Caucaso Archivi - OGzero https://ogzero.org/regione/caucaso/ geopolitica etc Tue, 10 Oct 2023 07:38:16 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Il crogiolo caucasico tra i confini fittizi dei vincitori https://ogzero.org/il-crogiolo-caucasico-tra-i-confini-fittizi-dei-vincitori/ Mon, 09 Oct 2023 23:43:29 +0000 https://ogzero.org/?p=11677 Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – […]

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Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – soprattutto dall’esterno – si sono fatti prevalere contrasti etnici a condivisione di territorio tradizionalmente abitato da famiglie eterogenee, condizionate da invasioni e dominazioni variabili e costanti. E quando soffiano i venti nazionalisti si scompaginano le comunità per creare stati usati per soffocarle, ognuno secondo la propria tradizione verso il vicino; in questo caso è sintomatico come i paesi islamici più lontani come l’Algeria definiscano gli armeni cristiani colonizzatori, mentre l’Iran sciita come il popolo azero appoggi Erevan per mere questioni di metri di confine da salvaguardare, mentre il miglior alleato dei “fratelli altaici” azeri è il vicino sunnita Erdoğan, interessato alla creazione di un unico territorio ottomano senza interruzioni di confini.
Ciò che rende ancora più impellente l’abbandono della terra avita da parte della ex maggioranza armena fuggita dall’Artsakh è la ferocia autoritaria del regime dinastico ex sovietico… mentre perdurano i bombardamenti turchi sui curdi e i sionisti passano per vittime, pur essendo Nethanyauh dalla parte dei carnefici, come gli Aliyev o il despota Erdoğan; tutti in qualche modo collegati e con interessi intrecciati, tra le vittime dei contenziosi decennali mancano solo i saharawi. 


La secolare replica del genocidio armeno

L’attuale violenza (massacri, deportazioni…) subita dagli armeni rievoca fatalmente il genocidio del 1915.
C’ è ancora spazio per una qualsivoglia “soluzione politica” che garantisca minimamente i diritti della popolazione armena del Nagorno-Karabach?
Meglio non raccontarsi balle. Ormai – a meno di imprevedibili eventi di portata planetaria – la questione è chiusa definitivamente. Anzi, potrebbe anche andare peggio.
Non si può infatti escludere che dopo l’Artsakh venga invasa anche la stessa Armenia, in particolare il corridoio per congiungere l’esclave azera di Karki al confine con l’Iran (e la Turchia).

Vediamo intanto di riepilogare la tragica catena degli ultimi tre anni.
I bombardamenti azeri del 19 settembre avevano riportato nella cronaca un conflitto forzatamente dimenticato, tuttavia l’attacco di Baku contro il Nagorno-Karabach e quanto poi avvenuto ai danni del popolo armeno non calava inspiegabilmente dal cielo. Come già si era ipotizzato in agosto.
Era perlomeno probabile.
Il Nagorno Karabakh era una repubblica autoproclamata (ribattezzata con l’antico nome di Artsaj) abitata in prevalenza da armeni, ma posta forzatamente all’interno dei confini dell’Azerbaijan. E che già prima del 1991 si batteva per la propria indipendenza.

Pulizia etnica alternata

Nel conflitto del 1988-1994 la vittoria era andata agli armeni con la conseguente espulsione di migliaia di azeri.

Nella Seconda guerra del Nagorno-Karabach (autunno 2020) le parti si invertirono e per oltre 40 giorni l’esercito azero si scatenò sulla popolazione civile compiendo ogni genere di efferatezze. Qualificabili come una brutale pulizia etnica.
Al punto che molti armeni in fuga riesumarono i loro cari dalle tombe e fuggirono con le bare fissate al portapacchi delle auto dopo aver incendiato la propria casa.

L’evanescente interposizione russa

In realtà solo un terzo della provincia indipendentista era passato sotto il controllo di Baku, ma erano chiare le intenzioni di completare l’opera quanto prima. Nonostante la poco convinta opera di interposizione dei soldati di Mosca, soprattutto dopo che l’Armenia aveva accettato di partecipare a esercitazioni congiunte con truppe Nato (direi un autogol di Erevan).
Ovviamente anche all’odierna (definitiva?) sconfitta degli Armeni (anche per essere stati isolati e privati di mezzi di sussistenza da circa nove mesi) di fronte alle preponderanti forze azere, date le premesse, era fatalmente scontata.

Neottomanesimo via Baku

Smantellata l’amministrazione armena della enclave ribelle, Baku ha dichiarato di volere «integrarla totalmente nella società e nello Stato azeri».

Quanto alle voci di una possibile concessione di “autonomia”, la cosa appare piuttosto fantasiosa. Se nell’Azerbaigian non gode di alcun riconoscimento la consistente “minoranza” Talish (una popolazione di lingua iraniana che supera il milione di persone) cosa potrebbe toccare ai circa 120.000 armeni del Nagorno-Karabach? Peraltro ormai fuggiti nella quasi totalità e poco propensi a rientrare nonostante le rassicurazioni del governo di Baku.

La coltre di gas

Dal canto suo l’Unione Europea si guarda bene dall’intervenire pensando ai consistenti accordi con l’Azerbaijan in materia di gas.

Solidarietà al popolo armeno è stata espressa vigorosamente dal Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (Knk).

Nel comunicato ha denunciato «la tragedia umana che avviene sotto gli occhi del mondo nell’Artsakh (Alto Karabach) dove un centinaio di migliaia di Armeni sono costretti all’esilio». E il Knk ricordava anche le immagini terribili del 2020 con «i soldati azeri che tagliavano nasi e orecchie ai civili e vandalizzavano i monasteri».

Ovvio il parallelismo con quanto avviene “nelle zone curde occupate dalla Turchia” (il principale alleato dell’Azerbaigian).
Ma esiste anche un altro timore, ossia che “se cade l’Artsaj, cade anche l’Armenia”.

Una lingua di terra turca a unire Caspio e Mediterraneo

Già nel 2020 l’Azerbaijan aveva occupato territori ufficialmente dell’Armenia nella regione di Syunik. Una lingua di terra che si frappone alla dichiarata intenzione di Turchia e Azerbaijan di unire il Mediterraneo con il Caspio via terra. Ricordo che Turchia e Azerbaigian sono già confinanti grazie all’enclave azera di Najicheván che – toh, coincidenza! – Erdogan ha appena visitato per la prima volta.

Forse paradossalmente (visto che gli azeri sono in maggioranza sciiti come gli iraniani) l’unico paese con cui l’Armenia mantiene stabili e diretti rapporti commerciali (nel 2020 forse s’aspettava anche sostegno militare, ma invano) è l’Iran. La perdita della regione di Syunik le sarebbe quindi fatale.

L’analogo trattamento turco destinato ai curdi

Per il Knk comunque non ci sono dubbi «Si tratta di pulizia etnica orchestrata dall’Azerbaigian e dalla Turchia., motivata dall’ambizione geopolitica pan-turca che intende riunire queste due nazioni (…). Dopo 108 anni il popolo armeno si ritrova di nuovo vittima di massacri e deportazioni orchestrati dalle forze statali animate da odio razzista verso la cultura e il popolo armeno. Di conseguenza la pulizia etnica attualmente in corso nell’Artsakh deve essere considerata come la continuazione del genocidio armeno del 1915 perpetrato dai Giovani Turchi».
E conclude paragonando le attuali sofferenze degli armeni a quelle analogamente patite dai curdi a Shengal, Afrin e Serêkaniyê: «Nomi e vittime di questi massacri possono cambiare, ma le motivazioni rimangono identiche».

Diretto interventismo turco nell’area curdo-armena

Risalendo all’ottobre 2020 già allora appariva evidente come il conflitto tra Armenia e Azerbaijan fosse propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia.
Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si andava sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti (sunniti) provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri (sciiti) contro gli armeni cristiani.
Un destino, quello della cittadina al confine turco-armeno di Kars, analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanli nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste.

Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe stato quindi di che stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars».

D’altra parte era quasi scontato che Erdogan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto, mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

Niente di nuovo

2009

Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.
Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale “Hurriyet” ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993. Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdoğan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.
Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Anche per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista, quasi un progressista, comunque non un seguace di Erdoğan) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan, chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

1988

Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica Repubblica d’Armenia.
E il 20 febbraio 1988 – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno/azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Agdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armeni. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. È il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.
Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno-Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

1991

In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno stato indipendente sarà approvata con il 99% dei voti.
A questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).
Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.
A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.
Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – discretamente e solo a livello logistico – la Grecia.
Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex Urss (russi e ucraini).

Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.
Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti. Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14% del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (cessate il fuoco del 12 maggio) prendevano il via sotto la supervisione di Mosca.

Il fallimento del Gruppo di Minsk

1994

Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato Osce) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.
Tuttavia – almeno col senno di poi – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

Qualche considerazione in merito alle efficaci operazioni propagandistiche (soprattutto da parte di Baku e Ankara) rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato. Forse perché – tutto sommato – già allora conveniva schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale, Armenia.
Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il Nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974. Per non parlare della continua evocazione di una – non documentata – partecipazione di militanti del Pkk ai combattimenti (a fianco degli armeni ovviamente).

Nel frattempo (gli affari sono affari) la Francia non smetteva di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non era e non è l’unico paese a farlo naturalmente (vedi l’Italia che dovrebbe fornire anche minisommergibili). Ma la cosa appariva stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Per esempio, all’epoca, nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.
Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku colpivano direttamente la popolazione di Stepanakert.

E già allora in qualche modo il conflitto tra Armenia e Azerbaijan appariva propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne era addirittura la “vetrina”). Intravedendo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

Due parole poi sul ruolo assunto da Teheran

Anche se poteva apparire incongrua, da più parti si formulava l’ipotesi di un Iran deciso a schierarsi con l’Armenia nel conflitto con l’Azerbaijan.
Incongrua soprattutto pensando che in entrambi i paesi, Iran e Azerbaijan, è prevalente la fede sciita.

Ma poi (come forse era lecito aspettarsi) alcuni autorevoli esponenti politici iraniani erano intervenuti dichiarando che «l’Iran non sceglie l’Armenia a sfavore dell’Azerbaijan».

Il giornalista Raman Ghavami si diceva convinto che «sia probabile che dovremo assistere a una significativa collaborazione tra l’Iran, la Turchia, l’Azerbaijan (e presumibilmente anche la Russia a questo punto, N.d.A.) sia sull’Armenia, sia su altre questioni che interessano la regione».

Si sarebbe andato infatti configurando un nuovo livello di sostanziale collaborazione nelle relazioni tra Azerbaijan e Iran. Addirittura Teheran avrebbe (notizia non confermata) richiesto all’Armenia di “restituire” (nientemeno ?!?) il Nagorno-Karabakh a Baku.

Per Raman Ghavami in realtà l’Iran «da sempre preferisce rapportarsi con gli azeri sciiti piuttosto che con gli Armeni». Come avveniva già molto prima dell’insediarsi del regime degli ayatollah.

Nuovo intreccio dei destini armeni e curdi

A tale riguardo riporta l’esempio della provincia dell’Azerbaijan occidentale (posta entro i confini iraniani) che in passato era abitata prevalentemente da curdi e armeni.
Ma tale demografia venne scientificamente modificata, nel corso del Ventesimo secolo, dai vari governi persiani che vi trasferirono popolazioni azere. Sia per allontanarvi i curdi, sia per arginare gli effetti collaterali del contenzioso turco-armeno entro i confini persiani.
Molti armeni e curdi vennero – di fatto – costretti a lasciare le loro case.
Inoltre, in tale maniera, si creava una artificiosa separazione tra le popolazioni curde di Iraq, Turchia e Siria e quelle in Iran. Cambiando anche la denominazione geografica. Da Aturpatakan a quella di Azerbaijan occidentale.

Altro elemento di tensione tra Erevan e Teheran – sempre secondo Raman Ghavami – deriverebbe dal ruolo della chiesa armena nell’incremento di conversioni al cristianesimo da parte di una fetta di popolazione iraniana.

Legami finanziari Teheran-Baku

Da sottolineare poi l’importanza vitale, per un paese come l’Iran sottoposto a sanzioni, dei legami finanziari con l’Azerbaijan. Ricordava sempre Raman Ghavami come, non a caso, la succursale della Melli Bank a Baku è seconda per dimensioni soltanto a quella della sede centrale di Teheran.
Un altro elemento rivelatore sarebbe il modo in cui, rispettivamente, Baku ed Erevan hanno reagito alla cosiddetta “Campagna di massima pressione” sull’Iran in materia di sanzioni: mentre gli scambi commerciali tra Armenia e Iran si riducevano del 30%, quelli con l’Azerbaijan si intensificavano.
Ad alimentare la tensione poi, il riconoscimento da parte dell’Armenia di Gerusalemme come capitale di Israele. Una avventata presa di posizione di cui Erevan potrebbe in seguito essersi pentita. Vedi il successivo contenzioso (e ritiro dell’ambasciatore) a causa della vendita da parte di Israele di droni kamikaze IAI HAROP all’Azerbaijan.

Ulteriore complicazione (ma anche questa era forse prevedibile) la notizia che erano già in atto scontri armati tra i mercenari di Ankara inviati in Azerbaijan (presumibilmente jihadisti, sicuramente sunniti) e gli azeri sciiti.

Insomma, il solito groviglio mediorientale.

La spartizione di Astana: Russia e Turchia e gli oleodotti dell’Artzakh

Nel novembre 2020 si concretizzava poi un vero capolavoro di cinico realismo: gli accordi con cui Russia e Turchia si spartivano il Nagorno-Karabakh garantendosi il controllo della vasta rete di oleodotti che attraversano (o attraverseranno) il territorio storicamente conteso tra Armenia e Azerbaijan. Paese, quest’ultimo che fornisce alla Turchia un quinto delle sue importazioni di gas naturale (oltre a ingenti quantità di barili di petrolio dal Mar Caspio) direttamente all’hub di Ceyhan.
E qualche briciola non di poco conto andava anche al Belpaese (se abbiamo interpretato correttamente le dichiarazioni di Di Maio).
Ricapitoliamo. Il 10 novembre 2020 l’Armenia (il paese sconfitto) e l’Azerbaijan (il vincitore) firmavano un “accordo di pace” sotto la tutela ufficiale di Mosca e ufficiosa di Ankara.

Mentre le colonne dei profughi dal Nagorno-Karabakh) si allungavano per abbandonare il paese invaso dagli “alleati” (ascari?) di Ankara (l’esercito azero e le milizie mercenarie jihadiste qui inviate dai territori già invasi della Siria), iniziava il dispiegamento lungo la linea di contatto dei duemila – inizialmente – soldati russi (presumibilmente integrati con truppe turche, sul modello delle “pattuglie-miste” nel Nord della Siria). Durata prevista della loro presenza, cinque anni rinnovabili.

Un risultato niente male per Erdogan che vedeva ratificata la sua alleanza strategica con Baku. Così come venivano confermate le conquiste azere (almeno trecento insediamenti tra cui Susi, strategicamente rilevante). Non meno rilevante, l’acquisizione da parte dell’Azerbaijan di un collegamento diretto con Nachichevan (la sua enclave) e quindi con la Turchia.

Ovviamente gli armeni non l’avevano presa bene. A farne le spese il primo ministro Nikol Pashinyan (un leader “di plastica” secondo alcuni commentatori, messo su dall’Occidente un paio di anni prima per allontanare l’Armenia dal suo alleato tradizionale russo) di cui la piazza ha richiesto le immediate dimissioni.
Gli eventi sono noti: il palazzo del governo letteralmente preso d’assalto, il parlamento occupato e il presidente Ararat Mirzanyan che quasi rischiava di essere linciato dalla folla inferocita. I manifestanti erano anche andati a cercare direttamente a casa sua il primo ministro (presumibilmente non per una pacata conversazione), ma senza trovarlo (buon per lui, naturalmente).

L’interesse italico

a sei zampe…

Si diceva delle vaghe (o svagate?) dichiarazioni di Di Maio («Monitoreremo con attenzione gli sviluppi nelle aree dove si registra un particolare attivismo turco, vigilando affinché siano tutelati il rispetto del diritto internazionale, gli interessi italiani anche economici e con l’obiettivo di scongiurare qualsiasi escalation»). E chi vuol intendere...intenda.

Del resto, con buona pace della piccola Armenia, la cooperazione con l’Azerbaijan è da tempo consolidata. L’Italia – oltre che il maggior destinatario delle esportazioni petrolifere – risulta essere uno dei principali partner commerciali di Baku con un interscambio annuale – si calcola – di sei miliardi di euro. Sarebbero almeno tremila le imprese italiane che hanno investito nella repubblica caucasica. Risaltano in particolare Eni e Unicredit con interessi stimati in seicento milioni di dollari.

… e Leonardo-Finmeccanica

Cooperazione quindi ben consolidata, si diceva. Ma non solo in campo energetico. Magari indirettamente, anche militare. Risale, per dirne una, al 2012 la vendita di una decina di elicotteri Augusta Westland (società controllata da Leonardo-Finmeccanica), ufficialmente per uso civile (ma vengono in mente gli elicotteri venduti alla Turchia negli anni Novanta, su cui poi venivano applicate le mitragliere vendute separatamente). Nel 2017 l’amministratore delegato di Leonardo firmava a Baku – sotto lo sguardo del ministro Calenda – un accordo con la Socar (società statale petrolifera azera) per incrementare la sicurezza e l’efficienza delle infrastrutture energetiche grazie appunto alle tecnologie italiche.

Con un diretto riferimento al gasdotto di 4000 chilometri che la Socar stava realizzando per far giungere in Puglia e quindi in Europa (vedi la questione del Tap), dopo aver attraversato la Georgia, la Turchia, la Grecia e l’Albania, i previsti 20 miliardi di metri cubi (annuali) di gas di provenienza dall’Azerbaijan. Particolarmente rilevante e significativo il ruolo assunto da alcune aziende italiane (Snam S.p.A. di San Donato Milanese, Saipem, Eni, Maire Tecnimont…). Appare evidente come in tale contesto l’Armenia sia ormai fuori gioco, estromessa, marginalizzata (nonostante – a titolo di parziale consolazione – qualche ipocrita piagnisteo sul genocidio subito da parte della Turchia).

L’onnipresente invasività israeliana

Tornando alla breve, ma comunque devastante, guerra intercorsa nel 2020 tra Erevan e Baku, andrebbe poi approfondito il ruolo assuntovi da Israele.
Se la Turchia sembra aver fornito a Baku – oltre ai mercenari jihadisti – aerei e droni, cosa avrà fornito Israele? In qualche modo deve aver comunque contribuito visto che durante i festeggiamenti per la schiacciante vittoria, i manifestanti azeri inalberavano e sventolavano, oltre al vessillo nazionale e alle bandiere turche, numerosi drappi con la Stella di David.

Risalgono invece ai primi di ottobre (2023) le rivelazioni dell’intelligence francese sul fatto che i comandi militari azeri avrebbero ringraziato sentitamente Israele per il sostegno nel recente attacco al Nagorno-Karabach. Sia a livello espressamente militare (armamenti vari, soprattutto droni della Israel Aerospace Industries, della Rafael Advanced Defense Systems e della Israel Militari Industries), sia di intelligence (Mossad e Aman’s Unit 8200).
Sempre da fonti dell’Esagono risulta che nel corso del conflitto di settembre una quindicina di aerei cargo azeri sono atterrati nell’area militare di Ouda (Negev). Circa un centinaio di altri aerei cargo azeri erano ugualmente qui atterrati nel corso degli ultimi sei-sette anni. Presumibilmente non per rifornirsi di pompelmi. Inoltre Israele avrebbe fornito anche sostegno nel campo della Cyber Warfare (tramite l’Nso Group).
A ulteriore conferma dello stretto rapporto con Baku, il ministro israeliano della difesa si è recato recentemente nella capitale azera per verificare di persona l’efficacia del sostegno israeliano all’Azerbaijan.

Un bel caos geopolitico comunque

Proxy war disequilibrata

E arriviamo al febbraio di quest’anno, quando mentre a Erevan si ricordavano le vittime del pogrom del 1988, in Iran gli armeni manifestavano a sostegno della repubblica dell’Artsakh. Niente di strano.
Anche all’epoca dell’attacco dell’Azerbaijan ai territori armeni della Repubblica dell’Artsakh (con il sostegno di Ankara) nel 2020, c’era chi si aspettava un maggiore sostegno all’Armenia da parte dell’Iran, in linea con una certa tradizione. Dal canto suo Israele non mancava di mostrare sostegno (fornendo droni presumibilmente) alle richieste azere, ovviamente in chiave antiraniana. Misteri della geopolitica. Anche se poi sappiamo che le cose andarono diversamente, resta il fatto che comunque in Iran gli armeni costituiscono una minoranza tutto sommato tutelata, garantita (sicuramente più di altre, vedi curdi obeluci) e anche la causa dell’Artsakh gode ancora di qualche simpatia.

Commemorazioni dei massacri passati, in preparazione di quelli presenti

O almeno così sembrava leggendo la notizia del raduno di solidarietà con la popolazione armena della Repubblica dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) che si era tenuto presso il monastero di Sourp Amenaprguitch (Santo Salvatore) di Ispahan nella mattinata del 24 febbraio 2023 (nonostante, ci dicono, le condizioni atmosferiche inclementi). Oltre alle comunità armene di Nor Jugha (Nuova Djulfa, un quartiere di Ispahan fondato dagli armeni di Djulfa nel Diciassettesimo secolo) e di Shahinshahr, erano presenti molti armeni provenienti da ogni parte dell’Iran.
Numerosi gli interventi e i messaggi arrivati a sostegno alla causa della popolazione armena della Repubblica (de facto, anche se non riconosciuta in ambito onusiano) dell’Artsakh.

Quasi contemporaneamente, due giorni dopo, in Armenia venivano commemorate le vittime del massacro di Sumgaït (quartiere industriale a nord di Baku). Il presidente armeno Vahagn Khatchatourian con il primo ministro Nikol Pašinyan, il presidente del parlamento Alen Simonyan e altre figure istituzionali si sono recati al memoriale di Tsitsernakaberd a Erevan deponendo una corona e mazzi di fiori.
Il memoriale ricorda le persone uccise nei pogrom avvenuti (con la probabile complicità delle autorità azere) nel febbraio 1988 a Sumgaït, Kirovabad e Baku. Il massacro (in qualche modo un preludio alla guerra del 1992 in quanto legato alla questione del Nagorno Karabakh) sarebbe stato innescato da rifugiati azeri provenienti dalle città armene. Almeno ufficialmente. In realtà i responsabili andrebbero identificati tra i circa duemila limitčiki (operai immigrati delle fabbriche chimiche) a cui le autorità avevano distribuito alcolici in sovrabbondanza.
Se le fonti ufficiali azere parlarono soltanto di trentadue vittime, per gli armeni queste furono centinaia. Addirittura millecinquecento secondo il partito armeno Dashnak (oltre a centinaia di stupri).
Inoltre i militari inviati per fermare i disordini impiegarono ben due giorni per percorrere i circa trenta chilometri che separano Baku da Sumgaït. Vennero arrestate centinaia di persone, ma i processi si conclusero senza sostanziali condanne.

Guerra annunciata, forza di pace distratta

Tutti defilati… tranne i curdi

Nel marzo 2023, pressata da più parti affinché intervenisse, finalmente Mosca aveva parlato tramite il ministero della Difesa, accusando Baku di aver violato gli accordi sul Nagorno-Karabakh del 2020. Meglio tardi che mai, anche se la Federazione Russa appariva sempre più incerta (o disinteressata?) al destino dell’Armenia, praticamente abbandonata a se stessa (quasi da tutti sia chiaro, non solo dalla Russia; con la nobile eccezione dei curdi).
Eppure i segnali della possibilità di un ennesimo conflitto (guerra a relativamente “bassa intensità”) non erano mancati. Il 5 marzo si era registrato un altro scontro armato nel corridoio di Lachin (per gli azeri, di Zangezur) tra Stepanakert e Goris, bloccato ormai da tre mesi da presunti “manifestanti ecologisti” azeri. La sparatoria era avvenuta tra la polizia armena e i militari azeri che avevano arbitrariamente fermato un veicolo e – nonostante fosse costata la vita di cinque persone – era passata quasi inosservata.
Invano Nikol Pašinyan, primo ministro di Erevan, aveva richiesto, rivolto anche al tribunale internazionale dell’Onu, l’istituzione di una missione internazionale di indagine sulla situazione in cui veniva a trovarsi l’unica via di collegamento tra l’Armenia e la repubblica del Nagorno-Karabakh, ormai ridotta alla condizione di enclave sotto assedio, con oltre 120.000 persone di etnia armena sprovviste di cibo e medicinali. In base all’accordo trilaterale del 9 novembre 2020 (e riconfermato per ben due volte nel 2021 e ancora nell’ottobre 2022), alla Russia spettava il compito di controllare e assicurare i trasporti nel “corridoio” con una sua forza di pace.

Estrattivismo abusivo e pretestuoso ecologismo

Il pretesto avanzato dai sedicenti “ecologisti” azeri che da mesi bloccavano il passaggio sarebbe quello di poter controllare le miniere (private, non statali) di Gyzylbulag (oro) e di Demirl (rame e molibdeno) dove gli armeni avrebbero compiuto “estrazioni illegali”.
Dopo le ripetute accuse di “mancata osservanza dell’impegno di controllo”, fino a quel momento da parte di Mosca erano giunte soltanto rassicurazioni verbali (dicembre 2022). Ma anche la dichiarazione che «le forze di pace possono agire soltanto quando entrambe le parti sono d’accordo».

«Gli azeri continuano ad avanzare pretese massimaliste, senza concedere alcuna forma di compromesso», aveva denunciato Vagram Balayan, presidente della commissione affari esteri dell’assemblea nazionale del Nagorno-Karabakh. Sostanzialmente in quanto Baku “non intende riconoscere l’esistenza del Nagorno-Karabakh e del popolo dell’Artsakh”. Ossia, detta fuori dai denti, “vogliono soltanto farci scomparire dalla storia” (come sembra confermato dagli ultimi eventi). Costringendo gli armeni a scegliere tra un’evacuazione “volontaria” e la deportazione.

Fine annunciata

E intanto con il mese di agosto il tragico epilogo si profilava all’orizzonte.
Con gli Armeni del Nagorno-Karabakh ormai presi per fame, in un articolo di quei giorni mi ero chiesto se «si può già parlare di genocidio o dobbiamo aspettare qualche migliaio di morti per inedia?».
Domanda retorica ovviamente.

A un certo punto l’evidente, colpevole, latitanza della Russia (storicamente “protettrice “ della piccola Armenia) sulla questione del Nagorno-Karabakh sembrava aver lasciato campo aperto all’intervento pacificatore – o perlomeno a un tentativo di mediazione – di Unione Europea e Stati Uniti.
Ma l’irrisolta questione del Corridoio di Lachin (unico corridoio tra Armenia e Nagorno-Karabakh) conduceva fatalmente al nulla di fatto. E intanto per gli armeni del Nagorno-Karabakh la situazione continuava a peggiorare.
Chi in quei giorni aveva avuto la possibilità di percorrere le strade di Stepanakert parlava di lunghe file di persone che – dopo ore di attesa – ottenevano letteralmente un tozzo di pane. Per non parlare di quanti crollavano – sempre letteralmente – a terra a causa della fame. Almeno 120.000 persone colpite dall’isolamento totale e dalla conseguente crisi umanitaria (sia a livello sanitario che alimentare).
Senza dimenticare che – ovviamente – l’Azerbaigian da tempo aveva provveduto a interrompere il rifornimento di gas. Difficoltoso, in netto calo, anche quelli di energia elettrica e di acqua. A rischio le riserve idriche con tutte le prevedibili conseguenze.
Quanto all’alimentazione ormai si era ridotti alle ultime scorte di pane e angurie. Il peggioramento si era andato accentuando da quando veniva impedito (con posti di blocco installati illegalmente dall’Azerbaigian) l’accesso anche alla Croce Rossa e alle truppe russe di interposizione che comunque finora avevano rifornito di cibo – oltre che di medicinali – la popolazione armena.

Silenzio tombale e pennivendoli distratti

Bloccato da mesi alla frontiera anche un convoglio di aiuti umanitari (oltre una ventina di camion) inviato da Erevan.
In pratica, un grande campo di concentramento.
Al punto che un cittadino armeno gravemente ammalato, mentre veniva trasportato dalla Croce Rossa in un ospedale dell’Armenia (e quindi sotto protezione umanitaria internazionale), veniva sequestrato, privato del passaporto, sottoposto a interrogatorio e spedito a Baku dove – pare – sarebbe stato anche processato per eventi risalenti al primo conflitto scoppiato in Nagorno-Karabakh negli anni Novanta.

E ogni appello rivolto alle autorità e organizzazioni internazionali (Unione Europea, Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Russia, Gruppo di Minsk…) era destinato a restare inascoltato.
Con un preciso riferimento al blocco del Corridoio di Lachin operato dall’Azerbaijan, un ex esponente della Corte Penale Internazionale, l’avvocato argentino Luis Moreno Ocampo, aveva espressamente evocato un possibile genocidio.
Ma la sua appariva la classica “voce che grida nel deserto”. Quello dell’informazione almeno.

Poi la conferma dei peggiori timori con il tragico epilogo avviato il 19 di settembre.


Il giorno dopo la Guerra lampo dei fratelli turcofoni avevamo sentito Simone Zoppellaro, la cui analisi consentiva di comprendere nei dettagli cause e conseguenze delal dissoluzione dell’indipendenza dell’Artzakh

“Cala un sipario plumbeo sull’Artsakh”.

L'articolo Il crogiolo caucasico tra i confini fittizi dei vincitori proviene da OGzero.

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n. 21 –  Lo “strano” caso della protezione temporanea per i cittadini ucraini https://ogzero.org/il-massiccio-afflusso-di-sfollati-ucraini-e-la-politica-europea/ Tue, 02 Aug 2022 09:46:31 +0000 https://ogzero.org/?p=8359 Proseguiamo l’analisi delle conseguenze migratorie della guerra russo-ucraina, fornendo un panorama giurisprudenziale dei cavilli che regolamentano il massiccio afflusso di sfollati ucraini in Europa, e mettendo in evidenza attraverso le parole di Fabiana Triburgo quanto ancora una volta si riesumi una direttiva che prevede la protezione temporanea, e si offrano sempre soluzioni ad hoc che […]

L'articolo n. 21 –  Lo “strano” caso della protezione temporanea per i cittadini ucraini proviene da OGzero.

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Proseguiamo l’analisi delle conseguenze migratorie della guerra russo-ucraina, fornendo un panorama giurisprudenziale dei cavilli che regolamentano il massiccio afflusso di sfollati ucraini in Europa, e mettendo in evidenza attraverso le parole di Fabiana Triburgo quanto ancora una volta si riesumi una direttiva che prevede la protezione temporanea, e si offrano sempre soluzioni ad hoc che salvano il salvabile ma che dimostrano che ancora non vi è nelle coscienze delle istituzioni dell’Unione una visione lungimirante per affrontare la questione migratoria che è e sarà sempre una costante nella storia dell’umanità.


Afflusso massiccio di sfollati

L’attivazione di strumenti giuridici come conseguenza di dinamiche geopolitiche ha avuto la sua massima espressione con la decisione da parte dell’Unione europea e dei paesi membri di attivare la Direttiva n. 55 del 2001 a seguito dell’attacco sferrato su larga scala nel territorio ucraino da parte della Federazione Russa e dalla Bielorussia il 24 febbraio scorso. La direttiva stabilisce uno standard di norme minime nell’ipotesi in cui nel territorio europeo vi sia un afflusso massiccio di sfollati provenienti da paesi terzi che non possono tornare nel paese d’origine finalizzate alla concessione di una protezione temporanea per i medesimi (art. 1 e art. 2 lett. a direttiva 2001/55/CE) che gli stati membri sono chiamati obbligatoriamente ad attuare.

La migrazione ucraina (Fonte Unhcr, per approfondire la singola situazione degli afflussi paese per paese consultare i dati aggiornati costantemente sul sito https://data.unhcr.org/en/situations)/ukraine#_ga=2.235099137.1057807161.1659368831-42331758.1659368831).

La prima applicazione della Direttiva 55

Ciò appare singolare, non certamente in quanto non si ritenga legittima l’attivazione della direttiva con riferimento alle specifiche circostanze del conflitto ucraino, ma piuttosto poiché è la prima volta in assoluto che tale norma viene applicata, nonostante sia stata ideata appositamente per la guerra nell’ex Jugoslavia – in particolare quella nel Kosovo – e nonostante, se vogliamo soffermarci solo all’ultimo ventennio, altri gravissimi conflitti armati hanno avuto come conseguenza un massiccio afflusso di sfollati che intendevano dirigersi verso l’Europa. A riguardo basti pensare ai cittadini provenienti dall’Iraq, dall’Afghanistan e dalla Siria che nei primi due casi oltretutto fuggivano da conflitti pianificati dall’Occidente. In particolare, più recentemente nel caso dei cittadini afghani in relazione alla presa di possesso del paese da parte dei talebani, ormai quasi un anno fa, è fondamentale ricordare che la direttiva in base all’art. 2 lett. d – è attivabile non solo qualora l’arrivo degli sfollati avvenga spontaneamente ma anche mediante programmi di evacuazione!

Ma per cittadini iraqeni, afghani e siriani solo respingimenti

Nei confronti degli individui provenienti da questi paesi terzi, l’Unione invece non ha mai ritenuto importante lanciare un messaggio a livello internazionale di solidarietà dei paesi membri in ambito migratorio, e – come visto, ripercorrendo le attuali correnti migratorie del vecchio continente – ha messo in atto respingimenti dei migranti, anche a catena da un paese all’altro dell’Unione, impedimenti fisici alla presentazione delle domande d’asilo, anche con l’uso della violenza, nonché finanziamenti per la costruzione di muri, di fili spinati e di campi di confinamento, per citare soltanto alcune delle cosiddette “cattive prassi” dell’esternalizzazione delle frontiere.

Possiamo dunque affermare con certezza che il conflitto in Ucraina abbia scosso talmente tanto la coscienza delle istituzioni europee e dei paesi membri da trovarci oggi in una nuova stagione della politica europea in ambito migratorio? O forse è più lecito pensare che la riesumazione di una direttiva risalente a 21 anni fa ci dice che quando vi sono ragioni squisitamente politiche per un timore, pur legittimo di una guerra prossima ai confini dell’Unione, si è disposti a tutto ma nulla di fatto oggi è davvero cambiato nelle politiche europee nei confronti dei migranti?

La musica non cambia: non è una nuova coscienza istituzionale europea

La speranza è chiaramente che sia la prima delle due ipotesi a rispondere a verità ma rispetto a ciò solo il tempo darà delle risposte chiare e definitive alle suddette questioni. Alcuni dubbi rispetto a un effettivo cambiamento dell’humus europeo tuttavia sorgono in ragione del fatto che la Direttiva 55 del 2001 non sia stata recepita in modo totalmente conforme al suo testo ma, sia nella Decisione del Consiglio dell’Unione Europeo (da non confondere con il Consiglio d’Europa) n. 382 del 4 marzo 2022 che ha “attivato” la direttiva – accertando l’esistenza di un massiccio afflusso di sfollati dall’Ucraina – sia per quanto riguarda l’Italia, nel Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri (da ora in poi DPCM) del 28 marzo 2022, con il quale è stata recepita, sono state aggiunte delle ulteriori specifiche a livello giuridico che comprimono e non estendono le tutele derivanti dall’applicazione della protezione temporanea e il rilascio del relativo permesso di soggiorno, soprattutto con riferimento alle categorie dei potenziali destinatari, ossia cosiddetti “sfollati”.

Visegrad esclude gli altri cittadini di paesi terzi residenti in Ucraina

Infatti, i cittadini di paesi terzi dell’Unione, chiaramente diversi da quelli ucraini, – pur se residenti o soggiornanti anch’essi in Ucraina al momento dello scoppio del conflitto e fatte salve alcune rare ipotesi che analizzeremo in seguito – non possono chiedere e quindi beneficiare della protezione temporanea nel territorio di un paese membro. Quello che fa riflettere in modo più specifico – conformemente ai dubbi sovraesposti rispetto a un radicale ed effettivo cambiamento delle politiche dell’Unione e di tutti i suoi paesi membri in materia – è che l’esclusione degli altri cittadini di paesi terzi nell’alveo dei beneficiari della protezione temporanea, eccetto i casi eccezionali, sia stata posta da parte dei paesi appartenenti al gruppo di Visegrad, in particolare dalla Polonia, dall’Ungheria, dalla Slovacchia e dalla Repubblica Ceca come conditio sine qua non per  l’approvazione della Decisione di esecuzione del Consiglio, che richiede la maggioranza qualificata (art. 5 Direttiva 55/2001/CE), necessaria per attivare la direttiva del 2001.

Questo d’altronde non stupisce, considerato che – ancor prima dell’entrata in vigore della decisione di esecuzione del Consiglio il 4 marzo 2022, soprattutto in Polonia, venivano fatti entrare milioni di ucraini ed escluse poche migliaia di altri cittadini di paesi terzi provenienti dall’Ucraina, attuando così una vera e propria discriminazione su base razziale. Non solo, la direttiva così come attivata e recepita in Italia non offre neanche una tutela, per così dire lungimirante rispetto alla condizione degli stessi cittadini ucraini, prevedendo sia la Decisione del Consiglio dell’Unione che il nostro DPCM che la direttiva possa essere applicata soltanto ai cittadini ucraini residenti e che vivevano fisicamente in Ucraina prima del 24 febbraio del 2022 ma fuggiti dopo il 24 febbraio del 2022 incluso.

Ragionando per assurdo quindi, un cittadino ucraino fuggito qualche giorno prima del 24 febbraio, magari intuendo l’imminenza del conflitto, in teoria non può oggi beneficiare della protezione temporanea!

Il confine ucraino-polacco (foto dal profilo Twitter di Nico Popescu).

L’inadeguatezza della Direttiva 55

Chiaramente invece la Direttiva 55 del 2001 – anche solo per il fatto di essere stata pensata in ragione di un altro conflitto e dati i suoi caratteri di generalità – non prevede né l’esclusione dei cittadini terzi di cui sopra né i limiti temporali così stringenti per la presentazione della richiesta della protezione temporanea. Per essere più precisi vengono oggi quindi esclusi dall’applicazione della direttiva:  a) tutti i cittadini che il 24 febbraio vivevano fuori dall’Ucraina; b) i cittadini, come già accennato, che sono fuggiti prima del 24 febbraio del 2022 dall’Ucraina; c) tutti i cittadini di paesi terzi diversi dagli ucraini seppur   viventi in Ucraina, alla data del 24 febbraio 2022 – per tornare al gioco forza antimigranti del gruppo di Visegrad – tranne nell’ipotesi in cui fossero già titolari di protezione internazionale o protezione equivalente ai sensi della legge ucraina o titolari di un permesso di soggiorno permanente prima del 24 febbraio 2022 e che solo qualora dimostrino di non poter ritornare in condizioni sicure e stabili nel proprio paese di origine!

Nel Decreto del Consiglio tuttavia al considerando n. 13 e all’art. 3 invece si specifica che tale ultima circostanza – in merito alla sicurezza e alla stabilità del paese di origine per i cittadini dei paesi terzi – può consentire agli stati membri di estendere tale protezione anche a coloro che si trovavano in Ucraina legalmente per un breve periodo quindi per esempio a quanti  fossero titolari di un permesso per motivi di lavoro o di studio al momento degli eventi che hanno determinato l’afflusso massiccio di individui sfollati.

Il nostro DPCM però esclude tale ipotesi e per questo motivo i cittadini di paesi terzi, titolari di permesso di studio e lavoro – fuggiti dall’Ucraina in conseguenza del conflitto e anche qualora nel proprio paese d’origine non sussistano condizioni di stabilità e sicurezza – in Italia non possono vedersi riconoscere in Italia la protezione temporanea.

Sia il Decreto di esecuzione del Consiglio sia il DPCM del 28 marzo 2022 stabiliscono invece che possono beneficiare della protezione temporanea anche i familiari dei cittadini di nazionalità ucraina residenti in Ucraina prima del 24 febbraio 2022 e i familiari dei cittadini dei paesi terzi titolari di protezione internazionale o equivalente in Ucraina. In entrambi i testi normativi, all’art. 4 si elencano infatti le categorie di persone che possono essere considerati familiari, specificando la necessità tuttavia che anche questi soggiornassero in Ucraina già prima del 24 febbraio del 2022. Il Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri in aggiunta, stabilisce tra i requisiti che i succitati familiari debbano possedere la titolarità di un permesso di soggiorno valido ai sensi del diritto ucraino e il possesso di certificazione attestante il vincolo familiare preventivamente validata, ove possibile, dalla competente rappresentanza consolare. Inoltre, se la direttiva prevede che la durata del permesso di soggiorno per “protezione temporanea” sia di un anno prorogabile fino a due anni, il nostro DPCM all’art. 1, così come la Decisione di esecuzione del Consiglio, prevede che la protezione temporanea abbia la durata massima di un anno (per l’Italia a decorrere dal 4 marzo del 2022). Ancora, sempre secondo il DPCM, il permesso di soggiorno per protezione temporanea – la cui domanda deve essere presentata direttamente nella questura del luogo in cui lo sfollato è domiciliato – dà diritto all’accesso al Servizio Sanitario Nazionale, al diritto allo studio e al lavoro, conformemente a quanto stabilito dall’art. 12 della Direttiva 55/2001.

Non si dimentichi, comunque, che in Italia il 28 febbraio 2022 con una Delibera del Consiglio dei Ministri è stato dichiarato lo stato di emergenza in relazione all’esigenza di assicurare soccorso e assistenza alla popolazione ucraina sul territorio nazionale in conseguenza della grave crisi internazionale in atto.

Italia: stato di emergenza

Come noto, tradotto in termini giuridici, questo consente all’esecutivo di derogare alle consuete norme ordinarie e quindi all’attività parlamentare in merito alla questione migratoria in oggetto, delegando l’esecuzione delle proprie decisioni principalmente alla protezione civile.

A complicare ulteriormente il quadro normativo non solo europeo ma soprattutto interno, nel tentativo di armonizzare la disciplina relativa alla protezione temporanea, vi è il DLgs 85 del 2003 che di fatto aveva già previsto il recepimento della suddetta direttiva, introducendo l’art. 20 nel TUI (Testo Unico sull’Immigrazione) tuttora vigente che prevede anch’esso, in presenza di determinate circostanze, il riconoscimento di tale protezione.

Sotto invece il profilo normativo comune a tutti gli stati membri dell’Unione occorre specificare che

qualora il Consiglio – e questo vale per tutti i beneficiari della protezione temporanea – decidesse di revocare l’attivazione della direttiva, per esempio qualora l’Unione stringesse paradossalmente un accordo con il Capo del Cremlino, il diritto alla protezione temporanea cesserebbe immediatamente e con esso la validità del rispettivo titolo di soggiorno in qualsiasi paese membro dell’Unione.

E i russi in fuga non sono inclusi nella protezione temporanea

Prima di soffermarci sulla compatibilità tra la protezione temporanea e la protezione internazionale che è la protezione comunemente riconosciuta nelle ipotesi di conflitto armato, vale la pena riflettere anche su un’altra categoria di esclusi dalla possibilità di richiedere la protezione temporanea ossia i cittadini russi. Già, perché non sono pochi i cittadini russi che non identificandosi con la decisione del conflitto armato del proprio rappresentante di governo Vladimir Putin abbiano deciso di fuggire dalla Federazione Russa recandosi prevalentemente in paesi come l’Armenia o il Kirghizistan con i quali hanno una comunanza linguistica ma anche perché consapevoli che l’Europa non li considera potenzialmente beneficiari di una protezione temporanea nonostante anche loro siano fuggiti a causa del medesimo conflitto armato! Si ricorda che l’applicazione di un diritto di protezione debba però prescindere da una valutazione politica di uno stato verso un altro e guardare esclusivamente al singolo individuo e ai diritti che gli spettano in quanto tale e non alla nazionalità di sua provenienza se non – come nel caso della protezione internazionale – al fine dell’individuazione di uno dei motivi ai sensi della Convenzione di Ginevra, per il riconoscimento dello status di rifugiato. È proprio la convivenza dell’una e dell’altra disciplina – protezione internazionale e protezione temporanea – a creare tuttavia alcuni problemi giuridici in merito alla corretta applicazione del contenuto della Direttiva 55 del 2001.

Ascolta “Diaspora russa in Armenia” su Spreaker.

Decreti contraddittori

D’altronde le due protezioni sono inscindibilmente legate in ragione del fatto che la protezione temporanea è stata pensata proprio affinché l’afflusso massiccio di sfollati, in conseguenza di un conflitto non possa gravare eccessivamente sul sistema di asilo di ciascun stato membro. La direttiva stabilisce che la protezione temporanea non pregiudica il riconoscimento dello status di rifugiato ma che gli stati membri possano disporre che le persone che hanno ottenuto la protezione temporanea non possano avere al contempo lo status di richiedente asilo. Al riguardo il DPCM all’art. 3 pur stabilendo al comma 1 che il titolare di protezione temporanea possa sempre presentare domanda d’asilo, ai sensi del decreto legislativo n. 25 del 2008 (c.d. Decreto procedure), aggiunge al comma 3 del medesimo articolo – rispetto al testo della direttiva – che questa debba essere momentaneamente sospesa. Ciò significa che il richiedente, titolare della protezione temporanea, non verrà dunque ascoltato dalla Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale e questa verrebbe riattivata (non si comprende ancora se in modo automatico o meno) in alcune ipotesi per esempio se il Consiglio dell’Unione decidesse di porre fine all’attivazione della protezione temporanea. Se invece uno “sfollato” ha già presentato domanda di protezione internazionale e successivamente presenta domanda di protezione temporanea – fintanto che non si veda rilasciare il relativo permesso – verosimilmente beneficerà dell’una o dell’altra forma di protezione a seconda di quale iter delle due domande si svolgerà in modo più celere.

Non è escluso pertanto che qualora la valutazione della domanda di protezione temporanea richieda più tempo del previsto, nel mentre “lo sfollato” possa essere convocato dalla Commissione territoriale e vedersi riconoscere quantomeno la protezione sussidiaria – poiché in fuga da un conflitto armato internazionale ai sensi dell’art. 14 del Dlgs 251/2007 (c.d. Decreto qualifiche) – se non addirittura lo status di rifugiato. Si ricorda che secondo l’art. 3 comma 4 del DPCM del 28 marzo 2022 il riconoscimento della protezione internazionale preclude l’accesso al beneficio della protezione temporanea. In particolare, al cittadino ucraino, oltre all’ipotesi del rifugiato sur place – ossia quella del cittadino di paese terzo già presente e soggiornante in Italia ad altro titolo al quale viene riconosciuto comunque il diritto di presentare domanda di protezione internazionale per ragioni sopravvenute – potrebbe essere riconosciuto lo status di rifugiato nell’ipotesi in cui sia un obiettore di coscienza rispetto al conflitto armato, un disertore della leva obbligatoria in ragione dei crimini compiuti nel corso del conflitto al quale avrebbe dovuto prendere parte, perché appartenente a minoranze etniche/nazionali – come potrebbe avvenire per i cittadini ucraini del Donbass – o nell’ipotesi in cui appartenga a una delle minoranze russofone in Ucraina. Infine, secondo un’interpretazione più estensiva, lo status potrebbe essere riconosciuto anche a tutti i cittadini ucraini in quanto più genericamente individui perseguitati in ragione della propria nazionalità.

L’asilo non richiesto

Si precisa in questa sede, senza entrare precipuamente nel merito, che i cittadini ucraini in particolari circostanze, potrebbero beneficiare, a determinate condizioni, altresì in Italia della “protezione speciale” erede della protezione umanitaria abrogata dal cosiddetto Decreto Salvini ossia il DL n. 113 del 2018 che ha subito una forte estensione con il cosiddetto Decreto Lamorgese, ossia il DL n. 130 del 21 ottobre 2020, convertito nella Legge n. 173 del 2020. È stato chiaro in ogni caso come fin dall’inizio i cittadini ucraini non volessero presentare domanda d’asilo principalmente per due ragioni: in particolare la prima, più facilmente intuibile, poiché qualora venisse loro riconosciuto lo status non potrebbero far ritorno nel proprio paese d’origine, l’altro più specifico è perché al momento della presentazione della domanda di protezione internazionale dovrebbero lasciare il proprio passaporto in questura e questo non consentirebbe loro di andare a trovare i propri familiari ancora in Ucraina.

Si ricorda infatti che nel caso di presentazione della domanda di protezione temporanea il cittadino ucraino non solo mantiene il proprio passaporto ma ha il diritto di circolare liberamente nel territorio dell’Unione per un periodo massimo di 90 giorni come turista, ossia senza possibilità di lavorare ma anche di entrare e uscire nel territorio ucraino ai sensi dell’art. 6 comma 1 del DPCM al fine di prestare soccorso ai propri familiari.

Sempre con riferimento alla domanda d’asilo, in particolare in relazione all’applicazione del Regolamento Dublino che individua lo stato membro competente a trattare la domanda di protezione internazionale, è necessario sottolineare un’ulteriore differenza tra i cittadini ucraini che abbiano deciso di presentare domanda di protezione internazionale in conseguenza del conflitto armato, rispetto agli altri cittadini di paesi terzi che comunque sono fuggiti per la medesima ragione.

I cittadini ucraini infatti sono cittadini “esenti visto”, ciò vuol dire che per poter circolare nel territorio dell’Unione non hanno necessità di alcun visto di ingresso. Per tale ragione per il cittadino ucraino fuggito dal conflitto nel proprio paese di origine non è essenziale accertare che il paese nel quale abbia presentato domanda di protezione internazionale sia effettivamente il paese europeo di primo ingresso. Viceversa, gli altri cittadini terzi dell’Unione, diversi dagli ucraini, non sono esenti visto, ragione per la quale qualora presentino domanda di protezione internazionale, per esempio in Italia è necessario che dichiarino di non aver prima varcato il territorio di un altro paese europeo. Ciò chiaramente risulta altamente improbabile e quindi difficile da credere anche qualora al cittadino del Paese terzo non siano state prese le impronte in un paese o più paesi membri diversi da quello in cui è stata presentata la domanda di protezione internazionale. In conclusione, si può affermare che la protezione temporanea, almeno con riferimento alla sua applicazione in Italia, non ha rappresentato il simbolo del superamento di ancestrali recrudescenze rispetto all’ingresso di cittadini di paesi terzi ma ha avuto una particolare efficacia in ragione di alcune caratteristiche della migrazione ucraina. Sono gli stessi ucraini infatti ad aver superato qualsiasi questione in merito alla distribuzione solidale legata alla loro accoglienza nel territorio dell’Ue, essendosi collocati spontaneamente e autonomamente  nel paese membro nel quale più agevole era la fuga o maggiore erano i contatti familiari e poiché hanno principalmente optato per un sistema di accoglienza privato presso amici e  familiari e non per il sistema di accoglienza pubblico degli stranieri in Italia attraverso i Cas (Centri di accoglienza straordinari) o i Sai (centri per l’accoglienza e l’integrazione) i cui posti è bene ricordarlo sarebbero stati insufficienti ad accogliere tutti i profughi arrivati in conseguenza del conflitto.

Questo viene confermato dall’ordinanza n. 881 del 28 marzo del 2022 secondo la quale il capo della Protezione civile ha stabilito l’erogazione di un contributo una tantum per un massimo di tre mesi per i cittadini ucraini che abbiano optato per un’accoglienza presso privati.

È chiaro quindi che la protezione temporanea sia stata attivata in Europa, a seguito del conflitto ucraino, in ragione del fatto che non si sarebbe potuto procedere all’esame individuale della domanda di tutti i cittadini ucraini che avessero voluto presentare la protezione internazionale in ciascun stato membro e che gravissima è l’esclusione dei cittadini dei paesi terzi diversi dagli ucraini che sono scappati dall’Ucraina sempre per l’aggressione armata russa.

Ancora una volta la miopia europea

Tale visione è fortemente miope e si spera venga superata, se necessario a livello giurisprudenziale, considerando piuttosto l’effettivo radicamento nel territorio ucraino del cittadino del paese terzo a prescindere dal proprio titolo di soggiorno in Ucraina. Quello che si nota inevitabilmente ancora una volta, con la riesumazione di una direttiva che prevede la protezione temporanea, è che si offrono sempre soluzioni ad hoc che salvano il salvabile ma che dimostrano

che ancora non vi è nelle coscienze delle istituzioni dell’Unione una visione lungimirante per affrontare la questione migratoria che è e sarà sempre una costante nella storia dell’umanità.

L'articolo n. 21 –  Lo “strano” caso della protezione temporanea per i cittadini ucraini proviene da OGzero.

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N. 20 – Polonia e Unione Europea: il segnale non intercettato dell’imminente conflitto in Ucraina https://ogzero.org/polonia-e-unione-europea-il-segnale-non-intercettato/ Mon, 27 Jun 2022 17:33:53 +0000 https://ogzero.org/?p=7994 I campanelli di allarme che non sono stati ascoltati erano tutti nel vacillare degli assetti politici dell’Europa centrale. Attraverso una lettura attenta anche dal punto di vista giuridico delle normative, Fabiana Triburgo fa emergere i cavilli e le deroghe che rendono possibile una strumentalizzazione del migrante che corrisponde alle strategie politiche e geopolitiche degli stati […]

L'articolo N. 20 – Polonia e Unione Europea: il segnale non intercettato dell’imminente conflitto in Ucraina proviene da OGzero.

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I campanelli di allarme che non sono stati ascoltati erano tutti nel vacillare degli assetti politici dell’Europa centrale. Attraverso una lettura attenta anche dal punto di vista giuridico delle normative, Fabiana Triburgo fa emergere i cavilli e le deroghe che rendono possibile una strumentalizzazione del migrante che corrisponde alle strategie politiche e geopolitiche degli stati membri (e non) dell’Unione Europea in difficoltà attraverso patti e accordi che rendono possibile attuare respingimenti illegali, costruire ancora muri e campi di detenzione con la scusa di false emergenze. In questo saggio si analizza il caso di Polonia e Unione Europea, nel suo sviluppo all’interno di un contesto più ampio di interessi internazionali scatenatisi con la guerra ucraina.


Risulta sempre più evidente come i flussi dei movimenti umani non siano semplicemente fenomeni da valutare nell’ambito dei temi riguardanti le politiche migratorie di uno o più stati o più specificatamente rispetto al sistema normativo in materia ma piuttosto qualificabili quali eventi che nascondono questioni, giochi di forza e interessi geopolitici dei quali sono la diretta conseguenza e, non come si potrebbe superficialmente pensare, la causa. Ciò emerge anche rispetto al conflitto armato in corso in Ucraina: rileggere all’indietro alcuni accadimenti della storia degli ultimi due anni dell’Europa orientale ci consente di comprendere come il fenomeno migratorio, così come era andato strutturandosi già nell’agosto del 2021 e ancor prima – almeno negli intenti di due attori statali dell’area ossia Russia e Bielorussia – fosse uno dei primi e più rilevanti campanelli d’allarme che gli assetti politici – apparentemente calcificati a livello geografico lungo la nuova cortina di ferro – stavano cominciando a vacillare. Gli eventi verificatisi a partire dal 2020 potrebbero dunque essere definiti iniziali scosse di terremoto che, a distanza di oltre trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, hanno risvegliato il sottosuolo degli equilibri internazionali creando delle faglie o – visti gli attuali sviluppi del conflitto ucraino – vere e proprie voragini, simbolo di questioni silenti ma non certo più esistenti. Occorre dunque per l’analisi dei flussi migratori nell’Europa orientale – certamente anomali, per come sono andati delineandosi, ma non particolarmente emergenziali quantitativamente come invece si è voluto lasciare intendere – tornare indietro all’estate del 2020 quando il presidente bielorusso Lukashenko, in carica dal 1994, è stato rieletto con circa l’80% dei voti favorevoli ma al contempo accusato di brogli elettorali al punto da essere destinatario di violente proteste da parte della popolazione civile finalizzate a far cadere il regime. A questo punto il primo elemento rilevante è che l’ondata di proteste che interessò gran parte della popolazione bielorussa anche prima delle elezioni venne foraggiata dalla Lituania e dalla Polonia.

Proteste a gennaio 2014 a Kiev (foto Roman Mikhailiuk / Shutterstock).

La strumentalizzazione dei migranti

In particolare, la Polonia costituisce l’ultimo avamposto dell’Alleanza Atlantica o meglio ancora l’ultimo stato satellite degli Stati Uniti a livello militare in quell’area. Con gli Stati Uniti la Polonia vanta solidi patti di cooperazione e intese che non sono esattamente speculari rispetto al tipo di relazioni che la Polonia intrattiene con l’Unione, pur essendone a tutti gli effetti un paese membro.

Il tentativo quindi di Polonia e Lituania in quel momento di voler far entrare la Bielorussia nella sfera di influenza posta dall’altro lato della cosiddetta “nuova cortina di ferro”, cercando di rafforzarla a proprio vantaggio, è stata percepita come una pericolosa provocazione dal regime di Lukashenko che ha quindi prontamente provveduto a chiedere il sostegno militare e politico del capo del Cremlino Vladimir Putin che è riuscito a sedare le proteste popolari nel paese a lui alleato e con il quale ha successivamente sottoscritto 28 programmi per l’unione statale.

Si pensi come negli ultimi anni il presidente russo prima in Siria ma a gennaio del 2021 anche in Kazakistan, sia intervenuto su esplicita richiesta dei leader al potere per mantenere lo status quo a livello politico, spesso con il beneplacito di buona parte della comunità internazionale, sebbene non palesemente espresso. Tutto questo per far riflettere che a livello politico il leader di uno stato acquisisce sempre più potere nella misura in cui altri attori statali gli attribuiscono un ruolo fondamentale nel dirimere talune annose questioni internazionali. Tuttavia, la crisi di governo bielorussa e l’intervento del capo del Cremlino che in un primo momento sembrava fosse una vicenda eccezionale – risolta ristabilendo l’allineamento al preesistente asse della cortina di ferro – nascondeva evidentemente proiezioni geopolitiche molto più ambiziose, emerse un anno dopo, proprio mediante quella che è stata definita “strumentalizzazione della questione migratoria”.

Le proteste in Kazakhstan.

Il piano orchestrato

Iniziata apparentemente come una pressione migratoria che Minsk intendeva porre limitatamente al confine lituano e che, come si scrisse allora, venne attuata per lanciare un messaggio all’Unione Europea in ragione delle sanzioni applicate alla Bielorussia in seguito al dirottamento dell’aereo della Ryanair con a bordo i due dissidenti del regime di Lukashenko, a settembre dello stesso anno raggiungeva invero risvolti ben più allarmanti. Infatti, con la spinta dei migranti attuata da Minsk al confine con la Polonia si delineavano più nettamente i profili di un piano orchestrato ad hoc del quale – anche qualora il presidente russo non si voglia definire il regista – non si può non qualificare quale complice, avendo mostrato di non voler intervenire nella vicenda, nonostante – considerati  i rapporti con la Bielorussia – avrebbe potuto fermarla in qualsiasi momento e tenuto conto degli ignorati appelli di sostegno più volte avanzati telefonicamente dall’allora cancelliera tedesca Angela Merkel.

In realtà si può affermare che l’appoggio della Russia a Minsk nella questione migratoria è stato la conditio sine qua non affinché essa si realizzasse. Al riguardo non si dimentichi che la quasi totalità dei migranti, prima spinti al confine bielorusso verso la Lituania e in seguito verso la Polonia, provenissero dal Medioriente – principalmente iracheni curdi, afghani e siriani – e che beneficiarono di un rilevante numero di rilasci di visti turistici per la Bielorussia nella quale arrivarono attraverso compagnie aeree turche. Non si può sottovalutare infatti che la Russia vanti un rapporto privilegiato con la Turchia: i due paesi – come più volte detto – sono in una condizione di continuo antagonismo nello scacchiere internazionale ma dimostrano di avere un reciproco rispetto nelle decisioni in politica estera. Ciò si traduce nel fatto che quando le circostanze lo richiedono sono in grado di stringere accordi, compromessi, alleanze per fronteggiare le questioni che man mano si presentano, soprattutto in situazioni di conflitti armati come in Nagorno Karabakh o ancor di più in Siria relativamente alla questione dei curdi.

Ascolta “Mosca chiude: autarchia senza prospettive” su Spreaker.

Il ruolo della Turchia

Non si può del tutto escludere dunque il coinvolgimento, almeno in un primo momento, della Turchia in questa specifica strumentalizzazione dei migranti portata avanti da Minsk. D’altra parte la Turchia è già avvezza a tattiche, o meglio strategie, basate sulla questione migratoria per il soddisfacimento dei propri interessi espansionistici ma anche puramente economici. Basti pensare al più volte citato accordo di 6 miliardi di euro elargiti dall’Unione Europea alla Turchia – recentemente rinnovato – per “l’accoglienza/trattenimento” nel proprio territorio dei profughi siriani per scongiurare la solita “invasione” che avrebbe coinvolto il vecchio continente.

E, di nuovo, i diritti violati

Come si può tristemente constatare tuttavia la cosiddetta invasione non sarebbe mai avvenuta e non ci sarebbe alcuna questione geopolitica in merito sulla quale discutere nell’ipotesi di obbligatoria ed equa ripartizione dei flussi migratori nei 28 stati dell’Unione, attraverso piani di ricollocamento, ancorati a indici demografici e del prodotto interno lordo dei paesi di destinazione. In questa sede ciò che interessa è la continua violazione dei diritti fondamentali dei migranti attuata dalla Polonia a partire da settembre 2021 quando le forze armate bielorusse cominciarono a scortarli verso quel tratto di confine tra i due stati. Va preliminarmente sottolineato che la Polonia – trovatasi in tale situazione – ha deciso di agire fin da subito in completa autonomia, senza consultare o dar seguito alle istanze – come vedremo in seguito prevalentemente di facciata – provenienti dalle istituzioni dell’Unione rispetto alla “crisi migratoria (?!)” che si stava verificando sul proprio territorio. A settembre del 2021 quindi il capo di stato polacco con l’approvazione del Parlamento proclama lo stato di emergenza che poi rinnova prontamente nel mese di novembre. Ai migranti dunque – anche richiedenti asilo – non viene data la possibilità di entrare nel territorio polacco e di presentare la domanda di protezione internazionale. Uomini singoli, soggetti vulnerabili tra cui minori, nuclei familiari e donne incinte vengono fatti stazionare al di fuori dei check point polacchi all’addiaccio.

Tuttavia, l’intento di ignorare esseri umani in difficoltà e respingerli prima dell’ingresso, oltre a violazioni formali del diritto internazionale – primo tra tutti il principio di non-refoulement – e del diritto europeo in materia d’asilo, ha causato la morte nel 2021 di ben 21 persone!

Ci si potrebbe fermare su questo dato che per la sua gravità non ammette giustificazioni di sorta e non solo con riferimento all’Unione ma a tutti i paesi membri che non sono intervenuti nella vicenda. La discussione invece in modo sterile si è sviluppata sul fatto che a Spagna, Grecia e Italia non è stato mai offerto alcun sostegno con arrivi numericamente più elevati. Ci si chiede perché in tali situazioni invece di fare confronti non si convoglino le forze politiche dell’Unione per cogliere l’occasione  di un atteggiamento politico diverso e per rivedere gli assiomi europei attuati – diversi da quelli teorizzati – dando un segnale forte, in modo tale che nessuna strumentalizzazione dei migranti produca più effetti sull’Unione o su uno dei paesi membri e non perché venga ignorata o repressa ma perché vengano rispettate le norme sul diritto d’asilo già vigenti e finalmente messo in atto il principio di solidarietà di cui all’art. 78 del trattato sul funzionamento dell’Unione.

Il punto debole dell’Unione

È chiaro infatti che a livello internazionale gli stati che hanno proiezioni egemoniche, spesso in contrasto con gli interessi del vecchio continente, hanno ben compreso – vedi Russia e Turchia – come la questione migratoria sia il vero, grande punto debole dell’Unione con il quale ricattarla, dato che non riesce in alcun modo a gestirla, se non cercando di renderla invisibile e traghettandola al di là dei propri confini. Tuttavia, visto che a quanto pare il fatto che degli esseri umani siano lasciati in tali indegne e mortifere condizioni non desta alcuna indignazione e non comporta mutamenti delle tattiche degli stati membri forse è il caso di cominciare più cinicamente a riflettere sulle conseguenze politiche ed economiche (che forse interessano maggiormente) che il perpetrare di tali comportamenti implicano e che sono ben più gravi rispetto all’adozione di un’accoglienza condivisa dei migranti soprattutto in un  caso come quello della Polonia rispetto al quale, data anche l’estensione del suo territorio e il numero di rifugiati accolti è un’eresia definire crisi o situazione di emergenza migratoria l’arrivo di 10.000 migranti!

Muri e centri di detenzione

Nonostante ciò sono stati apportati emendamenti alla normativa nazionale polacca in materia di migrazione – che a quanto pare però non vengono applicati (fortunatamente, anche se non si capisce la differenza con gli altri profughi) ai profughi ucraini – rendendola più restrittiva così come era avvenuto in Lituania e sempre alla stessa stregua si è realizzata la costruzione di un muro al confine con la Bielorussia lungo circa 186 chilometri e alto 5 metri e mezzo oltre, alla costruzione di ulteriori tre centri di detenzione all’interno dei quali in ogni stanza sono ammassate circa 22 persone in meno di 2 metri quadri ciascuno per potersi muovere.

Istituzioni in difficoltà

Nessuna novità quindi o quasi. Infatti, per quanto riguarda l’analisi dei profili giuridici, rispetto a tale vicenda, va posta attenzione sulla proposta di regolamento avanzata alla fine del 2021 dalla Commissione europea riguardo le misure che gli stati membri possono adottare in caso di strumentalizzazione dei flussi migratori ossia la “Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio volta ad affrontare le situazioni di strumentalizzazioni nel settore della migrazione e l’asilo”.

Prima di entrare nel merito del testo va preliminarmente detto che se un’istituzione europea “alla bisogna” compone un testo giuridico ad hoc per fronteggiare una situazione squisitamente politica – quando tra l’altro si è presentata già una proposta di regolamento europeo nei casi di crisi e di forza maggiore nel settore della migrazione e dell’asilo” – dimostra di essere in palese difficoltà.

Tuttavia, anche in questo testo normativo non solo non si evidenzia alcun cambiamento di visione ma si è andati ben oltre ogni limite del rispetto dei diritti fondamentali degli individui migranti per cui si auspica vivamente che il Parlamento europeo non approvi tale proposta, assurda sotto il profilo giuridico.

Nella relazione introduttiva alla proposta di regolamento viene delineato l’ambito di applicazione del medesimo ancorandolo a quelle situazioni nelle quali gli attori statali utilizzino «i flussi migratori come strumento per fini politici, per destabilizzare l’Unione europea e i suoi Stati membri».

Il diavolo sta nei dettagli

A conferma della singolarità del testo normativo in oggetto e del suo contenuto squisitamente politico – dettato da un evidente senso di preoccupazione rispetto alla situazione allora in corso – si noti come in esso vi siano, in modo del tutto inconsueto per un atto giuridico, addirittura specifici riferimenti alla situazione geopolitica in prossimità di quel confine che emergono mediante l’impiego di espressioni quali «in risposta alla strumentalizzazione delle persone da parte del regime bielorusso» o mediante l’utilizzo di termini politici – o ancor meglio propri del gergo militare – per definire la  strumentalizzazione, come per esempio «attacco ibrido in corso lanciato dal regime bielorusso alle frontiere dell’UE».

C’è da dire infatti che nella proposta di regolamento non viene data alcuna puntuale definizione giuridica del termine “strumentalizzazione” – rendendo più estesa e quindi più pericolosa l’applicazione del regolamento a situazioni che potrebbero verificarsi in futuro – tanto che per ricavarla è necessario far riferimento ad un altro testo giuridico (già analizzato nell’articolo relativo ai flussi migratori al confine Ventimiglia-Menton) ossia la proposta di modifica del Regolamento Shenghen del 14 dicembre 2021 che all’art. 2 (con l’introduzione del punto 27) stabilisce che

la «strumentalizzazione dei migranti è la situazione in cui un paese terzo istiga flussi migratori irregolari  verso l’Unione incoraggiando o favorendo attivamente lo spostamento verso le frontiere esterne di cittadini di paesi terzi già presenti sul suo territorio o che transitino sul suo territorio se tali azioni denotano l’intenzione del paese terzo di destabilizzare l’Unione».

Per quanto attiene alle conseguenze della “strumentalizzazione” inoltre è necessario che la natura delle azioni del paese terzo sia potenzialmente tale «da mettere a repentaglio le funzioni essenziali dello stato quali la sua integrità territoriale, il mantenimento dell’ordine pubblico o la salvaguardia della sicurezza nazionale». Sono chiaramente delle conseguenze gravissime ma dato che la proposta di regolamento in esame è stata stilata specificatamente per la situazione al confine polacco-bielorusso, o comunque in conseguenza di questa, ci si chiede:

può realmente l’arrivo di circa 10.000 migranti in Polonia potenzialmente mettere a repentaglio l’integrità del suo territorio, il mantenimento del suo ordine pubblico o mettere a rischio la sicurezza nazionale?!

Anomalie e volute mancanze

Inoltre, si fa riferimento alla solita dizione “migranti irregolari” quando, come noto, il richiedente asilo è irregolare nella quasi totalità dei casi perché in fuga dal proprio paese d’origine – e non è certamente ammissibile che nell’ipotesi della strumentalizzazione attuata da uno stato terzo – non abbia il medesimo diritto di altri richiedenti a presentare la domanda di protezione internazionale! Per di più altre anomalie – o meglio volute mancanze – si rilevano nel testo del regolamento: non vi è alcuna menzione di indicatori, in particolare di tipo quantistico, con i quali delineare la strumentalizzazione, per cui – ragionando per assurdo – anche due soli migranti strumentalizzati potrebbero portare all’applicazione del regolamento. Ancora più pericoloso è che il regolamento, qualora venga applicato, sia idoneo a comportare gravissime deroghe al rispetto dei diritti fondamentali in materia d’asilo.

Deroghe e cavilli

La prima deroga è relativa alla registrazione delle domande d’asilo prevista all’art. 2 (“Procedura di emergenza per la gestione dell’asilo in una situazione di strumentalizzazione”): in caso di domande presentate alla frontiera, tra l’altro in punti specifici, il termine è di ben 4 settimane per la loro registrazione (e non per l’esame!), durante le quali ovviamente i profughi restano al di fuori del territorio dell’Unione. In secondo luogo, lo stato può decidere alle sue frontiere o più genericamente nelle zone di transito, «sull’ammissibilità e il merito di tutte le domande» registrate nell’arco del periodo in cui il regolamento viene applicato. Ciò quindi senza alcun riferimento alla nazionalità di alcuni profughi come i cittadini afgani per i quali sarebbe facilmente ipotizzabile una palese fondatezza della domanda di protezione internazionale.

L’unica priorità legata alla visibile fondatezza delle domande è quella data a quelle presentate dai minori o dai nuclei familiari ma ciò che è fondamentale ricordare è che comunque tutta la procedura anche in questi casi è una procedura squisitamente di frontiera! All’art. 4 (“Procedura di emergenza per la gestione dei rimpatri in una situazione di strumentalizzazione”) si deroga inoltre rispetto al regolamento sulla procedura d’asilo e all’applicazione della direttiva rimpatri: viene meno in questo modo il diritto ad un ricorso effettivo in caso di rigetto della domanda di protezione internazionale.

Più esattamente resta il diritto alla presentazione del ricorso ma senza che questo implichi un diritto di permanenza nel territorio dell’Unione nelle more dell’attesa di una decisione in merito e ciò a meno che non venga accolta un’istanza di sospensiva degli effetti della decisione di rigetto del ricorso.

Si precisa tuttavia che qualora l’istanza di sospensiva non venga comunque accolta è disposto l’allontanamento immediato del richiedente asilo, pur se «nel rispetto del principio di non refoulement».

Inoltre, l’ipocrisia di questa proposta di regolamento si riscontra tanto nell’articolo 3 che nell’articolo 5. Nel primo infatti (“Condizioni materiali di accoglienza”) si fa riferimento a misure di accoglienza «diverse» nel caso di applicazione del regolamento e non inferiori come in realtà sono – cercando di celare i propri intenti – dietro l’espressione «in grado di soddisfare le esigenze essenziali del migrante»: si noti al riguardo quanta discrezionalità possa nascondersi dietro al termine «esigenze essenziali». Nell’articolo 5 invece (“Misure di sostegno e solidarietà”) si raggiunge l’apice dell’assurdo. La solidarietà degli altri paesi membri, qualora venga richiesta, prevista nei confronti dello stato membro vittima di una strumentalizzazione dei migranti – anche se per inciso le vere vittime della strumentalizzazione sono i migranti stessi – non è certamente quella di una ripartizione per quote dei profughi tra gli stati ma l’impiego di «misure di sviluppo delle capacità, misure a supporto dei rimpatri» che vuol dire il semplice invio di funzionari e personale appartenenti agli altri stati membri per fronteggiare la situazione “emergenziale” nonché  provvedimenti operativi a sostegno dei rimpatri.

È chiaro quindi come anche in questa circostanza l’intento reale della Commissione, con tale proposta, non sia quello di offrire a livello europeo un supporto allo stato in una situazione “emergenziale” dal punto di vista migratorio, ma quello di assicurarsi il rinforzo delle misure di frontiera al fine di porre velocemente fine a tale situazione cercando di attuare il rinvio degli individui arrivati alle porte del territorio dell’Unione il più velocemente possibile.

Gli eventi tuttavia sono sempre un passo avanti nell’imprevedibilità del loro verificarsi rispetto a qualsiasi logica o tentativo di controllo sia esso da parte degli esseri umani, degli attori statali o delle istituzioni europee e internazionali.

La solidarietà “mirata”

Alla fine del 2021 si scrisse tale proposta per l’arrivo di circa 10.000 migranti, inconsapevoli che da lì a poco si sarebbe scatenato un conflitto di portata internazionale in Ucraina alle porte dell’Unione in ragione del quale, per l’arrivo di milioni di profughi, sarebbero caduti di fatto come le tessere di un domino gli emendamenti polacchi in materia di migrazione insieme ad ogni velleità europea di contenimento e con la conseguente apertura dei confini degli stati membri. Perché dunque non pensare prima a rendere effettiva la solidarietà europea per esseri umani che avevano e hanno gli stessi diritti dei cittadini ucraini? E ancora, non conviene riflettere come per interessi economici ed energetici si è scesi a patti e sotto ricatto del leader del Cremlino e come forse non si stia facendo lo stesso errore individuando Erdoǧan come mediatore per la risoluzione di tale conflitto, considerato come detto che egli stesso è sospettato di essere stato complice della pressione iniziale dei flussi migratori al confine con la Lituania? Corsi e ricorsi storici a quanto pare spesso nulla insegnano.

barriere e ostacoli

L'articolo N. 20 – Polonia e Unione Europea: il segnale non intercettato dell’imminente conflitto in Ucraina proviene da OGzero.

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«Non posso accettare che dei miei concittadini sostengano la guerra» https://ogzero.org/l-esodo-dalla-russia/ Sun, 19 Jun 2022 16:14:18 +0000 https://ogzero.org/?p=7943 Le interviste qui di seguito sono state originariamente registrate in video alla metà del mese di giugno 2022 per la Tv Svizzera Italiana nella capitale dell’Armenia, Erevan, una delle mete dell’esodo dalla Russia. Qui viene proposta la versione integrale tradotta dal russo di cinque di queste interviste. Come è normale la televisione le ha utilizzate […]

L'articolo «Non posso accettare che dei miei concittadini sostengano la guerra» proviene da OGzero.

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Le interviste qui di seguito sono state originariamente registrate in video alla metà del mese di giugno 2022 per la Tv Svizzera Italiana nella capitale dell’Armenia, Erevan, una delle mete dell’esodo dalla Russia. Qui viene proposta la versione integrale tradotta dal russo di cinque di queste interviste. Come è normale la televisione le ha utilizzate solo in misura assai ridotta per un reportage sui fuorusciti dalla Russia di molti suoi cittadini, iniziata sin dall’inizio dell’“operazione speciale” ma che a chi scrive sembra che possano rappresentare un interessante spaccato delle opinioni, degli umori ma anche delle fratture psichiche che si sono prodotte nella Federazione con il conflitto.

La proposta di questo articolo è bilingue: in italiano lo sbobinamento delle interviste inserite in russo nella loro integrità ad alcuni fuorusciti dalla Russia verso l’Armenia in seguito all’esodo dalla Russia prodotto dalla “Operazione speciale” in Ucraina. Sono voci e volti che erano già critici verso l’apparato di potere che fa capo a Vladimir Putin pur non essendo per nulla famosi; ognuno di loro è di età, professione, provenienza diverse. Speriamo in questo modo di poter informare gli italiani che non si può categorizzare l’intera comunità russa come filoputiniana e guerrafondaia e i russofoni che non sono pochi i transfughi che hanno deciso di non tornare in Russia se non a seguito di un cambio di regime.

È molto difficile quantificare oggi quanti russi si sono rifugiati o hanno preso la strada dell’esilio dal 24 febbraio fino a oggi. Sicuramente sono centinaia di migliaia le persone che sono giunte in questi mesi in Armenia, in primo luogo giovani che temono la mobilitazione generale ma anche coppie e intere famiglie. Spesso sono persone a medio-alta qualifica professionale che possono sperare di trovare lavoro nel paese caucasico o in Europa occidentale.

Si giunge in Armenia perché è relativamente facile. Si tratta di un paese ex sovietico dove tutti sanno il russo, non occorre il visto e la popolazione è nota per la sua ospitalità. Molti pensano che sia solo un ponte per raggiungere altri paesi europei, altri pensano di restarci, altri ancora – passata la buriana – potrebbero tornare in Russia. Tuttavia il costo della vita con l’arrivo dei russi ha iniziato a crescere soprattutto nel settore degli affitti. Ormai non si trova più un monolocale per meno di 350 dollari al mese nella capitale (dove il reddito medio è di 5000 dollari l’anno) e molti russi stanno iniziando a scegliere altre destinazioni per tenersi lontani dal conflitto. La Georgia ma anche i paesi centroasiatici. In primo luogo, tra questi il Kirghizistan dove si trovano appartamenti a 50 dollari, frutta e verdura fresche abbondano ed è noto come il paese più democratico di tutta l’area.

Представленные ниже интервью были записаны на видео для итальянского телевидения Швейцарии в столице Армении Ереване в середине июня 2022 года. Здесь предлагается полная версия пяти из этих интервью, переведенная с русского языка. Как обычно, телевидение использовало их лишь в очень ограниченной степени для репортажа об отъезде из России многих ее граждан, который начался с самого начала “спецоперации”, но который, как кажется писателю, представляет собой интересный срез мнений, настроений, но также и психических переломов, произошедших в Федерации в связи с конфликтом.

Предложение этой статьи – двуязычное, на итальянском языке не опубликованные интервью, включенные полностью на русском языке, свидетелям, бежавшим из России в Армению после начала “спецоперации” на Украине. Это голоса и лица, которые уже критиковали аппарат власти при Владимире Путине, хотя они отнюдь не знамениты; каждый из них разного возраста, профессии и происхождения. Мы надеемся таким образом донести до итальянцев, что нельзя считать всю российскую общину пропутинской и воинствующей, а до русскоязычных – что есть не мало перебежчиков, которые решили не возвращаться в Россию, пока не произойдет смена режима.

Сегодня очень трудно подсчитать, сколько россиян укрылось или уехало в изгнание после 24 февраля. Безусловно, за последние месяцы в Армению прибыли сотни тысяч человек, в первую очередь молодые люди, опасающиеся всеобщей мобилизации, а также семейные пары и целые семьи. Часто это люди со средне-высокой профессиональной квалификацией, которые могут надеяться найти работу в кавказской стране или в Западной Европе.
Люди приезжают в Армению, потому что здесь относительно легко. Это бывшая советская страна, где все знают русский язык, виза не требуется, а население известно своим гостеприимством. Многие считают, что это просто мост в другие европейские страны, другие планируют остаться там, а третьи – когда буря пройдет – могут вернуться в Россию. Однако стоимость жизни с приездом русских начала расти, особенно в секторе аренды жилья. В столице (где средний доход составляет $5000 в год) больше нельзя найти однокомнатную квартиру дешевле $350 в месяц, и многие россияне начинают выбирать другие направления, чтобы быть подальше от конфликта. Грузия, но и страны Центральной Азии. Первым среди них является Кыргызстан, где квартиры можно найти за 50 долларов, свежие фрукты и овощи в изобилии, и он известен как самая демократическая страна во всем регионе.


Yurii ci aveva preannunciato in un intervento radiofonico su Radio Blackout questa serie di interviste raccolte a Erevan il 6 giugno:

“Diaspora russa in armenia”.

Queste interviste forniscono un quadro di chi emigra che toglie dalla “zona comfort” molti lettori che culturalmente provengono “da sinistra”. Il regime putiniano viene colto – possa ciò piacere o meno – come una continuità dell’Urss e perlomeno come un suo ritorno di fiamma. Balugina qua là anche dell’anticomunismo viscerale. Permangono illusioni inoltre sui regimi occidentali. Ma se quelle economiche sono destinate a sciogliersi presto a contatto con la dura realtà del mercato del lavoro europeo, le illusioni politiche sono destinate a permanere a lungo, inevitabilmente. La fame di democrazia politica – seppur nella forma sempre più vuota che osserviamo in Occidente – rappresenta una chimera per chi ha vissuto in un regime che qualcuno degli intervistati non fa fatica a chiamare fascismo.
Allo stesso tempo – in controluce – ritorna in alcuni degli intervistati che hanno lasciato il paese un anelito a una società non solo più “stabile” ma più giusta, più equa, meno autoritaria. Un’aspirazione in buona parte evaporata da decenni nelle metropoli capitalistiche occidentali.

Tutti gli intervistati hanno rifiutato di coprirsi il viso, distorcere la voce, cambiare nome per l’occasione. Non si tratta solo o eventualmente di coraggio ma di affermare la propria dignità e identità, soprattutto in un momento difficile come quello in cui si lascia il proprio paese.


Yurii Alexeev 48 anni. In Russia prima di emigrare a maggio 2022 viveva nella provincia di Vladimir. Laureato in giurisprudenza, esperto di IT, blogger, attivista dei diritti umani.

Che giudizio esprime dell’operazione speciale in corso in Ucraina da parte dell’esercito russo?

Innanzi tutto voglio dire che mi batto ormai da 5 anni contro il regime di Putin. Penso che Putin sia un problema per la Russia ma anche per il resto del mondo. Mi batto perché le istituzioni democratiche in Russia possano conoscere un nuovo inizio.
Per quanto riguarda la guerra che Putin sta conducendo in Ucraina, e i russi insieme a Lui (Putin da solo non avrebbe potuto condurre una tale guerra senza il sostegno di parte della popolazione) la situazione è diventata così difficile che condurre una difesa dei diritti umani e politica in Russia è diventato pericoloso. Io, il giorno in cui iniziò la guerra misi sul balcone una bandiera con scritto “No alla guerra” e mi dichiarai pubblicamente contro di essa sul mio canale YouTube. Per questo venni arrestato amministrativamente per 15 giorni. Allora capii che se fossi restato in Russia sarei stato perseguito anche penalmente. La nuova legge contro il “discredito delle Forze Armate Russe” (tale legge è stata approvata appena dopo l’inizio delle operazioni e prevede condanne penali dai 3 ai 15 anni di reclusione N.d.R.) mi avrebbe colpito sicuramente perché io non riesco a stare zitto.

Pensa quindi che la maggioranza dei russi sostenga qui l’azione in corso?

Non è proprio così. Putin e la sua banda mettono in risalto tutte quelle voci e quelle posizioni a lui favorevoli ma in realtà le cose stanno diversamente. Se la domanda sul sostegno alla guerra fosse posta dai sociologi e chi svolge i sondaggi in modo corretto la percentuale di chi è contro sarebbe due o tre volte superiore a quella di chi è favorevole.

L’impressione da fuori è che ci sia una consistente maggioranza di russi favorevole, anche se poi bisognerebbe capire dove è concentrata questa maggioranza per classi sociali e di età e per posizionamento geografico…

Ritengo che alla maggioranza assoluta, parliamo forse del 60% della popolazione, il tema “guerra” non interessi. La vedono in Tv ma ne sono distanti. Poi c’è un 20% di persone contrarie ma silenti e qualcosa di meno del 20% di favorevoli.

In Occidente dopo che si è assistito inizialmente a una grande copertura dei mass-media alle proteste ora è calato il silenzio. Cosa è successo nel frattempo?

Tutta questa gente che protestava ha lasciato la Russia. Sono qui in Armenia, in Georgia, in Lituania, in Europa. Credo che degli attivi oppositori alla guerra siano rimasti circa la metà.
Io personalmente aiuto chi arriva a Erevan a trovare una sistemazione. Spesso arriva gente traumatizzata da tutti questi mesi di pressione. Gi faccio capire che già qui in Armenia hanno dei diritti.  E il flusso continua. Gli altri, coloro che sono rimasti in Russia, sono costantemente sotto la pressione delle multe, dei fermi e degli arresti.

Lei ha deciso di andarsene dalla Russia per sempre o solo temporaneamente?

Tornerò solo se non ci sarà più “Putin”. Putin come persona e il putinismo come regime. Ma quando questo avverrà non lo posso immaginare. Nessuno lo sa. Quando i bolscevichi presero il potere chi emigrò o divenne esule pensava che sarebbe presto tornato ma poi il potere sovietico restò in piedi 70 anni. Può darsi che tutto ciò si ripeta.

Se potesse sintetizzare la sua visione politica cosa direbbe?

Mi sento un democratico e un liberale allo stesso tempo, insomma sono per la libertà. La democrazia è lo strumento “tecnologico” della libertà, prendere insieme le decisioni.

Pensa di restare qui in Armenia o di trasferirsi in Europa Occidentale?

Per me esiste il pianeta terra, non mi pongo limiti. Per questo posso dire che non mi manca neppure la Russia. Se nel futuro riterrò che dovrò spostarmi in un luogo, cercherò di farlo. Per adesso posso dire a chi ha intenzione di andarsene dalla Russia: «Venite qui! C’è molto da fare!»; se molti se ne vanno ciò comunque produrrà un indebolimento del regime.

Lei pensa che questo conflitto durerà ancora a lungo?

Non lo so, nessuno lo può dire. Spero solo che l’Ucraina vinca in modo tale che i russi capiscano che ciò che hanno fatto non si può fare. Io spero che per la Russia sia una lezione. La Russia, per usare le parole di Fëdor Dostoevskij ha realizzato un “delitto” e ora dovrà subire il “castigo”.

Per come l’ha inteso qual è l’atteggiamento degli armeni di fronte al conflitto russo/ucraino?

Lo osservano da lontano. Tendono a vedere questo scontro attraverso le lenti della crisi con l’Azerbaijan e la questione del Nagorno-Karabakh. Potremmo dire che la maggioranza non si schiera e solo una piccola parte “realisticamente” sostiene che vista la situazione geopolitica non si può non essere alleati con Putin. Ma una parte significativa ha ancora il dente avvelenato perché il Csto (Collective Security Treaty Organization, l’alleanza militare a guida russa N. d. R.) non intervenne a fianco dell’Armenia nel 2020 quando ci fu l’esplicita richiesta da parte del governo di Nikol Pashinyan


 

Ivan, 26 anni di Mosca. Specialista IT.

 

Perché ha deciso di venire a vivere a Erevan?

In Russia c’era una situazione molto difficile e poco intellegibile. I nostri politici erano assai ambigui sulla questione della mobilitazione generale. E non era neppure chiaro se le frontiere sarebbero rimaste aperte o no. Anche i cosiddetti “volontari a contratto” non si capisce se siano tali o meno. E perciò ho deciso di andarmene.
Ho partecipato a qualche manifestazione a partire dal 2017. Soprattutto quando ci furono le elezioni comunali di Mosca nel 2019. Ma ne sono rimasto deluso. Molta gente ha partecipato a delle proteste dal 2012, ma purtroppo è cambiato ben poco. Per cui ho capito che si rischiava troppo senza alcuna prospettiva e ho pensato che sarebbe stato meglio preoccuparmi del mio futuro. Ora ci sono molti programmatori e specialisti IT single come me che hanno lasciato la Russia e sono venuti in Armenia. Altri sono dubbiosi poiché dovrebbero trasferire tutta la famiglia in tal caso.

Lei ha fatto il servizio militare?

No sono stato riformato. Come si fa a essere riformati penso che tutti lo sappiano. Potrei essere mobilitato solo se fosse dichiarata formalmente la guerra. Cosa che per ora non è stata fatta.

Pensa di tornare in Russia?

Difficilmente tornerò se non cambierà il regime. Potrei tornare qualche volta per incontrare amici e parenti, ma non di più. Tornerò solo se si imporrà un sistema democratico.  Ora sto valutando diverse proposte di lavoro a distanza. Con qualche azienda armena o europea. Mi piacerebbe vivere in qualche paese europeo per un certo periodo.

Pensa che questa situazione durerà a lungo?

Vedo che molti paesi stanno cercando di isolare la Russia e c’è il rischio che il paese diventi una Nuova Corea del Nord. Vedo anche che l’Occidente ha i suoi progetti per ricostruire l’Ucraina ma non ho idea di come si ricostituirà la Russia. Non vedo nessuno a cui interessi –oltre che a noi russi – che la Russia diventi democratica. Per molti in Occidente se la Russia si trasformerà in una Nuova Corea del Nord non è poi così importante. Dipenderà quindi molto da noi russi. Si fa un grande errore se si confondono i russi con il loro attuale regime politico.

 


La fuga degli esperti di informatica.


Albert 28 anni, insegnante di Novosibirsk. Ha partecipato al movimento politico di Navalny.

Perché ha deciso di venire in Armenia?

Per me con la guerra è iniziato un periodo assai difficile. Era davvero difficile per me vivere in un’atmosfera da stato fascista e di odio. Non posso accettare che dei miei concittadini sostengano la guerra e pensino sia normale combattere contro gli ucraini, non posso accettare che si possa tentare di risolvere le controversie con la forza.

È una scelta che ha fatto da solo?

Ne ho parlato con chi faceva parte del movimento di Navalny prima della sua liquidazione, ma la mia scelta è stata individuale. Per me questa vicenda è anche una tragedia personale, qualcosa di devastante dal punto di vista umano.

Lei ha fatto parte del movimento di Navalny in quale periodo?

Non sono mai stato affiliato ma ho partecipato a tutte le fasi del suo sviluppo a Novosibirsk e certamente ancora oggi mi batto per la liberazione di Navalny e perché possa tornare alla vita politica russa. Tra il 2017 e il 2020 sono stato molto attivo sia nelle manifestazioni sia nelle campagne elettorali. È stato il più bel periodo della mia vita.

Ritiene che oggi sia insensato lottare in Russia per un cambiamento?

Io penso che per ognuno di noi sia possibile fare le sue scelte. Io credo che per me in questo momento restare in Russia e tentare di cambiare le cose non abbia senso. Tutti i mass media di opposizione come “Novaya Gazeta” e il canale televisivo Dozhd sono stati messi fuori gioco. Cercare di ridurre il tasso di fascismo è stato vano. Io sono preoccupato e temo per chi la pensa come me ed è restato in Russia. E sono felice di ogni persona che incontro qui in Armenia per il solo fatto che sia libero e vivo.

Pensa quindi che ora vivrà in Armenia a lungo?

Fino a quando Putin resterà al potere io non tornerò in Russia. Solo se si imporrà la democrazia potrò valutare la possibilità di tornare. Non credo però che resterò tutta la vita in Armenia. È un bel paese e molto ospitale ma non amo molto i suoi valori patriarcali e “tradizionali”. Per esempio l’atteggiamento verso i gay e le lesbiche. Li rispetto ma non li condivido. Pensa che ci debba essere un pluralismo su come la gente intende vivere. Per cui adesso intendo qui riprendermi moralmente ma poi vorrei cercare di trovare lavoro in Europa.

Pensa che le sanzioni che colpiscono direttamente lo stile di vita dei russi come quelle sul cinema, lo sport e la cultura siano utili o aiutino Putin a presentarsi come una vittima della russofobia per unire intorno a sé parte dell’opinione pubblica?

Ci sono delle sanzioni che conducono in Russia a un deficit di medicinali e ciò ha delle ricadute tragiche per chi non ha possibilità di recarsi all’estero per curarsi. Questo non è accettabile. Io sono contro le sanzioni settoriali che colpiscono buona parte della popolazione russa e favoriscono la propaganda del regime. Bisognerebbe puntare ancora di più sulle sanzioni individuali. In questo momento però sarebbe importante soprattutto fermare il bagno di sangue e quindi non dare la possibilità alla Russia di produrre armi. Tutto il resto è secondario.

Pensa che ci potrà essere a medio termine un cambiamento progressivo in Russia?

Che dire, ci abbiamo provato in questi anni. Invece siamo arrivato al fascismo.

Quindi nessuna speranza?

La speranza c’è sempre. Per esempio io ho un’ottima opinione di una nazione europea che è riuscita a superare il fascismo come la Spagna. Per me sarebbe molto interessante conoscere questa realtà, capire come ha superato l’eredità del fascismo e come quindi potrebbero prodursi tali tipi di mutamento anche in Russia. Però penso che dovranno passare alcune generazioni perché la Russia si metta sulla strada della democrazia definitivamente.

Credo che i mutamenti in Russia potranno avvenire più rapidamente di quanto si creda perché si tratta di un sistema molto personalistico anche se poi per consolidare i cambiamenti ovviamente ci vorrà del tempo. Il fascismo si basi sull’odio, sulla divisione dall’altro. Il fascismo è come una droga, finisce per dare dipendenza. Quando hanno iniziato a dire il Tv che gli ucraini erano i cattivi, erano da odiare, molti hanno iniziato a farlo. Purtroppo troppi si sono abituati a odiare.


Jaroslav, 25 anni, di Samara. Ha lavorato nel settore del commercio all’ingrosso, ora nell’IT.

Qui si vede l’intervista / видеоинтервью можно скачать здесь

Perché è venuto in Armenia?

Per le stesse ragioni di molti, perché la guerra, e non una “operazione speciale” come dicono, sta continuando e temo la mobilitazione. Ma già dal 2014 con l’annessione della Crimea e l’inizio delle sanzioni, sono iniziate a peggiorare le condizioni di vita. Ma non è solo questo: ho iniziato a percepire che nel paese non si assimilavano più le nuove tecnologie americane, non c’erano più start-up, insomma che stavamo arretrando. Non recepivamo più le novità dei paesi democratici avanzati.

L’idea che ci fossimo presi un pezzo di terra come la Crimea – nel mondo contemporaneo dove per le nuove tecnologie permettono di lavorare e vivere in ogni dove – mi sembrava arcaica. Nel Ventunesimo secolo avere ancora tali ambizioni imperiali mi sembrava non solo sbagliato ma fuori tempo. Già allora iniziai a riflettere dove avrei potuto trasferirmi, pensavo alla Germania soprattutto.

E poi…

Quello che è avvenuto il 24 febbraio nessuno se lo aspettava, nessuno ne sapeva nulla. In un attimo capisci che tutti i tuoi piani per il futuro saltano in aria e sei costretto a fare un bilancio finale di tutto ciò. Ecco perché ora sono in Armenia.

A Samara, la gente come ha visto il conflitto?

Mia madre e la mia fidanzata sono nettamente contrarie, mentre mio padre lo sostiene. Lui ritiene che andandomene mi sono dimostrato un traditore della patria. Ma non ritengo di esserlo. Questa non è la Seconda guerra mondiale, non ci stanno invadendo, non c’è nessun pericolo per le nostre persone care o i nostri amici.

Chi è favorevole alla guerra guarda all’America come a un mondo che degenera e allora capisci immediatamente da dove vengono queste idee, si originano dalla televisione. Forse il 60% delle persone che frequento provano a dare una giustificazione in qualche modo a questa guerra. Si tratta di persone martellate dalla propaganda che continua a ripetere all’unisono: «State tranquilli, tutto questo passerà, presto tutto finirà!». Come dicono i nostri dirigenti, “tutto sta andando secondo i piani”. Molti credono che passeranno ancora 3-4 mesi e tutto tornerà come prima.

Mi ha detto che la sua ragazza è rimasta lì. Vuole venire via anche lei?

Sì attende solo che ci siano le condizioni per farlo. Io voglio definire prima che fare nel futuro. Stabilizzare la mia situazione qui o in un altro paese. Aver da vivere insomma.

Non le sembra che così la Russia piano piano perderà tutta la forza-lavoro più specializzata, le persone più attive e intelligenti? Che il paese si impoverirà ed emergeranno solo gli “yes-man”?

Ai tempi dell’Urss non tutti volevano andare via ed era difficile andarsene. Anche ora non è facile, è qualcosa che provoca una grande tensione morale e quindi ci sarà ancora chi pazienterà. La situazione resterà probabilmente instabile anche quando Putin morirà…. Può darsi che ci sarà una continuità di regime con Patrushev (il più accreditato ora a prendere il posto di Putin nel futuro. È stato a capo del Fsb N. d. R.). Non è detto che si formerà una massa critica per il cambiamento. Nessuno può saperlo. Del resto nessuno si aspettava ai tempi che l’Urss crollasse.

Dunque la situazione resta aperta?

Sì c’è gente che ancora sostiene il regime ma con cui va tenuto aperto il dialogo, potranno cambiare idea. Prima o poi la pace, in ogni caso, arriverà, anche se non sappiamo quando sarà. E sono ottimista, non ci sarà la guerra nucleare. Ogni regime basato su un grande leader quando muore produce una grande instabilità. Successe perfino con Mao in Cina. Bisognerà muoversi verso una pace mondiale. Lentamente e sarà difficile ma è una strada che deve essere percorsa. Il processo di democratizzazione sarà lungo, deve essere basato su nuove persone e su nuove garanzie. E come russo spero che si arrivi a una stabilità come da voi in Europa. Insomma un mondo senza fame, guerre e grandi migrazioni e dove si pensi al progresso per tutti, è possibile.


Dmitry Andreyanov, 55 anni. Rostov sul Don. Giornalista prima della Tv di stato poi del canale di opposizione Dozhd (ora chiuso).


Lei viene da Rostov sul Don, una regione un po’ di confine tra il Donbass, dove ora si combatte, e il resto della Russia…

Sì è così. Già prima del 24 febbraio tutto quando succedeva ci passava sotto gli occhi. Dove vivevo io si vedevano passare le truppe e si sentivano ogni tanto anche delle esplosioni. Abbiamo visto passare i profughi già a partire dal 2014 e anche adesso prima di andarcene (sono emigrato in Armenia con tutta la famiglia, io, mia, moglie e i nostri due figli).

Lei come giornalista che viveva in quelle zone ha avuto la sensazione che si sia trattata di una guerra che è continuata senza soluzione di continuità per 8 anni?

La guerra è proseguita tra il 2014 e il 2015. Poi c’è stato un periodo di congelamento e di cessate il fuoco. E poi è ripresa già all’inizio del febbraio 2022. Quando si verificavano degli eventi importanti su scala internazionale, allora c’era una qualche ripresa del conflitto, ma complessivamente la situazione era tranquilla. Nelle due Repubbliche autoproclamate erano state aperte delle banche, c’era una qualche attività commerciale e comparvero anche attività produttive anche se non erano riconosciute, neppure dalla Russia. Provavano anche a esportare il carbone in Russia…

Dalla parte del confine ucraino c’era il blocco completo?

Non proprio. Le due repubbliche cercavano di commerciare anche in Ucraina, usando sulla “linea di contatto” dei metodi di corruttela. Insomma il contrabbando esisteva. Inoltre gli anziani e invalidi di Lugansk e di Donetsk ricevevano le pensioni ucraine. Ma per riceverle bisognava recarsi in Ucraina. Ricevevano 3 pensioni: quella russa, quella ucraina e quella della Repubblica. Cifre misere tutt’e tre, naturalmente.

Dopo il 2014 furono molti quelli che emigrarono dalle Repubbliche verso la regione di Rostov?

Sì tanti. Va capito che queste due Repubbliche autoproclamate sono una “zona grigia” dove non ci sono leggi certe, dove non c’è attività lavorativa legale. Chi ha in mano un mitra decide quali sono le leggi. E così molti nel tempo sono arrivati a Rostov ma poi si sono sparpagliati in tutta la Russia, perfino in Kamchatka. Arrivarono complessivamente 1.230.000 profughi che poi si dispersero in giro.

Lei faceva attività giornalistica nel Donbass occupato?

Fino al 2018. Ci si doveva prendere dei rischi in quanto la legge era qualcosa che andava interpretata e da ciò ne discendeva l’approccio di quelle cosiddette autorità. Poi venne introdotto un sistema di accreditamento per i giornalisti. Il primo canale russo cercò di accreditarmi ma non se ne venne a capo: neppure dopo l’interessamento del ministero degli Esteri Io non venni accreditato, mentre altri sì.

Aveva la sensazione che tutti coloro i quali erano contrari alle Repubbliche se ne fossero andati in precedenza o una parte era rimasta?

Difficile dirlo, non ci sono statistiche al riguardo. La gran parte della gente che si accorse allora che si stava imponendo il cosiddetto “Mondo russo” si rifugiarono in Ucraina. Gli altri dal 2016 furono raggruppati in campi di concentramento temporanei e poi molti tornarono a casa. Pensavano che il Donbass sarebbe diventata la nuova Crimea con tanti investimenti russi e un certo tenore di vita. Cosa che ovviamente non divenne mai realtà.  Anche perché al tempo Putin, a essere onesti, non aveva fatto alcuna promessa. Per la Russia questa regione è sempre stata solo una piattaforma da cui condurre una guerra di aggressione.

In Italia esiste una minoranza dell’opinione pubblica che ritiene che nel 2014 sia stata condotta una guerra tra battaglioni ipernazionalisti o nazisti come l’Azov e dei battaglioni antifascisti delle Repubbliche cosiddette popolari. Cosa può dire a tale proposito?

In Ucraina non c’è stata a mio avviso alcuna guerra civile. C’è stata un intervento diretto della Federazione Russa nel territorio ucraino con l’occupazione di tre provincie. Il ruolo fondamentale che venne giocato dall’esercito russo nel 2014, ormai non è un segreto per nessuno. L’uso di armi sofisticate e di missili lo dimostra con evidenza come del resto l’uso dell’aviazione. Anche alcuni reparti del Donbass ovviamente combatterono ma furono ben equipaggiati dalla Russia. E una buona fetta di costoro erano avventuristi e mercenari. L’esercito ucraino ben poco organizzata poté fare ben poco in quella situazione. Anche perché del resto era ben poco motivato a combattere.

Da quante tempo fa il giornalista?

Dal 1996 sono giornalista televisivo soprattutto su questioni politico-sociali. Ma quel tipo di giornalismo che facevo prima, in Russia già non è più possibile. Ormai negli ultimi due anni, ogni cosa che filmavi non andava bene per la polizia. Molte volte siamo stati fermati mentre riprendevamo qualcosa. Prima si poteva mettere in discussione le loro decisioni amministrative, ora hanno ragione “per principio”. I giudici ogni volta ripetono come un mantra «non abbiamo motivo di non credere a quanto sostengono le forze dell’ordine». E non importa quali prove tu possa portare a tuo sostegno, magari portando la testimonianza che qualcuno è stato picchiato senza motivo, la canzone è sempre quella: “non abbiamo motivo di non credere a quanto sostengono le forze dell’ordine”.

Lei con la sua famiglia ha deciso di andarsene per sempre?

Ce ne siamo andati subito dopo il 24 febbraio, appena è stato possibile. Appena abbiamo raccolto i mezzi economici (per ora a Erevan si possono spostare i soldi) fatto il passaporto, e quindi abbiamo fatto le valigie e siamo andati in aeroporto. Del resto non avevamo nessuna voglia di finire in galera come disertori!

Non so se torneremo. Deve cambiare qualcosa neppure tanto a livello di regime quanto qui, nell’animo. Oggi come oggi direi, per il mio stato morale, che non voglio ritornare in Russia mai più. Non voglio più essere associato con il paese in cui ho vissuto tutta la mia vita. Oggi come oggi non riesco a vedere nulla di positivo in quel paese. Se torno indietro torno all’epoca del Komsomol (la gioventù comunista dell’epoca sovietica N. d. R.), al passato sovietico, al mio lavoro all’aviazione, alla perestrojka, e via via non riesco a vedere niente di soddisfacente.

Qualcuno mi dice: “Ma lei a chi servirà in Occidente?”, io rispondo: “Cosa servo io alla Russia?” In Russia non sono né cittadino, né elettore, ma devo comunque pagare le tasse. Io da solo pago lo stipendio di due poliziotti. Sono stato scrutatore a quasi ogni elezione e ogni volta è finita che è arrivata la polizia e mi cacciavano via. Se fossi gay potrei essere ammazzato solo per essere tale. Ecco perché io non voglio tornare in quel paese.

Potrà secondo lei avvenire nel futuro un cambiamento in Russia?

Come dicevano i classici del marxismo ci vogliono le “condizioni oggettive”. Oggi in Russia ci sono le “precondizioni” solo per una dittatura ancora più dura e sanguinosa. I sondaggi che appaiono sulla guerra attuale dimostrano che esiste una maggioranza favorevole a questa guerra e potenzialmente a una dittatura ancora più dura. In realtà la maggioranza dei russi sarebbe contro la guerra: ma da una parte c’è una minoranza che abbandonato il paese e ora si trova da qualche altra parte e dall’altra una maggioranza che però in qualche modo la giustifica. “Il Capo ha deciso in questo modo, avrà avuto le sue ragioni”, si dice. Oppure: “Noi eravamo contro la guerra ma non c’erano altre possibilità!” Insomma c’è chi è categoricamente contrario e chi è contrario ma la giustifica o prova a farlo.

Ma non crede che se le cose non andranno così bene in Ucraina e all’interno si creeranno delle possibilità di cambiamento?

Credo che molti russi non siano diversi dai cubani che vivono poveramente e sotto la dittatura ma ritengono che sia sempre e solo colpa degli americani. La colpa anche in Russia sarà degli Occidentali che non ci hanno capito, che ci hanno emarginato e così via. Purtroppo abbiamo avuto tutto il mondo contro, si dirà.

Pensa che lei è la sua famiglia resterete qui o vi trasferirete altrove?

Noi sfruttiamo l’occasione che ci ha dato Putin, per girare il mondo per quanto avremo le possibilità economiche. Può darsi che quando saremo molto anziani io e mia moglie, silenziosamente torneremo a casa. Avevo sempre promesso a mia moglie che l’avrei portata a Kiev, dove sono stato studente in gioventù; le ho detto: «Per ora Kiev non si può fare. Ti basterà Parigi?».

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L’ordine regna in Kazakhstan e grande è la confusione sotto il cielo russo https://ogzero.org/lordine-regna-in-kazakhstan-e-grande-e-la-confusione-sotto-il-cielo-russo/ Sat, 15 Jan 2022 00:49:02 +0000 https://ogzero.org/?p=5851 Il bilancio dopo il ritorno all’ordine non è così scontato nei molti temi toccati dall’intervento di Yurii Colombo a completamento delle intuizioni incentrate sulla lotta di classe che ha inaugurato il 2022 kazako. Hanno fatto attenzione a reprimere senza umiliare i lavoratori kazaki, che ora attendono mobilitati che le promesse siano mantenute: infatti si è […]

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Il bilancio dopo il ritorno all’ordine non è così scontato nei molti temi toccati dall’intervento di Yurii Colombo a completamento delle intuizioni incentrate sulla lotta di classe che ha inaugurato il 2022 kazako.

Hanno fatto attenzione a reprimere senza umiliare i lavoratori kazaki, che ora attendono mobilitati che le promesse siano mantenute: infatti si è trattato di una reazione da un lato militare e spietata (con morti, arrestati, violenze…), condotta da reparti speciali, soprattutto contro i riot. E dall’altro traspare il sapore populista volto a blandire la piazza che impaurisce l’oligarchia – nella tradizione della satrapia  centrasiatica, che ha visto le stesse manovre precipitose nelle altre nazioni limitrofe che sono terra di conquista della Nato e che vedono gli oligarchi tentati di sfuggire al potere di Mosca. Salvo poi rivolgersi al Cremlino per soffocare rivolte e contese. Mentre Putin mira soltanto a mantenere una cintura di sicurezza, chiedendo attraverso i colloqui con la controparte di stilare un regolamento politico strategico che assicuri che non ci sia possibilità alcuna di confluenza nella Nato di un paese che condivida i confini occidentali della Federazione russa. Ma questo riguarda l’Ucraina, il mantenimento invariato del Kazakhstan non è in discussione.

A fronte di questa situazione internazionale ogni paese di quel cuscinetto di sicurezza ha una sua situazione particolare che rientra comunque negli standard delle risposte prevedibili: ciascuno diverso, ma ognuno uguale nel mantenimento degli equilibri. Il Kazakhstan in particolare è importante per le relazioni internazionali, tanto che non si è vista una reazione fatta di sanzioni o muscolare da parte di europei, che sfruttano le risorse; o di americani, che approfittano per provocare Mosca; o di cinesi , che ci devono far passare la Via della Seta. E allora è importante per tutti mantenere lo status quo, ma anche che i lavoratori producano quelle ricchezze che le potenze straniere e le multinazionali del petrolio intendono sottrarre.

Yurii, dopo gli aspetti sociali (assolutamente centrali) affronta subito, eliminandole, le letture complottiste dietro a cui Toqaev ha tentato di nascondersi. Ma la preoccupazione per i milioni di russofoni abitanti fuori dai confini russi, e anche i tanti provenienti dalle ex repubbliche e vivono in Russia, hanno richiesto uno studio della paura del jihad che dalla guerra in Cecenia in avanti ossessiona Putin.


«L’ordine regna in Kazakhstan» potremmo dire parafrasando Rosa Luxemburg. Dopo agitazioni e rivolte durate quasi una settimana – soprattutto grazie all’intervento delle truppe dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto) – il presidente Qasym-Jomart Toqaev è riuscito a riprendere il controllo della situazione e ha promesso anzi che entro la fine del mese di gennaio quest’ultime verranno ritirate completamente dal paese. Restano però aperte non solo molte questioni interne, ma anche riguardanti la sistemazione dell’ordine regionale e inevitabilmente di quello mondiale visto la dimensione strategica per il mondo occidentale del problema del contenimento del radicalismo islamico e del controllo delle rotte energetiche (il Kazakhstan ha riserve di petrolio per 30 miliardi di barili e di gas per 3 trilioni di metri cubi).

L’intervento del Csto è servito a stabilizzare la situazione che rischiava di sfuggire di mano dopo i vistosi fenomeni di “fraternizzazione” e “timidezza” della polizia (e persino dei reparti speciali) nei confronti dimostranti in varie zone del Kazakhstan. Per avere un quadro delle dimensioni degli avvenimenti kazaki basterà ricordare il bilancio finale degli incidenti in tutto il paese: 164 morti tra i dimostranti e 18 tra forze dell’ordine, oltre 8000 arresti, oltre tre miliardi di danni economici dovuti agli scioperi, al blocco delle comunicazioni e dei trasporti e per i danneggiamenti.

Come si evince dall’infografica è stata coinvolta dai disordini solo una delle tre città più popolate, ma tutti i grandi centri urbani industriali (a parte Alma Aty ovviamente) hanno visto manifestazioni egemonizzate da gruppi di lavoratori e dai sindacati. L’eterogeneità delle rivendicazioni e delle proteste non deve far dimenticare il tratto unificante di una richiesta generalizzata di maggior equità sociale.

Nei giorni successivi, il presidente kazako, soprattutto per giustificare l’intervento esterno, ha enfatizzato i caratteri “arancioni” delle dinamiche nel paese, ma ben presto ha dovuto drasticamente ridurre il numero di mercenari a suo dire attivi nelle manifestazioni da 20000 a 300. Lo stesso tasto, ma con meno vigore è stato premuto da Putin, il quale ha però immediatamente distinto «l’azione terroristica dalle proteste contro il carovita». Secondo i servizi speciali del Tagikistan, il numero di campi e centri di addestramento dei terroristi attivi ai confini meridionali del Csto nelle province nordorientali dell’Afghanistan sarebbero oltre 40, e complessivamente sarebbe composti da 6000 combattenti. Il 12 gennaio Toqaev per la prima volta ha indicato quali sarebbero i “mandanti” dell’“azione terroristica”: «Un atto di aggressione… che ha coinvolto combattenti stranieri provenienti principalmente dai paesi dell’Asia centrale, compreso l’Afghanistan. C’erano anche combattenti del Medio Oriente» ha precisato il leader kazako escludendo così l’ipotesi frettolosamente sostenuta dai vari raggruppamenti del cospirazionalismo internazionale sul ruolo dei paesi occidentali.

Secondo il direttore dell’Institute for Geopolitical Research e capo ricercatore presso l’Istituto di Storia ed Etnologia Asylbek Izbairov, i gruppi dell’estremismo islamico fin dalla loro comparsa nel paese intorno al 2011 sono sempre rimasti “ridotti” e “limitati” a gruppi giovanili capaci solo di realizzare attentati terroristici. Tali gruppi hanno assunto nomi spesso roboanti come “Soldati del Califfato” (Junud al-Califfato), “Difensori della religione” (Ansar-ud-din), Battaglione di Baybars ma il loro radicamento sociale è sempre rimasto incerto e il loro programma politico vago.

Questi gruppi avrebbero sviluppato «concetti quasi coloniali di tendenze sufi sincretiche, che a lungo termine portano a una pericolosa “sintesi” di misticismo pseudo-religioso e nazionalismo etnico di “sangue e suolo”».

Un quadro simile si coniugherebbe assai bene ad altre ipotesi circolate sui mass-media kazaki secondo cui soprattutto ad Alma Aty alcune “cellule dormienti” di questi gruppi siano stati il propulsore dei riot popolari dandogli quell’efficienza lamentata dal Toqaev, giunta fino alla prova di forza dell’occupazione dell’aeroporto internazionale a cui avrebbero partecipati circa 800 rivoltosi.

Questa dimensione sarebbe una delle ragioni che avrebbe spinto Putin a ritirare rapidamente le proprie truppe dal paese per evitare (anche in Kirgizistan e in Tagikistan) l’emergere di forti sentimenti antirussi che potrebbero avere ricadute poco piacevoli nelle metropoli russe dove lavorano milioni di migranti centroasiatici.

D’altro canto ciò spiega anche il sostanziale beneplacito al ristabilimento dell’ordine da parte del Dipartimento di stato Usa: non solo perché così vengono garantiti gli investimenti stranieri (161 miliardi di dollari dall’indipendenza del 1991 al 2020 principalmente nel settore energetico) ma anche soprattutto perché la Russia ha tolto le castagne dal fuoco a tutto il capitalismo internazionale in una fase delicata come quella attuale in cui si sta ancora elaborando il lutto della fuga dall’Afghanistan. In questo trentennio tutti i paesi della fascia centroasiatica dell’ex Urss hanno svolto un ruolo di contenimento della crescita dell’islam radicale e anche se molti foreign fighters si sono per un periodo trasferiti a combattere nell’Isis in Siria e in Iraq il ritorno in patria non ha prodotto fenomeni terroristici in tutta l’area e particolarmente in Russia dove l’ultimo attentato significativo resta quello dell’aprile 2017 a San Pietroburgo.

Malgrado ciò il primo intervento dalla sua fondazione nel 1992 del Ctso segna uno spartiacque dal punto di vista politico e tattico-militare.

«Comprendiamo che gli eventi in Kazakistan non sono il primo e tutt’altro che ultimo tentativo di interferire dall’esterno negli affari interni dei nostri stati. Le misure che abbiamo preso hanno dimostrato chiaramente che non permetteremo che la situazione in patria sia scossa e non permetteremo che si materializzino gli scenari delle “rivoluzioni colorate”», ha sostenuto Putin, durante la riunione con gli stati membri.

Il Csto si configurerebbe per certi versi come una sorta di “Santa Alleanza” come quella delle autocrazie europee dopo il 1815, per frenare ai confini dell’Urss l’insorgenza di rivoluzioni democratiche. Una forza non di occupazione però ma di pronto intervento, per frenare l’ulteriore disgregazione di quelli che furono i “confini naturali” dell’Urss e, per altri versi, della Russia zarista. Operazione complessa perché per ironia della storia era stato proprio il Kazakhstan qualche anno fa a proporre lo scioglimento dell’alleanza, per avere le mani libere nella trattativa con le potenze occidentali. Un raggruppamento comunque spurio, il cui asse fondamentale è basato tra Mosca e Minsk. Del resto il settimanale moscovita “Expert” ha dovuto riconoscere a denti stretti che il presidente tagiko Emomali Rakhmon insiste per la «creazione di una lista unificata delle organizzazioni riconosciute come terroristiche nel formato Csto che non è ancora stata redatta».

Secondo il settimanale moscovita «questa è davvero una questione difficile, perché alcuni paesi membri della Csto (specialmente il Tagikistan) amano classificare varie forze di opposizione che chiedono il diritto alla protesta pacifica come terroristi e islamisti», un approccio non condiviso da Mosca soprattutto dopo che è diventata una necessità tenere aperto un confronto con il governo di Kabul.

Mosca non sembra aver tratto un gran giovamento dalla crisi ha cercato in un primo tempo di far passare come “Vzglyad”, un portale russo di geopolitica filoputiniano, in chiave di egemonia sull’intera area. A differenza della Bielorussia, paese povero di risorse, il governo di Nursultan non è interessato – visti gli enormi interessi economici occidentali nel paese – a legarsi mani e piedi a Mosca anche perché ha i mezzi per sviluppare una politica riformista e relativamente redistributiva.

Putin appare costretto a giocare un ruolo interventista visto anche quanto bolle in pentola con l’Ucraina, a cui rinuncerebbe volentieri.

Secondo il politogo Georg Mirzjan: «Se Mosca si rivela non essere pronta a garantire la sicurezza nello spazio postsovietico, la Turchia e la Gran Bretagna possono assumere questo ruolo. Ci potrebbe essere una cintura di instabilità lungo tutti i confini meridionali della Russia, dal mar Nero alla Mongolia, infettando il Caucaso del Nord, la regione del Volga e altre parti della Russia con l’islamismo e il radicalismo».

Il ruolo di sceriffo del Centroasia in via del tutto teorica potrebbe essere assunto dalla Cina, che, a differenza di Gran Bretagna e Turchia, è interessata a stabilizzare la regione a tutela del progetto della “Via della Seta”, ma il problema è che i “pacificatori” cinesi non porteranno certo la pace perché la Repubblica popolare stenta a trovare una lingua comune con la popolazione musulmana della regione. Le attività aggressive (e talvolta predatorie) del business cinese in Kazakhstan e Tagikistan hanno ripetutamente portato a potenti manifestazioni anticinesi (che prima o poi potremmo vedere anche nella Russia siberiana). È proprio per questo che la presenza militare cinese potrebbe causare solo una nuova ondata di radicalismo, inguaiando ancora di più il Cremlino.

“Kazakhstan di lotta e di geopolitica”.
Il governo kazako sta ora correndo ai ripari. La scossa tellurica delle proteste ha smosso fin dalle fondamenta il paese e il regime intende introdurre un vasto pacchetto di riforme in primo luogo di carattere economico-sociale. Durante la riunione di gabinetto dell’11 gennaio, Toqaev ha soprattutto sottolineato quelle dai tratti più nettamente populistici come la riforma della Banca di sviluppo del Kazakhstan (Dbk).

«Dbk si è essenzialmente trasformata in una banca personale per una stretta cerchia di individui che rappresentano gruppi finanziari-industriali e di costruzione. Conosciamo tutti per nome», ha dichiarato il presidente kazako.

Ha proposto anche una moratoria di cinque anni sull’aumento degli stipendi dei deputati e dei funzionari di alto livello. Ha inoltre promesso che i lavoratori del settore pubblico avranno i loro stipendi aumentati assieme a una moratoria sull’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità di tre anni. Sarà quindi istituito un fondo sociale pubblico per risolvere i problemi sociali.

«Dobbiamo dire grazie al primo presidente, Yelbasa (Nursultan Nazarbaev), se si è imposto nel paese un gruppo di aziende molto redditizie e una fascia di persone ricche, anche per gli standard internazionali. Credo che sia il momento di dare credito al popolo del Kazakhstan e di aiutarlo in modo sistematico e regolare», ha commentato sarcastico Toqaev, come se egli durante tutte le amministrazioni precedenti avesse vissuto su un altro pianeta.

Il giorno successivo Il ministro dell’economia del Kazakhstan Alibek Kuantyrov ha annunciato l’introduzione di una tassa supplementare sull’estrazione di minerali solidi. Non ha specificato però quale sarebbe la tassa aggiuntiva o quando entrerebbe in vigore (il Kazakhstan è il più grande produttore di uranio al mondo e ha grandi depositi di rame, di ferro e zinco). Si è ventilato anche un intervento sulla fuga dei capitali verso i paradisi fiscali di cui la famiglia Nazarbaev è sempre stata una gran specialista. Nulla invece sugli idrocarburi, in buona parte controllate da corporation americane, britanniche, olandesi – oltre all’Eni – così come sulla tassazione dei prodotti sui capitali stranieri che controllano il 70% dell’economia del paese. Si prospetta quindi una sorta di gestione “alla Pëtr Stolypin”, l’ultimo ministro delle finanze del potere zarista prima delle rivoluzioni russe: riforme dall’alto accompagnate dal pugno di ferro contro le opposizioni e il movimento operaio. Toqaev ha nominato come nuovo premier il cinquantenne di Alma Aty, Alichan Smailov, una scelta non certo di gran rinnovamento visto che nel passato Smailov è stato vicepremier e ministro delle finanze del paese. Il governo russo ha perfino accusato il nuovo ministro dell’Informazione del Kazakhstan, Askar Umarov, di avere «punti di vista nazisti e sciovinisti sui russi». Il sociologo di Kiev Volodymyr Ishchenko, esperto di dinamiche postsovietiche, è convinto che gli affari per la classe dirigente kazaka non si rimetteranno sui consueti binari dell’accumulazione predatoria tanto facilmente:

«Le tesi sulla “modernizzazione autoritaria”, sulla “rivoluzione passiva” e sull’“imperialismo” mal si adattano alla realtà del capitalismo patronale. Si tratta solo di una conservazione temporanea e intrinsecamente instabile della crisi politica postsovietica che non riesce ancora a trovare una vera soluzione al problema ricorrente della successione».

In questo quadro si deve valutare, il ruolo dell’attore principale di questo passaggio storico, cioè il movimento dei lavoratori. Come abbiamo già scritto su “OGzero” i lavoratori kazaki non da ieri sono entrati in movimento. Si tratta di una classe operaia giovane (soprattutto quella impiegata nei settori più propriamente industriali nella fascia di età giovanile rappresenta più del 30% del totale), concentrata in alcune zone del paese, sperimentata in oltre un ventennio di lotte. Una classe lavoratrice composta in buona misura da donne (il 60,2% delle donne kazake sono occupate) un fattore che rappresenta un baluardo contro la penetrazione del radicalismo islamico più reazionario. Una classe lavoratrice che ha ottenuto alcune vittorie parziali (compresa la riduzione del prezzo del gas) e ha saputo realizzare, seppur in un contesto difficilissimo, in pochi giorni, un ripiegamento ordinato in attesa di vedere se le promesse del governo diverranno realtà. Del resto le rivoluzioni si fanno strada non solo “come nel 1917”, ma anche “come nel 1905”, quando il potere magari regge ma non sa davvero riformarsi: quest’ultimo facendo concessioni significative alla piazza apre nuove contraddizioni nei diversi settori della società e condiziona le mosse delle potenze internazionali.

La classe operaia nell’ex Urss è tornata a essere uno dei fattori della contesa politica dopo una lunga eclisse. Dopo la timida ma in controcorrente apparizione dei nell’ascesa bielorussa, un altro contingente dell’ex Urss si è mobilitato: catapultato sulla scena della storia è divenuto sorprendentemente uno dei fattori del mutamento politico in Kazakhstan. Va sottolineato: non succedeva dai tempi dell’Iran e della Polonia a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso.

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Kazakhstan. La rivolta che montava da tempo inaugura il 2022 https://ogzero.org/kazakhstan-la-rivolta-che-montava-da-tempo/ Thu, 06 Jan 2022 22:51:02 +0000 https://ogzero.org/?p=5770 Nel Kazakistan dell’ultimo capo del Pcus locale, sopravvissuto al potere per 30 anni alla fine dell’Urss, il raddoppio delle tariffe energetiche è arrivato dopo che si è concluso il percorso in tre fasi di privatizzazione dell’energia. Alcuni analisti internazionali riconducono l’incremento di fabbisogno di energia in un paese che la produce (ed è straricco di […]

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Nel Kazakistan dell’ultimo capo del Pcus locale, sopravvissuto al potere per 30 anni alla fine dell’Urss, il raddoppio delle tariffe energetiche è arrivato dopo che si è concluso il percorso in tre fasi di privatizzazione dell’energia. Alcuni analisti internazionali riconducono l’incremento di fabbisogno di energia in un paese che la produce (ed è straricco di risorse energetiche) al fatto che le criptomonete hanno spostato i loro computer dalle sedi cinesi e i calcoli dell’algoritmo consumano talmente tanta energia ogni secondo che assorbono moltissima energia e hanno automaticamente fatto lievitare i prezzi delle fonti energetiche con l’aumento di richiesta. Ma la goccia di gpl è solo quella che ha fatto traboccare il vaso.

In realtà, qualunque contingenza abbia provocato questa emersione della rabbia del popolo kazako, la mobilitazione del proletariato che sta ribellandosi dura da molto più tempo che le privatizzazioni e la lotta di classe negli ultimi mesi aveva ottenuto importanti risultati e dunque ha solo proseguito la ribellione individuando la possibilità di ribaltare finalmente un sistema totalitario, corrotto, oligarchico e predatorio proprio dei proventi di quelle risorse che pretendeva di far pagare il doppio a un paese ricco dove si vive da poveri: una rivolta senza capi che subito è tacciata di intelligenza con gli Usa, ma questa somiglia troppo alla lotta di classe.

Yurii Colombo ha potuto analizzare la situazione attuale, avendo ben presente la rivolta del 2015-2016, ma anche badando agli interessi esterni – cominciando ovviamente da Mosca, ma anche dai paesi europei, dalla Cina partner commerciale, dai finanzieri svizzeri… – mettendo al centro l’evento quasi mitico di un paese in piazza che prende i palazzi del potere in poche ore, si scontra con le forze dell’ordine, un’insurrezione senza capi (probabilmente non ispirata da forze straniere, ma neanche spontanea perché montante da tempo), si ammanta di Storia per il suo divampare improvviso, ma è dotato della forza che le lotte precedenti le hanno infuso. Potranno soffocarla con l’intervento di Putin, ma il potere di Nazarbaev è stato definitivamente archiviato. Ora il problema è di Putin? 


“Ci sono giorni che valgono anni”, dice un vecchio motto. Ed effettivamente se non fossero eventi anche tragici quelli che in queste ore si stanno verificando in Kazakistan, si potrebbe desiderare che il tempo si fermasse per meglio fissare e analizzare i (rari) processi di accelerazione della storia. In soli quattro giorni le prime rivendicazioni operaie e popolari contro l’aumento dei prezzi del gas iniziate nelle regioni Sudoccidentali del paese si sono trasformate in un processo insurrezionale. Fino al punto che per essere sedate il Presidente in carica Quasym-Jormat Toquaev ha chiesto l’intervento dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto), il patto di Varsavia versione dopo il crollo dell’Urss, esattamente 30 anni fa.

Da più parti per spiegare quanto sta avvenendo stanno parlando di “rivolta spontanea”, ma è davvero così? Non proprio, la mobilitazione non è nata come Minerva dalla testa di Giove e mobilitazioni di tale portata forse possono essere improvvisate ma non create dal nulla.

Il focolaio della rivolta: non è la prima volta di Zhanaozen

La ribellione è iniziata il primo dell’anno nella provincia di Mangistau nel Sudest del Kazakistan che si affaccia sul Caspio nella cittadina di Zhanaozen e infettando poi la capitale regionale di Aktau. Tuttavia il cambio di passo è avvenuto il giorno dopo quando sono entrati in sciopero i minatori della regione di Karaganda e della Kazakhmys Corporation nell’ex regione di Zhezkazgan bloccando la ferrovia e l’autostrada a Taraz, Taldykorgan, Ekibastuz, Kokshetau e Uralsk. La rapidità dello sviluppo delle agitazioni non è stata però casuale.

Il movimento operaio kazako ha una grande tradizione di lotta nell’era postsovietica. Le prime ondate rivendicative soprattutto nel settore petrolifero ed estrattivo (oltre che metalmeccanico) condussero alla formazione nel 2004 dei primi sindacati indipendenti kazaki dell’era postsovietica. Il momento culminante di questa ondata rivendicativa (principalmente salariale) che proseguì in crescendo dal 2008 fu raggiunto nel 2011 con i gravi incidenti nella città di Zhanaozen, quando il 16 dicembre, la polizia sparò sugli operai, uccidendone 16, ferendone e arrestandone centinaia.

Malgrado la durissima repressione che ne seguì, forme di resistenza semiclandestina dei lavoratori non cessarono mai da allora. Nel 2021 il processo di ricomposizione delle lotte ha poi accelerato e il 30 giugno scorso i lavoratori dell’azienda di servizi petroliferi Kezbi Llp di Zhanaozen inscenarono una prima fermata “a gatto selvaggio”; gli scioperanti chiedevano aumenti salariali, cambiamenti nell’organizzazione dell’attività e miglioramenti delle condizioni lavorative. La lotta fu coronata da successo e i lavoratori in lotta ottennero un raddoppio salariale: il 100% di aumento, da 200.000 a 400.000 tenghe (da 400 a 800 euro). Visto il successo gli scioperi si allargarono rapidamente a tutta la zona. Il 13 luglio i lavoratori di Kmg-Security incrociarono le braccia seguiti due giorni dopo dai lavoratori dell’azienda di trasporti MunaiSpetsSnab Company. Anche qui breve mobilitazione e vittoria immediata con aumenti del 100% del salario e altre conquiste. Il 21 luglio fu poi la volta della Kunan Holding. In seguito a Zhanaozen è iniziato il primo sciopero delle donne della Nbc, con le stesse richieste di salari più alti e migliori condizioni di lavoro. Un crescendo rossiano di fermate; scioperi alla Aktau Oil Service Company e alla Oilfield Equipment and Service, alla BatysGeofizService, alla Eurest Support Services Llp (Ess), alla Ozenenergoservis, nel campo petrolifero di Karazhanbas, nella regione di Mangistau. E scioperi anche alla Industrial Service Resources Llp, alla Industrial Service Resources Llp, alla Kmg Ep-Catering, alla Ezbi, alla Emir-Oil Kmg Ep-Catering, alla Abuev Group. Scioperarono poi in piena estate anche i corrieri della Glovo di Alma Ata.

Operai in sciopero il 2 agosto 2021. Gli scioperanti vivevano in baracche e guadagnavano in media 200 euro al mese. Sfruttati da privati e aziende pubbliche.

Il 28 giugno un grosso gruppo di donne di Astana presero d’assalto il ministero dell’industria di Astana, chiedendo posti di lavoro, alloggi e maggiori benefici per i bambini. L’8 luglio i lavoratori delle ferrovie di Shymkent bloccarono la circolazione regionale, mentre sempre ad Alma Ata, il 20 luglio, decine di dipendenti dei servizi di soccorso delle ambulanze protestarono contro il ritardo nel pagamento delle indennità “coronavirus” e per le disastrose condizioni di lavoro (tutte queste informazioni sono tratta dalla pagina anarco-sindacalista russa “Kras”).

Abbiamo fatto un così minuzioso (ma in realtà la nostra lista è solo parziale) riassunto delle lotte dei lavoratori kazaki della scorsa estate per un motivo molto semplice. Perché dimostra che la teoria della “spontaneità assoluta” è fuorviante. Se oggi i lavoratori kazaki si stanno muovendo con tanta decisione ciò è dovuto in primo luogo ai successi parziali che ottennero durante quelle agitazioni e ciò ha sicuramente rafforzato in loro convinzione e fiducia.

Ma la “ribellione” si è trasformata in “rivoluzione” non solo per la discesa in campo della classe operaia industriale. Dal secondo giorno ad Alma Ata hanno iniziato a mobilitarsi i giovani delle periferie in veri e propri riot (spesso armati) che hanno conteso palmo a palmo alle forze dell’ordine e ai reparti speciali il territorio, facendo diventare una metropoli di due milioni di abitanti l’epicentro dello scontro, un subbuglio divenuto eminentemente politico visto che le autorità avevano a quel punto accettato di ridurre i prezzi del gas, sussidiare quelli degli alimentari e il governo si era formalmente dimesso.

Expert”, un autorevole settimanale moscovita non certo di sinistra, sostiene che le dimensioni della rivolta ad Alma Ata sono determinate dal fatto che «ci sono molti giovani sfaccendati e spesso disoccupati. Infatti secondo un censimento dell’autunno scorso il 53,69% della popolazione ha meno di 28 anni. Ed è proprio tra questi strati che la disoccupazione è particolarmente alta».

L’estensione geografica delle proteste segnala inoltre come si siano saldati diversi elementi di carattere anche locale. Non solo il Sud e l’Ovest, ma anche il Nord, solitamente depresso e calmo con popolazione russa dominante, sta ribollendo e questa è una novità assoluta. A Taldykorgan un monumento a Nursultan Nazarbaev è stato abbattuto: un’azione che sarebbe stata impensabile fino a pochi giorni fa.

In alcune zone occidentali del paese gli scontri sembrano addirittura cessati e il potere è stato preso dai manifestanti insieme ai funzionari locali e alle forze di sicurezza, per esempio a Zhanaozen. In questo quadro se entro 24-48 ore il governo centrale con l’aiuto delle truppe dell’Alleanza non dovesse riuscire a prendere il controllo della situazione – finora il numero di morti tra i manifestanti resta imprecisato ma nell’ordine minimo di decine di vittime – si potrebbe assistere a un vero e proprio crollo statale per certi versi simile a quello avvenuto in Afghanistan l’estate scorsa. In questo quadro va tenuto conto però conto che non sono apparsi segni di livore antirusso e neppure la variante del fondamentalismo islamico sembra giocare un ruolo significativo mentre non è chiaro dove si andranno a posizionare i vari clan tribali che negli equilibri del paese hanno sempre svolto un certo ruolo.

I segni di “cedimento strutturale” ci sono tutti.

Secondo il portale russo “Meduza” in queste ore «ci sono notizie di decine di jet privati che lasciano il paese, il Kazakistan dell’élite imprenditoriale sta lasciando il paese in fretta e furia»

E lo stesso Nursultan Nazarbaev dopo essere stato dimesso d’imperio dal presidente in carica si dice si sia rifugiato all’estero. Ma che si stesse ballando su un Titanic nessuno se lo immaginava.

In un articolo per “Foreign Policy” nel dicembre scorso Baurzhan Sartbayev, presidente del Consiglio di amministrazione di Kazakh Invest sosteneva con baldanza che «il Kazakistan è emerso come un attore importante nell’economia globale e una destinazione di investimento attraente. In definitiva, il Kazakistan è sulla strada per migliorare il clima degli investimenti e rafforzare la posizione del paese all’interno della comunità globale».

Del resto non sono solo la classe operaia e il sottoproletariato a essere stanchi di un potere che – forse unico insieme all’Azerbaigian – vanta una filiazione diretta dall’ex Urss, essendo stato Nazarbaev anche l’ultimo segretario del Pcus kazako fino proprio al 1991. In questi anni mentre la forbice delle ricchezze sociali si allargava a dismisura si è formato nelle grandi metropoli (Alma Ata e Astana – ora Nur-Sultan) un piccolo strato di classe media urbana che ha mostrato sempre più stanchezza per la corruzione, il nepotismo, l’autoritarismo e la scarsa mobilità sociale che affascia il paese. Questi strati sociali sono anche quelli più sensibili alle argomentazioni prettamente politiche come il fatto che non se ne poteva più di Nazarbaev, l’insoddisfazione per il governo di Tokayev, per un sistema di partiti rigido e antidemocratico, per l’esistenza di leader locali non eletti e così via. Se elementi di “rivoluzione arancione” ci sono nella vicenda kazaka si annidano in questi strati e in queste città dove da sempre sono state attive le ong occidentali, le associazioni culturali turche e la presunta base di Mukhtar Ablyazov, un ex banchiere bancarottiere che guida il partito della Scelta Democratica del Kazakistan, oggi in esilio a Kiev, la cui influenza è scarsa o nulla. Secondo i cospirazionisti di destra e di sinistra però sarebbe stato lui a orchestrare la rivolta per far giungere Putin alle trattative con la Nato – che iniziano il 10 gennaio – debole e impaurito. Tuttavia tutti gli organi informativi russi più accreditati continuano a ripetere che «non esiste alcuna prova o indizio» che la rivolta sia stata manovrata o perfino programmata dall’estero.

Le reazioni soft del resto del mondo

La tesi del “ruolo di forza straniere” viene rilanciata in queste ore per evidenti motivi anche dal ministero degli Esteri russo con un comunicato ad hoc ma senza troppa convinzione. Putin appare, dietro le quinte, convinto che i margini di manovra dell’attuale regime siano stretti, ma non sembra aver altra scelta oggi che sostenere il presidente in carica, un po’ come avvenne nel 2020 con la Bielorussia di Lukashenka. In Russia e a Mosca in particolare vivono molti migranti centroasiatici con cui il potere russo non vuole avere attriti. Anche per questo l’intervento dei soldati russi è stato presentato come un “intervento pacificatorio”.

«I pacificatori armati non portano pace»: infatti si parla di centinaia di morti, militari decapitati, feriti e migliaia di arresti, dopo l’arrivo delle truppe del Csto

Del resto anche i media occidentali hanno evitato – almeno finora – di suonare la grancassa della propaganda antirussa e i motivi sono evidenti: ci sono grandi investimenti stranieri nel paese che ora rischiano di sfumare o di subire pesanti perdite a causa del clima interno del paese – tra cui quelli dei Paesi Bassi, che rimangono il più grande investitore del paese con 3,3 miliardi di dollari, seguiti da Stati Uniti (2,1 miliardi di dollari), Svizzera (1,3 miliardi di dollari), Russia (704. 9 milioni di dollari), Cina, con i suoi 508,7 milioni di dollari. Quest’ultima come spesso le succede ha mostrato per ora il suo solito volto di softpower rifiutandosi di commentare gli avvenimenti.

La situazione per Putin già complessa ai suoi confini occidentali ora potrebbe diventare non agevole anche a oriente. Anche perché la resistenza della classe operaia che non arretrerà, potrebbe impedire quella “riforma dall’alto” del regime interno che la presidenza Toqaev ora sembra pronta a compiere.

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Al centro dei Balcani https://ogzero.org/studium/al-centro-dei-balcani/ Mon, 27 Dec 2021 17:49:46 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=5640 L'articolo Al centro dei Balcani proviene da OGzero.

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Bosnia e dintorni

Le tensioni dell’ex Jugoslavia tornano ad addensarsi a 40 anni dalla morte di Tito e a 26 da Dayton. Il centro di tutto è rappresentato dalla multietnicità bosniaca, che era già evidente durante l’assedio di Sarajevo.
Ai conflitti secolari tra le comunità che da sempre costituiscono il tessuto del territorio bosniaco ora si sommano i flussi di migranti e la rotta balcanica è tra le più impegnative e le frontiere sono blindatissime e le condizioni di vita durissime.
Qui riprendiamo le sue “nuove” considerazioni dal campo nel gelido gennaio bosniaco.
Simone Zito ha raccontato nel suo libro la sua spedizione estiva: gli incontri, le situazioni, le modalità di attivismo e quelle che innesca il Game, la repressione della polizia e i danni sul corpo delle persone in movimento (Pom), la diffidenza, la delazione e l’accoglienza, la tolleranza della popolazione bosniaca.
Erano le sue vacanze estive dal lavoro. Ora è tornato a spendere le sue vacanze invernali a Bihać e cominciano a trapelare nuovi racconti, nuovi incontri, diverse situazioni. paesaggi innevati. E nuove morti e sofferenze e repressioni.

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Avanzamento


La feroce accoglienza europea nei Balcani

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Diario parallelo di Simone – Bihać, agosto 2021 / gennaio 2022

Il sugo manzoniano

Decalogo  11 agosto 2021

  1.  Molti ragazzi che incontriamo hanno l’età dei miei allievi (insegno alle superiori).
  2.  Sono soprattutto afgani che scappano dai Taliban.
  3.  Spesso l’odissea del viaggio dura mesi o anni. Rischia di diventare la loro vita.
  4.  Chi può paga trafficanti che gli permettono di bruciare le tappe in cambio di svariate migliaia di dollari. Gli smuggler “corretti” prendono i soldi una volta che riescono a portarti a destinazione. Quelli “infami” possono tranquillamente stuprare le donne o denunciare alla polizia i migranti.
  5.  La scabbia è endemica. Abbiamo visto gambe che sembravano gruviere. Non si può curare perché le condizioni igieniche e i cambi di vestiti, tende e coperte non sono sufficienti. Quello che facciamo è cercare di alleviare il dolore, disinfettare, ridurre il prurito.
  6.  I migranti psicologicamente più in difficoltà a volte sono quelli con una maggiore cultura e maggiormente consapevoli di essere trattati come animali. Ci sono case occupate dai migranti piene di blister esauriti di psicofarmaci.
  7.  I migranti provano continuamente il Game. In genere si fanno 10 giorni di cammino evitando città, mercati, luoghi affollati seguendo una mappa con il gps. Altri però cercano di passare solo tra boschi e montagne e in quel caso il “Cammino di Santiago” di questi dannati della terra dura 22 giorni. Impossibile portare acqua e cibo sufficiente per un viaggio così lungo.
  8.  Arrivano sfatti a Trieste perché camminano 14-16 ore al giorno. Quando la polizia croata o slovena individua gruppi numerosi spesso aspetta la notte per prenderli, perché dormono senza scarpe e non riescono a scappare.
  9.  La polizia croata mena, ruba, rompe i cellulari, brucia borse e vestiti, prende le scarpe. Quando li respinge, i migranti possiedono solo più un paio di mutande, pantaloncini e una maglietta. Se hanno più di una maglietta gliela prendono. L’Europa finanzia e, di fatto, promuove tutto questo.
  10.  Le frontiere fanno schifo, bisogna distruggerle.

C’è… bisogno di psicologi ed etno-psicologi da queste parti  4 gennaio 2022

  • C’è chi è un amico pastho che ha imparato a dire “mi sono gustato la doccia” e “sciupa feste” in italiano. Lui ci insegna che “saba ba guru” vuol dire “ci vediamo domani” e una serie di altre parole che non bisogna per forza riportare.
  • C’è chi c’era già questa estate e fa un po’ male sapere che tu sei tornato a casa e lui è rimasto nella topaia in cui l’avevi lasciato.
  • C’è chi è un ragazzo del kashmir che ci insegna che “freddo” in Grecia si dice “freddo”.

  • C’è chi ci chiede di fare la doccia dicendoci che è più di un anno che non ne faceva una e sta trenta minuti sotto il getto d’acqua calda. E direi che se li merita tutti.
  • C’è chi sceglie di vivere in una baracca a un’ora e un quarto da Bihać per stare lontani dalla polizia e dagli Alì Baba, decidendo di camminare quasi tre ore al giorno per fare praticamente qualsiasi cosa.
  • C’è chi balla e ride perché gli va o perché obbligato, ma c’è anche chi è schizzofrenico e avrebbe bisogno di un aiuto psicologico significativo (c’è bisogno di psicologi ed etno-psicologi da queste parti).
  • C’è chi ci chiede di fare la doccia e poi stende una coperta per poter pregare verso La Mecca.
  • C’è chi è un ragazzo scappato dal suo paese perché attivista politico a 16 anni e ora ne ha 19 ed è da tre anni sulla rotta. È sveglio e dagli occhi puliti. Ha un dente nero e mi sono chiesto se gli facesse male o se avessimo potuto fare qualcosa, ma non ho osato chiederglielo (per ora).
  • C’è chi, prima di farsi una doccia, si fa mettere dei sacchetti di plastica attorno al piede per coprire una fasciatura. La faccia non è bella. Ci raccontano che, cucinando, gli è caduto olio bollente sulla caviglia. Quando scopre la ferita e la vedo mi gira un po’ la testa. Non potrei mai fare il medico, ma per fortuna c’è chi lo è e passa tutti i giorni a cambiare le fasciature.
  • C’è chi si affida a trafficanti infami che per attraversare il deserto dell’Iran sono capaci di mettere anche tre persone dentro un bagagliaio senza fermarsi agli alt e ai posti di blocco. Il problema è che la polizia poi spara alle gomme per cercare di fermare il veicolo, ma magari becca il serbatoio è la macchina prende fuoco o becca le persone imprigionate all’interno. Immagino i drammi della persona colpita o di quanti rimangono chiusi con dei cadaveri dentro un bagagliaio per delle ore (c’è bisogno di psicologi ed etno-psicologi da queste parti).
  • C’è chi balla a piedi nudi e in maniche corte il 2 gennaio nella jungle di Bihać, cantando una canzone alla fidanzata lontana.

  • C’è chi si potrebbe permettere un taxi game e arrivare in Italia in poche ore, ma si sente responsabile di qualche amico che è partito con lui e decide di stare loro vicino perché conosce l’inglese e può essere di aiuto. Le mamme quando li chiamano vogliono parlare con lui per sapere che va tutto bene.
  • C’è chi lavora in una associazione umanitaria e dice che ora la situazione a Bihać è perfetta.
  • C’è chi è una cucciola di cane che si chiama Amore ed è stata adottata in uno squat. Morde qualsiasi cosa capiti a tiro, è per nulla magra e piuttosto allegra. Abbiamo tentato di farle una doccia di cui aveva un gran bisogno, ma non era molto dell’idea.

  • C’è chi a capodanno gioca al telefono senza fili tra persone che parlano sei lingue diverse tra europei, bosniaci, croati e migranti. Io ho scelto “Arvëdse e n’gamba”, non ci siamo arrivati nemmeno vicini.

Le abilità tecnologiche a conforto di esistenze precarie

Energia pulita  24 agosto 2021

È capitato in più occasioni che prestassimo i nostri telefoni a qualche ragazzo per chiamare casa. Questo perché la polizia croata requisisce i telefoni di tutte le persone che ferma, impedendo loro di poter sentire i genitori per sapere se sono ancora tutti vivi. E questo è di una violenza schifosa.

Per provare a stemperare, almeno in parte, questa situazione abbiamo installato nella jungle tre pannelli fotovoltaici, autocostruiti, in modo da permettere a chi in quei posti vive e li attraversa, di poterlo fare con il cuore un po’ più leggero e il cellulare acceso. Senza telefono, da queste parti, non si va lontano. Sicuramente non in Europa. Un grazie pieno di gioia e rabbia al collettivo Rotte Balcaniche – Alto vicentino per la semplicità, la generosità e l’energia che ci mette nel sostenere i dimenticati e combattere le frontiere.

Pannelli al sole agostano


Bucato splendente con il detersivo della Jungle

Questa estate era fantascienza  4 gennaio 2022

In genere è la mamma che ti insegna ad usare la lavatrice: dividere i colori e i tessuti in modo da non trovarsi tutto il bucato rosa o il maglione di lana preferito della grandezza giusta per tuo nipote di 4 anni.

Grazie al collettivo Rotte Balcaniche – Alto vicentino, alle loro mani, conoscenze e dedizione è stato possibile costruire un impianto idraulico nel magazzino di NoNameKitchen, in modo da poterlo collegare a tre lavatrici e due asciugatrici comprate in Italia e portate qui. Lavorano praticamente a ciclo continuo. Laviamo tutto a 60 o 90 gradi (la mamma non sarebbe d’accordo perché si rovinano i tessuti delicati, ma se avesse da gestire la scabbia o altre malattie, probabilmente userebbe il napalm). Questo è prezioso perché quando facciamo i trattamenti o le docce, i ragazzi ci danno i loro vestiti da lavare e glieli riportiamo puliti. Questo vuol dire spendere meno soldi per gli acquisti, meno spreco e meno rifiuti (i Pom spesso buttano i vestiti vecchi quando ne hanno di nuovi), più pulizia nella jungle.

Le acque dell’Una. Gelide in ogni stagione

Una  31 luglio 2021

Vivere a cinque minuti da un fiume balneabile ha i suoi vantaggi, tipo riuscire a sopravvivere ai 40 gradi di questo luglio. Alcuni campi e meleti separano la casa dal fiume Una, una collana verde smeraldo che nasce in Croazia e si fa ammirare per 212 km. Se metti i piedi dentro ti viene voglia di tirarli fuori perché la temperatura è quella dei torrenti di montagna.

Poi se vinci la paura e ti butti, quando esci e ti metti al sole senti ogni centimetro di pelle che pizzica come le corde di una chitarra che suona una bella musica. Ti senti un po’ più felice con le goccioline ancora attaccate alla pelle. “Forse è uno dei fiumi più belli del mondo”, penso. L’Una si muove placido ed è di un verde vivo come pochi. In centro città si vedono spesso bimbi fare il bagno, barche da pesca o coppiette apparentemente felici andare in canoa.

Immagino sia molto bello anche a Novi Grad, dove una notte di due giorni fa il fiume si è mangiato un bambino afgano di cinque anni. È scivolato dalle braccia del padre mentre cercava di guadarlo per arrivare in Croazia insieme alla moglie e ad altri quattro figli. È scivolato. L’hanno ripescato dopo un’ora.

Penso sia sbagliato, però, credere che sia morto per colpa del fiume o di una traversata “illegale” da parte di una «famiglia di immigrati clandestini», come simpaticamente ci ricorda “La Stampa”. A ucciderlo è stato il confine ed è Bruxelles che finanzia la Croazia con mezzi, militari e milioni di euro per dare la caccia ai migranti. Quando scrivo “caccia”, lo faccio in senso proprio: usano cani e coltelli. E nell’Unione oggi non comanda Orbán.

Il prossimo che mi parla dell’Europa culla dei diritti umani lo affogo.

Queste sono le acque del fiume Una in estate


E queste sono le acque del fiume Una innevate

Una  3 gennaio 2022

Il bar sotto il mare è un bel libro, ma non sono sicuro esistano davvero posti simili, se si escludono quelli di navi, crociere e traghetti. Mentre sono certo esistono bar sotto i fiumi. L’Una, dopo le piogge delle scorse settimane, è diventato potente e maestoso, sommergendo tavolini e pub che sorgono lungo le sue sponde e dentro i quali in più occasioni è scappata una birra o una risata. Quindi si, esistono pub sotto i fiumi. Per i proprietari è sicuramente un problema che li tocca da vicino e a cui, forse, sono abituati come i gestori delle arcate ai Murazzi o i negozianti di Piazza San Marco.

Quello a cui non mi abituo e a cui non dobbiamo abituarci mai sono le persone che rimangono sotto le acque, fiumi o mari che siano. Quest’estate avevo scritto di un padre afgano a cui è sfuggito il figlio tra le braccia mentre cercava di guadare l’Una per raggiungere la Croazia. Lo ripeto perché si dia peso alle parole: a un padre è scivolato il figlio dalle braccia trascinato dalla corrente del fiume.

Tre settimane fa una bimba di 10 anni è morta nello stesso modo, era aggrappata alle spalle della mamma mentre cercava di attraversare le acque gelide del fiume Dragogna, nella penisola dell’Istria. Era quasi arrivata, Trieste è a uno sputo. Il 30 dicembre un ragazzo che stava in una casetta bianca nella jungle di Bihać, che abbiamo visto e a cui abbiamo fatto la doccia più volte, è morto nel fiume Sava vicino a Gradiska, sul confine croato-bosniaco. Di queste e di troppe altre persone non conosciamo neanche i nomi, i giornalisti spesso non si disturbano neanche di rintracciarli. Forse solo noi europei e i nostri animali domestici abbiamo diritto a un nome. I migranti possono accontentarsi di un trafiletto generico e della scabbia. Tanto basta.

Queste non sono tragedie o fatalità, ma persone morte di confine. Ogni parlamentare europeo che ha votato queste leggi e regolamenti che tengono i poveri lontani dai nostri paesi dovrebbe alzarsi nel cuore della notte in pigiama, andare a piedi davanti a quei genitori che hanno visto il gorgo prendersi i loro figli, fratelli e sorelle e chiedere loro scusa.

E non sarebbe ancora nulla per tornare a recuperare un minimo di dignità. Nulla.

La macchina del nazionalismo e quella dei flussi migratori:
una fucina di diversità in rotta di collisione

Conflitti balcanici secolari: la battaglia della Piana dei Merli del 15 giugno 1389 tra l’anima cristiana (guidata dai serbi) e quella ottomana da Murad I.

Interessante il lungo excursus di Alfredo Sasso che inquadra precisamente le attuali strategie delle spinte nazionaliste all’interno delle più vaste pulsioni secessioniste balcanico-caucasiche, un pretesto colto per intimorire sui rischi di nuove guerre civili e giungere a ottenere piccole patrie autonome su base etnico-religiosa. Ma sullo sfondo si intravedono manovre di potenze locali e meno a cui i satrapi locali guardano per avere padrini che assicurino il mantenimento del potere nelle loro enclavi.

Alta tensione per l’emergenza bosniaca

La rete underground di Bihać di cui fa parte Simone nell’estate bosniaca denuncia sulle onde di Radio Blackout i limiti, le compressioni, i “confini” entro i quali vivono i migranti arrivati a tentare il Game in una zona dove il campo di Lipa è andato in cenere nei rigori dell’inverno (dicembre 2020). La doppia realtà descritta da Fabio illustra l’effettiva situazione dei campi e l’approccio degli autoctoni.
I numeri sono molto superiori a quelli ufficiali; le frontiere blindate vivono della compresenza di campi formali affiancati da miriadi di tentativi di autorganizzazione, creando una costellazione di campi volta a tenere alta la tensione e quindi la repressione, creando una costante emergenza costruita. Un imbuto che fa da tappo a un corridoio di transito

Marine fa invece la storia del campo di Bihać e poi degli altri campi minori fino ad aprile 2020 quando fu aperto quello di Lipa, costruito per racchiudere in pandemia i Pom sparsi dentro e fuori i campi formali.
Differenze tra gestioni di campi a seconda delle conduzioni per problemi di trasparenza e corruzione tra la gestione governativa o di Iom. Il tutto in relazione ai flussi (forse 75.000 persone sarebbero quelle registrate ufficialmente in transito dal 2018 all’estate 2021 nei campi dell’area di Bihac e una media di 2000 persone in transito contemporaneamente nelle strutture ufficiali); ma molti ragazzi preferiscono ovviamente vivere fuori da una struttura più simile a un carcere o comunque sempre sotto controllo delle forze dell’ordine.

“Alta tensione per l’emergenza bosniaca”.

La condizione umana nei campi di Sarajevo: Ušivak

Un elemento centrale di queste testimonianze – ed è ben evidenziata da Mirka nella sua corrispondenza – è il fatto che la vita ruota solo attorno a un’ossessione: The Game, lo stesso che in questi anni abbiamo documentato da Calais, da Ceuta e Melilla, dal Pireo… i coni d’imbuto delle esistenze che devono passare attraverso quel filtro imposto dal delirio di respingimento.
Il racconto che Ursula e Mirca, di “Torino per Moria”, con cui viene fatto un confronto tra campi profughi, ci hanno descritto di quelli di Sarajevo e dai campi in cui sono contenuti i migranti che provano a ripetizione il passaggio delle frontiere si incentra su tre interviste: a Idriss, gambiano che ha dovuto lasciare il paese perché si è scontrato con i suoi superiori e per trovare il futuro per sé e la famiglia; le aspettative da parte della società di provenienza, le botte e le costrizioni, la meta da raggiungere sono comuni alle depressioni che accomunano quelle di Ali, pakistano ventinovenne e Habib, marocchino… tutti precisi nel tracciare il loro viaggio prima di questo Game – tentato ogni giorno da almeno due dei 1200 ospiti dei campi (e il costo del tentativo supera sempre oltre i 3000€ fino a 5000) – e sciorinano una precisa graduatoria di tollerabilità dei singoli luoghi toccati nel viaggio. Una corsa a tappe durante la quale sono stati sottratti loro tempo ed energie, pur di rallentare una progressione storica che non deve essere di integrazione ma di accoglienza, proprio quello a cui agognano e che occupa i loro pensieri, i corpi feriti, battuti, debilitati.

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]]> Variante turca nella recrudescenza dei bagliori della Guerra Fredda 2.0 https://ogzero.org/variante-turca-in-un-bagliore-di-guerra-fredda-2-0/ Tue, 26 Oct 2021 11:41:13 +0000 https://ogzero.org/?p=5237 Una rinnovata intensa attività dell’intelligence mondiale (con la variante turca) ha allarmato ultimamente gli esperti di spionaggio. In particolare decisioni di pubblico dominio, come il dimezzamento dei rappresentanti russi nell’ufficio di collaborazione tra Nato e Russia – indicati come agenti sotto copertura –, s’intrecciano con manovre più nascoste che preludono a un muscolare confronto militare […]

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Una rinnovata intensa attività dell’intelligence mondiale (con la variante turca) ha allarmato ultimamente gli esperti di spionaggio. In particolare decisioni di pubblico dominio, come il dimezzamento dei rappresentanti russi nell’ufficio di collaborazione tra Nato e Russia – indicati come agenti sotto copertura –, s’intrecciano con manovre più nascoste che preludono a un muscolare confronto militare e dunque a operazioni di spionaggio di cui i più raffinati analisti si stanno occupando per rilevare indiscrezioni e metterle in fila nel tentativo di restituire un quadro più chiaro dell’intricato mosaico che si va disegnando sullo scacchiere internazionale. Tutto ciò capita in occasione dell’uscita del primo volume frutto degli approfondimenti di OGzero, La spada e lo scudo, scritto per noi da Yurii Colombo per tentare di chiarire storia, modalità e tensioni interne ed esterne ai servizi segreti russi.

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Questo articolo va a illustrare il doppio binario su cui si trovano a lavorare i servizi russi: l’offensiva occidentale volta a ridimensionare l’influenza di Mosca sui paesi ai confini europei all’indomani del ritiro dall’Afghanistan sta producendo un piano di contenimento e difesa globale per l’area europea nel caso di attacco russo (il primo dopo la fine della Guerra Fredda). Contemporaneamente i servizi si trovano ad affrontare un rinnovato attivismo del controspionaggio turco che ha a sua volta operato arresti di agenti russi, che tradizionalmente stanziano a Istanbul con l’incarico di individuare ed eliminare i leader ceceni; arresti riconducibili all’epilogo della Guerra siriana con lo sgombero degli alleati turchi da Idlib, ma che collocano i servizi di Ankara in una posizione di battitore semilibero, in opposizione e collegato da accordi sia con l’Occidente (la Nato) sia con la Russia (Astana, non ancora messa in soffitta).


Tensioni tra apparati spionistici, preludio di confronti militari?

Lo scontro tra Russia e i paesi della Nato, con la recentissima sospensione delle reciproche rappresentanze a Mosca e Bruxelles è entrata in una nuova fase. Dal 1° novembre infatti la Federazione ha sospeso ufficialmente la sua rappresentanza presso la Nato e contemporaneamente ha posto sotto sfratto l’ufficio informazioni dell’Alleanza a Mosca. A partire da quella data – come ha ricordato il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov – per i contatti con Mosca, la Nato dovrà rivolgersi all’ambasciatore russo in Belgio. La decisione del Cremlino è giunta come reazione alla decisione della Alleanza Atlantica di ridurre da 20 a 10 i membri della rappresentanza russa a Bruxelles, rendendo impossibile di fatto l’operatività dell’ufficio. La rappresentanza russa era già stata ridotta da 30 a 20 funzionari ai tempi del caso Skripal [il tema è stato sviluppato dall’estensore dell’articolo nel volume La spada e lo scudo]; otto dei dieci funzionari russi rispediti a casa, sarebbero una ritorsione per il presunto coinvolgimento del Gru (i Servizi russi militari per l’attività all’estero) in un attentato contro un deposito di munizioni nella Repubblica Ceca del 2014 [anche per questo episodio si trovano approfondimenti nel volume La spada e lo scudo] anche se il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg ha sostenuto che «non esiste un motivo particolare per le espulsioni dei diplomatici russi», rimandandole semplicemente alla perdurante politica aggressiva russa in Europa.

«La politica della Nato nei confronti della Russia rimane coerente. Abbiamo rafforzato la nostra deterrenza e difesa in risposta alle azioni aggressive della Russia, mentre allo stesso tempo rimaniamo aperti per un dialogo significativo» ha dichiarato a Sky News un funzionario della Nato.

La ricostruzione di Bellingcat dell’attentato del 2014.

Il difficile equilibrio caucasico indispensabile per Mosca

Mosca, dal canto suo, si sente sempre più accerchiata e non si può dire che questa percezione possa essere semplicemente derubricata alla voce “vittimismo” (anche se il Cremlino ha dimostrato di soffrirne talvolta). Le vicende del recente passato, l’addio quasi definitivo della Moldavia dall’area d’influenza russa (il governo filoccidentale di Chişinău comunque è tornato dopo l’esplosione dei prezzi degli idrocarburi di quest’autunno a chiedere con il cappello in mano a Putin gas a prezzi calmierati), la faglia bielorussa e l’instabile alleanza con l’Armenia, impongono alla Russia la massima vigilanza.

Il portavoce presidenziale russo Dmitry Peskov ha affermato con nettezza che la decisione della Nato di espellere i diplomatici russi e le accuse di “attività ostili” hanno completamente minato le prospettive di normalizzazione delle relazioni e di ripresa del dialogo.

Il ministro della difesa russo Sergej Šoigu ha aggiunto – a muso duro – come «l’attuazione del piano di “contenimento” della Nato in Afghanistan è finito in un disastro, che tutto il mondo sta ora affrontando» e ha voluto ricordare a Berlino come andò a finire l’ultima volta che la Germania cercò di trovare uno “spazio vitale” a est.

«Sullo sfondo delle richieste di una deterrenza militare della Russia, la Nato sta costantemente sospingendo le proprie forze verso i nostri confini. Il ministro della difesa tedesco dovrebbe sapere molto bene come nel passato ciò si concluse per la Germania e l’Europa», ha sottolineato il ministro della difesa russo.

Quest’ultima dichiarazione è giunta dopo che il ministro della Difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer, il 21 ottobre, alla domanda se la Nato stesse contemplando scenari di dissuasione della Russia per le regioni del Baltico e del Mar Nero, anche nello spazio aereo con armi nucleari, ha risposto che dovrebbe essere reso molto chiaro alla Russia che anche i paesi occidentali sono pronti a usare tali mezzi. I media tedeschi hanno anche riferito che la Nato si starebbe preparando per un conflitto con la Russia. Il piano di difesa della alleanza occidentale avrebbe definito perimetri e parametri su come replicare a possibili attacchi dalla Russia e alla minaccia terroristica. Un tale piano – se confermato – rappresenterebbe una vera novità visto che tali ipotesi dopo il crollo del muro di Berlino erano stati messi in soffitta, ha fatto rilevare la “Suddeutsche Zeitung”. Del resto come sottolinea il portale russo “Vzglyad” già un mesetto prima, il 22 settembre 2021, i ministri della difesa della Nato avevano firmato un accordo per un fondo tecnologico militare da 1 miliardo di euro. Secondo la Nato questo piano di difesa rappresenta anche una risposta alla decisione di Mosca di mettere in cantiere la produzione di nuove armi nucleari a medio raggio e sviluppare nuovi sistemi d’arma. Le forze armate russe avrebbero persino recentemente testato i robot da combattimento nelle esercitazioni, lavorando all’uso dell’intelligenza artificiale in campo militare e sull’aggiornamento dei sistemi spaziali.

In questo quadro «I ministri della difesa della Nato a Bruxelles hanno adottato giovedì un nuovo piano di difesa globale per l’area europea e nordatlantica dell’alleanza. In esso l’alleanza occidentale definisce come risponderà a possibili attacchi dalla Russia, così come la minaccia del terrorismo in corso. È il primo piano globale di questo tipo dalla fine della Guerra Fredda: copre scenari che vanno da attacchi militari convenzionali e guerra ibrida ad attacchi informatici e disinformazione, così come combinazioni e attacchi simultanei, per esempio nelle regioni del Baltico e del Mar Nero», ha sostenuto Paul-Anton Krueger in un intervento su “RIA Novosti”.

Nave da ricognizione russa nel mar baltico (foto Adriana_R / Shutterstock).

Segnali di riposizionamenti geopolitici dietro il controspionaggio turco

A complicare lo scenario per la Russia, c’è l’attivismo sul piano del confronto spionistico della Turchia, sempre più battitore libero e sempre meno affidabile alleato della Nato. L’8 ottobre a Istanbul (ma la notizia è stata divulgata solo il 22 ottobre) sono state arrestate sei persone accusate di essere agenti dei servizi di intelligence russa. Si tratta di quattro cittadini russi – Abdulla Abdullayev, Ravshan Akhmedov, Beslan Rasaev e Aslanbek Abdulmuslimov – oltre a un cittadino ucraino, Igor Efrim, e un cittadino uzbeko, Amir Yusupov. Il gruppo è accusato di aver violato l’articolo 328 del codice penale turco (“spionaggio politico o militare”), e ora rischiano da 15 a 20 anni di prigionia. Secondo Giancarlo Elia Valori in un articolo pubblicato sul portale “Le Formiche”. L’offensiva ottomana nei confronti della Russia sarebbe da rimandare a un rinnovato asse tra Erdoğan e il consigliere per la sicurezza nazionale degli Emirati arabi uniti, Tahnun bin Zayed al-Nahyan. Secondo Valori, ci sarebbe «voglia di voltare pagina su otto anni di gelide relazioni, cristallizzate dal rovesciamento nel 2013 dell’egiziano Mohamed Morsi, un membro dei Fratelli Musulmani vicino alla Turchia e fermamente osteggiato dagli Emirati Arabi Uniti». In realtà, come rileva il giornale russo “Gazeta.ru”, oggi forse la voce più vicina al Cremlino, il nucleo di intelligence (che sarebbe stato trovato in possesso anche di armi e passaporti falsi) stava lavorando al fine di eliminare alcuni rappresentanti dell’“opposizione cecena” rifugiatisi in Turchia. Ricordiamo che già negli ultimi anni alcuni dei più noti oppositori al regime di Kadyrov a Grozny erano stati oggetti di misteriosi attentati in Germania e in Austria.

Ciò che sorprende in questa vicenda è che per ora il governo di Ankara non ha confermato la notizia e tutte le informazioni provengono dall’agenzia “Anadolu”, anche se il ministero degli esteri russo ha di fatto confermato gli arresti. Una fonte anonima di “Gazeta.ru” sostiene che al centro dell’operazione del controspionaggio turco ci sarebbe in realtà il tentativo della Russia, dopo le sconfitte micidiali degli armeni nei cieli durante la guerra con gli azeri dello scorso anno, di raccogliere informazioni dettagliate sui droni Bayraktar TB2, così come altri nuovi progetti riguardanti altri tipi di armi avanzate. Va ricordato però che questa crisi tra i due paesi non è un temporale scoppiato a ciel sereno. Come abbiamo già rilevato in altri nostri pezzi scritti per OGzero, dopo Astana i rapporti tra Russia e Turchia hanno continuato a volgere al brutto. All’inizio di ottobre, il capo della diplomazia turca Mevlüt Çavuşoğlu è intervenuto al Forum sulla sicurezza di Varsavia ribadendo necessità di sostenere l’Ucraina nel suo tentativo di entrare nella Nato. Inoltre, si è venuto a sapere in quell’occasione che i militari turchi starebbero addestrando i loro colleghi ucraini in tattiche di guerriglia urbana e secondo l’agenzia di stampa siriana “Sana”, ulteriori unità dell’esercito turco sono state spostate nella provincia siriana di Idlib e si parla insistentemente di una possibile operazione militare contro i paramilitari curdi a Tel Rifat.

I droniBayractar TB2

«A causa di ciò che sta accadendo a Idlib, Turchia e Russia stanno iniziando ad avere ulteriori attriti, ulteriori problemi». Questo è già successo in passato, ha commentato l’analista politico Yashar Niyazbayev: i rapporti dei media turchi «inizialmente suonavano – ha dichiarato – più come una gaffe informativa che come spiegazioni intelligibili in relazione alle spie russe».

La versione che l’arresto dei sei a Istanbul sia da rimandare a possibili omicidi politici contro ex oppositori ceceni è messa in discussione da Ivan Starodubtsev, un esperto di Turchia, autore del libro Russia-Turchia: 500 anni di vicinato tormentato il quale sul suo canale Telegram ha affermato: «deve essere innanzitutto una questione di possesso illegale di armi». Starodubtsev si dice convinto che la mafia cecena e, più in generale quella caucasica, opera attivamente a Istanbul da tempo immemore, e le “rese dei conti” criminali al loro interno sarebbero abbastanza frequenti. Del resto casi di morte di vari boss criminali caucasici per mano dei loro complici e concorrenti non sono rari a Istanbul. Si tratta di una tesi – da non escludere – che però è stata più volte usata dal Fsb ceceno per allontanare da sé accuse e sospetti.

In passato, al contrario, i servizi segreti turchi hanno ripetutamente collegato l’uccisione di ex comandanti di campo e militanti ceceni a Istanbul alle attività dei servizi di sicurezza russi che avrebbero “vendicato” la loro partecipazione a bande e attacchi terroristici dei primi anni Duemila, quando la guerriglia indipendentista raggiunse il suo apice.

Uno dei primi omicidi di più alto profilo ebbe luogo nel dicembre 2008, quando l’ex signore della guerra Islam Dzhanibekov fu ucciso sulla soglia della sua casa nel quartiere Ümraniye di Istanbul. Il killer in quel caso aveva usato una pistola con il silenziatore a doppia canna “Groza”. Nel 2009, l’ex signore della guerra Musa Asayev fu anch’egli ucciso a Istanbul. A quel tempo era noto per essere un rappresentante del terrorista Doku Umarov, coinvolto nella raccolta di denaro per i militanti del radicalismo musulmano.

Infine, nel 2011, tre membri della diaspora cecena, Berg-Khazh Musayev, Rustam Altemirov e Zaurbek Amriyev, erano stati associati al terrorista Doku Umarov e successivamente erano stati uccisi sempre a Istanbul. In Russia, però i tre erano a quell’epoca ricercati in quanto sospettati di aver organizzato un attacco terroristico all’aeroporto internazionale Domodedovo nel gennaio dello stesso anno.

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Timori e prospettive russe ai suoi confini meridionali https://ogzero.org/timori-e-prospettive-russe-su-kabul/ Wed, 25 Aug 2021 09:26:07 +0000 https://ogzero.org/?p=4702 Per la Russia il Centrasia è il cortile di casa. Putin, durante un vertice straordinario dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Csto), ha affermato che è importante limitare l’espansione dell’estremismo islamico dall’Afghanistan al resto dell’Asia, dopo la presa di potere dei talebani. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha affermato che il Csto ha discusso […]

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Per la Russia il Centrasia è il cortile di casa. Putin, durante un vertice straordinario dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Csto), ha affermato che è importante limitare l’espansione dell’estremismo islamico dall’Afghanistan al resto dell’Asia, dopo la presa di potere dei talebani. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha affermato che il Csto ha discusso delle implicazioni di “un’altra guerra civile in Afghanistan”, ma ha aggiunto: «Nessuno interverrà in questi eventi». La Russia ha adottato un duplice approccio nei confronti del neoproclamato Emirato Islamico. Da una parte, Mosca ha avviato contatti con i rappresentanti del Talebani; dall’altra ha annunciato, il 17 agosto, esercitazioni su larga scala in Tagikistan, lungo il confine con l’Afghanistan. Annunciando che non avrebbe ancora riconosciuto il nuovo regime di Kabul, non ha però ritirato la sua rappresentanza diplomatica; peraltro da almeno 4 anni circolano notizie di collaborazioni militari tra russi e talebani e i più avvertiti tra gli analisti americani pensano che da vecchio scacchista Putin abbia calcolato una mossa del suo gioco afgano verso il declino del sistema liberale delle democrazie occidentali, di cui questa sembra una tappa importante, anche nella lettura degli osservatori russi.

Per comprendere meglio quali contromisure alla veloce conquista talebana può avere in mente Putin e i temi che si dibattono in Russia a proposito dell’area centrasiatica abbiamo ripreso da “Matrioska”, il blog di Yurii Colombo, la raccolta di opinioni di politologi e giornalisti russi tra i più accreditati su quella parte del mondo gettate a caldo nel web nei giorni immediatamente successivi alla presa di Kabul.


Igor Yakovenko, pubblicista

Per tutti i vent’anni in cui gli Stati Uniti sono stati in Afghanistan, mantenendo il paese più o meno sicuro per i suoi vicini, la Russia ha costantemente cercato di giocare brutti scherzi. Sono riusciti a far perdere agli Stati Uniti le loro basi in Asia centrale, e si sono lamentati senza posa tra di loro sull’occupazione militare americana dell’Afghanistan. Ora è un problema del regime di Putin.

Arkady Dubnov, esperto di Asia centrale

Per la Russia, il problema principale nel trattare con i Talebani sarà la riaffermazione delle garanzie che non opererà fuori dall’Afghanistan e che non si espanderà, militarmente e ideologicamente, nell’Asia centrale. Finora i talebani non possono essere incolpati: non una volta nei loro 27 anni di esistenza hanno mostrato di volerlo.

Se verranno confermate tali garanzie, Mosca promuoverà il riconoscimento politico dei Talebani e li toglierà dalla lista delle organizzazioni terroristiche dell’Onu. Se Mosca li rimuoverà dalla sua lista è difficile da dire. Tuttavia, la richiesta dei talebani agli Stati Uniti e all’Onu – una delle principali richieste di oggi – troverà comprensione soprattutto in Russia.

Difficilmente ci si può aspettare che Mosca fornisca un’assistenza finanziaria significativa a Kabul. Gli americani e l’Occidente se ne faranno carico perché sono in gran parte responsabili di ciò che è successo oggi in Afghanistan. La Russia non è coinvolta in questo. Ma naturalmente, la Russia otterrà dividendi politici da questo.

[16 agosto]

Alexey Makarkin, analista politico

Ci sono diversi rischi. Il primo è la tendenza concreta dei Talebani a spingere verso nord. È improbabile che la leadership talebana voglia iniziare l’espansione ora, ma questo non significa che non intraprenderà tale azione in futuro. Soprattutto quando l’aiuto estero viene tagliato – in situazioni finanziarie difficili le guerre di conquista diventano una priorità. Il secondo è la misura reale in cui i leader talebani hanno l’effettivo controllo sui vari gruppi armati che possono agire autonomamente. Il terzo è l’effetto dimostrativo di una vittoria dei terroristi in un singolo paese sui loro simpatizzanti. In ogni caso, la Russia si preoccuperà di contenere i talebani nella regione e di sostenere i suoi alleati… Una vittoria dei Talebani potrebbe dare impulso ai gruppi radicali all’interno della Russia. I Talebani sono tradizionalisti, non wahhabiti, ai quali la Russia associa di solito il radicalismo islamico… Ma questo potrebbe solo accrescere il rischio, poiché la propaganda potrebbe essere fatta nelle comunità tradizionaliste, essendo più compatibile con le loro opinioni e pratiche. Si può diventare un sostenitore dei Talebani senza rompere con la Mazhab Hanafi. L’opposizione sarà condotta sia ideologicamente che dai servizi speciali, usando la forza, e ciò che ne verrà non è chiaro.

[16 agosto]

Ivan Kurilla, storico

Permettetemi di ricordare che la decisione degli Stati Uniti di andare in Afghanistan nel 2001 fu sostenuta dalla Russia, non solo perché Putin allora voleva essere amico dell’America, o perché la guerra in Cecenia fu poi reinterpretata come parte della “guerra globale al terrorismo”. Ma anche perché una delle principali preoccupazioni della politica estera russa all’inizio del secolo era il destino dei paesi dell’Asia centrale, che sembravano senza protezione contro l’islamismo talebano. Questo è il motivo per cui la Russia ha fornito agli Stati Uniti un corridoio aereo e persino un “posto di sosta” a Ulyanovsk, e ha accettato di aprire basi militari statunitensi in Uzbekistan e Kirghizistan.

Quindi è così. La situazione sembra tornare al 2001. Gli Stati Uniti ammettono il fallimento, la Russia e i suoi alleati dell’Asia centrale affrontano una nuova minaccia.

[14 agosto]

Sergey Medvedev, professore

È la più grande vittoria simbolica sugli Stati Uniti e un grande passo verso un mondo demodernizzato e un nuovo Medioevo. Gli echi di questa vittoria risuoneranno ancora per molto tempo, molto più fortemente a Mosca che a Washington; abbiamo il nostro sguardo rivolto verso questo arco di instabilità, è il nostro fronte, non quello americano. Il XXI secolo, iniziato l’11 settembre 2001, continua a rotolare verso il Caos.

[16 agosto]

Lilia Shevtsova, politologa

Naturalmente, il potere dei Talebani rimette all’ordine del giorno la minaccia del terrorismo globale. La cooperazione occidentale con la Russia e la Cina è inevitabile in tal caso. Forse i Talebani ammorbidiranno il confronto ideologico tra i rivali. I Talebani giocheranno anche un altro ruolo, costringendo l’Occidente a pensare a come promuovere i suoi valori per evitare umilianti fallimenti.

L’Occidente è cambiato dopo il Vietnam. L’Occidente sarà diverso dopo l’Afghanistan. La Russia deve prepararsi a questo. E il fatto che una sconfitta degli Stati Uniti crea una zona di instabilità vicino al confine della Russia, e non è chiaro cosa fare al riguardo, suggerisce che la sconfitta americana non è necessariamente una buona notizia per la Russia.

Piuttosto che gongolare e godere del fallimento dell’America, dovremmo imparare la lezione che non abbiamo mai tratto dalla sconfitta in Afghanistan: mai impegnarsi in un’avventura senza conoscerne le conseguenze e sapere come uscirne; ci sono guerre che non possono essere vinte.

[17 agosto]

Stanislav Kucher, giornalista

Per la Russia, il trionfo dei Talebani è una minaccia diretta e chiara alla sicurezza nazionale. Ora tutti i paesi confinanti con l’Afghanistan nella cosiddetta Csi, cioè il ventre meridionale della Russia, sono nella zona ad alto rischio. La prospettiva di espansione dell’Islam ultraradicale non è mai stata così grande come ora… Se si ha la volontà, l’emergere dei Talebani a Dushanbe è semplicemente una questione di tempo… Sia geopoliticamente che ideologicamente, un trionfo talebano è più pericoloso per la Russia che per gli Stati Uniti.

…Posso facilmente immaginare come in Russia, in certe circostanze, un Talebano ortodosso convenzionale alzerà la testa. Cioè, una certa terza forza che odia allo stesso modo il governo corrotto e i suoi alleati, i liberali, e l’Occidente, il quale secondo loro, non ha portato altro che male alla Russia durante la sua storia.

[16 agosto]

Nikolai Mitrokhin, storico, sociologo

A giudicare dalle reazioni delle ambasciate russa, cinese e iraniana, che non stanno per essere evacuate, la cerchia di amici dei talebani e del nuovo Afghanistan sotto la loro guida, è evidente. E la Russia è abbastanza soddisfatta della vittoria dei Talebani. Così è. Come dice in pubblico M. Shevchenko, esperto di contatti segreti con i radicali barbuti, tutta l’ala militare del paese ha studiato in Unione Sovietica ed era membro del partito.

Ma in ogni caso, dal punto di vista della geopolitica ufficiale russa, il crollo della democrazia di tipo europeo in Afghanistan è una grande vittoria per l’internazionale autoritaria conservatrice in cui la Russia gioca un ruolo significativo. Ma al di là dello spettacolo di un nemico umiliato, ancora più importante, è che i Talebani hanno preso il controllo di un paese chiave dell’Asia centrale. E questo significa che gli interessi americani ed europei si sono ritirati dalla zona dell’“interesse vitale” della Federazione Russa o, per dirla meglio, dai confini dell’ex Unione Sovietica. Cioè, se i paesi postsovietici dell’Asia centrale erano di interesse per gli Stati Uniti e l’UE come transito per il contingente in Afghanistan, questo interesse è ora scomparso.

I paesi dell’Asia centrale sono ora stretti tra gli interessi della Cina, della Turchia, della Federazione Russa e dei loro pericolosi vicini del sud. Allo stesso tempo, la Turchia è lontana e non entrerà in guerra nella regione. Pertanto, la Russia ha un’“opportunità” per stabilire le sue guarnigioni ovunque, come ha fatto lo scorso inverno nel Caucaso meridionale. E in seguito, dovrà applicare delicatamente e sistematicamente la sua pressione. Se il Kirghizistan e il Tagikistan sono satelliti russi, l’Uzbekistan ha agito indipendentemente per 20 anni, e il Turkmenistan ha guardato troppo in direzione dell’Iran. Non credo che ora creeranno problemi ai turkmeni, ma tratteranno seriamente con l’Uzbekistan. Le truppe russe sono già lì (per prima volta in 25 anni) ci hanno già messo un paio di migliaia di uomini). Ritengo che la Russia finirà per aprire proprie basi a Termez, Karshi, Fergana (dove i generali russi hanno passato la loro gioventù in addestramento) e una specie di centro di coordinamento e base aerea a Tashkent.

[17 agosto]

 

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1991, allarme a Mosca: da nomenklatura sovietica a oligarchia russa https://ogzero.org/30-anni-fa-in-unione-sovietica-il-putsch-agostano/ Mon, 16 Aug 2021 08:51:28 +0000 https://ogzero.org/?p=4462 Il 13 agosto 1961 a Berlino veniva eretto un muro 60 anni fa il cui crollo avrebbe frantumato l’impero sovietico 30 anni dopo, il 19 agosto 1991. Attorno a quel muro costruito in un giorno si crearono i più appassionanti plot spionistici (Checkpoint Charlie era un luogo topico, abitato da spie nei film e nella […]

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Il 13 agosto 1961 a Berlino veniva eretto un muro 60 anni fa il cui crollo avrebbe frantumato l’impero sovietico 30 anni dopo, il 19 agosto 1991. Attorno a quel muro costruito in un giorno si crearono i più appassionanti plot spionistici (Checkpoint Charlie era un luogo topico, abitato da spie nei film e nella realtà); la contrapposizione del 1961 non lasciava certo presagire la fine dell’Unione Sovietica, sancita 30 anni fa da un Putsch agostano non del tutto trasparente allora, in epoca di perestrojka, negli intenti, nell’abilità e nella scarsa determinazione dei protagonisti.

In appendice dello studio che vede impegnato Yurii Colombo ad analizzare la storia dei servizi segreti russi, ci propone questa ricostruzione senza dare spazio a dietrologie complottiste: è sufficiente riandare all’atmosfera della primavera 1991 per trovare le spiegazioni e i prodromi di quello Stato di emergenza che pose fine all’era di Gorbaciov. Ma alla fine della rievocazione nell’anniversario troviamo immarcescibile la stessa oligarchia che esercita il potere in Russia da sempre, il medesimo blocco sociale cementato anche nel putinismo.


Il Kgb nel 1985 e i primi malumori antigorbacioviani

Quando Michail Gorbaciov fu eletto segretario generale del Partito comunista dell’Urss nel 1985, il Kgb era una struttura imponente. Secondo i dati forniti da Vladimir Krjuckov, l’ultimo suo presidente prima del crollo dell’Urss, si trattava di un apparato di spionaggio che contava circa 490.000 membri (220.000 guardie di frontiera e 60.000 agenti effettivi). A dar fede ai dati ufficiali della Cia sui propri agenti (senza considerare quelli dell’Fbi), tre volte tanti gli agenti americani.

Se il nuovo leader sovietico inizialmente fu accettato supinamente e senza tanti problemi dalle strutture della “forza” del paese (anche se il complesso militar-industriale avrebbe preferito l’elezione di Grigory Romanov, il potente segretario del partito di Leningrado) via via che la sua strategia di smantellamento dell’Urss e il suo atteggiamento conciliante con l’Occidente presero forma, crebbero i malumori sia nella gerarchia del partito, sia nella struttura degli organi di sicurezza. Questi erano dirigenti non solo formati all’idea di un’Unione Sovietica potente e temuta, ma soprattutto si trattava di uomini cresciuti all’ombra di Yuri Andropov, il quale aveva promosso ai vertici della struttura della sicurezza uomini della provincia, lontani dal clima di corruzione e lassismo che si era iniziato a respirare a Mosca sin dalla seconda metà degli anni Sessanta quando la burocrazia iniziava ad assaporare, senza più vergognarsene, i propri privilegi.

Domande in sospeso

Di questa filiera faceva parte anche Kravcjuk, classe 1924 e nato nella mitica Stalingrado; si era formato negli anni della riforma kruscioviana ed era stato portato al vertice del Kgb proprio da Gorbaciov nel 1988. Sarà proprio lui una delle pedine chiave dell’organizzazione del famoso “Putsch d’agosto” che terrà con il fiato sospeso tutto il mondo tra il 18 e il 21 agosto 1991.

Il goffo e per certi versi comico tentativo di porre fine al regime gorbacioviano, ha provocato nei decenni molte perplessità e provocato illazioni. Ci si è posti soprattutto molti interrogativi sulle effettive capacità del «Comitato statale per lo stato di emergenza» (così si definì ufficialmente il gruppo che si mise alla testa del fallito golpe): perché i “congiurati” si decisero a un passo così drammatico? Perché Eltsin non fu arrestato, lasciandogli la possibilità di organizzare la resistenza a Mosca? Perché i reparti speciali “Alfa” dei servizi segreti non entrarono in azione per stroncare le manifestazioni di protesta? Sono domande a cui oggi, a 30 anni di distanza, è possibile dare una risposta senza ricorrere a dietrologie “cospirazioniste”. Ma per far ciò sarà necessario tornare alla primavera del 1991.

L’atmosfera dell’epoca

Dualismo e misure emergenziali

Il 17 marzo 1991 con il referendum per il mantenimento di un’“Urss riformata” Gorbaciov aveva messo a segno forse l’unico vero successo della sua breve carriera politica. Oltre il 70% degli elettori sovietici delle repubbliche dove si tenne il plebiscito (non vi parteciparono i paesi baltici, Armenia, Georgia e Moldavia perché già sulla via della secessione) si dichiararono d’accordo a mantenere l’Unione. Divenne però presto evidente che si trattava solo di una mezza vittoria per il presidente dell’Urss, perché Boris Eltsin si stava preparando a vincere le elezioni della presidenza della Federazione russa della primavera e a svuotare dall’interno il governo centrale, avocando a sé il potere della Banca centrale di Mosca e avviando lo smembramento del sistema fiscale federale.

Eltsin durante la campagna elettorale del 1991

Fu in quel momento che quella serie di dirigenti sovietici rimasti fino ad allora, seppur con qualche mal di pancia, fedeli servitori della perestrojka iniziarono ad accarezzare l’idea di introdurre lo stato di emergenza e mettere fine al dualismo di poteri Gorbaciov/Eltsin. I documenti e la memorialistica pubblicate in Russia in questi ultimi 20 anni sono pressoché unanimi nel sostenere che una tale eventualità era stata valutata anche dallo stesso segretario generale. Proprio Vladimir Krjuckov, uno dei principali “congiurati dei Torbidi”, ha dichiarato in seguito che Gorbaciov giunse a dirgli qualche mese prima e senza mezzi termini:

«Prepara i documenti per l’introduzione dello stato di emergenza. Lo introdurremo, perché tutto questo non è più sopportabile!»

Vladimir Krjuckov

Che questi umori circolassero al Cremlino è stato confermato anche dall’allora premier Valentin Pavlov:

«Nel 1991 dopo gli scioperi dei minatori… divennero un’urgente necessità le misure di emergenza. La loro introduzione fu studiata da tre gruppi di specialisti sotto la supervisione generale e la direzione di Gorbaciov».

Voci premonitrici

In realtà anche in quel frangente, l’ultimo segretario del Pcus, come spesso gli era successo nei suoi 6 anni di governo, era incerto sul da farsi.  

Fu in questo quadro che nella prima settimana del luglio del 1991 Krjuckov ricevette nella sua dacia fuori Mosca l’ex capo dei servizi segreti militari italiani, l’ammiraglio Fulvio Martini, e in una conversazione riservata sostenne che l’istituzione di un governo forte in Urss, non importa se guidato da Gorbaciov o meno, stesse diventando inevitabile. Martini immediatamente informò il proprio governo di quanto bolliva in pentola a Mosca e quindi quanto poi avvenne non fu un fulmine al cielo sereno come – poi si volle far credere – per i governi occidentali e per la Nato.

Gran parte dell’entourage di Gorbaciov già allora era giunto alla conclusione che l’idea del Segretario generale di poter diventare l’ago della bilancia tra le Repubbliche nella nuova “Urss riformata” fosse un’illusione e si mise decisamente sulla strada del golpe, una strada che si rivelò però ancora più disastrosa della resistenza passiva del loro capo, facilitando così il compito di Eltsin.

Protagonisti: i vertici delle istituzioni e loro reali intenti

Oltre che sul Kgb il comitato golpista poteva contare su centri di potere estesi: dalla sua parte erano schierati il ministro degli Interni Boris Pugo e quello della difesa il maresciallo Dmitrij Jazov, e last but not least il capo del complesso militar-industriale Oleg Baklanov. L’obiettivo del “Comitato” non era “neostalinista”, come un certo giornalismo internazionale sostenne allora. I suoi protagonisti avevano digerito ben bene il XX Congresso e Krjuckov nella sua autobiografia si è dichiarato perfino sostenitore, seppur tiepido, della Primavera di Praga. Il loro obiettivo era piuttosto quello di realizzare una “Tienanmen russa” per poter poi rilanciare le riforme di mercato sotto la direzione del partito e dello stato centrale. Si trattava in primo luogo di un tentativo di formare un “blocco d’ordine”: sempre nelle sue memorie Krjuckov ha ricordato che egli stesso in quanto capo dei servizi segreti insieme a vari membri del Comitato centrale del partito avevano stretto relazioni, già da qualche mese prima del putsch, con il leader dell’ascendente partito nazionalista e di estrema destra Vladimir Zirinovskij che si era dimostrato interessato all’idea di “stabilizzare” il paese.

I veri registi politici dell’operazione erano il vicepresidente dell’Urss, Gennady Janaev e soprattutto il primo ministro Valentin Pavlov che lavorava a costruire un asse con l’Europa. L’allora capo del Kgb ha anche ricordate che:

«Pavlov ci aveva relazionato sul suo viaggio in un certo numero di paesi dell’Europa occidentale. A suo parere, i paesi europei erano pronti a sviluppare un’ampia cooperazione commerciale ed economica con l’Unione Sovietica… Gorbaciov, tuttavia, aderì ostinatamente a un percorso di sviluppo prioritario delle relazioni con gli Stati Uniti. Si nutriva chiaramente di illusioni sugli Stati Uniti e credeva (in realtà solo lo sosteneva) che solo la direzione americana avrebbe potuto risolvere la maggior parte dei nostri problemi economici…».

Gennady Janaev

Valentin Pavlov

Dilettanti apicali allo sbaraglio

I golpisti quindi si illudevano persino di poter trovare se non sostegno almeno indulgenza nel Vecchio Continente in chiave antiamericana.

Non è un caso che nella conferenza stampa in cui venne annunciata la rimozione del Segretario generale e l’introduzione del coprifuoco, il comitato di “salute pubblica” promise di sostenere anche nel futuro l’iniziativa economica privata in Urss e chiese perfino comprensione da parte dell’Onu.

Quel grado di dilettantismo che dimostrarono non arrestando Eltsin appena rientrato da Alma Ata la sera del 18 agosto, fu un’ulteriore conferma di quanto il loro non fosse un progetto razionale ma una confusa avventura destinata al fallimento. Invece di volerlo arrestare in realtà il gruppo dei “congiurati” era interessato paradossalmente a trattare con Eltsin e il premier Pavlov proprio il 18 agosto iniziò ad avere febbre e pressione alta, una malattia diplomatica che tolse quel poco di testa politica al gruppo dei golpisti.

Ecco come riassunse Krjuckov quello che avvenne: «Non appena Eltsin lasciò Arkhangelskoye e divenne chiaro che a causa della malattia di Pavlov, l’incontro tra noi e lui non avrebbe avuto luogo, l’intera guardia del comitato che lo controllava, incluso il gruppo “Alpha”, fu rimossa. Questo è quanto avvenne. Certo, non sarebbe stato un problema trattenere Eltsin, accompagnarlo, come alcuni sostenevano, in un altro luogo, impedire il suo trasferimento a Mosca e in generale fare qualsiasi cosa. Ma non c’erano tali intenzioni, e qualsiasi ipotesi da questo punto di vista fu pura illazione al fine di presentare il Comitato di emergenza statale come una sorta di mostro, pronto a commettere qualsiasi atrocità».

Il “Comitato di salute pubblica” quindi non era neppure pronto a mettere agli arresti domiciliari il principale capo dell’opposizione del paese! E tanto meno era pronto al massacro di chi tra il 19 e il 21 agosto andò sulle barricate; tanto è vero che i pochi morti degli scontri di piazza furono più frutto del caso che della volontà repressiva dei reparti dell’esercito mobilitati nella capitale.

La completa afasia del Kgb e dell’esercito è dimostrata dal fatto che la situazione era completamente fluida e per certi versi meno complicata di quella che i dirigenti cinesi avevano dovuto affrontare a Pechino l’anno prima. La descrizione che Krjuckov fa della situazione delle “forze in campo” in quei 3 giorni è sufficientemente realistica:

«Le informazioni provenienti dalle regioni in quel momento erano incoraggianti. L’appello a scioperare e organizzare manifestazioni non trovava sostegno. Durante il 19 e 20 agosto, in tutta l’Unione Sovietica su una popolazione di quasi 300 milioni di persone, non più di 150-160.000 presero parte a scioperi e manifestazioni… Il 20 agosto si svolse a Leningrado la manifestazione più grande, a cui parteciparono circa 50.000 persone… Il giorno prima, il 19 agosto, Eltsin aveva pronunciato il famoso discorso che fu pubblicizzato in tutto il mondo da un carro armato vicino alla Casa Bianca [sede del governo russo N. d. R.]. Egli condannò il “Comitato di emergenza”, chiamò alla resistenza per la difesa della Casa Bianca anche se nessuno lo avrebbe attaccato. In momenti diversi si riunirono per difendere la Casa Bianca dalle 3-4000 alle 30-35.000 persone, ma non tutte erano persone che sostenevano attivamente la leadership russa, c’era tanta gente che si era recata lì solo per curiosità».

Krjuckov ammette anche che pure i sostenitori del colpo di stato si dimostrarono passivi, mentre la stragrande maggioranza dei sovietici restava incollata davanti alla Tv in attesa di capire come sarebbe finita.

«Indipendentemente da ciò che è stato detto in seguito – ricorda ancora l’allora capo del Kgb – il Comitato di emergenza statale non esortò i suoi sostenitori a scendere in piazza e, se necessario, a difendere con la forza il regime sovietico. Le organizzazioni locali del Pcus erano in generale confuse, la maggior parte dei comunisti era in uno stato di completa e schiacciante inerzia».

Barricate nell’agosto 1991

Il golpe andò così sgonfiandosi da solo mentre parte dell’esercito decideva di passare con Eltsin, oppure semplicemente restò chiuso nelle caserme in attesa che la situazione si chiarisse. Kravjuck mentre il “Comitato” si sfasciava, tentò persino la carta della mediazione con Eltsin:

«La notte del 21 agosto – testimoniò in seguito Kravcjuk – ebbi due o tre conversazioni con Eltsin. Gli dissi che non prevedevo di dare l’assalto alla Casa Bianca. Le conversazioni erano abbastanza tranquille. Non sentivo in lui alcuna irritazione. Inoltre, Eltsin mi disse che dovevamo cercare una via d’uscita dalla situazione che si era creata, e sarebbe stato bene per lui, poter volare con me a Foros per vedere Gorbaciov».

La resa

La mattina del 21 i golpisti ormai completamente demoralizzati volarono da Gorbaciov in Crimea e si arresero. Il vice di Gorbaciov, Janaev, al momento di essere arrestato nel suo ufficio a Mosca, fu trovato completamente ubriaco.

In realtà Krujckov al momento di entrare a far parte del “Comitato” si era consultato solo con un ristretto gruppo di collaboratori pensando che la catena di comando avrebbe comunque funzionato, in caso di necessità.

«Il “Gruppo “Alpha” – ha testimoniato un funzionario del Kgb di allora a cui era stato assegnato il compito di intraprendere una qualsiasi azione di forza nel caso fosse stato necessario – era pronto per l’operazione di internamento di Eltsin. Mio Dio, però non si sarebbe trattato di ucciderlo, come per esempio Salvador Allende in Cile. Tuttavia Krjuckov non diede neppure l’ordine al comandante del gruppo “Alpha” Karpuchin di agire, e i soldati delle forze speciali restarono sedute lì al loro posto, senza far nulla».

Il corpo delle forze speciali “Alpha”.

Il solito blocco sociale di potere: oligarchia putiniana

Ciò che i putschisti desideravano difendere più di ogni altra cosa, era la posizione economica dei gruppi di interesse che rappresentavano, i servizi di sicurezza, le industrie e l’agricoltura pubblica; ma quel blocco di interessi non poteva che essere sconfitto perché buona parte della nomenklatura aveva da tempo smesso di sostenere le strutture di partito e dello stato: pretendeva a questo punto di diventare proprietaria delle ricchezze del paese grazie alle privatizzazioni, osservando con neutralità come sarebbe finita la contesa politica interna. Ci vorrà un decennio e l’ascesa di Putin perché quel grumo di interessi rappresentato dai golpisti tornasse in auge e riuscisse a cementare un nuovo blocco sociale di potere. Krjuckov e gli altri congiurati, verranno arrestati e resteranno alcuni anni in galera mentre il Kgb, in quanto agenzia ormai solo russa, negli anni Novanta passerà attraverso un doloroso periodo di ristrutturazione e ridefinizione dei propri compiti.

 

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Stabilizzare Eurasia passando da Erevan https://ogzero.org/tenere-fuori-dal-gioco-washington-e-stabilizzare-l-eurasia/ Sun, 27 Jun 2021 10:00:23 +0000 https://ogzero.org/?p=4050 Sembra che ci sia ancora qualche sparuto paese al mondo in cui la dittatura delle società che realizzano i sondaggi elettorali non spadroneggi: tra questi c’è sicuramente l’Armenia. Nelle settimane precedenti alle elezioni legislative anticipate del 20 giugno, resesi non più procrastinabili dopo la disfatta nella guerra nel Nagorno Karabakh, il premier Nikol Pashinyan era […]

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Sembra che ci sia ancora qualche sparuto paese al mondo in cui la dittatura delle società che realizzano i sondaggi elettorali non spadroneggi: tra questi c’è sicuramente l’Armenia.

Nelle settimane precedenti alle elezioni legislative anticipate del 20 giugno, resesi non più procrastinabili dopo la disfatta nella guerra nel Nagorno Karabakh, il premier Nikol Pashinyan era infatti dato perdente da tutte le rilevazioni delle principali società demoscopiche. Il partner della prestigiosa Gallup International in Armenia – la società Mpg – prevedeva una corsa sul filo di lana di Pashinyan con il suo avversario, l’ex presidente del paese e capo del Blocco Armeno, Robert Kocharian è l’agenzia Ria Novosti, che aveva condotto una rilevazione solo 6 giorni prima del voto, aveva perfino stimato per Kocharyan il 32% delle preferenze contro il 24% di Pashinyan. Inaspettatamente invece il Contratto Civile guidato proprio dal primo ministro Nikol Pashinyan ha fatto saltare il banco ed è decollato al 53,92% dei voti espressi, detronizzando il suo rivale che pur chiamando alla rivalsa contro il disprezzato nemico azero, si è fermato al 21,04%. La terza forza a entrare in parlamento è stata quella guidata dall’ex capo del servizio di sicurezza nazionale del paese Artur Vanetsyan che pur non avendo superato lo sbarramento del 7% (come altri 22 partiti che avevano partecipato alla campagna elettorale) dato che per legge il numero di partiti rappresentati non può essere meno di tre, con il suo 5,2% farà parte lo stesso del consesso legislativo.

Robert Kocharian, lo sconfitto leader del Blocco armeno

Il Blocco armeno ha denunciato brogli ma non è stato preso sul serio neppure dai suoi sostenitori e nessuno è sceso in piazza a protestare a Erevan come invece era successo massicciamente dopo la cocente sconfitta militare dello scorso autunno.

Sviluppi internazionali dopo la sorpresa elettorale

Cosa dunque è successo nelle settimane precedenti al voto da rendere inefficaci le interviste delle società di sondaggio?

Ipotesi sull’incidenza dell’armistizio sul voto

Le elezioni erano in primo luogo un plebiscito sull’armistizio che ha fatto perdere all’Armenia tre quarti del territorio conteso con l’Azerbaijan. La maggioranza degli elettori da questo punto di vista non ha probabilmente cambiato opinione e continua a considerare ancora oggi una “capitolazione” l’accordo di pace firmato sotto l’egida di Mosca, tuttavia è cambiata con il raffreddarsi delle emozioni del momento, la sua percezione della dinamica politica in corso.

«Le elezioni si sono concluse inaspettatamente per molti in Russia, ma questa sorpresa è stata dovuta a sondaggi dubbi o alle valutazioni di alcuni esperti che si sono schierati piuttosto con una delle forze politiche e non hanno fornito un’analisi obiettiva della situazione», ha affermato il ricercatore presso l’Istituto di studi postsovietici e interregionali (Riac) Alexander Gushchin. «Le elezioni hanno dimostrato che la vecchia élite e i suoi leader non sono stati in grado di consolidare attorno a sé la quota principale dell’opinione pubblica armena nemmeno sull’onda dell’insoddisfazione per la sconfitta militare nella seconda guerra del Karabakh. La scia di pubblica negatività verso l’“ex” si è rivelata troppo grande, mentre l’elettorato di Pashinyan è stato mobilitato al massimo» ha osservato ancora Gushchin.

«Le elezioni in Armenia hanno confermato il sostegno alla formula per la futura pace nella regione, elaborata con la mediazione di Mosca lo scorso novembre», sostiene inoltre Andrej Fedorov, direttore del Centro russo per la ricerca politica, su “Kommersant” del 22 giugno 2021. «Se il corso verso la normalizzazione continuerà, per la Russia significherà la possibilità di neutralizzare ai suoi confini meridionali un focolaio di instabilità a lungo termine potenzialmente pericoloso. Allo stesso tempo, il percorso per ridurre il confronto tra Armenia e Azerbaijan dovrebbe facilitare il compito di coinvolgere Baku nei processi di integrazione in Eurasia». Pertanto secondo Fedorov «dopo le elezioni in Armenia, nella nuova fase, la crescente influenza della Russia può essere determinata sia dal mantenimento della pace sia da un ruolo più attivo nella costruzione di nuove relazioni tra le parti coinvolte nel conflitto del Karabakh».

L’emotività dei sondaggi seppellita dalla Realpolitik nelle urne

Ciò che non è risultato credibile – soprattutto ai cittadini armeni che vivono nelle campagne e proverbialmente più saggi e moderati di quelli urbani – è che si possa rimettere in discussione l’accordo raggiunto con il cessate il fuoco o persino riprendere la guerra. Il fatto che Pashinyan, nato e divenuto celebre come attivista dei diritti umani filoccidentale e sostenitore delle esigenze degli strati del lavoro intellettuale, abbia potuto attecchire nell’Armenia profonda e perfino trasformarsi in un politico che guarda a Mosca come ciambella di salvataggio anche nel futuro, è interessante per capire come opinione pubblica e leader possano cambiare pelle rapidamente nel mondo attuale, ma ciò ancora non spiega lo iato tra i polls virtuali che lo davano al 20% e il più del 50% di voti veri ottenuti nei seggi. In realtà – come ha sottolineato Gevorg Mirzayan, professore di Scienze politiche all’Università di Mosca – la maggior parte degli oppositori di Pashinyan è rimasta a casa, e sarebbero loro in maggioranza a formare l’esercito costituito da 1,2 milioni di elettori armeni che non si sono presentati al voto, a cui di fatto va aggiunto quel 17% che ha votato per liste che non avevano alcuna possibilità di entrare in parlamento: due modi di protestare contro la scarsa concretezza di Kocharian piuttosto che un sostegno al premier uscente.

Strategia russa di stabilizzazione e controllo

Questo quadro darebbe qualche chance a Putin di giocare il ruolo di facilitatore del coinvolgimento di Baku nei processi di integrazione in Eurasia e in misura minore di stabilizzazione dei difficili rapporti con la Turchia.

Il fattore più importante del voto, è che la “sacralizzazione” del problema del Karabakh e l’idea di vendetta nazionale non sono già più in cima ai pensieri di ampi strati della società armena, che hanno già altre priorità, in primo luogo la ripresa economica.

Tenere fuori dal gioco Washington

Ad aprile era stata annunciata la costruzione congiunta di una centrale nucleare russo-armena, ulteriore segnale dell’abbraccio economico-energetico russo

Inoltre, la maggioranza degli armeni si è dimostrata più realista del re, comprendendo che nelle condizioni attuali nel Caucaso meridionale e intorno al Artsakh, i partiti “bellicisti” armeni, anche se avessero vinto le elezioni, difficilmente sarebbero stati in grado di capovolgere la situazione a loro favore.

Mosca ha effettivamente tirato un sospiro di sollievo dal voto a Erevan perché garantisce la road-map tripartita definita in autunno e soprattutto la presenza di proprie truppe nella regione per anni. Non è un caso che il giorno dopo il voto senza attendere la conferenza stampa dell’opposizione, il Cremlino ha annunciato il suo «sostegno alla scelta del popolo armeno». Del resto Mosca non solo ha visto quanto Pashinyan nei suoi confronti abbia abbandonato i modi del bizzoso destriero e ora vada al passo come un ubbidiente pony, ma si sia dimostrato negli ultimi mesi un politico accorto. Infatti mentre la diaspora di Parigi e New York si batteva il petto per il Karabakh perduto e l’orgoglio nazionale infranto ma restava a osservare da lontano le vicende patrie, il popolo armeno dimostrava nell’urna più voglia di “normalità” e “pace”, se non proprio con gli invisi azeri almeno con gli altri popoli della regione, russi compresi.

Pashinyan allineato e coperto con il Cremlino

È interessante notare che nel suo primo discorso alla nazione dopo le elezioni, Nikol Pashinyan, da parte sua ha fatto un bel po’ più che un gesto dimostrativo nei confronti della leadership russa. «Esprimo la mia gratitudine alla Federazione Russa, al presidente russo Vladimir Putin e al primo ministro Mikhail Mishustin per il sostegno che hanno fornito all’Armenia e al popolo armeno in questa situazione», ha affermato Pashinyan in Tv. «L’Armenia dovrà approfondire seriamente la cooperazione militare e strategica con la Russia – ha aggiunto il leader armeno – a fronte della politica aggressiva dell’Azerbaijan», ha perfino aggiunto.

Su scala regionale il ruolo di Erevan del resto visto lo stato in cui versa la sua economia e il suo esercito, si riduce a cercare di contrastare l’alleanza sempre più stretta tra Ankara e Baku brandendo come può l’arma del genocidio turco.

Strategia turca di stabilizzazione e controllo

Le cose dalla parte della barricata turcofona si stanno muovendo rapidissimamente. Mentre in Armenia si chiudeva la campagna elettorale, il 15 giugno, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan giungeva a Şuşa, città simbolo della vittoria militare azera di qualche mese fa, dove con Ilham Aliyev, ha firmato una dichiarazione di Alleanza che d’ora in poi per i contraenti si chiamerà “Storica Dichiarazione di Şuşa”. Dietro ai titoli pomposi, a Şuşa si sono fatti comunque dei concreti passi avanti per quanto riguarda la cooperazione bilaterale nel campo della sicurezza, accordandosi perché l’Azerbaijan crei un «modello ridotto dell’esercito turco». Ankara e Baku conducono regolarmente e già da tempo esercitazioni militari congiunte e operazioni antiterrorismo ma per ora Baku non ha dato alcun segno di voler aderire alla Nato, segno che Ankara potrebbe desiderare avere nelle proprie disponibilità un arsenale e delle truppe autonome e fuori dal controllo Usa.

Allargamento di Astana?

In questa occasione il leader turco ha voluto anche mostrare la sua versione dialogante, diventata la sua postura dominante dell’ultimo periodo: ha chiesto ad Aliyev la normalizzazione delle relazioni con Erevan e ha proposto un format di cooperazione a sei nel Caucaso meridionale, che veda la partecipazione di Turchia, Russia, Azerbaijan, Armenia, Georgia e Iran. L’aver aggiunto nel menù anche l’Iran è un gesto di non poco conto che al Cremlino hanno preso in seria considerazione non solo in vista dei nuovi passi americani di apertura nei confronti del paese islamico ma soprattutto del realismo e del gradualismo con cui la Turchia voglia sviluppare la sua politica egemonica nella regione.

Qualche ora prima, del resto, Erdoğan aveva incontrato il presidente Usa Biden e si era dimostrato anche in questo caso assai disponibile e quasi remissivo malgrado lo “sgambettino stellestrisce” del riconoscimento ufficiale dell’“Olocausto armeno”. Il presidente turco ha promesso a Biden di restare “alleato sincero della Nato” ma non ha ceduto di un palmo né sulla questione del suo ruolo in Siria e Libia né sull’acquisto di sistemi missilistici antiaerei russi S-400.

Biden era venuto in Europa anche per verificare lo stato delle relazioni con Georgia e Ucraina in vista di una loro futura adesione alla Nato ma anche su questo terreno, dovrà tenere conto delle mosse bilaterali degli attori regionali.

Fatale attrazione caucasica per Erdoğan

Recentemente il primo ministro di Tblisi, Irakli Garibashvili, ha visitato Ankara proponendosi ai turchi come potenziale secondo alleato regionale, malgrado la Georgia sia un paese cristiano: una eventualità che sembra piacere ad Erdoğan proprio in vista dell’ingresso del paese ex sovietico nella Alleanza atlantica.

Tenere fuori dal gioco Washington

Ma la Georgia è attiva anche in direzione di un altro paese chiave della zona e cioè l’Ucraina anch’essa predestinata a diventare membro della Nato nonché dell’Unione europea. Tblisi è più avanti nel processo di adesione ma grazie al “fattore Donbass” che potrebbe tornare a essere dirimente in Europa in qualsiasi momento, Kiev potrebbe superarla al fotofinish, malgrado la Georgia abbia anch’essa in Abkhazia e Ossezia del Sud dei contenziosi aperti con la Russia e proprio la comune avversione a essa è il mastice che tiene insieme i due paesi ex sovietici.

Siamo a un passaggio fondamentale. L’ascendente di Ankara cerca di emarginare la declinante Mosca nella regione senza però per il momento farsela nemica come invece è nelle corde di Ucraina e Georgia: tenere fuori dal gioco Washington è nel loro comune interesse.

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Il Kgb: dalla bionda (atomica) di 007 agli anarchici dei Caraibi https://ogzero.org/kgb-da-ian-fleming-alla-realta/ Sun, 28 Mar 2021 13:31:03 +0000 https://ogzero.org/?p=2725 Pubblichiamo il secondo articolo di Yurii Colombo dedicato alla storia delle spie e dei servizi segreti russi. Come il primo, sarà accompagnato da una videointervista di approfondimento all’autore trasmessa in diretta streaming l’11 aprile sui nostri profili social. Questa nuova puntata focalizza l’attenzione sul periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale ai primissimi […]

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Pubblichiamo il secondo articolo di Yurii Colombo dedicato alla storia delle spie e dei servizi segreti russi. Come il primo, sarà accompagnato da una videointervista di approfondimento all’autore trasmessa in diretta streaming l’11 aprile sui nostri profili social. Questa nuova puntata focalizza l’attenzione sul periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale ai primissimi anni Sessanta, quel tempo storico che fu oggetto di sceneggiature e romanzi in cui la Russia progettava il proprio programma nucleare e che sancì il passaggio dall’Nkvd al famigerato Kgb. Ed ecco gli anni della famosa “linea rossa” diretta tra Usa e Urss, del controspionaggio, dei doppiogiochisti americani e della crisi dei missili a Cuba.


Da Ian Fleming alla realtà e viceversa

Nel 1963 la versione cinematografica del romanzo di Ian Fleming Dalla Russia con amore, il giallo che narra la vicenda di una avvenente spia sovietica desiderosa di passare con l’Occidente (la Tatiana Romanova interpretata dall’italiana Daniela Bianchi), ebbe un enorme successo di pubblico in tutto il mondo. Si era in piena Guerra Fredda e l’idea che un’ingenua ragazza russa non anelasse altro che finire tra le braccia di un agente dei servizi di Sua Maestà, piacque agli spettatori del “mondo libero”.

La corsa all’atomo con gli Usa

La Guerra Fredda era iniziata 18 anni prima – prima ancora delle celebri frasi di Churchill sulla cortina di ferro – quando il presidente americano Harry Truman aveva deciso di far esplodere due bombe atomiche sul Giappone. Stalin ne fu profondamente colpito e mise nelle mani del fidato Lavrentij Berija il progetto di costruire la propria atomica socialista. Berija era a capo della Nkvd e tale posizione gli dava la possibilità di mobilitare la forza-lavoro del GULag per quel progetto (forza-lavoro manuale per la costruzione dei centri di ricerca e sperimentazione e scientifica, e forza-lavoro intellettuale, spesso anch’essa detenuta nei GULag, per la ricerca e la sperimentazione). Inoltre attraverso i servizi il tecnocrate georgiano tentò – con successo – di ottenere preziose informazioni segrete dagli Stati Uniti che accelerassero la corsa militare all’atomo. Secondo il professor Igor Golovin «a quel tempo le capacità direttive di Berija erano evidenti per tutti noi. Aveva un’energia fuori del comune. Le riunioni non si protraevano per ore; tutto veniva deciso molto in fretta. Avevamo un unico pensiero in mente: che cosa dovevamo fare per finire il lavoro al più presto possibile, prima che la bomba atomica americana ci cadesse sulla testa. La paura di una nuova guerra nucleare era più importante di tutto il resto; può confermarlo chiunque abbia vissuto quel momento», ha ricordato ancora il fisico.

Malenkov, Berija e Stalin

Il controspionaggio americano

Malgrado sia stato riconosciuto recentemente che l’Urss giunse in gran parte con le proprie forze a creare la Bomba H, il contributo della rete di spie e informatori in America velocizzarono la ricerca. La spia Harry Gold controllata dall’agente Semyon Semyonov riuscì a ottenere dei rapporti nell’industria chimica americana, ma le informazioni più sensibili giunsero da due scienziati americani che avevano lavorato al Manhattan Project a Los Alamos.

Nel 1950 i russi ammettono di possedere la bomba atomica

Inoltre Klaus Fuchs e Theodore Hall, due fisici teorici, con l’assistenza di Lona Cohen (una spia comunista americana poi emigrata in Urss) e dell’ingegnere elettronico Oscar “Godsend” Seborer, fornirono importanti indicazioni e notizie che permisero agli scienziati russi di velocizzare i loro studi. Seborer confesserà di aver aiutato i russi solo alla fine degli anni Novanta, non perché guidato da ideali comunisti ma perché riteneva pericoloso il monopolio americano della bomba atomica. Fuchs, invece, scoperto dall’intelligence americana sarà poi condannato a 14 anni di reclusione negli Usa. La vicenda ebbe come ricaduta secondaria l’esplosione del caso Rosenberg: nel clima da caccia alle streghe i due coniugi comunisti vennero condannati alla sedia elettrica ma la querelle sulla loro colpevolezza è arrivata fino ai giorni nostri (la tesi più accreditata oggi è che i coniugi avessero realmente collaborato con i sovietici ma non in relazione alla bomba atomica fornendo informazioni su radar difensivi e dispositivi di artiglieria). Nello smantellamento dell’attività di spionaggio atomico sovietico giocò un ruolo importante il cosiddetto Venona Project una collaborazione sistematica organizzata tra Cia e MI5 per sventare i tentativi di interferenza sovietica in Occidente che proseguì fino al 1980.

Julius e Ethel Rosenberg (foto di Roger Higgins – Library of Congress Prints and Photographs Division, New York)

La grande trasformazione: nasce il Kgb

Nel marzo del 1954 la Sicurezza di Stato sovietica subì la sua più importante riorganizzazione postbellica. L’Nkvd fu trasformato in Comitato per la Sicurezza dello Stato, Kgb (Komitet Gosurdarstvennoij Bezopasnosti), il quale venne posto formalmente alle dipendenze del Consiglio dei ministri, nel tentativo di tenere sotto controllo politico la struttura dopo la dipartita di Stalin. Il primo capo del Kgb divenne il quarantanovenne generale Ivan Serov, noto soprattutto per la brutale efficienza con cui aveva eseguito in tempo di guerra le deportazioni dal Caucaso e schiacciato l’opposizione anticomunista negli stati baltici e nell’Europa orientale.

La mano pesante di Serov a Tblisi e Budapest

I primi avvenimenti che Serov dovette affrontare non furono proprio di ordinaria amministrazione. Nel 1956, pochi giorni dopo la denuncia dei crimini di Stalin da parte di Nikita Khruscev durante la sessione chiusa del XX Congresso del Pcus, scoppiò una sommossa a Tblisi a difesa dell’onore perduto del dittatore georgiano. La rivolta – in buona parte giovanile e nazionalista – preoccupò non poco i vertici del Kgb che mandarono in loco un gruppo di agenti. Filipp Bobkov – che allora era un agente in erba del Comitato – racconta nelle sue memorie che il loro intervento una volta appurato che le manifestazioni non avevano obiettivi direttamente politici e non erano state alimentate da governi stranieri, evitò un’inconsulta repressione e calmò gli animi. Restarono comunque uccisi 150 dimostranti.

Qualche mese dopo, in autunno, la mano del Kgb, guidata da Ivan Serov (chiamato dalla stampa occidentale “il macellaio”) sarà assai più pesante quando lavorerà sottotraccia prima per isolare il primo ministro ungherese, il riformatore Imre Nagy, e poi per gestire l’ondata repressiva contro gli insorti di Budapest.

La Finlandia di Kekkonen in bilico tra Occidente e Oriente

Sempre nel 1956 quando fu eletto presidente della Finlandia Urho Kaleva Kekkonen, esponente politico del partito agrario finlandese, a Mosca pensarono di aver vinto alla lotteria. Infatti Kekkonen non solo incontrava regolarmente un agente del Kgb ma accettava di buon grado i consigli che gli venivano dati dall’ambasciata sovietica a Helsinki, al punto tale che Khruscev lo considerava un “suo uomo”. Qualche volta accettò di inserire nei propri discorsi le “tesi” preparate dalla Divisione Internazionale del Comitato Centrale del Pcus recapitate tramite il residente russo nella capitale finlandese. Restò alla presidenza del suo paese per ben 18 anni, fino al 1982, e nella commedia degli equivoci, l’Urss pensò di aver avuto per quasi un ventennio un ammiccante capo di stato disposto a qualsiasi concessione e posizione filorussa compreso il rifiuto di accettare gli aiuti del piano Marshall. In realtà, come ha dimostrato ampiamente la storiografia finlandese l’obiettivo di Kekkonen era esplicitamente quello di salvare l’indipendenza del suo paese dagli artigli dell’Orso sovietico. Nel gioco doppio, triplo e quadruplo di ogni relazione diplomatica e informativa, il piccolo paese nordeuropeo riuscì così a cavarsela, restando in bilico tra Occidente e Oriente.

Il presidente finlandese Urho Kekkonen all’arrivo negli Stati Uniti, accolto da J.F. Kennedy, ottobre 1961.

Castro, all’altro capo del mondo

All’altro capo del mondo Fidel Castro che diventerà negli anni Sessanta la punta di lancia della geopolitica sovietica internazionale, neanche tanto paradossalmente, fu visto a lungo dal governo russo e dal Kgb come un elemento inaffidabile, troppo indipendente e alla testa di un movimento nazionalista poco controllabile.

Il Secondo Dipartimento (quello del Kgb per l’America latina) dei servizi esteri colse per primo la potenzialità di Castro. Il primo a rendersene conto fu un giovane ufficiale, Nikolai Leonov, che conosceva la lingua spagnola, distaccato negli anni Cinquanta nell’ufficio di Città del Messico. Castro che era stato due anni in carcere per avere organizzato l’attacco a una caserma, quando fu liberato, trascorse un anno in esilio nel Messico, e si rivolse all’ambasciata sovietica chiedendo armi per la guerriglia contro Batista. Le armi gli furono rifiutate, ma Leonov era rimasto immediatamente impressionato dal carisma e dalla determinazione di Castro come capo guerrigliero.

Il Cremlino e gli “anarchici dei Caraibi”

Nell’autunno del 1959, quando la rivoluzione aveva già vinto, una delegazione cubana diretta da Raúl Castro si recò a Praga per discutere la possibilità di un’assistenza militare cecoslovacca. Raúl piacque ai cechi che diedero a Khruscev il via libera per stringere relazioni più strette con “gli anarchici dei Caraibi” come venivano chiamati ironicamente al Cremlino.

Una delle prime spericolate azioni organizzate dal Kgb nel dicembre 1959 fu quella di far volare a L’Avana due crittografi americani Bernon F. Mitchell e William H. Martin con in tasca importanti informazioni top secret. I due fuggirono poi definitivamente a Mosca nel settembre 1960 portandosi con sé molte informazioni sensibili. In una conferenza stampa che fece storia e che provocò l’imbarazzo di tutte le cancellerie mondiali, denunciarono che la Cia decifrava le comunicazioni di diversi alleati americani tra cui, a detta di Martin, figuravano anche «l’Italia, la Turchia, la Francia, gli Emirati Arabi, l’Indonesia, l’Uruguay». Sempre nello stesso periodo a libro paga del Kgb venne posto Jack E. Dunlap, un ufficiale Usa di basso rango che lavorava alla base militare di Fort Meade. Dunlap che aveva il vizio delle roulette e delle belle donne, in cambio di danaro, nel giro di tre anni fornì ai sovietici manuali d’istruzioni e di riparazione, modelli matematici, disegni costruttivi delle più segrete macchine di crittografazione degli Stati Uniti. Ebbe anche accesso alle valutazioni della Cia sugli effettivi sovietici e delle loro forze missilistiche in Europa orientale, soprattutto quelle collocate nella Repubblica Democratica Tedesca (Ddr). Nel 1963 però, dopo essere stato sottoposto alla macchina della verità, Dunlap, si suicidò.

Fidel Castro e Nikita Khrushev si fanno strada tra la folla, 1960 (foto di Herman Hiller – World-Telegram & Sun Photograph Collection – Library of Congress).

Gli avventurieri dei primi anni Sessanta

In quel periodo il Kgb, non potendo più contare come negli anni Trenta e Quaranta su agenti fedeli agli ideali del socialismo come erano stati Trepper o a suo modo anche Philby, iniziò ad affidarsi ad avventurieri di ogni tipo. Come Robert Lee Johnson già ufficiale americano in attività a Berlino Ovest con il vizietto della bottiglia e delle scommesse clandestine, il quale una volta rientrato negli Usa iniziò a rendere i suoi servigi all’ambasciata russa. Il 15 dicembre 1961, Johnson entrò per la prima volta in una camera blindata dell’agenzia di sicurezza americana, riempì una borsa da viaggio dell’Air France di sacchetti sigillati contenenti materiale crittografico e documenti top-secret, e la portò nel luogo dove lo attendeva l’agente Felix Ivanov, che consegnò poi il tutto alla residenza del Kgb presso l’ambasciata di Parigi. Una squadra di tecnici, già in attesa, tolse i sigilli, fotografò i documenti, li rimise nei sacchetti e ripristinò i sigilli. Nel giro di meno di un’ora la borsa Air France era di nuovo in viaggio verso Johnson, che rimise il contenuto nella camera blindata molto prima dello scadere del proprio turno di guardia. A fine aprile 1962 Johnson aveva consegnato ben 17 borsoni pieni di documenti ai sovietici che comprendevano dati sul sistema di decifrazione americano, l’ubicazione delle testate nucleari Usa in Europa, i piani difensivi della Nato e degli Stati Uniti, al Kgb. Johnson riuscirà infine a scappare a Mosca dove visse il resto dei suoi giorni da nababbo sovietico.

Non tutto però filò lisciò in quel periodo. Almeno 3 agenti sovietici passarono armi e bagagli al nemico: Nikolay Koklov, Anatolij Golitsyn e soprattutto Bohdan Stashynsky autore dell’uccisione in Germania Ovest del capo della destra collaborazionista ucraina Stepan Bandera durante la Seconda guerra mondiale. Stashynsky fu processato a Karlsruhe nell’ottobre 1962 e condannato a otto anni di carcere per complicità in omicidio. In seguito a queste “disconnessioni” furono licenziati o retrocessi 17 ufficiali del Kgb secondo quanto riportato da Golitsyn nelle sue memorie.

Golitsyn, Koklov e Stashynsky

I missili a Cuba e la “linea rossa” tra Kennedy e Khrushev

Ma il momento in cui le strutture dei servizi russi furono messe più a dura prova fu durante la crisi dei missili a Cuba nell’estate del 1962 dopo il fallimentare tentativo americano dell’anno precedente di invadere l’isola rivoluzionaria alla Baia dei Porci. Quando i tecnici sovietici cominciarono a costruire a Cuba le rampe di lancio per missili nucleari uno dei compiti principali affidati al Kgb fu quello di costruire informazioni che potessero filtrare in ambienti ben introdotti tra i Kennedy, installare un canale privato per i contatti con la Casa Bianca dove diffondere false informazioni mentre a Cuba venivano piazzati i missili sovietici. L’addetto incaricato di ciò fu Georgy Bolshakov, un ufficiale del Kgb che operava a Washington sotto la copertura di giornalista. Per più di un anno, già prima della crisi dei missili, Bolshakov si trovò a fungere da “linea rossa” – come lui la definiva – e da “canale di comunicazione segreto” tra John Kennedy e Nikita Khruscev. Bolshakov era un uomo di punta dei servizi russi all’estero, tanto è vero che era stato utilizzato l’anno prima a Berlino quando Khruscev aveva deciso di costruire il muro. Presentato da un giornalista americano a Robert Kennedy, nel maggio 1961, cominciò ad avere con lui regolari incontri quindicinali. Bolshakov convinse Robert Kennedy che poteva aggirare il ponderoso protocollo della diplomazia ufficiale e conoscere direttamente le opinioni di Khruscev e «parlare in modo diretto e aperto senza ricorrere alle battute propagandistiche di repertorio usate dai politicanti». Secondo Bolshakov, «entrambe le parti fecero largo uso» del canale di comunicazione da lui fornito.

29 ottobre 1962: Riunione dell’Executive Committee of the National Security Council (foto di Cecil Stoughton, White House, John F. Kennedy Presidential Library and Museum)

Malgrado ciò la scommessa di Khruscev si concluse con un mezzo fallimento e fu costretto a desistere dall’installare i missili nell’isola caraibica proprio perché la Cia convinse Kennedy che quello del leader sovietico non era altro che un bluff, seppure ben congegnato. Secondo alcuni fu allora che entrò in scena Lee H. Oswald…

Bibliografia consigliata:

Vladimir Antonov, Vladimir Karpov – Taynje Informatory Kremlja. Očerki o sovietskich razvedčikach, Moskva, Veče, 2011.

Christopher Andrew, Oleg Gordievskij – La storia segreta del Kgb, Milano, Rizzoli, 2017.

Christopher Andrew, Vasili Mitrokhin – The Mitrokhin Archive: The KGB in Europe and the West, London, Penguin, 2018.

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Dietro le quinte: storia di spie e servizi segreti in Russia https://ogzero.org/ruolo-dei-servizi-segreti-russi/ Tue, 02 Mar 2021 10:00:17 +0000 https://ogzero.org/?p=2533 Inauguriamo una serie di interventi di Yurii Colombo che approfondiscono il ruolo dei servizi segreti russi, la loro trasformazione nel tempo dal Kgb all’odierno Fsb, gli agenti passati alla storia, i segreti di stato della polizia politica che hanno protetto lo zarismo e assicurato la sopravvivenza dei vari regimi susseguitisi in Russia fino al crollo […]

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Inauguriamo una serie di interventi di Yurii Colombo che approfondiscono il ruolo dei servizi segreti russi, la loro trasformazione nel tempo dal Kgb all’odierno Fsb, gli agenti passati alla storia, i segreti di stato della polizia politica che hanno protetto lo zarismo e assicurato la sopravvivenza dei vari regimi susseguitisi in Russia fino al crollo dell’Unione Sovietica. Si parlerà del rapporto tra la Lubianka e Putin nella Federazione di oggi, della politica degli avvelenamenti e dell’influenza dei servizi nella politica estera del paese. Questa è la prima puntata.


Kgb: la polizia politica dello zar dai poteri illimitati

L’antenato del Kgb (Komitet gosudarstvennoy bezopasnosti – Comitato per la sicurezza dello stato), il temutissimo servizio segreto sovietico, poi ribattezzato dopo il 1991 Fsb, fu istituito da Ivan il Terribile nel 1565 e operò per solo 7 anni con nome di Opričnina (il ricordo di questa “guardia scelta” è stato rinverdito in chiave fantasmagorica e futurista recentemente nel romanzo La giornata di un opričnik di Vladimir Sorokin). Tuttavia perché in Russia si formasse il primo servizio segreto moderno, l’Ochrana, si dovette aspettare il 1881 quando dopo l’attentato allo zar Aleksander II a cui prese parte anche il fratello di Lenin, Aleksander Ul’janov, a corte ci si accorse che lo sviluppo di organizzazioni rivoluzionarie in tutto il paese rischiava di sommergere l’Impero. L’Ochrana, come è stato sottolineato nell’ormai classica storia del Kgb scritta da Christopher Andrew e Oleg Gordievskij fu l’unica organizzazione di spionaggio nell’Europa di quel tempo con poteri praticamente illimitati e un’ampia sfera di attività mentre le altre forze di polizia europee (ancora per poco!) operavano nel rispetto della legge. In fatto di crimini politici aveva il diritto di investigare, incarcerare ed esiliare di propria iniziativa e senza alcun controllo dei vertici dello stato. La differenza fondamentale tra la Russia e il resto d’Europa, scrisse nel 1903 Pëtr Struve, un marxista “legale” poi convertito al liberalismo, era «il potere assoluto della polizia politica a cui lo zarismo affidava la propria sopravvivenza», una caratteristica che, guarda caso, sembra si sia tramandata, come vedremo, fino ai nostri giorni

Volontà del Popolo

Ochrana: “Misure attive” e “azioni speciali”

La spia più celebre che l’Ochrana riuscì a reclutare fu Roman Malinovskij, deputato alla Duma di stato per i bolscevichi e uno dei bracci destri di Lenin. Un ruolo particolare all’interno della struttura dell’organizzazione ma anche nell’economia della nostra riflessione sui servizi in Russia fu rappresentato dal quartier generale dell’Agenzia Estera dell’Ochrana (la Zagraničnaja Agentura), che fu istituita per sorvegliare gli emigrati politici e guidata da Pëtr Račkovskij (il probabile compilatore dei Protocolli dei Savi di Sion). Infatti come successivamente il Kgb e il Fsb, la Zagraničnaja Agentura ebbe sempre un ruolo fondamentale non solo per le raccolte delle informazioni, ma anche nell’attuazione di “misure attive” programmate per influenzare i governi stranieri e l’opinione pubblica, oltre che “azioni speciali” come, per esempio, quella del 1886 in cui gli uomini di Račkovskij fecero saltare a Ginevra la tipografia della “Volontà del Popolo”, la più famosa delle  organizzazioni populiste, riuscendo a far sembrare l’attentato come l’opera di rivoluzionari delusi. Račkovskij non si limitò nella sua carriera solo alla raccolta delle informazioni segrete e alle “misure attive”, ma cercò anche di influenzare la politica estera russa. Quando giunse a Parigi nel 1884, era già un convinto sostenitore di un’alleanza con la Francia. Un’autonomia politica che invece verrà a mancare ai servizi nell’epoca di Stalin quando furono ferreamente diretti dall’alto.

Pëtr Ivanovič Račkovskij

La Čeka e il destino degli accusati

Dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi nell’ottobre del 1917, la creazione del “Comitato straordinario di tutte le Russie e per combattere la controrivoluzione e il sabotaggio” meglio conosciuta con l’acronimo di Čeka (poi Gpu-Ogpu-Nkvd) venne affidata a uno dei duri della vecchia guardia leninista, Felix Dzeržinskij (membro della socialdemocrazia lituana dal 1895). Nel suo discorso di investitura il rivoluzionario russo chiarì subito i suoi intenti: «Non pensate che io cerchi forme di giustizia rivoluzionaria; in questo momento non è di giustizia che abbiamo bisogno. Adesso è questione di guerra faccia a faccia, di lotta all’ultimo sangue. O vita o morte! Io propongo, anzi, esigo, un organo per la resa rivoluzionaria dei conti con i controrivoluzionari». Nella logica della guerra civile il terrore rosso si poneva il compito di sterminare «la borghesia intesa come classe. Nel corso delle indagini, non cercate di dimostrare che il soggetto ha detto o fatto qualcosa contro il potere sovietico. Le prime domande che dovete porvi sono: a quale classe appartiene? Qual è la sua origine? Quali sono la sua cultura e la sua professione? Le risposte a queste domande devono determinare il destino dell’accusato». Negli anni della guerra civile, ma ancora fino agli anni Trenta, la Čeka più che svolgere attività di intelligence operò piuttosto quindi nel campo della pura repressione e secondo alcune fonti le esecuzioni eseguite dai suoi uomini tra il 1917 e il 1921 furono circa 250.000. Successivamente – negli anni  Venti – le funzioni dei servizi sovietici si limitarono essenzialmente al collegamento con i vari partiti del Comintern, nel tentativo di sviluppare la tanto sperata rivoluzione internazionale. Con risultati scadenti, a dire il vero, visto il fallimentare tentativo di putsch rivoluzionario in Germania del 1923.

Gpu-Nkvd: la struttura informativa contro ogni tipo di opposizione

Fu solo con l’ascesa di Stalin che la struttura informativa, prima sotto la direzione di Genrich Jagoda e poi di Lavrentij Beria, divenne scientifica ed efficiente. La necessità di portare avanti una lotta spietata contro ogni tipo di oppositori e sabotatori della pianificazione industriale e agricola (questi ultimi  perlopiù di fantasia) condusse la Gpu-Nkvd a costituire una fittissima rete di informatori in ogni piega della società favorendo la delazione di massa e un clima di sospetto in tutta il paese. Furono milioni le persone che dal 1929  fino al 1953 soffrirono nei GULag (i campi di lavoro forzato creati in tutta l’Unione Sovietica a partire dal 1930) e centinaia di migliaia i cittadini sovietici che furono passati per le armi in quanto “nemici del popolo”. Ma la vera opera di spionaggio, di raccolta delle informazioni e e di provocazione per come lo si intende oggigiorno fu realizzato dalla Gpu-Nkvd all’estero. Il primo grande filone a cui furono adibiti gli agenti stalinisti era quello di controllare la variegata emigrazione controrivoluzionaria bianca concentrata fondamentalmente a Parigi (mentre quella menscevica visto che la buona parte dei suoi quadri era di origine ebrea aveva abbandonato l’Europa per raggiungere gli Stati Uniti). Qui i servizi segreti russi nel 1930, grazie all’aiuto della mezzo soprano Nadežda Plevitskaja, portarono a segno il sequestro e l’uccisione di Aleksander Kutepov un generale che durante la guerra civile russa era stato ai comandi del generale Denikin in Siberia e nella capitale francese era uno dei più attivi organizer della diaspora controrivoluzionaria. Ma lo sforzo maggiore compiuto dalla Gpu-Nkvd in quegli anni fu rivolto a vanificare i tentativi delle formazioni comuniste eretiche collegate a Lev Trockij di stabilizzarsi in Occidente.

Genrich Grigorijewitsch Jagoda

Stalin contro il pericolo del trockijsmo europeo

Il timore principale di Stalin – secondo  Gordievskij – inizialmente fu legato alla crescita di influenza del Partido Obrero de Unificacion Marxista (Poum) spagnolo nella guerra civile spagnola. Questa formazione marxista pur non essendo ortodossamente trockijsta, era ferocemente antistalinista e avrebbe potuto rappresentare soprattutto in Catalogna repubblicana, una base logistica per il trockijsmo europeo. Per stroncare il Poum il capo della Nkvd Jagoda spedì in Spagna gli uomini di Aleksander Orlov che si erano già mostrati efficienti ed efficaci in Russia. Questi ultimi ricevettero carta bianca dal punto di vista operativo dal Cremlino anche rispetto a Togliatti che dirigeva politicamente le attività del Comintern in Spagna, organizzando una caccia spietata ai dissidenti comunisti e anarchici che raggiunse il suo apice con l’assassinio di uno dei pionieri del comunismo spagnolo, Andreu Nin, nel 1937. La campagna per debellare il trockismo proseguì con l’uccisione a Parigi del figlio di Trockij, Leon Sedov, del segretario della Quarta Internazionale, il tedesco Rodolf Klement, ma soprattutto di Ignass Reiss (Porecki) un agente segreto sovietico a Parigi che disgustato dai metodi di Stalin aveva deciso di raggiungere il campo dell’antistalinismo militante. Il 5 giugno 1937 Juliette Stuart Poyntz, americana, agente delusa dell’Nkvd subì una sorte simile: uscita dalla sua camera alla Women’s Association Clubhouse di Manhattan non fu mai più vista. Si ebbero in seguito le prove che era stata attirata in un agguato mortale dal suo ex amante russo, Šačno Epstein, anch’egli agente dell’Nkvd. Il corpo della donna fu seppellito dietro un muro di mattoni in un caseggiato del Greenwich Village.

La diaspora delle spie

Un altro agente che aveva defezionato denunciando lo stalinismo Walter Krivickij ed era fuggito negli Usa fu raggiunto e assassinato a Washington dagli agenti della Nkvd nel 1941. Potrà sembrare un caso, ma non lo è, ma le spie sovietiche di questa generazione erano per lo più di origine ebraica e provenivano dalle “colonie” interne dell’Urss come la zona orientale della Polonia e quella occidentale dell’Ucraina. Si trattava per lo più di giovani mosse nella loro pericolosa attività dal più intrepido idealismo. Una di questi, il leggendario Leopold Trepper, creerà poi in Francia e in Belgio la celeberrima rete di informazione antinazista Orchestra rossa che con la sua sistematica raccolta di informazioni sui progetti militari del Terzo Reich, fornirà un decisivo sostegno allo sforzo bellico sovietico durante la guerra mondiale.

Agenti doppi e defezioni

Nel campo occidentale un ruolo particolare fu giocato poi dai “cinque di Cambridge”, una struttura spionistica sovietica in Gran Bretagna creata da Kim Philby un rampollo della aristocrazia britannica che a partire dal 1938 era stato reclutato allo spionaggio  sovietico nella prestigiosa università dall’agente segreto del Kgb Alice (Litzi) Friedmann. Philby riuscì a mimetizzarsi a lungo nel ruolo di agente doppio e a defezionare in Urss nel 1963, diventando un’icona internazionale, al punto che nel 1990 in Urss gli venne persino dedicato un francobollo.  

La rete più importante dell’intelligence russa del periodo tra le due guerre fu comunque quella organizzata per l’assassinio di Trockij in Messico nel 1940. Facendo conto su basi a Madrid, Parigi, New York, Istanbul e Città del Messico, la Nkvd riuscì a infiltrare alla testa del coordinamento della Quarta Internazionale europea l’agente e antropologo Mark Zborowski (alias Etienne) che aiuterà poi Ramon Mercader, l’autore materiale dell’omicidio, a entrare in contatto e far invaghire una delle segretaria di Trockij, Sylvia Ageloff, e infine penetrare nel piccolo fortino in cui viveva l’ex capo dell’Armata Rossa. Questa almeno è la ricostruzione ufficiale. Alcune delle ricerche nel secondo dopoguerra in realtà hanno messo in discussione questa versione considerandola semplicistica. In realtà Zborowski sarebbe stato un agente doppio, legato anche all’Fbi (visse negli Usa fino alla morte avvenuta nel 1990 senza tanti problemi) mentre Ageloff sarebbe stata anch’essa un’agente dell’Nkvd infiltrata nel movimento trockista già dal 1938. In questa operazione giocarono un ruolo fondamentale ben più dello stesso Mercader (e di sua madre Caridad anch’essa agente di Stalin) Naum Ėjtingon (detto Tom) e Pavel Sudoplatov, due agenti di copertura che non tradiranno mai il potere sovietico e moriranno tranquillamente nei loro letti di Mosca. Sodoplatov negli anni Novanta pubblicò anche le sue memorie che vennero tradotte in gran parte delle lingue del mondo, in cui sostenne – nell’imbarazzo generale – di aver trattato nel 1941 su ordine di Beria con la Germania – attraverso l’ambasciata bulgara – la cessione di significative quote di territorio sovietico in cambio dell’armistizio.

Il bunker sovietico 42 costruito a Mosca durante la Guerra Fredda (foto di A. Chubykin)

In un quindicennio che va dal 1930 alla fine della guerra, la macchina informativa e repressiva della Čeka-Gpu-Nkvd aveva quindi affinato i suoi strumenti e riportato importanti successi. Dopo il 1945 – da quando scenderà la cortina di ferro sull’Europa – l’Urss affinerà i suoi metodi di investigazione per la selezioni dei suoi quadri nel suo lavoro interno e all’estero diventando sotto l’acronimo di Kgb, uno delle organizzazioni di intelligence tra le più temute del mondo.

Ma di questo vi parleremo nella prossima puntata.

Letture consigliate:

Christopher Andrew, Vasili Mitrokhin, The Mitrokhin Archive: The KGB in Europe and the West (Penguin, 2018)

Andrei Soldatov, Irina Borogan, The Compatriots: The Brutal and Chaotic History of Russia’s Exiles, Emigrés, and Agents Abroad (PublicAffairs, 2019)

Pavel Sudoplatov, Spezoperazii. Lubjanka e Kreml’ 1930-1950 gody (Olma-Press, 1997)

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Alexey Navalny, questo sconosciuto: una prospettiva https://ogzero.org/alexey-navalny-questo-sconosciuto-una-prospettiva/ Wed, 27 Jan 2021 11:16:20 +0000 http://ogzero.org/?p=2312 Il riaffiorare delle proteste antiregime in Russia ripropone il tema dello stato di salute socio-economico del paese, delle prospettive della presidenza Putin e della riemersione di Alexey Navalny (dopo l’avvelenamento con Novichok ad agosto in Siberia e l’arresto al ritorno in patria) come possibile alternativa democratica. Rimandando ad altra occasione l’approfondimento, importante, dei primi due […]

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Il riaffiorare delle proteste antiregime in Russia ripropone il tema dello stato di salute socio-economico del paese, delle prospettive della presidenza Putin e della riemersione di Alexey Navalny (dopo l’avvelenamento con Novichok ad agosto in Siberia e l’arresto al ritorno in patria) come possibile alternativa democratica. Rimandando ad altra occasione l’approfondimento, importante, dei primi due aspetti, vediamo di concentrarci sulla figura del blogger antisistema tanto discussa quanto poco conosciuta anche in Occidente.

Dall’opposizione mainstream a Narod

Navalny muove i suoi primi passi nel mondo politico nei primi anni Duemila nell’universo dell’opposizione “mainstream” di Yabloko di Viktor Yavlinskij uno stimato accademico, vice primo ministro in era gorbacioviana che propone ricette economiche di liberismo temperato sulla falsariga dei cristiano-sociali tedeschi condite con disponibilità e aperture alle questioni dei diritti civili, Lgbt compresi. Ma per Navalny si tratta di un mondo compassato e old fashion che gli sta stretto: il giovane blogger vuole una politica più aggressiva, più militante e costruita sull’uso professionale delle nuove tecnologie. Nel 2007 lascia Yabloko per fondare il Movimento nazional-democratico “Narod” (“Popolo”): un pot-pourri in cui si agglutinano soprattutto gli ex nazional-bolscevichi di Limonov. Controllo rigido della migrazione interna e stato forte caratterizzano una forza politica che non decollerà, anche perché quello spazio politico è ben presidiato da Vladimir Zirinovsky, lo xenofobo leader del Partito liberaldemocratico.

Dal fascino della destra e al maquillage populista

Tre anni dopo, e siamo nel 2010, Navalny prende parte a “Russky Marsh” la manifestazione dell’estrema destra in cui si sprecano le bandiere nere con la celtica, le foto di Ivan Grozny, e i cui partecipanti non si vergognano di dichiararsi antisemiti e omofobi. Ma con la candidatura per sindaco di Mosca, nel 2012, su consiglio dei suoi spin-doctor Navalny “ribrandizza” la sua immagine per intercettare l’elettorato giovanile della capitale, educato al liberalismo di stampo occidentale. Un riposizionamento che gli frutterà il 27,2% dei consensi. Un maquillage populista, il suo programma elettorale alla carica di sindaco, che accanto alla rivendicazione del diritto al matrimonio gay alterna l’attacco a Putin sui temi della corruzione, ma anche una politica sull’immigrazione centroasiatica reazionaria non molto diversa da quella della Lega di Salvini. Nel frattempo parteciperà, in prima fila, alle grandi manifestazioni contro i brogli delle elezioni presidenziali del 2011-2012.

Navalny sconosciuto

Alexey Navalny alla Marcia Russa il 4 novembre a Mosca nel 2011

Una macchina politica fondata sul personaggio

Il riflusso di quelle che per ora restano le più grandi manifestazioni di protesta da quando è nata la Federazione russa lo inducono a riflettere. Da allora in poi inizia a costruire una propria macchina politica centralizzata di stile “leninista” che ruota tutto intorno alla sua persona che cresce negli anni in oltre sessanta provincie in tutto il paese, dimostrando, va detto, notevole coraggio in uno stato dove qualsiasi cosa si muova viene messo subito sotto la lente d’ingrandimento dei servizi segreti e della polizia. Si tratta di un’intuizione forte: per i russi, tradizionalmente, la politica è sempre qualcosa che ruota intorno a un leader carismatico – non importa se si chiami Pietro I o Stalin, Ivan Grozny o Pugacev. Il nome del suo partito cambia spesso, più importanti sono le front organizations di cui la principale è “il centro anticorruzione” (che ha prodotto il recente film – oltre 70 milioni di visualizzazioni – sull’ormai famosa residenza di Putin da 38.000 metri quadrati in Crimea) ma al cui centro c’è sempre e solamente il portale navalny.com. Non a caso quando viene escluso dalla corsa per le presidenziali del 2018 a causa di una condanna penale (un reato fiscale che molti osservatori sostengono sia stato fabbricato dall’Fsb) preferisce non puntare su qualche suo braccio destro ma chiamare al boicottaggio del voto.

Il programma politico neoliberale

È in questo periodo che mette a punto il suo programma politico che non ha mai voluto troppo pubblicizzare, temendo come altri politici populisti in ascesa, i “temi divisivi”. Il suo piano economico per lo sviluppo della Russia è sin troppo semplice: aumento del salario minimo a 25.000 rubli al mese, aumento delle pensioni e dei servizi sociali dalla Sanità all’Istruzione. Da dove reperire queste risorse? Le ricette, neoliberali, non sono molto diverse da quelle attuate in Occidente che si sono dimostrate disastrose per le classi subalterne: «Il nostro programma include un’ampia gamma di misure per liberare gli imprenditori dalla pressione della burocrazia, dei funzionari della sicurezza e dei monopoli. Stiamo implementando un programma per demonopolizzare l’economia e ridurre i prezzi. Ridurremo il numero di organismi di regolamentazione e ne liquideremo alcuni. […] Aboliremo la contabilità fiscale separata e passeremo completamente alla rendicontazione contabile in conformità con gli standard internazionali. Vieteremo l’avvio di procedimenti penali nel caso in cui si consideri lo stesso caso nel quadro di una controversia commerciale, così come mettere in custodia gli imprenditori per reati economici in attesa di una sentenza».

Le sue bordate ovviamente sono contro quella “rinazionalizzazione” dell’economia volta da Putin – una sorta di bicefalo di capitalismo di stato con turboliberismo nel mondo lavorativo – che ha rimesso sotto controllo statale tutti i settori strategici dell’economia, comprese le banche e quello immobiliare. «In Russia ora c’è una sorta di capitalismo incomprensibile, in cui lo stato controlla più della metà dell’economia e domina gli uomini d’affari. Un tale sistema ostacola lo sviluppo del paese», denuncia Navalny, peccato però che buona parte degli oligarchi e dei businessmen a cui si rivolge hanno prosperato sotto l’economia di “pianificazione comandata neoliberale” di Putin: sono ormai cento gli oligarchi miliardari in dollari in un paese dove la forbice della ricchezza è tornata a essere quella dei tempi del 1905 che mise in moto la prima rivoluzione sovietica, come ha dimostrato Thomas Piketty.

La ricetta fiscale: il federalismo nel federalismo

L’uovo di Colombo per l’oppositore sarebbe un’ulteriore riduzione delle tasse – questa volta per il piccolo e medio business – in un paese dove esiste già un prelievo ridottissimo (flat tax al 13-15%). L’oneroso sistema della difesa che assorbe – e siamo ai dati del 2021 – il 14,5% del budget statale verrebbe inoltre ridotto grazie all’introduzione dell’esercito professionale: «la Russia è in grado di permettersi un esercito completamente “a contratto”: 500.000 soldati con uno stipendio medio di 200.000 rubli al mese (il nostro obiettivo) sono 1200 miliardi di rubli all’anno. Il budget militare di oggi è di circa 3 mila miliardi…». Un altro tassello fondamentale della sua amministrazione sarebbe il federalismo fiscale in un paese già federale ma dove troppe risorse finirebbero al centro: «Il nostro programma di riforma del bilancio prevede un aumento della quota di imposte e tasse trattenute nelle regioni. […] Oggi il denaro va avanti e indietro: prima viene prelevato dalle regioni e poi assegnato sotto forma di sussidi. Questo viene fatto per mettere le regioni in una posizione politicamente subordinata. Siamo categoricamente contrari a questo. Una giusta distribuzione del gettito fiscale tra centro e regioni dovrebbe essere di 50/50 in pochi anni (negli ultimi anni si è arrivati a 70/30 a favore del centro)». Null’altro. Davvero troppo per risolvere i problemi di dipendenza dell’economia russa dalla produzione ed esportazione di idrocarburi (che rappresenta il 30% del Pil) dal cronico deficit di capitali e da una valuta fragile e volatile. Per non parlare di un mondo del lavoro in cui la precarietà, l’inesistenza di diritti e tutele, oltre che i bassi salari sono la norma.

La politica nazionalista: il regime dei visti

La riforma del sistema giudiziario e un’organizzazione degli apparati di sicurezza completano il menù “riformista” interno. Allo stesso tempo Navalny non ha mai nascosto di voler perseguire una politica “realmente nazionalista” – sulla falsariga di quella promossa dalle forze sovraniste e di destra nell’Unione Europea – nei confronti delle ondate migratorie dal Centro-Asia. La sua latente posizione xenofoba era già venuta a galla durante la sua campagna elettorale per la carica di sindaco di Mosca nel 2013 quando si era detto favorevole alla deportazione coatta dei migranti illegali e il divieto della costruzione di moschee. Posizione riaffermata in modo più vago anche nel suo programma politico sostenendo la necessità di «introdurre un regime dei visti con i paesi dell’Asia centrale e della Transcaucasia».

Navalny sconosciuto

Mosca 2013, uno striscione pubblicizza la candidatura di Navalny

La minaccia per Putin: la sua politica estera

Ma ciò che rende il suo programma particolarmente insidioso per Putin sono le direttrici della politica estera. Navalny non ha fatto mai mistero di considerare avventurista la politica russa dal 2014 in poi in Ucraina. Più di una volta ha infatti sostenuto che se assumesse il potere chiuderebbe rapidamente il contenzioso nel Donbass e proporrebbe un nuovo referendum per decidere lo status giuridico internazionale della Crimea. E di voler puntare a un’integrazione con l’Unione Europea. «La Russia dovrebbe tornare all’ideologia del partenariato strategico e dell’integrazione con i paesi dell’UE sulla base del concetto di “quattro spazi comuni”, individuando come obiettivo finale la creazione di una zona di libero scambio tra l’UE e l’EurAsEC», sostiene sempre nel suo programma politico. Tutta musica per le orecchie di Bruxelles ancor prima che di Washington, se si aggiunge che Navalny abbandonerebbe al loro destino sia Assad sia Maduro – strategici alleati di Mosca – e rimodulerebbe le relazioni con Erdoğan. Il che rappresenterebbe il ritorno di quell’ipotesi di inserimento della Russia nella Nato che era stata ipotizzata, se non accarezzata, dallo stesso Putin nei suoi primi anni di amministrazione.

L’Europa si allontana da Putin: una partita da giocare

Tuttavia fino a questa estate né la UE né la Casa Bianca (o meglio il Pentagono) avevano considerato seriamente l’ipotesi di sostenere gli sforzi dell’oppositore russo. Poi si sono determinati una serie di fattori che hanno indotto Macron ad archiviare le sue aperture al Cremlino (facendo baluginare più volte l’idea di una versione riveduta e corretta del sogno gollista di un’Europa da Lisbona a Vladivostok) e la Merkel a non portare a compimento la megapipeline North Stream 2 che prevede un raddoppio dell’afflusso di gas russo in Germania. La crisi politica in Bielorussia, l’allontanamento da Putin della storica alleata Serbia in direzione stelle-striscie, il cambio della guardia in Moldavia che ha riportato i filo-UE alla presidenza dopo il mandato di Igor Dodon a cui si aggiunge l’avventuristico uso ormai reiterato da parte dell’Fsb di armi chimiche, ha fatto ritenere alle cancellerie europee che ogni possibilità di dialogo con il regime putiniano – almeno per il momento – siano giunte al capolinea e che si possa tentare di lavorare al fine di provocare il collasso del suo regime in tempi medi, usando appunto anche il cavallo di troia dell’opposizione di Navalny, l’unica oggi strutturata e capace di essere il magnete del variegato scontento che serpeggia nel paese. Una scommessa azzardata perché dovrebbe puntare a una scissione dentro i poteri forti russi: il complesso militar-industriale, i cinovniki degli idrocarburi e i servizi segreti. Forse per questo la partita geopolitica iniziata con il crollo dell’Urss trent’anni fa è ancora in gran parte da giocare.

Dopo le manifestazioni del 31 gennaio Yurii Colombo è intervenuto più volte a commentare la situazione dal suo osservatorio privilegiato:

“I disperati del Putin declinante”.

 

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Navalny: il Cremlino e la Lubyanka, chi decide cosa? https://ogzero.org/il-cremlino-e-la-lubyanca-chi-decide-cosa/ Tue, 15 Dec 2020 18:13:58 +0000 http://ogzero.org/?p=2078 Chi ha avvelenato l’oppositore russo Alexey Navalny – entrato in coma il 20 agosto sul volo Tomsk-Mosca – con un agente nervino denominato dalla stampa Novichok sarebbe stato un reparto specializzato dei servizi russi. È quanto emerge dall’inchiesta condotta dai portali di giornalismo investigativo “Bellingcat” (Gran Bretagna) e “The Insiders” (Russia) con il sostegno di […]

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Chi ha avvelenato l’oppositore russo Alexey Navalny – entrato in coma il 20 agosto sul volo Tomsk-Mosca – con un agente nervino denominato dalla stampa Novichok sarebbe stato un reparto specializzato dei servizi russi.

È quanto emerge dall’inchiesta condotta dai portali di giornalismo investigativo “Bellingcat” (Gran Bretagna) e “The Insiders” (Russia) con il sostegno di “Der Spiegel” e la “Cnn”.

Controlli incrociati

L’inchiesta è particolarmente significativa perché si basa su una massa di prove indiziarie e di concatenazione di fatti così particolari e dettagliati da rendere l’ipotesi della semplice “casualità” assai remota. I due portali sono divenuti particolarmente autorevoli in questo tipo di vicende dopo aver già lavorato in tandem qualche tempo fa, riuscendo a dimostrare fattualmente la responsabilità di due agenti Fsb nell’avvelenamento nel 2018 dell’ex agente russo defected al MI5 Sergey Skripal a Salisbury.

Dopo aver analizzato i database relativi ai voli aerei e ai viaggi in treno (in Russia anche i viaggiatori delle ferrovie vengono registrati con il passaporto) di una serie di persone individuate come agenti Fsb, i giornalisti hanno scoperto i loro spostamenti in dozzine di città russe negli stessi giorni di Navalny sin dal 2017, a partire cioè dal momento in cui quest’ultimo aveva deciso di presentarsi come candidato alle elezioni presidenziali. I metodi e i sistemi con cui gli investigatori sono giunti a ottenere queste informazioni è molto particolare ed esigerà un approfondimento a parte perché dimostra quanto stia mutando il giornalismo d’inchiesta nell’era digitale. Tuttavia si può anticipare qui che il lavoro si è basato su un’analisi degli intrecci tra centinaia di migliaia di tabulati telefonici e dettagli relativi agli spostamenti che fornisce un quadro quasi completo dei legami tra i presunti avvelenatori e che conferma i loro legami con l’Fsb.

Gli otto agenti coinvolti nell’attentato alla vita di Navalny

Non una semplice “opposizione antisistema”

Fino a qui, per tornare al caso in questione, sarebbe possibile asserire che potrebbe trattarsi di semplice sorveglianza dell’attività di uno dei leader di quella che Putin chiama “l’opposizione antisistema”, cioè di qualunque partito o gruppo che non sieda in parlamento. Ma lo screening dei nomi degli agenti coinvolti rivela qualcos’altro. Stanislav Makshakov, Oleg Tayakin (“Tarasov”), Alexey Alexandrov (“Frolov”), Ivan Osipov (“Spiridonov”), Konstantin Kudryavtsev (“Sokolov”), Alexey Krivoshchekov, Mikhail Shvets (“Stepanov”), Vladimir Panyaev sarebbero un “gruppo di fuoco” di specialisti in attentati con armi chimiche. Il ruolo di pivot, secondo gli investigatori, è giocato da Makshakov, chiamato e messaggiato costantemente da tutti i membri del gruppo. Nel passato Makshakov aveva lavorato presso l’Istituto statale di Tecnologia di Sintesi organica, che dirigeva lo sviluppo di nuove forme di armi chimiche fino alla conclusione ufficiale di questi programmi in Russia nel 2017.

Il passo falso di Aleksandrov

In particolare durante il tour elettorale di Navalny in agosto che toccò prima Novosibirsk e poi Tomsk – due grandi città siberiane – e che si concluse con la tragedia sul volo Tomsk-Mosca, il politico fu seguito da Aleksandrov, Osipov e Panyaev. Durante tale viaggio i tre avrebbero – secondo lo studio – utilizzato schede sim usa e getta e quindi gli investigatori non hanno potuto stabilire i loro movimenti esatti. Malgrado ciò per due volte Aleksandrov ha acceso il suo telefono personale per diversi secondi geolocalizzandosi la prima volta vicino a un hotel a Novosibirsk dove la collega di Navalny, Maria Pevchikh, aveva prenotato una stanza, e una seconda volta, non lontano dall’hotel dove si trovava Navalny stesso.

Cambio di programma

Quando la mattina del 20 agosto Navalny fu salvato grazie all’atterraggio di emergenza e il ricovero a Omsk, Aleksandrov, Osipov e Panyaev non ripartirono per Mosca con i biglietti che avevano prenotato in precedenza, ma si trasferirono invece a Gorno-Altaisk, raggiunti nel contempo da Mosca da Tayakin. “The Insiders” e “Bellingcat” presumono che da lì si sarebbero recati all’Istituto per le Tecnologie chimiche ed energetiche, nella vicina Biysk, nella quale si trova anche l’Istituto di Scienze forensi dell’Fsb, al fine di sbarazzarsi degli abiti con le tracce del veleno.

Durante tutti i viaggi dal 2017 in poi, compreso l’ultimo, i membri del gruppo hanno contattato regolarmente per telefono anche il direttore dell’Istituto di Criminalistica, il colonnello generale Kirill Vasiliev e il vicedirettore del servizio tecnico e scientifico dell’Fsb, il generale Vladimir Bogdanov. Inoltre, Zhirov e Makshakov erano in contatto telefonico con Oleg Demidov, uno specialista di armi chimiche che in precedenza aveva lavorato presso il 33° Istituto militare di Shikhany, uno dei presunti luoghi in cui è stato sviluppato il Novichok.

I luoghi visitati da Navalny dal 2017 in cui è stato seguito dagli agenti dell’Fsb

Il terrorismo di stato

Contemporaneamente alla pubblicazione dell’inchiesta, Navalny – dal suo rifugio tedesco – ha messo online un film-documentario reperibile sul suo sito internet con sottotitoli in inglese, aggiungendo alcuni dettagli alla ricostruzione di “Bellingcat” e “The Insiders”. In particolare il blogger anti-Putin ritiene che l’agente nervino gli sarebbe stato somministrato in un cocktail “Negroni” servito nel bar dell’hotel Xander a Tomsk, nella tarda serata del 19 agosto. Navalny sostiene pure di aver subito un altro tentato omicidio a Kaliningrad, il 6 luglio scorso. Tuttavia la parte finale del video, dedicata alla denuncia politica del complotto ai suoi danni, quando parla apertamente di “terrorismo di stato”, è la più significativa dal punto di vista politico. «Quelli che mi hanno perseguitato non sono ficcanaso dell’Fsb che lavorano agli ordini di un oligarca o di un funzionario che ho offeso con le mie denunce. Un intero dipartimento dell’Fsb sotto la guida di alti funzionari ha condotto un’operazione per due anni, durante la quale hanno tentato più volte di uccidere me e i miei familiari ottenendo armi chimiche da un laboratorio statale segreto. Ovviamente un’operazione di questa portata e di questa durata non può essere organizzata da nessuno che non sia il capo dell’Fsb [Alexander] Bortnikov, il quale, a sua volta, non avrebbe mai osato farlo senza l’ordine di Putin», afferma Navalny. Una denuncia non nuova già lanciata dall’oppositore russo il 1° ottobre scorso (a cui aveva replicato piccato il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov accusandolo di essere al servizio della Cia), quando forse aveva già in mano parte del materiale ora pubblicato dai due portali di giornalismo investigativo. Tuttavia, questa denuncia desta qualche perplessità. Quando Navalny il 9 agosto viene avvelenato – i principali laboratori europei lo hanno confermato – si stanno tenendo delle gigantesche manifestazioni e scioperi in Bielorussia contro uno dei più importanti alleati della Federazione russa: Alexander Lukashenko. Risulta difficile pensare, anche se non si può escludere, che in una tale situazione Putin, che è pur sempre un politico guardingo e per certi versi persino cauto, abbia autorizzato alcuni suoi uomini a gettare benzina sul fuoco. Seppure bisogna riconoscere che l’avvelenamento di Skrypal – la cui responsabilità del Fsb è ormai stata provata – avvenne a pochi mesi da quella grande vetrina che era per la Russia l’organizzazione in casa dei mondiali di calcio.

I servizi segreti agiscono autonomamente?

Esiste un’altra ipotesi che Navalny non sembra voler prendere in considerazione, è cioè che l’Fsb possa operare autonomamente dalla presidenza, sia un organo separato con “licenza di uccidere”, per citare un classico della letteratura della Guerra Fredda. Dentro quali dinamiche e per quali fini è in buona parte da capire, ma tutta la storia recente russa va in quella direzione. O magari forse Navalny lo intuisce ma resta schiacciato dalle necessità propagandistiche immediate? Non si può escludere, visto che non a caso nella parte finale della sua videodenuncia, parla inizialmente del fallimento dell’attentato contro di lui come un elemento del degrado del paese: «Tuttavia, nel complesso, è vero, l’operazione è fallita e di ciò ovviamente sono molto contento. Non c’è bisogno di essere sorpresi di questo. Per vent’anni, sotto la guida di Putin, tutto è stato degradato. E se Rogozin è responsabile per la cosmonautica e Chubais è responsabile delle nanotecnologie, allora come è possibile pensare che l’Fsb sia organizzato meglio? Cosa ti fa pensare che il Novichok funzionerà meglio del robot spaziale Fedor? […] Perché tutto è finito in pezzi nel paese e i funzionari pensano solo a dove rubare. Il sistema sta implodendo nel suo insieme, a tutti i livelli».

È un tradimento nazionale: l’appello alla “diserzione”

Navalny, infine, conclude rivolgersi direttamente all’apparato dei servizi segreti: «Vorrei dire qualche parola agli ufficiali dell’Fsb e alle forze dell’ordine in generale. Non vi vergognate di lavorare in questo sistema? Bene, è chiaro che vi siete trasformati in servitori di ladri e traditori. Per vent’anni Putin ha costantemente trasformato sia l’Fsb che il Ministero degli Affari interni in strutture il cui compito principale è aiutare lui e i suoi amici a rubare. E questo è l’unico progetto nazionale che è stato completato perfettamente. Il paese più ricco e con enormi risorse è diventato indigente. […] Non c’è bisogno di partecipare a questo tradimento nazionale. Coloro che sostengono Putin e il suo sistema non sono patrioti, ma traditori. Hanno tradito il popolo russo». Un appello alla “diserzione” – per ora destinato a restare probabilmente senza successo – ma che pone un quesito: quali sono oggi gli equilibri di potere tra Cremlino e Piazza della Lubyanka dove si trova il grande edificio che ospita gli uffici del Fsb?

 

Questo articolo inaugura una serie di articoli che Yurii Colombo produrrà per OGzero riguardanti i rapporti tra Vladimir Putin e i servizi segreti del suo paese, un’interpretazione dei meccanismi e delle strategie di potere che legano Cremlino e Lubyanka. Come si riflette questo rapporto sulle decisioni e sulla politica internazionale?

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L’influenza russa si estingue nelle case incendiate a Karvachar? https://ogzero.org/il-vincolo-di-un-solco-inciso-tra-armenia-e-russia-negli-accordi-del-nagorno/ Sat, 28 Nov 2020 16:30:54 +0000 http://ogzero.org/?p=1862 Fantasie occidentali su Astana, droni reali su Stepanakert Tutta la grande stampa italiana ha sostenuto la tesi secondo cui l’accordo di pace nel Nagorno-Karabach sarebbe stato l’ulteriore capitolo di una alleanza tra Putin ed Erdoğan. Una chiave di lettura tutta ideologica – l’unità dei dittatori contro le democrazie – costruita sulla presunta unità d’intenti dei […]

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Fantasie occidentali su Astana, droni reali su Stepanakert

Tutta la grande stampa italiana ha sostenuto la tesi secondo cui l’accordo di pace nel Nagorno-Karabach sarebbe stato l’ulteriore capitolo di una alleanza tra Putin ed Erdoğan. Una chiave di lettura tutta ideologica – l’unità dei dittatori contro le democrazie – costruita sulla presunta unità d’intenti dei due capi di stato in Medio Oriente. La guerra iniziata nell’enclave a maggioranza etnica armena ha avuto due inoppugnabili vincitori (Turchia e Azerbaigian) e due sconfitti (Armenia e Russia), su questo però non si può non concordare. Gli accordi di pace firmati in fretta e furia la notte del 9 novembre mentre era in corso una vera e propria rotta dell’esercito armeno che stava rischiando di perdere persino Stepanakert, la capitale dell’Artsakh, rappresenta una vera e propria débâcle per il governo di Nikol Pashinyan.

Il vincolo di un solco inciso tra Armenia e Russia

Il giudizio che abbiamo dato a caldo sulle colonne de “il manifesto” l’11 novembre 2020 resta sostanzialmente corretto: «L’accordo è un boccone amaro per l’Armenia che deve dire addio all’idea di giungere a una unificazione con la regione contesa. Il documento siglato dai tre governi afferma che le parti in conflitto rimangono nelle posizioni raggiunte e ciò significa che buona parte del territorio del Nagorno-Karabakh torna in mano azera e pone le truppe di Baku a pochissimi chilometri da Stepanakert, la quale sarà ora collegata all’Armenia solo da un corridoio che attraversa la zona di Lachin. Lo status di Stepanakert non viene definito – come avrebbe voluto Mosca – e questo darà la possibilità successivamente all’Azerbaigian di rivendicarla». La Russia, avendo collocato i suoi caschi blu tra i contendenti piange con un occhio solo perché potrà dire la sua sulla sistemazione definitiva della regione ma segna un suo ulteriore arretramento geostrategico.

Per molti ordini di motivi. Il primo perché malgrado l’Armenia faccia parte pienamente del sistema di difesa euroasiatico (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, Csto) capeggiato dalla Federazione, Putin non è intervenuto a sostegno di Erevan neppure quando negli ultimi giorni del conflitto – prima attraverso il ministro degli esteri Zohrab Mnatsakanyane poi direttamente dal premier armeno – era stato espressamente richiesto, sottolineando più di una volta la propria neutralità nel conflitto (mentre Erdoğan sosteneva non solo formalmente il “fratello azero” fornendo combattenti foreign fighters siriani e soprattutto quei droni che hanno avuto, come più in là vedremo, un ruolo importante nel conflitto).

Il vincolo di un solco

I caschi blu russi prendono posizione

… poi la ferita suppurerà nell’equidistanza

Per restare nel gioco e avere un ruolo centrale nella trattativa di pace, Mosca ha dovuto pagare un prezzo politico fondamentale: il futuro definitivo allontanamento dell’Armenia in un “fronte Europeo” della Federazione dove Bielorussia e Moldavia finiranno – a medio termine – per pencolare inevitabilmente verso la Nato. È evidente quanto il “ruggito” di Putin a sostegno di Lukashenko in agosto sia stato seguito dall’equidistanza nel conflitto nel Nagorno-Karabach, il cui motivo principale della tiepidezza russa non può essere ricercato nell’antipatia personale di Pashinyan – che pure c’è – o nella doppiezza con cui Erevan ha condotto negli ultimi due anni la sua politica estera. Per riequilibrare l’evidente crescente peso turco nella regione che permette ora di collegare Ankara direttamente al Karabach, Mosca ha mostrato per ora solo di voler far rientrare dalla finestra i mediatori francesi e americani, lasciati fuori formalmente dall’armistizio del 9 novembre.

Nell’intervista concessa a “Rossia1” dopo l’armistizio, il presidente russo ha voluto togliersi un sassolino dalle scarpe: «Il 19-20 ottobre, ho avuto una serie di conversazioni telefoniche sia con il presidente Aliyev che con il primo ministro Pashinyan, dopo che le forze armate azere avevano ripreso il controllo di una parte insignificante, la parte meridionale del Karabach. Nel complesso, ero riuscito a convincere il presidente Aliyev che fosse possibile fermare le ostilità, ma una condizione obbligatoria da parte sua era il ritorno dei profughi, anche nella città di Shushi. Inaspettatamente… il primo ministro Pashinyan mi ha detto direttamente che lo vedeva come una minaccia per gli interessi dell’Armenia e del Karabach. Anche adesso non mi è molto chiaro quale sarebbe stata questa minaccia, tenendo presente che il ritorno dei civili sarebbe stato supposto mantenendo il controllo da parte armena su quella parte del territorio del Karabakh, Shushi compreso, e tenendo presente la presenza dei nostri caschi blu».

Una dichiarazione che può essere letta come un modo per indebolire il premier armeno, ora contestato dall’opposizione interna come “capitolatore”, ma di cui non vanno dimenticate le valenze interne russe. Non solo perché nella Federazione russa vivono 2 milioni di armeni (ma anche 2 milioni di azeri) ma perché le simpatie dei russi “autoctoni” erano tutti per l’“alleato cristiano”. Se Putin non ha alcun interesse ora a far saltare Pashinyan, non ha neppure interesse che in Armenia si possa battere il tamburo propagandistico del tradimento russo.

Il vincolo di un solco

Armeni bruciano le case prima di lasciare il Nagorno

Forniture sbilanciate: pessima propaganda per l’industria bellica russa

Il destino del primo ministro armeno resta legato alla posizione che assumeranno i militari (anche se l’insperato appello del senato francese al riconoscimento di Artsakh del 26 novembre 2020 gli ha fatto riprendere un po’ di vigore). L’esercito che sembrava sostenere il primo ministro in carica appare ora diviso. Qualcuno nello stato maggiore sta iniziando a pensare che debba essere salvato l’essenziale a fronte delle proteste che si levano a livello popolare, e Pashinyan debba essere sacrificato sull’altare della riconciliazione nazionale. Si tratta dell’opinione, per esempio, espressa dall’ex ministro della difesa dell’Armenia. Secondo il militare «non è stato l’esercito a perdere la guerra e la responsabilità dovrà essere assunta in solido dall’attuale leadership politica». Del resto la discussione sull’impreparazione militare nella disfatta armena continuerà a tenere banco ancora per parecchio. Subito dopo il cessate il fuoco è stato per primo a Stepanakert il presidente Arayik Aratyunyan a sollevare la questione dell’arretratezza delle armi a disposizione dei suoi combattenti. Una denuncia di sbieco nei confronti degli alleati russi che avrebbero lasciato in condizioni di degrado l’esercito di un paese alleato. Ma non solo. Si tratta di un tema delicato che tocca – come già nella guerra in Georgia del 2008, mitigata però dal facile successo – l’eventuale inefficienza delle armi russe, ovvero un eventuale spot negativo per il mercato dell’industria bellica della Federazione e per i suoi volumi di esportazione.

Collaudo per guerre di droni

I siti specialistici si sono concentrati sul ruolo inedito avuto dai droni nel conflitto azero-armeno ma che ha interessanti ricadute politico-militari visto che l’aggressività turca non è destinata certo a ripiegare nei prossimi mesi e anni.

Dopo la guerra nel Karabach, molti esperti hanno iniziato a sostenere che sarebbe in corso una rivoluzione nelle questioni tattico-militari, che sta per cambiare persino le strategie degli eserciti – non solo dei paesi in via di sviluppo, ma anche di quelli più potenti. Stiamo parlando dell’uso massiccio di veicoli aerei senza pilota da parte dell’Azerbaigian nel recente conflitto, sulla base degli sviluppi tecnici e strategici turchi. La teoria secondo cui i droni cambieranno radicalmente l’arte della guerra ha incontrato, a dire il vero anche molte perplessità. Secondo queste scuole i droni in Karabach non hanno mostrato nulla di nuovo: l’esercito turco e azero avrebbero semplicemente approfittato della debolezza del sistema di difesa aerea armeno e hanno mostrato al mondo un modo convincente di come si sconfigge un esercito debole ma l’uso massiccio di droni non funzionerebbe contro un esercito “strutturato”.

Ordigni di diversa fabbricazione (e di varia efficacia)

Le ostilità sono iniziate con vari tipi di attacchi di droni. Sono stati usati da parte azera, in primo luogo, i turchi Bayraktar TB2, detti anche hunter-killer, che montano missili e bombe ad alta precisione e droni Harop kamikaze di fabbricazione israeliana, antiradiazioni contro la difesa aerea armena.

Il vincolo di un solco inciso

I droni forniti dai turchi a Baku

Nei primissimi giorni del conflitto, l’esercito del Karabach ha perso dozzine di installazioni di difesa aerea, perlopiù obsolete, ereditate dall’Armenia dopo il crollo dell’Urss. Gli assalti alle sue difese antiaeree sono poi proseguiti: in ottobre e novembre sono stati colpiti diversi elementi dei sistemi missilistici antiaerei a lungo raggio S-300 (ampiamente superato visto che ora è in fase di progettazione nei laboratori russi l’S-500) e un lanciatore del più moderno complesso Tor-M2KM, sempre di fabbricazione russa. Dopo aver messo fuorigioco le difese antiaeree, i droni azeri sono passati al campo terrestre distruggendo sistematicamente carri armati, autoblindo, artiglieria e camion che trasportavano munizioni avversari. Seguiti da una serie di attacchi diretti alle postazioni della fanteria armena e ai depositi di munizioni. La diseguaglianza delle forze in campo – già nota prima del conflitto – è apparsa evidentissima. A seguito delle pesanti perdite di armeni a causa di attacchi aerei, il fronte nel sud del Karabach è stato sfondato in più punti, e in seguito (all’inizio di novembre) la fanteria azera, avanzando attraverso il terreno montuoso, che l’Armenia considerava la sua “fortezza naturale”, ha raggiunto le aree vitali della repubblica non riconosciuta, cioè le città di Shushi e Stepanakert. A questo punto, come risulta dai discorsi dei leader della difesa armena pubblicati al termine del conflitto, a causa degli attacchi dei droni, il loro esercito aveva perso quasi tutta l’artiglieria.

Tuttavia però negli ultimi giorni di guerra, gli attacchi aerei sono diventati più radi. Ciò potrebbe essere attribuito alla nebbia e alle nuvole basse ma secondo i giornalisti israeliani, che citano l’intelligence del loro paese, l’uso dei droni avrebbe potuto essere ostacolato da forniture urgenti di guerra elettronica russa. Questa sarebbe giunta sì in largo ritardo ma avrebbe evitato alla ritirata armena di assumere i caratteri della rotta (Sergej Lavrov aveva più volte dichiarato negli ultimi giorni di conflitto di “non guardare con piacere” a un trionfo militare turco-azero). Arayik Aratyunyan ha dichiarato da parte sua che «recentemente eravamo stati in grado di risolvere il problema dei droni, ma l’ultimo giorno il nemico è riuscito di nuovo a usarli e a sferrare attacchi pesanti».

Valutazioni a consuntivo per sviluppi del sistema industrial-militare

Così, la guerra transcaucasica è diventata la prima in cui i compiti principali, di solito risolti con l’aviazione “tradizionale”, sono stati realizzati dai droni. Molti esperti ritengono che questa non sia solo la sostituzione di un tipo di velivolo con un altro, ma una svolta decisiva, una vera rivoluzione negli scontri militari.

Il vincolo di un solco inciso

Caratteristiche dei droni kamikaze israeliani

Secondo il giornale moscovita “Kommersant”: «Il vantaggio principale dei droni, soprattutto di classe piccola e media, sarebbe il basso costo di funzionamento. I droni d’attacco di piccola e media portata sono piattaforme per l’utilizzo di armi ad alta precisione e strumenti di sorveglianza e ricognizione abbastanza avanzati. Sono in grado di colpire la maggior parte dei bersagli sul campo di battaglia e dietro le linee nemiche, pur rimanendo velivoli molto semplici rispetto ai moderni aerei e elicotteri con equipaggio». I progressi della tecnologia hanno reso possibile la produzione di missili e bombe di piccole dimensioni e massa, che, nonostante le dimensioni e il prezzo, possono colpire i bersagli più tipici sul campo di battaglia.

Il secondo vantaggio dei droni è che non c’è un pilota a bordo e sono controllati da operatori che sono a decine, centinaia e persino migliaia di chilometri dal fronte. Ciò consente di renderli economici anche sotto il profilo del “capitale umano”: se il pilota non può essere ucciso o catturato durante la missione, questa può essere molto più rischiosa. Il terzo vantaggio è la possibilità di svolgere missioni di molte ore. I droni a turbogetto che volano a velocità molto basse (meno di 200 km/h) – spiegano gli esperti – sono estremamente economici in termini di consumo di carburante.

Il last but not least tra i vantaggi dei droni è che sono stati originariamente concepiti come una parte importante della rete informativa sul campo di battaglia. I droni sono una piattaforma per vari sensori che studiano la situazione e identificano i bersagli. Condividono queste informazioni in tempo reale con gli operatori, che, a loro volta, le condividono anche in tempo reale con l’intera rete di controllo del combattimento. Inoltre, è possibile insegnare facilmente ai droni a interagire tra loro. Entrambe le opzioni sono state mostrate nel video del Ministero della Difesa azero del Karabach. Non è un caso che durante la guerra il Canada ha vietato la fornitura di stazioni elettroniche ottiche alla Turchia, di solito risolti con l’aviazione “tradizionale” ma che in questo caso sono state eseguite da droni.

Adattabilità a guerre con caratteristiche diverse

Gli aerei senza pilota presentano comunque anche evidenti svantaggi rispetto alle piattaforme con equipaggio. Il carico utile dei droni di piccole e medie dimensioni è limitato a causa dei motori di potenza relativamente bassa. In parole povere, i sistemi con equipaggio sono in grado di lanciare simultaneamente molti più bombe o proiettili sul nemico rispetto ai droni. E questo può essere importante in una “guerra ad alta intensità” – un conflitto tra potenze militari avanzate.

Per 38 anni, da quando furono usati per al prima volta dall’aviazione israeliana, i droni si sono trasformati da uno strumento di nicchia per operazioni speciali in parte integrante della ricognizione e della designazione del bersaglio. Fino a pochi anni fa, infatti, i droni d’assalto venivano usati (principalmente dagli americani) per effettuare attacchi mirati contro “bersagli leggeri”: leader politici o “terroristi”, petroliere dello Stato Islamico…

Come ha dimostrato l’esperienza della guerra in Karabach, i droni di altri produttori possono essere rapidamente inclusi in questo sistema: in particolare, i droni kamikaze di fabbricazione israeliana e gli aerei d’attacco Su-25 di progettazione sovietica fanno parte integrante dell’arsenale azero ma guarda caso non di quello armeno.

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La Siberia tra il Dragone e il Sultano https://ogzero.org/la-luna-di-miele-turco-russa-e-finita/ Sat, 14 Nov 2020 19:09:43 +0000 http://ogzero.org/?p=1765 La luna di miele turco-russa è finita La linea di faglia apertasi nel Nagorno-Karabakh ha dimostrato, se ce ne era ancora bisogno, che la luna di miele tra Turchia e Russia è ormai archiviata malgrado proprio sull’enclave a etnia armena Putin sia stato costretto – con gli accordi del 9 novembre – a un nuovo […]

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La luna di miele turco-russa è finita

La linea di faglia apertasi nel Nagorno-Karabakh ha dimostrato, se ce ne era ancora bisogno, che la luna di miele tra Turchia e Russia è ormai archiviata malgrado proprio sull’enclave a etnia armena Putin sia stato costretto – con gli accordi del 9 novembre – a un nuovo compromesso tattico per impedire il completo collasso del fronte. L’intraprendenza di quello che alcuni osservatori già chiamano “imperialismo ottomano” è sotto gli occhi di tutti e a Oriente i danni maggiori di tale intraprendenza li potrebbe subire proprio la Federazione. Non a caso sulla Moscova hanno da tempo iniziato a ricalibrare la politica nei confronti di Ankara: Sergej Lavrov, il ministro degli esteri russo, ha recentemente sostenuto di non aver mai considerato la Turchia “un alleato” ma solo un “partner”.  Il massiccio bombardamento russo a Idlib contro la guerriglia filoturca in Siria della fine di ottobre 2020, da questo punto di vista, è probabilmente stato un parlare a moglie perché suocera intenda. Ma la Transcaucasia è solo la punta dell’iceberg di uno scontro ben più ampio che parte dalla Crimea e si estende fino all’estremo Oriente russo ai confini con la Cina.

L’intelligence turca a caccia di spie

Il 16 ottobre scorso nell’incontro tra Volodomyr  Zelenskij e Recep Erdoğan non solo quest’ultimo ha dato il suo via libera alla cosiddetta “piattaforma di Crimea” promossa dal governo di Kiev (un’offensiva diplomatica volta al recupero della penisola annessa dalla Russia nel 2014, a cui guarda caso aderisce anche l’Azerbaijan) ma ha anche siglato degli accordi di collaborazione commerciali con l’Ucraina nel settore degli armamenti. La settimana successiva poi esplodeva una vera e propria spy-story tra Turchia e Russia. L’intelligence turca annunciava di aver arrestato il vicedirettore delegato di Bosphorus Gaz Emel Oztürk e altri quattro suoi collaboratori, che da tempo, secondo l’accusa, passavano informazioni riservate a un agente di Gazprom. Il gigante russo dell’energia avrebbe ottenute notizie sui volumi di acquisti di gas non russo della Turchia e dati sui giacimenti scoperti dalla Turchia nel Mar Nero quest’estate.

La guerra del gas

Al momento Putin fornisce a Erdoğan – via Turkish Stream – 7,75 miliardi di metri cubi all’anno di gas ma è chiaro che “l’indipendenza energetica” anelata da Erdoğan – se divenisse realtà – potrebbe rappresentare un duro colpo ai volumi di esportazioni russe, già in forse in Europa dopo che il progetto di North Stream 2 è entrato in stand-by in seguito al “caso Navalny”. Per tutta risposta la Duma russa ha fatto baluginare il blocco del turismo russo verso la Turchia, un business da qualche miliardo di dollari annuo. Più che punzecchiature tra i due eterni rivali con possibili conseguenze geopolitiche più vaste. La leva di un nuovo fondamentalismo islamico, di un califfato sui generis in cui la Turchia diventi la “protettrice di tutti i sunniti nel mondo”, potrebbe produrre una divisione insanabile tra i due stati. Si tratta di suggestioni – quelle dell’“imperialismo ottomano” – che vengono confermate negli ambienti diplomatici dei paesi balcanici anch’essi preoccupati dell’incipiente aggressività turca: «Indubbiamente, se analizziamo ciò che leggiamo e vediamo oggi, diventa chiaro che in alcuni circoli islamici radicali e organizzazioni religiose vaga l’idea che l’Europa dovrebbe essere un califfato islamico. Ciò che sta accadendo oggi in Francia, in Svezia, in altri stati dell’Europa occidentale, mi sembra che dovrebbe destare grande preoccupazione tra questi stati. Non mi occupo di attività di spionaggio in particolare, ma di tanto in tanto leggo in note analitiche che i servizi speciali turchi sono molto attivi», ha sostenuto l’ex ambasciatore serbo a Mosca, Slavenko Terzič.

Il Caucaso e il “laicismo irresponsabile dell’Occidente”

Il riflesso dello scontro con la Francia sulla questione dei limiti del laicismo si è subito sentito a Mosca dove la preservazione degli equilibri, faticosamente costruiti dal regime di Putin, in una federazione multiconfessionale, sono considerati intangibili. Le manifestazioni antifrancesi guidate prima di tutto dai migranti azeri nella capitale russa sono state sì stroncate con durezza dalla polizia sul nascere, ma Putin ha voluto al contempo anche denunciare il “laicismo irresponsabile dell’Occidente”. Il terrorista che ha ucciso a Parigi l’insegnante francese faceva parte della diaspora cecena, e quindi formalmente antirussa, ma la reazione del presidente della Repubblica cecena Rusman Kadyrov, scagliatosi con forza contro Macron nei giorni successivi all’attentato, dimostra quanto gli umori dei musulmani del Caucaso restino antioccidentali: non è un caso che nel Caucaso russo furono migliaia i reclutati dall’Isis per la guerra in Siria. Del resto, non si soffia sulla “guerra di civiltà” solo da una parte: anche il primo ministro armeno Nikol Pashinyan aveva invitato gli stati europei a sostenere l’Armenia cristiana nel Nagorno-Karabakh in funzione antiturca, anche se sia Macron sia Trump hanno preferito fare orecchie da mercante.

Lo sguardo russo verso lo Xinjiang

Dmitry Ruschin, Professore Associato del Dipartimento di Teoria e Storia delle Relazioni Internazionali all’Università di San Pietroburgo sostiene che “l’internazionalismo sunnita” di Ankara è veramente su scala globale: «Erdoğan sta perfino interessandosi della regione autonoma uigura dello Xinjiang dove Xi ha più di un problema. È del tutto possibile che in questo modo voglia diventare un unificatore dei popoli turchi e un leader islamico su scala globale. Curiosamente, lo scontro della Turchia con la Cina significa supporto automatico per Ankara da Washington perlomeno in quel contesto». E a medio termine ciò potrebbe condurre a un confronto diretto tra Russia e Turchia.

Siberia: la protesta anticentralista

In questo quadro la Siberia può diventare uno dei teatri più importanti. Dallo scorso luglio Khabarovsk, la più grande città dell’Estremo oriente russo, a un paio di centinaia di chilometri da Vladivostok, “porta bianca” ai mercati orientali, sono in corso delle manifestazioni di massa dopo che Sergej Furgal il governatore della provincia, outsider e antiPutin, è stato arrestato con l’accusa di essere il mandante di alcuni omicidi risalenti a un’epoca in cui non aveva ancora in carico l’amministrazione. Il protrarsi e le dimensioni del movimento di protesta segnala però in maniera evidente che le sventure del governatore sono state solo la miccia dietro cui covano a livello di massa spinte anticentraliste (oblastničestvo) nei confronti di Mosca se non apertamente secessioniste. “The Diplomat” ha riassunto così la situazione: «Sin dai tempi della Russia imperiale, i suoi paesi e città sono stati visti come una semplice estensione della nazione europea, una frontiera asiatica da colonizzare e domare. Come parte dell’Unione Sovietica, le deportazioni di massa verso est e il suo status di destinazione per i prigionieri dei GULag hanno rafforzato questa nozione. Ma ora, come dimostrano i manifestanti a Khabarovsk, l’estremo Oriente russo potrebbe formare la propria identità».

proteste pro-Furgal in Siberia

Un punto importante della contesa è che, mentre la Russia orientale detiene gran parte delle risorse naturali del paese – inclusi petrolio, gas e metalli preziosi – i proventi della loro estrazione sono ampiamente usati per rimpolpare i forzieri di Mosca piuttosto che arricchire le comunità locali.

E la terra va ai cinesi

Che la Cina sicuramente sia interessata a sfruttare a suo vantaggio la situazione che sta montando nell’estremo Oriente russo non è un segreto. In questa zona della Siberia gli investimenti del Dragone sono massicci e alla fine del 2018, proprio a Khabarovsk, un’azienda russa ha annunciato l’intenzione di affittare ben 100.000 ettari di terreno paludoso coltivabile a soia e affittarlo a imprese cinesi. Alexander Bortnikov, il presidente del Fsb, ha più volte segnalato l’attivismo di servizi di molti paesi in tutta la Siberia. E se il nome della Cina non è stato fatto ufficialmente, la presenza discreta di informatori cinesi nelle zona è stata più volte confermata da più parti.

Dietro la provocazione, la mano dei turchi

Chi invece sicuramente opera in quell’area è l’intelligence turca. Questa può fare affidamento su un vasto retroterra di gruppi fondamentalisti islamici nel Centro Asia allo sbando dopo il crollo dell’Isis. L’Fsb (Federal’naja služba bezopasnosti – Agenzia federale per la sicurezza interna) nell’ultimo anno ha contato ben 22 tentativi di organizzare azioni terroristiche e diversive in Siberia. Si tratta per lo più di incidenti provocati da foreign-fighters di ritorno ai confini del Tagikistan e del Kazakhstan collegati a contingenti più folti del fondamentalismo islamico afgano. Ma alcune di queste avrebbero segni e obiettivi diversi e rimanderebbero a un inedito protagonismo turco. In particolare parliamo di una fallita provocazione organizzata proprio a Khabarovsk questa estate nel momento più caldo delle dimostrazioni di strada, il cui mandante sarebbe da ricercarsi proprio ad Ankara. Secondo quanto riportato da Semyon Pegov – un reporter russo di guerra che da molti anni gravita tra il Medio Oriente e la Siberia – quest’estate l’organizzazione terroristica siriana Hayat Tahrir Al-Sham, supervisionata dai servizi speciali turchi, aveva reclutato due residenti di Khabarovsk, guarda caso di origine uzbeka e di fede musulmana, per organizzare il lancio di bottiglie molotov contro la manifestazione a sostegno di Furgal, al fine di far ricadere poi la responsabilità sul governo russo e rendere ancora più incandescente di quanto non sia la situazione nella provincia. Un’azione diversiva fallita in seguito all’arresto dei due provocatori prezzolati da parte della polizia russa, ma che dimostrerebbe quanto la Turchia intenda sfruttare le contraddizioni interne russe.

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Turchia: cosa bolle in pentola con i missili S-400? https://ogzero.org/turchia-cosa-bolle-in-pentola-con-i-missili-s-400/ Fri, 23 Oct 2020 23:14:38 +0000 http://ogzero.org/?p=1592 Russia e Turchia sono potenze grandi o regionali? A voler trovare sempre e comunque un piano preordinato, collocare ogni singolo evento all’interno di un progetto coerente si rischia – talvolta – di affondare nel complottismo. Resta comunque il dubbio. Nel caso della Turchia alcune recenti iniziative potrebbero costituire la prova provata che Ankara ormai si […]

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Russia e Turchia sono potenze grandi o regionali?

A voler trovare sempre e comunque un piano preordinato, collocare ogni singolo evento all’interno di un progetto coerente si rischia – talvolta – di affondare nel complottismo.

Resta comunque il dubbio. Nel caso della Turchia alcune recenti iniziative potrebbero costituire la prova provata che Ankara ormai si muove (o almeno si rappresenta) come una superpotenza in grado di trattare da pari a pari con i due colossi (Usa e Russia) oltre che con le altre entità rilevanti (Iran, Arabia Saudita…). Sarebbe quindi fuori luogo cercare di ridimensionarla specificando “potenza a livello regionale”, visto che qui si parla sia di Medio Oriente che di Mediterraneo e Caucaso. Un rilancio – la prosecuzione – dell’Impero ottomano con altri mezzi?

Potrebbe anche essere. Ma procediamo con ordine.

Prove di sistemi di difesa russi a Sinop, Nato

Risaliva ai primi di ottobre il gentile preavviso (per garantire la sicurezza dei voli nella zona) del lancio di un missile (senza specificarne la gittata) nell’area del Mar Nero. Più precisamente in prossimità di Sinop da dove il 16 ottobre veniva girato un video rivelatore (con l’evidente colonna di fumo prodotta dall’esplosione dell’ordigno).

Gli esperti che lo hanno analizzato ritengono di avervi identificato un missile S-400 di tipo 40N6E (con una gittata presunta di circa 400 chilometri).

E allora? Quale sarebbe il problema?

Il problema consiste nel fatto che tali missili sono una componente del sistema di difesa venduto alla Turchia da Mosca. Più che una ostentazione di forza – o di indipendenza dall’Occidente – il gesto di Ankara assumeva quasi l’aspetto di uno sgarro. Soprattutto nei confronti di Washington, in lampante contraddizione con il ruolo della Turchia. Per il momento ancora alleata degli Usa e membro della Nato.

Messaggi alla Casa Bianca

Ankara aveva operato il test missilistico incurante della minaccia di ulteriori sanzioni. Formulata esplicitamente da Mike Pompeo quando l’anno scorso aveva definito “semplicemente inaccettabile” la sola ipotesi di una attivazione del sistema degli S-400.

Sanzioni che tuttavia – va precisato – Trump non sembrava molto propenso a imporre.

Non mancavano i precedenti. Ancora l’anno scorso in una base nei pressi di Ankara (dove si trovano alcune batterie di S-400) venivano messi in attività aerei da combattimento F-16 e F-4. Allo scopo – si presume – di testare altre componenti (probabilmente i radar).

Un passetto alla volta, la Turchia sembrerebbe intenzionata a integrare – anche ufficialmente – il sistema di difesa S-400 nella sua struttura di difesa contraerea e di combattimento.

Dislocazioni strategiche

Quanto a dove tali batterie di missili verrebbero collocate definitivamente, il mistero è ancora fitto.

Una – molto probabilmente – dovrebbe rimanere nei pressi di Ankara. Le altre a sorvegliare mar Egeo e Mediterraneo orientale. Oppure alle frontiere con la Siria e con l’Armenia.

Una maggior cautela nel procedere mostrata da Erdoğan successivamente al test potrebbe dipendere dall’attesa per i risultati delle elezioni negli Usa.

Pur non dando ufficialmente conferma dell’avvenuto test missilistico del 16 ottobre, il Dipartimento di Stato aveva ribadito la possibilità di “gravi conseguenze” qualora il sistema fosse divenuto operativo a tutti gli effetti.

Se fin dall’inizio il Pentagono si era dichiarato totalmente contrario all’acquisto da parte di Ankara del sistema S-400, l’esponente repubblicano Jim Risch si spingeva oltre affermando fuori dai denti che «la Turchia ha superato il limite» e invitando l’amministrazione statunitense a dare un “forte segnale” per indurre Ankara a liberarsi del recente acquisto.

Minacce che – come è noto – erano destinate a rimanere lettera morta.

Esiste anche un’altra ipotesi. Ossia che Erdoğan abbia semplicemente alzato la posta per ottenere da Washington (anche in caso di vittoria da parte di Joe Biden) concessioni di altro genere. Per esempio la sostanziale, definitiva accettazione degli interventi nel Nordest della Siria contro i curdi e ora contro l’Armenia. In questo caso, agitare la minaccia dell’impiego operativo dei missili S-400 funzionerebbe come merce di scambio (o, se preferite, ricatto).

Messaggi interni

Ma comunque l’esercitazione del 16 ottobre era stata rivendicata pubblicamente dai dirigenti di Akp (il partito di Erdoğan).

Bulent Turan in particolare si era complimentato per l’avvenuto test cogliendo l’occasione per dichiarare che «il problema principale di questo nostro bellissimo paese sono quei miserabili che si fan passare per intellettuali, ma non sono in grado di riconciliarsi con i valori della nazione e non hanno fiducia nello stato; così come gli insignificanti esponenti politici dell’opposizione incapaci di comprendere quali siano gli interessi nazionali». Affermazioni piuttosto nebulose, ma che potrebbero risultare chiare e precise per chi, in Turchia, deve sentirsi nella condizione di “uomo avvisato”.

Da parte di quella che ormai, almeno nella testa di Erdoğan, è destinata a diventare definitivamente una potenza autoreferenziale e indipendente.

Per non parlare dell’effetto galvanizzante riversato sugli strati sociali turchi (soprattutto il ceto medio, ma non solo) che pur appoggiando Erdoğan si sentono colpiti, travolti dalla crisi economica.

E quindi necessitano di compensazioni (almeno a livello immaginario, di falsa coscienza).

Messaggi al Cremlino

Torniamo ora un attimo al discorso introduttivo, ossia al voler trovare qualche motivo recondito in ogni gesto compiuto da Erdoğan. Per alcuni osservatori non sarebbe per niente casuale che l’esperimento missilistico sia avvenuto quasi in contemporanea con l’incontro (e la firma di accordi anche di cooperazione militare) tra Erdoğan e Volodymyr Zelensky, il suo omologo ucraino. Anche in questo caso potrebbe essersi trattato di una ostentazione di indipendenza, ma stavolta da Mosca.

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Astana agli sgoccioli. Chi ha più filo da filare tra Mosca e Ankara? https://ogzero.org/astana-agli-sgoccioli-chi-ha-piu-filo-da-filare-tra-mosca-e-ankara/ Thu, 22 Oct 2020 08:38:32 +0000 http://ogzero.org/?p=1563 Traiettorie diverse di attraversamento transcaucasico-mediorientale L’alleanza tra Vladimir Putin e Recep Erdoğan è sempre stata a tempo e i due contraenti non ne hanno fatto mai mistero. Isolati e osservati con diffidenza da buona parte della comunità internazionale, strategicamente concorrenti e avversari in Medio Oriente, hanno fatto di necessità virtù per cinque anni ma ora […]

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Traiettorie diverse di attraversamento transcaucasico-mediorientale

L’alleanza tra Vladimir Putin e Recep Erdoğan è sempre stata a tempo e i due contraenti non ne hanno fatto mai mistero. Isolati e osservati con diffidenza da buona parte della comunità internazionale, strategicamente concorrenti e avversari in Medio Oriente, hanno fatto di necessità virtù per cinque anni ma ora la politica di appeasement tra i due paesi seguita alle scuse del presidente turco per l’abbattimento del Su-24 russo sui cieli siriani nel 2015, potrebbe essere agli sgoccioli.

Il ritorno di fiamma della guerra in Nagorno-Karabach lo dimostra con evidenza. Non a caso in una recente intervista il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha voluto sottolineare di considerare la Turchia «non un alleato ma un interlocutore stretto».

Mosca e Ankara sono le due principali potenze regionali nell’area che va dal mar Nero al Medio Oriente, passa per la Transcaucasia e lambisce la Persia. Con due traiettorie però assai diverse.

Ascolta “La Russia è solo una potenza regionale” su Spreaker.

 

Confrontando le parabole di Turchia e Russia

L’economia turca a partire dall’inizio del nuovo millennio è cresciuta costantemente, triplicando il proprio Pil. Un decollo economico accompagnato da un potente incremento demografico che ha fatto passare la sua popolazione complessiva da 67 a 83 milioni (a cui va aggiunta la diaspora). Il “neoimperialismo ottomano”, in questo quadro, è il prodotto di una crisi di crescita del paese a cui ormai vanno stretti i confini definiti nel primo Dopoguerra.

La Russia invece, dopo il boom del primo decennio del XXI secolo basato essenzialmente sugli alti prezzi degli idrocarburi sul mercato mondiale e la stabilizzazione sociale interna, vede da molti anni la propria economia stagnare. Dal 2018 la sua popolazione è tornata a contrarsi malgrado milioni di ucraini e centroasiatici abbiano acquisito il passaporto della Federazione: la Banca Mondiale stima che se non ci sarà una svolta, la Russia passerà dagli attuali 145 milioni di abitanti a 131 nel 2050. Dopo la facile vittoria nella guerra con la Georgia del 2008 – che aveva mostrato però dei limiti soprattutto logistico-satellitari – dagli anni Dieci in poi il declino dell’egemonia strategico-militare di Putin sul vicino estero ex sovietico è continuata con la perdita definitiva dell’Ucraina (compensata solo in parte dall’annessione della Crimea) e ora esiste il rischio concreto – a seguito dello sviluppo del movimento di opposizione in Bielorussia – di perdere un altro alleato fondamentale proprio laddove la Nato, grazie all’integrazione di Polonia e paesi baltici, è più aggressiva.

La partnership economica tra le due potenze locali (turismo, abbigliamento, prodotti alimentari e soprattutto forniture di gas russo attraverso Turkish Stream) ha reso più fluide anche le relazioni diplomatiche. La luna di miele tra i due paesi ha raggiunto il suo zenit nel periodo che va dall’acquisto da parte turca del sistema difensivo antiaereo russo S-400 (preferito ai Patriot americani con gran dispetto di Washington) e il sostegno convinto di Erdoğan a Nicolas Maduro nella crisi venezuelana del 2019 e suggellato dagli accordi di Astana per la sistemazione della matassa siriana. Dopo di allora però, lentamente ma inesorabilmente, il corso delle relazioni turco-russe è andato via via peggiorando e la guerra nel Nagorno-Karabach, qualunque sarà il suo esito, marcherà il passaggio in una fase che potremmo definire “postAstana”, foriera di nuove tempeste e procelle nella regione.

In quali intrecci si sta azzoppando Astana?

Le prime avvisaglie che si stava entrando in una fase nuova emerse a inizio 2020 quando ci fu più di una scaramuccia tra Siria e Turchia che vide coinvolto il contingente russo. Qualche mese dopo i due paesi si trovavano a confrontarsi ancora su fronti avversi in Libia. La Turchia sostiene da sempre il governo libico riconosciuto dalle Nazioni Unite, guidato da Fayez al-Serraj, che sta lottando da più di un anno per resistere a un assalto alla capitale Tripoli da parte del comandante ribelle Khalifa Haftar. Quest’ultimo è sostenuto, anche se non formalmente, dalla Russia grazie alla penetrazione dei suoi gruppi di foreign fighters organizzati nell’ormai celebre agenzia dei “wagneriani”, già presente in vari teatri, non ultimi quelli africani. Un modo per la Russia, quello dell’uso di compagnie di ventura, per giocare un ruolo di ago della bilancia in diverse crisi senza esporsi direttamente e soprattutto dai costi economici relativi.

Sia la Russia che la Turchia hanno investito molto in Libia: la Federazione in termini di reputazione, influenza e potenziali accordi petroliferi e la Turchia con interessi commerciali ed energetici ancora più ampi, ma hanno evitato in ogni modo di confrontarsi direttamente. «Quella libica potrebbe essere la loro più grande divergenza, ma ce ne sono altre. Sono a disagio per il ruolo crescente dell’Iran nella regione, che Putin generalmente sostiene fintanto che infastidisce gli Stati Uniti. I turchi odiano il regime di al-Sisi in Egitto che Putin giudica invece positivamente. E sono da sempre ai ferri corti anche con gli israeliani, con i quali Putin ha un solido rapporto di partnership», sostiene Jonathan Schanzer della Foundation for Defense of Democracies, un think tank con sede a Washington.

Presenze strategiche dei due contendenti sullo scacchiere internazionale

Ma nel complesso la partnership rischia di crollare a causa dell’inconciliabilità delle ambizioni geopolitiche. Schanzer, a tale proposito, segnala la grandiosa visione ottomana delineata da uno dei massimi consiglieri di Erdoğan, il generale in pensione Adnan Tanrıverdi, che interpreta la Turchia emergente come una superpotenza islamica con capacità di esercitare autorità e influenza su 61 paesi musulmani con Istanbul a capitale di un inedito califfato.

Putin ha forse obiettivi meno ambiziosi – più tattico che stratega è abituato a misurare ogni passo di politica estera – ma non meno importanti per gli equilibri internazionali. A fronte dell’ulteriore sgretolamento dell’influenza nell’area ex sovietica, Mosca è interessata a inserire dei cunei di propria presenza su scala globale che le permettano di restare al centro di quanto si va definendo nei diversi scacchieri. Un approccio parzialmente diverso da quello del tradizionale contenimento sviluppato dal Cremlino fino a qualche anno fa e che poggiava in gran parte sul suo ruolo di potenza nucleare. La ripresa della guerra in Nagorno-Karabach non sta facendo che accelerare, da questo punto di vista, delle tendenze già in atto.

Un Anschluss turco-azero?

Ma se le scaramucce tra Armenia e Azerbaigian del luglio potevano lasciare presagire che lo scontro ruotasse intorno ai gasdotti azeri Baku-Tbilisi-Ceyhan e quello nel Caucaso meridionale ovvero sulle rotte del reperimento di risorse energetiche alternative a quelle russe nella regione, la guerra iniziata il 27 settembre 2020 dall’alleanza turco-azera ha ben altri obiettivi, in primo luogo di ridefinizione complessiva degli equilibri nella regione. Evidentemente, Erdoğan intende saggiare la reazione russa e dei paesi Nato a fronte di un chiaro tentativo espansionista: in questo senso l’alleanza turco-azera basata sulla teoria “un popolo, due stati” sta realizzando seppur in trentaduesimi, la stessa politica che la Germania negli anni Trenta del XX secolo portò avanti con l’Anschluss e l’occupazione della Cecoslovacchia. Da questo punto di vista Erdoğan ha ricevuto segnali positivi riuscendo a mettere sotto scacco l’Europa con il ricatto dell’ondata migratoria dalla Siria e paralizzando una Russia già alle prese con la crisi in Bielorussia e la querelle di Navalny. Malgrado Francia, Usa e Russia abbiano chiesto con due dichiarazioni comuni il cessate il fuoco, malgrado siano arrivati segnali di inquietudine da parte di molti altri stati, la macchina bellica turco-azera non si è fermata.

Valore “locale” del conflitto caucasico

Allo stesso tempo non va però dimenticato che l’offensiva in Nagorno-Karabach ha obiettivi tutti interni al quadro transcaucasico. Sin dall’inizio del conflitto, malgrado l’Armenia sia parte integrante del Trattato di sicurezza collettiva (l’alleanza militare guidata dalla Russia dopo la fine del Patto di Varsavia), a differenza che in Bielorussia, la Federazione non ha minacciato interventi a fianco di Erevan se non nel caso estremo di aggressione diretta dentro i confini armeni. Una postura che non è certo piaciuta a Nikol Pashinyan, il premier armeno asceso al potere dopo la Rivoluzione di Velluto del 2018. Pashynian è un ex difensore dei diritti civili che guarda per sua formazione e cultura a Occidente. Tuttavia in nome della Realpolitik e delle forniture di idrocarburi a prezzi low-cost è restato legato finora a Mosca, ma l’evidente neutralità assunta dalla Russia nel conflitto nel Nagorno-Karabach potrebbe fargli riconsiderare – a medio termine – il legame con Mosca, ripiegando su una posizione di neutralità. Non è un caso che tutti i suoi sforzi per giungere al cessate il fuoco nelle prime settimane del conflitto abbiano cercato di far leva sui timori della UE (e di Merkel in particolare) per la crescente aggressività turca, anche se Berlino in realtà ha le mani legate perché – piaccia o no – la Turchia resta un membro imprescindibile della Nato.

In questo quadro proprio l’Alleanza Atlantica sta accelerando il suo programma di allargamento a Est. Due settimane dopo l’inizio del conflitto, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha invitato apertamente la Georgia ad aderire al sistema difensivo occidentale: «Siamo concentrati sulla regione del Mar Nero, stiamo sviluppando le nostre capacità marittime, la difesa costiera della Georgia e stiamo conducendo visite di navi Nato nei porti georgiani. Nei nostri negoziati sottolineiamo l’importanza strategica della regione del Mar Nero sia per la Georgia che per gli stati della Nato e siamo pronti ad accoglierla nell’alleanza», ha affermato il segretario generale. Un quadro fosco per la Russia soprattutto in caso di sgancio della Bielorussia e dell’Armenia.

Si tratta ora di capire se il punto di caduta dello scontro nel Nagorno-Karabakh, escludendo la catastrofe di un confronto diretto tra Russia e Turchia, sarà una vittoria completa azera o se, come continuano ad affermare gli esperti di strategia russi, Ilham Aliyev si accontenterà di sedersi al tavolo della trattativa dopo essersi ripreso i corridoi che collegano il Nagorno-Karabakh all’Armenia. In entrambi i casi, Mosca ne uscirà indebolita e dovrà ripensare seriamente ai suoi rapporti con Ankara. A settembre Erdoğan ha annunciato di aver trovato giacimenti di gas nel Mar Nero che dovrebbero garantire entro il 2023 l’autonomia energetica al suo paese. A quel punto allora, i buoni rapporti con Putin, potrebbero per lui essere solo un intralcio.

I timori dell’Occidente per l’attivismo turco

L’Azerbaijan ha fatto intendere che non vuole iniziare alcuna trattativa per risolvere la contesa sull’enclave etnico armeno, senza che vi partecipi direttamente la Turchia. Una posizione che manderebbe in soffitta definitivamente il format del “gruppo di Minsk” a cui partecipano, oltre ai paesi coinvolti nel conflitto, la Francia, gli Usa e la Russia. Un Diktat a cui è seguito l’inevitabile stop di Erevan mentre il segretario di stato Mike Pompeo esortava Erdoğan «a evitare di interferire nel conflitto». La presa di posizione dell’Eliseo, seppur non ufficiale, è stata particolarmente dura. «Il presidente francese ha già espresso preoccupazione per il ruolo della Turchia nel conflitto in Nagorno-Karabach. È motivo di preoccupazione che Erdoğan stia moltiplicando le sue avventure, non tenendo conto della necessità di garantire una sicurezza comune», si legge in un comunicato fatto circolare dalla diplomazia francese nella giornata del 18 ottobre. Macron teme che Erdoğan voglia tastare il polso alla Comunità europea per capire fino a che punto possa spingersi nella propria impunità.

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Strategie turche in preparazione del conflitto caucasico… https://ogzero.org/strategie-turche-in-preparazione-del-conflitto-caucasico/ Wed, 07 Oct 2020 15:31:57 +0000 http://ogzero.org/?p=1439 … e considerazioni sull’esasperazione dei nazionalismi in Azerbaijan, Armenia, Artsakhi Abbiamo ricevuto un articolo da Gianni Sartori a proposito del coinvolgimento turco nelle nuove operazioni militari in Nagorno Karabach, e poi Murat Cinar ha animato una puntata del suo Caffè turco su Radio Blackout e prima avevamo sentito anche Teresa Di Mauro, corrispondente per l’“Atlante […]

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… e considerazioni sull’esasperazione dei nazionalismi in Azerbaijan, Armenia, Artsakhi

Abbiamo ricevuto un articolo da Gianni Sartori a proposito del coinvolgimento turco nelle nuove operazioni militari in Nagorno Karabach, e poi Murat Cinar ha animato una puntata del suo Caffè turco su Radio Blackout e prima avevamo sentito anche Teresa Di Mauro, corrispondente per l’“Atlante delle Guerre” e conoscitrice della realtà armena e di alcune zone di Artsakhi: alterniamo i loro contributi in questo spazio embrionale – destinato ad arricchirsi con altri interventi, utili a raccontare tutti i variegati punti di vista e gli intrecci di interessi.

Nessun confine separa le persecuzioni di armeni e curdi

 

Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si va sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri contro gli armeni.

Ascolta “2020-10-15_Murat-Cinar_zampa turca sulla spalla azera” su Spreaker.

Snodi curdi al margine della logica militare turco-azera

Kars subisce un destino analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanlı nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste. Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe quindi da stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars».

D’altra parte era quasi scontato che Erdoğan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto, mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

Non certo impropriamente era stato definito “un autentico genocidio politico” in Bakur (territori curdi sotto amministrazione-occupazione turca). In riferimento alla destituzione – dopo le elezioni del 2019 – dei legittimi rappresentanti politici eletti nelle liste dell’Hdp (Partito Democratico dei Popoli) e l’arresto di centinaia di militanti dell’opposizione ed esponenti di associazioni curde.

Ma oggi la faccenda si va caricando di ulteriori e peggiori implicazioni.

La città di Kars (in Bakur) è destinata a diventare un centro di smistamento per jihadisti e mercenari di Ankara? Tutt’altro che casuale – per esempio – la repentina imposizione da parte del Ministero dell’Interno del governo Akp-Mhp di Turker Öksüz come fiduciario (governatore, prefetto, podestà…?) alla città curda di Kars. Dopo che i sindaci regolarmente eletti (Ayhan Bilgen e Şevîn Alaca, esponenti dell’Hdp) erano stati preventivamente arrestati insieme a una quindicina di altri esponenti politici nell’ambito delle “indagini di Kobane” (ossia per le proteste del 2014). Cinque membri del consiglio comunale e due membri dell’assemblea generale provinciale venivano sospesi dal servizio o costretti alle dimissioni.

L’arresto del co-sindaco Ayhan Bilgen e di altri esponenti dell’Hdp risaliva al 25 settembre. Le sue dimissioni da sindaco (praticamente un’autosospensione proprio per evitare l’imposizione di un governatore turco) a cinque giorni dopo. Ma – in contrasto con la stessa legislazione turca – questo suo gesto non era stato tenuto in considerazione e la nomina – illegittima – del governatore seguiva il suo corso.

Giustamente si era parlato di una “confisca dei diritti democratici”. Allo scopo, molto presumibilmente, di controllare totalmente questa cittadina ai confini con l’Armenia.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_episodio di luglio” su Spreaker.

Niente di strano e niente di nuovo

Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoğlu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.

Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale “Hurriyet” ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993.

Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdoğan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.

Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

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L’esplosione al declino dell’Urss

Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica repubblica d’Armenia.

E il 20 febbraio – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno-azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Ağdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armene. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. È il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.

Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno-Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno stato indipendente sarà approvata con il 99 per cento dei voti.

E a questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).

Guerra dichiarata (1991-1994)

Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.

A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.

Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – ma discretamente e solo a livello logistico – dalla Grecia.

Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex Urss (russi e ucraini).

Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.

Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti.

Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14 per cento del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (il cessate il fuoco è del 12 maggio) prendono il via sotto la supervisione di Mosca.

Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato Osce) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.

Tuttavia – vien da dire – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

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Per i media occidentali rimane impigliata la definizione “separatisti”

Qualche considerazione in merito alle operazioni propagandistiche in atto (soprattutto da parte di Baku e Ankara) e rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato, pare. Forse perché – tutto sommato – conviene schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola Armenia, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale.

Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il Nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974 (e direi illegalmente, così a naso). Per non parlare della continua evocazione di una – al momento inesistente – partecipazione di militanti del Pkk ai combattimenti (a fianco degli armeni, ovviamente).

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Magari! verrebbe da dire. Ma temo che con tutti i problemi che al momento li affliggono (aggrediti come sono da ogni parte, soprattutto dalla Turchia e dai suoi ascari) molto difficilmente i partigiani curdi avranno la possibilità di prendere parte alla resistenza dei loro fratelli armeni. Anche se – presumo – ne sarebbero lieti e fieri.

In fondo di fronte avrebbero l’ennesima versione dei massacratori ottomani, dei responsabili del genocidio degli armeni (poi reiterato) e dei tentativi di genocidio nei confronti di greci, curdi (yazidi in particolare), alaviti, assiro-caldei.

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Il business delle armi oltrepassa ogni schieramento: corsi e ricorsi storici

Nel frattempo (gli affari sono affari) pare che la Francia – come Israele (droni Elbit) e l’Italia (M-346 di Leonardo) – non abbia smesso di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non è l’unico paese a farlo naturalmente. Ma la cosa appare stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Anche recentemente nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.

Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku stanno colpendo direttamente la popolazione di Stepanakert.

Una cosa comunque va detta. In qualche modo l’attuale conflitto tra Armenia e Azerbaijan appare propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne è addirittura la “vetrina”). Mi auguro di sbagliarmi, ma intravedo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

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