcola che due terzi degli scouser abbiano ascendenze irlandesi), che ha sofferto per il naufragio del Titanic (la White Star Line era proprietaria della famosa nave e aveva sede a Liverpool , inoltre  molti dei passeggeri erano irlandesi diretti in America), che ha vissuto una forte radicalizzazione politica negli anni Ottanta (basti nominare gli scontri di Toxteth nel 1981) e una forte avversione verso Margareth Thatcher e le sue politiche, non può essere riassunta solo dalla sua partecipazione nel commercio triangolare.

La rivolta di Toxteth nel 1981

Nonostante ciò, è vitale dare spazio a questo passato, così come sta facendo il Museo della Schiavitù di Liverpool e la University College of London, attraverso il Centre for the Study of the Legacies of British Slavery. Quest’ultimo progetto per esempio (istituito presso l’Ucl con il generoso sostegno dell’Hutchins Center di Harvard), si basa su due progetti precedenti che tracciano l’impatto della proprietà degli schiavi sulla formazione della Gran Bretagna moderna: il ESRC-funded Legacies of British Slave-ownership project (2009-2012), e il ESRC and AHRC-funded Structure and significance of British Caribbean slave-ownership 1763-1833 (2013-2015). Utilizzare questo database è molto facile, basta accedere al sito e usare la barra di ricerca per ottenere informazioni sui vincoli dei singoli individui con la tratta, commercio e sfruttamento delle persone schiavizzate. Vi consigliamo di fare una prova con i nomi delle persone segnalate nella toponomastica che trovate qui. Il lavoro della Ucl ha avuto un impatto così importante nella società inglese al punto da obbligare importanti organizzazioni ed enti britannici alle pubbliche scuse: tra gli altri, la Chiesa anglicana, la Banca d’Inghilterra, la catena di pub Greene King e il mercato assicurativo Lloyds di Londra, che assicurava i viaggi delle navi negriere.

☞è il capitalismo, bellezza

Città del Mercantilismo Triangolo britannico Scousers Manchester
Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis
Salvador de Bahia Pelourinho Sincretismo Elevador Lacerda

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Un museo indispensabile per una città insanguinata

We will remember

They will remember that we were sold, but not that we were strong. They will remember that we were bought, but not that we were brave

William Prescott, former slave 1937

«Ricorderanno che fummo venduti ma non che eravamo forti. Ricorderanno che fummo comprati ma non che eravamo coraggiosi». Parole lapidarie che aprono il circuito della visita al Museo della Schiavitù di Liverpool, inaugurato nell’agosto 2007. Un museo indispensabile, duro e potente, situato al terzo piano del Museo Marittimo del Merseyside presso il Royal Albert Dock di Liverpool. Si tratta di uno dei pochissimi musei nazionali al mondo che coprono la tratta transatlantica degli schiavi, le sue conseguenze, la sua eredità. Uno spazio vivo, in continua trasformazione, un centro di risorse internazionali per campagne per i diritti umani come Black Lives Matter e che vuole essere pioneristico per la necessaria e urgente discussione sociale sulla responsabilità storica del commercio triangolare e nello specifico della tratta di essere umani. Le parole di William Prescott scuotono e fanno capire l’intensità di quello che si sta per vedere, parole alle quali fanno eco quelle del museo, che in modo simbolico risponde We will remember (noi ricorderemo).

Concetto di negritudine racchiuso in bacheca: coscienza a posto e riscatto annientato… con molte scuse.

vale per il museo di Bahia☞

☜ come per il Museo degli schiavi a Gorée

Il più grande porto di schiavi

Il nickname degli abitanti di Liverpool deriva dal tipico stufato di carne (scouse) ancora oggi molto popolare. Ma cosa devono ricordare gli Scousers? Devono ricordare che la loro città, lo sviluppo del porto, i lussuosi edifici e le opulente ville, le banche ma anche le scuole, gli ospedali e gli enti di beneficenza, sono macchiati dal sangue di coloro che vennero trafficati, torturati e venduti come schiavi dall’altro lato dell’Atlantico da compagnie marittime di Liverpool. Dalla metà degli anni Quaranta del Settecento, Liverpool fu il più grande porto commerciale di schiavi della Gran Bretagna, rappresentando l’84,7 per cento di tutti i viaggi di schiavi tra il 1793 e il 1807.

Albert Dock, la darsena schiavista per eccellenza

Gli archi che si vedono tutt’ora sulla Goree Piazzas sono gli stessi della Goree Warehouse che vedevano gli schiavi, sbarcando in catene nel bacino di questo porto…

strappati dalle vene dell’Africa☞

Lo stufato di schiavi nella pentola dell’industrialismo

Le navi del Mersey trasportarono quasi 1,5 milioni di africani resi schiavi, sia verso la Gran Bretagna che verso le Americhe, dando alla città una posizione privilegiata per la compravendita di persone e il profitto sulla vita umana. E nonostante il fatto che la tratta degli schiavi fosse stata abolita in Gran Bretagna nel 1807, i mercanti e le famiglie accomodate di Liverpool vincolate a questa inumana attività economica, continuarono a raccogliere i frutti finanziari dei loro brutali affari, approfittando dei ruoli apicali e di potere acquisiti grazie alla ricchezza e prestigio dello sfruttamento degli schiavi africani.

Molti di questi commercianti utilizzarono la ricchezza accumulata per le loro carriere politiche (tra il 1700 e il 1820 almeno 25 sindaci che ebbe la città, erano vincolati al commercio di schiavi), per differenziare i loro interessi e per investire nello sviluppo industriale, dando impulso alla posizione della Gran Bretagna come potenza globale dominante.

Una posizione che si manifestò in modo chiaro durante il regno della regina Vittoria, che occupò il trono inglese tra il 1837 e il 1901. Durante questo lungo periodo, conosciuto come epoca vittoriana, la Gran Bretagna si convertì nella potenza coloniale più importante con colonie e possedimenti di enormi estensioni in Asia, Africa, Oceania e America. Un periodo che rafforzò le teorie di chi difendeva l’idea della superiorità della razza inglese, come si evince dal testo del discorso di Joseph Chamberlain (capo del dipartimento coloniale della Gran Bretagna) al Royal Colonial Institute nel 1897.

Qui un passaggio di quel discorso diventato storico:

«We feel now that our rule over these territories can only be justified if we can show that it adds to the happiness and prosperity of the people, and I maintain that our rule does, and has, brought security and peace and comparative prosperity to countries that never knew these blessings before. In carrying out this work of civilization we are fulfilling what I believe to be our national mission, and we are finding scope for the exercise of those faculties and qualities which have made of us a great governing race».

[Riteniamo ora che il nostro governo su questi territori possa essere giustificato solo se possiamo dimostrare che esso contribuisce alla felicità e alla prosperità delle persone, e io sostengo che il nostro governo ha portato, e porta, sicurezza, pace e relativa prosperità ai paesi che non avevano mai conosciuto queste benedizioni prima. Nel portare avanti quest’opera di civilizzazione stiamo adempiendo a quella che credo sia la nostra missione nazionale e stiamo trovando spazio per l’esercizio di quelle facoltà e qualità che hanno fatto di noi una grande razza governante].

stessa ipocrisia supponente della bolla Dum Diversas

Toponomastica orgogliosamente coloniale


Un passato silenziato per troppo tempo, le cui vestigia sono sotto gli occhi di tutti ed emblematica è la toponomastica della città. Basta camminare per la città che ha “lavato la sua immagine” con il calcio e con i Beatles, o con le manifestazioni oceaniche dell’agosto 2024 contro il razzismo dei nazionalisti inglesi, che hanno strumentalizzato l’omicidio di tre ragazzine in chiave antimigranti per rendersi conto di questa doppia faccia scouser.

Sono infatti ancora decine le strade intitolate a volti noti del passato della città, persone diventate ricche e famose per aver tratto profitto nella tratta degli schiavi e nel loro sfruttamento. Nel 2008, nella St George Hall venne aperta un’esposizione artistica dal titolo ‘Read the Signs’ che esaminava l’associazione di luoghi e nomi locali con la schiavitù. Qui un estratto di quanto raccolto nell’esposizione, attraverso alcuni esempi, tra i quali spiccano casi eclatanti e insperati:

  • Ashton Street – che prende il suo nome da John Ashton (1711-1759), un commerciante di sale che investiva anche nel commercio degli africani ridotti in schiavitù. Usò i profitti derivanti dalla vendita del sale e dal traffico di schiavi per sovvenzionare la costruzione del Canale di Sankey, comprando 51 delle 120 azioni.

    Emblematico del capitalismo inglese: dai proventi della tratta di schiavi e delle merci della triangolazione gli investimenti si allargano e infestano tutti i comparti economico-finanziari: dalle infrastrutture al sale, al più classico dei settori britannici: le miniere

    Suo figlio, Nicholas, utilizzò la fortuna di famiglia per acquistare miniere di carbone a Parr, St Helens e acquistò anche Woolton Hall nel 1772. La famiglia Ashton è ricordata anche con altre strade che portano il loro nome; Ashton Square a Woolton e Ashton Drive a Hunts Cross.

    St. Helens, Sussex. 1874

  • Blackburne Place – che prende il nome da John Blackburne, (1693-1786), un noto commerciante di schiavi di Liverpool (anche se originario di Oxford). Il suo nome appare nell’elenco dei mercanti che commerciavano con l’Africa fin dal 1752 e John Blackburne senior fu membro attivo dell’élite della città, diventandone sindaco nel 1760. Blackburne fece fortuna a Liverpool e utilizzò parte della sua ricchezza per ristrutturare la casa di famiglia, Orford Hall, acquistando posteriormente anche il maniero di Warrington nel 1764. Oltre a commerciare persone schiavizzate, Blackburne era anche un importante commerciante di sale che possedeva le saline adiacenti al secondo bacino umido di Liverpool, aperto nel 1753 (noto come Salthouse Dock). Anche Blackburne Street a Garston prende il nome dalla famiglia poiché i Blackburn vi trasferirono le loro saline nel 1798.
    Blackburne, così come molti commercianti di Liverpool che avviarono un’attività di traffico di esseri umani, continuarono a diversificare i loro interessi economici, approfittando delle industrie che sorsero nel Lancashire meridionale. Interessi che includevano la produzione di sale, le attività bancarie, la costruzione navale, la fabbricazione di corde e l’estrazione del carbone. Nel 1780 i Blackburn avevano già acquisito molti terreni dentro e intorno a Liverpool e il figlio di John, anch’egli chiamato John, utilizzò parte di questo terreno per costruire Blackburne House, completata nel 1790. John junior, seguendo le orme di suo padre, divenne sindaco di Liverpool nel 1788, essendo anche membro fondatore dell’Athenaeum Club, insieme a molti altri commercianti di schiavi di Liverpool. I Blackburn sono ricordati anche in Great Orford Street, dal nome della loro tenuta vicino a Warrington dove avevano una famosa serra, ritenuta la prima nel paese a coltivare ananas, caffè, tè e canna da zucchero.

Questo ritratto di John Blackburne in origine lo raffigurava con in mano un ananas, che fu poi ridipinto ma di cui rimane un’immagine fantasma.Quando l’ananas è stato dipinto, anche la mano sinistra di Blackburne è stata modificata per mostrare l’indice puntato, anziché la posa innaturale e serrata che sarebbe risultata dalla rimozione dell’ananas. Il libro che Blackburne sta indicando è Species Plantarum di Carl Linnaeus, stampato nel 1753 (Artuk.org data l’immagine al 1743, dieci anni prima della pubblicazione del libro). In senso orario, dall’alto a destra: il dipinto com’è oggi, un primo piano dell’ananas mancante, un contorno per mostrare dove si trovava l’ananas e la ricostruzione finita. ©Bygone Liverpool

La disponibilità di questa pianta, insieme ad altre coltivate da Blackburne, come il caffè, la canna da zucchero e il cotone, fu ovviamente il risultato del commercio verso le Americhe aperto dalla tratta degli schiavi. Il primo ananas che Blackburne coltivò fu a sua volta il risultato della tratta degli schiavi e quasi certamente giunse a Liverpool attraverso una nave che aveva trasportato africani schiavizzati nelle Indie Occidentali nella seconda tappa del commercio triangolare. Forse su una delle sue stesse navi negriere?

  • Blundell Streetdedicata a Bryan Blundell (c. 1675 – 1756), commerciante di tabacco, capitano e proprietario di navi negriere: la prima nave a salpare dai Dock costruiti nel 1715 fu la The Mulberry di Blundell.

    Nelle liste dei Mercanti che commerciano in Africa nel 1752, appaiono ben tre membri della famiglia Blundell. Bryan Blundell fu due volte sindaco di Liverpool nel 1721 e nel 1728, e fu uno dei mercanti più importanti della città durante la prima metà del Diciottesimo secolo. Usò la sua influenza per convincere altri mercanti locali a contribuire alla costruzione e al mantenimento del Blue Coat School nel 1718.

Parete della linea del tempo al Bluecoat, creata per il tricentenario della scuola per orfani ricavata dalla St. Peter’s Church. del reverendo Robert Styth con i fondi dei traffici di Bryan Blundell. La grande immagine di sfondo è tratta da una stampa, Recollections of the Blue-Coat Hospital, Liverpool, St George’s Day, 1843. Questa litografia di Thomas Picken fu pubblicata nel 1850 da Skinner, professore di acquerello di Liverpool, e stampata da G. Webb & Co, Londra. La stampa si ispira a un dipinto di Henry Travis conservato nella collezione della Liverpool Blue Coat School e mostra la banda della scuola che conduce i bambini attraverso i cancelli, osservati da insegnanti, governatori e pubblico.

Sebbene l’amministrazione della scuola finisse con il diventare uno dei suoi interessi principali, rimase armatore fino ai settant’anni, proprietario e armatore della tristemente famosa nave negriera Sea Flower (costruita tra il 1745 e il 1748), che servì per il traffico inumano di uomini e donne schiavizzate. Anche i suoi figli Jonathan e Richard furono coinvolti nella tratta degli africani ridotti in schiavitù, così come i suoi nipoti, Bryan e Henry.

  • Bold Street prende il nome da Jonas Bold (1745-?), un noto mercante di schiavi, commerciante di zucchero e banchiere, che fu sindaco di Liverpool tra il 1802 e il 1803. Bold era socio della società bancaria Staniforth, Ingram, Bold e Daltera (tutti e quattro i soci erano coinvolti nella tratta degli schiavi).
    Bold Street era la sede del Lyceum Club, costruito dal famoso architetto Thomas Harrison e inaugurato nel 1802. Il terreno che occupa l’edificio fu acquistato dai soci dal negriero e socio bancario di Bold, Thomas Staniforth. Il Lyceum fu costruito per ospitare la Biblioteca di Liverpool, che si ritiene sia la più antica biblioteca pubblica a sottoscrizione del Paese, fondata nel 1757. Molti dei membri fondatori del Lyceum commerciavano in africani schiavizzati.
  • Cunliffe Street prende il nome dal prominente mercante di schiavi Foster Cunliffe (1682-1758) che fu eletto sindaco della città nel 1716, 1729 e 1735. Alla metà del Diciottesimo secolo Foster e i suoi due figli possedevano quote in 26 navi che prendevano parte al commercio triangolare; almeno quattro di queste 26 erano navi negriere e arrivavano a “stipare” 1120 prigionieri. Numeri che garantivano un enorme profitto per i Cunliffes, che con la vendita di schiavi, acquisivano un capitale che poi investivano nell’acquisto di prodotti dalle colonie, come tabacco (soprattutto dalla Virginia), zucchero e rum da vendere al ritorno in Inghilterra. Uno dei figli di Foster, Ellis fu eletto deputato per Liverpool al parlamento britannico e rimase in carica per dodici anni (1755-67), arrivando anche a essere nominato baronetto. Foster morì nel 1758 e suo nipote, anch’egli chiamato Foster (1755-1834), utilizzò la ricchezza accumulata dal nonno e dal padre per acquistare Acton Hall e la tenuta vicino a Wrexham. Fu il fondatore della Society of Royal British Bowmen, essendo il tiro con l’arco un passatempo popolare per la nobiltà terriera durante la fine del Settecento.

    Se oggi consideriamo il batik un prodotto caratteristico dell’Africa occidentale, in origine era un’esportazione britannica in Africa, derivata dall’appropriazione olandese delle tecniche di stampa indonesiane. Divenne estremamente popolare in Africa e preferito al costume tradizionale come segno di prestigio sociale. Vestendo Cunliffe in questo modo nella statua del Victoria and Albert Museum, si sottolinea l’intreccio tra la costruzione dell’identità “africana” e quella “britannica” attraverso lo scambio: la Gran Bretagna commerciava tessuti in cambio di schiavi, molti dei quali venivano utilizzati per produrre cotone che poi veniva riportato in Gran Bretagna per rifornire l’industria tessile, che a sua volta si impadroniva dell’arte di un’altra colonia, depredata da colonizzatori partner e rivali.

    intrecci tra colonizzatori ☞

  • Earle Street – intitolata alla famiglia Earle, che prosperò durante un secolo con il commercio di persone schiavizzate. L’apripista fu John Earle, che arrivò a Liverpool da Warrington nel 1688, unendosi alla casa di William Clayton, deputato e noto commerciante. Nel 1709, John fu eletto sindaco di Liverpool e per l’epoca il suo coinvolgimento nel commercio triangolare era già molto noto. Alla sua morte, tre dei suoi figli – Ralph (1715-1790), Thomas (1719-1781) e William (1721-1788) – rilevarono il commercio di schiavi sulla costa africana. Ralph divenne sindaco di Liverpool nel 1769 e William Earle fu responsabile di almeno 117 viaggi di navi negriere lungo una carriera durata più di 40 anni: si calcola che fu il sesto commerciante di schiavi più attivo nel cinquantennio 1740-1790 dal porto di Liverpool (William Davenport, the Slave Trade, and Merchant Enterprise in Eighteenth-Century Liverpool , un testo del 2009, scritto da Nicholas Radburn per la Victoria University of Wellington). Dopo la morte di William nel 1788, i suoi figli Thomas (1754-1822) e William (1760-1839) rilevarono l’azienda di famiglia. Thomas Earle fu sindaco nel 1787 e utilizzò la ricchezza della famiglia per acquistare la tenuta di Spekeland; nel 1805 costruì Spekeland House vicino al sito di Earle Road. Nel 1830 gli Earle acquisirono una piantagione a Berbice, nell’allora Guyana britannica (ora Guyana), ottenendone la proprietà come parte di un debito inesigibile. Il figlio di Thomas, sir Hardman Earle, 1° Baronetto (1792-1877), commissionò a Harvey Lonsdale Elmes la costruzione delle Allerton Towers nel 1847: uno dei simboli nella città di Liverpool delle eccentriche mansioni costruite dagli armatori e dai mercanti di schiavi durante il periodo di massimo “splendore” del commercio portuale.
  • Gladstone Road prende il nome da sir John Gladstone, 1° baronetto (1764-1851), originario di Leith, in Scozia e proprietario di numerose piantagioni. Gladstone si trasferì nel 1786 a Liverpool per lavorare con Edgar Corrie, una partnership che ebbe molto successo, tanto che i due diversificarono rapidamente i loro affari anche nel commercio di tabacco della Virginia. Negli anni successivi Gladstone passò rapidamente al commercio di zucchero e cotone dalle Americhe (Guyana britannica) dove nelle sue piantagioni venivano schiavizzate centinaia di persone, e nei primi decenni del 1800 comprò anche alcune proprietà in Giamaica.

    Il figlio William E. Gladstone (1809-1898) fu educato per avere un enorme successo in politica (fu mandato a studiare a Eton nel 1821), piano che venne compiuto perfettamente giacché William Gladstone fu primo ministro britannico per ben quattro mandati (per 12 anni). Come primo ministro William Gladstone fu simpatizzante della causa irlandese però si oppose all’emancipazione immediata delle persone schiavizzate (fu anche un sostenitore della Confederazione durante la guerra civile americana). Quando gli inglesi abolirono finalmente la schiavitù nel 1830, la famiglia Gladstone ricevette oltre 90.000 sterline (una cifra enorme per l’epoca) a titolo di risarcimento per gli schiavi che dovette liberare.
  • Parr Street prende il nome da Thomas Parr (1769-1847) un commerciante di schiavi e banchiere a Liverpool, proprietario dell’enorme nave negriera Parr varata nel 1797. Questa nave non era solo la più grande nave negriera di Liverpool, ma con le sue 566 tonnellate (bm), era la nave più grande dell’intera tratta degli schiavi transatlantica britannica, potendo arrivare a “contenere” 700 persone ridotte in schiavitù. Si dice che la nave sia esplosa al largo della costa occidentale dell’Africa nel 1798, il che potrebbe indicare che trasportava polvere da sparo da scambiare con gli africani ridotti in schiavitù. Nel 1789 Thomas Parr fece costruire la casa che ancora oggi si trova all’angolo tra Parr Street e Colquitt Street, che nel 1822 divenne la sede della Liverpool Royal Institution, istituita dai mercanti di Liverpool nel 1814 e fondata per «la promozione della letteratura, della scienza e delle arti». Molti degli uomini che contribuirono a fondare l’istituzione avevano legami con il commercio e lo sfruttamento di schiavi, sia come trafficanti che come proprietari di piantagioni delle Indie occidentali.
  • Penrhyn Streetprende il nome da Richard Pennant, 1° baronetto Penrhyn (1737-1808) deputato nel parlamento britannico per Liverpool (dal 1761 al 1790) e proprietario di sei piantagioni da zucchero in Giamaica.

    Tagliatori di canna da zucchero in Giamaica

    Utilizzò parte dei profitti del commercio schiavista per investire nella costruzione di strade e banchine e nell’industria dell’ardesia in Galles. Il nipote di Richard Pennant, che ereditò le proprietà di famiglia alla morte di Lord Penrhyn, costruì il castello di Penrhyn, ora di proprietà del National Trust.

  • Sir Thomas Street – prende il nome sir Thomas Johnson (1664-1729), conosciuto come “il fondatore della moderna Liverpool. Fu sindaco nel 1695 e fu uno dei primi commercianti di schiavi di Liverpool, finanziando la seconda nave documentata a lasciare il porto destinata a trasportare persone schiavizzate. Nel 1700, insieme a Robert Norris di Speke Hall, Johnson finanziò il viaggio della nave The Blessing verso la Gold Coast (Africa occidentale) e poi alle Barbados, dove gli uomini e le donne ridotti in schiavitù dovevano essere scambiati con cotone, zenzero e zucchero. Johnson fu anche coinvolto nel “Virginia Trade“, che vide i commercianti di Liverpool commerciare tabacco prodotto da africani ridotti in schiavitù.

    Nel 1708, mentre prestava servizio come deputato per Liverpool nel parlamento britannico, spinse per la costruzione della prima darsena commerciale di Liverpool (e probabilmente del mondo), che fu inaugurata nel 1715. Questa impresa fu in gran parte responsabile dell’aumento del commercio estero di Liverpool e che molte navi negriere attraccassero qui durante il Diciottesimo secolo. Nel 1717 si offrì di acquistare la sezione francese dell’isola caraibica di St-Kitts per 61.000 sterline, presumibilmente per la continuazione della produzione di zucchero coltivato dagli schiavi, ma l’offerta non fu accettata. Investì molto nella South Sea Company, il cui interesse principale era il trasporto di schiavi nelle colonie spagnole nelle Americhe.
  • Tarleton Streetdedicata alla famiglia Tarleton, che ha prodotto tre generazioni di commercianti di schiavi e il cui membro più famoso fu Banastre Tarleton (1754-1833). Banastre è ricordato per aver combattuto con valore per gli inglesi durante la Guerra d’indipendenza americana, stesso impeto che utilizzò alla Camera dei Comuni per impedire la fine della tratta degli schiavi. Gli inizi del commercio di schiavi della famiglia di Banastre risalgono però a suo nonno, che passò “il business di famiglia” a suo padre, fino ad arrivare a lui e ai suoi tre fratelli John, Clayton e Thomas. Il generale Banastre Tarleton usò la sua fama di eroe della guerra coloniale per assicurarsi di diventare deputato di Liverpool nelle elezioni parlamentari del 1790, e una volta eletto, usò la sua posizione di deputato per proteggere gli interessi commerciali della sua famiglia, lottando strenuamente per garantire che la tratta degli schiavi fosse preservata dal governo britannico.

  • A questi luoghi topici di onomastica raccapricciante si aggiungono due casi particolari:
  • – Pennylane Street: esiste un forte dibattito su questa strada di Liverpool resa famosa e immortale nel 1967 grazie al suo utilizzo come titolo per una canzone dei Beatles – in cui comunque i Fabolous Four vanno a ritroso nel tempo (“meanwhile back”). Da un lato c’è chi sostiene che sia dedicata al mercante di Liverpool James Penny (morto nel 1799), che guidò 11 viaggi di navi negriere trasportando persone schiavizzate e che creò la sua propria compagnia marittima, la James Penny & Co. Dall’altro c’è chi sostiene come non ci sia alcuna possibilità di provare una correlazione diretta tra il nome della strada e James Penny, posizione assunta anche dalla dirigenza del Museo della Schiavitù di Liverpool.
  • – The Goree Piazzas: certezze invece sono quelle che esistono su un luogo che oggi non esiste più nella moderna Liverpool ma che ci parla di un vincolo profondo con quanto succedeva nelle coste dell’Africa occidentale, nello specifico in Senegal, nell’isola di Gorée. Dove troviamo oggi Beetham Plaza infatti, un tempo si ergeva la sede dei magazzini Goree, i primi magazzini a più piani costruiti a Liverpool. La loro costruzione fu proposta quando fu costruito il George’s Dock nel 1768, ma la costruzione vera e propria non iniziò fino al 1793 e fu ultimata nel 1802. Il loro nome ebbe origine più di tre decenni prima quando furono costruiti su un terreno chiamato Goree Causeway (dal nome della stazione commerciale di Gorée, in Senegal, che gli inglesi avevano sottratto ai francesi nel 1758 e che sarebbe stata restituita alla Francia nel 1763).

    I Magazzini furono demoliti in seguito ai danni provocati dai bombardamenti durante la Seconda guerra mondiale. Come nota segnaliamo che quei magazzini videro tra i loro fruitori sia Washington Irving (che aprì nei magazzini Goree un’attività commerciale intorno al 1817, impresa che poi fallì) e Nathaniel Hawthorne (che aveva un ufficio in Goree Piazza quando fu console statunitense a Liverpool nel 1853).

Toponomastica timidamente anticoloniale


È importante però segnalare che a Liverpool possiamo trovare anche delle strade, piazze, o altri spazi pubblici, dedicati a personaggi illustri della città che lottarono per l’abolizione della schiavitù.

Qui due esempi:

  • Roscoe Street (Roscoe Gardens/ Roscoe Lane): prende il nome da William Roscoe (1753-1831), considerato uno dei più grandi figli di Liverpool. Roscoe era un avvocato, banchiere, poeta, botanico, politico, collezionista d’arte e difensore della causa abolizionista.
  • Cropper street: prende il nome da James Cropper (1773-1840), un commerciante e filantropo, che arrivò a Liverpool all’età di 17 anni da Winstanley e che fu apprendista presso Rathbone Brothers (i primi commercianti di Liverpool che importarono cotone dall’America). Successivamente fondò la propria azienda: Cropper, Benson & Co. e la prosperità derivante dalla sua attività permise a Cropper di impegnarsi in una serie di attività religiose e filantropiche. Si concentrò nella campagna per l’abolizione della tratta degli schiavi, scrivendo opuscoli e provando a creare un fronte unito a livello politico. Le sue attività erano molto impopolari a Liverpool e molti mercanti delle Indie occidentali che possedevano piantagioni nei Caraibi lo attaccarono e criticarono. Nel biennio 1823-24 fu oggetto di una serie di attacchi sulle colonne dei giornali di Liverpool da parte di sir John Gladstone, padre del futuro primo ministro William Gladstone (e proprietario di più di 2000 persone schiavizzate nei suoi campi di lavoro forzato in Giamaica e Demerara, Guayana). Nel 1831 Cropper unì le forze con suo genero, Joseph Sturge, per formare gli Abolizionisti della Giovane Inghilterra, che si distinguevano dagli altri gruppi che lottavano per l’abolizione per la loro schiettezza e il loro approccio vigoroso.
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Manchester al centro del vertice europeo

Nella storia della tratta transatlantica delle persone africane schiavizzate, la città di Liverpool (capitale della contea di Merseyside) ha svolto un ruolo di primo piano, insieme alla vicina Manchester (Cottonopolis). Un porto (Liverpool) che ha beneficiato direttamente del traffico di esseri umani, riuscendo ad accumulare enormi fortune e sviluppando la propria economia al costo della vita di milioni di persone.

Prima di parlare però di Liverpool, dobbiamo fare un passo indietro e cercare di capire come il Regno Unito abbia iniziato a giocare un ruolo determinante nel commercio triangolare, nome che storicamente viene dato alla rotta commerciale stabilita nell’Oceano Atlantico dal Diciasettesimo al Diciannovesimo secolo: una rotta che se vista sulla mappa, disegna una figura simile a un triangolo tra Africa, America e Europa.

Come per Gorée e Salvador de Bahia, i nuovi orizzonti geografici aperti dalle spedizioni marittime delle grandi potenze europee avevano stabilito nuove rotte, creando le basi per una fiorente rete di rapporti economici che vedeva l’Europa al centro. Gli apripista di questa nuova forma di espansione coloniale furono i portoghesi che crearono la loro base operativa in Brasile e che istituzionalizzarono il commercio di persone africane schiavizzate (in Portogallo a Lagos si istituì infatti il primo mercato europeo degli schiavi). Dopo i lusitani, fu la volta degli spagnoli e dei francesi che avevano già stabilito delle colonie in America continentale e nelle Antille, e che puntavano alla sostituzione della manodopera indigena (gli indigeni vennero sottoposti a un regime di tale sfruttamento che intere popolazioni vennero sterminate in pochi decenni) con quella dei neri africani schiavizzati. Infine dal Seicento, furono gli Inglesi, la Repubblica delle Sette Province Unite (Olanda, Zelanda, Utrecht, Gheldria, Overijssel, Frisia, e Groninga) e la Francia in piena auge, a togliere il monopolio del commercio schiavista al Portogallo, diventando così i nuovi protagonisti del commercio triangolare sull’Atlantico.

Le carte dilatano gli orizzonti… e moltiplicano le Compagnie

Da un lato, la scoperta della possibilità di poter circumnavigare l’Africa (l’arrivo al Capo di Buona Speranza da parte del portoghese Bartolomeu Dias il 12 marzo 1488) aveva aperto la “corsa” verso le ricchezze dell’India, provocando il fiorire di numerose Compagnie europee di navigazione e commerciali. Multinazionali dell’epoca che iniziarono a stabilire basi di scambio e rifornimento (e anche forti militari) lungo la costa africana, soprattutto in Africa occidentale. In questo caso, come già segnalato, l’apripista fu il Portogallo (con gli insediamenti a Sao Tomé e Principe, Fernão do Pó, l’isola di Gorée, Angola, Mozambico o Zanzibar), al quale si accodarono la Repubblica delle Sette Province Unite (Colonia del Capo, oggi in Sudafrica) e successivamente la Francia e il Regno Unito. Si trattava all’inizio di basi di appoggio, senza la pretesa di espandere il controllo delle potenze europee verso l’interno del continente africano (dove gli arabi da anni controllavano le rotte commerciali), espansione che arriverà solo in pieno 1800, ratificata posteriormente alla conferenza di Berlino del 1914, dove l’Africa venne spartita tra Francia, Regno Unito, Belgio, Portogallo, Spagna, Italia e Germania. In questo senso è importante ricordare che prima della Grande Guerra 1914-1918 (conosciuta successivamente come Prima guerra mondiale) esistevano solo due territori indipendenti in Africa: Etiopia e Liberia.

European colonial possessions in Africa, from 1600s to 1922. Figure provided by Kevin Tervala of Baltimore Museum of Art.

Dall’altro la rotta aperta da Cristoforo Colón verso il “Nuovo Mondo” nel 1492, una terra che il navigante genovese era convinto fossero le Indie e che cominciò a chiamarsi America (in onore del navigante Amerigo Vespucci) solo con la mappa del cartografo tedesco Martin Waldseemüller del 1507.

Fu in quel momento storico, con l’apertura di queste due rotte, che si posero le basi per il futuro commercio triangolare. Le stesse potenze che si disputavano le basi africane iniziarono la conquista del “Nuovo Mondo” dove però in questo caso l’apripista era stata la Spagna

Liverpool e Manchester: come la Gran Bretagna ha fondato il suo benessere sul traffico e sfruttamento degli schiavi

British delivery: le prime consegne di materiale umano

I primi africani ad arrivare nelle colonie che l’Inghilterra stava cercando di stabilire in Nordamerica, furono un gruppo di circa 20 persone schiavizzate che arrivarono nell’agosto del 1619 a Point Comfort, Virginia (vicino a Jamestown): persone (merce) sottratte da corsari britannici a una nave negriera portoghese. Fu l’inizio dell’orrore, il primo passo per la creazione della più grande e massiva impresa di disumanizzazione che la storia ricordi, operata dalla corona britannica e da uno stuolo di commercianti senza scrupoli.

The Maroons In Ambush On The Dromilly Estate In The Parish Of Trelawney, Jamaica (1810)

Un altro importante spartiacque storico si ebbe pochi anni dopo con la conquista della Giamaica da parte del Regno Unito ai danni della Spagna. Fu infatti nel 1655, quando una spedizione britannica guidata dall’ammiraglio Sir William Penn e dal generale Robert Venables riuscì a impossessarsi dell’isola, iniziando una guerra che in 5 anni eliminò ogni resistenza spagnola ancora presente (ma non quella degli schiavi liberti, chiamati Maroons, che dettero molto filo da torcere agli inglesi). La Giamaica iniziò a essere uno dei grandi “laboratori” britannici della sottomissione e sfruttamento delle persone schiavizzate dall’Africa, considerando che la popolazione dell’isola crebbe da poche migliaia al loro arrivo – alla metà del Diciassettesimo secolo – fino a 18.000 nel 1680: a quella data un abitante su due degli abitanti dell’isola erano persone schiavizzate.

 

Mare britannicum

In questo contesto venne redatto il Navigation Act del 1660, un documento che stabiliva che solo le navi di proprietà inglese potevano entrare nei porti coloniali della corona britannica. Sempre nel 1660 Carlo II concesse uno status speciale alla Company of Royal Adventurers Trading to Africa, compagnia guidata da suo fratello minore Giacomo, il duca di York (in seguito Giacomo II). Questa compagnia poteva contare sul monopolio del commercio britannico con l’Africa occidentale (che includeva oro, argento e schiavi) però fallì nel 1667 a causa di numerosi debiti accumulati. Nel 1672 tuttavia la compagnia venne ricreata, con un nuovo beneplacito reale e con il Royal African Company (Rac).

Possiamo vedere dunque che la monarchia britannica sostenne fin dall’inizio lo sfruttamento del continente africano e la tratta degli schiavi, molti dei quali venivano marchiati a fuoco con le lettere DOY, a significare “proprietà del duca di York”. Ma la responsabilità non era solo dei re e della loro corte, ma anche degli uomini d’affari e della classe mercantile di Liverpool e di Cottonopolis (Manchester ricevette questo nome per essere la capitale mondiale del commercio del cotone che proveniva dalle piantagioni del Sud degli Stati Uniti, paese nato dalle 13 colonie inglesi che nel 1776 dichiararono la loro indipendenza). Senza gli schiavi la rivoluzione industriale non sarebbe stata ciò che è stata, così come ci ricorda Eric Williams nel suo libro del 1944 Capitalismo e Schiavitù.

Un libro che spiega come la schiavitù abbia contribuito a finanziare la rivoluzione industriale in Inghilterra e di come proprietari di piantagioni, costruttori navali e mercanti legati alla tratta degli schiavi accumularono vaste fortune che permisero la fondazione di banche e di numerose industrie europee, che amplificarono la portata del capitalismo in tutto il mondo.

☞le basi dell’annessione perpetua

 

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Capital Afro

Salvador de Bahía è una città costiera situata nel Nordest del Brasile, e il suo nome originario era Salvador de la Bahía de Todos los Santos. Quando pensiamo a questa città dobbiamo subito menzionare che siamo di fronte non solo alla prima capitale coloniale del Brasile (fondata dai portoghesi) ma anche a uno dei centri urbani di matrice europea, più antichi del continente Americano. Oggi Salvador conta una popolazione di quasi 2,5 milioni di abitanti e con una estensione municipale di 312 chilometri quadrati. È la capitale dello stato di Bahia e si trova 1446 chilometri lontano dalla capitale federale del Brasile, ovvero Brasilia. Il suo centro storico è conosciuto come il “Pelourinho” (o Pelo per i locali) che nel 1985 è stato dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’Unesco.

Foto di Diego Bsattistessa

Prima capitale del Brasile (1549-1763), San Salvador de Bahía è stata un punto di confluenza di culture europee, africane e amerindiane. Nel 1588 fu creato il primo mercato di schiavi del Nuovo Mondo, destinati al lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero. La città ha saputo conservare numerosi edifici rinascimentali di eccezionale qualità, spesso magnificamente stuccati, che caratterizzano in modo unico la città vecchia». Un dato curioso rispetto alla città, è che si dice che ospiti 365 chiese, uno per ogni giorno dell’anno.

Il futuro è ancestrale

Visitare oggi Salvador de Bahia de Todos los Santos significa fare un viaggio nelle radici africane dell’America Latina, toccando con mano l’eredità ancora viva di un passato fortemente legato all’altro lato dell’oceano: nello specifico l’eredità dei popoli a sud del deserto del Sahara, con un’enfasi sull’area occidentale bagnata dall’Atlantico (dal Senegal fino all’Angola). Farlo poi con un occhio attento alle celebrazioni religiose risulta ancora più interessante se si vogliono esplorare iniziative culturali e alcune tradizioni sincretiche di questa città brasiliana conosciuta come la Roma nera, perché è la città più nera fuori dall’Africa. Novembre 2023 è stato per esempio il mese del lancio ufficiale del progetto Salvador Capital Afro, evento internazionale multilivello che ha occupato tutti i 30 giorni del mese, mettendo al centro l’essenza dell’afrobrasialianità.

Salvador Capital Afro è un movimento nato nel 2022 e lanciato ufficialmente il 31 agosto 2023 (Giornata internazionale delle persone di discendenza africana) dalla prefettura di Salvador de Bahia: un ambizioso progetto culturale che vuole riconnettere la città e la sua gente con il loro patrimonio ancestrale, attraverso il rafforzamento e la valorizzazione delle espressioni artistiche, religiose e del patrimonio culturale della città, la cui origine risiede nel popolo afrodiscendente.

l’altra faccia della medaglia: Liverpool tenta il riscatto dalla vergogna

Il mese della coscienza nera

Dal 2011 il 20 novembre viene celebrato in Brasile come il giorno della coscienza nera, ma mentre per il resto del paese si tratta di un unico giorno di celebrazione e di riflessione, l’idea è che a Salvador de Bahia l’intero mese di novembre sia dedicato alla radice nera della città. È così che nel 2023 si è dato il via a un calendario di attività di portata internazionale per promuovere questa nuova idea di afroturismo e di riappropriazione dell’identità nera.

«Il protagonismo nero è un antidoto alla disuguaglianza e al razzismo strutturale», ha sottolineato Ivete Sacramento, attuale segretaria municipale delle riparazioni per le comunità afro della città brasiliana, per la rivista creata per l’occasione, il cui nome evidenzia quello del progetto: “Salvador Capital Afro”.

Il Festival Afropunk, il Festival Libertatum, il Festival Internazionale dell’Audiovisivo Nero del Brasile sono state tra le attività più importanti di un programma ambizioso che ha visto anche la riapertura del Museo Nazionale della Cultura AfroBrasiliana (Muncab). Tra le personalità nazionali e internazionali africane o afrodiscendenti si segnala la presenza di Wole Soyinka (primo africano a ricevere il Premio Nobel per la Letteratura nel 1986), delle cantanti Victoria Monét e Alcione, degli artisti Taís Araújo, Viola Davis, Angela Bassett, tra gli altri. Si tratta insomma di trasformare Salvador nella nuova capitale afro del continente, partendo da ciò che questa città è sempre stata, riconnettendosi con le identità africane e promuovendo la cultura afrodiscendente.

Contemporaneamente non va dimenticata ‘influenza britannica che ha saccheggiato anche il Brasile, commerciando i prodotti degli schiavi e rifornendo di materie prime le fabbriche di “Cottonopolis”. In Gran Bretagna si registrano simili iniziative di memoria di quelle che furono le connessioni con lo slancio della Rivoluzione industriale a Manchester:

Il riscatto della memoria

L’idea alla base del “nuovo” Muncab, che oggi si trova dentro l’antico Palazzo del Tesoro di Bahia, è quella di essere il cuore della cultura afrobrasiliana di Salvador de Bahia, che dal canto suo si fregia di essere la città più nera fuori dall’Africa. Un museo che possa concentrare da un lato artisti tradizionali e dall’altro le nuove generazioni di artisti neri, sia a livello nazionale che internazionale. Il Muncab vuole rappresentare il riscatto di una memoria che deve essere seme di cultura viva, per la produzione e diffusione di una identità afrobrasiliana da sventolare con orgoglio come bandiera della nuova Salvador, fiera del suo passato e proiettata verso un futuro fatto di ancestralità.

Foto di Diego Bsattistessa

All’interno del museo si entra in contatto con l’identità nera in molte delle sue sfaccettature, partendo dall’Africa per espandersi poi fuori dal continente per riflettere sull’orrore del traffico inumano di persone, passando per le varie forme di resistenza e resilienza, permettendo anche di comprendere e scoprire i contributi culinari, religiosi, musicali che le comunità africane hanno lasciato in eredità.

Foto di Diego Bsattistessa

Una eredità che si fa presente e che si manifesta in una collezione permanente di più di 400 opere (pitture, sculture, mobili, documenti, tra gli altri oggetti) che si intreccia ad altre attività come iniziative cinematografiche, spazi educativi e di rafforzamento identitario, includendo progetti di scambio internazionale con paesi africani fortemente legati alla città, come Angola, Mozambico e Guinea. Per la riapertura del museo nel 2023 è stata scelta l’esposizione Un Defeito de Cor (Un difetto di colore) che aveva già attirato quasi 100.000 visitanti nel Museo d’Arte di Rio de Janeiro.

 

Diversità e sincretismo

Il Muncab è sicuramente uno dei pilastri di Salvador Capital Afro, progetto che mira a promuovere la diversità artistica, culturale e gastronomica afrobrasiliana, e che vuole rendere protagonista anche tutto ciò che riguarda il sincretismo religioso e le pratiche rituali africane che con i secoli si sono fuse con il cristianesimo imposto dalla corona portoghese ai tempi della colonia.

Foto di Diego Bsattistessa

Sì, perché l’antica città di Bahia è stata per lungo tempo la capitale cristiana di tutto il Sud Atlantico oltre a essere la prima capitale del Brasile, luogo nel quale tra il Sedicesimo e il Diciannovesimo secolo arrivarono dal Golfo del Benin milioni di persone schiavizzate e trafficate (si stima tra 1,5 e 2 milioni di persone). Una migrazione forzata che ha obbligato a una stretta convivenza di aspetti culturali africani, europei e indigeni, producendo con il passare degli anni una cultura popolare che si esprime fortemente attraverso le sue celebrazioni, in modo particolare quelle religiose e artistiche.

Foto di Diego Bsattistessa

Il centro pulsante e identitario di questo mondo afrobrasiliano è come detto il nucleo antico della città, nello specifico la zona di Pelourinho, dove troviamo a ogni angolo elementi che ci ricordano dove siamo.

Liverpool ha dovuto confrontarsi con i nomi lordi di schiavismo

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Mercato concentrazionario

Ai piedi dell’Elevador Lacerda troviamo il Mercato Modelo, che fin dal periodo coloniale fu il centro della tratta degli schiavi in Brasile, e quindi nel Nuovo Mondo. Una visita obbligata dentro una struttura che oggi è adibita a commercio di souvenir turistici ma che mantiene, soprattutto nei sotterranei, quell’aura di terrore e di morte. Nei sotterranei di questa struttura venivano infatti rinchiusi coloro che si ribellavano o che tentavano di fuggire a un destino di schiavitù, soffrendo terribili agonie e spesso condannati a morire per annegamento quando la marea si alzava.

Un ricordo vivo e doloroso della crudeltà umana, traccia di un passato legato a doppio filo con l’identità della città e della sua gente. Il mercato si può vedere in tutta la sua grandezza e apprezzandone la posizione strategica dalla Praça Tomé de Sousa, dove troviamo anche un altro monumento simbolo del periodo della tratta degli schiavi. Si tratta del Monumento della Croce Caduta, una imponente croce inclinata che domina una piazza che funge da belvedere, accanto all’edificio che prende il nome di Casa de las Bahianas. Una croce che ricorda l’oscura storia di questa città, il sangue versato e la connivenza della Chiesa nell’orribile mercantilizzazione della vita che tanta ricchezza portò agli imperi coloniali.

libera chiesa in libero schiavo ☞

Il contraltare carnascialesco di Liberazione

Gli elementi architettonici di Pelourinho sono accompagnati costantemente da suoni, odori e colori, in un crogiolo di sensazioni che fanno vivere una costante vibrazione carnevalesca. Il Carnevale è per Salvador de Bahia (come per tutto il Brasile) un appuntamento cruciale ogni anno ma nel Pelourinho e specialmente nella Praça Terreiro de Jesus, questa sensazione è sperimentabile praticamente ogni giorno. Qui non è difficile trovare gruppi di persone che si cimentano (a volte per i turisti, a volte per piacere personale) nella capoheira, manifestazione culturale afrobrasiliana (creata in Angola dagli schiavi bantu che poi hanno portato in Brasile la “Danza della zebra”) basata su una espressione corporea che ingloba elementi di combattimento, danza, musica e acrobazia, che alludono a autodifesa e lotta mascherata mimica, con cui fuggire a costituire Quilombos nelle foreste, prive di zebre.

Un rituale che al ritmo di strumenti tipici come il berimbau, i pandero, gli agogó, i reco-reco e soprattutto gli atabaque (gli alti e tipici tamburi) riempiono di ritmo e di vita il centro storico di Salvador. Una carica musicale che i locali accompagnano con una bevanda particolare, che non può mancare nelle celebrazioni di Salvador de Bahia, il Cravinho. Si tratta di una bevanda tipica delle feste dove la forte presenza della cannella, serve a mascherare con il suo aroma, l’alta gradazione alcolica. E se si parla di bevande e gastronomia, non si può non fare un accenno al Acaraje. Un piatto tipico da consumare per strada (nei piccoli punti vendita ambulanti gestiti da «mamis» di Pelourihno), oppure nei ristoranti, a base di pasta di fagioli, ripieno di gamberi e accompagnato da una salsa piccante molto intensa.

 

L’ascensore a vite

Elevador do Parafuso: “Sollevatore a vite”, in realtà era idraulico e azionato da un motore a vapore. Era soprannominato “a vite” per il grande pezzo a spirale che spingeva le due cabine dell’ascensore, mantenendo un collegamento ideale con l’enorme forza fisica che si produceva a Salvador de Bahia con l’apporto dei lavoratori schiavizzati.

Elevator Lacerda visto al livello della Città bassa

Un altro luogo simbolo di Pelo è sicuramente O Elevador Lacerda, un enorme ascensore che unisce la parte bassa della città con la parte alta, quella che vide la nascita del primo centro urbano fortificato da parte dei portoghesi. L’opera architettonica è di quelle che tolgono il fiato e che rendono caratteristico e immediatamente riconoscibile il panorama urbano di Salvador de Bahia. L’ascensore Lacerda è una vera e proprio opera maestra dell’ingegneria, soprattutto se si pensa che fu il primo ascensore urbano del mondo, inaugurato l’8 dicembre del 1873 con un’altezza all’epoca di 63 metri (nel 1930 fu riformato e ora misura 72 metri). L’obiettivo è quello di poter trasportare in modo facile e veloce, le persone che da Praça Cairu, nella città bassa (di fronte all’oceano Atlantico) vogliono raggiungere la Praça Tomé de Sousa, nella città alta, nel cuore di Pelourinho, proprio di fronte allo storico Palácio Río Branco (l’edificio che fu sede del governo del Brasile durante il periodo coloniale).

Si tratta oggi di un punto turistico importante per la città ma anche di uno snodo di trasporto pubblico fondamentale, che arriva a “muovere” decine di migliaia di passeggeri al mese, persone che con pochi spiccioli (15 centesimi di reais) possono evitare di dover risalire le famose e faticose ladeiras (ripide salite) della città. Il nome dell’ascensore deriva dai suoi ideatori, Augusto Federico de Lacerda (ingegnere) e Antônio Francisco de Lacerda (imprenditore) che ne iniziarono la costruzione nel 1869. Nel 1873 la struttura fu inaugurata con il nome di Ascensore idraulico da Conceição da Praia, anche se popolarmente fu subito battezzato Elevador do Parafuso: solo nel 1896 acquisirà l’attuale nome di Elevador Lacerda.

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Sincretismo non solo Pelourinho

Per provare a introdurre l’identità storica e il presente di Salvador de Bahia è necessario però uscire da Pelourinho ed esplorare altri elementi urbani, architettonici e naturali che ne conformano l’anima e il carattere.

Il concetto di sincretismo religioso apre un ventaglio di esiti mutevoli di concezioni e pratiche religiose (create, ricreate, adattate, ricontestualizzate) in uno spazio-tempo diverso da quello di origine. Un processo ben descritto nel fascicolo 20 del 2004 El Pelourinho de Bahia, cuatro décadas después della rivista “Iconos. Revista de Ciencias Sociales”.

La parola sincretismo deriva dal greco synkrasis, ovvero mescolare insieme, ed è tutt’altro che anomalo che le religioni passino per questo tipo di processo. Il sincretismo religioso nel mondo latinoamericano ha vissuto numerose tappe che hanno visto, in modo alterno, il protagonismo di popolazioni indigene, coloni europei, criollos e afrodiscendenti. La base di questo processo è stato un credo, quello cattolico, che ha svolto un ruolo principale nello sviluppo di nuove forme religiose in America Latina, giacché durante il periodo coloniale la Chiesa Romana Cattolica e Apostolica, dominava il campo spirituale di tutti i paesi della regione compresi tra il Messico e la Terra del Fuoco. Mappando le religioni afrolatinoamericane, possiamo subito identificare il Brasile come un centro focale di studio e di analisi, visto che siamo di fronte a un paese nel quale si ha la sublimazione di questo processo di resistenza delle tradizioni ancestrali africane da un lato, e di krasis (mescolanza) dall’altro, verso le molteplici spiritualità, originarie e importate, presenti nel territorio.

Siamo di fronte a una grande complessità di rituali, simbologia e ancestralità che oggi si manifesta in Brasile in una vasta pluralità di religioni afrobrasiliane, come per esempio: Babaçuê (Pará), Batuque (Río Grande del Sur), Cabula (Espírito Santo, Minas Gerais, Río de Janeiro y Santa Catarina), Candomblé (presente in tutto il Paese), Culto a los Egúngún (Bahia, Río de Janeiro, São Paulo), Culto de Ifá (Bahia, Río de Janeiro, São Paulo), Quimbanda (Río de Janeiro, São Paulo), Macumba (Río de Janeiro), Omoloko (Río de Janeiro, Minas Gerais, São Paulo), Tambor de Mina (Maranhão, Pará), Umbanda (presente in tutto il Paese), Xangô do Nordeste (Pernambuco) e Xambá (Alagoas, Pernambuco).

Come specificato bene in un articolo di “MiraCuBì” è sempre Jorge Amado a offrire una dettagliata panoramica dell’Olimpo afrobrasiliano di Bahia nel capitolo Gli orixá di Carybé – noto artista, amico dell’autore brasiliano che illustrò il libro Bahia, le strade, le piazze.

Fuori dalla zona del “Pelo” a Salvador de Bahia ci sono almeno altri due punti di interesse sincretico: la Chiesa di Nosso Senhor do Bonfim e il Dique di Tororó rappresentano i due punti in cui il meticciato religioso trova la sua amalgama a partire da luoghi originariamente sacralizzati da culti diametralmente opposti.

Chiesa di Nosso Senhor do Bonfim

Un altro luogo di culto, diventato simbolo nazionale e internazionale, è la Chiesa di Nostro Signore di Bonfim (nel quartiere di Bonfim), una delle chiese cattoliche più tradizionali della città, dedicata al Senhor do Bonfim, santo patrono dei bahiani e simbolo del sincretismo religioso di Salvador de Bahia.

Foto di Diego Battistessa

Costruito sulla cima della Collina Sacra, questo edificio di culto è lo scenario del famoso Lavagem do Bonfim, evento nel quale le donne bahiane di Candomblé lavano in modo rituale i gradini della chiesa con abbondante acqua. Si tratta di uno dei rituali religiosi più importanti del Salvador, rispettato e celebrato sia dai fedeli cattolici che dai membri del Candomblé.

Non di minore importanza il fatto che proprio da questa chiesa provenga il famoso braccialetto colorato che potete vedere in tutta Salvador de Bahia. Il nastro originale fu creato nel 1809 e misurava esattamente 47 centimetri di lunghezza, la misura del braccio destro della statua di Gesù Cristo, Signore di Bonfim, situata sull’altare di questa chiesa, sicuramente tra le più famose di Bahia. Venduto o regalato in diversi colori in tutta la città, il nastro Senhor do Bonfim rappresenta, a seconda del colore, un orixá diverso. In questo modo, gli orixá, divinità centrali del Candomblé, si uniscono al messaggio rappresentato da Gesù di Nazaret, creando un nuovo spazio di comunione e devozione inclusiva che trascende i confini della religione e si estende alla cultura e all’identità afrobrasiliana.

Foto di Diego Battistessa

 

Dique di Tororó

E se parliamo di orixá non si può non visitare a Salvador de Bahia il Dique di Tororó, unica sorgente d’acqua dolce della città e luogo utilizzato anticamente come linea di difesa naturale che delimitava la zona della città alta di quella che era la capitale del Brasile. Il nome Tororó deriva dalla parola della lingua indigena tupi, tororoma, che significa “getto” e che in questo caso si riferisce alla sorgente d’acqua. Oggi questa laguna rappresenta un luogo religioso e turistico, visto che nel 1998 vennero istallate al suo interno otto sculture dell’artista plastico figlio di Salvador de Bahia, Octavio de Castro Moreno Filho, conosciuto come Tatti Moreno. Le sculture che fluttuano nell’acqua e che sono illuminate di notte, rappresentano gli orixá Oxum, Ogum, Oxóssi, Xangô, Oxalá, Iemanjá, Nanã e Iansã.

Foto di Diego Battistessa

le prime contaminazioni datano a metà del Quattrocento

E poi c’è la Praia da Barra

Probabilmente la spiaggia più conosciuta e frequentata di Salvador de Bahia, la spiaggia di Barra (nome del quartiere) che si trova esattamente sulla punta della penisola dove si trova la città, tra la Bahía de Todos los Santos e l’Oceano Atlantico. Un luogo unico dal quale si può vedere sia l’alba che il tramonto sul mare e che custodisce anche l’antico forte di Santo Antonio (vicino al Farol da Barra). Questa spiaggia rappresenta il circuito più famoso del Carnevale di Salvador de Bahia e la sua lunga estensione e pluralità l’ha fatto diventare un luogo multiattività dove convivono il turismo e la vita quotidiana degli abitanti della città.

Foto di Diego Battistessa

e poi ci sono le spiagge di Saint-Louis, dove iniziò tutto ☞

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Sfarzi coloniali e riappropriazione afro

Pelourinho e sullo sfondo Nossa Senhora do Rosario Foto di Diego Battistessa

Il centro della terribile pratica di mercificazione umana a Salvador de Bahia era proprio il quartiere di Pelourinho, nome che in portoghese richiama la gogna dove venivano legate e frustate le persone schiavizzate. Si tratta di un enorme complesso monumentale, arroccato su una collina di fronte al mare: un luogo scelto strategicamente dai portoghesi perché facile da fortificare e con la possibilità di vedere con largo anticipo possibili navi nemiche che si avvicinavano. Il quartiere raccoglie l’insieme più importante dell’architettura coloniale del Seicento e Settecento nella regione e tra le innumerevoli chiese che ne fanno un luogo unico nel mondo (come la famosa Chiesa di San Francesco), ospita anche la chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos (Nostra Signora del Rosario dei Neri): edificio di culto la cui costruzione durò quasi 100 anni e che è uno dei simboli della “rivalsa afro” nella città. L’elemento curioso e storico di questo edificio religioso, risiede nel fatto che durante gli anni della colonia portoghese, questa era l’unica chiesa della città che permetteva l’ingresso alle persone afrodiscendenti.

Chiesa di San Francesco. Foto di Diego Battistessa

 

Progressiva commistione di culture 

Proprio dal quartiere di Pelourinho e dalla chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos parte il 4 dicembre la celebrazione di Santa Barbara e dell’orixá Iansã. Un rituale sincretico, considerato patrimonio immateriale dal Governo dello Stato di Bahia dal 2008, che riunisce cattolici e religiosi di origine africana. Un atto di fede che da un lato omaggia una delle grandi Sante cristiane e dall’altro professa devozione a una delle entità divine che furono associate al cristianesimo in epoca coloniale da parte della popolazione nera africana schiavizzata, in un esercizio di resistenza e di preservazione delle proprie radici religiose e culturali: Iansã.

Statuetta yoruba della Sierra Leone: il sincretismo della santeria

Originaria delle popolazioni che occupavano il territorio subsahariano oggi corrispondente a Nigeria, Togo e Sierra Leone, Iansã fa parte del pantheon yoruba, una ricca tradizione religiosa che comprende diverse divinità legate agli aspetti naturali come vento e acqua. Conosciuta anche come Oiá o Oyá, è una delle principali orixá femminili, ampiamente venerata e celebrata in varie tradizioni religiose in Brasile, Africa occidentale e nei Caraibi.

Festa di Santa Barbara, appuntamento fisso del 4 dicembre Foto di Diego Battistessa

 

O Pagador de Promessas

Il film O Pagador de Promessas del 1962, diretto da Anselmo Duarte, che vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes dello stesso anno, diventando il primo film sudamericano nel conseguire tale distinzione è emblematico di questa convivenza di culture forzata dalla deportazione coloniale e che gradualmente attraverso scontri e rifiuti ha prodotto un sincretismo religioso e culturale. L’anno successivo divenne anche il primo film brasiliano e sudamericano nominato all’Oscar come miglior film straniero. Il film segue le vicende di Zé, un umile contadino che fa una promessa a Santa Barbara in un terreiro (luogo di culto del Candomblé e dell’Umbanda): se il suo asino si riprenderà dalla malattia, porterà una croce da casa sua alla chiesa di Santa Barbara, che si trova proprio nella città di Salvador, nel quartiere di Santo Antônio Além do Carmo. Ma quando il prete locale scopre che ha pregato secondo il rito delle religioni afrobrasiliane, rifiuta di lasciarlo entrare in chiesa, non permettendogli di mantenere così la sua promessa. Anche se contro la sua volontà, Zé diventa un martire religioso e un attivista politico per coloro che interpretano in modo ambiguo il suo messaggio, portando la storia a un epilogo fatale. Oggi però, rispetto all’epoca ritrattata nel film, la città è cambiata così come è cambiato il sentire di una Chiesa cattolica locale che sempre di più si è aperta alle professioni di fede sincretiche.

Per rimanere in tema cinema merita una menzione il Cinema Glauber Rocha, uno delle ultime sale di strada rimasti a Salvador de Bahia (i cinema di Rua di Salvador vertevano sull’idea che l’esperienza culturale cinematografica poteva andare ben oltre la visione di un film). Un cinema popolare, che è anche punto di ritrovo per il quartiere e che si trova a pochi passi dal Muncab e dal centro di Pelourinho. Un cinema che prende il nome da Glauber Pedro de Andrade Rocha (14 marzo 1938 – 22 agosto 1981), regista, attore e sceneggiatore brasiliano considerato come il principale rappresentante del Cinema Novo. Questo spazio fu inaugurato nel 1919 con il nome di Cine Guarany e fu per quasi 70 anni la principale sala cinematografica di Salvador de Bahia, essendo caratterizzato da elementi che lo rendevano modernissimo per la sua epoca. Nel 1955 fu rinnovato con le “nuove” attualizzazioni tecnologiche dell’epoca e dopo un periodo di “alti e bassi” con diverse opere di riqualificazione, fu riaperto nel 1982 con l’attuale nome di Glauber Rocha, diventando uno spazio di incontro, di cinema d’autore e di esposizioni artistiche (ospita oggi infatti anche dei pannelli dell’artista plastico Carybé, opera dal titolo Indios Guaranys).

Jorge Amado: l’impegno politico nel Novecento di Bahia

Tornando però al cuore di Pelourinho e alla sua architettura che rappresenta una viva testimonianza di un passato che si intreccia con forza al presente, in pieno Largo do Pelourinho troviamo l’edificio della Fundaçao – Casa di Jorge Amado, inaugurata nel 1987 dallo stesso famoso politico e scrittore brasiliano (pluripremiato però senza mai essere riuscito a ottenere il premio Nobel per la letteratura). Un luogo di “culto” per chi onora ancora oggi la memoria di questo illustre brasiliano e che ospita e conserva la sua collezione, promovendo tra l’altro, attraverso la fondazione, lo sviluppo delle attività culturali nello stato di Bahia. Lo scrittore brasiliano Jorge Amado (nato il 10 agosto 1912 a Itabuna) fu sicuramente uno dei grandi ambasciatori di Bahia e morì, solo quattro giorni prima di compiere 89 anni, proprio nella città di Salvador, il 6 agosto 2001.

Fundaçao – Casa di Jorge Amado, Largo Terreiro de Jesús. Foto di Diego Battistessa

Siamo di fronte a uno degli autori più letti al mondo, la cui vita però fu marcata dall’isolamento a causa della sua adesione al comunismo. Amado si dedicò infatti alla militanza politica (che gli costò anche il carcere) e nel 1945 fu deputato del Partito comunista brasiliano, lo stesso partito che solo cinque anni dopo fu messo al bando e considerato un partito illegale. L’esilio insieme alla famiglia, una vita rocambolesca in latitanza, l’abbandono della carriera politica e infine il ritorno nel suo Brasile solo nel 1955. Una vita di lotta, che si riflette nelle sue opere che spesso hanno trattato di temi sociali, scritti per la cui descrizione non basterebbe un libro. Pubblicò il suo primo romanzo all’età di 18 anni e già nel 1944 dette vita uno dei suoi capolavori Terras do Sem Fim (La terra senza fine), un libro che descrive con crudezza la dura vita dei lavoratori nelle piantagioni di cacao. Famoso tra i molti altri anche Gabriella, garofano e cannella, opera scritta in età più adulta (nel 1958) ma non può mancare un riferimento a un’opera che lo lega in modo particolare alla città di Salvador de Bahia. Un libro che si chiama appunto Bahia de Todos-os-Santos pubblicato nel 1945. Una specie di guida di una città che Amado ci aiuta a conoscere attraverso la sua gente e i suoi miracoli, i suoi angeli e i suoi demoni, la sua musica e gli amori incorniciati dal blu intenso dell’oceano. Tutto questo oggi è trasmesso e custodito dentro la Fundaçao – Casa di Jorge Amado, dove si trovano anche le quasi 100.000 pagine di lettere che lo scrittore ha ricevuto durante la sua vita, da persone di tutto il mondo.

Candomblé. Foto di Luciano Paiva, Flickr. CC BY-NC-ND 2.0

Adiacente alla casa di Jorge Amado si trova il Museu da Cidade, che oltre a un’ampia collezione di costumi candomblé – la tradizionale danza bahiana –, custodisce oggetti personali del poeta Castro Alves, l’autore di La nave degli schiavi annoverato tra i primi personaggi pubblici a schierarsi contro la schiavitù nell’Ottocento.

 

Flussi e riflussi tra Bahia e Benin

L’edificio della fondazione si trova a pochi metri dalla chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos e poco più in basso, troviamo un altro dei tesori storico-culturali di questo quartiere: la casa do Benin. Dal sito della prefettura di Bahia possiamo trovare più informazioni su questo centro culturale già diventato iconico, ideato dall’etnografo Pierre Verger e nato come risultato di un accordo bilaterale per unire i legami tra Salvador de Bahia e la Repubblica del Benin, luogo di origine della maggior parte delle persone schiavizzate arrivate a Salvador de Bahia.

Foto di Diego Battistessa

Inaugurato nel 1988, lo spazio si trova in un palazzo in Rua Padre Agostinho Gomes, vicino a Taboão, nel Pelourinho. Nel cuore del Centro Storico Casa do Benin rappresenta un pezzo di Africa, un luogo generatore di uno scambio culturale da e verso il continente africano. Questo spazio culturale possiede un importante patrimonio artistico e culturale afrobrasiliano ed è mantenuto dalla Fondazione Gregório de Mattos per migliorare le relazioni culturali tra le due sponde dell’Atlantico: all’interno è visibile una collezione composta da 200 pezzi provenienti dal Golfo del Benin, raccolti dal fotografo francese Pierre Verger, durante i suoi viaggi in Africa, per studiare i flussi e riflussi tra l’Africa e Bahia. Contiene anche pezzi legati alla cultura afrodiasporica, donati da artisti e istituzioni di tutto il mondo.

A donare un’atmosfera unica, il modo particolare nel quale vengono appesi dei tessuti colorati dell’artista plastico e designer Goya Lopes, che danno ancora più vita e movimento a un luogo che vuole anche promuovere la creatività artistica della moda afrobrasiliana.

Texture di Goya Lopez

Città del mercantilismo Salvador de Bahia Sincretismo Elevador Lacerda
Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester
Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù Saint-Louis

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]]> Bobo-Dioulasso https://ogzero.org/studium/bobo-dioulasso/ Mon, 01 Apr 2024 14:59:10 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12491 L'articolo Bobo-Dioulasso proviene da OGzero.

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Bobo Break!

Bobo-Dioulasso, una città africana di media grandezza, si manifesta attraverso la sua oralità e l’arte dei griots, non solo agli occhi di chi la osserva ma anche nella memoria di chi ascolta le sue storie. Non si può raccontare senza passare attraverso i suoi canti e le sue danze. È un luogo dove la parola modella l’argilla nelle zone rurali durante i lunghi sei mesi della stagione secca, da novembre a maggio, e dove la musica dà vita agli spazi urbani durante i matrimoni e le celebrazioni di quartiere. Il ritmo quotidiano è scandito dal suono delle donne che preparano il to’, la polenta, dall’intensa attività dei mercati mattutini e infine dalle storie narrate nei maquis serali. In questo libro mi propongo di narrare le storie che ho ascoltato e i significativi cambiamenti che hanno interessato sia le aree rurali che urbane di Bobo in un determinato arco temporale, a partire da un periodo di stabilità politica che è durato 27 anni, dal 1987 al 2014. Durante questi anni, il Burkina Faso è stato governato da un uomo controverso, temuto e ammirato, che ha compiaciuto alcuni ma dimenticato altri, portando Bobo-Dioulasso a distaccarsi dalle politiche centrali. Tuttavia, il delicato equilibrio cominciò a incrinarsi nel 2002 con la guerra civile in Costa d’Avorio e divenne ancora più instabile con la scoperta di grandi risorse auree nel Burkina Faso nel 2006, trasformando il Sahel in un Eldorado poi dimenticato.

«Questo libro è nato dalla mia necessità di aprire un dialogo con altri curiosi abitanti delle città, con altri cittadini cosmopoliti, sull’esistenza di un’anima non umana, sull’anima del mondo, sulla percezione della città da un punto di vista frontale e vissuto – come sperimentato da tutti i sensi –, e che ho vissuto nel fare architettura a Bobo, cambiando il mio modo di ascoltare la natura e il territorio».

Chiara Rigotti



Il libro come si può leggere ora è cominciato con alcune elucubrazioni dell’Autrice nell’agosto 2023, che ha condiviso con OGzero e che cominciamo a proporvi, questa volta inserendo a posteriori i testi preparatori di un libro già uscito e disponibile, che si può così ricostruire negli intenti e nella fattura.

Racconta Chiara Rigotti, architetta a lungo vissuta e operante in Burkina Faso: «Ho conosciuto un Burkina che presto non esisterà più, ho assistito a molti rituali invitata dai capi villaggi, ho creato cantieri-scuola seguendo i principi di Thomas Sankara usando solo materiali locali e formando i giovani di almeno due generazioni. Insegno nelle Università Burkinabé dal 2002.
Ho vissuto la rivoluzione del 2014 che ha cambiato tutto e ho assistito agli ultimi due colpi di stato. Ho lavorato 6 anni nei villaggi prima di aprire il mio studio in città, ho avuto molti clienti diversi: istituzioni pubbliche e private, parrocchie, ong, privati e anche i ministeri.
Il mio impegno nell’architettura sostenibile e socialmente responsabile in Burkina Faso è stato guidato dalla convinzione che l’architettura non debba solo rispondere a esigenze funzionali ed estetiche, ma debba anche essere un motore per il progresso sociale e culturale. Ogni comunità ha una storia, una cultura e un contesto unici che devono essere rispettati e integrati nella progettazione degli spazi che abitano. La sfida sta nel trovare il giusto equilibrio tra innovazione e tradizione, tra esigenze moderne e radici culturali».

Uno degli intenti principali è quello di riuscire a trasmettere l’aspetto spesso invisibile di questa cultura rurale, che ha rinunciato a favorire una forma architettonica in favore di uno stile che si integri con il paesaggio circostante e rispetti l’ambiente naturale; non bastano dunque competenze tecniche per operare senza fare danni in una realtà così complessa, ma sono richieste anche capacità psicologiche per comprendere le esigenze dei committenti, sensibilità antropologica per comprendere i simboli e i segni culturali, nonché una visione futuristica per creare in armonia con gli usi e le tradizioni locali, facendo tesoro di un mosaico di storie di vita vissuta che si intrecciano in un racconto cronologico unito dal filo rosso di un’architettura consapevole dei luoghi e delle comunità a cui essa è destinata.
In questa prospettiva grandi architetti africani come Francis Keré hanno potuto costruire architetture ecologiche e socialmente rilevanti grazie al supporto consolidato nel tempo di leader visionari come Thomas Sankara, che diceva «Osez inventer l’avenir».

La storia del Burkina Faso è caratterizzata da scambi culturali e commerciali che affondano le radici nell’epoca medievale e da grandi imperi, come l’Impero del Mali Malinké e l’Impero Shongai del Ghana, che hanno cercato spesso di conquistare la città di Bobo-Dioulasso senza mai riuscirci e di recente pure la grandeur francese è stata ridimensionata fino a venire estromessa dal paese. Il Burkina Faso è uno dei paesi più densamente popolati dell’Africa occidentale. Secondo le stime delle Nazioni Unite la popolazione è di circa 21,4 milioni di persone su un territorio di 330 chilometri quadrati.

L’urbanizzazione è in costante aumento, con un tasso di urbanizzazione stimato al 33,6% nel 2021. Questo indica che circa un terzo della popolazione vive in aree urbane. Le città principali, come la capitale Ouagadougou e Bobo-Dioulasso, hanno sperimentato un rapido aumento della popolazione e dell’urbanizzazione a causa della migrazione rurale e dell’aumento delle opportunità economiche nelle aree urbane.
Nel corso degli ultimi quattro anni, le migrazioni verso le aree urbane sono state innescate dalla confisca delle terre settentrionali da parte dei gruppi terroristici. Il numero dei deplacées interni è aumentato in modo significativo, ponendo una pressione urgente sulle città per affrontare l’emergente povertà. Un considerevole numero di individui nelle aree urbane vive in insediamenti informali, affrontando sfide legate all’alloggio, all’igiene e all’accesso all’acqua potabile.

La popolazione giovanile gioca un ruolo significativo in tutto il continente. La maggior parte della popolazione è composta da giovani sotto i 25 anni. Questa giovane popolazione rappresenta sia una risorsa che una sfida per il Burkina Faso. Da un lato, offre il potenziale per lo sviluppo economico e sociale, ma dall’altro lato, richiede opportunità educative, formazione professionale e opportunità di lavoro per evitare problemi di disoccupazione giovanile.
Inoltre, la crescente urbanizzazione richiede una pianificazione urbana e un’infrastruttura adeguata per sostenere le esigenze della popolazione urbana in crescita. Il governo e le organizzazioni internazionali stanno lavorando per affrontare queste sfide e migliorare la qualità della vita nelle città medie oltre che nelle capitali. Nell’attuale contesto, l’approccio degli urbanisti deve adottare una prospettiva olistica che tenga conto della storia e delle dinamiche della popolazione.

La città di Bobo-Dioulasso ha una storia leggendaria che riflette l’interazione di diverse etnie come i bobo e i dioula, ognuna con la propria cultura e tradizioni. I bobo sono una popolazione sedentaria, principalmente animista, che non si spostò mai dalla regione delle grandi pianure e dei grandi bacini d’acqua, una zona molto fertile e ricca di vegetazione che occupa la parte ovest del Burkina Faso fino al sud del Mali, mentre i dioula sono commercianti, spesso musulmani, che si spostano per i loro commerci dal Sud del Senegal e della Guinea fino alla Costa d’Avorio, passando per il Mali. Bobo-Dioulasso nella lingua locale significa la casa (so) dei bobo e dei dioula.

Caratterizzata da una stretta interazione tra gli edifici e il territorio, l’architettura soudano-saheliana è spesso realizzata utilizzando materiali locali come la terra cruda, la paglia e il legno. Uno dei principali elementi distintivi di questo stile è l’uso di tecniche di costruzione ancestrale, locali, come la “boule di terra” o “pisé”, che coinvolgono la creazione di pareti solide in terra compattata. Questo metodo consente un buon isolamento termico, mantenendo gli interni freschi durante le calde giornate e limitando i cambiamenti di temperatura.

Le abitazioni soudano-saheliane spesso presentano forme compatte con tetti spioventi che favoriscono il deflusso delle piogge. Le finestre sono progettate per consentire una buona ventilazione naturale e l’ingresso di luce, ma al contempo limitano l’irradiazione solare diretta durante le ore più calde della giornata.
Un altro aspetto importante dell’architettura tradizionale di questi luoghi è la possibilità di ampliare gli edifici in base alle esigenze. Questo permette di adattare le strutture agli sviluppi familiari o alle nuove attività, senza dover demolire o modificare l’intero edificio.

L’importazione indiscriminata di materiali da costruzione “stranieri” negli ultimi 50 anni, come il cemento e la lamiera, ha avuto un impatto negativo sull’architettura tradizionale e sostenibile dell’Africa occidentale, in particolare nella regione del Burkina Faso. Questi materiali, sebbene possano sembrare moderni e convenienti, spesso non sono adeguati alle condizioni climatiche e alle risorse locali, portando a conseguenze nefaste per l’ambiente e per la cultura architettonica.
Il cemento è diventato un materiale molto popolare nell’edilizia, ma la sua produzione richiede grandi quantità di energia e risorse naturali, contribuendo all’emissione di gas serra e all’alterazione dell’equilibrio ecologico. Inoltre, gli edifici in cemento tendono a trattenere il calore e a provocare sbalzi termici significativi, causando disagi termici all’interno delle abitazioni.
La lamiera, sebbene possa sembrare una soluzione economica per i tetti, crea un serio problema di surriscaldamento. Le temperature sotto la lamiera possono diventare insopportabilmente alte durante la stagione calda, rendendo gli spazi abitativi inospitali e poco confortevoli.


L’abbandono dei materiali locali e delle tecniche tradizionali è stato spesso guidato da un desiderio di modernità e di adottare ciò che è percepito come “moderno” o “occidentale”. Questo cambiamento di mentalità è spesso incoraggiato dalla pubblicità, dai media e dalla percezione che l’uso di materiali di importazione sia sinonimo di progresso.
La deforestazione ha ulteriormente aggravato la situazione, poiché la mancanza di legno ha spinto le persone a cercare alternative ai tetti tradizionali. I blocchi di cemento e la lamiera sono diventati le opzioni preferite per costruire più rapidamente e a un costo inferiore, nonostante i loro svantaggi in termini di efficienza energetica e comfort.
Tuttavia, negli ultimi anni, c’è stata una crescente consapevolezza dei danni causati da queste pratiche e un ritorno alla valorizzazione dei materiali locali e delle tecniche tradizionali. Gli architetti e gli urbanisti stanno lavorando per sviluppare soluzioni che combinino l’uso di materiali locali con approcci moderni e sostenibili. Ciò include la promozione di tecniche di costruzione bioclimatiche, l’uso di materiali naturali come la terra cruda e la paglia e la reintroduzione di tecniche tradizionali di raffreddamento passivo.





Chiara Rigotti è architetto e consulente internazionale, da più di 20 anni svolge un lavoro di progettazione e ricerca nell’architettura ecologica e sociale. Nel 2002, il suo percorso l’ha portata in Burkina Faso con Arquitectos sin Fronteras – Barcelona, dove si è dedicata alla costruzione di infrastrutture e alla formazione di maestranze locali tessendo un dialogo costruttivo tra la pratica architettonica e le sapienti tecniche tradizionali, imparando e insegnando al contempo. Ha realizzato diversi progetti in Burkina Faso e in molti altri paesi africani tenendo sempre uno sguardo attento sulla natura del luogo e le sue potenzialità. Il suo studio di bioarchitettura nasce nel 2014, e dopo qualche anno ottiene il Terra Sahel Award 2019. Scrive e coordina progetti di cooperazione locale e internazionale, ha co-fondato Architettura senza Frontiere – Piemonte e ha deciso di trasmettere attraverso l’insegnamento quello che ha imparato nei suoi viaggi.


La ricca sezione delle città africane pensata e inserita nella collana dietro indicazione, selezione e cura di Angelo Ferrari è ora nelle capaci mani di Federico Monica, architetto specializzato nell’analisi dei fenomeni urbani in Africa, ha accettato l’impegnativo compito di ereditare e proseguire il suo impegno a partire da qui…

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]]> Il Sahelistan dall’Atlantico al Mar Rosso https://ogzero.org/il-sahelistan-dallatlantico-al-mar-rosso/ Mon, 21 Aug 2023 20:51:37 +0000 https://ogzero.org/?p=11453 La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da […]

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La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da Sarkozy) che furono alleati del jihad che imperversa nel territorio su cui sono segnati i confini tra Mali, Burkina e Niger – ha assistito alla penetrazione di nuove potenze (in particolare Russia con la presenza di Wagner e Cina che ha aperto una sede per manutenzione di veicoli della Norinco a Dakar – pronta a difendere i vasti interessi di Pechino nei tre paesi dei golpe, ma operativa anche in Senegal, Costa d’Avorio –, ma anche Turchia e paesi della penisola araba), che hanno sfruttato dispute interne, sentimenti antifrancesi, insorgere del jihad per piegare a loro favore lo sfruttamento delle risorse del territorio e la collocazione strategica di cerniera tra Africa centrale (e Corno d’Africa) e Mediterraneo da sud a nord; tra l’Oceano e l’importantissimo corridoio del Mar Rosso sul classico asse ovest/est. L’incendio si va estendendo ormai da quel Triangolo di paesi attualmente retti da giunte militari golpiste fino a legarsi al sanguinoso conflitto sudanese ormai impossibile da comporre (che sta causando nuovi esodi di massa, coinvolgendo in questo modo altri paesi in sofferenza, perché non più in grado di accogliere profughi, creando così nuovi motivi di tensione nell’area dopo quelli che hanno scosso l’Etiopia negli ultimi due anni).
A chi serve creare un’area a forte instabilità sul modello afgano di dimensioni così enormi? è tutto parte di un disegno globale di ridimensionamento del predominio dell’Occidente, oppure è un percorso senza alternative di decolonizzazione, che fa della Realpolitik l’accettazione di potenze alternative, pur di disfarsi del giogo classicamente coloniale? le reazioni interventiste dei paesi limitrofi sono ispirate dalla paura dell’epidemia; oppure dagli sponsor europei, come il solito Eliseo (Adamu Garba, esponente dell’Apc ha accusato Usa e Francia di aver voluto mandare avanti l’Ecowas per innescare una guerra regionale e recuperare posizioni “coloniali”, sfruttando l’instabilità e l’ennesima guerra per procura che finirebbe con il distruggere l’Africa occidentale)
?  Oppure nascono dalla consapevolezza che la regione è stata integralmente posta in un caos per cui nulla sarà più come prima? Sicuramente si sta spostando in campo africano lo scontro anche militare che contrappone gli interessi dei Brics allargati all’egemonia occidentale.
Angelo Ferrari ha cercato di fare il punto mettendo in relazione tutti gli elementi in campo per dipanare l’ingarbugliata matassa.


Il golpe nigerino sblocca definitivamente il modello afgano per l’intero Sahel?

A ovest del lago Ciad

Rulli di tamburi…

Tutti i riflettori della diplomazia internazionale sono puntati sul Niger, dopo il colpo di stato del 26 luglio. Mentre ciò accade il Sahel rischia di piombare in un caos senza precedenti che potrebbe coinvolgere tutta l’Africa occidentale e non solo: l’intera  striscia saheliana è attraversata da tensioni che vanno dal sentimento antifrancese e antioccidentale, che sta montando un po’ ovunque, a una crisi politica, umanitaria e di sicurezza senza precedenti. La decisione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) di intervenire militarmente in Niger sta esacerbando ulteriormente le opinioni pubbliche di diversi stati della regione; non più, dunque, una minaccia, ma un piano militare messo a punto dopo due giorni di vertice ad Accra, capitale del Ghana. Non si conoscono i dettagli dell’operazione, si sa solo che dovrebbe essere “lampo” perché nel Sahel c’è stato “un colpo di stato militare di troppo”, a detta dei generali riuniti ad Accra. Intervento armato, tuttavia, che non avrebbe alcuna legittimità internazionale: l’Unione africana infatti ha già detto il suo no e le Nazioni Unite non hanno nessuna intenzione di autorizzarlo.

… timide mosse diplomatiche…

Mentre si parla di piani militari, la diplomazia è ancora al lavoro. Una delegazione dell’Ecowas è arrivata a Niamey dove ha potuto incontrare il presidente destituito, Mohamed Bazoum; non solo, a Niamey è arrivata anche la nuova ambasciatrice degli Stati Uniti, Kathleen FitzGibbon, anche se non presenterà le credenziali alla giunta militare – perché Washington non la riconosce – esprimendo tuttavia l’intenzione americana di perseguire la via diplomatica e «per sostenere gli sforzi che aiutino a risolvere la crisi politica in questo momento». Un segno, dunque, che la giunta militare non respinge del tutto il dialogo.
tanto che in un discorso alla televisione pubblica nigerina, Télé Sahel, il generale Abdourahamane Tchiani, a capo della giunta militare, ha annunciato l’istituzione di un «dialogo nazionale inclusivo» entro 30 giorni e ha annunciato una transizione che «non può durare oltre i tre anni». L’obiettivo è formulare «proposte concrete per porre le basi di una nuova vita costituzionale».
Un mantra, quest’ultimo, che ha precedenti in Mali, Burkina Faso e Guinea, paesi che sono stati teatro di colpi di stato negli ultimi due anni e dove le transizioni si prolungano senza che vengano convocate elezioni per un ritorno dei civili al governo di questi paesi. Il generale Tchiani, tuttavia, non accetta la minaccia dell’Ecowas di un intervento militare e rilancia: «L’Ecowas si prepara ad attaccare il Niger allestendo un esercito di occupazione in collaborazione con un esercito straniero», ha detto Tchiani senza citare il paese “straniero”, ma in molti pensano alla Francia.

… esibizione di muscoli

«Né il Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria né il popolo del Niger vogliono la guerra, ma se dovesse essere intrapresa un’aggressione, non sarà la svolta in cui alcuni credono» e ha ammonito: «Le forze di difesa del Niger non si tireranno indietro», sostenute da Burkina Faso, Mali e Guinea, ha detto. «La nostra ambizione non è quella di confiscare il potere», ha anche promesso.

A est del lago Ciad

Il conflitto tra al-Burhan e Hemedti si estende a tutti i Signori della guerra

Mentre ciò accade nell’estremo ovest della striscia saheliana, il Sudan è entrato nel quinto mese di guerra senza che si intraveda all’orizzonte una soluzione. Anzi, sembra proprio che i contendenti vogliano arrivare alle estreme conseguenze. Intanto il conflitto si è esteso, impantanato, aggravato provocando un dramma umanitario che nemmeno l’Onu è in grado di affrontare. La guerra contrappone l’esercito regolare del generale al-Burhan alle Forze di supporto rapido (Fsr) dei paramilitari guidati dal generale Hemedti. Il conflitto ha causato più di quattromila morti, anche se la cifra delle vittime è sottostimata, e milioni tra profughi e sfollati interni. Quando la guerra è scoppiata, il 15 aprile 2023, il generale al-Burhan ha detto che sarebbe finita in due settimane, mentre Hemedti prometteva la vittoria. Oggi nessuna delle due parti sembra prendere un vantaggio decisivo. I militari dominano ancora lo spazio aereo, mentre soffrono la debolezza della loro fanteria, un compito, ironia della sorte, che avevano affidato proprio alle Fsr. L’esercito ha subito battute d’arresto nel Sud Kordofan, nel Nilo Azzurro e nel Darfur, le Forze di supporto rapido sembrano avere nelle mani la maggior parte del territorio di Khartoum, la capitale.
Il conflitto dunque, anziché attenuarsi, si intensifica è sta coinvolgendo altri movimenti armati che partecipano ai combattimenti. Insomma, questo conflitto, iniziato tra due generali, rischia di trasformarsi in una vera e propria guerra civile, secondo l’Onu, volgendo verso una situazione di anarchia totale. I negoziati, inoltre, non sono mai decollati e sono in una fase di stallo e i cessate il fuoco non sono mai durati.

S’intrecciano le crisi umanitarie regionali

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Nilo

Sul versante umanitario le cifre sono da capogiro con oltre 3 milioni di sfollati e quasi 1 milione di rifugiati. Inoltre, entro settembre si prevede che il 40% della popolazione soffrirà di insicurezza alimentare. Le organizzazioni umanitarie stanno affrontando una situazione a dir poco scoraggiante con una mancanza allarmante di fondi, all’appello mancano due miliardi di dollari per far fronte alla crisi. Le donne sono particolarmente colpite, sono vittime di violenze e stupri perpetrati dai combattenti e private di un’adeguata assistenza psicologica e medica, hanno spiegato i portavoce delle agenzie umanitarie durante una riunione a Ginevra. Le agenzie possono aiutare circa 19 milioni di persone in Sudan e nei paesi limitrofi, tuttavia gli interventi sono finanziati solo al 27%. Le Nazioni Unite hanno lanciato due appelli, uno per finanziare gli aiuti all’interno del paese per un totale di 2,57 miliardi di dollari e l’altro per i rifugiati fuggiti dal Sudan per un importo di 566,4 milioni di dollari. Ma dopo la crisi innescata dal colpo di stato in Niger, del Sudan sembra si siano dimenticati tutti e ciò rischia di aggiungere catastrofe a catastrofe.

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Niger

Le conseguenze di un intervento militare dell’Ecowas a Niamey sarebbero devastanti sia sul piano umanitario sia sul piano della sicurezza dell’intera regione. Già si vedono spostamenti di persone sul fiume Niger nella parte che confina con il Benin, considerato, ancora, uno stato sicuro. Nel paese la crisi umanitaria si sta già manifestando. Le frontiere chiuse impediscono il passaggio di merci necessarie alla sopravvivenza della popolazione, così come l’elettricità scarseggia in più parti del paese per via delle interruzioni delle forniture che arrivano dall’estero. Una guerra, per quanto lampo sia, aggraverebbe ulteriormente la situazione umanitaria.

A Ovest (speriamo) niente di nuovo

Una guerra, che potrebbe estendersi a buona parte del Sahel – Mali e Burkina Faso hanno già assicurato il loro appoggio al Niger – avrebbe ripercussioni preoccupanti sul fronte della lotta al terrorismo e ai gruppi jihadisti che imperversano nell’area, in particolare nella regione dei tre confini – Niger (Tilaberi), Mali (Tessit) e Burkina Faso (Tamba), dove storicamente la pastorizia nomade si scontra con coltivatori stanziali – ma anche sulla capacità dei paesi del Golfo di Guinea, già colpiti dal terrorismo a nord dei loro confini – Costa d’Avorio, Benin e Togo – di farvi fronte. Una situazione, dunque, esplosiva.

Recrudescenza jihadista dopo Barkhane

Dal colpo di stato in Niger di fine luglio, infatti, sono stati registrati nove attacchi jihadisti. Una tendenza che preoccupa gli osservatori. Con la recrudescenza degli attacchi islamisti, il timore è di “un rapido deterioramento della situazione”, in primo luogo perché Parigi ha sospeso la sua cooperazione militare con il Niger. L’esercito nazionale quindi non beneficia più dell’appoggio dell’esercito francese. Non ci sono più operazioni congiunte, aerei e droni non danno più supporto e i terroristi approfittano del vuoto. Poi, le minacce di intervento armato dell’Ecowas hanno portato a una riduzione del sistema militare occidentale, che hanno sospeso le loro attività ai confini. Ciò potrebbe portare un calo della reattività dell’esercito nigerino e i gruppi jihadisti potrebbero approfittarne riconquistando la loro libertà di manovra con un radicamento dello Stato Islamico proprio nell’area dei tre confini. Le preoccupazioni vanno ancora oltre, con la possibile creazione di zone grigie, in parte controllate da gruppi armati, in Mali, Burkina, Niger, persino Sudan, che potrebbero destabilizzare il vicino Ciad. Il Ciad, pur non essendo membro dell’Ecowas, condivide con il Niger 1200 chilometri di confine e dispone, oltre ad avere solidi rapporti con la Francia, di un esercito tra i più potenti dell’area. Quindi il Niger ha necessità di assicurarsi rapporti di buon vicinato – il primo ministro nigerino, nominato dalla giunta militare, ha fatto visita al presidente ciadiano Mahamat Idriss Deby – anche se N’Djamena è alle prese con una crisi interna di legittimità del potere e con l’emergenza profughi che arrivano a decine di migliaia dal Sudan.

A rischio sconfinamenti i paesi del Golfo

Si teme, inoltre, che i gruppi jihadisti possano contagiare anche i paesi del Golfo di Guinea. Questa è la maggior preoccupazione della Costa d’Avorio che è già alle prese con sconfinamenti dal Burkina Faso e con centinaia di profughi burkinabé che cercano rifugio nel nord del Paese. Ciò, inoltre, potrebbe spiegare la ferma posizione del presidente ivoriano, Alassane Ouattara, che si è schierato con decisione per un intervento militare in Niger, dicendosi disponibile a fornire un battaglione del suo esercito al contingente dell’Ecowas. Occorre ricordare che Ouattara è uno dei pochi “fedeli” alla Francia rimasti nella regione. E il presidente ivoriano è preoccupato che anche nel suo paese possa montare un sentimento antifrancese alimentato, soprattutto, dal suo rivale di sempre l’ex presidente Laurent Gbagbo, 78 anni, che non nasconde le sue velleità di tornare alla presidenza della Costa d’Avorio, nel 2025, con il suo nuovo Partito dei popoli africani-Costa d’Avorio (Ppa-Ci), di ispirazione e orientamento socialista e panafricanista, nemmeno troppo velatamente antifrancese.

Scosso anche il gigante Senegal da sommovimenti interni

Non meno turbolenta appare la situazione nell’estremo ovest della striscia saheliana, in un Senegal che vive un periodo di forte crisi politica e di legittimità democratica, soprattutto dopo l’arresto dell’oppositore Ousmane Sonko, uno dei leader politici più amati dai giovani senegalesi. Arresto che ha provocato manifestazioni di piazza violente, che hanno lasciato sulle strade numerosi feriti ma anche morti. In conseguenza di queste proteste il ministro dell’interno senegalese, Antoine Diome, ha annunciato lo scioglimento proprio del partito di Sonko, il Pastef – Les patriotes. Il leader dei “giovani senegalesi” è stato condannato per diffamazione e per corruzione giovanile. Secondo le opposizioni queste condanne non hanno altro significato che escludere Sonko, che gode di un buon seguito, dalle elezioni presidenziali del 2024. Il Senegal è un altro paese in forte ebollizione e non è bastata la decisone di Macky Sall, attuale presidente, di non candidarsi per un terzo mandato alle presidenziali a inizio luglio per stemperare la tensione nel paese. In punta di diritto potrebbe farlo, anche se la Costituzione prevede solo due mandati, ma è stata riformata, con una rimodulazione della lunghezza del mandato, proprio sotto la presidenza Sall. Le opposizioni, infatti, si rammaricano del fatto che il presidente Sall e il suo governo rimangano sordi alle richieste di allentamento, pacificazione e fine delle restrizioni agli spazi di libertà. I mesi, dunque, che separano il Senegal alle presidenziali del febbraio 2024 saranno particolarmente difficili. Non è un caso, inoltre, che le opposizioni senegalesi si siano schierate contro l’intervento militare dell’Ecowas in Niger.
Sono molte le ragioni che dovrebbero dissuadere dal mettere in atto lo scenario peggiore per il Sahel e per l’intera Africa occidentale. Un conflitto armato su vasta scala potrebbe scatenare reazioni non proprio prevedibili e trasformare il Sahel in un “Sahelistan” di afgana memoria.

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L’ancora irrisolto colpo di stato in Niger https://ogzero.org/lancora-irrisolto-colpo-di-stato-in-niger/ Sun, 30 Jul 2023 22:51:19 +0000 https://ogzero.org/?p=11387 Intanto i differenti militari hanno sollevato il presidente, il potere però sembra sia gestito da svariati uomini forti a cominciare dal capo della Guardia presidenziale Tchiani e ora sembrano essere in attesa di capire in che modo schierarsi nelle relazioni internazionali; come se fossero sulla piazza, al miglior offerente… ma probabilmente divisi tra diverse forze […]

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Intanto i differenti militari hanno sollevato il presidente, il potere però sembra sia gestito da svariati uomini forti a cominciare dal capo della Guardia presidenziale Tchiani e ora sembrano essere in attesa di capire in che modo schierarsi nelle relazioni internazionali; come se fossero sulla piazza, al miglior offerente… ma probabilmente divisi tra diverse forze armate e le differenti “scuole d’armi” frequentate. Forse Bazoum aveva dato l’impressione di non voler mettere in discussione minimamente lo schieramento con la parte dell’Occidente e quindi il rischio per chi intendeva omogeneizzare le scelte antiatlantiste del resto del Sahel era quello di essere esautorati dagli incarichi autorevoli che ricoprivano. Forse ha prevalso l’idea che nel gran rivolgimento dell’intero continente risultasse perdente per la nazione non operare alcun cambiamento. Forse il timore che si mancasse anche stavolta la partecipazione all’ondata di rigetto antifrancese (molto popolare presso i giovani potrebbe aver spinto alla rimozione dell’ostacolo presidenziale… di certo l’incertezza sulla affidabilità e collocazione di uno stato chiave, l’ultimo nel Sahel ancora sotto l’egida di una Francia affamata di uranio, produce fibrillazioni in seno all’intera comunità internazionale, motivo per cui – al contrario del solito – abbiamo pensato fosse il caso di occuparsene quando ancora non si è depositato il polverone di ipotesi suscitate dal golpe. … Intanto Parigi ha dichiarato che – rispetto agli altri paesi sahelini (che non sono cassaforte di uranio) – da Niamey sarà più difficile cacciarli, però il governo golpista ha sospeso le forniture di oro e uranio alla Francia. E comunque sul territorio c’è il più grosso contingente americano in Africa e gli addestratori italiani (più di 300 giovani e forti, 13 mezzi terrestri e 5 aerei, inquadrati nella Misin che opera agli ordini del Comando operativo di vertice interforze (Covi), guidato dal generale di Corpo d’armata Francesco Paolo Figliuolo, sempre lui). Il blocco dell’Africa occidentale riunito a Abuja (Cedeao), ha dichiarato la sospensione delle relazioni con il Niger autorizzando l’uso della forza se il presidente non verrà reintegrato entro una settimana: l’emissario del messaggio è il non-allineato Déby (in carica dinasticamente per volontà dell’Eliseo), un pessimo segnale in una fase di rivolgimento totale, che la paura dell’epidemia si diffonda in tutta l’Africa occidentale, mettendo le premesse perché divampi una guerra estesa, concede pericolosi spazi per una nuova guerra per procura in terra africana.
Angelo Ferrari affronta l’evento cercando di districarsi tra le notizie ancora contraddittorie, analizzandole per capire almeno le intenzioni di ciascun protagonista, in primis i generali nigerini, ma poi anche le diplomazie mondiali e la manipolazione mediatica delle piazze locali, lasciando solo trapelare il malcontento giovanile
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Sbalorditivi risultati dopo il vertice di San Pietroburgo?

Una vicenda ancora dai contorni pochi chiari – non potevano mancare le affermazioni del capo dei mercenari della Wagner che ha applaudito alla presa di potere dei militari. Parole piene di retorica anticoloniale:

«Quello che è successo in Niger non è altro che la lotta del popolo nigerino contro i colonizzatori che stanno cercando di imporre loro le loro regole di vita”, ha detto Evgenij Prigožin in un messaggio a lui attribuito.

Parole che fanno intendere che la Wagner, qualora i golpisti lo volessero, è pronta a entrare nello scenario nigerino con un ruolo di primo piano. Non ci sono, per ora, segnali che dietro il golpe ci siano gli uomini della Wagner. Se fosse così sarebbe un doppio schiaffo per l’occidente che, è bene dirlo, si è fatto sorprendere proprio nell’ultima roccaforte della lotta antijihadista dopo l’uscita di scena dal Mali e dal Burkina Faso. Le domande sono molte.

 

La prima: come è stato possibile che nessuna cancelleria occidentale avesse avuto un sentore di ciò che sarebbe potuto accadere?

Non c’è una risposta e se c’è nessuno la vuole dare, forse perché sarebbe troppo imbarazzante. Sta di fatto che in Niger sono presenti migliaia di militari stranieri: 1500 francesi, più di mille americani e oltre trecento italiani, oltre ai mezzi militari, molti di questi di stanza a Niamey, la capitale. Di certo, nei prossimi giorni si chiariranno molte cose. Secondo i francesi il colpo di stato “non è definitivo”. Il presidente Emmanuel Macron ha parlato in più occasioni con il suo omologo destituito, Mohamed Bazoum. Forse da queste telefonate deduce che ci sia ancora uno spiraglio di trattativa tra il capo di stato democraticamente eletto e i golpisti che, intanto, hanno messo a guida del paese il capo della guardia presidenziale, il generale Abdourahamane Tchiani, in qualità di “presidente del Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria”, la giunta che ha rovesciato il presidente eletto. Il capo della guardia presidenziale, il generale Tchiani, nuovo uomo forte del Niger, ha giustificato il golpe con “il deterioramento della situazione della sicurezza” nel paese minato dalla violenza dei gruppi jihadisti. Il presidente Bazoum, a detta sua, voleva far credere che “va tutto bene”, mentre c’è

«la dura realtà con la sua quota di morti, sfollati, umiliazioni e frustrazioni». Secondo Tchiani «l’attuale approccio di sicurezza non ha permesso di mettere in sicurezza il paese nonostante i pesanti sacrifici compiuti dai nigerini e l’apprezzabile e apprezzato supporto dei nostri partner esterni».

Rassicurazioni da militare

A ogni insorgenza si sentono sempre queste parole. Sono una consuetudine vissuta anche in altri scenari del Sahel: il Mali e il Burkina Faso, paesi governati da giunte militari frutto di 4 colpi di stato. Tutte le giunte militari, inoltre, si affrettano a sostenere che gli impegni presi dal paese non cambieranno e verranno rispettati. Un tentativo di rassicurare gli alleati, ed è capitato anche in Niger, per poi fare retromarce clamorose. In Mali – la nuova Costituzione stabilisce che il francese non è più la lingua ufficiale – come in Burkina Faso, hanno “cacciato” la Francia per mettersi totalmente nelle mani della Russia, affidandosi alla Compagnia Wagner per la lotta ai gruppi jihadisti che imperversano nel Sahel. Hanno preoccupato le manifestazioni, a Niamey, a sostegno dei golpisti, con la gente che sventolava le bandiere russe, per altro subito disperse dalla giunta miliare. I timori, dunque, delle cancellerie occidentali sono più che fondati. E la “guerra economica e diplomatica” tra Ovest ed Est del mondo sembra proprio essersi trasferita in Africa. I segnali ci sono tutti.

Il Sahel ha sancito la fine di un’epoca?

Dopo il Mali e il Burkina Faso, dunque, anche il Niger è caduto sotto il controllo di un regime militare che potrebbe sconvolgere la lotta contro i gruppi armati jihadisti nel Sahel. Di fronte all’avanzata dei terroristi, le giunte militari hanno preso il sopravvento su democrazie ritenute inefficienti e corrotte da parte delle popolazioni saheliane. I militari che hanno, infatti, preso il potere in Niger hanno già annunciato un nuovo orientamento strategico.

«L’attuale approccio non ha permesso di mettere in sicurezza il Paese nonostante i pesanti sacrifici compiuti dai nigerini», ha detto il generale Tchiani.

Il Niger e il suo presidente, eletto democraticamente, erano i principali alleati dei paesi occidentali nel Sahel travolto dalla violenza jihadista e da un’ondata di autoritarismo venato di sovranità russofila. Bamako si è rivolto ai mercenari della Wagner per far fronte ai gruppi jihadisti, provocando la partenza delle truppe francesi nel 2022. Le autorità di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, hanno optato per la mobilitazione di cittadini armati e hanno chiesto il ritiro delle forze speciali francesi nel paese, non senza l’appoggio della Wagner. Il presidente nigerino, invece, aveva scelto di mantenere sul suo territorio la presenza di soldati francesi, americani e italiani, temendo di essere coinvolto nel divorzio tra l’occidente e le giunte saheliane.
Queste giunte «tendono naturalmente ad addossare la responsabilità del deterioramento della sicurezza agli alleati dei regimi che hanno rovesciato. Questi colpi di stato sono sostenuti da una parte della popolazione che ha già mostrato un atteggiamento ostile nei confronti dei francesi o degli occidentali presenti nel Sahel», spiega Ibrahim Yahaya Ibrahim, ricercatore dell’International Crisis Group.
Fin dal suo primo intervento, il generale Tchiani ha preferito rivolgersi ai suoi omologhi saheliani, interrogandosi «sul senso e sulla portata di un approccio securitario alla lotta al terrorismo che escluda ogni reale collaborazione con Burkina Faso e Mali» nell’area nota come i tre confini.

L’auspicata cooperazione tra sahelini… ma antifrancese

A causa delle tensioni diplomatiche, i militari nigerini e francesi non hanno potuto operare liberamente contro le basi dello Stato Islamico dall’altra parte del confine con il Mali, dove l’organizzazione compie attacchi sul territorio nigerino. Questa crisi non potrebbe essere risolta senza la cooperazione con il Mali, secondo il generale Tchiani. Insomma, è facile prevedere che vi sia un “miglioramento” delle relazioni e una maggiore cooperazione tra i paesi vicini.
Dal lato dei partner occidentali le prospettive sono più fosche: l’Unione europea ha annunciato la sospensione di tutti gli aiuti di bilancio e le azioni di cooperazione nel campo della sicurezza. Le sanzioni internazionali potrebbero colpire il regime come nel vicino Mali. Una possibile partenza delle forze francesi, americane e italiane lascerebbe un vuoto in una regione particolarmente travagliata, secondo gli analisti.
Il Niger confina con il caos libico, la Nigeria con Boko Haram e Iswap, il nord del Benin molto colpito dal jihadismo e ovviamente Mali e Burkina Faso.

Niamey era un polo di stabilità nonostante i problemi di sicurezza sul territorio.

Il Niger sta vivendo un afflusso di rifugiati dal Mali e dalla Nigeria in preda alla violenza, stimato in 255.000 nel 2022 dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unchr). Bazoum incarnava un modello di cooperazione in materia di sicurezza per le democrazie occidentali e i loro donatori. Il mantra del presidente nigerino era la “stabilizzazione” delle comunità prese di mira dal reclutamento jihadista e la reintegrazione dei loro combattenti, soprattutto i giovani. Il governo di Niamey stava attuando programmi in gran parte finanziati da partner internazionali, il cui futuro è ora sospeso. Contrariamente al potere civile che ha accettato di dialogare con alcuni leader di gruppi armati, il generale Tchiani ha denunciato nel suo discorso di “insediamento” la “liberazione extragiudiziale” di “capi terroristi” da parte del regime di Mohamed Bazoum. In Mali e Burkina Faso i militari al potere hanno optato per una strategia ultraoffensiva contro i gruppi jihadisti, viziata da accuse di abusi ricorrenti contro la popolazione. E a pagarne il maggior peso sono i civili.

Recrudescenza jihadista

Una strategia che contribuisce alla destabilizzazione e può alimentare tensioni intercomunitarie e intracomunitarie. Un approccio, inoltre, che non ha avuto l’esito sperato. Gli attacchi jihadisti in questa regione, ma anche nell’Africa occidentale, si sono moltiplicati. Solo nei primi sei mesi del 2023 si sono registrati più di 1800 attacchi di matrice terroristica, nei quali hanno perso la vita quasi 4600 persone e che hanno avuto conseguenze umanitarie disastrose. A riferirlo è Omar Touray, presidente della Commissione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) intervenendo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Delle circa 4600 persone uccise in questi attacchi terroristici tra gennaio e la fine di giugno, 2725 morti sono avvenute in Burkina Faso, 844 in Mali, 77 in Niger e 70 in Nigeria. Touray ha citato anche il Benin e il Togo, due paesi della subregione storicamente risparmiati dagli attacchi terroristici ma che oggi vivono, invece, grandi preoccupazioni per la sicurezza. Questi paesi sono stati presi di mira, di recente, da una serie di attacchi, che Touray ha descritto come

«un’indicazione lampante della diffusione del terrorismo negli stati» del Golfo di Guinea, «una situazione che rappresenta un’ulteriore minaccia per la regione».

Touray ha detto anche che l’insicurezza continua a infliggere dolore e sofferenza a milioni di persone, con conseguenze di vasta portata: questi attacchi terroristici hanno provocato lo sfollamento di mezzo milione di rifugiati e quasi 6,2 milioni di sfollati interni. La Costa d’Avorio, solo per fare un esempio, ha già predisposto campi per l’accoglienza dei profughi provenienti dal Burkina Faso. Il numero di persone con necessità di sicurezza e assistenza, poi, salirà a 42 milioni «se non ci sarà un’adeguata risposta internazionale ai 30 milioni di persone attualmente bisognose di cibo».


I francesi e l’Occidente non si possono permettere di perdere il Niger: passa dalla soluzione di questa crisi il definitivo declino dell’Occidente, oppure la contrapposizione allo scacco del blocco antiatlantico… l’incrocio tra Sahel e l’area centrafricana è uno snodo essenziale, ben più critico del corridoio polacco verso Kaliningrad. E forse per evitare il contagio può essere un’interpretazione valida quella avanzata da Angelo Ferrari e Marco Trovato in un visdeo di “AfricaRivista”riguardo al successivo “golpe” con caratteristiche del tutto differenti che ha colpito il Gabon, stato quasi monarchico che la repubblica francese ha dato in affido alla famiglia Bongo da 57 anni e che avrebbe rischiato maggiormente se le sommosse per il malcontento nei confronti della cleptocrazia non fossero venute dalla guardia presidenziale, ma dai cittadini ridotti in miseria dal sistema neocoloniale – e c’erano tutti i prodromi di una reazione violenta ai brogli delle elezioni tenutesi senza internet funzionante e in stato di emergenza, senza osservatori. Invece Brice Clotaire Oligui Nguema, nuovo uomo forte – senza bandiere russe o stemmi con il teschio della fantasmatica Wagner – ha assegnato ad Ali Bongo Ondimba quella retraite per la difesa della quale i cittadini francesi sono scesi nelle piazze per mesi. Ma qui non siamo in Sahel, non si è ancora affacciato il pericolo jihadista, la Francia non si può permettere di perdere un alleato così fedele.

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Yamoussoukro https://ogzero.org/studium/yamoussoukro/ Wed, 26 Jul 2023 22:57:03 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=11350 L'articolo Yamoussoukro proviene da OGzero.

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40 Ab Urbe condita. Yamoussoukro resta embrione di Capitale

La capitale della Costa d’Avorio, Yamoussoukro, dopo quarant’anni rimane un sogno. Il simbolo del paese indipendente rimane sonnacchioso, non ha mai preso l’abbrivio delle grandi capitali africane. È rimasta arroccata intorno al villaggio del primo presidente ivoriano, che proprio qui ha voluto “costruire” il centro del paese. Ma non è mai decollata come “Capitale”. Il potere, economico e politico, rimane concentrato ad Abidjan, sulla costa, vero centro nevralgico del paese e capitale economica.

Dai quattro angoli della città è impossibile non vedere l’enorme cupola della basilica di Notre Dame de la Paix, il simbolo di questa città che fatica a imporsi come la vera capitale della Costa d’Avorio. Con i suoi ampi viali, le gradi aeree boschive, l’architettura anni Settanta e il traffico regolare, Yamoussoukro, nel centro pacifico del paese, è diversa dalle altre città ivoriane, è il frutto di un sogno, quello del primo presidente della Costa d’Avorio indipendente, Félix Houphouët-Boigny, di fare del suo villaggio natale di N’Gokro la capitale del suo paese. Ciò avvenne il 21 marzo 1983 – 40 anni fa.

Nel corso del Ventesimo secolo, il villaggio divenne una vera e propria città ed ereditò un nome in omaggio a Yamousso, regina Baoulé e prozia del presidente. «Félix Houphouët-Boigny voleva innanzitutto correggere l’eredità coloniale che avevamo ricevuto per impedire che tutto si concentrasse in un’unica città (Abidjan)», spiega Jean-Noël Loucou, segretario generale della Fondazione Félix Houphouët.Boigny, un istituto di ricerca sulle questioni di pace. «Creando questa capitale, l’idea era quella di mostrare il genio africano con un’architettura particolare, senza grandi edifici con tanto verde», aggiunge. Quarant’anni dopo la città è molto grande e conta circa 300.000 abitanti. Ma ancora pochissime istituzioni. Il cuore della politica ivoriana batte ancora nel Sud costiero, ad Abidjan, dopo che si sono trasferiti solo il Senato e la Camera Nazionale dei Re e dei Capi Tradizionali.

Gli “incantesimi politici” non sono mancati dalla morte del padre fondatore nel 1993 – 30 anni fa. Laurent Gbagbo, presidente dal 2000 al 2011, aveva persino lanciato grandi progetti per costruire lì un’Assemblea nazionale e un palazzo presidenziale. Ma i due siti sono ormai abbandonati, ricoperti di vegetazione – da più di 20 anni.

«La volontà di trasferire il capitale a Yamoussoukro esiste. Sono i mezzi che mancano. Come autorità locale, non abbiamo i mezzi per indebitarci a livello internazionale. Ma spero che un giorno accadrà», sostiene il governatore regionale, Augustin Thiam. «Yamoussoukro non è ancora la capitale della Costa d’Avorio. Ma è fuori discussione creare una capitale da zero. Ci sono tante cose da valutare, quantificare, prima di passare alla realizzazione», aggiunge Thiam dai giardini dalla residenza del presidente Houphouët, suo prozio.

Per il momento, Yamoussoukro rimane una delle principali attrazioni turistiche del paese, in particolare grazie alla sua basilica, ispirata a quella di San Pietro a Roma, e che è l’edificio religioso cattolico più alto del mondo con i suoi 158 metri di altezza. Il Lac aux Caïmans, che confina con l’imponente residenza di Houphouët, attira anche i curiosi che osservano le decine di coccodrilli ozianti sulle rive, nel cuore della città. E i coccodrilli hanno ispirato lo scrittore V.S. Naipaul, nato in un piccolo villaggio dell’isola caraibica di Trinidad da genitori indiani di casta britannica e premio Nobel, che nel 1981, ha pubblicato il libro I coccodrilli di Yamoussoukro. E così descrive il suo arrivo nella città:

«Su tutto domina il palazzo del presidente, circondato da mura altissime e da un lago popolato di coccodrilli – cui un inserviente in uniforme provvede a fornire, secondo una ritualità oscura, un congruo numero di animali vivi, e non manca il sospetto che venga aggiunto occasionalmente qualche essere umano».

Credenze a parte il palazzo presidenziale sorge tutto attorno a quella che fu la prima abitazione del presidente, poco più che una capanna, e il lago coi coccodrilli rimane un’attrazione, anche se oggi è vietato passeggiare sulla strada che lo delimita, ci si può passare solo in macchina, per via dei numerosi incidenti, persone imprudenti che volevano vedere da vicino gli animali e sono finite male. Ma il mito e mistero rimangono. Lo stesso Naipaul riferisce che il paesaggio e la città agiscono su di lui “come un’allucinazione”, che pervade anche il visitatore di oggi.

Houphouët ha cercato di costruire poco a poco Yamoussoukro attorno a tre pilastri: l’educazione con le grandi scuole, la religione con la basilica ma anche la grande moschea, e il turismo. Tutto “grande” così come lo immaginava Félix Houphouët Boigny: una grande città, la capitale, segno della rinascita africana, del periodo sognante e frenetico delle indipendenze e della liberazione dal colonizzatore. Un sogno, dunque, che a quarant’anni di distanza è rimasto tale. A Yamoussoukro si va in “pellegrinaggio” turistico per ammirare la cattedrale cattolica – più alta di San Pietro a Roma, simbolo della maestosità che il primo presidente ivoriano voleva imprimere al suo paese – ma, anche, per sedersi, furtivamente, sul banco che riporta il nome del presidente, anche se è vietato e per dire “io ci sono stato”.

La posizione della città, tuttavia, rimane strategica. È un grande crocevia al centro della Costa d’Avorio, tutti la attraversano, ma in pochi vi si stabiliscono, anche se la saturazione abitativa – 6 milioni di abitanti – e il tumulto trafficato che regna ad Abidjan, potrebbero indurre molti a trasferirsi proprio a Yamoussoukro. Potrebbe diventare la città dei servizi. Serge Pokou, albergatore e agricoltore, ha fatto il grande passo qualche anno fa con la sua famiglia.

«Ho naturalmente optato per la calma di Yamoussoukro che è un mix di città moderna e campagna, intriso di una cultura africana preservata. La geometria delle arterie principali, i lussureggianti spazi verdi, gli edifici sorprendenti mantengono la calma, il fascino e lo splendore della città», spiega.

Ma resta da costruire un vero e proprio tessuto economico intorno alla capitale al di là del turismo. La futura creazione di una zona industriale potrebbe dare un impulso nuovo alla capitale, anche se, oggi, gli studenti che sono formati nelle scuole della città e nella sua università – il Politecnico è una delle università più importanti d’Africa – non rimangono, tutti preferiscono il caos di Abidjan perché offre più opportunità di impiego. Ma c’è anche chi osserva che, sicuramente, l’area industriale può dare vantaggi economici importanti e indurre le persone a restare o trasferirvisi, ma «bisogna fare attenzione a salvaguardare l’identità della città e la sua tranquillità che restano, soprattutto, il criterio di scelta per chi la abita o cerca di stabilirsi», avverte Pokou, insomma il suo essere città africana e non metropoli congestionata. Una sintesi difficile da trovare, anche dopo quarant’anni. Per ora Yamoussoukro continua a sonnecchiare e a sognare.

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]]> A chi è utile la Wagner? https://ogzero.org/a-chi-e-utile-la-wagner/ Tue, 27 Jun 2023 16:00:14 +0000 https://ogzero.org/?p=11209 Che fine farà la Wagner? A chi è utile? Il continente africano è utile alla Russia come fonte di approvvigionamenti e di nuovi mercati alternativi a quello europeo, e la milizia capeggiata da Prigozhin era la testa di ponte russa che serviva allo scopo per militarizzare le risorse ottenute e controllare i territori che le […]

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Che fine farà la Wagner? A chi è utile? Il continente africano è utile alla Russia come fonte di approvvigionamenti e di nuovi mercati alternativi a quello europeo, e la milizia capeggiata da Prigozhin era la testa di ponte russa che serviva allo scopo per militarizzare le risorse ottenute e controllare i territori che le ospitano (senza contare l’utilizzo anti-jihad fattone da parte dei numerosi dittatori o golpisti africani). In Occidente non se ne è parlato molto in questi giorni in cui si è assistito ai fatti avvenuti in Casa Russia, ma è bene che se ne tenga conto, per capire gli sviluppi negli equilibri futuri del continente e degli investimenti che lì sono in corso. Angelo Ferrari ne parla qui e nel podcast dedicato al neocolonialismo africano, un’intervista per la trasmissione “I bastioni di Orione” di Radio Blackout.


La Wagner si sfalderà in Africa o verrà riassorbita nei ranghi ufficiali russi? È quello che si stanno chiedendo molti dittatori o golpisti africani che fanno ricorso ai mercenari della Compagnia Wagner per “sistemare” le questioni interne dei loro paesi, in particolare la lotta al jihadismo come nel Sahel. Di sicuro, fino a ora, la Wagner è la testa di ponte di Mosca per riaffermare la sua influenza su parte del continente africano. La Russia ha bisogno dell’Africa per due motivi: il primo perché deve trovare nuovi partner, nuove fonti di approvvigionamento, e nuovi mercati alternativi a quello europeo; il secondo luogo perché il sogno della Russia è quello di rafforzare il suo ruolo di gigante minerario per poi cercare di militarizzare le risorse, sviluppando tecnologia bellica. Per queste ragioni Vladimir Putin ha utilizzato la Wagner come forza di sfondamento nel continente africano. Questo, inoltre, ha fatto sì che la base operativa economica della Wagner sia diventata l’Africa. Un aspetto che l’Occidente non deve sottovalutare come gli avvenimenti dei giorni scorsi in Russia.

Dove opera la Wagner

L’attività del gruppo Wagner si svolge in tredici paesi diversi: Libia, Eritrea, Sudan, Algeria, Mali, Burkina Faso, Camerun, Sud Sudan, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Madagascar, Mozambico e Zimbabwe. Tutti paesi ricchi di risorse naturali di cui Mosca ha bisogno e sulle quali si è sviluppata la forza della Wagner, non solo militare, ma economica. La Repubblica Centrafricana, per esempio, è diventata per la Wagner un partner privilegiato – ha 13 basi militari – ha prestato i suoi servigi militari a difesa del governo del presidente Faustin-Archange Touderà, minacciato dai ribelli e da una guerra civile, avendo in cambio un accesso privilegiato alle miniere d’oro e di diamanti, oltre ad avere il controllo di alcuni ministeri. Significativo, da questo punto di vista, Il divieto di sorvolo dei droni, deciso a febbraio dal governo centrafricano, proprio per tutelare le attività di Wagner nella miniera d’oro di Ndassima, recentemente ampliata e messa in sicurezza.

Una situazione simile si sta verificando in Mali e in Burkina Faso. Con il fallimento dell’operazione antiterrorismo Barkhane e il conseguente ritiro dei francesi, il campo si è aperto ai russi e alla Compagnia Wagner – nonostante i governi di questi paesi neghino – che è passata all’incasso. Secondo un recente rapporto dell’Africa Command degli Stati Uniti, il Mali paga Wagner il corrispettivo di 10 milioni di dollari al mese, sotto forma di risorse naturali come oro e pietre preziose.

Il forziere economico della Wagner: contratti, armi e potere

E poi c’è il Sudan. La guerra tra l’esercito regolare del generale Abdel Fattah al Burhan e il capo delle Forze di supporto rapido (Fsr), Mohammed Hamdane Dagalo, detto Hemedti, continua senza tregua. E la Wagner, pur sostenendo le milizie Fsr, è rimasta defilata, si è occupata solo del trasferimento di armi dalla sua base in Cirenaica, in Libia, è ha privilegiato i suoi interessi economici che sono indipendenti da chi prevarrà sul campo. I rapporti tra Mosca e Kharthoum sono di lunga data. Il Sudan è ricco di metalli preziosi, la stragrande maggioranza dei quali viene esportata illegalmente. Molte miniere sono nelle mani di Hemedti. In questo settore la Wagner agisce attraverso la società M Invest di Yevgeny Prigozhin e la sua controllata Meroe Gold, che si è trasferita in Sudan nel 2017 e lavora con Aswar, una società controllata dall’intelligence militare sudanese. Il gruppo di giornalisti del Progetto di segnalazione di criminalità organizzata e corruzione (Occrp) è riuscita a raccogliere prove di un contratto tra Meroe Gold e Aswar. La società russa, inoltre, è esentata dal 2018 dalla tassa del 30% imposta dalla legge sudanese alle società aurifere. Anche per queste ragioni Wagner in Sudan ha assunto un profilo opportunista piuttosto che fedele a una particolare fazione. Questo ha permesso a Prigozhin di proseguire le sue attività economiche anche dopo la caduta del dittatore Omar al-Bashir e anche dopo il golpe del 2021, messo in atto proprio da chi ora si combatte per il potere. Dunque, il vero forziere economico della Wagner è in Africa. E tutto ciò fa gola anche a Putin.

Ascolta “Neocolonialismo africano: la trappola dietro allo sforzo di affrancamento” su Spreaker.

Le “fattorie di troll”

Dopo la “tentata marcia” su Mosca da parte della Wagner, nel continente africano non si segnalano particolari movimenti del gruppo. I mercenari, abituati a lavorare in autonomia, continuano le loro attività: sicurezza, sfruttamento delle risorse naturali e manovre di disinformazione con lo scopo di avvicinare le opinioni pubbliche alle ragioni della Russia. La compagnia Wagner, già dal 2017, ha utilizzato campagne per destabilizzare e manipolare le opinioni pubbliche attraverso le sue “fattorie di troll” sia in Sudan così come nel Sahel.

I due possibili sbocchi

Molti analisti concordano che Wagner non può fare a meno del supporto logistico dell’esercito russo nelle sue operazioni in Africa. Mosca fornisce armi e istruttori a molti paesi. Ma, anche in caso di smantellamento del gruppo Wagner, la Russia non lascerà il terreno non “occupato”. Le conquiste politiche, economiche e diplomatiche dell’ultimo decennio sono vitali per Mosca. I leader africani, che si avvalgono dei servizi dei mercenari russi, devono necessariamente interrogarsi anche sui rapporti di forza in Russia, soprattutto se i contrasti dovessero durare, potrebbero trovarsi di fronte a un conflitto di lealtà. I leader africani, così come molte cancellerie occidentali e asiatiche, stanno aspettando che la “polvere si depositi”. Di certo se la Wagner viene riassorbita nei ranghi dell’esercito di Mosca, il problema non si pone. I leader africani potranno continuare a trattare con questa compagnia senza il timore di scatenare conflitti di fedeltà con la Russia. Altro se Prigozhin rimarrà a capo della Wagner “africana”. Allora si entrerebbe in una zona grigia, senza dimenticare che la gran parte del personale russo schierato in Africa appartiene alla Wagner.

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Paradossi petroliferi africani https://ogzero.org/paradossi-petroliferi-africani/ Mon, 05 Jun 2023 17:17:05 +0000 https://ogzero.org/?p=11181 Il primo provvedimento che Tinubu, subentrato il 29 maggio a Buhari nella guida della Nigeria, ha notificato ai cittadini è stata la cancellazione dei sussidi pubblici sui carburanti, che costano alla Nnpc 810 milioni di euro al mese, ed ecco uno dei paradossi petroliferi africani: i nigeriani dovranno quindi aspettarsi un rincaro dei prezzi dei […]

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Il primo provvedimento che Tinubu, subentrato il 29 maggio a Buhari nella guida della Nigeria, ha notificato ai cittadini è stata la cancellazione dei sussidi pubblici sui carburanti, che costano alla Nnpc 810 milioni di euro al mese, ed ecco uno dei paradossi petroliferi africani: i nigeriani dovranno quindi aspettarsi un rincaro dei prezzi dei trasporti privati e collettivi, e dell’elettricità, spesso ottenuta dai generatori, viste le carenze della rete elettrica: infatti il prezzo calmierato della benzina era uno dei pochi benefici concessi dallo stato. Un precedente tentativo di cancellarli, fatto nel 2012 dal presidente Goodluck Jonathan, aveva scatenato rivolte sanguinose. Angelo Ferrari assimila la situazione innescata ad Abuja alla concomitante, seppur graduale, decisione presa a Luanda di ridurre progressivamente i sussidi sui prodotti petroliferi, proprio a un paio di settimane dal rilancio degli investimenti mondiali (in primis cinesi) sulla produzione e il trasporto del greggio angolano in previsione di una nuova era dello sviluppo energetico.
Lo strapotere dei più grossi produttori di greggio, a elezioni archiviate, mette tra parentesi il bisogno di consenso dei vertici, che si dimostrano espressione delle lobbies degli idrocarburi. Un sistema che innesca il paradosso secondo il quale la Nigeria – e anche l’Angola – reimportano i derivati del petrolio spendendo 10 milioni di dollari al giorno per sostenere Nncp e questo aveva spinto il regime militare di Obasanjo a introdurre il sussidio nel 1977… vedremo come andrà a finire il taglio del paracadute.  


Tempo di far pagare agli africani il rilancio petrolifero

Angola e Nigeria, grandi produttori di petrolio dell’Africa subsahariana, hanno deciso di togliere i sussidi ai carburanti con gravi ripercussioni sull’inflazione e sullo stato generale dell’economia. In Nigeria la decisione ha provocato il caos. Dunque il mandato del nuovo presidente nigeriano, Bola Tinubu, non è iniziato sotto i migliori auspici. Nel discorso di insediamento di lunedì scorso il neopresidente ha annunciato la fine dei sussidi sul carburante e subito è scoppiato il caos. La gente si è accalcata ai distributori di benzina per fare scorte con scene di panico e la conseguenza è stata una sorta di speculazione in piccolo: molti distributori hanno aumentato i prezzi, vista la domanda impazzita, anche del 200% alla pompa. Tinubu, vista la situazione, ha dovuto in qualche modo tornare sui suoi passi: pur non smentendo la fine dei sussidi si è affrettato a dire.

«il panico che si è scatenato in seguito alla comunicazione è inutile, non avrà effetto immediato»,

perché i sussidi non termineranno prima della fine di giugno.

Ma ormai è il caos, anche perché la compagnia petrolifera statale nigeriana, subito dopo, ha reso noto un prossimo aumento del prezzo della benzina. La Nigerian national Petroleum corporation (Nnpc), attraverso una nota ufficiale, spiega che la mossa è in linea con la realtà di mercato:

«I prezzi continueranno a fluttuare per riflettere le dinamiche del mercato».

Il prezzo attuale della benzina è di circa 40 centesimi di euro al litro, e la Nnpc non ha specificato quale sarà il nuovo prezzo né a decorrere da quando, ma secondo i media nigeriani la nuova fascia di prezzo è compresa tra 0,97 euro e 1,19 euro al litro. Un aumento enorme che avrà ripercussioni importanti sull’economia e sull’inflazione – già elevata – nigeriana.
Come era prevedibile, negli ultimi giorni il carburante ha cominciato a scarseggiare e i prezzi sono schizzati con un impatto sul settore della logistica e dei trasporti, costretto a trasferire i costi più elevati sui prezzi di consegna, con un aumento tra il 20% e il 50%. Allo stesso modo i servizi di mobilità come Bolt e Uber sono stati costretti ad adeguare le loro tariffe. I prossimi mesi saranno cruciali per valutare la portata dell’impatto economico a lungo termine.

I paradossi petroliferi

Ma non poteva mancare la ciliegina sulla torta: il parlamento nigeriano ha richiesto un audit forense dopo che in un suo rapporto è stato rilevato che negli ultimi dieci anni sono stati spesi 25 miliardi di dollari per cercare di riparare e ammodernare le fatiscenti raffinerie di petrolio del paese. Nonostante gli enormi costi, il rapporto ha rilevato che queste lavorano a una capacità del 30% inferiore rispetto alle loro potenzialità. La buona notizia, ma solo in parte, è che nel mese di luglio dovrebbe entrare in funzione una raffineria costruita dal noto uomo d’affari nigeriano, Aliko Dangote, l’uomo più ricco della Nigeria.

Ma rimane il paradosso. La Nigeria, uno dei più grandi produttori di petrolio dell’Africa subsahariana, importa l’80% del suo fabbisogno di carburante.

Angola

L’altro grande produttore di petrolio, l’Angola non è da meno. Secondo un rapporto pubblicato l’11 maggio dall’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, l’Angola è il primo produttore di greggio dell’Africa, con 1,06 milioni di barili al giorno ad aprile e, tuttavia, è un grande importatore di carburante. In Angola, come in Nigeria, solo la raffineria di Luanda è attualmente operativa, mentre quelle di Lobito, Cabinda e Soyo sono ancora in costruzione.
Ecco dunque che anche il governo angolano ha deciso la graduale rimozione dei sussidi al carburante. Il prezzo della benzina passerà dagli attuali 0,27 dollari a 0,51 dollari al litro, con un aumento dell’87,5%, a partire dal 2 giugno. Mentre i prezzi degli altri derivati dal petrolio, come diesel, l’olio illuminante, rimarranno invariati. Il ministro angolano per il Coordinamento Economico, Manuel Nunes Junior, ha spiegato che la rimozione dei sussidi per il carburante è

«una misura necessaria per promuovere una solida crescita economica in grado di affrontare i gravi problemi del paese».

Secondo il ministro, le spese per i sussidi al carburante ammontavano, nel 2022, a 3,8 miliardi di dollari.
In un documento del ministero delle Finanze si legge che con la completa rimozione dei sussidi – dovrebbe concludersi entro il 2025 – per il gasolio e la benzina, l’Angola manterrà comunque un prezzo del petrolio competitivo all’interno della regione. Il rapporto specifica, inoltre, che i sussidi hanno un impatto negativo sulle finanze pubbliche, generando costi fiscali crescenti e insostenibili nel medio e lungo termine, ostacolando la capacità finanziaria del paese di investire nei servizi di base e nei progetti di sviluppo sociale. Nell’immediato ha l’effetto di far crescere i prezzi dei generi di prima necessità, diminuire il potere di acquisto e impoverire ulteriormente la popolazione. Ma all’Angola, evidentemente, sta molto a cuore l’industria petrolifera che, a detta del ministero delle Finanze, è minacciata proprio dai sussidi che incoraggerebbero il contrabbando di petrolio verso i paesi vicini, con prezzi di oltre il 70% superiori rispetto a quelli dell’Angola.

paradossi petroliferi

Il 2022 si è chiuso con i prezzi di mercato della benzina e del gasolio superiori ai prezzi sovvenzionati in Angola rispettivamente del 202% e del 279%. I sussidi per i carburanti nel 2022 rappresentavano circa il 92% delle spese per la sanità e l’istruzione del paese nello stesso anno. In quel rapporto si legge che potrebbero raggiungere circa il 3,5% del prodotto interno lordo del 2022 e circa il 20% del bilancio generale previsto per il 2023 in Angola.

A causa del «significativo impatto della rimozione dei sussidi per il carburante sull’inflazione e sulla solvibilità delle famiglie» il rapporto propone misure di mitigazione per riassegnare tali sussidi all’energia, ai trasporti pubblici e ai programmi sociali. Staremo a vedere.
Stando ai dati aggiornati alla fine di maggio del sito web Global Petrol Prices, dopo l’aumento del prezzo della benzina in Angola, il paese passerà dal quarto più economico al mondo al decimo in termini di prezzo della benzina.

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Africa Day: le sfide anticoloniali sono sempre attuali https://ogzero.org/africa-day-le-sfide-anticoloniali-sono-sempre-attuali/ Thu, 25 May 2023 21:40:42 +0000 https://ogzero.org/?p=11124 Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale. Eppure l’Africa è […]

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Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale.
Eppure l’Africa è al centro di ogni affare (Descalzi incontra Nguesso per inaugurare il “Congo Lng”), interesse (Kuleba incontra i leader dell’UA in vista di mediazione sulla guerra), ricchezza (Tshisekedi – nato nel 1963, come l’UA – si accorda sul cobalto con Xi)… queste solo alcune delle notizie odierne. In Ghana Gold Fields e AngloGold Ashanti si uniscono per creare la più grande miniera d’oro africana e contemporaneamente un tornado sradica l’albero della libertà… ci sarà una qualche correlazione?


Dopo il colonialismo… 60 anni di neocolonialismo

Le celebrazioni, in Africa, hanno sempre un valore simbolico. Ricche di retorica ma anche di auspici. Appartengono alla vita delle comunità e degli stati. Anche in questo giorno, in cui si celebra l’Africa Day, il continente si è mobilitato.
Oggi si ricordava la fondazione dell’Organizzazione dell’Unità africana (Oua), che avvenne il 25 maggio del 1963, sessant’anni fa. In alcuni paesi prende il sopravvento la retorica condita di anticolonialismo. In altri, invece, si guarda al futuro e alle sfide, che retoriche non sono, che attendono un continente provato dalla pandemia di Covid, dall’inflazione dei prezzi dei generi energetici e, soprattutto, alimentari dovuto alla situazione economica globale aggravata dalla guerra in Ucraina.

Le sfide del continente

Ma sono anche altre le sfide. Il terrorismo, per esempio, e tutt’altro che sconfitto anzi, dilaga in molti paesi come il Mali, Il Burkina Faso, che sembrano essere incapaci di farvi fronte nonostante i paesi siano stati squassati da colpi di stato. Dall’arrivo dei militari al potere la situazione, se possibile, si è ancora aggravata e nulla ha potuto la retorica anticoloniale, in particolare il sentimento antifrancese che pervade le popolazioni di questi due paesi, ma anche la simpatia, che è diventata rapporto strutturale con la Russia, che fornisce armi e mercenari della Compagnia Wagner. Tutto il Sahel è pervaso da una ondata jihadista senza precedenti, con le cancellerie internazionali preoccupate per la possibile saldatura con le organizzazioni criminali internazionali.  Cancellerie che, tuttavia, non sono state in grado di risolvere il problema perché hanno privilegiato l’intervento securitario – necessario – alla cooperazione allo sviluppo. Il terrorismo nel Sahel, così come in Somalia, si alimenta della povertà dilagante, dell’incapacità degli stati di far fronte ai bisogni della popolazione. Verrebbe da dire che l’arma più efficace per combattere i terroristi sarebbe mettere in campo riforme economiche e un welfare state degno di questo nome, così da togliere da sotto i piedi dei terroristi il loro terreno privilegiato, cioè la povertà. Lavoro non da poco.
Ma sono molte altre le sfide che attendono il continente, soprattutto economiche. L’intera Africa deve avere come faro la diversificazione economica, non può affidarsi, solo, alle materie prime, pur preziose per avere le risorse per creare un tessuto industriale manifatturiero. Significativo da questo punto di vista lo sbilanciamento delle relazioni con la Cina, il primo partner commerciale del continente. Nei primi quattro mesi del 2023 le esportazioni cinesi verso i paesi africani sono cresciute del 26,9%, mentre quelle dell’Africa verso la Cina sono diminuite dell’11,8%. Uno squilibrio evidente, aggravato dal fatto che Pechino esporta in Africa prodotti finiti – tessile, abbigliamento, macchinari, elettronica – mentre le esportazioni africane verso la Cina sono dominate da materie prime come petrolio greggio, rame, cobalto e minerale di ferro, di cui il Dragone ha estremamente bisogno. Proprio per queste ragioni il continente deve lavorare con più determinazione per la costruzione di un tessuto produttivo manifatturiero.
Questa, inoltre, è la grande sfida che attende l’Area di libero scambio continentale africana (Afcta) – entrata in vigore nel gennaio del 2021 – un mercato di 1,2 miliardi di persone e di un Pil combinato di circa 3,4 trilioni di dollari. Un’area commerciale che stenta a decollare per la mancanza di infrastrutture sicure, capaci di collegare gli stati ma soprattutto per la risibilità della manifattura africana. Tra i paesi del continente non possono circolare, solo, le materie prime, queste se le accaparrano le multinazionali e portano beneficio a pochi. L’Africa vive un paradosso: è ricca di risorse, ma, per fare un esempio, i due colossi nella produzione di petrolio in Africa subsahariana – Angola e Nigeria – importano circa l’80% del loro fabbisogno in carburante. Da non trascurare che le materie prime sono soggette alle oscillazioni dei mercati internazionali.
Altra sfida è quella dell’energia elettrica. Ancora nel 2023 milioni di africani rimangono al buio, e anche questo è un paradosso viste le potenzialità del continente: solare, idroelettrico, geotermico, eolico, energie pulite come l’idrogeno verde. Mettere a sistema tutto ciò darebbe un impulso al mercato unico e quindi a uno sviluppo sostenibile ma, soprattutto durabile.  Questione che solo un’organizzazione sovranazionale, come l’Unione Africana, può affrontare.

Oligarchie dinastiche senza fine…

Poi ci sono questioni puramente politiche. Lasciamo da parte i presidenti africani che durano in eterno senza produrre benefici per le popolazioni ma solo animati da bulimia di potere e, spesso, sostenuti dallo stesso occidente così attento allo stato di diritto. Il punto, per rimanere alle celebrazioni di oggi, sarebbe l’attribuzione di un ruolo da pari nei consessi internazionali all’Unione africana.

vs un seggio permanente all’Onu

Un’ipotesi che si sta materializzando e potrebbe diventare concreta: un seggio, per così dire, permanente, non solo da osservatore, come spesso è capitato nei vari G20 o G7 che siano, dove di volta in volta, veniva invitato qualche presidente africano o gli stessi esponenti dell’Unione africana. Così come soddisfare la richiesta dell’Unione africana di occupare un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Formalizzare e concretizzare una presenza “permanente” avrebbe il significato di trasformare il continente africano in potenza che decide, non più, dunque, con un ruolo subalterno che ogni volta negozia con questo o quello stato occidentale, ma protagonista del proprio futuro di fronte alle potenze internazionali. Tutto ciò sarebbe un cambio di paradigma perché porterebbe l’Africa a discutere, da pari, del proprio sviluppo sia economico sia politico e sociale, con l’occidente sviluppato.

Non è una cosa qualunque, sarebbe epocale.


Come epocale è l’espianto del Freetown Cotton Tree in questa data simbolica

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Kamala Harris in Africa: investimenti e basi contro il pericolo Cina https://ogzero.org/kamala-harris-in-africa-investimenti-contro-il-pericolo-cina/ Fri, 31 Mar 2023 11:19:41 +0000 https://ogzero.org/?p=10651 Gli Stati Uniti si sono impegnati a fornire aiuti per 100 milioni di dollari agli stati dell’Africa occidentale che si affacciano sul Golfo di Guinea per combattere l’estremismo e l’instabilità. E stanno pensando all’apertura di una base Africa Command proprio sulla costa occidentale del continente. Anche gli Usa – come già stanno facendo altri paesi […]

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Gli Stati Uniti si sono impegnati a fornire aiuti per 100 milioni di dollari agli stati dell’Africa occidentale che si affacciano sul Golfo di Guinea per combattere l’estremismo e l’instabilità. E stanno pensando all’apertura di una base Africa Command proprio sulla costa occidentale del continente. Anche gli Usa – come già stanno facendo altri paesi occidentali – girano lo sguardo verso questi paesi minacciati dal dilagare del terrorismo negli Stati del Sahel, in particolare Mali e Burkina Faso, che sta sempre di più spostando la sua attenzione verso il Golfo di Guinea.

Investimenti, accordi pubblico-privato e sicurezza

L’annuncio è stato fatto dalla vicepresidente degli Stati Uniti, Kamala Harris, in visita in questi giorni in tre paesi africani: Ghana, Tanzania e Zambia. «Accogliamo con favore l’importante posizione del Ghana nella regione del Sahel e vi ringrazio per la vostra leadership in questa», ha detto Kamala Harris in un discorso nella capitale ghanese, Accra. «Oggi sono lieta di annunciare 100 milioni di dollari a Benin, Ghana, Guinea, Costa d’Avorio e Togo per aiutarli ad affrontare la minaccia dell’estremismo e dell’instabilità», ha aggiunto. La vicepresidente degli Stati Uniti ha anche sottolineato il piano strategico del presidente americano Joe Biden per prevenire i conflitti e promuovere la stabilità nella regione africana del Sahel. Il piano degli Usa, sviluppato durante il vertice Usa-Africa del dicembre scorso a Washington, poggia le sue basi su un approccio più legato agli investimenti per piani di sviluppo concertati con i paesi africani, che si possono sintetizzare in un cambio di passo:

non più “cosa possiamo fare per l’Africa, ma cosa possiamo fare con l’Africa”. Un cambio di paradigma che la vicepresidente americana ha più volte sottolineato durante questo suo viaggio – termina sabato 1° aprile – e cioè non più un approccio dove prevale l’aspetto securitario, ma dove a prevalere sono gli investimenti mirati pubblico-privato.

Gli Stati Uniti, dunque, vogliono tornare a esercitare un’influenza che si è un po’ annacquata negli ultimi anni soprattutto sul piano economico e dello sviluppo, visto che nell’ultimo decennio ha prevalso la politica securitaria che ha lasciato ampio spazio di manovra, sul piano commerciale, alla Cina e ora anche alla Russia che sta tornando a essere protagonista nel continente africano. Gli Usa, tuttavia, tengono sotto traccia la “disputa” con Pechino, non “chiedono di scegliere”, ma continuano a ritenere di offrire un modello “migliore”.

Kamala Harris in Africa

I numeri di Usa e Cina in Africa

Gli Usa hanno esportato 26,7 miliardi di dollari di beni e prodotti in Africa nel 2021 e, nello stesso anno, hanno importato 37,6 miliardi di dollari di beni dall’Africa, con il privilegio di importare prodotti senza dazi doganali in decine di paesi del continente. Nel 2011, le esportazioni statunitensi nel continente ammontavano a circa 32,8 miliardi di dollari e le importazioni a circa 93 miliardi di dollari. Se guardiamo alla Cina i numeri sono di tutt’altra entità: il commercio bilaterale totale tra il continente africano e la Cina nel 2021 ha raggiunto i 254,3 miliardi di dollari, in crescita del 35,3% su base annua. L’Africa ha esportato 105,9 miliardi di dollari di merci in Cina, un valore in crescita del 43,7% anno su anno. La Cina, dunque, è rimasta il principale partner commerciale dell’Africa per 12 anni consecutivi. A ciò si aggiungono gli investimenti infrastrutturali.

Come scalzare la Cina?

La visita del vicepresidente degli Stati Uniti è una delle visite di più alto livello nel continente dai tempi dell’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Dall’inizio dell’anno l’attività politico-diplomatica americana in Africa è stata intensa, con i viaggi del segretario di stato americano Antony Blinken, della moglie del presidente Joe Biden, Jill Biden, e della rappresentante permanente presso le Nazioni unite, Linda Thomas-Greenfield che, hanno visitato diversi paesi del continente. La crescente influenza della Cina sul continente africano è la ragione alla base di queste visite: gli Stati Uniti sono preoccupati per la crescente presenza economica della Cina in Africa e vogliono promuovere maggiori investimenti privati nel continente per far progredire le relazioni commerciali.

Gli Stati Uniti d’America, dunque, vogliono intensificare gli investimenti in Africa, recuperando posizioni sulla Cina, che rimane il maggior investitore nel continente africano.

Intensificare i rapporti pubblico-privato per dare più slancio all’economia africana e per rispondere alle esigenze di finanziamenti dei progetti infrastrutturali, stimate tra i 68 e i 108 miliardi di dollari.

La nuova strategia americana pone le sue basi su alcuni pilastri fondamentali: prosperità economica, la promozione della democrazia, i cambiamenti climatici, l’avanzamento tecnologico, l’emancipazione economica e la sicurezza alimentare. L’azione statunitense è, dunque, a tutto tondo: diplomatica, commerciale e securitaria. Il tema degli investimenti è l’aspetto cruciale dell’attivismo Usa dopo il vertice di Washington, tanto che il presidente della Banca africana di sviluppo, Akinwumi Adesina, ha sollecitato gli Stati Uniti a investire di più: «Questo è il momento per gli investitori statunitensi di spostarsi rapidamente e investire in Africa. Le opportunità non aspettano nessuno. Gli investimenti diretti esteri (Fdi) statunitensi verso l’Africa nel 2020 sono stati pari a 47,5 miliardi di dollari, ossia il 5,2% degli investimenti esteri globali degli Stati Uniti. Il Build Back Better World del presidente Biden può portare più investimenti del settore privato statunitense in Africa».

L’Africa Command piazza una nuova base in Liberia

Mentre in Africa la Harris spiega questo cambio di paradigma a Washington, invece, si sta pensando di aprire una base militare di Africa Command, proprio in Africa occidentale e uno dei paesi candidati sembra essere la Liberia. Il comandante dell’Africa Command degli Stati Uniti, il generale Michael Langley, è comparso davanti al Comitato per i servizi armati del Senato degli Stati Uniti e ha rivelato che l’Africa Command sta esplorando aree dell’Africa occidentale dove stabilire un nuovo centro di comando, ma non ha potuto rivelare i possibili paesi durante l’udienza pubblica.

 

E la Cina punta alla Guinea Equatoriale

Secondo i media liberiani questo nuovo centro potrebbe essere stabilito a Monrovia, capitale della Liberia. Gli Stati Uniti infatti sono preoccupati per le incursioni che Cina e Russia stanno facendo in Africa e sono ancora più preoccupati per la possibilità che la Cina stabilisca una base militare in Africa occidentale (in Guinea Equatoriale): «In questo momento, non possiamo lasciare che abbiano una base sulla costa occidentale perché stanno cambiando le dinamiche» ha detto Langley al Senato americano, dicendo che la necessità di un nuovo comando «è urgente».

Dopo l’audizione di Langley, il presidente liberiano, George Weah, ha visitato il quartier generale della Cia in Virginia, una visita che ha suscitato molte speculazioni in Liberia e non solo. Secondo il quotidiano liberiano “Front page Africa” «l’America ha bisogno di stabilità in Liberia» e necessita di una più ampia ed efficace collaborazione con il paese africano nella sua lotta contro la Russia e contro l’influenza cinese.

La Liberia, fondata da schiavi americani liberati, ha legami forti e storici con gli Stati Uniti ed è stata nell’orbita americana sin dalla sua esistenza. I liberiani residenti negli Stati Uniti inviano annualmente oltre 400 milioni di dollari in rimesse estere, il che rappresenta un importante impulso per l’economia liberiana.

L’America, dunque, non rinuncia del tutto all’opzione militare e securitaria e soprattutto rende ancora più evidente che il suo impegno in Africa – tornata a essere centrale nelle strategie geopolitiche mondiali – è anche di contrasto alla presenza cinese che non limita più la sua presenza all’aspetto economico e commerciale. Con una nuova base in Guinea Equatoriale – già ne ha una sulla costa orientale a Gibuti – rafforza anche la sua presenza militare nel continente. E questo dimostra come l’Africa sia ancora terreno di scontro tra potenze e i cambi di paradigma, per ora, rimangono solo sulla carta. Non solo.

I leader africani ne sono consapevoli e, spesso, non si fanno più incantare. Per ora il loro sguardo è rivolto a Est.

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Una moneta unica per l’Africa… naturalmente parla cinese https://ogzero.org/una-moneta-unica-per-lafrica-naturalmente-parla-cinese/ Thu, 23 Mar 2023 00:55:28 +0000 https://ogzero.org/?p=10557 Proponiamo una Analisi dell’agenzia Agi, un po’ perché il chiacchiericcio sull’incontro di Xi a Mosca con Putin si è fermato alla scenografia che serviva ad amplificare il messaggio senza cogliere i dettagli – e la sostanza si trova nei particolari – e quelli meno evidenti ma più esibiti, come la lettera rubata di Poe, si […]

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Proponiamo una Analisi dell’agenzia Agi, un po’ perché il chiacchiericcio sull’incontro di Xi a Mosca con Putin si è fermato alla scenografia che serviva ad amplificare il messaggio senza cogliere i dettagli – e la sostanza si trova nei particolari – e quelli meno evidenti ma più esibiti, come la lettera rubata di Poe, si racchiudevano nell’intenzione di adottare lo yuan come moneta corrente per i paesi più contesi tra i contendenti. Un po’ perché quell’area dello scacchiere mondiale dopo questo vertice tra le due potenze che rivendicano il riconoscimento del multilateralismo diventa il fulcro dello scontro e ogni centimetro o infrastruttura africani, ciascun scambio commerciale difeso da un apparato militare, qualunque sistema economico diventa tassello strategico della competizione globale.
Il territorio in cui una scelta di questo tipo può spostare gli equilibri precari tra i sistemi politico-economici è l’Africa. Lo ha compreso persino “MilanoFinanza”, potente testata che si è appropriata del pezzo proposto da Agi, imponendo la “riproduzione riservata” e attribuendo a Marcello Bussi l’intuizione scritta invece da Angelo Ferrari, che ha ricondotto la proposta dell’incontro moscovita a conseguenza dei molti episodi che negli ultimi anni si sono riproposti di sostituire lo status quo attraverso il grimaldello monetarista per legare stati e territori a nuove valute; situazioni già da Ferrari analizzate in molti suoi scritti.


Lo yuan va a sud dopo gli accordi al Cremlino

Cina e Russia si accordano per un partenariato fino al 2030 che ha l’obiettivo di ridisegnare l’ordine mondiale. Tra i piani della Russia c’è, anche, quello di «utilizzare lo yuan cinese nei pagamenti con paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina».

Il presidente russo, Vladimir Putin, si dice sicuro che queste «forme di pagamento saranno sviluppate tra la Russia e i partner e colleghi di paesi terzi».

Tutto ciò fa tornare alla memoria un progetto, sponsorizzato dal Ghana, paese anglofono dell’Africa occidentale, per arrivare alla creazione di una moneta unica, chiamata eco, con lo scopo di superare la moneta cosiddetta coloniale, il franco Cfa, adottata da molte ex colonie francesi, e allargarla ad altri, come appunto il Ghana e Nigeria, e legare la sua stabilità proprio allo yuan cinese. Un progetto ambizioso.
A oggi il franco Cfa è legato all’euro. Dunque una partita che potrebbe riaprirsi.

Un bacino enorme da cui l’Occidente è vieppiù estromesso

La nuova moneta dovrebbe essere adottata da 15 paesi e da circa 350 milioni di persone e nelle intenzioni della Cina dovrebbe decretare la fine del predominio francese in quell’area. Non è chiaro se la Nigeria, prima economia del continente, aderirà al progetto. Di certo il cambio della moneta è stato voluto – in maniera insistente – dal Ghana, paese anglofono che ha una sua moneta (il cedi ghanese) e da alcuni stati che gradualmente stanno cercando di affrancarsi da Parigi o che sono, anche se non in maniera dichiarata, “ostili” alla Francia. Ma ciò che colpisce di più – ogni paese e ogni comunità economica ha il pieno diritto di decidere le proprie politiche monetarie – è che la nuova moneta, l’eco, potrebbe essere ancorato allo yuan cinese, per evitare oscillazioni pericolose per i mercati. Ciò che accade ancora oggi con il franco Cfa ancorato all’euro. Il progetto di moneta unica della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Cedeao) è fortemente voluto dal Ghana, paese con una moneta instabile. Se si guarda ai dati sull’inflazione e si paragonano economie simili dell’area, cioè Costa d’Avorio e Ghana, quest’ultimo paese ha visto l’inflazione raggiungere livelli insostenibili, mentre in Costa d’Avorio, che adotta il franco Cfa, è rimasta abbastanza stabile, pur in una fase di congiuntura negativa.

«Se per la sicurezza e le armi il riferimento preferito sono gli Usa, l’economia e lo scambio sono ancora privilegi della Francia, che tenta di mantenere almeno nel Golfo gli scampoli di un colonialismo in rovina nel resto della Françafrique; lo fa mantenendo in piedi le strutture ormai minate come il Franc Cfa, pur promettendo di agevolare il passaggio all’Eco, un progetto perseguito da Ouattara, che doveva vedere la luce nel giugno 2020; il leader ivoriano aveva individuato alcuni criteri base perché i paesi africani potessero aderirvi (bassa inflazione e rapporto deficit/pil sotto al 70% – metà di quello italiano) e Macron aveva appoggiato l’iniziativa per sfilarla ai cinesi, che si erano dichiarati disponibili a sostenerla, ma l’Eliseo aveva il preciso intento di procrastinarne il varo. Infatti il 2020 è passato e l’Eco non c’è. Troppe le incognite, tanto che il lancio della nuova moneta è slittato ulteriormente ma, questa volta, a data da destinarsi, in un futuro non ben precisato. La ragione: non sono pronti gli aspetti tecnici necessari al lancio della nuova moneta, dalla fabbricazione delle banconote, agli aggiornamenti informatici e amministrativi, alla banca federale regionale. Ma la questione è più complicata di quel che vogliono far credere. Prosegue, infatti, il braccio di ferro tra paesi francofoni e anglofoni. Questi ultimi vorrebbero una moneta ancorata a quella cinese. Dall’altra parte non ci stanno ma, soprattutto, non ci sentono. Un dialogo tra sordi. In ogni caso, il cambio della moneta – se mai avverrà – sarà accompagnato da due importanti riforme tecniche: l’estinzione del conto operativo (il 50% delle riserve in valuta estera) depositato presso la Banca di Francia e il ritiro dei rappresentanti francesi presenti negli organi della Banca centrale degli stati dell’Africa occidentale»
(Angelo Ferrari, Raffaele Masto, Africa Bazaar, Rosenberg & Sellier, maggio 2022, p 164).

Da Parigi a Pechino

Se tutto ciò dovesse avvenire, l’Africa occidentale potrebbe passare dalla tutela francese a quella cinese. Ciò dimostra, inoltre, che per questi paesi non è pensabile garantire la stabilità monetaria senza un ancoraggio a una moneta forte. Il franco Cfa, negli anni, ha garantito proprio questo: stabilità e bassa inflazione. Ma c’è stato un però che ha interrotto il processo.

Per scongiurare questo progetto è intervenuto, a sorpresa, il presidente francese Emmanuel Macron, durante una visita in Costa d’Avorio a fine 2019, durante la quale è stata annunciata la fine del dominio del franco Cfa, aprendo la strada alla nuova moneta, ma ancora collegata all’euro.

Questa ipotesi è stata abbracciata dalla Costa d’Avorio e la nuova moneta, nelle intenzioni di Abidjan, verrebbe adottata da Benin, Burkina Faso, Mali, Guinea-Bissau, Niger, Senegal, Togo e Costa d’Avorio. Moneta, tuttavia, che non verrebbe adottata dai paesi dell’Africa centrale legati al franco Cfa, cioè: Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana e Repubblica del Congo.

Un annuncio, come era prevedibile, che ha gettato lo scompiglio tra i paesi anglofoni dell’Africa occidentale: Nigeria, Sierra Leone, Ghana, Liberia e Gambia oltre che la Guinea (paese francofono ma fuori dal circuito del franco Cfa). Una mossa, quella di Macron, che letta alla luce della mossa moscovita, aveva più il sapore di interrompere il progetto del Ghana e quindi della Cina. Come era prevedibile l’ipotesi della moneta unica è naufragato nelle acque del Golfo di Guinea.

Presenza militare russa in moneta cinese: il cerchio si stringe

Ecco allora, che il progetto e l’intesa tra Russia – che ha acquisito nuovi partner scelti tra i vecchi alleati della Francia proprio in Africa occidentale – e la Cina che ha una presenza commerciale consolidata in Africa e che non teme rivali, potrebbe riportare in auge il progetto della moneta unica, tuttavia legata allo yuan. Così sarebbe più “facile”, almeno nelle intenzioni di Pechino e Mosca, per questa regione dell’Africa, utilizzare la moneta cinese nei pagamenti. Ma ciò avrebbe un altissimo impatto sull’intero continente: la Cina, così, potrebbe consolidare la sua influenza e aggiungerebbe un pilastro fondamentale nella sua politica espansionistica nel continente.

Ma rimane un però: i paesi africani saranno così convinti di mettersi totalmente nelle braccia di Pechino? La risposta non può che venire da Stati uniti e Unione europea.


Da ascoltare anche la puntata di radio3mondo del 22 marzo 2023 condotta da Luigi Spinola con l’intervento di Alessandra Colarizi, autrice di “Africa rossa. Il modello cinese e il continente del futuro”, e Alberto Zanconato: dalla mediazione di Xi nella guerra ucraina alle sanzioni condivise si finisce comunque a sottolineare la centralità del continente africano, dove la competizione corrisponde agli interessi di tutti contro tutti, sotto forme diverse, come ben descritto dalla caporedatrice di “China Files”.

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Fondato disincanto e probabile implosione nigeriana https://ogzero.org/fondato-disincanto-e-probabile-implosione-nigeriana/ Tue, 14 Mar 2023 00:25:11 +0000 https://ogzero.org/?p=10480 Il precedente articolo dedicato alla Nigeria riguardava ancora le elezioni, le stesse. Non c’era tanto entusiasmo, ma comunque qualche speranza per u minimo cambiamento, in primis lo scardinamento dell’alternanza Sud/Nord, cattolici/musulmani; Obi era il laico “giovane” – o comunque quello meno inviso ai giovani – ma forse i nigeriani erano già consapevoli di come funziona […]

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Il precedente articolo dedicato alla Nigeria riguardava ancora le elezioni, le stesse. Non c’era tanto entusiasmo, ma comunque qualche speranza per u minimo cambiamento, in primis lo scardinamento dell’alternanza Sud/Nord, cattolici/musulmani; Obi era il laico “giovane” – o comunque quello meno inviso ai giovani – ma forse i nigeriani erano già consapevoli di come funziona il loro paese: infatti la maggioranza dei potenziali influencer si guardava bene dal prendere posizione… come il 73% dei potenziali votanti, che non sono andati alle urne, probabilmente consapevoli che il presidente era già decretato. I brogli sono tanti e la divisione di un paese in crisi non consente di indovinare a cosa andrà incontro la nuova presidenza dell’ultrasettantenne Tinubu, a capo di una nazione giovane che in genere ha un terzo dei suoi anni, lasciatagli in eredità da Buhari con una povertà sempre più estesa, come la violenza, scorciatoia in risposta dell’indifferenza del potere.


Inutile votare, ma anche soltanto sperare

Mai nella storia democratica della Nigeria un presidente è stato eletto con una percentuale così bassa di voti. Nonostante ciò, Bola Ahmed Tinubu, nuovo capo di Stato – elezione contestata dall’opposizione – dovrà affrontare sfide senza precedenti e risolvere problemi immensi. Noti per la loro resilienza, i 216 milioni di abitanti del paese più popoloso dell’Africa vivono nella morsa di una diffusa insicurezza e di una grave crisi economica, e tutti gli indicatori sono allarmanti. Sullo sfondo di una gigantesca penuria di banconote e benzina, Bola Tinubu ha vinto le elezioni presidenziali di fine febbraio dopo una tornata elettorale segnata da numerosi guasti tecnici e da accuse di “massicce frodi”. Dopo la vittoria, Tinubu ha invitato l’opposizione a “lavorare insieme” per “raccogliere i pezzi” della Nigeria. Ma i suoi due principali oppositori, candidati alla presidenza senza successo, hanno contestato i risultati e sono in corso procedimenti legali.

«Tinubu dovrà prima lavorare sodo per costruire la sua legittimità, visto come le elezioni si sono svolte con una Commissione elettorale (Inec) incompetente o complice», ha affermato Nnamdi Obasi, esperto dell’International Crisis Group (Icg).

Un quadriennio ibernato dal letargico vecchio

A 70 anni (o più probabilmente 77), il candidato del partito al governo (Apc) ha vinto le elezioni raccogliendo solo 8,8 milioni di voti, ovvero il 36% di coloro che si sono recati alle urne, un risultato mai così basso se si conta che gli aventi diritti erano circa 87 milioni. L’astensione è stata da record, 73%, dovuta sia all’insicurezza in cui versa il paese, ma anche al disincanto della maggioranza della popolazione nei confronti della politica. Ma anche per colpa degli otto anni di potere del presidente uscente, Muhammadu Buhari. Durante i suoi due mandati, Buhari non è stato capace di arginare la povertà che, anzi, è esplosa, e la violenza, anch’essa cresciuta. Il presidente uscente non è stato in grado di mantenere le promesse e di raggiungere gli obiettivi che si era dato: riduzione della povertà e sconfitta del terrorismo di Boko Haram e dello Stato Islamico. A ciò si è aggiunta una crescente violenza dovuta al proliferare di bande armate e a lotte intercomunitarie per l’accaparramento della terra.

Per legittimarsi, Tinubu – considerato uno degli uomini più ricchi e influenti del paese e accusato di corruzione senza mai essere stato condannato – dovrà mandare “segnali forti e molto velocemente” e soprattutto non seguire l’esempio del suo predecessore che aveva aspettato sei mesi per formare un governo, sostiene Obasi dell’International Crisis Group. A ciò si aggiunge, a complicare ulteriormente la situazione, la sua età e problemi di salute che non è riuscito a nascondere durante la campagna elettorale. Fattore che aggrava “il suo problema di legittimità”, spiega Tunde Ajileye, esperto della società di consulenza nigeriana SBM Intelligenze. Tinubu, inoltre, dovrà cercare di fare presa sui giovani, in Nigeria il 60% della popolazione ha meno di 25 anni. Il nuovo presidente, secondo molti analisti sul campo, dovrà “molto probabilmente” affrontare la rabbia popolare, lui che ha annunciato una serie di decisioni “necessarie” ma con “conseguenze economiche molto negative nel breve termine”. Con la presidenza Buhari, l’economia è solo peggiorata, soprattutto dopo la pandemia e in conseguenza della guerra in Ucraina.

La disoccupazione supera il 33%, l’inflazione sfiora il 22%, il debito pubblico cresce e la povertà è colossale, con 133 milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà, cioè il 63% circa della popolazione. D’accordo con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, Tinubu, per esempio, ha assicurato che avrebbe abolito immediatamente i sussidi per il carburante. Ma sarebbe alienare un popolo già in ginocchio, lui che già non gode di grande popolarità.

Perché una tale decisione «raddoppierebbe il prezzo di un litro di benzina e provocherebbe un’inflazione su larga scala», avverte Obasi, «la gente sarà davvero arrabbiata».

Ma la rimozione dei sussidi consentirà alla Nigeria grande produttore di petrolio, di «gestire la crisi di bilancio e investire in programmi di istruzione, infrastrutture e protezione sociale», sottolinea Mucahid Durmaz, analista di Verisk Maplecroft.

Urne vuote in Nigeria

L’economia bruciata nel petrolio e negli abusi di polizia

Anche porre fine al furto di petrolio su larga scala che costa alla Nigeria 2 miliardi di dollari all’anno è una priorità, sostengono gli esperti. Occorre, tuttavia, ricordare che la Nigeria è il più grande produttore di petrolio dell’Africa Subsahariana, con circa 2 milioni di barili giorno, ma è anche il paese che importa l’80% del suo fabbisogno di carburante.

L’economia in crisi e sotto costante stress ha prodotto una maggiore insicurezza. La violenza rimane diffusa, tra gruppi jihadisti, separatisti e criminali. Da parte loro, le forze armate e la polizia sono a corto di personale, sono mal equipaggiate e regolarmente accusate di gravi violazioni dei diritti umani. Anche questo settore ha bisogno di «riforme strutturali di vasta portata e programmi di formazione completi», insiste Durmaz. Pure questa dovrà essere una priorità, anche perché nel Nordest, roccaforte dei gruppi jihadisti, l’esercito non riesce a porre fine a 13 anni di conflitto che ha provocato 40.000 morti e 2 milioni di sfollati.

«Non vi è alcuna indicazione che la strategia cambierà con l’arrivo di un nuovo presidente», ha affermato Jacob Zenn, ricercatore presso la Jamestown Foundation. «Questo stallo può semplicemente continuare».

Ma Tinubu dovrà anche scongiurare la “profezia” del premio Nobel per la letteratura Wole Soyinka che, solo due anni fa, sosteneva che la Nigeria sembra proprio essere un paese a rischio implosione.

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Come uscire dalla Françafrique e rimanere buoni amici, però? https://ogzero.org/come-uscire-dalla-francafrique-e-rimanere-buoni-amici-pero/ Fri, 03 Mar 2023 13:57:56 +0000 https://ogzero.org/?p=10429 Una scommessa impossibile, dopo l’arroganza plurisecolare della potenza coloniale francese. Macron, presidente dimezzato in patria, si sottrae all’ira sulla riforma delle pensioni proseguendo il tentativo di recuperare un rapporto postcoloniale con il continente africano. Dall’inizio del suo primo mandato – va riconosciuto – ha tentato di mutare l’atteggiamento gaullista, ma non ha un paradigma scevro […]

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Una scommessa impossibile, dopo l’arroganza plurisecolare della potenza coloniale francese. Macron, presidente dimezzato in patria, si sottrae all’ira sulla riforma delle pensioni proseguendo il tentativo di recuperare un rapporto postcoloniale con il continente africano. Dall’inizio del suo primo mandato – va riconosciuto – ha tentato di mutare l’atteggiamento gaullista, ma non ha un paradigma scevro da ogni possibile idea coloniale: non è nei cromosomi francesi, tanto che non sono riusciti a cogliere il momento giusto per tagliare i cordoni con le colonie, riuscendo a renderle autonome e un embrione di politica macroniana per il continente vede gli africani francesi fare da ponte. Il presidente francese ha dovuto registrare la sostituzione da parte dei russi sul piano militare (rimangono truppe francesi in Gabon, Niger, Senegal, Ciad… ma è proprio la loro figura a restituire quel feedback che procura un rigurgito antifrancese) e dei cinesi in economia, che hanno acquisito larghe fette del mercato della Françafrique (ma il ritorno per l’economia francese è ormai ridotto all’osso), prima di avventurarsi nel viaggio tra le foreste gabonesi, i Congo e l’Angola.

Un passato che sembra non passare mai. Infatti il tour di Macron comincia dal vicino Gabon della dinastia Bongo (emblematico del sistema “francese” di rapportarsi all’Africa attraverso famiglie fedeli che gestiscono il paese con corruzione e centri di potere), e poi si concentrerà su quelli più a rischio di sfuggire al controllo (Congo Kinshasa – dove sventola già la bandiera russa come “bienvenue” e l’ex luso-cinese Angola). Angelo Ferrari si lascia ispirare dal viaggio disperato dell’inquilino dell’Eliseo, cacciato dal Sahel occidentale e contestato per la mancata difesa del Congo dall’aggressione ruandese, per augurarsi che gli africani trovino la forza di liberarsi dei coloni di qualsiasi colore (ma con scarse speranze che cambi qualcosa); Macron si trova vituperato in patria dai nostalgici della grandeur d’outre-mer e destinato a risultare il presidente che “perderà” il controllo delle colonie, forse proprio in virtù dell’approccio iniziale di riconoscimento della brutalità dell’occupazione coloniale; ed è svillaneggiato in Françafrique, dove prova il grimaldello spuntato dell’approccio green per organizzare il tour elettorale a sostegno di regimi autocratici… e degli interessi petroliferi di Total (il green-paradox).


Macron l’Africano… ingombrante

Proteste a Kinshasa

La missione africana del presidente francese Emmanuel Macron non è iniziata nel migliore dei modi. Mentre il suo aereo arrivava in Gabon, prima tappa della sua visita in Africa, nella capitale della Repubblica democratica del Congo, Kinshasa – ultima fermata del suo viaggio – decine di giovani congolesi manifestavano contro di lui davanti all’Ambasciata di Francia. Brandendo bandiere russe, questi giovani lo accusavano di sostenere il Ruanda a spese del loro paese. “Macron assassino, Putin in soccorso”, questi gli slogan scanditi in piazza e su alcuni cartelli e striscioni si leggevano accuse ancore peggiori: “Macron padrino della balcanizzazione della Rdc”, “I congolesi dicono no alla politica della Francia” o anche “Macron indesiderabile in Rdc”. La Repubblica Democratica del Congo (Rdc), dove nel fine settimana è atteso il presidente francese, accusa il vicino Ruanda di sostenere una ribellione attiva nell’est – confermata dagli esperti Onu nonostante le smentite di Kigali – e si aspetta una chiara condanna di questa “aggressione” da parte della comunità internazionale.

«Siamo qui per dire no all’arrivo di Emmanuel Macron perché la Francia è complice della nostra disgrazia», ha dichiarato davanti ai giornalisti Josue Bung, del movimento cittadino Sang-Lumumba, sfoggiando la tipica acconciatura dell’eroe dell’indipendenza congolese Patrice Lumumba (1925-1961).

Lunedì scorso Emmanuel Macron ha presentato a Parigi la sua strategia africana per i prossimi anni e, rispondendo a una domanda sulla Rdc, ha sostenuto che la sovranità e l’integrità territoriale del paese «non possono essere discusse». Ma “non ha menzionato il Ruanda, che è il nostro aggressore”, gli hanno rimproverato i manifestanti.

Le bandiere russe significano «che non abbiamo più bisogno della Francia, vogliamo collaborare con partner affidabili, come la Russia o la Cina», ha sostenuto Bruno Mimbenga, altro organizzatore delle proteste davanti all’ambasciata francese, in un momento in cui la Russia è sempre più in competizione con la Francia nella sua storica sfera di influenza in Africa.

I giovani congolesi hanno ribadito quello che è un sentimento diffuso sia in Africa centrale sia nel Sahel e cioè che “la comunità internazionale non ci serve”. La Rdc sarà questa settimana l’ultima tappa di un viaggio di Emmanuel Macron in Centrafrica, che lo porterà anche in Gabon per un vertice sulle foreste, in Angola e in Congo-Brazzaville.

La dinastia Bongo e la foglia di fico delle foreste

Il diciottesimo viaggio nel continente è iniziato, quindi, a Libreville, dove Emmanuel Macron vuole dare nuovo impulso al rapporto tra i due paesi. Sono passati 13 anni da quando un presidente francese ha fatto un viaggio in Gabon. L’ultimo è stato Nicolas Sarkozy, nel febbraio 2010. Nel frattempo, la contestata rielezione del presidente Ali Bongo e la crisi elettorale del 2016 sono passate attraverso aspre tensioni tra i due paesi. Poi c’è stata la crisi sanitaria, e la lite è continuata fino a un inizio di riavvicinamento dal 2021. Questo viaggio per Macron era, secondo una fonte vicina all’Eliseo, diventato essenziale. Era già in lavorazione da diversi mesi, ed è stato nell’estate del 2022 che è stata presa in considerazione l’idea di usare il One Forest Summit e di focalizzare il viaggio sulla protezione delle foreste, per fugare ogni dubbio sulla natura della visita che arriva nell’anno elettorale del Gabon, con le elezioni presidenziali previste per la prossima estate. Una tempistica che ha fato sobbalzare la società civile e l’opposizione gabonese:

«È venuto per lanciare la campagna elettorale del suo amico», ha detto l’ambientalista Marc Ona.

Perplessità espresse anche dall’opposizione a Macron a Parigi. Un gruppo di parlamentari del gruppo Lfi-Nupes della Commissione Affari Esteri ha infatti scritto alla ministra degli Esteri, Catherine Colonna, facendo notare che due dei paesi visitati terranno fra pochi mesi le elezioni presidenziali, il Gabon e la Repubblica democratica del Congo. «In un tale contesto, questa visita potrebbe essere interpretata come un sostegno politico da parte dell’esecutivo francese a governi o regimi le cui derive autoritarie, persino autocratiche» sono evidenti, si legge nella nota.

La lettera ricorda che in Gabon, dove nessun presidente francese si recava da 13 anni, le elezioni si terranno fra cinque mesi. La visita, secondo i deputati d’opposizione, “offre una legittimità internazionale” a un regime, quello della famiglia Bongo, al potere dal 1967. Sottolinea inoltre che è stato negato un visto a una giornalista di “Liberation” per seguire il One Forest Summit – co-organizzato dalla Francia – lasciando intendere che si vuole coprire l’evento in un’ottica solo positiva per il regime, mentre molti osservatori temono che si tratterà di un’operazione di greenwashing.

I deputati di La France insoumise et Nouvelle union populaire écologique et sociale evidenziano anche dubbi sulla sincerità che circonda le prossime elezioni in Congo-Kinshasa, nonché la repressione di manifestazioni dell’opposizione in Angola nei mesi scorsi.

«Il carattere a volte selettivo e contraddittorio delle posizioni del governo francese sulla natura e le pratiche dei regimi e dei governi, in particolare in Africa, lascia spazio alle critiche, sincere o pilotate da altre potenze, che indeboliscono le nostre relazioni strategiche con i paesi del continente» africano, stigmatizzano gli autori della lettera.

Arginare il legittimo sentimento antifrancese: safari impossibile

Un viaggio, inoltre, che arriva a pochi giorni da una lunghissima conferenza stampa nella quale Macron ha voluto ridisegnare la politica francese nei confronti del continente africano. Un tentativo legittimo, visto il dilagare del sentimento antifrancese in buona parte dell’Africa centrale e del Sahel. Per Macron è necessario un nuovo rapporto “equilibrato, reciproco e responsabile”. Questo il mantra presidenziale. Ma ancora:

«L’Africa non è terra di competizione», ha detto Macron durante la conferenza stampa all’Eliseo, invitando a «passare da una logica degli aiuti a quella degli investimenti».

Ha, inoltre, affermato di aver mostrato «profonda umiltà di fronte a quanto si sta svolgendo nel continente africano, una situazione senza precedenti nella storia», con «una somma di sfide vertiginose. Dalla sfida della sicurezza climatica alla sfida demografica con i giovani ai quali dobbiamo offrire un futuro in ognuno degli stati africani», invitando a «consolidare stati e amministrazioni, investendo in modo massiccio in istruzione, salute, lavoro, formazione, transizione energetica».

L’inquilino dell’Eliseo ha voluto anche sottolineare che la Francia «sta chiudendo un ciclo segnato dalla centralità della questione militare e della sicurezza», annunciando una “riduzione visibile” del personale militare francese in Africa e un “nuovo modello di partenariato” che prevede un “aumento del potere degli africani”. Tutto ciò segna un cambio di paradigma nella politica dell’Eliseo? Per ora sono solo parole a cui devono seguire dei fatti concreti, anche perché la riduzione del personale militare più che una scelta è stata una via obbligata visto il ritiro dal Mali, dal Burkina Faso e dalla Repubblica Centrafricana, tre roccaforti dell’influenza parigina in Africa. Paesi che, dopo la “cacciata” dei francesi si sono affidati in maniera decisa proprio alla Russia, dimostrando che l’Africa è, ancora, una terra dove la competizione tra potenze internazionali è viva più che mai, a differenza di ciò che sostiene Macron e lui stesso ne è complice.

Da ultimo occorre ricordare che nei paesi visitati dal presidente francese – Gabon, Angola, Repubblica del Congo e Repubblica democratica del Congo – la Francia ha enormi interessi economici soprattutto nel settore petrolifero.

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La “Grande sostituzione” si estende al Maghreb https://ogzero.org/saied-la-grande-sostituzione-si-estende-al-maghreb/ Mon, 27 Feb 2023 11:43:33 +0000 https://ogzero.org/?p=10397 Il contagio del razzismo a supporto della governance di despoti e democrature è l’unico pensiero che può attraversare frontiere. L’Unione africana, dopo la conferma delle sanzioni ai danni del Mali, Burkina e Guinea equatoriale per i golpe filorussi, si è trovata a dover difendere le genti provenienti proprio dal Sahel e dal resto del continente […]

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Il contagio del razzismo a supporto della governance di despoti e democrature è l’unico pensiero che può attraversare frontiere. L’Unione africana, dopo la conferma delle sanzioni ai danni del Mali, Burkina e Guinea equatoriale per i golpe filorussi, si è trovata a dover difendere le genti provenienti proprio dal Sahel e dal resto del continente subsahariano da attacchi che provengono dall’interno dello stesso continente ai massimi livelli delle istituzioni di un paese africano. Lo ha fatto condannando le parole “scioccanti” del “pallido” presidente della Tunisia sui migranti più “scuri” provenienti dall’Africa subsahariana e ha richiamato i suoi stati membri ad «astenersi da qualsiasi discorso di odio e di natura razzista, che danneggiano le persone». In trasparenza si possono riconoscere i contorni delle richieste italiane, sicuramente avanzate – perseguendo l’intento di esternalizzare le frontiere – proprio con gli stessi argomenti razzisti, che facilmente non si sbaglia ad attribuire al viaggio di Meloni in Maghreb, andata a procurarsi gas e soprattutto a perorare il blocco della rotta dei migranti; peraltro un perfetto argomento – in tutto uguale al disgustoso tentativo di Erdogan di scaricare sui migranti la colpa della corruzione del suo sistema di potere in buona parte responsabile del disastro del terremoto per le sue dimensioni – che offre il destro a Saïed per trovare un capro espiatorio su cui far convergere l’odio per il disastro economico e sociale tunisino.

Una grande manifestazione contro il razzismo e la xenofobia si è svolta a Tunisi il 26 febbraio 2023, per dire no alle parole di Saïed e per cambiare rotta al governo sul trattamento riservato ai migranti dai paesi africani subsahariani. Le organizzazioni della società civile hanno assunto una posizione di principio netta e determinata contro l’idea nazista del complotto per la sostituzione etnica mediata dal presidente autocrate prendendo a prestito gli slogan delle destre europee. Il corteo è partito dalla sede del sindacato dei giornalisti, uno dei promotori, per raggiungere il centro città coinvolgendo nel percorso l’aggregazione di migliaia di altri cittadini. Il portavoce del “Forum per i Diritti Sociali ed Economici” ha affermato che il discorso dell’odio non sarà mai accettato in una società come quella tunisina, perché è contro natura: «Quando quel discorso proviene dal capo dello Stato, rischia di sdoganare atti violenti contro i nostri fratelli migranti, che vivono condizioni di emarginazione economica tra di noi». Angelo Ferrari aveva già rilevato l’enormità di un leader africano che esplicitamente prende a prestito il razzismo europeo, adattando “Le Grand Remplacement” di Renaud Camus alle fobie arabe verso le culture subsahariane, in un intervento che proponiamo qui.


Saïed sdogana il razzismo serpeggiante concordato con Roma

Montano le polemiche in Tunisia dopo le parole del presidente Kaïs Saïed che ha invocato “misure urgenti” contro l’immigrazione clandestina di africani subsahariani nel suo paese, sostenendo che la loro presenza è fonte di «violenze, crimini e atti inaccettabili». Ma Saïed si è spinto anche oltre, sostenendo che l’immigrazione dall’Africa subsahariana fa parte di una «impresa criminale ordita all’alba di questo secolo per modificare la composizione demografica della Tunisia», in modo che potesse essere considerata un paese “solo africano” e offuscarne il suo carattere “arabo-musulmano”. Date queste premesse, per Saïed è necessario «porre fine in fretta» a questa immigrazione invocando misure urgenti.

Reazioni dell’Unione africana

Con una nota, il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki Mahamat, ha condannato «fermamente le dichiarazioni scioccanti fatte dalle autorità tunisine contro i connazionali africani, che vanno contro la lettera e lo spirito della nostra organizzazione e i nostri principi fondatori». Faki Mahamat ha ricordato a «tutti i paesi, in particolare agli stati membri dell’Unione Africana, che devono onorare gli obblighi ai sensi del diritto internazionale, vale a dire trattare tutti i migranti con dignità, da qualsiasi parte provengano, astenersi da qualsiasi discorso di odio con natura razzista, che probabilmente danneggerà le persone e dà la priorità alla loro sicurezza e ai loro diritti fondamentali».

Moussa Faki Mahamat ribadisce «l’impegno del comitato a sostenere le autorità tunisine al fine di risolvere i problemi di migrazione e rendere la migrazione sicura, degna e regolare».

Proprio il Mali – paese che al suo interno vive da anni profondi travagli sfociati nell’apertura ai “servizi” dei contractors della Wagner – in una nota dell’ambasciata tunisina ha dichiarato di aver seguito «con la massima preoccupazione la situazione dei maliani» nel paese. Riferendosi a “momenti molto inquietanti”, e ha invitato i suoi cittadini “a essere vigili” e ha chiesto a «coloro che desiderano di registrarsi per un ritorno volontario».

La crisi tunisina e il facile capro espiatorio “nero”

Il discorso di Saïed, che ha concentrato su di sé tutti i poteri dopo aver sospeso nel luglio 2021 il parlamento e licenziato il governo, si è verificato mentre il paese sta attraversando una grave crisi economica contrassegnata da carenze ricorrenti di prodotti di base, in un contesto di forti tensioni politiche.
Secondo i dati ufficiali citati dal Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes) la Tunisia, un paese di circa 12 milioni di abitanti, conta più di 21.000 africani subsahariani, la maggior parte dei quali è irregolarmente nel paese. Molti di loro, la maggioranza, arriva in Tunisia per poi tentare di immigrare illegalmente in Europa via mare. Alcuni tratti della costa tunisina sono a meno di 150 chilometri dall’isola italiana di Lampedusa. Secondo i dati ufficiali italiani, nel 2022 sono arrivati in Italia clandestinamente dalla Tunisia oltre 32.000 migranti, di cui 18.000 tunisini.
La Tunisia sta attraversando una grave crisi economica caratterizzata da ricorrenti carenze di beni di prima necessità, in un contesto di tensioni politiche, e molti analisti e attivisti ritengono che il presidente stia strumentalizzando la crisi dei migranti per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle questioni economiche e sociali “inventando un nuovo pericolo”. Altri ritengono che Saïed stia cedendo alle pressioni dell’Italia per ottenere lo stop dei flussi migratori.

Reazioni della società civile tunisina

Le sue parole dunque hanno gettato benzina sul fuoco delle incarcerazioni degli oppositori, dei giornalisti e delle proteste di piazza per il referendum andato deserto nelle urne, indignando buona parte delle organizzazioni non governative, parte della classe politica ma anche gli intellettuali. Su Twitter, hanno reagito alcuni analisti politici. Amine Snoussi (@amin_snoussi), autore di libri sulla politica tunisina e giornalista, scrive:

«Il presidente della Repubblica tunisina ha appena convalidato la tesi del grande ricambio. Abbiamo un dittatore razzista che arresta i suoi oppositori e incolpa gli immigrati subsahariani per i nostri problemi. È il peggior regime nella storia di questo paese».

Mohamed Dhia Hammam (@MedDhiaH), ricercatore in scienze politiche alla Maxwell School, definisce le parole di Saïed disgustose, e parla di una “campagna fascista contro i neri”:

«L’oltraggiosa dichiarazione della presidenza sulla riunione del Consiglio di sicurezza nazionale, durante la quale Saïed ha deciso di usare tutte le forze, compresi i militari, per prendere di mira gli immigrati neri, arriva nel bel mezzo di una odiosa campagna mediatica. La logica del complotto messa in atto dal governo fa eco alle teorie del complotto diffuse sia nei media mainstream che nei social media pro- Saïed», twitta l’analista.

«Questo discorso non ha alcuna somiglianza con la Tunisia. La posizione internazionale della Tunisia e la sua storia umanitaria sono molto più grandi di questo discorso», ha reagito su Facebook il presidente dell’Osservatorio tunisino per i diritti umani, Mostafa Abdelkebir. Anche Mnemty, associazione che si batte contro la discriminazione, ha condannato il comunicato stampa della presidenza tunisina, definendolo un «discorso di razzismo e odio e incitamento alla violenza contro i migranti subsahariani».

Le dichiarazioni di Saïed sull’esistenza di una “impresa criminale” volta a cambiare la composizione demografica della Tunisia assomigliano alla teoria del complotto della “grande sostituzione” sostenuta in Francia dal polemista di estrema destra Eric Zemmour che, infatti, reagisce immediatamente alle parole di Saïed: «Gli stessi paesi del Maghreb iniziano a lanciare l’allarme di fronte all’impennata migratoria. Qui, è la Tunisia che vuole adottare misure urgenti per proteggere la sua gente. Cosa aspettiamo a lottare contro la Grande Sostituzione?», ha commentato Zemmour su Twitter condividendo un articolo di stampa sulle osservazioni fatte da Saïed.


A completamento proponiamo questa bella discussione tra Arianna Poletti da Tunisi e Karim Metref, algerino-torinese di origine berbera, entrambi raffinati analisti della situazione e società nordafricana; troverete preoccupazioni inusitate e interpretazioni  di situazioni che danno il quadro di una trasformazione repressiva epocale:


“Tutto il Maghreb sta filando cattivo cotone”.
 

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Incertezza e violenza al centro delle elezioni presidenziali nigeriane https://ogzero.org/incertezza-e-violenza-al-centro-delle-elezioni-presidenziali-nigeriane/ Fri, 24 Feb 2023 15:06:17 +0000 https://ogzero.org/?p=10346 Una delle elezioni più combattute, dove il risultato è in forse e potrebbe anche venire meno la tradizionale alternanza tra presidenti provenienti dal Nord musulmano con quelli cristiani del Sud a causa della forte candidatura di Peter Obi, laico laburista che trova il suo consenso tra i giovani; e in Nigeria, il paese più popoloso […]

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Una delle elezioni più combattute, dove il risultato è in forse e potrebbe anche venire meno la tradizionale alternanza tra presidenti provenienti dal Nord musulmano con quelli cristiani del Sud a causa della forte candidatura di Peter Obi, laico laburista che trova il suo consenso tra i giovani; e in Nigeria, il paese più popoloso dell’Africa, il 40 per cento dei votanti ha meno di 35 anni. Obi potrebbe essere percepito come il più accreditato a raccogliere quello che rimane della protesta #EndSars contro le violenze della polizia; un movimento che si è ridimensionato, ma che potrebbe essere paradigma e focolaio di un pacifico rivolgimento del sistema. Angelo Ferrari ha scritto un articolo per inquadrare la situazione e ci ha segnalato anche un contributo comparso su “AfricaRivista” dedicato all’inaspettata “astensione” delle star dell’afrobeats, la musica onnipresente e in grado di trascinare nugoli di fan; i candidati attingono alla loro musica senza pagarne i diritti, proprio perché i cantanti hanno preferito non schierarsi, dando così un segnale di timore rispetto al mondo politico: ci si può schierare contro la potente e feroce polizia delel Sars, ma è meglio non sbilanciarsi sulle elezioni


Ballot or Bullet

Eleggere un presidente capace di arginare la violenza in Nigeria, durante un’elezione minacciata dalla stessa violenza è la difficile sfida che deve affrontare il paese più popoloso dell’Africa, che andrà alle urne il 25 febbraio per scegliere il suo prossimo capo dello stato. Non passa settimana – non passa giorno! – senza che vi siano attacchi, azioni da parte di gruppi criminali, jihadisti o separatisti che siano e che tentano di piegare e gettare nel caos il gigante dell’Africa occidentale, uno dei paesi più dinamici del continente. L’ex generale golpista Muhammadu Buhari, eletto democraticamente nel 2015 e nel 2019 per porre fine all’insicurezza, non si ripresenta alle presidenziali dopo due mandati segnati da un aumento della violenza, in particolare nella sua regione natale, il Nordovest.

«I politici ci hanno abbandonato al nostro destino», accusa Dahiru Yusuf, che vive a Birnin Gwari, un distretto dello Stato di Kaduna, dove gruppi criminali, chiamati “banditi”, stanno aumentando gli attacchi ai villaggi e praticando rapimenti di massa a scopo di riscatto. «Non sono riusciti a proteggerci dai criminali che ci terrorizzano, quindi non hanno motivo di venire a chiederci voti», lamenta Yusuf.

Nel Nord del paese la situazione è terribile: se il presidente Muhammadu Buhari e il suo esercito sono riusciti a riconquistare alcuni territori in mano ai jihadisti di Boko Haram e dello Stato islamico (Iswap), questo conflitto – dura da 13 anni e ha provocato più di 40.000 morti e 2 milioni di sfollati – è tutt’altro che finito. La situazione si è ulteriormente aggravata e negli ultimi anni si è aperto un nuovo fronte: nel Nordovest e nel Centro bande criminali, che usano ad arte un conflitto mai sopito tra pastori e contadini, operano impunemente nelle zone rurali, attaccando villaggi, ma anche cittadini che transitano sulle strade di queste regioni. Gruppi “criminali”, inoltre, pesantemente armati, hanno effettuato attacchi su larga scala contro le scuole nel 2021, sequestrando più di mille studenti. Molti dei rapiti sono stati rilasciati dietro pagamento di un riscatto – ma alcuni di loro rimangono ancora nelle mani dei criminali nelle foreste, i luoghi dove si nascondono i banditi.

La sicurezza è uno dei temi principali della campagna elettorale di queste elezioni, che si preannunciano molto serrate tra i tre candidati: Bola Tinubu del partito al governo (Apc), Atiku Abubakar del principale partito di opposizione (Pdp) e Peter Obi, l’outsider visto come il candidato dei giovani, laburista (Lp), accreditato dagli ultimi sondaggi di un 40%. I tre promettono di farla finita con la violenza e il terrorismo, lo stesso mantra del presidente uscente Buhari, obiettivo, però, che non è riuscito a raggiungere. Ma la minaccia di violenze diffuse pesa anche sullo svolgimento dello scrutinio del 25 febbraio, durante il quale sono chiamati alle urne circa 94 milioni di elettori, per eleggere il presidente, i deputati e i senatori. Gli analisti, inoltre, pongono molta attenzione sul dopo voto:

«i gruppi criminali fanno crescere il rischio di proteste postelettorali che potrebbero anche intensificarsi», secondo il think tank International Crisis Group (Icg).

Dimensioni della scheda elettorale

Alcuni seggi sono inagibili

Il presidente della Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni), Mahmood Yakubu, ha recentemente rassicurato che le elezioni si svolgeranno senza problemi. Le autorità affermano di avere in programma lo schieramento di più di 400.000 uomini delle forze di sicurezza sul territorio. Nonostante ciò, secondo il gruppo di osservazione elettorale Yiaga Africa, lo svolgimento delle urne è compromesso in sei stati e 14 distretti locali, a causa dell’insicurezza o della presenza di gruppi armati. Nel Sudest, afflitto dai disordini separatisti ereditati dalla guerra del Biafra, negli ultimi anni sono stati presi di mira più di 50 uffici delle commissioni elettorali e centinaia di agenti di polizia. Questa violenza è spesso attribuita al Movimento per l’indipendenza dei popoli indigeni del Biafra (Ipob). Ma Ipob, che chiede la rinascita di uno stato separato per l’etnia Igbo, ha più volte negato ogni responsabilità.

Da quando il paese è tornato alla democrazia nel 1999, dopo anni di dittature militari, le elezioni sono state spesso segnate da violenze politiche, scontri etnici, voti “comprati”, frodi elettorali e problemi logistici.

Incontro degli ex presidenti della Nigeria

La maggior parte degli analisti ritiene che la commissione elettorale sia meglio preparata di prima, in particolare grazie all’introduzione di software biometrici destinati a prevenire le frodi e al trasferimento elettronico dei risultati. Ma i suoi funzionari hanno avvertito che le recenti gravi carenze di carburante e banconote in tutto il paese potrebbero avere un impatto sulla logistica e sul trasporto del materiale elettorale. I nigeriani – la maggior parte dei quali vive in condizioni di povertà – a queste carenze strutturali di uno stato che non riesce a far fronte ai bisogni della popolazione, non sono indifferenti. Anzi, da due settimane sono scoppiate sporadiche rivolte in diverse città del Nord e del Sud, con manifestanti che hanno bloccato strade o attaccato banche. Molti analisti temono una deflagrazione alla vigilia delle elezioni presidenziali.

Per il think tank Icg, «le prospettive postelettorali sono ancora più fosche».

In Nigeria i risultati sono quasi sempre stati contestati, e il rischio di violenze, in questa occasione, è ancora più grande perché il paese potrebbe essere chiamato, per la prima volta nella sua storia, a un secondo turno per il ballottaggio se nessuno dei candidati dovesse essere eletto al primo turno, allungando, così, il periodo elettorale e con esso il rischio di violenze e disordini.

“Qual è l’affare migliore per gli africani?”.


Come accennato nel podcast dell’intervento di Angelo Ferrari su Radio Blackout, sono mancate nella campagna elettorale le intenzioni di voto, gli endorsement… i concerti a sostegno di un qualunque candidato da parte dei divi dell’Afrobeat, che invece si erano mobilitati nel movimento EndSars, che è sopito o rimane sotto traccia, probabilmente perché quel mondo è avulso dalle beghe politiche lontane dai problemi di lavoro, sicurezza, di interessi giovanili e di persecuzione poliziesca. Perciò riprendiamo l’articolo comparso su “Africa Rivista” a completamento delle considerazioni sull’elezione più controversa, ma anche forse considerata distante dal sentimento dei giovani elettori; magari invece scopriremo che – a prescindere dal passaggio elettorale – questa congiunzione astrale avrà permesso a chi rappresenterà la Nigeria di incarnare la trasformazione del paese in una comunità enorme affrancata dalla protezione straniera… a sessant’anni dall spinta indipendentista di liberazione dal controllo coloniale.


Nigeria: la patria dell’afrobeats va alle presidenziali senza le star della musica

La Nigeria è la patria dell’afrobeats e i suoi ritmi risuonano ovunque in Africa e ora anche in Occidente, dove i giovani ondeggiano al ritmo orecchiabile di Burna Boy, Wizkid e Tems.

 

Ma con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali nigeriane, le pop star sono “tranquille”, non “cantano”, stanno defilate, quasi a dire che è meglio non inimicarsi il potere. La nazione più popolosa dell’Africa, che il 25 febbraio eleggerà un nuovo presidente, è spesso teatro delle rappresaglie dei terroristi di Boko Haram e dei gruppi jihadisti che imperversano nel Nordest, ma la Nigeria è anche la più grande economia del continente e la culla di un genere musicale che, senza esagerare, ha incendiando il pianeta intero. Le star dell’afrobeats vincono Grammy (Burna Boy, Tems), riempiono le più grandi sale da concerto del mondo (Wizkid, Davido), fanno milioni di visualizzazioni su Tik Tok (Rema, CKay) e collaborano con celebrità nordamericane, come Chris Brown, Justin Bieber o Drake. Queste celebrità sono adorate tanto quanto l’anziana élite politica nigeriana è odiata. I politici, la cui corruzione è quasi endemica, sono visti come responsabili delle disfunzioni del paese: mancanza di scuole, elettricità, medici, adesso anche carta moneta. Per queste elezioni presidenziali, dove il 40% degli elettori registrati ha meno di 35 anni, i candidati dei due principali partiti sono espressione della vecchia guardia: Bola Tinubu, del partito al governo (Apc) ha 70 anni, e Atiku Abubakar, del principale partito di opposizione (Pdp), ne ha 76 anni.

«I cantanti hanno un potere enorme sui giovani, che i candidati non hanno», sottolinea Oris Aigbokhaevbolo, giornalista musicale. Ma «fanno di tutto per evitare ogni legame con la politica, soprattutto durante le elezioni presidenziali».

L’afrobeats nasce negli anni 2000, da una commistione, tra gli altri stili, dell’afrobeat (senza s) del leggendario Fela Kuti, musicista che ha lottato per tutta la vita contro la corruzione, e l’influenza hip-hop proveniente dagli Stati Uniti. I primi artisti producevano anche testi politici, ma quando il genere ha iniziato ad avere successo, a dare i suoi frutti anche in termine di denaro, i testi sono diventati più “fluidi”, meno impegnati. Fino a poco tempo fa le canzoni erano per lo più odi al capitalismo in versione Naija, celebravano successi, macchine di lusso e conquiste femminili, o dichiarazioni d’amore un po’ mielose. Ma uno storico movimento di protesta giovanile, scoppiato nell’ottobre 2020, ha dato una nuova dimensione al genere, come se ci fosse stato un risveglio politico.

Mentre migliaia di giovani scendevano in piazza per protestare contro la brutalità della polizia e il malgoverno, le star dell’afrobeats sono improvvisamente uscite dal loro silenzio, mostrando il loro sostegno sui social media. Burna Boy aveva acquistato giganteschi spazi pubblicitari per mostrare gli slogan di questo movimento (“EndSARS”). Davido ha guidato una protesta nella capitale Abuja, dove si è inginocchiato davanti alla polizia, e Wizkid ha arringato una folla di nigeriani della diaspora a Londra. Dopo la sanguinosa repressione del movimento, molti artisti avevano reso omaggio alle vittime, come Burna Boy con la sua canzone 20.10.2020, data in cui l’esercito ha sparato sui manifestanti a Lagos. Ma da allora il silenzio è tornato ad essere la regola.

«Non li sentiamo», aggiunge Osikhena Dirisu, direttore della radio The Beat. Né quando si tratta di sostenere le campagne di registrazione degli elettori o di sostenere un particolare candidato.

«Mi delude, ci hanno mobilitato durante EndSARS e oggi nessuno chiede ai giovani di votare o di sostenere Peter Obi, il candidato dei giovani», dice Ifiy, 30 anni, che sostiene l’outsider di queste elezioni presidenziali.

A 61 anni, questo ex governatore, sostenuto da parte dei giovani e dal movimento EndSARS, si è affermato come uno sfidante credibile contro Tinubu e Atiku. Ma a parte P-Square, gli autori gemelli di successi del 2020 come Alingo, le superstar che mostrano il loro sostegno a Obi sono rari, secondo Dirisu. Le celebrità investono poco in politica, «perché in Nigeria è meglio non essere nemici del potere».

Al contrario, i politici hanno bisogno dell’afrobeats: una campagna elettorale senza musica è semplicemente inimmaginabile.

Così, nelle adunate elettorali, gli altoparlanti rimbombano dei successi del momento, il più delle volte usati senza pagare alcun diritto. I cori orecchiabili possono scaldare i militanti di questo o quel partito o le folle di poveri pagati per riempire gli stadi prima dell’arrivo dei candidati. La musica permette anche di umanizzare, persino ringiovanire, i candidati, come Tinubu che ha fatto scalpore durante la sua campagna elettorale abbozzando passi di danza del successo Buga di Kizz Daniel.


Infine, artisti sconosciuti a livello internazionale e che faticano a monetizzare la propria musica vengono spesso pagati dai partiti per cantare durante questi incontri, come Portable per il partito al governo o Timi Dakolo per l’opposizione. Cantanti, tuttavia, criticati sui social media, ma i due artisti si giustificano sostenendo che il denaro non ha alcun odore, insomma si vendono al miglior offerente.

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Freetown https://ogzero.org/studium/freetown/ Thu, 20 Oct 2022 14:44:32 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=9174 L'articolo Freetown proviene da OGzero.

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Freetown

È una bella mattina di novembre e il sole sembra accarezzare le foglie degli alberi che ricoprono la cima del monte Aureol, una delle alture che domina la penisola su cui sorge Freetown. Da qui si ha una vista quasi complessiva della città. Al centro alti palazzi e affollatissime strade strette intorno a un enorme albero che dicono sia lì da sempre, più a ovest spiagge dorate baciate dal sole e colline punteggiate di villette, hotel e ambasciate. Dalla parte opposta, a est, alle spalle del porto si dipana un interminabile susseguirsi di fabbriche e sobborghi popolari che si estende per chilometri, fra meccanici a cielo aperto, mobili e suppellettili esposti lungo le strade e grigie case di cemento perennemente in costruzione.
Ma nel caos di Freetown anche i concetti classici di centro e periferia sembrano vacillare: il mare da un lato e le montagne dall’altro riducono al minimo gli spazi liberi ed è così che a poche decine di metri dal palazzo presidenziale si accumulano baracche brulicanti di vita e i vetri del grattacielo della banca centrale si sovrappongono allo sfondo di una discarica avvolta dai fumi.
Tutto si stratifica e tutto si mischia in questa città complessa e dal nome meraviglioso e ingombrante. La terra della libertà: può esistere luogo più dolce? Forse no, ma quanto è rimasto oggi di quel sogno di libertà? Di quelle speranze? Quanto è stato spazzato via dal correre della storia, dalle tragedie che con cinica puntualità colpiscono questa gente, dalla necessità quotidiana di arrangiarsi, far giornata, sopravvivere?

Troppe domande a cui cercare risposte.

È ora di tuffarsi fra queste strade prima che il sole si faccia troppo caldo e l’aria diventi densa di umidità da sembrare quasi solida, troppo pesante per fluire nei polmoni…

Questo è l’incipit del volume dedicato alla capitale della Sierra Leone, scritto da Federico Monica e uscito il 1° dicembre in versione cartacea e epub.


Freetown map general



Federico Monica, architetto e dottore di ricerca in pianificazione urbana si occupa da oltre dieci anni di analisi della città e degli insediamenti informali in Africa subsahariana. È consulente per ong e organismi Internazionali sui temi legati allo sviluppo urbano e alla pianificazione partecipata, è responsabile di Placemarks-Africa e dello studio Taxibrousse, specializzato in progetti architettonici, infrastrutturali e ambientali per la Cooperazione Internazionale. Ha realizzato progetti e ricerche in 15 paesi del continente africano, è autore di numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative sui temi della città e delle trasformazioni territoriali in Africa subsahariana.



La sezione della serie di città dedicata all’Africa è frutto della cura di un attento africanista, Angelo Ferrari, che ha selezionato autori e aree urbane sulla base di motivazioni che rendono le scelte emblematiche di processi economici, sociali e geopolitici in corso nel continente e che trasformano gli aspetti e la forma di essere comunità urbana attraversata da tutti gli aspetti che rappresentano la storia dell’Africa.

Il libro è finalmente uscito! Ordinabile in tutte le librerie e disponibile online, il terzo volume della collana “Le città visibili” e l’oggetto di questa bella intervista di Marco Trovato a Federico Monica.


In agosto ci sono stati scontri a Freetown e in tutta la Sierra Leone per le condizioni di vita (inflazione al 30%, salari già inadeguati non pagati, o con forti ritardi, da cui le proteste di medici, insegnanti), questo all’inizio del mese, che poi si è concluso con forti inondazioni, che sono endemiche. Nelle parole di Federico Monica – architetto fondatore di Taxibrousse, specializzato in consulenze per la collaborazione – che conosce bene la storia e le condizioni di vita attuali di Freetown, bisogna considerare che prima ancora dell’epidemia di covid il paese ha dovuto affrontare quella di ebola e nel momento in cui stava riprendendo la normalità la guerra in Ucraina ha prodotto conseguenze sull’approvvigionamento alimentare (riso e olio di palma hanno raggiunto prezzi proibitivi) e poi anche sui maggiori costi dell’energia e dei trasporti, rendendo la sopravvivenza molto difficile. Il muro eretto dal governo, che sospettava aria di golpe, ha innescato la polveriera delle proteste, che hanno prodotto almeno una trentina di vittime. Il problema che si evidenzia è l’origine militare del potere, che ha immediatamente bloccato la rete Internet, indetto il coprifuoco e represso il movimento che si era creato attorno The Grassroots Women of Salone. Ora la calma è apparente.
L’altro aspetto in seno al potere autocratico di Bio è dato dalle risorse minerarie, sia metalli tradizionalmente preziosi (la guerra civile è tramandata come la Guerra dei diamanti), sia terre rare, la ricerca dei quali ha devastato il territorio. E Bio rischia di perdere le elezioni, visto il malcontento che è subentrato all’entusiasmo che aveva suscitato con il suo programma di svincolarsi dall’abbraccio cinese (l’intervento di Pechino ha costruito l’autostrada a pagamento che è poi unico accesso alla città) e combattere la corruzione; nonostante qualche progresso come il superamento della pena di morte e la discussione – non ancora deliberata – su una legge proabortista, il malcontento si è diffuso con il ridimensionamento della figura di Bio, apprezzato durante la guerra civile.
E poi sono venute le piogge consuete in fine estate sulla penisola sempre più affollata dall’inurbamento feroce, battendo i terrazzamenti sgomberati dagli alberi e quindi favorendo le frane. A cui si aggiunge la pessima gestione dei rifiuti, provocando intasamento. Nonostante gli sforzi di Yvonne Sawyer, la sindaca molto attiva di Freetown.

Ascolta “Sierra Leone. Memorie di guerra, disperate ribellioni e devastazioni ambientali” su Spreaker.

Mentre il libro era in lavorazione, Federico ha prodotto questo video durante gli scontri a Freetown per gli amici di “Africa Rivista”, ve lo riproponiamo perché offre una documentazione visiva di momenti di tensione descritti nel libro.

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]]> Dalla Perestrojka al Commonwealth in Africa https://ogzero.org/dalla-perestrojka-al-commonwealth-in-africa/ Sat, 17 Sep 2022 23:23:21 +0000 https://ogzero.org/?p=8921 Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche […]

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Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi

Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche di periodi storici rendono conto di un passaggio epocale, scandito simbolicamente dalla morte di due ultranovantenni protagonisti della politica degli anni Ottanta: Michail Sergeevič Gorbačëv ha incarnato la fine della Guerra Fredda – con tutto ciò che la sua archiviazione ha significato per la spartizione di tasselli sullo scacchiere internazionale che facevano rigidamente riferimento all’una o all’altra grande potenza. La contrapposizione per blocchi è apparentemente un modello di rapporti tra grandi potenze che torna a riconfigurarsi, e di cui dovremmo analizzare cosa può riproporsi e in quali modalità, considerando anche il progresso delle comunità da depredare a trent’anni dalla caduta del muro e dalla trasformazione dei regimi marxisti-leninisti sostenuti dall’Urss in Africa.
Elisabeth Windsor-Mountbatten è stata la più rigida conservatrice dell’impero britannico così come le era stato consegnato, opprimendo con brutalità (fin dall’inizio soffocando le richieste di emancipazione dei Mau-Mau in Kenya); la spasmodica attenzione dei media francesi per le sue esequie è una buona cartina al tornasole, perché evidenzia la sensazione dei regicidi francesi che i destini delle due ex potenze coloniali siano strettamente correlati, angosciando gli ancora tanti nostalgici della grandeur, ma anche galvanizzando gli anticolonialisti come “Mediapart”, che preconizzano che, dopo il bagno di folla ebete dei funerali «Con la morte della regina Elisabetta II, il velo di oblio o di cecità intenzionale che ha coperto la mente pubblica britannica sul suo passato imperiale e coloniale scomparirà. I dannati della memoria si alzeranno in piedi e parleranno». E dopo il processo indipendentista a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta – che ha richiesto la trasformazione dell’approccio e dei processi di occupazione di territori, il loro saccheggio e il condizionamento economico –, ora non è l’emancipazione delle comunità autoctone ma la ripresa dell’espansione di quel colonialismo russo nel Continente nero (che i processi di apertura di Nikita Sergeevič Chruščëv prima e poi di Gorbačëv avevano trasformato, ridimensionandolo) a premere sulle acciaccate potenze coloniali europee.
E di nuovo l’impegno di Mosca sorge nel momento in cui la tensione ha il sopravvento sul multilateralismo. Queste pulsioni, assimilabili alle esigenze che spingono la Realpolitik turca a espandere la propria sfera di influenza su alcuni angoli africani, aggiungono un elemento che configura il neoimperialismo, echeggiando altri momenti epocali in cui si è assistito a conflitti di blocchi contrapposti: neo-ottomanesimo e neozarismo possono sperare che la divisione europea ridimensioni l’egemonia occidentale, approfittando di una nuova Guerra Fredda da cui trae linfa l’espansionismo autocratico nella realtà africana.
Fin qui OGzero, ma questo sproloquio attinge alle suggestioni e ai dati esibiti da Angelo Ferrari nei suoi due originali obituary. E non a caso iniziamo dallo studio sul rilancio del Commonwealth (l’espressione imperiale britannica rivale di quella zarista e dei sultani) che paradossalmente ottiene nuovo slancio dalla morte della simbolica depositaria per 70 anni della potenza inglese, dacché era già sovrana – ingombrante figura difficile da adeguare alle istanze indipendentiste dell’impero senza modificarne l’icona (interessante come nell’articolo di Angelo non venga citata, ma aleggi il venir meno di una prassi pluridecennale caratteristica del suo lungo regno) – quando gli stati decolonizzati entrarono nell’organizzazione grazie alla Dichiarazione di Londra che riformava il vecchio Commonwealth con un compromesso costituzionale, proprio in quegli stessi primi anni Sessanta che costrinsero alla apertura con la prima parziale sospensione della Guerra Fredda.

Ora il Commonwealth rappresenta una valida alternativa per la cooperazione economica tendente a 2 trilioni di scambi. Per gli altri c’è l’“amicizia” predona della Wagner, che non chiede conto alle leadership cresciute militarmente a Rostov (o disposte a scommettere di restituire i prestiti ai cravattari cinesi), di certo non è l’epilogo immaginato dalla perestrojka africana.


Il Commonwealth sempre più africano

Londra sta intensificando la sua presenza nel continente africano attraverso rapporti bilaterali, vuole – è stata la promessa fatta da BoJo nell’ultimo vertice afro-britannico a Londra il 20 gennaio 2020 – incrementare i suoi investimenti ed espandere il suo mercato. Vuole diventare il maggior investitore sul continente africano e superare gli altri membri del G7 e stiamo parlando di Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Giappone e mettiamoci anche l’Italia.

Carta d’identità dell’organizzazione

Il Commonwealth è il più grande gruppo di nazioni che non coinvolge la Russia o la Cina e gli conferisce, sono parole della Truss, «un peso crescente sulla scena mondiale». Quanto può valere entrare nell’ormai grande famiglia? Secondo Patricia Scotland, segretario generale dell’organizzazione nata sulle ceneri dell’impero britannico e andata ormai oltre le ex colonie di Londra, già oggi il commercio tra i paesi membri vale 700 miliardi di dollari. Ma l’obiettivo, anche guardando gli ultimi ingressi, Togo e Gabon, è di superare i 2 trilioni di dollari entro il 2030.
Il Commonwealth è un’organizzazione che conta 56 nazioni per un totale di 2,5 miliardi di abitanti, con un Prodotto interno lordo che si prevede salirà a 19,5 trilioni di dollari nei prossimi cinque anni.


Il Gabon, che si affaccia sul Golfo di Guinea, ultimo arrivato nell’organizzazione è un paese con una superficie boscosa molto rilevante ed è destinato a svolgere un ruolo importante nel commercio dei crediti di carbonio per combattere il cambiamento climatico. E questo, per Londra, è un vantaggio non da poco.

Strategia in chiave anticinese

Londra vuole aprire le sue porte all’Africa e il Commonwealth (oggi conta 21 paesi africani: Sudafrica, Ghana, Nigeria, Sierra Leone, Uganda, Kenya, Malawi, Tanzania, Zambia, Gambia, Botswana, Lesotho, eSwatini, Seychelles, Namibia, Camerun, Mozambico, Nauru, Ruanda, Gabon, Togo) potrebbe diventare la chiave di volta. Ma non solo. Nelle strategie di Londra rientra anche il contrasto alla Cina e in Africa la sfida sembra quasi improba. Ciò era negli intenti dell’ex premier Boris Johnson, ma ribaditi dall’attuale prima ministra, Liz Truss, che è stata molto chiara.

Il Regno Unito deve aumentare l’interscambio commerciale con i paesi del Commonwealth per contrastare la «grave minaccia della Cina ai nostri valori e al nostro modo di vivere, e firmare accordi commerciali con procedure accelerate con gli stati così da aiutare il Regno Unito e altre democrazie a vincere la lotta contro gli stati autoritari».

Truss ritiene che legami economici più stretti aiuteranno ad annullare lo schema della Belt Road Initiative della Cina in base alla quale Pechino ha finanziato progetti in dozzine di paesi in via di sviluppo che si sono rivelati come una “coercizione economica”.

Per allargare il mercato cade la pregiudiziale democratica

Tutti vogliono entrare nel Commonwealth e Londra apre le porte a chiunque, rinunciando anche ai principi fondativi dell’organizzazione delle ex colonie britanniche. Non guarda se è un paese è democratico, se rispetta i diritti fondamentali delle persone. Tutto questo, dopo la Brexit, non conta. Londra sembra avere mani libere, tanto da accettare nell’organizzazione membri che non hanno legami storici con il Regno Unito. Contano gli investimenti e le potenzialità di mercato che offre chi entra nell’organizzazione.

«In passato alcuni paesi africani non avevano relazioni con i paesi del Pacifico o con i paesi anglofoni», ha spiegato il ministro degli Esteri del Gabon – ex colonia francese – Michael Moussa-Adamo, ma ora «ci stiamo allargando e stiamo ottenendo nuovi partner internazionali, rafforzando la nostra economia».

Dinastie africane nell’organizzazione della dinastia britannica

Dati gli obiettivi che si prefigge è evidente che qualsiasi stato è ben accetto. «Il Commonwealth – ha spiegato Scotland – ha iniziato con otto nazioni nel 1949, è cresciuta fino a raggiungere 56 nazioni. La nostra continua crescita, al di là della nostra storia, riflette i vantaggi dell’appartenenza al Commonwealth e la forza della nostra nazione. Sono entusiasta di vedere questi vivaci paesi unirsi alla famiglia e dedicarsi ai valori e alle aspirazioni della nostra Carta» (“360Mozambique”).

È del tutto evidente che la “Carta”, oggi, conta ben poco. Se l’organizzazione dovesse tenere fede ai suoi principi non potrebbe accettare nelle sue file paesi come il Gabon e il Togo che non hanno nulla a che fare con una democrazia moderna.
Il Gabon più che uno stato è una monarchia governata da sempre dalla dinastia dei Bongo Ondimba, padre e figlio, stiamo parlando di oltre cinquant’anni di regno (però i Windsor sono avvezzi a questo tipo di regime, ma proprio il Gabon può rappresentare un ponte tra gli imperi, visto che era in quota sovietica fino al crollo del Pcus). E anche il Togo non è da meno: l’attuale presidente, Faure Gnassingbé detiene il potere dal 2005, ma lo ha ereditato dal padre che lo gestiva in maniera dittatoriale dal colpo di stato del 1967.
Ma anche il Ruanda, che ha ospitato l’ultimo vertice del Commonwealth a fine giugno 2022, non sarebbe un paese “idoneo”, perché nelle sue carceri sono ancora detenuti oppositori, giornalisti indipendenti e youtuber critici con le autorità ruandesi.

Centro congressi di Kigali, sede della convention del Commonwealth 2022

Paul Kagame è presidente del Ruanda dal 1994 quando entrò a Kigali da trionfatore e liberatore, ha modificato la Costituzione così da permettergli di governare il paese fino al 2034. Per non parlare di un altro membro del Commonwealth, il Camerun. Il paese è “guidato” dal 1982 da Paul Biya, ma se aggiungiamo i sette anni da primo ministro, 1975-1982, è al potere da 47 anni.


Le aree di interesse evidenziate dalle citazioni di paesi aderenti alla sfera britannica, poste a confronto con quelle evocate dal mondo sovietico africano, mostrano una vera e propria spartizione tra i due imperialismi che non sovrapponevano i domini. Le incursioni russe e turche in Sahel, Centrafrica e Corno d’Africa entrano in diretta concorrenza soprattutto con l’imperialismo francese, quello più debole e impreparato, perché ancora troppo fondato sull’occupazione militare, ambito in cui i contractor russi e i miliziani turchi sono più efficaci su quel terreno.


Con la fine dell’Urss cambiarono i giochi di potere in Africa… erano solo sospesi?

Cosa ha comportato la scomparsa dell’Urss e quali le conseguenze per chi deteneva il potere? I regimi alleati del blocco orientale, per esempio, furono costretti a riformarsi o cadere.
L’opera intrapresa da Michail Gorbačëv di riforma del sistema sovietico negli anni Ottanta e di disgelo delle relazioni internazionali, cambiando radicalmente la situazione internazionale, ha avuto ripercussioni ed effetti importanti anche per il continente africano. La scomparsa dell’Urss dallo scacchiere africano ha costretto i regimi alleati del blocco orientale a riformarsi o cadere. Nella prima categoria, Angola e Mozambico sono stati costretti a entrare in processi di democratizzazione che hanno posto fine alle guerre civili, prima Maputo e poi Luanda.

Superamento del colonialismo lusitano

Frelimo/Renamo

In Mozambico il sostegno dell’Unione Sovietica si è rivelato fondamentale per la sopravvivenza del paese negli anni Ottanta del secolo scorso. Le spinte anticoloniali portarono i movimenti indipendentisti a coalizzarsi nel movimento armato Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico) e dopo dieci anni di guerriglia contro i coloni portoghesi, il paese ottiene l’indipendenza nel 1975. Iniziò una campagna di nazionalizzazione delle piantagioni e furono costruite scuole e ospedali per i contadini. Una rivoluzione di stampo sovietico. Il Frelimo sostenne le forze rivoluzionarie in Rhodesia e Sudafrica. I governi di questi paesi, appartenenti al blocco occidentale, risposero sostenendo i ribelli mozambicani della Renamo. Ne scaturì un’atroce guerra civile che terminò con gli accordi di pace di Roma del 1992 da cui nacque una nuova costituzione di stampo multipartitico. Il Frelimo, nelle elezioni libere tenute negli anni successivi si confermò sempre il primo partito del Mozambico.

Mpla/Unita

In Angola la situazione era abbastanza simile. Il Movimento per la liberazione dell’Angola, che lottò con determinazione contro i colonizzatori portoghesi, ottenendo l’indipendenza nel 1975, portò il paese nell’orbita sovietica e instaurò un regime totalitario. Di contro il blocco occidentale, per far valere i suoi interessi, sosteneva un gruppo di ribelli sotto il nome di Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola.
Da questo scontro iniziò una guerra civile durata oltre un ventennio al termine della quale vennero firmati gli accordi di pace che portarono alle prime elezioni nel 1992. Le ostilità, tuttavia, continuarono e terminarono solo dopo l’uccisione del leader dell’Unita, Jonas Savimbi, nel 2002. Il paese, dall’indipendenza è sempre stato governato dall’Mpla e l’Unita ha sempre svolto un ruolo di opposizione. Ma il padre della patria, Eduardo dos Santos, si è trasformato presto in un cleptocrate, governando il paese con pugno di ferro fino al 2017.

Il passaggio dalla geopolitica alla geoeconomia

In Mozambico e Angola i regimi, riformati, sono sopravvissuti, mentre in Etiopia, nel 1991, Menghistu, soprannominato il “Negus rosso”, viene estromesso dal potere.

Mandela/Mobutu

Proprio in quegli anni anche il Sudafrica è costretto a riformarsi ed è nel contesto della fine della Guerra Fredda che cade l’apartheid, che porta alle prime elezioni multirazziali del 1994 e la Namibia trova l’indipendenza. Anche gli interessi degli Stati Uniti per l’Africa cambiano di conseguenza, meno legati alla geopolitica e più all’economia. Il loro grande alleato nell’Africa centrale, Mobuto Sese Seko, dittatore dello Zaire, è costretto ad aprire il sistema politico e cedere, su pressione degli Stati Uniti, al multipartitismo. Soluzione che non porta alcun beneficio al paese, perché è sempre il dittatore che muove i fili, ma il paese crolla nel giro di pochi anni e si apre una fase di guerra permanente.

La perestroika africana

Benin, Congo, Mali, Niger…

Nel mondo francofono, sempre in quegli anni, soffia un vento di libertà. Era l’epoca delle Conferenze nazionali che avevano lo scopo di creare un clima democratico con la partecipazione di tutti. Il Benin fu il precursore nel 1990, il marxista Mathieu Keredoku fu sconfitto alle elezioni e si ritirò. Ma non andò così nella Repubblica del Congo, dove il presidente di allora, Denis Sassou Nguesso, continua a governare il paese. Fasi alterne vivono i paesi come il Mali, il Niger. Ma hanno una caratteristica comune: sono regimi poco democratici e accentratori del potere. La “perestrojka africana” che si poteva leggere tra le righe delle Conferenze nazionali non ha mai attecchito, anche se aveva suscitato molte speranze nelle popolazioni di questi paesi.

Rimane, tuttavia, il fatto che Gorbačëv si era adoperato per porre fine al mondo bipolare in cui l’Africa era alla mercè del gioco strategico di Washington e Mosca.

Secondo lo scrittore Vladimir Fedorovski, molto vicino all’ultimo leader sovietico, ai paesi africani mancherà il suo messaggio a favore di un mondo equilibrato: «Aveva un grande rispetto per il continente africano, che considerava il continente del futuro. Gorbačëv diceva che bisognava tener conto degli interessi delle diverse nazioni e trovare equilibri, e anche e forse essere prima di tutto africani. Sprecheremo somme da capogiro per la guerra, dimenticando che l’Africa è minacciata dalla carestia».

I primi a dimenticarsi delle parole di Gorbačëv sono stati proprio quei presidenti africani che si ispiravano all’Unione Sovietica. La Guerra Fredda non c’era più, ma le contrapposizioni rimangono e diventano sempre più complesse. Da una parte il mondo occidentale che cerca di frenare le aspirazioni di Mosca che, piano piano, sta rosicchiando pezzi di influenza occidentale. Il messaggio di Gorbačëv vale ancora oggi.

Dal 24 al 27 luglio, il ministro degli Esteri della Federazione russa, Sergej Lavrov, ha visitato quattro stati africani: Egitto, Repubblica del Congo, Uganda ed Etiopia. Non ha parlato di progetti o interventi. La sua missione era chiedere agli africani di schierarsi con la Russia contro l’Occidente, con un unico argomento: l’Occidente ha un passato coloniale e ha tuttora delle mire coloniali e imperiali.

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Cambi della guardia in Africa, e la Russia suona Wagner https://ogzero.org/cambi-della-guardia-in-africa-e-la-russia-suona-wagner/ Thu, 24 Feb 2022 08:45:35 +0000 https://ogzero.org/?p=6471 In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari […]

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In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari in un paese stabile, l’indigenza delle popolazioni è funzionale all’assoggettamento del tessuto sociale, basta frenare le partenze per oltremare… con le buone (accordi capestro e che calpestano i diritti umani) o con le cattive (presenza militare mercenaria ben pagata).

[fin qui… OGzero]

Qui una rielaborazione di due articoli di Angelo Ferrari pubblicati su Africa Rivista e Agi, ampliati per OGzero. Aggiungiamo un podcast realizzato con Edoardo Baldaro (ricercatore alla Scuola Sant’Anna di Pisa, esperto di Sahel) e Stefano Ruzza (professore associato in Scienze politiche all’Università di Torino, responsabile di T.wai – Torino, esperto di agenzie di sicurezza).


Spostare il confine del Mediterraneo

Il Niger è e diventerà sempre di più il bastione italiano nel Sahel. L’Italia, nel suo piccolo – sia geografico sia diplomatico – ha deciso di rilanciare la sua presenza nel continente africano proprio privilegiando il rafforzamento di quella militare in parte a scapito della cooperazione allo sviluppo, soprattutto in chiave anti-immigrazione. L’obiettivo è fermare i flussi proprio alle porte della Libia, cioè in Niger, con la presunzione e l’illusione che blindando i confini i problemi possano restare dall’altra parte. Spostare, dunque, più a Sud il confine del Mediterraneo. Ci riuscirà? Non è del tutto scontato.

In Niger la presenza militare è rilevante. Si tratta di 290 militari, 160 mezzi terrestri e 5 aerei. Mentre il rapporto tra spese militari e cooperazione allo sviluppo è di 10 a 1. Un po’ quello che è successo in Afghanistan, con le conseguenze, dopo il ritiro occidentale, che sono sotto gli occhi di tutti dal punto di vista umanitario. Tutto ciò, evidentemente, confligge con un principio che dovrebbe accompagnare le missioni militari all’estero in generale, e in particolare in Africa, è cioè quello per cui creare le condizioni di sicurezza nelle aree di crisi è indispensabile per poter realizzare anche le missioni civili e di sostegno socio-economico che aiutino i paesi interessati a costruire o ricostruire i loro apparati pubblici e a sviluppare le loro economie, a loro volta premessa indispensabile per migliorare le condizioni di vita della popolazione e stabilizzare il contesto locale e regionale.

Il Mali lasciato dagli occidentali

Il sentimento antifrancese che è montato in buona parte del Sahel deriva proprio da questo. Cioè le popolazioni hanno visto un gran numero di militari occidentali, ma nessun cambiamento sostanziale, non solo nella sicurezza, ma soprattutto nelle condizioni di vita reale. La precarietà “umanitaria” si è aggravata. La lezione del Mali dovrebbe insegnare qualcosa anche a noi italiani. Non a caso il presidente del Niger, Mohamed Bazoum, si è detto molto “preoccupato” per il ritiro dei francesi e degli occidentali in generale dal Mali.

A questo punto può risultare utile ascoltare le considerazioni sulla situazione dopo la chiusura di Barkhane e il subentro conseguente dei contractor russi, oltre al confronto tra le diverse reazioni nei paesi subsahariani, con Stefano Ruzza ed @EdoardoBaldaro

 “Il senso di Wagner per le crepe: le interconnessioni con le giunte del Sahel?”.

La “fortuna” del Niger, il paese più povero al mondo

Il Niger, tuttavia, interessa moltissimo all’Italia e non si tira indietro, lo ha dimostrato nel recente passato aprendo un’ambasciata nel 2017 e dal 2018 con la “Missione bilaterale di supporto” – militare. Il Niger, dunque, è un partner strategico e, nelle intenzioni del governo italiano, può rappresentare un’opportunità di business per l’Italia. L’Italia è tra quei paesi che guardano con interesse al crescere di questo mercato e in generale a quello di tutta l’area saheliana e la presenza dell’ambasciata italiana a Niamey ha anche il significato di voler accompagnare quanto più possibile le imprese italiane che vorranno avviare affari in questo contesto relativamente ancora incontaminato. Queste le intenzioni del governo italiano. Ma, diciamo noi, occorre arrivare per tempo. Per l’Italia, dunque, il Niger è un paese stabile – e questo aiuta – ma non si può dimenticare il passato recente. Il paese è sempre stato il crocevia di traffici illeciti, dalla droga alle armi, dal riciclaggio dei soldi sporchi alla tratta degli esseri umani.

Le fortune del Niger – se così si può dire – e dei suoi governanti, sono derivate proprio da questo. Un paese che ha fatto dell’illecito la ragione dei propri guadagni.

È il paese più povero al mondo, ma, Mohammad Issoufou, ex presidente nigerino – ha governato il paese per dieci anni fino al 2021 – ha speso milioni e milioni di dollari per acquistare armi, elicotteri e aerei da combattimento russi e francesi, tradendo la sua piattaforma elettorale di stampo socialista-progressista, che lo ha portato al vertice dello stato, impoverendo ancora di più la sua gente. Il suo successore, Bazoum, va nella stessa direzione, non a caso sul finire del 2021 ha acquistato dalla Turchia nuovi droni. L’impegno e le spese militari prevalgono su tutte, pur di mantenere i privilegi ereditati dal suo predecessore. Le cancellerie di tutto il mondo conoscono a perfezione i due burattinai nigerini, sanno perfettamente con chi hanno a che fare, ma hanno deciso che del Niger si possono fidare. Ma alcune domande, tra le tante, vengono spontanee: per quale ragione le varie milizie e fazioni che controllano il territorio dovrebbero abbandonare i lauti profitti che arrivano dai traffici illeciti che siano di esseri umani, droga, armi o denaro? Quali garanzie sono state fornite? Quali accordi stipulati?

Il governo italiano dovrebbe rispondere a queste domande con il linguaggio schietto della politica e non con quello della diplomazia. Occorre, dunque, fare attenzione. Ma le parole chiave sono “arrivare in tempo”. Non possiamo dimenticare che il paese saheliano è strategico anche per la Francia che è ormai una presenza organica, ma sul quale Parigi rivolge lo sguardo, soprattutto ora che si è ritirata dal Mali. L’intenzione francese è proprio quella di rafforzare la sua presenza in Niger e sul fronte Sud del Sahel, paesi come Costa d’Avorio, Togo e Benin. Gli interessi strategici di Parigi sono noti: l’estrazione dell’uranio è fondamentale per un paese che vive di centrali nucleari. Il Niger è il quarto produttore di uranio al mondo e il sesto per riserve.

L’Italia, dunque, deve adottare una via pragmatica e diplomatica per non andare a cozzare con gli interessi di altri paesi che hanno radici solide in quel pezzetto di deserto.

Wagner: gli strumenti “non convenzionali ” della Russia

In Africa, per esempio, la Russia suona la musica di Wagner. La presenza dei mercenari di Mosca rappresenta per Vladimir Putin la guarnigione di “sfondamento” nella sua politica di espansione in Africa. Non è un mistero che la Russia stia cercando di tornare agli antichi fasti dell’Unione Sovietica e non lo fa impegnandosi direttamente sul campo militare, quello dove si combatte, ma inviando la Wagner che per Mosca fa il lavoro sporco. Lo si vede in maniera evidente, per esempio, nella Repubblica Centrafricana, che è diventata la base operativa russa in Africa centrale. Lì i mercenari combattono a fianco delle truppe regolari e sostengono il regime. La guardia presidenziale è tutta nelle mani del Cremlino, così come i consiglieri del ministero della Difesa. Il Centrafrica è diventata una sorta di portaerei nel mezzo dell’Africa che funziona come trampolino di lancio per l’espansionismo russo. Già nel passato questo paese ha avuto questa funzione, con la presenza di numerose basi della Francia, ex potenza coloniale, almeno fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso. Ora la storia è molto diversa e, come è normale che sia, Putin nega tutto. Si limita a spiegare che l’intervento russo in Africa riguarda la fornitura di armi e l’addestramento militare. Ma ogni evidenza porta da un’altra parte. Lo si sta vedendo in maniera plastica in Mali, dove il sentimento prevalente è quello filorusso. Così come in Burkina Faso dove si sono viste manifestazioni a sostegno dei golpisti, con la gente in piazza che sventolava le bandiere di Mosca.

L’Africa, per Putin, è diventato uno degli scenari privilegiati della sua competizione con il mondo occidentale.

Lo fa, appunto, attraverso la fornitura di armi e con il sostegno dell’industria bellica, come in Sudan terzo produttore di armi nel continente africano dopo Egitto e Sudafrica. Per raggiungere i suoi obiettivi, il Cremlino utilizza non solo i normali canali diplomatici ma anche strumenti non “convenzionali”: i famigerati mercenari della Wagner e la propaganda attraverso i social network, come accade in altre parti del mondo. E funziona.

L’impegno italiano: ridurre le partenze

Il governo italiano sta mettendo in atto un cambio di paradigma nel guardare a questo paese e alla regione del Sahel nel suo insieme, cercando di colmare la sua lacuna di presenza, intercettando in maniera tempestiva il crescere dell’attenzione internazionale. Il Niger guarda ormai all’Italia come un “partner di riferimento”, soprattutto nella gestione delle migrazioni, nella lotta all’avanzamento del terrorismo jihadista, nel contenimento delle sfide ambientali e nello sviluppo. Se sul piano militare l’Italia è ben posizionata e il rinnovo delle missioni all’estero voluto dal governo Draghi va proprio in questa direzione. L’Africa si conferma il continente in cui l’Italia è maggiormente coinvolta, con 17 missioni in corso. Tra quelle più rilevanti in termini di unità impiegate e risorse economiche c’è la Task Force Takouba, per il contrasto della minaccia terroristica nel Sahel, e l’impiego di un dispositivo aeronavale nazionale nel Golfo di Guinea in funzione antipirateria.

Le forze della missione Takouba si preparano a lasciare il paese (fonte Africa Rivista).

Sul piano, invece, della cooperazione allo sviluppo fa segnare il passo. Non si può dimenticare che oltre il 40 per cento della popolazione nigerina vive sotto la soglia di povertà e il paese si colloca in fondo alla ben poco onorevole classifica dell’indice di sviluppo umano. C’è da augurarsi, dunque, che il rinnovato impegno in Niger e in tutta la regione sia teso, anche, al rafforzamento di un impegno umanitario. L’impegno italiano è concentrato – almeno così sembra – alla riduzione delle partenze dei migranti (come racconta qui Fabiana Triburgo). Rimane, tuttavia, la domanda: “È sufficiente la cooperazione militare per impedire le partenze?”. È lecito chiedersi se controllo del territorio di questi paesi e lotta al terrorismo non passino anche e soprattutto attraverso politiche di sviluppo: cioè alla creazione di un welfare state che manca totalmente in questi paesi. Non si considera infatti che la maggior parte delle persone che fuggono da quelle situazioni lo fanno perché manca totalmente la percezione della possibilità di costruirsi un futuro solido per sé e la propria famiglia. Non è solo mancanza di cibo, spesso è la mancanza di welfare state, cioè di una rete sanitaria adeguata e di una rete scolastica capace di formare.

In quei paesi dove la cooperazione militare è importante, gli apparati di governo sacrificano, già di loro, gli investimenti per il welfare a scapito di una crescente spesa militare. Tutto ciò dovrebbe far riflettere.

L’impegno russo: fornire armi e sfruttare le risorse

L’arrivo in Centrafrica, tuttavia, rappresenta, uno spartiacque per Mosca. Le armi russe fanno gola un po’ a tutti: Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania hanno lanciato appelli a Mosca perché aiuti le loro forze di sicurezza a combattere il terrorismo, appelli che hanno avuto risposte positive. Tutto ciò piace molto al Cremlino e preoccupa enormemente l’occidente che sta perdendo posizioni strategiche. L’opzione di Mosca è quella di rafforzare la presenza militare per poi passare all’incasso, anche in termini di risorse naturali. L’interesse militare si giustifica, inoltre, con il fatto che il Cremlino è consapevole della sua marginalità nei mercati africani e di non poter competere con l’espansionismo cinese. Le armi, quelle vere, per Mosca, tuttavia, funzionano ancora. Ma è del tutto evidente che l’aiuto militare è subordinato, nel futuro, ad avere un ruolo anche nello sfruttamento delle materie prime.

Non a caso il paradigma di collaborazione con l’Unione africana – emerso nel forum Russia-Africa – che Putin vuole, mira a migliorare i rapporti esistenti, rafforzare i legami diplomatici e aumentare la sua presenza economica nel continente, per avvicinarsi agli elevati livelli di scambi commerciali che già caratterizzano Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Turchia, Europa e Stati Uniti.

La presenza russa in Africa (fonte Ispi).

La retorica di Putin definisce la sua agenda per l’Africa “positiva” e si contrappone, a detta sua, ai “giochi geopolitici” degli altri, spiegando che la Russia non è interessata a depredare la ricchezza dell’Africa, ma a lavorare a favore di una cooperazione “civilizzata”. Parola, questa, già usata da coloro che hanno colonizzato il continente.

Dal punto di vista economico, non è da trascurare la presenza in Namibia dove la Russia è impegnata nell’estrazione dell’uranio e in Angola nel settore diamantifero. Da qui, dall’Africa, Putin vuole ripartire per lanciare la sua sfida e tornare a vantare il ruolo di potenza mondiale. Ma la “prudenza” sta caratterizzando la presenza russa. Putin non arriverà a schierare l’esercito regolare e per questo si avvale di mercenari della Wagner, che fa il bello e cattivo tempo un po’ ovunque, in particolare nella Repubblica Centrafricana che, di fatto, è governata proprio dai russi. Il Mali, dopo il ritiro delle truppe occidentali, rappresenta una vittoria significativa per Putin che è riuscito a ridimensionare l’impero francese.

Attività russe in Africa nel 2019 (Fonte ISW).


Gruppo Wagner: un po’ di storia

Sul Gruppo Wagner, ovviamente, sono più le supposizioni che le certezze. Ciò che si sa è che nasce intorno al 2013 con il nome di Corpi Slavi. Il loro fondatore è l’ex colonnello dei servizi segreti militari Dmitry Utkin. Insieme a un piccolo contingente di ex appartenenti alle forze speciali russe, Utkin si schiera in Siria a protezione delle infrastrutture strategiche per la Russia e per il governo siriano di Bashar al-Assad. I mercenari non ottengono grandi risultati e ben presto rientrano in patria. Qui Utkin rifonda l’organizzazione ribattezzandola Gruppo Wagner in onore del compositore tedesco (Utkin ha forti simpatie naziste). È l’incontro con Yevgeny Prigozhin, oligarca con interessi nei comparti dell’alimentazione, dell’estrazione mineraria e nel mondo della gestione dei dati informatici, che fa compiere al Gruppo Wagner il salto di qualità. Prigozhin è legato a doppio filo a Putin che lo utilizza per portare a termine “operazioni delicate”. I mercenari di Utkin vengono quindi impiegati in Ucraina e a sostegno dei separatisti della Repubblica separatista di Lugansk. Poi di nuovo in Siria, dove si affiancano alle forze di Bashar al-Assad. Il momento più tragico avviene nel febbraio 2018 a Deir ez-Zor, quando un centinaio di uomini viene ucciso in un raid americano nei pressi del villaggio di al-Isba durante gli scontri con le forze curde dell’Sdf. Le imprese compiute in tre anni di guerra, permettono a Prigozhin di passare all’incasso. Un incasso chiamato Africa, dove, nel frattempo, la Russia sta conducendo una delicata partita per recuperare spazi di influenza. Mosca cerca di stringere rapporti con numerosi paesi offrendo assistenza militare in cambio di risorse minerarie. Ma in modo informale. Un gruppo di uomini viene quindi inviato in Sudan. Vengono schierati a protezione del presidente Omar al-Bashir e come presidio sul confine con il Sud Sudan. In cambio, i mercenari russi ricevono la gestione di alcuni impianti minerari. Un’operazione molto simile avviene anche nella Repubblica Centrafricana, dove nel luglio 2018 vengono uccisi tre giornalisti russi che indagavano proprio sulle operazioni di Prigozhin. Il magnate russo farebbe affari con almeno dieci paesi, tra i quali Repubblica democratica del Congo, Madagascar, Angola, Guinea, Guinea-Bissau, Mozambico e Zimbabwe. Uomini del Gruppo Wagner sono stati incorporati nelle milizie di Khalifa Haftar in Libia. Il resto è storia recente.


Per rinfrescarvi la memoria su come operano i contractors o le milizie mercenarie e su come funzionano le regole di ingaggio e quali sono i rapporti di forza con gli stati che li “assumono” guardate questa intervista di OGzero a Stefano Ruzza, regia di Murat Cinar.


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Убирайся est le mot pour: “dégage!“ https://ogzero.org/%d1%83%d0%b1%d0%b8%d1%80%d0%b0%d0%b9%d1%81%d1%8f-est-le-mot-pour-degage/ Fri, 18 Feb 2022 09:20:30 +0000 https://ogzero.org/?p=6378 Rimuginando in quell’angolo estremo del lungo tavolo moscovita dove lo ha relegato Putin, Macron è forse riuscito a cogliere le sfumature della traduzione dalla lingua che il leader maliano Goïta ha indicato come insegnamento scolastico a Bamako: in russo ubirájsja suona persino meno apodittica e definitiva, ma è l’espressione che i golpisti filorussi maliani hanno […]

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Rimuginando in quell’angolo estremo del lungo tavolo moscovita dove lo ha relegato Putin, Macron è forse riuscito a cogliere le sfumature della traduzione dalla lingua che il leader maliano Goïta ha indicato come insegnamento scolastico a Bamako: in russo ubirájsja suona persino meno apodittica e definitiva, ma è l’espressione che i golpisti filorussi maliani hanno rivolto all’ambasciatore francese senza mezze misure: “Vattene, indesiderato!”.

Il capitolo neocoloniale iniziato da Hollande si chiude repentinamente alle porte delle elezioni francesi ritirando la presenza europea dal Sahel il più repentinamente possibile, mantenendo degli avamposti in Ciad (dove il golpista Déby risulta buono, perché non ha abbracciato Mosca o Pechino) e in Niger con truppe internazionali troppo interessate a bloccare i flussi migratori, sovranisti italiani in testa. L’avventura coloniale di Parigi ha subito un vero tracollo (peraltro annunciato, benché repentino), solo parzialmente schermato dall’intento di evitare che il moto antifrancese si estenda all’area atlantica; nel momento in cui il jihad comincia a infiltrare Benin e Togo. Non a caso si parla di Afghanistan francese. E non solo, perché il fallimento di Barkhane con l’insurrezione dei saheliani coinvolge ogni aspetto: dalla missione Onu Minusma che viene almeno ridimensionata, agli interessi economici dell’intero fronte occidentale, che come ben documentato da Alessandra Colarizi trovano nell’offerta russo-cinese le risposte alle richieste del territorio, sostituendo una forma di colonizzazione, vetusta perché interessata a predare in modo classico e secondo prassi novecentesche, con un’altra, più innovativa (si pensi a Wagner), ma altrettanto rapace.

Mentre “Libération” esplicita bene la pretestuosità ipocrita della scelta elettorale di Macron di pretendere dalla giunta golpista maliana elezioni mai richieste ai fantocci installati al potere proprio dalla grandeur parigina, proponiamo un’istantanea scattata da un conoscitore della realtà continentale come Angelo Ferrari


Il ritiro, minacciato, è diventato realtà. La Francia e l’occidente hanno deciso di lasciare il Mali. Dopo nove anni di intervento militare contro il terrorismo jihadista, Parigi ha deciso di “abbandonare” il paese. Una resa inevitabile per il progressivo esacerbarsi dei rapporti con la giunta golpista di Bamako, il cui culmine è stata la cacciata dell’ambasciatore francese dalla capitale maliana.

Effetto domino

La decisione arriva, inoltre, in un momento delicato per il presidente francese Emmanuel Macron, che dovrebbe annunciare la sua candidatura per un secondo mandato. Arriva in un momento di crescenti tensioni antifrancesi in tutta l’area del Sahel che sono state la spinta – anche se non quella decisiva – per un cambio di regime in Mali e anche nel vicino Burkina Faso. Bamako, da tempo, ha chiamato i mercenari russi della Wagner, che già operano sul terreno, per proseguire la lotta al terrorismo. Una decisione che ha irritato i francesi e tutto l’occidente impegnato nel paese anche se sempre negata dal Cremlino. Sono circa 25.000 gli uomini dispiegati nel Sahel, di cui circa 4300 francesi – 2400 in Mali nell’ambito dell’operazione antijihadista Barkhane. Un ritiro, si sono affrettati a sottolineare l’Eliseo e i partner europei, che non significa abbandonare il Sahel, ma sicuramente Parigi e l’Unione Europea dovranno reinventare il partenariato con i paesi saheliani. Ciò non significherà spostare altrove ciò che fino ad ora è stato fatto in Mali, ma rafforzare la presenza in Niger e sul versante meridionale. E tutto ciò dovrà essere coordinato con la missione delle Nazioni Unite. Un ritiro, inoltre, che solleva molti dubbi sul futuro proprio della missione Onu che conta 15.000 uomini, creata nel 2013 per sostenere il processo politico maliano. La fine dell’operazione Berkhane (francese) e Takuba (forze speciali dell’Unione europea) potrebbe portare al ritiro anche dei contingenti di Germania e Inghilterra impegnati nella forza Onu.

Barkhane, Takuba, Minusma... effetto domino che crea il vuoto

Meglio che una struttura fallimentare in piedi per perpetuare se stessa mantenendo vivo il jihadismo contro cui è nata si sciolga; la piazza sceglie il cavallo dello zar

Il disastroso bilancio di un’occupazione old fashioned

Il Sahel, tuttavia, rimane una priorità e una regione strategica per l’intera Unione europea, proprio per gli enormi investimenti sul piano militare e su quelli della cooperazione – anche se meno – più squisitamente economica. Intervento militare che, in nove anni, non ha portato a significativi successi nella lotta al terrorismo, per certi versi è stata disastrosa.

La realtà dei fatti: la debolezza dei governi, l’insicurezza e il disastro umanitario sono peggiorati nell’ultimo anno e le prospettive di pace duratura rimangono deboli. La regione ha subito colpi di stato militari – Mali e Burkina Faso – e “costituzionali” – Ciad – oltre all’avanzare, sempre più insidioso, del terrorismo jihadista. Se si guarda alle morti violente, queste sono cresciute del 20% nel 2021 rispetto all’anno precedente, nonostante le imponenti missioni militari, francese e europea – che operano sul campo. Le Nazioni Unite, inoltre, hanno stimato che almeno 36 milioni di saheliani sono sull’orlo dell’insicurezza alimentare.

Il teatro saheliano è estremamente complesso anche sul piano geopolitico internazionale. Il ritiro della missione francese Barkhane e la “sindrome Afghanistan”, stanno lasciando spazio, dal punto di vista militare, ad altre potenze internazionali. La Francia, in un primo momento ha ridimensionato il suo contingente, e ora lo ha ritirato dal Mali, facendo affidamento sulla forza europea tentando, in questo modo, di rassicurare che ciò non corrisponde alla fine dell’impegno francese nel Sahel. Nella regione, tuttavia, sta montando un forte sentimento antifrancese e, pure, antioccidentale. Parigi ha faticato, negli ultimi mesi, a giustificare il mantenimento della missione di fronte alla sua opinione pubblica.

Il dito nella piaga: Wagner è più professionale

Hervé Morin, l’ex ministro della Difesa del governo dell’ex presidente Nicolas Sarkozy, non ha usato mezze parole, anzi è stato netto: «Abbiamo uno scenario che si avvicina ogni giorno di più a quello che abbiamo visto in Afghanistan. Siamo arrivati per combattere il terrorismo e ricostruire uno stato (si riferisce al Mali, N.d.R.) su un accordo politico e sembriamo sempre più una forza di occupazione».

Truppe d’occupazione più o meno legittimate; Macron ammette al G5 Sahel che è venuta a mancare la giustificazione per la presenza di un esercito inadeguato al compito

E l’ex ministro ha aggiunto che la Francia non è riuscita nel suo obiettivo bellico e quindi «non può rimanere in Mali contro il parere delle autorità locali». Stessa sorte è capitata all’operazione Takuba. Con il ritiro dal Mali l’attenzione si concentrerà sul Niger, dove l’Italia ha una presenza significativa.

Le autorità di Bamako subito dopo il colpo di stato, non sapendo bene cosa fare e per scongiurare l’effetto Afghanistan, sono “volate” a Mosca, invitandola, quasi supplicandola, ad aiutare il paese a garantire sicurezza e a difenderne l’unità, l’integrità e la sovranità.

La risposta del Cremlino non si è fatta attendere ed è arrivata per bocca del ministro degli Esteri, Sergey Lavrov: «Il mio paese farà tutto il possibile per evitare che la minaccia terroristica gravi sulla struttura dello Stato del Mali».

E sul terreno maliano sono già arrivati i mercenari della famigerata Wagner, che per conto della Russia fanno il lavoro sporco sul campo, anche se tutti negano.

Anche il Ciad, che possiede l’esercito più armato ed efficiente dell’area, ha deciso di dimezzare il suo contingente nell’ambito dell’operazione G5 Sahel, in particolare nella zona delle tre frontiere – Mali, Niger, Burkina Faso – passando da 1200 a 600 effettivi.

Il portavoce del governo ciadiano ha spiegato così la decisione: «La scelta di alleggerire il dispositivo è stata concertata con il comando del G5. In rapporto alla situazione che c’è sul campo è necessario avere una forza mobile più capace di adattarsi alle modalità di azione attuate dai terroristi. Rimane intatta la nostra volontà di far fronte ai jihadisti».

Strategia vincente di Putin in Mali…

Un incubo per molti paesi, in particolare per il Burkina Faso e il Mali che non riescono a far fronte e nemmeno ad arginare la minaccia terroristica che ha paralizzato la vita di intere comunità minacciate e tenute in ostaggio dai jihadisti. Un fattore degno di nota, inoltre, è il fatto che i golpisti dei due paesi saheliani, appena preso il potere hanno subito rivolto il loro sguardo al Cremlino, innescando una crisi diplomatica proprio con il principale interlocutore occidentale dell’area, Parigi.

Insomma l’occidente lascia il Mali e apre, anzi “spalanca” le porte alla Russia. È innegabile che la decisione di Macron e dei leader occidentali di “abbandonare” Bamako, è una vittoria per Putin. In poco meno di un anno si è preso – o la Francia ha perso – mezzo impero francofono: Mali, Burkina Faso e Repubblica Centrafricana.

… e in Burkina di Xi Jinping

E poi c’è la Cina che è stata invocata a gran voce dal Burkina Faso, chiedendo il sostegno di Pechino nella lotta contro il terrorismo, accogliendo l’impegno e le assicurazioni della sua controparte cinese per accelerare la spedizione di attrezzature militari promesse al Paese. Richiesta rafforzata anche dal capo della diplomazia senegalese, la ministra Aissata Tall Sall, durante l’ultimo vertice Africa-Cina – che si è svolto a Dakar nel novembre dello scorso anno. Nel documento finale del summit si è messa nero su bianco la Cooperazione nell’ambito della sicurezza, vista come un “punto focale” delle relazioni sino-africane. Sono state annunciate, e questa è una novità, esercitazioni congiunte per operazioni di mantenimento della pace, nella lotta al terrorismo, al traffico di stupefacenti e alla pirateria. Pechino mette gli scarponi sul terreno.

E il 16 febbraio 2022 il direttore generale della polizia del Mali, Soulimane Traoré, ha ricevuto l’ambasciatore cinese, Chen Zhihong. Il diplomatico ha ribadito che la Cina si impegnerà «nel rafforzare gli equipaggiamenti delle forze di sicurezza del Mali nel quadro di una cooperazione dinamica e reciprocamente vantaggiosa».

Souleyman traoré_Bamako

L’asse che si è creato tra Cina e Russia sul fronte della crisi ucraina, si potrebbe ripresentare anche in Africa, in particolare in quella parte di Sahel abbandonato dall’Occidente. Entrambi i paesi potrebbero avere vantaggi da questo legame. La Russia ha poco da offrire sul piano economico, ma molto su quello militare, la Cina è una presenza consolidata, ma sempre attenta a non interferire negli affari interni dei paesi dove fa affari. La sinergia Pechino-Mosca potrebbe avere vantaggi per entrambi. Di sicuro, nonostante il ritiro occidentale, l’incubo Afghanistan è stato spazzato via e nel Sahel si parla sempre di più russo e mandarino.

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Non ci si salva da soli nella Guerra dei vaccini https://ogzero.org/la-guerra-dei-vaccini-nessuno-si-salva-da-solo/ Sat, 29 May 2021 08:17:40 +0000 https://ogzero.org/?p=3676 La Guerra dei vaccini è iniziata. Sotto il benevolo ombrello “non ci si salva da soli”, le potenze occidentali hanno cominciato a capire che uno strumento diplomatico fondamentale per riconquistare mercati, prestigio e influenza in Africa passa, appunto, dai vaccini. Russia e Cina hanno cominciato la loro sfida da molti mesi. L’Occidente l’ha lanciata prima, […]

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La Guerra dei vaccini è iniziata. Sotto il benevolo ombrello “non ci si salva da soli”, le potenze occidentali hanno cominciato a capire che uno strumento diplomatico fondamentale per riconquistare mercati, prestigio e influenza in Africa passa, appunto, dai vaccini. Russia e Cina hanno cominciato la loro sfida da molti mesi. L’Occidente l’ha lanciata prima, durante il minivertice africano di Parigi e poi con il Global Health Summit di Roma.

La sfida dietro ai brevetti

Washington

Pregevole, e per nulla scontata, l’iniziativa del presidente americano Joe Biden di “sospendere i brevetti” e trasferire tecnologie per la produzione dei vaccini nel continente africano.

 

La Direttrice Generale della World Trade Organization (WTO), Ngozi Okonjo-Iweala, ha dichiarato che sospendere i brevetti sui vaccini garantirebbe ai paesi in via di sviluppo un accesso equo alla vaccinazione il più rapidamente possibile.

Immediatamente gli ha fatto eco il suo omologo francese, Emmanuel Macron, e poi la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. Parole importanti, piene di significato politico, forse anche umanitario, ma non può sfuggire che la mossa occidentale ha più il sapore della sfida a Russia e Cina che un vero e pregevole impegno per aiutare l’Africa a vaccinarsi. Ma andiamo per ordine.

Parigi

Oltre alle questioni legate al finanziamento delle economie africane, i partecipanti al vertice di Parigi, che si è tenuto sul tema il 18 e il 19 maggio, hanno affrontato le problematiche relative alla distribuzione dei vaccini anti-Covid-19 in Africa.

La richiesta, arrivata da un po’ tutte le parti in causa, è, appunto, l’eliminazione dei brevetti “per consentirne la produzione in Africa”.

Di questo si è fatto portavoce il presidente francese Emmanuel Macron che nella conferenza stampa finale ha aggiunto: «Chiediamo all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) e al Medicines patent pool di rimuovere tutti i vincoli in termini di proprietà intellettuale che bloccano la produzione di alcuni tipi di vaccini».

La paura delle potenziali varianti

Macron, dopo aver citato la lentezza della vaccinazione come uno dei principali problemi del continente, ha quindi fissato l’obiettivo di vaccinare il 40 per cento delle persone in Africa entro la fine del 2021, sottolineando che «la situazione attuale non è sostenibile, è ingiusta e inefficiente». Secondo il presidente francese infatti «non riuscendo a vaccinare gli africani si rischia di far emergere nel continente varianti di Covid-19 potenzialmente pericolose che poi potrebbero diffondersi in tutto il mondo». La direttrice del Fondo monetario internazionale (Fmi) Kristalina Georgieva ha avvertito che la mancata accelerazione del lancio del vaccino in Africa avrebbe anche conseguenze economiche: «È chiaro che non c’è un’uscita duratura dalla crisi economica se non si esce dalla crisi sanitaria». «Dobbiamo sostenere l’Africa nella costruzione delle proprie industrie e infrastrutture sanitarie.

«Il Team Europe lancerà un’iniziativa per aiutare a potenziare la produzione di vaccini in Africa, trasferendo le tecnologie necessarie», questo l’impegno preso dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen.

Roma

Durante il vertice di Roma l’Unione europea, infatti, ha promesso di impegnarsi per creare capacità produttiva nei paesi africani. Il continente, oggi, importa il 99 per cento dei vaccini.

L’iniziativa è a tutto tondo: investimenti in infrastrutture e impianti di produzione, sostegno alla gestione e la definizione del quadro normativo.

L’idea di fondo è quella di creare degli hub regionali così da dare impulso al trasferimento di tecnologie per la produzione di vaccini, ma anche di altro materiale sanitario.

Covax delay

Oltre alle difficoltà nella produzione locale, ad avere un impatto negativo nella copertura vaccinale dell’Africa sono i ritardi nelle consegne dei lotti. Dall’arrivo delle prime dosi di vaccino previste dal programma Covax dell’Oms, molti paesi africani hanno segnalato, nelle ultime settimane, ritardi nella consegna dei secondi lotti. A confermarlo a metà aprile è stato John Nkengasong, direttore dell’agenzia Africa Centres for disease control and prevention (Africa Cdc). E il Ruanda ha dovuto interrompere la vaccinazione contro il coronavirus a causa dei ritardi nelle consegne. A Roma, poi, si sono registrate promesse di nuovi finanziamenti per il programma Covax sia da parte di governi sia di case farmaceutiche.

In ogni caso, allo stato attuale, il programma è ampiamente sottofinanziato.

L’obiettivo dichiarato al termine del Glogal health summit è quello di arrivare a un accordo entro il vertice del G20 che si terrà alla fine di ottobre. Insomma, i negoziati, se mai inizieranno, saranno lunghi.

Ankara

All’appuntamento con la storia, poi, non poteva mancare il sultano di Ankara, che di affari in Africa ne ha molti ed è tutto teso ad ampliare la sua sfera di influenza sul continente. Anche lui ha chiesto un accesso equo per tutti i paesi. «Ci sono gravi ingiustizie nell’acquisizione dei vaccini», ha detto Recep Tayyip Erdoğan, e l’80 per cento di essi sono stati acquistati dai paesi ad alto o medio reddito. «Sebbene la maggior parte della popolazione nei paesi sviluppati sia stata vaccinata almeno con una dose, questo tasso non ha nemmeno raggiunto l’1 per cento nell’Africa subsahariana».

Iniziative sanitarie e finanziarie

Dosi gratis subito

Non vi è dubbio che tutte queste iniziative siano lodevoli. Macron chiede che venga vaccinato il 40 per cento della popolazione africana, ciò significa, grosso modo, 600 milioni di persone entro il 2021. Per raggiungere l’obiettivo, oltre a un’imponente macchina logistica, occorre fornire al continente più di un miliardo di dosi. Sospendere i brevetti e trasferire tecnologie servirà per il futuro, non certo per il presente. Sicuramente porterà sviluppo. Ma per raggiungere l’obiettivo fissato dal presidente Macron si deve fare uno sforzo in più e subito:

donare le dosi in eccesso prodotte dai paesi occidentali. Non si può aspettare che l’Africa sia in grado da sola di produrre vaccini. Donare dosi o, come intende fare Big Pharma, venderle a un prezzo calmierato, senza guadagno.

Vedremo se sarà in grado di farlo.

Finanziamenti gratis subito

G20

Al vertice di Parigi, poi, si è discusso di finanziamenti per sostenere le economie africane. Una decisione è stata presa. È stata confermata l’emissione di Diritti speciali di prelievo (Dsp) per un importo di 33 miliardi di dollari per l’intero continente, di cui 24 per l’Africa subsahariana. Il Dsp non è altro che una sorta di assegno convertibile in dollari, distribuito in proporzione al peso specifico dei paesi e al loro contributo alle risorse. In molti considerano il Dsp come una moneta del Fondo monetario internazionale. Denari concessi a prestito e a tasso zero. Comunque, da restituire. Il G20, tuttavia, si era detto favorevole all’emissione di diritti speciali fino a 650 miliardi di dollari.

La società civile, invece, proponeva di emettere diritti per almeno 3000 miliardi di dollari, così da creare una massa di liquidità considerevole per rilanciare le economie africane.

Nella dichiarazione finale i partecipanti al minivertice di Parigi hanno detto di fare affidamento sul sistema finanziario internazionale. È necessaria «una decisione rapida su un’assegnazione generale di Dsp per un importo senza precedenti, che dovrebbe raggiungere 650 miliardi di dollari, di cui quasi 33 miliardi destinati ad aumentare le attività di riserva dei paesi africani e a implementarlo appena possibile, e chiediamo ai paesi di utilizzare queste nuove risorse in modo trasparente ed efficiente», si legge nella nota finale.

Abidjan

Uno sforzo multilaterale che coinvolgerà la rete di Banche pubbliche di sviluppo africane, che coinvolgono la Banca africana per lo sviluppo (Afdb) – con sede ad Abidjan – e istituzioni finanziarie pubbliche nazionali e regionali. «Per alleviare le economie africane che soffrono di vulnerabilità legate al loro debito pubblico estero, i creditori del G20 e del Club di Parigi agiscono come concordato nel comunicato stampa dei ministri delle Finanze e dei governatori delle banche Centrali del G20 ad aprile e il quadro comune per i trattamenti del debito oltre la Debt service suspension initiative (Issd) adottata nel novembre 2020», hanno approvato i firmatari. Tradotto in soldoni significa moratoria del debito per il 2020 e il 2021. Per promuovere la crescita e la creazione di posti di lavoro, i partecipanti hanno espresso sostegno alle strategie nazionali africane accogliendo con favore l’ambizione di sviluppare un’alleanza per l’imprenditorialità in Africa, che avrà un’ampia portata panafricana e garantirà un posto preponderante per le aziende.

Questa alleanza, nelle intenzioni, renderà possibile mobilitare tutti i partner che desiderano mettere risorse finanziarie e tecniche al servizio dello sviluppo del settore privato in Africa.

Pieno appoggio all’iniziativa del G20 sul sostegno all’industrializzazione in Africa e nei paesi meno sviluppati, del partenariato del G20 con l’Africa, Compact with Africa.

Parole importanti e belle. Anche qui i tempi non sono propriamente brevi. Nelle prossime settimane verranno avviati i lavori tecnici, che dovrebbero sfociare in un accordo politico tra giugno e ottobre. Buon per loro. Insomma, un New Deal per l’Africa attraverso la creazione di nuove linee di credito. Anche qui staremo a vedere come e quando questi pronunciamenti si tradurranno in fatti concreti.

ReleaseG20: riconvertire il pagamento del debito in investimento

Roma

Insomma, timidi passi in avanti. Anche la rete di ong Link2007 giudica positivamente, almeno vede nelle affermazioni finali un passo in avanti per l’Africa. Il presidente della rete di ong, Roberto Ridolfi, spiega a “InfoAfrica”, che ci sono diversi punti da evidenziare: «Il primo è che al vertice non hanno partecipato tutti i paesi africani e non hanno partecipato tutti i paesi del G20, una partecipazione significativa, ma non massiccia». Per Ridolfi ci sono stati alcuni messaggi importanti, come quello sui diritti speciali di prelievo, che, tuttavia, «non bastano. Parliamo di 33 miliardi per tutta l’Africa su un totale sollecitato di 650». E poi c’è la questione che riguarda la vulnerabilità dei paesi africani. «Questa richiede un’attitudine diversa delle banche di sviluppo, più propensa al rischio. Le banche di sviluppo devono essere capaci di prenderlo questo rischio». C’è poi la sospensione dei pagamenti dei debiti: «Non è sufficiente, noi di Link2007 lo abbiamo detto più volte ed è ciò che portiamo avanti con la nostra proposta ReleaseG20, che il gruppo di lavoro e sviluppo del G20 mi sembra stia prendendo in considerazione: cancellare laddove possibile ma in larga parte riconvertire il pagamento del debito in un’azione di investimento verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile», una sorta di recovery fund per i paesi fragili. «Si menziona poi un’alleanza con il settore privato, che va alimentata e per questo torno sul fondo di riconversione del debito – conclude Ridolfi – che può essere costituito a livello nazionale e diventare un fondo Sdgs (Sustainable development goals founds, un meccanismo di cooperazione internazionale a favore dello sviluppo sostenibile) per alimentare e proteggere gli investimenti privati».

Durante il vertice francese la parola sostenibilità non è stata mai menzionata.

Parigi, Africa

Al vertice di Parigi non hanno partecipato tutti i paesi africani e nemmeno tutti quelli del G20, ma quelli che contano sì: dalla Cina all’Arabia Saudita, dagli Stati Uniti agli Emirati, dal Giappone al Portogallo, dalla Germania all’Italia e altre ex potenze coloniali. Per quando riguarda l’Africa i paesi strategici c’erano tutti: dal Sudafrica all’Angola, dal Congo alla Costa d’Avorio, dall’Egitto al Kenya, dalla Nigeria al Ruanda.

Situazioni ufficiali, parate e discorsi…

… In coda per ricevere il vaccino…

 

 

 

 

 

 

 

 

… o per ricevere aiuti alimentari…

Un minivertice, dunque, con il quale Parigi intende riaffermare e sviluppare la sua presenza nel Continente, nonché la sua influenza.

All’Africa, tuttavia, non servono parole. E non ha bisogno nemmeno che diventi terreno fertile per un’altra guerra diplomatica tra potenze occidentali. Servono fatti e subito. In cinque parole: l’Africa-ha-bisogno-di-giustizia.

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n. 3 – Nigeria: la natura ibrida delle minacce https://ogzero.org/n-3-nigeria-la-natura-ibrida-delle-minacce/ Sun, 11 Apr 2021 08:21:46 +0000 https://ogzero.org/?p=2918 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

L'articolo n. 3 – Nigeria: la natura ibrida delle minacce proviene da OGzero.

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il terzo contributo, focalizzato sulla Nigeria.


n. 3

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


L’importanza degli attori non statali

La proliferazione di attori non statali in grado di acquisire sempre un ruolo di maggior potere rispetto alle istituzioni, ossia le propagazioni del governo centrale democraticamente eletto, riscontrata nella zona del Sahel, è altresì presente in Nigeria, in particolare, per quanto riguarda i gruppi jihadisti, nell’area nordest del paese, ossia negli stati di Adamawa, Bauchi, Borno, Gombe, Taraba e Yobe e in tutto il territorio nazionale per quanto riguarda le bande criminali.

La causa di tale fenomeno si può individuare, come nel caso del Sahel, nell’assenza di un potere del governo centrale incapace di intercettare i bisogni socio-economici della nazione e che mostra un deficit dal punto di vista securitario. Questo pone la Nigeria nella difficile e drammatica condizione, visti i recenti e i meno recenti episodi di rapimenti e uccisioni ai danni di civili, di dover ricorrere a banditi locali e vigilantes per poter assicurare il pieno soddisfacimento delle istanze securitarie in alcune realtà rurali periferiche e di sottomettersi alla presenza dei movimenti estremisti jihadisti ai quali non riesce più a far fronte.

Infatti, nonostante gli aiuti anche da parte della comunità internazionale per la lotta al terrorismo jihadista, il sistema militare e quello delle forze di sicurezza speciali si dimostrano da anni fallimentari fino ad arrivare essi stessi a costituire un pericolo per la sicurezza e la vita della popolazione civile che è la prima vittima di questa condizione.

Corruzione e insicurezza alimentare

A ciò si aggiungono i problemi di corruzione che interessano il paese, soprattutto per quanto riguarda il sistema giudiziario, per cui è vana la perseguibilità giuridica di alcuni atti contro i civili da parte delle forze armate e di polizia, e la vendita illecita di armi che sta divenendo sempre più esponenziale, data la permanente situazione di belligeranza all’interno del paese, così come quella dell’insicurezza alimentare.

Makoko (foto Dan Ikpoyi)

Per quanto riguarda l’aumento della presenza e del ruolo degli attori non statali in Nigeria, rispetto all’attuale potere del governo di Abuja, occorre soffermarsi in primo luogo sul ruolo delle “milizie popolari di autodifesa”.  Il 17 febbraio 2021, infatti, il ministro della Difesa nigeriano Bashir Salihi Magashi ha dichiarato che è necessaria la mobilitazione dei cittadini per fronteggiare con successo le attività di contrabbando, estorsione, saccheggio, rapimenti, furti, sfruttamento della prostituzione, nonché di traffico di migranti che stanno coinvolgendo tutte le aree della Nigeria.

Il ministro in questa circostanza si riferiva particolarmente al fenomeno del banditismo e della criminalità organizzata, più che a quello del terrorismo jihadista, anche se entrambi i fenomeni sono fonte di seria preoccupazione da parte del governo guidato del presidente Muhammadu Buhari.

Criminalità di stato e “milizie di autodifesa popolare”

Lo scenario in cui si trova infatti il paese è altamente complesso: da una parte vi sono tali gruppi di banditi criminali, dall’altra si riscontra, ormai da anni, la presenza di jihadisti legati all’islam dell’area mediorientale e del Maghreb con lotte interne e separatismi come è avvenuto nel caso dell’Iswap.

Da un altro lato ancora, vi sono gli atti criminali compiuti dagli stessi militari e dalle forze speciali di polizia, le Sars, contro i civili proprio nella lotta al banditismo e al terrorismo di stampo jihadista. Il Tribunale penale internazionale permanente ha confermato, infatti, a conclusione delle indagini preliminari avviate nel 2010, che sia Boko Haram sia le forze armate nigeriane hanno commesso gravi crimini di diritto internazionale contro la popolazione civile.

È chiaro, quindi, che lo stato nigeriano al momento si trovi in una situazione di difficoltà e che, almeno per quanto riguarda le bande criminali, ha lasciato intendere che non è in grado di fronteggiare il problema attraverso le proprie forze militari, di sicurezza e di polizia e sta chiamando sorprendentemente lo stesso popolo in suo aiuto. Le mancanze strutturali di uomini e di mezzi nell’esercito e nelle forze di polizia è ormai noto e per questo spesso il ministero della Difesa e dell’Interno affidano i servizi di sicurezza a organizzazioni locali, ossia ad altre bande armate reclutate su base geografica o etnico-tribale, chiamate appunto “milizie di autodifesa popolare”.

Nelle regioni meridionali la criminalità si contraddistingue per la presenza di confraternite pari alle cosiddette mafie internazionali e, sempre a sud, nella regione del Delta del Niger vi sono elementi armati indipendentisti, bande di pirati, contrabbandieri di carburanti e ladri di petrolio. Nella fascia centrale invece si rilevano molteplici scontri tra le comunità nomadi pastorali e quelle sedentarie rurali sempre per l’accesso alle risorse del suolo.

Il jihadismo e le differenze etniche

A ciò si aggiunge, come già accennato, a nord della Nigeria, il fenomeno dei jihadisti, primi fra tutti Boko Haram e lo Stato Islamico in Africa Occidentale. Il problema, quindi, è che non è di facile individuazione la provenienza di determinati atti criminali, come stiamo vedendo per i recenti rapimenti nel paese, non essendoci una linea netta in grado di dividere criminalità, insorgenza etnica e terrorismo a livello locale.

Per questo il governo nigeriano, date le aree di promiscuità di tali gruppi e la natura ibrida delle minacce, ha deciso di delegare le funzioni di sicurezza alle milizie popolari di autodifesa dei villaggi che già combattono da tempo in prima linea.

Tuttavia, tale fenomeno, lungi dall’essere risolutore del problema securitario nel paese, può costituire esso stesso un’ulteriore condizione di instabilità come è avvenuto, nella zona centrale della Nigeria, con i gruppi di autodifesa Ya sa kai di etnia hausa, muniti di rudimentali armi di difesa e dei gruppi armati di autodifesa di etnia fulani, muniti di armi maggiormente sofisticate, sovvenzionate con attività criminali come i rapimenti.

Inoltre, data la presenza dell’etnia fulani, anche nel Nord del paese all’interno delle organizzazioni terroristiche jihadiste, queste milizie di autodifesa spesso sono state sfruttate dagli stessi jihadisti beneficiando del loro supporto logistico e di addestramento. In questo modo lo stato, che in questa circostanza già era in difficoltà proprio per la creazione di milizie di autodifesa, si è trovato ancora più incapace di gestire lo scontro tra l’etnia hausa e quella fulani.

Negli ultimi dieci anni le violenze dei gruppi di autodifesa hanno creato più di 15.000 vittime, numero più elevato di quello dei movimenti terroristi; quasi ogni tentativo di dialogo con questi gruppi armati è stato fallimentare in quanto questi sono privi di una struttura unitaria e divisi al loro interno a seconda del capo villaggio o il capo tribù.

La “protezione” delle milizie di autodifesa

Inoltre, deve essere sottolineata la proliferazione di armi di cui questi gruppi si sono nel tempo dotati ossia soprattutto fucili d’assalto. Chiaramente, rileggendo le dichiarazioni del ministro della Difesa nigeriano, alla luce di quanto finora esposto, è legittimo chiedersi se questa tattica politica, nell’ipotesi in cui le milizie di difesa fossero percepite dal governo come efficaci a proteggere le popolazioni locali, sarebbe realmente opportuna in uno stato, come quello nigeriano, nel quale  le istituzioni statali sono già al collasso o se invece creerebbe uno scontro ancora maggiore tra esso  e le singole comunità locali.

La soluzione migliore sarebbe quella di integrarle in strutture nazionali ufficiali che ne possano facilitare l’addestramento e soprattutto il loro controllo, senza venir meno all’impegno primario del governo a implementare e migliorare le proprie forze armate e quelle di polizia nel paese.

“End Sars”

A conferma della necessità di migliorare le forze armate e di polizia occorre ricordare l’ondata di proteste avvenute lo scorso 7 ottobre 2020, contro le Sars (Special Anti Robbery Squad), ossia le forze speciali di polizia, che ha interessato la Nigeria con una nuova eco anche fuori dal territorio nazionale e con una forza propulsiva che ha investito profondamente  il paese al suo interno.

L’evento scatenante si è verificato il 4 ottobre 2020: è stato divulgato in rete un video di un uomo innocente ucciso dalle Unità speciali della polizia nigeriana. Le proteste sono state portate avanti spontaneamente soprattutto da ragazzi con un’età compresa tra i 20 e i 30 anni con grande eterogeneità della classe di appartenenza, di religione e di provenienza. I giovani, in tale occasione, hanno chiesto una vera riforma delle forze di polizia in Nigeria in modo particolare il riconoscimento delle responsabilità delle azioni da queste compiute mediante una riforma del sistema giudiziario che possa essere in grado di promuovere e sostenere un’azione legale nei confronti degli appartenenti alle Sars che hanno compiuto atti violenti senza ragione a danno di civili.

Le Sars, infatti, costituite nel 1992 con l’intento di creare un corpo specializzato per il contrasto delle rapine e di crimini nel paese, sono oggi accusate di abusi, di prevaricazioni, di esecuzioni extragiudiziarie. Amnesty International ha stimato che dal 2017 al 2020 sono state 82 le vittime di esecuzioni extragiudiziali da loro commesse.

La reazione del governo in seguito alle proteste è stata considerata insoddisfacente dai manifestanti. Il presidente Muhammadu Buhari ha ordinato infatti lo scioglimento delle Sars, ma a buona parte della popolazione è sembrata un’operazione fittizia in quanto anche in passato era stato promesso il loro scioglimento senza mai realizzarlo. Poiché le proteste si sono esacerbate con il passare dei giorni, il governo ha optato per una forte repressione popolare tanto che Amnesty International ha stimato che siano circa 50 le vittime in conseguenza di tali manifestazioni anti-Sars. Anche per questo l’attuale presidente viene considerato da molti nigeriani incapace di governare, pur se non considerato “corruttibile” come altri politici, un paese così complesso e dinamico come la Nigeria.

Pressioni al governo di Abuja sono state rivolte anche da attori internazionali come Joe Biden, Clinton, il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres e da parte dell’Unione Europea. Infine, rispetto a quanto detto sinora va segnalato il rapporto di Amnesty International My heart is in pain, in cui la nota organizzazione internazionale accusa i militari nigeriani di violazioni dei diritti umani a danno dei civili proprio nel combattere il pericoloso gruppo jihadista presente da diversi anni in Nigeria.

Boko Haram: la trasformazione

Infatti, l’altro attore non statale, autore di molteplici atti criminali e di conflitti armati in Nigeria, è il gruppo terroristico jihadista Boko Haram. Come accennato in principio la zona del Nord della Nigeria e gli stati che ne fanno parte hanno subito principalmente le attività del gruppo jihadista con un conseguente peggioramento della situazione di insicurezza e di arresto di ogni potenziale attività di sviluppo nell’area.

Il termine Boko Haram significa “proibizione dell’educazione occidentale”. In particolare, la parola del dialetto hausa “Boko” sta per libro o educazione occidentale, mentre “Haram” sta per proibita o per peccato. Questa infatti era l’idea della setta (cui nome tradotto è “persone impegnate nella diffusione degli insegnamenti della jihad del profeta”) che ha dato origine al gruppo terroristico nel 2002 a Maiduguri nello stato di Borno, nella parte nordoccidentale del paese, non lontano dai confini con il Niger, il Ciad e il Camerun.

Il gruppo viene costituito in ragione di una delusione percepita da parte di alcuni nigeriani delle forme occidentali di governo, responsabili di ingiustizie, corruzioni, malversazioni. L’imam Mohamed Youssuf che fondò Boko Haram nel 2002, anche per costruire la sua moschea, ottenne finanziamenti dal governatore dello stato di Kano e da quello dello stato di Borno. All’epoca la creazione del gruppo non fece notizia neanche in Nigeria e il gruppo tra il 2002 e il 2009 aveva adottato modalità d’azione pacifiche. Nel 2009, invece, l’imam Mohamed Youssuf fu arrestato e ucciso in carcere dopo una presunta insurrezione da lui guidata nella città di Maiduguri, capitale dello stato di Borno. Sia l’arresto sia l’uccisione del predicatore hanno determinato un punto di svolta per il gruppo: fino allora, infatti, Boko Haram era stato un gruppo di integralisti che protestavano pubblicamente in modo minaccioso con bastoni e machete, contro le scuole di tipo occidentale a causa, a loro dire, del progressivo allentamento dei costumi, contro la polizia che non puniva malavitosi e commercianti di alcol e, infine contro la dilagante corruzione dei politici e dei militari. Nel 2009, però, dopo l’uccisione, Mohammed Youssuf è stato sostituito da Abubakar Shekau e Boko Haram ha cambiato strategia provocando morti, sia avvalendosi progressivamente di un uso più indistinto della violenza per perseguire i suoi obiettivi, sia impiegando armi pericolose, come missili, granate, ordigni esplosivi improvvisati, carri armati, machete e pugnali. Gli obiettivi del gruppo erano semplici individui, istituzioni statali e religiose, polizia, esercito, scuole non solo nel nord-est della Nigeria ma anche in Camerun, Ciad e Niger. Il gruppo si è reso autore anche di incendi di case, di mercati, di attentati suicidi, e di rapimenti ed uccisioni di operatori umanitari, predicatori, viaggiatori, scolari e donne nonché di stupri.  Quindi già nel 2014, Boko Haram aveva acquisito all’interno del gruppo oltre ad armi più sofisticate, un buon numero di combattenti esperti, una buona capacità logistica, enormi riserve di esplosivo e militanti in grado di utilizzarlo con estrema perizia.

Le pressioni jihadiste esterne

Infatti, era intuibile che interessi locali, sia politici che economici, traevano profitto dall’esistenza del gruppo jihadista e in particolare su Boko Haram si avvertirono anche pressioni esterne provenienti dal jihadismo mediorientale e maghrebino dello Stato Islamico di al-Baghdadi che vedevano nei territori della Nigeria del Nord un califfato con il cuore nell’Africa.

Nel rapporto pubblicato da Amnesty International nel 2015 si denuncia l’efferatezza del regno del terrore imposto da Boko Haram nel contesto della Nigeria. Infatti, l’anno precedente, nel 2014, si era verificato il rapimento di 276 studentesse a Chibok, nello stato di Borno. Tuttavia, le studentesse rapite nel 2014 sono solo una piccola parte delle donne, delle bambine, degli uomini e dei bambini rapiti da Boko Haram. Delle duemila donne e bambine rapite dal 2014 molte sono state ridotte in schiavitù sessuale e addestrate a combattere. Nel rapporto Il regno del terrore di Boko Haram si documentano almeno 3000 raid e attacchi compiuti dal gruppo contro i civili e che, dopo il rapimento delle studentesse, sempre nel 2014, il 6 agosto a Gwozwa, ha ucciso 600 persone. Nel rapporto si leggono anche i tratti distintivi del regno del terrore imposto da Boko Haram: appena conquistato un centro il gruppo armato raduna la popolazione per annunciare le limitazioni dei movimenti, specialmente per le donne. Le famiglie a quel punto dipendono dai bambini che possono uscire a cercare cibo o se fortunate durante le visite del gruppo terrorista possono ricevere da questo del cibo saccheggiato altrove. A questo punto chi non prende parte alle preghiere rischia le frustate in pubblico. Nello stesso anno in cui è uscito tale rapporto, la setta ha giurato fedeltà allo Stato Islamico in Iraq e ha cambiato il suo nome in Stato Islamico nella Provincia dell’Africa Occidentale (Iswap). Tuttavia, sempre nel 2015, il gruppo ha subito una scissione per cui una fazione ha continuato a usare il nome di Boko Haram e un’altra ha mantenuto quella di Iswap.

Le cause economiche, politiche e religiose

Le principali cause degli incessanti conflitti nel paese e dell’insurrezione nella parte nordoccidentale della Nigeria sono di tipo economico, politico e religioso. Gli elementi economici sono da individuarsi nella povertà, nella diseguaglianza, nella disoccupazione o nel basso livello di istruzione. Le cause politiche devono invece essere attribuite alla cattiva governance, all’elevato livello di corruzione e all’utilizzo e poi all’abbandono di bande armate e infine all’impiego di armi.

La componente religiosa, invece, alla base del conflitto, è correlata all’estremismo e alle ideologie tramandate e radicate nelle comunità nel tempo. Inoltre, altro aspetto da sottolineare è che il reclutamento all’interno del gruppo jihadista comporta una notevole assistenza sotto forma di denaro, cibo, riparo e abbigliamento che, in un paese in cui il livello di povertà è molto alto, costituisce una forte attrazione all’arruolamento. Chiaramente, tuttavia, l’idea del benessere percepita da alcuni giovani che si inseriscono tra i militanti del gruppo jihadista è una mera illusione: il terrorismo in Nigeria non ha fatto altro che aumentare il livello di insicurezza, di povertà, il tasso di analfabetismo, così come la delocalizzazione delle imprese, con una conseguente diminuzione anche dei progetti di sviluppo pubblico e privato così come dei finanziamenti a favore del paese.

Nel corso degli anni, varie strategie sono state messe in atto senza successo dal governo, con l’intento di negoziare con la setta e, nel 2017 è stata istituita la Commissione dello Sviluppo del Nordest con l’obiettivo di stanziare i fondi internazionali e dei governi federali per riabilitare l’area spesso oggetto di distruzione e con l’intento di affrontare povertà e diminuzione dell’alfabetizzazione provocate dallo stesso terrorismo. Le iniziative poste in essere per il contrasto al terrorismo, in un primo momento, sembravano avessero prodotto alcuni risultati positivi. Ciò è avvenuto con il passaggio nel 2015 dall’amministrazione di Jonathan Goodluck a Buhari che aveva promesso di sconfiggere il gruppo terrorista in sei mesi. L’esercito in quell’occasione aveva ricevuto un migliore addestramento grazie anche ad Usa e Regno Unito e aveva cooptato un gruppo di vigilantes locali e una task force civile. Infatti, vennero liberati diversi ostaggi sia nel 2015 che nel 2017 e nel 2018. Tuttavia, molti ostaggi a oggi non sono stati ancora liberati e attualmente si registra una recrudescenza dell’attività della setta che sembrerebbe da attribuire proprio al coinvolgimento del gruppo internazionale jihadista Iswap.

Tra il 2018 e il 2020 il gruppo ha ucciso diverse persone tra cui civili e operatori umanitari. Da qui la richiesta dell’Assemblea nazionale nigeriana di licenziare i vertici militari e di nominarne di nuovi come il presidente Buhari, all’inizio reticente, cosa che ha fatto il 26 gennaio del 2021.

In questi ultimi anni Boko Haram ha messo in atto diversi tipi di attacchi tra cui la guerriglia, il posizionamento di mine terrestri contro i militari e la raccolta di informazioni di intelligence tra le truppe militari. Non si intravede quindi la fine del conflitto dell’autorità statale contro il gruppo terroristico che sta continuando a intensificarsi ed è ancora molto attivo nel Nord del paese. La pandemia, che in Nigeria si è diffusa alla fine del 2019, ha peggiorato la situazione in un paese che, già in lotta contro il terrorismo, ora deve lottare anche contro la propagazione di un virus.

I recenti tragici eventi, soprattutto rapimenti, che hanno interessato la Nigeria in modo particolare dalla fine del 2020 a oggi, sono espressioni proprio della presenza dei due attori non statali precedentemente descritti: il terrorismo di stampo jihadista – anche con la sua ala scissionista – e i gruppi di banditi, fortemente armati e violenti, appartenenti a determinati gruppi etnici. Di seguito si segnalano alcuni dei più recenti e importanti accadimenti.

Gli eventi più recenti

Il 16 dicembre del 2020 sono stati sequestrati nello stato nordoccidentale di Katsina circa 800 studenti. Il rapimento ha subito rimandato in mente, per modalità e strategia, al rapimento del 2014, nella stessa regione, a danno delle 276 ragazze nigeriane.

Tuttavia, questa volta, nonostante la rivendicazione da parte di Boko Haram, le autorità nigeriane hanno parlato piuttosto di un rapimento eseguito da banditi locali, fenomeno, come già detto, spesso attiguo alle violenze dei jihadisti nel Nordest del paese.

I sequestri in quest’ottica sono compiuti dai gruppi di banditi violenti per ottenere visibilità e riscatti. Alla base c’è la nota competizione, di lungo periodo, tra i pastori nomadi di etnia fulani e gli agricoltori di etnia hausa, protetti costantemente da banditi e vigilantes. L’attacco e il rapimento degli studenti a Kankara è avvenuto durante una visita del presidente nigeriano Buhari, originario proprio della regione di Katsina.

È del 25 novembre 2020 la notizia del rapimento, confermato anche dall’Unicef, di 317 studentesse nello stato nordoccidentale di Zamfara, anche questa volta compiuto da gruppi armati non identificati. Si tratta del secondo sequestro di questo tipo in poco più di una settimana.

Nello stesso periodo, inoltre, uomini armati probabilmente affiliati a Boko Haram o a qualcuno dei suoi gruppi terroristi satelliti avrebbero rapito, secondo “Africa ExPress”, più di 400 studentesse in un college statale situato sempre nello stato nigeriano di Zamfara.

Il 2 marzo del 2021, tuttavia, le circa 300 giovani rapite il 27 novembre 2020 sono state liberate. Secondo il governatore dello stato di Zamfara, il rilascio sarebbe stato frutto di un negoziato con i rapitori ma non è stato pagato alcun riscatto. Il numero effettivo delle ragazze liberate è di 279 perché, nelle ore successive al rapimento, alcune di loro sono riuscite a fuggire.

Quello degli attacchi e dei rapimenti nelle scuole è ormai un fenomeno persistente: negli ultimi dieci anni, nel Nord della Nigeria, circa 1500 scuole sono state distrutte, un migliaio di studenti sono stati rapiti e 2300 insegnanti sono rimasti uccisi.

Il 15 marzo si è verificato un nuovo rapimento in Nigeria: questa volta le vittime sono bambini che frequentavano una scuola primaria di Birnin Gwari nello stato di Kaduna e al momento sono trapelate pochissime informazioni: «Il governo dello stato di Kaduna sta attualmente provando a ottenere dettagli sull’effettivo numero di alunni ed insegnanti che si dice siano stati rapiti e rilascerà una dichiarazione esauriente il prima possibile», ha dichiarato il commissario statale per la sicurezza interna e gli affari esterni. I bambini, secondo il professor Hakeem Onapajo, docente a contratto presso il Dipartimento di Scienze politiche e Relazioni internazionali alla Nile University di Abuja, sono strategicamente importanti e interessanti sia per i terroristi, sia per le forze di sicurezza dello stato. Alla loro sicurezza non è stata prestata sufficiente attenzione dal governo nigeriano.

La questione è divenuta rilevante a partire dal 2013, anno in cui Boko Haram ha iniziato ad attaccare oltre che ospedali e centri per sfollati, anche scuole, come è avvenuto proprio in quell’anno con un raid lanciato contro un dormitorio notturno nello stato di Yobe in conseguenza del quale sono morti 44 scolari.

Negli ultimi cinque anni, tuttavia, l’ascesa del banditismo e, quindi non più soltanto l’intervento violento del gruppo jihadista Boko Haram, ha aggiunto una nuova e pericolosa dimensione degli attacchi contro i bambini: oltre a quelli già citati, sono da segnalare il rapimento dell’11 dicembre del 2020 di 333 studenti nello stato di Katsina e quello del 20 dicembre 2020 di 80 studenti sempre nello stesso stato.

Il rapimento di bambini, secondo il professor Onapajo, è diventato “strategico” per diverse drammatiche ragioni: sono uno strumento efficace per negoziare il rilascio dei membri di un gruppo in prigione e con il loro riscatto è possibile acquistare nuove armi; servono a ottenere maggiore visibilità internazionale e quindi l’alleanza di altri gruppi violenti presenti in Africa; i bambini possono essere utili in certe operazioni militari, come per esempio nel piazzare mine e, infine, le ragazze interessano per lo sfruttamento sessuale. Inoltre, il rapimento di bambini o bambine in età scolare, nel caso di attacchi da parte di Boko Haram, si allinea perfettamente al divieto della “cattiva educazione occidentale” da cui prende il proprio nome.

Gli attacchi all’Onu

Per quanto riguarda invece gli attacchi propriamente e indubbiamente jihadisti si segnala che nella notte del primo marzo 2021 due distinti gruppi hanno attaccato un campo militare e una base delle Nazioni Unite a Dikwa una città nello stato del Borno nella Nigeria settentrionale. Il conflitto, protrattosi per tutta la notte fino alla mattina del 2 marzo, non ha causato vittime nel personale grazie ai rinforzi militari giunti con uomini e mezzi dalle città vicine. L’operazione è stata rivendicata dall’Iswap, ossia lo Stato Islamico della Provincia dell’Africa occidentale, la nota fazione secessionista di Boko Haram, che come si riscontra dall’analisi dei recenti accadimenti, da circa due anni, opera nel Nordest del paese con azioni molto violente che riguardano non più solo le scuole ma, come detto in precedenza, anche militari e funzionari dell’Onu.

Fonti:

L'articolo n. 3 – Nigeria: la natura ibrida delle minacce proviene da OGzero.

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n. 4 – Senegal: Ousmane Sonko vs. Macky Sall. Esplode la rabbia https://ogzero.org/conflitti-e-instabilita-in-senegal-causa-di-migrazione-forzata/ Sun, 11 Apr 2021 08:21:19 +0000 https://ogzero.org/?p=3011 Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere […]

L'articolo n. 4 – Senegal: Ousmane Sonko vs. Macky Sall. Esplode la rabbia proviene da OGzero.

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Questo saggio fa parte di una raccolta di articoli che fornisce una panoramica sulla questione migratoria: analizzeremo insieme a Fabiana Triburgo le varie rotte che si sono delineate nel tempo a causa di conflitti o e instabilità che provocano questo fenomeno per giungere infine a un’analisi della normativa europea e delle alternative che potrebbero emergere da politiche più coraggiose e lungimiranti. Qui il quarto contributo, focalizzato sul Senegal.


n. 4

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  


L’instabilità politica e i recenti scontri in Senegal

Il Marzo senegalese

Il 4 marzo 2021, in Senegal, si è verificata un’ondata di proteste sollevate dalla popolazione civile, in particolare da parte dei giovani senegalesi, in conseguenza dell’arresto di mercoledì 3 marzo 2021 di Ousmane Sonko, leader del partito di opposizione Patriotes du Sénégal pour le travail, l’èthique et la fraternité (Pastef), e principale politico oppositore del governo del paese guidato dal presidente Macky Sall.

Il 3 marzo il deputato Sonko, dopo aver perso l’immunità parlamentare già il 26 febbraio, si stava recando in Tribunale, accompagnato da una folla di suoi sostenitori, poiché convocato per rispondere all’accusa di stupro e di minacce di morte nei confronti di una ragazza di vent’anni. Le accuse sono state avanzate contro di lui da parte di una dipendente di un salon de beautè, Salon che Sonko frequentava abitualmente per sottoporsi a dei massaggi per il mal di schiena. Sonko, arrivato terzo alle elezioni presidenziali del 2019, aveva precedentemente respinto ogni accusa professandosi innocente rispetto all’imputazione per stupro, e dichiarando che le «accuse infondate sono ormai lo strumento consolidato dall’attuale governo per rimuovere i candidati alle prossime elezioni». Le accuse a lui rivolte per stupro risultano, effettivamente, del tutto infondate e anche esponenti del partito Pastef dichiarano che i certificati medici smentiscono la violenza sulla donna e i suoi sostenitori parlano di un complotto finalizzato alla eliminazione di Sonko dalla scena politica.

In conseguenza delle manifestazioni popolari che lo hanno accompagnato mentre si recava in Tribunale, Sonko è stato poi arrestato immediatamente per i reati di “disturbo dell’ordine pubblico” e organizzazione di “manifestazione non autorizzata”. Da quel momento in poi per tre giorni a Dakar e nel sud del Senegal si sono accese forti proteste da parte della popolazione a sostegno di Sonko, soprattutto giovani, che hanno colto l’occasione anche per rivendicare diritti come quello della libertà di espressione, del rispetto della separazione dei poteri, in particolare quello giudiziario da quello esecutivo, e il divieto delle Forze di Polizia a compiere atti violenti contro manifestanti pacifici in opposizione al governo.

Più specificatamente gli attivisti hanno criticato: il licenziamento di Sonko dalla pubblica amministrazione senza possibilità di difesa solamente per aver parlato di un fascicolo contro il presidente Macky Sall – relativo al reato di appropriazione indebita (il cosiddetto 7 miliardi di Taiwan); la violenza usata dalle forze armate del governo contro una sostenitrice di Sonko e la sua uccisione; un seggio saccheggiato in esito alle votazioni del 2019 e la violazione del domicilio della madre di Sonko per recuperare fascicoli del Pastef che avevano causato l’arresto di un gendarme. Ancora, i manifestanti hanno sottolineato: la corruzione dilagante nell’affare milionario in mano al fratello dell’attuale presidente denunciato nel 2019; le accuse false su un presunto contributo della Tullow Oil rivolte a Sonko e la volontà espressa, tramite comunicato stampa del presidente, di sciogliere il partito Pastef con il fine di innovare le modalità di finanziamento delle sue attività.

Gli scontri e l’insurrezione antifrancese

Manifestazioni a Dakar per l’allontanamento di Macky Sall

Il Movimento per la difesa e per la democrazia M2D, considerata la forza di opposizione alla guida delle manifestazioni in seguito all’arresto di Sonko, aveva annunciato nella giornata di venerdì 5 marzo altri giorni di protesta. Tali proteste, tuttavia, sono sfociate in una vera e propria guerriglia urbana. I giovani urlando Liberate Sonko! hanno attaccato con lanci di pietre i poliziotti che hanno risposto con deflagrazioni e lanci di granate. Secondo la Croce Rossa senegalese 235 persone sono rimaste ferite nel corso delle proteste del 5 marzo a Dakar in centro durante le quali, secondo i media, sono state arrestate in modo arbitrario circa 100 persone. Otto invece sarebbero i morti secondo Amnesty International e in diversi quartieri a Dakar e in altre città del paese, nel quartiere di Medina così come nella regione di Casamance, ci sono stati altri scontri violentissimi.

Nella capitale si sono chiusi i negozi e si sono svuotate le strade lasciando spazio alla guerriglia urbana e il governo ha ordinato la chiusura delle scuole con “l’invito” contestuale ai genitori di tenere sotto controllo i propri figli manifestanti giovanissimi. Allo stesso tempo, il governo ha oscurato alcuni canali televisivi nazionali e ha limitato l’accesso alla rete internet durante i giorni degli scontri e ha controllato ossessivamente lo scambio di foto, messaggi e video su quanto stava accadendo.

OGzero aveva raccolto il 5 marzo la testimonianza di un intellettuale senegalese simpatizzante per l’opposizione a Macky Sall, che aveva potuto descrivere in diretta da Dakar gli eventi; questo il podcast:

“La rabbia di Dakar e la repressione di Sall”.

Inoltre, anche i senegalesi in Europa hanno organizzato delle manifestazioni e dei presidi, come è avvenuto con il presidio del 5 marzo di Milano al motto No alla dittatura. No alla violenza! e con un comunicato del Pastef a Napoli che ha dichiarato che in Senegal «sono riusciti a liquidare già due importanti leader di opposizione, di cui uno in esilio in Qatar e l’altro, appena uscito dal carcere, non ha più diritti civili. Ora stanno cercando di liquidare l’oppositore più forte Ousmane Sonko».

Le proteste in Senegal non hanno portato all’ascolto delle istanze sollevate dai manifestanti e il Ministero dell’interno senegalese le ha qualificate come atti di saccheggio e di vandalismo, nonché «atti di banditismo e di terrorismo» e ha promesso di utilizzare «tutti i mezzi necessari per un ritorno all’ordine», mentre il presidente Macky Sall, al potere da quasi dieci anni, si è trincerato inizialmente dietro un muro di silenzio.

Amnesty International ha invitato il governo senegalese a chiarire le circostanze che circondano la morte di un manifestante ed a spiegare le violazioni dei diritti umani dall’arresto di Sonko, il 3 marzo del 2021. I manifestanti sono stati infatti attaccati e arrestati dalle forze di sicurezza senegalesi, accompagnati da uomini in abiti civili e armati di mazze e, secondo la nota organizzazione umanitaria, la forza che hanno usato eccessivamente contro i manifestanti è una «chiara violazione del diritto internazionale e dei diritti umani» e ha invitato le autorità ad indagare sull’incidente e perseguire i responsabili delle violazioni.

In questa situazione è intervenuto il Mediatore della Repubblica, una carica istituzionale specifica del Senegal, Alioune Badara Cissè dicendo: «Abbiamo bisogno di compassione per la nostra gente. Finché restiamo al piano di sopra e pensiamo di non dover rendere conto a nessuno, gonfiamo il petto perché siamo stati criticati ma non faremo mai un lavoro utile». A tale intervento si è aggiunto quello dell’ex presidente Abdoulaye Wade che si è rivolto direttamente al presidente Macky Sall dicendo «alcuni magistrati cercano di indovinare cosa può piacere al presidente e lo fanno con zelo», riferendosi anche al caso del figlio che è stato liquidato giudizialmente alle ultime elezioni presidenziali. Il 7 marzo è stata anche diffusa una comunicazione congiunta dei paesi dell’Unione Europea e del Canada, della Corea del Sud, del Giappone, del Regno Unito, degli Stati uniti e della Svizzera che esprime preoccupazione per la vicenda politica in corso e che auspica una sua risoluzione pacifica. Del medesimo contenuto è stato anche il comunicato del 6 marzo del presidente dell’Unione Africana Moussa Faki Mahamat.

Liberazione di Sonko e seconda fase delle proteste

 L’ 8 marzo e per i tre giorni successivi è stata indetta, quindi, una mobilitazione pacifica per la liberazione del leader dell’opposizione Sonko proposta dalla piattaforma Aar Sunu democratie (Movimento per la difesa della democrazia) e organizzata da parte di un collettivo di oppositori anche sulla base dell’invito, del medesimo Sonko, che ha chiamato a partecipare alla manifestazione tutti i senegalesi “desiderosi di giustizia”.  Mobilitazione pacifica presentata come un’esortazione a comparire «in massa per le strade di Dakar e nelle regioni, dipartimenti, comuni e villaggi per 3 giorni da lunedì 8 marzo, giorno di lotta e affermazione dei diritti delle donne» che sono state invitate a uscire a fianco di figli e nipoti «per aiutarli nella loro ricerca di un futuro migliore».

 

Tuttavia, nella serata del 7 marzo, è intervenuta la revoca da parte del pubblico ministero del provvedimento di custodia cautelare a carico di Ousmane Sonko e delle sue guardie del corpo, con l’invito a Sonko di comparire il giorno seguente, ossia proprio l’8 marzo alle 11 di mattina davanti al decano dei giudici. A quel punto la manifestazione dell’8 marzo 2021 non c’è stata perché la popolazione civile, quando ha appreso la notizia della sua liberazione, è andata in massa verso Sonko e lo ha accompagnato per sostenerlo nel ritorno verso casa. Rimaneva un appuntamento alle ore 15 per un grande raduno pacifico dei manifestanti per celebrare tale liberazione, durante il quale, avrebbero parlato i leader dell’opposizione ma alcuni gruppi autonomi hanno ripreso gli scontri con la polizia ed è stato annullato.

L’8 marzo, le autorità hanno comunque rafforzato le misure di sicurezza e i controlli, hanno prolungato il divieto di circolazione di moto e motorini, e hanno comunicato la chiusura delle scuole. Dakar è stata blindata per diversi giorni durante i quali hanno sfilato i carri armati militari verso il quartiere nel quale sono ubicate la maggior parte delle istituzioni senegalesi.

Nonostante la revoca dell’arresto e la presentazione davanti al decano dei giudici, Sonko, leader del Pastef, è stato rilasciato su cauzione ma rimane sottoposto alle indagini giudiziarie, persistendo a suo carico ancora l’incriminazione per stupro e l’obbligo a presentarsi ogni quindici giorni dinanzi ai giudici. In seguito, il presidente Sall, una volta ascoltate soprattutto le autorità religiose senegalesi, che hanno sottolineato la gravità della situazione e la necessità di agire, lo stesso 8 marzo finalmente si è rivolto alla nazione, affermando di aver compreso le preoccupazioni dei giovani e ha strategicamente chiesto di far tacere il rancore ed evitare gli scontri come quelli verificatisi nei giorni precedenti, chiamando la popolazione civile al dialogo e alla collaborazione con il governo. Sall ha poi fissato per l’11 marzo la data di lutto nazionale per celebrare le vittime delle manifestazioni.

Sonko, pur libero per il momento, non ha risparmiato tuttavia accuse al presidente, in carica dal 2012, considerato «il responsabile degli accadimenti di questi giorni», ossia  di aver tradito il popolo senegalese e di perseguitare gli oppositori e ha reclamato la liberazione immediata di tutti i prigionieri politici chiedendogli altresì di dichiarare pubblicamente la propria volontà di non volersi più candidare, nel 2024, per un terzo mandato, mediante la modifica della costituzione vigente nel paese, consuetudine questa appartenente oramai a quasi tutti i leader degli Stati africani.

Mambaye, videomaker senegalese ha seguito la mobilitazione e il 9 marzo ha riassunto la situazione per Radio Blackout e OGzero, analizzando sia la composizione della piazza, sia l’evoluzione del Movimento di protesta, raccontando con passione e ironia ciò cui aveva potuto assistere e i possibili sviluppi dopo le dichiarazioni televisive dei due leader. Ecco il suo intervento in italiano da Dakar:

“Le Sénégal dit à la France: Dégage!”.

Brodo sociale in cui si cala il movimento senegalese

Gli accadimenti che si sono verificati, in Senegal, dopo l’arresto di Sonko, il 3 marzo, infatti, celano una gravissima situazione di instabilità politica nel paese – nonostante esso sia considerato erroneamente uno dei più solidi stati in Africa anche in ragione di essere l’unico a non aver mai subito un colpo di stato. Si può, quindi, onestamente affermare che tali eventi hanno costituito solo la scintilla che ha fatto esplodere una situazione sociale molto turbolenta, già presente e acuita dalla crisi pandemica per il Covid , in conseguenza della  quale nel paese si è registrato un notevole abbassamento del prodotto interno lordo. Le misure, infatti, che sono state adottate dal presidente Macky Sall per il contenimento della pandemia hanno ulteriormente mortificato un’economia informale che si fondava proprio sul principio della possibilità di muoversi liberamente per quanto riguarda soprattutto i giovani senegalesi. La maggior parte di loro sono scolarizzati ma non hanno nessuno sbocco occupazionale e, quindi, l’unica soluzione che rimane loro per condurre una vita dignitosa è rischiare la vita in mare per dirigersi verso le coste dei paesi dell’Unione Europea come è avvenuto durante la scorsa estate con l’attraversamento della rotta atlantica. La gioventù senegalese vede in Sonko un punto di riferimento, essendo a capo di un partito di patrioti che lotta per il lavoro, l’etica e la fraternità e che si rivolge in modo particolare alle classi urbane scolarizzate comprese quelle della diaspora.

Ousmane Sonko, ovvero i giovani scolarizzati disperati

I giovani senegalesi scolarizzati avevano accolto Ousmane Sonko all’Università di Dakar il 18 febbraio, prima degli scontri

Non sarebbe la prima volta che il presidente Macky Sall cerca, e riesce con successo, a liberarsi dei suoi oppositori politici attraverso il sistema giudiziario: è quanto è accaduto come abbiamo detto al figlio dell’ex presidente e anche al precedente sindaco di Dakar, entrambi al momento detenuti in prigione. Anche nel caso di Sonko l’incriminazione per stupro sembra essere totalmente montata: le prove, tra cui quelle mediche, come già accennato, non reggono assolutamente le accuse a lui rivolte e per di più sono state raccolte da forze di polizia che, come noto, non sono nient’altro che forze affiliate al presidente Macky Sall e definibili come milizie “al soldo” del presidente, una sorta di agenzia di contractor.

L’accanimento del governo senegalese, in particolare, da parte del presidente Sall nei confronti di Sonko è da ricercarsi nel fatto che egli rappresenta l’oppositore maggiormente credibile per sfidare l’attuale presidente in vista delle elezioni del 2024.  Sonko, arrivato già terzo alle elezioni del 2019, conquistando il 15% dei voti, oggi viene percepito come l’uomo del cambiamento e questo per diverse ragioni. La più rilevante è quella che Sonko si distingue per il fatto di non far parte dell’élite politica da anni presente in Senegal che tra le sue caratteristiche ha quella di non condividere le ricchezze del paese con la popolazione. Sonko, infatti, nasce non come politico ma come funzionario dell’erario e poiché durante il suo incarico ha denunciato attività economiche poco chiare, poste in essere dal governo in passato, è stato destituito dal suo incarico.

Macky Sall, ovvero il neocolonialismo francese e le sue multinazionali

Dietro le attività di Macky Sall, invece, si nasconde come per tanti altri leader africani il potere esercitato da Parigi. I giovani d’altra parte lo hanno ben compreso: non sono casuali, infatti, gli attacchi sferrati conto i simboli dell’ingombrante presenza politica ed economica della Francia in Senegal, come la distruzione o gli incendi che i manifestanti hanno commesso, nel corso delle proteste, a danno dei punti di rifornimento della compagnia petrolifera Total, della catena dei supermercati Auchan, contro i punti vendita della compagnia telefonica Orange e contro le autostrade a pedaggio Eiffage.

conflitti e instabilità

Servitude et soif de liberté

Il malcontento per l’ingerenza della politica francese nel paese in ogni caso non riguarda solo i giovani o i sostenitori di Sonko ma è comune a gran parte della popolazione senegalese : è ormai nota l’esistenza di accordi segreti – ma anche pubblici, di tipo economico – stipulati tra Macky Sall ed Emmanuel Macron, nonché la percezione di quanti benefici ottenga la Francia dallo sfruttamento delle risorse naturali senegalesi, come avvenuto con il recente ritrovamento di giacimenti petroliferi in mare a circa 100 km da Dakar.

Il petrolio

In particolare, anche in conseguenza di tale ritrovamento petrolifero, l’attuale presidente ha creduto, prima del propagarsi della pandemia, di poter dar vita a un progetto faraonico di rinascita del Senegal da attuarsi in un lungo periodo di sua reggenza politica, ossia potenzialmente fino al 2035. Come noto, invece, la crisi pandemica ha causato l’abbassamento del prezzo del petrolio e le corse delle compagnie verso i rifornimenti si sono ridotte notevolmente. È noto anche il fenomeno di corruzione nel quale è stato coinvolto il cognato del presidente Sall a cui è stata versata una tangente di 250.000 dollari da parte di una compagnia petrolifera interessata al recente ritrovamento di giacimenti nel paese.

Franc Cfa: il grimaldello francese

Non solo, la moneta senegalese il franco Cfa consente notevoli vantaggi monetari per la Francia nei rapporti commerciali con il Senegal. Nel potere della Francia di Emmanuel Macron, quindi, si trova la chiave di lettura del potere di Macky Sall, così come quello di tutti gli altri politici al potere, tranne Sonko il quale ha scritto un libro che denuncia proprio l’utilizzo sbagliato di alcuni fondi da parte dell’attuale presidente. Il deputato Sonko, infatti, in merito alla “questione francese” ha espresso un’opinione ben chiara: se nel 2024 riceverà il consenso da parte della popolazione senegalese rinegozierà tutti gli accordi economici con la Francia e svelerà quelli nascosti al fine di conseguire un maggior vantaggio per l’economia del Senegal. Sonko è l’espressione di una volontà politica di un partito, partigiano, anticolonialista, che si basa sul panafricanismo e che da anni mette in luce gli atti di chi controlla le risorse del paese e dei fenomeni di corruzione interna a essi collegati. Ciò nonostante, Sonko non ha chiesto, anche in conseguenza di tali accadimenti, le dimissioni immediate dell’attuale presidente che invece vuole gran parte della popolazione locale, ma che piuttosto non si candidi per un terzo mandato e che indica elezioni regionali nel paese che non si tengono da circa due anni. D’altra parte i manifestanti stessi, tra l’altro non tutti sostenitori del partito Pastef, sono giunti il giorno dell’arresto di Sonko da diverse zone del paese: non solo da Dakar ma anche da Casamance, da Saint-Louis e da Louga.

Ad aggravare una situazione già così tesa tra il presidente Sall e i partiti di opposizione sulla vicenda del presunto stupro è stata la pubblica apparizione in televisione, alla presenza del suo legale, della ragazza Adji Sarr durante la quale ha dichiarato l’inesistenza di un complotto a carico di Sonko e lo ha invitato pubblicamente a giurare sul Corano di non aver avuto rapporti sessuali con lei. Chiaramente il contenuto di tale comparizione ha riacceso i riflettori su una vicenda ancora in sospeso e sulla quale esistono tuttora indagini segretate. Al di là delle valutazioni etiche, religiose, psicologiche delle dichiarazioni, tale ulteriore sviluppo fa intendere che la ragazza abbia delle prove, non tanto in grado di dimostrare lo stupro, ma di attestare una relazione adulterina con Sonko e, non esprimersi in modo cristallino rispetto a una gravidanza riconducibile a Sonko, aumenta tali sospetti.

Adji Sarr è la massaggiatrice del Salon de Beautè che accusa Ousmane Sonko di stupro

Dopo questa frattura profonda tra dirigenti politici e i partiti di opposizione, primo tra tutti il Pastef, e Sonko in particolare, sostenuto in modo impressionante dalla popolazione civile, ma non dalle confraternite religiose – che rappresentano il livello più influente di potere nel paese – il cambiamento può dirsi ormai in atto, ma sarà in grado il presidente Sall di intercettare e soddisfare, a prescindere da Sonko, le istanze della popolazione e soprattutto dei giovani  o avrà la meglio su di lui la paura del cambiamento?

Per ora, all’inizio di aprile 2021, si direbbe che il presidente si giochi le classiche carte neocolonialiste della demonizzazione per opera dei religiosi marabutti che gettano acqua sul fuoco della rivolta e, anodina per il Senegal, l’invenzione di un’antagonismo tribale tra poular e wolof, mai esistito nella nazione, ma insinuato dal potere per dividere e poter ancora imperare al servizio del neocolonialismo francese. Questo il contributo di Mambaye registrato l’8 aprile su Radio Blackout

Ascolta “Marabutti e divisioni etniche: il repertorio neocoloniale di Macky Sall” su Spreaker.

Fonti:

L'articolo n. 4 – Senegal: Ousmane Sonko vs. Macky Sall. Esplode la rabbia proviene da OGzero.

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Tracce della distanza https://ogzero.org/africa-teatro-della-storia/ Sat, 16 Jan 2021 09:11:31 +0000 http://ogzero.org/?p=2221 Una primavera africana d’autunno   The sky carries a boil of anguish | Let burst Let the sky’s boil of anguish burst today | The pain of earth be soothed di Niyi Osundare [Il cielo porta con sé una bolla d’angoscia | Fa’ che scoppi Fa che la bolla d’angoscia nel cielo scoppi oggi | Si plachi […]

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Una primavera africana d’autunno

 

The sky carries a boil of anguish | Let burst

Let the sky’s boil of anguish burst today | The pain of earth be soothed

di Niyi Osundare

[Il cielo porta con sé una bolla d’angoscia | Fa’ che scoppi

Fa che la bolla d’angoscia nel cielo scoppi oggi | Si plachi il dolore della terra]

Due mesi di manifestazioni di massa, scontri con la polizia, feriti, morti, arresti, sparizioni. Donne, uomini, giovani, cristiani, musulmani, altri. Un’unica parola d’ordine: End Sars! Che non è un virus, ma un corpo di polizia [SARS Special Anti-Robbery Squad], istituito nel 1992] brutale, assassino, stupratore, torturatore. Parola d’ordine che poi diventa: Vogliamo un cambiamento! Maree di popolo, ora alte ora basse.

Nigeria: tre volte l’Italia, 200 milioni di abitanti, 250 gruppi nazionali/etnici, lingue e pratiche culturali e religiose diverse. È divisa in 36 Stati. La complessità non è a scelta.

Mappa dei 36 stati della Nigeria

I 36 stati della Nigeria con gli aspetti orogeografici

#EndSARS è l’hashtag di twitter che convoca in strada, elabora spostamenti e incontri, informa internazionalmente sugli eventi e le finalità, la Feminist Coalition organizza la campagna di raccolta fondi, l’assistenza medica e la tutela legale.

Il generale in pensione, Muhammadu Buhari (1942), attuale presidente della Nigeria, eletto nel 2015 e nel 2019, già capo di stato col golpe militare del 1983, sostituisce il SARS con uno Special Weapons and Tactics (SWAT) nuovo di zecca.

Negli stati del Nordest e ora anche del Nordovest, Boko Haram con affiliati e concorrenti intensifica la politica del caos con un’orgia di uccisioni, rapimenti, incursioni armate.

In questa occasione non lo si esamina.

Africa vero teatro della storia mondiale

Manifestazioni #EndSARS

Qua

Bisogna essere rabdomanti esperti per trovare nei media nostrani qualche goccia, qualche zampillo informativo. I nostri recettori sono molto selettivi. Black lives matter! Ma qui come fai che le nere vite stanno da entrambe le parti della barricata? Come possiamo sfoggiare il nostro impeccabile antirazzismo prêt-à-porter? Siamo in Africa, dove sono i bambini macilenti dal ventre gonfio? Un “Autunno nigeriano”, dici? Perché sono così complicate le società africane?

Aisha Yesufu

#BringBackOurGirls e #EndSARS sono la stessa faccia della medaglia, quella di Aisha Yesufu

Questa signora dal sorriso soffice e dal pugno energico si chiama Aisha Yesufu, è stata una delle promotrici di Bring Back Our Girls, il gruppo che ha fatto di tutto per riportare a casa le 276 liceali di Chibok rapite il 15 aprile 2014 dai miliziani di Boko Haram, riuscendoci solo parzialmente. Continua a essere molto attiva sia in #EndSARS sia sul piano dei diritti delle donne battibeccando con governo e dintorni.

Il suo dinamismo può scombinare il nostro sguardo cieco cementato duecento anni fa da G.W.F. Hegel, il mago fantasma che ancora ci incanta: «Come abbiamo già detto, il negro incarna l’uomo allo stato di natura in tutta la sua selvatichezza e sfrenatezza … Non è un continente storico, un continente che abbia da esibire un movimento e uno sviluppo … Per Africa in senso vero e proprio intendiamo quel mondo privo di storia, chiuso, che è ancora del tutto prigioniero nello spirito naturale … dopo aver sgombrato il campo dal continente africano, ci troviamo nel vero teatro della storia mondiale».

 

Sokoto Caliphate

Estensione del Califfato sovrapposta alla geografia politica attuale

A metà dicembre il sultano di Sokoto, Nigeria Nordovest, Sa’ad Abubakar ha detto quasi disperato: «Abbiamo perso così tante vite in passato che non siamo neppure in grado di contarle. È diventata una cosa normale, quotidiana. Così normale che è una notizia da raccontare quando non c’è nessun ucciso in qualche parte del nostro Paese».

Il sultano di Sokoto non ha più potere politico, è leader della confraternita (tariqa) sufi Qadiriyya, che risale all’XI secolo, ma resta una guida spirituale dei musulmani della Nigeria.

Mi pare di ricordare che nel XIX secolo anche in Europa diversi stati e staterelli abbiano avviato ingarbugliati processi di unificazione tramite guerre e diplomazia.È discendente di Uthman dan Fodio, filosofo, riformatore islamico, capo sufi, che nel 1804 dà il via a un jihad che rimpiazza i molti piccoli regni e le città-stato che caratterizzavano l’area, portando alla formazione di un Califfato con molti Emirati che, in qualche modo, governa venti milioni di persone. Già nel 1811 dan Fodio si ritira per tornare a studiare e predicare, muore nel 1817, 14 anni prima di Hegel.

A inizio Novecento la presenza inglese in Africa Occidentale si fa conclusiva: nel 1903 il potere politico passa di mano anche nel Sokoto, che diventa “protettorato britannico”.

 

La mia officina storica propone un esperimento minuscolo: si prenda un importante testo di storia della Nigeria (Toyin Falola, Matthew M. Heaton, A History of Nigeria, Cambridge University Press, 2008) e nelle numerose pagine dedicate, come si deve, a dan Fodio e al Califfato di Sokoto si riconosca l’invisibile, un’assenza, un vuoto. Nonostante il nigeriano Toyin Falola, docente negli Usa, sia oggi uno degli africanisti più accreditati con bibliografia da paura, non una riga, neppure in nota, concede in questa pregevole storia della Nigeria a Nana Asma’u.

Nana Asma’u (1793–1864) è figlia di dan Fodio, non è un’ombra molesta. Scrive 9 poemi in arabo, 42 in fulfulde (Fula dicono i linguisti), parlata oggi da 65 milioni persone, 26 in hausa, altra lingua dell’area, oggi usata da 47 milioni di parlanti. Organizza circoli educativi e letterari di donne che chiama Yan Taru [quelle che si riuniscono assieme, in hausa). Ritiene l’educazione delle donne fondamentale: «Donne, un avvertimento: non lasciate la casa senza buone ragioni. Si può uscire per cercare cibo o educazione. Nell’Islam è un dovere religioso cercare la conoscenza. Le donne possono liberamente lasciare la casa con questo scopo».

Le donne del gruppo poi si sparpagliano per formarne altre come educatrici itineranti (jajiis) e come seguaci del sufismo. Anche le sue cinque sorelle saranno molto attive sul piano culturale. Nina Asma’u esercita dunque un ruolo pubblico e avrà per questo una profonda influenza su altre donne, pensatrici e predicatrici, dell’Africa musulmana.

 

Annotava nel 1828 il governatore francese del Senegal, baron Roger, che nel paese «c’erano più neri in grado di scrivere e leggere in arabo, che per loro è una lingua morta e di istruzione, di quanti contadini francesi fossero in grado di leggere e scrivere in francese».

Appendice all’esperimento. G.W.F. Hegel dall’alto dell’Absolute Geist [“Spirito Assoluto”] annuncia urbi et orbi che der Neger ist Geschichtslos [senza storia], dunque Non-Umano. Figuriamoci la “negra”!

A far saltare i nervi al governo coloniale britannico nella seconda metà degli anni Venti del Novecento si erano impegnate molte donne, soprattutto nel Sud/Est della Nigeria. Iniziative di protesta collettive contro una tassazione mirata a loro stesse, che sfociano in un vero e proprio conflitto a fine 1929. Non un riot, un tumulto, ma un movimento sociale e politico con tracce di matriarcato precoloniale, di consolidate pratiche, mikiri, di aggregazione tra donne, di rituali danzanti di sberleffo del maschio – sitting on a man, di forte determinazione a migliorare la propria condizione. Vi partecipano sei diverse nazionalità/etnie, non solo Igbo, come recitano manuali ed enciclopedie. È una mascherata di donne con canti, danze rituali e improvvisate. Inizia al mercato e poi si dirige ai palazzi del potere. Quando non bastano le voci e le gambe, mani e braccia afferrano, spaccano, colpiscono, come storia insegna. Trascrivono in gesti la loro potenza.

Nonostante la feroce repressione e le cinquantatre donne uccise, l’apparato coloniale di governo deve riformarsi in profondità.

Foucault scrive da qualche parte che non ricordo: «ovunque vado, segretamente mi segue sempre Hegel».

Se Hegel fosse più o meno razzista lo decidano gli storici della filosofia, a noi tocca avviare la nostra svestizione dai comodi panni hegeliani.

 

Sud Nigeria, donne di una generazione successiva ricantano e ridanzano ancora contro una arbitraria tassazione imposta dal reuccio locale, Alake, indirect rule, warrant Chief, governatore al servizio degli inglesi: è dalla vagina che vuoi uomini siete nati, usi il tuo pene per sostenere che sei nostro marito | noi oggi usiamo la vagina per agire come tuo marito. Questa lingua sciolta dei loro canti è stata parlata e pensata da una mobilitazione di donne durata anni e culminata nella rivolta di Abeokuta nel 1949. Animatrice e organizzatrice Funmilayo Ransome-Kuti, esemplare modello di femminista del Novecento e madre di Fela Kuti, genio musicale, afrobeat, rivoluzionario, misogino.

[il 18 febbraio 1977, quando mille soldati irrompono nella residenza dell’eversivo Fela, la Kalakuta Republic a Lagos, la madre viene gettata dalla finestra del secondo piano. Muore l’anno dopo per le ferite riportate].

Africa vero teatro della storia mondiale

Educatrice nigeriana, militante politica, suffragista, attivista dei diritti delle donne.

Durante le manifestazioni #EndSARS è di nuovo riecheggiata Beasts of No Nation di Fela Kuti.

Ascolti

e scopri che i commenti ne riconoscono la visionaria attualità.

Nuovissime leve espandono il suono: Fikky

o Jeriq,

altre songs vengono assimilate prima ancora che gli autori prendano posizione,

come Fem di Davido


o Killin Dem di Zlatan X Burna Boy.

Il più direttamente politico This is Nigeria di Falz;

anche la spirituale Asa.


Un vero Sound System che si intreccia con la protesta e la nutre.

È l’audiopolitica che si snoda con le socialità collettive, non sta ai bordi, rinsalda voci, suoni, rumori e silenzio.

L’acustica di uno sbarco di emigranti a Lampedusa, degli slogan di una manifestazione ad Hong Kong, di un ospedale da campo in Libia, degli elicotteri pasciuti che scendono a Davos per resettare il mondo, dei blindati israeliani a Betlemme, dei passi sulla neve sopra Bardonecchia direzione Francia, delle piazze silenziose di certe metropoli in coprifuoco, del canto delle donne argentine dopo la nuova legge sull’aborto, delle voci dei bambini rohingya che scorrazzano sull’isola nell’oceano dove sono stati deportati, del mercato di Kabul, senza esplosioni. La ritmica di un call center, lo scioglimento sincopato dei ghiacciai, il rumore bianco di movida precovid, la polifonia fiamminga di un reparto maternità…

Non l’ho inventata io l’audiopolitica, l’ha concepita un giovinotto di Recanati (ehm!) duecento anni fa: le morte stagioni, la presente e viva e il suon di lei, con cui rivolge un invito a indagare anche il passato. Che suono aveva Auschwitz? Hiroshima? il socialismo reale, il comando coloniale…

Che swing hanno i droni delle neoguerre? Le fibre ottiche del web? Il contrappunto degli high frequency tradings? Qual è il canzoniere del neoliberismo…?

Ragazze liberate a Chibok

Liberate dalla prigionia le studentesse di Chibok, rapite da Boko Haram

[Qui, nel nostro canale linkedin trovate un ragionato apparato bibliografico elaborato da Claudio Canal, che approfondisce le tracce sparse in questo sguardo sulla Nigeria, con il chiaro intento di non essere condizionato dall’etnocentrismo occidentale: https://www.linkedin.com/pulse/tracce-della-distanza-adriano-boano/?trackingId=AvSXQ0pYSAC9eE2DLqIJDQ%3D%3D]

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Costa d’Avorio: partita a scacchi con quarto incomodo https://ogzero.org/costa_davorio_partita_a_scacchi_con_quarto_incomodo/ Fri, 09 Oct 2020 15:33:58 +0000 http://ogzero.org/?p=1451 Manca poco meno di un mese al primo turno delle presidenziali in Costa d’Avorio e i giochi rimangono più che mai aperti. Non solo e non tanto perché un favorito c’è e non c’è. Le candidature sono state depositate. Alassane Ouattara, presidente uscente, si ricandida per un terzo mandato, con non poche polemiche e contestazioni […]

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Manca poco meno di un mese al primo turno delle presidenziali in Costa d’Avorio e i giochi rimangono più che mai aperti. Non solo e non tanto perché un favorito c’è e non c’è. Le candidature sono state depositate. Alassane Ouattara, presidente uscente, si ricandida per un terzo mandato, con non poche polemiche e contestazioni che sono sfociate in violenza con morti, feriti e arresti. Non proprio il clima ideale per affrontare la campagna elettorale.

A sfidare il 78enne Ouattara ci saranno i suoi rivali storici Henri Konan Bédié, 86 anni, e Laurent Gbagbo, 75 anni, candidato dai suoi supporter senza una sua dichiarazione in tal senso. Tutte e tre ex presidenti che rappresentano la gerontocrazia del paese.

E il cambio generazionale?

Lo sperato e inizialmente voluto cambio generazionale non c’è stato. Sullo sfondo, tuttavia, rimane la candidatura di Guillaume Soro – 48 anni – anch’essa, come quella di Gbagbo, presentata in contumacia, visto che vive in Francia per sfuggire a una condanna a 20 anni di carcere comminata da un tribunale ivoriano. Ma le cose potrebbero cambiare. L’ex potenza coloniale, la Francia, è molto preoccupata per il clima di tensione nel paese, che non accenna a diminuire, anzi sta crescendo facendo aleggiare i fantasmi del 2010, quando la crisi postpresidenziali, sfociò in una guerra civile con oltre 3000 morti e una nazione allo stremo. La Costa d’Avorio, negli ultimi dieci anni, è stata relativamente stabile ed è cresciuta costantemente negli anni, salvo la frenata di quest’anno dovuta al coronavirus. Abidjan, inoltre, ha rappresentato un punto stabile al confine di una regione estremamente turbolenta, il Sahel, che non trova pace per l’imperversare delle forze jihadiste dove la Francia, appunto, è impegnata nel contrasto al terrorismo con 5000 uomini, ma che, nonostante la potenza di fuoco, non riesce a venirne a capo.

La Francia occupata su più fronti non vuol perdere la Costa d’Avorio

Il colpo di stato in Mali, ha aggravato ulteriormente lo scenario regionale. Tuttavia, proprio durante le cerimonie per il sessantesimo anniversario dell’indipendenza del paese, il colonnello Assimi Goita, capo della giunta al potere in Mali, ha chiesto ai suoi concittadini di sostenere le forze alleate straniere presenti in Mali, citando in particolare la forza francese Barkhane, le forze di pace Minusma (Onu) e quella europea Tabouka. La presenza in Mali, da sette anni, dei soldati francesi e della missione Onu è stata però oggetto di contestazioni da parte dell’opinione pubblica. È del tutto evidente che per la Francia perdere una base solida e stabile come la Costa d’Avorio sarebbe una sciagura. Paese oltretutto già toccato dal terrorismo e i cui confini con Mali e Burkina Faso sono permeabili al jihadismo.

L’incontro privato parigino

Molti osservatori, proprio per questo, attendevano i risultati della visita di Ouattara a Parigi, visita privata, compreso un incontro con Emmanuelle Macron, che si è rivelato una bomba. Secondo le indiscrezioni riportate da “Jeune Afrique”, il presidente francese – preoccupato per le tensioni socio-politiche provocate dal terzo mandato del presidente ivoriano – durante una colazione di lavoro, il 4 settembre, avrebbe chiesto a Ouattara di “rimandare le elezioni”, ritirare la sua candidatura, così da permettere anche il ritiro di quelle di Bédié e di Gbagbo. Secondo Macron questo scenario potrebbe facilitare l’apertura di un dialogo con i principali oppositori del presidente ivoriano e trovare un successore condiviso per arrivare a “un cambiamento generazionale”, inizialmente promesso. Ouattara, sempre secondo le indiscrezioni di “Jeune Afrique”, avrebbe rifiutato.

Di certo l’intervento di Macron è un’esplicita e diretta – non gradita da molti – interferenza negli affari interni di un paese sovrano. Se la notizia fosse vera – e non c’è da dubitarne vista l’autorevolezza di “Jeune Afrique” – rivoluzionerebbe lo scenario politico ivoriano. Il rifiuto di Ouattara alla proposta di Macron potrebbe essere letto come un volere “prendere tempo” e verificare le intenzioni di Bédié e di Gbagbo, proprio perché non vuole rimanere con il cerino in mano. Oppure in una risposta di facciata più funzionale alla sua immagine interna. E, poi, c’è l’attivismo di Soro, molto popolare sui social in patria e anche in Francia, dove concentra la sua campagna contro la condanna in contumacia in patria, senza la presenza dei suoi avvocati. Da lui ritenuta una condanna politica.

Il pericolo della deriva etnica

E, poi, a distanza di poco più di un mese, arrivano le dichiarazioni del presidente del Fronte popolare ivoriano (Fpi, all’opposizione), Pascal Affi N’Guessan, che ha chiesto il rinvio di tre mesi delle elezioni presidenziali o l’avvio di una fase di transizione di almeno 12 mesi. La richiesta sarebbe stata avanzata in occasione di un incontro con una missione congiunta della Communauté économique des états de l’Afrique de l’Ouest (Cedeao), dell’Union africaine e delle Nazioni Unite. Insomma qualcosa, su questo fronte si muove. Bédié, invece, a tal proposito, non ha detto nulla. L’iniziativa della diplomazia francese, evidentemente, è stata a tutto campo e ha coinvolto, con molta probabilità, tutte le parti coinvolte nell’intricato puzzle ivoriano. La notizia, inoltre, rivela la forte preoccupazione del presidente francese su una possibile degenerazione del clima socio-politico del paese. In particolare la deriva etnica che potrebbe diventare predominante nella campagna elettorale.

Un dibattito in punta di diritto

L’opposizione punta il dito contro il presidente uscente invocando la Costituzione del paese che prevede solo due mandati presidenziali. L’opposizione si aggrappa a questo, ed è comprensibile. Dal canto suo Ouattara e la maggioranza di governo, sostengono che un terzo mandato sia possibile proprio perché la nuova Costituzione del 2016 ha rinnovato l’intera architettura istituzionale del paese e non può quindi essere considerata in continuità con la precedente. La candidatura di Ouattara, sostengono, è legittima; addirittura potrebbe candidarsi per un quarto mandato. Tutti si augurano che la vicenda si risolva in punta di diritto, anche se sembra molto difficile che accada. La confusione politica nel paese è alta, non solo nel partito di maggioranza, ma anche tra i ranghi dell’opposizione. Fragilità istituzionale e politica che si evidenziano guardando, semplicemente, all’età dei candidati forti alla presidenza: Ouattara, 78 anni; Henri Konan Bédié, 86 anni, anch’egli ex presidente e Gbagbo, 75 anni.

Alleanze e strategie incrociate

Il presidente uscente, nel marzo scorso, aveva annunciato la volontà di non ricandidarsi per lasciare «spazio alle nuove generazioni» e successivamente aveva designato il suo primo ministro, Amadou Gon Coulibaly (61 anni), come successore e candidato alle presidenziali. La malattia e la morte del premier, l’8 luglio, hanno rimescolato le carte, gettando nel caos il Rassemblement des Houphouëtistes pour la democratie et la paix (Rhdp), partito di governo. L’unica scelta possibile, a quel punto, era riproporre la candidatura di Ouattara, l’unico in grado di ricompattare il partito, anche dopo la defezione dell’ex ministro degli Esteri, Marcel Amon-Tanoh, ex braccio destro del presidente, che ha deciso di candidarsi e di fondare un suo partito.

La sfida elettorale si giocherà, comunque, tra Ouattara e il suo rivale Henri Konan Bédié, presidente del Parti Démocratique de la Côte d’Ivoire (Pdci), all’opposizione, che ha promesso di istituire “un governo di salute pubblica, aperto a tutte le principali sensibilità politiche” del paese, se verrà eletto alle presidenziali del 31 ottobre. Bédié ha anche definito “illegale” una candidatura di Ouattara per un terzo mandato. Bédié chiede, inoltre, il ritorno nel paese dell’ex presidente Laurent Gbagbo, con il quale ha annunciato di aver raggiunto un accordo per una possibile alleanza elettorale al secondo turno: un’alleanza tra ex presidenti, a cui si unirebbe anche Guillaume Soro – nonostante la condanna a 20 anni non ha rinunciato alla candidatura alle presidenziali, anche se è costretto a vivere all’estero per evitare il carcere – che si è detto d’accordo a fare fronte comune in un eventuale ballottaggio contro Ouattara, per scongiurarne la vittoria.

Cherchez la femme: Simone Gbagbo

Ad accendere la miccia delle proteste, tuttavia, è stata l’ex first lady ivoriana, Simone Gbagbo, rompendo il suo tradizionale silenzio e definendo la candidatura di Ouattara “irricevibile”, sostenendo che un capo di stato «non può dire una cosa e smentirsi immediatamente dopo. Soprattutto di fronte alla nazione. Il rispetto per la propria parola deve essere più che mai osservato in politica». Le proteste, infatti, sono scoppiate proprio a Bonoua, cittadina d’origine dell’ex first lady. Una manifestazione di protesta, che si è tenuta nonostante il divieto imposto dalle autorità, è sfociata in violenze dopo l’intervento delle forze dell’ordine e l’uccisione di un giovane, sembra morto in seguito agli spari della polizia. Il commissariato è stato incendiato, mentre alcuni dimostranti si sono rivoltati contro gli agenti e contro lo stesso commissario. Anche nella capitale economica Abidjan alcuni sostenitori dell’opposizione hanno sfidato il divieto di manifestare. La tensione è cresciuta pure a Daoukro, caposaldo di Bédié. Anche ad Abidjan hanno cominciato a circolare giovani armati di mazze e machete che parrebbero in combutta con la polizia, in particolare nel quartiere di Yopougon.

Simone Gbagbo, inoltre, ha chiesto al presidente Ouattara di riconsiderare la condanna a 20 anni di carcere del marito come gesto di “riappacificazione nazionale”, chiedendo «al capo dello stato di approvare una legge sull’amnistia per rendere nuovamente eleggibile il signor Laurent Gbagbo. Lo invito a rilasciargli un passaporto diplomatico. È una questione di diritto. E lo invito a liberare tutti i prigionieri della crisi postelettorale e a facilitare il ritorno di migliaia di esiliati». Tuttavia, non è ancora chiaro se Gbagbo, che risiede in Belgio, accetterà la richiesta del proprio partito, il Front populaire ivoirien, di tornare in patria dopo essere stato assolto dall’accusa di crimini di guerra dalla Corte penale internazionale lo scorso anno.

Bonoua, inoltre, è sempre stato teatro di proteste. C’è solo da sperare che sia un episodio sporadico e non l’inizio di proteste più diffuse.

Niente colpi di mano…

I fantasmi del passato, infatti, continuano ad aleggiare sulla Costa d’Avorio. Il paese ricorda ancora la crisi del 2010 quando si scatenò una vera e propria guerra civile, ci furono più di 3000 morti. Sono molti gli analisti che non credono che si possa ripresentare uno scenario come quello del 2010, di sicuro ci sarà un inasprimento del clima politico – come già sta avvenendo.

Non ci sono avversari che possano approfittare della fragilità istituzionale e politica per mettere in atto un colpo di mano. Il Front populaire non ha la forza e la capacità di mettere in atto uno scenario di questo tipo. Il partito di Bédié, il Pdci, non ha nel dna questo tipo di soluzione. Nel paese non ci sono soggetti che possano dare una spallata a un’architettura istituzionale seppur fragilizzata. Non si intravedono, inoltre, le condizioni né regionali né internazionali perché uno scenario simile a quello del 2010 si possa ripetere. Una Costa d’Avorio fragile e instabile non è nei piani di nessuno. Basti pensare che – nei mesi precoronavirus – il porto di Abidjan movimentava il 40 per cento delle merci della regione, oltre che la metà della massa monetaria.

Non è un caso, infatti, che la decisione di mettere fine al franco Cfa, la cosiddetta moneta coloniale, sia stata annunciata dal presidente francese, Emmanuel Macron, proprio durante la sua ultima visita ad Abidjan, durante una conferenza stampa congiunta con il capo di stato ivoriano, Ouattara, anche se l’entrata in vigore della moneta unica, Eco, è stata rinviata di almeno cinque anni.

… ma non esiste un mediatore politico

Rimane, e forte, l’incognita etnica. Il rischio è che i falchi, di tutte le parti politiche, facciano leva sullo scontro/confronto etnico e comunitario e questo non sarebbe un bene per il paese. E i segnali che ciò possa accadere ci sono tutti. E le vicende etniche non si risolvono in punta di diritto – come la questione del terzo mandato –, ma attraverso la mediazione politica.

Non c’è, per ora, un soggetto autorevole e sopra le parti che possa condurre questa mediazione. Molto dipenderà dal partito al potere, ma anche dall’opposizione. Non è ancora chiaro se questa riuscirà a trovare una composizione, uscendo anch’essa dalla confusione. L’iniziativa di Macron si inserisce proprio in questo contesto. Una Costa d’Avorio fragile e instabile non è nei piani della Francia.

 

 

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L’adesione dell’Africa alla Belt Road Iniziative è stata unanime? https://ogzero.org/la-penetrazione-della-cina-in-tanzania-rispetto-ai-paesi-limitrofi/ Mon, 13 Apr 2020 09:50:20 +0000 http://ogzero.org/?p=142 Grado di penetrazione degli investimenti asiatici in Africa: spartizioni tra India e Cina di OGzero, 21 giugno 2020 La Belt Road Initiative cinese, oltre a essere un’opera di collegamento con l’Europa, privilegia le relazioni con l’Africa orientale, porta di ingresso straordinaria per un’invasione pacifica, ma non senza conseguenze, dell’intero continente. E le porte di accesso […]

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Grado di penetrazione degli investimenti asiatici in Africa: spartizioni tra India e Cina

di OGzero, 21 giugno 2020

La Belt Road Initiative cinese, oltre a essere un’opera di collegamento con l’Europa, privilegia le relazioni con l’Africa orientale, porta di ingresso straordinaria per un’invasione pacifica, ma non senza conseguenze, dell’intero continente. E le porte di accesso sono numerose. L’ultima è rappresentata da Mauritius. Con l’isola nell’Oceano Indiano è stato siglato il primo accordo di libero scambio. L’intesa riguarda il commercio di beni e servizi nonché la cooperazione in materia di investimenti. L’accordo, secondo quel che viene reso noto dal governo cinese, non solo fornirà una più potente garanzia istituzionale per approfondire le relazioni economiche e commerciali bilaterali con Mauritius, ma promuoverà anche la cooperazione economica e commerciale, nonché finanziaria, tra Cina e Africa. La Belt Road Initiative cinese, oltre a essere un’opera di collegamento con l’Europa, privilegia le relazioni con l’Africa orientale, porta di ingresso straordinaria per un’invasione pacifica, ma non senza conseguenze, dell’intero continente. E le porte di accesso sono numerose. L’ultima è rappresentata da Mauritius. Con l’isola nell’Oceano Indiano è stato siglato il primo accordo di libero scambio. L’intesa riguarda il commercio di beni e servizi nonché la cooperazione in materia di investimenti. L’accordo, secondo quel che viene reso noto dal governo cinese, non solo fornirà una più potente garanzia istituzionale per approfondire le relazioni economiche e commerciali bilaterali con Mauritius, ma promuoverà anche la cooperazione economica e commerciale, nonché finanziaria, tra Cina e Africa.

Nel momento in cui si cerca di comprendere lo sviluppo economico e le partnership tra nazioni in via di sviluppo e le potenze economiche che si prefiggono di godere di esclusività nei settori più sensibili e importanti per alcuni stati è indispensabile indossare un paio di occhiali privi di pregiudizi. Vale per tutti i meccanismi di sviluppo globali, ma in particolare per l’immagine deformata delle differenti società africane. Sono situazioni che possono condizionare il mercato mondiale e che vedono in competizione giganti come la Cina, che è molto presente da decenni in Tanzania e che è snodo del Belt Road Iniziative con il porto di Bagamoyo; o l’India che invece ha relazioni privilegiate con Kenya e Sudafrica, anche per la comune tradizione coloniale britannica. Gli investimenti che vengono fatti sono ovviamente sempre comunque mirati a uno sviluppo la cui sostenibilità è sottomessa alla possibilità che consenta ovviamente agli investitori di ottenere profitti

Angelo Ferrari, 23 marzo 2020 su Radio Blackout
© 2015, Railway Gazette

Durante un intervento registrato il 24 novembre 2018 Andrea Spinelli Barrile ha preso spunto dalle infrastrutture per evidenziare la spartizione delle aree tra grandi potenze asiatiche. Del 1964 è il primo progetto cinese per una tratta ferroviaria in Tanzania, una nazione rivolta verso l’Asia che scatena la concorrenza tra Cina e India per soddisfare i loro bisogni (le risorse maggiormente saccheggiate sono legno, petrolio, minerali, gas), arrivando a parlare di investimenti stranieri in Africa orientale e presenza sul territorio anche di maestranze straniere più o meno tollerate in base alle abitudini nazionali.

Andrea Spinelli Barrile, 24 novembre 2018 (Radio Blackout): concorrenza tra grandi potenze asiatiche per controllare le risorse dell’Africa Orientale

L’adesione dell’Africa alla Belt Road Initiative è stata unanime, nessuno escluso. Ma perché attrae tanto la nuova via della seta cinese? I leader africani percepiscono questa iniziativa come una valida e tangibile alternativa agli incerti piani di investimento a lungo periodo proposti da europei e americani. I russi piacciono di più perché offrono su un piatto d’argento armamenti e addestramento militare. Pechino, tuttavia, ha saputo sfruttare la complessità delle garanzie a lungo termine di beni e risorse attraverso un sistema, tanto antico quanto nuovo, di baratto: in cambio del capitale di investimento e dell’infrastruttura, alcuni paesi concedono lo sfruttamento delle proprie risorse e una quota nei progetti infrastrutturali. Insomma, vince il capitalismo di stato. Ma vi è un altro fattore, oltre al denaro, che affascina i governi africani: la politica di non ingerenza negli affari interni ha indotto molti presidenti a individuare nella Cina un partner privilegiato

Andrea Spinelli Barrile descrive lo Zimbabwe in recessione profonda nel 2018, però con una tipologia di formazione educativa molto simile a quella occidentale e quindi con maggiori difficoltà ad avvicinarsi al mondo cinese, più ostico e lontano nell’immaginario e quindi apparentemente in contraddizione con quanto si legge nello stralcio del libro di Masto e Ferrari; in realtà forse è la differenza di accoglienza tra potere economico e politico locale e difficoltà culturale di integrare la presenza cinese. Per esempio la lingua kiswahili si trova arricchita da traslitterazioni cinesi in molte scritte e istruzioni in Tanzania: le lingue avvicinano (i comboniani non a caso hanno traslitterato lo swahili in epoche non recenti, agevolando così i rapporti tra africani e occidentali… che poi questi rapporti evolvano in termini negativi come le conseguenze coloniali, o positivi derivano dall’uso dei mezzi a disposizione), ma in realtà l’approccio dei cinesi che vivono o lavorano in Africa Orientale non concede nulla alle relazioni con le popolazioni locali e si nota anche da come viene percepito il linguaggio.

Andrea Spinelli Barrile su Radio Blackout, 24 novembre 2018: difficile metissage di culture sino-africane

I paesi dell’Africa occidentale – la maggior parte ex colonie francesi e con la famigerata moneta ancorata all’euro e garantita dal tesoro francese – stanno pensando di dotarsi di una moneta propria abbandonando, quindi, il franco Cfa. Tutto ciò è emerso durante una riunione che si è tenuta ad Abidjan tra i ministri delle Finanze e i governatori delle banche centrali dei paesi della Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao); la nuova moneta, l’eco, potrebbe essere ancorato allo yuan cinese, per evitare oscillazioni pericolose per i mercati. Ciò che è accaduto con il franco Cfa ancorato all’euro. Il progetto di moneta unica della Cedeao è fortemente voluto dal Ghana, paese con una moneta abbastanza instabile. Insomma, l’Africa occidentale, se non tutta, vorrebbe passare, con questa decisione, dalla tutela francese a quella cinese. Ciò dimostra, inoltre, che per questi paesi non è pensabile garantire la stabilità monetaria senza un ancoraggio a una moneta forte. Il franco Cfa, negli anni, ha garantito proprio questo: stabilità e bassa inflazione, a differenza di ciò che è accaduto nei paesi dell’area che non avevano adottato quella moneta, il Ghana, ancora, ne è un esempio. Il Ghana è il principale partner commerciale della Cina nell’area: il commercio bilaterale è passato da meno di 100 milioni di dollari nel Duemila a 6,7 miliardi nel 2017. La metà della massa monetaria della comunità economica dell’Africa occidentale circola in Costa d’Avorio e il 40 per cento delle merci viene movimentata attraverso il porto di Abidjan. Nel Duemila il debito nei confronti della Cina era pari a zero, tra il 2010 e il 2015 è diventato di 2,5 miliardi di dollari.

Frags tratti da Mal d’Africa, di Raffaele Masto e Angelo Ferrari, postfazione di Marco Trovato, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

Angelo Ferrari il 26 marzo 2020 su Radio Blackout enumerava quanti e quali paesi africani rischiano la sovranità in cambio degli investimenti cinesi e crisi postepidemia

Anche Andrea Spinelli Barrile si occupava dell’economia, immaginando di poter usare occhiali diversi in grado di adattarsi alle soluzioni parziali connaturate alla struttura economica-finanziaria dell’Africa Orientale. Attrarre capitali stranieri serve per sopperire con quella liquidità alla inflazione; la produttiva o il welfare, la ricchezza si sposano a un approccio forse più umano all’economia delle varie Afriche.

Andrea Spinelli Barrile, 24 novembre 2018: monetarismo e sistemi economico-finanziari in Africa Orientale; intervento registrato su Radio Blackout

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