Golfo del Messico e Caraibi Archivi - OGzero https://ogzero.org/regione/golfo-del-messico-e-caraibi/ geopolitica etc Mon, 08 Jan 2024 15:23:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Gentrificazione e apartheid incistati sul lascito coloniale https://ogzero.org/studium/gentrificazione-e-apartheid-incistati-sul-lascito-coloniale/ Sat, 30 Dec 2023 23:14:39 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12219 L'articolo Gentrificazione e apartheid incistati sul lascito coloniale proviene da OGzero.

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Casco Viejo. Panama City coloniale

Il luogo che più di tutti sta soffrendo la gentrificazione è la Città Vecchia di Panama, dove casi come quello della scuola Nicolás Pacheco simboleggiano la resistenza implacabile degli ex residenti del quartiere contro le politiche predatorie del capitale.

Sulla gentrificazione e sul diritto ad abitare

Prima però di parlare di questo caso simbolo e di raccontare come si è giunti alla situazione odierna, è importante fare una riflessione sul concetto di gentrificazione e sul diritto ad avere un luogo nel quale abitare con dignità. Per fare ciò condivido le considerazioni di Carla Luisa Escoffié Duarte, direttrice del Centro per i Diritti Umani della Libera Facoltà di Giurisprudenza di Monterrey. È l’autrice del libro El derecho a la vivienda en México. Derechos homónimos pubblicato da Editorial Tirant lo blanch.
Nelle parole di Escoffié Duarte, che ho tradotto da un suo articolo apparso su “Este País” il 21 giugno 2022 scopriamo che:

«Questo concetto è causa di continui dibattiti e lotte all’interno del mondo accademico, motivo per cui non è possibile accontentare tutte le voci. La sua stessa formulazione è solitamente tanto elementare quanto complicata. È un concetto emerso negli anni Sessanta come proposta concettuale di Ruth Glass. I processi che ha cercato di descrivere in Inghilterra presentano somiglianze e distanze da ciò che accade oggi nelle città dell’America Latina. Di conseguenza, sono state proposte classificazioni geografiche, storiche e qualitative su cosa sia la gentrificazione.
Attualmente, l’America Latina si sta spostando sempre più da uno scenario alla Burning Plain a uno più simile a Blade Runner. Secondo i dati UN-Habitat, oltre l’80% della popolazione della regione vive attualmente nelle città. Secondo i dati Inegi, nel 2020, due terzi della popolazione messicana vivrà nelle città e più della metà in città con 100.000 o più abitanti. Questo fenomeno non implica la scomparsa della vita rurale, ma piuttosto un’alchimia rurale-urbana… dove la città appare come il nuovo scenario di conflitti e tensioni tra classi, generi, identità, religioni ed esperienze. Ciò lo rende anche il nuovo spazio di monopolio da parte delle grandi potenze economiche. Il territorio rurale ha continuato a essere di grande interesse ed è ancora ambito per la produzione che utilizza manodopera a basso costo, ma è emerso un nuovo campo di coltivazione: l’agricoltura immobiliare. Le città sono gli spazi in cui possono germogliare grandi progetti residenziali che non richiedono un’abitazione a breve termine per avere successo economico. Il processo di finanziarizzazione dell’edilizia abitativa consiste proprio nel fatto che gli immobili vengono convertiti in attività finanziarie a fini speculativi. Ecco perché gli edifici vuoti che proliferano nelle zone centrali delle grandi città non rappresentano il fallimento di quel mercato, ma piuttosto le sue forme di accumulazione territoriale contemporanea».

L’abitazione come territorio, la casa come feticcio

Escoffié Duarte già in queste poche righe ci aiuta a cristallizare una dinamica che sta attraversando tutta la regione, come per esempio avevo avuto modo di raccontate intervistando la giornalista Bianca Graulau per “El Páis” sul caso similare di Porto Rico.
L’avvocata messicana però va oltre nell’analisi e ci spinge nell’articolo già citato (e nel suo libro) a una riflessione più profonda che ha a che vedere con il diritto a un luogo in cui vivere in modo dignitoso spiegando cosa intende quando afferma: l’abitazione come territorio, la casa come feticcio.

«Parlare di diritto alla casa in questo contesto implica parlare dei rapporti di potere e delle disuguaglianze socioeconomiche-territoriali che persistono nella regione. Per capirlo dobbiamo prima capire che abitare non è la stessa cosa di avere una casa. La casa è una costruzione architettonica materiale e tangibile. L’abitazione è l’insieme dei processi attraverso i quali una persona abita uno spazio, motivo per cui è costituito da elementi materiali e immateriali. La casa è un oggetto, abitare è un’azione. La casa è uno spazio, abitare è vivere»..

Esistere in quanto abitare

L’abitazione è l’insieme dei processi attraverso i quali una persona abita uno spazio, motivo per cui è costituito da elementi materiali e immateriali

Si parla quindi di diritto ad abitare e non di diritto alla casa. Il diritto umano consiste nell’avere uno spazio in cui vivere, che può essere garantito attraverso la proprietà, ma anche attraverso altre modalità come cooperative abitative, affitti e persino rifugi temporanei per donne vittime di violenza o giovani lgbt+ rifiutati dalle loro famiglie.
Tuttavia, i discorsi egemonici – definiti principalmente dalle élite del settore architettonico e immobiliare – mirano a confondere questi concetti. L’obiettivo è molto semplice: che la popolazione confonda il proprio bisogno con una questione di avere (casa) invece che di essere (abitante di un luogo materiale e immateriale).

Fatte queste necessarie considerazioni possiamo dunque passare a introdurre cioè che sta succedendo nella Cittá vecchia di Panama con il violento processo di gentrificazione già menzionato.

Riavvolgiamo il nastro di Casco viejo

La zona coloniale della Città di Panama, chiamata “Casco Viejo”, ha rappresentato il primo insediamento europeo sulla costa americana fin da quando nel 1519 Pedro Arias Dávila promosse la sua fondazione. Un centro che si trasformò in breve nel quartier generale dei rappresentanti della Corona spagnola e un punto strategico sulle rotte commerciali coloniali e sulle spedizioni che avvenivano verso il Sudamerica (come quella per la conquista del Perù). All’inizio del Diciassettesimo secolo la città contava circa 10.000 abitanti che animavano una vita cosmopolita che si svolgeva in case, alberghi, taverne, conventi, un ospedale, una cattedrale, un forte, una piazza principale, tutti collegati da strade e ponti in entrata e in uscita dalla città. Sappiamo però quanto il Mar dei Caraibi all’epoca fosse rifugio di corsari e pirati, e nel 1671 fu proprio il pirata inglese Henry Morgan a guidare un feroce attacco alla vecchia Panama, saccheggiandola e riducendola in macerie. Sono queste rovine che conformano il Complesso Monumentale Storico di “Panama Viejo”, che comprende appunto le rovine dell’insediamento coloniale e le vestigia archeologiche del periodo preispanico.

Dopo l’attacco e la distruzione lasciata da Morgan, la corona spagnola trasferì la città nel 1673 a sud, su una piccola penisola circondata da scogliere rocciose. È questa nuova città che corrisponde a quello che oggi è conosciuto come Casco Viejo di Panama, zona considerata patrimonio mondiale dell’Unesco fin dal 1997.

Casco Viejo negli anni Trenta

L’Unesco come inizio della fine per i residenti

Fino a questo punto le ricostruzioni, delle autorità della città (e del governo) e dei residenti storici del Casco Viejo, coincidono. Però è negli anni Novanta del secolo passato che si inizia a delineare una frattura nella narrazione.

Questa la versione edulcorata dalla autorità:

«Prima del 1997, il Casco Viejo soffriva di alti livelli di criminalità che causarono lo sfollamento della maggior parte dei suoi abitanti. Tuttavia, dal 2000 in poi, Casco Viejo ha vissuto un processo di gentrificazione volto alla ristrutturazione della maggior parte degli edifici abbandonati della zona. Nascono così centri culturali, ristoranti moderni, nuove boutique e alberghi con bar sulle terrazze. La riabilitazione di Casco Viejo ha riformato molti membri di bande e gangster che ora si dedicano a offrire visite guidate ai turisti. Lo spaccio di droga era l’attività più diffusa nel centro storico, è il caso della banda di Ciudad de Dios. I giovani si ritrovarono senza lavoro e cercarono un modo per sopravvivere nel business della droga. Fortunatamente, l’arrivo di nuove imprese, del turismo e del boom economico ha aiutato questo settore a prendere una nuova direzione nella loro vita. Ora camminano per le strade del centro storico, luoghi di svago, cultura e storia, e dimenticano la violenza e le loro brutte esperienze personali».

Il degrado riqualificato con l’eterno riciclaggio

In base a ciò che avete appena letto, mentre il resto della Città di Panama si espandeva e pensava in grande (vedremo più avanti un progetto multimilionario che iniziò proprio nel 1997), la zona del Casco Viejo era un ricettacolo di delinquenti, perdigiorno, persone di bassa o nulla disponibilità economica e con un limitato livello educativo. In base a questa narrazione (spiegata e difesa in questo articolo di stampa locale) l’opera lungimirante e magnanima dello stato e delle autorità cittadine ha veicolato milioni di dollari (anche procedenti dal riciclaggio come abbiamo visto con lo scandalo dei Panama Papers) per la riqualificazione di questa zona della città.

Trincee e barricate

Basta però passeggiare per le vie Casco Viejo per imbattersi in sacche di resistenza, vere e proprie trincee urbane, che raccontano un’altra storia, una più simile a quello che ci ha spiegato precedentemente Carla Luisa Escoffié Duarte.

Per esempio, striscioni con slogan del tipo Senza abitanti non c’è patrimonio, oppure Il paese si vende al miglior offerente sono posizionati di fronte a una scuola in Plaza Herrera, dove vivono decine di famiglie, unite nell’Associazione dei residenti di San Felipe, che lottano contro uno sfratto coatto che li vuole fuori da questa zona della città.  Lo spiegano bene Leila Nilipur e Melissa Pinel, giornaliste indipendenti, autrici del riconosciuto podcast Indomables, nell’episodio intitolato  La trinchera (la trincea).

Patrimonio dell’Umanità vs Patrimonio umano

«I residenti del quartiere storico della Cittá di Panama vengono cacciati dalle loro case. Abbandonate dalle élite per decenni, le loro dimore coloniali erano deteriorate, ma non vuote. Centinaia di famiglie vivevano lì, mantenendo il quartiere vivace e pieno di tradizione. Ma non appena l’Unesco ha dichiarato il quartiere storico dimenticato Patrimonio dell’Umanità, gli sfratti sono stati immediati. E quei vecchi edifici furono trasformati in alberghi o ristoranti di lusso. Nel frattempo, un gruppo di vicini lotta per una causa che sembra persa: impedire che il loro quartiere perda il suo patrimonio umano».

Fin da prima della Pandemia, questi residenti hanno reagito contro quello che sentono e vivono come un sopruso.

In una intervista al giornale “La estrella de Panama” spiegava che con il piano di riforma e riqualificazione del Casco Viejo li hanno cacciati dalle case dove sono cresciuti. «L’affitto della casa più cara costava 150 dollari al mese, adesso le case ristrutturate non si affittano per meno di 1200 dollari al mese. Ditemi chi può pagarlo», denuncia la presidentessa dell’Associazione dei residenti di San Felipe, Esther Sánchez, già nel 2019.

Esther è una delle vittime del vorace boom immobiliare nel centro storico di Panama scoppiato nel 1997 quando l’Unesco ha dichiarato la zona patrimonio dell’umanità  per i suoi numerosi luoghi storici (Piazze Mayor, Herrera, Bolívar, Chiese di San José, San Francisco…) ed edifici come il Teatro nazionale o quello della Presidenza della repubblica, il Palazzo di giustizia o Bólivar, la Casa Góngora e Boyacá, oltre a un ricco patrimonio architettonico di edifici civili presenti in tutte le sue strade, molti dei quali consumati dalle fiamme nell’incendio del Diciassettesimo secolo e recuperati ecletticamente con nuovi stili aggiunti successivamente: dal coloniale al neoclassico e persino all’art déco.

Dal 2000, l’Ufficio per il Restauro e la Valorizzazione del Complesso Monumentale Storico della Città Vecchia della Città di Panama (Oca) inizia a operare con il Piano Generale per la riabilitazione e il restauro di un’area già occupata da classi sociali con basso podere acquisitivo. Negli anni successivi alla dichiarazione dell’Unesco come patrimonio dell’Umanità della zona, si assiste a un massivo investimento di capitali privati e Fondi stranieri (principalmente europei, canadesi e nordamericani), che non contemplavano nel loro piano di “sviluppo” la permanenza della popolazione locale.

Perciò automaticamente si inizia un piano di espulsione capillare delle persone con minor possibilità economica, con più basso tasso di alfabetizzazione e isolata da gruppi sociali di appoggio. Non stupisce che il piano messo in atto dalle autorità cittadine si chiamasse direttamente “Plan de Evacuación del distrito histórico del Casco Antiguo”, come riportato da questo articolo del giornale nazionale “La Estrella de Panamá”. Come detto, lo slogan del capitalismo che ha invaso questa zona della città è chiaro – Rivive il Centro Storico, rilanciamo il Turismo, rilanciamo la qualità, rilanciamo la comunità. Non si intende però rilanciare un tessuto sociale di quartiere, bensì il varo di un megaprogetto che include anche lo sviluppo della cosiddetta Cinta Costera 3 (che circonda la penisola), per far diventare tutta l’area una boutique a cielo aperto dove il turismo internazionale possa assaporare la “Vecchia Panama” dentro alberghi di lusso e bar/discoteche di tendenza. Un luogo non solo dove non possano più abitare i vecchi residenti ma dove risulta complesso anche per gli abitanti della città poter accedere ai servizi, sempre più cari e diretti in modo netto e chiaro a un potere d’acquisto che non è alla portata della maggior parte delle e dei panamensi.

Calzada di Amador (Causeway)

Visitando oggi la Città di Panama è impossibile non sentir palare della Calzada di Amador, più conosciuta tra le nuove generazioni con il nome di Causeway. La storia di questa passeggiata unica, circondata dall’acqua risale agli inizi del secolo, quando le tre isole Naos, Flamenco e Perico erano ancora separate e collegate solo attraverso piccole barche o traghetti. Quello che oggi conosciamo come Amador Causeway è un enorme frangiflutto costruito tra il 1908 e il 1914 con terra e rocce estratte dagli scavi del Canale, con lo scopo principale di proteggere l’ingresso del Canale dalle forti correnti della Baia di Panama e di diventare una base militare statunitense (la prima fu installata nel 1911).

Il Biomuseo, che oggi si trova proprio nella Calzada de Amador ha dedicato un esteso e dettagliato progetto alla storia di questo luogo simbolo della città, un progetto che permette attraverso foto e testimonianze di fare un salto nel passato.
È così che scopriamo Causeway, per lungo tempo foce del Rio Grande, un enorme delta pieno di mangrovie e paludi, dove si trovava il molo La Boca, parte del sistema portuale della città di Panama. All’inizio del Ventesimo secolo, il fiume fu ostruito con una diga, le sue mangrovie e le sue paludi furono cancellate e il canale trasformato fino a diventare l’ingresso del Canale di Panama. Come detto, dal 1911 al 1996 Amador fu sede di basi militari statunitensi, e le truppe utilizzarono la strada rialzata per raggiungere le batterie di artiglieria costiera delle isole di Naos, Perico e Flamenco.
Il progetto del Biomuseo denuncia come per 75 anni pochissimi panamensi abbiano potuto camminare lungo il bordo del Canale sulla Amador Causeway, perché questa striscia di territorio larga 16 chilometri era sotto controllo (e sovranità) degli Stati Uniti tra il 1904 e il 1979, come abbiamo avuto modo di spiegare nel capitolo La Zona del Canale.

Amador – CauseWay | foto Diego Battistessa, ottobre 2021

Prima del 1979, le uniche persone che potevano entrare ad Amador erano il personale militare statunitense, i lavoratori delle basi civili, i dipendenti della Canal Company e i membri dei club sociali e sportivi che avevano strutture ad Amador, come il Balboa Yacht Club che oltre all’attracco per le imbarcazioni da diporto, disponeva di un bar-ristorante che fu sede di numerose feste, finché un incendio nel 1999 distrusse l’intero edificio.
Nel 1930 iniziò a operare il traghetto Thatcher, che offriva un servizio gratuito per facilitare il transito tra Cittá di Panama e l’interno del paese, che era stato separato dalla costruzione del Canale. Questo traghetto operò fino al 1962 quando fu inaugurato il Ponte delle Americhe: all’epoca circa 40 navi attraversavano Amador per entrare e uscire dal Canale (per un ulteriore approfondimento si può consultare a questo indirizzo)

Vista dalla Calzada de Amador del ponte della Americhe | foto Diego Battistessa, dicembre 2021

L’Amador Causeway è oggi una delle zone più vive della città e finalmente è disponibile per tutta la popolazione, anche se il suo alto interesse turistico ha prodotto un rialzo dei prezzi di beni e servizi, che ovviamente produce un effetto indiretto di esclusione sociale.
Non a pagamento rimane però la vista, una delle più privilegiate di tutta la città. Verso est si può vedere un panorama che va dal Cerro Ancón, passando per Chorrillo, Casco Antiguo fino ai grattacieli della città. A ovest vediamo l’ingresso del Canale, Veracruz, Punta Chame fino all’isola di Taboguilla.

L’isola di Taboga

Dalla Calzada di Amador (isola Flamenco) si prende il traghetto per arrivare, in circa 30 minuti, a Taboga, popolare isola utilizzata per le gite familiari del fine settimana dalla popolazio ne cittadine e sempre di più anche dai turisti, che la trovano facile da raggiungere (e molto più economica della internazionalmente famosa Bocas del Toro). Emblematica di certo atteggiamento turistico da cui sorge la richiesta di “bonificare” territori è questa breve descrizione di Taboga che si può trovare su Lonely Planet: «Un’unica strada e traffico praticamente inesistente fanno di quest’isola tropicale, situata a soli 20 km dalla costa, un luogo perfetto per fuggire dal trambusto della capitale: Panama City. Soprannominata “Isola dei Fiori”, è coperta di profumatissimi boccioli per gran parte dell’anno. Il pittoresco villaggio di Taboga, fondato dagli spagnoli nel 1515, ospita una delle chiese più antiche dell’intero emisfero occidentale».

Artificial Islands

Vista della Ocean Reef Island da Punta Patilla | foto Diego Battistessa, ottobre 2021

Il caso delle Ocean Reef Islands

Si tratta di uno dei progetti più ambizioni realizzati nella regione negli ultimi anni e consiste nella costruzione di due isole artificiali collegata alla costa (nella zona di Punta Pacifico) per mezzo di un ponte. Sul sito della compagnia che promuove la vendita degli esclusivi appartamenti di questo enclave di ricchi creata artificialmente fuori dalla città, letteralmente in mezzo all’oceano, troviamo la frase di marketing: trasforma il tuo modo di vivere la città. Come se non fosse sufficientemente chiaro, in mezzo alla promozione per la vendita delle unità ancora in costruzione, ai possibili acquirenti in merito al piccolo porto privato, si specifica quanto segue:

BENVENUTI IN PARADISO. Una Marina di prim’ordine nella Repubblica di Panama. Più di 150 ormeggi fino a 60 metri (200 piedi), protetti da due isole private dove esclusività e lusso permettono di vivere la propria esperienza con un’incomparabile varietà di servizi che vanno oltre il tradizionale.

Resort isolato per ultraricchi in apartheid dorato

Insomma, un luogo creato artificialmente, un progetto originariamente concepito nel 1997 come ultima fase dello sviluppo dell’area di Punta Pacifica, una delle zone ricche di Panama (dove sorge l’Hotel Marriott per intendersi): le prime isole residenziali costruite dall’uomo in America Latina. Un luogo dove gli ultraricchi possono sentirsi tali nella loro privacy senza doversi mischiare con il resto della capitale di un paese con un tasso di povertà in preoccupante crescita. Già nel 2019, le statistiche i dati ufficiali sulla povertà generale di Panama (dati offerti dal Ministero di Economia e Finanza) avevano raggiunto il 21,5% della popolazione, ovvero 917.069 persone; di cui, il 10%, viveva in condizioni di estrema povertà (o indigenza): cioè 428.005 persone. E questi erano i numeri prima del Covid19 e della crisi del prezzo dei combustibili causati dalla coda lunga della guerra in Ucraina.

Il piano delle isole disponibile sul sito web della compagnia

Ocean Reef Islands è composta da due isole (Isola I e Isola II) di 103.251 m² e 87.552,95 metri quadrati unite da un ponte. Una comunità residenziale privata che conta con un eliporto, uno yacht club, e che è situata nel centro di Panama City pero senza doversi “mischiare” con il resto della città (e soprattutto dei cittadini/e).

Lo stesso gruppo immobiliare che si è incaricato del progetto, fornisce sul sito l’e-book della costruzione. Si tratta di Los Pueblos, un gruppo panamense costituito da varie imprese che fin dal 1985 si occupa dello “sviluppo” della città di Panama. Uno dei nomi noti e fondatore del gruppo Los Pueblos è Mayor Alfredo Alemán, che nel giugno 2020 veniva segnalato da Forbes come una delle persona più ricche di Panama (e una delle più ricche dell’America Centrale) con un investimento di 1,9 miliardi di dollari. Un’enorme ricchezza che però non è cosa rara a Panama dove troviamo per esempio il 78enne, Stanley Motta, azionista in Motta International, Copa Holdings, Gruppo Assa, Inversiones Bahía, TVM Media, Banco Intercontinentale di Panama, con un attivo totale di 4,347 miliardi di dollari (al 2019) e inserito in questo 2023 sempre da “Forbes nella lista delle persone più ricche del mondo.

Riflessione finale

Panama insomma, non smette di sorprendere. Con i suoi contrasti, le sue moderne spavalderie che si stagliano alte nel cielo o in alto mare, circondate da radici di tradizione, storia e folklore, le sue complesse vicissitudini, il suo calore (climatico e umano), la sua capacità di diventare casa per chiunque e allo stesso tempo di togliere la casa a chi qui ha sempre vissuto.
Dalla selva del Darien, al mar dei Caraibi, passando per il maestoso Canale, l’antica base militare statunitense, l’Oceano Pacifico e l’Oceano Atlantico, le contee indigene e i luoghi della (R)esistenza afrodiscendente.
Una babele di mondi, di storie, di lingue, di natura selvaggia, di geografie di lotta e insorgenza. Rifugio di malfattori, terra promessa di migranti, forgia di donne indomabili e crocevia di quasi tutto ciò che si consuma nel mondo.
Concentrato di disuguaglianza eppure paese di opportunità, sede degli uffici regionali dall’Onu ma anche delle società che riciclano tonnellate di dollari, solidarietà e corruzione, cosmogonie ancestrali e fast food… Chiunque arrivi a Panama per la prima volta sentirà di conoscerla da sempre eppure conoscerla davvero nella sua complessità è probabilmente impresa quasi impossibile, fin qui in queste 7 puntate abbiamo provato a mostrare quanti problemi e temi si nascondono in questo istmo da cui fuoriescono poche informazioni… se siamo riusciti a incuriosirvi, troverete tra qualche tempo un ulteriore approfondimento… probabilmente anche in formato cartaceo.

Fine

¡Ya Basta extractivismo! Marca-paese Dighe e discariche Merci rivolte e infrastrutture La Zona del Canale Ancestralità e gentrificazione

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]]> Memoria ancestrale vs merci inurbate e retaggio infrastrutturale https://ogzero.org/studium/memoria-ancestrale-vs-merci-inurbate-e-retaggio-infrastrutturale/ Sun, 24 Dec 2023 00:26:00 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12165 L'articolo Memoria ancestrale vs merci inurbate e retaggio infrastrutturale proviene da OGzero.

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Gentrificazione battente bandiera panamense

Dopo la panoramica che abbiamo dato rispetto a un paese, Panama, le cui dinamiche interne sfuggono usualmente al grande pubblico, andiamo a esplorare la sua capitale e soprattutto un modello di vita che manifesta una gentrificazione senza scrupoli, senza limiti e promossa in modo costante sia dal capitale nazionale che straniero.

Città di Panama, fondata il 15 agosto 1519 dallo spagnolo Pedro Arias Dávila con il nome di La Muy Noble y Leal Nuestra Señora de la Asunción de Panamá, è oggi una delle città che meglio rappresentano i contrasti e le disuguaglianze che attanagliano l’America Latina. In questa urbe di 1,5 milioni di persone (secondo dati ONU) troviamo una speculazione edilizia costante, spesso correlata al riciclaggio di denaro, un processo accelerato di gentrificazione (soprattutto nella zona della Città Vecchia), e una separazione netta e violenta delle classi sociali, operata attraverso l’utilizzo di elementi di architettura ostile (o design dell’emarginazione) che si riflettono in tutte le zone moderne e “high class” della capitale del paese centroamericano.

Una marcata discriminazione della strutturazione sociale che riverbera sugli spazi e sull’architettura della città

Nella città gli elementi della diversità etnica del paese sono molto presenti ma risulta altrettanto chiaro a che classe sociale sia attribuito ogni “livello” della struttura demografica. Da una lato infatti possiamo vedere come le persone appartenenti alle popolazioni indigene del paese vivano del lavoro informale, della particolare mancanza di accesso ai diritti fondamentali e del salario alla giornata. Non è insolito vedere persone indigene vendere la loro merce per le strade, in zone degradate della città (come via Veneto, una dei centri del traffico di persone e della prostituzione di tutto il paese centroamericano) oppure chiedere alcuni spiccioli per comprare l’ennesima bottiglia di alcool del giorno. Nonostante ciò è importante sottolineare che l’immagine generale che si percepisce rispetto alle culture ancestrali nella capitale, ha davvero poco a che vedere con ciò che si scopre e si può imparare dalla visita alle sei contee (già descritte in precedenza) che dal 1938 al 2020 hanno cambiato il volto politico-amministrativo del paese, dando autonomia e una certa indipendenza alle popolazioni native.

L’apporto nativo alla cultura del paese…

La situazione in città, appena descritta, non fa certo giustizia al contributo di queste popolazioni, basti pensare per esempio come lo stesso nome della capitale (e per estensione del paese) provenga da una parola indigena (anche se c’è ancora dibattito sul significato). Le due versioni esistenti coincidono sull’origine, e cioè che gli spagnoli una volta arrivati nella zona costiera dove oggi sorge la città abbiano attinto al linguaggio locale per battezzare il nuovo insediamento. Una versione spiega come Arias Dávila abbia utilizzato il nome che gli indigeni cueva (popolazione originaria completamente massacrata ed estinta durante la conquista spagnola dell’istmo) davano a un piccolo gruppo di case nei pressi della zona, conglomerato chiamato appunto Panama. Secondo questa versione la parola Panama potrebbe avere due significati: “abbondanza di pesci e farfalle” oppure potrebbe essere “il nome che gli indigeni davano a un albero” sotto la cui ombra erano soliti riunirsi. L’altra versione chiama in causa il popolo indigeno guna, protagonista nel 1925 della Rivoluzione guna e della effimera repubblica di Tule (sul golfo di Urabá, a cavallo del confine colombiano), che avrebbe utilizzato le parole panna mai (da qui Panama per gli spagnoli) come sinonimo di “oltre quel punto”.

… e alla superficialità della merce-turismo

Ovviamente però le popolazioni indigene costituiscono anche un forte richiamo turistico, elemento che non è stato sottovalutato dal capitale avido di poter trasformare in merce ogni cosa. E così, nella città che vede vivere nella periferia e nella precarietà quelle persone indigene che hanno lasciato le contee, si vende l’immagine di un paese plurale, che custodisce e apprezza la sua eredità indigena e che mette in vetrina l’arte ancestrale e la sapienza manifatturiera dei nativi. Un doppio standard che serve, dentro la capitale, per offrire al turismo internazionale una foto ricordo, un souvenir “stravagante”, un pezzo di cultura locale. In mezzo a tutto questo ci sono però anche punti di luce e tra questi spicca il museo Mumo, Museo della mola, prodotto della messa in comune di più di 200 molas provenienti dalle collezioni della Fondazione Llopis (più di due terzi delle molas), dalla collezione privata di David de Castro (un quarto del totale) e dalla Fondazione di Alberto Motta che ha promosso l’idea della creazione di questo spazio. Un luogo assolutamente da visitare (ingresso gratuito) e che contribuisce a innalzare l’immagine e cultura del popolo indigeno guna, (che ha appoggiato l’iniziativa attraverso i suoi cinque diversi congressi) mostrando a chi visita il museo qualcosa di unico.

Porta d’ingresso del Museo della Mola: El Colegio II, Planta baja y nivel 200, Calle José D. de la Obaldía – Casco Antiguo, Panamá. | Foto Diego Battistessa, gennaio 2022

Storia emblematica delle tipiche molas

Le molas sono piccoli rettangoli di tela che vengono usati per coprire (integrati nei vestiti) il petto e le spalle dell’abito tradizionale delle donne guna. Sono elaborate a mano mediante la tecnica della sovrapposizione di diverse cappe di tessuto. Si tratta di un lavoro certosino e una donna guna può impiegare fino a 60 ore di lavoro per produrre una mola di difficoltà medio (la difficoltà dipende dai colori, dai motivi, dalla grandezza…). Storicamente si crede che le donne guna abbiano cominciato a utilizzare questa tecnica all’inizio del Diciannovesimo secolo. La produzione delle molas ha visto un salto di qualità negli anni Sessanta, quando le comunità hanno perfezionato la tecnica arrivando alla produzione di molas di una complessità straordinaria.

Dal punto di vista ancestrale, all’interno del museo viene spiegato che, secondo la cosmovisione guna, le molas furono create fin dall’origine dell’universo nel Galu Dugbis, un luogo sacro che si trova nella quarta cappa dell’inframondo, spazio nel quale vivono le specialiste delle forbici, spiriti con aspetto di bellissime donne. Quando un uomo nele (o guida spirituale), si avvicinava a questo Galu, veniva ammaliato da una di queste donne che lo convertiva immediatamente in suo sposo. Secondo il mito, nessun uomo sarebbe mai tornato dal Galu Dugbis e fu una donna, Nagegiryai, l’unica che riuscì a penetrare questa cappa riuscendo a vedere i disegni, armonici e cangianti, tessuti dagli spiriti. Nagegiryai apprese dentro il Galu Dugbis l’arte delle molas insieme a molte altre conoscenze ancestrali femminili, che poi trasmise al resto delle donne del popolo guna.

Le molas vengono vendute in tutte il Casco Antiguo (città vecchia) ma anche nel resto della città, come souvenir e attrattivo turistico, insieme ad altri oggetti appartenenti alle culture degli altri popoli indigeni. Da Yaviza e dintorni, per esempio, un piccolo porto nel mezzo della selva del Darién arrivano le meravigliose e complesse manifatture realizzate dal popolo emberá. Yaviza è un nodo di collegamento con il pacifico e il punto di termine della famosa “Carrettera panamericana” che inizia in Alaska, 12 580 km più a nord. La Panamericana riprende poi a Turbo in Colombia, dall’altra parte della Selva del Darién, per arrivare fino alla punta sud del continente.

Un villaggio di circa 4500 anime, con un mix etnico afroamerindio che fa del luogo un melting pot storico, sociale e culturale. Il popolo indigeno emberá (le cui donne vestono le coloratissime paruma), il popolo indigeno wounaan, una folta comunità afrodiscendente e molti sfollati del lungo e terribile conflitto interno colombiano: tutto questo è Yaviza A ricordo della colonia spagnola si trova la piccola fortezza di San Geronimo, molto deteriorata e “mangiata” dal fiume Chucunaque, ma ancora visibile: meno di 100 chilometri più a sud, nella spessa e quasi impenetrabile selva del Darién, è già Colombia, ma questa è un’altra storia.

Testa di Ara, realizzata dalle sapienti mani del popolo indigeno emberá. | Foto Diego Battistessa, Yaviza, novembre 2021

La migrazione afroantillana e il quartiere di Calidonia

Un altro importante luogo di memoria storica e di rivendicazione del ruolo della popolazione afrodiscendente nella regione latinoamericana è senza dubbio il museo afroantillano di Panama.  Un luogo che l’estensore di queste note panamensi ha avuto il privilegio di poter visitare durante le ricerche per la stesura del suo libro America Latina afrodiscendente: una storia di (R)esistenza e che ci guida dentro una storia purtroppo poco conosciuta.

Contractors afroantillani per costruire infrastrutture ottocentesche

La prima migrazione afroantillana (afrodiscendenti provenienti dalle Antille) arrivò a Panama, nella zona atlantica di Bocas del Toro, intorno al 1820. In quella zona infatti operavano le compagnie bananiere britanniche provenienti dalle isole di San Andrés e Providencia. Verso le metà del 1800 però, la febbre dell’oro californiana generò un forte interesse per la costruzione di una linea ferroviaria transcontinentale e fu così che la Compañia del Ferrocarril di Panama (con sede a New York) mise sotto contratto 5000 giamaicani tra il 1850 e il 1855. A quell’epoca si credeva che i lavoratori neri giamaicani fossero gli operai perfetti per quel tipo di compito: da un lato si pensava che i neri fossero immuni (o quasi) alle malattie tropicali e dall’altro la pessima situazione economica della Giamaica li obbligava a emigrare per lavorare.

Vecchie e nuove rotte commerciali si concentrano sull’asse Colon/Panama

I nuovi arrivati si stabilirono lungo la rotta del treno, percorso che passava da Colón (città sulla costa atlantica all’epoca conosciuta come Aspinwall) e che arrivava alla città di Panama. Questa migrazione massiva fomentò il commercio dell’istmo attivando/riattivando nuove e vecchie rotte commerciali con Kingston (Giamaica), Europa e Usa. I migranti afroantillani che poi decisero di rimanere nel paese anche nella seconda metà dell’Ottocento, forgiarono un tessuto sociale ricco e articolato, fatto di scuole, negozi, chiese, logge e associazioni benefiche.

Scene di vita della popolazione afroantillana che decide di rimanere nell’istmo nel Diciannovesimo secolo | Foto del Museo afroantillano di Panama

Gli afroantillani giocarono inoltre un ruolo di primo piano come forza lavoro per il progetto francese del Canale di Panama: quello guidato da Lesseps e che terminò in un fallimento. Centinaia di loro morirono per gli incidenti e le malattie tropicali, falcidiati dall’inclemenza della selva. Con l’avvento degli Stati Uniti d’America il progetto del Canale si riattivò e ancora una volta loro, gli afroantillani erano in prima linea…

Il genius loci di Calidonia tra Ferrocarril e Canal

Il museo afroantillano di Panama sorge nella parte della città corrispondente al distretto di Calidonia, zona dove molte delle famiglie afroantillane migranti si stabilirono durante il periodo della costruzione della rete ferroviaria e del canale. Un luogo simbolico, attraverso il quale è possibile raccontare la storia di una città che ha vissuto un fiorente commercio, una forte migrazione e una importante mescolanza culturale. Processi che hanno segnato quella che venne battezzata da William Patterson alla fine del Seicento come Baia di Caledonia, giacché la prima colonia che si stabilì nella zona era scozzese e Patterson decide di assegnarle il nome latino con il quale era conosciuta la Scozia. Il nome passò poi attraverso la lingua castigliano e diventò Calidonia, allo stesso tempo in cui, quando Panama era ancora colombiana, le terre corrispondenti oggi al distretto venivano distribuite a pochi ricchi latifondisti. L’idea era quella di rendere la zona un luogo di commercio che potesse attirare la migrazione straniera e così nel 1823, il Congresso della Colombia (stato nato solo 2 anni prima) emanò un decreto che autorizzava la distribuzione di 1.920.000 ettari di terra demaniale.

Costruzione della comunità afroantillana giunta nell’istmo nel Diciannovesimo secolo | Foto del Museo afroantillano di Panama

Prodromi della finanziarizzazione panamense e conseguente prima gentrificazione (1908)

L’obiettivo erano gli investimenti europei e nordamericani che avrebbero dovuto aiutare a stabilire nuove imprese e colonie commerciali per attivare la zona dell’istmo. Nonostante ciò, almeno all’inizio la zona “non decollò” e per gli abitanti, per lo più immigrati dei caraibi che lavorano in condizioni precarie per le grandi compagnie, esistevano limitazioni sanitarie dovute alla mancanza di acqua potabile, all’inesistenza di un sistema sanitario, alle paludi e alle strade allagate che facilitavano la proliferazione di zanzare e la trasmissione di malattie come la malaria.

Fn in quello scenario che due compagnie che all’epoca furono tra le protagoniste della scena pubblica dell’istmo, la Panama Railroad Company e la Isthmian Canal Company, decisero di intervenire per creare una zona abitabile che permettesse l’espandersi delle loro operazioni commerciali. Per fare ciò dovevano poter contare su un quartiere moderno e così decisero di intervenire per riqualificare un quartiere che nel 1908 contava una popolazione di 35.668 abitanti (la maggior parte della quale era forza lavoro proprio per queste compagnie). I lavori vennero incentrati su un piano igienico-sanitario che vide anche la necessità di asfaltare le strade, la demolizione di molte case (specialmente quelle dei migranti caraibici, la costruzione dell’acquedotto e di un nuovo sistema di fognature. Come era previsto la riqualificazione della zona aumentò il valore del terreno e incoraggiò la speculazione immobiliare per la costruzione di grandi edifici popolari (a capitale privato) per l’affitto di stanze ai residenti.

Ponte di Calidonia

Calidonia fu anche lo scenario di numerosi scontri tra liberali e conservatori (che si disputavano il controllo politico della Colombia) e proprio in questo distretto venne combattuta la sanguinosa battaglia del Ponte di Calidonia, che vide la sconfitta dei liberali e dove morirono 800 soldati (700 della fazione dei liberali e 100 della fazione dei conservatori).
Il Ponte Calidonia sorgeva proprio nella zona dove oggi si trova il Museo afroantillano.

Vista del Ponte di Calidonia (destra) nel 1916, insieme alla famosa Casa Miller (sinistra). | Fonte wikipedia, foto di uso comune

Il 29 aprile 1915 il presidente Belisario Porras (Panama aveva dichiarato la sua indipendenza dalla Colombia nel 1903) divise la città in 4 grandi settori tra i quali figurava appunto Calidonia, insieme a Curundú, Bella Vista e Santa Ana; rispettivamente a ovest, nord e sud. A oggi invece il distretto è amministrativamente composto da cinque quartieri: Calidonia, Marañón, San Miguel, La Expósito e Perejil.
I fragili edifici in legno che costituivano i blocchi comunitari porticati e i balconi furono esclusi dai lavori di conservazione (come la Casa Miller che si vede nella foto: qui un approfondimento) ma oggi camminando per le strade di Calidonia, un occhio attento può ancora riconoscere tracce di quel passato che tanto ha contribuito alla coesione sociale e alla formazione del centro urbano.

Casco Viejo…

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Da un imperialismo all’altro… l’arroganza di Washington

L’importanza geopolitica del Canale

Non è però possibile capire la storia di Colón e dello Repubblica di Panama senza fare riferimento alla creazione della zona del Canale e all’ingerenza degli Stati Uniti d’America nelle vicende interne di questo paese centroamericano.

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Terminal Atlantico del Canale di Panama, provincia di Colón | Foto D. Battistessa (2021)

Concessione capestro

Tutto parte dal Trattato Hay-Bunau Varilla. siglato solo15 giorni dopo l’indipendenza di Panama dalla Colombia (avvenuta il 3 novembre 1903) e che dava agli Usa la concessione per la costruzione del Canale, la sua gestione perpetua e il possesso infinito di una fascia adiacente al percorso del Canale di 16 km (10 miglia) di estensione su ogni lato (est ed ovest). La storica panamense Marixa Lasso nel suo controegemonico libro “Erased: The Untold Story of the Panama Canal” (2020) ci aiuta a capire come i termini di quel trattato furono volontariamente “mal interpretati” dagli Usa, che imposero una lettura unilaterale degli accordi con conseguenze drammatiche sia per gli abitanti originari di quella che divenne poi la Zona del Canale sia per il paese centroamericano in generale.

L’imprescindibile libro della storica Marixa Lasso, nella versione inglese e nella versione in spagnolo. Un documento inestimabile per comprendere la storia del Canale di Panama, non raccontata dagli Stati Uniti D’America

Un territorio occupato e diviso in due

Con l’applicazione di questo trattato si divideva di fatto il paese centroamericano in due, con una frangia di 16 km che costeggiava sui due lati il Canale, spazio nel quale vivevano migliaia di statunitensi con le loro famiglie, in una vera e propria enclave Usa, che funzionava con leggi e regole proprie. Gli abitanti di questa zona erano chiamati zonians (dall’inglese) e vivevano isolati, protetti dalla polizia del Canale e dalle truppe dell’esercito Usa. Un territorio al quale i panamensi non avevano accesso (se non con permessi speciali) e nel quale il tenore di vita era molto più alto che nel resto di Panama. I cittadini di Panama vissero per anni in un clima di discriminazione, ingerenza, disprezzo e soprusi da parte del contingente Usa formato da civili e militari e le tensioni crebbero per anni, fino ai fatti drammatici del gennaio del 1964.

Murales nel centro di Panama, di fronte al monumento ai martiri del 9 gennaio 1964 | Foto D. Battistessa (2022)

Costante riproposizione di imperialismi nei secoli

Contesto imperialista negli anni Sessanta

Fatti che si verificarono in un contesto internazionale molto volatile e di necessaria comprensione per analizzare la trascendenza del sacrificio di quei giovani panamensi, passati alla storia come martiri della patria. Dobbiamo ricordare infatti che il 1° gennaio 1959 aveva trionfato la rivoluzione castrista a Cuba e in tutta la regione soffiava un forte vento antimperialista. A Panama, dove gli Usa esercitavano de facto la sovranità sulla zona del Canale, questo sentimento crebbe e nutrì le giovani menti delle nuove leve, studenti convinti di dover fare la loro parte nel grande “gioco” della storia. Inoltre, pochi mesi prima di quel fatidico 9 gennaio, ricordato appunto come “giorno dei martiri”, venne ucciso a Dallas il presidente degli Stati Uniti d’America John Fitzgerald Kennedy (22 novembre 1963), scatenando una convulsione nazionale che si sommava alla lotta del movimento per i diritti civili delle persone afroamericane e al momento algido della guerra fredda contro l’Unione Sovietica. Nell’agosto del 1964 inoltre gli Stati Uniti d’America entrarono ufficialmente nel conflitto del Vietnam (durato fino al 1975) aprendo un nuovo fronte di lotta internazionale. Il Canale di Panama non era dunque un elemento scollegato dalla trama internazionale ma era bensì un pezzo chiave della scacchiera geopolitica dell’epoca, dove gli Stati Uniti d’America guidavano la loro azione politica in America Latina basandosi sulla “dottrina Monroe”. Una dottrina elaborata dal presidente James Monroe nel suo discorso del 2 dicembre 1823 al Congresso e che stabiliva che gli Stati Uniti d’America non avrebbero tollerato l’ingerenza delle potenze europee nel continente americano. Essa stabiliva inoltre che qualsiasi intervento degli europei nelle Americhe sarebbe stato visto come un atto di aggressione che avrebbe richiesto l’intervento degli Stati Uniti d’America.

La Mattanza…

Fu dunque in questo contesto che il 9 gennaio 1964 decine di giovani studenti marciarono stringendo tra le mani la bandiera di Panama verso la Zona del Canale, area che come detto era fortemente protetta da un contingente militare degli Stati Uniti d’America. Quel giorno, secondo i documenti che furono declassificati anni dopo dal governo di Washington, la polizia della Zona del Canale sparò 600 colpi di fucile, 132 bombe lacrimogene e 1850 proiettili di revolver calibro 0,38. In quegli scontri morirono 22 panamensi e 4 statunitensi, e si registrarono più di 400 feriti. Un giorno drammatico, nel quale si manifestò tutta la spietata e cinica forza bruta dell’imperialismo Usa. Un evento che però lasciò un segno indelebile nelle menti e nei cuori dei panamensi e che favorì la revisione degli accordi sulla sovranità territoriale nel Canale: revisione sfociata nell’abolizione del concetto di controllo “perpetuo” sulla Zona del Canale da parte degli Stati Uniti d’America e nella firma dei Trattati Torrijos-Carter nel 1977.

… e la Dignità

Dopo la repressione del 9 gennaio 1964 infatti, l’allora presidente della Repubblica di Panama, Roberto Francisco Chiari Remón (conosciuto come Roberto Chiari), compì un atto senza precedenti nella storia del piccolo stato centroamericano: rompendo le relazioni diplomatiche con gli Usa. L’azione di Chiari non solo fu coraggiosa ma creò anche un punto di frattura storica in relazione al vassallaggio esercitato dal gigante nordamericano nei confronti degli stati sotto la sua orbita di influenza. Il 15 gennaio Chiari lanciò dichiarazioni infuocate, inspirate dal sacrificio dei suoi concittadini caduti sotto il fuoco delle truppe del Canale per aver difeso la bandiera patria: Panama non avrebbe riallacciato relazioni diplomatiche con gli Usa a meno di una revisione sostanziale del Trattato Hay-Bunau Varilla. Chiari, che fu presto soprannominato dal popolo come “Presidente della Dignità” decise di non dare più corso allo storico sopruso del trattato del 1903 e forzò la mano di Washington che dovette cedere alle pressioni, acconsentendo alla revisione dei termini degli accordi di inizio secolo. Nell’aprile del 1964, Lyndon B. Johnson (prima vicepresidente di J.F. Kennedy e successivamente 36esimo presidente USA) accettò l’apertura di un dialogo per l’eliminazione della causa del conflitto, inviando a Panama il delegato speciale Robert Anderson per avviare i negoziati. Ci vollero ancora 15 anni ma nel 1979 la Zona del Canale venne “cessata” e fu iniziato il processo di passaggio di proprietà degli immobili così come lo smantellamento delle basi militari Usa nella zona. Finalmente, in adempimento a quanto stabilito nei Trattati Torrijos-Carter (concernenti la Neutralità Permanete e il Funzionamento del Canale di Panama), a mezzogiorno del 31 dicembre 1999, il governo degli Stati Uniti d’America trasferì il controllo del Canale di Panama al governo panamense.

I fatti del 9 gennaio 1964

Operazione sovranità

Statua posizionata di fronte al Museo di Arte Contemporanea di Panama che ricorda i martiri del 9 gennaio 1964 |. Foto D. Battistessa (2021)

Quanto successo in quei giorni di gennaio affonda le radici negli accordi del 1903 e in una ingerenza sulla sovranità territoriale esercitata per decenni dagli Usa sul territorio della Repubblica di Panama. Come detto gli abitanti statunitensi della Zona del Canale erano chiamati zonians e vivevano in una realtà parallela rispetto al resto della popolazione di Panama, cittadine e cittadini che dopo anni di separazione, soprusi e boicottaggi, covarono un sentimento di rivalsa che portò ad azioni concrete iniziate nel 1958. In quell’anno ebbe luogo la dimostrazione chiamata Operazione Soberania, attraverso la quale un gruppo di audaci studenti universitari “piantarono” 75 bandiere panamensi nella Zona del Canale. Il motto degli studenti all’epoca era «el que siembra banderas, cosecha soberanía» (chi semina bandiere, raccoglie sovranità), come ricorda uno di protagonisti di quegli eventi, lo scrittore e storico Ricardo Ríos Torres intervistato da BBC nel 2019. L’anno successivo gli stessi studenti organizzarono quella che venne chiamata Marcia Patriottica, invitando i cittadini panamensi a entrare in modo pacifico nella Zona del Canale sotto giurisdizione Usa. Il governatore della Zona del Canale, che all’epoca era William Everett Potter, dette però l’ordine alla polizia di fermare i manifestanti e di impedire loro l’ingresso: scatenando tumulti e scontri che terminarono con un saldo di vari feriti.

Disfide di bandiera

È in questo contesto di tensione che arriviamo alla quistión de la bandera”, pomo della discordia che scatenò le proteste del 9 gennaio 1964. Per far fronte al crescente nervosismo intorno alla Zona del Canale e alle dispute tra i cittadini dei due stati, i presidenti di Panama e Usa dell’epoca (Roberto Chiari e J.F. Kennedy), giunsero a un accordo nel 1962. Con quella negoziazione si decise che a partire dal 1° gennaio 1964, nei luoghi civili dentro la Zona del Canale, sarebbero state fatte sventolare sia la bandiera statunitense che quella panamense. Giunti però alla fatidica data del 1°gennaio del ’64, gli zonians non rispettarono l’ordinanza del governatore (che dal 1° febbraio 1962 era Robert John Fleming) e issarono solo la bandiera statunitense in segno di protesta e provocazione. Gli abitanti della Zona ritenevano infatti che il provvedimento minasse la memoria dei loro antenati, coloro che avevano costruito il canale e lo avevano gestito per 60 anni. Molti di loro erano nati lì, convinti di essere parte di una missione civilizzatrice su grande scala, sentivano di essere creditori di un ringraziamento da parte dei panamensi e non delle loro “arroganti pretese”.

Gli studenti della Balboa High School si negarono ad issare le due bandiere | Foto dell’archivio del Museo del Canale di Panama

Il caso più noto fu quella della Balboa High School (Scuola Superiore Balboa) dove il 7 di gennaio gli studenti si rifiutarono di seguire le istruzioni date dall’amministrazione del Canale e non issarono la bandiera del paese centroamericano insieme a quella Usa. Il gesto di sfida della Balboa High School fu raccolto dagli studenti dell’Istituto Nazionale di Panama, una scuola pubblica conosciuta popolarmente come “Nido de águilas” (Nido delle Aquile), che il 9 di gennaio si diressero verso la Zona del Canale. Gli studenti panamensi marciarono con alla testa la bandiera di Panama e un cartello con la scritta “Panamá es soberana en la Zona del Canal” (Panama è sovrana nella Zona del Canale). Sei di loro, arrivati nei pressi della Balboa High School, dopo aver ottenuto il permesso delle autorità per issare la bandiera, vennero affrontati però dagli zonians della scuola.

Sei studenti panamensi arrivano con il permesso della polizia della Zona alla Scuola Superiore Balboa – Foto dell’archivio del Museo del Canale di Panama

Scontri e polizia assassina (ACAB)

Nei tumulti che seguirono la bandiera di Panama venne strappata e oltraggiata e gli studenti dell’Istituto Nazionale dovettero fare dietrofront. Malconci e umiliati i giovani del Nido delle aquile raccontarono quanto successo e la loro storia accese la miccia definitiva. Le radio di Panama raccontarono l’accaduto a un popolo che tratteneva a stento l’ardore patrio: migliaia si riversarono ai limiti della Zona del Canale. La polizia del Canale si vide presto superata e cominciò a sparare: il quel momento cadde il primo martire di quel drammatico giorno. Si trattava di Ascanio Arosemena Chávez, giovane dirigente studentesco che aveva da poco compiuto 20 anni e che si trovava in prima fila per aiutare i feriti. A rinforzo della polizia del Canale arrivarono i militari della vicina base Usa, moltiplicando così in breve tempo i morti e i feriti.

Nel frattempo la città di Colón, nella parte atlantica del Canale, si univa alle proteste amplificando la magnitudine dello scontro. Nella Città di Panama i negozi statunitensi divennero bersaglio della furia della folla, case e botteghe vennero date alle fiamme, stessa sorte che toccò all’edificio appena inaugurato della compagnia aerea Usa, Pan American Airlines.

Qui i nomi dei martiri panamensi di quel fatidico giorno: Ascanio Arosemena Chávez, Gonzalo Antonio Crance Robles, Teófilo Belisario De La Torre Espinosa, Jacinto Palacios Cobos, Alberto Oriel Tejada, Ezequiel Meneses González, Luis Vicente Bonilla Cacó, José Enrique Gil, Alberto Nichols Constance, Víctor Manuel Iglesias, Rodolfo Sánchez Benítez, Víctor Manuel Garibaldo Figueroa, Gustavo Rogelio Lara, José Del Cid Cobos, Ricardo Murgas Villamonte, Rosa Elena Landecho, Ovidio Lizandro Saldaña Armuelles, Etanislao Orobio Williams, Maritza Avila Alabarca, Carlos Renato Lara, Evilio Lara e Celestino Villareta.

Operation Just Cause (Operazione Giusta Causa)

La storia degli Usa con Panama non termina però con i Trattati Torrijos-Carter nel 1977, ma vede un altro capitolo oscuro che si sviluppò 10 anni prima della consegna definitiva del Canale alle autorità panamensi.

Il 20 dicembre 1989 infatti si produsse l’invasione statunitense di Panama, sotto il nome in codice di “Operation Just Cause”. L’operazione, durata circa due settimane (terminò ufficialmente il 3 gennaio 1990), fu la risposta alla dichiarazione di guerra pronunciata il 15 dicembre da Noriega, generale e dittatore del paese centroamericano dal 1983. Noriega in passato era stato un collaboratore della Central Intelligence Agency (Cia) e conosciuto per essere particolarmente spietato e opportunista. Soprannominato Cara de Piña (Faccia d’Ananas), Noriega si mosse nel contesto della guerra fredda con furbizia e destrezza tra gli interessi e le manovre diplomatiche delle due superpotenze. Tuttavia, quando Washington gli ritirò l’appoggio (accusandolo di estorsione e narcotraffico), decise di dichiarare “guerra all’impero”. George H.W. Bush, presidente statunitense dell’epoca non tardò nel rispondere e decise di inviare a Panama 26.000 militari. Le truppe Usa usarono l’artiglieria e la forza aerea per bombardare i centri nevralgici del paese soprattutto a Città di Panama e Colón. Uno dei luoghi più bombardati fu il quartiere popolare del Chorrillo (nel casco storico della Città di Panama), dove 20.000 persone vennero sfollate e dove ancora oggi non si conosce il numero esatto dei morti causati da quell’operazione.

L’episodio del podcast Indomables, delle giornaliste indipendenti panamensi Leila Nilipur e Melissa Pinel dal titolo “Quien se acordarà de nosotros” (Chi si ricorderà di noi), ci aiuta a fare luce sui centinaia di desaparecidos che conseguirono a quell’attacco.

Un’operazione militare che fu condannata dalla Nazioni Unite e dall’Organizzazione degli Stati Americani (Oas), come violazione della stessa Carta costitutiva dell’organizzazione. Inoltre, il 29 dicembre 1989 l’Assemblea Generale dell’Onu condannò ufficialmente l’intervento militare come una flagrante violazione del diritto internazionale con 75 voti a favore, 20 contrari e 40 astensioni. Le forze di occupazione statunitensi appoggiarono successivamente l’insediamento, come presidente e vicepresidente della repubblica, di Guillermo Endara e Ricardo Arias Calderón nella base militare di Clayton: Endara aveva vinto le elezioni (poi annullate da Noriega), celebratesi nel maggio del 1989 capitanando l’Alianza Democrática de Oposición Cívilista (Adoc). Come risultato dell’intervento militare Usa, non solo Noriega venne arrestato il 3 gennaio 1990 (e condannato il 16 settembre 1992 a 40 anni di carcere, poi ridotti a 30) ma venne abolito definitivamente l’esercito del paese centroamericano. Infatti, per evitare la possibilità di un altro regime militare, il governo di Panama decise di seguire l’esempio del vicino Costa Rica e, nel febbraio 1990, non ripristinò le forze armate.

Clayton – Vecchia Zona del Canale sotto Amministrazione Usa | Foto. D. Battistessa (2021)

Nel 1994, tale divieto venne incluso nella Costituzione all’articolo 310, che stabilisce che «la Repubblica di Panama non ha un esercito» e aggiunge che sono tutti i cittadini di Panama a dover «prendere le armi per difendere l’indipendenza nazionale e l’integrità territoriale dello stato».

Discriminazione, infrastrutture e valori ancestrali

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500 anni di rotte commerciali e rivolte afrodiscendenti

Skyline di Città di Panama | Foto D. Battistessa (2022)

Colón e la popolazione afropanamense

Quanto succede nella provincia di Colón non può però essere compreso se non si fa un passo indietro nella storia di Panama e non si conosce la situazione della popolazione afrodiscendente del paese centroamericano, popolazione fortemente concentrata in questa provincia caraibica.

El Cimarronaje

(

Estratto da America latina afrodiscendente, di Diego Battistessa (Arcoiris, Salerno 2021)

Le ribellioni dell’istmo di Panama

Nella Panama della colonia spagnola il fenomeno del cimarronaje (epiteto peggiorativo con il quale venivano chiamate le persone schiavizzate che fuggivano) iniziò fin dai primi decenni del Cinquecento, proprio con l’arrivo dei primi “carichi” di forza lavoro schiavizzata dall’Africa. Gli schiavi vennero portati nella zona per svolgere diversi lavori: uno dei principali era la pesca delle perle. Un’attività che, al pari della vita delle miniere d’oro e d’argento, non solo era molto dura ma anche molto pericolosa: decine infatti furono gli africani morti per annegamento, per embolie polmonari o vittime di attacchi di verdesca. A fronte di questa situazione iniziarono le fughe verso l’interno e verso la giungla del Darién. I cimarrones però non si nascondevano dagli spagnoli, li affrontavano in campo aperto e attaccavano le carovane che percorrevano la rotta commerciale dell’istmo che collegava i due oceani. Verso la fine del decennio del 1540, si cominciano ad avere notizie di uno schiavo liberto chiamato Felipillo, leader fuggito dalle zone perlacee e capace di organizzare i cimarrones in un palenque (comunità autonoma di liberti) sulle rive del Golfo di San Miguel, nel Darién. Felipillo e i suoi portavano avanti una guerra di guerrilla nella giungla panamense, realizzando attacchi sul cammino reale e derubando i viaggiatori di armi e rifornimenti: di notte poi razziavano gli insediamenti spagnoli per liberare altri africani schiavizzati.

La difesa spagnola delle rotte di merci atlantiche

Per gli spagnoli la situazione era insostenibile. Avevano da pochi anni iniziato le operazioni commerciali nell’istmo e non potevano permettere a degli schiavi di mettere a rischio quella rotta mercantile. L’impatto delle azioni di Felipillo aveva causato non poche proteste alle autorità spagnole da parte dei coloni, che argomentavano di non poter/voler pagare le tasse e di non avere sufficiente forza lavoro. Il compito di eliminare la minaccia dei cimarrones ricadde sul Capitano Francisco Carreño che iniziò una guerra senza quartiere, infliggendo gravi e inumani castighi a coloro che venivano catturati. Le truppe di Carreño, dopo diverse scaramucce, scoprirono nel 1549 l’ubicazione esatta del palenque di Felipillo, che fu attaccato in forze e ridotto in cenere. Dopo aver ucciso il leader africano gli spagnoli probabilmente pensarono di aver eliminato il problema delle ribellioni nella zona, ma non avevano fatto i conti con l’esigenza biologica di libertà di coloro che erano stati schiavizzati. Poco dopo, altre ribellioni esplosero a Panama, guidate da capi come Antón Mandinga e il Negro Mozambique (che non ebbero molta fortuna) e soprattutto da Bayano, erede dello spirito di Felipillo.

Le origini di Bayano non sono chiare. Si dice che fosse stato catturato nell’attuale Sierra Leone, che fosse un famoso guerriero e che appartenesse alla tribù Mandinga. Un’altra ipotesi lo colloca come membro del popolo Yoruba, al quale appartenevano la maggior parte degli schiavi portati nelle Americhe: ipotesi che spiegherebbe anche il suo nome, derivante probabilmente dalla parola bayanni che in lingua yoruba identifica un idolo o un oggetto venerato dai fedeli del dio del tuono. Anche sull’inizio della sua ribellione le versioni sono discordanti. Alcuni parlano di una ribellione iniziata quando ancora Bayano si trovava sulla barca negriera che lo stava portando a Panama, altri di una fuga e un’insurrezione iniziata poco dopo essere arrivato nel Darién. Quel che è certo è che Bayano, negli anni in cui Felipillo soccombeva alle truppe di Carreño, riuscì a riorganizzare i cimarrones scappati nella selva e a costituire un nuovo, grande palenque conosciuto come Ronconcholon, vicino al fiume Chepo (conosciuto anche come fiume Bayano). Il condottiero africano contava su una forza che gli storici fanno oscillare tra i 400 e i 1200 uomini. Il Palenque di Ronconcholon era dunque una città in piena regola, che poteva disporre di un esercito che rappresentava una grande minaccia per la forza di occupazione spagnola. Per anni le truppe di Bayano portarono avanti una guerriglia che mise in ginocchio il commercio della corona spagnola. Per affrontare il pericolo rappresentato dall’insurrezione dei cimarrones arrivò a Panama anche il marchese de Cañate, viceré del Perù, che incaricò il capitano Gil Sánchez di dirigersi nella regione di Chepo e sconfiggere le truppe di Bayano. Sánchez e il suo contingente però vennero sconfitti. Una successiva spedizione guidata questa volta dal capitano che uccise anni prima Felipillo, Francisco Carreño, ebbe successo e Bayano venne catturato e portato nella località di Nombre de Dios nell’attuale provincia di Colón. Qui il Presidente della Real Audiencia de Panamá, Álvaro De Sosa, offrì ai cimarrones la possibilità di stabilire un accordo per uscire dall’illegalità e convivere con le autorità spagnole. Dopo aver accettato l’accordo ed essere dunque tornato in libertà, Bayano ricominciò tuttavia le razzie e gli attacchi sulle rotte commerciali: di nuovo catturato, questa volta da un contingente di 200 uomini guidato da Pedro de Ursúa venne inviato successivamente in Perù per essere giudicato. Nel cuore dell’impero spagnolo in Sudamerica, il cimarrón ribelle venne processato e successivamente portato in Spagna, dove morì.

Lago di Bayano, che prende il nome dal condottiero liberto del palenque di Ronconcholon | Foto Diego Battistessa (2022)

La storia delle ribellioni di persone schiavizzate a Panamà e la loro presenza sul territorio sono vincolate in modo profondo e simbolico all’identità di tutta la regione. Va sottolineato infatti che i principali insediamenti di gruppi di afrodiscendenti si trovavano in quella che veniva chiamata “Costa Arriba” nell’attuale provincia di Colón (ci furono altri palenque Costa Abajo de Colón, a ovest dell’attuale canale, ma ebbero meno rilevanza). Proprio in quella zona arrivò Cristoforo Colombo durante il suo quarto viaggio, in quelle che ancora non si chiamavano Americhe, nel 1502. La città di Nombre de Dios (dove fu portato Bayano) venne fondata nel 1510 da Diego de Nicuesa ed è uno dei primi insediamenti europei in America: è considerato il più antico insediamento ancora abitato, fondato nell’America continentale dagli europei. La cittadina di Nombre de Dios ebbe fortune alterne: abbandonata e ripopolata nel 1519, saccheggiata e incendiata dai pirati nel 1572 e nel 1596. Dopo l’incendio del 1596 innescato dal corsaro inglese Francis Drake, la popolazione venne spostata nella zona più salubre e fortificabile di Portobelo: altro luogo nel quale si concentra la storia e la trazione afrodiscendente.

La spiaggia del piccolo villaggio di Nombre de Dios, luogo nel quale sbarcò Cristoforo Colombo nel 1502 | Foto D.Battistessa (2022)

Comunità africane sovrapposte a snodi commerciali

In tutta la provincia di Colón troviamo comunità afropanamensi (da notare per esempio anche l’insediamento chiamato Palenque, che nacque come un vero e proprio villaggio di cimarrones e che ha mantenuto il nome fino ai nostri giorni) ma senza ombra di dubbio Portobelo rappresenta il centro identitario più forte. Portobelo non era all’epoca un luogo di permanenza della popolazione afrodiscendente, ma era sicuramente uno dei nodi commerciali di transito più importanti. Con il tempo però si formarono delle comunità africane stabili che si organizzarono nei quartieri di Guinea e Malambo, veri e propri conglomerati di tradizione africana e sincretica. Come eredità di questo processo storico sincretico troviamo la cultura “congo”, concentrata nella Costa Arriba e Costa Abajo della provincia di Colón. Si tratta di un articolato sistema di lingua, musica e danza afrocoloniale. Questa pratica è caratterizzata da un’espressione violenta ed erotica durante la danza, associata a una rappresentazione teatrale, il cui tema riporta a episodi storici della tratta degli schiavi, della schiavitù e delle conseguenti ribellioni nere durante i tempi del colonialismo. Tamburi, danza a piedi nudi, momenti di trance e un linguaggio che mischia lingue coloniali pronunciate al contrario e lingue di origine africana. Un’eredità dei primi schiavi africani che dentro i palenque svilupparono una pratica culturale riconosciuta oggi dall’Unesco come patrimonio culturale immateriale dell’umanità.

Passaggio strategico

Il polo atlantico: Colón

A oggi dunque la provincia di Colón, è caratterizzata per essere la zona di Panama con la più alta concentrazione di popolazione afrodiscendente, popolazione che storicamente vive gli strascichi lasciati da un razzismo strutturale che durante 4 secoli si è manifestato nella regione con la schiavitù e successivamente con una marginalizzazione e mancanza di accesso ai diritti umani fondamentali e alle condizioni di base per lo sviluppo di una piena forma di cittadinanza. La città di Colón, capoluogo dell’omonima provincia ha una popolazione di poco meno di 100.000 persone e dista solo 80 chilometri dalla Capitale, collegata alla stessa dall’Autostrada Transístmica (Panamá-Colón), che unisce le due coste oceaniche (Atlantico e Pacifico) del paese centroamericano. Colón è anche la seconda città più popolosa dei Caraibi centroamericani e qui si trova uno dei porti più grandi di tutta l’America Latina. Dato che contrasta non poco per la situazione di depressione economica e mancanza di servizi e infrastrutture urbane (in comparazione con la Capitale) nella quale versa la città e per estensione tutta la provincia. Colón è infatti un enorme hub commerciale, essendo la zona caraibica di entrata del Canale di Panama, ragione per la quale nell’area è stata istituita quella che si chiama Zona di Libero Commercio di Colón, interconnessa con il Sistema Integrato di Gestione Doganale di Panama, per facilitare e accelerare le procedure del commercio estero.

La vocazione infrastrutturale tra ferrovia e canale interoceanici

Ma le modalità e la nascita della stessa città di Colón, quando l’istmo di Panama faceva ancora parte del territorio nazionale colombiano, ci fanno capire come la zona sia da sempre solo stata vista come un luogo da sfruttare per i capitali nazionali e stranieri. Dobbiamo infatti tornare indietro fino al 1850, quando si decise finalmente di dare vita a un progetto che fu a suo tempo dello stesso Simón Bolivar, ovvero il collegamento attraverso una rotta ferroviaria dei due oceani (il canale di Panama sarebbe stato inaugurato solo 64 anni dopo). Il progetto interessava molto agli Stati Unit d’America e fu proprio lo statunitense William Henry Aspinwall (16 dicembre 1807 – 18 gennaio 1875), socio della società mercantile Howland & Aspinwall e cofondatore sia della Pacific Mail Steamship Company che del Panama Canal Railway a rendersi protagonista di questo progetto ingegneristico. Proprio la Panama Railroad Company aveva bisogno di un terminal sull’Atlantico per costruire la prima ferrovia interoceanica e per fare ciò si decise di costruire l’infrastruttura necessaria sull’isola di Manzanillo (poco più di 250 ettari), sul lato orientale della baia di Limón. I lavori iniziarono nella primavera del 1850 e la manodopera arrivò dalle Antille (con un gran numero di Giamaicani), dalla Spagna e anche dall’Italia: uomini falcidiati da malaria e dissenteria che morirono a decine per realizzare questo progetto. Una volta terminato il terminal Atlantico della ferrovia, alla zona venne data una parvenza (tra degrado e abbandono) di piccolo centro urbano e gli investitori statunitensi proposero di chiamare la “nuova città” Aspinwall, in onore di uno dei grandi capitalisti che finanziavano le operazioni di Panama Canal Railway (William Henry Aspinwall). Lo stato colombiano istituito in quegli anni però non accettò la proposta e battezzò ufficialmente il 27 febbraio 1852 la città con il nome di Colón. Gli statunitensi rifiutarono la decisione e continuarono a chiamare la città (che si trovava in territorio colombiano!) con il nome di Aspinwall. La disputa durò fino al 1890 quando una ferma azione del governo di Bogotá, che eliminò la possibilità di utilizzare l’indirizzo postale di Aspinwall, obbligò gli statunitensi a cedere e accettare il nome di Colón. La città sorta da una stazione ferroviaria non venne però risparmiata dalle vicende belliche che scossero la Colombia nel 1885 e anche dopo l’indipendenza di Panama (nel 1903) fu devastata da un incendio che la distrusse completamente nel 1915 (un anno dopo l’inaugurazione del Canale). Proprio la costruzione del Canale di Panama e la sua messa in funzionamento, portarono nuovo vigore a questo centro urbano che iniziò nella seconda decade del 1900 una costante crescita demografica. A questo si aggiunse nel 1953 la creazione della zona libera per il commercio internazionale di Colón (prima zona franca del mondo moderno) che però non salvò la città da una dura recessione economica iniziata nel 1960 e non ancora terminata.

Il Canale

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La devastazione corre sul filo… elettrico

Un flumicidio premeditato

L’agonia del fiume Tabasará iniziò nel 2007 con la complicità dello stato panamense che autorizzò una concessione per la società Genisa – Generadora del Istmo S.A. (creata ad hoc per la realizzazione del progetto idroelettrico di Barro Blanco): società che iniziò nel 2011 i lavori di costruzione in un clima di forte tensione. Le critiche erano legate alle preoccupazioni sull’impatto del progetto nonché alla mancanza di un’adeguata consultazione pubblica e alle violazioni dei diritti umani perpetrate dalla stessa società.

Quest’ultima, dopo un lungo processo di negoziazioni iniziato nel febbraio 2015, tra alcuni rappresentanti indigeni e lo stato panamense (con intervento dell’Onu), venne estromessa definitivamente dal progetto nel 2016: quando la centrale era già stata costruita per un 95%.

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Con l’acqua alla gola

L’accordo siglato nel 2016 creò però non pochi attriti all’interno della comunità Ngäbe-Buglé, giacché non tutti i membri riconobbero la legittimità di tali accordi, che sancirono de facto l’inizio delle attività della centrale idroelettrica.
Dopo Genisa arrivò Cobra (impresa facente parte fino al 2002 del gruppo Impregilo e oggi parte del gruppo spagnolo Acs) e sul suo sito web si legge che il progetto è iniziato il 15 febbraio 2011 e si è concluso il 23 gennaio 2017: circa 6 anni di lavori. Quello che però attira di più l’attenzione è questo paragrafo che descrive le difficoltà nella realizzazione della centrale e della diga.

«La sfida più grande che venne affrontata durante i lavori fu la chiusura della diga, poiché a causa del tipo di idrologia del fiume Tabasará, c’erano inondazioni durante tutto l’anno e non c’era una stagione secca che facilitasse il getto del cancello di deviazione».

Non c’è traccia dunque delle problematiche legate all’inondazione del territorio indigeno ancestrale Ngäbe-Buglé e delle denunce dei caciques (leader indigeni) che lamentavano i danni irreparabili che avrebbero subito quasi 500 persone delle comunità di Quebrada Caña, Nuevo Palomar, Comunidad Cultural Kiad, Labramona e Calabacito, del distretto Müna, regione di Kodrí.

Non si parla neanche del movimento 10 di aprile e delle molteplici manifestazioni di protesta, blocchi stradali e scontri con la polizia che hanno caratterizzato la presidenza di Juan Carlos Varela (2014-2019). Un processo di invisibilizzazione di una resistenza costante e coraggiosa schiacciata da una centrale idroelettrica da 28,84 MW.

Indígenas panameños alzan su voz contra proyecto Barro Blanco (giugno 2016) | Foto: @jaimesaldana01

Popoli Indigeni di Panama

Quella dei Ngäbe-Buglé, che costituiscono il gruppo indigeno con la popolazione più numerosa (al censimento del 1990 superavano già i 123.000 abitanti), è una lotta che dura da anni ma il loro fronte non è l’unico aperto.

Sei Comarcas di emancipazione

A Panama, secondo i dati del censimento del 2010, sono 417.559 le persone che si riconoscono come indigene, un numero che corrispondeva per quell’anno a poco più del 12% della popolazione. Parliamo però di un gruppo molto eterogeneo che si diversifica in otto popoli indigeni: Ngäbe, Buglé, Guna, Emberá, Wounaan, Bri Bri, Naso Tjërdi e Bokota. Per questi popoli ancestrali, dopo le due indipendenze di quella che oggi è la Repubblica di Panama (nel 1821 dalla Corona spagnola e nel 1903 dalla Colombia) è iniziato un lungo e lento processo di emancipazione e rivendicazione di diritti nel nuovo spazio geografico e amministrativo del giovane paese centroamericano. Un processo fatto di accordi, scontri e rivoluzioni che ha portato il movimento indigeno a ottenere un certo grado di autonomia. A oggi infatti esistono a Panama 6 Comarcas Indigene (Contee) le cui leggi costitutive contengono il riconoscimento della tradizionale struttura politico-amministrativa di questi popoli, della loro autonomia, della loro identità e dei loro valori storico-culturali, nel sistema-stato panamense. Le 6 Contee Indigene coprono oggi un’area di 1,7 milioni di ettari e sono state create in epoche diverse: Guna Yala (1938), Emberá-Wounaan (1983), Guna Madungandi (1996), Ngäbe-Buglé (1997), Guna Wargandí (2000) e Naso Tjër Di (2020).

dighe e discariche

Parara Puru (2022). Comunità indigena Emberà sulla rive del fiume Chagres | Foto Diego Battistessa

1925. La rivoluzione Guna e la repubblica di Tule 

Una menzione speciale in questo processo di emancipazione e lotta per i diritti, merita la rivoluzione Guna scoppiata tra febbraio e marzo 1925 e che portò alla creazione dell’effimera repubblica di Tule. La ribellione fu la risposta del popolo indigeno Guna alla forzata occidentalizzazione imposta dal governo centrale che cancellava così secoli di storia dei nativi. Dopo gli scontri si arrivò a un accordo e la Comarca di Guna Yala fu la prima a essere creata. Da sottolineare che proprio dalla lingua di questo popolo indigeno arriva il concetto di Abya Yala, termine precolombiano che sempre più comunemente viene utilizzato dai popoli ancestrali e dai movimenti antiegemonici per riferirsi alle Americhe.

Territorio di Guna Yala (2021). Sulla barca di può vedere la bandiera del popolo Guna che riporta una svastica. Il simbolo, diventato manifestazione di orrore nella Germania nazista, è però antecedente al suo utilizzo da parte di Hitler | Foto Diego Battistessa

La gigantesca discarica del Cerro Patacón

Dalla devastazione idrica nelle comarcas al fuoco tossico in periferia

Non sono però solo i territori ancestrali delle popolazioni indigene a soffrire un deterioramento costante e un attacco frontale di una speculazione economica senza scrupoli: la stessa sorte è vissuta anche nella periferia della capitale e dentro la stesso Città di Panama. È il caso del Cerro Patacón, un luogo dantesco dove si concentra più del 40% della spazzatura prodotta in un paese di 4,5 milioni di abitanti, dove arrivano, al giorno, circa 2 tonnellate di rifiuti. Un centro di raccolta dei residui capitolini, meglio conosciuto come uno dei più grandi disastri ambientali e sanitari del paese centroamericano. Si tratta di un vero e proprio mostro di rifiuti, che secondo molti esperti è già collassato, con infiltrazioni nelle falde acquifere del sottosuolo, una contaminazione diretta del fiume Guabinoso che lo circonda e con frequenti incendi che liberano nell’aria miasmi tossici. La discarica copre più di 130 ettari, ma alcuni studi ambientali spiegano che la tossicità di questo gigante di rifiuti provoca un impatto negativo sui 9000 ettari circostanti: basti pensare che alcuni quartieri della capitale (Città di Panama) che si trovano a più di 3 km di distanza dalla discarica, soffrono direttamente la contaminazione area e gli effetti degli incendi che si sviluppano sul Cerro Patacón.

Pompieri lavorano nell’incendio del Cerro Patacón, La più grande discarica di Panama, considerata un disastro ambientale, che ha provocato una gran nube di fumo tossico che ammorba una parte della capitale (14 febbraio 2023) | Foto EFE/Carlos Lemos

La situazione è raccontata nel dettaglio da Errol Caballero, nell’encomiabile lavoro giornalistico del 2019 dal titolo La salud del Cerro Patacón pubblicato da Connectas – plataforma periodistica para las Americas.
In questo documento, che conta anche su materiale audiovisuale, troviamo parole lapidare che spiegano come la situazione sia completamente fuori controllo:

«La contaminazione mette a rischio la salute delle comunità vicine alla discarica di Città di Panama e le autorità stanno indagando sulla concessione della società Urbalia, per aver compromesso le fonti idriche a causa della mancanza di controlli. A sua volta, lo Stato non vigila sull’azienda, non offre soluzioni al problema e viene denunciato dagli abitanti della zona».

Una situazione già vista. Un’azienda privata che ottiene una concessione e massimizza i profitti non preoccupandosi delle esternalità negative e dell’incolumità della popolazione, uno stato inerte quando non connivente, che non fiscalizza e non effettua controlli. Nel reportage di Caballero troviamo però anche dure testimonianze, come questa:

«Jackeline Chango, 39 anni, è residente a La Isla, un quartiere marginale costruito sulle rive del Mocambo, uno dei fiumi che attraversa la zona. Quando il sistema di distribuzione dell’acqua potabile viene a mancare – come accade spesso nel settore – lei, insieme al marito Domecin e ai suoi figli, tutti di etnia indigena Emberá, si devono lavare nel ruscello. Lo fanno per necessità, sapendo che quell’acqua è completamente contaminata dalla spazzatura.
Suo figlio Kelvin, cinque anni, non era però cosciente del pericolo e mentre faceva il bagno nel ruscello ha bevuto alcuni sorsi d’acqua. Due giorni dopo hanno dovuto portarlo all’ospedale Santo Tomás, sofferente per dei dolori muscolari. I medici hanno identificato un batterio che aveva colpito uno dei polmoni. Suo padre gli ha donato sangue, ma non è bastato a salvarlo. Dopo aver subito un arresto cardiaco, Kelvin è morto a mezzogiorno del 31 dicembre, la vigilia di Capodanno».

Urbalia: basura business

La storia di questo enorme disastro che oggi incide negativamente sulla vita degli abitanti della zona e sul territorio, si fa risalire agli anni Ottanta, quando venne chiusa la vecchia discarica di Panama. Fin dall’inizio la gestione fu statale e si proiettava un’aspettativa di utilizzo di 25/30 anni della struttura di raccolta dei residui. Nel 2008 però il Consiglio Comunale della Città di Panama (organo che all’epoca aveva la potestà su queste decisioni) ordinò la concessione della discarica a una società spagnola, Urbasel Protosa. Solo due anni dopo, avvenuto un cambio di governo, l’appalto venne passato a Urbalia, mantenendo lo stesso contratto iniziale. Nel 2011 l’impresa Urbalia fu comprata dalla colombiana Interaseo SA., di proprietà di colui che viene definito lo “Zar della spazzatura”, cioè William Vélez Sierr. Già nel 2016 il Ministero dell’Ambiente di Panama aprì due procedimenti amministrativi contro Urbalia per «mancato rispetto delle misure stabilite negli strumenti di gestione ambientale» e finalmente il 27 marzo di quest’anno, le autorità statali di Panama hanno eseguito un’operazione di controllo sulla situazione del Cerro Patacón e a radice di quanto riscontrato hanno estromesso Urbalia dalle operazioni (a poche settimane dalla scadenza naturale del contratto). Attualmente vige lo stato di emergenza ambientale per il collasso di un mostro di rifiuti che continua a costare salute e vita alle persone più vulnerabili che già vivono in una situazione di estrema marginalità.

Testimoni locali di sopraffazione

Di fronte a tutto quanto letto finora, è importante poter far riferimento a voci di attivisti locali, voci lucide, che conoscono il contesto e che possono guidarci verso un’analisi di una profonda complessità, unificando tutti i territori diversamente devastati dal capitalismo. Una di queste voci è sicuramente quella di Olmedo Carrasquilla Ávila , ecologista, comunicatore sociale, attivista e dirigente di Covec che in una recente intervista per il giornale nazionale “La Estrella de Panamá” ha saputo manifestare in modo chiaro l’incoerenza dell’attuale azione di governo. Carrasquilla, intervistato nel contesto di una profonda crisi di siccità che ha colpito Panama in questo 2023, denuncia la mancanza di una politica chiara in materia socio-ambientale da parte di un governo che da un lato dichiara lo stato di emergenza ambientale per la scarsità d’acqua e dall’altra continua ad autorizzare concessioni minerarie a imprese per le cui operazioni servono ingenti quantità di acqua.

dighe e discariche

La siccità del Canale costringe a ridurre le quantità di navi che possono transitare da quel chokepointe delle catene di distribuzione

In questo podcast da “Liberation Font”, trasmissione di Radio Blackout del 13 dicembre, si trova un efficace riepilogo insieme a Diego Battistessa riguardo ai temi fin qui da lui trattati e dei molti snodi di interessi della finanza innanzitutto (che sotto traccia rappresenta l’impossibilità di concedere reale indipendenza a Panama), della gentrificazione interna, dello spolpamento predatorio di risorse da parte del colonialismo, dello sfruttamento imperialista di infrastrutture

Ma la storia affonda nei secoli

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Cancellare l’ambiente per cancellare la cultura indigena

Cortizo doble cara 3

Insomma, nonostante gli accordi raggiunti e il disinnesco momentaneo della boma sociale, si intravedeva già nell’estate del 2022 che il livore verso la figura di Cortizo e in generale verso le istituzioni, attraversava tutto il paese. La questione dell’alto prezzo dei beni di consumo di base rimane aperta e anche la scarsità di medicine (e l’altissimo costo di quelle reperibili) mantengono alta la tensione sociale nel paese. Come se questo non bastasse, con un pessimo timing, il presidente Cortizo aveva approvato il 20 giugno 2022 (dopo aver negato la possibilità di abbassare le tasse sui carburanti) degli sgravi fiscali per il settore alberghiero (legge 314 che modifica la legge 80 del 2012) diminuendo ancora di più la sua credibilità di fronte alla popolazione. Inoltre, lo scandalo già soprannominato McCallan 18 anni che ha visto come protagonisti alcuni deputati dell’assemblea (1° luglio 2022) ha gettato ancora più benzina sul fuoco e tolto credito alle istituzioni. Uno scandalo partito da un video diventato subito virale dove si vedono i deputati del Partido revolucionario democrático (Prd) celebrare con un bottiglia di whiskey McCallan che nel paese centroamericano costa (nei supermercati) quasi 400 dollari. La sensazione generale è quella dunque di una diffusa corruzione e di una continua malversazione del denaro pubblico ad appannaggio di pochi eletti e delle grandi imprese che si beneficiano di un sistemico e atavico clientelismo.

La celebración por la reelección como presidente de la Asamblea Nacional del diputado oficialista Crispiano Adames

Depredazione ambientale e capitalismo selvaggio come “marca paese”

Chi non conosce Panama potrebbe pensare che il contesto relativo a Minera Cobre Panama nella provincia di Colón sia un caso isolato. Purtroppo non è così. Il Ciam, Radio Temblor e altre piattaforme di attivisti che monitorano e difendono i diritti della popolazione denunciano da anni uno spietato e sistematico utilizzo del capitale, spesso straniero, per operazioni di trasformazione del territorio, rurale e urbano, con il fine di massimizzare i guadagni senza considerare nessun tipo di esternalità negativa per gli abitanti della zona.

Cancellazione della cultura Ngäbe-Buglé e del suo fiume Tabasará

In termini ambientali possiamo citare per esempio il caso della dura repressione sofferta dagli indigeni Ngäbe-Buglé, come mi è occorso raccontare mentre mi trovavo a Panama nell’autunno del 2021. Il 29 ottobre di quell’anno infatti un gruppo di indigeni del popolo Ngäbe-Buglé che ancora resistevano sulle rive deli fiume Tabasará, nella zona adiacente al progetto idroelettrico di Barro Blanco, fu sgombrato con la forza dalla polizia nazionale panamense. Uomini, donne, bambini e anziani rimasero gravemente feriti (Attenzione, immagini molto forti) dall’impatto di proiettili di gomma sparati dalle guardie in tenuta antisommossa.

Il corpo di polizia che ha sgombrato con la forza le famiglie della comunità indigena Ngäbe-Buglé (ottobre 2021) – Foto di Basilio Jiménez. Radio Temblor Internacional

Il Collecttivo Voci Ecologiche – Covec denunciò in un manifesto l’accaduto, sottolineando l’ipocrisia dell’operato dell’attuale presidente di Panama, Laurentino Cortizo, che proprio nei giorni successivi agli scontri, partecipò a Glasgow alla Cop26 parlando delle misure adottate dal suo governo per rispettare la natura e i popoli indigeni:

«Il nostro impegno inizia col rispettare i popoli originari e le nostre foreste, misure attraverso le quali proteggiamo il 33% della superficie del nostro paese», dichiarava Cortizo in Scozia.

Nel documento del Covec leggiamo però che:

«La realtà è esattamente il contrario e come se questo non bastasse il governo ha appena approvato il Decreto Esecutivo N.141 del 2021 che crea i Certificati di Accreditamento di Uso del Suolo in Aree Protette con il quale punta a riconoscere diritti di proprietà (e sfruttamento) dentro le aree protette. Una chiara evidenza che il business della terra viene realizzato a esclusivo vantaggio delle multinazionali e delle imprese estrattive».

Una ennesima manifestazione di uno stato che nella zona di Barro Blanco (Caña Blanca de Tolé, provincia di Chiriquí) non riconosce ai membri della comunità indigena Ngäbe-Buglé il loro diritto di abitare un territorio al quale sono legati ancestralmente. L’azione della polizia mirava a sfollare membri della comunità indigena che abitano quelle terre da anni, una zona di “pubblica servitù” e sulla quale pende un contenzioso amministrativo non ancora risolto. Molte di quelle famiglie sono inoltre doppiamente sfollate perché avevano già perso i loro terreni a seguito della creazione della diga sul fiume Tabasará: un megaprogetto che ruota intorno alla centrale idroelettrica di Barro Blanco e che ha inondato 250 ettari di territorio, “uccidendo” lo stesso Tabasará.

Disastro ecologico-culturale

Un fiume trasformato oggi in un lago artificiale, che si trova dentro la Comarca Ngäbe Buglé, divisione amministrativa territoriale creata con la legge numero 10 del 7 marzo 1997. Le comunità indigene che abitano la suddetta Contea hanno provato a salvarlo (senza riuscirci) e con lui tutto un ecosistema purtroppo spazzato via dal progetto. La resistenza è iniziata nel 2008 (anche se fin dagli anni Settanta gli indigeni si sono fortemente opposti a interventi di sfruttamento massivo del loro territorio ancestrale) ed è proseguita con sorti alterne per anni.
Il fiume era utilizzato per la pesca di sussistenza dalle popolazioni autoctone e non (che ottenevano così un’importante fonte di cibo); ma anche in quanto luogo di svago, come di venerazione – ricco di incisioni rupestri, come fonte di acqua potabile e come mezzo di accesso e trasporto di merci ad altre città.
Inoltre i boschi circostanti, intrinsecamente dipendenti dal fiume, fornivano carne per la popolazione, legname per case, mobili, tralicci e barche, piante medicinali, materie prime per la produzione di articoli per uso personale e commerciale (come cesti, cappelli e borse). Tra i luoghi colpiti dal progetto alcuni dei punti simbolo dell’organizzazione e incontro della comunità: spazi di grande simbolismo religioso, educativo e culturale della zona, dove tra le altre attività si insegnava alle nuove generazioni la lingua Ngabere. Qui di seguito un ascolto tratto dal sito “Indomables

“Hacer las letras hablar”.

Un granello di sabbia nell’ingranaggio?

Il 28 novembre, diversi settori sociali, organizzazioni sociali e cittadini sono scesi in piazza per celebrare la sentenza di incostituzionalità emessa dalla Corte suprema di giustizia contro il contratto della Legge mineraria 406. Più di un mese di resistenza e lotta nelle strade di diversi settori, che hanno visto i settori sociali schierati compattamente contro l’estrattivismo minerario, prospettando una serie di conseguenze a livello economico, ambientale, di diritti umani e di ingovernabilità socio-ambientale ed evidenziando la mancanza di trasparenza, la corruzione e il legame di alcuni rappresentanti del governo legati a membri della famiglia con scopi commerciali con l’impresa Minera Cobre Panama, hanno ottenuto una prima soddisfazione. Il granello di sabbia nel meccanismo estrattivista sarà più risolutivo dei suoi precedenti?

Questo il comunicato su Instagram di Minera Cobre Panama:

Visualizza questo post su Instagram

Un post condiviso da Cobre Panamá (@cobrepanama)

Questa società operava dal 1997 attraverso un contratto di legge in cui non vi era alcuna partecipazione dei cittadini, con irregolarità anche nello studio di impatto ambientale.
Nel 2017 la Corte Suprema di Giustizia aveva emesso una sentenza, in cui se ne dichiarava l’incostituzionalità, tuttavia l’azienda e il governo centrale non si sono mai conformati a questa sentenza, che è diventata un oltraggio alla corte ed è rimasta lettera morta. La società Minera Panama ha continuato a esportare, sfruttare e operare in questa regione del paese, in particolare nel Corridoio Biologico Mesoamericano, dove esiste anche una ricca biodiversità e un’area protetta, oltre che una cultura comunitaria.

Dighe e discariche: uccisione del fiume Tabasará

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Panama: un ecocidio senza fine

Devastazione mineraria: neocolonialismo canadese

¡Ya Basta extractivismo!

Nel mese di settembre 2023 sono cominciate a Città di Panama (e altre zone del paese) delle proteste, all’inizio solo di poche centinaia di persone, per manifestare il dissenso alla nuova espansione dei progetti minerari nella provincia di Colón. La concessione che ha scatenato il malcontento popolare riguarda un territorio di 12.000 ettari nel distretto di Donoso, un ecosistema che include una foresta protetta e che fa parte del corridoio biologico mesoamericano: un importante santuario per migliaia di specie animali e piante.

Pochi giorni prima , il 28 di agosto, era stato dato il via ufficialmente al dibattito parlamentare di un progetto di legge per la firma del nuovo contratto tra lo Stato panamense e la filiale Minera Cobre Panamá della compagnia canadese First Quantum Minerals, negoziazione che riguarda la regolarizzazione della concessione per lo sfruttamento di una zona mineraria già in disputa dalla seconda metà degli anni Novanta.

Da quelle prime proteste – capeggiate da pochi ambientalisti, alcune ong e membri delle comunità indigene – è sorto un enorme movimento di persone che ha portato a varie giornate di sciopero nazionale e centinaia di migliaia di manifestanti sfilare per le strade di Città di Panama e nelle altre principali province del paese. Una marea eterogenea di cittadini e cittadine che al grido di Questa terra non si vende, questa terra si difende o Panama vale di più senza sfruttamento minerario hanno obbligato il presidente della Repubblica Laurentino Cortizo a «dar la cara» (metterci la faccia) e pronunciarsi.

Panama Protest

Proteste della cittadinanza contro la nuova legge mineraria – Foto Olmedo Carraasquilla Ávila per Radio Temblor

Cortizo doble cara 1

Cortizo (in scadenza del mandato nel 2024) inizialmente pubblicamente schierato a favore del contratto minerario, ha dichiarato che l’ultima parola spetterà alla Corte Suprema di Giustizia, che dovrà decidere sulla regolarità della legge 406, che garantisce per 20 anni (prorogabili) le attività di Minera Cobre Panama.

«Panama è un paese democratico dove tutti dobbiamo rispettare lo Stato di diritto e proteggere l’istituzione, che consiste nel fatto che ogni organo dello stato compia le funzioni che costituzionalmente gli corrispondono. Ciò implica che tutti noi aspetteremo i tempi che determineranno le risoluzioni della Corte suprema di giustizia».

La repressione violentissima

Queste parole, pronunciate in occasione dello sciopero generale del 16 novembre, arrivano dopo un bilancio di almeno 4 morti e numerosi feriti nelle proteste delle settimane precedenti. Le persone decedute partecipavano a blocchi stradali, realizzati nella cornice di una mobilizzazione nazionale su grande scala. E mentre due di loro hanno perso la vita investiti da veicoli che non si sono fermati di fronte ai posti di blocco improvvisati, altri due (entrambi insegnanti) sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco nella zona di Chame, da un uomo di 77 anni che non ha esitato a sparare sui manifestanti per farsi strada. Tra i feriti, spicca il caso del fotografo di 40 anni Aubrey Baxter, appartenente al collettivo Ya es Ya Panamá. Baxter, la cui storia è stata raccontata da “El País” (che lo ha intervistato) ha perso un occhio per la brutale repressione della polizia, mentre cercava di documentare le proteste il 19 ottobre scorso nella capitale del paese centroamericano.

Cartello affisso nella città di Colón (2021). Foto Diego Battistessa

Questo il tremendo racconto di Baxter al giornale spagnolo “El País”, una storia che documenta molto bene quale sia stato il primo approccio del governo Cortizo verso le proteste:

«Ero vicino all’Assemblea Nazionale (Palacio Justo Arosemena), che è il luogo in cui si riuniscono le diverse marce di protesta, ma anche dove solitamente avviene la maggior repressione. Lì sono posizionate alcune barriere e c’era un agente della Mcu (Unità di Controllo della Folla) che dominava la scena, con in mano un cannone lacrimogeno. Più vicini a me, altri agenti che avevano armi di gomma o spray al peperoncino. Non ho mai saputo cosa mi abbia accecato, perché l’oggetto non è entrato nell’occhio e quindi non è stato ritrovato e studiato. Però, a causa del suo diametro, il mio occhio è diventato completamente nero. Dato che stavo registrando, una coincidenza perché di solito non registro ma faccio solo foto, penso che sia stato l’agente che si trovava in alto a dare l’ordine di sparare. Quando ho capito ho cercato di proteggermi dietro dei pali ma mi ha raggiunto una vera e propria raffica di proiettili. Uno di questi mi ha centrato in pieno un occhio, però io non mi sono reso subito conto di cosa stesse accadendo. Un collega ha provato a chiamare un’ambulanza, ma non è stato facile. Dopo qualche metro, mentre cercavo di continuare a camminare, sono riusciti a portarmi in ospedale».

Un milione di $ al giorno per comprare una nazione

Un approccio giustificatodal denaro, parecchio denaro. Si perché i numeri che mette sul tavolo First Quantum Minerals sono numeri da capogiro secondo le fonti statali. Infatti i termini dell’accordo raggiunto dall’impresa canadese con sede a Vancouver, attribuiscono alla stessa, il diritto di sfruttare il sito minerario per almeno 20 anni, in cambio di royalties annuali di 375 milioni di dollari al governo panamense. Per cercare di dare una dimensione di quello che significa questo contratto, i portavoce della compagnia canadese spiegano che dopo il Canale di Panama, la vasta miniera di rame di Cobre Panamá (la più grande miniera a cielo aperto di tutto il Centroamerica) è il secondo maggior contributore all’economia del paese, responsabile di circa il 5% del PIL. Inoltre a Panama, una persona su 50 è impiegata direttamente o indirettamente nelle attività di questa impresa mineraria, afferma First Quantum, una cifra che corrisponde a migliaia di famiglie. Dal canto suo, nella sessione inaugurale di quel “lontano” 28 agosto 2023, fu il ministro del Commercio, Federico Alfaro Boyd, con la Commissione per il Commercio e gli Affari Economici dell’Assemblea Nazionale (AN), a presentare l’iniziativa come un contratto pieno di vantaggi per Panama. Boyd spiegava a fine agosto che il 50% dei benefici generati dall’attività sarebbe stato destinato al programma IVM della Cassa di Previdenza Sociale e il 20% sarebbe stato destinato ad aumentare le pensioni di coloro che guadagnano meno di 350 Balboa al mese (circa 350 euro). Un’altra somma significativa sarebbe stata destinata a progetti nei comuni circostanti e il 5% alla costruzione e allo sviluppo dell’Istituto per il miglioramento e il benessere degli insegnanti.

Non è questione di $, ma di qualità della vita

I manifestanti però non vogliono ragionare di cifre ma di legalità e di protezione dell’ambiente. Una opposizione ferrea all’azione arbitraria del governo, protesta che somma un costo giornaliero paese di 80 milioni di dollari (secondo le fonti ufficiali del governo) e che si nutre di slogan e striscioni che prendono di mira direttamente anche il primo ministro canadese: Justin Trudeau, questo è neocolonialismo”, facendo riferimento alle politiche d’impresa portate avanti dal governo del paese nordamericano fuori dai propri confini e che sarebbero illegali sul territorio nazionale.

I precedenti di sfruttamento

Le operazioni della filiale First Quantum Minerals non sono però nuove a Panama e infatti queste massive mobilitazioni si focalizzano contro le politiche che promuovono un estrattivismo minerario predatorio, imposto da interessi statali senza consultazioni con le comunità, molte della quali chiedono una vera e propria moratoria mineraria.

Questa situazione proviene da una concessione data dallo stato panamense attraverso la legge n. 9 del 25 febbraio 1997 (alla presidenza della repubblica sedeva Ernesto Pérez Balladares) a Petaquilla Gold, diventata poi Minera Cobre Panamá. Le operazioni di esplorazione mineraria del territorio iniziarono nel 1991: data della prima concessione per la ricerca di possibili giacimenti. Come detto, fu però nel 1997 che si approvò la legge di sfruttamento minerario con il precursore di Minera Cobre Panamá e nel 2005 si iniziò la massiva costruzione delle infrastrutture: solo nel 2009 furono autorizzate le operazioni di sfruttamento commerciale della miniera.

Durante tutto questo lungo periodo le comunità della zona denunciarono con forza che dove prima c’erano alberi, vita e un corridoio biologico funzionante, la terra diventava spoglia, l’acqua inquinata e si moltiplicavano i macchinari per l’estrazione mineraria e la distruzione senza freni dell’ambiente. A radice di ciò, il Centro di Incidenza Ambientale – Ciamong panamense costituitasi nel 2007 e dedicata alla conservazione ambientale, denunciò per incostituzionalità nel 2009 il suddetto contratto alla Corte Suprema di Giustizia. Successivamente, (come ho avuto di scrivere per “Osservatorio Diritti”) vennero denunciati più di 200 danni ambientali descritti in 13 rapporti che danno conto di oltre venti ispezioni del ministero dell’Ambiente di Panama (Miambiente), effettuate tra il 2012 e il 2019 presso la miniera di rame di Colón, gestita appunto da Minera Cobre Panamá.

I precedenti di inquinamento

Queste ispezioni hanno registrato l’inquinamento dei fiumi e del suolo, con impatti negativi sia sugli ecosistemi naturali sia sulle comunità umane, vista la presenza in grandi quantità di elementi altamente tossici come metalli pesanti e altri agenti patogeni.

Finalmente, il 21 dicembre 2017 (20 anni dopo il primo accordo tra lo stato panamense e la filiale di First Quantum Minerals) quel contratto fu dichiarato incostituzionale dalla Corte suprema di giustizia (Csj per la sua sigla in spagnolo) e quindi legalmente annullato. Secondo la Csj lo stato avrebbe infatti dovuto realizzare una gara d’appalto pubblica per dare la concessione e avrebbe dovuto far realizzare uno studio d’impatto ambientale, elementi che hanno portato al verdetto favorevole della Corte rispetto alla denuncia del Ciam.

Cortizo doble cara 2

Sembrava una vittoria per gli ambientalisti, ma di fronte alla decisione dei giudici, il governo decise di mantenere in piedi le operazioni di Minera Cobre Panamá (First Quantum Minerals aveva già investito 10 miliardi di dollari nell’operazione), non pubblicando la sentenza nella Gazzetta Ufficiale dello Stato, e rinnovando per altri 20 anni (fino al 28 febbraio 2037) la concessione mineraria. Una situazione complessa a livello legale e commerciale, dove il governo cercava di prendere tempo per trovare il modo di regolarizzare le attività della compagnia a capitale canadese, mentre nel 2021, la Csj ratificò la sentenza del 2017, respingendo ben 6 istanze d’appello. Nonostante First Quantum Minerals si sia sempre detta forte della sua posizione legale rispetto al governo di Panama, la pressione derivante dalle sentenze della Csj hanno portato a una nuova necessità di negoziare e “ripulire” il raggio di azione della compagnia nel paese centroamericano.

Ed è esattamente quello che si pretende oggi, con un accordo che risale a marzo 2023, traghettato all’Assemblea ad agosto e ratificato in fretta e furia” dal parlamento come legge 406, legge firmata lo stesso giorno da Laurentino Cortizo (il 20 ottobre scorso) e immediatamente, questa volta sì, divulgata sulla Gazzetta Ufficiale. Un vero e proprio make up legale, che regola attraverso un nuovo impianto normativo, quelle stesse pratiche distruttive che hanno già lasciato un segno devastante sul territorio: pratiche che hanno portato all’apertura di diversi processi amministrativi e di indagini del pubblico ministero per presunte non conformità in materia ambientale.

Un malessere generalizzato che viene da lontano

Le proteste di questa fine 2023 fanno eco ad altre manifestazioni, meno coperte dalla stampa internazionale, che hanno segnato il 2022 e che già facevano intuire un diffuso malessere sociale. Panama infatti nel luglio 2022 si è unita all’ondata di proteste che hanno scosso l’America Latina, con un vero e proprio “estallido social” iniziato nella città di Santiago de Veraguas, capitale della provincia di Veraguas (250 km ad ovest di Città di Panama). La ragione principale della protesta diventata poi massiva ed estesa a tutto il territorio nazionale, ha riguardato l’aumento del costo del carburante, il cui prezzo era lievitato quasi del 50% dall’inizio dell’anno. Una lunga coda della guerra in Ucraina che ha portato lo stato centroamericano ad affrontare la sua maggiore crisi economica dopo la caduta del dittatore Manuel Antonio Noriega nel 1989, con un tasso di inflazione che superava i 4 punti percentuali e con una disoccupazione al 10%. E in questo scenario post Covid 19, dove l’economia fatica a riprendersi nonostante il Canale di Panama continui a produrre 2 miliardi di dollari di gettito fiscale annuo, si stima che il 20% della popolazione (circa 800.000 persone delle 4,2 milioni che vivono nel paese) si trovi in situazione di povertà: questo dato colloca Panama come uno dei paesi con il maggior tasso di disuguaglianza nel mondo. L’economia del paese centroamericano è “dollarizzata” e questo, già prima della crisi del petrolio provocata dall’invasione russa dell’Ucraina e dalle conseguenti misure coercitive unilaterali combinate da Usa e UE, manteneva i prezzi del paniere di consumo relativamente alti per la maggior parte della popolazione.

Situazione economica insostenibile…

Nel luglio 2022 però la situazione per la gente de a piè (il popolo) è diventata insostenibile perché l’aumento del costo dei carburanti ha provocato un’impennata dei prezzi dei prodotti alimentari e delle medicine: causando situazioni critiche in molte case panamensi.

Il 17 giugno 2022 il gallone di benzina di 95 ottani (3,78 litri) aveva superato i 6 dollari. Un prezzo impossibile da pagare in un paese dove è stata stabilita dal governo del presidente Laurentino Cortizo, giusto il 31 dicembre 2021, una tabella salariale di base dove per esempio si corrispondeva a un impiegato domestico un salario di 315 dollari al mese. Inoltre gli altissimi prezzi del carburante che hanno creato un effetto a spirale su tutto il resto, arrivavano proprio mentre le grandi compagnie petrolifere fanno registrare enormi guadagni, così come denunciato dal mezzo di comunicazione indipendente panamense Antonima. Nelle settimane precedenti alle proteste era stato presentato nell’assemblea nazionale dal deputato Luis Ernesto Carles un progetto di legge che chiedeva di sospendere per almeno 3 mesi la tassa statale sui carburanti liquidi, che incide per 60 centesimi di dollaro sul prezzo finale. Il presidente panamense Cortizo però decise di porre il veto sulla proposta di legge, impedendone l’attuazione e aprendo la porta a un aumento indiscriminato del prezzo del carburante.

… e prime lotte vittoriose

Allo scoppio delle proteste inoltre il presidente di Panama non si trovava nel paese ma stava viaggiando negli Usa, precisamente a Houston. Laurentino Cortizo infatti aveva già annunciato a fine giugno 2022 che gli era stato riscontrato un cancro e per questo aveva comunicato che sarebbe andato in Texas a inizio luglio per chiedere un secondo parere. In assenza della prima carica dello stato il vicepresidente José Gabriel Carrizo non prese nessuna iniziativa e così da Santiago de Veraguas la protesta si estese presto alle altre province arrivando fino alla capitale. L’autostrada Panamericana fu bloccata da folle di manifestanti e lunghe file di Tir che provocarono de facto, l’isolamento di intere zone del paese (con casi estremi come quello della provincia di Chiriquí). Anche nei supermercati i prodotti alimentari scarseggiarono per settimane ma il popolo non cedette di un passo. Chi invece nel braccio di ferro dovette cedere el brazo a torcer (piegare il braccio) fu il presidente Laurentino Cortizo che dopo aver aperto dei tavoli di mediazione a una settimana dall’inizio delle proteste con le diverse sigle sindacali e comunità indigene, annunciò il blocco del prezzo di 10 prodotti del paniere di consumo e un ribasso dei prezzi del carburante. Un primo passo che però non ha messo d’accordo tutti i manifestanti e che è stato solo l’antipasto dell’accordo definitivo arrivato domenica 17 luglio, quando la presidenza annunciò in pompa magna di aver firmato un decreto che bloccava per tre mesi il prezzo del combustibile a 3,25 dollari al gallone. Accordi che hanno soddisfatto le delegazioni degli indigeni Ngäbe-Buglé e gli agricoltori, presenti alla firma dell’accordo in un edificio della chiesa cattolica nel distretto di San Félix, provincia di Chiriquí (nell’ovest del paese). Ma non altre frange della protesta, che occuparono lo stesso giorno la “cinta costera” (zona costiera) della capitale e che, nel caso del potente sindacato dell’edilizia, promisero di fare sentire duramente la loro voce.

“Colonialismo estrattivista e gentrificazione a Panama”.

Tre giorni dopo questo intervento su Radio Blackout la Corte suprema ha decretato l’incostituzionalità della legge mineraria 406, questa la reazione spontanea dei cittadini sollevati… almeno per ora:

La marca-paese è la sua cancellazione come cultura territoriale e ambientale…

to be continued (2)

Marca-paese Dighe e discariche Merci rivolte e infrastrutture La Zona del Canale Ancestralità e gentrificazione Casco Viejo – CauseWay – Artificial Island

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]]> Cronache dalla terra del Quetzal https://ogzero.org/cronache-dalla-terra-del-quetzal/ Tue, 09 May 2023 23:18:54 +0000 https://ogzero.org/?p=11000 Si tratta di oblio – ed è possibile una rimozione collettiva così pesante, vista la quantità di lutti e soprattutto cenotafi che il regime di Rios Montt fece neanche tanti anni fa – oppure, come anche si evince dalla costituente cilena infarciti di arnesi della peggiore estrema destra, la politica non solo latinoamericana si costruisce […]

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Si tratta di oblio – ed è possibile una rimozione collettiva così pesante, vista la quantità di lutti e soprattutto cenotafi che il regime di Rios Montt fece neanche tanti anni fa – oppure, come anche si evince dalla costituente cilena infarciti di arnesi della peggiore estrema destra, la politica non solo latinoamericana si costruisce senza memoria storica e si fonda sull’immediato presente e le sue esigenze; un dibattito solo racchiuso nel recinto dei bisogni fissati dalla propaganda e dall’agenda imposta dal neoliberismo, che si basa sul costante e repentino ribaltamento degli orientamenti di una cittadinanza disorientata e resa sempre più omologata dal retrocedere delle grandi narrazioni, sostituite da populismi nazionalisti e corrotti, soprattutto laddove il degrado della democrazia è più palpabile e la libertà di espressione soffocata.
Diego Battistessa al termine di questo intervento su Radio Blackout (@rbo10525),
che inquadra l’oscillazione ondulatoria del consenso politico latinoamericano, segnala quel processo come travolgente per ogni paese chiamato alle urne in questo periodo e il flusso migratorio con il venir meno del Tituolo42 (e il Tren Maya) raggiungerà i confini del Guatemala, pronto a una tornata elettorale che non può essere persa dagli Usa in termini di contrasto alla immigrazione.

Ascolta “¿Desgaste de la izquierda en América Latina?” su Spreaker.


Temi e deliri securitari in mesoamerica

In questo periodo si parla molto nella stampa internazionale di America Centrale. Sulle prime pagine delle più note testate mondiali spicca l’immagine di un impavido Nayib Bukele che con pugno fermo (e sospendendo le libertà costituzionali) ferisce a morte le sanguinarie Maras diventando, come sancito dal sondaggio di Gallup a gennaio 2023, il politico più popolare dell’America Latina con un consenso del 92%. Segue la saga in Nicaragua di Daniel Ortega e della sua compagna Rosario Murillo, rispettivamente presidente e sua vice, che hanno oramai sequestrato il paese e che sono stati accusati il 6 marzo scorso (da un consiglio di esperti nominati dall’Onu) di crimini contro l’umanità; oltre che di una spietata e sistemica repressione del dissenso. Non mancano le prime pagine dei giornali neanche per Xiomara Castro, presidentessa dell’Honduras che da un lato prova a seguire le orme di Bukele nel delirio di securitarizzazione del paese e dall’altro prova a aprire degli spiragli per i diritti delle donne: l’8 marzo scorso Castro ha firmato il decreto legge 75-2023, che garantisce e promuove la libera diffusione, accesso, acquisto e vendita della Pillola anticoncezionale d’emergenza (Pae) in Honduras. Del Belize nemmanco si parla, ma questa non è una stranezza in quanto si tratta di un paese con una popolazione che non supera i 400.000 abitanti e che ha un passato coloniale diverso dal resto della regione: era infatti conosciuto come l’Honduras britannico ed è diventato indipendente solo nel 1981 – anche se continua a fare parte del Commonwealth e il suo capo di stato è il sovrano del Regno Unito, re Carlo III. Ma in questo “gran parlare” di America Centrale, che include anche Costa Rica e Panama soprattutto per i flussi migratori provenienti dal corridoio del Darién, “brilla” un grande assente: il Guatemala.

Si scrive Guatemala, si legge desaparición y migracion

Il Guatemala è un paese dal basso profilo eppure strategico per gli equilibri regionali, un paese che condivide una lunga frontiera con il Messico (quasi 1000 chilometri) e che possiede un oscuro passato e un futuro sempre più incerto. Tra poche settimane, il 25 giugno, infatti, nella terra nella quale nacque (triste primato) la parola desaparecido, si celebreranno le elezioni presidenziali, un appuntamento cruciale che riporta sulla scena i fantasmi della dittatura e del genocidio indigeno del Ventesimo secolo. Con tutti i desaparecidos che il periodo ha prodotto.

Questa pratica efferata nasce negli anni Sessanta in America Centrale, per mano delle forze militari. Un metodo repressivo, usato già nel 1932 nel Salvador dal regime di Hernández Martínez ma che trova la sua vera e propria genesi in Guatemala tra il 1963 e il 1966. Ana Lucrecia Molina Theissen, nel suo libro La desaparición forzada en America Latina (La sparizione forzata in America Latina) ci racconta che dopo il suo primo utilizzo massivo, la pratica si estese a macchia d’olio negli stati di El Salvador, Cile, Uruguay, Argentina, Brasile, Colombia, Perù, Honduras, Bolivia, Haiti e Messico.
Amnesty Internacional e Fedefam (Federación Latinoamericana de Asociaciones de Familiares de Detenidos-Desaparecidos) hanno denunciato che in poco più di 20 anni, dal 1966 al 1986, circa novantamila persone siano state vittima di questa orribile pratica in America Latina (che continua ancora oggi). Per i perpetratori è il delitto perfetto: se non si trova la vittima non c’è colpevole e quindi non c’è delitto. Una logica folle e inumana che ha seminato di morte, e continua a farlo, la regione latinoamericana.

Quei fantasmi tornano: tra i 23 candidati alla presidenza ammessi dal Tribunale supremo elettorale (Tse) del Guatemala si trova Zury Mayté Ríos Sosa.

Un nome che in Italia potrebbe non dire molto ma che ai chapines (soprannome colloquiale, oggi non dispregiativo, con il quale si identifica la gente del Guatemala) ricorda invece un periodo ben preciso della loro storia recente. La 55enne guatemalteca infatti (quattro volte consecutive eletta come deputata nel Congresso del Guatemala, dal 1996 al 2012)  non è una candidata qualunque, visto che è la figlia del militare e dittatore guatemalteco Efraín Ríos Montt, morto nel 2018. E nonostante esista una legge in Guatemala che esclude l’elezione a presidente per i consanguinei dei dittatori (articolo 186, comma C della Costituzione), il suo tramite burocratico è stata una pura formalità per il Tribunale supremo elettorale (Tse). In realtà Zury ci aveva già provato in precedenza, nel 2011 (anche se dopo aver avviato la campagna elettorale, non partecipò alle elezioni), nel 2015 e poi nel 2019, quando però una risoluzione della Corte Costituzionale (CC) la estromise dal processo elettorale proprio in base all’articolo 186.

Una campagna elettorale già partita con indizi di frode

Il Guatemala si avvicina a un processo elettorale dove non sono garantite le libertà costituzionali e dove la giustizia ha operato  come filtro per escludere possibili candidature alla presidenza che risultano scomode all’attuale dirigenza del paese centroamericano. Le elezioni sono previste per il prossimo 25 giugno e tra le candidature bocciate c’è quella di Thelma Cabrera, leader indigena maya Mam, attivista per la difesa dei diritti umani (già candidata alla presidenza nel 2019 dove ottenne il 4° posto con il 10,37 % dei voti), che si presentava in coppia con l’ex procuratore nazionale per i diritti umani, Jordán Rodas. Entrambi sono membri del partito politico di sinistra Movimento per la liberazione dei popoli (Mlp) e hanno già incontrato la Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) a Washington per denunciare questa situazione. Proprio la Cidh ha diffuso un comunicato in merito, nel quale invita lo Stato guatemalteco «a garantire i diritti politici, il pluralismo e la pari partecipazione al processo elettorale», sottolineando come le autorità giudiziarie competenti debbano agire in conformità con il quadro normativo e gli standard interamericani. Anche Human Rights Watch, congiuntamente al Washington Office on Latin America, ha lanciato un allarme, avvertendo che la decisione del Tse del Guatemala di impedire la partecipazione di alcuni candidati alle elezioni presidenziali di giugno 2023 si basa su motivi dubbi, mette a rischio i diritti politici e mina la credibilità del processo elettorale nella sua totalità. Il caso del binomio Thelma Cabrera – Jordán Rodas è arrivato anche al parlamento europeo, dove la coppia il 21 marzo ha potuto esporre le proprie ragioni e denunciare l’abuso del Tse, che ha determinato la loro esclusione, ottenendo l’appoggio di vari eurodeputati. Cabrera e Rodas non sono però i soli. A fare scalpore è anche l’esclusione dall’arena elettorale di Roberto Arzú, imprenditore e uno dei candidati della destra, colpevole, secondo il Tse, di aver violato le regole che vietano di iniziare la campagna elettorale prima della data ufficiale prevista, in questo caso il 27 marzo scorso.

Il retrocesso democratico del Guatemala

«Il presidente Alejandro Giammattei e i suoi alleati hanno velocizzato e reso ancora più profondo il deterioramento della democrazia in Guatemala, in un evidente sforzo congiunto per mantenere l’impunità rispetto alla diffusa corruzione ad alti livelli dello stato. Le autorità, agendo spesso in coordinamento con alcuni uomini d’affari, hanno minato lo stato di diritto e indebolito le garanzie sui diritti umani. L’ufficio del procuratore generale ha bloccato le indagini sulla corruzione e le violazioni dei diritti umani e ha avviato procedimenti arbitrari contro giornalisti, pubblici ministeri e giudici indipendenti. Giornalisti e difensori dei diritti umani continuano a subire vessazioni e violenze. Gli abusi contro i migranti, la scarsa protezione delle persone lgbtqi e gli alti livelli di povertà, soprattutto nelle comunità indigene, continuano a destare seria preoccupazione».

Quanto avete appena letto è il paragrafo d’inizio della scheda paese di Human Rights Watch, un quadro disarmante rispetto alle libertà civili e allo stato di salute della democrazia nel paese centroamericano. Un paese dove 3 degli ultimi 7 presidenti hanno avuto gravi problemi con la giustizia: Alfonso Portillo (2000-2004), detenuto negli Stati Uniti, Álvaro Colom (2008-2012) arrestato e imprigionato nel 2018 per la sua presunta relazione con un caso di frode e appropriazione indebita (morto il 23 gennaio di quest’anno) e Otto Pérez Molina (2012-2015), condannato a 16 anni di carcere nel 2022 per associazione illecita e frode doganale. Un degrado, quello della democrazia in Guatemala, che  è dimostrato anche da diversi indicatori che danno conto di una situazione al collasso. Oltre alle ingerenze nel processo elettorale del Tse, i dati di Trasparency International sulla percezione della  situazione della corruzione nel paese sono in peggioramento (il Guatemala si trova al 150esimo posto su 180 paesi). Anche il dossier sulla libertà di stampa a livello mondiale del 2022 di Reporter senza Frontiere aiuta a delineare il quadro di una situazione molto precaria. Infatti anche in questa classifica il Guatemala si trova in una pessima posizione (124esimo posto). Nel documento si sottolinea che, nonostante la libertà di espressione sia garantita dalla Costituzione, questo diritto è costantemente violato dalle autorità e dagli attori politici. I giornalisti e gli organi di stampa che indagano o criticano atti di corruzione e violazioni dei diritti umani spesso subiscono rappresaglie, come campagne di discredito e procedimenti penali.

Il pericolo di essere periodista

Questo però non ha frenato la stampa indipendente che in Guatemala come in tutta l’America centrale, vede grandi professionisti e professioniste rischiare la propria integrità fisica per mantenere viva la libertà di stampa. E uno degli esponenti di questo giornalismo coraggioso e implacabile è sicuramente Marvin Del Cid (che ho avuto il privilegio di conoscere ad aprile di quest’anno nel mio ultimo viaggio in Guatemala) che insieme a Sonny Figueroa ha pubblicato nel 2021 un libro che è già “cult”. Si tratta di ¡Yo no quiero ser reconocido como un hijueputa más! (Io non voglio essere riconosciuto come un altro figlio di puttana) un titolo che è tutta una provocazione e che cita testualmente quanto pronunciato da Alejandro Giammattei, in un discorso elettorale nel 2019. Un documento letterario che racchiude 15 reportage di giornalismo d’inchiesta pubblicati sui giornali digitali “Artículo 35” e “Vox Populi” e che passano ai raggi X quelli che furono i primi 12 mesi della gestione Giammattei. Due giornali che sono il riferimento di quanti vogliono vedere chiaro nei meandri di un paese storicamente in mano a poche famiglie (oscenamente ricche come le famiglie Gutiérrez Bosch, Castillo, Herrera, Paiz, Novella e López Estrada), che hanno il potere di muovere i fili della politica e dell’economia nazionale.

Come siamo arrivati a questo punto: un viaggio nella memoria

Per raccontare come in una terra così ricca di storia e cultura come il Guatemala, siamo arrivati a una deriva (senza ritorno?) come quella di oggi prendo in prestito le parole, quasi poetiche e premonitorie, che il professore cubano di storia, René Villaboy Zaldivar, scrisse nel dicembre 2019 e che potete trovare qui o a pagina 172 del libro Historia e Cultura de la Madre América:

«Il Guatemala, noto come la terra del Quetzal, mostra attualmente tassi allarmanti di povertà, disuguaglianza sociale, malnutrizione infantile e un’impressionante convivenza con la violenza e la criminalità organizzata. Le tante risorse naturali del paese vengono divorate dai proprietari terrieri locali, dalle compagnie straniere che costruiscono centrali idroelettriche, lasciando le comunità senz’acqua e uccidendo la ricca biodiversità, e il tutto con la complicità o l’ammissibilità di uno Stato corroso dalla corruzione in tutti i suoi poteri. e livelli.
Paese che ha ospitato la grande civiltà maya, patria di Miguel Ángel Asturias, Premio Nobel per la Letteratura, e Rigoberta Menchú, Premio Nobel per la Pace, la sua triste realtà attuale, contrasta con gli ideali che hanno spinto una parte dei suoi figli a imbracciare le armi per costruire un paese diverso . Dal 1979, sotto l’impatto diretto della vittoria del Fronte Sandinista in Nicaragua, la guerriglia è stata riorganizzata in Guatemala e fino al 1996 questo è stato il cammino di un gruppo di organizzazioni progressiste per cercare di trasformare l’ingiustizia sociale che prevaleva allora e continua a prevalere in questa nazione dolente. Durante tutti questi anni, le forze repressive dell’Esercito e dei suoi gruppi paramilitari hanno commesso ogni tipo di violazione dei diritti umani e massacri contro la popolazione civile, che consideravano il principale sostegno della guerriglia».

Ma Villaboy ci porta ancora più indietro perché il Guatemala è stato uno dei primi esperimenti delle politiche intervenzioniste degli Usa in America Latina.  La cosiddetta Dichiarazione di Caracas” (Decima Conferenza interamericana, Caracas del 1954) che avvenne in Venezuela nel contesto della dittatura di Marcos Pérez Jiménez (1953-1958), inventata a contenimento della presunta minaccia comunista sull’integrità politica degli stati americani, è infatti un chiaro esempio di come il postulato della lotta contro il comunismo locale e internazionale nel contesto della “guerra fredda” portò a un avvicinamento degli Stati Uniti ai populismi militari dell’epoca con una politica di intervenzionismo feroce e sanguinario a protezioni di precisi interessi, come quello della United Fruit Company.

Stralci della dichiarazione

Considerando che le repubbliche americane, alla IX Conferenza internazionale americana, dichiararono che il comunismo internazionale,
per la sua natura antidemocratica e per la sua tendenza interventista, è incompatibile con la concezione della libertà americana,
e decisero di adottare, nei rispettivi territori, le misure necessarie per sradicare e prevenire le attività sovversive;

Condanna le attività del movimento comunista internazionale, in quanto costituenti un intervento negli affari americani;
Esprimere la determinazione degli Stati d’America a prendere le misure necessarie per proteggere la loro indipendenza politica
contro l’intervento del comunismo internazionale, che agisce nell’interesse di un dispotismo straniero
.

Continua Villaboy spiegando che «dalla cosiddetta Rivoluzione d’Ottobre del 1944, interrotta dall’intervento diretto degli Stati Uniti nel 1954, dopo il rovesciamento del presidente Jacobo Arbenz, il Guatemala cadde nelle mani di persone prive della volontà di attuare veri cambiamenti per risolvere la grave crisi economica che il paese centroamericano viveva. In un contesto di stimolo alle lotte rivoluzionarie con mezzi armati, alla fine degli anni Settanta le principali organizzazioni di guerriglia che si erano formate ispirandosi prima dalla Rivoluzione cubana, e poi dalla vittoria sandinista, raggiunsero una maggiore organizzazione militare e politica».

Gli anni di repressione violenta

Cominciarono così gli anni di violenza che scatenarono una guerra all’ultimo sangue dell’Esercito contro il movimento rivoluzionario locale. I numerosi omicidi di leader sociali e il brutale assalto all’ambasciata spagnola (31 gennaio 1980), dove si rifugiarono contadini e indigeni quiches, la maggior parte dei quali furono bruciati vivi, furono segni della decisione del governo e delle sue forze armate di mantenere l’ordine stabilito dalle classi dirigenti.
Le Forze Armate Ribelli (Far), l’Esercito Guerriglia dei Poveri (Egp), l’Organizzazione del Popolo in Armi (Orpa) e una parte del Partito Laburista Guatemalteco (Pgt) diedero vita all’Urng nel febbraio 1982. Allo stesso tempo, venne strutturato il Comitato guatemalteco di unità patriottica (Cgup), che riunì personalità politiche e sociali di spicco che erano sostenitori della lotta armata. Poche settimane dopo un colpo di stato insediò il generale Efraín Ríos Montt, che riorientò l’esercito verso un profilo più repressivo e controinsurrezionale, integrato da mostruosità paramilitari come pattuglie civili e i cosiddetti “villaggi strategici”. I massacri contro le popolazioni indigene divennero una pratica frequente dei militari e del suo corpo d’élite, i kaibiles. Il ripristino della democrazia nel gennaio 1986, con l’elezione di Vinicio Cerezo, cercò di limitare gli eccessi dell’Esercito, in un impegno assecondato anche dai suoi successori, Jorge Serrano Elías e Ramiro León Carpio, mentre però il conflitto armato continuava.
Ecco dunque che nel racconto di René Villaboy Zaldivar appare uno dei protagonisti indiretti del processo elettorale del prossimo 25 giugno, quell’ Efraín Ríos Montt che oggi vede sua figlia tra le favorite (la quarta negli ultimi sondaggi) alla guida del Guatemala.

Il viaggio nella memoria del Guatemala, del professore di Storia cubano, termina con «l’ascesa al potere del magnate Álvaro Arzú, che nel 1996, mise sul tavolo il negoziato di pace con le principali forze della guerriglia, in un contesto in cui il vero socialismo era scomparso e Cuba resisteva alle devastazioni del cosiddetto “Periodo Speciale”. In questo modo, con il sostegno dell’Onu e di paesi come la Norvegia e il Messico, si arrivò alla firma della pace. Il 29 dicembre 1996 si conclusero lunghi anni di conflitto armato con un bilancio stimato di oltre 150.000 morti e 50.000 dispersi».

Importanza strategica del Guatemala in vista delle elezioni

Il solo fatto che Zury Rios sia stata ammessa come candidata per le elezioni presidenziali che si decideranno a giugno è un chiaro segnale dei gravi problemi che attraversa la democrazia guatemalteca. Una donna espressione di un sistema elitista che continua a discriminare e disprezzare la radice indigena di questa terra millenaria ricca di conoscenza e saperi ancestrali. La violenza continua a essere presente, così come l’impunità e la corruzione: le estorsioni alle imprese sono all’ordine del giorno così come denunciato da “Deutsche Welle” in questo articolo. I traffici di influenza sono all’ordine del giorno, come denunciato per esempio da “Vox Populi” che segnala una triangolazione sospetta proprio tra Rios, il suo partito Valor e membri del Tse. Il Guatemala ha già dimostrato di essere un paese strategico per gli Stati Uniti che devono provare a fermare il prossimo (e già preannunciato) enorme flusso migratorio in arrivo alla frontiera Sud (lungo il Rio Grande). L’11 maggio è infatti prevista la sospensione definitiva del titolo 42 da parte dell’amministrazione Biden (norma eredità della presidenza Trump che permetteva per motivi sanitari l’espulsione immediata dei migranti dagli Usa) e ci sarà bisogno per lo ZIO SAM, oltre alla “collaborazione” del Messico anche di quella del Guatemala per far diventare quei 1000 chilometri di frontiera un primo grande muro per fermare chi cerca l’American Dream. Da parte nostra è fondamentale rimanere informati e non lasciare sole quelle persone, tante, che credono ancora in una Guatemala migliore. Dall’Italia, una delle figure più preparate e rigorose che apre delle finestre su questa complessa e affascinante terra è sicuramente la giornalista Simona Carnino. (proprio ora in Guatemala), che vi invito a seguire. Nel frattempo, mentre aspettiamo il verdetto delle urne non possiamo non essere d’accordo con la considerazione di Villaboy che constata come

«i proiettili non si sono fermati nella terra del Quetzal, perché i proiettili dell’insicurezza, della mancanza di opportunità e della disuguaglianza continuano a privare centinaia di guatemaltechi della vita».

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L’equilibrismo di tre pesi diversi in Nordamerica https://ogzero.org/lequilibrismo-di-tre-pesi-diversi-in-nordamerica/ Sat, 14 Jan 2023 00:52:49 +0000 https://ogzero.org/?p=10062 Dietro alla relativa eco ottenuta dall’ennesimo incontro tra i tre paesi del Nordamerica si nascondono invece tematiche annose difficilmente risolvibili: i cartelli dei narcos che sull’altra riva del Rio Bravo chiamano War on drugs e che sviluppano  business sempre diversi con l’obiettivo dei mercati anglosassoni del continente; mentre visti dalla frontiera settentrionale i flussi migratori […]

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Dietro alla relativa eco ottenuta dall’ennesimo incontro tra i tre paesi del Nordamerica si nascondono invece tematiche annose difficilmente risolvibili: i cartelli dei narcos che sull’altra riva del Rio Bravo chiamano War on drugs e che sviluppano  business sempre diversi con l’obiettivo dei mercati anglosassoni del continente; mentre visti dalla frontiera settentrionale i flussi migratori si ammassano sulla riva opposta del Rio Grande, come in un grande hub, dove comunque si riescono a spuntare salari maggiori, dove in qualche modo si può “aspettare”. Però sia gli uni – i flussi di droga – che gli altri – i flussi migratori – risalgono lungo tutto il territorio messicano a partire dalla frontiera meridionale. Infatti non manca nemmeno nell’incontro del Distrito Federal di Ciudad de México il confronto tra comunità native e afrodiscendenti – vessate e umiliate dai colonialisti e dai loro discendenti – e bianchi che diventano ancora più feroci nella difesa di privilegi anacronistici. Ma non sono rappresentate da nessuno dei partecipanti, sono pura merce di scambio: per creare difficoltà ai paesi antagonisti (non ammessi alla Cumbre di L.A.) si accettano migranti da quelle frontiere… e si sbattono le porte in faccia agli altri.
Amlo è riuscito nell’intento di apparire all’altezza dei due “amici” anglosassoni? Diego Battistessa ha analizzato la tre giorni de los tres amigos anche mantenendo accesa la luce proveniente dal continente che si apre a Sud di quel confine meridionale messicano che non trova spazio nell’economia autosufficiente del vertice.

fin qui OGzero


Dal 9 all’11 gennaio si sono riuniti a Città del Messico “I tre amici”, in spagnolo Los tres amigos. Non stiamo parlando di Alfonso Cuarón, Alejandro González Iñárritu e Guillermo del Toro, direttori di cinema messicani, conosciuti appunto come “Los tres amigos” – e nemmeno Steve Martin, Chevy Chase e Martin Short (protagonisti della omonima pellicola di John Landis del 1986 all’origine dell’espressione) –, ma bensì dei capi di stato di Canada (nella veste del primo ministro), Usa e Messico (presidenti delle reciproche Federazioni di stati). Trudeau, Biden e Lopez Obrador hanno dato vita al vertice dei leader nordamericani per stabilire delle politiche comuni su temi chiave per “i tre paesi”: in special modo migrazione, sicurezza (leggi narcotraffico) e commercio. Questo incontro trilaterale è il decimo della sua storia, iniziata il 23 marzo 2005 sotto il nome di Alliance for North American Security and Prosperity, con la riunione a Waco (Texas) di George W. Bush (USA) , Paul Martin (Canada) e Vicente Fox (Messico).

Un evento che segna questo inizio 2023 ma che affonda le radici nel 2022. Prima di addentrarci infatti dentro l’analisi di quanto discusso dai tre leader nordamericani nell’evento di Città del Messico è necessario volgere lo sguardo all’anno appena trascorso per capire con quale stato d’animo Trudeau, Biden e Lopez Obrador, si sono seduti al tavolo delle trattative.

 

Mexico – United States of America

Tensione diplomatica

In primo luogo non si può non sottolineare che questo vertice risana una frattura che si era palesata durante un altro importante summit, quello delle Americhe, celebratosi a Los Angeles dal 6 al 10 giugno 2022. Un incontro del quale vi abbiamo parlato in queste pagine  (dove ho potuto partecipare di persona) e dove, tra le altre, pesava proprio l’assenza di Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo). La presa di posizione del presidente messicano rispetto alla sua non partecipazione a questo importante incontro, che si celebra ogni 4 anni, riguardava l’esclusione a priori di Cuba, Nicaragua e Venezuela, paesi ritenuti antidemocratici dagli Usa. Tra il 9 e l’11 gennaio dunque, Lopez Obrador e Biden hanno potuto tornare a negoziare “face to face” in un contesto internazionale, dove strette di mano e foto di rito hanno allentato (almeno a favore di telecamera) una tensione che ancora era nell’aria.

War on drugs di Nixon: mezzo secolo fa

Non è da sottovalutare neanche quanto sono riusciti a realizzare Messico e Usa – nello specifico le autorità messicane –, lavorando insieme alla Drug Enforcement Agency (Dea) degli Stati Uniti rispetto alla lotta ai cartelli che controllano le rotte del narcotraffico. La cattura a luglio 2022 in Messico del narcotrafficante Rafael Caro Quintero (uno dei fondatori del Cartello di Guadalajara insieme a Miguel Ángel Félix Gallardo ed Ernesto Fonseca Carrillo) considerato uno dei latitanti più ricercati del mondo e reso famoso al grande pubblico per la serie Narcos, è stato un gran risultato.

Amlo antidroga

Operazione che ha fatto vedere in modo chiaro la volontà dell’amministrazione di Amlo di lottare contro questa piaga (il Messico ha dichiarato guerra al narcotraffico nel 2007) e di appoggiare le autorità Usa nella persecuzione di questi criminali. Persecuzione, cattura ed estradizione, quest’ultima proprio la più temuta dai leader dei cartelli che sanno di poter vivere una vita “alla grande” nelle carceri messicane ma di tutt’altra storia si tratta se invece la pena è da scontare in una prigione “gringa”.

La catena delle estradizioni

In questo senso il Messico nel 2022 ha estradato più di 50 criminali legati al narcotraffico, principalmente verso gli Stati Uniti, assestando duri colpi ai cartelli di Sinaloa, del Golfo, di Arellano Félix e del gruppo criminale Guerreros Unidos (quest’ultimo collegato al caso dei 43 studenti di Ayotzinapa nel 2014, episodio della politica avversa alle realtà indigene del Mexico). Oltre a Rafael Caro Quintero, altri “narcos” di spicco catturati o estradati nel 2022 sono Mario Cárdenas Guillén, uno dei capi del Cartello del Golfo (conosciuto come “M-1” o “El Gordo), Adán Casarrubias Salgado, conosciuto come El tomate, che si suppone essere il leader del gruppo Guerreros Unidos e Carlos Arturo Quintana, alias “El 80”, uno dei capi del gruppo criminale La Línea, nell’ orbita del Cartello di Juárez. E ancora Juan Francisco Sillas Rocha, uomo di fiducia degli Arellano Felix e Jaime González Durán, alias El Hummer, parte del gruppo di comando degli Zetas.

Welcome, Mr President

Insomma una collaborazione che ha portato buoni frutti e che proprio pochi giorni prima dell’inizio di questo nuovo vertice dei leader nordamericani ha avuto la sua ciliegina sulla torta. Si perché non è certo passato inosservato il tempismo con il quale, proprio 4 giorni prima dell’inizio dell’incontro trilaterale, le autorità messicane hanno realizzato un imponente operazione che ha portato alla cattura di Ovidio Guzmán, uno dei figli (“los chapitos”) dello storico capo del Cartello di Sinaloa, Joaquín El Chapo” Guzmán.

Alle 5 del mattino di giovedì 5 gennaio, diversi elicotteri, uno dei quali armato di mitragliatrice, hanno aperto il fuoco contro bersagli a terra nella città di Culiacán, stato di Sinaloa. Così è iniziato il blitz delle forze federali messicane che hanno catturato Ovidio, conosciuto anche come El Ratón” o “El Gato Negro, sul quale pendeva una taglia di 5 milioni di dollari. Il Cartello ha però reagito in modo rapido e violento, Culiacán è rimasta ostaggio di più di 50 blocchi stradali realizzati da uomini armati appartenenti all’esercito di Guzmán, criminali che hanno anche assaltato l’aeroporto per evitare che Ovidio venisse portato via dalla città.

Il governo messicano ha notificato all’amministrazione di Joe Biden l’azione portata a termine con successo, una sorta di gesto di buona volontà che Amlo ha presentato al presidente degli Stati Uniti d’America prima del suo arrivo a Città del Messico.

Lunga vita all’infame Titolo 42

Sul tema migratorio bisognerebbe scrivere un articolo a parte. È comunque chiaro che questo aspetto è stato centrale nella strategia dell’amministrazione Biden fin dall’inizio della presidenza nel 2021: basti considerare che il primo viaggio fatto dalla vicepresidente Kamala Harris (giugno 2021) riguardava proprio la questione migratoria, ed è stato realizzato tra Messico e Guatemala. Amlo è stato un buon alleato per le politiche migratorie dei democratici statunitensi che durante questi ultimi due anni hanno dovuti fare i conti con l’aumento dei flussi e della pressione verso la frontiera nord, nella misura in cui si minimizzavano (o eliminavano) le barriere per prevenire la diffusione del Covid-19.

L’esternalizzazione delle frontiere in salsa guacamole

Frontera norte

Biden nel 2022 ha cercato per ben due volte di far eliminare il famoso Titolo 42 (a maggio e a dicembre) ma in entrambe le occasioni la maggioranza repubblicana dei giudici ha fermato l’azione della Casa Bianca. Nel frattempo nell’ottobre del 2022 il governo del Messico dava per concluso il programma chiamato Quédate en Mexico (rimani in Messico): programma creato nella legislatura dell’ex presidente Donald Trump (2017-2021) che stabiliva che i migranti che volevano entrare negli Stati Uniti d’America legalmente, dovevano attendere la risoluzione delle procedure burocratiche in territorio messicano. Una misura che il Messico ha subito suo malgrado e che oltre a creare un enorme caos alla frontiera, ha generato multiple violazione dei diritti fondamentali delle persone migranti.

Nonostante ciò, il 2022 si è concluso con dei record storici di transiti migratori irregolari verso gli Usa, situazione che ha esposto il fianco di Joe Biden agli attacchi dei repubblicani che parlano di vera e propria “invasione”, minacciando di processare il segretario alla sicurezza nazionale, Alejandro Mayorkas. Da qui l’ultimo “asso nella manica” giocato dall’attuale presidente a stelle e strisce proprio pochi giorni prima del vertice dei Tre amigos: ancora una volta un piano di bastone e carota.

«Do not come!»

Proprio mentre a Culiacán l’esercito messicano battagliava con il Cartello di Sinaloa per arrestare Ovidio Guzmán, Joe Biden annunciava nuove misure per rafforzare il controllo del confine con il Messico e in cambio prometteva l’apertura di nuovi canali di immigrazione legale, soprattutto alle persone provenienti da Venezuela e Cuba (che vivono la più grande crisi migratoria della loro storia) oltre a Nicaragua e Haiti. Gli Usa, ha detto Biden, accetteranno 30.000 migranti al mese provenienti dai sopracitati paesi, a patto che queste persone in movimento possano dimostrare legami familiari con emigrati già presenti nel territorio statunitense. Allo stesso modo verrà rafforzato il controllo nella frontiera sud e non ci sarà “nessuna pietà” per chi cerca di passare il confine in modo illegale. «Do not come!» (Non venite), continua a recitare Biden, il mantra gringo che sentiamo ripetere ai democratici da giugno 2021, quando proprio in Messico lo disse Kamala Harris per la prima volta in questa amministrazione – e ribadito durante la Cumbre di Los Angeles.

Dossier top secret

Per concludere, a Biden in questi giorni non sono mancati neanche problemi interni. Infatti proprio lunedì 9 gennaio, mentre stavano iniziando i lavori del vertice si è saputo di una importante indagine che lo vede implicato direttamente. Sarebbero infatti stati trovati circa una dozzina di documenti riservati su Iran, Ucraina e Gran Bretagna nell’armadio di un ufficio che l’attuale presidente ha utilizzato mentre collaborava con l’Università della Pennsylvania (2017- 2021), periodo nel quale non ricopriva nessun incarico politico. Una volta trovati i documenti è stato informato il Dipartimento di Giustizia, che ha nominato un pubblico ministero, John Lausch (uomo scelto a suo tempo da Donald Trump), per portare avanti le indagini. Il problema (un altro) è che mentre erano in corso le indagini preliminari per determinare se sussistono gli indizi di reato, sono venuti alla luce nuovi documenti “top secret”, stipati nel garage della residenza di Biden nel Delaware, suo feudo elettorale. Ora bisogna capire se ci sono gli estremi per istruire un processo e in quel caso si staglierebbero nubi molto oscure nell’orizzonte dei democratici, visto che tra poco l’ottantenne presidente Usa dovrà far sapere se correrà per un secondo mandato nel 2024 o se lascerà il testimone del partito a qualcun altro.

Canada

Sappiamo che il Canada è un paese dal basso profilo, nel senso che non riempie di scandali i “rotocalchi” internazionali. Nonostante ciò, questa vetrina internazionale offerta da Amlo è però servita al primo ministro Justin Trudeau per sottolineare il rispetto dovuto alle comunità indigene e alla protezione dell’ambiente.

Pellegrinaggi penitenziali

Parole che riportano subito all’immagine simbolo del 24 luglio 2022, quando Jorge Bergoglio atterrava dopo un volo di 10 ore all’aeroporto canadese di Edmonton per iniziare un viaggio di 6 giorni nel quale avrebbe chiesto perdono ai rappresentanti di vari popoli indigeni (Inuit e Métis tra gli altri) per la complicità della Chiesa cattolica negli abusi perpetrati nei collegi dove venivano internati i bambini indigeni.

Più di 150.000 di loro vennero allontanati dalle loro case dal 1800 fino agli anni Settanta del secolo scorso e internati con la forza nelle scuole nel tentativo di isolarli dall’influenza delle loro famiglie e della loro cultura. Queste scuole/collegi erano finanziati dalla Chiesa cattolica e dal governo e il loro compito era quello di integrare alla forza le nuove generazioni di indigeni alla società canadese di religione cristiana. Dopo la visita di papa Francesco, il governo canadese ha effettuato una dichiarazione nella quale riteneva insufficienti le scuse del Pontefice, che non aveva fatto menzione nei suoi discorsi agli abusi fisici e sessuali perpetrati contro i bambini indigeni. Lo stesso Justin Trudeau aveva chiesto perdono alle popolazioni indigene native il 25 giugno 2021 dopo che la Federation of Sovereign Indigenous Nations (FSIN, che rappresenta nazioni indigene native a Saskatchewan) aveva riferito del ritrovamento di circa 750 tombe anonime in una fossa comune in un collegio in Canada: nel luogo dove prima si ergeva la  Marieval Indian Residential School nella provincia di Saskatchewan. Un tema ancora scottante in Canada e che ha segnato il governo di Trudeau.

I temi del vertice

«Condividiamo una visione comune per il futuro, basata su valori comuni», le parole di Biden a corollario di un incontro che si è centrato principalmente su sicurezza, economia, clima e migrazione.

Autosufficienza economica

Una delle azioni concrete è stata la creazione di un comitato di 12 membri (4 per ogni paese) per la pianificazione e la sostituzione delle importazioni in Nordamerica. L’idea è che i tre paesi possano raggiungere insieme l’autosufficienza, creando un‘unione economica forte ed efficace.

In questo senso Trudeau ha sottolineato che insieme i tre amici superano il pil dell’Unione Europea e che possono essere il volano di una «economia continentale, solida e resiliente».

Respingimenti limitati

Il tema migratorio è stato centrale e se da un lato Amlo ha chiesto a Biden di promuovere riforme per agevolare la legalizzazione di milioni di messicani che vivono e lavorano in Usa, dall’altro lo ha ringraziato per non aver costruito nemmeno “un metro” di muro (il famoso muro promesso da Trump). Il Canada, che riceve una minore migrazione di cittadini messicani, dal canto suo ha posto in marcia il programma di concessione di visti di lavoro a giornalieri messicani, un piano di mobilità regolare che già include 25.000 persone. Il focus però è stata la frontiera del Rio Bravo o Rio Grande, a seconda della riva da cui si guarda, e della pressione migratoria che viene esercitata in questo punto. Come detto in precedenza il nuovo piano di Biden è stato annunciato pochi giorni prima del vertice, spazio nel quale è stato reiterato e confermato da Amlo.

Il mercato di Fentanyl

Lopez Obrador ha poi posto sul tavolo un’altra questione, quella che riguarda il fentanyl, e la sua sempre maggiore diffusione in Usa e Canada. Si tratta di una droga molto potente, che viene confezionata in modo illegale in Messico e che viene poi esportata nel Nord del continente. Dal sito del Centers for Disease Control and Prevention:

«Il fentanyl è un oppioide sintetico che è fino a 50 volte più forte dell’eroina e 100 volte più forte della morfina. È un importante fattore che contribuisce alle overdose fatali e non fatali negli Stati Uniti. Esistono due tipi di fentanyl: fentanyl farmaceutico e fentanyl prodotto illegalmente. Entrambi sono considerati oppioidi sintetici. Il fentanyl farmaceutico è prescritto dai medici per trattare il dolore intenso, specialmente dopo un intervento chirurgico e negli stadi avanzati del cancro.
Tuttavia, i casi più recenti di overdose correlate al fentanyl sono collegati a quello prodotto illegalmente, che viene distribuito nei mercati di stupefacenti per il suo effetto simile all’eroina. Viene spesso aggiunto ad altri farmaci a causa della sua estrema potenza, rendendo i farmaci più economici, più potenti, più stimolanti e più pericolosi».

In questo senso, il presidente del Messico si è impegnato con Stati Uniti e Canada a lottare contro il traffico di fentanyl, confermando che questa attività è stata messa tra le priorità delle Forze Armate del paese latinoamericano.
Il vertice si è chiuso in un clima di cordialità e mutuo intendimento, un gioco politico di do ut des , nel quale ognuno dei tre attori ha “giocato” pensando al cortile di casa sua.

Lo scenario latinoamericano visto dal vertice dei tre amici

Durante il vertice Amlo ha chiesto a Biden e Trudeau di «porre fine a questo oblio, abbandono e disprezzo verso l’America Latina». Parole lapidarie che però rendono bene l’idea di come le forti economie nordamericane facciano “orecchie da mercante” rispetto alla situazione attuale del resto del continente, in preda a forti convulsioni sociali e attacchi profondi alle fondamenta democratiche, così faticosamente costruite negli anni passati.

Tre casi su tutti ci portano a una riflessione sullo stato della regione: Brasile, Perù e Bolivia.

In Brasile abbiamo visto l’8 gennaio migliaia di sostenitori di Bolsonaro assaltare la piazza dei tre poteri a Brasilia. Un atto di superbia morale, terrorismo interno e sdegno verso le istituzioni che ha connotato uno dei giorni più tristi per il Brasile.

In Perù, dove i fatti di dicembre che hanno portato all’arresto dell’ex presidente Pedro Castillo e la nomina della sua vice, Dina Boluarte come prima donna a dirigere il paese sudamericano, le repressioni delle proteste hanno causato decine di morti e centinaia di feriti. Il popolo che si rispecchia in Castillo, contadini e indigeni delle zone rurali, grida que se vayan todos (che se ne vadano tutti) chiedendo elezioni anticipate e la cacciata della corruzione dalle istituzioni: le forze dell’ordine rispondono con proiettili ad altezza d’uomo. Per capire il livello dello scontro basti pensare che a Lima la procura ha chiesto di indagare Boluarte per «presuntos delitos de genocidio, homicidio calificado y lesiones graves».

In Bolivia nel periodo natalizio è stato arrestato il governatore del dipartimento di Santa Cruz, (zona che fa parte della chiamata mezzaluna bianca) dove la destra conservatrice si oppone da anni a Evo Morales prima e ad Arce ora. Luis Fernando Camacho (il governatore) è stato detenuto per i fatti legati alla crisi politica che ha seguito le elezioni del 2019, la cacciata di Evo dal paese e l’insediamento di Jeanine Áñez come presidente del paese (oggi anche lei in carcere): dopo la sua cattura sono iniziate manifestazioni per chiederne la liberazione.


Proprio di questi eventi distribuiti tra Brasilia, Cuzco, Ayacucho, Arequipa, Puno e di considerazioni sui fatti boliviani di questi giorni si è parlato su Radio Blackout il 12 gennaio 2023 con Diego, concludendo ad anello il discorso, ritornando all’inizio di questo articolo:
“Sacudidas en la marea rosa”.


Insomma, uno scenario di instabilità che vede proprio nell’occhio del ciclone tre dei paesi della nuova “ondata” della Marea Rosa fare i conti con la polarizzazione sociale e politica. Se a questo aggiungiamo gli appuntamenti elettorali importanti di questo 2023, specialmente in Argentina, dove il kirchnerismo sembra partire in svantaggio per l’elezione del prossimo presidente e l’attentato sventato contro Francia Marquéz (vicepresidente) in Colombia, possiamo capire quanto il bandolo della matassa sia difficile da districare.

Un aiuto può venire da Moleskine Sur, un ottimo compagno di viaggio nei meandri delle realtà latinoamericane proiettate verso un 2023 dai risvolti molto incerti.

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Il colore stinto della nuova Marea Rosa https://ogzero.org/studium/il-colore-stinto-della-nuova-marea-rosa/ Tue, 20 Dec 2022 20:20:54 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=9837 L'articolo Il colore stinto della nuova Marea Rosa proviene da OGzero.

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Le Moleskine non finiscono al mundo del fín del mundo

Vi chiederete come mai è impostato al 90% l’avanzamento del lavoro pur avendo già la possibilità di proporvi il volume completo e acquistabile. Ebbene, è perché stavolta siamo un po’ andati a ritroso rispetto al solito: è vero che il libro discende dagli articoli e gli spreaker che hanno accompagnato la Marea Rosa lungo gli ultimi due anni, ma la sua collazione non è passata attraverso un’analisi dialettica interna al dossier, che ora ne rivela la pubblicazione. Infatti si tratta di un lavoro in fieri che trae spunto da questo volume per fotografare una condizione che si trova ora a uno snodo importante: quasi l’intera area latinoamericana ha fatto argine alle destre che spesso sono le più retrive, costituite da latifondisti terratenientes, apparati militari, finanzieri neoliberisti di matrice coloniale; ma ciascuna di queste forze progressiste al potere è diversa e si muovono tutte in ordine sparso. Diego Battistessa propone di non perdere di vista alcuni dei protagonisti piuttosto che altri per sperare di resistere al ritorno della risacca destrorsa…

«Sono settimane intense quelle che ci stanno portando verso la fine del 2022 in America Latina e nei Caraibi. – ha scritto Diego nel suo canale Linkedin proprio il giorno in cui usciva questa sua fatica editoriale – La regione è scossa da profondi cambiamenti, colpi di scena e dall’aggravarsi di crisi sistemiche che ciclicamente (purtroppo) si affacciano nei vari contesti nazionali». Ma è impossibile comprendere completamente l’America latina e quindi non potrà venire meno da qui in avanti l’apporto di analisi e considerazioni sul continente sudamericano (e Caribe) di un appassionato come Diego Battistessa – ma anche da parte del suo amico e mentore Alfredo Somoza, o lo stimato Davide Matrone, con la prefattrice Paola Ramello e, suo tramite, il monitoraggio di Amnesty – e questa loro pulsione a capire ci consentirà di continuare a proporre in questo Studium materiali per proiettare una luce il più autentica e adatta possibile sugli angoli più oscuri del Latinoamerica.
Per questo stavolta il libro è un punto di partenza per raccogliere sulla sua scia lavori e idee che lungo i prossimi mesi acquisiranno dati per interpretarli alla luce della conoscenza di quella vivace terra che è da qualche parte al di là dell’Atlantico: “Un continente da favola” a Sud.




Dal golpe alla Moneda al nuovo ordine mondiale

Un anno dopo il libro di Diego riprendiamo in altro modo, con Alfredo, la domanda relativa al luogo da cui si arriva e dove si continua ad andare: stavolta il libro che ci guida nell’eterno ritorno ciclico che tiene congelato il Sudamerica all’altalena tra vagiti di speranze di emancipazione e reazione populista che difende i privilegi imposti dalle dittature, che hanno (avuto) a modello il regime di Pinochet.

Manuela Donghi nella sua trasmissione “Next Economy” su GiornaleRadio ha chiesto il 28 dicembre ad Alfredo Somoza di commentare l’accelerazione delle riforme di Javier Milei, che stanno portando in piazza migliaia di persone a cui la vita è già stata resa impossibile, costringendo persino la Cgt a dichiarare un paro general per il 24 gennaio 2024, sfidando i decreti che impedirebbero scioperi e manifestazioni:

Alfredo era stato intervistato da Rete Capodistria il 17 novembre 2023 e il suo intervento si può sentire dal minuto 1:25:15

https://www.facebook.com/100000358016312/posts/7144550768900119/?mibextid=rS40aB7S9Ucbxw6v

L’interesse per il Sudamerica in questo periodo è catalizzato in particolare dalle elezioni presidenziali argentine, che vedono al ballottaggio due contendenti pessimi, risultato di populismo e turbocapitalismo che hanno nuovamente innescato il solito ciclo perverso di emancipazione e speranza vs ferocia e liberalismo. L’amico Alberto Da Rin ha coinvolto Alfredo Somoza nella composizione della pagina che “Il Sole24Ore” dedica alle elezioni di domani:


Dove si arriva e da dove si parte

Questo podcast sintetizza la situazione in sospeso a fine 2022, dopo l’autogolpe di Castillo in Perù, e delimita le speranze di emancipazione dei paesi iberoamericani all’aurora del nuovo anno, la nueva alborada è quanto mai imponderabile e qui continueremo a cercare di dargli uno spessore per renderla più comprensibile anche al di qua dell’Atlantico. Le vittorie elettorali della componente progressista in alcuni paesi dell’America Latina hanno rimarcato i limiti della governabilità: Castillo per primo.

“Guado pericoloso per la Marea Rosa”.

Poi si sono registrati veri tracolli e nuove baldanze della reazione, ultimo episodio quello che ha portato una controfigura pazza come Milei a realizzare i peggiori incubi di sfondamento delle lobbies peggiori. Alfredo ha illustrato con lucidità in una puntata di Bastioni di Orione su Radio Blackout gli sviluppi della politica sudamericana

“Milei, capolavoro distopico di Kissinger a 50 anni dalla Moneda”.

90%

Avanzamento



Diego Battistessa

@DiegoBattistessa (Ig)

Latinoamericanista: docente e ricercatore presso l’Università Carlos III a Madrid; collabora con enti di cooperazione internazionale; reporter, scrive in Spagna per “El País”, è analista per Voz de America negli Usa, e in Italia cura un blog per “Il Fatto Quotidiano”. Si occupa di violazioni dei diritti umani per Osservatorio Diritti.


Libreria Voci dal Latinoamerica Voci dal Caribe

Seguire le analisi e le evoluzioni della lenta spinta all’emancipazione dal neoliberismo finanziario e latifondista, sostenuto da militari e potenze straniere è un percorso che ci siamo imposto non solo per verificare che siano corrette le scommesse contenute nel volume pubblicato da OGzero con Diego Battistessa, ma anche perché è questo il passaggio epocale, l’unica possibilità, verso un nuovo Sudamerica emendato dall’orrore del “Plan Condor” di 50 anni fa. Il 26 gennaio su “il Fatto Quotidiano” Diego ha documentato un altro passaggio.

Si è concluso l’incontro di Celac, la Comunità degli Stati latinoamericani:
sancito il ritorno del Brasile

«È con molto orgoglio che io ritorno a Celac. Alberto io voglio dirti che puoi contare su di me nella lotta per l’integrazione dell’America Latina e dell’America del Sud». Parole dette da Luiz Inácio Lula da Silva e captate da un video mentre stringe le mani di Alberto Fernández, presidente della Repubblica Argentina e anche presidente pro tempore per il 2022 della Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici (composta da 33 stati e chiamata appunto Celac). Parole importanti, che non hanno solo un significato circostanziale trai i presidenti delle due più grandi economie dell’America del Sud, ma che sanciscono che il Brasile è tornato.

Anche perché tra i due presidenti sono intercorsi progetti di una moneta comune, o meglio di un sistema che faciliti lo scambio tra i due paesi: il Sur non è propriamente nemmeno una moneta, ma Ispi spiega:

i due governi vorrebbero trovare un modo per commerciare tra di loro senza dover utilizzare il dollaro americano come valuta di fatturazione. La “moneta comune”, quindi, non sarebbe una nuova valuta in sostituzione delle valute nazionali. I governi vorrebbero creare un sistema per sganciare gli scambi commerciali bilaterali dalla disponibilità di dollari. Infatti, negli ultimi anni il commercio bilaterale si è ridotto per la cronica carenza di dollari in Argentina. Il commercio tra i due Paesi sudamericani è importante: il Brasile rappresenta il primo partner commerciale dell’Argentina, che è il partner più importante in America Latina del Brasile, anche se solo terzo per importanza dopo Cina e Stati Uniti (Ispi). 

, perché il Brasile a guida Jair Bolsonaro aveva abbandonato nel 2020 questo meccanismo intergovernativo creato il 23 febbraio 2010 per promuovere il dialogo nella regione. “Il Brasile ha deciso di sospendere la sua partecipazione alla Celac. La Celac non ha avuto risultati nella difesa della democrazia né in alcun ambito. Al contrario ha dato risalto a regimi non democratici come quelli di Venezuela, Cuba, Nicaragua”, dichiarava l’allora ministro brasiliano degli Esteri, Ernesto Araújo, sancendo così l’autosospensione del Brasile dall’organismo. Un segnale forte dunque quello di Lula a Buenos Aires, in questo incontro del VII vertice del Celac del 24 gennaio, che ha visto il passaggio di consegne alla presidenza protempore tra Fernández e Ralph Gonsalves, presidente quest’ultimo dello stato caraibico di Saint Vincent e Grenadine.

Un vertice caratterizzato dalla crisi istituzionale del Perù e dalla sanguinaria repressione messa in atto dalle autorità, ma anche dalla polemica assenza del presidente del Venezuela, Nicolas Maduro e dalle sfide commerciali che il blocco dei paesi latinoamericani dovrà decidere come affrontare nei prossimi anni. La spinta di Lula si è fatta sentire e proprio il nuovo presidente brasiliano ha voluto sottolineare nel suo discorso che saranno promossi tanto gli accordi bilaterali con i vicini così come il forte impulso di Mercosur, Unasur e Celac, attraverso “un fortissimo senso di solidarietà e vicinanza”.

Tra le assenze, come anticipato, quella di Maduro è stata la più notoria. Ci si aspettava l’arrivo in pompa magna del primo cittadino venezuelano, che avrebbe potuto così tornare a calcare uno scenario sudamericano di livello internazionale e riabilitare la sua immagine al fianco di Lula, pronto quest’ultimo a riallacciare le relazioni diplomatiche con Caracas. All’ultimo minuto Maduro però ha desistito. Le preoccupazioni per la sua sicurezza, le annunciate con manifestazioni contro la sua presenza e la ricompensa di 15 milioni di dollari (ancora vigente) della autorità statunitensi per la sua cattura vengono additate tra le cause di questa défaillance. Nonostante i suoi proclami, dunque, Maduro deve cedere alla realtà dei fatti e cioè che non può andare dove vuole, ma solo dove è protetto (Cuba, Russia e Algeria, per esempio).

Oltre a quella del presidente venezuelano, si sono registrate le assenze del suo alleato Daniel Ortega (presidente de Nicaragua), di Andrés Manuel López Obrador (presidente del Messico) e di Guillermo Lasso (presidente dell’Ecuador): tutti e tre hanno inviato i loro ministri degli Esteri. Neanche la presidente del Perù è stata presente, vista la crisi nella quale è sommersa Dina Boluarte in queste ore. E non sono arrivati nella capitale argentina neanche Xi Jinping e Joe Biden invitati da Alberto Fernández. I presidenti di Cina e Usa non hanno però perso l’occasione di essere presenti almeno indirettamente: così, mentre Xi Jinping ha inviato un video, Biden ha inviato il suo assessore speciale per la regione, ovvero Christopher Dodd. Nelle foto di famiglia spiccavano invece tra gli altri Gabriel Boric (Cile) e Gustavo Petro (Colombia), così come Miguel Díaz-Canel (Cuba), Luis Arce (Bolivia), Mario Abdo Benitez (Paraguay), Xiomara Castro (Honduras) e Mia Mottley (Barbados).

Dal vertice è uscito un documento di 111 punti, già noto come la dichiarazione di Buenos Aires. Tra gli impegni che vengono presi dai 33 Stati membri si trova l’aggiornamento del Piano per la sicurezza alimentare, la nutrizione e lo sradicamento della fame, la continuità del Piano di autosufficienza sanitaria e il rafforzamento della produzione capacità e distribuzione locale e regionale di vaccini, medicinali e forniture essenziali. Oltre al documento principale sono state approvate nel vertice altre 11 dichiarazioni speciali, che includono temi delicati come la difesa della sovranità argentina sulle Isole Malvinas e la fine del blocco economico, commerciale e finanziario degli Stati Uniti contro Cuba. Sono state approvate anche una dichiarazione sulla lotta al traffico internazionale di armi e un’altra sulla promozione e conservazione delle lingue indigene.
Importante anche l’approvazione di due cruciali incontri in agenda: il vertice Celac-Unione europea nel 2023 e il vertice del forum Celac-Cina nel 2024. Riguardo quest’ultimo punto, ancora Lula si è reso protagonista in un incontro con Louis Lacalle Pou (presidente dell’Uruguay) proprio per discutere sull’urgenza che il Mercosur chiuda un accordo con l’Unione europea prima di negoziare con la Cina (cosa che l’Uruguay sta facendo in modo bilaterale senza i suoi soci commerciali). Per finire in Uruguay non poteva mancare uno storico rincontro, quello tra Mujica e Lula, avvenuto nella casa del primo a Rincón del Cerro a Montevideo: una della immagini forti e cariche di simbolismo di questi giorni
Insomma, ci sarà molto da vedere, analizzare e capire in questo 2023 in America Latina. Per fare ciò è però necessario avere un contesto, dei punti di riferimento e delle coordinate regionali, sia a livello storico, politico, economico e sociale. In questo senso, insieme ad OGzero, abbiamo appena pubblicato il volume Moleskine Sur. Taccuini dal Latinoamerica, che raccoglie le mie analisi di geopolitica degli ultimi due anni, passati in larga parte dall’altro lato dell’Atlantico tra Colombia, Panama, Brasile, Messico, Ecuador, Perù e Usa. Un libro di facile lettura (130 pagine) non esclusivo per gli addetti ai lavori, che offre chiavi di lettura attuali a chi si vuole affacciare all’America Latina di oggi. A completare l’opera la prefazione di Paola Ramello, del coordinamento italiano per l’America Latina di Amnesty International Italia e la postfazione del giornalista (grande esperto di America Latina) Alfredo Luis Somoza.In una regione di corsi e ricorsi storici, per capire gli scenari possibili del 2023 è davvero fondamentale riuscire ad ampliare il contesto di analisi. Buona lettura.

Lucia Capuzzi ha colto gli spunti essenziali del libro di Diego Battistessa in questo pezzo apparso su “Avvenire” il 5 aprile 2023



Davide Matrone è un collega e amico di Diego Battistessa, docente e analista della società ecuadoriana dall’osservatorio privilegiato dell’università di Quito. In Ecuador maggiormente morde il neoliberismo latinoamericano e ancora controlla direttamente il potere con Guillermo Lasso, che per distrarre da scandali e disastri economici, da massacri e povertà propone 8 preguntas referendarie, populismo che mira a distruggere la Costituzione e il territorio, la rappresentanza e la partecipazione. Con Davide abbiamo cercato di capire meglio qual è il tentativo dell’oligarchia di resistere all’Onda Rosa a Quito:

Riportiamo qui nel nostro studium, per approfondimento, un articolo di Diego Battistessa uscito il 2 gennaio su “il Fatto Quotidiano”..


AMERICA LATINA, QUESTO SARÀ UN ANNO IMPREVEDIBILE MA CON ALCUNI PUNTI FERMI

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Cosa ci aspetta nel 2023 in America Latina? Una domanda difficile, vista la storica imprevedibilità della regione e la grande volatilità che stiamo vivendo su scala planetaria con la scia del Covid-19 e le conseguenze a più livelli dellinvasione dell’Ucraina da parte della Russia. Un futuro che già sappiamo, però, sarà segnato da alcuni appuntamenti elettorali prefissati e i cui contorni possiamo cercare di definire attraverso l’analisi di quanto accaduto negli ultimi anni, soprattutto nel 2021 e nel 2022.L’anno si è aperto con l’insediamento di Lula in Brasile, un passaggio storico, carico di simbolismo e aspettative. Un’eredità del 2022, che è stato un anno pieno di soprese e colpi di scena per la regione latinoamericana.

Parlando di votazioni, le prime si celebreranno in Ecuador il 5 febbraio. In questa data la popolazione sarà chiamata a votare per un referendum composto da 8 domande riguardanti il tema della sicurezza, l’occupazione, alcune modifiche istituzionali e la sempre più pressante tematica ambientale. Guillermo Lasso, il presidente banchiere eletto in Ecuador nel 2021 (che non gode della maggioranza politica in parlamento), si gioca molto con questo appuntamento elettorale, visto che il suo consenso a livello nazionale è molto calato, mentre il paese è attraversato dalla guerra alle bande criminali, foriere della chiamata “narcoviolenza”.

Ad aprile sarà la volta del Paraguay, dove il 30 si deciderà il nome del prossimo presidente, che si insedierà il successivo 15 agosto. Le principali candidature appartengono a due poli di potere, la Coalizione per un Nuovo Paraguay e l’Associazione Nazionale Repubblicana (conosciuta come Partito Colorado). Nelle primarie del 18 dicembre 2022 per le file della Coalizione per un Nuovo Paraguay il candidato presidenziale indicato è stato Efraín Alegre che si dovrà scontrare contro il candidato del Partito Colorato, Santiago Peña (il Partito Colorado è il partito dell’attuale presidente Mario Abdo Benítez). Le votazioni paraguaiane di aprile 2023 riguarderanno anche l’elezione di 45 senatori titolari e 30 senatori supplenti, 80 deputati effettivi e ottanta 80 sostituti, 17 governatori, 257 membri titolari e 257 membri supplenti per i consigli dipartimentali.

Il primo semestre del prossimo anno si concluderà con le elezioni presidenziali in Guatemala. Un paese tra i più corrotti del mondo, dove lo stesso sito web della vicepresidenza della repubblica dice che “Uno dei problemi fondamentali della società guatemalteca è la povertà, condizione la cui soluzione è stata assente nelle strategie di sviluppo del Paese”. Oltre a presidente e vicepresidente verranno eletti i 160 nuovi membri del Congresso, 330 sindaci municipali e si voterà anche per 20 seggi corrispondenti al Parlamento centroamericano per il periodo 2024-2028. Nel caso in cui si arrivi al ballottaggio, il secondo turno è previsto per il 27 agosto.

I candidati alla presidenza del Guatemala già annunciati (la data finale per candidarsi è il 20 gennaio) sono per ora 6: Ricardo Sagastume (Todos), Isaac Farchi (Partido Azul), Rudio Lecsan Mérida (Patido Humanista de Guatemala – PHG), Edmond Mulet (Cabal), Roberto Arzú (Podemos) e Zury Mayté Ríos Sosa (Valor e Unionista). Da tenere sotto stretta osservazione proprio la candidatura della conservatrice Zury Ríosche porta su di sé un nome e un passato pesanti per il Guatemala. Si tratta infatti nientemeno che della figlia di Efraín Ríos Montt, militare e dittatore dello stato centroamericano che fu Capo di Stato dopo tra il 23 marzo 1982 e l’8 agosto del 1983, dopo aver realizzato un golpe.

Montt, che ha continuato successivamente la sua carriera politica fondando nel 1989 il Fronte repubblicano guatemalteco – Frg (poi ribattezzato Partito repubblicano istituzionale – Pri), è una della figure più sanguinarie delle dittature centroamericane, condannato per genocidio per essere stato riconosciuto colpevole del massacro di 1.771 indigeni maya della comunità Ixil in 15 diverse operazioni compiute dai militari nel dipartimento nord occidentale di Quiche. Il dittatore, accusato anche da Rigoberta Menchú nel 1999, è morto l’1 aprile 2018 senza però aver scontato la sentenza (50 anni per genocidio e altri 30 per crimini contro l’umanità) visto che il processo venne annullato per errori di procedimento e ne venne richiesta la ripetizione.

L’anno si concluderà con due importanti appuntamenti elettorali in Argentina e Colombia. Nel paese di Messi, che ha da poco alzato la Coppa del Mondo di calcio in Qatar, il terremoto politico è in atto da tempo. L’attentato contro la vicepresidente Cristina Fernández de Kirchner (1 settembre 2022), la sua successiva condanna per corruzione (6 dicembre) e le due denunce penali presentate contro Alberto Fernández (il presidente) da rappresentanti di Coalición Cívica e Republicanos Unidos il 23 dicembre danno la misura del caos che regna in Argentina. Per il 13 agosto 2023 sono fissate le primarie aperte, simultanee e obbligatorie (Paso), nelle quali l’elettorato dovrà scegliere i propri i candidati; successivamente le elezioni presidenziali si terranno il 22 ottobre: il 19 novembre si svolgerà il secondo turno. Simultaneamente si voterà anche per metà dei seggi alla Camera dei Deputati e un terzo al Senato.

In Colombia, dove nel 2022 si sono svolte le elezioni presidenziali che hanno dato la vittoria a Gustavo Petro, si terranno il 29 ottobre le elezioni regionali per i 32 dipartimenti del paese, i deputati delle Assemblee dipartimentali, i sindaci e i consiglieri comunali.

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]]> “Alta Marea” in America Latina https://ogzero.org/alta-marea-in-america-latina/ Tue, 08 Nov 2022 20:30:20 +0000 https://ogzero.org/?p=9403 Il Brasile svolta con fatica. I governanti sovranisti usano ogni trucco pur di non lasciare il potere: fake news, calunnie, alleanze con il peggio della società retriva e delle sette religiose; Bolsonaro ne è un modello, come Trump. Ma il Brasile ha indubbiamente svoltato non rieleggendo per la prima volta il proprio presidente al secondo […]

L'articolo “Alta Marea” in America Latina proviene da OGzero.

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Il Brasile svolta con fatica. I governanti sovranisti usano ogni trucco pur di non lasciare il potere: fake news, calunnie, alleanze con il peggio della società retriva e delle sette religiose; Bolsonaro ne è un modello, come Trump. Ma il Brasile ha indubbiamente svoltato non rieleggendo per la prima volta il proprio presidente al secondo mandato. Questo però apre a uno scenario apparentemente positivo per un Latinoamerica che vede la stragrande maggioranza dei paesi governati da esponenti di variegate sinistre, ciascuna con peculiarità diverse ed elementi che gettano ombre da un lato sull’effettiva attenzione ai diritti civili (la dinastia nicaraguense, il partito unico cubano), dall’altro sulla reale volontà di eliminare diseguaglianze, sganciarsi dal giogo neoliberista (in particolare in Cile) o dal paternalismo (il Perù di Castillo). Tutto questo produce incertezza: sarà possibile per questi governi progressisti contenere il consueto ritorno del populismo fascistoide? quale unità della nuova “Marea Rosa” si potrà ottenere con queste radici tra loro diversissime e senza un collante che vent’anni fa proveniva dal carisma di alcuni leader e dal laboratorio sociale in fermento?
Da questa situazione prende spunto Diego Battistessa, che già in altri snodi si era peritato di cogliere possibili sviluppi per le comunità latinoamericane, per riassumere le puntate immediatamente precedenti – schieramenti, accordi, patti, strategie degli ultimi 30 anni, dal crollo del muro… – e tentare di immaginare i temi che rappresentano la sfida per i progressisti sudamericani: o riusciranno a cambiare le condizioni di vita, le strutture economiche, le disparità imposte dal neoliberismo, le storture puramente mediatiche; oppure tornerà la ferocia bolsonarista, che sopravvive al fantoccio Bolsonaro.

Fin qui OGzero…   


Il Giro di Giostra

Con la vittoria di Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile il 30 ottobre scorso, sono quasi 570 milioni le persone che a oggi in America Latina sono governate dalla sinistra: quasi il 90% di un subcontinente la cui popolazione si aggira intorno ai 640 milioni di abitanti. Tra questi paesi figurano le 5 più grandi economie della regione: Brasile, Messico, Argentina, Colombia e Cile.
Uno scenario storico che ci riporta a una nuova manifestazione espansiva della cosiddetta “Marea Rosa”, apparsa all’inizio del terzo millennio con un giro, una svolta a sinistra di molti paesi della regione latinoamericana. Oggi questa marea è ancora più estesa (da capire se anche più forte) visto che include Messico e Colombia (anche se ha perso Uruguay ed Ecuador).
Vediamo però da dove viene questa ondata di “governi di sinistra”, in quale contesto storico si è generata e soprattutto di che sinistra (sinistre) stiamo parlando quando osserviamo con maggiore dettaglio cosa succede nel contesto latinoamericano.

Doveroso a questo punto premettere la definizione di “gringo”, perché la diffidenza nei suoi confronti è uno dei collanti, forse il più viscerale per gli abitanti del Cono Sur, e allora eccolo:

Esistono varie versioni sull’origine della parola “gringo”, qui vediamo le due più diffuse. La prima versione, accreditata dalla Reale Accademia Spagnola dice che “Gringo” equivale a «straniero, soprattutto di lingua inglese o persona che generalmente parla una lingua diversa dallo spagnolo». Gringo è un’antica parola spagnola che si è evoluta dalla parola “greco”, perché quando si ascoltava parlare qualcuno una lingua sconosciuta, si diceva che ti stavano “parlando in greco”, spiega il linguista messicano Luis Fernando Lara alla BBC Mundo. La seconda versione ci riporta alla guerra tra Messico e Stati Uniti d’America nella quale i soldati messicani solevano gridare “Green go home!” riferendosi al colore dell’uniforme degli statunitensi. Sulla stessa linea un’altra versione dice che i battaglioni statunitensi erano identificati con dei colori e che quando il battaglione verde si lanciava all’attacco, nell’aria risuonava il grido: “Green go!” Ad ogni modo il termine oggi è usato in America Latina per definire in modo specifico gli statunitensi e in modo generico uno straniero: il primo uso in un testo scritto in inglese rimonta al 1849.

Il Foro de São Paulo come risposta al criminale imperialismo “Gringo”

Tutto nasce nel Foro de São Paulo, che è stato senza ombra di dubbio l’embrione di quanto oggi vediamo nella regione. Dal sito della stessa organizzazione possiamo leggere l’incipit della presentazione:

«Il Forum trae origine nel luglio 1990 dall’appello rivolto a partiti, movimenti e organizzazioni di sinistra da parte di Lula e Fidel Castro, affinché si riflettesse al di là delle risposte tradizionali sugli eventi successivi alla caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989) e sui possibili percorsi alternativi e autonomi per la sinistra dell’America Latina e dei Caraibi».

In quel primo storico incontro parteciparono in 48, tra partiti e organizzazioni, plurali e diverse ma tutte appartenenti all’arco politico della sinistra, che firmarono la Dichiarazione di San Paolo, manifestando obiettivi precisi e una comunione d’intenti in chiave antineoliberista. In quel documento possiamo sottolineare l’intenzione di continuare a elaborare proposte di unità consensuale di azione nella lotta antimperialista e popolare, di produrre sforzi mirati alla promozione di scambi specializzati su problemi economici, politici, sociali e culturali e di definire, in contrasto con la proposta di integrazione sotto il dominio imperialista, le basi di un nuovo concetto di unità e integrazione continentale.

Un manifesto per una nuova visione latinoamericana, lontana dalla “Dottrina Monroe” (Monroe Doctrine, 1823), dall’“Operazione Condor” (Operación Cóndor, 1975-1989) e dal “Accordo di Washington” (Washington Consensus, le riforme neoliberali raccomandate nel 1989). Il preludio di quanto sarebbe successo solo 10 anni dopo…

Monroe Doctrine

Il concetto di Dottrina Monroe fa riferimento al principio della politica estera degli Stati Uniti d’America di non consentire l’intervento delle potenze europee negli affari interni dei paesi dell’emisfero americano. Questa dottrina deriva da un messaggio al Congresso del presidente James Monroe  inviato il 2 dicembre 1823 (paragrafi 7, 48 e 49). Si riassume nella famosa frase «America agli americani» dove per americani si fa ovviamente riferimento agli uomini bianchi del Nordamerica, ma soprattutto “non alle potenze coloniali”.

Operación Cóndor

«L’Operazione Condor invade il mio nido: io perdono, però non dimenticherò mai», canta il famoso gruppo portoricano Calle 13 in uno degli inni moderni della regione: la canzone lanciata nel 2011:

Quando parliamo di questa operazione, anche conosciuta come Plan Condor facciamo riferimento a una strategia di ingerenza criminale degli Usa, messa in atto per frenare l’espansione dei governi di sinistra nella regione latinoamericana. Dopo il trionfo della rivoluzione cubana (1° gennaio 1959) e i successivi falliti tentativi statunitensi di diroccare Fidel Castro, la Casa Bianca dette il via libera a una nuova strategia che “raffinava” quanto già la Cia (Agenzia Centrale di Intelligence) stava realizzando nella regione. Per contrastare l’insediamento di governi di sinistra in America Latina nei primi anni della Guerra Fredda gli Usa promossero e finanziarono diversi colpi di stato (golpe) come parte del loro interesse geostrategico nella regione. Tra questi ricordiamo il colpo di stato guatemalteco del 1954, il colpo di stato brasiliano del 1964, il colpo di stato cileno del 1973 e il colpo di stato argentino del 1976. Paesi nei quali vennero poi installate feroci dittature militari di destra, che commisero massive violazioni dei diritti umani, tra le quali detenzioni illegali di sospetti oppositori politici e/o dei loro parenti, torture, stupri, sparizioni forzate e traffico di bambini. Tutto questo sotto lo sguardo compiacente e complice degli Stati Uniti d’America che appoggiarono questi regimi fino a quando la pressione internazionale e la pressione dell’opinione pubblica interna non obbligò Washington a fare marcia indietro. Le dittature nelle quali l’intervenzionismo “gringo” ha lasciato il segno (e una lunga scia di sangue) prima e durante il “Plan Condor” sono quelle di Fulgencio Batista a Cuba, Rafael Trujillo nella Repubblica Dominicana, la famiglia Somoza in Nicaragua, Tiburcio Carias Andino in Honduras, Carlos Castillo Armas in Guatemala, Hugo Banzer in Bolivia, Juan María Bordaberry in Uruguay, Jorge Rafael Videla in Argentina, Augusto Pinochet in Cile, Alfredo Stroessner in Paraguay, François Duvalier in Haiti, Artur da Costa e Silva e il suo successore Emílio Garrastazu Medici in Brasile e Marcos Pérez Jiménez in Venezuela. I nuovi processi democratici nella regione iniziarono solo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, mentre si estendeva e rafforzava tra i popoli dell’America Latina un forte sentimento antistatunitense e antimperialista.

Washington Consensus

Per Accordo di Washington si intende un insieme di “ricette” economiche neoliberiste promosse da varie organizzazioni finanziarie internazionali negli anni Ottanta e Novanta. Proposte che formavano un nuovo decalogo del neoliberismo volto ad affrontare la crisi economica del 1989 in America Latina, regione che stava vivendo una lunga e drammatica recessione, passata alla storia come il decennio perduto. Fu l’economista britannico John Williamson a coniare il termine in un suo articolo del 1989 che esaminava le dieci misure economiche professate dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), dalla Banca Mondiale, dalla Banca Interamericana di Sviluppo e dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America: tutte istituzioni con sede a Washington DC.


Anche per introdurre gli eventi del nuovo millennio con le fughe in avanti progressiste e i bruschi ritorni all’ordine reazionari va spiegato il concetto di “Socialismo del XXI secolo”:

l’espressione fa riferimento al concetto originariamente formulato nel 1996 dal sociologo tedesco Heinz Dieterich Steffan e si riferisce alla combinazione di socialismo con democrazia partecipativa e diretta. È una tendenza che cerca di dare risposte al grave problema del sottosviluppo in cui l’America Latina vive sommersa a causa delle devastazioni del capitalismo. Il socialismo del XXI secolo è una manifestazione attuale del socialismo; cioè del periodo di transizione relativamente lungo dal capitalismo al comunismo. Pertanto, questo “nuovo socialismo” prende spunto dalle precomprensioni socialiste che si trovano nei fondatori del marxismo. Il socialismo del XXI secolo presuppone uno sfondo democratico: è necessario costruire una democrazia partecipativa o diretta nella regione e in ciascuno dei suoi paesi che lasci alle spalle la tradizionale democrazia rappresentativa. Il punto di partenza deve essere la dignità inviolabile di ogni essere umano, che richiede la considerazione dell’uomo come un essere eminentemente sociale, di tendere al pieno sviluppo umano, di istituire una democrazia partecipativa, di creare un nuovo modello economico e di raggiungere un alto grado di decentramento

La prima apparizione ufficiale del termine in America Latina si deve a un discorso dell’allora presidente del Venezuela, Hugo Chávez, il 30 gennaio 2005 dal V World Social Forum.

La “Marea Rosa”: il socialismo del XXI secolo

Come detto, nel Foro de São Paulo si comincia a dare vita a un nuovo sogno latinoamericano che verrà poi plasmato da eventi storici come il primo forum sociale mondiale di Porto Alegre (Brasile) nel 2001 nel quale si forgia la consegna “Un altro mondo è possibile”. In quegli anni la regione è attraversata da enormi livelli di disuguaglianza e da una frustrazione nell’accessibilità di grandi fasce della popolazione ai diritti fondamentali: basti pensare che nel 2002 vivevano in povertà 221 milioni di latinoamericani, ovvero all’epoca il 44% della popolazione della regione. Per rispondere a questa situazione e frenare le politiche neoliberali proposte (imposte) da Washington, sorgono nuovi leader che, anche grazie alla legalizzazione della concorrenza elettorale (con la transizione alla democrazia in America Latina i partiti di sinistra hanno potuto competere per il potere), guidano i popoli oppressi della regione a una rivincita storica.

L’inizio di quella che verrà chiamata in seguito “Marea Rosa” (termine di Larry Rohter, inviato del “NY times” per seguire le elezioni in Uruguay) si ha con l’elezione di Hugo Rafael Chávez Frías in Venezuela, che assume il potere il 2 febbraio 1999. Un momento cruciale nel quale si consolida il primo governo di un partito membro del Foro de São Paulo e che segna l’inizio di un’onda socialista e progressista seguita dalle vittoriose elezioni di Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile (2003), Néstor Kirchner in Argentina (2003), Tabaré Vázquez in Uruguay (2005), Evo Morales in Bolivia (2006), Michelle Bachelet in Cile (2006), Rafael Correa in Ecuador (2007), Daniel Ortega in Nicaragua (2007) e José “Pepe” Alberto Mujica in Uruguay (2010). Si configura quindi un nuovo assetto latinoamericano che ruota intorno a innovativi progetti di integrazione economica e politica come l’Alba e l’Unasur e che riporta Cuba e la sua rivoluzione al centro del panorama politico.

Questa prima ondata della “Pink Tide”, il termine inglese per “Mare Rosa”, subisce però una brusca frenata dopo la fine del primo decennio del 2000, situazione aggravata poi dalla forte recessione del 2012. La morte di Chavéz prima (2013) e di Fidel Castro poi (2016), gli scandali di corruzione (soprattutto Argentina e Brasile) e uno spinto “caudillismo” presidenziale che in molti casi ha spinto i leader a mettere in dubbio le basi del sistema democratico (così per come si concepisce in Europa), ha portato un risorgimento delle forze conservatrici. Partiti di destra che hanno ripreso il controllo delle principali economie della regione partendo dall’Argentina nel 2015, passando poi per il Brasile nel 2016 e per il Cile nel 2017.

Il gruppo di Lima

Nel 2017, in quel contesto e sospinto dal crollo economico Venezuelano che ha provocato un esodo di milioni di persone dal paese sudamericano (a oggi più di 7 milioni secondo l’Onu), prende forma un nuovo gruppo di lavoro con un baricentro palesemente spostato verso destra. Questo consorzio di Stati latinoamericani (e non) , prende il nome di Gruppo di Lima e si configura come un organismo multilaterale basato sulla Dichiarazione di Lima dell’8 agosto 2017. Quel giorno rappresentanti di dodici paesi ufficializzano il loro appoggio all’opposizione venezuelana contro il chavismo-madurismo, per accompagnare un processo negoziato e pacifico che possa portare al superamento della crisi multilivello del Venezuela. Vengono stabilite delle condizioni di base per la negoziazione come la liberazione dei prigionieri politici, lo svolgimento di libere elezioni con supervisione esterna, la possibilità di far entrare aiuti umanitari e la necessità di riportare una separazione di poteri nel Paese. I paesi firmatari della dichiarazione furono: Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Honduras, Messico, Panama, Paraguay e Perù. A questi si sono aggiunti in seconda battuta Guyana, Haiti e Santa Lucia, mentre la Bolivia si è unita con la gestione di Jeanine Áñez (oggi in carcere) dopo la crisi politica del 2019 che ha portato all’uscita di Evo Morales dal paese. Il documento ha ricevuto l’appoggio anche dell’Unione Europea, dell’Oea (Organizzazione degli Stati Americani) oltre che degli Stati Uniti d’America, Barbados, Granada e Giamaica. Con il Lima Group si configura dunque una antitesi del Foro de São Paulo che rende chiara la lotta ideologica e politica che attraversa l’America Latina. Il Gruppo di Lima ha lavorato per ottenere l’isolamento politico venezuelano, con sorti alterne e varie vicissitudini. Nicolás Maduro ha sempre potuto contare, oltre che sull’appoggio dell’alleato storico Cuba, anche sula vicinanza del Nicaragua e fuori dalla regione sul sostegno di Russia e Iran. Inoltre i circa due anni di attività del Gruppo, che formalmente non è ancora sciolto, hanno dovuto fare i conti con l’inizio di una nuova ondata socialista che ci porta alla situazione odierna e che ha visto l’Argentina (da paese fondatore e firmatario) lasciare l’organismo nel 2019, Messico e Bolivia ritirare l’appoggio all’opposizione venezuelana e disconoscere la dichiarazione, oltre allo stesso Perù che ha riallacciato relazioni diplomatiche con il Venezuela di Maduro. A questo si aggiunge la visita del 1° novembre 2022 del presidente colombiano Gustavo Petro al palazzo di Miraflores a Caracas, in un incontro storico con Nicolás Maduro che segna un nuovo riavvicinamento diplomatico tra le sue nazioni sorelle. È da immaginare che anche Lula in Brasile, da gennaio 2023 farà lo stesso.

Una nuova “Alta Marea”

La nuova ondata socialista che ha visto il suo apogeo con il voto del 30 ottobre in Brasile inizia nel 2018 con la storica vittoria di Andrés Manuel Lopez Obrador “Amlo” in Messico, continuando nel 2019 in Argentina con l’elezione di Alberto Fernández, passando poi nel 2020 in Bolivia con l’elezione di Arce, nel 2021 in Perù con Pedro Castillo, in Honduras con Xiomara Castro e in Cile con Gabriel Boric, per arrivare a questo 2022 in Colombia con Gustavo Petro e ora in Brasile con il terzo mandato di Lula.

L’analisi di questo nuovo zenit dei partiti di sinistra può estendersi a molti ambiti ma sicuramente va riconosciuto che la prima “Marea Rosa” aveva raggiunto importanti traguardi legati all’inclusione, all’equità, ai diritti e alla dignità dei popoli indigeni e alla democratizzazione delle risorse. Le donne hanno avuto accesso a posizioni di potere effettivo in politica e nell’esercito e l’agenda dei diritti umani aveva compiuto un notevole salto in avanti soprattutto riguardo a minoranze storicamente perseguitate ed escluse come il collettivo Lgbtqi+.

Ora si apre uno scenario nuovo nel quale la sinistra (le sinistre) latinoamericane si trovano a dover convivere con un contesto globale più che mai volatile e frammentato. Da un lato la guerra in Ucraina, dall’altro gli interessi economici e geostrategici di Stati Uniti d’America, Russia e Cina che per motivi diversi continuano a guardare all’America Latina come un bacino di risorse, commerciale e di influenza, per arrivare agli effetti della pandemia da Covid-19, che ha riportato le lancette dell’orologio indietro di 10-15 anni rispetto ai livelli di povertà e disuguaglianze.

Che sinistra(e) e che democrazia?

El pueblo unido, jamás será vencido” cantava la banda cilena Quilapayún in un manifesto di protesta politica e di futuro possibile che per decenni ha scaldato i cuori “rossi” dell’America Latina e non solo. Un passaggio di questa storica canzone scritta da Sergio Ortega Alvarado e lanciata nel 1973 intona: «De pie, cantar que vamos a triunfar. Avanzan ya banderas de unidad…».

Repressione del dissenso / Condivisione di linee guida socialiste

Cantiamo, in piedi, andiamo a trionfare. Stanno già avanzando le bandiere dell’unità, uno degli attacchi più famosi del mondo nei cori imponenti dei concerti degli Inti Illimani. Ma è proprio sulle bandiere dell’unità che si gioca oggi la partita nella regione. Si perché se un da un lato e in modo generico, vengono definite tutte sinistre quelle che governano oggi in America Latina, tra le stesse esistono fratture e differenze che riguardano la percezione dello stato di diritto, il rispetto dei diritti umani e il contenuto della parola democrazia. È possibile definire Cuba, Nicaragua e Venezuela degli Stati di Diritto? Secondo la definizione canonica, che ci parla degli elementi di base dello stesso (impero della legge, separazione dei poteri, rispetto dei diritti fondamentali) si direbbe proprio di no. Non solo non esiste separazione dei poteri (partito unico a Cuba, controllo totale dello stato da parte del partito di governo in Venezuela, vera e propria istituzionalizzazione della dinastia Ortega-Murillo in Nicaragua) ma assistiamo a una persecuzione totale del dissenso, una privazione del diritto di libertà di espressione e una massiva e strutturale violazione di una lunga lista di diritti umani. Attenzione perché queste critiche non vengono da governi conservatori della regione quali, per esempio quello di Guillermo Lasso in Ecuador, ma bensì da governi di una nuova (e a volte giovane) sinistra come quella di Gabriel Boric in Cile o quella di Petro in Colombia.

Le dichiarazioni del presidente cileno a inizio 2022 in un suo viaggio negli Stati Uniti d’America dove ha parlato alla Columbia University hanno marcato un chiaro punto di inflessione: «Mi dà davvero fastidio quando sei di sinistra e condanni la violazione dei diritti umani in Yemen o El Salvador, ma non puoi parlare delle violazioni degli stessi in Venezuela, Nicaragua o Cile». Aggiungendo poi che non è possibile avere un doppio standard di valutazione perché si tratta di temi di civiltà e non di ideologia. Sempre Boric nel giugno 2022, nel contesto della sua partecipazione al Summit delle Americhe a Los Angeles ha fortemente criticato la repressione del governo cubano contro i manifestanti: «Oggi ci sono delle persone incarcerate a Cuba solo per pensare diversamente (rispetto al partito di governo) e questo per noi è inaccettabile».

Insomma una prima frattura cavalcata poi anche da Gustavo Petro, che già con la fascia presidenziale non ha risparmiato critiche contro Chávez e Ortega (Venezuela e Nicaragua): «Per noi i diritti umani sono fondamentali. La prima discussione che ho avuto con Hugo Chávez mentre era in vita, e forse l’ultima prima della sua morte, riguardava proprio il rispetto del sistema interamericano dei diritti umani. Molti di noi devono la vita, incluso io, a questo sistema dal quale Chávez ha deciso di far uscire il Venezuela», ha affermato Petro in una intervista internazionale a fine giugno 2022. Parlando di Nicaragua ha poi aggiunto: «Coloro che sono imprigionati oggi in Nicaragua sono quelli che hanno fatto la rivoluzione contro la dittatura di Anastasio Somoza», sottolineando che «erano nostri amici e ora sono in prigione. E perché? Ebbene, perché ci sono delle derive che non sono più propriamente democratiche e che vanno evitate».

Le difficoltà e il rischio di risacca

Insomma una chiara e netta frattura sul rispetto dei diritti umani e sul concetto di democrazia, che non può essere sminuito solo all’esercizio del voto (soprattutto quando questo si esercita nella più totale repressione e vulnerabilità). A questo si aggiunge una instabilità interna ai vari paesi del “blocco” di sinistra che potrebbe cambiare la scacchiera con nuovi possibili ritorni di fiamma dei governi conservatori. Pedro Castillo in Perù è in crisi di governo fin dal primo giorno di presidenza e ha già affrontato due mozioni di censura e ora un processo costituzionale. Alberto e Cristina (Fernández e Kirchner) Presidente e Vicepresidente in Argentina sono in rotta da tempo e le prossime elezioni presidenziali saranno tutte in salita per la sinistra argentina. Boric è in caduta libera di consensi e la sconfitta nel referendum per la nuova costituzione cilena a settembre 2022 ha fatto capire che il suo governo cammina “sulle uova”. In Bolivia il presidente Arce ha sostituito tutta la cupola militare a inizio novembre di fronte a quella che lui stesso ha qualificato come «una minaccia di un nuovo colpo di stato». In Messico, Andrés Manuel Lopéz Obrador deve provare a spegnere un incendio dopo l’altro (a livello interno) e la sua leadership regionale è molto debole. Cuba e Venezuela affrontano due crisi migratorie (ed economiche) senza precedenti e il Nicaragua è immerso in una guerra interna contro la Chiesa cattolica, tacciata come terrorista e dissidente da Daniel Ortega. Xiomara Castro non è ancora riuscita a dare un impulso forte al cambiamento in Honduras, sommerso da narcotraffico, impunità e violenza generalizzata. Petro ha dato il primo passo diplomatico con il Venezuela ma ora dovrà concentrarsi su questioni interne come le riforme promesse in campagna elettorale, il processo di Pace con l’Eln (Esercito di Liberazione Nazionale) e la questione del narcotraffico nel paese. Rimane da vedere che impronta darà Lula a questa nuova “Alta Marea”, giacché è l’unico grande leader carismatico sopravvissuto alla prima onda della “Marea Rosa” e veterano della prima riunione del Foro di San Paolo.

Anche su questo si sono confrontati Diego Battistessa e Alfredo Somoza

“Lula riprenderà per mano il Latinoamerica?”: un dialogo a caldo sulla vittoria di Lula tra Diego Battistessa e Alfredo Somoza su Radio Blackout.

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Ucraina. Chiavi di lettura dal Latinoamerica https://ogzero.org/ucraina-chiavi-di-lettura-dal-latinoamerica/ Sun, 04 Sep 2022 00:00:38 +0000 https://ogzero.org/?p=8732 Senza attrarre la doverosa attenzione internazionale i giganti del Latinoamerica sono stati teatro di alcuni episodi e appuntamenti inconsueti tra fine agosto e inizio settembre, inquietanti ma forse il continente stesso ci può dotare di chiavi geopolitiche di lettura per spiegare i rivolgimenti derivanti dalla lenta distribuzione degli schieramenti entro cui vanno configurandosi i due […]

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Senza attrarre la doverosa attenzione internazionale i giganti del Latinoamerica sono stati teatro di alcuni episodi e appuntamenti inconsueti tra fine agosto e inizio settembre, inquietanti ma forse il continente stesso ci può dotare di chiavi geopolitiche di lettura per spiegare i rivolgimenti derivanti dalla lenta distribuzione degli schieramenti entro cui vanno configurandosi i due fronti destinati a contrapporsi in ogni ambito del conflitto globale, che i traffici di armi dimostrano essere realmente tale, visto che il mondo partecipa alla corsa al riarmo… per poi andare a definire le sfere di influenza in punta di baionetta.

Avevamo chiesto a Diego Battistessa questo sguardo dall’altro lato dell’Atlantico sulle conseguenze del conflitto in Ucraina prima che venisse alla luce lo sventato golpe militare in Brasile – preventivo, orchestrato negli ambienti fascisti vicini al presidente in carica – volto a contrastare la probabile vittoria di Lula alle elezioni di ottobre; e non era ancora avvenuto il fallito attentato a Cristina Kirchner in Argentina; e nemmeno si era svolto il referendum sulla Costituzione cilena che doveva scardinare il lascito di Pinochet. Ma forse anche questi avvenimenti, dopo aver letto questa ricostruzione ragionata degli eventi collegabili al mondo latinoamericano, possono venire letti con lo scopo di schierare il Cono Sur – o sue parti –, da un lato o dall’altro.

OGzero


Sei mesi di guerra in Ucraina

Chiavi di lettura dell’approccio sudamericano

A sei mesi dall’invasione russa dell’Ucraina, oltre al tragico costo umano della guerra, molti degli equilibri geopolitici e geoeconomici sono stati scossi, ridisegnando una nuova normalità fatta di impennate dell’inflazione, costi esorbitanti dell’energia, nuove alleanze politiche e movimenti nello scacchiere mondiale. Cosa è successo in America Latina e nei Caraibi in questi sei mesi e come hanno reagito i leader politici del subcontinente latinoamericano di fronte all’attacco di Putin all’integrità dell’Ucraina? Ecco qui una dettagliata cronistoria che ci porta passo dopo passo a creare un mosaico fatto di molte sfumature e paesaggi ancora in definizione.

Febbraio – Marzo

Il movimento tellurico avvenuto dentro la comunità internazionale subito dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio 2022 ha portato decine di paesi e organismi multilaterali a condannare immediatamente e con veemenza quanto stava accadendo.

Prime scelte di campo

Un primo grande passo è stato quello preso dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu che in una risoluzione del 25 febbraio ha provato a fermare sul nascere l’invasione. Dobbiamo qui ricordare che il Consiglio di Sicurezza è uno degli organi principali dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ed è composto di 15 membri, di cui 5 permanenti (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti d’America) e 10 eletti ogni due anni dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. I 5 membri permanenti sono i vincitori della Seconda guerra mondiale e su ogni votazione hanno la possibilità di veto: veto che annulla di fatto le conseguenze della votazione. In questo caso era già previsto che la Russia avrebbe posto il veto alla mozione, impedendo all’Onu di poter prendere in considerazione misure militari di dissuasione contro l’esercito di Putin. Interessante però, per ciò che ci riguarda in questo articolo, è il comportamento degli altri 14 membri, in particolare di Messico e Brasile che siedono come membri “transitori” per questo periodo. Dei 15 aventi diritto al voto, 11 hanno votato a favore della risoluzione che imponeva alla Russia di fermare l’offensiva, ritirare completamente e incondizionatamente le sue truppe dai confini internazionalmente riconosciuti e astenersi da qualsiasi nuova minaccia e uso illegale della forza contro qualsiasi stato che faccia parte delle Nazioni Unite. Tra questi stati firmatari troviamo proprio Messico e Brasile. La Russia come detto ha posto il veto alla risoluzione, di fatto annullandola, mentre si sono astenute Cina, India e gli Emirati Arabi.

In questo caso dunque l’America Latina, rappresentata da Messico e Brasile ha fatto parte del coro di voci che condannavano l’invasione in Ucraina ma la questione era tutt’altro che priva di sfumature, perché solo poche ore dopo l’inizio delle ostilità, è arrivata la notizia ufficiale di un comunicato da parte della Oea (Organizzazione degli Stati Americani), che in una sessione straordinaria esprimeva una dura condanna verso un’invasione definita «illegale, ingiustificata e non provocata», chiedendo «l’immediato ritiro della presenza militare russa» dall’Ucraina. Se però andiamo a leggere i firmatari di tale documento scopriamo che hanno ratificato la “condanna” dell’Oea: Antigua e Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Giamaica, Granada, Guatemala, Guyana, Haiti, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Domenicana, Suriname, Trinidad e Tobago, Usa e Venezuela (quest’ultimo rappresentato da un delegato del leader dell’opposizione Juan Guaidó dopo l’uscita dall’organismo multilaterale del governo di Nicolás Maduro nel 2019). Leggendo questi nomi scopriamo delle assenze di prim’ordine come Argentina, Brasile, Uruguay, Bolivia e Nicaragua. (Da ricordare che Cuba fu espulsa dalla Oea nel 1962).

2 marzo 2022

A sei giorni dall’inizio dell’invasione russa in territorio ucraino, l’Assemblea Generale dell’Onu emette una risoluzione che condanna le azioni dell’esercito di Putin. Si tratta di una risoluzione che non ha carattere vincolante e che viene appoggiata da 141 dei 193 Stati che siedono nell’Assemblea. Dei 52 restanti, ben 12 decidono di non partecipare alla votazione (tra questi il Venezuela di Maduro) e solo 5 votano contro: Bielorussia, Corea del Nord, Eritrea, Russia e Siria. Le astensioni sono 35 e tra queste si trovano Bolivia, Cuba, Nicaragua e il Salvador. Insomma, la settimana dopo l’inizio della guerra, l’America Latina mostra una netta divisione tra il gruppo dell’antimperialismo statunitense sorretto dall’asse La Avana – Caracas ed esteso a Managua e La Paz, con l’aggiunta del Salvador guidato da Nayib Bukele (sempre più solo per le sue politiche quantomeno discutibili in termini di libertà e democrazia) e il resto del subcontinente che condanna ufficialmente l’invasione. Una divisione comprensibile se vista dall’alto delle relazioni diplomatiche, economiche e di supporto militare che la Russia ha fornito negli ultimi anni in particolare a tre paesi latinoamericani sempre più isolati dalla comunità internazionale occidentale, quali sono Cuba, Nicaragua e Venezuela.

Figura 1 – Dettaglio voto del 2 marzo 2022

La risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu viene in soccorso a una tergiversazione che come abbiamo visto in precedenza aveva caratterizzato buona parte delle cancellerie latinoamericane tra il 24 e il 25 febbraio, a poche ora dalla notizia che le truppe russe erano entrate in territorio ucraino. Nel mio articolo del 25 febbraio comparso su “Il Fatto Quotidiano” davo appunto conto da San Paolo in Brasile, di come la regione latinoamericana stava reagendo alle ferali notizie che arrivavano dall’Est europeo. I portavoce di Bolivia, Messico e Perù non avevano condannato esplicitamente l’invasione, chiedendo piuttosto l’apertura immediata di un dialogo. Cuba, Nicaragua e Venezuela, paesi notoriamente vicini alle politiche di Mosca, si erano preoccupate fin da subito invece di difendere l’azione militare di Putin anche se con un tenore diverso a seconda dei casi.

Il più veemente era stato Nicolás Maduro, che in un messaggio del 24 febbraio aveva dichiarato: «Cosa si aspetta il mondo? Che il presidente Putin se ne stia con le braccia incrociate e non agisca in difesa del suo popolo?».

Nel discorso non sono poi mancate le accuse alla Nato e all’imperialismo statunitense, additati come principali responsabili di quanto sta succedendo. Daniel Ortega dal Nicaragua aveva difeso il riconoscimento della repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk condannando con forza l’applicazione di sanzioni economiche contro la Russia. Toni diversi da Cuba, dove proprio mentre Putin lanciava il suo attacco all’Ucraina (la sera di mercoledì 23 febbraio in America Latina) il presidente cubano Miguel Diaz-Canel era riunito con Viacheslav Volodin, il presidente della Duma russa (il parlamento russo). Diaz-Canel aveva espresso la sua solidarietà alla Federazione Russa di fronte all’imposizione di sanzioni e all’allargamento della Nato verso i suoi confini, evitando però di fare riferimento all’incursione militare russa in Ucraina. Dall’altro lato, forti invece erano giunte le condanne da parte di Cile, Ecuador, Uruguay, Paraguay, Colombia e del Caricom (la comunità caraibica, organizzazione internazionale che riunisce 15 membri con pieno diritto, oltre a 5 associati e 8 membri osservatori).

Camminavano “sulle uova” Argentina e Brasile, presi alla sprovvista da un’azione militare che li poneva in serie difficoltà di fronte alla comunità internazionale. Sì, perché da un lato, proprio all’inizio di febbraio, il presidente argentino Alberto Fernández aveva offerto il suo paese come “porta di accesso” della Russia all’America Latina durante un incontro molto discusso con Vladimir Putin al Cremlino. Solo di fronte a intense critiche e pressioni sia interne che esterne al suo governo, Fernández era stato costretto a rilasciare una dichiarazione in cui lamentava la situazione in Ucraina, rifiutando l’uso della forza e chiedendo alla Russia di «cessare l’azione militare in Ucraina», ribadendo però che «nessuna delle parti doveva usare la forza». Dall’altro lato il Brasile del presidente Jair Bolsonaro che, la settimana prima dell’inizio della guerra, si trovava in visita ufficiale proprio a Mosca. Un viaggio che, viste le ripetute avvisaglie di Washington sull’imminente invasione russa dell’Ucraina, aveva creato non poche polemiche e tensioni. Dopo il 24 febbraio sono arrivate da Brasilia delle dichiarazioni tiepide che esprimevano preoccupazione per le operazioni militari lanciate dalla Russia contro il territorio dell’Ucraina senza però condannare esplicitamente l’operato di Putin.

La lista dei paesi ostili a Mosca

La lista dei paesi ostili a Mosca fu creata per la prima volta nel maggio del 2021 e annoverava solo due nomi: Stati Uniti d’America e Repubblica Ceca. Si tratta di un documento pubblicato dal governo della Federazione Russa nel quale sono ascritti quegli stati, territori, regioni ed entità sovranazionali che sono coinvolti in attività che il Cremlino considera “ostili” o “aggressive” nei confronti della Russia. La lista è stata ampliata a inizio marzo 2022, pochi giorni dopo la risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu e dopo l’applicazione di forti sanzioni da parte dell’Unione Europea e degli Usa contro la Federazione Russa. Oggi il documento conta al suo interno 56 stati o dipendenze territoriali e l’essere menzionati in questa lista comporta l’applicazione di restrizioni rispetto alle relazioni commerciali, valutarie e diplomatiche con Mosca.

Anche questa lista però ci aiuta a capire che la Russia vuole mantenere aperta la porta all’America Latina visto che nessuno dei paesi di questo subcontinente è menzionato nel documento (fatto salvo per la Guyana francese e le Bahamas, quest’ultima aggiunta alla lista il 24 luglio). Le sanzioni infatti colpiscono la quasi totalità del continente europeo, ad eccezione di Bielorussia, Bosnia ed Erzegovina, Moldova e Serbia; in Asia troviamo Giappone, Corea del Sud, Micronesia, Taiwan, Australia e Nuova Zelanda e nella Americhe (a parte le già menzionate) solo Canada e Stati Uniti d’America. Non viene menzionato nessuno Stato africano o latinoamericano.

Aprile

Il 7 di aprile, sempre all’interno dell’Assemblea Generale dell’Onu, è andato in scena il voto per estromettere la Russia dal consiglio dei diritti umani (decisione straordinaria applicata in passata solo nel marzo 2011 alla Libia). Anche questa volta la comunità internazionale si è trovata divisa, ancora più divisa del voto del 2 marzo, chiaro segnale che la macchina diplomatica del Cremlino è riuscita a ampliare la sua sfera di influenza. Sebbene infatti la votazione abbia ufficialmente comportato la sospensione della Russia dal consiglio dei diritti umani dell’Onu, questa volta i voti a favore sono stati “solo” 93 (contro i 141 di marzo), 24 contrari e 58 astensioni: da notare che ben 18 stati non hanno votato tra cui ancora il Venezuela e in questa occasione anche Bolivia, Cuba, Nicaragua e Suriname, che si erano astenute il 2 marzo, hanno invece votato contro questa risoluzione mentre il Salvador ha confermato la sua astensione. Tra gli astenuti fano però il loro ingresso il Belize, Trinidad e Tobago ma soprattutto il Brasile di Bolsonaro e il Messico di Andrés Manuel Lopéz Obrador. Questione geopolitica non di poco conto se si considera che questi due giganti latinoamericani sono la prima (Brasile) e la seconda (Messico), economia del subcontinente.

Figura 2 – dettaglio del voto del 7 Aprile 2022

Maggio

Brasile di Lula

Il mese di maggio si apre con il clamore provocato dalle parole dell’ex presidente del Brasile, Lula Ignacio da Silva, favorito per le prossime elezioni presidenziali di ottobre nella quali affronterà Jair Bolsonaro (presidente uscente).

Lula, in una lunga intervista realizzata da Time e pubblicata mercoledì 4 maggio ha dichiarato:

«Vedo il presidente dell’Ucraina in televisione come se stesse festeggiando, applaudito in piedi da tutti i parlamenti (del mondo). Lui è responsabile quanto Putin. Perché in una guerra non c’è un solo colpevole», ha detto Lula aggiungendo poi che «Voleva la guerra (Zelenski). Se non avesse voluto la guerra, avrebbe negoziato un po’ di più».

Tra i passaggi salienti dell’intervista troviamo poi anche questo:

«Ho criticato Putin quando ero a Città del Messico, dicendo che è stato un errore invadere, ma penso che nessuno stia cercando di contribuire alla pace. Le persone stanno stimolando l’odio contro Putin. Questo non lo risolverà! Dobbiamo stimolare un accordo. Ma c’è un incoraggiamento (al confronto)!».

Infine, nella sua critica a tutto tondo, Lula non ha risparmiato attacchi agli Stati Uniti d’America e all’Onu, specificando

«gli Stati Uniti hanno un peso molto grande e lui (Biden) potrebbe evitarlo (il conflitto), invece di stimolarlo. Avrebbe potuto dialogare di più, partecipare di più, Biden avrebbe potuto prendere un aereo per Mosca per parlare con Putin. Quello è l’atteggiamento che ci si aspetta da un leader».

Rispetto all’Onu invece il 76enne politico brasiliano ha affermato che «è urgente e necessario creare una nuova governance mondiale. L’Onu di oggi non rappresenta più nulla, non è presa sul serio dai governanti. Ognuno prende decisioni senza rispettare l’Onu. Putin ha invaso l’Ucraina unilateralmente, senza consultare l’Onu».

Giugno

Le alleanze si cercano al Vertice

Il mese di giugno è stato il mese dei vertici internazionali: la Cumbre (in presenza) delle Americhe, celebrato a Los Angeles tra il 6 e il 10 giugno, la riunione dei Brics celebrata in forma virtuale a Beijing il 23 giugno e il vertice (presenziale) del G7 di Schloss Elmau in Germania tra il 26 e il 28 giugno. In tutti e tre i vertici si è parlato della guerra della Russia all’Ucraina ma il peso, la presenza e la visibilità dei paesi latinoamericani sono stati molto eterogenei in questi spazi di dialogo e di decisione. Da un lato, il vertice delle Americhe, ospitato quest’anno dagli Usa, ha mostrato la grande frattura esistente nel continente visto e considerato che su 35 stati possibili partecipanti alla fine sono intervenuti solo 26 paesi: con il Brasile arrivato in extremis per la soluzione all’ultimo minuto di un disaccordo tra Biden e Bolsonaro. Cuba, Nicaragua e Venezuela non sono stati invitati e per solidarietà con questi tre paesi non sono intervenuti neanche i presidenti di Bolivia, Honduras e Messico. Dall’altro lato Salvador e Guatemala sono in rapporti molto aridi con l’amministrazione Biden e hanno declinato l’invito, mentre il presidente dell’Uruguay non ha potuto partecipare perché positivo al Covid-19. Un vertice dunque “azzoppato” che ha mostrato l’isolamento Usa nel subcontinente latinoamericano riaffermando la distanza delle politiche e delle visioni di Washington da molte delle amministrazioni latinoamericane. Questo è sicuramente un elemento ad appannaggio di Mosca che, non ha partecipato “fisicamente” al successivo G7 in Germania ma che è stata il centro del dibattito dei 7 “big” presenti: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America (oltre a una rappresentanza politica della UE).

Da ricordare che quello che oggi è il G7 era in precedenza il G8 e includeva anche la Russia. La Federazione russa fu espulsa dal gruppo a seguito della crisi in Ucraina del 2014 che portò all’annessione della penisola di Crimea da parte del presidente russo Vladimir Putin.

Schloss Elmau, G7 del 26 giugno 2022

Al vertice tedesco ha partecipato come invitato il presidente argentino Alberto Fernández, in veste di rappresentante della Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi (Celac). Fernández in questa occasione ha condannato dalle Alpi bavaresi l’operato della Russia in Ucraina, dando un segnale importante di allineamento con le politiche di Washington e della UE.

Solo alcuni giorni prima del G7 però (il 23 giugno) la Russia era stata protagonista del vertice dei Brics, acronimo coniato per associare cinque grandi economie emergenti: Brasile, Cina, India, Russia e Sud Africa. Questo gruppo, che si riunisce dal giugno del 2009, ha rappresentato per anni il paradigma della cooperazione Sud-Sud ed è visto come un’alternativa alle politiche di influenza statunitensi o anche “occidentalocentriche” a livello globale. Tra questi 5 paesi spicca il Brasile, come detto la più grande economia latinoamericana che, per bocca di Jair Bolsonaro, ha detto di voler rafforzare e ampliare la collaborazione commerciale con Mosca. Anche qui troviamo però ancora una volta l’Argentina, paese candidato a un prossimo ingresso nel gruppo, come ricordato proprio nei giorni del suddetto vertice dal ministro degli esteri russo Sergéi Lavrov, in un annuncio nel quale sembrava dire che l’ingresso di Buenos Aires nei Brics potrebbe essere prossimo.

Luglio

Latenti manovre rendono ondivaga la posizione continentale

A inizio luglio si manifesta un segnale inequivocabile rispetto alle profonde divisioni generate dall’invasione russa in Ucraina in America Latina e alle correnti di pensiero a questo riguardo. Il presidente ucraino Volodímir Zelensky fa richiesta ufficiale al Paraguay di poter essere presente in videoconferenza nel prossimo vertice del Mercosur (Mercato Comune del Sud) che sarebbe stato celebrato appunto ad Asunción, capitale del paese sudamericano giovedì 21 luglio. Zelensky, forte dei precedenti discorsi realizzati in svariati forum e vertici internazionali come quello della Nato, del G7, alle Nazioni Unite e nel Forum Economico Mondiale vuole ripetere l’impresa, magari proponendo uno “speech” cucito ad hoc per l’occasione, così come ha fatto in diversi parlamenti in giro per il mondo. In quei giorni è lo stesso ministro degli esteri del Paraguay, Julio Cesar Arriola, a dare la notizia della richiesta che il presidente ucraino ha presentato direttamente a Mario Adbo Benítez (presidente del Paraguay), spiegando però che la domanda verrà sottoposta al vaglio di tutte le parti interessate. Sembrava un puro rito diplomatico e invece arriva il colpo di scena: dopo una votazione interna e segreta del blocco commerciale composto da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay arriva il diniego. Zelenski non parlerà al vertice Mercosur, e a dirlo in una conferenza stampa è questa volta il viceministro degli esteri paraguaiano, Raúl Cano Ricciardi, che però non svela quale paese o quali paesi abbiano votato contro la richiesta del presidente ucraino.

L’America Latina ci ha però abituato a continui colpi di scena e solo 4 giorni dopo il mancato appuntamento di Zelenski con il vertice del Mercosur di Asunción succede qualcosa che ancora una volta muove le carte in tavola. Si perché il 25 luglio arriva la prima visita di un presidente Latinoamericano a Kyiv: si tratta di Alejandro Giammattei, presidente del Guatemala dal 14 gennaio 2020. Questa visita è la prima di un presidente dell’America Latina dal 24 febbraio (data dell’inizio dell’invasione russa) ma è anche la prima in generale degli ultimi 12 anni. Giammattei che aveva ricevuto l’invito a recarsi in Ucraina nel giugno scorso proprio da Zelenski, ha visitato le oramai tristemente famose città di Bucha, Irpin e Borodianka, assicurando che il suo paese non lascerà solo il popolo ucraino nel momento della ricostruzione.

Agosto

Ad agosto, a sei mesi dall’inizio dell’invasione ci troviamo di fronte a un altro “coup de théâtre” questa volta organizzato dall’asse Caracas-Mosca. Infatti il Venezuela di Maduro è diventato il 13 agosto il primo paese latinoamericano a ospitare come anfitrione le “Army Games”, anche chiamate “Olimpiadi della Guerra”. Ovvero delle competizioni militari organizzate proprio dal ministero della Difesa della Russia dal 2015. Ai “giochi” hanno partecipato 270 squadre provenienti da 37 paesi e le gare hanno avuto luogo tra il 13 e il 27 agosto, in 36 modalità di competizione (in Venezuela hanno gareggiato i cecchini). Oltre a Venezuela e Russia, anche Algeria, Bielorussia, Cina, India, Iran, Kazakistan e Vietnam sono state le sedi secondarie dell’edizione di quest’anno. L’alto comando militare venezuelano ha mantenuto un certo riserbo sull’evento, che ovviamente ha risvegliato l’interesse e la preoccupazione degli Usa, visto che la competizione ha comportato l’arrivo di centinaia di militari stranieri in Venezuela. Soldati provenienti da Abcasia, Bielorussia, Cina, Iran, Myanmar, Russia e Uzbekistan: paesi che in molti casi sono colpiti dalle sanzioni degli Stati Uniti d’America.

Ad aumentare la tensione anche una “coincidenza”, se tale si vuole considerare. Infatti le “Olimpiadi della guerra” sono iniziate proprio mentre si concludevano le operazioni militari annuali organizzate dal comando sud degli Stati Uniti d’America: operazioni battezzate PanamaX 2022. A questa importante esercitazione, svoltasi tra il 1° e il 12 agosto, hanno partecipato le forze armate di Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Repubblica Domenicana, Giamaica, Guatemala, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Perù Salvador e Spagna.

Proprio mentre si svolgevano le “Olimpiadi della Guerra” in Venezuela con la benedizione del Cremlino, avviene però un altro colpo di scena. Zelenski riguadagna lo spazio che gli era stato negato al vertice del Mercosur e mercoledì 17 agosto, questa volta nelle aule della Pontificia Universidad Católica de Chile (Puc) riesce a parlare in videoconferenza mandando un messaggio ai presidenti della regione e a tutto il popolo latinoamericano, al quale ha chiesto di cessare il commercio con la Russia.

Ha poi aggiunto: «Per credere a quello che sta succedendo, è importante vederlo. Voglio che i vostri leader, i giovani, vengano in Ucraina. Per noi è importante che l’America Latina conosca la verità», apparendo per la prima volta su uno schermo latinoamericano a 175 giorni dall’inizio della guerra.

Un messaggio seminato in Cile, paese dove il giovane presidente Gabriel Boric aveva da subito dato il suo appoggio, in termini umanitari, verso il popolo ucraino.

Di fronte a tutto questo rimante difficile decifrare le vere intenzioni di Putin in America Latina, dove però sicuramente le sue alleanze con Cuba, Venezuela e Nicaragua e i suoi ammiccamenti ad Argentina e Brasile hanno complicato la risposta dell’Occidente alla sua invasione dell’Ucraina. Non sono da sottovalutare però le agende dei singoli paesi latinoamericani che dal canto loro potrebbero “usare” Putin come “spauracchio” da giocare nell’infinita partita a scacchi con Washington e Beijing, i due poli che continuano a oggi a esercitare comunque la maggiore influenza nella regione.

Conseguenza economiche della guerra nell’area Cono Sur

Chiavi di lettura delle alleanze globali

Per dare uno sguardo in chiave economica di come quanto sta succedendo in Ucraina abbia un riflesso diretto sulle società nazionali della regione latinoamericana, possiamo fare riferimento a un’analisi realizzata dal Real Instituto Elcano di Madrid, elaborata da Carlos Malamud e Rogelio Nuñez Castellano dal titolo L’America Latina e l’invasione dell’Ucraina: il suo impatto sull’economia, la geopolitica e la politica interna.

Spiegano Malamud e Nuñez Castellano che i paesi dell’America Latina, seppur in posizione periferica si vedono influenzati in modo importante dalla crisi in Ucraina. Economicamente, l’aumento dei ricavi per i paesi produttori di materie prime, in particolare idrocarburi, ha convissuto con il rimbalzo inflazionistico causato dall’aumento dei prezzi dell’energia e dalla scarsità di importazioni dalla Russia (fertilizzanti) e dall’Ucraina (cereali). Ci sono stati notevoli disaccordi all’interno di ciascun paese sulla posizione di fronte al conflitto, questione che rende ancora più difficile la politica interna in mezzo alla crescente incertezza sul futuro dell’economia mondiale e regionale, con un possibile aumento dei disordini sociali (vedi il caso delle recenti proteste a Panama). Inoltre la lotta geopolitica globale per il controllo e l’accesso alle risorse energetiche, ha rilanciato alcune potenze petrolifere regionali (come il Venezuela) e ha favorito alcuni spazi commerciali in termini di esportazioni (per esempio quelli argentini con l’esportazione di cereali).

Un’altalena di costi e benefici che però se vista nella foto regionale porta delle cifre tutt’altro che ottimistiche. Secondo i dati della Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (Cepal) resi noti a fine aprile scorso, il conflitto in Ucraina ha esacerbato i problemi di inflazione, aumentando la volatilità dei costi finanziari abbassando le stime di crescita regionale da 2,1% (gennaio 2022) a 1,8% (aprile 2022). Le economie del Sud America cresceranno dell’1,5%, quelle del Centro America e del Messico del 2,3%, mentre quelle dei Caraibi cresceranno del 4,7% (esclusa la Guyana).

Sempre la Cepal, nel volume Ripercussioni in America Latina e Caraibi della guerra in Ucraina: come affrontare questa nuova crisi? pubblicato a giugno, parla anche di un lento e incompleto recupero del mercato del lavoro dopo il Covid-19, prevedendo che la povertà e la povertà estrema supereranno i livelli stimati per il 2021.

«L’incidenza della povertà regionale raggiungerà il 33,7% – 1,6 punti percentuali in più rispetto alle proiezioni per il 2021- mentre la povertà estrema raggiungerà il 14,9% – 1,1 punti percentuali in più rispetto a nel 2021».

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Diego Battistessa ha partecipato in presenza ai lavori del vertice delle Americhe a Los Angeles, in qualità di Coordinatore regionale per l’America Latina e i Caraibi di Every Woman Treaty. E quindi ci ha potuto dare conto di prima mano dei lavori ufficiali, quelli che hanno dato dimostrazione che il cortile di casa non è più considerabile tale a tutti gli effetti, e delle attività parallele del Forum della società civile, rappresentata da quelle ong i cui interessi collidono con le conclusioni antimigratorie formulate dal vertice organizzato malamente da Biden, che come unico intento aveva quello di sancire la chiusura degli Usa (e di conseguenza per imitazione dell’intero Occidente) a qualsiasi forma di immigrazione.


L.A. Cumbre: America non è (solo) Usa

Dal 6 al 10 giugno si è celebrato a Los Angeles (California) il nono Vertice della Americhe. Un incontro regionale che si realizza ogni quattro anni dal 1994 (prima edizione a Miami e unica negli Usa fino a quella del mese scorso) e che riunisce capi di governo, imprese private e delegazioni della società civile del continente americano. L’ultimo vertice di questo genere fu quello di Lima nel 2018 (Trump non aveva partecipato inviando il vicepresidente Mike Pence al suo posto) e questo è stato dunque il primo dell’era Covid-19.

L’amministrazione di Joe Biden non è certamente arrivata all’appuntamento nel migliore dei modi: infatti sia problemi di politica interna (economia, sicurezza e tema migratorio), che l’instabile situazione geopolitica mondiale (guerra in Ucraina) hanno deviato l’attenzione dall’importante vertice continentale abbassandone il “tono”. In quanto anfitrioni, gli Usa hanno dettato le regole e fin da subito hanno fatto sapere che non sarebbero stati invitati i presidenti di Nicaragua, Cuba e Venezuela (Daniel Ortega, Miguel Diaz-Canel e Nicolas Maduro): etichettati dal governo di Biden come regimi antidemocratici dove si violano massivamente e sistematicamente i diritti umani. Una posizione condivisibile o discutibile a seconda dei punti di vista (quella del non invito) che però ha generato un’ondata di protesta regionale che forse  il presidente statunitense non si aspettava. Questa posizione unilaterale e monolitica degli Usa ha infatti portato al rifiuto di partecipare ai lavori del vertice a Los Angeles da parte del presidente del Messico (Andrés Manuel Lopéz Obrador), di quello della Bolivia (Luis Arce) e di quello dell’Honduras (Xiomara Castro). Come se non bastasse neanche Nayib Bukele e Alejandro Giammattei, rispettivamente presidenti del  Salvador e del Guatemala,  sono andati in California perché in aperto conflitto con Biden, mentre il presidente dell’Uruguay, Luis Lacalle Pou, ha dovuto rinunciare al viaggio perché positivo al Covid-19. Insomma, uno scenario tutt’altro che allettante e che ha rischiato di aggravarsi con la minaccia di Jair Bolsonaro (presidente del Brasile) di non partecipare al vertice delle Americhe, se Biden non gli avesse concesso un incontro bilaterale al margine dei lavori dell’evento continentale.

Il presidente Usa ha subito negato questa possibilità e Bolsonaro, in cerca di visibilità per le elezioni presidenziali che si svolgeranno a ottobre  2022 (e che lo vedono in svantaggio nei sondaggi di fronte a Lula) ha quindi palesato il rifiuto al viaggio in California.

Questa situazione di tensione si è manifestata apertamente quando proprio l’8 giugno, con il discorso del presidente Biden al “Microsoft Theater” di Los Angeles si sono aperti ufficialmente i lavori diplomatici del nono vertice delle Americhe Costruire un futuro Sostenibile, Resiliente ed Equo. Il presidente USA ha parlato alla platea di suoi pari accorsi per l’occasione, tra i quali mancava (oltre ai 9 già segnalati in precedenza) proprio il presidente del Brasile. La sera dell’8 giugno però il colpo di scena: Biden viste le numerose assenze (25 presenti su 35 possibili) chiama Bolsonaro, accetta la proposta di riunione bilaterale. E così venerdì 10 giugno, nei discorsi ufficiali di chiusura del nono vertice delle Americhe vediamo apparire un gaudente presidente del Brasile (giunto la sera prima a Los Angeles), che pontifica su futuri accordi e sulle relazioni Usa-Brasile. Un discorso , quello di Bolsonaro, nel quale si fa menzione anche alle ricerche del giornalista britannico Dom Phillips e dell’indigenista Bruno Pereira Araujó, scomparsi il 5 giugno in Amazzonia (verranno poi ritrovati morti il 15 giugno).

Quello con Jair Bolsonaro non è stato però l’unico retroscena di Realpolitik messo in atto da Biden. Non è da meno infatti il gioco di funambolismo che ha legittimato il presidente Usa a inviare una delegazione a parlare con Nicolas Maduro (non riconosciuto ufficialmente dagli Usa come presidente in carica del Venezuela) a pochi giorni dal vertice, per risolvere la questione petrolio viste le sanzioni imposte alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina.
Quindi da un lato il Venezuela non è stato invitato ufficialmente ma dall’altro, proprio in prossimità di questo grande evento continentale, gli Usa negoziavano con il regime di Maduro per esplorare vie di riattivazione di un’industria petrolifera che nel paese sudamericano della rivoluzione bolivariana è ormai ai minimi termini. Ma dov’era Juan Guaidó in tutto questo? Il presidente dell’Assemblea nazionale venezuelana (esautorata da Maduro), riconosciuto da più di 50 stati della comunità internazionale (tra cui gli Usa) come il legittimo presidente del Venezuela, non è stato invitato al nono vertice delle Americhe da Biden. A lui è stata dedicata però una telefonata di circa 8 minuti partita dall’Air Force One proprio mentre Biden stava viaggiando per arrivare a Los Angeles. Il presidente USA ha rinnovato l’appoggio del paese nordamericano a Guaidó, ribadendo la politica di tolleranza zero contro i delitti del regime di Nicolas Maduro e sottolineando che l’Assemblea Nazionale del 2015 è l’ultimo organo eletto democraticamente in Venezuela riconosciuto dagli Stati Uniti d’America.  Guaidó però dunque non ha calcato il red carpet del vertice in quanto ospite “complicato da gestire”, la cui presenza avrebbe potuto appesantire ancora di più la tensione dei lavori a Los Angeles.

Il tema migratorio

Lavori che per l’amministrazione Biden sembra avessero un unico grande scopo. Infatti, al margine delle magniloquenti dichiarazioni dei giorni anteriori al vertice, che parlavano di necessari e urgenti accordi su temi quali stabilità democratica della regione, sicurezza, energie rinnovabili, clima, salute e diritti umani, il tutto si è ridotto al tema migratorio. Si perché se un documento importante è uscito da questo vertice è proprio la “Dichiarazione di Los Angeles” . Un testo che progetta una migrazione coordinata e ordinata, che vuole trovare una soluzione alla crisi migratoria che attraversano gli Usa e che riguarda la maggior parte dei paesi centroamericani: paesi i cui presidenti non erano però presenti al vertice. «Nessun paese dovrebbe assumere da solo il peso dei flussi migratori», ha detto Biden, mentre presentava il testo della dichiarazione di Los Angeles insieme a i suoi pari del continente. «Dobbiamo fermare le dinamiche pericolose e illegali con le quali le persone stanno migrando. La migrazione illegale non è accettabile e metteremo al sicuro i nostri confini», ha poi aggiunto. Mentre risuonavano queste parole nel Centro di Convenzioni nel downtown di Los Angeles arrivava però la notizia di una nuova enorme carovana, circa 7000 persone, composta principalmente da venezuelani, che aveva iniziato la marcia dal Sud del Messico (Chiapas) per arrivare alla sua frontiera settentrionale con gli Usa. Inoltre la dichiarazione di Biden non può non essere letta anche in chiave di politica interna, visto e considerato che proprio la sua amministrazione aveva provato nel maggio scorso a mandare in pensione il Titolo 42. Un articolo che risale al 1944 e che fu reinterpretato da Donald Trump al fine di utilizzare l’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 come vero e proprio scudo per respingere i migranti della frontiera meridionale con il Messico, senza considerare i trattati internazionali vigenti in materia. Una norma che ha portato all’espulsione di milioni di persone alla frontiera tra Messico e Usa e la cui eliminazione costituiva per Biden una battaglia di civiltà. Battaglia però momentaneamente persa, visto che dopo l’annuncio della fine del Titolo 42 i governi repubblicani degli stati dell’Arizona, della Louisiana e del Missouri hanno chiesto a un tribunale federale di fermare la decisione e continuare con il divieto di ingresso per motivi sanitari: richiesta accolta dal giudice Robert Summerhays, del distretto occidentale della Louisiana, che con un ordine dell’ultima ora ha sospeso l’eliminazione del Titolo 42 da parte dell’amministrazione Biden.

Insomma un tema quello migratorio che sembra essere tutt’altro che risolto e che continua a essere materia divisiva tra Repubblicani e Democratici negli Usa. Non va però dimenticato che anche la posizione di Biden rispetto alla migrazione “illegale” è stata fin da subito chiara. Infatti, nello stesso giorno in cui veniva trionfalmente annunciato che sarebbe stato sospeso il Titolo 42, la ormai ex portavoce della Casa Blanca, Jen Psaki, aveva chiarito di avere una posizione tutt’altro che “accogliente” verso i migranti.

«Do not come!» (non venite!): un messaggio che richiama quello della vicepresidentessa Kamala Harris (originaria proprio della California), che aveva detto le stesse parole nel suo primo viaggio internazionale a giugno 2019 in Messico e in Guatemala.

“La Cumbre e gli interessi nel cortile di casa”.

Il flop di Biden e lo scenario latinoamericano

Il nono vertice delle Americhe è stato anche un banco di prova per la compattezza di un nuovo blocco socialista-progressista che ricalca in America Latina quanto successo nei primi anni Duemila con la cosiddetta marea rosa. Il vertice si è infatti celebrato mentre in Colombia, storico alleato Usa nella regione, era in corso una serrata campagna elettorale per il ballottaggio presidenziale celebrato il 19 giugno. Un ballottaggio che vedeva la destra uribista (quella del presidente uscente Duque) fuori dai giochi e che per la prima volta apriva la porta a un governo di sinistra nel paese sudamericano: circostanza confermatasi poi con la storica vittoria di Gustavo Petro sull’outsider Rodolfo Hernánez.


Adesso dunque con l’arrivo di Petro alla presidenza della Colombia possiamo dire che la maggioranza della popolazione dell’America Latina (circa 350 milioni di persone su 630) è governata dalla sinistra giacché diventeranno (Petro si insedierà ad agosto) ben 10 i paesi appartenenti alla sfera socialista / progressista. Qui un breve ripasso:

  • Dal 2007 il presidente del Nicaragua è Daniel Ortega, ex comandante della rivoluzione sandinista che affrontò la dittatura di Somoza;
  • Dal 2013 il presidente del Venezuela è il delfino di Hugo Chvez, Nicolas Maduro;
  • Dal 2018 il presidente di Cuba è Miguel Diaz-Canel che ha preso il timone dell’isola dopo i fratelli Castro;
  • Sempre dal 2018, il presidente del Messico è il socialista Andrés Manuel Lopéz Obrador;
  • Dal 2019 il presidente dell’Argentina è Alberto Fernandez che governa in coppia con Cristina Kirchner;
  • Dal 2020 il presidente della Bolivia e Lusi Arce, ex ministro di Evo Morales;
  • Dal 2021 il presidente del Perù è Pedro Castillo, professore contadino che ha sorpreso tutta la comunità internazionale con la sua vittoria contro Keiko Fujimori.
  • Da gennaio scorso la presidentessa dell’Honduras è Xiomara Castro, ex moglie del presidente Manuel Zelaya deposto da un colpo di stato nel 2009;
  • Da marzo scorso, il presidente del Cile è Gabriel Boric, giovane leader studentesco che ha catalizzato l’onda di protesta arrivando al Palacio de la Moneda;

In un’altra epoca questo avrebbe fatto tremare le pareti della Casa Bianca a Washington ma non oggi, perché possiamo osservare come gli interessi geopolitici e geoeconomici abbiamo sparigliato le carte e creato scenari alquanto particolari. Dentro questo gruppo di paesi di “sinistra” (o autodichiaratisi tali, visto che molti considerano Cuba, Nicaragua Venezuela semplici dittature che usano la maschera del socialismo) esistono “amici” del governo Usa o quantomeno soci d’affari, mentre tra i governi di centrodestra o destra arrivano spesso critiche o “spallate” al vicino nordamericano. Questo nuovo blocco al quale si unisce la Colombia non è però così coeso e sono forti le critiche mosse per esempio contro Venezuela, Nicaragua e Cuba da Gabriel Boric in Cile, che rappresenta una sinistra più giovane e progressista, meno incline a giustificare violenza, soprusi e violazioni massive dei diritti umani (infatti Boric ha partecipato al vertice delle Americhe non allineandosi con Messico, Bolivia e Honduras).

La società civile presente al vertice delle Americhe

L’evento di Los Angeles è iniziato in realtà il 6 giugno con la due giorni del forum della società civile promossa dalla segreteria dell’organizzazione degli Stati Americani (Oea in spagnolo), che ha favorito i tavoli di lavoro e discussione tra le decine di Ong arrivate in California, intorno ai pilastri di questo organismo multilaterale regionale (democrazia, diritti umani, sicurezza e sviluppo) e tematiche oggi cruciali come genere, digitalizzazione, energia pulita e cambio climatico. Numerosi anche gli eventi paralleli che hanno toccano i principali temi dell’agenda che è stata poi discussa dai capi di stato arrivati sulla costa ovest degli Usa.

La zona del downtown di Los Angeles da lunedì 6 giugno ha visto quindi l’arrivo di centinaia di attivisti e attiviste, accademici e accademiche, diplomatici, giornalisti e artisti: come il cubano Yotuel, che ha lanciato nel 2021 (insieme a Gente de Zona, Decemer Bueno, Manuel Osorbo e El Funky) la canzone “Patria y vida” che critica apertamente il governo di Cuba.

Trattato globale per sradicare la violenza contro le donne: Every Woman Treaty

La società civile delle Americhe ha giocato dunque un ruolo importante (con delegazioni anche dei paesi esclusi politicamente dal vertice), presentando petizioni coordinate ai rappresentanti diplomatici degli stati del continente americano su temi cruciali quali sono le sfide del cambio climatico e l’uguaglianza di genere tra gli altri. In questo senso una delle grandi petizioni che ha fatto breccia e che ha trovato l’avvallo e l’appoggio del presidente della Colombia Iván Duque e del segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani, Luis Almagro, riguarda la creazione di un nuovo trattato globale per sradicare la violenza contro donne e bambine. Al vertice infatti ha partecipato anche una delegazione dell’alleanza Every Woman Treaty: una coalizione globale di oltre 1700 attiviste per i diritti delle donne, provenienti da 128 paesi diversi e appoggiate da 840 organizzazioni. Un’alleanza internazionale che lavora dal 2013 per raggiungere uno standard globale vincolante sull’eliminazione della violenza contro donne e bambine e che dopo anni di consultazioni e lavoro di attivismo, nel novembre 2021 ha lanciato una bozza di trattato, che rappresenta un punto di partenza per gli stati per discutere e approvare un nuovo quadro giuridico globale vincolante in materia. L’appello, come detto, è stato raccolto da Iván Duque, che durante il suo discorso di chiusura, venerdì 10, ha dichiarato:

«Oggi voglio fare riferimento alla difesa illimitata dei diritti umani, e in particolare accogliere tutte le voci che chiedono a gran voce che venga adottato questo trattato internazionale per respingere ogni forma di violenza contro le donne e le bambine. Lì si concentra uno dei più grandi drammi della nostra regione…».

Anche Luis Almagro ha sottolineato che

«Abbiamo la responsabilità di promuovere e proteggere i diritti fondamentali delle donne e delle bambine in tutta la loro diversità, il diritto di ogni individuo a essere libero da ogni forma di violenza […] Dobbiamo impegnarci a promuovere urgentemente un nuovo trattato globale autonomo per porre fine alla violenza contro donne e bambine».

Dalle Americhe dunque, in uno scenario di grande simbolismo, queste due importanti voci si uniscono a quelle dei premi Nobel per la Pace Jody WilliamsShirin Ebadi e Tawakkol Karman, a quella della ex relatrice speciale dell’Onu per la violenza contro le donne Rashida Manjoo e dei presidenti della Repubblica democratica del Congo, Félix Tshisekedi, e della Nigeria, Muhammadu Buhari. Un movimento globale e plurale che chiama a una azione urgente per arrestare la violenza contro donne e bambine, una violenza che UN Women chiama “shadow pandemic” (pandemia nell’ombra) e che l’Oms cataloga come “devastantemente generalizzata”. Basti pensare che i dati dell’Onu dicono che una donna su tre nel mondo soffre violenza e che solo nel 2020, ben 81.000 donne e bambine sono state assassinate: una ogni 6 minuti e mezzo.

Proteste e attività parallele in Latinoamerica

Ovviamente non sono però mancate le proteste. Da un lato proprio di fronte al centro di convenzioni di Los Angeles, molte persone hanno manifestato contro la politica migratoria degli Usa e contro le difficoltà per ottenere i permessi di residenza nel paese nordamericano. Dall’altro alcune delegazioni della società civile dei paesi esclusi dal vertice hanno voluto far sentire il loro dissenso denunciando le politiche imperialiste degli Usa al suono di canzoni simbolo come Latinoamerica

e This is not America (il videoclip di quest’ultima canzone ha vinto un premio a Cannes 2022).

Importante inoltre segnalare che mentre si svolgevano i lavori delle delegazioni politiche e delle Ong ufficialmente accreditate per partecipare al nono vertice delle Americhe, sempre a Los Angeles è stato lanciato un vertice parallelo, sotto il nome di Vertice dei popoli per la Democrazia. Un evento critico con il “vertice dell’esclusione” di Joe Biden (così chiamato dai partitari dei governi di Cuba, Venezuela e Nicaragua). Rispetto a questo, Manolo de los Santos, rappresentante dell’Assemblea Internazionale dei Popoli (Aip), ha dichiarato a Telesur che

«in realtà, non vediamo il vertice dei popoli per la democrazia solo come un vertice opposto, ma come il vero vertice a cui parteciperanno gli esclusi, che non sono solo Cuba, Venezuela e Nicaragua, ma che sono anche i milioni di persone che all’interno degli Stati Uniti d’America non hanno il diritto di partecipare ai processi politici in atto».

 

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Società civile e popoli indigeni: protagonisti dell’accordo di Escazú https://ogzero.org/l-accordo-di-escazu-parla-la-societa-civile-e-i-popoli-indigeni/ Wed, 04 May 2022 15:31:08 +0000 https://ogzero.org/?p=7267 L’America Latina e il Caribe compongono una delle regioni del pianeta con maggiore megadiversità, possiedono cioè un immenso patrimonio di specie animali, vegetali ed ecosistemiche. Inoltre, in questo subcontinente si trova il 28% delle terre coltivabili, un terzo delle riserve di acqua dolce e il 22% delle foreste mondiali. Allo stesso tempo, la regione latinoamericana […]

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L’America Latina e il Caribe compongono una delle regioni del pianeta con maggiore megadiversità, possiedono cioè un immenso patrimonio di specie animali, vegetali ed ecosistemiche. Inoltre, in questo subcontinente si trova il 28% delle terre coltivabili, un terzo delle riserve di acqua dolce e il 22% delle foreste mondiali. Allo stesso tempo, la regione latinoamericana è la seconda al mondo per esposizione e vulnerabilità a disastri naturali, che gli effetti del cambio climatico stanno intensificando rapidamente. Infine, l’elevato numero di conflitti socio ambientali in questa area del mondo è legato principalmente alle attività di deforestazione, all’agro business e allo sfruttamento minerario, oltre all’installazione di grandi idroelettriche e mega impianti di energie rinnovabili.

Difensori della terra e della vita

Secondo l’ultimo rapporto della ong Global Witness, durante il 2020 sono avvenuti nel mondo 227 omicidi di persone che difendono la terra, più di 4 alla settimana. È la cifra più alta registrata dal primo monitoraggio del 2012, questo significa che la pandemia e le misure di isolamento non hanno frenato la violenza. Sette dei dieci paesi più colpiti si trovano in America Latina e più di un terzo degli attacchi sono rivolti contro popolazioni indigene.

È in questa cornice che, tra il 20 e il 22 aprile appena passati, si è svolta a Santiago del Cile la prima Conferenza delle Parti (COP) dell’accordo regionale sull’accesso all’informazione, la partecipazione pubblica e la giustizia in materia ambientale in America Latina e nei Caraibi, conosciuto come Accordo di Escazú, dal nome della località dove è stato approvato, in Costa Rica, nel 2018.

Si tratta del primo trattato regionale latinoamericano in materia ambientale – simile alla Convenzione di Aarhus europea, che l’Italia ha ratificato nel 2001 – ma è l’unico al mondo a contenere disposizioni specifiche per la protezione degli attivisti ambientali.

Stabilire come si traduce questo principio in meccanismi e dispositivi concreti sarà uno dei compiti del Comitato di appoggio all’applicazione e al compimento di Escazú, la cui creazione è stato uno dei maggiori risultati di questa COP e che il prossimo anno eleggerà i suoi 7 rappresentanti tra figure indipendenti dalle istituzioni governative e con traiettoria in democrazia ambientale.

L’idea è che serva ad «assicurare l’applicazione delle norme di Escazú, che l’accordo non resti lettera morta», spiega Natalia Gómez, della Ong EarthRights International, una dei sei rappresentanti della società civile alla COP. Quando il Comitato si sarà installato, qualsiasi persona di un paese aderente a Escazú potrà denunciare una violazione direttamente a questa istituzione che dovrà mettere in atto misure di protezione, «è in questo modo che comincerà realmente l’implementazione dei dispositivi di difesa degli attivisti» conclude.

 

La partecipazione è l’essenza di Escazú

Il traguardo della prima COP di Escazú è in realtà soltanto un inizio: tra gli obiettivi della tre giorni di Conferenza c’erano l’elezione del tavolo direttivo e l’approvazione del regolamento interno, documento già ampiamente discusso dai 12 paesi aderenti. Per questo ha colto tutti di sorpresa la proposta della delegazione boliviana di eliminare la partecipazione del pubblico dalle decisioni in materia ambientale, durante la giornata di giovedì 21 aprile. Si tratta di una condizione che è stata inserita nel trattato fin dal 2014, durante il lungo cammino di negoziazioni che hanno portato all’attuale Conferenza.

«Eliminare la partecipazione del pubblico significa tradire lo spirito dell’Accordo», ha affermato lapidario il leader indigeno Nadino Calapucha di fronte alla riunione plenaria, attorno al tavolo rotondo della sede della CEPAL. Con il volto dipinto e il copricapo di piume della sua comunità, il portavoce del Coordinamento di Organizzazioni Indigene della Regione Amazzonica (COICA) ha chiamato a rispettare uno dei pilastri di Escazú: la possibilità che, al tavolo direttivo, prenda la parola qualsiasi persona proveniente dai territori dei paesi aderenti.

L’intervento di Nadino Calapucha (foto Cepal).

Il momento di tensione è rientrato grazie al rifiuto unanime della proposta presentata dalla Bolivia da parte degli oltre 700 delegati presenti, ed è stata così confermata la presenza di un rappresentante del pubblico, inteso come la società civile in senso ampio, al tavolo direttivo della Conferenza.

Ma i delegati del COICA sono andati oltre, con la richiesta di un posto riservato a un portavoce dei popoli indigeni. «Non c’è Accordo di Escazú senza i popoli indigeni», afferma Lolita Piyahuaje, vicepresidente della Confederazione delle Nazioni Indigene dell’Amazzonia Ecuadoriana (CONFENIAE) presentando la proposta, che prevede anche l’implementazione di un caucus, un’assemblea indigena nella COP.

José Gregorio Díaz Mirabal, coordinatore generale del COICA, ha ricordato il Principio 10 della Dichiarazione di Río sull’ambiente del 1992, «che è stato il primo germoglio da cui nato l’Accordo di Escazú», in cui si afferma che «il miglior modo per trattare le questioni ambientali è con la partecipazione di tutti i cittadini interessati», evidenziando che «ci sono 476 milioni di indigeni nel mondo, in America Latina siamo 58 milioni, 826 popoli, non è un tema secondario la partecipazione indigena a Escazú, perché stiamo parlando delle nostre vite, dei nostri diritti, dei nostri territori».

Difensori del territorio, popoli indigeni e giovani generazioni

Durante la COP si sono formati due gruppi di lavoro coordinati dai sei rappresentanti del pubblico, uno ha raccolto l’urgenza della situazione in cui si trovano i difensori ambientali, mentre l’altro ha preso in carico la richiesta di una specifica rappresentanza indigena. «Abbiamo lavorato sulla proposta, che ora deve ottenere l’appoggio di un paese aderente per entrare in discussione», spiega Andrea Sanhueza, direttrice del centro studi cileno Espacio Público e una delle sei persone che attualmente rappresentano la società civile alla Conferenza. Aggiunge che nel frattempo il seggio messo in discussione dalla Bolivia e infine confermato è aperto perché possa sedersi al tavolo delle trattative chiunque lo richieda. «Nessuno può metterlo in discussione perché come pubblico abbiamo diritto a stare nelle negoziazioni», continua Andrés Napoli, un altro degli attuali rappresentanti, direttore della fondazione ambientalista argentina FARN. «Se la mettiamo al voto, ci sono paesi che potrebbero opporsi a una delegazione indigena, ma se c’è un portavoce indigeno seduto nel seggio del pubblico la riunione comincia, questo lo possiamo dire per esperienza».

Secondo i rappresentanti, che saranno eletti nuovamente il prossimo agosto, un’altra differenza importante rispetto alle COP sul cambio climatico che conosciamo da anni è che la società civile non prende la parola alla fine, quando la maggior parte dei delegati se n’è già andata e nessuno ascolta, ma durante il dibattito, alla pari con i funzionari degli stati, e questo favorisce la capacità di incidere nelle decisioni, nonostante il pubblico abbia solo diritto di parola e non di voto.

La società civile prende la parola durante il dibattito (foto Cepal).

«Stiamo iniziando una campagna per invitare le generazioni più giovani a candidarsi per essere i prossimi rappresentanti del pubblico», conclude Sanhueza, riferendosi alla grande presenza di giovani a seguire le attività della COP e all’importanza che abbiano a loro volta un ruolo di rilievo nelle negoziazioni tra i paesi membri.

L’Accordo di Escazú è uno strumento necessario per l’America Latina e il Caribe, ma la sua reale efficacia dipenderà proprio dalla società civile organizzata e dalla sua capacità di incidere nelle decisioni politiche. Una delle principali sfide è ottenere l’adesione dei paesi che non hanno ancora firmato l’accordo: solo 12 dei 33 che compongono la regione sono attualmente parte del tavolo direttivo, altri 12 hanno firmato ma non ratificato e restano in una posizione di osservatori, come il Cile, che ha dato un passo avanti a marzo, con l’assunzione del nuovo governo di Gabriel Boric.

Delle nazioni che condividono il bacino amazzonico, per esempio, fanno parte dell’accordo solo l’Ecuador, la Guyana e la Bolivia, e quest’ultima ha rivelato la sua polemica posizione. Guyana francese, Suriname e Venezuela sono tra i firmatari, mentre la Colombia, il Brasile e il Perù sono i grandi assenti.

I pericoli per l’Amazzonia

«Noi siamo i difensori della vita, chi ci difende?», si domanda durante gli incontri organizzati dalla COP Elsa Merma Ccahua, presidente dell’Associazione di Donne che difendono il territorio e la cultura K’ana a Espinar, nella regione di Cuzco in Perù. «Io sono portavoce di organizzazioni sociali di 11 regioni peruviane che affrontano malattie per metalli pesanti e tossici, conviviamo da 40 anni con le imprese minerarie», spiega. L’estrazione mineraria ha prodotto contaminazione nella zona e colpisce direttamente le comunità contadine originarie: «i nostri animali stanno morendo di malattie sconosciute, le coltivazioni nella chakra si sono impoverite. Come donne, soprattutto, siamo private della terra che è il nostro sostento per mantenere la famiglia, educare i figli, è la nostra sicurezza alimentare».

Nella provincia di Pangoa in Perù, proprio il giorno prima dell’inizio della COP è stato assassinato Ulises Rumiche, leader di un’organizzazione di popoli originari amazzonici, mentre tornava alla sua comunità dopo una riunione con funzionari ministeriali.

In Brasile e in Perù quasi tre quarti degli omicidi avvengono nella zona amazzonica e solo in Colombia sono state uccise 65 persone durante il 2020, portando questo Paese in cima alla lista mondiale stilata da Global Witness per il secondo anno di fila.

In Brasile, il presidente Jair Bolsonaro è stato denunciato davanti alla Corte Penale Internazionale per le sue responsabilità nella deforestazione dell’Amazzonia, eliminando e ostacolando gli organismi e le leggi che proteggono il polmone verde del pianeta. La denuncia, sostenuta da un’equipe di esperti insieme alla ong AllRise, ha calcolato che si può imputare al governo di Bolsonaro la perdita di circa 4000 km quadrati di selva all’anno, da quando ha assunto la presidenza nel 2019 il tasso di deforestazione è aumentato fino all’88%. Il Brasile andrà alle elezioni il prossimo ottobre e la ricandidatura di Lula da Silva potrebbe indicare un cammino diverso nei confronti della foresta amazzonica. In Colombia invece le presidenziali saranno il prossimo 29 maggio e per la prima volta da decenni esiste una possibilità che la coalizione di centro sinistra del Pacto Histórico possa vincere sulla destra legata alla figura di Alvaro Uribe, mentre il progetto di legge per approvare l’Accordo di Escazú nel paese è tornato in discussione al Congresso la scorsa settimana scorsa.

(Foto Cepal)

I prossimi appuntamenti della COP sono nel 2023 per una riunione straordinaria in Argentina, dove saranno eletti i sette responsabili del Comitato incaricato di verificare l’applicazione e il compimento delle regole del trattato, e nel 2024 nuovamente a Santiago del Cile. Qui, il risultato dei prossimi appuntamenti politici nella regione potrebbe avere una forte influenza per avanzare nella protezione dei beni naturali latinoamericani e di chi li difende.

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Podcast Rebelde https://ogzero.org/podcast-rebelde-proiettili-fatti-di-parole/ Tue, 29 Mar 2022 20:34:57 +0000 https://ogzero.org/?p=6921 Complesse e uniche frequenze (r)esistenti Il podcast è diventato un nuovo linguaggio per raccontare l’America latina dall’America latina: un mercato comunicativo in costante crescita, che è stato favorito anche dal confinamento prodotto dalla pandemia. Una specie di nuovo adattamento delle radio comunitarie e dei tessuti di (r)esistenza che hanno giocato un ruolo chiave nel seminare […]

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Complesse e uniche frequenze (r)esistenti

Il podcast è diventato un nuovo linguaggio per raccontare l’America latina dall’America latina: un mercato comunicativo in costante crescita, che è stato favorito anche dal confinamento prodotto dalla pandemia. Una specie di nuovo adattamento delle radio comunitarie e dei tessuti di (r)esistenza che hanno giocato un ruolo chiave nel seminare coscienza, “rebeldia” e rivendicazione sociale tra i “nadie” di Eduardo Galeano.

L’originalità e la varietà di questi podcast riflette l’eterogeneità di una regione uguale e diversa, nella quale si vivono drammi comuni e trasversali ma anche lotte particolari e non riproducibili in altre latitudini. Una chiave di lettura per comprendere questa disarmonica e affascinante complessità regionale è stata offerta dallo scrittore e attivista uruguaiano Raúl Zibechi, in Movimientos sociales en América Latina. El “mundo otro” en movimiento (2017):

«… i movimenti sociali in Europa e Nord America si muovono in società relativamente omogenee in cui il controllo e lo sfruttamento del lavoro avviene essenzialmente attraverso il salario, e dove le relazioni sociali sono relativamente omogenee e quindi, la logica che governa l’insieme, governa anche le parti. Nel frattempo, in America Latina abbiamo cinque tipi di relazioni o modalità di controllo del lavoro: schiavitù, servitù personale, reciprocità, piccola produzione commerciale e salario. Siamo di fronte a quella che Anibal Quijano definisce “eterogeneità storico-strutturale” delle nostre società, in cui si mettono in moto relazioni sociali diverse. Quindi è più conveniente chiamare i nostri movimenti collettivi come “società in movimento” o, come essi stessi si autoidentificano: “popoli” o “nazioni” che lottano per la loro sovranità e autodeterminazione».

proiettili fatti di parole

I movimenti collettivi come “società in movimento” o, come essi stessi si autoidentificano: “popoli” o “nazioni” che lottano per la loro sovranità e autodeterminazione.

La controstoria diversamente “trasmessa”

Sono dunque, nella maggior parte dei casi, queste società in movimento, o chi ne rappresenta le lotte o rivendicazioni, a creare o protagonizzare questi podcast che dipingono una geografia della resistenza, della controstoria e della narrazione altra. Visto in questo modo, il podcast diventa un nuovo strumento di lotta che pervade le maglie di una società plurale che prova a resistere, secondo le parole di Zibechi a una «ricolonizzazione dei nostri territori e dei nostri popoli». L’uruguaiano infatti nel dipingere la situazione vissuta dalla regione nel periodo prepandemia scriveva:

«È importante evidenziare la nascita di nuovi movimenti, in quasi tutti i paesi che incarnano le oppressioni più pressanti, derivate dalla crescita esponenziale dell’estrattivismo predatorio, dei femminicidi e della violenza strutturale contro i poveri. L’attuale fase del capitalismo nel mondo (e nella nostra regione) è la più grande sfida affrontata dai settori popolari organizzati, poiché il sistema scommette sulla loro scomparsa come popoli, classi, etnie, razze, generi e generazioni. Non è un’esagerazione affermare che i poveri dell’America Latina stanno subendo un genocidio di tale intensità e portata come non si conosceva dai tempi del colonialismo. In questo senso, sia economicamente che politicamente, stiamo vivendo una sorta di ricolonizzazione dei nostri territori e dei nostri popoli».

Tutti i mondi nuovi compresi nel nuovo mondo web

In questa lotta per la sopravvivenza di quella speranza così ben plasmata dalle parole del sub-comandante Marcos «È necessario costruire un mondo nuovo. Un mondo nel quale possano convivere molti mondi, dove ci sia spazio per tutti i mondi», i podcast si trasformano in proiettili fatti di parole, in pillole di sensibilizzazione e risveglio che attraversano, grazie a internet, tutta la regione.

Il fatto poi che lo spagnolo sia una lingua veicolare per la maggior parte degli abitanti dell’America Latina, aumenta la capacità di diffusione dei contenuti in questa lingua, espandendo l’onda d’urto dei messaggi e delle storie in essi contenute. A questo contesto si aggiunge poi il Brasile, paese-continente nel quale si parla il portoghese e dove i podcast hanno trovato, anche qui, terreno fertile.

Historias que merecen ser escuchadas

In un contesto così dinamico e impermanente risulta estremamente difficile offrire una mappa completa dei podcast (ribelli, divulgativi o informativi) che nascono quotidianamente nella regione. Nonostante ciò, di seguito una breve lista di podcast (sia nazionali che regionali) che toccano tematiche legate ai diritti umani, all’emancipazione della donna, alle discriminazioni razziali, alle disuguaglianze economiche, ai diritti dei popoli indigeni, alle migrazioni, al collettivo lgbtiq+, alle persone con disabilità, al cambio climatico, all’impunità, alla violenza dello stato, alla difesa dell’ambiente e alla vita comune dei latinoamericani e delle latinoamericane.

Las historias de Radio Ambulante

Una delle piattaforme più famose e premiate è sicuramente Radio Ambulante, un progetto comunicativo che da quasi un decennio racconta storie di tutta l’America Latina: storie commoventi, divertenti e sorprendenti, che rivelano la diversità della regione in tutta la sua complessità. Radio Ambulante è distribuito da NPR, la radio pubblica statunitense e a oggi ha prodotto oltre 200 episodi in più di 20 paesi, dimostrandosi il progetto di giornalismo narrativo più ambizioso dell’America Latina. Racconta la vita latinoamericana con storie di amore e migrazioni, giovani e politica, ambiente e famiglie in circostanze straordinarie, offrendo un vero e proprio ritratto sonoro della regione. Nel 2020 Radio Ambulante si è evoluta in una società di produzione di podcast, lanciando El Hilo, un podcast di notizie settimanali presentato da Silvia Viñas e Eliezer Budasoff, con la direzione editoriale di Daniel Alarcón. El hilo approfondisce le notizie più importanti della settimana in America Latina, offrendo contesto e permettendo di andare oltre i titoli dei giornali.

El Collectivo La Brega

Da Portorico arriva invece La Brega, un progetto di WNYC Studios e Futuro Studios che hanno creato una serie di podcast per raccontare la peculiarità della vita portoricana. Disponibile in inglese e spagnolo e presentato da Alana Casanova-Burgess, La Brega è il risultato del lavoro di un collettivo di giornalisti, produttori, musicisti e artisti portoricani.

La Brega

Bregar: trabajar con entrega y luchar contra las dificultades.

Suena así en Mexico

Dal Messico arriva un esperimento molto interessante, che riunisce una dozzina di podcast con contenuti diversi tra loro: si tratta di Así como suena. Questa piattaforma si presenta così al pubblico: «storie di amore e odio, criminalità, politica, corruzione e quotidianità. Parliamo di persone e di personaggi. Il nostro team di giornalisti non rimane in superficie, scava in profondità. “Así Como Suena” offre brani sonori straordinari. Si tratta anche di discutere del paese e delle sue circostanze. Si tratta di ridere e scoprire musica che nemmeno immaginavamo esistesse. Si tratta di sapere cosa offre ogni notte la nostra città preferita. Chi di noi fa “Así Como Suena” scommette sul suono, sull’intimità che solo l’audio è in grado di creare. E ci piace quello che facciamo: lavoriamo per offrirti storie che meritano di essere ascoltate».

proiettili fatti di parole

En Así como suena contamos historias: historias de amor y de odio, de crimen, de política, de corrupción, de vida cotidiana. Nuestro extraordinario equipo de reporteros no se queda en la superficie, en la nota.

La narrativa indomable

In America centrale troviamo Indomables, una creazione delle giornaliste indipendenti Leila Nilipour y Melissa Pinel, che a ottobre 2018 hanno dato vita al primo podcast narrativo di saggistica a Panama. Il progetto è di grande qualità e fin dall’inizio ha avuto un enorme impatto sia a Panama che in America centrale: basti pensare che il primo episodio Si desaparezco, no me busquen ha ricevuto il Premio Nazionale per il Giornalismo Radiofonico.

Intervistate proprio all’inizio del 2022 dal giornale spagnolo “El Pais”, Nilipour e Pinel hanno confermato che stanno lavorando alla stagione 2022 del podcast e che l’idea è anche quella di raccontare almeno una storia da El Salvador e un’altra dal Costa Rica, dal momento che sono paesi centroamericani che non sono stati raccontati nelle stagioni anteriori.

Nessuna vergogna in Nicaragua

Dal Nicaragua, che in generale non sta certo affrontando il suo miglior momento riguardo alle libertà civili, troviamo il podcast Cuerpos sinvergüenzas (Corpi senza vergogna). Uno spazio radiofonico per condividere preoccupazioni, idee ed esperienze di coloro che sfidano coscientemente il bodyshaming e anche di coloro che lo soffrono e cercano aiuto. Uno spazio dove si parla di sessualità, delle identità maschili e femminili, delle lotte per l’uguaglianza, del desiderio di continuare a rendere il Nicaragua un paese migliore. Un obiettivo ambizioso che nasce dentro lo spazio del programma femminista La Corriente e che è gestito dagli stessi membri dell’organizzazione.

Cuerpos sinvergüenzas

Conversamos sobre los problemas que enfrentan niñas, niños y adolescencia en Nicaragua, particularmente en el actual escenario de crisis.

Il bisogno di informazione in Colombia

Passando all’America del Sud e parlando di Colombia, troviamo che uno dei podcast più famosi e ascoltati del paese è A Fondo Con María Jimena Duzán. Si tratta di uno spazio comunicativo giornalistico protagonizzato da María Jimena Duzán, una giornalista e politologa colombiana con una lunghissima traiettoria professionale e che è diventata una dei riferimenti dell’informazione in Colombia.

“Francia Márquez, attivista afrocolombiana epocale”.

Il movimento cileno diffonde la sua maturità in podcast

Spostandoci in Cile, scopriamo Las Raras Podcast. Uno spazio nel quale vengono raccontate storie di persone che infrangono le regole e combattono per il cambiamento sociale: storie di libertà. L’idea è quella di amplificare voci che non si trovano nei media tradizionali, unendo il personale al politico. Nel manifesto del podcat si legge: «Siamo in sintonia con i movimenti sociali. Siamo femministe. Trattiamo argomenti come l’ambiente, l’arte, la scienza, l’istruzione, il genere, l’amore, la famiglia, la maternità, la migrazione, i diritti umani e altro ancora».

… y el feminismo argentino tambien

In Argentina uno dei podcast più ascoltati nel paese è ConchaPodcast (Feminismo esplicito), con le voci di Laura Passalacqua, Dalia F. Walker e Jimena Outeiro che condividono con il pubblico discorsi femministi tra amiche.

Lusofonia

Dal Brasile e spostandoci quindi sul portoghese, possiamo trovare una vasta gamma di podcast. Qui segnalo per esempio il podcast PAMITÊ , una realizzazione dell’Istituto Maria da Penha che porta riflessioni su questioni di genere e diritti umani. Oppure Mulheres na Comunicação un podcast che mira a diffondere e promuovere la comunicazione popolare, fatta dalle donne e basata sui diritti umani e sulle questioni di genere.

Altro podcast di voci (in spagnolo) dall’America Latina è ProComuNicando Ciberfeminismo, un podcast di Marta García Terán che nasce con l’obiettivo di essere un megafono per le voci e le riflessioni di donne che, in America Latina e Caraibi, promuovono azioni, spazi o iniziative cyberfemministe, o che mettono in relazione le tecnologie dell’informazione (Ict) e la comunicazione di genere .

Ma se non parlate spagnolo, portoghese o inglese non disperate. Dall’Italia e in italiano, meritano sicuramente una menzione Macondo, Café Frio e LatinoAmericando.

Il primo è un progetto che Federico Larsenn e Federico Nastasi, due giornalisti latinoamericani (per nascita o per scelta) hanno proposto nel 2021 sulla piattaforma di Treccani. Un percorso in dieci tappe che ha raccontato l’America Latina, smarcandosi da pregiudizi e stereotipi, e avvicinandosi, con serietà e precisione, a questo complessa regione. I due sono già pronti per la stagione 2022 per aiutarci di nuovo a mettere a fuoco un ritratto trasversale di questo subcontinente, alternando voci e protagonisti italiani e latinoamericani.

Il secondo è un progetto portato avanti da Ivanilde Carvalho e Francesco Guerra, nato dalla collaborazione del comitato Italiano Lula Livre e il blog “LatinoAmericando”. Un podcast che vuole offrire uno sguardo sulle principali notizie settimanali dall’America Latina con una speciale lente d’ingrandimento sul Brasile.

Il terzo è un progetto comunicativo all’insegna della cultura, informazione e musica latinoamericana condotto da Gustavo Claros. Uno spazio che nasce nel seno di Radio Cooperativa e che in formato podcast può essere ascoltato sulla principali piattaforme on demand.

proiettili fatti di parole

I podcast stanno cambiando il volto della regione latinoamericana, democratizzando la produzione di contenuti audio e facilitando l’accesso all’informazione anche da parte di chi non gode di una permanente connessione internet. Il fatto poi che possano essere ascoltati in differita e non in un orario specifico li rende più fruibili e la loro diffusione su diverse piattaforme ne aumenta anche l’impatto. Si tratta dunque di un fenomeno che continuerà a crescere, promosso anche da enti statali che sono interessati a intercettare questa nuova frontiera della comunicazione.

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Gli spartiacque delle comunità latinoamericane – 2 https://ogzero.org/gli-spartiacque-delle-comunita-latinoamericane-2/ Thu, 30 Dec 2021 17:24:55 +0000 https://ogzero.org/?p=5713 L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano. Qui Alfredo Somoza sembra accennare a un abbozzo di modello per un nuovo approccio a una politica svincolata da corruzione e commodities, autoritarismo e oligarchie, che già si trovano al centro del suo […]

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L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano. Qui Alfredo Somoza sembra accennare a un abbozzo di modello per un nuovo approccio a una politica svincolata da corruzione e commodities, autoritarismo e oligarchie, che già si trovano al centro del suo libro.Vedremo se quello che troviamo in Siamo già oltre? e accennato qui può svilupparsi in una nuova socialità o rimarrà a livello simbolico.

Sollecitato dalle considerazioni di Diego Battistessa, che ha utilizzato la chiave di lettura delle molte tornate elettorali del continente sudamericano per evocare scenari reali e possibili nel prossimo anno 2022 nel primo di questa coppia di articoli, Alfredo ha immaginato innanzitutto una dicotomia forte tra due concezioni di progressismo, forse mondi altrettanto distanti tra loro dell’abisso che li divide da una destra priva di idee e livorosa, ma che continua a rappresentare istanze neoliberiste provenienti per lo più dall’estero, ma anche collaterali ai mondi sovranisti anche legati alle sette religiose. Un mondo che la sconfitta di José Antonio Kast, ammiratore del boia Pinochet, ha collocato definitivamente nei manuali di storia; un sistema imposto dalle strategie dei gringos e un grimaldello in mano all’ultraneoliberismo, che con le svolte provenienti dai responsi del 2021 viene messo in soffitta… Alfredo Somoza si appresta a immaginare cosa potrà nascere da questo fermento che è sorto dai Movimenti popolari scesi in piazza negli ultimi anni per i diritti negati dal neoliberismo e che insieme alle istanze di emancipazione delle comunità indigene stanno mettendo sotto scacco i fantocci del Fmi.

Anche in questa seconda parte abbiamo intervallato la prosa di Alfredo con podcast raccolti durante l’anno e talvolta inseriti a punteggiare l’e-pub del suo Siamo già oltre?


Le due sinistre sudamericane

L’anno elettorale latinoamericano è stato ricco di appuntamenti molto importanti sia per il loro peso specifico sia per quello simbolico. La prima lettura riguarda la legittimità del processo elettorale. Non sempre sono state rispettate le regole, come nel clamoroso caso del Nicaragua dove il regime guidato da Daniel Ortega ha inscenato elezioni presidenziali senza opposizione. Ma anche buone notizie in questo senso, come le elezioni dell’Honduras, paese nel quale negli anni si sono succeduti colpi di stato e manipolazione dei risultati, e dove ha vinto la candidata della sinistra senza che ci siano dubbi sulla trasparenza del voto. Lo stesso si può dire del Venezuela, dove pare siano state rispettate le regole nelle elezioni amministrative che hanno visto la vittoria del partito di Nicolas Maduro. I segnali più interessanti arrivano però da tre paesi andini, Ecuador, Bolivia e Cile. In Ecuador il candidato della nuova sinistra e dei movimenti indigeni Yaku Pérez non riuscì per 30.000 voti a passare al secondo turno, nel quale l’imprenditore Guillermo Lasso riuscì a battere il candidato correista per 400.000 voti.

Di Ecuador durante l’anno avevamo parlato con Davide Matrone, docente a Quito:
Ne avevamo parlato con Davide Matrone: “Flessibili alle riforme Fmi a Quito | a Guayaquil le gang in carcere sono inflessibili”.

Chiaramente buona parte degli elettori di Pérez non votarono per Andrés Aráuz al secondo turno, anche se di “sinistra”, e questo perché ormai esistono due progetti di sinistra che spesso, come in Ecuador, si scontrano. Una sinistra ormai “tradizionale” e che ha governato a lungo, dai forti tratti populisti, poco ambientalista e lontana dalle minoranze. Sono il correismo ecuadoregno, il peronismo argentino, il post chavismo venezuelano, il Mas boliviano. L’altra nata dalla lotta dei movimenti sociali, minoranze etniche e di genere, ambientalisti, contadini. E lo schieramento di forze che ha sostenuto Pérez in Ecuador, Verònica Mendoza in Perù, che sosterrà Petro in Colombia e che ha fatto vincere Boric in Cile; le due sinistre hanno in comune molti riferimenti culturali, ma una diversa concezione della democrazia. Per i primi, Cuba è legittimata anche a reprimere per tutelare la rivoluzione, per gli altri il diritto a protestare e a opporsi è sacro; per i populisti lo stato deve essere gestore ed erogatore di assistenza senza preoccuparsi dell’economia, per gli altri deve guidare una crescita economica in senso inclusivo; per i primi le denunce di corruzione sono solo un complotto ai loro danni, per la nuova sinistra la politica deve anzitutto avere le mani pulite.

Il Sudamerica dei due progressismi sta velocemente virando di nuovo a sinistra a maggioranza e per il 2022 si prevede che altri due grandi paesi cambino guida: Colombia e Brasile. Se questo sarà confermato resteranno piccole isole di centrodestra in Uruguay, Paraguay ed Ecuador. Rispetto allo scenario precedente simile, quello degli anni 2000, le cose sono però radicalmente cambiate: si sono spenti gli slanci continentali, cioè le ipotesi di creazione di aree di libero scambio e di democrazia multilaterali; si è tornati drammaticamente a dipendere dalle commodities, che tra l’altro in questo periodo hanno subito un calo del loro prezzo internazionale; l’alleanza con la Cina ha indebolito la democrazia e rinforzato i circuiti di corruzione. Il Sudamerica in questa fase non interessa a nessuno, nemmeno agli Stati Uniti di Biden che hanno come unica priorità fermare l’immigrazione centroamericana.

Soprattutto mancano leadership. La politica sudamericana si è rimpicciolita per quanto riguarda la capacità dei nuovi leader. Nel 2022 potremo vedere sorgere forse due nuovi punti di riferimento, Gabriel Boric e Lula da Silva se sarà presidente. Il Brasile isolato da Bolsonaro non è stato solo un danno per se stesso, ma anche per tutto il processo politico sudamericano; il ritorno di Lula alla presidenza potrebbe segnare l’avvio di una nuova fase, ma prima ancora si dovrà dirimere cosa si intende per progressismo e come lo si aggiorna di fronte alle sfide del domani. Da questo punto di vista la lezione boliviana è illuminante: quando Evo Morales forzò la sua stessa costituzione per perpetuarsi al potere, disconoscendo il parere del suo popolo che aveva bocciato la proposta con un referendum, la sua caduta era già scritta. Anzi, quella mossa è stata la miccia che aspettavano i settori golpisti e della estrema destra boliviana per spazzare via dal potere l’esperienza del Mas; quello stesso Mas che con un nuovo candidato, Arce, nel rispetto del dettato costituzionale è tornato al potere a grandissima maggioranza. È questa la morale valida per tutto il continente: quella sinistra sopravvissuta agli anni Settanta, uscita dalle lotte popolari e arrivata al potere grazie alla fine della Guerra Fredda e quindi dei vincoli di schieramento dovrebbe essere paladina della democrazia e della trasparenza, seguendo l’esempio di grandi presidenti come Raul Alfonsin o Pepe Mujica. Non sempre è così, è questo resta uno dei grandi spartiacque irrisolti che comunque non impediscono di vincere e governare in assenza di una destra seria e con un progetto che non sia la tutela dei propri interessi. In America Latina la democrazia, malgrado i problemi enumerati, è solida e la gente vota ormai chi gli somiglia. Grande conquista mai scontata che nel 2022 si consoliderà.

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Gli spartiacque delle comunità latinoamericane – 1 https://ogzero.org/gli-spartiacque-delle-comunita-latinoamericane-1/ Thu, 30 Dec 2021 17:22:22 +0000 https://ogzero.org/?p=5695 L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano. L’idea di usare i molti appuntamenti elettorali del 2021, in prosecuzione nel 2022, per incardinare in un unico flusso i rivolgimenti elettorali a consuntivo dell’anno che sta finendo e in continuità nella prospettiva […]

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L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano.

L’idea di usare i molti appuntamenti elettorali del 2021, in prosecuzione nel 2022, per incardinare in un unico flusso i rivolgimenti elettorali a consuntivo dell’anno che sta finendo e in continuità nella prospettiva dell’anno che verrà, è sorta dalla consueta attenta osservazione di Diego Battistessa sui fenomeni che avvengono nel continente. Abbiamo punteggiato questo rapido excursus individuando le tappe più significative con podcast sugli aspetti che lungo l’anno ci avevano incuriositi e che confermano le scelte di Diego per proporre un’analisi posta anche in dialettica con una parallela esposizione del punto di vista di Alfredo Somoza, focalizzata sull’individuazione delle due sinistre latinoamericane: quella populista-autoritaria e quella trasparente, popolare perché nata dalle pulsioni all’emancipazione dei popoli – anche e soprattutto latinos – e dai Movimenti di rivolta al neoliberismo, che sono al centro della critica all’involuzione del Capitalismo compresa in Siamo già oltre?


Il 2021 elettorale in America Latina e nei Caraibi:
un ritorno della regione a quale sinistra?

Con la vittoria di Gabriel Boric Font le elezioni presidenziali in Cile, la cui seconda tornata elettorale si è svolta il 19 dicembre scorso, chiudono un anno elettorale turbolento nella regione. Cerchiamo di fare il punto di quanto successo e di ciò che ci aspetta per il 2022 prossimo venturo.

L’anno che si sta per concludere è iniziato con un primo importante appuntamento con le elezioni presidenziali in Ecuador, celebratesi il 7 febbraio. L’uscente Lenin Moreno godeva del più basso consenso regionale e i suoi anni di governo si erano caratterizzati per un duro scontro con colui che fu il suo padrino politico: Rafael Correa (ex presidente ecuadoregno 2007-2017). A disputarsi la presidenza del paese andino sono stati il banchiere e imprenditore Guillermo Lasso, il leader indigeno Yaku Pérez e l’economista Andrés Arauz, nuovo delfino di Correa, la cui condanna per corruzione gli ha impedito di candidarsi alla vicepresidenza. La prima tornata elettorale, nella quale si votava anche per il parlamento, ha visto la vittoria schiacciante di Arauz che però non ha superato il 50 per cento dei consensi e ha dovuto quindi affrontare il ballottaggio con Guillermo Lasso: arrivato secondo dopo un polemico testa a testa con Yaku Pérez. L’11 aprile la votazione finale ha ribaltato i pronostici e ha dato la vittoria al banchiere conservatore Lasso, in un voto che si è concentrato principalmente sul correismo o anticorreismo, polarizzando il contesto politico e sociale.

Nel Salvador le elezioni legislative e municipali del 28 febbraio hanno visto la schiacciante vittoria del partito Nuevas Ideas, facente capo al presidente in carica, Nayib Bukele.

Alfredo Somoza ce ne fece un ritratto, mentre i salvadoregni si ribellavano al presidente populista

Ottenendo 56 seggi su 84 in gioco nel Congresso e 152 consigli municipali su 262, Bukele si è assicurato il totale potere politico nel paese centroamericano. Le azioni che hanno seguito a questo nuevo accentramento dei poteri dello stato hanno provocato però duri scontri interni e la critica della comunità internazionale nei confronti del “presidente millenial” del Salvador.

Alfredo Somoza evidenzia le radici comuni di Bukele e Ortega in quell’altra sinistra latinoamericana, riprendendo i fili della insurrezione della popolazione salvadoregna impoverita dal populismo
“Corsi e ricorsi nella storia del Mesoamerica”.

 


La sinistra paternalista delle Ande

Il 7 marzo nella Bolivia del presidente Luis Alberto Arce Catacora, si è votato per le elezioni subnazionali nelle quali la popolazione veniva chiamata a votare per i 9 dipartimenti che compongono lo stato plurinazionale della Bolivia e 336 comuni. Il Mas (Movimiento al Socialismo), partito dell’attuale presidente – e dell’ex presidente Evo Morales –, ha ottenuto la vittoria solo in 3 dipartimenti (Cochabamba, Oruro e Potosí) ma si è affermato in più di due terzi dei comuni: ben 240.

In aprile la scena politica regionale viene accaparrata dal Perù dove, dopo anni di terremoto sociale e politico, si cerca di ritornare a una normalità democratica. Tra i numerosi candidati che si presentano alla sfida presidenziale, sono due persone che rappresentano poli opposti che arrivano al ballottaggio. Si tratta di Keiko Fujimori (figlia dell’ex presidente Alberto Fujimori) del partito di destra Fuerza Popular e del candidato Pedro Castillo, un “signor nessuno” membro del partito di sinistra Perú Libre. Poi il 6 giugno nonostante la dura campagna mediatica contro Castillo, maestro elementare delle zone rurali, portata avanti da Keiko e dai settori conservatori del paese, la sinistra vince. Il Perù rimane con il fiato sospeso perché il risultato ufficiale tarda ad arrivare. Giorni di tensione, ricorsi, frustrazione fino al 19 di luglio, quando finalmente anche Keiko Fujimori si deve arrendere e riconoscere Pedro Castillo come nuovo presidente eletto del Perù.

Del tema dell’estrattivismo peruviano avevamo parlato con Matteo Tortone

 

 

Sempre nel mese di aprile (il 19) il Partito Comunista di Cuba – Pcc conferma il presidente Miguel Díaz-Canel come primo segretario, segnano la fine di un’epoca. Il 16 dello stesso mese infatti, Raúl Castro (89 anni) si era dimesso dalla carica del partito per dare spazio a una nuova generazione di rivoluzionari che potessero portare avanti lo spirito del castrismo. L’isola, ancora sotto embargo, è però oggi scossa dalle proteste di numerosi Artivisti che lottano per ottenere libertà di espressione e contro la repressione politica e sociale del partito unico.


La sinistra costituente spinta dai Movimenti popolari

Aprile avrebbe dovuto essere inoltre il mese storico per le votazioni che in Cile dovevano portare il popolo a scegliere i membri dell’Assemblea costituente ma per l’emergenza Covid-19 il processo elettorale è stato spostato al 15 e 16 maggio. Nella stessa data si sono svolte inoltre le elezioni municipali e quelle dei governatori regionali, previste inizialmente per il 20 ottobre 2020 e rimandate per ben 4 volte. Il risultato è stato un plebiscito per le eterogenee forze politiche della sinistra che hanno ottenuto più di due terzi dei seggi dell’Assemblea e risultati storici come la vittoria della giovane comunista Irací Hassler: eletta sindaco della capitale Santiago.

 Anche in questo caso possiamo affidare al commento di Alfredo Somoza il compiacimento per la svolta cilena:
“Chile despertó y entierra Pinochet”.

Giugno ci porta alle elezioni federali e statali in Messico dove Morena, il partito dell’attuale presidente Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo) ha mantenuto il controllo del Congresso (grazie alle alleanze), perdendo però la maggioranza assoluta. L’obiettivo di Amlo di ottenere una maggioranza qualificata insieme al Pt e al Partito dei Verdi si è vista dunque frustrata chiudendo le porte alle riforme costituzionali che erano l’obiettivo di Morena per i prossimi tre anni di presidenza.

A luglio si è tornato a votare in Cile per le primarie presidenziali e per la prima volta è apparso il nome di Boric, ma soprattutto la regione è stata sconvolta da ciò che succede a Haiti. Nella notte tra 6 e 7 luglio, un commando di 28 persone prende d’assalto la residenza del presidente Jovenel Moïse nel quartiere Pelerin, a Pourt-au-Prince, la capitale del paese. Sette uomini armati entrano nella casa sparando 16 colpi al presidente e ferendo anche sua moglie (che si è finta morta per sopravvivere all’attacco). Il magnicidio fa piombare il paese ancora più nel caos e scopre trame e interessi internazionali che intrecciano Colombia, Ecuador, Usa e il piccolo paese caraibico. Le elezioni presidenziali previste per novembre sono state spostate a data da destinarsi e nel frattempo Ariel Henry, membro del partito Inite (centro sinistra) funge da presidente provvisorio.

Diego Battistessa proprio a luglio commentava così la deriva haitiana:

 


La sinistra populista, dinastica e totalitaria

Il 12 di settembre in Argentina più di 34 milioni di persone sono state chiamate a votare alle primarie aperte simultanee e obbligatorie (Paso) per definire le liste dei candidati che si sarebbero sfidati a novembre per rinnovare metà della Camera dei deputati (127 dei 257 seggi) e più di un terzo del Senato (24 dei 54 seggi). In questo contesto l’opposizione è riuscita ad assestare un duro colpo al partito del presidente Alberto Fernández, vincendo nella provincia di Buenos Aires, principale roccaforte della coalizione di governo, Frente de Todos. La tendenza delle Paso è stata poi confermata nelle elezioni del 14 novembre dove la coalizione dell’opposizione Juntos por el Cambio ha vinto in 13 province, includendo i cinque distretti più popolosi del paese: la provincia di Buenos Aires, la Città Autonoma di Buenos Aires, Córdoba, Santa Fe e Mendoza. In generale, al livello nazionale l’opposizione è riuscita a staccare di ben 9 punti percentuali la colazione di governo, ottenendo quasi il 42% dei voti contro il 33% del Kirchnerismo.

Nel frattempo però, a ottobre si sono tenute le elezioni municipali nei 261 distretti territoriali del Paraguay: elezioni che erano previste per il 2020 ma che causa coronavirus furono rimandate. Il risultato più importante (e anche il più discusso) è stata la rielezione di Óscar Rodríguez, membro del partito di governo (Partido colorado) nella capitale Asunción, nonostante gli scandali di corruzione che lo hanno visto protagonista.

 

Il  7 novembre ci sono state inoltre le elezioni “farsa” in Nicaragua che hanno dato ancora una volta una vittoria “schiacciante” a Daniel Ortega e alla vicepresidente (sua moglie) Rosario Murillo. Dietro questo apparente plebiscito (con dati di astensionismo che si aggirano intorno all’80%) ci sono infatti molteplici violazioni dei diritti umani: una repressione senza precedenti, l’incarcerazione arbitraria (iniziata a maggio 2021) di 39 persone identificate dal regime come opposizione, tra queste sette aspiranti alla presidenza.

Diego Battistessa ci aveva già fatto a luglio un parallelo tra due situazioni di quell’altra sinistra simile a quello descritto da Alfredo Somoza tra Bukele e Ortega, questa volta la incredibile dinastia nicaraguense era posta a confronto con l’eredità castrista

“Las revoluciones desencantadas y socavadas”.

Il 21 dello stesso mese si è tornato a votare in Venezuela, in una votazione dove l’opposizione, anche se ancora frammentata, ha deciso di partecipare (prima volta dal 2018). Il Partito Socialista Unito del Venezuela – Psuv (partito di governo) ha vinto 20 dei 23 governi locali in ballo. All’opposizione invece la vittoria negli stati di Cojedes, Nueva Esparta e Zulia. Ancora una volta queste votazioni hanno suscitato non poche polemiche, anche per le irregolarità registrate dalla delegazione degli osservatori elettorali dell’UE presente sul territorio fin dal 14 ottobre e tornata in Venezuela dopo 15 anni di assenza. I delegati dell’UE sono stati chiamati spie e nemici del popolo venezuelano dallo stesso Maduro, che come se non bastasse, ha invalidato la vittoria del candidato dell’opposizione Freddy Superlano nello stato di Barinas. Qui infatti Superlano, della Mud (Mesa de la Unidad Democrática) ha affrontato sconfiggendolo, il fratello del defunto Hugo Chávez, ovvero Agernis Chávez. Barinas però è anche lo stato che ha dato i natali a Chávez ed è dunque un simbolo trascendentale per la rivoluzione bolivariana. In questo senso, accogliendo il diktat di Maduro, il Tribunal Supremo de Justicia (Tsj) ha informato a fine novembre che le elezioni a Barinas sono state invalidate e che si ripeteranno il 9 gennaio 2022: Superlano non potrà partecipare visto che su di lui esiste un processo amministrativo che gli impedisce di ricoprire cariche pubbliche.


Novembre ha visto poi la prima tornata elettorale delle presidenziali cilene che ha determinato la definizione del ballottaggio tra Boric e Kast, con il quale abbiamo iniziato questo veloce excursus, ma anche le storiche elezioni in Honduras: elezioni che hanno portato alla vittoria della leader di centrosinistra Xiomara Castro. Con una partecipazione del 70% degli aventi diritto, il paese centroamericano ha messo fine a 12 anni di neoliberismo (iniziato dopo il colpo di stato del 2009), dando la presidenza a una donna e sancendo la vittoria dei movimenti sociali e delle organizzazioni che si battono per la difesa dei territori e dei beni comuni.

Su queste due elezioni avevamo fatto il punto con Davide Matrone:

“Cile e Honduras: motivi sociali per confrontare responsi elettorali”.

Il mese si è concluso con un altro avvenimento epocale, ovvero la cerimonia attraverso la quale una giurista, Sandra Mason, è diventata la prima presidente della recente nata Repubblica delle Barbados. La cerimonia attraverso la quale l’isola caraibica ha cambiato il suo status da Monarchia Costituzionale (sotto il Regno di Elisabetta II) a Repubblica è avvenuta il 30 novembre. Un passaggio di consegne che ha coinciso con il 55esimo anniversario dell’indipendenza dell’isola caraibica, avvenuta nel 1966 ma che fino a fine novembre aveva continuato a essere legata alla Corona inglese.

Cosa ci aspetta nel 2022?

Se il 2021 è stato “senza tregua”, anche il 2022 ha davvero molto da offrire in termini di elezioni e processi elettorali.

Come già detto il calendario elettorale vedrà nuovamente a gennaio le elezioni nello stato di Barinas in Venezuela dove, senza troppa immaginazione, verrà dichiarato governatore Agernis Chávez. Il 6 febbraio si sposterà in Costa Rica per le elezioni legislative e presidenziali con una eventuale seconda tornata elettorale prevista per il 3 aprile. Ancora da definire poi le date delle elezioni “comarcali” a Panama ma soprattutto quelle del plebiscito nazionale in Cile per l’approvazione della nuova Costituzione. Inoltre il 2 ottobre si tornerà ancora una volta a votare in Perù per le elezioni regionali e municipali, sempre e quando le azioni di “spodestamento” di Pedro Castillo da parte dell’opposizioni non vadano a buon fine e non aprano la strada a nuovi e incerti scenari politici.

I due appuntamenti salienti però riguardano Colombia e Brasile dove due visioni diverse di società e di mondo si daranno battaglia per la presidenza.

In Colombia quest’anno siamo andati molte volte dapprima, a febbraio, con Ana Cristina Vargas, che poi è intervenuta in voce descrivendo l’insurrezione antiuribista di maggio:

e poi ci ha accompagnato anche Tullio Togni nei suoi vari interventi dal territorio, a giugno e dicembre
“Differenti protagonisti della rivolta colombiana. La necropolitica uribista”.

In Colombia, paese segnato da un processo di Pace che non decolla, da una disuguaglianza sociale in aumento e da interminabili casi di corruzione, violenza e impunità; l’Uribismo (movimento ideologico conservatore che segue la linea del’ex presidente Alvaro Uribe Vélez) dovrà cercare di frenare la sinistra in aumento di consenso. Il presidente uscente, l’uribista Ivan Duque, è stato indicato come il principale colpevole del fallimento degli accordi di Pace siglati da Juan Manuel Santos con le Farc e le proteste iniziate il 28 aprile 2021 hanno sancito la frattura definitiva con il popolo. La credibilità di Duque e la sua popolarità hanno subito dei duri colpi, anche a livello internazionale per i report delle ong e anche dell’Onu, sulle violazioni dei diritti umani perpetrate dagli squadroni antisommossa (Esmad) durante le proteste. In questo senso neanche i successi militari come la cattura del narcotrafficante Otoniel sono serviti a ridare smalto alla figura di Duque che milita nel partito Centro democratico, fondato da Uribe nel 2013.  Dall’altro lato la lista dei precandidati presidenziali continua ad ampliarsi favorendo una frammentazione del voto: a sinistra spicca il senatore Gustavo Petro che proverà per la terza volta a diventare presidente. Le elezioni si svolgeranno il 29 di maggio (prima tornata) con il ballottaggio previsto per il 19 giugno. Prima di quella data ci sarà un altro appuntamento elettorale che servirà per avere il polso della situazione, ovvero le elezioni legislative del 13 marzo.


In Brasile la situazione non solo è complessa ma è anche molto tesa. L’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, una volta superati i “problemi giudiziari” non ha nascosto la volontà di candidarsi per le presidenziali che si svolgeranno in prima istanza il 2 ottobre, con il ballottaggio previsto per il 30 ottobre. Da un lato la sua popolarità è in crescita e dall’altro Jair Bolsonaro, l’attuale presidente cerca di correre ai ripari dopo anni di politiche aggressive, escludenti e negazioniste nei confronti del Covid-19 e dei relativi vaccini. La popolarità di Bolsonaro non gode di buona salute ma nel frattempo il 30 novembre scorso lo stesso Bolsonaro si è affiliato al Partido liberal (destra), pensando a una ricandidatura per il periodo 2022- 2026.

Altre figure di rilievo nel paese hanno annunciato la loro volontà di candidarsi e tra queste spicca sicuramente il nome di Sergio Moro. Moro infatti a novembre scorso si è affiliato al partito di centro Podemos, in vista della partecipazione alle elezioni del 2022, presentandosi come una terza via per il Brasile. La possibile candidatura a presidente di questo ex giudice di 49 anni ha sollevato però non poche polemiche visto che proprio lui aveva diretto in modo non imparziale la mega operazione anticorruzione conosciuta come “Lava Jato” che aveva portato alla carcerazione di Lula. La non imparzialità di Moro, sostenuta a più riprese da molte voci della sinistra brasiliana, è stata sancita in modo definitivo dalla Seconda sezione della Corte suprema del Brasile, che ha dichiarato martedì 23 marzo 2021 che l’ex giudice non ha agito con “imparzialità” in uno dei processi contro l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, le cui sentenze erano già state annullate in precedenza.

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Rimangono pronipoti di schiavi deportati nel Nuovo Mondo? https://ogzero.org/rimangono-pronipoti-di-schiavi-deportati-in-latinamerica/ Fri, 03 Dec 2021 18:42:18 +0000 https://ogzero.org/?p=5497 Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi. La subordinazione e marginalizzazione dei discendenti delle masse di persone […]

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Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi.

La subordinazione e marginalizzazione dei discendenti delle masse di persone africane deportate durante lo schiavismo è rimasto sistema in tutti gli stati in America latina e Caraibi. In questo articolo il quadro di riferimento storico, geografico e culturale quando si parla di America latina e Caraibi comprende il gruppo di paesi considerato dalla Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños – Celac. I paesi membri della Celac sono 33: Antigua e Barbuda, Argentina, Bahamas, Barbados, Belize, Bolivia, Brasile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Cile, Dominica, Ecuador, El Salvador, Grenada, Guatemala, Guyana, Haiti, Honduras, Giamaica, Messico, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Dominicana, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Santa Lucia, Suriname, Trinidad e Tobago, Uruguay e Venezuela


«La popolazione afrodiscendente dell’America latina e dei Caraibi è composta principalmente da discendenti di popoli africani ridotti in schiavitù durante la tratta degli schiavi operata nella regione per quasi 400 anni. Sebbene si tratti di gruppi umani diversi, risultanti dal processo di schiavitù e dalla riproduzione delle disuguaglianze consolidate a partire dalla creazione dei nuovi stati della regione, le popolazioni afrodiscendenti latinoamericane soffrono senza distinzione il razzismo e la discriminazione strutturale. Nonostante il contesto avverso, gli afrodiscendenti hanno resistito e combattuto in modo permanente, riuscendo a posizionare le loro rivendicazioni storiche nelle agende internazionali, regionali e nazionali, principalmente nel secolo attuale. Uno dei corollari di questo processo è il Decennio Internazionale per gli afrodiscendenti istituito dalle Nazioni Unite per il periodo 2015-2024, basato su tre pilastri: riconoscimento, giustizia e sviluppo».

Cepal, 2017

Una persona su quattro in America Latina e nei Caraibi si riconosce come afrodiscendente ma, nonostante ciò, questo gruppo etnico è sicuramente la minoranza più invisibile della regione. Lo certifica tra gli altri, la Banca Mondiale, che in un report del 2018 contabilizza in 133 milioni gli appartenenti alla comunità afrodiscendente presenti nella regione latinoamericana. Sono il Brasile, il Venezuela, la Colombia, Cuba, il Messico e l’Ecuador a concentrare la maggior parte della popolazione afrodiscendente ma, anche in tutto il resto della regione, la presenza dei discendenti di coloro che furono portati in catene nel Nuovo Mondo, è parte dell’eredità storica e culturale nazionale.

Ascolta “People on the Move from Mesoamerica”.

 

Resistere per esistere

Anacaona è stata l’ultima Principessa dei Caraibi e resistente del popolo Taino. Morì nel 1503 a soli 29 anni, dopo una lunga lotta contro il dominio delle flotte spagnole che avevano saccheggiato e messo in schiavitù l’intera popolazione Taino. Condannata a morte, le fu proposto di aver salva la vita se si fosse offerta come concubina in un galeone spagnolo, Anacaona rifiutò e pertanto fu impiccata senza pietà.

Quella delle persone afrodiscendenti con l’America latina è una relazione carnale, costruita sui loro corpi – e con i loro corpi, templi di resistenza immolati alla causa della libertà. Se per le popolazioni indigene parliamo di lotta per la sopravvivenza, nel caso delle comunità afrodiscendenti si aggiunge l’elemento di insorgenza e ribellione che ha caratterizzato il lungo cammino per la conquista del riconoscimento come esseri umani prima e come attori sociali e politici poi.

La tratta degli schiavi in America Latina e nei Caraibi ebbe inizio per sopperire a un massacro perpetrato dai conquistadores nei confronti delle popolazioni indigene. I primi a soccombere di fronte al massivo sfruttamento dei nativi da parte dei nuovi arrivati furono i due popoli indigeni taino e caribe – da cui deriva il nome di Caraibi – e il loro destino si trova ben descritto nel volume di Sebastián Robiou Lamarche Taínos y caribes: Las culturas aborígenes antillanas (Editorial Punto y Coma, 2003). Le Antille spagnole, nome attribuito alle isole dell’arcipelago delle Antille facenti parte dell’impero spagnolo (dal 1492 al 1898) si trasformano fin da subito in una fonte di grande ricchezza per la Spagna e più tardi anche per altre potenze europee.

Durante tutto il periodo della colonia l’espansione capitalista guidata dalle politiche e dagli interessi delle metropoli del vecchio continente si è basata su una crescente e pressante richiesta di mano d’opera da sfruttare per le attività agricole, l’allevamento, i lavori di costruzione, di estrazione di risorse naturali e anche per le guerre. Come già riportato per il caso dei Taino e dei Caribe, la popolazione indigena fu falcidiata in pochi anni dagli incontri/scontri con i colonizzatori a causa della riduzione in schiavitù, dalle malattie importate dal Vecchio Continente e dalle guerre. Il collasso demografico conseguente a questa situazione portò le potenze europee a concentrare la loro attenzione sull’Africa, nello specifico sul Golfo di Guinea, conosciuto tra il XVII e XIX secolo come la Costa degli Schiavi.

Ile de Goré

Una simbolica porta sull’isola di Goré, da dove le imbarcazioni schiaviste salpavano verso il continente americano, trasportando nelle stive un carico di schiavi catturati come manodopera per i campi oltreatlantico (foto scattata nel 1998).

La struttura gerarchica, classista e razzista dell’epoca coloniale determinò fin da subito una posizione di estrema subordinazione della popolazione africana in America Latina e nei Caraibi, posizione assimilabile a quelle delle popolazioni indigene in termini di povertà materiale ed esclusione sociale e politica. Bisogna sottolineare che questa subordinazione non ha avuto termine con la liberazione delle persone afrodiscendenti dalla condizione di schiavi, ma estende la sua ombra fino ai giorni nostri e si manifesta attraverso il razzismo strutturale che relega queste comunità in una situazione di maggiore tasso di povertà, minor accesso all’educazione, minor accesso ai centri di salute, minore accesso al lavoro degno ed esclusione dagli spazi di decisione politica. A questo si aggiunge un elemento di negazione storica della presenza di persone afrodiscendenti nella regione e della loro partecipazione tanto nei processi di liberazione dal potere coloniale così come nello sviluppo sociale e culturale delle nazioni latinoamericane (Cepal, 2017).

Cosa identifica il termine afrodiscendente ?

«Lo studio della popolazione afrodiscendente presenta numerose sfide, a cominciare dalla mancanza di consenso su chi è e chi non è afrodiscendente, anche all’interno dei contesti nazionali. Il termine è stato adottato per la prima volta da organizzazioni regionali di discendenza afro all’inizio degli anni 2000. La parola descrive persone unite da un’ascendenza comune (ma che vivono in condizioni abbastanza dissimili), che vanno dalle comunità afroindigene, come i garífuna del Centro America, fino a enormi segmenti della società maggioritaria, come i pardos del Brasile. Negro, moreno, pardo, preto, zambo e creole, tra i tanti altri, sono termini molto più vicini alle nozioni di razza e relazioni razziali dei latinoamericani. Comunemente, queste categorie hanno stigmi e pregiudizi associati, come risultato di una lunga storia di discriminazione e razzismo. Nella maggior parte dei paesi, l’adozione del termine afrodiscendente è ancora parziale. In Venezuela, la maggioranza della popolazione morena (di razza mista) spesso rifiuta il termine e le sue implicazioni, mentre nella Repubblica Dominicana la maggioranza degli afrodiscendenti di razza mista preferisce identificarsi come indigeni».

(Banca Mondiale, 2018)

Le difficoltà per identificare, mappare e censire le persone di ascendenza africana nei paesi latinoamericani sono legate a doppio filo con la negazione della discriminazione razziale da parte degli stessi, oltre allo storico tentativo di rendere invisibile la pluralità etnica nella regione. Questa volontaria cecità sociale è figlia dell’opera di conseguimento dell’immagine europea di sviluppo e modernità, chimera vissuta dai governi liberali dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento in America latina. In questo schema di emulazione politica e sociale, le popolazioni indigene e gli afrodiscendenti erano visti e interpretati come elementi di disturbo, di arretratezza e di un passato da “pulire” con un’opera di blanqueamiento – lo “sbiancamento razziale”, ovvero quella pratica sociale, politica ed economica utilizzata in molti paesi postcoloniali per raggiungere un supposto ideale di bianchezza. Il termine si origina in America latina e può essere considerato sia in senso simbolico che biologico. Simbolicamente, lo sbiancamento rappresenta un’ideologia nata dalle eredità del colonialismo europeo, descritto dalla teoria della colonialità del potere di Aníbal Quijano, che si rivolge al dominio bianco nelle gerarchie sociali. Biologicamente, lo sbiancamento è il processo realizzato sposando un individuo dalla pelle chiara per produrre una prole dalla pelle non più scura.

Per raggiungere questo scopo venne favorita, da numerosi paesi latinoamericani (basti citare il Venezuela come esempio esplicativo), una massiccia immigrazione di persone dall’Europa: regione vista come culla della civiltà, Mater culturae e fornitrice di intellettualità, creatività, professionalità e soprattutto di pelle bianca. Successivamente, durante il XX secolo e con l’affermazione di identità nazionali fluide e plurali, si diffuse in America Latina la falsa percezione di aver raggiunto una sorta di giustizia sociale multietnica. In quel contesto, l’identificazione di una parte della popolazione come afrodiscendente venne interpretata come un elemento di fomento al razzismo e di conseguenza nessun dato su questa popolazione appariva nelle statistiche latinoamericane. A testimonianza, la Banca Mondiale ci ricorda nel suo report che negli anni Sessanta del XX secolo, solo il Brasile e Cuba includevano delle variabili etniche nei loro censimenti.

È dunque con questa completa mancanza di conoscenza, un vero e proprio abisso statistico a livello demografico e socioeconomico, che i paesi della regione latinoamericana hanno iniziato il terzo millennio. La domanda di chi è o non è afrodiscendente è quindi relativamente nuova e ha acquisito notevole importanza con l’introduzione delle varianti “razziali” nei censimenti nazionali a partire dagli anni 2000. L’autodeterminazione come afrodiscendenti in America latina ha poi ricoperto un ruolo strategico a livello politico, economico e sociale con l’introduzione di un quadro normativo di protezione dei diritti di questa popolazione. In questo scenario, però, si è vista in alcuni casi una perversione legale che ha comportato una nuova forma di discriminazione:

«Con la creazione di quote per gli afrodiscendenti nel mercato del lavoro o nel sistema educativo, per esempio, le persone che sono state escluse nel passato per non essere sufficientemente bianche ora corrono il rischio di essere escluse per non essere sufficientemente nere» (Banca Mondiale, 2018)

Dove vivono le persone afrodiscendenti in America Latina e nei Caraibi

I dati raccolti dalla Banca Mondiale su un totale di 16 paesi della regione latinoamericana parlano di 133 milioni di persone afrodiscendenti, circa il 24% del totale della popolazione. Il Brasile è sicuramente il paese che da solo pesa in modo determinante sulla bilancia demografica, con una popolazione afrodiscendente nel 2015, stimata in 105 milioni di persone. Il Brasile insieme al Venezuela, concentrava all’epoca il 91% della popolazione afrodiscendente della regione e un altro 7% era distribuito tra Colombia, Cuba, Ecuador e Messico. Si evince dunque che le tre aree di concentrazione della popolazione oggetto di studio sono rappresentate dal Brasile, dai Caraibi e dalla costa dell’Oceano Pacifico. Si tratta di una forte eterogeneità determinata dai contesti paese, dalle zone geografiche di residenza e dalla presenza o meno all’interno delle statistiche e dei censimenti nazionali. Ciononostante, la maggior parte delle persone afrodiscendenti della regione condividono non solo le radici africane ma anche una lunga storia di migrazione forzata, oppressione, sfruttamento ed esclusione.

Sono donne, sono afrodiscendenti e stanno facendo la Storia

Ascolta “The importance of being afro”.

 

Il caso più emblematico di questa fine 2021 è sicuramente quello della Repubblica della Barbados, divenuta tale il 30 novembre 2021 con la definitiva separazione dalla corona britannica e l’ingresso nel Commonwealth come repubblica indipendente. A sancire questa transizione storica la nomina del primo presidente dell’isola caraibica, una donna afrodiscendente: Sandra Mason. Un avvenimento dalla enorme simbologia storica, politica, etnica e di rivalsa identitaria. Basti pensare che proprio in un altro territorio inglese caraibico (le Bermudas), vide la luce nel febbraio del 1831, un’opera letteraria unica e che fu determinante per l’abolizione della schiavitù. Si tratta di The history of Mary Prince, a west indian slave written by herselfes, la prima autobiografia scritta da una donna nera schiava originaria delle Bermudas e di nome Mary Prince. Il libro ebbe un impatto enorme non solo in Inghilterra e fu un elemento fondamentale per la promozione dell’abolizione della schiavitù nelle colonie britanniche avvenuta nel 1833 con lo Slavery Abolition Act.

Un documento considerato come un referente della letteratura nera africana delle colonie e che valse a Mary Prince il riconoscimento come una vera e propria eroina delle Bermudas. Il 26 ottobre 2007, per la ricorrenza del 200° anniversario dell’abolizione della tratta degli schiavi (Slave Trade Act del l807) , nella casa in cui Mary Prince visse a Londra nel 1829, venne scoperta una targa in suo onore. La targa recita: “Mary Prince, 1788-1833, la prima donna africana a pubblicare le sue memorie di schiavitù visse in questa casa nel 1829”.

Passato e presente che si intrecciano dunque, in un cammino dove la geografia della resistenza chiude circoli a distanza di generazioni, traccia linee leggibili solo se osserviamo da una certa distanza, a volte di secoli, il quadro originale.

Sandra Mason è però solo l’ultimo tassello di un movimento eterogeneo e trasversale, che vede le donne afrodiscendenti della regione giocare un ruolo centrale nella riscoperta, rivendicazione e posizionamento nelle agende nazionali e internazionali del peso identitario della loro comunità. Da diversi campi d’azione donne come Gessica Geneus,

La regista haitiana di Port-au-Prince ha fatto sentire a Cannes il valore della lingua creola con il suo film Freda, sul coraggio delle donne del suo paese. Film inserito anche nella sezione lungometraggi di finzione del Fespaco di Ouagadougou in Burkina Faso.

la cantante Rihanna; Robyn Rihanna Fenty, nata a Bridgetown, è stata dichiarata “eroina nazionale” di Barbados proprio il 30 novembre giorno della proclamazione della Repubblica delle Barbados per aver, secondo le parole della primo ministro Mia Mottley: “l’immaginazione nel mondo attraverso la ricerca dell’eccellenza con la sua creatività, la sua disciplina e, soprattutto, il suo straordinario impegno per la sua terra”.

 

 

 

la compianta Marielle Franco, Politica e attivista afrobrasiliana assassinata il 14 marzo 2018 da sgherri coperti da organismi della polizia.

 

Shirley Campbell Barr, la poetessa afrodiscente del Costa Rica, autrice della poesía “rotundamente negra”.

 

l’attivista per la difesa della natura e politica afrocolombiana Francia Elena Márquez Mina

gli ori olimpici di Tokyo 2020 Neisi Dajomes (Ecuador), Jasmine Camacho-Quinn (Porto Rico), Elaine Thompson-Herah (Giamaica), Yulimar Rojas (Venezuela), l’attivista e ballerina afrobrasiliana Tuany Nascimento tra le altre centinaia, continuano a costruire una narrazione alternativa che passa per un epistemologia nuova, inclusiva e sgombra della colonialità del potere.

La colonialità del potere è un concetto che mette in relazione le pratiche e le eredità del colonialismo europeo negli ordini sociali e nelle forme di conoscenza, avanzate negli studi postcoloniali, sulla decolonialità e negli studi subalterni latinoamericani, in particolare da Anibal Quijano. Identifica e descrive l’eredità vivente del colonialismo nelle società contemporanee sotto forma di discriminazione sociale che è sopravvissuta al colonialismo formale e si è integrata negli ordini sociali successivi. Il concetto identifica gli ordini gerarchici razziali, politici e sociali imposti dal colonialismo europeo in America Latina che prescriveva valore a determinati popoli/società mentre ne sminuiva o invisilibizzava altri.

 

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Il Camaleonte di Managua https://ogzero.org/il-camaleonte-di-managua-si-arricchisce-il-dossier-nicaraguense/ Sat, 07 Aug 2021 19:48:50 +0000 https://ogzero.org/?p=4465 Dopo lo sguardo su Haiti – post Moïse – e Cuba – dopo le proteste di luglio – di cui ci ha parlato Diego Battistessa, già ponendo in relazione L’Havana con Managua, riprendiamo il dossier nicaraguense con Alfredo Luis Somoza, che ci avvicina alle elezioni di novembre, fornendo un ingrandimento del ritratto di famiglia della […]

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Dopo lo sguardo su Haiti – post Moïse – e Cuba – dopo le proteste di luglio – di cui ci ha parlato Diego Battistessa, già ponendo in relazione L’Havana con Managua, riprendiamo il dossier nicaraguense con Alfredo Luis Somoza, che ci avvicina alle elezioni di novembre, fornendo un ingrandimento del ritratto di famiglia della dinastia Ortega-Murillo.

Sono più di 30 i detenuti in Nicaragua in vista delle elezioni del 7 novembre. Ortega usa la detenzione per eliminare concorrenti a rendere perpetuo il suo potere: infatti 7 di questi sono candidati alle presidenziali: Cristiana Chamorro Barrios, Félix Maradiaga, Arturo Cruz, Juan Sebastián Chamorro, Medardo Mairena, Miguel Mora e Noel Vidaurre. Gli altri sono leader dell’opposizione, come la Comandante 2 (Dora Marìa Téllez, protagonista della Rivoluzione) e del Movimento Campesino, tutti “traditori della patria” in base alla Ley de Defensa de los Derechos del Pueblo a la Independencia, la Soberanía y Autodeterminación para la Paz… ma il vero tradimento degli ideali che, cacciando Somoza, rinverdirono le speranze rivoluzionarie di Tierra y libertad è quello perpetrato dal Danielismo ai danni del Sandinismo.


Perpetuarsi alleandosi col peggior Spirito del Tempo

La storia politica di Daniel Ortega è unica nel suo genere. Dopo avere guidato l’unica rivoluzione vincente che ha mantenuto in vita il pluripartitismo, convocato elezioni, perso e consegnato il potere ai vincitori, ha iniziato una seconda vita politica che lo vede ancora al potere nel piccolo Nicaragua. E questo perché il camaleontico Ortega ha saputo adoperare una retorica e una pratica politica sempre adeguata ai tempi, oltre a essere diventato maestro della manipolazione, dell’uso politico della corruzione e della repressione.

Quando Maggie Thatcher proibì la parola e Sandinista fu titolo per i Clash

Negli anni Sessanta, dopo essere passato dal Collegio dei Gesuiti, Daniel diventa guerrigliero e sale man mano nella gerarchia del Fronte Sandinista fino a diventare Presidente della Giunta rivoluzionaria che si insedia al potere, davanti al Vescovo di Managua, nel 1979. Un governo di unità nazionale antidittatura con appartenenti a tradizioni diverse, dai cattolici ai marxisti, passando anche dalle grandi famiglie illuminate come i Chamorro. Il governo sandinista, confermato dalle urne nel 1984 dovrà fare fronte a un’aggressione militare ed economica con pochi precedenti. Gli Stati Uniti finanziano e armano clandestinamente la cosiddetta “contra”, che inizia una guerra armata contro il governo, e sabotano l’economia del paese fino a minarne i porti, azioni per le quali gli Usa vengono condannati dal Tribunale dell’Aia nel 1986.  Malgrado la situazione, e a dimostrazione di quanto la rivoluzione sandinista fosse principalmente un movimento radicale contro la dittatura ma restasse nel campo democratico, nel 1990 si torna al voto e vince la coalizione antisandinista messa insieme da Violeta Chamorro, già membro della prima giunta rivoluzionaria e proprietaria del più importante quotidiano del paese, “La Prensa”.

Masnada di mercenari Contras, reclutati dagli Usa per contrastare la rivoluzione sandinista

Tierra y… piñata

Il risultato viene riconosciuto e il potere consegnato, ma nella fase di transizione già si può notare la trasformazione in corso nell’entourage di Ortega con la cosiddetta” piñata”, cioè la spartizione di terre e aziende tra alcuni capi della rivoluzione in base a due leggi approvate ad hoc. Erano beni confiscati soprattutto, ma non solo, alla dinastia dei Somoza rovesciata dai sandinisti e poi nazionalizzate. Ortega stesso diventa proprietario terriero lungo il fiume San Juàn al confine con il Costa Rica. Si calcola che il valore di quanto accaparrato dai dirigenti sandinisti sconfitti fosse di 1,3 miliardi di dollari. E non stavano rubando ai ricchi latifondisti, stavano rubando allo stato nicaraguense. Con la piñata [la Pentolaccia] si chiude la stagione del sandinismo storico che si divide in due tronconi, i dirigenti ed ex guerriglieri che tentano di mantenere in vita gli ideali di Sandino e il “danielismo”, cioè il gruppo di potere che si forma attorno a Ortega e che lo accompagnerà nelle piroette degli anni successivi. Centrale in questa costruzione sua moglie, Rosaria Murillo, che difese Ortega dall’accusa di violenza sessuale ai danni di sua figlia (di un precedente matrimonio) Zoila América. Ortega non fu mai processato per questo reato grazie all’immunità parlamentare.

La dinastia: infrastrutture e petrolio
Nicaragua Canal

Lotta contro il canale pianificato da Ortega e voluto dai cinesi per rivaleggiare con quello di Panama

Dopo il ritorno alla fede, la nomina a deputato a vita per sfuggire al processo per stupro e una virata politica pro mercato, nel 2006 Ortega torna al potere vincendo regolari elezioni, ma solo con il 38% dei consensi. Il camaleonte Ortega aveva però cambiato ancora pelle, il ritorno al potere era stato agevolato dal Patto celebrato con il suo arcinemico ai tempi della Rivoluzione, l’imprenditore José Arnoldo Alemán Lacayo, con il quale condivise le riforme che da un lato avrebbero permesso ad Alemàn di tentare di scampare alla giustizia per corruzione, ma dall’altro abbassavano la soglia percentuale per vincere le elezioni al 35%. Un calcolo quasi matematico rispetto al risultato delle presidenziali. Nel 2011 vince ancora le elezioni con un sospetto 62% dei voti e vengono bloccati ai seggi molti osservatori nazionali e internazionali che non possono verificare la trasparenza del voto. Il suo governo pianifica la costruzione di un Canale che rivaleggi con quello di Panama, costruito dai cinesi, e alla testa del consorzio viene nominato suo figlio Laureano. Al figlio maggiore Rafael viene invece affidata la direzione dell’ente nazionale degli idrocarburi. Altri fratelli e sorelle controllano canali di televisione e giornali. Ormai gli Ortega sono una dinastia familiare al potere, come i Somoza che avevano rovesciato nel 1979.

 

La cleptocrazia a trazione famigliare ammantata di falso bolivarismo

Hugo Daniel Fidel… todas la iglesias están con el

Il Nicaragua di Ortega ha bisogno di ossigeno e alleanze e fa diplomazia a tutto campo, inserendosi nel gruppo dei paesi dell’Alba, la alleanza bolivariana promossa da Hugo Chávez insieme a Cuba, Bolivia e Venezuela. Scelta che lo porta anche a stringere rapporti con Russia, Cina, Siria, Iran. Il camaleonte di Managua si vende internazionalmente come un progressista e antimperialista di ferro, ma in realtà è a capo di una cleptocrazia a gestione familiare che sopravvive grazie alle alleanze spericolate sottobanco con i peggiori settori del mondo dell’industria e della finanza nazionale. Senza dimenticare i forti sospetti di rapporti con il potente mondo del narcotraffico che però non sono mai stati dimostrati con certezza.  Nel 2016 vince ancora le elezioni, questa volta con il 72%, in un crescendo ininterrotto di consensi.  La vicepresidente ora è Rosaria Murillo, sua moglie, e durante la campagna elettorale era avvenuta un altro mutazione del camaleonte, diventato icona new age con slogan tipo “l’allegria di vivere in pace” o ”amore per Nicaragua”. Si registra anche l’avvicinamento del cattolico Ortega al mondo delle chiese evangeliche, ormai pedine imprescindibili per vincere in Centro America. Il paese soffre e resta ancorato agli ultimi posti del continente per povertà, circa il 40% dei nicaraguensi si trovano sotto la soglia considerata minima per vivere dagli organismi internazionali.

Libertad y muerte
Consciencia despierte

Il 19, 20 e 21 aprile 2018 la capitale Managua e altre città del paese, come León, divennero teatro di una repressione senza precedenti. La polizia in tenuta antisommossa, coadiuvata da paramilitari, sparò ad altezza uomo, per uccidere: il quindicenne Álvaro Manuel Conrado Dávila (Alvarito) morì colpito alla gola da un proiettile. (Diego Battistessa)

Nel 2015 e poi nel 2018 si registrano grandi manifestazioni contro il clan Ortega. Il motivo è una riforma previdenziale sancita senza sentire le parti che viene fortemente contestata dai lavoratori con il sostegno degli studenti universitari. La repressione diventerà brutale, addirittura vengono violate le chiese dove si rifugiano i manifestanti. La Commissione Interamericana dei Diritti Umani certifica che i morti per la repressione sono stati 328, centinaia i detenuti e i licenziati dal pubblico impiego, 88.000 gli esuli fuggiti all’estero.

Il governo Ortega diventa definitivamente regime quando rifiuta l’arrivo nel paese di una missione con il compito di verificare i fatti. Viene istaurato uno stato di polizia e cominciano a essere perseguitati i giornalisti, ma soprattutto si moltiplicano le leggi che dovrebbero preparare il terreno per l’ennesima rielezione di Ortega del prossimo 7 novembre. Come quella che inibisce le candidature delle persone che si siano manifestate a favore delle sanzioni applicate dagli Usa ai congiunti del presidente, oppure quell’altra che considera le persone che abbiano ricevuto finanziamenti dall’estero per le loro attività politiche o culturali alla pari di agenti stranieri. Ciliegina sulla torta: la legge sui cyber-reati colpisce la libertà di espressione. Questo combinato disposto di repressione e legislazione da regime ha portato nelle ultime settimane all’arresto e all’inibizione a candidarsi dei principali leader dell’opposizione, sia di destra che di sinistra, includendo alcuni personaggi storici della rivoluzione sandinista come la “Comandante 2”, Dora Marìa Téllez. Il Nicaragua si avvicina quindi nel modo peggiore alle elezioni del 7 novembre, alle quali non saranno ammessi candidati fastidiosi, non saranno controllate da nessuno e si svolgeranno in un paese senza più libertà di stampa e nel quale non si è mai riusciti a conoscere la situazione determinata dalla pandemia. Il Nicaragua, dopo 42 anni dalla fine del somozismo, è tornato a essere un paese governato da un regime corrotto e repressivo gestito da un clan familiare. Lo stesso scenario che portò a ribellarsi sia Augusto César Sandino nel 1926 sia i sandinisti nel 1979. La storia politica del camaleonte Ortega è unica in America Latina proprio per questo dato, da comandante di una rivoluzione contro l’ingiustizia e il totalitarismo a ricco e corrotto gestore di un regime che ha portato indietro nel tempo il Nicaragua, fino alla prossima ribellione.

“Danielismo: Dinastia y Libertad”.

En época de revolución, nada tiene más fuerza que la caída de los símbolos
(«In times of revolution nothing is more powerful than the fall of symbols», Eric J. Hobsbawm, The Age of Revolution, 1789-1848)

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Haiti: l’ordine è di uccidere il Presidente https://ogzero.org/haiti-lordine-e-di-uccidere-il-presidente-moise/ Mon, 19 Jul 2021 00:28:22 +0000 https://ogzero.org/?p=4286 Le circostanze che hanno portato alla morte del presidente haitiano Jovenel Moïse sono misteriose, ma soprattutto coinvolgono moltissime diverse realtà e potenze locali (gli appetiti di famiglie avversarie dell’imprenditore bananiero e le ambizioni delle cariche più eminenti), come di interessi e strategie internazionali, non ultimi gli Usa di Biden, la cui considerazione del cortile di […]

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Le circostanze che hanno portato alla morte del presidente haitiano Jovenel Moïse sono misteriose, ma soprattutto coinvolgono moltissime diverse realtà e potenze locali (gli appetiti di famiglie avversarie dell’imprenditore bananiero e le ambizioni delle cariche più eminenti), come di interessi e strategie internazionali, non ultimi gli Usa di Biden, la cui considerazione del cortile di casa non si discosta da quella del suo predecessore, come si evince dalla persistenza delle restrizioni all’embargo contro Cuba volute da Trump. Ci sembrava importante gettare uno sguardo sul mar dei Caraibi in occasione di questo omicidio eccellente, perpetrato utilizzando milizie riconducibili al bacino di paramilitari colombiani addestrati dalle forze più retrive del continente… ci sono abbastanza premesse per rivolgerci a Diego Battistessa che da anni si occupa con disincanto e passione a comprendere gli eventi di quello scacchiere internazionale.

 

Proprio quando pensavamo che la situazione geopolitica della regione latinoamericana e dei Caraibi avesse ormai già raggiunto il punto di massima frizione, è arrivato il 7 luglio il magnicidio del presidente della Repubblica di Haiti, Jovenel Moïse. Presidente contestato che stava promuovendo un referendum per riformare la Costituzione ed avere la possibilità di rimanere al potere. Questo gli era valso lo scontro aperto con la Corte Suprema di Giustizia del Paese e l’osteggiamento dell’opposizione politica che dava il suo mandato per terminato il 7 febbraio scorso.

Si tratta di un fatto gravissimo che attenta alle fondamenta istituzionali del paese caraibico e che apre degli scenari complessi sia a livello nazionale che a livello regionale. Almeno cinque i paesi coinvolti nell’assassinio del presidente: Haiti ovviamente, ma indirettamente anche Stati Uniti, Colombia, Ecuador e Venezuela.

Ascolta “Haiti. La sulfurea anima noire dell’isola di Santo Domingo” su Spreaker.

 

Il magnicidio

Nella notte tra 6 e 7 luglio, un commando di 28 persone ha preso d’assalto la residenza del presidente di Haiti Jovenel Moïse nel quartiere Pelerin, a Pourt-au-Prince, la capitale del Paese. Sette uomini armati sono entrati nella casa sparando 16 colpi al presidente e ferendo anche sua moglie (che si è finta morta per sopravvivere all’attacco), mentre gli altri mercenari presidiavano il perimetro. Fin da subito è emerso che gli assalitori tra di loro parlavano spagnolo e questo ha fatto capire che si trattava di stranieri. L’assalto è avvenuto all’una di notte e per il 53enne Moïse non c’è stato scampo. Nello scontro a fuoco successivo tra il commando e le forze dell’ordine haitiane, 3 assalitori sono stati abbattuti e 18 catturati. Si tratta in maggioranza di ex militari colombiani che sarebbero stati assunti e armati da una compagnia statunitense di proprietà di un venezuelano (Antonio Intriago), grazie a fondi provenienti da una compagnia di investimento ecuadoriana (rappresentata da Walter Veintemilla).

 

I presunti autori intellettuali dell’omicidio

Venerdì 16 luglio il generale della polizia nazionale colombiana, Jorge Luis Vargas Valencia, ha reso noti i risultati delle indagini che indicano uno dei supposti mandanti intellettuali dell’omicidio di Jovenel Moïse. Si tratta di Joseph Felix Badio, un ingegnere vincolato da anni a funzioni pubbliche di rilievo dentro l’apparato statale haitiano. Badio aveva lavorato al Ministerio di Giustizia di Haiti fino al marzo del 2012, momento nel quale venne assegnato all’Unità Anticorruzione (Ulcc) in qualità di coordinatore delle operazioni del Servizio Generale dell’Intelligence. La carriera dell’ingegnere haitiano ha subito però una brusca interruzione proprio all’inizio di questo 2021, precisamente il 17 marzo, quando è stato rimosso dall’incarico per gravi violazioni etiche che includevano anche la corruzione. A oggi Joseph Felix Badio risulta latitante e la polizia colombiana gli imputa i delitti di omicidio, tentato omicidio e possesso illegale di armi.

A Haiti l'ordine è di uccidere il Presidente

Badio avrebbe collaborato con colui che è considerato la vera mente del magnicidio, il medico statunitense di 62 anni, Christian Emmanuel Sanon. L’uomo pianificava di diventare il prossimo presidente di Haiti e sarebbe stato lui a contattare l’impresa statunitense di sicurezza privata CTU Security. Sanon è stato arrestato a Haiti nel fine settimana successivo all’omicidio di Moïse e nella casa dove la polizia lo ha trovato, è stata rinvenuta una consistente quantità di armi e munizioni. Il medico statunitense di origine haitiana si dichiara però innocente e afferma di non aver mai saputo della presenza delle armi e delle munizioni nella casa. Sanon, pastore evangelico che si divide tra la Florida e Haiti, è stato coinvolto in un’intensa attività umanitaria in occasione del terremoto del 2010 ed è sempre stato un forte critico della classe politica dirigente dell’isola, da lui tacciata come irresponsabile e corrotta (come dimostra un suo video del 2011). Un’indagine del “The Washington Post” colloca però Sanon al centro di una trama chiamata “Save Haiti” nata in una riunione del 12 maggio scorso a Fort Lauderdale (Florida), che prevedeva come punto finale la sua ascesa a presidente. In quella riunione avrebbero partecipato anche Intriago e Veintimilla dando inizio a una operazione del valore complessivo di 860.000 dollari per coprire contratti, munizioni, armi e viaggi del personale di sicurezza.

Elemento di collante tra gli autori intellettuali, il commando, l’impresa di sicurezza statunitense e la compagnia che ha finanziato  la maggior parte dell’operazione, sarebbe stato Dimitri Hérard, ex capo della sicurezza del presidente Moïse e arrestato il 14 luglio dalla polizia haitiana. Hèrard è l’uomo che ha viaggiato negli ultimi mesi tra Ecuador, Colombia, Haiti e Repubblica Domenicana per unire il puzzle che ha portato ai fatti del 7 luglio.

Il commando che ha realizzato il magnicidio

A Haiti l'ordine è di uccidere il Presidente

Il commando che ha portato a termine l’omicidio del presidente di Haiti Jovenel Moïse e ha ferito gravemente sua moglie, Martine (che ora sta recuperando in una clinica di Miami), sarebbe stato composto da 28 integranti: 2 haitiani (con nazionalità statunitense) e 26 colombiani. Lo ha rivelato León Charles, direttore della polizia di Haiti, che ha fornito anche i nomi degli assalitori haitiani, James Solages e Joseph Vincent. I due però avrebbero fatto solo da interpreti, convinti che l’operazione si sarebbe limitata al sequestro/arresto di Moïse, mentre i responsabili di campo dell’operazione militare sarebbero due colombiani. Si tratta del sergente ritirato dell’esercito Duberney Capador e del capitano ritirato dell’esercito Germán Rivera. Capador, 40 anni, rimasto ucciso nei momenti successivi all’assalto dalla polizia haitiana mentre Rivera è stato catturato e arrestato. Del commando oltre agli haitiani già identificati e arrestati, la polizia è riuscita ad identificare 21 colombiani (18 arrestati e tre uccisi nello scontro a fuoco) mentre 5 colombiani rimangono latitanti. Capador e Rivera avrebbero riunito gli altri membri colombiani del commando, offrendo loro, secondo quanto emerso finora dalle indagini, un lavoro da bodyguard per Sanon, da 3000 dollari al mese. Il finanziamento per le operazioni e i costi legati al commando, sarebbe arrivato dalla compagnia Worldwide Capital Lending Group, di proprietà dell’ecuadoriano Walter Veintemilla, mentre armi e munizioni sarebbero state fornite dall’impresa di sicurezza privata CTU Security, con sede nel Doral (Miami, Florida) e vincolata al controverso personaggio venezuelano Antonio Intriago.  Worlwide Capital Lending Group avrebbe coperto i costi di viaggio da Miami a Haiti di parte dei mercenari, oltre ai costi di mantenimento dei membri del gruppo che già si trovavano in Repubblica Domenicana da maggio scorso. A giugno Badio avrebbe contattato i capi colombiani del gruppo e comunicato loro che l’ordine era quello di arrestare Moïse per salvare il paese dal tracollo politico e dalla violenza. Tre giorni prima dell’operazione però, ancora Badio avrebbe tenuto una conversazione con Capador e Rivera (della quale sarebbe stata informata anche CTU Service di Intriago) cambiando l’ordine di sequestro con quello di assassinio.

Gli scenari che si aprono sull’isola

Il 23 luglio si celebreranno i funerali di Jovenel Moïse in un paese sommerso dalla violenza, l’incertezza istituzionale e un vuoto di potere senza precedenti.

A Haiti l'ordine è di uccidere il Presidente

In quello che sembra un caos senza fine ora potrebbe succedere davvero di tutto visto che anche Claude Joseph, attuale discusso presidente facente funzioni, è stato accusato di aver partecipato al magnicidio. Lo stesso presidente interino (appoggiato dall’Onu e dagli Usa) ha però minimizzato dichiarando che saranno le indagini a scagionarlo. Joseph era appena stato licenziato da Moïse poco prima del suo assassinio e proprio il 7 luglio avrebbe dovuto giurare come nuovo primo ministro Ariel Henry. La cerimonia è stata ovviamente sospesa e così si è creato un dibattito istituzionale su chi realmente debba assumere la presidenza in qualità di primo ministro legalmente riconosciuto. Il legittimo successore alla presidenza, considerando che il parlamento era stato sciolto a gennaio 2020, avrebbe dovuto essere il presidente della Corte suprema di giustizia, René Silvestre, morto però poche settimane fa per Covid-19. A rendere ancora più complessa la situazione ci si è messo l’annuncio del senato haitiano del 9 di luglio, che ha designato in autonomia Joseph Lambert come il nuovo presidente interino.

Riguardo alle indagini, a oggi sono state arrestate 23 persone per l’omicidio di Jovenel Moïse, dei quali 18 ex militari colombiani e 5 cittadini haitiani-statunitensi. Inoltre sono state applicate misure cautelari a 24 agenti e responsabili dell’unità di sicurezza presidenziale.  Nel frattempo Marta Lucía Ramírez, vicepresidentessa e ministra degli esteri di Colombia ha assicurato che i militari colombiani non sono dei mercenari, cercando di difendere la figura delle forze armate colombiane che però sia dentro che fuori dal paese vedono la loro immagine sempre più compromessa.

Gli Stati Uniti d’America risultano coinvolti su più fronti, non solo per i movimenti di Sanon in Florida, l’impresa CTU service con sede nel Doral e la cittadinanza statunitense di 5 degli arrestati. Da chiarire anche l’eventuale partecipazione della Dea (Drug Enforcement Agency) visto che uno degli haitiani-statunitensi arrestati aveva lavorato in precedenza per l’agenzia e che in casa di Sanon sarebbe stato rinvenuto un cappello con il logo della Dea. Inoltre sono ormai centinaia gli haitiani che hanno preso d’assedio in questi giorni l’ambasciata Usa nel paese caraibico, per chiedere un visto che gli permetta di scappare da quello che sembra sempre di più un inferno in terra.

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Ayotzinapa, sei anni fa se li sono presi vivi https://ogzero.org/la-realta-distopica-della-necropolitica-e-il-potere-di-decidere-chi-deve-vivere-o-morire/ Sun, 27 Sep 2020 17:06:05 +0000 http://ogzero.org/?p=1280 Sei anni dopo la strage dei normalistas di Ayotzinapa il governo messicano riconosce gli insabbiamenti e arresta 70 militari, considerandoli responsabili per i fatti avvenuti a Iguala il 26 settembre 2020. Miguel A. Cabañas ha incastonato in un suo lungo saggio quella collusione di apparati militari, magistratura, politici corrotti e cartelli della droga, riconducendola alla necropolitica che affonda le sue radici nel neoliberismo e nel saccheggio del territorio, delle risorse e della manodopera da parte delle multinazionali, ottenendo una società dispotica animata dall'horrorismo

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War on drugs e repressione di classe

Il potere di decidere chi deve vivere o morire: «La guerra alle droghe rappresenta un importante dispositivo di controllo sociale per i governi nazionali. Il massacro di Apatzingán o il caso di Ayotzinapa in Messico e il Plan Colombia sono tra i più chiari esempi della commistione fra guerra alle droghe e repressione sociale… è ben più di una lotta contro i signori della droga: essa rappresenta oggi uno strumento cardine nelle politiche interne, nonché la più importante strategia per garantire la presenza economico-militare degli Stati Uniti in America Latina». Così Ana Cristina Vargas nel 2017 riassumeva il brodo di coltura geopolitico in cui  si è potuta consumare la notte da incubo di Iguala, facendo risalire alla Necropolitica la causa di questo massacro tra i più famosi per efferatezza nella travagliata storia contemporanea della federazione messicana, soltanto perché il caso Ayotzinapa ha ottenuto la dovuta attenzione da parte della stampa internazionale mettendo radici nella coscienza messicana perché ha scoperchiato i meccanismi del controllo mediatico e ufficiale prodotti in Messico.

Il ricordo degli studenti di Ayotzinapa è ancora tenuto vivo dai genitori dei 43 normalistas torturati, uccisi e ridotti in cenere nella collusione tra potere politico, cartelli del Guerrero e longa manus militare. Una strage avvenuta il 26 settembre 2014 a Iguala, per la quale il 27 settembre 2020 si sono viste migliaia di persone riversarsi nello Zocalo del DF per chiedere una verità accettabile. Questo ha smosso il procuratore Omar Gómez Trejo a dichiarare che sono stati spiccati 70 ordini di cattura ai danni di militari e magistrati dell’epoca (e 34 eseguiti), mentre Andrés Manuel López Obrador ha alluso a una falsa verità sostenuta dal governo precedente di Enrique Peña Neto

Amlo, presidente del Messico

Ma qual è lo sfondo su cui scorrono le immagini di Iguala e in che contesto deve affondarsi l’analisi di quella Necropolitica che continua a ispirare i rapporti coloniali tra le due sponde del Rio Bravo / Rio Grande? Proponiamo qui alcuni brani tratti dal volume Narcos del Norte, pubblicato nel 2017 per la collana di Orizzonti geopolitici di Rosenberg & Sellier. [OGzero]


Neoliberismo e Necropolitica

di Miguel A. Cabañas

La Guerra alle droghe fin dal suo concepimento nel xx secolo non ha ottenuto di eliminare l’insaziabile brama del consumo di stupefacenti. Si può anzi sostenere facilmente come la politica della droga abbia paradossalmente stimolato la produzione, il consumo e l’intervento di contrasto. Sappiamo che già molti hanno prestato la propria voce a criticare le sue conseguenze, la sua inefficacia, l’interminabile repressione che ne deriva. Però la politica non è cambiata, al contrario si è intensificata. Anche la Guerra alle droghe si è modificata entrando in contatto con un altro tipo di conflitti: la Guerra Fredda o quella al terrorismo. È cominciata come una metafora politica e adesso si è trasformata in una “guerra reale” in cui l’esercito e la sua tecnica nell’uccidere son stati resi accessibili e comuni, anche per le strade delle città. Nel XXI secolo il Messico sta patendo le conseguenze di questa “guerra aperta” tra lo stato e il narcotraffico. Questo, tuttavia, è più complesso di quanto i mezzi di comunicazione cerchino di farci credere. Non è una guerra tra buoni e cattivi, e neppure uno stato di belligeranza “legale”; i protagonisti che rimangono esterni al quadro sono le multinazionali che stanno approfittando delle riforme neoliberiste messicane. Come si vedrà in seguito la guerra si concretizza contro la popolazione messicana più debole, contro gli indifesi che non detengono alcun accesso al “monopolio dalla violenza”.

La violenza, secondo Antonio Gramsci, è uno strumento di dominio di una classe sopra le altre ed è anche usata per ottenere il consenso dei governati, al fine di istituire la propria egemonia. Perciò non ci si può esimere dall’intendere il fenomeno della violenza se non contestualizzandolo nei mutamenti neoliberisti avvenuti in Messico e nell’ascesa di un nuovo genere di capitali di provenienza illecita che prendono parte alla lotta per il potere. Come ci ricorda Pierre Bourdieu: «Ogni esercizio della forza è accompagnato da un discorso che mira a legittimare la forza di colui che lo esercita; si può addirittura affermare che la particolarità di ogni rapporto di forza consiste nel dissimularsi come rapporto di forza e di esprimere tutta la sua forza soltanto nella misura in cui riesce a dissimularsi come tale». L’attuale Guerra alle droghe viene pensata come tentativo di legittimare la violenza che nasce dalla svolta neoliberale e nel contesto storico della crisi di legittimazione patita da Felipe Calderón. Non possiamo tralasciare il fatto che il tessuto legato all’accordo strategico Iniziativa Mérida alimentato dal governo di George W. Bush si presenta nell’ambito della convergenza di interessi di entrambi i paesi e dei risultati del Plan Colombia, il cui scopo era rendere questo paese stabile secondo i parametri neoliberisti e il Trattato di libero commercio ratificato nel 2007 tra Stati Uniti e Colombia e approvato dal Congresso statunitense nel 2011. Il Plan Colombia fu approvato negli Stati Uniti con il pretesto della Guerra alle droghe e, comunque, il suo principale obiettivo era di rintuzzare il potere dei gruppi rivoluzionari. Molti assicurano che il Plan Colombia è stato il motivo per cui le Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) decisero di partecipare ai piani di pace, essendo state decisamente indebolite dalla guerra. Secondo le cifre ufficiali, con il rafforzamento delle forze di sicurezza colombiane attraverso una sovvenzione di 10 miliardi di dollari a partire dal 1999, il piano ha fatto in modo che i membri delle Farc perdessero la metà dei combattenti (erano 20 000 e nel 2009 erano ridotti a 10 000), perdendo di conseguenza le zone da loro controllate, sia in ambito urbano che nelle campagne. La Iniziativa Mérida include due miliardi di dollari a partire dal 2008 destinati a rinsaldare ordine e giustizia e a sostenere i diritti umani in Messico. Purtroppo in realtà quello che ha prodotto è una violenza indiscriminata contro i cittadini da parte delle forze armate, dello stato, dei paramilitari e delle organizzazioni criminali. Il congresso degli Stati Uniti ha stanziato 139 milioni di dollari per il 2016 e il 2017 a dispetto del fatto che il governo messicano fosse stato molto criticato per gli abusi in materia di diritti umani (in particolare il caso di Ayotzinapa ha conquistato una grande solidarietà internazionale) e per i casi di tortura, di esecuzioni sommarie e le sparizioni forzate nelle quali si vedono coinvolti membri dei corpi di sicurezza e più specificamente dell’esercito. Era dai tempi della Guerra Fredda che gli Stati Uniti non adottavano un approccio tanto interventista come adesso: stanno cercando di “vincere” guerre volte ad aprire nuovi mercati. La Guerra alle droghe si prospetta come la leva dell’implementazione di un nuovo contratto sociale: il neoliberalismo. Durante la Guerra Fredda gli Stati Uniti avevano appoggiato e promosso le dittature che tralignavano in dittature della borghesia. Adesso siamo passati a un altro modello: la dittatura del capitale. In questo caso ci riferiamo ai due tipi di capitale, quello legale e quello illegale che circola grazie al neoliberismo. Il capitale che si appropria dei minerali e di altre risorse attraverso la spoliazione delle popolazioni latinoamericane; e allo stesso modo il capitale del narcotraffico che sottomette le popolazioni per riprodursi e duplicarsi, mentre le forze di sicurezza fanno la guardia agli interessi dei padroni del capitale.

Neoliberismo: dal Nafta alla svendita di Pemex e Cfe

Il potere del capitale (legale e illegale) collabora per ottenere più benefici. Può essere in concorrenza, ma stipulare anche taciti accordi. Il neoliberismo si consolidò in Messico con il Trattato di libero commercio del Nordamerica (Nafta) nel 1993, che ebbe come conseguenza la ristrutturazione dell’agricoltura e dell’industria messicane: per esempio Donna Chollett analizza i suoi effetti sull’industria saccarifera del Michoacán, quando il presidente Salinas de Gortari privatizzò i mulini dello zucchero statali. L’antropologa del Minnesota spiega come il vuoto economico causato dal trattato fu riempito dall’attività del narcotraffico che portò alla violenza tuttora esercitata nella zona del Puruarán, nel Michoacán. In altri casi i narcos si sono infiltrati nelle industrie, come nel caso della raffineria di resina Ario sempre nel Michoacán. La compagnia Eastman Chemical del Tennessee continuava comunque a fare affari con la raffineria di proprietà de Los Templarios che intimidiva i lavoratori, uccideva, stuprava e taglieggiava, nonostante le informazioni che aveva ricevuto.

Successivamente in Messico si sono privatizzate le telecomunicazioni e il comparto minerario e energetico. Queste riforme neoliberiste hanno portato all’ingresso di compagnie multinazionali che non avevano alcun interesse a rafforzare la società civile, anzi al contrario entravano nelle comunità per sfruttare il territorio e la manodopera. Nel 2009 Calderón “ristrutturò” l’industria dell’energia elettrica e 44 000 lavoratori si trovarono senza lavoro quando si chiuse la compagnia Luz y Fuerza del Centro. Nel 2012 Pemex, l’ente petrolifero statale del Messico, era stato valutato secondo la rivista “Forbes” 416 miliardi di dollari ed era l’ottava azienda petrolifera più grande del mondo, e tuttavia nel 2013 il governo di Enrique Peña Nieto dichiarò che l’impresa registrava perdite e dunque il settore energetico aveva bisogno di una riforma. Si può ipotizzare che i narcos abbiano cominciato a rubare a Pemex migliaia e migliaia di dollari nell’ambito petrolifero nel 2014, per quanto queste circostanze non siano state corroborate da altro che “informazioni ufficiose”. Dall’altro lato del muro gli avvoltoi osservavano la Pemex come un cadavere che si sarebbe potuto spolpare in qualsiasi momento. George Baker, direttore e redattore di “Mexico Energy Intelligence”, una newsletter di orientamento industriale e politico per consiglieri e analisti dell’industria petrolifera texana ma con lo sguardo rivolto al Messico, spiegò nel 2015 alla Cbc News che il 15 per cento era controllato dai narcos e il costo era di 114 miliardi di perdite e «questa è una grande ammissione di vulnerabilità». Malgrado la presenza dell’esercito a Tamaulipas, secondo le informazioni ufficiali, i furti sono aumentati di numero in questi anni. Non funziona secondo la logica che vorrebbe che così come Pemex era a rischio di saccheggio da parte dei narcos prima, allo stesso modo lo sarebbero state anche le compagnie straniere, una volta subentrate nel controllo dell’ente petrolifero. Tuttavia si usò ideologicamente questo argomento per giustificare la necessità di privatizzare la Pemex. Tra il 2013 e il 2015 il governo di Enrique Peña Nieto decapitalizzò Pemex e Cfe (la Comisión Federal de la Electricidad), stornando in segreto 240 miliardi e 518 milioni di pesos (circa 14 miliardi di dollari) del patrimonio nazionale investito in queste imprese e lo ridiresse su altre spese di bilancio. I disinvestimenti nelle due imprese più produttive dello stato messicano aprivano anche la strada alle multinazionali per competere in modo iniquo nel sistema delle aste relative ai contratti, nelle quali si stabiliva la nuova agenda di progetti energetici. Le multinazionali lavoravano con il beneplacito e l’aiuto dei signori della guerra o dei narcos che controllavano certe zone.

I cartelli messicani del narcotraffico

Violenza di stato e terrore narcos per imporre riforme del neoliberismo

la vita e la morte sono regolamentate dal mercato e dalla logica neoliberista tramite la creazione di uno “stato di emergenza” nel quale le forze di sicurezza dello stato possono intervenire con totale carta bianca. Il narcotraffico cresce, si riproduce e si moltiplica nel sistema neoliberale. Inoltre questo partecipa in toto e attivamente a questa neoliberalizzazione e privatizzazione con la preoccupazione di ripulire il denaro sporco.

Necropolitica ed esistenze cestinabili

Achille Mbembe definisce “necropolitica” come la costruzione della sovranità o il potere di decidere chi deve vivere o morire. Contiene pure l’idea del “biopotere” intesa come il dominio della vita in merito al quale il potere prende il controllo in uno “stato di emergenza”. La necropolitica in Messico assembla il neoliberismo con i suoi accompagnatori, i narcos. Entrambi si appoggiano l’un l’altro per sopraffare una popolazione che si trova in un sistema economico che investe in morte. Il problema delle comunità messicane è che non abbassano la guardia rispettando i dettami di questa necropolitica e continuano a lottare per i loro diritti: un esempio è costituito dai padri dei massacrati di Ayotzinapa.

Ayotzinapa - massacro di Igual

Le vite dei poveri e di quelli che si oppongono al sistema vengono trasformate in esistenze cestinabili. Il ribelle, il migrante, il rifugiato sono rifiuti. La popolazione si trasforma in scudo del potere, in qualcos’altro che lo stato non deve difendere, anzi in qualcosa che può essere scomodo e di cui sbarazzarsi. Come afferma Howard Campbell: «I flussi del narcotraffico sono evidenti e fortemente creati dalla globalizzazione neoliberista […] il narcotraffico frontaliero e il fenomeno culturale che chiamo Dwz [Drug War Zone: zona di Guerra alla droga] non possono essere totalmente compresi senza metterli in relazione ai gruppi del crimine internazionale e alle strutture del potere sociale ed economico globale».

Horrorismo, cannibalismo e narcomantas

L’horrorismo è esattamente la violenza nei confronti del corpo vulnerabile e esercitata contro gli indifesi. Questo tipo di violenza estrema è passato alla “legalità” in questo mondo globalizzato e politicizzato dalla guerra al terrorismo e alle droghe. Gli Stati Uniti mantengono prigioni clandestine dove vengono praticate torture e perpetrati orrori contro persone indifese che non saranno giudicate dalla giustizia ordinaria, ma piuttosto secondo le leggi dello stato di eccezione promulgate a cominciare dagli attentati dell’Undici Settembre. Parallelamente i narcos e le forze di sicurezza usano la tortura e altre tecniche orrificanti per diffondere la paura che trattiene la popolazione nella sfera di potere del capitale.

Le decapitazioni si sono trasformate in modo da esprimere questo orrore e poi trasmetterlo attraverso i media con messaggi infarciti di errori ortografici nelle ben note narcomantas che sfidano gli altri gruppi o lo stato stesso. Si tratta di una forma di propaganda primitiva che consegna il messaggio di paura a tutti quelli che non vogliono arrendersi. Le esecuzioni sommarie perpetrate dalle forze di sicurezza con il “colpo di grazia” in fronte mandano lo stesso messaggio territoriale. È l’avviso che non ci sarà pietà contro il nemico, chiunque egli sia. La tortura è la tecnologia più disumanizzante che maneggia l’essere umano come un taglio di carne e trova la forma più orripilante di disumanizzare l’“altro”. Le autorità la usano e i narcos la perfezionano.

L’abuso violento è una maniera per demoralizzare il nemico, per provare che la violenza è una forma di piacere per il barbaro. Il cannibalismo è stato adoperato da Los Zetas e adesso anche dal Cjng (Cártel Jalisco Nueva Generación). Mangiarsi il corpo del proprio nemico acquisendo così misticamente la sua forza era una pratica adottata in precedenza dal gruppo militare Los Kaibiles nella lotta contro i rivoluzionari nel Guatemala del dittatore Efraín Ríos Montt. Los Kaibiles collaborarono con Los Zetas e Los Zetas cominciarono a fare del cannibalismo una forma di intimidazione del nemico e come “patto di fratellanza” si mangiavano le cosce dei nemici avvolte nei tacos condividendole con tutti i presenti. Entrambi, Los Kaibiles e Los Zetas, furono addestrati dalle Forze speciali della School of the Americas (Escuela de Las Américas) a Fort Benning, in Georgia.

Le tante menzogne sulla notte di Iguala

Uno studente di Ayotzinapa superstite della strage di Iguala

Fin dall’inizio sorse il sospetto che l’esercito fosse stato informato di quello che capitava e che non avesse fatto nulla per evitare le sparizioni e la violenza di quella notte. Già nel dicembre 2014 un reportage della rivista d’inchiesta messicana “Proceso” di Anabel Hernández e Steve Fisher, usando testimoni, video, rapporti inediti e dichiarazioni di magistrati, concludeva che la polizia federale aveva partecipato direttamente e attivamente all’aggressione ai normalistas. Ottennero anche un documento governativo del Guerrero in cui si provava come gli studenti della Escuela Normal de Ayotzinapa erano stati seguiti fin dalla loro uscita da agenti della amministrazione federale e statale. Secondo questo documento «alle 17,59 il Centro de Control, Comando, Comunicaciones y Cómputo (C4) di Chilpancingo ha informato che i normalistas erano partiti da Ayotzinapa diretti a Iguala. Alle 20 la PF [polizia federale] e la polizia statale hanno raggiunto l’autostrada federale Chilpancingo-Iguala, dove gli studenti stavano cominciando a raccogliere denaro per una colletta. Alle 21,22 il comandante della base della PF, Luis Antonio Dorantes, è stato informato dell’ingresso dei giovani al terminal degli autobus e alle 21,40 il C4 di Iguala ha segnalato la prima sparatoria». Ma questo rapporto affermava: «anche l’esercito ha operato». Le modalità del C4, che opera con video e fotografie, fa sì che tutti i differenti livelli della polizia siano simultaneamente informati. Questo sistema è stato istituito per coordinare gli sforzi dei distinti organi di polizia contro il crimine organizzato. In questa caso Hernández e Fisher inquadravano la dinamica all’interno della guerra sporca contro «gruppi di attivisti politici in formazione».

Nel settembre 2015 i membri della commissione di esperti comparirono davanti alla Commissione per i diritti umani del DF (Comisión de Derechos Humanos del Distrito Federal) e presentarono la Relazione Ayotzinapa (El Informe Ayotzinapa). Il documento di 560 pagine contiene i risultati dell’inchiesta indipendente seguita dalla commissione che include documentazione della procura stessa (Pgr e Pgj) del Guerrero. Giunsero alla conclusione che per opere o omissioni furono coinvolti almeno cinque corpi di sicurezza: l’esercito messicano, la polizia federale, quella statale del Guerrero, la polizia municipale di Iguala e quella di Cocula. Lo smarrimento di alcune prove e video del C4 evidenziavano l’insabbiamento della verità e l’impunità dei colpevoli. Ma questo caso evidenziava anche la grave crisi umanitaria che viveva il Messico, con l’esercito nel mirino delle accuse. Il 5 ottobre il segretario alla Difesa nazionale comparve nel notiziario di Televisa a ripetere che il 27° battaglione di Iguala non avrebbe conferito con la commissione o con nessun altro al riguardo, perché – assicurava – non era colpevole di nulla, dopodiché minacciò di dimettersi dalla carica se i suoi soldati fossero stati interrogati da un gruppo di investigatori stranieri.

Dopo vari anni di inchieste Hernández pubblicò il suo libro La verdadera noche de Iguala. Una delle domande di Hernández senza risposta era come mai gli scomparsi provenissero da un autobus specifico mentre gli altri non erano stati aggrediti allo stesso modo. Nella documentazione della Pgr veniva menzionato anche un quinto mezzo che all’inizio compare nei documenti dell’inchiesta e di cui a poco a poco ci si è “dimenticati”. “Il quinto autobus” è l’unico che non sia stato assalito a fucilate dalla polizia municipale, ma è stato intercettato dalla polizia federale e gli studenti trasferiti sotto la minaccia delle armi. I due autobus Estrella de Oro requisiti dagli studenti di Ayotzinapa sono quelli intercettati dalle forze statali. Però Anabel Hernández è andata oltre: ha assodato che il 27° fanteria era il corpo operativo agli ordini di un boss locale impiegato a recuperare i pacchi di eroina che erano stati nascosti su questo quinto autobus e che, essendosi accorti gli studenti di quello che stava capitando, furono fatti sparire perché non rimanesse alcun testimone oculare. Il libro evidenzia che la Pgr chiese di aprire un’inchiesta sul 27° fanteria, ma fu ostacolata da ordini presidenziali. Il seguente documento segreto sancisce tutto ciò: «Si provveda… a che si allarghi l’inchiesta riguardo al capitano José Martínez Crespo con l’intento di fare piena luce sugli addebiti che sono scaturiti in relazione a possibili connivenze del suddetto con la delinquenza organizzata e i risultati della quale siano rimessi alla Subprocuraduría Especializada en Investigación de Delincuencia Organizada (Seido)». Secondo Hernández esistono anche prove balistiche della presenza e del coinvolgimento nell’attacco dell’esercito sul luogo del crimine. Negli ultimi due anni e mezzo l’esercito ha respinto la richiesta di ispezionare le sue strutture e si è rifiutato categoricamente di rilasciare dichiarazioni riguardo alla torbida vicenda della sparizione dei 43. Peña Nieto ha promosso il militare, Alejandro Saavedra Hernández, che era al comando del 27° fanteria quella notte. Due anni dopo e durante l’ondata di maggior violenza scatenata nello stato, secondo il quotidiano “El País” «due mesi dopo la sparizione, Saavedra Hernández acquisì poteri ancora maggiori e fu nominato comandante della IX regione militare del Guerrero», e due anni dopo arrivò addirittura a ricoprire l’incarico di nuovo ispettore e supervisore generale dell’esercito messicano. I padri dei 43 continuano a ripetere che Saavedra Hernández fu una delle menti che orchestrarono quanto accadde quella notte del 2014 a Iguala.

Secondo l’inchiesta di Hernández nel suo libro La Verdadera Noche de Iguala: La historia que el gobierno trató de ocultar, nel Guerrero «opera una rete di complicità tra autisti di autobus, passeggeri e diversi gruppi criminali per trasferire la droga; normalmente lo scambio funzionava senza contrattempi grazie alla corruzione che lo proteggeva». Questa connivenza tra il legale e l’illegale nel Guerrero è quello che ha fatto sì che gli studenti di Ayotzinapa costituissero un inconveniente nella logica di mercato. Questo incidente pone concretamente in evidenza la collusione di tutti i livelli dello stato e delle forze dell’ordine per coprire la verità e far sì che la gente non abbia la chiave per comprendere la violenza perpetrata in Messico.

 

La necropolitica proviene dal cuore di tenebra del neoliberismo e dilaga nella geopolitica caratterizzata dall’espansionismo. Gli Stati Uniti sono molto interessati a che questo continui a incrementare i loro redditi e i miliardi di dollari che lubrificano la macchina di morte in Messico. Se non si comincia a capire, a denunciare e a estirpare l’espansione neoliberista con le sue strategie dell’orrore, in un futuro molto vicino vivremo in una realtà distopica. In Messico sta già accadendo.

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