Atlantico settentrionale Archivi - OGzero https://ogzero.org/regione/atlantico-settentrionale/ geopolitica etc Fri, 30 Aug 2024 12:56:13 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Annessione perpetua https://ogzero.org/studium/annessione-perpetua/ Wed, 28 Aug 2024 06:40:17 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=13120 L'articolo Annessione perpetua proviene da OGzero.

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Tutto inizia a Saint-Louis

Già all’inizio del 1600 i francesi arrivarono nel nord dell’attuale Senegal, colonizzando un’isola che venne chiamata Saint Louis. Sulla stessa isola venne costruita più tardi una base commerciale di rilievo (1659) e nel 1673, su ordine del Re Sole, venne costituita la Compagnie du Senegal. Una compagnia coloniale che doveva dedicarsi all’amministrazione del fiorente commercio di schiavi africani (traite négrière in francese) e che seguiva le orme dell’inglese Royal African Company, fondata nel 1660 (con licenza di monopolio per il traffico di schiavi a partire dal 1663). L’espansione francese portò all’occupazione dell’isola di Gorée nel 1677 e a un commercio che già all’epoca si differenziava tra oro, gomma arabica e tratta di persone. L’anno successivo, nel 1678, ebbe termine la guerra franco-olandese (iniziata nel 1672) con una vittoria della Francia che manifestò la sua supremazia militare sul continente europeo. Una supremazia che si vedeva riflessa anche in Africa occidentale, dove nel 1696 venne creata una nuova compagnia, questa volta chiamata Compagnie Royale de Senegal, Cap-Verd et côtes d’Affrique.

Carta ideale della Concessione ottenuta dalla Compagnie Royale du Sénégal consegnata il 31 dicembre 1719 al signor de St Robert dal signor Brüe. Va da Cap-blanc a Bissaux, sancendo fin da allora i confini di un territorio che ha condiviso il medesimo destino

 

Due secoli di scontro anglo-francese per l’affaire mercantilista della storia moderna

Eliminati dunque dalla competizione per il Senegal, sia il Portogallo, che la Spagna, che la Repubblica delle Sette Province Unite, per l’impero francese rimaneva un solo grande avversario, l’Inghilterra, che dal canto suo stava provando a consolidare la sua presenza in Africa. Già dalla metà del Seicento infatti gli inglesi penetrarono lungo la valle del fiume Gambia, iniziando un fiorente commercio che portò nel secolo successivo a uno scontro aperto e costante con la Francia. Il Diciottesimo secolo fu infatti segnato da continue guerre tra Francia e Inghilterra e precisamente alle fine di una di queste, la guerra dei sette anni (1756-1763), la Francia sconfitta dovette rinunciare a tutte le basi che possedeva in Senegal. Solo vent’anni dopo però la partecipazione delle truppe francesi a sostegno degli insorti durante la rivoluzione americana (1776) consentì al governo di Parigi di sedere al tavolo della pace. Con il trattato di Versailles (3 settembre 1783) l’impero inglese, sconfitto, riconosceva l’indipendenza degli Stati Uniti d’America e restituiva alla Francia i porti senegalesi occupati due decenni prima.

Senegambia in una mappa del 1707 intitolata Carte de la Barbarie de la Nigritie et de La Guinee. Il destino di quel territorio e dell’incremento della tratta schiavista è condizionato dallo scontro tra Francia e Inghilterra – e di nuovo diventa centrale la sponda atlantica dell’America – con la parentesi delle Rivoluzioni di fine Settecento

Sospensione rivoluzionaria e Restaurazione coloniale

Pochi anni dopo però arrivò la rivoluzione francese, iniziata con la presa della Bastiglia il 14 luglio 1789 e seguita dalle guerre napoleoniche. Eventi che frenarono (se non proprio interruppero) la politica coloniale della Francia, facendo passare di nuovo i possedimenti francesi in Senegal, sotto il controllo inglese. Per il ritorno della Francia in Senegal bisognerà aspettare il 1816, dopo il crollo dell’impero Napoleonico e la “restaurazione” figlia del Congresso di Vienna (1° novembre 1814 – 9 giugno 1815).

☞Porti e mari “britannici”

Gorée – St-Louis: basi schiavistiche del colonialismo della Françafrique

Pax coloniale francese

Con la Restaurazione postbonapartista la Francia rientrò in possesso delle sue basi coloniali, iniziando un’opera espansiva di sistematica conquista di tutto il territorio, creando un tessuto amministrativo e di “sviluppo” per la creazione di una vera e propria colonia. Nel 1816, Luigi XVIII, appena ritornato sul trono di Francia, nominò il colonnello Julien-Désiré Schmaltz come amministratore dei possedimenti francesi sulla costa senegalese, con il compito di dare il via alla conquista dell’interno del territorio. Tra il 1817 e il 1845 le truppe francesi occuparono la regione di Waalo (ex provincia del regno Djolof) annientando il fragile regime teocratico instaurato nel 1830 dal marabut Diile. Nel 1854, Napoleone III incaricò un intraprendente ufficiale francese, Louis Faidherbe (che all’epoca aveva solo 36 anni), di governare ed espandere il mercato coloniale e di modernizzare l’economia del Senegal. Faidherbe costruì una serie di forti lungo il fiume Senegal, formò alleanze con i leader dell’interno del paese e inviò spedizioni contro coloro che resistevano al dominio francese. Nel 1857 fondo la città di Dakar, costruendo un nuovo porto, installando linee telegrafiche, costruendo strade, e propiziando quella che successivamente sarebbe stata la linea ferroviaria tra la capitale Dakar con il primo insediamento francese nel Nord, Saint Louis. L’opera di Faidherbe, ingegnere militare che fu impegnato anche in Algeria, era impregnata di quella che lui considerava una missione civilizzatrice e per questo costruì scuole, ponti (il ponte principale di St-Louis porta oggi il suo nome) e sistemi per fornire acqua potabile alle città. A livello agricolo introdusse la coltivazione su larga scala di arachidi, espandendo i possedimenti francesi. fino alla Valle del Niger e facendo diventare il Senegal (e la sua nuova capitale Dakar) la principale base nell’Africa Occidentale Francese (Aof). Rimase in carica fino al 1865 (gli succedette come governatore l’ammiraglio Jauréguiberry) e nel 1889 (anno della sua morte) venne pubblicato il suo libro dal titolo Le Sénégal: la France dans l’Afrique occidental (Il Senegal, la Francia nell’Africa Occidentale).

Foto di Diego Battistessa

L’annessione

I governatori che succedettero a Faidherbe conquistarono i regni di Fouta Toro, del Baol, del Kaydor e del Saloum e nel 1889 si arrese ai francesi anche Ali Bouri, l’ultimo sovrano wolof. Mentre venne annessa solo nel 1896 la regione meridionale del Casamance che fino a quel momento era rimasta sotto il controllo del Portogallo. A quel punto la Francia considerò il Senegal come un territorio “pacificato” e nel 1904 venne nominato il primo governatore civile dell’Aof, una federazione fondata nel 1895 con capitale Dakar e che comprendeva Senegal, Niger, Costa d’Avorio, Ciad, Dahomey, Guinea, Alto Volta (attuale Burkina Faso) e Mauritania.

Egalité eurocentrica nella Françafrique

Come ci spiega Papa Saer Sako, nel suo libro Senegal (edizioni Pendragon): «La filosofia coloniale francese si ispirava agli ideali della rivoluzione del 1789, condizionati però da un radicale eurocentrismo, il cui presupposto poggiava sulla convinzione che i popoli colonizzati avrebbero potuto accedere a un superiore grado di civiltà solo adottando i fondamenti della cultura europea. Le autorità coloniali, dunque, si ritennero investite della missione di civilizzare popolazioni considerate ancora immerse nella barbarie, riconoscendo loro una potenziale eguaglianza di diritti in quanto esseri umani, ma rigettando e soffocando ogni aspetto della cultura africana».

Nonostante il forte controllo culturale ed economico francese, su una società complessa e multietnica (composta dalle etnie Wolof, Sérère, Lébou, Peul o Foulbé, Toucouleur, Diola, Mandingo, Sarakholé e Bassari) tra il 1910 e il 1912 nacquero le organizzazioni dell’Aurora di St-Louise quella dei Giovani Senegalesi, le prime organizzazioni finalizzate a dar voce alle aspirazioni dei nativi. Solo due anni dopo, per la prima volta nella storia, un deputato di origine africana, Blaise Diagne, sedette nell’Assemblea Nazionale di Parigi. Ci vorranno però ancora 15 anni di costruzione del tessuto politico senegalese perché nel 1929, prenda vita il Partito della Solidarietà Senegalese, tra i cui membri troviamo Lamine Gueye e soprattutto Sédar Senghor. Quest’ultimo verrà eletto nel 1945 come rappresentante del Senegal nel parlamento francese e tra il 1959 e il 1960 il Senegal e il Sudan francese si unirono nella Federazione del Mali, con Senghor come presidente della nuova Repubblica.

In questo 2024 si è assistito a molte rivolte di giovani africani colti e consapevoli del condizionamento coloniale ancora perdurante: in Kenya contro il presidente Ruto, in Sahel con la presa di potere di giovani militari che hanno espulso l’esercito francese “diversamente occupante”… il Senegal ha tradizioni saldamente democratiche e la comunità si è liberata del burattino francese Macky Sall, completando una presa di coscienza dell’intera comunità, costituita da una ventina di realtà culturali e linguistiche diverse, che attingono alle radici precoloniali; un percorso interno all’Africa che può essere paragonato alla riappropriazione parallela a quella che guarda alle componenti afrodiscendenti in America, come superamento del male coloniale che ha però trasferito in America una cultura, la cui componente si chiede venga riconosciuta nella costituzione delle inter comunità oltreatlantico.

☞Un ponte tra Bahia e Benin

Per i francesi però tutto ebbe inizio a Saint-Louis

«Immense barche (Cayucos), molte volte policromate dai toni accesi e sempre ricche di bandiere e simboli, preghiere e auguri: ciascuna affidata al rispettivo marabù (leader religioso) e/o a Mame Coumba Bang, lo spirito femminile che li protegge dall’ira dell’oceano e, quindi per estensione, protettore anche delle città evitando che vengano fatte scomparire dalle inondazioni. Barche realizzate artigianalmente partendo da un unico pezzo di albero, che trasportano ogni giorno centinaia di pescatori…

Foto di Diego Battistessa

Il fiume Senegal si butta in mare avidamente, dopo aver attraversato altri tre paesi e circa 1700 chilometri, in questo angolo peculiare del pianeta. L’Oceano Atlantico attacca con furia eterna questa lingua di sabbia e dune lunga una trentina di chilometri e larga appena 500 metri, e punisce tutto ciò che incontra sul suo cammino (oggi ancor più a causa dell’impatto dei cambiamenti climatici e della mano artificiale dell’uomo manifestatasi con l’apertura di una breccia nel 2003 nella zona, che ha diviso in due la lingua aumentando l’ansia dominatrice del mare) … Gli autoctoni dicono che nessuno è come i pescatori di queste acque, che lottano per emergere vittoriosi contro le mortali onde oceaniche che già tanti naufragi hanno causato. Nessuno. E attenzione, non solo l’uscita in mare è pericolosa, ma anche il ritorno, “perché sbarcare a St-Louisnon è una cosa qualunque”, sottolineano.
Il sociale, l’economico, il politico, il culturale, il gastronomico, il festivo, l’ambientale… Tutto ruota attorno alla pesca a St-Louis(circa 250.000 abitanti), un tempo capitale dell’Africa occidentale francese e del Senegal e della Mauritania; la seconda città del Paese da quando Dakar divenne capitale nel 1857. Basta guardare una mappa per apprezzare la sua peculiarità geografica, il suo valore strategico nel Nord del Paese. St-Louisè il confine con la Mauritania, per alcuni è il punto finale del deserto del Sahara, per altri ne è la porta d’ingresso…
Città creata dai francesi nel 1659 come primo insediamento europeo nell’Africa occidentale, ma prima di loro la storia qui già cresceva, proprio come crescono i baobab…»

Queste parole, che travolgono come fossero colori di un dipinto su tela, sono della giornalista Lola Huete Machado, che nel 2019 pubblicò sul “El Páis” un articolo che coglieva l’anima di Saint-Louis. E chiunque l’abbia visitata non può non sentire vibrare quelle parole, sovrapponendole alle immagini di una città i cui tratti coloniali sono ancora ben visibili, sia nell’architettura ma anche nell’economia che vede nel turismo (maggioritariamente europeo e specialmente francese) una fonte importante di ingresso.

Foto di Diego Battistessa

Una città dalle molte sfaccettature, con hotel di lusso a pochi metri da una linea di costa dove l’impoverimento e l’economia di sussistenza scandiscono il tempo marcato dall’andare e venire dalle onde. Sulla spiaggia, piena di rifiuti dove deambulano in cerca di cibo capre, pecore e cavalli (spesso di una magrezza non compatibile con la vita), ci sono decine di cayucos, descritti magistralmente da Lola Huete Machado. Accanto a loro un uomo anziano che ha voglia di parlare, lui li ripara i cayucos, mi spiega in francese. Oramai è troppo vecchio per salire su uno di quelli che vanno verso un futuro possibile, verso l’Europa.

Mi indica un’ombra nell’orizzonte, una lingua di terra nascosta dalla foschia che si crea per il troppo calore: «Quella è la Mauritania», mi dice. E poi, spostando il dito un po’ più in là, verso l’oceano, verso la vastità dell’azzurro orizzonte mi dice con fermezza. «Quella invece è l’Europa, tu non la vedi, ma in quella direzione ci sono le Canarie, c’è la Spagna, c’è la speranza».

Foto di Diego Battistessa

Ma se un da lato l’isola di Saint Louis, chiamata anche la “Venezia africana”, è parte di una rotta che da anni è percorsa da migliaia di persone che cercano un miglior futuro, dall’altra è anche (dal 2000) annoverata dall’Unesco come patrimonio dell’umanità.  Un riconoscimento che ha portato a un programma di rinnovamento e riqualificazione di vecchi edifici coloniali, trasformando molti di questi in ristoranti e hotel (gestiti spesso da europei).

Città del Mercantilismo Gorée Maison des Esclaves Perpetua schiavitù
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Triangolo britannico Scousers Ransom in Liverpool Manchester

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]]> Cottonopolis https://ogzero.org/studium/cottonopolis/ Wed, 14 Aug 2024 16:13:27 +0000 https://ogzero.org/?post_type=portfolio&p=12989 L'articolo Cottonopolis proviene da OGzero.

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La Rivoluzione industriale di Cottonopolis

La ricchezza dei paesi imperiali è anche la nostra ricchezza.
Frantz Fanon, Les damnés de la terre

Quasi il 90 per cento del cotone coltivato in Alabama, Mississippi e Louisiana veniva venduto a Manchester, trasformato in tessuto da cinquemila stabilimenti tessili del Lancashire procurando cibo per le tavole delle classi lavoratrici. Così si potrebbe riassumere l’esplosione della rivoluzione industriale che coinvolse Manchester e che la vincolò, attraverso il porto di Liverpool a un commercio che incoraggiava e traeva enormi profitti dalla schiavitù. La zona del Lancashire era già molto famosa per i cotonifici alimentati dall’acqua ma l’apertura del primo stabilimento al mondo azionato a vapore in Miller Street, da parte di Richard Arkwright nel 1781, cambiò tutto. A poco a poco la meccanizzazione dei processi rivoluzionò in modo sostanziale la produzione, trasformando le fiorenti industrie tessili di Manchester nel primo centro di produzione di massa al mondo.

Nei paesi coloniali il popolo colonizzato e la classe operaia del paese colonialista hanno interessi comuni. La storia delle guerre di liberazione, condotta dai popoli colonizzati, è la dimostrazione della falsità di questa tesi
Frantz Fanon, Pour la révolution africaine : écrits politiques

Infatti spesso il Lumpenproletariat e le classi meno abbienti vedono i migranti come rivali proprio nell’attribuzione del lavoro più sfruttato e sottopagato, finendo con il fare il gioco dei padroni e dei fascisti più retrivi e razzisti.

Il ruolo dell’informazione e il controllo della narrazione

Il vincolo di Manchester con il passato schiavista del Regno Unito è così forte che recentemente (nel 2023) anche “the Guardian”, il principale quotidiano di sinistra britannico si è scusato. Il giornale fondato a Manchester nel 1821, ha infatti riconosciuto i suoi legami con la tratta e lo sfruttamento degli schiavi negli Stati Uniti d’America facendo riferimento agli uomini che iniziarono quest’impresa editoriale. Il giornale fu fondato da John Edward Taylor, un giornalista che era però anche un commerciante di cotone, attività che lo portò ad associarsi in numerose occasioni alle piantagioni negli Stati Uniti d’America: piantagioni che utilizzavano manodopera schiava. Però non solo John Edward Taylor: infatti almeno nove degli undici investitori originari possedevano società che ricavavano buona parte del loro capitale dal commercio di cotone, zucchero e prodotti tessili, industrie intrinsecamente legate alla schiavitù.

Ne risulta dunque che “the Guardian” è stato costruito e finanziato con denaro procedente dal commercio e dallo sfruttamento della schiavitù. Ole Jacob Sunde, direttore dello Scott Trust (che oggi possiede “the Guardian”), ha dichiarato:

«Lo Scott Trust è profondamente dispiaciuto per il ruolo che John Edward Taylor e i suoi sostenitori hanno avuto nell’economia della schiavitù. Riconosciamo che chiedere scusa e condividere questi fatti in modo trasparente è solo il primo passo per affrontare i legami storici di “the Guardian” con la schiavitù transatlantica, che è stata un crimine contro l’umanità. In risposta ai risultati della ricerca, lo Scott Trust si impegna a finanziare un programma di giustizia riparativa nel prossimo decennio, che sarà progettato e portato avanti in consultazione con le comunità discendenti negli Stati Uniti, in Giamaica, nel Regno Unito e altrove, focalizzato su progetti a lungo termine e iniziative di impatto significativo».

Foto di Diego Battistessa

Orrore schiavista Usa <-> Sfruttamento industriale GB

“The Guardian” però non si è limitato a stabilire le origini della sua fondazione, ma ha lanciato nel 2023 un enorme lavoro di giornalismo investigativo che ha prodotto un grande impatto nella società britannica. Stiamo parlando di Cotton Capital, how slavery changed the Guardian, Britain and the world. Una ricerca accademica, commissionata alla fine del 2020 dallo Scott Trust e condotta in tre fasi dall’Istituto per lo studio sulla schiavitù dell’Università di Nottingham e dal Wilberforce Institute for the Study of Slavery and Emancipation dell’Università di Hull, ha infatti stabilito una serie di connessioni tra il commercio transatlantico di persone schiavizzate, la città di Manchester e la Gran Bretagna in generale. Una serie di articoli, reportage, podcast e documenti che ricostruiscono e spiegano nel dettaglio l’oscuro passato di Cottonopolis.

Foto di Diego Battistessa

«Quando ci prendiamo un momento per pensare agli orrori della schiavitù americana raramente siamo portati a fare collegamenti con gli stabilimenti di Manchester».
David Olusoga, storico e ricercatore dello Scott Trust

lo schiavismo reso possibile dai porti britannici ☜

L’inchiesta di “The Guardian”

Qui alcune parti, accessibili gratuitamente, della ricerca intitolata Cotton Capital dal quotidiano progressista di Manchester, che si collega direttamente al vertice del Triangolo sviluppato a Bahia.

Dalla pagina web del museo, possiamo leggere:

«Soprannominata “Cottonopolis”, Manchester un tempo era il centro internazionale dell’industria mondiale del cotone. La città importava fino a un miliardo di tonnellate di cotone grezzo all’anno, città come Bolton e Preston divennero centri di produzione e la Platt Brothers & Co. Ltd. di Oldham costruì macchine tessili per stabilimenti di tutto il mondo.
L’industria tessile di Manchester ha portato una grande ricchezza a molte persone. Tuttavia, innovazione e profitti sono andati di pari passo con la disuguaglianza e lo sfruttamento, su scala locale e globale. Nel 1860, oltre l’80 per cento del cotone lavorato negli stabilimenti di Manchester e dintorni veniva coltivato da africani schiavi nelle piantagioni del sud degli Stati Uniti. Era solo grazie a questo sistema di sfruttamento umano, che i produttori di Manchester ottenevano il cotone nelle quantità e ai prezzi desiderati».

☞come avveniva per le tessitrici olandesi

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Un museo indispensabile per una città insanguinata

We will remember

They will remember that we were sold, but not that we were strong. They will remember that we were bought, but not that we were brave

William Prescott, former slave 1937

«Ricorderanno che fummo venduti ma non che eravamo forti. Ricorderanno che fummo comprati ma non che eravamo coraggiosi». Parole lapidarie che aprono il circuito della visita al Museo della Schiavitù di Liverpool, inaugurato nell’agosto 2007. Un museo indispensabile, duro e potente, situato al terzo piano del Museo Marittimo del Merseyside presso il Royal Albert Dock di Liverpool. Si tratta di uno dei pochissimi musei nazionali al mondo che coprono la tratta transatlantica degli schiavi, le sue conseguenze, la sua eredità. Uno spazio vivo, in continua trasformazione, un centro di risorse internazionali per campagne per i diritti umani come Black Lives Matter e che vuole essere pioneristico per la necessaria e urgente discussione sociale sulla responsabilità storica del commercio triangolare e nello specifico della tratta di essere umani. Le parole di William Prescott scuotono e fanno capire l’intensità di quello che si sta per vedere, parole alle quali fanno eco quelle del museo, che in modo simbolico risponde We will remember (noi ricorderemo).

Concetto di negritudine racchiuso in bacheca: coscienza a posto e riscatto annientato… con molte scuse.

vale per il museo di Bahia☞

☜ come per il Museo degli schiavi a Gorée

Il più grande porto di schiavi

Il nickname degli abitanti di Liverpool deriva dal tipico stufato di carne (scouse) ancora oggi molto popolare. Ma cosa devono ricordare gli Scousers? Devono ricordare che la loro città, lo sviluppo del porto, i lussuosi edifici e le opulente ville, le banche ma anche le scuole, gli ospedali e gli enti di beneficenza, sono macchiati dal sangue di coloro che vennero trafficati, torturati e venduti come schiavi dall’altro lato dell’Atlantico da compagnie marittime di Liverpool. Dalla metà degli anni Quaranta del Settecento, Liverpool fu il più grande porto commerciale di schiavi della Gran Bretagna, rappresentando l’84,7 per cento di tutti i viaggi di schiavi tra il 1793 e il 1807.

Albert Dock, la darsena schiavista per eccellenza

Gli archi che si vedono tutt’ora sulla Goree Piazzas sono gli stessi della Goree Warehouse che vedevano gli schiavi, sbarcando in catene nel bacino di questo porto…

strappati dalle vene dell’Africa☞

Lo stufato di schiavi nella pentola dell’industrialismo

Le navi del Mersey trasportarono quasi 1,5 milioni di africani resi schiavi, sia verso la Gran Bretagna che verso le Americhe, dando alla città una posizione privilegiata per la compravendita di persone e il profitto sulla vita umana. E nonostante il fatto che la tratta degli schiavi fosse stata abolita in Gran Bretagna nel 1807, i mercanti e le famiglie accomodate di Liverpool vincolate a questa inumana attività economica, continuarono a raccogliere i frutti finanziari dei loro brutali affari, approfittando dei ruoli apicali e di potere acquisiti grazie alla ricchezza e prestigio dello sfruttamento degli schiavi africani.

Molti di questi commercianti utilizzarono la ricchezza accumulata per le loro carriere politiche (tra il 1700 e il 1820 almeno 25 sindaci che ebbe la città, erano vincolati al commercio di schiavi), per differenziare i loro interessi e per investire nello sviluppo industriale, dando impulso alla posizione della Gran Bretagna come potenza globale dominante.

Una posizione che si manifestò in modo chiaro durante il regno della regina Vittoria, che occupò il trono inglese tra il 1837 e il 1901. Durante questo lungo periodo, conosciuto come epoca vittoriana, la Gran Bretagna si convertì nella potenza coloniale più importante con colonie e possedimenti di enormi estensioni in Asia, Africa, Oceania e America. Un periodo che rafforzò le teorie di chi difendeva l’idea della superiorità della razza inglese, come si evince dal testo del discorso di Joseph Chamberlain (capo del dipartimento coloniale della Gran Bretagna) al Royal Colonial Institute nel 1897.

Qui un passaggio di quel discorso diventato storico:

«We feel now that our rule over these territories can only be justified if we can show that it adds to the happiness and prosperity of the people, and I maintain that our rule does, and has, brought security and peace and comparative prosperity to countries that never knew these blessings before. In carrying out this work of civilization we are fulfilling what I believe to be our national mission, and we are finding scope for the exercise of those faculties and qualities which have made of us a great governing race».

[Riteniamo ora che il nostro governo su questi territori possa essere giustificato solo se possiamo dimostrare che esso contribuisce alla felicità e alla prosperità delle persone, e io sostengo che il nostro governo ha portato, e porta, sicurezza, pace e relativa prosperità ai paesi che non avevano mai conosciuto queste benedizioni prima. Nel portare avanti quest’opera di civilizzazione stiamo adempiendo a quella che credo sia la nostra missione nazionale e stiamo trovando spazio per l’esercizio di quelle facoltà e qualità che hanno fatto di noi una grande razza governante].

stessa ipocrisia supponente della bolla Dum Diversas

Toponomastica orgogliosamente coloniale


Un passato silenziato per troppo tempo, le cui vestigia sono sotto gli occhi di tutti ed emblematica è la toponomastica della città. Basta camminare per la città che ha “lavato la sua immagine” con il calcio e con i Beatles, o con le manifestazioni oceaniche dell’agosto 2024 contro il razzismo dei nazionalisti inglesi, che hanno strumentalizzato l’omicidio di tre ragazzine in chiave antimigranti per rendersi conto di questa doppia faccia scouser.

Sono infatti ancora decine le strade intitolate a volti noti del passato della città, persone diventate ricche e famose per aver tratto profitto nella tratta degli schiavi e nel loro sfruttamento. Nel 2008, nella St George Hall venne aperta un’esposizione artistica dal titolo ‘Read the Signs’ che esaminava l’associazione di luoghi e nomi locali con la schiavitù. Qui un estratto di quanto raccolto nell’esposizione, attraverso alcuni esempi, tra i quali spiccano casi eclatanti e insperati:

  • Ashton Street – che prende il suo nome da John Ashton (1711-1759), un commerciante di sale che investiva anche nel commercio degli africani ridotti in schiavitù. Usò i profitti derivanti dalla vendita del sale e dal traffico di schiavi per sovvenzionare la costruzione del Canale di Sankey, comprando 51 delle 120 azioni.

    Emblematico del capitalismo inglese: dai proventi della tratta di schiavi e delle merci della triangolazione gli investimenti si allargano e infestano tutti i comparti economico-finanziari: dalle infrastrutture al sale, al più classico dei settori britannici: le miniere

    Suo figlio, Nicholas, utilizzò la fortuna di famiglia per acquistare miniere di carbone a Parr, St Helens e acquistò anche Woolton Hall nel 1772. La famiglia Ashton è ricordata anche con altre strade che portano il loro nome; Ashton Square a Woolton e Ashton Drive a Hunts Cross.

    St. Helens, Sussex. 1874

  • Blackburne Place – che prende il nome da John Blackburne, (1693-1786), un noto commerciante di schiavi di Liverpool (anche se originario di Oxford). Il suo nome appare nell’elenco dei mercanti che commerciavano con l’Africa fin dal 1752 e John Blackburne senior fu membro attivo dell’élite della città, diventandone sindaco nel 1760. Blackburne fece fortuna a Liverpool e utilizzò parte della sua ricchezza per ristrutturare la casa di famiglia, Orford Hall, acquistando posteriormente anche il maniero di Warrington nel 1764. Oltre a commerciare persone schiavizzate, Blackburne era anche un importante commerciante di sale che possedeva le saline adiacenti al secondo bacino umido di Liverpool, aperto nel 1753 (noto come Salthouse Dock). Anche Blackburne Street a Garston prende il nome dalla famiglia poiché i Blackburn vi trasferirono le loro saline nel 1798.
    Blackburne, così come molti commercianti di Liverpool che avviarono un’attività di traffico di esseri umani, continuarono a diversificare i loro interessi economici, approfittando delle industrie che sorsero nel Lancashire meridionale. Interessi che includevano la produzione di sale, le attività bancarie, la costruzione navale, la fabbricazione di corde e l’estrazione del carbone. Nel 1780 i Blackburn avevano già acquisito molti terreni dentro e intorno a Liverpool e il figlio di John, anch’egli chiamato John, utilizzò parte di questo terreno per costruire Blackburne House, completata nel 1790. John junior, seguendo le orme di suo padre, divenne sindaco di Liverpool nel 1788, essendo anche membro fondatore dell’Athenaeum Club, insieme a molti altri commercianti di schiavi di Liverpool. I Blackburn sono ricordati anche in Great Orford Street, dal nome della loro tenuta vicino a Warrington dove avevano una famosa serra, ritenuta la prima nel paese a coltivare ananas, caffè, tè e canna da zucchero.

Questo ritratto di John Blackburne in origine lo raffigurava con in mano un ananas, che fu poi ridipinto ma di cui rimane un’immagine fantasma.Quando l’ananas è stato dipinto, anche la mano sinistra di Blackburne è stata modificata per mostrare l’indice puntato, anziché la posa innaturale e serrata che sarebbe risultata dalla rimozione dell’ananas. Il libro che Blackburne sta indicando è Species Plantarum di Carl Linnaeus, stampato nel 1753 (Artuk.org data l’immagine al 1743, dieci anni prima della pubblicazione del libro). In senso orario, dall’alto a destra: il dipinto com’è oggi, un primo piano dell’ananas mancante, un contorno per mostrare dove si trovava l’ananas e la ricostruzione finita. ©Bygone Liverpool

La disponibilità di questa pianta, insieme ad altre coltivate da Blackburne, come il caffè, la canna da zucchero e il cotone, fu ovviamente il risultato del commercio verso le Americhe aperto dalla tratta degli schiavi. Il primo ananas che Blackburne coltivò fu a sua volta il risultato della tratta degli schiavi e quasi certamente giunse a Liverpool attraverso una nave che aveva trasportato africani schiavizzati nelle Indie Occidentali nella seconda tappa del commercio triangolare. Forse su una delle sue stesse navi negriere?

  • Blundell Streetdedicata a Bryan Blundell (c. 1675 – 1756), commerciante di tabacco, capitano e proprietario di navi negriere: la prima nave a salpare dai Dock costruiti nel 1715 fu la The Mulberry di Blundell.

    Nelle liste dei Mercanti che commerciano in Africa nel 1752, appaiono ben tre membri della famiglia Blundell. Bryan Blundell fu due volte sindaco di Liverpool nel 1721 e nel 1728, e fu uno dei mercanti più importanti della città durante la prima metà del Diciottesimo secolo. Usò la sua influenza per convincere altri mercanti locali a contribuire alla costruzione e al mantenimento del Blue Coat School nel 1718.

Parete della linea del tempo al Bluecoat, creata per il tricentenario della scuola per orfani ricavata dalla St. Peter’s Church. del reverendo Robert Styth con i fondi dei traffici di Bryan Blundell. La grande immagine di sfondo è tratta da una stampa, Recollections of the Blue-Coat Hospital, Liverpool, St George’s Day, 1843. Questa litografia di Thomas Picken fu pubblicata nel 1850 da Skinner, professore di acquerello di Liverpool, e stampata da G. Webb & Co, Londra. La stampa si ispira a un dipinto di Henry Travis conservato nella collezione della Liverpool Blue Coat School e mostra la banda della scuola che conduce i bambini attraverso i cancelli, osservati da insegnanti, governatori e pubblico.

Sebbene l’amministrazione della scuola finisse con il diventare uno dei suoi interessi principali, rimase armatore fino ai settant’anni, proprietario e armatore della tristemente famosa nave negriera Sea Flower (costruita tra il 1745 e il 1748), che servì per il traffico inumano di uomini e donne schiavizzate. Anche i suoi figli Jonathan e Richard furono coinvolti nella tratta degli africani ridotti in schiavitù, così come i suoi nipoti, Bryan e Henry.

  • Bold Street prende il nome da Jonas Bold (1745-?), un noto mercante di schiavi, commerciante di zucchero e banchiere, che fu sindaco di Liverpool tra il 1802 e il 1803. Bold era socio della società bancaria Staniforth, Ingram, Bold e Daltera (tutti e quattro i soci erano coinvolti nella tratta degli schiavi).
    Bold Street era la sede del Lyceum Club, costruito dal famoso architetto Thomas Harrison e inaugurato nel 1802. Il terreno che occupa l’edificio fu acquistato dai soci dal negriero e socio bancario di Bold, Thomas Staniforth. Il Lyceum fu costruito per ospitare la Biblioteca di Liverpool, che si ritiene sia la più antica biblioteca pubblica a sottoscrizione del Paese, fondata nel 1757. Molti dei membri fondatori del Lyceum commerciavano in africani schiavizzati.
  • Cunliffe Street prende il nome dal prominente mercante di schiavi Foster Cunliffe (1682-1758) che fu eletto sindaco della città nel 1716, 1729 e 1735. Alla metà del Diciottesimo secolo Foster e i suoi due figli possedevano quote in 26 navi che prendevano parte al commercio triangolare; almeno quattro di queste 26 erano navi negriere e arrivavano a “stipare” 1120 prigionieri. Numeri che garantivano un enorme profitto per i Cunliffes, che con la vendita di schiavi, acquisivano un capitale che poi investivano nell’acquisto di prodotti dalle colonie, come tabacco (soprattutto dalla Virginia), zucchero e rum da vendere al ritorno in Inghilterra. Uno dei figli di Foster, Ellis fu eletto deputato per Liverpool al parlamento britannico e rimase in carica per dodici anni (1755-67), arrivando anche a essere nominato baronetto. Foster morì nel 1758 e suo nipote, anch’egli chiamato Foster (1755-1834), utilizzò la ricchezza accumulata dal nonno e dal padre per acquistare Acton Hall e la tenuta vicino a Wrexham. Fu il fondatore della Society of Royal British Bowmen, essendo il tiro con l’arco un passatempo popolare per la nobiltà terriera durante la fine del Settecento.

    Se oggi consideriamo il batik un prodotto caratteristico dell’Africa occidentale, in origine era un’esportazione britannica in Africa, derivata dall’appropriazione olandese delle tecniche di stampa indonesiane. Divenne estremamente popolare in Africa e preferito al costume tradizionale come segno di prestigio sociale. Vestendo Cunliffe in questo modo nella statua del Victoria and Albert Museum, si sottolinea l’intreccio tra la costruzione dell’identità “africana” e quella “britannica” attraverso lo scambio: la Gran Bretagna commerciava tessuti in cambio di schiavi, molti dei quali venivano utilizzati per produrre cotone che poi veniva riportato in Gran Bretagna per rifornire l’industria tessile, che a sua volta si impadroniva dell’arte di un’altra colonia, depredata da colonizzatori partner e rivali.

    intrecci tra colonizzatori ☞

  • Earle Street – intitolata alla famiglia Earle, che prosperò durante un secolo con il commercio di persone schiavizzate. L’apripista fu John Earle, che arrivò a Liverpool da Warrington nel 1688, unendosi alla casa di William Clayton, deputato e noto commerciante. Nel 1709, John fu eletto sindaco di Liverpool e per l’epoca il suo coinvolgimento nel commercio triangolare era già molto noto. Alla sua morte, tre dei suoi figli – Ralph (1715-1790), Thomas (1719-1781) e William (1721-1788) – rilevarono il commercio di schiavi sulla costa africana. Ralph divenne sindaco di Liverpool nel 1769 e William Earle fu responsabile di almeno 117 viaggi di navi negriere lungo una carriera durata più di 40 anni: si calcola che fu il sesto commerciante di schiavi più attivo nel cinquantennio 1740-1790 dal porto di Liverpool (William Davenport, the Slave Trade, and Merchant Enterprise in Eighteenth-Century Liverpool , un testo del 2009, scritto da Nicholas Radburn per la Victoria University of Wellington). Dopo la morte di William nel 1788, i suoi figli Thomas (1754-1822) e William (1760-1839) rilevarono l’azienda di famiglia. Thomas Earle fu sindaco nel 1787 e utilizzò la ricchezza della famiglia per acquistare la tenuta di Spekeland; nel 1805 costruì Spekeland House vicino al sito di Earle Road. Nel 1830 gli Earle acquisirono una piantagione a Berbice, nell’allora Guyana britannica (ora Guyana), ottenendone la proprietà come parte di un debito inesigibile. Il figlio di Thomas, sir Hardman Earle, 1° Baronetto (1792-1877), commissionò a Harvey Lonsdale Elmes la costruzione delle Allerton Towers nel 1847: uno dei simboli nella città di Liverpool delle eccentriche mansioni costruite dagli armatori e dai mercanti di schiavi durante il periodo di massimo “splendore” del commercio portuale.
  • Gladstone Road prende il nome da sir John Gladstone, 1° baronetto (1764-1851), originario di Leith, in Scozia e proprietario di numerose piantagioni. Gladstone si trasferì nel 1786 a Liverpool per lavorare con Edgar Corrie, una partnership che ebbe molto successo, tanto che i due diversificarono rapidamente i loro affari anche nel commercio di tabacco della Virginia. Negli anni successivi Gladstone passò rapidamente al commercio di zucchero e cotone dalle Americhe (Guyana britannica) dove nelle sue piantagioni venivano schiavizzate centinaia di persone, e nei primi decenni del 1800 comprò anche alcune proprietà in Giamaica.

    Il figlio William E. Gladstone (1809-1898) fu educato per avere un enorme successo in politica (fu mandato a studiare a Eton nel 1821), piano che venne compiuto perfettamente giacché William Gladstone fu primo ministro britannico per ben quattro mandati (per 12 anni). Come primo ministro William Gladstone fu simpatizzante della causa irlandese però si oppose all’emancipazione immediata delle persone schiavizzate (fu anche un sostenitore della Confederazione durante la guerra civile americana). Quando gli inglesi abolirono finalmente la schiavitù nel 1830, la famiglia Gladstone ricevette oltre 90.000 sterline (una cifra enorme per l’epoca) a titolo di risarcimento per gli schiavi che dovette liberare.
  • Parr Street prende il nome da Thomas Parr (1769-1847) un commerciante di schiavi e banchiere a Liverpool, proprietario dell’enorme nave negriera Parr varata nel 1797. Questa nave non era solo la più grande nave negriera di Liverpool, ma con le sue 566 tonnellate (bm), era la nave più grande dell’intera tratta degli schiavi transatlantica britannica, potendo arrivare a “contenere” 700 persone ridotte in schiavitù. Si dice che la nave sia esplosa al largo della costa occidentale dell’Africa nel 1798, il che potrebbe indicare che trasportava polvere da sparo da scambiare con gli africani ridotti in schiavitù. Nel 1789 Thomas Parr fece costruire la casa che ancora oggi si trova all’angolo tra Parr Street e Colquitt Street, che nel 1822 divenne la sede della Liverpool Royal Institution, istituita dai mercanti di Liverpool nel 1814 e fondata per «la promozione della letteratura, della scienza e delle arti». Molti degli uomini che contribuirono a fondare l’istituzione avevano legami con il commercio e lo sfruttamento di schiavi, sia come trafficanti che come proprietari di piantagioni delle Indie occidentali.
  • Penrhyn Streetprende il nome da Richard Pennant, 1° baronetto Penrhyn (1737-1808) deputato nel parlamento britannico per Liverpool (dal 1761 al 1790) e proprietario di sei piantagioni da zucchero in Giamaica.

    Tagliatori di canna da zucchero in Giamaica

    Utilizzò parte dei profitti del commercio schiavista per investire nella costruzione di strade e banchine e nell’industria dell’ardesia in Galles. Il nipote di Richard Pennant, che ereditò le proprietà di famiglia alla morte di Lord Penrhyn, costruì il castello di Penrhyn, ora di proprietà del National Trust.

  • Sir Thomas Street – prende il nome sir Thomas Johnson (1664-1729), conosciuto come “il fondatore della moderna Liverpool. Fu sindaco nel 1695 e fu uno dei primi commercianti di schiavi di Liverpool, finanziando la seconda nave documentata a lasciare il porto destinata a trasportare persone schiavizzate. Nel 1700, insieme a Robert Norris di Speke Hall, Johnson finanziò il viaggio della nave The Blessing verso la Gold Coast (Africa occidentale) e poi alle Barbados, dove gli uomini e le donne ridotti in schiavitù dovevano essere scambiati con cotone, zenzero e zucchero. Johnson fu anche coinvolto nel “Virginia Trade“, che vide i commercianti di Liverpool commerciare tabacco prodotto da africani ridotti in schiavitù.

    Nel 1708, mentre prestava servizio come deputato per Liverpool nel parlamento britannico, spinse per la costruzione della prima darsena commerciale di Liverpool (e probabilmente del mondo), che fu inaugurata nel 1715. Questa impresa fu in gran parte responsabile dell’aumento del commercio estero di Liverpool e che molte navi negriere attraccassero qui durante il Diciottesimo secolo. Nel 1717 si offrì di acquistare la sezione francese dell’isola caraibica di St-Kitts per 61.000 sterline, presumibilmente per la continuazione della produzione di zucchero coltivato dagli schiavi, ma l’offerta non fu accettata. Investì molto nella South Sea Company, il cui interesse principale era il trasporto di schiavi nelle colonie spagnole nelle Americhe.
  • Tarleton Streetdedicata alla famiglia Tarleton, che ha prodotto tre generazioni di commercianti di schiavi e il cui membro più famoso fu Banastre Tarleton (1754-1833). Banastre è ricordato per aver combattuto con valore per gli inglesi durante la Guerra d’indipendenza americana, stesso impeto che utilizzò alla Camera dei Comuni per impedire la fine della tratta degli schiavi. Gli inizi del commercio di schiavi della famiglia di Banastre risalgono però a suo nonno, che passò “il business di famiglia” a suo padre, fino ad arrivare a lui e ai suoi tre fratelli John, Clayton e Thomas. Il generale Banastre Tarleton usò la sua fama di eroe della guerra coloniale per assicurarsi di diventare deputato di Liverpool nelle elezioni parlamentari del 1790, e una volta eletto, usò la sua posizione di deputato per proteggere gli interessi commerciali della sua famiglia, lottando strenuamente per garantire che la tratta degli schiavi fosse preservata dal governo britannico.

  • A questi luoghi topici di onomastica raccapricciante si aggiungono due casi particolari:
  • – Pennylane Street: esiste un forte dibattito su questa strada di Liverpool resa famosa e immortale nel 1967 grazie al suo utilizzo come titolo per una canzone dei Beatles – in cui comunque i Fabolous Four vanno a ritroso nel tempo (“meanwhile back”). Da un lato c’è chi sostiene che sia dedicata al mercante di Liverpool James Penny (morto nel 1799), che guidò 11 viaggi di navi negriere trasportando persone schiavizzate e che creò la sua propria compagnia marittima, la James Penny & Co. Dall’altro c’è chi sostiene come non ci sia alcuna possibilità di provare una correlazione diretta tra il nome della strada e James Penny, posizione assunta anche dalla dirigenza del Museo della Schiavitù di Liverpool.
  • – The Goree Piazzas: certezze invece sono quelle che esistono su un luogo che oggi non esiste più nella moderna Liverpool ma che ci parla di un vincolo profondo con quanto succedeva nelle coste dell’Africa occidentale, nello specifico in Senegal, nell’isola di Gorée. Dove troviamo oggi Beetham Plaza infatti, un tempo si ergeva la sede dei magazzini Goree, i primi magazzini a più piani costruiti a Liverpool. La loro costruzione fu proposta quando fu costruito il George’s Dock nel 1768, ma la costruzione vera e propria non iniziò fino al 1793 e fu ultimata nel 1802. Il loro nome ebbe origine più di tre decenni prima quando furono costruiti su un terreno chiamato Goree Causeway (dal nome della stazione commerciale di Gorée, in Senegal, che gli inglesi avevano sottratto ai francesi nel 1758 e che sarebbe stata restituita alla Francia nel 1763).

    I Magazzini furono demoliti in seguito ai danni provocati dai bombardamenti durante la Seconda guerra mondiale. Come nota segnaliamo che quei magazzini videro tra i loro fruitori sia Washington Irving (che aprì nei magazzini Goree un’attività commerciale intorno al 1817, impresa che poi fallì) e Nathaniel Hawthorne (che aveva un ufficio in Goree Piazza quando fu console statunitense a Liverpool nel 1853).

Toponomastica timidamente anticoloniale


È importante però segnalare che a Liverpool possiamo trovare anche delle strade, piazze, o altri spazi pubblici, dedicati a personaggi illustri della città che lottarono per l’abolizione della schiavitù.

Qui due esempi:

  • Roscoe Street (Roscoe Gardens/ Roscoe Lane): prende il nome da William Roscoe (1753-1831), considerato uno dei più grandi figli di Liverpool. Roscoe era un avvocato, banchiere, poeta, botanico, politico, collezionista d’arte e difensore della causa abolizionista.
  • Cropper street: prende il nome da James Cropper (1773-1840), un commerciante e filantropo, che arrivò a Liverpool all’età di 17 anni da Winstanley e che fu apprendista presso Rathbone Brothers (i primi commercianti di Liverpool che importarono cotone dall’America). Successivamente fondò la propria azienda: Cropper, Benson & Co. e la prosperità derivante dalla sua attività permise a Cropper di impegnarsi in una serie di attività religiose e filantropiche. Si concentrò nella campagna per l’abolizione della tratta degli schiavi, scrivendo opuscoli e provando a creare un fronte unito a livello politico. Le sue attività erano molto impopolari a Liverpool e molti mercanti delle Indie occidentali che possedevano piantagioni nei Caraibi lo attaccarono e criticarono. Nel biennio 1823-24 fu oggetto di una serie di attacchi sulle colonne dei giornali di Liverpool da parte di sir John Gladstone, padre del futuro primo ministro William Gladstone (e proprietario di più di 2000 persone schiavizzate nei suoi campi di lavoro forzato in Giamaica e Demerara, Guayana). Nel 1831 Cropper unì le forze con suo genero, Joseph Sturge, per formare gli Abolizionisti della Giovane Inghilterra, che si distinguevano dagli altri gruppi che lottavano per l’abolizione per la loro schiettezza e il loro approccio vigoroso.
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Capital Afro

Salvador de Bahía è una città costiera situata nel Nordest del Brasile, e il suo nome originario era Salvador de la Bahía de Todos los Santos. Quando pensiamo a questa città dobbiamo subito menzionare che siamo di fronte non solo alla prima capitale coloniale del Brasile (fondata dai portoghesi) ma anche a uno dei centri urbani di matrice europea, più antichi del continente Americano. Oggi Salvador conta una popolazione di quasi 2,5 milioni di abitanti e con una estensione municipale di 312 chilometri quadrati. È la capitale dello stato di Bahia e si trova 1446 chilometri lontano dalla capitale federale del Brasile, ovvero Brasilia. Il suo centro storico è conosciuto come il “Pelourinho” (o Pelo per i locali) che nel 1985 è stato dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’Unesco.

Foto di Diego Bsattistessa

Prima capitale del Brasile (1549-1763), San Salvador de Bahía è stata un punto di confluenza di culture europee, africane e amerindiane. Nel 1588 fu creato il primo mercato di schiavi del Nuovo Mondo, destinati al lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero. La città ha saputo conservare numerosi edifici rinascimentali di eccezionale qualità, spesso magnificamente stuccati, che caratterizzano in modo unico la città vecchia». Un dato curioso rispetto alla città, è che si dice che ospiti 365 chiese, uno per ogni giorno dell’anno.

Il futuro è ancestrale

Visitare oggi Salvador de Bahia de Todos los Santos significa fare un viaggio nelle radici africane dell’America Latina, toccando con mano l’eredità ancora viva di un passato fortemente legato all’altro lato dell’oceano: nello specifico l’eredità dei popoli a sud del deserto del Sahara, con un’enfasi sull’area occidentale bagnata dall’Atlantico (dal Senegal fino all’Angola). Farlo poi con un occhio attento alle celebrazioni religiose risulta ancora più interessante se si vogliono esplorare iniziative culturali e alcune tradizioni sincretiche di questa città brasiliana conosciuta come la Roma nera, perché è la città più nera fuori dall’Africa. Novembre 2023 è stato per esempio il mese del lancio ufficiale del progetto Salvador Capital Afro, evento internazionale multilivello che ha occupato tutti i 30 giorni del mese, mettendo al centro l’essenza dell’afrobrasialianità.

Salvador Capital Afro è un movimento nato nel 2022 e lanciato ufficialmente il 31 agosto 2023 (Giornata internazionale delle persone di discendenza africana) dalla prefettura di Salvador de Bahia: un ambizioso progetto culturale che vuole riconnettere la città e la sua gente con il loro patrimonio ancestrale, attraverso il rafforzamento e la valorizzazione delle espressioni artistiche, religiose e del patrimonio culturale della città, la cui origine risiede nel popolo afrodiscendente.

l’altra faccia della medaglia: Liverpool tenta il riscatto dalla vergogna

Il mese della coscienza nera

Dal 2011 il 20 novembre viene celebrato in Brasile come il giorno della coscienza nera, ma mentre per il resto del paese si tratta di un unico giorno di celebrazione e di riflessione, l’idea è che a Salvador de Bahia l’intero mese di novembre sia dedicato alla radice nera della città. È così che nel 2023 si è dato il via a un calendario di attività di portata internazionale per promuovere questa nuova idea di afroturismo e di riappropriazione dell’identità nera.

«Il protagonismo nero è un antidoto alla disuguaglianza e al razzismo strutturale», ha sottolineato Ivete Sacramento, attuale segretaria municipale delle riparazioni per le comunità afro della città brasiliana, per la rivista creata per l’occasione, il cui nome evidenzia quello del progetto: “Salvador Capital Afro”.

Il Festival Afropunk, il Festival Libertatum, il Festival Internazionale dell’Audiovisivo Nero del Brasile sono state tra le attività più importanti di un programma ambizioso che ha visto anche la riapertura del Museo Nazionale della Cultura AfroBrasiliana (Muncab). Tra le personalità nazionali e internazionali africane o afrodiscendenti si segnala la presenza di Wole Soyinka (primo africano a ricevere il Premio Nobel per la Letteratura nel 1986), delle cantanti Victoria Monét e Alcione, degli artisti Taís Araújo, Viola Davis, Angela Bassett, tra gli altri. Si tratta insomma di trasformare Salvador nella nuova capitale afro del continente, partendo da ciò che questa città è sempre stata, riconnettendosi con le identità africane e promuovendo la cultura afrodiscendente.

Contemporaneamente non va dimenticata ‘influenza britannica che ha saccheggiato anche il Brasile, commerciando i prodotti degli schiavi e rifornendo di materie prime le fabbriche di “Cottonopolis”. In Gran Bretagna si registrano simili iniziative di memoria di quelle che furono le connessioni con lo slancio della Rivoluzione industriale a Manchester:

Il riscatto della memoria

L’idea alla base del “nuovo” Muncab, che oggi si trova dentro l’antico Palazzo del Tesoro di Bahia, è quella di essere il cuore della cultura afrobrasiliana di Salvador de Bahia, che dal canto suo si fregia di essere la città più nera fuori dall’Africa. Un museo che possa concentrare da un lato artisti tradizionali e dall’altro le nuove generazioni di artisti neri, sia a livello nazionale che internazionale. Il Muncab vuole rappresentare il riscatto di una memoria che deve essere seme di cultura viva, per la produzione e diffusione di una identità afrobrasiliana da sventolare con orgoglio come bandiera della nuova Salvador, fiera del suo passato e proiettata verso un futuro fatto di ancestralità.

Foto di Diego Bsattistessa

All’interno del museo si entra in contatto con l’identità nera in molte delle sue sfaccettature, partendo dall’Africa per espandersi poi fuori dal continente per riflettere sull’orrore del traffico inumano di persone, passando per le varie forme di resistenza e resilienza, permettendo anche di comprendere e scoprire i contributi culinari, religiosi, musicali che le comunità africane hanno lasciato in eredità.

Foto di Diego Bsattistessa

Una eredità che si fa presente e che si manifesta in una collezione permanente di più di 400 opere (pitture, sculture, mobili, documenti, tra gli altri oggetti) che si intreccia ad altre attività come iniziative cinematografiche, spazi educativi e di rafforzamento identitario, includendo progetti di scambio internazionale con paesi africani fortemente legati alla città, come Angola, Mozambico e Guinea. Per la riapertura del museo nel 2023 è stata scelta l’esposizione Un Defeito de Cor (Un difetto di colore) che aveva già attirato quasi 100.000 visitanti nel Museo d’Arte di Rio de Janeiro.

 

Diversità e sincretismo

Il Muncab è sicuramente uno dei pilastri di Salvador Capital Afro, progetto che mira a promuovere la diversità artistica, culturale e gastronomica afrobrasiliana, e che vuole rendere protagonista anche tutto ciò che riguarda il sincretismo religioso e le pratiche rituali africane che con i secoli si sono fuse con il cristianesimo imposto dalla corona portoghese ai tempi della colonia.

Foto di Diego Bsattistessa

Sì, perché l’antica città di Bahia è stata per lungo tempo la capitale cristiana di tutto il Sud Atlantico oltre a essere la prima capitale del Brasile, luogo nel quale tra il Sedicesimo e il Diciannovesimo secolo arrivarono dal Golfo del Benin milioni di persone schiavizzate e trafficate (si stima tra 1,5 e 2 milioni di persone). Una migrazione forzata che ha obbligato a una stretta convivenza di aspetti culturali africani, europei e indigeni, producendo con il passare degli anni una cultura popolare che si esprime fortemente attraverso le sue celebrazioni, in modo particolare quelle religiose e artistiche.

Foto di Diego Bsattistessa

Il centro pulsante e identitario di questo mondo afrobrasiliano è come detto il nucleo antico della città, nello specifico la zona di Pelourinho, dove troviamo a ogni angolo elementi che ci ricordano dove siamo.

Liverpool ha dovuto confrontarsi con i nomi lordi di schiavismo

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]]> Western, merchandising e resistenza indiana https://ogzero.org/western-merchandising-e-resistenza-indiana/ Tue, 07 Mar 2023 15:23:50 +0000 https://ogzero.org/?p=10442 Da vecchi cinefili, un’attenzione quella per la pellicola imprescindibile per la nostra generazione, ci siamo appassionati innanzitutto alla ribellione inoculata dai film del regista indoamericano per eccellenza: Sam Peckimpah. Perciò non abbiamo saputo resistere alla proposta di Gianni Sartori. Fu efficace il contributo del cinema per liberare l’immaginario degli spettatori, soprattutto i boomer allora giovani, […]

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Da vecchi cinefili, un’attenzione quella per la pellicola imprescindibile per la nostra generazione, ci siamo appassionati innanzitutto alla ribellione inoculata dai film del regista indoamericano per eccellenza: Sam Peckimpah. Perciò non abbiamo saputo resistere alla proposta di Gianni Sartori. Fu efficace il contributo del cinema per liberare l’immaginario degli spettatori, soprattutto i boomer allora giovani, che cominciarono a occuparsi di emancipazioni di comunità represse, violate, estinte dall’Uomo bianco proprio con Leonard Peltier in carcere dal 6 febbraio 1976, accusato in modo palesemente falso di delitti attribuitigli dalla Fbi per il suo impegno nella liberazione del mondo dei nativi americani.


Preambolo cine-autobiografico

Risalenti a fine dei Sessanta e ai primi Settanta si sostanziano succulenti ricordi cinematografici, specchio della liberazione irripetuta di quegli anni. Oltre a qualche pellicola precedente, degli anni Cinquanta, vista da bambino nel cinema parrocchiale di Debba (tra cui Il massacro di Fort Apache – per Domenico Buffarini forse il primo esempio di una pellicola non apertamente razzista con i “pellerossa”). Successivamente, sempre in cinema parrocchiali – ma di Vicenza (Santa Chiara soprattutto) –, ci sono state altre visioni; al momento ne ricordo uno in particolare: E venne il giorno della vendetta che molti anni dopo avrei saputo ispirato dalla vicenda del “Chico” Sabaté. A cui fece seguito il corredo di cinema impegnato di tempi gravidi di speranze destinate a rimanere tali.
Insomma tutta quella roba lì con cui almeno un paio di generazioni si son fatte intortare pregustando improbabili “domani che cantano”. Di passaggio, quasi “de sforo”, le scarsamente filologiche rivoluzioni messicane evocate in ¡Vamos a matar, compañeros!, Tepepa, Faccia a faccia e il pretenzioso Giù la testa (In origine C’era una volta la rivoluzione) che ispirò – forse a sproposito – i giovani proletari milanesi della Banda Bellini.
Perfino, confesso, robaccia come Easy Rider o Woodstock. Con il senno di poi “armi di distrazione di massa”. Fine del preambolo.

PRIMO TEMPO:
SAND CREEK (Soldato blu)

Ma se c’è qualche film dell’epoca che merita di essere ricordato e conservato ritengo siano fondamentalmente due: Soldato blu e Piccolo grande uomo (anche se all’epoca apprezzai il primo, molto meno il secondo), entrambi del 1970.
Per altri aspetti (culturali, etnici..) aggiungerei Un uomo chiamato cavallo… forse.


L’idea di ritornarci su mi è venuta scoprendo che spesso vengono sottovalutati. Ritengo a sproposito in quanto all’epoca rappresentarono un rovesciamento non da poco delle ideologie dominanti, direi quasi un “cambio di paradigma”. O quantomeno risentirono pesantemente, subirono il contagio, dello spirito di rivolta che agitava le masse planetarie.
Anche se le vicende storiche si confondevano (forse troppo ?) rischiando di sfumare, con quelle personali, con gli amori e le scontate vicissitudini – tragiche o comiche – dei protagonisti. Per quanto impegnata, rimaneva pur sempre “Società dello spettacolo”, della merce, dell’intrattenimento, del consumo… Con un malcelato filo di ammirazione-invidia per un sistema tanto esperto (e privo di scrupoli) da saper trarre profitti anche condannando i massacri del passato, comunque imputabili a quel sistema (da ragionarci sopra effettivamente). D’altra parte – soprattutto se li confrontiamo con l’andazzo attuale – rimangono testimonianza preziosa di come anche “un altro cinema era possibile”. Detto questo, ho potuto verificare che tra chi conosceva Soldato blu, la maggior parte era convinta che il massacro, orrendo ma veritiero, descritto nel film corrispondesse a quello che ha goduto di maggior notorietà, ossia al Wounded Knee.
In realtà in Soldato blu si narra – con dettagli truculenti, ma corrispondenti a quanto era realmente accaduto (anche la scena terribile della fucilazione di donne e bambini rifugiati in una grotta) – della strage di stato subita dai Cheyenne (e da alcuni Arapaho qui accampati) il 29 novembre 1864 al Sand Creek).

Dove Pentola Nera aveva effettivamente innalzato la bandiera a stelle e strisce (nel film la sorregge andando incontro ai soldati per poi scagliarla a terra quando questi sparano e verrà simbolicamente calpestata dai cavalli al galoppo) insieme a quella bianca sul suo tepee. E qui si erano radunati donne e bambini pensando di sfuggire alle fucilate delle Giacche Blu. In realtà una sorta di milizia (seicento uomini del reggimento del Colorado) guidata dal colonnello Chivington, un predicatore fallito che intendeva riciclarsi in politica («Maledetto sia chiunque simpatizza con gli indiani! Io sono venuto a uccidere gli indiani e credo sia giusto e onorevole usare qualsiasi mezzo Dio ci abbia messo a disposizione per uccidere gli indiani» – così si era espresso Chivington contro il capitano Silas Soule, che durante il massacro aveva proibito ai suoi uomini di aprire il fuoco, e i tenenti Joseph Cramer e James Connor che protestavano contro l’ordine del colonnello di attaccare il villaggio di Pentola Nera. Ritenendolo un “assassinio nel senso pieno della parola”). Tra l’altro, la maggior parte dei “volontari” si erano arruolati per combattere gli indiani solo per sfuggire alla leva obbligatoria che li avrebbe inviati contro i sudisti (il che era molto più pericoloso ovviamente). Per cui inventarsi “battaglie sanguinose” con gli Indiani “ostili” garantiva di restarsene sostanzialmente al sicuro dai terribili combattimenti della Guerra Civile.
Gli indiani uccisi, in maggioranza donne e bambini, vennero scalpati e mutilati, per essere poi abbandonati in pasto gli animali della prateria.
Emblematico il caso di una donna – Kohiss – fuggita con tre bambini, uno per mano, uno sul petto (l’unico che si salvò) e un altro sul dorso. Purtroppo nella fuga due vennero colpiti e uccisi dagli spari dei bianchi. La donna conservò per tutta la vita il ricordo e le cicatrici di quel giorno, una testimonianza vivente delle ingiustizie subite dai nativi.

A titolo personale, di Soldato blu ricordo soprattutto un momento esemplare, indicativo di quale sia stato lo “spirito del tempo”: il film era terminato e nella sala le persone si stavano alzando per uscire quando apparve la didascalia, il commento finale con la voce fuori campo:

«Il 29 novembre del 1864, un reparto di 700 cavalleggeri del Colorado Cavalleria, attaccò un pacifico villaggio Cheyenne a Sand Creek, nel Colorado. Gli indiani sventolarono la bandiera americana e la bandiera bianca in segno di resa. Nonostante questo il reparto attaccò, massacrando 500 indiani; più della metà erano donne e bambini. Oltre 100 furono scotennati, molti corpi furono squartati, molte donne vennero violentate. Il generale Nelson Miles, capo di stato maggiore dell’esercito, così definì questo tremendo episodio: “È forse l’atto più vile ed ingiusto di tutta la storia americana”».

Tutti rimasero semplicemente bloccati, immobili, annichiliti. In un silenzio assoluto che però pareva un urlo. Nessuno fiatava, nessuno faceva il minimo movimento – letteralmente. Ricordo davanti a me due persone già in procinto di alzarsi rimanere quasi ripiegate. Chissà, forse pensavamo tutti al Vietnam, al relativamente recente massacro di Mỹ Lai (16 marzo 1968)…  Certo, per chi fino a poco tempo prima (riguardatevi i western, orrendi per quanto riguarda gli indiani, degli anni cinquanta e sessanta) era abituato a film dove i valorosi pionieri si dedicavano al tiro a segno sui nativi, lo scarto era notevole. E soprattutto era chiaro che si parlava anche del presente.

SECONDO TEMPO:
WASHITA E LITTLE BIGHORN (Piccolo grande uomo)

Nella realtà il capo Pentola Nera (sostanzialmente un pacifista, disposto non solo al dialogo, ma anche a compromessi con l’invasore) sfuggì al massacro (insieme a Piccolo Mantello, poi “ascaro” di Custer). Così come alcuni Arapaho (Mano Sinistra, No-ta-neee…). Era però scritto nel suo destino di dover soccombere insieme ad altri superstiti nel massacro del Washita di quattro anni dopo (27 novembre 1868). Operazione questa condotta dal “generale” Custer. Questa seconda strage subita dai Cheyenne (e nuovamente anche dagli Arapaho, intervenuti per salvare un gruppo di bambini Cheyenne inseguiti dai cavalleggeri statunitensi) ) viene raccontata in “Piccolo grande uomo”. Nel film il “mulattiere” Dustin Hoffman lo rinfaccerà a Custer a Little Bighorn prima della battaglia finale. Ma come quella del Sand Creek in Soldato blu, anche la strage del Washita in Piccolo, grande uomo viene talvolta confusa con Wounded Knee.


L’apoteosi nel film viene raggiunta con la grande vittoria dei nativi (Lakota,Cheyenne, Araphao…) guidati da Cavallo Pazzo (Oglala), Fiele e Toro Seduto (Hunkpapa) e Due Lune (Cheyenne) contro il militarismo colonialista delle giacche blu a Little Bighorn (25 giugno 1876). Dove il criminale di guerra colonnello George A. Custer, comandante del 7° Cavalleria, pagò infine per i suoi peccati.
Se vogliamo, la rivincita dei guerrieri usciti direttamente dal neolitico sui cadetti di West Point. Per una volta almeno.
Niente riferimenti a Wounded Knee quindi in questi due classici. Verrà invece citato (con una evidente forzatura, strumentalmente), oltre che in qualche serie televisiva, in Hidalgo. Un film discutibile, ma che si in parte si salva per l’epica scena finale quando i mustang destinati a essere ammazzati vengono liberati (soprattutto perché a un certo punto essi stessi abbattono gli steccati). Mi piace pensare che avrebbe commosso anche Bill Rodgers.

Come è noto dopo la vittoria del Little Bighorn le cose per gli Indiani precipitarono. Costretto, per non veder morire di fame e di freddo il suo popolo braccato, Tashunka Witko (Cavallo Pazzo) si consegnò ai soldati e venne assassinato (5 settembre 1877). Colpito con una baionetta dal soldato William Gentles, mentre era trattenuto dall’indiano collaborazionista Piccolo Grande Uomo (quello storico naturalmente, non quello del film che si ispira – forse – a un Piccolo Uomo Bianco vissuto a lungo tra gli indiani). Il suo cadavere, prelevato dai familiari, venne portato in un luogo nascosto nella valle del Wounded Knee.

Tatanka Yotanka (Toro Seduto), dopo essersi rifugiato nel 1877 in Canada, nel 1881 fu costretto a rientrare negli Stati Uniti dove venne arrestato. In seguito per un breve periodo si prestò a lavorare, interpretando se stesso, nello spettacolo viaggiante dello sterminatore di bisonti Buffalo Bill, ma ogni dollaro guadagnato lo donava ai poveri e ai senzatetto della sua tribù. Coincidenza? Uno dei maggiori esponenti dell’American Indian Movement, Russel Means (1939-2012, le sue ceneri vennero sparse nelle Black Hills), già tra gli organizzatori dell’occupazione dell’isola di Alcatraz e di Wounded Knee, divenne un attore tra i più richiesti nei film sugli indiani. Basti pensare al ruolo di Chingachgook nel film L’ultimo dei Mohicani di Michael Mann.
Toro Seduto, nel dicembre 1890, forse perché ritenuto troppo vicino al culto della “Danza degli Spiriti” del profeta Wovoka (un Paiute), venne assassinato nel corso di un arbitrario arresto. La banda dei Lakota Minneconjou di Heȟáka Glešká (Alce Chiazzato, più conosciuto come Piede Grosso, fratellastro di Tatanka Yotanka e cugino di Tashunka Witko), temendo le rappresaglie dei militari e dei collaborazionisti indiani, tentò di fuggire a Pine Ridge (da Nuvola Rossa), ma venne appunto massacrata a Wounded Knee.

Nel frattempo (settembre 1886) anche Goyaałé (Geronimo), l’irriducibile apache Bedonkohe (ma in genere assimilato ai Chiricahua) aveva consegnato le armi. Così come Hinmaton Yalaktit (Capo Giuseppe) intercettato e bloccato con i suoi Nasi Forati al confine canadese dopo un’incredibile marcia di 2740 chilometri (settembre 1877).

Fine della storia quindi. Anche se nella seconda metà del Novecento l’American Indian Movement (Aim) rilancerà la questione indiana dissotterrando l’ascia di guerra.

Epilogo

La canzone Soldier Blue (Soldato blu) del film omonimo era scritta e interpretata dall’indiana Piapot Buffy Saint-Marie che in anni successivi scrisse anche Bury My Heart at Wounded Knee (in riferimento al noto libro di Dee Brown). Frase che venne tracciata sui muri nel 1973, durante l’occupazione. Nella canzone viene ricordata anche la militante Anna Mae Aquash, violentata e assassinata, le mani mozzate. Una vicenda impregnata di ombre e sospetti di “guerra sporca” (nei confronti sia del Fbi che delle milizie native filogovernative e anche dell’Aim), presumibilmente legata a quella di Leonard Peltier. Dopo gli oltre settanta giorni di occupazione, negli anni successivi, numerosi partecipanti e membri o simpatizzanti dell’Aim morirono in maniera non chiara, “accidentale” (si parla di circa 300 vittime). Si ritiene che le milizie native filogovernative abbiano così voluto “regolare i loro conti” nelle riserve.

E così il discorso si chiude, ma non il Cerchio irreparabilmente spezzato, frantumato della Nazione indiana. Purtroppo.

 

RECENSIONE DI LEONARD PELTIER (6 febbraio 2023)

Il mio saluto ai miei amici, sostenitori, alle persone che mi sono vicine. So di aver già detto queste parole mille volte, o cose simili. E ogni volta che le dico, è come se fosse la prima volta. Dal profondo della mia anima, vi ringrazio per il vostro sostegno.
Vivere qua dentro, anno dopo anno, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, cambia la tua concezione del tempo e persino il modo di pensare, più di quanto possiate immaginare.
Ogni giorno, al mattino, devo dire una preghiera per tenere alto il mio spirito e quello del nostro popolo.
Le lotte dell’American Indian Movement sono le lotte di tutti noi, e per me non sono mai finite. Continuano, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno.
A volte penso di poter sembrare un po’ troppo sensibile quando parlo, ma l’amore per il mio popolo e l’amore che voi sostenitori mi avete dimostrato nel corso degli anni è ciò che mi mantiene in vita.
Non leggo le vostre lettere con la testa. Le leggo con il cuore.
La mia detenzione è solo un altro esempio del trattamento e delle politiche che il nostro popolo ha dovuto subire fin dall’arrivo dei primi europei.

Sono un uomo comune e vengo da una società che vive e lascia vivere, come tutta la nostra gente. Ma dall’arrivo di Cristoforo Colombo, ci siamo trovati costretti a vivere in uno stato di sopravvivenza.
Non c’è nulla nel mio caso, nulla in quel trattato tra il popolo americano e il governo che è la Costituzione, che possa giustificare la mia prolungata incarcerazione.
La storia ci insegna che hanno imprigionato o annientato il nostro popolo, si sono appropriati della nostra terra e delle nostre risorse. Ogni volta che la legge era a nostro favore, hanno ignorato la legge. O l’hanno cambiata secondo i loro piani. Dopo aver ottenuto ciò che volevano, magari una generazione dopo, qualche politico si è scusato.
Non hanno mai sinceramente negoziato con noi, a meno che non avessimo qualcosa che volevano a tutti i costi e non potevano ottenere altrimenti; o nel caso che potessimo creare imbarazzo per il mondo; o che fossimo una sorta di opposizione. L’opposizione è sempre stata la ragione principale che li ha spinti a trattare con noi.

Potrei continuare a parlare dei maltrattamenti subiti dal nostro popolo, come del mio caso, ma l’hanno già detto le Nazioni Unite: il motivo per cui gli Stati Uniti mi hanno tenuto rinchiuso, è perché sono un Indiano d’America. [come nel film di Montaldo, Vanzetti dice alla corte: «E mì son anarchìc»]
L’unica cosa che mi rende fondamentalmente diverso dagli altri Indiani d’America che sono stati maltrattati, che sono stati derubati delle loro terre, o che sono stati imprigionati dal nostro governo, è che il mio caso è stato almeno messo agli atti del tribunale. La violazione dei miei diritti costituzionali è stata dimostrata in tribunale. La falsificazione di ogni prova usata per condannarmi è stata dimostrata in tribunale. Lo stesso Consiglio delle Nazioni Unite, composto da 193 nazioni, ha chiesto la mia liberazione, constatando che sono un prigioniero politico.

Nel mio caso di prigioniero politico non è necessario uno scambio di prigionieri. Lo scambio che devono fare è passare dalla loro politica di ingiustizia a una politica di giustizia.
Non importa quale sia il vostro colore e la vostra etnia. Nero, rosso, bianco, giallo, marrone: se possono farlo a me, possono farlo a te.
La Costituzione degli Stati Uniti è appesa a un filo.
Di nuovo voglio dire, dal mio cuore al vostro cuore, in tutta sincerità: fate del vostro meglio per educare i vostri figli. Insegnate loro a difendersi: fisicamente, mentalmente, spiritualmente. Rendeteli consapevoli della nostra storia.
Insegnate loro a piantare una foresta che possa dare frutti, o qualsiasi altra pianta che possa provvedere a loro, in futuro.

Ancora una volta, dal mio cuore al vostro cuore, piantate un albero per me.

Nello spirito di Cavallo Pazzo.

Doksha («ci vediamo», nella lingua Navajo)

Leonard Peltier

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L’equilibrismo di tre pesi diversi in Nordamerica https://ogzero.org/lequilibrismo-di-tre-pesi-diversi-in-nordamerica/ Sat, 14 Jan 2023 00:52:49 +0000 https://ogzero.org/?p=10062 Dietro alla relativa eco ottenuta dall’ennesimo incontro tra i tre paesi del Nordamerica si nascondono invece tematiche annose difficilmente risolvibili: i cartelli dei narcos che sull’altra riva del Rio Bravo chiamano War on drugs e che sviluppano  business sempre diversi con l’obiettivo dei mercati anglosassoni del continente; mentre visti dalla frontiera settentrionale i flussi migratori […]

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Dietro alla relativa eco ottenuta dall’ennesimo incontro tra i tre paesi del Nordamerica si nascondono invece tematiche annose difficilmente risolvibili: i cartelli dei narcos che sull’altra riva del Rio Bravo chiamano War on drugs e che sviluppano  business sempre diversi con l’obiettivo dei mercati anglosassoni del continente; mentre visti dalla frontiera settentrionale i flussi migratori si ammassano sulla riva opposta del Rio Grande, come in un grande hub, dove comunque si riescono a spuntare salari maggiori, dove in qualche modo si può “aspettare”. Però sia gli uni – i flussi di droga – che gli altri – i flussi migratori – risalgono lungo tutto il territorio messicano a partire dalla frontiera meridionale. Infatti non manca nemmeno nell’incontro del Distrito Federal di Ciudad de México il confronto tra comunità native e afrodiscendenti – vessate e umiliate dai colonialisti e dai loro discendenti – e bianchi che diventano ancora più feroci nella difesa di privilegi anacronistici. Ma non sono rappresentate da nessuno dei partecipanti, sono pura merce di scambio: per creare difficoltà ai paesi antagonisti (non ammessi alla Cumbre di L.A.) si accettano migranti da quelle frontiere… e si sbattono le porte in faccia agli altri.
Amlo è riuscito nell’intento di apparire all’altezza dei due “amici” anglosassoni? Diego Battistessa ha analizzato la tre giorni de los tres amigos anche mantenendo accesa la luce proveniente dal continente che si apre a Sud di quel confine meridionale messicano che non trova spazio nell’economia autosufficiente del vertice.

fin qui OGzero


Dal 9 all’11 gennaio si sono riuniti a Città del Messico “I tre amici”, in spagnolo Los tres amigos. Non stiamo parlando di Alfonso Cuarón, Alejandro González Iñárritu e Guillermo del Toro, direttori di cinema messicani, conosciuti appunto come “Los tres amigos” – e nemmeno Steve Martin, Chevy Chase e Martin Short (protagonisti della omonima pellicola di John Landis del 1986 all’origine dell’espressione) –, ma bensì dei capi di stato di Canada (nella veste del primo ministro), Usa e Messico (presidenti delle reciproche Federazioni di stati). Trudeau, Biden e Lopez Obrador hanno dato vita al vertice dei leader nordamericani per stabilire delle politiche comuni su temi chiave per “i tre paesi”: in special modo migrazione, sicurezza (leggi narcotraffico) e commercio. Questo incontro trilaterale è il decimo della sua storia, iniziata il 23 marzo 2005 sotto il nome di Alliance for North American Security and Prosperity, con la riunione a Waco (Texas) di George W. Bush (USA) , Paul Martin (Canada) e Vicente Fox (Messico).

Un evento che segna questo inizio 2023 ma che affonda le radici nel 2022. Prima di addentrarci infatti dentro l’analisi di quanto discusso dai tre leader nordamericani nell’evento di Città del Messico è necessario volgere lo sguardo all’anno appena trascorso per capire con quale stato d’animo Trudeau, Biden e Lopez Obrador, si sono seduti al tavolo delle trattative.

 

Mexico – United States of America

Tensione diplomatica

In primo luogo non si può non sottolineare che questo vertice risana una frattura che si era palesata durante un altro importante summit, quello delle Americhe, celebratosi a Los Angeles dal 6 al 10 giugno 2022. Un incontro del quale vi abbiamo parlato in queste pagine  (dove ho potuto partecipare di persona) e dove, tra le altre, pesava proprio l’assenza di Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo). La presa di posizione del presidente messicano rispetto alla sua non partecipazione a questo importante incontro, che si celebra ogni 4 anni, riguardava l’esclusione a priori di Cuba, Nicaragua e Venezuela, paesi ritenuti antidemocratici dagli Usa. Tra il 9 e l’11 gennaio dunque, Lopez Obrador e Biden hanno potuto tornare a negoziare “face to face” in un contesto internazionale, dove strette di mano e foto di rito hanno allentato (almeno a favore di telecamera) una tensione che ancora era nell’aria.

War on drugs di Nixon: mezzo secolo fa

Non è da sottovalutare neanche quanto sono riusciti a realizzare Messico e Usa – nello specifico le autorità messicane –, lavorando insieme alla Drug Enforcement Agency (Dea) degli Stati Uniti rispetto alla lotta ai cartelli che controllano le rotte del narcotraffico. La cattura a luglio 2022 in Messico del narcotrafficante Rafael Caro Quintero (uno dei fondatori del Cartello di Guadalajara insieme a Miguel Ángel Félix Gallardo ed Ernesto Fonseca Carrillo) considerato uno dei latitanti più ricercati del mondo e reso famoso al grande pubblico per la serie Narcos, è stato un gran risultato.

Amlo antidroga

Operazione che ha fatto vedere in modo chiaro la volontà dell’amministrazione di Amlo di lottare contro questa piaga (il Messico ha dichiarato guerra al narcotraffico nel 2007) e di appoggiare le autorità Usa nella persecuzione di questi criminali. Persecuzione, cattura ed estradizione, quest’ultima proprio la più temuta dai leader dei cartelli che sanno di poter vivere una vita “alla grande” nelle carceri messicane ma di tutt’altra storia si tratta se invece la pena è da scontare in una prigione “gringa”.

La catena delle estradizioni

In questo senso il Messico nel 2022 ha estradato più di 50 criminali legati al narcotraffico, principalmente verso gli Stati Uniti, assestando duri colpi ai cartelli di Sinaloa, del Golfo, di Arellano Félix e del gruppo criminale Guerreros Unidos (quest’ultimo collegato al caso dei 43 studenti di Ayotzinapa nel 2014, episodio della politica avversa alle realtà indigene del Mexico). Oltre a Rafael Caro Quintero, altri “narcos” di spicco catturati o estradati nel 2022 sono Mario Cárdenas Guillén, uno dei capi del Cartello del Golfo (conosciuto come “M-1” o “El Gordo), Adán Casarrubias Salgado, conosciuto come El tomate, che si suppone essere il leader del gruppo Guerreros Unidos e Carlos Arturo Quintana, alias “El 80”, uno dei capi del gruppo criminale La Línea, nell’ orbita del Cartello di Juárez. E ancora Juan Francisco Sillas Rocha, uomo di fiducia degli Arellano Felix e Jaime González Durán, alias El Hummer, parte del gruppo di comando degli Zetas.

Welcome, Mr President

Insomma una collaborazione che ha portato buoni frutti e che proprio pochi giorni prima dell’inizio di questo nuovo vertice dei leader nordamericani ha avuto la sua ciliegina sulla torta. Si perché non è certo passato inosservato il tempismo con il quale, proprio 4 giorni prima dell’inizio dell’incontro trilaterale, le autorità messicane hanno realizzato un imponente operazione che ha portato alla cattura di Ovidio Guzmán, uno dei figli (“los chapitos”) dello storico capo del Cartello di Sinaloa, Joaquín El Chapo” Guzmán.

Alle 5 del mattino di giovedì 5 gennaio, diversi elicotteri, uno dei quali armato di mitragliatrice, hanno aperto il fuoco contro bersagli a terra nella città di Culiacán, stato di Sinaloa. Così è iniziato il blitz delle forze federali messicane che hanno catturato Ovidio, conosciuto anche come El Ratón” o “El Gato Negro, sul quale pendeva una taglia di 5 milioni di dollari. Il Cartello ha però reagito in modo rapido e violento, Culiacán è rimasta ostaggio di più di 50 blocchi stradali realizzati da uomini armati appartenenti all’esercito di Guzmán, criminali che hanno anche assaltato l’aeroporto per evitare che Ovidio venisse portato via dalla città.

Il governo messicano ha notificato all’amministrazione di Joe Biden l’azione portata a termine con successo, una sorta di gesto di buona volontà che Amlo ha presentato al presidente degli Stati Uniti d’America prima del suo arrivo a Città del Messico.

Lunga vita all’infame Titolo 42

Sul tema migratorio bisognerebbe scrivere un articolo a parte. È comunque chiaro che questo aspetto è stato centrale nella strategia dell’amministrazione Biden fin dall’inizio della presidenza nel 2021: basti considerare che il primo viaggio fatto dalla vicepresidente Kamala Harris (giugno 2021) riguardava proprio la questione migratoria, ed è stato realizzato tra Messico e Guatemala. Amlo è stato un buon alleato per le politiche migratorie dei democratici statunitensi che durante questi ultimi due anni hanno dovuti fare i conti con l’aumento dei flussi e della pressione verso la frontiera nord, nella misura in cui si minimizzavano (o eliminavano) le barriere per prevenire la diffusione del Covid-19.

L’esternalizzazione delle frontiere in salsa guacamole

Frontera norte

Biden nel 2022 ha cercato per ben due volte di far eliminare il famoso Titolo 42 (a maggio e a dicembre) ma in entrambe le occasioni la maggioranza repubblicana dei giudici ha fermato l’azione della Casa Bianca. Nel frattempo nell’ottobre del 2022 il governo del Messico dava per concluso il programma chiamato Quédate en Mexico (rimani in Messico): programma creato nella legislatura dell’ex presidente Donald Trump (2017-2021) che stabiliva che i migranti che volevano entrare negli Stati Uniti d’America legalmente, dovevano attendere la risoluzione delle procedure burocratiche in territorio messicano. Una misura che il Messico ha subito suo malgrado e che oltre a creare un enorme caos alla frontiera, ha generato multiple violazione dei diritti fondamentali delle persone migranti.

Nonostante ciò, il 2022 si è concluso con dei record storici di transiti migratori irregolari verso gli Usa, situazione che ha esposto il fianco di Joe Biden agli attacchi dei repubblicani che parlano di vera e propria “invasione”, minacciando di processare il segretario alla sicurezza nazionale, Alejandro Mayorkas. Da qui l’ultimo “asso nella manica” giocato dall’attuale presidente a stelle e strisce proprio pochi giorni prima del vertice dei Tre amigos: ancora una volta un piano di bastone e carota.

«Do not come!»

Proprio mentre a Culiacán l’esercito messicano battagliava con il Cartello di Sinaloa per arrestare Ovidio Guzmán, Joe Biden annunciava nuove misure per rafforzare il controllo del confine con il Messico e in cambio prometteva l’apertura di nuovi canali di immigrazione legale, soprattutto alle persone provenienti da Venezuela e Cuba (che vivono la più grande crisi migratoria della loro storia) oltre a Nicaragua e Haiti. Gli Usa, ha detto Biden, accetteranno 30.000 migranti al mese provenienti dai sopracitati paesi, a patto che queste persone in movimento possano dimostrare legami familiari con emigrati già presenti nel territorio statunitense. Allo stesso modo verrà rafforzato il controllo nella frontiera sud e non ci sarà “nessuna pietà” per chi cerca di passare il confine in modo illegale. «Do not come!» (Non venite), continua a recitare Biden, il mantra gringo che sentiamo ripetere ai democratici da giugno 2021, quando proprio in Messico lo disse Kamala Harris per la prima volta in questa amministrazione – e ribadito durante la Cumbre di Los Angeles.

Dossier top secret

Per concludere, a Biden in questi giorni non sono mancati neanche problemi interni. Infatti proprio lunedì 9 gennaio, mentre stavano iniziando i lavori del vertice si è saputo di una importante indagine che lo vede implicato direttamente. Sarebbero infatti stati trovati circa una dozzina di documenti riservati su Iran, Ucraina e Gran Bretagna nell’armadio di un ufficio che l’attuale presidente ha utilizzato mentre collaborava con l’Università della Pennsylvania (2017- 2021), periodo nel quale non ricopriva nessun incarico politico. Una volta trovati i documenti è stato informato il Dipartimento di Giustizia, che ha nominato un pubblico ministero, John Lausch (uomo scelto a suo tempo da Donald Trump), per portare avanti le indagini. Il problema (un altro) è che mentre erano in corso le indagini preliminari per determinare se sussistono gli indizi di reato, sono venuti alla luce nuovi documenti “top secret”, stipati nel garage della residenza di Biden nel Delaware, suo feudo elettorale. Ora bisogna capire se ci sono gli estremi per istruire un processo e in quel caso si staglierebbero nubi molto oscure nell’orizzonte dei democratici, visto che tra poco l’ottantenne presidente Usa dovrà far sapere se correrà per un secondo mandato nel 2024 o se lascerà il testimone del partito a qualcun altro.

Canada

Sappiamo che il Canada è un paese dal basso profilo, nel senso che non riempie di scandali i “rotocalchi” internazionali. Nonostante ciò, questa vetrina internazionale offerta da Amlo è però servita al primo ministro Justin Trudeau per sottolineare il rispetto dovuto alle comunità indigene e alla protezione dell’ambiente.

Pellegrinaggi penitenziali

Parole che riportano subito all’immagine simbolo del 24 luglio 2022, quando Jorge Bergoglio atterrava dopo un volo di 10 ore all’aeroporto canadese di Edmonton per iniziare un viaggio di 6 giorni nel quale avrebbe chiesto perdono ai rappresentanti di vari popoli indigeni (Inuit e Métis tra gli altri) per la complicità della Chiesa cattolica negli abusi perpetrati nei collegi dove venivano internati i bambini indigeni.

Più di 150.000 di loro vennero allontanati dalle loro case dal 1800 fino agli anni Settanta del secolo scorso e internati con la forza nelle scuole nel tentativo di isolarli dall’influenza delle loro famiglie e della loro cultura. Queste scuole/collegi erano finanziati dalla Chiesa cattolica e dal governo e il loro compito era quello di integrare alla forza le nuove generazioni di indigeni alla società canadese di religione cristiana. Dopo la visita di papa Francesco, il governo canadese ha effettuato una dichiarazione nella quale riteneva insufficienti le scuse del Pontefice, che non aveva fatto menzione nei suoi discorsi agli abusi fisici e sessuali perpetrati contro i bambini indigeni. Lo stesso Justin Trudeau aveva chiesto perdono alle popolazioni indigene native il 25 giugno 2021 dopo che la Federation of Sovereign Indigenous Nations (FSIN, che rappresenta nazioni indigene native a Saskatchewan) aveva riferito del ritrovamento di circa 750 tombe anonime in una fossa comune in un collegio in Canada: nel luogo dove prima si ergeva la  Marieval Indian Residential School nella provincia di Saskatchewan. Un tema ancora scottante in Canada e che ha segnato il governo di Trudeau.

I temi del vertice

«Condividiamo una visione comune per il futuro, basata su valori comuni», le parole di Biden a corollario di un incontro che si è centrato principalmente su sicurezza, economia, clima e migrazione.

Autosufficienza economica

Una delle azioni concrete è stata la creazione di un comitato di 12 membri (4 per ogni paese) per la pianificazione e la sostituzione delle importazioni in Nordamerica. L’idea è che i tre paesi possano raggiungere insieme l’autosufficienza, creando un‘unione economica forte ed efficace.

In questo senso Trudeau ha sottolineato che insieme i tre amici superano il pil dell’Unione Europea e che possono essere il volano di una «economia continentale, solida e resiliente».

Respingimenti limitati

Il tema migratorio è stato centrale e se da un lato Amlo ha chiesto a Biden di promuovere riforme per agevolare la legalizzazione di milioni di messicani che vivono e lavorano in Usa, dall’altro lo ha ringraziato per non aver costruito nemmeno “un metro” di muro (il famoso muro promesso da Trump). Il Canada, che riceve una minore migrazione di cittadini messicani, dal canto suo ha posto in marcia il programma di concessione di visti di lavoro a giornalieri messicani, un piano di mobilità regolare che già include 25.000 persone. Il focus però è stata la frontiera del Rio Bravo o Rio Grande, a seconda della riva da cui si guarda, e della pressione migratoria che viene esercitata in questo punto. Come detto in precedenza il nuovo piano di Biden è stato annunciato pochi giorni prima del vertice, spazio nel quale è stato reiterato e confermato da Amlo.

Il mercato di Fentanyl

Lopez Obrador ha poi posto sul tavolo un’altra questione, quella che riguarda il fentanyl, e la sua sempre maggiore diffusione in Usa e Canada. Si tratta di una droga molto potente, che viene confezionata in modo illegale in Messico e che viene poi esportata nel Nord del continente. Dal sito del Centers for Disease Control and Prevention:

«Il fentanyl è un oppioide sintetico che è fino a 50 volte più forte dell’eroina e 100 volte più forte della morfina. È un importante fattore che contribuisce alle overdose fatali e non fatali negli Stati Uniti. Esistono due tipi di fentanyl: fentanyl farmaceutico e fentanyl prodotto illegalmente. Entrambi sono considerati oppioidi sintetici. Il fentanyl farmaceutico è prescritto dai medici per trattare il dolore intenso, specialmente dopo un intervento chirurgico e negli stadi avanzati del cancro.
Tuttavia, i casi più recenti di overdose correlate al fentanyl sono collegati a quello prodotto illegalmente, che viene distribuito nei mercati di stupefacenti per il suo effetto simile all’eroina. Viene spesso aggiunto ad altri farmaci a causa della sua estrema potenza, rendendo i farmaci più economici, più potenti, più stimolanti e più pericolosi».

In questo senso, il presidente del Messico si è impegnato con Stati Uniti e Canada a lottare contro il traffico di fentanyl, confermando che questa attività è stata messa tra le priorità delle Forze Armate del paese latinoamericano.
Il vertice si è chiuso in un clima di cordialità e mutuo intendimento, un gioco politico di do ut des , nel quale ognuno dei tre attori ha “giocato” pensando al cortile di casa sua.

Lo scenario latinoamericano visto dal vertice dei tre amici

Durante il vertice Amlo ha chiesto a Biden e Trudeau di «porre fine a questo oblio, abbandono e disprezzo verso l’America Latina». Parole lapidarie che però rendono bene l’idea di come le forti economie nordamericane facciano “orecchie da mercante” rispetto alla situazione attuale del resto del continente, in preda a forti convulsioni sociali e attacchi profondi alle fondamenta democratiche, così faticosamente costruite negli anni passati.

Tre casi su tutti ci portano a una riflessione sullo stato della regione: Brasile, Perù e Bolivia.

In Brasile abbiamo visto l’8 gennaio migliaia di sostenitori di Bolsonaro assaltare la piazza dei tre poteri a Brasilia. Un atto di superbia morale, terrorismo interno e sdegno verso le istituzioni che ha connotato uno dei giorni più tristi per il Brasile.

In Perù, dove i fatti di dicembre che hanno portato all’arresto dell’ex presidente Pedro Castillo e la nomina della sua vice, Dina Boluarte come prima donna a dirigere il paese sudamericano, le repressioni delle proteste hanno causato decine di morti e centinaia di feriti. Il popolo che si rispecchia in Castillo, contadini e indigeni delle zone rurali, grida que se vayan todos (che se ne vadano tutti) chiedendo elezioni anticipate e la cacciata della corruzione dalle istituzioni: le forze dell’ordine rispondono con proiettili ad altezza d’uomo. Per capire il livello dello scontro basti pensare che a Lima la procura ha chiesto di indagare Boluarte per «presuntos delitos de genocidio, homicidio calificado y lesiones graves».

In Bolivia nel periodo natalizio è stato arrestato il governatore del dipartimento di Santa Cruz, (zona che fa parte della chiamata mezzaluna bianca) dove la destra conservatrice si oppone da anni a Evo Morales prima e ad Arce ora. Luis Fernando Camacho (il governatore) è stato detenuto per i fatti legati alla crisi politica che ha seguito le elezioni del 2019, la cacciata di Evo dal paese e l’insediamento di Jeanine Áñez come presidente del paese (oggi anche lei in carcere): dopo la sua cattura sono iniziate manifestazioni per chiederne la liberazione.


Proprio di questi eventi distribuiti tra Brasilia, Cuzco, Ayacucho, Arequipa, Puno e di considerazioni sui fatti boliviani di questi giorni si è parlato su Radio Blackout il 12 gennaio 2023 con Diego, concludendo ad anello il discorso, ritornando all’inizio di questo articolo:
“Sacudidas en la marea rosa”.


Insomma, uno scenario di instabilità che vede proprio nell’occhio del ciclone tre dei paesi della nuova “ondata” della Marea Rosa fare i conti con la polarizzazione sociale e politica. Se a questo aggiungiamo gli appuntamenti elettorali importanti di questo 2023, specialmente in Argentina, dove il kirchnerismo sembra partire in svantaggio per l’elezione del prossimo presidente e l’attentato sventato contro Francia Marquéz (vicepresidente) in Colombia, possiamo capire quanto il bandolo della matassa sia difficile da districare.

Un aiuto può venire da Moleskine Sur, un ottimo compagno di viaggio nei meandri delle realtà latinoamericane proiettate verso un 2023 dai risvolti molto incerti.

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Segnali di fumo dal Bosforo a Washington https://ogzero.org/segnali-di-fumo-dal-bosforo-a-washington/ Fri, 13 Nov 2020 12:59:02 +0000 http://ogzero.org/?p=1757 Annusate le possibilità di nuove concessioni con il cambio della guardia alla Casa Bianca si fanno notare i movimenti del presidente turco per sondare e preparare una nuova faccia rispetto a quella adottata con l’abbandono da parte di Trump degli interessi americani in Medio Oriente, delegati a sauditi e israeliani, tollerando le scorrerie turche; mentre […]

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Annusate le possibilità di nuove concessioni con il cambio della guardia alla Casa Bianca si fanno notare i movimenti del presidente turco per sondare e preparare una nuova faccia rispetto a quella adottata con l’abbandono da parte di Trump degli interessi americani in Medio Oriente, delegati a sauditi e israeliani, tollerando le scorrerie turche; mentre nei quattro anni di amministrazione evanescente i motivi di attrito erano soprattutto in materia di embarghi, sanzioni non rispettati, minacce di dazi e collisione tra i traffici di armi, gli affari con Cina, Russia e Iran… Le elezioni statunitensi con il cambio in Pennsylvania avenue impongono il riposizionamento.

Cina e Iran convitati di pietra   

Per Biden due sono i problemi centrali della politica estera statunitense: la Cina e l’Iran. Nel primo caso la Turchia è ben posizionata, perché ha continuato a fare affari e perché è uno degli hub della Belt Road Iniziative, da tantissimo tempo la Cina vende armi alla Turchia, i due paesi collaborano da tempo in materia di antipirateria e nel contrasto dell’irredentismo uyguro, la cui diaspora è in parte tollerata da Ankara ma in forma di controllo per conto di Pechino, soprattutto sui rifugiati privati dei contatti con la famiglia e tenuti in un limbo senza speranze.

Ma anche per quel che riguarda l’Iran, con cui Erdoğan partecipa delle decisioni prese nei tanti accordi intestati ad Astana triangolando con Putin, la Turchia si trova a intersecare il punto di incontro tra il bisogno degli ayatollah di trovare un intermediario e le necessità di ricostruire un lavoro diplomatico statunitense. La soluzione siriana è stata trovata insieme, come avvenuto in Nagorno in un modo ancora più smaccato a favore della Turchia; senza considerare che il problema delle rivendicazioni curde si ritrovano identiche per i territori a maggioranza curda al confine turkmeno con l’Iran, come quelli da sempre occupati dai curdi in Anatolia. La Turchia ha sempre aggirato anche l’embargo contro Tehran, allo stesso modo in cui si è accordata sulle merci cinesi.

Ascolta “La Turchia nei dossier “Iran” e “Cina” della Casa Bianca” su Spreaker.

Dunque in qualche modo la Turchia si trova ben posizionata con entrambi gli schieramenti.

Perciò la diplomazia di lungo corso che la figura di Biden rappresenta non potrà che venire a patti, cercando di far rientrare a pieno Erdoğan nella Nato, aprendo questi due dossier e considerando quanto la Turchia sarà disponibile a offrire, ma soprattutto anticipando gli aspetti su cui è in grado di tornare indietro sulle forzature e sugli strappi creati finora. I rumors sui nomi che entreranno a far parte dell’amministrazione Biden lasciano immaginare un orizzonte di questo tipo.

Rapporti con la Nato, questione di schieramenti

Ankara può ribaltare tutti i rapporti perseguiti con gli altri potenti che in questi 4 anni di vacanza strategica internazionale degli Stati Uniti sono stati gli interlocutori principali di Erdoğan per spartirsi le spoglie abbandonate da Washington in Medio Oriente: è il modo di adattarsi a Biden e alla sua politica, tornando magari ad altre forme di difesa targate Usa, stracciando per esempio i contratti di fornitura degli S-400.

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Caatsa disatteso: sanzioni applicabili da Biden

L’interazione commerciale con Mosca, da cui Ankara dipende per l’enorme fame di energia che contraddistingue la Turchia. Anche qui Erdoğan si è inserito nel solco delle sanzioni del 2017 (Countering America’s Adversaries through Sanctions Act) contro chi collabora con Corea del Nord, Iran e Russia, finora disattese. Erdoğan dovrà immaginare una contromossa nel caso Biden decida di applicarle.

Ascolta “Caatsa disatteso: sanzioni applicabili da Biden?” su Spreaker.

Albayrak vittima sacrificale in dono a Biden?

Potentissimo fino al 9 novembre 2020, con cariche ministeriali e il controllo di affari strategici in Africa, ma inviso all’elettorato di Erdoğan e quindi, pur essendo erede di una delle famiglie oligarchiche e genero dello stesso presidente, compromesso con l’amministrazione Trump, è il capro espiatorio ideale per avviare un nuovo corso di relazioni con la Casa Bianca di Biden e stornare l’attenzione dal sultano riguardo alla miseria che si allarga nel paese. Si è dimesso con un messaggio su Instagram, Twitter gli è stato sottratto… palesando le forme di censura e solo dopo la nota ufficiale di Erdoğan si è potuta diffondere la notizia. La stampa rimane strettamente sotto il controllo del governo di Ankara.

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Un complesso militar-industriale rinnovato e senza remore https://ogzero.org/nuovi-armamenti-e-suk-dell-usato-sicuro/ Thu, 12 Nov 2020 14:36:10 +0000 http://ogzero.org/?p=1722 A volte ritornano… le tangenti Lockheed Guerra e Pace. Pace e guerra. Distruzione e ricostruzione. Elementi fondamentali delle economie e delle contorte politiche mondiali. Appena incassati i cosiddetti “Accordi di Abramo” tra gli Emirati arabi e Israele, Donald Trump ha informato il Congresso della sua intenzione di vendere al piccolo stato arabo di fronte all’Iran […]

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A volte ritornano… le tangenti Lockheed

Guerra e Pace. Pace e guerra. Distruzione e ricostruzione. Elementi fondamentali delle economie e delle contorte politiche mondiali. Appena incassati i cosiddetti “Accordi di Abramo” tra gli Emirati arabi e Israele, Donald Trump ha informato il Congresso della sua intenzione di vendere al piccolo stato arabo di fronte all’Iran 50 caccia-bombardieri Lockheed Martin F-35-II, per una cifra che potrebbe aggirarsi attorno ai 10 miliardi di dollari (8421514000,00 euro). L’operazione ha bisogno dell’approvazione del Congresso e, indirettamente, di Israele che per bocca del suo premier Netanyahu, amico e complice del presidente uscente che farà i bagagli a fine gennaio, ha chiesto soltanto di far in modo che venisse mantenuto, come da accordi ormai consolidati dalla legislazione Usa, la superiorità militare del suo paese su tutte le altre nazioni arabe e del Vicino Oriente. E per mantenere questa superiorità serviranno nuove armi. Un funzionario della difesa israeliana ha atteso soltanto la conferma ufficiosa della sconfitta di Trump per dire al “Jerusalem Post” che non appena sarà possibile Tel Aviv vuole negoziare un nuovo pacchetto multimiliardario di assistenza militare da mettere in coda a quello stilato con Barak Obama e che scade nel 2027. Sicuramente dovrà tenere in considerazione la corsa degli arabi al F-35 e l’enorme quantità di armi acquistate dall’Arabia saudita negli ultimi anni. Sono stati che Israele considera alleati nella guerra all’Iran ma di cui si fida poco soprattutto per quanto riguarda la stabilità dei loro regimi. Stati clientelari per gli Usa che vi hanno basi militari importanti e che con i loro petro/gas-dollari continuano ad arricchire l’industria bellica americana. Spesso contro la volontà di una parte dell’establishment Usa, apparentemente incapace di contrastare la Casa bianca. Nel giugno di quest’anno l’Ispettore generale del Dipartimento di Stato (ossia il ministero degli esteri) fu licenziato su due piedi da Trump. Il presidente lo aveva scoraggiato dall’indagare sulla massiccia vendita di armi all’Arabia saudita portata avanti nonostante l’opposizione di una parte del Congresso. Il Regno era nel mirino dei parlamentari per il suo ruolo criminale nella guerra in Yemen; per l’assassinio del giornalista del “Washington Post” Jamal Khashoggi; e anche per i finanziamenti diretti o indiretti a organizzazioni islamiste collegate al terrorismo internazionale antioccidentale.

Nuovi armamenti sofisticati e suk dell’usato sicuro

È presto per capire cosa Joe Biden, sostenitore senza incertezze d’Israele, cambierà nella confusa politica Usa nei confronti di quella regione. È probabile un ritorno ai negoziati sul nucleare con l’Iran e forse ci sarà qualche passo per fermare l’idea – la “Abraham Peace” perorata da Trump e dal suo entourage di ebrei americani vicini a Netanyahu e alle sue idee estremiste – di mettere fine al conflitto arabo-israeliano, abbandonando completamente il popolo palestinese a un destino incomprensibile. Non è detto, però, che il Congresso bloccherà la vendita degli F-35 agli Emirati: non ha mai vietato una vendita già decisa al livello governativo. Di sicuro, se come probabile andrà avanti, favorirà una rinnovata corsa a nuovi più sofisticati armamenti da parte di tutti i giocatori, grandi e minuscoli, della regione. E con l’arrivo delle nuove armi, si movimenterà il solito grande suk dell’usato che come più di una volta in passato potrebbe portare armi “superate” ma più che efficienti nelle mani dei nemici degli Usa e dell’intero mondo occidentale.

Un filo di acciaio imbastisce l’industria bellica con la politica americana

Donald Trump, a differenza del suo predecessore Barak Obama, responsabile quanto meno della devastazione della Libia e, in qualche modo, anche della Siria, mantenendo le sue promesse pre-elettorali non ha avviato nuovi conflitti ma questo non significa che non abbia mantenuto quello stretto rapporto che da anni lega il mondo degli armamenti alla politica americana. E non solo americana. Oltre mezzo secolo dopo il famoso discorso-ammonimento d’addio dell’allora presidente Usa Dwight D. Eisenhower, i timori del generale passato alla politica sono diventati una realtà che influisce su tutti gli inquilini della sala ovale. E su chi aspira ad abitarci.

Dwight D. Eisenhower

Image from the broadcast of President Dwight D. Eisenhower and his farewell address to the nation on January 17, 1961, from the White House in Washington, D.C. (National Archives)

«Nei concili di governo dobbiamo guardarci dall’acquisizione di influenze che non diano garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro».

Ike didn’t like weapons?

Pochi allora vollero attribuire molta importanza a quelle parole di Eisenhower – il generale che aveva portato alla vittoria l’alleanza contro il nazifascismo – pronunciate il 17 gennaio 1961 nel momento in cui stava lasciando la Casa bianca. Era stato eletto nelle liste del Partito repubblicano, lo stesso di Donald Trump e di altri outsider alla politica come l’attore Ronald Reagan, di ben altro spessore grazie a una squadra di consiglieri più capaci. Ike, così era chiamato da tutti, era l’uomo più popolare degli Stati Uniti. Sei anni prima, il 17 giugno 1945, mia madre volle portarmi – avevo sei anni – dalla nostra casa nel Bronx fino a Manhattan per essere con i quattro milioni di americani che accolsero al suo ritorno negli Usa l’eroe della guerra. Indossavo orgoglioso una giacca “modello Ike” – di moda perché era stato adottato dal generale e da molte truppe – che la mamma aveva tagliato e cucito con le sue mani.

Per Eisenhower, furono sufficienti i due mandati, otto anni, alla Casa Bianca, per comprendere i rischi insiti in un’industria bellica capace di influenzare la politica di una grande potenza come erano diventati gli Stati Uniti. Voleva un’America in grado di difendersi dagli orrori che aveva visto con i suoi occhi in un’Europa devastata dalla ferocia delle menti e delle armi ma nutriva molto più di un sospetto sul mostro che era cresciuto in casa per combattere quei mali.

«Un elemento vitale nel mantenimento della pace sono le nostre istituzioni militari. Le nostre armi devono essere poderose, pronte all’azione istantanea, in modo che nessun aggressore potenziale possa essere tentato dal rischiare la propria distruzione…

Questa congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari e un’enorme industria di armamenti è nuovo nell’esperienza americana. L’influenza totale nell’economia, nella politica, anche nella spiritualità è sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del governo federale. Riconosciamo il bisogno imperativo di questo sviluppo. Ma tuttavia non dobbiamo mancare di comprenderne le gravi implicazioni. La nostra filosofia ed etica, le nostre risorse e il nostro stile di vita sono coinvolti; la struttura portante della nostra società.

Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito. Soltanto un popolo di cittadini allerta e consapevole può esercitare un adeguato compromesso tra l’enorme macchina industriale e militare di difesa e i nostri metodi pacifici e obiettivi a lungo termine in modo che sia la sicurezza che la libertà possano prosperare assieme».

Corruzione e finanziamenti nel traffico di armi

I rischi insiti nella politica degli armamenti Usa sono stati documentati e denunciati nel 2018 da uno studio approfondito di due ricercatori – A. Trevor Thrall e Caroline Dorminey – del Cato Institute: Risky Business: The Role of Arms Sales in U.S. Foreign Policy. Tra i pericoli illustrati e ampiamente documentati, le situazioni di guerra in cui le armi americane vendute a “paesi amici” finiscono nelle mani di nemici degli Usa e vengono usate contro le truppe americane. Il caso recente più clamoroso riguarda l’Iraq dove interi arsenali hanno armato gruppi di islamisti in lotta contro le forze occidentali in quel paese.

Tangenti Lockheed Martin nei decenni

Corruzione e finanziamenti sono all’ordine del giorno nel mondo degli armamenti. Per restare nella regione che ci interessa, Netanyahu e alcune personalità israeliane del mondo militare e civile sono sotto inchiesta per tangenti che sarebbero state pagate per un affare miliardario di sommergibili tedeschi. Qualcuno si chiederà se l’affare degli F-35 e le massicce vendite di armi all’Arabia saudita in questi ultimi anni sono servite a rafforzare economicamente le campagne elettorali del presidente uscente o di altri politici impegnati nelle lunghe costose campagne per presidenza, congresso e senato. Ipotesi basate su fatti avvenuti in passato. Gli stessi costruttori degli F-35 furono incriminati negli anni Settanta quando il Congresso americano accertò che la corruzione era un sistema diffuso da parte della Lockheed Corporation e della più piccola Northrop. Nel 1976 il “New York Magazine” scrisse che il senatore Church, capo della commissione d’inchiesta, «ha prove che la Lockheed ha pagato tangenti in almeno quindici paesi, e che in almeno sei paesi ha provocato gravi crisi di governo». L’Italia fu una di questi. Mario Tanassi, ministro della difesa, fu silurato per aver intascato una tangente di 50000 dollari su circa 2 milioni di dollari, destinati dalla Lockheed alla corruzione in Italia. Furono condannati anche il generale dell’aeronautica Duilio Fanali, il segretario di Tanassi Bruno Palmiotti, i faccendieri Ovidio Lefebvre e Antonio Lefebvre, e il presidente di Finmeccanica Camillo Crociani.

Nuovi armamenti e suk dell’usato sicuro

Torniamo in Vicino Oriente e dintorni. Non soltanto perché è il più grande mercato di armi di ogni tipo ma perché è il perfetto testing-ground, il terreno su cui le armi nuove possono essere sperimentate prima di finire sulla linea di produzione e poi sul mercato. Usa, Russia, Francia e Israele sono qui in prima linea. In tutti i sensi. Secondo una delle più recenti ricerche del Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), nella regione in guerra – dalla Siria, allo Yemen, dall’Iraq alla Palestina e poi al più distante Sud Sudan – le commesse sono aumentate del 61 per cento dal 2015 al 2019. Gli Usa sono in cima alla lista dei venditori lì e nel mondo: hanno ben 96 paesi-clienti. La Russia, ex superpotenza, ha perso una fetta importante del mercato dopo che l’India con un leader nazionalista di destra ha stretto rapporti con Israele dove ha trovato non soltanto una politica simile ma anche una delle più grandi, moderne e immorali delle industrie belliche pronte a vendere senza fare troppe domande. Nel maggio 2019 Amnesty International ha sottolineato che le armi israeliane vengono vendute a nazioni notoriamente colpevoli di violazioni dei diritti umani delle proprie popolazioni come Myanmar, Filippine, Sud Sudan e Sri Lanka. Negli ultimi mesi, bombe a grappolo israeliane, vietate dalle convenzioni internazionali, hanno seminato morte e feriti nella regione del Nagorno-Karabakh contesa tra Azerbaijan e Armenia. Grazie a testimonianze raccolte da giornalisti e analisi delle immagini dei bombardamenti nella capitale dell’autoproclamata repubblica dell‘Artsakh, Stepanakert, gli esperti di Amnesty hanno potuto confermare l’uso di bombe a grappolo di tipo M095 Dpicm, di fabbricazione israeliana. «Vecchi stock», hanno risposto da Tel Aviv per difendersi dalle critiche in uno scacchiere in cui le sue alleanze sono confuse. La guerra è guerra: la logica del potente apparato militare-industriale israeliano è strettamente controllato e gestito ai massimi livelli del governo.

Ma, ancora più importante della disponibilità a non fare domande o giudicare chi deve comprare, Israele offre (anche rispondendo a richieste specifiche quando possibile) di provare le armi nei conflitti dietro casa, da Gaza al Libano, alla Siria. Ci sono segnalazioni di richieste precise da parte di paesi acquirenti (gli Usa tra questi) perché certe armi sofisticate (come i droni e i loro armamenti ormai entrati in prima linea nelle moderne guerre) vengano usate in combattimento e approvate prima di finire sul mercato. La distruzione senza senso di abitazioni e altri edifici nella striscia di Gaza è spesso servita a questo scopo. E c’è chi – in Israele e fuori – vorrebbe assistere ad almeno uno scontro limitato con il meglio armato Hezbollah in Libano per mettere alla prova nuove generazioni di ordigni contro i bunker in profondità.

Nel 2017 le esportazioni di armi israeliane hanno raggiunto la cifra record di 9 miliardi di dollari. Questo non include il reddito delle società paramilitari che operano nel settore dell’informatica e della sicurezza. Un settore accusato di aver collaborato con regimi noti per i loro bassi voti nel rispetto dei diritti dei loro cittadini. E di spiare anche paesi amici.

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