OGzero https://ogzero.org/ogzero-orizzonti-geopolitici-2/ geopolitica etc Fri, 03 Jan 2025 00:23:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Le missioni di Peacekeeping. 1: profili giuridici e la Monusco in Congo https://ogzero.org/le-missioni-di-peacekeeping-1-profili-giuridici-e-la-monusco-in-congo/ Thu, 02 Jan 2025 23:32:12 +0000 https://ogzero.org/?p=13594 Una ulteriore questione posta dalla necessità di riequilibrare regioni sottoposte a tensioni, guerre civili e, più spesso, percorse dai residui venefici del colonialismo è tipicamente quella inerente agli aspetti giuridici regolatori le missioni cosiddette portatrici di pace, presunta e foriera di nuovi interessi lesivi della autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si […]

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Una ulteriore questione posta dalla necessità di riequilibrare regioni sottoposte a tensioni, guerre civili e, più spesso, percorse dai residui venefici del colonialismo è tipicamente quella inerente agli aspetti giuridici regolatori le missioni cosiddette portatrici di pace, presunta e foriera di nuovi interessi lesivi della autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si possano spartire i miliardi stanziati. Fabiana Triburgo affronta questa montagna di interessi intrecciati in due puntate, in questa prima esemplificando sulla missione Monusco. 


Regole d’ingaggio di Guerra e norme di Peacekeeping

I molteplici scenari di guerra che attualmente si stanno diramando a livello globale e le evidenti crepe dell’impianto Onu createsi dall’immobilismo del Consiglio di Sicurezza – per il sistema dei veti incrociati –, nonché dall’inefficacia in concreto delle recenti pronunce degli organi di giustizia internazionale, fanno emergere quella crisi del sistema di sicurezza internazionale che già si era manifestata durante il periodo della guerra fredda. Oggi, come allora, una delle principali ragioni di questa crisi è da ricercarsi in una sezione della Carta delle Nazioni Unite che non ha mai trovato attuazione ossia il capitolo VII – più in particolare gli articoli 42 e seguenti – nel quale, all’indomani della seconda guerra mondiale, si stabilì che l’uso della forza armata per la risoluzione dei conflitti non si sarebbe mai più dovuto rimettere all’iniziativa del singolo stato – tranne nei casi di legittima difesa ex art. 51 della Carta – ma a un contingente internazionale facente capo esclusivamente al Consiglio, quale garante della pace e della sicurezza internazionale.

Secondo tali norme – poste al fine di garantire obiettività e imparzialità per ogni azione di carattere militare – il Consiglio, non solo avrebbe avuto il potere decisionale in merito all’uso della forza armata, ma avrebbe dovuto anche assumere la direzione delle operazioni militari. Rispetto a tale contingente – così come previsto dalla Carta delle Nazioni Unite (artt. 42, 43, 44, 45) – sarebbe poi dovuto sussistere l’obbligo per ciascuno degli stati membri dell’Onu, di stipulare con il Consiglio di Sicurezza dei veri e propri accordi per decidere il numero, il grado di preparazione nonché la dislocazione delle forze armate di volta in volta utilizzabili parzialmente o totalmente da parte del Consiglio. L’azione militare del Consiglio prevista dalla Carta delle Nazioni Unite nel Capitolo VII sarebbe stata quindi un’azione di polizia internazionale che si sarebbe dovuta esplicare previe risoluzioni del Consiglio di Sicurezza aventi il carattere di delibere operative. Tale azione di polizia sarebbe stata strettamente vincolata nella sua attuazione a sole due ipotesi: quella contro uno stato responsabile di aggressione, di minaccia o di violazione della pace o quella dispiegata in un singolo stato se al suo interno, in ragione di un conflitto civile, si fossero ravvisati gli estremi della minaccia alla pace.

Riscontrata dunque la mancata attuazione dell’impianto giuridico della forza militare internazionale – originariamente prevista dalla Carta delle Nazioni Unite per sottrarre al singolo Stato l’iniziativa dell’uso della forza armata – si può più agevolmente comprendere la nascita delle operazioni di “peacekeeping” comunemente definite “Missioni di Pace” o “Caschi blu dell’Onu”.

L’istituto del peacekeeping non è previsto in alcun articolo della Carta delle Nazioni Unite ma è strutturato su una norma consuetudinaria particolare nell’ambito del capitolo VII che si è formata a integrazione della Carta e a titolo della quale il Consiglio di Sicurezza ha sempre agito ogni volta che ha istituito una singola missione di pace. Inoltre il Consiglio di Sicurezza non ha solo il potere di creare le forze per il mantenimento della pace ma anche di regolarne l’attività. Allo stesso tempo, uno degli aspetti altrettanto importanti del peacekeeping è la delega che il Consiglio di Sicurezza emana nei confronti del Segretario generale dell’Onu per compiere – mediante accordi con gli stati membri – le attività necessarie di reperimento e di comando delle forze internazionali in ordine a tali operazioni di pace. I principi fondanti dell’iniziale costituzione del peacekeeping furono infatti: la necessità del consenso alla sua azione da parte delle autorità territoriali di uno Stato; la neutralità del suo operato rispetto alle parti in conflitto; l’uso della forza limitato alla protezione dei propri militari o più in generale della missione (sempre mediante il reperimento dei militari con accordi stipulati con i singoli stati). Tuttavia, come è facile immaginare il peacekeeping ebbe un timido inizio durante il periodo della guerra fredda ma con la caduta delle ultime repubbliche socialiste negli anni Novanta – in particolare durante il conflitto nell’ex Jugoslavia – raggiunse l’apice del proprio interventismo arrivando ad ampliare i propri settori di competenza e spesso a derogare, almeno in parte, a uno o più di quei tre principi fondanti del peacekeeping di cui sopra.

L’allargamento delle finalità inceppa l’ingranaggio

Già dopo il 1989 infatti si passa dall’iniziale attività di peacekeeping – attuata in scenari locali nei quali Usa e Urss non potevano affrontarsi direttamente – a missioni con finalità più ampie come il controllo del rispetto dei diritti umani, l’attività di monitoraggio di libere elezioni, il rimpatrio dei rifugiati e le attività di soccorso in catastrofi naturali. Ad ogni modo, negli anni successivi il peacekeeping arriva a voler soddisfare, con il proprio intervento, obiettivi sempre più ambiziosi che rientrano nelle cosiddette attività di “peace enforcement” ossia alla vera e propria imposizione della pace raggiunta con l’uso della forza militare, derogando quindi a uno dei tre principi fondanti che avrebbero dovuto caratterizzare la sua attività ossia a quello del non uso della forza. se non per autodifesa o difesa del mandato della missione. È quanto avvenuto nel 2013 (Risoluzione n. 2098) con il tentativo di Peace enforcement della “Brigata di Intervento”, cioè: una forza offensiva di combattimento del contingente Onu, destinata a venire impiegata per vere e proprie operazioni militari contro i gruppi armati presenti nella Repubblica Democratica del Congo, prorogata fino al 2017 con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza. In particolare, tale Brigata era autorizzata a condurre operazioni offensive mirate a neutralizzare i gruppi armati al fine di determinare una stabilità politica nel paese ma, considerata la vastità del territorio, si è coordinata con l’esercito congolese nello svolgimento delle proprie attività che potevano prevedere attacchi militari su propria iniziativa fino al bombardamento aereo.

Il disastroso impegno in Kivu: Monusco

Tale attività in ogni caso sembra non aver conseguito alcun risultato duraturo nel tempo, considerato che già nel 1999 era stata istituita, con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1279, la missione di osservazione Monuc (United Nation Organization in the Democratic Republic of Congo) operante nel territorio fino al 2010, a sua volta sostituita nello stesso anno da una nuova operazione di peacekeeping ossia la Monusco (United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of the Congo) con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1925 del 29 maggio 2010. Si ricorda che la Monusco, prorogata in un primo momento fino al 31 dicembre 2018, è tuttora operante. Più nello specifico, se la Missione di osservazione Monuc aveva il compito di monitorare l’implementazione dell’“accordo di Lusaka” che ha posto fine alla Seconda guerra del Congo (1997-2003) – detta anche Prima guerra mondiale africana, nata dalla rottura dell’alleanza del Congo con Ruanda e Uganda – il mandato principale della Missione di pace Monusco invece «è quello di proteggere i civili e supportare il governo congolese nel consolidamento del processo di pace». La regione interessata da decenni di violenze e saccheggi è in particolar modo quella del Kivu – a Est del paese, al confine con Burundi, Ruanda e Uganda – ricca di Coltan ossia un prezioso materiale utilizzato per la fabbricazione degli schermi dei cellulari e di altri minerali preziosi quali diamanti, oro e rame nonché di legnami di altissima qualità.

Il personale delle Nazioni Unite è malvisto dai gruppi armati in tale regione anche perché è testimone dei traffici di questi materiali a livello internazionale pur non avendo – come appare evidente – alcun potere, capacità o la reale volontà di limitare il contrabbando e lo sfruttamento illegale delle risorse del territorio congolese.

Il contrabbando delle ricchezze della regione del Kivu viene favorito dalle multinazionali europee e americane nei paesi confinanti, primo fra tutti il Ruanda che si configura tra i primi produttori mondiali di Coltan, nonostante il proprio territorio sia del tutto privo di tale minerale. È proprio il criminale riciclaggio delle risorse minerarie della Repubblica Democratica del Congo – mediante lo sfruttamento della popolazione civile – a determinare il rafforzamento dei gruppi armati che combattono contro le forze militari del governo congolese – in particolare i miliziani dell’M23 (Movimento 23 marzo)accusati da Kinshasa e dalle Nazioni Unite di essere sovvenzionati dal Ruanda, con la conseguente impossibilità a ripristinare la pace e la sicurezza nel territorio. Ad ogni modo, il rappresentante speciale del Segretario dell’Onu, responsabile della Missione Minurso, Bintou Keita ha dichiarato recentemente che anche neutralizzare la milizia Adf (Allied Democratic Force) nel nord del Kivu – responsabile nel giugno del 2024 dell’uccisione di 274 civili – rimane una delle priorità della Missione di pace. La fine della missione – per l’aggravarsi delle relazioni tra le forze di pace e la popolazione civile nel Nord Kivu in conseguenza di alcuni eventi accaduti nel biennio precedente – era stata prevista in un primo momento il 30 giugno del 2024.

Tuttavia in prossimità della scadenza l’ambasciatore della Repubblica Democratica del Congo presso le Nazioni Unite, in un discorso dinanzi al Consiglio di Sicurezza, ha dichiarato che «in conseguenza della continua aggressione del Ruanda nel Nord Kivu la seconda fase di ritiro delle truppe della Monusco, in seguito a una comune valutazione, sarà posta in essere quando le condizioni lo consentiranno».

Anche il capo della Missione Bintou Keita ha affermato che non esiste una tempistica per il ritiro dalle province del Nord del Kivu e dell’Ituri per cui le forze di pace nell’Est del paese hanno sospeso il loro ritiro, iniziato a febbraio 2024, senza che attualmente vi sia una nuova tempistica fissata per la fase conclusiva delle operazioni di pace.

Il Governo dei territori

Un’altra forma di intervento delle Forze dell’Onu, ancora più ingerente, che ha finito per riguardare di nuovo l’ex Jugoslavia si è verificata quando il Consiglio – invocando il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale – ha organizzato per prassi un governo dei territori. La differenza ontologica più rilevante del peacekeeping rispetto al cosiddetto governo dei territori è che il primo prevede un potere pubblico limitato delle forze delle Nazioni Unite che si deve affiancare – almeno in linea di principio – necessariamente a quello delle autorità locali mentre nelle ipotesi di “governo dei territori” vi è una sostituzione integrale dell’Onu a tali autorità anche solo temporaneamente. Il governo dei territorisul piano ideologico pur se rientrante nel peacekeeping – ha avuto origine nel principio di autodeterminazione dei popoli e nel processo di decolonizzazione sviluppatosi a partire dagli anni Sessanta, per cui nei territori interessati dalla fine di un conflitto civile o nei quali era messa in discussione la sovranità statale l’Onu ha cercato di ergersi quale garante in concreto degli interessi delle popolazioni locali. Questo processo di deviazione del peacekeeping tuttavia si è intensificato alla fine della Guerra Fredda quando sono scoppiati numerosi conflitti civili in stati ex colonie ma in un’ottica sempre più orientata di fatto verso il Peacebuilding postbellico – ossia verso quel processo di consolidamento della pace e della sicurezza internazionale – garantito dalle Forze dell’Onu nei territori interessati.

Le missioni di peacekeeping si sono quindi moltiplicate e ampliate fino al punto che alcune di esse hanno previsto di fatto lo svolgimento di alcune funzioni di governo nei territori nei quali hanno operato. La competenza del Consiglio, in questo modo, non solo è passata inevitabilmente dalle guerre internazionali a quelle civili, ma più volte alla vera e propria ricostruzione degli stati al termine dei conflitti armati. Infatti, muovendosi nella dimensione del peacebuilding, è stato più agevole per il Consiglio di Sicurezza – nelle situazioni postconflitto – sconfinare verso il governo dei territori, come è avvenuto tra il 1995 e il 1999 nell’ex Jugoslavia ovverosia quando le forze internazionali di pace finirono con il sostituirsi del tutto ai governi nazionali. Si può lecitamente affermare quindi che la prassi del Consiglio di Sicurezza ha ampiamente deviato dalle norme del Capitolo VII fino a interpretare come minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale – delle quali il Consiglio di Sicurezza ha la principale responsabilità – qualsiasi “situazione di pericolo” all’interno di uno stato. In questo modo non solo si è finito con il legittimare l’applicazione di qualsiasi misura che apparisse al Consiglio sufficientemente adeguata. ma si è provocata la trasformazione delle originarie missioni di peacekeeping in missioni di fatto di governo dei territori, se non addirittura come vedremo in vere e proprie missioni di state building.

continua nei Balcani: Peacekeeping 2

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Le missioni di Peacekeeping. 2: le missioni Onu nei Balcani https://ogzero.org/le-missioni-di-peacekeeping-2-le-missioni-onu-nei-balcani/ Thu, 02 Jan 2025 22:06:42 +0000 https://ogzero.org/?p=13589 Prosegue lo studio di Fabiana Triburgo sugli aspetti giuridici a monte delle missioni cosiddette portatrici di pace e tombe per l’autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si possano spartire i miliardi stanziati. Questa seconda puntata sposta l’attenzione dalla Monusco congolese alla missione Unmik in Kosovo, lo snodo che trent’anni fa portò i […]

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Prosegue lo studio di Fabiana Triburgo sugli aspetti giuridici a monte delle missioni cosiddette portatrici di pace e tombe per l’autodeterminazione dei popoli forzati a riceverla perché le nazioni si possano spartire i miliardi stanziati. Questa seconda puntata sposta l’attenzione dalla Monusco congolese alla missione Unmik in Kosovo, lo snodo che trent’anni fa portò i governi progressisti a guida Clinton-Blair ad aprire la strada allo sfrenato strame delel regole di pacifica convivenza nate con la fine del nazi-fascismo storico, ricreando l’humus per la riedificazione dell’autoritarismo sovranista.


Il disastroso impegno nei Balcani: Unprofor

Altra missione rispetto alla quale si è fatto ricorso al Peace Enforcement, con deroga non solo del principio fondante del non impiego della forza armata da parte dei peacekeepers ma anche di quello dell’imparzialità e del consenso dello stato di dislocamento, avvenne nell’ex Jugoslavia con la missione Unprofor (United Nations Protection Force) istituita in Bosnia Erzegovina e in Croazia, Risoluzione del Consiglio n. 743 del 21 febbraio del 1992, e dichiarata conclusa, Risoluzione del Consiglio n. 1031 del 15 dicembre 1995, con gli accordi di Dayton nello stesso anno.

Con tale risoluzione il Consiglio decise per l’impiego della forza sotto la propria autorità al fine di creare «Le condizioni di pace e di sicurezza necessarie per la negoziazione di una situazione globale della crisi in Jugoslavia» invitando il Segretario Generale a prendere le «misure necessarie».

A tale risoluzione, infatti, successivamente ne seguirono altre sulla stessa linea dell’impiego della forza, come quella con la quale (Risoluzione del 6 ottobre 1992 n. 779), il Consiglio ordinò alle forze di peacekeeping di «sorvegliare il ritiro completo dell’armata jugoslava dalla Croazia e la smilitarizzazione della penisola di Prevlaka» o quella (Risoluzione del 4 giugno 1995 n. 836) mediante la quale affidò alla Forza Onu di difendere alcune città bosniache e relativi dintorni, dichiarati aree protette già in precedenti risoluzioni. La missione Unprofor quindi non ha intrapreso azioni belliche ma non è stata una missione istituita dal Consiglio di Sicurezza esclusivamente o prevalentemente orientata verso il mantenimento della pace. Comunque il ricorso al Peace Enforcement si è dimostrato non efficace – se non addirittura controproducente sul piano politico, legislativo e su quello militare – rispetto agli scenari internazionali nei quali il Consiglio lo ha disposto.

La prima deroga: il Kosovo… ascesa e declino

La deviazione dall’originale intento delle missioni di peacekeeping è avvenuta con la Missione Unmik (United Nation Interim Administration Mission in Kosovo). La missione – tuttora operativa – è stata istituita in Kosovo con la Risoluzione n. 1244 del 10 giugno 1999, al termine dell’intervento aereo della Nato nel 1998 durato tre mesi che ha costretto il governo di Belgrado al ritiro. In un primo momento, infatti, la Missione ha visto il Consiglio di Sicurezza determinare il governo dei territori delegando al Segretario Generale ogni potere legislativo, giudiziario ed esecutivo anche se l’autorità amministrante faceva comunque capo al Consiglio di Sicurezza che – come già detto – ha sempre ritenuto di agire “conformemente” al Capitolo VII della Carta, qualificando la situazione in loco come minaccia alla pace. In seguito alla dichiarazione di indipendenza del Kosovo nel giugno del 2008 la Missione – assumendo i caratteri di una missione di state building più che di peacekeeping – ha prefigurato come obiettivi fondamentali quelli di organizzare istituzioni temporanee di autogoverno alle quali poi, una volta divenute definitive, ha trasferito ogni potere sotto la guida di un Rappresentante speciale del Segretario Generale Onu, avvalendosi di altri attori internazionali ossia l’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) per la democratizzazione del territorio, l’UE in materia di sviluppo economico (Eulex- European Union Rule of Law) e la Nato (Kpfor – Kosovo Force) per la difesa esterna del territorio.

Si ricorda infatti che nel Capitolo VIII della Carta è prevista la possibilità per il Consiglio di avvalersi su propria “autorizzazione” di organi regionali (come la Nato) per l’adempimento delle proprie funzioni. Successivamente infatti in Kosovo a livello costituzionale sono state istituite l’Assemblea parlamentare e altri organi rappresentativi del paese e si è proceduto alla nomina di un presidente del Kosovo, per cui oggi il paese può essere definito come una repubblica parlamentare monocamerale. Vi è da precisare però che l’indipendenza dichiarata dal paese nel 2008 – riconosciuta da circa cento stati membri tra cui gli Stati Uniti e molti stati dell’Ue ma fortemente contestata dalla Serbia e dalla Federazione Russa – è alla base ancora oggi di fortissime tensioni che dividono la comunità internazionale tra i serbi del Nord del Kosovo circa 100.000 e la comunità albanese rappresentante la maggior parte della popolazione kosovara. Né il parere consultivo della Corte di Giustizia – richiesto dall’Assemblea Generale su iniziativa serba – espresso in modo favorevole circa la conformità della dichiarazione di indipendenza del Kosovo rispetto al diritto internazionale, ha sedato gli scontri politici tra le due anime del paese. Ciò è avvenuto per la mancata definizione nel testo della pronuncia della Corte sullo Status del Kosovo per cui il Rappresentante speciale, già nel 2010, dichiarava al Consiglio di Sicurezza la prosecuzione della missione Unmik – ancora coadiuvata dagli attori internazionali di cui sopra – al fine di garantire una condizione pacifica estesa a tutti i kosovari, nonché di promuovere la tanto agognata stabilità regionale dei Balcani occidentali che alcune vicende, come la cosiddetta “disputa delle targhe”, dimostrano quanto tale obiettivo sia ancora lontano.

“La manipolazione nazionalista controlla ancora la Serbia”.
Infatti, nel 2021 Pristina ha imposto alle automobili serbe di esporre targhe provvisorie recanti la dicitura “Repubblica del Kosovo” per entrare nel Paese. Tale decisione delle autorità kosovare è dettata dal fatto che la Serbia non ha consentito ai veicoli in entrata nel paese dal Kosovo di esporre targhe kosovare. Nel 2011 si è raggiunto un accordo, mediato dall’Ue, di riconoscere vicendevolmente le targhe. A questo accordo però non è stata data piena attuazione e le automobili in entrata in entrambi i paesi dovevano avere apposti specifici bolli che coprissero i loro simboli nazionali. L’accordo del 2011, rinnovato nel 2016, è però nel 2021 scaduto senza arrivare a un compromesso. Solo nel 2024 la disputa è stata risolta, infatti – dopo che il governo serbo nel 2023 ha comunicato che dal primo gennaio 2024 tutte le automobili kosovare avrebbero potuto liberamente attraversare il confine con la Serbia – anche il governo kosovaro ha adottato la stessa misura a favore della Serbia.

Come noto, la disputa delle targhe è soltanto il simbolo di una rottura ben più profonda tra il governo kosovaro di Kurti e quello serbo di Vuçic che ha visto emergere forti tensioni con scontri e violenze nel Nord del Kosovo, richiedendo anche l’intervento del personale Nato (Kpfor) rimasto ferito durante le guerriglie. La Serbia considera la regione come il cuore del proprio stato e della propria religione anche per i numerosi monasteri cristiani ortodossi che si trovano in Kosovo. Dall’altra parte la maggioranza albanese considera il Kosovo il proprio paese dopo la dichiarazione di indipendenza e la minoranza serba come una forza di occupazione e di repressione. Sul fronte della politica interna invece il paese resta bloccato in istituzioni solo formalmente democratiche poiché in preda a una classe politica fortemente nazionalista incapace di assumere decisioni progressiste. La coercizione e l’assertività delle Forze esterne, inoltre, ha portato non solo alla creazione di istituzioni poco efficienti con scarsa legittimità locale ma anche alla tolleranza di un sistema clientelare di corruzione legato a esse. Per tale ragione gli ultimi anni sono caratterizzati da un proliferare di movimenti di protesta sia contro la classe politica corrotta e nazionalista che contro quella internazionale considerata distante, indifferente e compiacente. Per il fallimento degli organismi esterni operanti nel paese – compresi quelli dell’Unione Europea – la popolazione kosovara guarda con maggior disincanto verso l’Occidente e con maggior interesse verso Russia e Cina in particolare i serbi del Nord del Kosovo. Si ricorda che la Serbia è stato l’unico Paese a non aver introdotto sanzioni nei confronti della Russia, all’indomani dell’invasione dell’Ucraina, mentre la Russia è consapevole che investendo in Serbia soprattutto attraverso i suoi programmi di “informazione” può influenzare politicamente, per via della comunanza linguistica, quasi tutta l’area dei Balcani come Bosnia Erzegovina, Croazia e Montenegro.

Da ultimo va ricordato che rientra nella prassi del governo dei territori da parte dell’Onu l’istituzione dei tribunali internazionali per la punizione dei crimini compiuti dagli individui come il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nell’ex Jugoslavia e il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nel Ruanda.

Oltre a questi, sempre mediante il governo dei territori, il Consiglio di Sicurezza ha istituito anche tribunali misti o ibridi perché composti sia da giudici nazionali dello stato in cui sono insediati che da giudici stranieri. Ciò è avvenuto con i Panels in Kosovo istituiti nel 2000 dall’Unmik con Regolamento n. 64: le camere specialistiche del Kosovo sono state poi istituite con legge, all’interno del sistema giudiziario kosovaro, il 3 agosto 2015 dall’assemblea del Kosovo per processare i crimini internazionali commessi durante e dopo il conflitto.

continua nel Sudovest asiatico: Peacekeeping 3

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Le missioni di Peacekeeping. 3: la guardia al bidone di Unifil in Sudovest asiatico https://ogzero.org/le-missioni-di-peacekeeping-3-la-guardia-al-bidone-di-unifil-in-sudovest-asiatico/ Thu, 02 Jan 2025 21:47:02 +0000 https://ogzero.org/?p=13568 Con questa terza puntata si conclude per ora lo studio di Fabiana Triburgo sulla giurisprudenza internazionale che regola le missioni dell’Onu e che esemplarmente sono state analizzate nelle due puntate precedenti in Congo (Monusco) e nei Balcani (Unmik). La missione oggetto di studio è una delle più citate negli ultimi tempi, ma l’intera  sua storia […]

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Con questa terza puntata si conclude per ora lo studio di Fabiana Triburgo sulla giurisprudenza internazionale che regola le missioni dell’Onu e che esemplarmente sono state analizzate nelle due puntate precedenti in Congo (Monusco) e nei Balcani (Unmik). La missione oggetto di studio è una delle più citate negli ultimi tempi, ma l’intera  sua storia è stata travagliata, perché finché la diplomazia internazionale era regolata dai principi scaturiti dall’equilibrio scaturito con la fine della Seconda guerra mondiale Unifil aveva posto un apparente argine al neocolonialismo ebraico.


Risoluzione 1701: La ventennale Blue Line dell’Unifil libanese

Mediante il medesimo meccanismo è stato istituito il Tribunale speciale per il Libano creato nel 2007 dalle Nazioni Unite con il governo libanese. L’accordo tuttavia non è stato ratificato dal parlamento libanese per cui l’attività del tribunale è stata imposta dal Consiglio di Sicurezza ex Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite con Risoluzione n. 1757 del 30 maggio 2007. Anche in Libano, terreno nel quale ancora oggi si scontrano Israele ed Hezbollah, è schierata dal 2006 una forza di pace delle Nazioni Unite: l’Unifil (United Nation Interim Force in Lebanon) per quasi vent’anni era riuscita a evitare che tra i due opposti schieramenti si verificassero più gravi eventi che avrebbero potuto far degenerare la situazione. Tuttavia i recenti scontri tra Hezbollah (o “Partito di Dio”) e Israele hanno portato a far riflettere più stati – a livello internazionale – sulla necessità di ritirare i propri soldati dalla Missione. La missione Unifil in realtà è stata originariamente istituita nel 1978 (Risoluzione n. 425/426) per confermare il ritiro delle forze israeliane, ripristinare la pace internazionale e assicurare che il governo del Libano riprendesse l’effettivo esercizio della sua autorità territoriale nell’area. Successivamente, nel 1982, con la Risoluzione n. 501 la missione è stata implementata e potenziata al fine di garantire la protezione e l’assistenza umanitaria alla popolazione. Il 1982 infatti è l’anno della prima guerra israelo-libanese, iniziata mediante l’operazione “Pace in Galilea” condotta da Israele per sradicare dal Sud del Libano la presenza di palestinesi armati che ipotizzava si nascondessero tra i profughi proseguendo poi fino a Beirut, città nella quale aveva sede l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina). Con l’intervento sotto il patrocinio delle Nazioni Unite si è cercato quindi di evitare un’ulteriore escalation della guerra per cui si è agevolata la partenza da Beirut per Tunisi del presidente dell’Olp Arafat e dei suoi uomini, costringendo gli altri appartenenti alle forze armate palestinesi a riversarsi nelle città limitrofe. Nel 2000 con il ritiro delle forze israeliane, la missione Unifil – mantenendosi nuovamente sul ripristino della pace e della sicurezza internazionale – è divenuta una missione di monitoraggio e di osservazione. Così nello stesso anno è stata istituita dalle forze dell’Onu la Blue Line ossia la demarcazione del confine tra i due stati lunga circa 51 chilometri come limite del ritiro delle forze militari israeliane dal Sud del Libano. Nel 2004 con la Risoluzione n. 1559 il Consiglio di Sicurezza ha richiesto il rigoroso rispetto dell’integrità territoriale e dell’indipendenza del Libano chiedendo ufficialmente il completo ritiro delle forze militari israeliane dal paese nonché il disarmo di tutte le forze militari sul campo, libanesi e non. Il 2006 invece è l’anno del secondo conflitto israelo-libanese iniziato con l’offensiva di Hezbollah contro una pattuglia dell’esercito israeliano e proseguito con la violenta reazione di Israele che aveva lo scopo di neutralizzare l’intero apparato di Hezbollah. È in questo contesto che l’11 agosto del 2006 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu è intervenuto con la Risoluzione n. 1701 che ha imposto l’immediata cessazione delle ostilità, il ritiro di Israele dal Sud del Libano, il supporto allo spiegamento delle forze libanesi in tutto il Libano meridionale, la garanzia dell’accesso umanitario alla popolazione civile, l’assicurazione del ritorno volontario e sicuro degli sfollati, nonché l’assistenza al governo libanese per impedire l’accesso irregolare di armi e per  proteggere i suoi confini. Infatti ancora oggi lo scopo della missione Unifil è quello di presidiare la cosiddetta “Blue Line”, ossia quella zona cuscinetto nella quale è consentito solo all’esercito libanese e ai peacekeepers dell’Onu di possedere armi ed equipaggiamento militare.

La Risoluzione n. 1701 è stata rinnovata ad agosto del 2024 con la quale il Consiglio di Sicurezza ha mantenuto per Unifil lo stesso mandato della Risoluzione del 2006 ma prolungandolo fino ad agosto 2025. Alla fine di settembre del 2024 tuttavia le Forze di difesa Israeliane (Idf) hanno ucciso un numero di persone equivalente a un mese di combattimenti nell’estate del 2006: tra la notte di domenica 22 settembre e martedì 24 settembre le vittime libanesi sono state oltre 550. L’obiettivo di Netanyahu è indebolire Hezbollah e il suo alleato iraniano per eliminare la minaccia dei razzi sul nord di Israele e quello di offrire a decine di migliaia di civili israeliani, sfollati da oltre un anno, di tornare alle proprie case. Non solo, Israele vuole costringere Hezbollah a ritirarsi dal fiume Litani a circa 40 chilometri dalla Blue Line che separa gli schieramenti militari in quanto non esiste ancora un confine internazionale riconosciuto tra il Libano e Israele. Il “Partito di Dio” dalla fine di ottobre del 2023, in seguito all’inizio della guerra israelo-palestinese, ha affermato di voler aderire al fronte anti-israeliano per accelerare la fine del progetto coloniale sionista aprendo il valico del Sud del Libano e dando sostegno a Hamas e ai palestinesi. Tuttavia, a partire dall’estate del 2024 lo stato israeliano perpetra l’assassinio di diversi capi di Hezbollah. In primo luogo, viene ucciso da Israele Fuad Situkr, alto comandante di Hezbollah e successivamente Hassan Nasrallah, storico leader alla guida di Hezbollah che ha visto il gruppo trasformarsi da una fazione di guerriglia alla forza politica più potente del Libano.
Netanyahu ha anche eliminato altri miliziani del partito facendo esplodere migliaia di “cerca persone” e “walkie talkie”, in loro dotazione, dando l’ordine di esecuzione mentre si trovava a New York presso il palazzo delle Nazioni Unite. Infine, il 30 settembre 2024 l’esercito israeliano è entrato direttamente in Libano con carri militari oltrepassando la Blue Line.

La forza Onu di mantenimento della pace ha ribadito che «qualsiasi attraversamento della linea blu viola la sovranità e l’integrità territoriale del Libano nonché la Risoluzione n. 1701 del 11 agosto 2006 dopo la guerra tra il Libano e Israele».

Da qui l’attacco israeliano contro le basi dell’Onu nel Sud del Libano, il 13 ottobre 2024. L’attacco è avvenuto dopo che nei giorni precedenti Israele ha chiesto alle truppe Unifil di spostarsi 5 km più a nord ma i soldati della missione hanno deciso di non muoversi. Con un comunicato ufficiale l’Unifil – rispetto all’attacco subito – ha dichiarato che un carro armato israeliano ha sparato contro una torretta di osservazione di una delle basi della missione più precisamente a Naqura, facendo cadere due operatori di pace di nazionalità indonesiana che sono stati ricoverati in ospedale. È stata inoltre ripetutamente colpita dalle forze militari israeliane la base principale della missione di pace sempre a Naqura.

Si ricorda che attualmente la missione Unifil – impiegata nel sud del Libano – conta oltre diecimila soldati provenienti da cinquanta paesi di cui sedici dell’Unione europea. Netanyahu ha affermato che l’Unifil deve evacuare il Sud del Libano poiché ritiene che i militari stiano fornendo «uno scudo umano ad Hezbollah». Nel novembre del 2024 c’è stato un secondo attacco alla missione con tre distinte operazioni militari mediante razzi (la prima verso il quartier generale dell’Unifil a Shama, la seconda colpendo una base della missione a Ramyet e l’ultima verso una pattuglia Unifil nei pressi del villaggio Kharbat Silim). Dopo il terzo attacco contro l’Unifil mediante il lancio di due razzi contro la “base UNP2-3” di Shama, nelle prime ore del 22 novembre 2024, l’Unifil ha dichiarato che gli ultimi due attacchi alla missione «sono avvenuti per opera di attori non statali presenti sul territorio libanese». Tuttavia si ricorda che la Missione non ha capacità sovrana, Hezbollah non ha interesse a collaborare con le Forze Onu e Israele non ha fiducia che questa possa assicurare la liberazione dal Libano meridionale dalla presenza di Hezbollah. In tale ottica solo il Consiglio di Sicurezza – che tuttavia, come noto, ha posizioni contrastanti al suo interno rispetto a tale conflitto – può dissuadere lo Stato ebraico dall’intensificare i suoi attacchi contro Unifil.

Per ora la comunità internazionale si accontenta dell’accordo del cessate il fuoco raggiunto alla fine di novembre 2024 tra i miliziani di Hamas e il governo israeliano ma emerge tutta l’impotenza dell’impianto Onu a fronteggiare effettivamente le guerre internazionali per cui quella Carta redatta all’indomani della Seconda guerra mondiale, più che un coercitivo impedimento affinché la pace e la sicurezza internazionale non vengano mai violate, sembra essere un nostalgico ricordo scritto di intenti e di speranze spesso smentito dalla realtà dei fatti.

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n. 3 – Due Corti internazionali a confronto: il conflitto israelo-palestinese https://ogzero.org/corti-internazionali-a-confronto-il-conflitto-israelo-palestinese/ Sun, 23 Jun 2024 12:42:06 +0000 https://ogzero.org/?p=12735 Prosegue l’analisi di Fabiana Triburgo con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questo saggio in particolare si concentra sulla Corte internazionali di giustizia e sulla Corte penale internazionale, due entità autonome e che seguono tipi diversi di istruttorie e possono emanare provvedimenti differenti. Vediamo il caso del conflitto israelo-palestinese. L’immobilismo […]

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Prosegue l’analisi di Fabiana Triburgo con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questo saggio in particolare si concentra sulla Corte internazionali di giustizia e sulla Corte penale internazionale, due entità autonome e che seguono tipi diversi di istruttorie e possono emanare provvedimenti differenti. Vediamo il caso del conflitto israelo-palestinese.


L’immobilismo del processo decisionale determinatosi per diversi mesi all’interno del Consiglio di Sicurezza, in ragione del diritto di veto, relativamente all’ipotesi di una tregua o del passaggio degli aiuti umanitari nel conflitto israelo-palestinese è stato scosso dalla forza propulsiva delle risultanze giurisdizionali legate a due corti internazionali in particolare la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale, più nello specifico l’ufficio del procuratore generale (Office of the Prosecutor, cosiddetto OTP), entrambe aventi sede all’Aja nei Paesi Bassi.

Ruoli e funzioni

Questo attivismo così precipuo nei provvedimenti emanati da entrambi nel 2024 – a seguito di due diversi tipi di istruttoria – consentono di delineare meglio le funzioni e i ruoli dell’una e dell’altra Corte nell’alveo delle dinamiche internazionali, pur essendo doveroso anticipare fin da subito che – in considerazione della base volontaristica che caratterizza l’adesione degli stati al diritto internazionale – spesso i provvedimenti delle medesime, pur essendo vincolanti secondo le norme del diritto internazionale, non producono conseguenze giuridiche effettive nei confronti dei soggetti verso i quali vengono emanate ma assumono piuttosto una valenza di natura politica. Ad ogni modo nel corso degli anni – si rammenta che la data di costituzione della Corte di giustizia internazionale è il 1945 mentre la Corte penale internazionale è stata istituita nel 1998 oltre 50 anni dopo – si sono potenziati meccanismi legati alle consuetudini internazionali e alla cooperazione degli stati aderenti ai trattati, per ovviare, sia pure parzialmente, alla mancanza di efficacia sul piano della realtà delle decisioni di tali Corti così diverse tra loro da poter operare contemporaneamente rispetto alla medesima situazione internazionale come sta avvenendo nel conflitto scoppiato da oltre otto mesi nella striscia di Gaza.

Rispetto al confitto israelo-palestinese, più precisamente per gli eventi avvenuti in seguito all’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023, la Corte di giustizia internazionale è stata adita mediante ricorso d’urgenza presentato dal Sudafrica nel quale si dichiarava che la guerra condotta dall’esercito israeliano nella striscia di Gaza fosse qualificabile come un atto di genocidio contro il popolo palestinese e che quindi Israele avesse violato la Convenzione sul genocidio del 1948. A tal proposito, come vedremo più avanti nel dettaglio, la Corte di giustizia internazionale si è pronunciata con l’applicazione di misure cautelari nei confronti dello Stato di Israele. Rispetto ai medesimi avvenimenti, l’azione di impulso della Corte penale internazionale è invece avvenuta motu proprio da parte del procuratore generale presso la corte Karimi Khan, secondo una delle ipotesi previste dallo Statuto di Roma del 1998 ed entrato in vigore il primo luglio 2002. Il procuratore, svolgendo attività di indagine nello Stato di Israele e in Cisgiordania, ha concluso emettendo un mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti di tre esponenti di Hamas ossia Yahya Sinwar, capo del movimento di resistenza islamica Hamas nella Striscia di Gaza, Mohammed Diab Ibrahim al-Masri, comandante in capo all’ala militare di Hamas, ossia delle cosiddette Brigate Al-Qassam e Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico di Hamas, ma nello stesso tempo nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu e del ministro israeliano della Difesa attualmente in carica, Yoav Gallant.

Due Corti, due teste

La diversità della tipologia e delle conseguenze dei provvedimenti adottati dalla Corte di giustizia internazionale e dal procuratore generale presso la Corte penale è dovuta alle differenze ontologiche dei due organismi internazionali e delle loro diverse funzioni. La Corte internazionale di giustizia infatti è il principale organo giurisdizionale delle Nazioni Unite e il suo statuto è parte integrante della Carta delle Nazioni Unite. Essa ha come scopo principale – oltre alla funzione consultiva esercitata a favore dell’Assemblea Generale, del Consiglio di Sicurezza e delle Agenzie delle Nazioni Unite – quello di risolvere le controversie tra gli stati applicando il diritto internazionale o “secondo equità”, qualora le parti ossia gli stati lo richiedano espressamente. Si rammenta che i 17 giudici che la compongono, ognuno di diversa nazionalità in carica per 9 anni e rieleggibili nominati dall’Assemblea Generale e dal Consiglio di Sicurezza, non sono rappresentanti delle posizioni politiche dei diversi stati dei quali sono cittadini e le decisioni vengono assunte con la maggioranza dei voti dei giudici presenti. Premesso ciò, rispetto al ricorso d’urgenza presentato dal Sudafrica contro Israele, la Corte di giustizia con Ordinanza 192 del 26 gennaio 2024 non ha chiaramente deciso nel merito degli accadimenti verificatisi dal 7 ottobre 2023 – decisione che potrebbe richiedere anni per la sua emanazione – ma ha emesso misure cautelari nei confronti dello Stato di Israele chiedendogli al contempo di fare tutto il possibile per prevenire atti genocidari nella striscia di Gaza e di consentire l’accesso agli aiuti umanitari.

L’ipotesi di genocidio: la Corte di giustizia definisce le vittime

Se con tale decisione la Corte di giustizia internazionale non ha dato seguito alla richiesta del Sudafrica di interrompere i combattimenti, imponendo il cessate il fuoco, ha tuttavia implicitamente riconosciuto, decidendo per l’applicazione delle misure cautelari, il cosiddetto fumus boni iuris – ovverossia l’ipotesi di genocidio – rispetto alle azioni compiute da Israele, avendo oltretutto sostenuto che i palestinesi sembrano costituire «gruppo nazionale etnico razziale o religioso» richiamando in tal modo proprio l’esatta dizione mediante la quale, nell’art. 2 della Convenzione sul genocidio del 1948, vengono individuati i destinatari di tale delitto. La Corte di giustizia infatti può adottare in base all’art. 41 del suo statuto nei confronti di uno stato provvedimenti cautelari qualora ritenga che vi sia: il rischio di un pregiudizio irreparabile rispetto ai diritti oggetto del procedimento giurisdizionale, nell’ipotesi in cui la violazione di questi diritti potrebbe comportare conseguenze irreparabili o ancora nei casi di urgenza, ossia qualora ricorra un rischio reale e imminente che sia arrecato un pregiudizio irreparabile a tali diritti prima della decisione definitiva della Corte.

Nello specifico la Corte internazionale di giustizia ha emesso alcune misure cautelari nei confronti di Israele. In primo luogo, la Corte ha ordinato a Israele che il suo esercito non violi la Convenzione sul genocidio – ratificata sia dal Sudafrica che da Israele – evitando l’uccisione dei civili palestinesi nonché di causare loro danni fisici e morali; la Corte ha poi statuito che Israele dovrà punire i cittadini israeliani che pongono in essere atti vietati ai sensi della Convenzione sul genocidio, consentire l’ingresso degli aiuti umanitari sulla striscia di Gaza senza alcuna limitazione, impedire la distruzione di prove utilizzabili nel corso del giudizio di merito sul genocidio e dovrà anche presentarsi davanti alla medesima dopo un mese per dimostrare che tutte le succitate misure cautelari siano state effettivamente adottate.

Vale la pena dunque soffermarsi sul delitto che secondo il Sudafrica sarebbe stato compiuto da Israele nei confronti del popolo palestinese ossia il genocidio che può essere realizzato sia in tempo di guerra che in tempo di pace.

Come già detto la commissione di condotte riconducibili al succitato crimine sono vietate da una specifica Convenzione del 1948 non solo ai fini della repressione ma anche della prevenzione di atti di natura genocidaria. Inoltre, il genocidio come ogni reato è composto sia dall’elemento cosiddetto oggettivo, ossia gli atti compiuti materialmente dagli autori del reato, che dall’elemento soggettivo – in questo caso dolo specifico – ossia la condizione mentale dei medesimi autori del reato atta a sorreggere quei comportamenti vietati dall’ordinamento internazionale. Integrano a tal fine atti di genocidio nei confronti delle vittime di tale delitto le seguenti condotte: le uccisioni, le gravi lesioni dell’integrità fisica e di quella mentale, la sottoposizione a condizioni di vita insostenibili, l’impedimento alle nascite e il trasferimento forzato dei minori. Va altresì precisato che anche i comportamenti definibili quali complicità, concorso, istigazione o incitamento pubblico alla commissione di condotte genocidarie sono punibili ai sensi della Convenzione. Per quanto riguarda invece l’elemento soggettivo del reato è necessario (ai sensi della Convenzione) che l’autore / gli autori – in questo caso lo stato o gli stati – abbiano posto in essere gli atti genocidari «al fine di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale etnico, razziale o religioso», gruppo che, come già anticipato in precedenza, può essere agevolmente considerato quello del popolo palestinese presente sulla Striscia di Gaza con circa oltre 2 milioni di abitanti.

Corti internazionali

Il riconoscimento di un singolo stato può minare i provvedimenti

Tuttavia, se da una parte è vero che tutti gli stati facenti parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite sono obbligati a conformarsi al contenuto dei provvedimenti emessi dalla Corte di giustizia, dall’altra ciò che è fondamentale sottolineare è che tale assunto è comunque subordinato al fatto che il singolo stato, facente parte della controversia dinanzi alla Corte, abbia accettato la giurisdizione della medesima mentre Israele non l’ha fatto, così come d’altronde gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. Questa posizione mina evidentemente la reale efficacia giuridica di un provvedimento della Corte di giustizia verso Israele o verso qualsiasi altro stato che non abbia accettato la sua giurisdizione tenuto conto che – come vedremo anche per la Corte penale internazionale – non vi è un organo in seno alle Nazioni Unite che sia in grado di far applicare i provvedimenti delle Corti internazionali in modo coercitivo. Ciò si ricollega indirettamente anche alla consuetudine internazionale delle missioni di peacekeeping ed è strettamente collegato al fatto che le disposizioni di cui agli artt. 43 e seguenti della Carta delle Nazioni Unite che prevedono un organo di “polizia internazionale” non hanno mai trovato applicazione. Secondo gli artt. 43, 44, 45, gli stati membri avrebbero dovuto stipulare con il Consiglio di Sicurezza il numero, il grado di preparazione e la dislocazione delle forze armate da impiegare nell’alveo di tale organo di polizia internazionale mediante vari contingenti nazionali facenti capo a un Comitato di Stato Maggiore, sottoposto all’autorità del Consiglio di Sicurezza.

Quali differenze tra le Corti internazionali?

Prima di soffermarci sul contenuto del mandato di arresto emesso dal procuratore generale presso la Corte penale internazionale il 20 maggio 2024 occorre specificare le differenze di tale Corte – oltre a quelle temporali relative all’anno della sua istituzione mediante lo Statuto di Roma del 1998 – rispetto alla Corte di giustizia internazionale.

“Sterminio di Gaza: violazione di norme di consuetudine internazionale”.

La Corte penale internazionale non è infatti un organo giurisdizionale delle Nazioni Unite e non persegue gli stati per le violazioni delle norme di diritto internazionale bensì i singoli individui per alcune fattispecie di reati rilevanti ai sensi del diritto penale internazionale, più nello specifico il genocidio, i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e i crimini contro la pace e di aggressione.

Tale distinzione comporta delle conseguenze non trascurabili in quanto come visto

la Corte di giustizia internazionale ha invece come destinatari gli stati che, in quanto enti collettivi qualificabili come persone giuridiche, non possono – qualora vengano condannati per violazione delle norme internazionali – commettere crimini penalmente sanzionabili e quindi le pene a essi comminate, mediante i provvedimenti giurisdizionali, non potranno mai essere quelle previste comunemente negli ordinamenti penali ma avranno tutt’altro tipo di contenuto

come per esempio l’embargo o la rottura dei rapporti diplomatici con gli altri stati delle Nazioni Unite. D’altro canto, va altresì precisato che la competenza giurisdizionale della Corte penale internazionale – così come definita dagli artt. 17 e 18 dello Statuto di Roma – è sussidiaria o meglio complementare rispetto a quella degli stati.

Essa quindi sussiste solo nell’ipotesi in cui gli stati non vogliano o non possano punire le quattro fattispecie dei crimini internazionali di cui sopra e può essere attivata solo mediante le tre modalità previste dallo Statuto di Roma, ossia su iniziativa spontanea del procuratore generale presso la Corte penale, come nel conflitto israelo-palestinese, o mediante richiesta di uno degli stati membri della Corte (a oggi sono 123) oppure ancora su richiesta del Consiglio di sicurezza ma solo riguardo questioni che attengano alla violazione o alla minaccia della pace o ipotesi di aggressione che il Consiglio di sicurezza ritenga non siano di propria competenza. Inoltre, è necessario precisare che l’art. 12 dello Statuto di Roma stabilisce che la Corte penale internazionale – come si è visto per la Corte internazionale di giustizia – è competente soltanto nell’ipotesi in cui la sua giurisdizione sia riconosciuta dallo stato interessato dai suoi provvedimenti.

Tale disposizione di legge nel caso del conflitto israelo-palestinese è particolarmente rilevante perché, se da un lato Israele – così come gli Stati Uniti e la Russia – è tra gli stati firmatari, ma non ha ratificato lo Statuto di Roma per cui formalmente non ha riconosciuto la giurisdizione della Corte, nel caso della Palestina non si può giungere alla stessa conclusione. Infatti, già nel 2015 la Palestina ha richiesto di essere riconosciuta stato parte della Corte penale internazionale in conseguenza degli accadimenti avvenuti a opera di Israele nel giugno del 2014. Non è insolito infatti che gli stati che non percepiscano alcuna tutela da un organo giurisdizionale interno per condotte penalmente rilevanti – come diversi stati africani – sperino di ottenerla mediante l’adesione alla Corte penale internazionale.

Nel 2021 dunque a fronte di tale richiesta la Camera preliminare ha deciso che la Palestina debba essere riconosciuta a tutti gli effetti uno stato ai fini della giurisdizione della Corte penale internazionale e che essa è pienamente esercitabile rispetto ai territori occupati da Israele nel 1967 ossia la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est.

corti internazionali

146 stati (e lo Stato Città del Vaticano) appartenenti all’Onu su 193 riconoscono lo Stato di Palestina.

Nel mandato di arresto del 20 maggio del 2024 il procuratore generale presso la Corte penale internazionale – in seguito alle attività di indagine svolte – ha ritenuto che sia i tre esponenti di Hamas sopraccitati che il primo ministro israeliano Netanyahu e il ministro della Difesa dello Stato di Israele sono responsabili della commissione di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità, ragione per la quale, ancor prima di analizzare il contenuto del provvedimento del procuratore occorre chiarire quali siano le fattispecie che vanno a integrare i suddetti crimini, perseguibili penalmente a livello internazionale.

Cosa sono i crimini di guerra?

Con crimini di guerra si fa riferimento alla violazione di quell’insieme di norme che disciplinano le condotte di quanti combattono nel corso delle ostilità. Tuttavia se è vero che non ogni violazione del cosiddetto Diritto bellico integri necessariamente un crimine internazionale, d’altro canto è vero che anche durante i conflitti armati debbano essere rispettate delle regole minime di civiltà non solo nei confronti della popolazione civile dello stato contro il quale si combatte ma anche rispetto ai prigionieri “dell’esercito nemico” che, non essendo più nella condizione di combattere, devono essere comunque rispettati nella loro condizione di esseri umani da cui discende come corollario il divieto assoluto di essere destinatari di qualsiasi forma ulteriore di violenza bellica, in esito alla loro cattura. Chiarito dunque quali sono i destinatari dei crimini di guerra occorre aggiungere che – così come per il genocidio – anche per i crimini di guerra è presente un complesso di norme internazionali scritte – più specificamente le quattro Convenzioni internazionali di Ginevra del 1949 – che indicano le fattispecie qualificabili come crimini di guerra. Come stabilito da tutte le quattro le Convenzioni di Ginevra del 1949 – trattandosi anche in questo caso di un reato – costituiscono l’elemento oggettivo del suddetto crimine le condotte di omicidio, di stupro, di tortura, la presa di ostaggi, la violazione della dignità personale e i trattamenti inumani e degradanti, ma solo se compiuti nel corso di un conflitto armato o comunque compiuti in ragione dello stesso ovverossia essi devono essere qualificabili come una forma di partecipazione al conflitto. Per quanto attiene all’elemento soggettivo del reato invece in questo caso non è richiesto il dolo specifico come nel caso del genocidio ma l’intenzione di reggere la condotta così come sopra delineata dal punto di vista fattuale.

Si ricorda inoltre che i crimini di guerra sanzionabili secondo le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 erano soltanto quelli internazionali, ossia tra due o più stati, mentre con lo Statuto di Roma del 1998 si sono fatti rientrare nel novero di tali crimini anche quelli compiuti nei conflitti civili ossia tra fazioni diverse ma appartenenti al medesimo stato.

Non un’unica definizione

Più nello specifico con riferimento alla competenza della Corte penale internazionale i crimini di guerra vengono definiti dall’art. 8 dello Statuto di Roma. Diversa analisi è quella che deve essere dedicata alla nozione dei crimini contro l’umanità disciplinati invece dall’art 7 dello statuto della Corte penale internazionale – ma rispetto ai quali non c’è una Convenzione internazionale di riferimento. I crimini contro l’umanità sono una tipologia di crimini che vennero delineati, dal punto di vista storico, mediante l’attività del Tribunale di Norimberga nel corso dell’accertamento dei crimini del regime nazista nel periodo antecedente la Seconda guerra mondiale nei confronti dei cittadini tedeschi come destinatari di condotte criminose, i quali – non essendoci un conflitto in corso – non potevano rientrare chiaramente nel novero dei prigionieri o dei civili dello stato nemico come nel caso dei crimini di guerra.

Ci troviamo sempre, ad ogni modo, dinanzi a reati di rilievo internazionale per cui come è stato individuato per altri crimini penalmente sanzionabili, occorre comprendere l’elemento oggettivo del reato ossia la condotta del “reo” e il suo elemento soggettivo.

Quando il contesto conta

Per quanto attiene al primo aspetto va preliminarmente chiarito – anche in funzione della comprensione del contenuto del mandato di arresto internazionale del procuratore Karimi Khan – che le condotte riconducibili a crimini contro l’umanità possono essere compiute tanto in tempo di guerra quanto in tempo di pace. Esse sono l’omicidio, la tortura, lo stupro, la violenza, la riduzione in schiavitù, e altri atti penalmente rilevanti ma considerati leciti dall’esecutivo al potere in un dato momento storico. Tuttavia, tali condotte vengono qualificate come crimini contro l’umanità solo se compiute nel corso di un attacco sistemico e massiccio, ragione per la quale non possono essere configurati crimini contro l’umanità atti isolati bensì soltanto gli atti che rispondono a una puntuale politica di governo, tollerata dalle autorità nazionali. Inoltre, per quanto riguarda l’elemento soggettivo del reato, anche nel caso dei crimini contro l’umanità ricorre la necessità di un dolo specifico – come si è visto per il genocidio – ossia non solo l’intenzione di porre in essere le condotte di cui sopra ma anche la consapevolezza che quanto si sta compiendo costituisca una violazione generalizzata dei diritti umani. Nel mandato di arresto del procuratore generale più nello specifico si ritengono responsabili – mediante diversi capi di accusa – gli esponenti di Hamas Yahya Sinwar, Mohammed Ibrahim al- Masri, e Ismail Haniyeh, tanto della commissione di crimini di guerra che di crimini contro l’umanità.

Corti internazionali

Quali crimini?

Con riferimento ai soli crimini di guerra (in conformità al succitato art. 8 dello Statuto di Roma) vengono annoverati nel mandato di arresto la presa in ostaggio, i trattamenti crudeli e gli oltraggi alla dignità personale perpetrati nel corso della prigionia mentre come crimini contro l’umanità – in base all’art. 7 – vengono indicati lo sterminio, l’omicidio, e altri atti disumani e degradanti anche se nel contesto della prigionia. Ricondotti ad entrambi i crimini invece sono la tortura, lo stupro e gli altri atti di violenza sessuale. Nel mandato di arresto, rispetto a tali fattispecie rilevanti penalmente a livello internazionale, viene specificato che i crimini di guerra sono stati compiuti nel corso di un conflitto armato qualificato al contempo come internazionale e non internazionale tra Israele e Hamas mentre i crimini contro l’umanità nel corso di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile di Israele, compiuto da parte di Hamas e di altri gruppi armati in conformità all’organizzazione del Movimento.

Tale contesto è il medesimo all’interno del quale il procuratore generale Karimi Khan ha ritenuto destinatari del mandato di arresto internazionale anche il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant in quanto responsabili penalmente, come i tre esponenti di Hamas, di crimini di guerra e contro l’umanità.

Più nello specifico vengono ascritti quali crimini di guerra dei due ministri israeliani: la fame dei civili e l’aver arrecato intenzionalmente grandi sofferenze, gravi lesioni al corpo o alla salute o trattamenti crudeli, nonché gli omicidi e di dirigere intenzionalmente gli attacchi contro la popolazione civile. Il primo ministro e il ministro della Difesa israeliano vengono inoltre ritenuti responsabili di aver provocato sterminio e omicidio anche nel contesto di morti per fame, la persecuzione e altri atti disumani e degradanti ossia crimini contro l’umanità. Tuttavia, poiché diverse delle condotte delle quali sono ritenuti responsabili Netanyahu e Gallant come crimini contro l’umanità sono le medesime idonee a integrare dal punto di vista oggettivo il crimine di genocidio non può passare inosservata in tale ricostruzione dei fatti l’affermazione del procuratore generale Khan mediante la quale si specifica che

«Israele ha intenzionalmente privato la popolazione civile in tutte le parti del territorio di Gaza di oggetti indispensabili alla sopravvivenza umana», ossia con dolo quale elemento soggettivo del reato.

L’integrale perfezionamento del crimine di genocidio – già sollevato dinanzi alla Corte di giustizia che ancora, ricordiamo non si è espressa con un provvedimento definitivo in esito a un giudizio nel merito, nel caso del mandato di arresto del procuratore generale presso la Corte penale internazionale difetta nell’accertamento unicamente della specificità del dolo ossia di quella «volontà di distruggere in tutto o in parte» i palestinesi che tuttavia si ricorda sono già stati considerati riconducibili alla nozione di «gruppo nazionale, etnico, razziale e religioso», unici destinatari di tale crimine secondo la Convenzione di Ginevra. Sulla valutazione dell’esistenza del dolo specifico potrebbero certamente pesare le dichiarazioni del ministro della difesa rilasciate il 9 ottobre del 2023.

Si vedrà solo con il passare degli anni se le due Corti addiverranno nel giudizio di merito a un’univoca ricostruzione dei fatti corroborata o meno dall’individuazione dell’integrazione del o dei medesimi crimini internazionali, sperando che l’attesa non sia ancora inondata di sangue versato da innocenti e che se giustizia non vi può essere perché l’efficacia del sistema di giustizia internazionale non è effettiva che quanto meno si dia una risposta politica così inequivocabile da tracciare non più confini ma filamenti di una maglia di integrazione così estesa e fitta da coprire – seppur con vivida memoria – gli orrori del passato e del presente.


In quanto a risposta inequivocabile a un mese circa dalla pubblicazione di questo articolo la Corte  internazionale di Giustizia dell’Aja ha dato un responso su cui le persone di buonsenso e qualsiasi approccio onesto in punta di Diritto internazionale non possono che concordare da 57 anni a questa parte: Israele ha saccheggiato territori non suoi, imposto un regime di apartheid su popolazioni che non dovrebbero dipendere dallo Stato ebraico, ha vessato, torturato, incarcerato, commesso crimini di guerra e perpetrato massacri, anche favorendo epidemie ed esecuzioni sommarie. Deve smantellare ogni colonia e ritirare le truppe di occupazione da Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme, rientrando nei suoi confini riconosciuti: quelli del 1967 antecedenti la Guerra dei sei giorni. Il fatto che 50.000 palestinesi siano stati uccisi nell’indifferenza generale, i feriti siano nell’ordine di centinaia di migliaia, Gaza distrutta, si continui a impedire la consegna di aiuti umanitari, medicinali salvavita, si diffonda scientemente la poliomielite è solo la dimostrazione che il Diritto internazionale è solo quello del più forte. Anche se – e proprio perché – le indicazioni della Corte comportano un obbligo preciso di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro il paese incriminato, questo assunto – che dovrebbe portare alla soluzione definitiva della questione israelo-palestinese e alla fine dell’arroganza di Tel Aviv – è dimostrato come mera utopia dall’ultima sentenza della Corte internazionale di Giustizia che nel 2003 aveva condannato Israele per l’illegalità del Muro di separazione eretto unilateralmente, derubando tra l’altro i bantustan palestinesi dell’accesso all’acqua.

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L’equilibrista di Ankara sul filo del conflitto mediorientale https://ogzero.org/lequilibrista-di-ankara-sul-filo-del-conflitto-mediorientale/ Thu, 25 Apr 2024 20:18:45 +0000 https://ogzero.org/?p=12587 Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati […]

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Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati risolutivi per lo Stato ebraico e così si assiste al particolare dinamismo da parte di molti attori locali, in particolare di Erdoğan.
La diplomazia turca e il presidente stesso hanno intrapreso un tourbillon di incontri presso i vertici degli stati che compongono la regione mediorientale, proponendosi come mediatore, cercando di raccogliere il testimone lasciato cadere dal Qatar, logorato dal boicottaggio israeliano. Ma soprattutto Erdoğan ha individuato nel conflitto che si vuole estendere dal confronto tra Stato ebraico e Repubblica islamica la nuova centralità dell’Iraq, controllato da Teheran attraverso una ragnatela di accordi con la complessità delle formazioni e delle comunità che abitano il territorio iracheno; insinuandosi nei contrasti interni, il presidente turco mira al petrolio di Erbil e a cacciare il Pkk dai monti del Kurdistan iracheno… Murat Cinar dispiega la sottile tela che si va tessendo, in particolare ricostruendo il ruolo turco e l’avvicinamento di Hamas (evidentemente più rassicurato dall’abbraccio di Ankara – contemporaneamente paese Nato e rivale di Israele – che non dalle petrocrazie arabe) sia nella complessa carneficina della guerra ormai esportata nel resto dei paesi all’interno dei quali le presenze filoiraniane dettano la politica, sia nella strategia per inserirsi nel controllo del territorio e dell’energia irachena, comprandosi Baghdad ed Erbil. E di nuovo, come spesso ci ha raccontato Cinar, spuntano gli oleodotti di Barzani [a proposito: l’immagine in copertina è la fortezza di Erbil pavesata a festa per l’arrivo del presidente turco]  e le dighe su Tigri ed Eufrate, le acque del Medioriente…


Erdoğan è vicino a tutti

 

“Da oltre cento anni, le acque nel Medioriente non trovano pace”, questo è un dato certo. Tuttavia, proprio nelle ultime settimane, siamo testimoni di un fenomeno straordinario. Un fenomeno che coinvolge diversi attori, ma tra essi uno spicca particolarmente: la Turchia.

Dal 7 ottobre fino a oggi, le relazioni tra il partito al governo in Turchia, l’Akp, e l’organizzazione armata Hamas, sono diventate una questione internazionale, chiara e trasparente. L’esponente più autorevole dello stato turco e del partito al potere da oltre vent’anni, ovvero il presidente della Repubblica, dopo alcune settimane di silenzio dal 7 ottobre, ha deciso di comunicare la sua posizione: «Hamas è un’organizzazione di patrioti, non un’organizzazione terroristica». Così, dopo l’Iran, la Turchia è diventata il secondo paese al mondo a esprimere un avvicinamento così netto a Hamas.


Una posizione che entra in contraddizione con i partner europei, con gli alleati Nato, nonché con la Lega Araba e l’Organizzazione della Cooperazione Islamica. In fondo, non si tratta di una novità assoluta. La linea politica ed economica rappresentata dall’Akp è sempre stata vicina ai movimenti fondamentalisti come i Fratelli Musulmani e a una serie di formazioni armate religiose nel Medio Oriente. Inoltre Hamas ha sempre trovato accoglienza, sostegno e riconoscimento presso l’Akp e sotto l’ala protettiva del presidente della Repubblica di Turchia. Tuttavia, questa esposizione così netta, in pieno conflitto, non ha provocato reazioni, sanzioni o embarghi da parte dell’UE e/o della Nato. Poche settimane dopo, nel mese di dicembre, il mondo ha appreso, grazie alle inchieste giornalistiche di Metin Cihan, che persino per Israele non costituiva un grande problema, poiché Tel Aviv continuava a fare acquisti presso aziende turche, incluse quelle statali.

Affannosamente al centro di ogni possibile accordo

Nel mentre Ankara ha tentato diverse volte di assumere il ruolo di “mediatore”, anche se finora senza successo; tuttavia, oggi sembra che questi sforzi stiano finalmente portando dei risultati. Il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha incontrato in Qatar il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, proprio quando Doha stava per abbandonare il suo ruolo di mediatore. Infatti il primo ministro del Qatar, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, il 16 aprile aveva comunicato a Fidan che il suo governo stava per rinunciare. Tuttavia il tentativo del Ministro turco sembra poter ottenere dei risultati positivi. Le dichiarazioni di Fidan ci offrono spunti di riflessione su una serie di scenari:

«Come ho costantemente riferito ai nostri alleati occidentali, Hamas è a favore di uno stato palestinese basato sui confini del 1967 e, una volta creato, è disposto a rinunciare alle armi e a intraprendere la via della politica parlamentare», ha affermato Fidan. Tale dichiarazione prevede anche il riconoscimento di Israele da parte di Hamas, la possibilità di porre fine al conflitto armato, il rilascio degli ostaggi e lo scambio di detenuti politici. Si tratterebbe dell’inizio di una nuova era: «Questo segna il cammino verso la creazione di uno stato palestinese», ha concluso Fidan.

Quando e perché viene fuori una dichiarazione del genere?

Potrà una comunità fondarsi su un altro genocidio come quello di Gaza senza essere una caserma come lo Stato ebraico… o la Repubblica turca?

Senza dubbio il massacro a Gaza ha esaurito innanzitutto i principali protagonisti. Ci troviamo di fronte a un governo sionista, rappresentato da Benjamin Netanyahu, che sta perdendo sempre più il sostegno interno. Da mesi ormai, le strade di Israele sono attraversate da manifestazioni che chiedono le dimissioni di Bibi. In realtà, non è una novità, considerando che nel 2023 Israele aveva già vissuto un lungo periodo di proteste contro il governo per le sue proposte di cambiamento radicale del sistema giudiziario. Oggi Netanyahu è impegnato in una guerra che non sta producendo risultati. Gli ostaggi sono ancora in mano a Hamas, molti sono morti (anche a causa dell’esercito israeliano), e il governo israeliano continua a perdere sostegno a livello internazionale. Le critiche severe che giungono da Washington non sono sporadiche, soprattutto attraverso il più importante esponente politico degli Stati Uniti, ovvero Biden, che tra pochi mesi dovrà affrontare delle elezioni cruciali, dove la situazione israeliana avrà sicuramente un ruolo di rilievo.

Sintonie politico-militari tra leader nazionalisti-identitari

Quindi l’avvicinamento di Ankara a Hamas e il tentativo di portarla eventualmente al tavolo dei negoziati, ottenendo il riconoscimento dello Stato di Israele, la creazione di uno stato palestinese indipendente e il rilascio degli ostaggi, sicuramente portano all’Akp un notevole vantaggio politico. Biden si libera dalla pressione politica e mediatica avvicinandosi alle elezioni, mentre Ankara appare come un mediatore con un canale privilegiato verso un gruppo armato che ha legami diretti solo con l’Iran, attualmente molto isolato.
Infatti, proprio in questi giorni il presidente della Repubblica di Turchia ha paragonato Hamas alla formazione armata che ha fondato la Turchia, la Kuva-i Milliye (anche se con profili ideologici decisamente diversi). Lo stesso parallelo era stato tracciato dallo stesso presidente per l’Esercito Libero Siriano nel 2018, un gruppo di jihadisti che aveva supportato le forze armate turche nelle loro operazioni in Siria. Oggi Erdoğan sembra cercare di presentarsi nuovamente come l’unico intermediario per le organizzazioni terroristiche, a servizio della Nato, dell’Europa e persino di Israele. Non va dimenticato il tentativo di costruire un rapporto diretto con i Talebani nel 2021, quando Erdoğan disse:

«Abbiamo un pensiero ideologico molto simile».

Questo avvenne proprio mentre il mondo era sconvolto dalla fuga degli americani dall’Afghanistan e il ritorno dei Talebani al potere.

Tattiche e affari turchi; accoglienza senza schierarsi

Quindi Hamas rappresenta una nuova opportunità per Ankara, forse anche per garantire un certo sostegno a Bibi. Nonostante gli attriti e le dichiarazioni aspre, Erdoğan e Netanyahu hanno sempre mantenuto un rapporto commerciale molto proficuo, in costante crescita. Anche durante il conflitto, secondo il report dell’Istituto di Statistica turco, Tuik, il volume degli scambi commerciali tra Ankara e Tel Aviv è aumentato del 20%. Tra i prodotti venduti troviamo tutto il necessario per sostenere l’occupazione e l’invasione. Chi altro potrebbe offrire un aiuto così significativo a Netanyahu, in difficoltà al punto da tentare di coinvolgere persino l’Iran in una guerra?

Sì, l’accoglienza diretta e il sostegno a Hamas da parte di Ankara avvengono proprio mentre nel mondo crescono le preoccupazioni riguardo a una possibile guerra tra Iran e Israele.

Tattiche e affari iraniani, intrecci speculari con quelli israeliani

In questo momento di difficoltà interna e internazionale il governo israeliano decide di colpire le postazioni diplomatiche iraniane presenti in Siria, il 1° aprile. Ovviamente sarebbe stato assurdo pensare che l’Iran non avrebbe reagito. Ma in che modo e con quali tempi?

Teheran ha atteso ben due settimane prima di reagire. In Israele l’ansia era palpabile: si sono verificate lunghe code nei supermercati, la popolazione era pronta per la guerra e le critiche nei confronti di Netanyahu si erano intensificate. Tuttavia Teheran, considerando la propria situazione economica e l’instabilità politica interna da anni, non poteva permettersi una vera guerra. Alla fine sono stati lanciati più di 300 razzi/droni verso Israele, ma nessun bersaglio civile è stato colpito e solo una persona è rimasta ferita. Era prevedibile che Tel Aviv avrebbe neutralizzato questo attacco con il suo avanzato sistema di sicurezza? Forse sì. Allora, a cosa è servito tutto ciò?
Innanzitutto Teheran non è rimasto in silenzio dopo l’attacco subito, ha dimostrato al mondo che in qualche modo avrebbe potuto tentare di colpire Israele. Dopo il 7 ottobre, e per la prima volta dopo anni, uno stato ha cercato di colpire Israele mentre tutti i paesi del Golfo osservavano ciò che accadeva a Gaza. Israele ha fermato l’attacco grazie ai suoi alleati, non da solo. In primo luogo la Giordania, poi le forze americane e inglesi hanno dato una mano a Tel Aviv. Quindi, per il governo israeliano, questa non è una vittoria ottenuta da solo.

Inoltre per Israele potrebbe essere stato un tentativo, forse, di spostare l’attenzione da Gaza a Teheran. Forse cercava di coinvolgere gli Stati Uniti in questa guerra, o di ottenere nuovi alleati in un eventuale conflitto futuro. Alla fine della giornata, chi non ha qualche problema con l’Iran? Tuttavia, secondo fonti dell’agenzia di stampa Axios, Bibi non ha ottenuto il sostegno che si aspettava da Biden. «You got a win. Take the win» sarebbe stato il riassunto della posizione del presidente statunitense. In altre parole: “mo’ basta, non ti sostengo più”. Ora Israele molto probabilmente si sta preparando a colpire l’Iran. Non sappiamo ancora in che modo, ma Tel Aviv non è l’unico a cercare di mettere in discussione la presenza dell’Iran in quella zona in questi giorni. Anche Ankara sta cercando di eliminare Teheran dall’Iraq.

Affari e opportunità, rimestando nel caos iracheno

Lorenzo Forlani ci aiuta a inquadrare la mezzaluna sciita: “No “Mena” Land: lo strame di 30 anni di proxy war in MO”.

Erdoğan e l’ossessione anticurda

Pochi giorni prima delle elezioni amministrative tenutesi in Turchia il 31 marzo, una significativa delegazione turca si era recata a Baghdad, ottenendo un risultato di rilievo grazie alla firma di un accordo storico. Con questo accordo, il governo iracheno esprimeva la sua solidarietà ad Ankara nella “lotta contro il Pkk” e prometteva di impegnarsi anche militarmente in questa missione. Oggi è giunto il momento di valutarne i risultati.

Dodici anni dopo il presidente della Repubblica di Turchia si è recato in Iraq il 22 aprile per incontrare il governo centrale a Baghdad e successivamente gli esponenti dell’Amministrazione autonoma del Kurdistan a Erbil. Quali sono gli elementi in gioco e qual è il coinvolgimento dell’Iran?
Uno dei principali problemi che Baghdad fatica ad affrontare è quello economico. Infatti, nel mese di marzo di quest’anno, l’Iraq ha avviato il progetto della “Strada dello Sviluppo”, che prevede il coinvolgimento diretto della Turchia per una serie di prodotti, sfruttando anche la sua posizione geografica strategica. La “Development Road” sarebbe importante anche per diventare un’alternativa per una serie di paesi e aziende occidentali che negli ultimi tempi hanno incontrato difficoltà nel Mar Rosso, una zona controllata da Ansar Allah (Houthi), cioè dall’Iran. Quella formazione armata che spesso impedisce alle navi commerciali di attraversare la zona. Quindi si tratta di un progetto che avrebbe l’ambizione, almeno in parte, di minare il potere politico ed economico di Teheran. Naturalmente l’attuazione del progetto renderà la Turchia un attore importante, che sembra voler approfittare di questa occasione per introdurre ulteriori elementi nel gioco.

E l’ambigua ossessione antiraniana per conto dell’energivoro Occidente

Infatti tra i temi discussi da Erdoğan durante la visita in Iraq c’è anche il consolidamento dell’alleanza diretta per combattere il Pkk, una formazione armata definita “terroristica” dalla Turchia, con alcune sue basi e numerosi vertici situati proprio in Iraq. In questo contesto è importante ricordare che da circa tre anni, durante gli incontri tra Ankara e Baghdad, si discute anche di una possibile collaborazione per eliminare la formazione armata Hashdi Shabi dal territorio iracheno. Questo rappresenterebbe un nuovo gesto contro l’Iran, dato che l’organizzazione in questione è stata costantemente sostenuta e armata da Teheran ed è stata sempre considerata una “minaccia per la sicurezza nazionale” da parte di Baghdad. Pertanto unire la lotta contro il Pkk a quella contro l’Hashdi Shabi potrebbe diventare una missione comune per questi due paesi confinanti.

Quindi, per Ankara, l’attuazione del progetto “Development Road” rappresenta anche un’opportunità per trasformare Baghdad in un vero alleato nella sua missione di contrastare e forse distruggere il Pkk. Dopo che Baghdad ha definito il Pkk “un’organizzazione terroristica” nel mese di marzo, ora non ci sarebbero più ostacoli per avviare le operazioni militari. È importante considerare che un Iraq sicuro, non soggetto a bombardamenti da parte di nessuno, libero dal conflitto armato tra Pkk e Ankara e infine libero dalla presenza iraniana, consentirebbe a tutte le aziende europee e statunitensi di operare “in pace”. Pertanto l’operazione economica e militare proposta da Ankara non gioverebbe solo ai suoi interessi. Infatti, proprio il giorno dell’arrivo di Erdoğan in Iraq, il portavoce dell’Association of the Petroleum Industry of Kurdistan, Myles Caggins, ha dichiarato ai microfoni del canale televisivo iracheno Rûdaw TV:

«Mi aspetto che Erdoğan convinca i dirigenti iracheni a far giungere il petrolio del Kurdistan al mondo attraverso la Turchia».

Dalla padella della mezzaluna sciita filoiraniana alla brace della fratellanza filoturca?

È indubbiamente importante considerare una serie di dinamiche. In Iraq nel 2025 si terranno le elezioni e nel paese non c’è un consenso politico e/o popolare sulla posizione nei confronti del Pkk e sull’avvicinamento con la Turchia. Per esempio, Bafel Jalal Talabani, leader dell’importante partito politico curdo Puk, spesso dichiara che il Pkk non è il suo nemico. Inoltre, è ancora fresca la condanna subita da Ankara per il commercio petrolifero, definito “scorretto”, con l’amministrazione curda. Nel 2023, Ankara è stata multata di 1,4 miliardi di dollari dalla Icc, la Corte Internazionale di Arbitrato.

Ma evidentemente il presidente turco è stato convincente (forniture militari, sicurezza, risorse idriche, promesse varie…), tanto che il portavoce del governo iracheno, Basim el-Avvadi ha rilasciato una dichiarazione il 25 aprile: «Ai membri del Pkk sarà riconosciuto il titolo da rifugiato politico. L’organizzazione invece sarà definita illegale», un’altra diaspora attende i resistenti curdi; contemporaneamente Hamas può trovare ricovero proprio presso il persecutore del Pkk.

Dighe contro le popolazioni mesopotamiche: preludio a un nuovo focolaio di guerra

Oltre a questa questione ancora aperta c’è anche il problema dell’acqua, che rappresenta un tema cruciale. Secondo l’accordo del 1980 la Turchia è tenuta a gestire correttamente il regime dei fiumi che attraversano i suoi confini e scorrono verso l’Iraq. A causa del riscaldamento globale Baghdad cerca da anni di rinegoziare questo accordo, ma Ankara continua a rimandare la questione. Tuttavia, soprattutto durante l’estate, ciò causa un enorme disagio per l’intera nazione, e l’opinione pubblica è convinta che la Turchia stia usando l’acqua come un’arma contro l’Iraq.

La portata del Tigri e dell’Eufrate nel progressivo inaridimento fino alla foce, grafico tratto da Curdi, di Antonella De Biasi, Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

Dopo l’incontro del 22 aprile è molto probabile che Erdoğan abbia ottenuto risultati significativi non solo dal punto di vista economico, ma anche in vista di un’operazione militare imminente. La sua prossima visita, fissata per il 9 maggio a Washington direttamente con Biden, probabilmente includerà anche l’ottenimento di una sorta di “lasciapassare” in Iraq. Non sarebbe fuori luogo aspettarsi un inizio di guerra entro fine maggio.

Perpetuazione del mondo caoticamente multipolare

Il governo turco è apparentemente molto determinato nel lavoro volto a portare Hamas al tavolo dei negoziati, per ottenere una serie di risultati a breve e lungo termine, sia politici che economici, diretti e indiretti. La fine della guerra probabilmente porterà benefici anche a Benjamin Netanyahu, permettendogli di restare al potere senza doversi dimettere. Quindi in Israele potrebbe rimanere un uomo che, tutto sommato, non ha creato grossi problemi a Erdoğan. Anzi, durante la sua carriera politica, il presidente turco ha beneficiato di un notevole benessere economico, sia per le aziende vicine al suo governo che per quelle della sua famiglia.

In quest’ottica, uno Stato ebraico stabile e una repubblica islamica che non esce dai suoi “confini” e rimane al di fuori del gioco in Iraq permetteranno ad Ankara e ai suoi alleati di continuare a giocare la stessa partita anche nei prossimi anni.

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Bhopal, la tragedia tra crimini ambientali e industriali https://ogzero.org/bhopal-la-tragedia-tra-crimini-ambientali-e-industriali/ Fri, 15 Dec 2023 17:28:30 +0000 https://ogzero.org/?p=12139 Bhopal: fu il primo e più clamoroso disastro industriale con copertura mediatica a diffusione internazionale, utile solo a scatenare l’indignazione del mondo ignaro delle condizioni in cui si lavora(va) nelle fabbriche del mondo, in particolare in quelle prive anche delle minime tutele non sempre rispettate nei paesi “occidentali” (solo in Italia basterebbe citare la diossina […]

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Bhopal: fu il primo e più clamoroso disastro industriale con copertura mediatica a diffusione internazionale, utile solo a scatenare l’indignazione del mondo ignaro delle condizioni in cui si lavora(va) nelle fabbriche del mondo, in particolare in quelle prive anche delle minime tutele non sempre rispettate nei paesi “occidentali” (solo in Italia basterebbe citare la diossina di Seveso… fino all’Ilva a Taranto, o il disastro della Thyssen-Krupp a Torino). Può tornare utile rinfrescare la memoria di questo 39° anniversario in un periodo in cui gli apprendisti stregoni soffiano su pozioni magiche e addirittura torna forte il “vento nucleare” come soluzione energetica “pulita”, anche proposta a cuor leggero come alternativa al fossile all’ultima Cop28 di Dubai.

Grazie alla Raghu Rai Foundation per la concessione delle immagini.


Nota come la Hiroshima dei disastri industriali, la tragedia del gas di Bhopal compie quest’anno 39 anni. La notte del 2 dicembre 1984, 45 tonnellate di isocianato di metile (MIC), altamente pericoloso, fuoriuscirono dall’impianto di insetticidi della Union Carbide Corporation, un importante produttore americano di prodotti chimici e protochimici nella città di Bhopal, nel Madhya Pradesh. I sistemi di sicurezza che avrebbero dovuto contenere il gas ed evitarne la fuoriuscita non funzionarono, facendo sì che il gas si diffondesse in ogni parte di Bhopal, esponendo ad esso mezzo milione di persone: circa 25.000 morirono e altre 120.000 stanno ancora soffrendo le conseguenze dei crimini industriali della Union Carbide.

La Union Carbide India Corporation (UCIC) e la Green Revolution

La Union Carbide India Corporation si era costruita una reputazione prima della tragedia. Con un fatturato annuo di 9 miliardi di dollari, l’impegno dell’azienda nelle guerre mondiali ne ha trasformato la crescita: all’inizio della Seconda guerra mondiale l’azienda produceva uranio e concentrati di quel materiale così centrale nelle produzioni radioattive e, poco dopo, divenne la 37a più grande al mondo, costruendosi una solida reputazione. A metà degli anni Venti la UCC mise piede in India, inizialmente producendo batterie a Calcutta, dando vita alla Ever Ready Company Ltd nel 1934. La crescita continua portò alla costruzione della fabbrica di pesticidi di Bhopal nel 1969. L’impulso a produrre pesticidi era strettamente collegato all’ambizione dell’India di essere autosufficiente dal punto di vista alimentare, nota come “Green Revolution” e le carestie dell’India britannica con i loro effetti di lunga durata incrementavano un bisogno urgente di raccolti più abbondanti. Per UCC questo significava un mercato vergine per la produzione di pesticidi.

Bhopal

L’impianto della Union Carbide, 1984 (© Raghu Rai Foundation)

Tuttavia, gli agricoltori indiani che già dovevano affrontare condizioni climatiche estreme come siccità e inondazioni stavano subendo danni alle colture e perdite finanziarie, per cui questi costosi pesticidi divennero inaccessibili. A causa della mancanza di acquirenti, l’azienda subì una perdita di 4 milioni di dollari nel 1984 ma la Union Carbide India Corporation celebrò quell’anno il suo 50° anniversario, con un fatturato annuo di 200 milioni di dollari e 14 impianti già installati in tutta il paese. Tuttavia le previsioni di fatturato furono disattese e la UCIC progettò di liquidare l’impianto, smantellandolo e trasferendolo in Messico o in Indonesia.

L’azienda iniziò a tagliare i costi durante i mesi che portarono al disastro e questo ebbe importanti ripercussioni sulle misure di sicurezza (ricordiamo che già 15 anni prima del disastro l’azienda scaricava spesso rifiuti chimici letali all’interno e nei dintorni della fabbrica).

Elusione delle responsabilità mediche e legali

Mentre inizialmente l’isocianato di metile (MIC) e altre sostanze chimiche venivano importate dagli Stati Uniti in piccole quantità per la produzione di questi pesticidi, l’azienda presto iniziò a produrre strategicamente il MIC in India. Sebbene l’impianto non fosse in grado di funzionare a pieno regime, l’azienda – che stava perdendo il proprio valore – continuò a stoccare grandi quantità di sostanze chimiche pericolose (è stata segnalata la presenza di tre serbatoi contenenti oltre 60 tonnellate di isocianato di metile).

Secondo il rapporto del 2010 del Council for Medical Research indiano (ICMR), «il MIC è un forte veleno, anche se ingerito; la lesione che colpisce le mucose è dovuta alla reazione esotermica quando questo entra in contatto con l’umidità dei tessuti». Il rapporto spiega inoltre che: «Il MIC è considerato così pericoloso che qualsiasi azienda britannica che lo utilizzi o lo conservi dovrebbe presentare piani di emergenza per affrontare le conseguenze in caso di fuoriuscita». Incolore, inodore e altamente volatile, il suo aspetto più letale in caso di fuoriuscita nell’atmosfera è l’impossibilità di contenerlo all’interno di un impianto o di un serbatoio in fabbrica».

Nell’apocalittica notte del 2 dicembre un dipendente dell’UCIC stava cercando di spurgare una tubatura corrosa, e a causa del malfunzionamento di diversi rubinetti l’acqua fluì liberamente nel serbatoio più grande del MIC. Il contatto con l’acqua provocò un’esplosione incontrollabile, il serbatoio iniziò a sprigionare nubi tossiche di cianuro di idrogeno, amina monometilica e MIC, oltre ad altre sostanze chimiche che si diffusero nell’aria di Bhopal e le persone cominciarono a morire.

La Union Carbide chiuse il sito e l’impianto fu abbandonato nell’incuria; la necessaria pulizia dell’impianto non ebbe mai luogo perciò le sostanze chimiche tossiche permangono nel sito ancora a livelli elevati. Nel 1989 la Union Carbide stessa condusse in segreto dei test, i cui risultati mostrarono come le acque sotterranee stessero rapidamente uccidendo i pesci. La raccolta dei campioni avveniva all’interno delle mura della fabbrica – la popolazione locale spesso attingeva l’acqua dalle condutture e dai pozzi che si trovavano al di là di queste mura. Nel 1999 si effettuarono test sull’acqua di pozzo e sulle falde acquifere che rivelarono alti livelli di mercurio, 6 milioni di volte superiori a quelli considerati sicuri dalla Environmental Protection Agency degli Stati Uniti (EPA).

Dopo continue smentite e ritardi legali da parte dell’UCC, nel 1989 si raggiunse un parziale accordo extragiudiziale tra il governo indiano e la Union Carbide, e quest’ultima pur accettando di pagare 470 milioni di dollari a titolo di risarcimento, rifiutò di assumersi qualsiasi responsabilità legale. Le vittime non furono mai consultate durante le trattative; 470 milioni di dollari potrebbero sembrare una somma elevata in termini di valore nominale, ma non sono stati sufficienti a pagare i danni, le vittime e i processi di riabilitazione: a nove vittime su dieci sono stati risarciti 500 dollari a testa o una somma sufficiente a coprire le spese mediche per un massimo di cinque anni. Inoltre, molti di coloro che sono stati esposti al gas hanno perso la capacità di guadagnarsi da vivere: coloro che lavoravano come operai occasionali, non erano più in grado di sostenere attività fisiche impegnative.

Bhopal

Sede del Centro vittime del gas istituito nel 2002 dal Governo (© Raghu Rai Foundation)

Nel 1991, il presidente e amministratore delegato della Union Carbide all’epoca del disastro, Warren Anderson, fu accusato dal sistema di giustizia penale indiano di «omicidio colposo non colposo». Anderson fu arrestato non appena mise piede in India, ma non affrontò mai un processo, poiché gli fu concessa rapidamente la libertà su cauzione dopo aver trascorso alcune ore agli arresti domiciliari e fuggì immediatamente dopo, salendo sul primo volo disponibile. Se fosse stato condannato, Anderson avrebbe rischiato 10 anni di carcere.

Il governo indiano ha chiesto l’estradizione, ma la richiesta è rimasta inascoltata per oltre tre anni e mezzo, fino a quando è stata dimenticata.

Stop Dow Chemical Company!

Nel 2001, la Dow Chemical Company, con sede in Michigan, ha acquisito la Union Carbide con tutte le attività e le passività connesse. Tuttavia, dopo questa fusione, il sito di Bhopal non è mai stato bonificato come avrebbe dovuto, l’impatto tossico del MIC non è mai stato comunicato alla comunità medica indiana e i rapporti sono stati tenuti nascosti agli studiosi che li richiedevano.

Bhopal

Proteste, 2001 (© Raghu Rai Foundation)

I rapporti dei test di follow-up pubblicati nel 2002 hanno rivelato la presenza di tricloroetano, sostanza chimica che causa danni allo sviluppo fetale, e negli anni successivi, gli studi condotti nel 2016-17 hanno rivelato le sostanze chimiche che continuano a essere presenti nelle acque, causando danni cerebrali, cancro e malformazioni congenite. Il 3 ottobre 2023, il tribunale di Bhopal ha emesso un settimo avviso di garanzia alla Dow Chemical Company, dopo che tutti e sei i precedenti erano stati ignorati. Sul sito web della società si continua a negare qualsiasi legame con la Union Carbide.

L’insieme dei crimini ecologici e aziendali

Oggi circa 50.000 bhopali non possono lavorare a causa di quel disastro. L’UCC è ancora responsabile dei danni ambientali che ha causato, argomento che non è mai stato affrontato durante le trattative del 1989. Nel frattempo la contaminazione continua a diffondersi nella città. La tragedia del gas di Bhopal ha segnato la coscienza collettiva degli abitanti.

Il disastro evidenzia i fallimenti della politica urbana, degli standard di sicurezza e di come il progresso industriale non tenga conto dei quadri normativi.

Questo ci ricorda la sconsideratezza delle imprese transnazionali come la Union Carbide, che agiscono non in base a ciò che è giusto, ma a ciò che è redditizio ed efficiente. La tragedia ha avuto luogo negli anni iniziali della globalizzazione economica e quando i diritti umani fondamentali delle persone vengono calpestati in nome dello sviluppo economico si configura un vero e proprio crimine. La tragedia del gas di Bhopal è una testimonianza eloquente della giustizia rinviata e della giustizia negata per le persone decedute e per quelle che continuano a sopravvivere in quelle condizioni ambientali. Come ha giustamente sottolineato il professor Reece Walters:

«Bhopal fornisce lezioni e sfide per la giustizia ambientale, il commercio globalizzato e il potere e la criminalità delle imprese e la giustizia delle vittime, la regolamentazione delle imprese transnazionali e i pericoli derivanti dall’autoregolamentazione orientata al commercio delle compagnie transnazionali».

Bhopal

Vittima della fuga di gas (© Raghu Rai Foundation)

 

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L’epilogo comune del conflitto armato filippino? https://ogzero.org/conflitto-armato-filippino-l-epilogo-comune-del/ Sat, 02 Dec 2023 01:57:49 +0000 https://ogzero.org/?p=11994 Molto interessante la segnalazione di Gianni Sartori a proposito di un processo misconosciuto dai media mainstream – e anche i portali europei più attenti alle lotte di emancipazione non registrano gli “annientamenti” mirati contro i militanti più storici di una lotta che dura da 50 anni nell’arcipelago filippino. Ci sembra particolarmente significativo descrivere il processo […]

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Molto interessante la segnalazione di Gianni Sartori a proposito di un processo misconosciuto dai media mainstream – e anche i portali europei più attenti alle lotte di emancipazione non registrano gli “annientamenti” mirati contro i militanti più storici di una lotta che dura da 50 anni nell’arcipelago filippino. Ci sembra particolarmente significativo descrivere il processo di “pacificazione” del conflitto armato filippino con la guerriglia maoista intrapreso dal potere a Manila assimilabile alle modalità in cui si stanno consumando le soluzioni dei conflitti “epocali” in tutto il mondo: il caso più macroscopico anche per quantità riguarda i palestinesi, ma l’esempio più avvicinabile è il lento stillicidio colombiano delle Farc e probabilmente un futuro curdo che si prospetta per le importanti esperienze del confederalismo democratico, così tristemente simile a un passato Tamil; parzialmente diverso è il caso birmano, dove le comunità temporaneamente alleate contro Tatmadaw sono unite da ragioni meno nobili degli altri “eserciti” di liberazione citati.
Una notazione che ci viene dalla proposta grafica che abbiamo trovato come illustrazione dell’intervento: il tratto o l’inquadratura esibiscono tutti una retorica che sembra provenire da un lontano passato che non è riuscito ad aggiornarsi e anche per questo ha perso il suo appeal sui giovani e perciò l’apparato iconografico dei trattati di pace si compiace di ritrarre vecchi esausti che riconoscono che la contrapposizione armata al potere non è una prassi in grado di portare a risultati in questa fase storica.


L’arcipelago in fiamme da mezzo secolo

Distrazione, correlazioni saltate, oppure… repressione globale?

Tra le tante guerre a (relativamente) “bassa intensità” quella che si svolge nelle Filippine non è certo tra le più conosciute o documentate. Fermo restando che sia le lotte per l’autodeterminazione (indipendentiste o meno) che le eventuali “soluzioni politiche” (dal Sudafrica all’Irlanda, dalla Colombia ai Paesi Baschi…), per quanto frutto di ragioni intrinseche (almeno quelle autentiche, non create ad hoc) dipendono anche – o soprattutto – da ben altro. In particolare dal contesto geopolitico. Per chi preferisce: il “campo” in cui schierarsi, volenti o nolenti.
Dalle Filippine, anche nell’anno in corso, sono arrivate notizie soprattutto di scontri tra militari e guerriglieri (in genere comunisti). Scontri che solitamente – stando almeno a quanto si conosce – si concludono a sfavore dei secondi.
Da segnalare poi come sempre più spesso vengano uccisi elementi di spicco (comandanti…). Un segnale di perfezionamento delle operazioni di intelligence?

Intensificazione di esecuzioni mirate

Tra gli episodi più recenti (inizio novembre 2023), la cattura a Barangay Buhisan (San Agustin) di Cristitoto Tejero, comandante in capo del Fronte di guerriglia 19 della New People’s Army – Comitato regionale del Nordest di Mindanao. Il militante maoista (57 anni) era da tempo ricercato per la sua attività guerrigliera e in particolare per l’uccisione di un militare.
Pochi giorni prima, il 26 di ottobre, un altro esponente della Bagong Hukbong Bayan (Npa) da tempo ricercato, Michael Cabayag (Ka Teddy, comandante del Fronte di guerriglia Sendong) era stato ucciso dai soldati del 10° battaglione di fanteria nel villaggio di Carmen (Misamis Occidentale). Nella stessa circostanza veniva catturato un altro militante, Armida Nabicis (Ka Yumi). Tra le armi trovate in loro possesso: un fucile M-16 Armalite, un CZ (AK-47), una carabina M653 e un lanciagranate M-203.

La mattanza di combattenti irriducibili… e “storici”
Un altro esponente di spicco della guerriglia maoista, Ray Masot Zambrano, era stato precedentemente abbattuto a Barangay Obial (Kalamansig) il 10 ottobre.
L’operazione veniva condotta dai militari della 603° brigata di fanteria. Quasi contemporaneamente un altro membro della Npa (di cui al momento non si era potuto accertare l’identità) soccombeva sulle montagne di Buneg (Lacub, Abra).

Ancora più tragico il bilancio del 29 settembre quando almeno cinque esponenti della Npa perdevano la vita nella città di Leon, provincia di Lloilo.
Tra loro la comandante Azucena Churesca Rivera (Rebecca Alifaro, conosciuta anche come Jing).
Nella guerriglia dal 1980, svolgeva funzioni di Segretaria del Fronte sud della Npa -Komiteng Rehiyon-Panay.
Altri due guerriglieri venivano uccisi da una pattuglia di polizia nei pressi dell’aeroporto di Bicol (tra i villaggi di Bascaran e Alobo).
L’ennesimo guerrigliero era deceduto qualche giorno prima a Esperanza (Agusan del Sur) e almeno sei il 21 settembre nel villaggio di Taburgon (Negros occidentale)
Rispettivamente dal 26° battaglione di fanteria e dal 47° battaglione.
I sei maoisti facevano parte del Fronte sud-ovest della NPA. Tra di loro, Alejo “Peter/Bravo” de los Reyes; Mélissa “Diana” de la Peña ; Marjon “Kenneth” Alvio ; Bobby “Recoy” Pedro e il medico Mario “Reco/Goring” Fajardo Mullon.
Quanto al sesto guerrigliero, all’epoca non era stato ancora identificato.
Oltre ad alcune armi i militari avevano recuperato molto materiale propagandistico e politico.

Ancora sei maoisti (altri sei) erano caduti in combattimento il 7 settembre nel corso di una serie di scontri a fuoco con i militari nella zona di Sitio Ilaya (provincia di Bohol) mentre, intercettati a un posto di blocco, tentavano di sganciarsi.

Invece il 20 marzo era stato un sottufficiale dell’esercito filippino a venir ucciso in un conflitto con una decina di guerriglieri della Npa nell’isola di Masbate.

Comunque un doloroso stillicidio, oltretutto senza apparente via d’uscita e che – stando ai dati ufficiali – avrebbe causato oltre 40.000 morti (in maggioranza civili) in circa mezzo secolo.
Ma recentemente, dopo che precedenti trattative si erano insabbiate, è apparso qualche segnale di possibile soluzione del conflitto. Innanzitutto l’amnistia per i ribelli in carcere e poi una dichiarazione congiunta tra il governo filippino e il National Democratic Front of the Philippines (Pambansang Demokratikong Hanay ng Pilipinas), con cui entrambi intendevano ricucire il dialogo bruscamente interrotto sei anni fa dall’allora presidente Rodrigo Duterte (ex guerrigliero maoista).
Buona parte del merito dell’iniziativa andrebbe al presidente Ferdinand Romuáldez Marcos Jr (eletto nel 2022 e che presumibilmente vuole riscattarsi dalle colpe del padre) il cui Assistente speciale Antonio Ernesto Lagdameo è stato nominato Negoziatore governativo.

Il Fronte, coalizione di una ventina di organizzazioni (tra cui, oltre alla Npa, il Communist Party of the Philippines), ne costituisce la “vetrina politica” e attualmente è guidato da Luis Jalandoni, un ex sacerdote (tra i membri anche la Christians for National Liberation da lui fondata).

Altre organizzazioni che ne fanno parte:
Moro Resistance and Liberation Organization (Mrlo), Katipunan ng Gurong Makabayan (Kaguma), Liga ng Agham para sa Bayan (Lab), Lupon ng Manananggol para sa Bayan (Lumaban), Malayang Kilusan ng Bagong Kababaihan (femministe), Revolutionary Council of Trade Unions (Rctu),Pambansang Katipunan ng Mambubukid (Pkm), Katipunan ng mga Samahang Manggagawa (Kasama), Cordillera People’s Democratic Front (Cpdf)
Un eterogeneo raggruppamento tattico di partiti, associazioni della società civile, sindacati e gruppi armati di sinistra, milizie etniche, tribali e altro che per certi aspetti può ricordare l’attuale coalizione antigovernativa del Myanmar.Se non addirittura –almeno in prospettiva, potenzialmente – la situazione del Rojava.

Le pacifiche soluzioni di Oslo

Il 23 novembre 2023 Jalandoni, rappresentante del Partito comunista, e Lagdameo, assistente di Marcos jr., hanno firmato a Oslo una dichiarazione con cui si impegnano «per una soluzione pacifica ed equa del conflitto armato» e per una “pace giusta e duratura”.

Sottolineando «la necessità di unità come nazione per fare fronte alle minacce esterne alla sicurezza», auspicando indispensabili riforme socio-economiche atte a superare l’attuale situazione alquanto disastrata (anche sotto il profilo ambientale).

Scomparse significative: residuali baluardi dissolti nel nuovo ordine globale

Forse ha indirettamente contribuito all’accelerazione del nuovo corso la recente scomparsa in esilio (nel dicembre 2022) del dirigente comunista maoista Jose Maria Sison.
E proprio per il Communist Party of the Philippines e per il suo “braccio armato” (Npa) è prevista una trasformazione in organizzazione politica (analogamente al processo che ha interessato le Farc colombiane).

 

 

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Lettera22: luoghi e tempi per immaginare il sequel https://ogzero.org/lettera22-luoghi-e-tempi-per-immaginare-il-sequel/ Thu, 09 Nov 2023 16:17:25 +0000 https://ogzero.org/?p=11838 Nell’estate 2023 è uscito dopo una accorta e lunga gestazione, il numero zero di “Lettera22”, manifestazione in forma di rivista del consorzio omonimo di giornalisti indipendenti in occasione del trentennale della creazione del gruppo di professionisti che testimoniano la realtà dove si svolge, essendone esperti di lunga data. La produzione è descritta nell’editoriale come “lento […]

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Nell’estate 2023 è uscito dopo una accorta e lunga gestazione, il numero zero di “Lettera22”, manifestazione in forma di rivista del consorzio omonimo di giornalisti indipendenti in occasione del trentennale della creazione del gruppo di professionisti che testimoniano la realtà dove si svolge, essendone esperti di lunga data.
La produzione è descritta nell’editoriale come “lento ruminare” che racconta l’addensarsi dell’esplorazione dello spazio scritto a specchio di quella dei luoghi dove gli eventi, liberati dalle colonne della cronaca geopolitica, fuoriescono per costituire i capitoli di un libro in forma di magazine; l’oggetto dell’esplorazione diventa così una “terra di mezzo”, come esplicitano gli autori che rivendicano l’ibridazione delle forme narrative: dalla graphic novel al saggio sociologico, dal reportage di viaggio al racconto storico immerso in un orto o in un aeroporto al momento dello scoppio di una “operazione militare speciale”… rigoroso, circostanziato, preciso, eppure godibile per la creatività spontanea.
Rilegate in una confezione raffinata le storie graficamente impreziosite dei complici dell’Associazione di giornalisti indipendenti ci portano a spasso per il mondo con storie che si dipanano tra Corno d’Africa e Sudest asiatico, dal preludio al ritorno dei Talebani in Afghanistan all’Italia del fascismo – quello precedente e parallelo alla contemporanea invasione nazista della Serbia descritta nei disegni inediti di Zograf

Alla fine della lettura abbiamo pensato che valesse la pena tornare su alcuni dei luoghi evocati nel libro-fascicolo: ciascuno degli interventi è corredato da un Secondo Tempo, ci sembra che un buon approccio per OGzero per interpretare l’utilità di questa formula editoriale – e proporne un processo di lettura in sintonia con gli obiettivi di entrambe le testate – sia quello di partire dalla realtà in cui si stanno evolvendo ora i processi che troviamo in nuge tra le righe di questo volume e rintracciarvi le tracce o i prodromi; una sorta di Terzo tempo che ritorna sulla meditazione dei testi proposti per rilanciarne la attualità che li ribadisce.


In the mook del giornalismo indipendente

Gli afgani collaterali

Il fascicolo si apre sul quartiere del Politecnico di Kabul dopo il ripristino della shari’a, ma la storia rievocata da Giuliano Battiston insieme al padre della vittima, a cui le illustrazioni pointilliste di Giacomo Nanni conferiscono cromatismi psichedelici, percorre il 3 maggio 2009 una strada vicino a Gozarah…

Illustrazione di Giacomo Nanni

Ora si è richiuso il sipario sul paese abbandonato dalla Nato definitivamente due anni fa, ma quell’episodio di sprezzo per la vita delle popolazioni civili autoctone da parte del contingente italiano ai tempi in cui Ignazio Benito era ministro della Difesa rimane irrisolto e il generale Rosario Castellano ha potuto andare in pensione come generale di corpo d’armata il 28 giugno 2023 senza macchia e con tutti gli onori; solo un ulteriore episodio del corollario di collateral damage, perla lessicale eufemistica coniata da Bush per le stragi perpetrate dagli eserciti alleati. Nei vent’anni di occupazione euro-americana l’Afghanistan è stato oggetto di aiuti che servivano di più alle organizzazioni e istituzioni occidentali, che hanno gestito il paese in maniera diversamente coloniale, spesso con disprezzo per una cultura che nessuno ha voluto conoscere e che le truppe non incrociavano nell’apartheid armato che vigeva e che causò l’omicidio al centro della ricostruzione di Battiston. Il risultato è la diffidenza restituita dagli afgani che si sono sentiti presi in giro e non hanno trovato motivi per resistere al ritorno dei Talebani a seguito di una nuova fuga dopo quelle dei britannici del Great Game e del generale Gromov, mentre attraversava il ponte della Fratellanza, prima crepa sul muro dell’imperialismo sovietico. Le condizioni del paese fanno da sfondo alla precisa restituzione della testimonianza del padre della vittima effettuata da Battiston e si ripresentano invariate: la situazione delle carceri, le spie, l’economia dell’oppio dell’Hellmand sostituita dalla produzione di metanfetamine, la prevenzione inesistente per i disastri dei terremoti (con il corredo di migliaia di morti nell’autunno delle province dell’Ovest), proprio dove operava quel contingente italiano.

OGzero ha frequentato spesso la tragedia afgana e raccolto i racconti dei ragazzi, le cui radici affondano in quella cerniera tra mondo persiano, continente indiano e corridoi per le merci dal mondo cinese al di là dell’Himalaya, da dove sono espatriati quasi vent’anni fa, mantenendo forti contatti con le famiglie, tornando tutti a sposare donne scelte dal clan, a volte ancora nelle case avite di Ghazni, in altri casi già trapiantati a Quetta fin dalla disfatta sovietica. La novità di questo periodo è quella che la diaspora di un popolo espulso dalle sue terre non ha fine e il governo pakistano ha decretato la cacciata degli afgani dal proprio territorio, adducendo il pretesto che molti degli attentati jihadisti sono attribuibili a profughi afgani.

 

 

Ma proprio quei ragazzi hazara ci invitano ad approfondire chi sarebbero quel paio di milioni di afgani che devono lasciare il Pakistan e la loro destinazione, per comprendere meglio il disegno che potrebbe nascondersi dietro il loro rimpatrio. Innanzitutto i senza documenti afgani non stanno a Quetta, ma a Nord e i Talebani afgani saprebbero già dove collocarli: sarebbero destinati al territorio confinante con il Tagikistan e l’Uzbekistan, perché nella regione a maggioranza tagika e uzbeca scarsi sono gli islamisti e la deportazione dei pashtun molto probabilmente affini ai talebani servirebbero a diventare maggioranza in un territorio in cui si è completato un canale, il Qosh Tepa, che dirotta le acque del Amu Darya, in grado di irrigare i terreni desertici e poco abitati, dando opportunità di lavoro a comunità poco rappresentate in zona. Ma soprattutto possono esportare nei paesi limitrofi il radicalismo islamista caro ai talebani, e in particolare l’Uzbekistan potrebbe essere a rischio di infiltrazione, ovvero la nazione a ridosso della quale si trova l’area più arretrata dell’Afghanistan, quella con minori risorse.

Mappa tratta dal volume La grande illusione (Rosenberg &Sellier, 2019)

A proposito di deportazioni e diaspore capitano a fagiolo due dei racconti del “Secondo tempo” di “Lettera22”, quello che vede protagonista Ahmad Naser Sarmast, fondatore dell’Istituto nazionale di musica, chiuso dai talebani provocando la fuga all’estero delle allieve musiciste e il breve racconto da Kandahar, la capitale delle melograne, dove il conflitto si fece aspro quando gli americani precipitosamente restituirono il paese all’oscurantismo e gli agricoltori dovettero abbandonare case e terreni. Ora «la guerra è finita e siamo tornati a lavorare i campi».

Questo avviene più al Sud del paese; al Nord si stanno preparando penetrazioni del jihad verso le repubbliche centrasiatiche, attraverso una possibile “sostituzione etnica”; proprio le due repubbliche che Francia e Unione europea hanno preso in considerazione per imbastire una rete di relazioni commerciali, in alternativa alle risorse minerarie di cui non riescono più ad approvvigionarsi in Africa. E il viaggio di un paio di giorni di Mattarella a Samarcanda non può non avere risvolti strategici in questo senso.

Una serie di dubbi di una serie con troppi spunti e ipotesi, che proprio il cofondatore di “Lettera22” ci aiuta a ricomporre in questo podcast:

“L’ingombrante presenza afgana in Pakistan risolta con l’espulsione?”.

 

Il giornalista a una dimensione: quella in viaggio

Uno dei fili rossi del numero zero di “Lettera22” si può individuare nel reportage, talvolta seguendo itinerari di camminanti alla scoperta di territori; più spesso i paesaggi sono di conflitti e talvolta di intrichi delittuosi; in altri casi si tratta di semplici brevi spostamenti nello spazio, ma sprofondati nell’utopia delle performance voguing inseguita in Germania o dislocamenti lontani nel tempo a disvelare delitti irrisolti nella Lucania insurrezionale postborbonica. Appassionanti comunque, non ci soffermiamo su questi apporti contenuti nel fascicolo solo perché il nostro ambito è già fin troppo ampio delimitandolo alle questioni geopolitiche.

La tassonomia coloniale come classificazione della specie

Illustrazione di Adriana Marineo

Un approccio neanche tanto nascosto tra le pieghe dell’intelligente apporto di Paola Caridi che mette al centro la Sicilia, quella dell’annuncio mussoliniano dell’impero dell’agosto 1937– sembra di assistere ancora una volta alle immagini dell’Istituto Luce – quello dalla vicina Libia e del remoto Corno d’Africa. Entrambe aree non a caso in fibrillazione: 120 anni di storia di un colonialismo (e protettorato dell’Agip/Eni) straccione hanno prodotto scollamento e odio intercomunitario come eredità delle nefandezze. La Sicilia al centro geografico dell’impero che rende colonialismo l’emigrazione, e ora diventa testimonianza di ciò che di quella Palermo hanno lasciato i bombardamenti: Villa Giulia e l’Orto botanico – “colonizzati” ora per contrappasso dall’immigrazione bengalese per praticare il cricket. Quella Sicilia al centro dello schieramento strategico Nato nel Mediterraneo: Sigonella, il Muos… come racconta un altro complice di “OGzero” e “Lettera22”, Antonio Mazzeo.

Come si vede s’intrecciano in poche pagine serie di argomenti che regolano i rapporti mondiali tuttora, affondando le radici in quel precedente regime fascista – e in quell’altra Guerra mondiale –, retaggi della storia che tornano, evocati da quei luoghi che nella storia hanno rappresentato le stazioni di molte tappe. Anche se ora il Giardino coloniale non esiste più fisicamente, però le piante dell’Altro ci hanno conquistato, dimostrando come si ripeta la seduzione eclettica della cultura aliena che aveva ellenizzato la vittoria militare della Roma antica. Ma soprattutto l’aggettivo del Giardino è importante nell’evoluzione dell’articolo di Paola Caridi che si può gustare da pagina 68 di “Lettera22” numero zero: l’approccio coloniale dell’Italia fascista rispunta nella sua brutalità come la gramigna sulla falsariga di britannici e soprattutto degli olandesi descritti da Amitav Gosh a proposito della noce moscata. Scrive l’estensore del saggio:

«L’agricoltura coloniale doveva imporre alle comunità native un modo di coltivare secondo la nostra impostazione agricola. Allo stesso tempo doveva formare tecnici italiani capaci di coltivare le specie locali», a cui nel trasporto in “patria” gli scienziati italiani avevano persino cambiato nome a piante che loro ritenevano di aver “scoperto” e riconducendole alla sistematica classificazione linneana, ma che stavano lì da sempre, con quell’atteggiamento che Gerima, il regista etiope, stigmatizza da sempre: l’imposizione di un punto di vista culturale esogeno che fa della “integrazione” delle Species plantarum un paradigma per quella delle “razze”, per dirla alla Almirante. E infatti nell’articolo di Caridi lo spostamento dall’Orto botanico palermitano a quello romano trova protagonista una donna di origine somala, lingua letteraria italiana e «cosmogonia botanica complessa», che mette in relazione lo stato «sofferente, striminzito, piccolo» di una pianta d’incenso, che erano le stesse condizioni in cui si sentiva l’animo della donna; per poi tornare all’Orto siciliano e lì ritrovare gli insegnamenti paterni e l’originario nome della coltura. Le jacaranda palermitane però sono solo una “citazione lontana” delle strade di Gaza… quando esisteva ancora: forse per non offuscare la bellezza della copia si è operato in modo da cancellare l’originale.

In questa tassonomia non poteva mancare la supponenza bonapartista della reinterpretazione in chiave orientalista della cultura dei popoli attraversati dalle armate francesi:

«Dare un nome alle piante significa non soltanto appropriarsene, ma cancellare completamente una storia. È la storia all’interno di un preciso ecosistema che viene resa invisibile, anche attraverso il “nominare”. E assieme a questo battesimo non richiesto ci son le ramificazioni scientifiche, mediche, culturali».

Le stesse usate da Bonaparte: è la cancellazione degli eventi precedenti all’arrivo del colonizzatore, in modo da restituire una verginità culturale su cui imbastire una narrazione occidentale che faccia sue le risorse altrui. Il pessimo ultimo colonialismo italiano si insediò con le scuole di agraria. Sempre meglio che esternalizzare lager in Albania.

Quel treno per Yunnan

E questo “orientalismo” ci consente di salire insieme a Emanuele Giordana sul Cina-Laos Express, senza provare l’ebbrezza del viaggio verso le terre evocate dall’Orient Express.

Mappa di Andrea Bruno

L’estensore aveva accennato a questo percorso già in un intervento radiofonico (dal minuto 45 di questo podcast) in cui illustrava con evidente ammirazione il percorso ferroviario che porta da Kunming nello Yunnan cinese a Singapore, attraverso Vientiane. Un ramo di quella rete di trasporti che i cinesi hanno inserito nella Belt Road Initiative per omogeneizzare e far crescere l’Asean, aggirando il chockpoint potenziale dello Stretto di Malacca:

“Il mattatoio birmano dopo 2 anni: dati, analisi, prospettive allargate all’Asean”.

Subito il pezzo di Emanuele Giordana si dipana dalla capitale del Laos, ma anche sollevando il velo del tempo sulla prima esperienza degli anni Settanta: facile il confronto… anche perché allora persino la Thailandia era coinvolta dagli Yankee nella guerra al Vietnam. Gli spostamenti e l’attraversamento come sempre relativi alla situazione epocale si alternano nel racconto che è sempre avventura: in questo caso si trascorre da ricordi “stupefacenti” di rivoluzioni e sostanze, monaci e Ak-47, bombe e principi rossi, a taxi carissimi e le difficoltà a muoversi autonomamente; cimeli museali di chemins de fer e “scommesse” (arriveremo a Boten in una delle tappe del treno: «centro del gioco d’azzardo con annessi e connessi») cinesi sul futuro avamposto laotiano, trascorrendo dal periodo coloniale classico al neocolonialismo, attraversando nuvole di oppio che escono dal treno su cui risaliamo a Vang Vieng, dopo una pausa narrativa tutta da godere nel Triangolo d’oro, di cui ancora vagheggiamo in certi articoli. Adesso i divertimenti sono equiparabili a divertifici economici a basso contenuto culturale e infima attenzione ecologica… ma si può proseguire alla tappa successiva Luang Prabang; ma soprattutto il viaggio racconta tante verità sul paese e sulla condizione dei laotiani (e forse di un po’ tutto il Sudest asiatico), che il testimone rileva da par suo: infrastrutture cinesi e platea di consumatori laotiani; appaltatori e tecnologie… ovvero il Bignami della Bri fatto tratta ferroviaria… con tutto il contorno di affari e presenza cinesi.

Illustrazione di Andrea Bruno

E allora si coglie la politica della rieducazione dell’intera area effettuata da Pechino alla propria cultura, alla propria lingua; e il treno – lo insegna il vecchio West e Sam Peckimpah – è fattore unificante e ficcante, utile per diffondere idee e modi di vita ad “alta velocità”.

E così arriviamo a Boten: come Oudom Xai è l’ombelico del mondo ferroviario, così Boten è la fenice locale che risorge sempre dalle sue ceneri… però solo il ricordo del viaggiatore, che negli ultimi decenni è transitato di qui periodicamente, può restituire l’evoluzione del territorio. E Boten è di nuovo un fulgido modello di molte città sul confine di stati, dove è concesso ciò che altrove non si può fare. E intanto il Laos muta la sua natura: ambiziosi progetti cinesi visti dal finestrino tolgono spazio al Laos agricolo e rurale… ma queste lampisterie non sono che alcuni passaggi di un racconto preciso e a tutto tondo dell’evoluzione del paese ai lati della ferrovia… che i cinesi vorrebbero portare fino a Bangkok, e infatti i tailandesi temono il progetto, perché con il treno si estende l’influenza di Pechino.

Ma questa è un’altra storia e vedremo di raccontarla sia con “Lettera22” che nei libri di “OGzero”

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L’invincibile intreccio tra industria bellica, finanza, politica e istituzioni americane https://ogzero.org/industria-bellica-e-finanza/ Thu, 02 Nov 2023 19:09:10 +0000 https://ogzero.org/?p=11798 Industria bellica e finanza, protagoniste dell’escalation in un’economia di sostegno alla guerra. Nella giornata di Halloween i principali leader militari e diplomatici degli Usa hanno esortato un Congresso sempre più diviso a inviare importanti aiuti immediati a Israele e all’Ucraina, sostenendo in un’audizione al Senato che un ampio sostegno all’assistenza darebbe un segnale di forza […]

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Industria bellica e finanza, protagoniste dell’escalation in un’economia di sostegno alla guerra. Nella giornata di Halloween i principali leader militari e diplomatici degli Usa hanno esortato un Congresso sempre più diviso a inviare importanti aiuti immediati a Israele e all’Ucraina, sostenendo in un’audizione al Senato che un ampio sostegno all’assistenza darebbe un segnale di forza degli Stati Uniti agli avversari in tutto il mondo.
La testimonianza del Segretario alla Difesa Lloyd Austin e del Segretario di Stato Antony Blinken è arrivata mentre la massiccia richiesta di aiuti d’emergenza dell’amministrazione per i conflitti nei due paesi, pari a 105 miliardi di dollari, incontrava ostacoli.

Eccitatissima la finanza: balzano nuovamente i titoli del comparto dell’industria pesante, dopo i dividendi a 9 cifre dopo la guerra in Ucraina;  si tratta di investimenti sicuri che provengono da contratti governativi a lungo termine e sicuri, finché prevale l’economia e la politica di guerra dell’amministrazione democratica. Altri miliardi di dollari gettati in guerre destinate a non trovare soluzione, perché non devono risolversi fino allo scoppio provocato di un nuovo orizzonte di guerra; foraggiare le grosse industrie belliche (strettamente correlate con l’amministrazione Biden e con il Pentagono) e… causare massacri di civili. In Usa vengono arrestati i manifestanti israeliti (300) contro questo dispendio di denaro; in Italia si estendono le servitù militari e le vendite di armi, le relazioni tra Idf, politecnici, industria delle armi.

Non può non stravincere la manovra guerrafondaia della amministrazione di Washington, perché l’economia di guerra è l’unica strategia rimasta a Biden per mantenere agli Usa il predominio sul mondo; dunque per chi avversa l’economia di guerra aprire una breccia in quel muro di miliardi bruciati nei missili è l’unica salvezza per evitare l’escalation che consentirebbe al sistema armi-potere-istituzioni di sopravvivere alla propria implosione.

Perciò abbiamo ritenuto utile riprendere un articolo di Eric Salerno uscito su “il manifesto” del 22 ottobre 2023 (i link esterni e interni sono stati aggiunti da ogzero), perché sta tornando nei palinsesti il confronto sul bilancio federale, che si scontra con lo stanziamento di 100 miliardi in supporti bellici per i 3 teatri di guerra (60 a Kyiv, 10 a Tel Aviv, il resto a Taipei): i 3 sostegni dell’economia di guerra; poi ci sono gli altri conflitti che assorbono altre armi, altre strategie, altre economie di guerra speculari e dipendenti da quello che è lo sgocciolamento sui conflitti periferici della economia di guerra di riferimento, proxy della nazione predominante


Non può non vincere l’import-export delle armi statunitensi

Chi sta vincendo? Chi vincerà?

Israele, certamente una grande potenza, ricca di un arsenale di armi nucleari di ultima generazione che non può utilizzare? Hamas, un movimento integralista, dotato, come si è visto, di armi a sufficienza per andare avanti almeno due settimane? Prima di cercare di rispondere credo che valga la pena raccontare un mio incontro, di molti anni fa, con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Non era ancora stato eletto premier ma aveva già scritto e pubblicato un libro – edito anche in Italia da Mondadori – sul terrorismo.
Per lui erano terroristi anche i combattenti, donne e uomini, del Fronte di liberazione algerino – Fln – che erano riusciti a costringere i francesi a lasciare il loro “territorio d’oltremare” e cercare, senza molto successo, di aprire un capitolo nuovo nella loro a dir poco devastante relazione con il popolo magrebino.
La nostra conversazione fu interrotta da una telefonata. C’era stato un attacco di militanti di Hezbollah contro una pattuglia israeliana. Se ricordo bene alcuni militari furono uccisi o feriti. Per lei sono terroristi?, chiesi. «Per me quelli di Hezbollah sono terroristi anche se, questa volta, attaccando una pattuglia di militari in divisa, hanno compiuto un’azione militare». I militanti di Hamas che hanno ucciso donne, bambini, uomini azioni, sono terroristi; quelli che hanno ucciso o catturato militari israeliani in divisa, dunque, hanno compiuto un’azione militare.

Non hanno vinto la loro guerra e anche se è presto per tirare le somme, dubito che usciranno vincitori da questo conflitto. E nemmeno, se parliamo di azioni armate, il popolo palestinese riuscirà a vincere. Israele allora? Sta vincendo? Ci vorranno molti anni, forse più di una generazione perché il popolo ebraico di quel giovane paese mediorientale possa considerarsi vincente.
E allora, chi vincerà? Quello che il generale americano Eisenhower, eroe della guerra in Europa e presidente degli Stati Uniti disse lasciando la Casa bianca: mise in guardia il popolo americano sul grande potere del “complesso politico-militare”. Mentre ora Biden chiede più di 100 miliardi di dollari al Congresso per le guerre in corso, per Israele, l’Ucraina e in vista per Taiwan, la grande industria americana degli armamenti ha già incassato miliardi, negli ultimi due anni, con la guerra in Ucraina e ora si prepara a guadagnare ancora di più con il conflitto Hamas-Israele.

Pacchetti di armi americane e proteste di americani

Il presidente Biden, interessato da sempre al benessere di Israele ma, comprensibilmente, oggi ancora più interessato a far vincere al suo partito (Democratico) le presidenziali dell’anno prossimo. Vorrebbe, dice, restare alla Casa bianca o quanto meno mantenere l’ambita poltrona per un suo collega di partito. Non tutti i democratici sono d’accordo con la politica di Biden e non solo quella che riguarda la sua politica e le sue alleanze incerte spesso contraddittorie. E proprio ora che ha promesso un nuovo pacchetto di armi per Israele arrivano una marea di proteste da sostenitori americani, molti dei quali ebrei.

Fedeli funzionari

Un funzionario del Dipartimento di stato americano con un ruolo chiave negli accordi sulle armi ha annunciato mercoledì le proprie dimissioni, citando le decisioni «miopi, distruttive, ingiuste e contraddittorie» dell’amministrazione Biden che lo hanno costretto a innumerevoli «compromessi morali». Josh Paul – così si chiama – per undici anni ha lavorato all’Ufficio per gli affari politico-militari del dipartimento che supervisiona proprio il commercio di armi con altri paesi e ha definito la risposta della Casa bianca all’attacco di Hamas

«una reazione impulsiva costruita su pregiudizi, convenienza politica, bancarotta intellettuale e inerzia burocratica».

Analisti finanziari

Gli analisti dei mercati finanziari, però, sono super-eccitati. Come leggiamo sul sito di uno dei grandi gestori di fondi e investimenti:

«Il National Defense Authorization Act per l’anno fiscale 2024 prevede 886,3 miliardi di dollari di spesa per la difesa statunitense, in aumento del 3,3% rispetto ai livelli del 2023. La guerra in Ucraina ha già incrementato la spesa degli Stati Uniti e dei suoi alleati, ma le dinamiche nel settore della difesa sono cambiate radicalmente dopo che Hamas ha attaccato Israele il 7 ottobre, portando alla successiva dichiarazione di guerra di Israele».

L’analista della Bank of America, Ronald Epstein afferma che

«la guerra in Medio Oriente potrebbe costringere il governo degli Stati Uniti ad aumentare gli investimenti nell’industria della difesa, e alcuni titoli del settore della difesa hanno registrato un balzo dall’inizio del conflitto. I titoli della difesa sono investimenti interessanti – spiega – perché spesso hanno contratti governativi prevedibili e a lungo termine».

Le cifre del Sipri

Dal Sipri, un po’ di cifre. Tre dei primi 10 importatori nel 2018-22 sono in Medio Oriente: Arabia Saudita, Qatar ed Egitto. L’Arabia Saudita è stata il secondo più grande importatore di armi al mondo nel 2018-22 e ha ricevuto il 9,6% di tutte le importazioni di armi in quel periodo. Le importazioni di armi del Qatar sono aumentate del 311% tra il 2013-17 e il 2018-22, rendendolo il terzo importatore di armi al mondo nel 2018-2022.

La grande maggioranza delle importazioni di armi in Medio Oriente proveniva dagli Stati Uniti (54%), seguita dalla Francia (12%), dalla Russia (8,6%) e dall’Italia (8,4%). Includevano più di 260 aerei da combattimento avanzati, 516 nuovi carri armati e 13 fregate. Gli Stati arabi della sola regione del Golfo hanno effettuato ordini per altri 180 aerei da combattimento, mentre 24 sono stati ordinati dalla Russia e dall’Iran (che non ha ricevuto praticamente armi importanti durante il 2018-2022).

L’escalation innescata da fanatici innominabili

Un dato molto interessante, quest’ultimo, quando si ascoltano voci che vorrebbero Teheran il maggiore sostenitore di Hamas mentre nessun, per ora, incolpa alcuni grandi acquirenti arabi notoriamente vicini all’organizzazione che ha sferrato l’attacco a Israele. Attacco che rischia di trascinare una parte del mondo in un conflitto di più vaste proporzioni.

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Sri Lanka 2006-2009 https://ogzero.org/sri-lanka-2006-2009/ Tue, 31 Oct 2023 00:39:11 +0000 https://ogzero.org/?p=11784 Se pensate di riconoscere “fasi” di annientamento di popoli in corso nella stretta attualità, avete colto esattamente il motivo per cui pubblichiamo ora questo saggio inviatoci da Gianni Sartori, un teleobiettivo su una “questione” indipendentista attraverso le cui lenti ripulite dalla distanza del tempo è più facile ricostruire i molti diversi canali che hanno condotto […]

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Se pensate di riconoscere “fasi” di annientamento di popoli in corso nella stretta attualità, avete colto esattamente il motivo per cui pubblichiamo ora questo saggio inviatoci da Gianni Sartori, un teleobiettivo su una “questione” indipendentista attraverso le cui lenti ripulite dalla distanza del tempo è più facile ricostruire i molti diversi canali che hanno condotto a quell’epilogo di annientamento, ghettizzazione… pulizia etnica.. 


“Questione tamil”: dalla ribellione alla pulizia etnica governativa

Risaliva alla fine del settembre 2006 un ripristino di interesse, di attualità per la spesso trascurata “questione Tamil” in Sri Lanka.

Tra il 24 e il 25 settembre in una “battaglia navale” che sarebbe eufemistico definire impari, la marina militare governativa uccideva oltre una settantina di tamil che stavano trasportando armi con una decina di imbarcazioni. Armi molto probabilmente destinate ai guerriglieri delle Ltte (Liberation Tigers of Tamil) assediati da oltre un mese nella penisola settentrionale di Jaffna.
All’epoca si calcolava che in venti anni di conflitto fossero già morte circa 65.000 persone e gli sfollati superassero ormai il milione. In seguito tali numeri erano destinati ad aumentare sensibilmente.

In una “guerra tra poveri” da manuale con entrambi i contendenti vittime di vecchie e nuove colonizzazioni mentre il solco delle reciproche incomprensioni andava a ulteriormente approfondirsi. Proprio nei giorni successivi anche in Italia venivano organizzate da Castis (Campaign agaist separatist terrorism in Sri Lanka) numerose manifestazioni di sostegno al governo di Sri Lanka e contro le “Tigri”. Con il senno di poi, forse una mossa propagandistica propedeutica all’attacco finale contro la ribellione tamil. Un’operazione militare che per certi aspetti era destinata ad assumere il carattere e lo stile di una vera e propria pulizia etnica.

Oltre che a Napoli, Palermo, Brescia, Firenze…una manifestazione venne organizzata anche a Vicenza (24 settembre 2006). E qui avevo potuto incontrare e intervistare alcune dei partecipanti. Tra questi un ex insegnante “singalese e cristiano” che mi chiese di riportare solo le iniziali del suo nome «perché i miei familiari vivono ancora in Sri Lanka».

J.P. raccontava: «Per anni ho trascorso il mattino a scuola con i miei allievi e il resto della giornata nascosto nella foresta per paura degli assalti delle Ltte che rapiscono i bambini per poi addestrarli alla guerriglia». Alla fine J.P. aveva lasciato il suo lavoro, la sua terra ed era fuggito in Europa. Aveva preso tale decisione dopo un episodio drammatico:«Io scrivevo su alcuni giornali, soprattutto poesie contro la guerra. Una notte sono stato aggredito e picchiato». Gli assalitori gli avevano chiesto:“Quale braccio usi per scrivere?”. Mentendo disse di essere mancino e gli spezzarono il braccio sinistro. A questo punto aveva sorriso confessando che «Ho ancora qualche difficoltà a usarlo, ma posso sempre scrivere».

Uccise per il colore dei pantaloni

Nell’agosto del 2006 si era anche parlato del massacro di una cinquantina di studenti, soprattutto ragazze, in una scuola chiamata “Sencholei” nel Nord dello Sri Lanka. Inizialmente l’atto barbarico era stato attribuito alle Ltte, ma in seguito erano emerse le responsabilità dell’esercito governativo.

Mostrando scarsa sensibilità, il nostro interlocutore aveva giustificato l’eccidio in quanto «stando alle nostre informazioni “Sencholei” in realtà era un campo di addestramento delle Ltte, non una scuola». 
A suo avviso quindi “le vittime non erano studentesse, ma miliziane tamil”.

Una prova che di trattava di “Tigri” – per quanto giovanissime – e non di scolare verrebbe dal fatto che «indossavano abiti come quelli usati dai guerriglieri (in particolare pantaloni neri N.d.A.e non le divise bianche che usano normalmente tutti gli studenti».

Sempre secondo il nostro interlocutore all’epoca esisteva anche un’altra base militare tamil chiamata “Ruben” dove venivano addestrati i giovanissimi. Frequentata regolarmente da Velupillei Prabakaran, il capo delle Ltte.

Aggiungeva poi che assolutamente «non si trattava di una questione religiosa; la maggioranza dei singalesi è buddista, ma ci sono anche cristiani (come tra i tamil, in maggioranza induisti N.d.A.)». Diversa è la lingua, ma anche questo «non rappresenta un problema». Per concludere che tra i suoi amici c’erano «sia singalesi che tamil, sia buddisti che induisti e musulmani… Io sono un uomo e basta».

Avevo poi chiesto a Roshan Fernando, presumibilmente legato all’organizzazione di sinistra Jvp (il giorno prima era intervenuto a Radio Blackout di Brescia accusando le Ltte di essere “fasciste”) perché lo Stato dello Sri Lanka si ostinasse a negare ai tamil una loro patria indipendente.

Rispondeva che «le Ltte conducono questa guerra da almeno ventitre anni, ma non hanno ancora convinto la maggioranza dei tamilPer raggiungere il loro obiettivo devono puntare sulla propaganda e sugli aiuti esterni». Si diceva convinto che «dall’interno del paese non avrebbero alcuna possibilità di vincere perché l’attuale livello democratico raggiunto dallo Sri Lanka non lo permetterebbe». Con il senno di poi, visto il massacro compiuto dai governativi ai danni anche dei civili tamil, un’affermazione quanto meno affrettata.

Roshan Fernando ricordava comunque che le “Tigri” non permettevano agli altri partiti, anche quelli Tamil, di fare politica nei territori da loro controllati. Mi spiegava inoltre che tra i partiti presenti nell’isola i più consistenti erano Sri Lanka freedom (Srf), il Partito di unità nazionale (Unp che aveva appena perso le elezioni) e Jvp (Janatha Vimukthi Peramuna – Fronte di liberazione del popolo), partito che si definiva “rivoluzionario e anticolonialista” anche se partecipava alle elezioni e, al momento almeno, sosteneva il governo.

E continuava sostenendo che «le Tigri sopravvivono tenendo in ostaggio la popolazione tamil, arruolando a forza i bambini, obbligando la popolazione a versare mensilmente quote di denaro».

Polemiche con l’Europa

Questo, stando alle sue dichiarazioni, avveniva anche in Europa con gli immigrati. E si chiedeva come potessero «disporre di basi militari, uffici politici (anche all’estero), collegamenti satellitari, canali televisivi, radio». Ribadendo che le loro risorse economiche «provenivano da fuori», ossia dall’estero (con un’accusa sottintesa all’India, presumo). Per questo «noi chiediamo all’Europa di verificare e controllare».

Proprio in quel periodo era esploso un contenzioso tra Sri Lanka e Norvegia che nel giugno 2006 aveva proposto di riprendere a Oslo i colloqui di pace dopo la sospensione decretata dall’Unione europea. Ma quando il rappresentante del governo di Sri Lanka si era presentato, le “Tigri” avevano nuovamente rifiutato le trattative.

Per Roshan Fernando si sarebbe trattato di un espediente per «approfittare dell’occasione per riunire tutti i loro rappresentanti» (“come non riuscivano più a fare da molto tempo”). Inoltre la Norvegia sarebbe stata «a conoscenza delle loro intenzioni e si sarebbe prestata a tale operazione». Qualcosa del genere era già accaduto in Svizzera in quanto «le Ltte usano il pretesto delle trattative per riunirsi tra loro».

Ricordava come nell’aprile del 2006 le Ltte si fossero già ritirate unilateralmente dai colloqui di pace e in seguito, a luglio, fosse ricominciata la lotta armata. Del resto episodi di violenza si erano registrati anche nel 2005 (in dicembre) provocando decine di vittime tra ribelli, soldati e soprattutto civili inermi. Proprio nel 2006, in maggio, le Ltte erano state inserite nella “lista nera” dell’Ue come “gruppo terroristico”. Come avevano fatto da tempo Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada.

Ne aveva immediatamente approfittato il presidente dello Sri Lanka reclamando contro Svizzera, Germaniae, Francia in quanto questi stati avrebbero dato ospitalità a esponenti delle Ltte che svolgevano attività politica «nonostante la stessa Ue avesse richiesto esplicitamente di sospendere tale attività». E non mancava qualche osservazione critica anche per l’Italia dove le Ltte avrebbero raccolto fondi sotto la copertura della sigla Tra (Tamils rehabilitation organisation).

Un interesse titanico

Perché tanto interesse, se non addirittura una certa benevolenza, per la causa tamil da parte dei paesi europei? Dipendeva forse, oltre che dalla posizione strategica dell’isola, dal ritrovamento di giacimenti petroliferi (e dalla presenza di un minerale strategico, il titanio)?
Con gli accordi del 2002 per una soluzione politica del conflitto, la Norvegia era stata scelta per monitorare il processo di pace, ma – sosteneva sempre il mio polemico interlocutore «questo paese si era mostrato favorevole ad accordi vantaggiosi per le Ltte». Con tali accordi lo Sri Lanka sarebbe stato “diviso in due”.
Formalmente si parlava di autonomia, ma «alla fine ci sarebbe stato un’altra nazione indipendente». Era infatti prevista la creazione di un parlamento, una polizia autonoma e anche una moneta.

Per Roshan Fernando «una situazione simile a quella che si è creata a Cipro, ma questo modello non è valido per lo Sri Lanka». Inoltre da qualche anno [eravamo nel 2006] «anche tra i tamil va crescendo l’ostilità nei confronti delle Ltte. Perfino un loro ex comandante, il colonnello Karuna Amman, aveva lasciato le Tigri e si stava organizzando nell’Est del paese per contrastarle».

Ricordo che questa sorta di Comandante Zero (quello che si allontanò dai sandinisti negli anni Ottanta) era ritenuto responsabile proprio di alcuni dei più gravi reati che il nostro interlocutore attribuiva alle Ltte come il sequestro di bambini per arruolarli. Il suo contributo all’annientamento dei suoi ex compagni di lotta risulterà comunque decisivo già nel 2007.

Tra i problemi interni delle Ltte uno dei più seri sarebbe stato legato alla questione delle caste. Infatti la maggior parte dei guerriglieri caduti in combattimento appartenevano alle caste inferiori. Il maggior potere sarebbe stato nelle mani degli appartenenti alla casta Vellavar, depositaria dell’ortodossia tamil fondata su un sistema gerarchico. Gli “intoccabili” tra i tamil sarebbero circa il 23%.

La posizione della Lega per i diritti e la lberazione dei popoli

Molto diversa la posizione espressa da Verena Graf, all’epoca segretario generale della Lega per i diritti e la liberazione dei popoli e rappresentante permanente di tale ong presso la sede Onu di Ginevra.

Per questa allieva di Lelio Basso «il conflitto era iniziato con l’indipendenza del 1948 a causa di una serie di politiche governative che, progressivamente e sistematicamente, privarono la popolazione tamil dei diritti fondamentali». Nel 1983 la resistenza, fino a quel momento non violenta, si trasformò in una lotta armata condotta dalle Tigri della liberazione di Tamil Eelam.

Per Verena Graf tre erano gli obiettivi principali dei tamil:

“Uguaglianza di diritti e di opportunità, diritto all’autodeterminazione e allontanamento delle forze governative dalla regione del Nord-est”. 

Di fronte al rifiuto dei governi di prendere in considerazione le loro richieste, una parte dei tamil si era convinta “di poter raggiungere questi obiettivi soltanto con la lotta armata per la creazione di un proprio Stato indipendente”.

Per la Graf l’indipendenza del popolo, della nazione tamil sarebbe stata giustificata in quanto forma di autodeterminazione «per diverse valide ragioni. In primo luogo perché il governo dello Sri Lanka ha privato un’intera collettività dei suoi fondamentali diritti. Basti pensare che si era stabilito per decreto che la sola lingua ammessa era il singalese. Inoltre ai tamil erano stati negati l’accesso all’educazione e l’effettiva partecipazione politica».
In sintesi “«a politica poliziesca del governo, nel suo insieme, poteva essere definita una forma di genocidio economico, sociale e culturale per distruggere la società tamil, minando le basi della sua identità».

Invece di operare per una società multietnica nel quadro dello stato dello Sri Lanka, i governi avrebbero «attuato una politica di esclusione nei confronti dei tamil», relegandoli nella condizione di “indesiderabili”. 

Come ci ricordava Verena Graf, l’anno determinante per il passaggio alle armi dei tamil era stato il 1983. Dopo che ancora nel 1977 al partito Tulf (Tamil United Liberation Front), moderato e autonomista, era stata praticamente interdetta ogni attività politica e quando scoppiarono diversi pogrom antitamil. Tuttavia anche in tempi successivi non erano mancati tentativi di sotterrare l’ascia di guerra e riprendere la lotta in maniera non violenta.

Per esempio nel settembre del 1987, nonostante avesse rifiutato di sottoscrivere un recente accordo di pace (in quanto co-firmato da Sri Lanka e India senza consultare i tamil) il loro leader, Thiruvenkadam Velupillai Prabhakaran, rilanciò la protesta in maniera pacifica. Un altro noto esponente delle Ltte, Amirthalingam Theelepan, iniziò allora uno sciopero della fame fino alla morte per richiamare l’attenzione del primo ministro indiano Rajiv Gandhi (il figlio di Indira, poi assassinato dalle Tigri nel 1991), firmatario del discusso accordo indo-singalese.
La sua fine risultò alquanto spettacolare, per certi aspetti inquietante. Deposto su un giaciglio all’aperto, nel cortile di un santuario indù a Jaffna, durante l’agonia venne visitato e onorato da centinaia di seguaci e la sua morte suscitò rabbia e risentimento. Venne così meno anche la fragile tregua e la parola tornò ai combattenti. Invece alcuni gruppi minori della resistenza tamil si arresero alle Ipkf (Indian Peace Keeping Force) incaricate di far rispettare il cessate il fuoco.

Ricolonizzazione e reinsurrezione

Oltre alle discriminazioni, i tamil subirono – dal 1948 in poi, almeno fino al 1987 – anche la dura questione dei resettlements. Con arbitrari stanziamenti di coloni singalesi nel Nord e nell’Est dell’isola (le aree a maggioranza tamil).
A complicare ulteriormente il quadro in quel lontano, ma determinante, 1987 interveniva un’altra formazione politica, il Jvp (Janatha Vimukthi Peramuna – Fronte di liberazione del popolo “rivoluzionario e anticolonialista”, già citato in quanto nel 2006 di fatto sosteneva il governo). Ugualmente contrario all’accordo indo-singalese (lo consideravano un’ingerenza indiana), ma per ragioni diametralmente opposte a quelle dei “separatisti” tamil.
Il Jvp si rese responsabile, oltre che di un tentativo insurrezionale nel sud del Paese, dell’uccisione di alcuni esponenti filogovernativi. In particolare con un attentato a Colombo rivolto contro lo stesso presidente Jayewardene. Nell’attacco al palazzo del parlamento perse la vita un ministro e rimase gravemente ferito Lalith Athulatmudali, ministro della difesa. negli anni Ottanta – oltre a un migliaio di militanti in prigione – il Jvp disponeva di circa 2000 militanti in servizio attivo e di circa 10.000 fiancheggiatori. Inutile dire che pur protestando vigorosamente per le condizioni di vita delle classi subalterne e per le violazioni dei diritti umani, nei confronti della situazione in cui versavano i tamil mostrava una sostanziale indifferenza.

Soluzione definitiva

Come è noto la “questione tamil” venne bruscamente risolta (eufemismo) tra il 2007 e il 2009 quando l’esercito riuscì ad annichilire le Tigri approfittando della circostanza per massacrare, deportare e internare centinaia di migliaia di civili tamil. I quali si ritrovarono sottoposti a una ulteriore colonizzazione da parte della maggioranza singalese buddista (circa 74% della popolazione).

Difficile anche quantificare il numero delle persone uccise e la portata della repressione. Si ipotizzava un numero tra le diecimila e le ventimila vittime oltre a circa 300.000 civili tamil internati nei campi sotto controllo militare.
Nel maggio 2009, mentre fuggiva, era stato ucciso anche Velupillai Prabhakaran insieme al figlioletto di dodici anni.

Nel giugno 2010 il governo sri-lankese (guidato allora da Mahinda Rajapakse) arrivò a bloccare una delegazione di esperti dell’Onu incaricati di svolgere indagini sulle violazioni dei diritti umani commessi l’anno precedente.

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Il crogiolo caucasico tra i confini fittizi dei vincitori https://ogzero.org/il-crogiolo-caucasico-tra-i-confini-fittizi-dei-vincitori/ Mon, 09 Oct 2023 23:43:29 +0000 https://ogzero.org/?p=11677 Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – […]

L'articolo Il crogiolo caucasico tra i confini fittizi dei vincitori proviene da OGzero.

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Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – soprattutto dall’esterno – si sono fatti prevalere contrasti etnici a condivisione di territorio tradizionalmente abitato da famiglie eterogenee, condizionate da invasioni e dominazioni variabili e costanti. E quando soffiano i venti nazionalisti si scompaginano le comunità per creare stati usati per soffocarle, ognuno secondo la propria tradizione verso il vicino; in questo caso è sintomatico come i paesi islamici più lontani come l’Algeria definiscano gli armeni cristiani colonizzatori, mentre l’Iran sciita come il popolo azero appoggi Erevan per mere questioni di metri di confine da salvaguardare, mentre il miglior alleato dei “fratelli altaici” azeri è il vicino sunnita Erdoğan, interessato alla creazione di un unico territorio ottomano senza interruzioni di confini.
Ciò che rende ancora più impellente l’abbandono della terra avita da parte della ex maggioranza armena fuggita dall’Artsakh è la ferocia autoritaria del regime dinastico ex sovietico… mentre perdurano i bombardamenti turchi sui curdi e i sionisti passano per vittime, pur essendo Nethanyauh dalla parte dei carnefici, come gli Aliyev o il despota Erdoğan; tutti in qualche modo collegati e con interessi intrecciati, tra le vittime dei contenziosi decennali mancano solo i saharawi. 


La secolare replica del genocidio armeno

L’attuale violenza (massacri, deportazioni…) subita dagli armeni rievoca fatalmente il genocidio del 1915.
C’ è ancora spazio per una qualsivoglia “soluzione politica” che garantisca minimamente i diritti della popolazione armena del Nagorno-Karabach?
Meglio non raccontarsi balle. Ormai – a meno di imprevedibili eventi di portata planetaria – la questione è chiusa definitivamente. Anzi, potrebbe anche andare peggio.
Non si può infatti escludere che dopo l’Artsakh venga invasa anche la stessa Armenia, in particolare il corridoio per congiungere l’esclave azera di Karki al confine con l’Iran (e la Turchia).

Vediamo intanto di riepilogare la tragica catena degli ultimi tre anni.
I bombardamenti azeri del 19 settembre avevano riportato nella cronaca un conflitto forzatamente dimenticato, tuttavia l’attacco di Baku contro il Nagorno-Karabach e quanto poi avvenuto ai danni del popolo armeno non calava inspiegabilmente dal cielo. Come già si era ipotizzato in agosto.
Era perlomeno probabile.
Il Nagorno Karabakh era una repubblica autoproclamata (ribattezzata con l’antico nome di Artsaj) abitata in prevalenza da armeni, ma posta forzatamente all’interno dei confini dell’Azerbaijan. E che già prima del 1991 si batteva per la propria indipendenza.

Pulizia etnica alternata

Nel conflitto del 1988-1994 la vittoria era andata agli armeni con la conseguente espulsione di migliaia di azeri.

Nella Seconda guerra del Nagorno-Karabach (autunno 2020) le parti si invertirono e per oltre 40 giorni l’esercito azero si scatenò sulla popolazione civile compiendo ogni genere di efferatezze. Qualificabili come una brutale pulizia etnica.
Al punto che molti armeni in fuga riesumarono i loro cari dalle tombe e fuggirono con le bare fissate al portapacchi delle auto dopo aver incendiato la propria casa.

L’evanescente interposizione russa

In realtà solo un terzo della provincia indipendentista era passato sotto il controllo di Baku, ma erano chiare le intenzioni di completare l’opera quanto prima. Nonostante la poco convinta opera di interposizione dei soldati di Mosca, soprattutto dopo che l’Armenia aveva accettato di partecipare a esercitazioni congiunte con truppe Nato (direi un autogol di Erevan).
Ovviamente anche all’odierna (definitiva?) sconfitta degli Armeni (anche per essere stati isolati e privati di mezzi di sussistenza da circa nove mesi) di fronte alle preponderanti forze azere, date le premesse, era fatalmente scontata.

Neottomanesimo via Baku

Smantellata l’amministrazione armena della enclave ribelle, Baku ha dichiarato di volere «integrarla totalmente nella società e nello Stato azeri».

Quanto alle voci di una possibile concessione di “autonomia”, la cosa appare piuttosto fantasiosa. Se nell’Azerbaigian non gode di alcun riconoscimento la consistente “minoranza” Talish (una popolazione di lingua iraniana che supera il milione di persone) cosa potrebbe toccare ai circa 120.000 armeni del Nagorno-Karabach? Peraltro ormai fuggiti nella quasi totalità e poco propensi a rientrare nonostante le rassicurazioni del governo di Baku.

La coltre di gas

Dal canto suo l’Unione Europea si guarda bene dall’intervenire pensando ai consistenti accordi con l’Azerbaijan in materia di gas.

Solidarietà al popolo armeno è stata espressa vigorosamente dal Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (Knk).

Nel comunicato ha denunciato «la tragedia umana che avviene sotto gli occhi del mondo nell’Artsakh (Alto Karabach) dove un centinaio di migliaia di Armeni sono costretti all’esilio». E il Knk ricordava anche le immagini terribili del 2020 con «i soldati azeri che tagliavano nasi e orecchie ai civili e vandalizzavano i monasteri».

Ovvio il parallelismo con quanto avviene “nelle zone curde occupate dalla Turchia” (il principale alleato dell’Azerbaigian).
Ma esiste anche un altro timore, ossia che “se cade l’Artsaj, cade anche l’Armenia”.

Una lingua di terra turca a unire Caspio e Mediterraneo

Già nel 2020 l’Azerbaijan aveva occupato territori ufficialmente dell’Armenia nella regione di Syunik. Una lingua di terra che si frappone alla dichiarata intenzione di Turchia e Azerbaijan di unire il Mediterraneo con il Caspio via terra. Ricordo che Turchia e Azerbaigian sono già confinanti grazie all’enclave azera di Najicheván che – toh, coincidenza! – Erdogan ha appena visitato per la prima volta.

Forse paradossalmente (visto che gli azeri sono in maggioranza sciiti come gli iraniani) l’unico paese con cui l’Armenia mantiene stabili e diretti rapporti commerciali (nel 2020 forse s’aspettava anche sostegno militare, ma invano) è l’Iran. La perdita della regione di Syunik le sarebbe quindi fatale.

L’analogo trattamento turco destinato ai curdi

Per il Knk comunque non ci sono dubbi «Si tratta di pulizia etnica orchestrata dall’Azerbaigian e dalla Turchia., motivata dall’ambizione geopolitica pan-turca che intende riunire queste due nazioni (…). Dopo 108 anni il popolo armeno si ritrova di nuovo vittima di massacri e deportazioni orchestrati dalle forze statali animate da odio razzista verso la cultura e il popolo armeno. Di conseguenza la pulizia etnica attualmente in corso nell’Artsakh deve essere considerata come la continuazione del genocidio armeno del 1915 perpetrato dai Giovani Turchi».
E conclude paragonando le attuali sofferenze degli armeni a quelle analogamente patite dai curdi a Shengal, Afrin e Serêkaniyê: «Nomi e vittime di questi massacri possono cambiare, ma le motivazioni rimangono identiche».

Diretto interventismo turco nell’area curdo-armena

Risalendo all’ottobre 2020 già allora appariva evidente come il conflitto tra Armenia e Azerbaijan fosse propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia.
Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si andava sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti (sunniti) provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri (sciiti) contro gli armeni cristiani.
Un destino, quello della cittadina al confine turco-armeno di Kars, analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanli nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste.

Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe stato quindi di che stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars».

D’altra parte era quasi scontato che Erdogan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto, mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

Niente di nuovo

2009

Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.
Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale “Hurriyet” ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993. Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdoğan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.
Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Anche per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista, quasi un progressista, comunque non un seguace di Erdoğan) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan, chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

1988

Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica Repubblica d’Armenia.
E il 20 febbraio 1988 – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno/azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Agdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armeni. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. È il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.
Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno-Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

1991

In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno stato indipendente sarà approvata con il 99% dei voti.
A questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).
Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.
A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.
Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – discretamente e solo a livello logistico – la Grecia.
Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex Urss (russi e ucraini).

Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.
Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti. Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14% del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (cessate il fuoco del 12 maggio) prendevano il via sotto la supervisione di Mosca.

Il fallimento del Gruppo di Minsk

1994

Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato Osce) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.
Tuttavia – almeno col senno di poi – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

Qualche considerazione in merito alle efficaci operazioni propagandistiche (soprattutto da parte di Baku e Ankara) rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato. Forse perché – tutto sommato – già allora conveniva schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale, Armenia.
Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il Nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974. Per non parlare della continua evocazione di una – non documentata – partecipazione di militanti del Pkk ai combattimenti (a fianco degli armeni ovviamente).

Nel frattempo (gli affari sono affari) la Francia non smetteva di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non era e non è l’unico paese a farlo naturalmente (vedi l’Italia che dovrebbe fornire anche minisommergibili). Ma la cosa appariva stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Per esempio, all’epoca, nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.
Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku colpivano direttamente la popolazione di Stepanakert.

E già allora in qualche modo il conflitto tra Armenia e Azerbaijan appariva propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne era addirittura la “vetrina”). Intravedendo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

Due parole poi sul ruolo assunto da Teheran

Anche se poteva apparire incongrua, da più parti si formulava l’ipotesi di un Iran deciso a schierarsi con l’Armenia nel conflitto con l’Azerbaijan.
Incongrua soprattutto pensando che in entrambi i paesi, Iran e Azerbaijan, è prevalente la fede sciita.

Ma poi (come forse era lecito aspettarsi) alcuni autorevoli esponenti politici iraniani erano intervenuti dichiarando che «l’Iran non sceglie l’Armenia a sfavore dell’Azerbaijan».

Il giornalista Raman Ghavami si diceva convinto che «sia probabile che dovremo assistere a una significativa collaborazione tra l’Iran, la Turchia, l’Azerbaijan (e presumibilmente anche la Russia a questo punto, N.d.A.) sia sull’Armenia, sia su altre questioni che interessano la regione».

Si sarebbe andato infatti configurando un nuovo livello di sostanziale collaborazione nelle relazioni tra Azerbaijan e Iran. Addirittura Teheran avrebbe (notizia non confermata) richiesto all’Armenia di “restituire” (nientemeno ?!?) il Nagorno-Karabakh a Baku.

Per Raman Ghavami in realtà l’Iran «da sempre preferisce rapportarsi con gli azeri sciiti piuttosto che con gli Armeni». Come avveniva già molto prima dell’insediarsi del regime degli ayatollah.

Nuovo intreccio dei destini armeni e curdi

A tale riguardo riporta l’esempio della provincia dell’Azerbaijan occidentale (posta entro i confini iraniani) che in passato era abitata prevalentemente da curdi e armeni.
Ma tale demografia venne scientificamente modificata, nel corso del Ventesimo secolo, dai vari governi persiani che vi trasferirono popolazioni azere. Sia per allontanarvi i curdi, sia per arginare gli effetti collaterali del contenzioso turco-armeno entro i confini persiani.
Molti armeni e curdi vennero – di fatto – costretti a lasciare le loro case.
Inoltre, in tale maniera, si creava una artificiosa separazione tra le popolazioni curde di Iraq, Turchia e Siria e quelle in Iran. Cambiando anche la denominazione geografica. Da Aturpatakan a quella di Azerbaijan occidentale.

Altro elemento di tensione tra Erevan e Teheran – sempre secondo Raman Ghavami – deriverebbe dal ruolo della chiesa armena nell’incremento di conversioni al cristianesimo da parte di una fetta di popolazione iraniana.

Legami finanziari Teheran-Baku

Da sottolineare poi l’importanza vitale, per un paese come l’Iran sottoposto a sanzioni, dei legami finanziari con l’Azerbaijan. Ricordava sempre Raman Ghavami come, non a caso, la succursale della Melli Bank a Baku è seconda per dimensioni soltanto a quella della sede centrale di Teheran.
Un altro elemento rivelatore sarebbe il modo in cui, rispettivamente, Baku ed Erevan hanno reagito alla cosiddetta “Campagna di massima pressione” sull’Iran in materia di sanzioni: mentre gli scambi commerciali tra Armenia e Iran si riducevano del 30%, quelli con l’Azerbaijan si intensificavano.
Ad alimentare la tensione poi, il riconoscimento da parte dell’Armenia di Gerusalemme come capitale di Israele. Una avventata presa di posizione di cui Erevan potrebbe in seguito essersi pentita. Vedi il successivo contenzioso (e ritiro dell’ambasciatore) a causa della vendita da parte di Israele di droni kamikaze IAI HAROP all’Azerbaijan.

Ulteriore complicazione (ma anche questa era forse prevedibile) la notizia che erano già in atto scontri armati tra i mercenari di Ankara inviati in Azerbaijan (presumibilmente jihadisti, sicuramente sunniti) e gli azeri sciiti.

Insomma, il solito groviglio mediorientale.

La spartizione di Astana: Russia e Turchia e gli oleodotti dell’Artzakh

Nel novembre 2020 si concretizzava poi un vero capolavoro di cinico realismo: gli accordi con cui Russia e Turchia si spartivano il Nagorno-Karabakh garantendosi il controllo della vasta rete di oleodotti che attraversano (o attraverseranno) il territorio storicamente conteso tra Armenia e Azerbaijan. Paese, quest’ultimo che fornisce alla Turchia un quinto delle sue importazioni di gas naturale (oltre a ingenti quantità di barili di petrolio dal Mar Caspio) direttamente all’hub di Ceyhan.
E qualche briciola non di poco conto andava anche al Belpaese (se abbiamo interpretato correttamente le dichiarazioni di Di Maio).
Ricapitoliamo. Il 10 novembre 2020 l’Armenia (il paese sconfitto) e l’Azerbaijan (il vincitore) firmavano un “accordo di pace” sotto la tutela ufficiale di Mosca e ufficiosa di Ankara.

Mentre le colonne dei profughi dal Nagorno-Karabakh) si allungavano per abbandonare il paese invaso dagli “alleati” (ascari?) di Ankara (l’esercito azero e le milizie mercenarie jihadiste qui inviate dai territori già invasi della Siria), iniziava il dispiegamento lungo la linea di contatto dei duemila – inizialmente – soldati russi (presumibilmente integrati con truppe turche, sul modello delle “pattuglie-miste” nel Nord della Siria). Durata prevista della loro presenza, cinque anni rinnovabili.

Un risultato niente male per Erdogan che vedeva ratificata la sua alleanza strategica con Baku. Così come venivano confermate le conquiste azere (almeno trecento insediamenti tra cui Susi, strategicamente rilevante). Non meno rilevante, l’acquisizione da parte dell’Azerbaijan di un collegamento diretto con Nachichevan (la sua enclave) e quindi con la Turchia.

Ovviamente gli armeni non l’avevano presa bene. A farne le spese il primo ministro Nikol Pashinyan (un leader “di plastica” secondo alcuni commentatori, messo su dall’Occidente un paio di anni prima per allontanare l’Armenia dal suo alleato tradizionale russo) di cui la piazza ha richiesto le immediate dimissioni.
Gli eventi sono noti: il palazzo del governo letteralmente preso d’assalto, il parlamento occupato e il presidente Ararat Mirzanyan che quasi rischiava di essere linciato dalla folla inferocita. I manifestanti erano anche andati a cercare direttamente a casa sua il primo ministro (presumibilmente non per una pacata conversazione), ma senza trovarlo (buon per lui, naturalmente).

L’interesse italico

a sei zampe…

Si diceva delle vaghe (o svagate?) dichiarazioni di Di Maio («Monitoreremo con attenzione gli sviluppi nelle aree dove si registra un particolare attivismo turco, vigilando affinché siano tutelati il rispetto del diritto internazionale, gli interessi italiani anche economici e con l’obiettivo di scongiurare qualsiasi escalation»). E chi vuol intendere...intenda.

Del resto, con buona pace della piccola Armenia, la cooperazione con l’Azerbaijan è da tempo consolidata. L’Italia – oltre che il maggior destinatario delle esportazioni petrolifere – risulta essere uno dei principali partner commerciali di Baku con un interscambio annuale – si calcola – di sei miliardi di euro. Sarebbero almeno tremila le imprese italiane che hanno investito nella repubblica caucasica. Risaltano in particolare Eni e Unicredit con interessi stimati in seicento milioni di dollari.

… e Leonardo-Finmeccanica

Cooperazione quindi ben consolidata, si diceva. Ma non solo in campo energetico. Magari indirettamente, anche militare. Risale, per dirne una, al 2012 la vendita di una decina di elicotteri Augusta Westland (società controllata da Leonardo-Finmeccanica), ufficialmente per uso civile (ma vengono in mente gli elicotteri venduti alla Turchia negli anni Novanta, su cui poi venivano applicate le mitragliere vendute separatamente). Nel 2017 l’amministratore delegato di Leonardo firmava a Baku – sotto lo sguardo del ministro Calenda – un accordo con la Socar (società statale petrolifera azera) per incrementare la sicurezza e l’efficienza delle infrastrutture energetiche grazie appunto alle tecnologie italiche.

Con un diretto riferimento al gasdotto di 4000 chilometri che la Socar stava realizzando per far giungere in Puglia e quindi in Europa (vedi la questione del Tap), dopo aver attraversato la Georgia, la Turchia, la Grecia e l’Albania, i previsti 20 miliardi di metri cubi (annuali) di gas di provenienza dall’Azerbaijan. Particolarmente rilevante e significativo il ruolo assunto da alcune aziende italiane (Snam S.p.A. di San Donato Milanese, Saipem, Eni, Maire Tecnimont…). Appare evidente come in tale contesto l’Armenia sia ormai fuori gioco, estromessa, marginalizzata (nonostante – a titolo di parziale consolazione – qualche ipocrita piagnisteo sul genocidio subito da parte della Turchia).

L’onnipresente invasività israeliana

Tornando alla breve, ma comunque devastante, guerra intercorsa nel 2020 tra Erevan e Baku, andrebbe poi approfondito il ruolo assuntovi da Israele.
Se la Turchia sembra aver fornito a Baku – oltre ai mercenari jihadisti – aerei e droni, cosa avrà fornito Israele? In qualche modo deve aver comunque contribuito visto che durante i festeggiamenti per la schiacciante vittoria, i manifestanti azeri inalberavano e sventolavano, oltre al vessillo nazionale e alle bandiere turche, numerosi drappi con la Stella di David.

Risalgono invece ai primi di ottobre (2023) le rivelazioni dell’intelligence francese sul fatto che i comandi militari azeri avrebbero ringraziato sentitamente Israele per il sostegno nel recente attacco al Nagorno-Karabach. Sia a livello espressamente militare (armamenti vari, soprattutto droni della Israel Aerospace Industries, della Rafael Advanced Defense Systems e della Israel Militari Industries), sia di intelligence (Mossad e Aman’s Unit 8200).
Sempre da fonti dell’Esagono risulta che nel corso del conflitto di settembre una quindicina di aerei cargo azeri sono atterrati nell’area militare di Ouda (Negev). Circa un centinaio di altri aerei cargo azeri erano ugualmente qui atterrati nel corso degli ultimi sei-sette anni. Presumibilmente non per rifornirsi di pompelmi. Inoltre Israele avrebbe fornito anche sostegno nel campo della Cyber Warfare (tramite l’Nso Group).
A ulteriore conferma dello stretto rapporto con Baku, il ministro israeliano della difesa si è recato recentemente nella capitale azera per verificare di persona l’efficacia del sostegno israeliano all’Azerbaijan.

Un bel caos geopolitico comunque

Proxy war disequilibrata

E arriviamo al febbraio di quest’anno, quando mentre a Erevan si ricordavano le vittime del pogrom del 1988, in Iran gli armeni manifestavano a sostegno della repubblica dell’Artsakh. Niente di strano.
Anche all’epoca dell’attacco dell’Azerbaijan ai territori armeni della Repubblica dell’Artsakh (con il sostegno di Ankara) nel 2020, c’era chi si aspettava un maggiore sostegno all’Armenia da parte dell’Iran, in linea con una certa tradizione. Dal canto suo Israele non mancava di mostrare sostegno (fornendo droni presumibilmente) alle richieste azere, ovviamente in chiave antiraniana. Misteri della geopolitica. Anche se poi sappiamo che le cose andarono diversamente, resta il fatto che comunque in Iran gli armeni costituiscono una minoranza tutto sommato tutelata, garantita (sicuramente più di altre, vedi curdi obeluci) e anche la causa dell’Artsakh gode ancora di qualche simpatia.

Commemorazioni dei massacri passati, in preparazione di quelli presenti

O almeno così sembrava leggendo la notizia del raduno di solidarietà con la popolazione armena della Repubblica dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) che si era tenuto presso il monastero di Sourp Amenaprguitch (Santo Salvatore) di Ispahan nella mattinata del 24 febbraio 2023 (nonostante, ci dicono, le condizioni atmosferiche inclementi). Oltre alle comunità armene di Nor Jugha (Nuova Djulfa, un quartiere di Ispahan fondato dagli armeni di Djulfa nel Diciassettesimo secolo) e di Shahinshahr, erano presenti molti armeni provenienti da ogni parte dell’Iran.
Numerosi gli interventi e i messaggi arrivati a sostegno alla causa della popolazione armena della Repubblica (de facto, anche se non riconosciuta in ambito onusiano) dell’Artsakh.

Quasi contemporaneamente, due giorni dopo, in Armenia venivano commemorate le vittime del massacro di Sumgaït (quartiere industriale a nord di Baku). Il presidente armeno Vahagn Khatchatourian con il primo ministro Nikol Pašinyan, il presidente del parlamento Alen Simonyan e altre figure istituzionali si sono recati al memoriale di Tsitsernakaberd a Erevan deponendo una corona e mazzi di fiori.
Il memoriale ricorda le persone uccise nei pogrom avvenuti (con la probabile complicità delle autorità azere) nel febbraio 1988 a Sumgaït, Kirovabad e Baku. Il massacro (in qualche modo un preludio alla guerra del 1992 in quanto legato alla questione del Nagorno Karabakh) sarebbe stato innescato da rifugiati azeri provenienti dalle città armene. Almeno ufficialmente. In realtà i responsabili andrebbero identificati tra i circa duemila limitčiki (operai immigrati delle fabbriche chimiche) a cui le autorità avevano distribuito alcolici in sovrabbondanza.
Se le fonti ufficiali azere parlarono soltanto di trentadue vittime, per gli armeni queste furono centinaia. Addirittura millecinquecento secondo il partito armeno Dashnak (oltre a centinaia di stupri).
Inoltre i militari inviati per fermare i disordini impiegarono ben due giorni per percorrere i circa trenta chilometri che separano Baku da Sumgaït. Vennero arrestate centinaia di persone, ma i processi si conclusero senza sostanziali condanne.

Guerra annunciata, forza di pace distratta

Tutti defilati… tranne i curdi

Nel marzo 2023, pressata da più parti affinché intervenisse, finalmente Mosca aveva parlato tramite il ministero della Difesa, accusando Baku di aver violato gli accordi sul Nagorno-Karabakh del 2020. Meglio tardi che mai, anche se la Federazione Russa appariva sempre più incerta (o disinteressata?) al destino dell’Armenia, praticamente abbandonata a se stessa (quasi da tutti sia chiaro, non solo dalla Russia; con la nobile eccezione dei curdi).
Eppure i segnali della possibilità di un ennesimo conflitto (guerra a relativamente “bassa intensità”) non erano mancati. Il 5 marzo si era registrato un altro scontro armato nel corridoio di Lachin (per gli azeri, di Zangezur) tra Stepanakert e Goris, bloccato ormai da tre mesi da presunti “manifestanti ecologisti” azeri. La sparatoria era avvenuta tra la polizia armena e i militari azeri che avevano arbitrariamente fermato un veicolo e – nonostante fosse costata la vita di cinque persone – era passata quasi inosservata.
Invano Nikol Pašinyan, primo ministro di Erevan, aveva richiesto, rivolto anche al tribunale internazionale dell’Onu, l’istituzione di una missione internazionale di indagine sulla situazione in cui veniva a trovarsi l’unica via di collegamento tra l’Armenia e la repubblica del Nagorno-Karabakh, ormai ridotta alla condizione di enclave sotto assedio, con oltre 120.000 persone di etnia armena sprovviste di cibo e medicinali. In base all’accordo trilaterale del 9 novembre 2020 (e riconfermato per ben due volte nel 2021 e ancora nell’ottobre 2022), alla Russia spettava il compito di controllare e assicurare i trasporti nel “corridoio” con una sua forza di pace.

Estrattivismo abusivo e pretestuoso ecologismo

Il pretesto avanzato dai sedicenti “ecologisti” azeri che da mesi bloccavano il passaggio sarebbe quello di poter controllare le miniere (private, non statali) di Gyzylbulag (oro) e di Demirl (rame e molibdeno) dove gli armeni avrebbero compiuto “estrazioni illegali”.
Dopo le ripetute accuse di “mancata osservanza dell’impegno di controllo”, fino a quel momento da parte di Mosca erano giunte soltanto rassicurazioni verbali (dicembre 2022). Ma anche la dichiarazione che «le forze di pace possono agire soltanto quando entrambe le parti sono d’accordo».

«Gli azeri continuano ad avanzare pretese massimaliste, senza concedere alcuna forma di compromesso», aveva denunciato Vagram Balayan, presidente della commissione affari esteri dell’assemblea nazionale del Nagorno-Karabakh. Sostanzialmente in quanto Baku “non intende riconoscere l’esistenza del Nagorno-Karabakh e del popolo dell’Artsakh”. Ossia, detta fuori dai denti, “vogliono soltanto farci scomparire dalla storia” (come sembra confermato dagli ultimi eventi). Costringendo gli armeni a scegliere tra un’evacuazione “volontaria” e la deportazione.

Fine annunciata

E intanto con il mese di agosto il tragico epilogo si profilava all’orizzonte.
Con gli Armeni del Nagorno-Karabakh ormai presi per fame, in un articolo di quei giorni mi ero chiesto se «si può già parlare di genocidio o dobbiamo aspettare qualche migliaio di morti per inedia?».
Domanda retorica ovviamente.

A un certo punto l’evidente, colpevole, latitanza della Russia (storicamente “protettrice “ della piccola Armenia) sulla questione del Nagorno-Karabakh sembrava aver lasciato campo aperto all’intervento pacificatore – o perlomeno a un tentativo di mediazione – di Unione Europea e Stati Uniti.
Ma l’irrisolta questione del Corridoio di Lachin (unico corridoio tra Armenia e Nagorno-Karabakh) conduceva fatalmente al nulla di fatto. E intanto per gli armeni del Nagorno-Karabakh la situazione continuava a peggiorare.
Chi in quei giorni aveva avuto la possibilità di percorrere le strade di Stepanakert parlava di lunghe file di persone che – dopo ore di attesa – ottenevano letteralmente un tozzo di pane. Per non parlare di quanti crollavano – sempre letteralmente – a terra a causa della fame. Almeno 120.000 persone colpite dall’isolamento totale e dalla conseguente crisi umanitaria (sia a livello sanitario che alimentare).
Senza dimenticare che – ovviamente – l’Azerbaigian da tempo aveva provveduto a interrompere il rifornimento di gas. Difficoltoso, in netto calo, anche quelli di energia elettrica e di acqua. A rischio le riserve idriche con tutte le prevedibili conseguenze.
Quanto all’alimentazione ormai si era ridotti alle ultime scorte di pane e angurie. Il peggioramento si era andato accentuando da quando veniva impedito (con posti di blocco installati illegalmente dall’Azerbaigian) l’accesso anche alla Croce Rossa e alle truppe russe di interposizione che comunque finora avevano rifornito di cibo – oltre che di medicinali – la popolazione armena.

Silenzio tombale e pennivendoli distratti

Bloccato da mesi alla frontiera anche un convoglio di aiuti umanitari (oltre una ventina di camion) inviato da Erevan.
In pratica, un grande campo di concentramento.
Al punto che un cittadino armeno gravemente ammalato, mentre veniva trasportato dalla Croce Rossa in un ospedale dell’Armenia (e quindi sotto protezione umanitaria internazionale), veniva sequestrato, privato del passaporto, sottoposto a interrogatorio e spedito a Baku dove – pare – sarebbe stato anche processato per eventi risalenti al primo conflitto scoppiato in Nagorno-Karabakh negli anni Novanta.

E ogni appello rivolto alle autorità e organizzazioni internazionali (Unione Europea, Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Russia, Gruppo di Minsk…) era destinato a restare inascoltato.
Con un preciso riferimento al blocco del Corridoio di Lachin operato dall’Azerbaijan, un ex esponente della Corte Penale Internazionale, l’avvocato argentino Luis Moreno Ocampo, aveva espressamente evocato un possibile genocidio.
Ma la sua appariva la classica “voce che grida nel deserto”. Quello dell’informazione almeno.

Poi la conferma dei peggiori timori con il tragico epilogo avviato il 19 di settembre.


Il giorno dopo la Guerra lampo dei fratelli turcofoni avevamo sentito Simone Zoppellaro, la cui analisi consentiva di comprendere nei dettagli cause e conseguenze delal dissoluzione dell’indipendenza dell’Artzakh

“Cala un sipario plumbeo sull’Artsakh”.

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G7 – G8 – G20 – G77+1… G8miliardi https://ogzero.org/g7-g8-g20-g771-g8miliardi/ Mon, 18 Sep 2023 20:48:14 +0000 https://ogzero.org/?p=11622 Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, […]

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Le famose bande di ragazzini. C’è quello grande e grosso che si tira dietro i suoi e botte da orbi a chi li contrasta. In questa strada non ci dovete mettere piede! Una banda vicina invece l’attraversa, anche se di corsa. Il capo è meno corpulento, ma sa il fatto suo. Altri gruppetti sono incerti, con chi stare? Un po’ con l’uno un po’ con l’altro. All’aria aperta la situazione è abbastanza caotica. Diversa da prima dove c’era la banda più forte e non ce n’era per nessuno. In più adesso succede che un giorno il sole è rovente e nessuno ha voglia di venir fuori dall’ombra. Un altro diluvia che appena ti affacci in strada quasi anneghi. Un disastro. Non si capisce più niente. Bisogna solo aspettare che i ragazzini, ragazzine incluse, crescano. Ma cresceranno?


Quando sarai grande…

Sì, diventeranno grandi. Anzi G(randi)20. Una specie di super banda che cerca di spartirsi le zone di influenza. Assenti XI Jinping e Putin. Presente! però Giorgia M. e questo ci rincuora.
Il padrone di casa, Modi si è indaffarato moltissimo, senza fare i pignoli su come per l’occasione ha ripulito le periferie di Nuova Delhi. Vuole che l’India sia chiamata Bharat, e su questo niente da dire. Sta già scritto nella Costituzione. Per noi di una certa età va anche meglio perché nel nostro immaginario gli indiani continuano a essere i nativi americani (stavo per scrivere i peller…).
Poi ha ufficialmente siglato la Global Biofuel Alliance a cui aderiscono Brasile, Stati Uniti, Bangladesh, Argentina, Sudafrica, Mauritius, Emirati Arabi e Italia, oltre a Bharat. Mi propongo a Giorgia come servitore della patria ai prossimi incontri nelle Mauritius. Ci tengo ai biocarburanti.

Non è passata inosservata la dichiarazione fatta da Stati Uniti e IBSA – India, Brasile, Sudafrica – sul potenziamento degli aiuti finanziari al Sud Globale.
La geografia sta slittando verso il meridione del mondo. Da un punto di vista delle aspirazioni geopolitiche, delle prese di parola, non può non piacere. Dirà l’avvenire se sarà un guadagno per la Terra e l’Umanità.

 

Nel quartiere c’è sempre qualcuno dei ben piantati che invece di farsi vivo in piazza con lo sguardo strafottente se ne sta non si sa dove. Perfino quelli della sua banda sono sconcertati. Cosa starà macchinando?


… saprai perché…

Xi Jinping perché non è venuto? Se ne fotte? Il suo ruolo se lo gioca nei Brics? Cioè Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e prossimi Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Emirati arabi uniti e Arabia saudita. Augurandosi che non si trasformino in Bricsaeeieauas.  L’erede di Mao lascia intenzionalmente il G20 all’India? Sembrerebbe di sì.

Modi ha così organizzato gli accordi, fossero anche solo pacche sulle spalle, senza la Cina. Tutta questa sua agitazione sta in piedi? Amico di tutti e di nessuno? Putin ha fatto bene a starsene dov’è, deve salvare l’eterna anima russa con i carrarmati e questo disturba le calorose strette di mano.

Sta finalmente cambiando la faccia geopolitica del Mondo, detta anche multipolarismo, oppure sono solo geometrie variabili destinate ad essere ormai perennemente variabili? In altre parole, la novità è il movimento continuo e non la configurazione che assume?

… è un gioco strano: devi imparare…

L’IMEC è una prima risposta. Un baccanale di acronimi da imparare a memoria. India-Middle East-Europe Economic Corridor. Lo promuovono il principe saudita Mohammed bin Salman Al Saud, il presidente degli Emirati Arabi Uniti Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, la presidente dell’Unione Europea Ursula von der Leyen, la primo ministro italiana Giorgia Meloni, il capo della Banca Mondiale Ajay Banga e, ovviamente, Joe Biden e Narendra Modi. Treni, porti, fibre ottiche, pipeline, autostrade, ponti, hub.

Applausi a scena aperta.

Uno per tutti, quello di U.v.der Leyen: «È un ponte verde e digitale tra i continenti e le civiltà».

All’esterno del G20 un encomio altissimo.

Viene da Netanyahu: «Israele è al centro di un inedito progetto internazionale che unirà infrastrutture dall’Asia all’Europa, realizzerà una antica visione e cambierà il Medio Oriente, Israele, e influenzerà il mondo intero».

Coro stellare per un mondo a più facce? Risposta robusta, dieci anni dopo, alla Via della Seta cinese? Entusiasmo a buon mercato? Trionfalismo fuori posto?

… è un gioco strano: devi imparare…

Calma, dice la Cina: «Il tempo mostrerà la differenza tra un’iniziativa che abbraccia tutti con cuore aperto [la Belt and Road Initiative cinese] e una di idee ristrette che divide le nazioni. Noi speriamo che l’IMEC non diventi così».

Risposta secca e stizzita.

I giochi sono aperti e soprattutto il quadrante del mondo si è messo in moto. Una cosa è sicura, il Medio Oriente torna ad essere uno snodo delle politiche mondiali.

Se qualcuno poi, sprovveduto di finezze geopolitiche, osserva un po’ più da vicino i Grandi 20, presenti e assenti, il modo con cui governano i loro paesi e come fanno e disfanno le loro società, qualche brivido giù per la schiena gli corre. Allora il sempliciotto inesperto sceglie di chinarsi sulla minuteria storica e scopre, per esempio, che un treno merci con 36 vagoni container è partito dal sud della Russia, ha attraversato l’Iran, già nemico numero uno dell’Arabia Saudita, e poi dallo Stretto di Hormuz è stato travasato via mare a Gedda, in… Arabia Saudita. A fine agosto.

Oppure viene informato che a Ryad, capitale dell’Arabia Saudita, lo scorso 11 settembre grazie all’Unesco  era in visita ufficiale una delegazione del governo israeliano, anteprima di una possibile normalizzazione tra i due stati mediorientali. Il candido osservatore inoltre si stupirà vieppiù nel vedere che Erdoğan, il sultano turco, si sia subito scagliato contro il corridoio in questione proponendone uno di gamma superiore. Provvisoriamente definito – che strano! – corridoio turco.

… è tutto scritto, catalogato: ogni segreto, ogni peccato…

Non stanno mai fermi i Grandi, anche i Meno Grandi. Saltabeccano da un summit, da un vertice all’altro un po’ qua un po’ là. Finito uno, di corsa all’altro [Brics, 21/24 agosto, G20, 9/10 settembre, G77+Cina a Cuba, dal 15 settembre]. Gli farà bene tutto questo sbattimento? E se prendono aria? E se fanno indigestione? E se perdono l’orientamento? E il jet lag? Cos’è, fregola di contrasto alla depressione?
C’è un moto ondulatorio o sussultorio nella geopolitica? Preludio ad eventi tettonici più duri e consistenti?

Se scendo dai vertici e lo chiedo a una immigrata filippina a Ryad, a un palestinese di Nablus, a una giornalista kurdo-turca in carcere, mi guardano con un certo disincanto. Eppure.

… quando sarai grande, saprai perché

Qualcuno si perde, altri mettono su famiglia, qualcuno ricorda con nostalgia e parla male dei nuovi ragazzini di strada, certi fanno carriera.

Tutto il GMondo è paese.

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Sudan: cinque mesi di inutile sofferenza https://ogzero.org/sudan-cinque-mesi-di-inutile-sofferenza/ Sat, 16 Sep 2023 16:47:40 +0000 https://ogzero.org/?p=11593 Quando il Fmi diventa “modello di solidarietà” significa che la situazione è ormai oltre ogni accettabilità e a nessuno importa di una condizione infernale. Distratti da altre guerre, da altre bombe su mercati, i 46 morti del mercato di May a Khartoum non meritano un trafiletto, laddove invece Angelo Ferrari va oltre l’orrore per uno […]

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Quando il Fmi diventa “modello di solidarietà” significa che la situazione è ormai oltre ogni accettabilità e a nessuno importa di una condizione infernale. Distratti da altre guerre, da altre bombe su mercati, i 46 morti del mercato di May a Khartoum non meritano un trafiletto, laddove invece Angelo Ferrari va oltre l’orrore per uno scontro tra Signori della Guerra che produce cadaveri civili ancora una volta trasportati dal Nilo a valle con il poco limo residuo dalle barriere a monte della Gerd il cui riempimento dell’invaso è stato terminato in questi giorni: infatti metà dell’intervento dell’africanista è dedicato al vicino Ciad, già in “cattive acque”, che si sobbarca la fuga dei profughi di guerra.


La tradizionale arroganza di entrambi i militari…

La guerra in Sudan non si ferma. Le sofferenze, numero di morti e sfollati, si moltiplicano in un insensato scontro tra due generali che hanno solo a cuore la conquista del potere. Ma non si vedono, nemmeno, spiragli per una soluzione negoziata. Il generale Abdelfattah al-Burhan, a capo dell’esercito regolare, e le Forze di supporto rapido di Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, non hanno nessuna intenzione di sedersi a un tavolo negoziale per risolvere la crisi. Anzi, negli ultimi giorni i combattimenti si sono intensificati, si sono fatti, se è possibile, ancora più cruenti estendendosi a molte regioni del paese. Entrambi vogliono arrivare alla vittoria “assoluta” in Sudan. Per che cosa? Difendere interessi economici da sempre nelle mani dei militari. Ogni attività, infatti, è governata dall’esercito e dalle milizie armate: dalle banche alle materie prime, in una suddivisione, tra i due uomini forti che, evidentemente, non bastava più a entrambi. I due generali vogliono mettere mano su tutto e non importa se la gente soffre.

… diventa massacro

Il 13 settembre sono trascorsi cinque mesi di guerra e di inutile sofferenza, morte, perdita e distruzione.

L’Alto commissario delle Nazioni Unite, Volker Turk, ha spiegato che non c’è alcuna tregua in vista: «Il mio staff si è recato in Ciad e Etiopia tra giugno e luglio per raccogliere informazioni di prima mano dalle persone fuggite dalle violenze in Sudan. Le loro testimonianze evidenziano le informazioni che il mio ufficio ha ottenuto sulla portata e sulla brutalità di questo conflitto. Abbiamo ascoltato storie di familiari uccisi o violentati. Storie di parenti arrestati senza motivo. Di pile di corpi abbandonati nelle strade. Di una fame disperata e persistente».

Il conflitto, come prevedibile, ha paralizzato l’economia, spingendo milioni di persone sull’orlo della povertà, i servizi essenziali sono sull’orlo del collasso, quasi bloccati, come istruzione e assistenza sanitaria. Più di 7,4 milioni di bambini sono privi di acqua potabile e almeno in 700.000 sono a rischio malnutrizione grave.

Il Ciad nella morsa

Sul fronte dei profughi a subire pesanti conseguenze è soprattutto il Ciad, un paese che è preso a tenaglia a suoi confini, oltre alla crisi sudanese, il colpo di stato in Niger è la chiusura dei corridoi commerciali, sta provocando notevoli problemi di approvvigionamento di materie prime. E la situazione dei profughi che arrivano dal Sudan sta aggravando ulteriormente la situazione. Stando ai dati riportati delle Nazioni Unite, in Ciad sono arrivate 418.000 persone tra rifugiati e ciadiani che hanno deciso di ritornare a case. Circa l’85% dei profughi sudanesi e il 93% delle persone ritornate in patria sono donne e bambine. In questo contesto, la Banca mondiale ha annunciato una tranche di aiuti da 340 milioni di dollari per sostenere N’Djamena nella gestione dell’accoglienza, nonostante le Ong denuncino che solo il 34% degli aiuti richiesti è arrivato per sostenere gli aiuti umanitari.
Anna Bjerde, direttrice generale per le operazioni della Banca mondiale, ha annunciato il pacchetto di sostegni economici da un campo profughi nel Ciad orientale durante una due giorni di visita congiunta con l’Alto commissario per i rifugiati delle Nazioni Unite, Filippo Grandi.

Secondo Bjerde, «la crisi dei rifugiati nell’Est del paese sta aggiungendo ulteriore pressione alla fornitura di servizi sociali e alle risorse naturali. Collaborando con l’Unhcr e altri partner, restiamo impegnati ad aiutare le persone più bisognose e a sostenere la ripresa economica a lungo termine e la resilienza della regione».

Grandi, che a N’Djamena è stato ricevuto da diversi ministri del governo di transizione militare retto dal presidente Mahamat Idriss Déby Itno, si è augurato che «l’esempio della Banca Mondiale ispiri altri attori dello sviluppo a intensificare i loro interventi, poiché il Ciad non può essere lasciato solo ad affrontare questa grave crisi».

Aiutare il Ciad, per la comunità internazionale, dovrebbe essere prioritario. In una regione martoriata da guerre, colpi di stato e cambio di regimi. L’opinione pubblica ciadiana sta già soffrendo ed è in subbuglio. Difficoltà a reperire le materie prime, crisi dei profughi sudanesi, inoltre, potrebbe avere ripercussioni sull’inflazione del paese, già elevata. L’ultimo dato disponibile – riferito ad aprile 2023 – parla di un +12,5%, e di quella alimentare che è arrivata al 18,8% in aumento rispetto al dato precedente, +16%. Le difficolta di approvvigionamento delle merci, dunque, potrebbe pesare ulteriormente sulle entrate dello Stato, ma soprattutto già provata per via di un potere di acquisto che sta progressivamente diminuendo e, quindi, esacerbare ulteriormente gli animi di una società civile che non vede di buon occhio l’attuale regime “ereditato” dopo la morte di Deby padre, dal figlio.

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G20: l’Africa non è più nel menu ma ‘partecipa’ al banchetto https://ogzero.org/g20/ Mon, 11 Sep 2023 20:57:23 +0000 https://ogzero.org/?p=11571 Nella foto del G20 di copertina in primo piano ci sono 3 membri fondatori dei Brics… ma da membro dei Brics impegnato su più tavoli Modi agisce da battitore “libero” o da gregario per tirare la volata ad altre potenze per proporsi ancora una volta al continente africano come soci “interessati”? Tutti appaiono concordi sull’estensione […]

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Nella foto del G20 di copertina in primo piano ci sono 3 membri fondatori dei Brics… ma da membro dei Brics impegnato su più tavoli Modi agisce da battitore “libero” o da gregario per tirare la volata ad altre potenze per proporsi ancora una volta al continente africano come soci “interessati”?
Tutti appaiono concordi sull’estensione alla Unione africana della partecipazione a partire dal prossimo G21
brasiliano. Ma come sempre Angelo Ferrari correttamente si chiede cui prodest? e la risposta può non andare questa volta verso una nuova spinta verso gli interessi dei Brics, di cui l’India è un socio tra i più potenti, che hanno già aperto dal canto loro ai mercati africani e, se i russi sono protagonisti in Sahel, centrafrica e gli affari cinesi sono ovunque nell’Africa orientale, è più facile che la porta del G21 possa venire usata più dagli Usa che non dalle potenze asiatiche.
Forse proprio quella Via antiBri in nuce e che vede gli indiani impegnati a riavvicinarsi all’Occidente può trovare nel coinvolgimento del Sud del Mondo un nuovo grimaldello per essere concorrenziale nei vari snodi della Via della seta cinese… ma queste elucubrazioni, ci suggerisce l’africanista Angelo, non considerano il particolare che questa opportunità – nel momento in cui si registrano sommovimenti bollati sbrigativamente come anticoloniali – sarebbe davvero a disposizione di una potenza come l’Unione africana che è un organismo con lo stesso peso dell’Unione europea. Perciò lasciamo spazio ai dati e alle ipotesi di Angelo Ferrari (Agi.it, 11 settembre 2023).  


La proposta indiana

L’Africa si siede al tavolo dei potenti e non è più solo nel menu. L’entrata come membro permanente dell’Unione africana (Ua) nel G20, tra i grandi del mondo, è un segnale molto forte per il continente e una vittoria diplomatica dell’India ma, anche un modo per provare a disinnescare la “mina” dei Brics. Ma non solo: i 55 stati africani hanno un Pil complessivo di 3000 miliardi di dollari e, già dal 2021, hanno dato vita a un’area di libero scambio continentale, con lo scopo di sviluppare gli scambi interafricani tra oltre 1,2 miliardi di persone. Un potenziale enorme. Tuttavia ora, e sarà tutto nelle mani della Unione africana, deve mettere a frutto questo patrimonio che, fino a ora, era solo menzionato nel menu dei vertici internazionali.

Una delle aspirazioni dell’Unione africana, presente nella sua agenda per il 2063, era quella di avere un posto di rilievo nelle relazioni internazionali. La presenza nel G21 va proprio in questa direzione. Ma c’è dell’altro. E cioè che l’Africa ora può lavorare concretamente affinché il continente non sia più considerato un rischio per gli investimenti, ma un’opportunità, in una logica tra pari e non relegato alla subalternità. Ciò permetterà, inoltre, di sviluppare, in un mondo multipolare, strategie usando il dialogo Sud-Sud in maniera tale che le questioni che riguardano lo sviluppo del continente siano considerate prioritarie per e nell’economia globale.

Tutto ciò, inoltre, ha una rilevanza non solo negoziale, ma anche squisitamente economica legata proprio all’Area di libero scambio continentale, dove dovrebbe prevalere la negoziazione multilaterale, cioè tra grandi aree economiche, rispetto a quella bilaterale, ma per fare ciò è necessario che vi sia un interlocutore globale come può essere solo l’Unione africana. Ciò permetterebbe, solo per fare un esempio, all’Unione europea su diversi temi e criticità, di avere un interlocutore unico e, allora, quando vengono evocati piani Marshall per l’Africa, questi non sarebbero più calati dall’alto, ma verrebbero negoziati alla pari con il continente africano.

Hai voluto la bici? adesso vai in fuga, sfuggi alla trappola!

L’istituzione dell’Area di libero scambio africana (Afcfta) potrebbe consentire un aumento di oltre il 50% degli scambi tra i paesi del continente e avrà, anche un effetto significativo sugli scambi tra l’Africa e il resto del mondo con un aumento delle esportazioni del 29% e delle importazioni del 7%, secondo i dati del Fondo monetario internazionale; e ciò può produrre un aumento di “oltre il 10%” del Pil reale medio pro capite.
Il Fondo monetario, tuttavia, sostiene che, perché l’area di libero scambio possa avere un impatto significativo sulle economie, i paesi africani dovranno, necessariamente, mettere in campo una serie di riforme economiche e politiche per sostenere il mercato unico. Non è sufficiente la riduzione delle barriere tariffarie e non tariffarie se questa non si accompagna a un miglioramento del clima imprenditoriale. Senza riforme, secondo il Fondo monetario, l’impatto dell’area di libero scambio africano sarà minore: la semplice riduzione delle barriere, tariffarie o meno, consentirà agli scambi tra i paesi africani di crescere solo del 15%, portando a un aumento dell’1,25% del Pil reale medio pro capite.

Per cogliere tutte le opportunità «sarà necessario investire in capitale fisico e umano, creare un solido quadro macroeconomico e modernizzare il sistema di protezione sociale per sostenere i più vulnerabili durante la fase di transizione».

Una Unione africana protagonista nei consessi internazionali e non più osservatore, può determinare un cambio di passo proprio sullo sviluppo reale del continente.

Non ha caso la decisione presa in India ha avuto il plauso di tutte per le parti coinvolte. Ovviamente, in particolare, dei leader africani: se il Sudafrica era già rappresentato al G20, come Stato unico africano, ciò non ha impedito al suo presidente di accogliere con favore l’ingresso dell’Unione africana.

Cyril Ramaphosa ha sottolineato la necessità di «una cooperazione multilaterale per combattere l’insicurezza alimentare ed energetica». Presente in India anche il comoriano Azali Assoumani, attuale presidente dell’Ua, ha parlato di «culmine di una lotta a lungo termine. È un grande giorno per tutta l’Africa». Il peso massimo del continente, il presidente della Nigeria, Bola Tinubu, ha espresso la sua impazienza di «portare avanti le nostre aspirazioni sulla scena globale utilizzando la piattaforma del G20». Quello del Kenya, William Ruto, dal canto suo, ha parlato di «una sede che permetterà di orientare le decisioni del G20 per garantire la promozione degli interessi del continente». Il senegalese Macky Sall ha enfatizzato “la decisione storica”. Infine, il presidente della Commissione dell’Unione africana, il ciadiano Moussa Faki Mahamat, ritiene che l’integrazione dell’Ua offra ora «un quadro favorevole per amplificare l’advocacy a favore del continente».

I temi sul tavolo sono molti e vanno dai cambiamenti climatici, alla crescita demografica, alla riduzione del debito e della povertà endemica del continente, in una parola: solo “sviluppo”, sia economico, sia politico e sociale – senza dimenticare che si dovrà mettere mano al tema endemico della corruzione – e tutto ciò discutendone da pari con i grandi del mondo. Un cambio di paradigma che l’Unione Africana dovrà gestire al meglio perché questa decisone rappresenti una svolta epocale.

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Niger: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace https://ogzero.org/niger-la-diplomazia-al-lavoro-mentre-niamey-tace/ Sat, 02 Sep 2023 22:17:57 +0000 https://ogzero.org/?p=11535 Niger, un aggiornamento: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace. Nelle ultime ore si sono accavallate numerose proposte di transizione rivolte al regime di Tchiani,. Un’azione diplomatica che, inoltre, ha il significato di scongiurare un intervento armato nel paese che infiammerebbe tutta l’Africa Occidentale. Di questo ne sono consapevoli sia i leader africani sia i […]

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Niger, un aggiornamento: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace. Nelle ultime ore si sono accavallate numerose proposte di transizione rivolte al regime di Tchiani,. Un’azione diplomatica che, inoltre, ha il significato di scongiurare un intervento armato nel paese che infiammerebbe tutta l’Africa Occidentale. Di questo ne sono consapevoli sia i leader africani sia i ministri degli Esteri dell’Unione europea che, infatti, invocano prudenza. Ma le proposte di transizione, formulate da Algeria e Nigeria, per ora rimangono lettera morta e quella nigeriana viene bollata dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) come una fake news. Ecowas, infatti, ribadisce, che la soluzione è il ripristino dell’ordine costituzionale e la reintegrazione del deposto presidente Mohamed Bazoum, che diventa una figura simbolica, insieme all’ambasciatore francese: due paradigmi del sistema coloniale utili per aizzare contro la percezione di ogni grandeur (e saccheggio) francese. Poi è facile su questa ondata antifrancese trovare le corde giuste per rovesciare  gli amici dei francesi, ma una volta giunti al potere – a parte resistere alla stigmatizzazione internazionale – non ci sono piani per gestirlo al meglio. Si direbbe non sia chiaro in che direzione andare una volta rimossi i fantocci di poteri altri e le mosse per fare gli interessi della popolazione civile non siano state insegnate nelle scuole militari frequentate dai golpisti.


La proposta nigeriana

Il presidente nigeriano Bola Tinubu, che è anche l’attuale presidente dell’Ecowas, giovedì ha citato come esempio la transizione di nove mesi avvenuta nel suo paese nel 1999. «Il presidente non vede alcun motivo per cui ciò non possa accadere di nuovo in Niger, se le autorità militari sono sincere», si legge in un comunicato della presidenza nigeriana. Più che una proposta è un suggerimento e Tinubu l’avrebbe espresso ricevendo presso la State House di Abuja (capitale della Nigeria) una delegazione guidata dal sultano di Sokoto, Muhammad Sa’ad Abubakar III, personalità molto influente anche in Niger. «Il presidente Tinubu ha osservato che la Nigeria, sotto il generale Abdulsalami Abubakar, ha istituito un programma di transizione di nove mesi nel 1998, che si è rivelato un grande successo, portando il paese in una nuova era di governo democratico», si legge nella nota emessa dalla presidenza nigeriana al termine dell’incontro. Un suggerimento, quindi, non una proposta ufficiale da parte dell’Ecowas che comunque ha tenuto a chiarire la sua posizione, definendola una fake news e comunque non una posizione dell’organizzazione sovranazionale africana anche se Tinubu ne è il presidente di turno.

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La proposta algerina

All’inizio della settimana, l’Algeria, un altro influente vicino del Niger, è stata ancora più specifica nell’offrire al regime militare un “piano di transizione di sei mesi” sotto la supervisione di una “autorità civile”. Per il momento, i generali al potere a Niamey non hanno reagito a queste proposte e il loro unico intervento sull’argomento risale al 19 agosto, quando il nuovo uomo forte del paese, il generale Abdourahamane Tchiani, aveva indicato di volere una transizione da tre anni al massimo. Molti giudicano poco credibile, o troppo lungo, questo periodo di transizione e, dopo i colpi di stato in Mali e Burkina Faso, ma anche in Guinea, le transizioni annunciate, per arrivare a nuove elezioni e il ripristino di un governo democraticamente eletto si sono allungate nel tempo, allontanando il ritorno dell’ordine democratico.

Ultimatum e tensioni diplomatiche

Resta, poi, alta la tensione anche tra il regime di Nimaey e la Francia, ex potenza coloniale e partner del Niger soprattutto nella lotta antijihadista e con numerosi interessi economici nel paese. Le autorità hanno revocato l’immunità e il visto diplomatico all’ambasciatore francese e hanno annunciato l’intenzione di espellerlo in una lettera inviata martedì a Parigi. Venerdì scorso avevano inizialmente concesso 48 ore a Sylvain Itté per lasciare il territorio, ultimatum respinto da Parigi che ritiene questo governo illegittimo e quindi non ha l’autorità per fondare una simile richiesta. E la giunta militare sta facendo molta pressione sull’ambasciata, tanto che, secondo testimonianze raccolte sul luogo, le auto in uscita dall’ambasciata francese sono state perquisite sistematicamente dalla polizia. Un altro ultimatum potrebbe scadere nel finesettimana. Le autorità militari hanno minacciato di accompagnare l’ambasciatore in maniera coatta fuori dal paese.

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La piazza si muove

La tensione cresce anche nelle piazze. L’M62, una coalizione della società civile contraria alla presenza militare francese, ha lanciato un appello per un “sit-in popolare” nel centro di Niamey, già a partire da ieri e per tutto il finesettimana, per chiedere la “partenza delle forze francesi”. Un’altra organizzazione della società civile, il Fronte patriottico per la Sovranità del Niger (Fpsn), dal canto suo ha chiesto un “sit in permanente” da oggi “fino alla partenza di tutti i soldati francesi”. La presenza militare francese in Niger, infatti, è massiccia: 1500 militari, oltre a mezzi e intelligence. Senza contare la presenza americana e italiana, che vanno ad aggiungersi al contingente militare che ha come missione il contrasto al jihadismo e alla tratta di essere umani, per fermare le migrazioni verso il Mediterraneo. Da diversi anni il Niger si trova ad affrontare una violenza jihadista mortale che colpisce la parte sudoccidentale del paese, ai confini del Burkina Faso e del Mali – la cosiddetta area dei Tre Confini – e la sua parte sudorientale vicino al bacino del Lago Ciad e al confine con la Nigeria.

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Attività sospese e diplomazia al lavoro

Infine, le autorità hanno annunciato la sospensione delle attività delle Ong, delle organizzazioni internazionali e delle agenzie delle Nazioni Unite nelle aree delle operazioni militari «a causa dell’attuale situazione di sicurezza». Le zone interessate non sono state specificate, ma secondo l’ufficio locale dell’agenzia umanitaria dell’Onu (Ocha), sarebbero prese di mira le località attorno a Banibangou, Sanam, Anzourou e Bankilaré, tutte situate nella regione di Tillabéri (Sud-ovest), a causa la «recrudescenza della presenza e delle attività» dei gruppi jihadisti. Le Nazioni Unite hanno annunciato di voler contattare i militari dopo questa decisione per «comprendere meglio cosa significa e quali sono le conseguenze per l’attività umanitaria».

Insomma permane una situazione di stallo. Ma le diplomazie sono continuamente al lavoro per scongiurare ogni possibile innalzamento della tensione che potrebbe portare a un intervento armato che infiammerebbe tutta l’Africa occidentale, e non solo, e in prima linea su questo fronte diplomatico c’è la nuova ambasciatrice americana a Niamey che, pur non presentando le sue credenziali alla giunta perché Washington non la riconosce, ha presso possesso della rappresentanza diplomatica.

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Terremoto in Turchia: la ricostruzione pianificata dall’alto https://ogzero.org/terremoto-in-turchia-la-ricostruzione-pianificata-dallalto/ Thu, 24 Aug 2023 16:08:58 +0000 https://ogzero.org/?p=11471 Terremoto in Turchia. Questa intervista alla professoressa Pelin Pınar Giritlioğlu, del Dipartimento di Amministrazione Pubblica, Problemi Urbani e Ambientali dell’Università di Istanbul e presidente dell’Unione degli Architetti e degli Ingegneri Turchi di Istanbul, a cura di Luca Onesti e Francesco Pasta, è stata realizzata a sei mesi dal terremoto che a febbraio ha devastato parte […]

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Terremoto in Turchia. Questa intervista alla professoressa Pelin Pınar Giritlioğlu, del Dipartimento di Amministrazione Pubblica, Problemi Urbani e Ambientali dell’Università di Istanbul e presidente dell’Unione degli Architetti e degli Ingegneri Turchi di Istanbul, a cura di Luca Onesti e Francesco Pasta, è stata realizzata a sei mesi dal terremoto che a febbraio ha devastato parte della Turchia meridionale e della Siria per analizzare la tipologia di pianificazione imposta dall’alto, dal punto di vista normativo e con una valenza politica, senza tener conto dei problemi ambientali, sanitari e culturali del territorio colpito.
Poi a sei mesi di distanza, con un’inflazione al 46%, carenze di valuta pregiata, difficoltà nel contesto internazionale che vede la Turchia marginalizzata… il tasso di sconto riconosciuto dalla Banca turca è stato rialzato dal 17,5% (già uno sproposito per una qualunque economia) al 25% in un solo giorno, il 24 agosto 2023. Forse qualche difficoltà per i fondamentali dell’economia turca si palesano da questo provvedimento che cerca di riallineare gli eterodossi provvedimenti finanziari della erdoganomics negli ultimi vent’anni. 


Turchia, a quasi sei mesi dalle due scosse di terremoto che il 6 febbraio hanno colpito una vasta area della Turchia meridionale e della Siria settentrionale, e dopo la tornata elettorale che ha confermato Erdoğan come presidente della Repubblica, si procede ora alla ricostruzione su un’area di faglia che conta 13 milioni di abitanti. Per comprendere meglio le criticità pregresse e quelle che stanno emergendo per quanto riguarda la pianificazione urbana nella gestione del disastro, abbiamo intervistato la Professoressa Pelin Pınar Giritlioğlu, del Dipartimento di Amministrazione Pubblica, Problemi Urbani e Ambientali dell’Università di Istanbul e presidente dell’Unione degli Architetti e degli Ingegneri Turchi di Istanbul. La mancata applicazione, o l’applicazione strumentale, della legislazione implementata in Turchia negli ultimi venticinque anni a seguito di diversi terremoti e l’idea di pianificazione calata dall’alto con la completa disattenzione rispetto alle caratteristiche culturali e ambientali del territorio, sono alcuni dei temi toccati dall’intervista.

Pelin Pınar Giritlioğlu, Dipartimento di Amministrazione Pubblica, Problemi Urbani e Ambientali dell’Università di Istanbul e presidente dell’Unione degli Architetti e degli Ingegneri Turchi di Istanbul

Con la politica dei condoni e la mancata applicazione delle leggi prodotte dopo il terremoto del 1999, abbiamo assistito negli scorsi decenni a quello che lei, in un’intervista a Chiara Cruciati su “Il Manifesto”, ha definito un «patto tra capitale e potere». In che modo sono regolate e ripartite tra governo centrale e autorità locali  le responsabilità riguardo ai terremoti e al rischio sismico, in Turchia?

Poiché siamo un paese ad alto rischio sismico, la responsabilità tra il governo centrale e locale e le organizzazioni non governative è regolata dalla legge. Secondo la normativa turca, e secondo la Costituzione, le autorità locali hanno l’obbligo di adottare tutte le misure contro i rischi che minacciano la vita e i beni dei cittadini. Le autorità locali hanno l’obbligo di predisporre la propria giurisdizione contro i terremoti, in base ai rapporti e ai dati scientifici forniti, e hanno determinati obblighi in materia di ispezioni edilizie, devono cioè verificare se gli edifici sono costruiti in linea con il progetto o meno. Se riscontrano edifici a rischio di crollo, di distruzione o di danneggiamento, devono comunicarlo al Comune metropolitano e agire in collaborazione con esso. I Comuni metropolitani hanno l’obbligo di istituire un consiglio di coordinamento dei disastri, regolato dalla legge. La collaborazione e la preparazione contro i disastri e i terremoti sono organizzate anche a livello delle autorità che in Turchia sono chiamate Muhtar, responsabili di un determinato quartiere su scala minore, l’unità amministrativa più piccola della Turchia. Anche a questo livello sono previsti studi e preparativi.

Si è parlato molto della possibilità di un grande terremoto a Istanbul nei prossimi anni. Nel mese di marzo il sindaco Imamoğlu ha presentato il Piano antisismico per la città. Pensa che si stia andando nella giusta direzione a questo proposito?

Il piano annunciato da Imamoğlu è stato pubblicato come risultato di un workshop scientifico al quale sono state invitate tutte le unità, le organizzazioni e le istituzioni interessate. Le Camere professionali hanno partecipato poi a successivi incontri con il Comune metropolitano in merito a questo piano e alla definizione dei ruoli da svolgere.

La difficoltà principale non riguarda però il piano annunciato, ma la sua applicazione, la sua attuazione nella vita reale.

Prima del terremoto del 6 febbraio, L’AFAD, (L’Autorità per la Gestione dei Disastri e delle Emergenze, omologo della Protezione Civile italiana), aveva già pubblicato alcuni documenti ufficiali che dicevano che ci sarebbero stati dei terremoti a Hatay e Kahramanmaraş. L’annuncio era stato fatto, ma nonostante questi scenari fossero stati già analizzati, non abbiamo visto alcuna reazione o risposta sul campo reale, sul campo fisico, non abbiamo preso alcuna misura concreta. Quindi, in termini di legislazione e di documenti ufficiali, la Turchia è in un certo senso pronta a far fronte ai disastri naturali, ma non è in grado di generare risposte nella vita reale: questo è il problema principale.

Terremoto in Turchia

Antiochia (foto di Luca Onesti)

A proposito di questo divario tra la legislazione e la sua attuazione, abbiamo una domanda sulla Legge n. 6306 sulla trasformazione urbana nelle aree a rischio, che è stata approvata nel 2012, dopo il terremoto di Van, e sembra che sia stata applicata in modo piuttosto strumentale. L’obiettivo era quello di accelerare la ricostruzione delle aree urbane a rischio sismico, ma sembra che sia stata utilizzata soprattutto per altre finalità. Cosa ne pensa? Ritiene che la legge in sé sia valida, ma che l’attuazione sia distorta?

In realtà, la legge n° 6306 non serve al suo scopo principale. È questo il problema della legge. L’espressione “disastri naturali” è citata solo due volte nel testo di legge, che peraltro non fornisce soluzioni essenziali e fondamentali contro i disastri naturali. È solo una “legge sui contraenti” (immobiliari) basata sulla demolizione e ricostruzione delle aree definite “a rischio”.

Definisce solo i metodi per farlo, piuttosto che offrire linee guida sulle precauzioni da adottare. Descrive come ricostruire le aree urbane, ma evita di determinare come organizzare, coordinare e fornire soluzioni sociali e scientifiche al rischio sismico.

In effetti, sembra che a volte il rischio sismico venga utilizzato come giustificazione per determinate politiche di pianificazione e sviluppo urbano. Ora, nelle zone terremotate del Sud-Est, si parla di trasferire intere città. TOKI (L’Amministrazione per l’Edilizia Abitativa di Massa) sta già costruendo questi nuovi quartieri fuori dai centri urbani. E a Istanbul, il Ministero per l’Urbanizzazione ha annunciato di voler creare due nuove città satellite per trasferirvi circa un milione di unità abitative. Pensa quindi che il terremoto e la prevenzione possano essere sfruttati come ulteriore spinta per questo tipo di urbanizzazione di terreni non edificati o rurali e per espandere sempre di più le città, come è già avvenuto sotto il governo dell’AKP?

L’idea delle città satellite non è adatta a Istanbul perché lo scopo delle città satellite è di essere costruite fuori dalle città, non all’interno. Ma nel caso di Istanbul un’area esterna al perimetro metropolitano non esiste, perché la città si estende fino ai centri urbani di Tekirdağ da un lato e Kocaeli dall’altro. Ciò significa che le città satellite saranno costruite al suo interno, come nuovi quartieri,

e dunque che i rimanenti spazi vuoti e le aree di riserva all’interno della città, come le aree agricole o le foreste, fondamentali per l’equilibrio ecologico di Istanbul, saranno aperte all’insediamento.

Come pensa che sarà applicata questa politica nella regione del Sud-Est? Pensa che questa ricostruzione possa essere condotta come è avvenuto a Van dopo il terremoto del 2011, e dunque tradursi in un processo di TOKIzzazione e suburbanizzazione replicato su larga scala da Antiochia (Hatay) a Kahramanmaraş?

L’approccio problematico è che si crede di poter far rivivere le città semplicemente costruendo più case, nuove case. L’edilizia abitativa è fondamentale, ma non è possibile far rinascere una città solo costruendo più unità abitative, perché poi sono necessari spazi educativi, spazi di aggregazione, strutture sanitarie, unità industriali e produttive. Bisogna considerare tutti questi aspetti, e molti altri, per far rinascere la città. Non si può solo costruire più case o nuove case; i cittadini di questi nuovi quartieri esterni dovrebbero continuare a vivere in città, dato che i loro posti di lavoro, le opportunità sociali, rimarranno in ambito urbano. I nuovi progetti sono usati solo come strumento di investimento.

Quello di Van è stato criticato come esempio di una politica di pianificazione e di edilizia abitativa dall’alto verso il basso e non partecipativa. E ora, in queste dieci città del Sud-Est è stato dichiarato lo stato di emergenza (OHAL). Come pensa che questo avrà un impatto sulla ricostruzione, dal punto di vista della soddisfazione dei bisogni della gente e delle loro esigenze?

Lo stato di emergenza è stato usato come un facilitatore e uno strumento per il governo per accelerare il processo e l’attività di costruzione. Si è trattato di un’opportunità tale da indurre il presidente a emanare il decreto presidenziale n. 26, subito convertito in legge, che ha tracciato la strada per avviare i progetti di costruzione senza rispettare alcun principio costruttivo o di pianificazione, senza seguire approcci scientifici, dati, opinioni. Questo modo di procedere ci dimostra che, dopo i tanti terremoti che sono seguiti a quello del 1999, il governo non ha tratto alcun insegnamento e ha insistito nel seguire la stessa strategia. Pertanto, i nuovi progetti che verranno attuati, non dovendo rispettare o seguire nessuno dei principi di pianificazione, porteranno ancora una volta a edifici e città fragili, con un certo rischio di fronte alle catastrofi naturali.

Volevamo chiederle un parere sulla questione della gestione dei detriti post-sisma, per la quale ci sono state anche delle proteste nella provincia di Hatay. La rapida demolizione e lo stoccaggio senza precauzioni di questa enorme quantità di macerie sta infatti causando preoccupazione per la presenza di amianto e altri materiali pericolosi per la salute e la natura. Cosa pensa di quanto sta accadendo e come si potrebbe operare diversamente?

Attualmente esiste un importante problema di salute pubblica in questo campo.

Terremoto in Turchia

Antiochia (foto di Luca Onesti)

È un problema talmente cruciale che potrebbe estendersi a tutte le aree colpite dal terremoto e non solo. Naturalmente esiste un metodo scientifico su come effettuare queste attività di demolizione e tutti gli scienziati hanno denunciato il rischio di iniziare queste attività senza precauzioni, perché l’amianto è una sostanza le cui proprietà cancerogene sono state dimostrate. Prima di queste attività avrebbero dovuto evacuare le zone interessate, ma hanno iniziato subito le demolizioni. Oltre al problema della salute pubblica, c’è anche un problema economico e di proprietà, perché le macerie dell’area vengono attualmente sgomberate e rimosse da alcune aziende private e poi gettate in siti, siano essi pubblici o privati, che hanno un valore economico e vengono compromessi o fortemente danneggiati.

E ancora, gettando i rifiuti nei laghi e nei siti naturali, si crea anche un grande problema ambientale.

Un’altra domanda su Antiochia, Hatay, una città che nella storia antica è già stata distrutta da un terremoto e ricostruita. Come si può rispettare e continuare a far vivere il suo ricco patrimonio architettonico e culturale? La ricostruzione urbana potrebbe mettere in pericolo le caratteristiche particolari di questa città, conosciuta per essere un mosaico di diversità e un esempio di tolleranza e coesistenza? Secondo lei, qual è la logica della dichiarazione, dopo due mesi dal sisma, di “zona a rischio sismico” (secondo la Legge n. 6306) per il centro storico?

Qui si sovrappongono due aspetti problematici. Per prima cosa, questa zona è un’importante area di civilizzazione. Allo stesso tempo, essa è un insediamento della linea di faglia in cui vivono tredici milioni di persone. Quindi, in linea di principio, bisogna proteggere il modello culturale, la struttura sociale e la civiltà stabilita in quell’area e allo stesso tempo bisogna garantire che tredici milioni di persone vivano in sicurezza. Dopo la Seconda guerra mondiale, per alcune città europee che erano state distrutte (per esempio, Dresda) si è seguito il modello per cui il tessuto sociale e culturale della città doveva essere preservato, ma andavano comunque ricostruite. Una tabella di marcia corretta dovrebbe seguire questi due principi:

in primo luogo la sicurezza dovrebbe essere garantita, in secondo luogo il tessuto culturale dovrebbe essere protetto.

Dopo il terremoto, in Turchia, il Ministero ha invece immediatamente annunciato un progetto standardizzato, che potrebbe essere posto in essere dovunque ed è completamente irrilevante per l’identità sociale, culturale e autentica della provincia di Hatay e della città di Antiochia. La ricostruzione in realtà dovrebbe anche tenere conto delle relazioni sociali e tradizionali, del metodo e dei sistemi di produzione, della geografia e del clima. Si dovrebbero prendere in considerazione tutti questi fattori, ma quello che succede spesso è che questi vengono trascurati completamente, generando lo stesso progetto che viene applicato in qualsiasi luogo.


In febbraio avevamo sentito Murat Cinar, giornalista di origine anatolica impegnato anche nel sistema di aiuti alle genti terremotate; la sua conoscenza della società e del territorio – ma anche della propaganda e retorica del presidente turco – appare a distanza di 6 mesi, e dopo le elezioni che hanno visto ancora una volta prevalere la narrazione populista di Erdogan, di una lucidità e premonizione confermate dalla manipolazione delle coscienze e dal patto del presidente con lo zoccolo duro della società turca patriarcale, nazionalista, militarista e tradizionalista (compresa una larga fetta della comunità curda connivente con il persecutore dei curdi).

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Il Sahelistan dall’Atlantico al Mar Rosso https://ogzero.org/il-sahelistan-dallatlantico-al-mar-rosso/ Mon, 21 Aug 2023 20:51:37 +0000 https://ogzero.org/?p=11453 La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da […]

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La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da Sarkozy) che furono alleati del jihad che imperversa nel territorio su cui sono segnati i confini tra Mali, Burkina e Niger – ha assistito alla penetrazione di nuove potenze (in particolare Russia con la presenza di Wagner e Cina che ha aperto una sede per manutenzione di veicoli della Norinco a Dakar – pronta a difendere i vasti interessi di Pechino nei tre paesi dei golpe, ma operativa anche in Senegal, Costa d’Avorio –, ma anche Turchia e paesi della penisola araba), che hanno sfruttato dispute interne, sentimenti antifrancesi, insorgere del jihad per piegare a loro favore lo sfruttamento delle risorse del territorio e la collocazione strategica di cerniera tra Africa centrale (e Corno d’Africa) e Mediterraneo da sud a nord; tra l’Oceano e l’importantissimo corridoio del Mar Rosso sul classico asse ovest/est. L’incendio si va estendendo ormai da quel Triangolo di paesi attualmente retti da giunte militari golpiste fino a legarsi al sanguinoso conflitto sudanese ormai impossibile da comporre (che sta causando nuovi esodi di massa, coinvolgendo in questo modo altri paesi in sofferenza, perché non più in grado di accogliere profughi, creando così nuovi motivi di tensione nell’area dopo quelli che hanno scosso l’Etiopia negli ultimi due anni).
A chi serve creare un’area a forte instabilità sul modello afgano di dimensioni così enormi? è tutto parte di un disegno globale di ridimensionamento del predominio dell’Occidente, oppure è un percorso senza alternative di decolonizzazione, che fa della Realpolitik l’accettazione di potenze alternative, pur di disfarsi del giogo classicamente coloniale? le reazioni interventiste dei paesi limitrofi sono ispirate dalla paura dell’epidemia; oppure dagli sponsor europei, come il solito Eliseo (Adamu Garba, esponente dell’Apc ha accusato Usa e Francia di aver voluto mandare avanti l’Ecowas per innescare una guerra regionale e recuperare posizioni “coloniali”, sfruttando l’instabilità e l’ennesima guerra per procura che finirebbe con il distruggere l’Africa occidentale)
?  Oppure nascono dalla consapevolezza che la regione è stata integralmente posta in un caos per cui nulla sarà più come prima? Sicuramente si sta spostando in campo africano lo scontro anche militare che contrappone gli interessi dei Brics allargati all’egemonia occidentale.
Angelo Ferrari ha cercato di fare il punto mettendo in relazione tutti gli elementi in campo per dipanare l’ingarbugliata matassa.


Il golpe nigerino sblocca definitivamente il modello afgano per l’intero Sahel?

A ovest del lago Ciad

Rulli di tamburi…

Tutti i riflettori della diplomazia internazionale sono puntati sul Niger, dopo il colpo di stato del 26 luglio. Mentre ciò accade il Sahel rischia di piombare in un caos senza precedenti che potrebbe coinvolgere tutta l’Africa occidentale e non solo: l’intera  striscia saheliana è attraversata da tensioni che vanno dal sentimento antifrancese e antioccidentale, che sta montando un po’ ovunque, a una crisi politica, umanitaria e di sicurezza senza precedenti. La decisione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) di intervenire militarmente in Niger sta esacerbando ulteriormente le opinioni pubbliche di diversi stati della regione; non più, dunque, una minaccia, ma un piano militare messo a punto dopo due giorni di vertice ad Accra, capitale del Ghana. Non si conoscono i dettagli dell’operazione, si sa solo che dovrebbe essere “lampo” perché nel Sahel c’è stato “un colpo di stato militare di troppo”, a detta dei generali riuniti ad Accra. Intervento armato, tuttavia, che non avrebbe alcuna legittimità internazionale: l’Unione africana infatti ha già detto il suo no e le Nazioni Unite non hanno nessuna intenzione di autorizzarlo.

… timide mosse diplomatiche…

Mentre si parla di piani militari, la diplomazia è ancora al lavoro. Una delegazione dell’Ecowas è arrivata a Niamey dove ha potuto incontrare il presidente destituito, Mohamed Bazoum; non solo, a Niamey è arrivata anche la nuova ambasciatrice degli Stati Uniti, Kathleen FitzGibbon, anche se non presenterà le credenziali alla giunta militare – perché Washington non la riconosce – esprimendo tuttavia l’intenzione americana di perseguire la via diplomatica e «per sostenere gli sforzi che aiutino a risolvere la crisi politica in questo momento». Un segno, dunque, che la giunta militare non respinge del tutto il dialogo.
tanto che in un discorso alla televisione pubblica nigerina, Télé Sahel, il generale Abdourahamane Tchiani, a capo della giunta militare, ha annunciato l’istituzione di un «dialogo nazionale inclusivo» entro 30 giorni e ha annunciato una transizione che «non può durare oltre i tre anni». L’obiettivo è formulare «proposte concrete per porre le basi di una nuova vita costituzionale».
Un mantra, quest’ultimo, che ha precedenti in Mali, Burkina Faso e Guinea, paesi che sono stati teatro di colpi di stato negli ultimi due anni e dove le transizioni si prolungano senza che vengano convocate elezioni per un ritorno dei civili al governo di questi paesi. Il generale Tchiani, tuttavia, non accetta la minaccia dell’Ecowas di un intervento militare e rilancia: «L’Ecowas si prepara ad attaccare il Niger allestendo un esercito di occupazione in collaborazione con un esercito straniero», ha detto Tchiani senza citare il paese “straniero”, ma in molti pensano alla Francia.

… esibizione di muscoli

«Né il Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria né il popolo del Niger vogliono la guerra, ma se dovesse essere intrapresa un’aggressione, non sarà la svolta in cui alcuni credono» e ha ammonito: «Le forze di difesa del Niger non si tireranno indietro», sostenute da Burkina Faso, Mali e Guinea, ha detto. «La nostra ambizione non è quella di confiscare il potere», ha anche promesso.

A est del lago Ciad

Il conflitto tra al-Burhan e Hemedti si estende a tutti i Signori della guerra

Mentre ciò accade nell’estremo ovest della striscia saheliana, il Sudan è entrato nel quinto mese di guerra senza che si intraveda all’orizzonte una soluzione. Anzi, sembra proprio che i contendenti vogliano arrivare alle estreme conseguenze. Intanto il conflitto si è esteso, impantanato, aggravato provocando un dramma umanitario che nemmeno l’Onu è in grado di affrontare. La guerra contrappone l’esercito regolare del generale al-Burhan alle Forze di supporto rapido (Fsr) dei paramilitari guidati dal generale Hemedti. Il conflitto ha causato più di quattromila morti, anche se la cifra delle vittime è sottostimata, e milioni tra profughi e sfollati interni. Quando la guerra è scoppiata, il 15 aprile 2023, il generale al-Burhan ha detto che sarebbe finita in due settimane, mentre Hemedti prometteva la vittoria. Oggi nessuna delle due parti sembra prendere un vantaggio decisivo. I militari dominano ancora lo spazio aereo, mentre soffrono la debolezza della loro fanteria, un compito, ironia della sorte, che avevano affidato proprio alle Fsr. L’esercito ha subito battute d’arresto nel Sud Kordofan, nel Nilo Azzurro e nel Darfur, le Forze di supporto rapido sembrano avere nelle mani la maggior parte del territorio di Khartoum, la capitale.
Il conflitto dunque, anziché attenuarsi, si intensifica è sta coinvolgendo altri movimenti armati che partecipano ai combattimenti. Insomma, questo conflitto, iniziato tra due generali, rischia di trasformarsi in una vera e propria guerra civile, secondo l’Onu, volgendo verso una situazione di anarchia totale. I negoziati, inoltre, non sono mai decollati e sono in una fase di stallo e i cessate il fuoco non sono mai durati.

S’intrecciano le crisi umanitarie regionali

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Nilo

Sul versante umanitario le cifre sono da capogiro con oltre 3 milioni di sfollati e quasi 1 milione di rifugiati. Inoltre, entro settembre si prevede che il 40% della popolazione soffrirà di insicurezza alimentare. Le organizzazioni umanitarie stanno affrontando una situazione a dir poco scoraggiante con una mancanza allarmante di fondi, all’appello mancano due miliardi di dollari per far fronte alla crisi. Le donne sono particolarmente colpite, sono vittime di violenze e stupri perpetrati dai combattenti e private di un’adeguata assistenza psicologica e medica, hanno spiegato i portavoce delle agenzie umanitarie durante una riunione a Ginevra. Le agenzie possono aiutare circa 19 milioni di persone in Sudan e nei paesi limitrofi, tuttavia gli interventi sono finanziati solo al 27%. Le Nazioni Unite hanno lanciato due appelli, uno per finanziare gli aiuti all’interno del paese per un totale di 2,57 miliardi di dollari e l’altro per i rifugiati fuggiti dal Sudan per un importo di 566,4 milioni di dollari. Ma dopo la crisi innescata dal colpo di stato in Niger, del Sudan sembra si siano dimenticati tutti e ciò rischia di aggiungere catastrofe a catastrofe.

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Niger

Le conseguenze di un intervento militare dell’Ecowas a Niamey sarebbero devastanti sia sul piano umanitario sia sul piano della sicurezza dell’intera regione. Già si vedono spostamenti di persone sul fiume Niger nella parte che confina con il Benin, considerato, ancora, uno stato sicuro. Nel paese la crisi umanitaria si sta già manifestando. Le frontiere chiuse impediscono il passaggio di merci necessarie alla sopravvivenza della popolazione, così come l’elettricità scarseggia in più parti del paese per via delle interruzioni delle forniture che arrivano dall’estero. Una guerra, per quanto lampo sia, aggraverebbe ulteriormente la situazione umanitaria.

A Ovest (speriamo) niente di nuovo

Una guerra, che potrebbe estendersi a buona parte del Sahel – Mali e Burkina Faso hanno già assicurato il loro appoggio al Niger – avrebbe ripercussioni preoccupanti sul fronte della lotta al terrorismo e ai gruppi jihadisti che imperversano nell’area, in particolare nella regione dei tre confini – Niger (Tilaberi), Mali (Tessit) e Burkina Faso (Tamba), dove storicamente la pastorizia nomade si scontra con coltivatori stanziali – ma anche sulla capacità dei paesi del Golfo di Guinea, già colpiti dal terrorismo a nord dei loro confini – Costa d’Avorio, Benin e Togo – di farvi fronte. Una situazione, dunque, esplosiva.

Recrudescenza jihadista dopo Barkhane

Dal colpo di stato in Niger di fine luglio, infatti, sono stati registrati nove attacchi jihadisti. Una tendenza che preoccupa gli osservatori. Con la recrudescenza degli attacchi islamisti, il timore è di “un rapido deterioramento della situazione”, in primo luogo perché Parigi ha sospeso la sua cooperazione militare con il Niger. L’esercito nazionale quindi non beneficia più dell’appoggio dell’esercito francese. Non ci sono più operazioni congiunte, aerei e droni non danno più supporto e i terroristi approfittano del vuoto. Poi, le minacce di intervento armato dell’Ecowas hanno portato a una riduzione del sistema militare occidentale, che hanno sospeso le loro attività ai confini. Ciò potrebbe portare un calo della reattività dell’esercito nigerino e i gruppi jihadisti potrebbero approfittarne riconquistando la loro libertà di manovra con un radicamento dello Stato Islamico proprio nell’area dei tre confini. Le preoccupazioni vanno ancora oltre, con la possibile creazione di zone grigie, in parte controllate da gruppi armati, in Mali, Burkina, Niger, persino Sudan, che potrebbero destabilizzare il vicino Ciad. Il Ciad, pur non essendo membro dell’Ecowas, condivide con il Niger 1200 chilometri di confine e dispone, oltre ad avere solidi rapporti con la Francia, di un esercito tra i più potenti dell’area. Quindi il Niger ha necessità di assicurarsi rapporti di buon vicinato – il primo ministro nigerino, nominato dalla giunta militare, ha fatto visita al presidente ciadiano Mahamat Idriss Deby – anche se N’Djamena è alle prese con una crisi interna di legittimità del potere e con l’emergenza profughi che arrivano a decine di migliaia dal Sudan.

A rischio sconfinamenti i paesi del Golfo

Si teme, inoltre, che i gruppi jihadisti possano contagiare anche i paesi del Golfo di Guinea. Questa è la maggior preoccupazione della Costa d’Avorio che è già alle prese con sconfinamenti dal Burkina Faso e con centinaia di profughi burkinabé che cercano rifugio nel nord del Paese. Ciò, inoltre, potrebbe spiegare la ferma posizione del presidente ivoriano, Alassane Ouattara, che si è schierato con decisione per un intervento militare in Niger, dicendosi disponibile a fornire un battaglione del suo esercito al contingente dell’Ecowas. Occorre ricordare che Ouattara è uno dei pochi “fedeli” alla Francia rimasti nella regione. E il presidente ivoriano è preoccupato che anche nel suo paese possa montare un sentimento antifrancese alimentato, soprattutto, dal suo rivale di sempre l’ex presidente Laurent Gbagbo, 78 anni, che non nasconde le sue velleità di tornare alla presidenza della Costa d’Avorio, nel 2025, con il suo nuovo Partito dei popoli africani-Costa d’Avorio (Ppa-Ci), di ispirazione e orientamento socialista e panafricanista, nemmeno troppo velatamente antifrancese.

Scosso anche il gigante Senegal da sommovimenti interni

Non meno turbolenta appare la situazione nell’estremo ovest della striscia saheliana, in un Senegal che vive un periodo di forte crisi politica e di legittimità democratica, soprattutto dopo l’arresto dell’oppositore Ousmane Sonko, uno dei leader politici più amati dai giovani senegalesi. Arresto che ha provocato manifestazioni di piazza violente, che hanno lasciato sulle strade numerosi feriti ma anche morti. In conseguenza di queste proteste il ministro dell’interno senegalese, Antoine Diome, ha annunciato lo scioglimento proprio del partito di Sonko, il Pastef – Les patriotes. Il leader dei “giovani senegalesi” è stato condannato per diffamazione e per corruzione giovanile. Secondo le opposizioni queste condanne non hanno altro significato che escludere Sonko, che gode di un buon seguito, dalle elezioni presidenziali del 2024. Il Senegal è un altro paese in forte ebollizione e non è bastata la decisone di Macky Sall, attuale presidente, di non candidarsi per un terzo mandato alle presidenziali a inizio luglio per stemperare la tensione nel paese. In punta di diritto potrebbe farlo, anche se la Costituzione prevede solo due mandati, ma è stata riformata, con una rimodulazione della lunghezza del mandato, proprio sotto la presidenza Sall. Le opposizioni, infatti, si rammaricano del fatto che il presidente Sall e il suo governo rimangano sordi alle richieste di allentamento, pacificazione e fine delle restrizioni agli spazi di libertà. I mesi, dunque, che separano il Senegal alle presidenziali del febbraio 2024 saranno particolarmente difficili. Non è un caso, inoltre, che le opposizioni senegalesi si siano schierate contro l’intervento militare dell’Ecowas in Niger.
Sono molte le ragioni che dovrebbero dissuadere dal mettere in atto lo scenario peggiore per il Sahel e per l’intera Africa occidentale. Un conflitto armato su vasta scala potrebbe scatenare reazioni non proprio prevedibili e trasformare il Sahel in un “Sahelistan” di afgana memoria.

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L’ancora irrisolto colpo di stato in Niger https://ogzero.org/lancora-irrisolto-colpo-di-stato-in-niger/ Sun, 30 Jul 2023 22:51:19 +0000 https://ogzero.org/?p=11387 Intanto i differenti militari hanno sollevato il presidente, il potere però sembra sia gestito da svariati uomini forti a cominciare dal capo della Guardia presidenziale Tchiani e ora sembrano essere in attesa di capire in che modo schierarsi nelle relazioni internazionali; come se fossero sulla piazza, al miglior offerente… ma probabilmente divisi tra diverse forze […]

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Intanto i differenti militari hanno sollevato il presidente, il potere però sembra sia gestito da svariati uomini forti a cominciare dal capo della Guardia presidenziale Tchiani e ora sembrano essere in attesa di capire in che modo schierarsi nelle relazioni internazionali; come se fossero sulla piazza, al miglior offerente… ma probabilmente divisi tra diverse forze armate e le differenti “scuole d’armi” frequentate. Forse Bazoum aveva dato l’impressione di non voler mettere in discussione minimamente lo schieramento con la parte dell’Occidente e quindi il rischio per chi intendeva omogeneizzare le scelte antiatlantiste del resto del Sahel era quello di essere esautorati dagli incarichi autorevoli che ricoprivano. Forse ha prevalso l’idea che nel gran rivolgimento dell’intero continente risultasse perdente per la nazione non operare alcun cambiamento. Forse il timore che si mancasse anche stavolta la partecipazione all’ondata di rigetto antifrancese (molto popolare presso i giovani potrebbe aver spinto alla rimozione dell’ostacolo presidenziale… di certo l’incertezza sulla affidabilità e collocazione di uno stato chiave, l’ultimo nel Sahel ancora sotto l’egida di una Francia affamata di uranio, produce fibrillazioni in seno all’intera comunità internazionale, motivo per cui – al contrario del solito – abbiamo pensato fosse il caso di occuparsene quando ancora non si è depositato il polverone di ipotesi suscitate dal golpe. … Intanto Parigi ha dichiarato che – rispetto agli altri paesi sahelini (che non sono cassaforte di uranio) – da Niamey sarà più difficile cacciarli, però il governo golpista ha sospeso le forniture di oro e uranio alla Francia. E comunque sul territorio c’è il più grosso contingente americano in Africa e gli addestratori italiani (più di 300 giovani e forti, 13 mezzi terrestri e 5 aerei, inquadrati nella Misin che opera agli ordini del Comando operativo di vertice interforze (Covi), guidato dal generale di Corpo d’armata Francesco Paolo Figliuolo, sempre lui). Il blocco dell’Africa occidentale riunito a Abuja (Cedeao), ha dichiarato la sospensione delle relazioni con il Niger autorizzando l’uso della forza se il presidente non verrà reintegrato entro una settimana: l’emissario del messaggio è il non-allineato Déby (in carica dinasticamente per volontà dell’Eliseo), un pessimo segnale in una fase di rivolgimento totale, che la paura dell’epidemia si diffonda in tutta l’Africa occidentale, mettendo le premesse perché divampi una guerra estesa, concede pericolosi spazi per una nuova guerra per procura in terra africana.
Angelo Ferrari affronta l’evento cercando di districarsi tra le notizie ancora contraddittorie, analizzandole per capire almeno le intenzioni di ciascun protagonista, in primis i generali nigerini, ma poi anche le diplomazie mondiali e la manipolazione mediatica delle piazze locali, lasciando solo trapelare il malcontento giovanile
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Sbalorditivi risultati dopo il vertice di San Pietroburgo?

Una vicenda ancora dai contorni pochi chiari – non potevano mancare le affermazioni del capo dei mercenari della Wagner che ha applaudito alla presa di potere dei militari. Parole piene di retorica anticoloniale:

«Quello che è successo in Niger non è altro che la lotta del popolo nigerino contro i colonizzatori che stanno cercando di imporre loro le loro regole di vita”, ha detto Evgenij Prigožin in un messaggio a lui attribuito.

Parole che fanno intendere che la Wagner, qualora i golpisti lo volessero, è pronta a entrare nello scenario nigerino con un ruolo di primo piano. Non ci sono, per ora, segnali che dietro il golpe ci siano gli uomini della Wagner. Se fosse così sarebbe un doppio schiaffo per l’occidente che, è bene dirlo, si è fatto sorprendere proprio nell’ultima roccaforte della lotta antijihadista dopo l’uscita di scena dal Mali e dal Burkina Faso. Le domande sono molte.

 

La prima: come è stato possibile che nessuna cancelleria occidentale avesse avuto un sentore di ciò che sarebbe potuto accadere?

Non c’è una risposta e se c’è nessuno la vuole dare, forse perché sarebbe troppo imbarazzante. Sta di fatto che in Niger sono presenti migliaia di militari stranieri: 1500 francesi, più di mille americani e oltre trecento italiani, oltre ai mezzi militari, molti di questi di stanza a Niamey, la capitale. Di certo, nei prossimi giorni si chiariranno molte cose. Secondo i francesi il colpo di stato “non è definitivo”. Il presidente Emmanuel Macron ha parlato in più occasioni con il suo omologo destituito, Mohamed Bazoum. Forse da queste telefonate deduce che ci sia ancora uno spiraglio di trattativa tra il capo di stato democraticamente eletto e i golpisti che, intanto, hanno messo a guida del paese il capo della guardia presidenziale, il generale Abdourahamane Tchiani, in qualità di “presidente del Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria”, la giunta che ha rovesciato il presidente eletto. Il capo della guardia presidenziale, il generale Tchiani, nuovo uomo forte del Niger, ha giustificato il golpe con “il deterioramento della situazione della sicurezza” nel paese minato dalla violenza dei gruppi jihadisti. Il presidente Bazoum, a detta sua, voleva far credere che “va tutto bene”, mentre c’è

«la dura realtà con la sua quota di morti, sfollati, umiliazioni e frustrazioni». Secondo Tchiani «l’attuale approccio di sicurezza non ha permesso di mettere in sicurezza il paese nonostante i pesanti sacrifici compiuti dai nigerini e l’apprezzabile e apprezzato supporto dei nostri partner esterni».

Rassicurazioni da militare

A ogni insorgenza si sentono sempre queste parole. Sono una consuetudine vissuta anche in altri scenari del Sahel: il Mali e il Burkina Faso, paesi governati da giunte militari frutto di 4 colpi di stato. Tutte le giunte militari, inoltre, si affrettano a sostenere che gli impegni presi dal paese non cambieranno e verranno rispettati. Un tentativo di rassicurare gli alleati, ed è capitato anche in Niger, per poi fare retromarce clamorose. In Mali – la nuova Costituzione stabilisce che il francese non è più la lingua ufficiale – come in Burkina Faso, hanno “cacciato” la Francia per mettersi totalmente nelle mani della Russia, affidandosi alla Compagnia Wagner per la lotta ai gruppi jihadisti che imperversano nel Sahel. Hanno preoccupato le manifestazioni, a Niamey, a sostegno dei golpisti, con la gente che sventolava le bandiere russe, per altro subito disperse dalla giunta miliare. I timori, dunque, delle cancellerie occidentali sono più che fondati. E la “guerra economica e diplomatica” tra Ovest ed Est del mondo sembra proprio essersi trasferita in Africa. I segnali ci sono tutti.

Il Sahel ha sancito la fine di un’epoca?

Dopo il Mali e il Burkina Faso, dunque, anche il Niger è caduto sotto il controllo di un regime militare che potrebbe sconvolgere la lotta contro i gruppi armati jihadisti nel Sahel. Di fronte all’avanzata dei terroristi, le giunte militari hanno preso il sopravvento su democrazie ritenute inefficienti e corrotte da parte delle popolazioni saheliane. I militari che hanno, infatti, preso il potere in Niger hanno già annunciato un nuovo orientamento strategico.

«L’attuale approccio non ha permesso di mettere in sicurezza il Paese nonostante i pesanti sacrifici compiuti dai nigerini», ha detto il generale Tchiani.

Il Niger e il suo presidente, eletto democraticamente, erano i principali alleati dei paesi occidentali nel Sahel travolto dalla violenza jihadista e da un’ondata di autoritarismo venato di sovranità russofila. Bamako si è rivolto ai mercenari della Wagner per far fronte ai gruppi jihadisti, provocando la partenza delle truppe francesi nel 2022. Le autorità di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, hanno optato per la mobilitazione di cittadini armati e hanno chiesto il ritiro delle forze speciali francesi nel paese, non senza l’appoggio della Wagner. Il presidente nigerino, invece, aveva scelto di mantenere sul suo territorio la presenza di soldati francesi, americani e italiani, temendo di essere coinvolto nel divorzio tra l’occidente e le giunte saheliane.
Queste giunte «tendono naturalmente ad addossare la responsabilità del deterioramento della sicurezza agli alleati dei regimi che hanno rovesciato. Questi colpi di stato sono sostenuti da una parte della popolazione che ha già mostrato un atteggiamento ostile nei confronti dei francesi o degli occidentali presenti nel Sahel», spiega Ibrahim Yahaya Ibrahim, ricercatore dell’International Crisis Group.
Fin dal suo primo intervento, il generale Tchiani ha preferito rivolgersi ai suoi omologhi saheliani, interrogandosi «sul senso e sulla portata di un approccio securitario alla lotta al terrorismo che escluda ogni reale collaborazione con Burkina Faso e Mali» nell’area nota come i tre confini.

L’auspicata cooperazione tra sahelini… ma antifrancese

A causa delle tensioni diplomatiche, i militari nigerini e francesi non hanno potuto operare liberamente contro le basi dello Stato Islamico dall’altra parte del confine con il Mali, dove l’organizzazione compie attacchi sul territorio nigerino. Questa crisi non potrebbe essere risolta senza la cooperazione con il Mali, secondo il generale Tchiani. Insomma, è facile prevedere che vi sia un “miglioramento” delle relazioni e una maggiore cooperazione tra i paesi vicini.
Dal lato dei partner occidentali le prospettive sono più fosche: l’Unione europea ha annunciato la sospensione di tutti gli aiuti di bilancio e le azioni di cooperazione nel campo della sicurezza. Le sanzioni internazionali potrebbero colpire il regime come nel vicino Mali. Una possibile partenza delle forze francesi, americane e italiane lascerebbe un vuoto in una regione particolarmente travagliata, secondo gli analisti.
Il Niger confina con il caos libico, la Nigeria con Boko Haram e Iswap, il nord del Benin molto colpito dal jihadismo e ovviamente Mali e Burkina Faso.

Niamey era un polo di stabilità nonostante i problemi di sicurezza sul territorio.

Il Niger sta vivendo un afflusso di rifugiati dal Mali e dalla Nigeria in preda alla violenza, stimato in 255.000 nel 2022 dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unchr). Bazoum incarnava un modello di cooperazione in materia di sicurezza per le democrazie occidentali e i loro donatori. Il mantra del presidente nigerino era la “stabilizzazione” delle comunità prese di mira dal reclutamento jihadista e la reintegrazione dei loro combattenti, soprattutto i giovani. Il governo di Niamey stava attuando programmi in gran parte finanziati da partner internazionali, il cui futuro è ora sospeso. Contrariamente al potere civile che ha accettato di dialogare con alcuni leader di gruppi armati, il generale Tchiani ha denunciato nel suo discorso di “insediamento” la “liberazione extragiudiziale” di “capi terroristi” da parte del regime di Mohamed Bazoum. In Mali e Burkina Faso i militari al potere hanno optato per una strategia ultraoffensiva contro i gruppi jihadisti, viziata da accuse di abusi ricorrenti contro la popolazione. E a pagarne il maggior peso sono i civili.

Recrudescenza jihadista

Una strategia che contribuisce alla destabilizzazione e può alimentare tensioni intercomunitarie e intracomunitarie. Un approccio, inoltre, che non ha avuto l’esito sperato. Gli attacchi jihadisti in questa regione, ma anche nell’Africa occidentale, si sono moltiplicati. Solo nei primi sei mesi del 2023 si sono registrati più di 1800 attacchi di matrice terroristica, nei quali hanno perso la vita quasi 4600 persone e che hanno avuto conseguenze umanitarie disastrose. A riferirlo è Omar Touray, presidente della Commissione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) intervenendo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Delle circa 4600 persone uccise in questi attacchi terroristici tra gennaio e la fine di giugno, 2725 morti sono avvenute in Burkina Faso, 844 in Mali, 77 in Niger e 70 in Nigeria. Touray ha citato anche il Benin e il Togo, due paesi della subregione storicamente risparmiati dagli attacchi terroristici ma che oggi vivono, invece, grandi preoccupazioni per la sicurezza. Questi paesi sono stati presi di mira, di recente, da una serie di attacchi, che Touray ha descritto come

«un’indicazione lampante della diffusione del terrorismo negli stati» del Golfo di Guinea, «una situazione che rappresenta un’ulteriore minaccia per la regione».

Touray ha detto anche che l’insicurezza continua a infliggere dolore e sofferenza a milioni di persone, con conseguenze di vasta portata: questi attacchi terroristici hanno provocato lo sfollamento di mezzo milione di rifugiati e quasi 6,2 milioni di sfollati interni. La Costa d’Avorio, solo per fare un esempio, ha già predisposto campi per l’accoglienza dei profughi provenienti dal Burkina Faso. Il numero di persone con necessità di sicurezza e assistenza, poi, salirà a 42 milioni «se non ci sarà un’adeguata risposta internazionale ai 30 milioni di persone attualmente bisognose di cibo».


I francesi e l’Occidente non si possono permettere di perdere il Niger: passa dalla soluzione di questa crisi il definitivo declino dell’Occidente, oppure la contrapposizione allo scacco del blocco antiatlantico… l’incrocio tra Sahel e l’area centrafricana è uno snodo essenziale, ben più critico del corridoio polacco verso Kaliningrad. E forse per evitare il contagio può essere un’interpretazione valida quella avanzata da Angelo Ferrari e Marco Trovato in un visdeo di “AfricaRivista”riguardo al successivo “golpe” con caratteristiche del tutto differenti che ha colpito il Gabon, stato quasi monarchico che la repubblica francese ha dato in affido alla famiglia Bongo da 57 anni e che avrebbe rischiato maggiormente se le sommosse per il malcontento nei confronti della cleptocrazia non fossero venute dalla guardia presidenziale, ma dai cittadini ridotti in miseria dal sistema neocoloniale – e c’erano tutti i prodromi di una reazione violenta ai brogli delle elezioni tenutesi senza internet funzionante e in stato di emergenza, senza osservatori. Invece Brice Clotaire Oligui Nguema, nuovo uomo forte – senza bandiere russe o stemmi con il teschio della fantasmatica Wagner – ha assegnato ad Ali Bongo Ondimba quella retraite per la difesa della quale i cittadini francesi sono scesi nelle piazze per mesi. Ma qui non siamo in Sahel, non si è ancora affacciato il pericolo jihadista, la Francia non si può permettere di perdere un alleato così fedele.

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Il sovranismo è l’altro colonialismo. Raisi l’Africano https://ogzero.org/il-sovranismo-e-laltro-colonialismo-raisi-lafricano/ Fri, 21 Jul 2023 09:49:29 +0000 https://ogzero.org/?p=11316 Razzisti e colonialisti di radice fascista e reazionaria di ogni latitudine stanno annusando l’aria di affari in un continente in bilico, dove i riferimenti coloniali classici (coperti finora dalla foglia di fico dell’appartenenza ideologica alle democrazie liberali) sono messi in crisi e quindi si propongono con i loro modelli ipocriti di cooperazione stracciona, senza orpelli […]

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Razzisti e colonialisti di radice fascista e reazionaria di ogni latitudine stanno annusando l’aria di affari in un continente in bilico, dove i riferimenti coloniali classici (coperti finora dalla foglia di fico dell’appartenenza ideologica alle democrazie liberali) sono messi in crisi e quindi si propongono con i loro modelli ipocriti di cooperazione stracciona, senza orpelli di richiamo retorica a un presunto riguardo all’umanitarismo. Meloni con Saied, due razzisti a pianificare lo sterminio di africani, Raisi con Museveni, due omofobi in sintonia… tutti, al di là degli accordi sbandierati, trovano terreni comuni in transazioni economiche, inventando fittizie posizioni di cooperazione alla pari.
Proprio quello è il vero interesse: concentrarsi sul continente terreno di scontro e spartizione globale. Ora persino il regime persiano dei turbanti, quasi mai interessato  all’Africa, organizza un viaggio ufficiale in tre stati non casualmente scelti, cercando di piazzare prodotti che non sono petroliferi – in primis i droni… ma per l’agricoltura, ovviamente –, ma soprattutto esportando un modello dittatoriale, come spiega con precisione Angelo Ferrari.


Visite all’Africa bazaar: offerte speciali di aree di influenza

ll presidente iraniano, Ebrahim Raisi, è sbarcato in Africa per un tour storico di tre giorni dove ha visitato il Kenya, poi l’Uganda e, infine, lo Zimbabwe. Il continente africano – e anche questa visita lo dimostra – è diventato il terreno “ideale” per le diplomazie dell’Est del Mondo per contrastare l’Occidente e ridisegnare la geopolitica mondiale. Dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia si è avuta un’accelerazione diplomatica sul continente senza precedenti. Lo scontro tra Occidente e Oriente si è trasferito, anche ma non solo, in Africa e tutti cercano di portare i paesi africani dalla propria parte. Condendo il tutto con la retorica anticoloniale: «Alcuni paesi hanno una visione colonialista dell’Africa, ma la nostra visione verso questo continente si basa sulla dignità umana e sulla sinergia», ha detto Raisi prima di lasciare Teheran.
L’obiettivo che vuole raggiungere Raisi è quello di aprire nuovi canali commerciali, da un lato, e dall’altro aprire vie diplomatiche che gli consentano di sviluppare le esportazioni non petrolifere verso il continente africano. Questo tour riflette il desiderio dichiarato di Teheran di moltiplicare i partner politici ed economici, anche per cercare di aggirare le sanzioni occidentali che le sono state imposte a causa del suo programma nucleare.

Lo spirito di Astana trasferito in Africa: le nuove “guerre siriane” da regolare

Dopo undici anni, dunque, torna sul suolo africano un presidente iraniano così da avviare “un nuovo inizio”, ha spiegato il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Nasser Kanani, con paesi che sono “molto ansiosi” – a detta sua – «di sviluppare le loro relazioni con l’Iran». Ma non solo. Secondo Teheran questo riavvicinamento – che si concretizza dopo il rafforzamento delle relazioni con Cina e Russia nell’ambito di una strategia rivolta a Est – sta avvenendo anche sulla base di “una visione comune”. Non è un caso, inoltre, che l’Iran sia entrato a fare parte della Shanghai Cooperation Organization (Sco), una struttura regionale creata nel 2001 di cui Cina e Russia sono membri fondatori.

Relazioni iraniane globalmente “antimperialiste”

Per cercare di capire questa nuova e quasi inedita offensiva diplomatica non si può non considerare la grave crisi economica che sta attraversando l’Iran e quindi, quel viaggio, si inserisce nella ricerca di nuove vie d’uscita alle numerose sfide che Teheran deve affrontare. La visita, poi, incornicia un quadro che il presidente iraniano Raisi ha spiegato ricevendo il ministro degli Esteri algerino, Ahmed Attaf: sviluppare relazioni politiche ed economiche con Algeri come con le tre capitali africane che ha visitato. E il tour africano si inserisce, inoltre, nel quadro delle visite che Raisi ha effettuato in Indonesia e con i tre “paesi amici” in America Latina, cioè Venezuela, Nicaragua e Cuba. Viaggi che gli hanno dato l’occasione di ribadire l’avversione di Teheran alle “potenze imperialiste”, avendo nel mirino, in particolare, gli Stati Uniti. Ma, durante questi viaggi, ha colto l’occasione per ribadire il suo appello a spezzare l’egemonia del dollaro sull’economia mondiale. Fattore che sta molto a cuore anche ai paesi africani e a quelli del Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – che nel vertice che si svolgerà il prossimo agosto in Sudafrica discuteranno anche di questo e delle richieste di numerosi paesi africani, che vogliono entrare a far parte di questo consesso internazionale.

La prima tappa: il Kenya di Ruto

Raisi, in Kenya ha incontrato, a Nairobi, il suo omologo William Ruto. Dopo un colloquio “cordiale” ha incontrato i giornalisti spiegando la sua visita in Kenya come «un punto di svolta nelle relazioni tra i due paesi», aggiungendo che queste discussioni hanno rispecchiato “la determinazione” dei due paesi a «estendere la loro cooperazione economica, commerciale, politica e culturale». Dal canto suo, Ruto ha descritto l’Iran come «un partner strategico essenziale per il Kenya» e ha annunciato la firma bilaterale di cinque memorandum d’intesa in vari settori tra cui quello tecnologico, la promozione degli investimenti e la pesca. «Questi protocolli», ha spiegato il presidente keniano, «svilupperanno e approfondiranno ulteriormente le nostre relazioni per consentire una crescita e uno sviluppo più sostenuti tra i nostri due paesi». L’Iran, inoltre, ha annunciato la volontà di creare una fabbrica nella città portuale di Mombasa per «produrre un veicolo di fabbricazione iraniana chiamato Kifaru, che in lingua kiswalili significa rinoceronte». I simboli hanno sempre un loro valore e fanno, a volte, più della diplomazia.

Il cuore del viaggio: 21 accordi commerciali

Il tour africano ha consentito di annunciare che la compagnia di navigazione Islamic repubblic of Iran Shipping Lines intende aprire un ufficio regionale nel continente per garantire la continuità delle proprie linee marittime dirette in Africa. Attualmente sono già operative linee di navigazione dirette tra l’Iran e l’Africa settentrionale e orientale, ma la compagnia iraniana prevede di espandere i propri servizi anche in altre regioni del continente.
Gli accordi commerciali sono fondamentali per l’Iran – ne sono stati firmati 21 con i tre paesi che ha visitato – ma Raisi si trova molto a suo agio con omologhi del suo stesso rango. A parte il Kenya, paese che sta cercando, non senza fatica, di far crescere la propria democrazia, consolidandola e riaffermandosi in un ruolo centrale per l’Africa orientale, gli altri paesi visitati – Uganda e Zimbabwe – assomigliano di più a vere e proprie dittature. Raisi, proprio in questi paesi, ha dato il meglio di sé in termini di propaganda e di sostegno ai due dittatori.

Museveni folgorato dal modello iraniano alternativo all’Occidente

Ma il vero affondo nella retorica antioccidentale, Raisi lo ha lanciato in Uganda. «L’imperialismo e l’occidente preferiscono che i paesi esportino petrolio e materie prime, consentendo loro di convertire queste risorse in prodotti a valore aggiunto, i nostri sforzi in Iran si concentrano sulla prevenzione delle esportazione delle materie prime», e ha sottolineato l’importanza di evitare le esportazioni verso l’occidente, «come auspicato dai paesi imperialisti». Museveni, dal canto suo, ha espresso la necessità di imparare dalle preziose «esperienze dell’Iran nel contrastare l’egemonia occidentale».

La seconda tappa: l’Uganda di Museveni

Cominciamo dall’Uganda. Senza troppo girarci intorno, Raisi, incontrando il suo omologo Yoweri Museveni – in quanto a longevità al potere non ha eguali – ha elogiato la legge “antiomosessualità” dell’Uganda, una delle più repressive al mondo che prevede sanzioni che possono arrivare fino alla pena di morte e vieta la “promozione dell’omosessualità”. «L’occidente, – ha detto Raisi, – sta cercando oggi di promuovere l’idea dell’omosessualità e, promuovendola, sta cercando di porre fine alla specie umana». Diversi paesi, tra cui gli Stati Uniti, hanno promesso sanzioni economiche contro l’Uganda. Ma l’Uganda tira dritto: «L’occidente non verrà a governare il nostro paese», parole del presidente del parlamento ugandese. Museveni, accogliendo le parole di Raisi ha spiegato che «i paesi occidentali stanno agendo contro il patrimonio delle culture e delle nazioni». Si può capire quale sia la “visione politica comune” che il presidente iraniano ha evocato prima di lasciare Teheran per recarsi in Africa. E di sicuro Museveni ringrazia.

Mnangagwa, il patriota senza critiche per legge

Poi c’è lo Zimbabwe, che non è secondo a nessuno in termini di repressione di tutto ciò che non è allineato al potere. Rober Mugabe, padre della patria e dittatore insegna. Non solo, prima di lasciare questo mondo aveva giurato che il suo fantasma avrebbe perseguito per sempre il paese.

La terza tappa: lo Zimbabwe di Mnangagwa

Fantasma che si è reincarnato perfettamente nell’attuale dittatore, Emmerson Mnangagwa, salito al potere con un golpe nel 2017 rovesciando proprio Mugabe. Nel paese ogni voce dissenziente è messa a tacere. Ma il presidente iraniano Raisi è arrivato ad Harare in un momento cruciale per il paese: cioè le elezioni per la presidenza che si dovrebbero tenere il 23 agosto e Mnangagwa è candidato. Tra dittatori ci si spalleggia. Ma arrivano in un momento ben preciso: il presidente ha appena firmato una legge “patriottica” che vieta ogni critica al paese. Raisi, c’è da crederci, avrà dato qualche suggerimento, sul tema, al suo amico zimbabwano. Ora, in Zimbabwe, è considerato un crimine “danneggiare deliberatamente la sovranità e l’interesse nazionale” del paese e sarà punito chiunque partecipi a riunioni o incontri con persone che promuovono sanzioni contro lo Zimbabwe. Una legge molto “vaga” che lascia una grande libertà di manovra a chi governa e che può decidere a suo piacimento cosa è male e cosa è bene per il paese. Insomma, una legge “patriottica” che consentirebbe di condannare a morte persone percepite – solo percepite – come critiche nei confronti del governo. Il ministro dell’Informazione, Monica Mutsvangwa, ha spiegato che il «ruolo di questa legge è garantire che i cittadini amino il proprio paese. Bisogna essere patriottici». Più che amare il paese, i sudditi devono amare incondizionatamente il dittatore. Un bel capolavoro.
Questo testo conferma che lo Zimbabwe è una dittatura a tutti gli effetti con un regime peggiore di quello di Robert Mugabe, ha assicurato l’avvocato Fadzayi Mahere, portavoce della Citizens Coalition for Change, un partito fondato nel 2022 e guidato da Nelson Chamisa, avversario numero uno di Mnangagwa nella corsa alle presidenziali. I sodali di questo partito di opposizione hanno già subito ondate di arresti e numerosi procedimenti giudiziari.

Davvero un “nuovo inizio” nelle relazioni tra Iran e continente africano.

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n. 2 – L’Assemblea Generale tra diritto di veto, immobilismo e sessioni speciali https://ogzero.org/assemblea-generale-onu-tra-diritto-di-veto-e-immobilismo/ Thu, 13 Jul 2023 11:07:30 +0000 https://ogzero.org/?p=11288 Prosegue la serie di contributi di Fabiana Triburgo che analizzano con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questo saggio in particolare si concentra sulle risoluzioni adottate in sessioni speciali dall’Assemblea Generale in occasione del conflitto russo-ucraino e sulle contraddizioni insite nel potere di veto della Russia quale membro permanente nel […]

L'articolo n. 2 – L’Assemblea Generale tra diritto di veto, immobilismo e sessioni speciali proviene da OGzero.

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Prosegue la serie di contributi di Fabiana Triburgo che analizzano con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Questo saggio in particolare si concentra sulle risoluzioni adottate in sessioni speciali dall’Assemblea Generale in occasione del conflitto russo-ucraino e sulle contraddizioni insite nel potere di veto della Russia quale membro permanente nel Consiglio di Sicurezza. Probabilmente le stesse discussioni assembleari porteranno a una riconsiderazione del diritto di veto per superare l’immobilismo del Consiglio di Sicurezza.


La questione che viene lecito porsi – analizzati i limiti che determina l’apposizione del diritto di veto – è se questo possa essere in qualche modo superato o meglio “aggirato” da un altro organo fondamentale delle Nazioni Unite ovverosia l’Assemblea Generale. Se infatti rispetto al conflitto russo-ucraino è emerso l’immobilismo totale del Consiglio di Sicurezza – proprio a causa del diritto di veto esercitato dalla Russia quale membro permanente – l’Assemblea Generale si è riunita molteplici volte in sessione straordinaria per deliberare in merito a tale “Operazione speciale” così come definita dal leader del Cremlino. D’altra parte, se il Consiglio di Sicurezza – secondo l’art. 24 – è il principale organo delle Nazioni Unite al quale vengono demandati il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, la Carta delle Nazioni Unite, in particolare all’art. 11 par. 2 e più in generale all’art. 14, conferisce in tale ambito anche all’Assemblea Generale un ruolo rilevante pur non essendo essa titolare di quei poteri coercitivi implicanti o meno l’uso della forza, propri del Consiglio di Sicurezza.

L’Assemblea Generale infatti, nel caso del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, può soltanto emettere atti privi di forza vincolante aventi il carattere delle raccomandazioni ma può esercitare quelle funzioni conciliative di cui al capo VI della Carta – così come d’altronde il Consiglio di Sicurezza – che si esplicitano attraverso l’istituzione di buoni uffici, di attività di mediazione o di negoziato nei confronti dei paesi membri. D’altro canto, anche l’Assemblea Generale come il Consiglio può disporre le cosiddette “misure temporanee” di cui all’art. 40 della Carta come per esempio le richieste di “cessate il fuoco”, di liberazione pacifica dei prigionieri e d’invito agli stati a non introdurre le armi nei conflitti tra loro. Infine, spetta all’Assemblea Generale in siffatte situazioni quel potere di inchiesta di cui all’art. 34 della Carta pur se, diversamente da quanto avviene nel caso del Consiglio di Sicurezza, esso non può essere finalizzato all’applicazione delle misure coercitive di cui sopra nei confronti degli stati come definite dagli artt. 41 e 42.

Uniting for Peace: come superare l’immobilismo del Consiglio di Sicurezza Onu

Inoltre, benché le risoluzioni dell’Assemblea non abbiano carattere cogente è bene ricordare che lo stato che non adempie le prescrizioni contenute in esse è sottoposto a specifiche responsabilità non solo dinanzi all’Assemblea ma anche dinanzi alla Corte di Giustizia delle Nazioni Unite, in particolare nell’ipotesi in cui uno stato membro si ritenga leso,  come nel caso dell’Ucraina, dallo stato destinatario delle prescrizioni. In tale quadro di funzioni e poteri dei due organi delle Nazioni Unite occorre richiamare la già citata risoluzione dell’Assemblea Generale n. 377 meglio conosciuta come “Uniting for Peace emessa nel 1950 ma quanto mai attuale in considerazione dell’intervento armato russo in Ucraina. La risoluzione allora venne emanata infatti proprio in considerazione dell’immobilismo del Consiglio di Sicurezza nella guerra di Corea del 1950 ed essa, al di là delle conseguenze che abbia poi effettivamente determinato in relazione a tale conflitto – considerata la forte opposizione che ha ricevuto dagli stati socialisti che ha portato anche gli altri stati membri a desistere – ha comunque introdotto un principio innovativo rispetto ai tradizionali poteri che sono conferiti dalla Carta all’Assemblea Generale. La risoluzione n. 377, al momento ancora in essere, stabilisce infatti che se il Consiglio di Sicurezza non può contare sull’unanimità dei suoi membri permanenti – tale da non poter esercitare le sue funzioni per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale – l’Assemblea Generale nei casi in cui possa esservi una minaccia o un atto di aggressione deve considerare immediatamente la questione al fine di adottare raccomandazioni approfondite ai membri delle Nazioni Unite incluso, in caso di rottura della pace o di un atto di aggressione, l’uso delle forze armate proprio per mantenere o ripristinare la pace e la sicurezza internazionale.

La sessione che diede vita alla risoluzione 377 denominata “Uniting for Peace”.

Più verosimilmente rispetto a quest’ultimo potere di disporre misure coercitive come quelle implicanti l’uso della forza si ritiene che la risoluzione ad oggi – anche rispetto al conflitto russo ucraino – sia più agevolmente invocabile affinché l’Assemblea eserciti pienamente (in caso di immobilismo del Consiglio di Sicurezza) quei poteri conciliativi di cui al capitolo VI della Carta che le sono propri. Tale risoluzione inoltre appare particolarmente rilevante perché ha depotenziato il principio della litispendenza tra i due organi sancito con riferimento già alla sola funzione conciliativa dell’Assemblea dall’art. 12 della Carta.

Secondo tale articolo infatti l’Assemblea non può svolgere le funzioni conciliative rispetto a una determinata questione qualora essa sia già pendente dinanzi al Consiglio di Sicurezza o in esame in seno a questo, proprio in ragione della primaria responsabilità in materia secondo il già citato art. 24.

Tale precetto non riguarda la semplice iscrizione a ruolo di una questione dinanzi al Consiglio ma piuttosto le ipotesi nelle quali il Consiglio stia già discutendo in merito a una specifica questione o se ne stia occupando o ancora se vi sia anche la sola probabilità che se ne occupi. Per tale principio le sessioni straordinarie d’urgenza dell’Assemblea, che come vedremo più nel dettaglio rispetto al conflitto russo-ucraino sono state molteplici dopo un’assenza lunga oltre quarant’anni, devono comunque essere richieste dal Consiglio di Sicurezza e dovrebbero avere il carattere dell’eccezionalità.

La condanna all’aggressione: prima risoluzione speciale, non per tutti

La prima risoluzione dell’Assemblea Generale in sessione speciale a essere stata adottata è quella del 2 marzo del 2022 di condanna dell’aggressione russa dell’Ucraina con la contestuale richiesta di cessazione immediata delle ostilità (A/ES-11/L.1). La richiesta che l’Assemblea Generale si riunisse in sessione speciale è stata avanzata dal Consiglio proprio in conseguenza dell’apposizione del veto russo in seno ad esso, veto che la Federazione Russa non può apporre invece nelle delibere assembleari che vengono adottate a maggioranza semplice o dei due terzi degli stati membri come nel caso – secondo quanto stabilito dal paragrafo 2 dell’art. 18 della Carta delle Nazioni Unite – delle raccomandazioni che riguardano il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. La risoluzione è stata adottata con 141 voti a favore, 38 astenuti e 5 contrari ossia, oltre alla Russia, la Bielorussia, la Corea del Nord, la Siria e l’Eritrea.

Tra gli astenuti vi sono diversi paesi asiatici tra cui la Cina, coerente alla propria linea di non interferenza negli affari interni delle singole nazioni e alleato ideologico della Federazione Russa secondo il cosiddetto patto implicito del conferimento primario della prosperità che promette il benessere sociale collettivo in cambio del controllo politico e sociale della società. Così come la Cina anche l’India si è astenuta dal voto: come vedremo in seguito entrambe le nazioni nella quasi totalità delle successive delibere assembleari manterranno questo “non schieramento”.

La risoluzione del 2 marzo 2022 sull’aggressione russa all’Ucraina (fonte Dipartimento della Difesa)

Si ricorda che India e Russia hanno una partnership consolidata nel tempo che si fonda principalmente nella concessione di petrolio e di armi da parte della Federazione Russa anche se quest’ultima è ben consapevole che l’India mantiene dei margini di manovra anche con i paesi occidentali suoi oppositori. Tali relazioni economiche tra i due paesi si sono intensificate dallo scoppio della guerra in Ucraina, poiché per la Russia l’India rappresenta sia un’importante soluzione alternativa alle sanzioni occidentali che l’hanno portata a un pressoché totale isolamento economico che un limite all’espansionismo nell’area da parte della Cina. D’altra parte, l’India oltre a giovare del prezzo a ribasso del petrolio offerto dalla Russia – dalla quale dal 2% delle importazioni dallo scoppio del conflitto ha raggiunto oggi la soglia del 23% delle importazioni dell’oro nero – ambisce anche a un sostegno della Federazione Russa nell’ottenimento di un seggio permanente all’interno del Consiglio di Sicurezza. Non solo, l’importazione delle armi dalla Federazione Russa da parte dell’India risale all’inizio del regime sovietico ed è continuato anche dopo il suo crollo. Basti pensare che le stesse forze armate indiane sono di formazione sovietica e molti ufficiali del paese si sono formati nelle accademie dell’Impero comunista. Particolarmente rilevante è anche l’astensione di ben diciassette paesi africani emblema dell’impegno delle milizie di Wagner – nate nel 2013 con il nome di “Corpi Slavi” formalmente indipendenti ma finanziate e gestite dal Cremlino – che hanno operato oltre che in Siria e in Ucraina anche in molteplici paesi del continente africano da quasi un decennio, beneficiando come contropartita delle risorse del sottosuolo di tali paesi in particolare delle miniere di oro, di diamanti e di uranio, come nel caso del Sudan nel quale i mercenari di Wagner ancora presenti nel paese inizialmente offrirono sostegno al presidente Omar al-Bashir presidiando il confine con il Sud Sudan.

Lo schieramento dell’Asia in particolare (fonte Ispi).

Lo schieramento nel continente africano (fonte Ispi).

La seconda risoluzione e le conseguenze umanitarie

La seconda risoluzione dell’Assemblea Generale in sessione speciale è quella relativa alle conseguenze umanitarie causate dall’aggressione russadel 21 marzo 2022 (A/ES-11/L.2) avanzata dalla stessa Ucraina e appoggiata da altri novanta paesi membri sostenitori e adottata anche in questo caso con un un’ampia maggioranza ossia con 140 voti a favore mentre 38 sono stati i paesi membri che si sono astenuti e 5 ad aver votato contro. Con il termine conseguenze umanitarie l’Assemblea Generale fa riferimento più specificatamente all’assedio perpetrato dalla Federazione Russa in diverse città dell’Ucraina nonché ai bombardamenti che non solo hanno colpito civili ma anche strutture pubbliche come scuole e ospedali nonché infrastrutture idriche e igienico-sanitarie. Inoltre, nella risoluzione la Federazione Russa – considerate le conseguenze umanitarie già causate – viene richiamata al rispetto di puntuali prescrizioni per il futuro, come la tutela dei civili e la protezione di quelli in fuga, compresi gli stranieri, dei beni essenziali per la loro sopravvivenza e infine di porre fine agli assedi nelle città ucraine. Alla Russia viene chiesto inoltre il rispetto del diritto internazionale umanitario compresa la Convenzione di Ginevra e il suo protocollo addizionale. Allo stesso tempo gli altri stati membri vengono invitati a finanziare gli aiuti umanitari delle Nazioni Unite in Ucraina e a incoraggiare i negoziati attraverso la mediazione e il dialogo politico.

Il rappresentante russo presso l’Assemblea delle Nazioni Unite ha definito tale risoluzione “una manipolazione umanitaria” e ha richiamato in modo provocatorio l’intervento armato della Nato nella Repubblica federale di Jugoslavia con l’inizio – il 24 marzo del 1999 – dell’Operazione Allied Force rispetto alla quale il Consiglio di Sicurezza aveva espresso il proprio voto contrario.

Fuori dal Consiglio dei Diritti umani e le conseguenze effettive

La successiva risoluzione dell’Assemblea Generale in sessione speciale è quella che ha disposto la sospensione della Russia dal Consiglio dei Diritti umani. Questa, adottata con la maggioranza dei due terzi dei votanti, è intervenuta in seguito all’emersione di foto che ritraevano nella città di Bucha innumerevoli corpi di civili morti abbandonati lungo le strade e la presenza di fosse comuni. La Russia, a parte la Libia – in conseguenza della repressione delle proteste nel 2011 da parte di Gheddafi poi “destituito” – è l’unico paese nella storia a essere stato sospeso dal Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite, dopo essere stata eletta soltanto l’anno precedente proprio dall’Assemblea Generale con un mandato di tre anni. Ciò che tuttavia non può essere ignorato è che tale risoluzione ha registrato un numero di voti a favore nettamente inferiore rispetto alle due precedenti risoluzioni assembleari. I voti a favore in tale circostanza sono stati infatti 93 a fronte dei circa 140 voti delle altre risoluzioni e non è un caso poiché questa è di fatto la prima delibera dell’Assemblea Generale a implicare con la sua adozione conseguenze effettive nei confronti della Federazione Russa.

Il 16 settembre 2022 la Russia viene sospesa dalla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo.

Il dibattito formale dopo l’esercizio del diritto di veto

L’ulteriore risoluzione dell’Assemblea Generale mandato permanente per un dibattito dell’Assemblea Generale in caso di veto del Consiglio di Sicurezza” del 26 aprile 2022 (A/ 77/L.52) – adottata senza votazione – è stata definita invece storica in quanto ha affrontato nuovamente la questione del diritto di veto ma in modo del tutto innovativo.  L’Assemblea Generale infatti con tale risoluzione ha stabilito che il proprio personale convochi una riunione formale dell’organo assembleare, composto da tutti i paesi membri delle Nazioni Unite, entro 10 giorni dalla data dell’apposizione del diritto di veto da parte di uno o più membri del Consiglio di Sicurezza, nella quale si discuta sulla situazione per la quale è stato posto il veto sempre purché essa non si riunisca in seduta straordinaria d’urgenza sulla medesima questione. L’Assemblea Generale ha proseguito con l’invito rivolto al Consiglio di Sicurezza a presentare un rapporto speciale dell’uso del veto – qualora venga apposto in seno a esso – almeno 72 ore prima che la discussione abbia inizio. Il testo della risoluzione è stato proposto dal Lichtestein e sponsorizzato da 83 paesi membri tra cui tre membri permanenti più specificatamente Francia, Regno Unito e Stati Uniti.

La proposta francese di sospensione del diritto di veto

La Federazione Russa ha espresso contrarietà rispetto a tale delibera assembleare adottata senza votazione in quando secondo la sua opinione l’apposizione in seno al Consiglio di Sicurezza del veto è ancora utilizzata come extrema ratio. Interessante la posizione di un altro membro permanente rispetto a tale risoluzione, la Francia che, dopo aver sottolineato di aver utilizzato il veto “soltanto” 18 volte dal 1945 e di non averlo apposto per più di tre anni, ha precisato tuttavia che  l’Assemblea in questo modo diverrebbe il giudice del Consiglio di Sicurezza e dei suoi membri richiamando ancora una volta invece l’opportunità dell’adozione della propria proposta di riforma rispetto all’uso del veto secondo la quale esso dovrebbe essere sospeso da parte di ogni membro permanente del Consiglio di Sicurezza nelle ipotesi di atrocità di massa, genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Di estrema importanza è poi la risoluzione assembleare del 12 ottobre 2022 (A/ES-11-4) di condanna della Russia per i referendum nel Donbass rubricata come risoluzione “sull’integrità territoriale dell’Ucraina in difesa dei principi della Carta delle Nazioni Unite” adottata con il voto favorevole di 143 paesi membri.

Nel testo della risoluzione vengono richiamate le prime due risoluzioni dell’Assemblea Generale sul conflitto in Ucraina – già analizzate in precedenza – sottolineando la salvaguardia dell’integrità territoriale di ogni stato secondo il diritto internazionale per cui deve considerarsi illegale qualsiasi acquisizione territoriale di uno stato nei confronti di un altro che si sia determinata mediante la minaccia o l’uso della forza armata. Il riferimento in concreto è ovviamente quanto avvenuto con i referendum indetti dalla Federazione Russa di annessione degli oblast‘ di Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia aventi esito positivo come dichiarato dalla Russia il 29 settembre 2022 e in conseguenza dei quali – con atti esecutivi della Federazione Russa – sono stati dichiarati indipendenti i territori ucraini di Zaporizhzhia e Kherson. Tali referendum si sarebbero tuttavia svolti non solo con l’intimidazione nei confronti dei civili da parte delle autorità nominate in modo illegittimo dalla Russia nei territori occupati, ma anche in condizioni non idonee a garantire una partecipazione democratica al voto tali da integrare la piena violazione del diritto internazionale in materia. La risoluzione adottata richiama inoltre le vicende storiche antecedenti che hanno interessato la Russia e l’Ucraina ossia gli scontri nel Donbass tra il 2014 e il 2015 tra l’esercito ucraino e i cittadini ucraini insorti per il rifiuto nel 2013 da parte dell’allora presidente ucraino di dar seguito ai patti di libero scambio con l’Unione Europea. Scontri nei quali si era inserita la Federazione Russa con il tentativo di ripristinare il controllo su alcune porzioni del territorio ucraino e ai quali era seguita la proclamazione unilaterale delle Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk nel Donbass. Con l’accordo di Minsk del 2015 – mai attuato in concreto – sottoscritto da Russia, Ucraina e Germania veniva tuttavia sancito il cessate il fuoco, la liberazione di prigionieri e l’impegno dell’Ucraina a riformare la propria costituzione garantendo piena autonomia alle Repubbliche separatiste, che però continuavano a essere parte del territorio dell’Ucraina e sottoposte alla sua autorità, nonché il ritiro di forze armate e di veicoli militari stranieri.

Con tale risoluzione dunque vengono dichiarati illegali e invalidi i suddetti referendum per cui si invitano tutti gli stati della comunità internazionale, le agenzie delle Nazioni Unite e tutte le organizzazioni internazionali a disconoscere quanto proclamato dal Cremlino il 29 settembre 2022 in quanto tali referendum non hanno determinato alcuna variazione del territorio ucraino.

Vale la pena ricordare che il 16 settembre 2022, prima della dichiarazione del Capo del Cremlino sull’esito dei referendum, la Russia cessava di essere parte della Convenzione europea per i Diritti dell’Uomo così come stabilito dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.

Il meccanismo di risarcimento

In una successiva sessione speciale più specificatamente il 14 novembre 2022 l’Assemblea Generale ha invece adottato una risoluzione con la quale ha raccomandato l’istituzione di un meccanismo di riparazione dei danni causati dalla Federazione Russa con la guerra in Ucraina e l’istituzione di un registro internazionale dei medesimi finalizzato ad archiviare prove e documenti a supporto delle richieste di risarcimento da parte ucraina. L’obbligo di riparazione avrebbe a oggetto oltre gli ingenti danni anche le perdite e le lesioni causate a persone fisiche e giuridiche nonché allo stato ucraino più in generale. Con la risoluzione inoltre viene chiesto alla Russia non solo di provvedere al pagamento dei danni ma anche di interrompere le operazioni militari e ritirare le proprie truppe in Ucraina. La risoluzione è stata adottata anche in questo caso con un numero di voti più ristretto delle iniziali delibere assembleari specificatamente con 94 voti a favore e circa 73 astenuti.

Il mancato schieramento di un numero così elevato di paesi membri è l’emblema della difficoltà della comunità internazionale a essere maggiormente schierata e coesa quando la votazione sulle risoluzioni dell’Assemblea Generale implichi delle conseguenze di fatto o di diritto rispetto alla Russia.

In tale ipotesi infatti è chiaro che la votazione a favore della suddetta risoluzione significhi indirettamente ammettere la responsabilità della Federazione Russa per le violazioni del diritto internazionale e umanitario integrate con l’invasione del territorio ucraino dalle quali appunto discenderebbe l’obbligo di riparazione dei danni.

Tuttavia il giorno precedente la ricorrenza di un anno dall’invasione russa dell’Ucraina l’Assemblea Generale è intervenuta con la risoluzione del 23 febbraio 2023 sul ritiro immediato della Russia dal territorio dell’Ucraina. Essa, più nel dettaglio, contiene nel testo la richiesta di una pace corretta, giusta e duratura in Ucraina, della cessazione delle ostilità, il ritiro immediato delle forze militari russe dal territorio ucraino oltre al riconoscimento della sovranità, dell’unità e dell’integrità dell’Ucraina. La risoluzione è stata adottata con 141 voti a favore 32 astenuti tra cui India e Cina – per cui valgono le precedenti considerazioni in merito agli interessi geopolitici ed economici dei due paesi con la Russia – e 7 voti contrari, ossia oltre la Russia, la Bielorussia, la Corea del Nord, l’Eritrea e il Mali. Rispetto a quest’ultimo paese si rileva che qui sono fortemente presenti i mercenari appartenenti al gruppo di Wagner mediante un accordo con la giunta golpista di Bamako.

La cooperazione rafforzata

Infine, ad aprile di quest’anno vanno menzionate due attività particolarmente rilevanti dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. In primo luogo, si registra a un anno di distanza dalla storica risoluzione precedentemente analizzata sul diritto di veto, adottata senza votazione da parte dell’Assemblea Generale, che i paesi membri delle Nazioni Unite si sono nuovamente incontrati in seduta assembleare per discutere sull’uso del diritto di veto all’interno del Consiglio di Sicurezza e su come intervenire affinché l’Organizzazione delle Nazioni Unite sia più efficiente.

In secondo luogo, l’Assemblea Generale ha adottato una rilevante risoluzione rubricata come “Cooperazione tra le Nazioni Unite e le organizzazioni regionali e altre organizzazioni: la cooperazione tra le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa” proposta da 48 stati membri tra cui la stessa Ucraina. Significativo quanto enunciato nel testo della risoluzione nel quale viene fatto riferimento alle sfide che l’Europa si trova oggi ad «affrontare dopo l’aggressione della Federazione Russa contro l’Ucraina e prima ancora contro la Georgia» in considerazione anche della cessazione dell’appartenenza della Federazione Russa al Consiglio d’Europa che «richiedono una cooperazione rafforzata tra le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa in particolare al fine di ripristinare e mantenere tempestivamente la pace […]». La risoluzione è di straordinaria importanza non tanto per il numero dei voti a favore con la quale è stata adottata ossia 122 paesi su 145 paesi votanti, ma perché

per la prima volta tra questi si annoverano Cina e India che approvando il testo della risoluzione hanno ammesso ufficialmente l’aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina che implica la violazione dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di quest’ultima.

In conclusione tutte le dinamiche dell’Assemblea Generale finora analizzate si sono inserite in modo poliedrico nella stasi del Consiglio di Sicurezza accrescendo inevitabilmente l’importanza del ruolo di tale organo nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale non solo poiché le votazioni delle risoluzioni in seno a esso sono divenute l’unica cartina al tornasole delle mutevoli posizioni dei paesi membri delle Nazioni Unite nello scacchiere internazionale rispetto alla guerra russo-ucraina ma anche poiché probabilmente le stesse discussioni assembleari porteranno a una riconsiderazione del diritto di veto come è avvenuto con la succitata storica risoluzione dell’Assemblea Generale del 26 Aprile del 2022 che ha perfezionato quella prima breccia nella Carta delle Nazioni Unite operata oltre settant’anni fa (!) dalla risoluzione “Uniting for Peace” nell’immobilismo del Consiglio di Sicurezza durante la Guerra Fredda.

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Uno spettro si aggira per le banlieues https://ogzero.org/uno-spettro-si-aggira-per-le-banlieues/ Sun, 02 Jul 2023 16:33:02 +0000 https://ogzero.org/?p=11235 Les Invisibles si sono palesati. L’attuale clima incandescente (da pre-insurrezione ?) che attraversa l’esagono riporta fatalmente alla memoria analoghe situazioni del 2005 e 2017… ma anche la “mort indigne” di  malik oussekine A questo aspetto, più strettamente legato all’approccio che collega la rabbia al razzismo subito da banlieues e cités, si aggiunge la gioiosa creatività […]

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Les Invisibles si sono palesati.

L’attuale clima incandescente (da pre-insurrezione ?) che attraversa l’esagono riporta fatalmente alla memoria analoghe situazioni del 2005 e 2017… ma anche la “mort indigne” di  malik oussekine

A questo aspetto, più strettamente legato all’approccio che collega la rabbia al razzismo subito da banlieues e cités, si aggiunge la gioiosa creatività ribelle dei giovanissimi partecipanti agli émeutes, teen-agers come la vittima che li ha scatenati con la sua morte che ha scoperchiato l’impunità feroce e l’improntitudine menzognera del sistema di potere fondato sullo stato di polizia. Questi ragazzini sono oltre le rivendicazioni antirazziste proprio perché di seconda e più spesso terza generazione e dunque si sentono francesi e quindi odiano tutte quelle istituzioni prese a bersaglio negli innumerevoli video sui social: i centri commerciali – i cui prodotti sono sempre più fuori portata con la spirale inflazionistica in corso; commissariati – dove li conducono arbitrariamente gendarmi senza guinzaglio e con la licenza di uccidere; scuole – sempre meno rappresentative di riscatto o strumento di ascensore sociale e invece luoghi di imposizione di cultura e nozioni avulse; distributori di tabacchi – carissimi in Francia per le accise imposte ufficialmente, come per l’alcol, per ridurre la dipendenza; bancomat e dispositivi di controllo con telecamere – i veri luoghi di culto… questi teen-agers hanno ben chiara l’appartenenza innanzitutto a una classe a un territorio, di cui riconoscono con precisione gli spazi occupati dal potere… e li distruggono. I loro espropri – pillages è l’orripilata reazione dei buoni borghesi – sono momenti di riscatto inconsapevolmente situazionista, ma in piena coscienza di diversità esibita.

Una rabbia che si può collegare a quella delle rivolte dei gilet jaune (commistione di destra populista e sinistra insoumise, unite da tariffe) come a quelle di ancora diversa connotazione delle proteste contro la riforma delle retraites (di nuovo disagi nati da mancate risposte economiche); e pure con gli ecologisti del Soulevements de la Terre, sciolti per legge (perché si contrappongono agli interessi delle coltivazioni intensive dell’agroindustria)… è un blocco sociale che rappresenta una larga maggioranza della società francese, che ha riconosciuto nella finanziarizzazione del macronismo il vero nemico. E forse il sano collante proviene dallo spirito libertario mai del tutto sopito oltralpe.
Speriamo che non riesca il potere oligarchico finanziario a tirare la volata all’estrema destra anche in Francia: certo che Zemour ha buon gioco a straparlare di sostituzione etnica e di moschee come luoghi di riferimento per questi ragazzi (che invece sbeffeggiano gli himam), diventando così nuovi motivi di sospetto per i buoni borghesi, imbevuti di razzismo coloniale (ormai senza più colonie) che voteranno impauriti Le Pen, se prosegue la narrazione mediatica della Haine contro una delel più brutali e violente polizie al mondo e la sovrapposizione tra cultura musulmana e banlieues.

Ma affidiamoci a Gianni Sartori che colloca tutto questo groviglio in un contesto che storicamente vede episodi di intolleranza nei confronti dell’invisibile “diversamente francese”, una lunga storia che coinvolge gli immigrati di ogni latitudine dai piemontesi nell’Ottocento, ai maghrebini della Renault nel dopoguerra, fino alle banlieues da Sarkozy a Macron… e soprattutto spiega con esempi da dove provenga il fatto che “tout le monde  déteste la police”


 OGGI BOUNA TRAORÉ E ZYED BENNA AVREBBERO 33 E 35 ANNI…

Ne avevano solo 15 e 17 nell’ottobre 2005.
Due ragazzini morti prematuramente e tragicamente – o forse uccisi in modo “preterintenzionale”, come Nahel nel giugno 2023.

I grandi media molto parlarono o sparlarono della successiva rivolta ma spesero poche righe per dire che, 10 anni dopo, il tribunale di Rennes assolse i due poliziotti, un gendarme maschio e uno femmina, accusati di «mancata assistenza a persona in pericolo» per la morte dei due ragazzi, rimasti folgorati in una cabina elettrica mentre fuggivano dagli agenti a Clichy-sous-Bois, nella banlieue parigina. I due poliziotti, Stephanie Klein e Sebastien Gaillemin, sostennero di non essersi resi conto del pericolo che correvano i due ragazzi. Invece sulla radio della polizia esiste una registrazione con la voce di Gaillemin, che dice di aver visto alcune figure dirigersi verso la centrale elettrica, aggiungendo “se vi entreranno, la loro vita non varrà molto”… ma Klein e Gaillemin non mossero un dito: la vita dei due ragazzi non valeva comunque?

Dodici anni dopo (2017, cinque anni fa) soltanto chi era in malafede (o fin troppo ingenuo) poteva illudersi che le “notti dei fuochi” nelle banlieue di Parigi e di altre grandi città francesi fossero ormai un problema, se non definitivamente risolto, perlomeno sotto controllo, provvisoriamente in letargo o almeno accantonato.

Invece le gravissime violenze della polizia su un ragazzo, Théo, avevano innescato proteste di grande portata, analoghe alla grande rivolta del 2005.

Il volto “anonimo e terribile” dell’insurrezione era riapparso (come una nemesi) per le strade di Aulnay-sous-Bois, Seine-Saint-Denis, Tremblay-en-France.

Così all’inizio del 2017 la protesta violenta dei banlieusard  innalzava nuovamente il suo vessillo, nero di rabbia se non di lutto.

Talvolta definito un “conflitto a bassa intensità” o anche “una rivolta afasica”, le periodiche sollevazioni dei giovani beurs lasciano comunque intravedere un movimento forse “in sé”, ma che sicuramente non ha ancora un “per sé”.

Fattori economici e fattori di cittadinanza

Sarebbe sbrigativo riportare il tutto soltanto alla “ristrutturazione del lavoro e allo smantellamento dello stato sociale”. O anche alla “globalizzazione combinata alla flessibilità che provoca inesorabilmente eccedenze ed esuberi non funzionali allo sviluppo”, come sostenevano alcune voci di sinistra. Sia chiaro: sono fattori questi che sicuramente hanno alimentato l’aumento di povertà e nuove povertà (e non solo tra gli immigrati). Non dimentichiamo che se fino agli anni Settanta l’operaio poteva ancora agire sui meccanismi economici, oggi i “nuovi poveri” (precari, “superflui”…) possono ben poco di fronte a un lavoro automatizzato e alle delocalizzazioni. E il banlieusard in particolare si scopre ogni volta cittadino di serie B, impotente, oltre che umiliato e offeso.

Nel caso dei figli di immigrati non sarebbe (o non soltanto) la “mancanza di integrazione” a determinare disagi e ribellioni. Addirittura, per lo studioso Filippo Del Lucchese, la causa potrebbe essere proprio «l’avvenuta integrazione, l’aver interiorizzato i valori di Libertà e Uguaglianza (per la Fraternità meglio rinviare a tempi migliori, evidentemente – N.d.A.) scoprendo a proprie spese di esserne esclusi».

Nel 2005 per “sedare i tumulti” il governo francese era ricorso addirittura a una legge coloniale sul “coprifuoco”. È partendo da questo fatto che alcuni ricercatori d’oltralpe (ma alle stesse conclusioni giungevano alcuni studiosi italiani come appunto Del Lucchese, Giuseppe Mosconi e Guido Caldiron) hanno cominciato ad analizzare la questione delle banlieues come una forma di “post-colonialismo”.

Importare l’atteggiamento coloniale in patria

Naturalmente, ça va sans dire, le banlieues non vengono sfruttate per le inesistenti materie prime. Rimangono tuttavia, come appunto le colonie, territori in cui “la produzione dell’identità culturale avviene all’interno di un sistema di potere coloniale”. A tale proposito Del Lucchese aveva rievocato nei suoi lavori un fenomeno ancora poco studiato dell’Ottocento, quello degli “zoo umani”. In questi luoghi gruppi di “indigeni” prelevati dalle colonie venivano esposti in vere e proprie gabbie e dovevano rappresentare la loro vita quotidiana, le danze, i riti; oppure gli “effetti benefici della civiltà”, imitando lo stile di vita dei colonizzatori. A questi spettacoli assistevano migliaia di persone. È stato, secondo lo studioso «un modo molto efficace di propagandare il razzismo, facendo toccare con mano la presunta superiorità dell’uomo bianco».

Di queste involontarie esibizioni esiste una vasta rappresentazione fotografica. Sono immagini molto statiche, in posa (per ragioni tecniche dei tempi del fotogramma), di “corpi immobilizzati, domati” . Vien da dire “addomesticati”, una vera e propria imposizione di identità.

Parlando di “immagini senza storia, decontestualizzate, corpi congelati…”

Del Lucchese si chiedeva: «Siamo sicuri che questi metodi siano veramente alle nostre spalle? Siamo certi che lo sguardo che posiamo sulle banlieue non sia sostanzialmente ancora il medesimo?».
In un suo articolo del 2005 dal titolo evocativo (La banlieue come teatro coloniale) metteva in evidenza quali fossero i meccanismi che producono la ghettizzazione, il vivere come colonizzati.

Come aveva spiegato Frantz Fanon (I dannati della terra), parlando delle popolazioni colonizzate di Asia e Africa, «la loro identità è data da uno sguardo diverso dal loro». L’abitante della banlieue viene considerato “arabo” non in senso etnico, ma quasi come “un marchio di infamia” imposto dall’esterno. Ma contemporaneamente gli verrebbe “imposto di scrollarsi di dosso questo stigma”. E questo avviene non solo per i figli, ma anche per i nipoti di immigrati.

Confermare lo stereotipo

Risultato? Alla fine, azzarda Del Lucchese «recitano un ruolo, come se ancora si trovassero nelle gabbie di un nuovo, postmoderno “zoo umano”».
Dalle numerose interviste raccolte in occasione di rivolte e ribellioni emergerebbe proprio questa tendenza a «diventare quella immagine di “arabo” che altri gli hanno cucito addosso». Sorge, ovviamente, un dubbio (non puramente “accademico”). È possibile che meccanismi analoghi di identificazione con uno stereotipo negativo, ma in grado di fornire comunque un’identità, siano entrati in azione anche nei tragici eventi che periodicamente hanno insanguinato la Francia (stragisti suicidi – e non; “lupi solitari”…)?

Per un altro studioso, Giuseppe Mosconi (docente alla Facoltà di scienze politiche di Padova), «sugli incendiari si dicono e si scrivono troppe banalità». Per esempio: «si sentono esclusi, si esprimono simbolicamente…».
Certo, è più facile dire «che cosa non sono, definirli negativamente (e quindi in pratica screditarli – N.d.A.), negare loro ogni dignità politica».

Mosconi sottolineava che a suo avviso «queste persone non si identificano a livello etnico- religioso, non si rifanno a improbabili “guerre sante” che oltretutto sarebbero facilmente recuperabili a livello mediatico». E, nonostante le analogie con le metropoli statunitensi, in particolare Los Angeles, non esprimerebbero nemmeno un generico “spirito di banda”. Probabilmente non aspirano nemmeno a diventare “giovani occidentali dediti al consumismo” ma forse cercano di «essere qualcosa che stanno ancora elaborando, una identità in crescita, in formazione».

Ossia chiedono “una forma di riconoscimento che consenta loro un movimento possibile”. Intrappolati in uno “spazio ancora indistinto”, non riconducibile ad alcuna catalogazione. È vero, nelle banlieue mancano le strutture e il welfare quasi non viene applicato, ma la soluzione non può venire soltanto dallo stato sociale. Tantomeno , ovviamente, dalla repressione.

Drone autorizzato nella repressione delle rivolte del giugno-luglio 2023

 IN DICEMBRE A PARIGI ERA CALDO…

Ma la tragica fine di Nahel riporta alla mente, oltre a quelle di Zyed Benna e Bouma Traoré, anche un’altra “mort indigne”, ancora più lontana nel tempo.
Quella di Malik Oussekine, nel caldo dicembre 1986.

Sabato 6 dicembre 1986. La mezzanotte è passata da 20 minuti

Nel garage della Prèfecture de Paris 43 poliziotti del Peloton de voltigeurs motoportés (cagoule – passamontagna – nero e casco bianco, muniti di matraque – manganello – di legno lungo un metro) ricevono l’ordine atteso per oltre dieci ore: “PMV, en place!”.
Un’ora e mezza più tardi Malik Oussekine incrocerà la strada di questi vigilantes motorizzati. Non ne uscirà vivo.

Un passo indietro

Nell’estate 1986 il sindacato studentesco UNEF-ID aveva lanciato una grande mobilitazione contro il progetto di riforma della scuola superiore proposto dal secrétaire d’Etat aux Universités, Alain Devaquet.

Il 22 novembre venivano convocati gli états généraux étudiants alla Sorbonne. Da qui parte l’indicazione di uno sciopero generale e di una grande manifestazione per il 27 novembre.

Intanto, rispondendo all’appello della Féderation de l’Education nationale, il 23 novembre duecentomila persone scendono in piazza contro la politica educativa del governo. Non è che l’inizio: due giorni dopo, il 25 novembre, sono già una cinquantina (su 78) le università in sciopero. Migliaia di studenti medi organizzano manifestazioni spontanee a Parigi. Il 27 sono oltre 500.000 in tutte le grandi città francesi.

Il 28 novembre il governo rinvia alla commissione il progetto che stava per essere sottoposto all’Assemblea nazionale. Ma non basta: gli studenti esigono che il progetto venga ritirato, non solamente ridiscusso.

Il 29 novembre il coordinamento degli studenti conferma la manifestazione indetta a Parigi per il 4 dicembre.
È ormai notte sull’esplanade des Invalides. Circa 300.000 studenti rimangono ancora in attesa del ritorno delle delegazioni inviate all’Assemblée e al ministére de l’Education nationale. La risposta genera rabbia e sconforto: il progetto viene confermato.
Dopo qualche improvvisato sit-in e sporadici scontri (sul quai d’Orsay) la polizia fa uso di cannoni ad acqua e lanci di granate (causando molti feriti, alcuni gravi) per disperdere la folla.

Il giorno successivo, 5 dicembre, migliaia di studenti si riuniscono spontaneamente, anche se in maniera alquanto disorganizzata, nel quartiere Latino. Si aspetta, senza farsi illusioni, la dichiarazione di René Monory, ministro dell’Education nationale, prevista per le 20. Per il momento non si registrano disordini. Stando ai ricordi dei presenti, la serata, rispetto ai parametri stagionali, è particolarmente douce; le persone passeggiano, si formano capannelli informali di discussione, circola molta cordialità.
Alcuni ragazzi hanno acceso un falò, ma non si vedono barricate, tanto meno saccheggi. Soltanto alcuni sacchi di sabbia vengono prelevati da un cantiere e messi di traverso, alla buona, in rue Racine. Onde evitare “provocazioni”, altri studenti sono prontamente intervenuti per togliere la simbolica barricata (alta non più di 30 centimetri).
Man mano che le ore trascorrono la piazza si va spopolando. Rimangono soltanto 300 manifestanti, in attesa di conoscere i risultati di una assemblea generale “sauvage” in corso alla Sorbonne dove il rettore ha già richiesto alla polizia di intervenire. Lo sgombero viene pianificato con cura dal prefetto Jean Paolini, dal direttore della Sécuritè publique George Le Corre e dai commissari Jean-Paul Copie e Robert Bonnet.

In campo, 8 compagnie di CRS, 3 squadroni di gendarmes mobiles e la compagnie de maintien de l’ordre della Prefettura. Una volta sgomberata la Sorbonne, si dovrà “ripulire” rapidamente il quartiere per evitare che gli studenti si riuniscano nuovamente all’esterno.
L’ordine di evacuazione arriva alle ore 1,08. In pratica, circa tre quarti d’ora dopo che è stato ordinato per radio al PVM di intervenire nel quartiere Latino. Questi motociclisti, definiti “unité de choc” e già noti per la loro brutalità, sono addestrati militarmente per intervenire in contesti ben più gravi. Forse le autorità sopravvalutano il numero e la combattività dei manifestanti? Si teme una riedizione del Maggio Sessantotto a quasi venti anni di distanza? In ogni caso, la decisione di far intervenire il PVM è quantomeno aberrante.

Intanto dalla Sorbonne gli occupanti escono con le braccia alzate e tutto sembra procedere pacificamente. Sembra soltanto. Sarebbe, secondo i testimoni, verso l’1,30 del mattino che il comportamento della polizia comincia a inasprirsi. Un atteggiamento dovuto forse alla fretta di concludere l’operazione. Il PVM piomba su alcuni manifestanti intenti a rovesciare un bidone della spazzatura in rue Gay-Lussac. L’orda di moto semina il panico, sale anche sui marciapiedi, vengono colpite persone che semplicemente rientravano a casa dal bar o dal ristorante. A quell’ora, l’ala destra del plotone (7 equipaggi), guidata dal brigadier-chef Jean Schmitt, risale il boulevard Saint-Michel e imbocca a tutta velocità rue Racine inseguendo una ventina di presunti manifestanti.

Tavole dal racconto disegnato Contrecoups di Puchol e Bollée

È a questo punto che la moto di Schmitt si ribalta, probabilmente per una brusca frenata. Un ragazzo, terrorizzato dalle sirene, dal rombo dei motori, dall’evidente aggressività dei poliziotti sta fuggendo a gambe levate. Non meno spaventato, a pochi metri sta correndo anche Paul Bayzelon, un alto funzionario del ministero delle Finanze, rientrato da una cena nel momento sbagliato. Bayzelon ricorderà poi di aver pensato, sentendo i motori: «non mi picchieranno, sono ben vestito…» ma poi saggiamente comincia a correre. Dalle moto, i poliziotti colpiscono chiunque capiti a tiro. Il ventitreenne Garcia, alla sua prima missione di PVN, scende dal mezzo guidato dal collega Giorgi e comincia a inseguire a piedi i fuggitivi (contravvenendo al regolamento). Il caso, o il destino, metterà Malik a portata della sua matraque.
Arrivato al numero 20 di rue Monsieur-le-Prince, Paul Bayzelon riesce a entrare nel palazzo dove abita. Dietro di lui, terrorizzato, si getta Malik in cerca di rifugio. Bayzelon, ancora nella hall del palazzo, ne intravede il volto incollato all’esterno della porta a vetri. Dirà di essere rimasto colpito dagli occhi pieni di terrore. Gli apre e anche Malik si rifugia nella hall.

Al momento di richiudere la porta, due (o forse tre) poliziotti, tra cui Garcia e Schmitt (e forse anche Christian Giorgi, la dinamica non è mai stata completamente chiarita) entrano di forza e si precipitano su Malik massacrandolo a colpi di manganello. Lo colpiscono soprattutto alla testa e contemporaneamente lo prendono a calci nel ventre e sulla schiena. Bayzelon testimonierà che all’entrata dei poliziotti Malik aveva gridato: «Je n’ai rien fait… Je n’ai rien fait». Poi più niente, solo i grugniti dei picchiatori e i colpi sordi delle manganellate. I poliziotti escono, ma rientreranno subito, pestando anche Bayzelon, in quanto Schmitt aveva perso la sua pistola. Malik è in un mare di sangue. Verrà soccorso, comunque troppo tardi, solo casualmente. Un’ambulanza del SAMU passa per rue Racine e viene fermata da alcuni passanti. Dopo alcuni tentativi di rianimarlo, il medico si rende conto che per il giovane ormai non c’è più speranza. Finge ugualmente un ricovero d’urgenza, forse per evitare disordini data che una piccola folla si va ammassando davanti al civico 20 di rue Monsieur-le-Prince. Il resto è la triste cronaca di una famiglia sconvolta dalla notizia: Malik è morto. Ammazzato di botte dalla polizia.

Chi era Malik Oussekine?

Nato il 18 ottobre 1964, era figlio di un camionista (in precedenza minatore e muratore) di origine algerina morto nel 1978. La famiglia abitava in un HLM (casa popolare) a Meudon-la Foret. Colpito fin dalla nascita da una malattia dei reni, aveva trascorso buona parte della infanzia tra ricoveri ospedalieri, cure, controlli e trattamenti.

«il est confiant dans son avvenir»

Stando alle testimonianza raccolte da Nathalie Prévost, all’epoca studentessa dell’école de journalisme e amica della sorella, Malik era un ragazzo educato e gentile che non parlava mai dei suoi problemi di salute. Così lo ricordava il preside della sua scuola dove si distinse per discrezione e impegno. Sempre “ansioso di vivere” incoraggiato in questo dai fratelli maggiori. Gioca a tennis, nuota, si iscrive a un corso di karaté, si allena a basket in un club. Sogna di diventare musicista, ama soul e funk. Con l’adolescenza i suoi problemi di salute si aggravano. Nel 1986 deve sottoporsi a dialisi e un fratello inizia le pratiche per donargli un rene. Malik rimane comunque un ragazzo intraprendente che ripone molte speranze nel futuro. Per un anno rimane in cura presso un centro di Avon dove può continuare i suoi studi fra un trattamento e l’altro. Quando il fratello Ben Ammar lo porta a vivere vicino a lui, nel XVII, Malik si iscrive all’ESPI, una scuola di economia.

«Assiduo, puntuale, attento alle lezioni»

Forse un po’ solo, geloso della sua indipendenza e sempre molto reticente sulla malattia. Grazie all’aiuto dei familiari (i fratelli sono piccoli imprenditori) ha la possibilità di compiere qualche breve viaggio in Italia, Spagna e Gran Bretagna. Poi, nel settembre 1986, negli Stati Uniti presso la famiglia di un medico dove può essere seguito.
Ritorna a Parigi colmo di entusiasmo. Sicuramente molto idéaliste, non è però impegnato politicamente. Si sente francese e solo per pochi mesi frequenta l’Amicale des Algèriens en Europe e più tardi la Fusion (più che altro per curiosità secondo il fratello). Da sempre interessato alle questioni religiose, avrebbe preso in seria considerazione l’ipotesi di diventare cattolico e forse anche di farsi prete. In tasca, quando viene massacrato, aveva una copia del Nuovo Testamento. Pochi giorni prima aveva voluto incontrare due sacerdoti, P. Baudin e P. Desjobert che lo ricordano come

«molto determinato, anche se forse un po’ impaziente». Sicuramente, – dicono – «Malik è stato colto dalla morte in un momento in cui stava compiendo scelte profonde».

Scelte che due o tre poliziotti hanno stroncato sul nascere, à coups de matraque, quel 6 dicembre 1986.

… OGGI MALIK OUSSEKINE AVREBBE 59 ANNI

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A chi è utile la Wagner? https://ogzero.org/a-chi-e-utile-la-wagner/ Tue, 27 Jun 2023 16:00:14 +0000 https://ogzero.org/?p=11209 Che fine farà la Wagner? A chi è utile? Il continente africano è utile alla Russia come fonte di approvvigionamenti e di nuovi mercati alternativi a quello europeo, e la milizia capeggiata da Prigozhin era la testa di ponte russa che serviva allo scopo per militarizzare le risorse ottenute e controllare i territori che le […]

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Che fine farà la Wagner? A chi è utile? Il continente africano è utile alla Russia come fonte di approvvigionamenti e di nuovi mercati alternativi a quello europeo, e la milizia capeggiata da Prigozhin era la testa di ponte russa che serviva allo scopo per militarizzare le risorse ottenute e controllare i territori che le ospitano (senza contare l’utilizzo anti-jihad fattone da parte dei numerosi dittatori o golpisti africani). In Occidente non se ne è parlato molto in questi giorni in cui si è assistito ai fatti avvenuti in Casa Russia, ma è bene che se ne tenga conto, per capire gli sviluppi negli equilibri futuri del continente e degli investimenti che lì sono in corso. Angelo Ferrari ne parla qui e nel podcast dedicato al neocolonialismo africano, un’intervista per la trasmissione “I bastioni di Orione” di Radio Blackout.


La Wagner si sfalderà in Africa o verrà riassorbita nei ranghi ufficiali russi? È quello che si stanno chiedendo molti dittatori o golpisti africani che fanno ricorso ai mercenari della Compagnia Wagner per “sistemare” le questioni interne dei loro paesi, in particolare la lotta al jihadismo come nel Sahel. Di sicuro, fino a ora, la Wagner è la testa di ponte di Mosca per riaffermare la sua influenza su parte del continente africano. La Russia ha bisogno dell’Africa per due motivi: il primo perché deve trovare nuovi partner, nuove fonti di approvvigionamento, e nuovi mercati alternativi a quello europeo; il secondo luogo perché il sogno della Russia è quello di rafforzare il suo ruolo di gigante minerario per poi cercare di militarizzare le risorse, sviluppando tecnologia bellica. Per queste ragioni Vladimir Putin ha utilizzato la Wagner come forza di sfondamento nel continente africano. Questo, inoltre, ha fatto sì che la base operativa economica della Wagner sia diventata l’Africa. Un aspetto che l’Occidente non deve sottovalutare come gli avvenimenti dei giorni scorsi in Russia.

Dove opera la Wagner

L’attività del gruppo Wagner si svolge in tredici paesi diversi: Libia, Eritrea, Sudan, Algeria, Mali, Burkina Faso, Camerun, Sud Sudan, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Madagascar, Mozambico e Zimbabwe. Tutti paesi ricchi di risorse naturali di cui Mosca ha bisogno e sulle quali si è sviluppata la forza della Wagner, non solo militare, ma economica. La Repubblica Centrafricana, per esempio, è diventata per la Wagner un partner privilegiato – ha 13 basi militari – ha prestato i suoi servigi militari a difesa del governo del presidente Faustin-Archange Touderà, minacciato dai ribelli e da una guerra civile, avendo in cambio un accesso privilegiato alle miniere d’oro e di diamanti, oltre ad avere il controllo di alcuni ministeri. Significativo, da questo punto di vista, Il divieto di sorvolo dei droni, deciso a febbraio dal governo centrafricano, proprio per tutelare le attività di Wagner nella miniera d’oro di Ndassima, recentemente ampliata e messa in sicurezza.

Una situazione simile si sta verificando in Mali e in Burkina Faso. Con il fallimento dell’operazione antiterrorismo Barkhane e il conseguente ritiro dei francesi, il campo si è aperto ai russi e alla Compagnia Wagner – nonostante i governi di questi paesi neghino – che è passata all’incasso. Secondo un recente rapporto dell’Africa Command degli Stati Uniti, il Mali paga Wagner il corrispettivo di 10 milioni di dollari al mese, sotto forma di risorse naturali come oro e pietre preziose.

Il forziere economico della Wagner: contratti, armi e potere

E poi c’è il Sudan. La guerra tra l’esercito regolare del generale Abdel Fattah al Burhan e il capo delle Forze di supporto rapido (Fsr), Mohammed Hamdane Dagalo, detto Hemedti, continua senza tregua. E la Wagner, pur sostenendo le milizie Fsr, è rimasta defilata, si è occupata solo del trasferimento di armi dalla sua base in Cirenaica, in Libia, è ha privilegiato i suoi interessi economici che sono indipendenti da chi prevarrà sul campo. I rapporti tra Mosca e Kharthoum sono di lunga data. Il Sudan è ricco di metalli preziosi, la stragrande maggioranza dei quali viene esportata illegalmente. Molte miniere sono nelle mani di Hemedti. In questo settore la Wagner agisce attraverso la società M Invest di Yevgeny Prigozhin e la sua controllata Meroe Gold, che si è trasferita in Sudan nel 2017 e lavora con Aswar, una società controllata dall’intelligence militare sudanese. Il gruppo di giornalisti del Progetto di segnalazione di criminalità organizzata e corruzione (Occrp) è riuscita a raccogliere prove di un contratto tra Meroe Gold e Aswar. La società russa, inoltre, è esentata dal 2018 dalla tassa del 30% imposta dalla legge sudanese alle società aurifere. Anche per queste ragioni Wagner in Sudan ha assunto un profilo opportunista piuttosto che fedele a una particolare fazione. Questo ha permesso a Prigozhin di proseguire le sue attività economiche anche dopo la caduta del dittatore Omar al-Bashir e anche dopo il golpe del 2021, messo in atto proprio da chi ora si combatte per il potere. Dunque, il vero forziere economico della Wagner è in Africa. E tutto ciò fa gola anche a Putin.

Ascolta “Neocolonialismo africano: la trappola dietro allo sforzo di affrancamento” su Spreaker.

Le “fattorie di troll”

Dopo la “tentata marcia” su Mosca da parte della Wagner, nel continente africano non si segnalano particolari movimenti del gruppo. I mercenari, abituati a lavorare in autonomia, continuano le loro attività: sicurezza, sfruttamento delle risorse naturali e manovre di disinformazione con lo scopo di avvicinare le opinioni pubbliche alle ragioni della Russia. La compagnia Wagner, già dal 2017, ha utilizzato campagne per destabilizzare e manipolare le opinioni pubbliche attraverso le sue “fattorie di troll” sia in Sudan così come nel Sahel.

I due possibili sbocchi

Molti analisti concordano che Wagner non può fare a meno del supporto logistico dell’esercito russo nelle sue operazioni in Africa. Mosca fornisce armi e istruttori a molti paesi. Ma, anche in caso di smantellamento del gruppo Wagner, la Russia non lascerà il terreno non “occupato”. Le conquiste politiche, economiche e diplomatiche dell’ultimo decennio sono vitali per Mosca. I leader africani, che si avvalgono dei servizi dei mercenari russi, devono necessariamente interrogarsi anche sui rapporti di forza in Russia, soprattutto se i contrasti dovessero durare, potrebbero trovarsi di fronte a un conflitto di lealtà. I leader africani, così come molte cancellerie occidentali e asiatiche, stanno aspettando che la “polvere si depositi”. Di certo se la Wagner viene riassorbita nei ranghi dell’esercito di Mosca, il problema non si pone. I leader africani potranno continuare a trattare con questa compagnia senza il timore di scatenare conflitti di fedeltà con la Russia. Altro se Prigozhin rimarrà a capo della Wagner “africana”. Allora si entrerebbe in una zona grigia, senza dimenticare che la gran parte del personale russo schierato in Africa appartiene alla Wagner.

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Paradossi petroliferi africani https://ogzero.org/paradossi-petroliferi-africani/ Mon, 05 Jun 2023 17:17:05 +0000 https://ogzero.org/?p=11181 Il primo provvedimento che Tinubu, subentrato il 29 maggio a Buhari nella guida della Nigeria, ha notificato ai cittadini è stata la cancellazione dei sussidi pubblici sui carburanti, che costano alla Nnpc 810 milioni di euro al mese, ed ecco uno dei paradossi petroliferi africani: i nigeriani dovranno quindi aspettarsi un rincaro dei prezzi dei […]

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Il primo provvedimento che Tinubu, subentrato il 29 maggio a Buhari nella guida della Nigeria, ha notificato ai cittadini è stata la cancellazione dei sussidi pubblici sui carburanti, che costano alla Nnpc 810 milioni di euro al mese, ed ecco uno dei paradossi petroliferi africani: i nigeriani dovranno quindi aspettarsi un rincaro dei prezzi dei trasporti privati e collettivi, e dell’elettricità, spesso ottenuta dai generatori, viste le carenze della rete elettrica: infatti il prezzo calmierato della benzina era uno dei pochi benefici concessi dallo stato. Un precedente tentativo di cancellarli, fatto nel 2012 dal presidente Goodluck Jonathan, aveva scatenato rivolte sanguinose. Angelo Ferrari assimila la situazione innescata ad Abuja alla concomitante, seppur graduale, decisione presa a Luanda di ridurre progressivamente i sussidi sui prodotti petroliferi, proprio a un paio di settimane dal rilancio degli investimenti mondiali (in primis cinesi) sulla produzione e il trasporto del greggio angolano in previsione di una nuova era dello sviluppo energetico.
Lo strapotere dei più grossi produttori di greggio, a elezioni archiviate, mette tra parentesi il bisogno di consenso dei vertici, che si dimostrano espressione delle lobbies degli idrocarburi. Un sistema che innesca il paradosso secondo il quale la Nigeria – e anche l’Angola – reimportano i derivati del petrolio spendendo 10 milioni di dollari al giorno per sostenere Nncp e questo aveva spinto il regime militare di Obasanjo a introdurre il sussidio nel 1977… vedremo come andrà a finire il taglio del paracadute.  


Tempo di far pagare agli africani il rilancio petrolifero

Angola e Nigeria, grandi produttori di petrolio dell’Africa subsahariana, hanno deciso di togliere i sussidi ai carburanti con gravi ripercussioni sull’inflazione e sullo stato generale dell’economia. In Nigeria la decisione ha provocato il caos. Dunque il mandato del nuovo presidente nigeriano, Bola Tinubu, non è iniziato sotto i migliori auspici. Nel discorso di insediamento di lunedì scorso il neopresidente ha annunciato la fine dei sussidi sul carburante e subito è scoppiato il caos. La gente si è accalcata ai distributori di benzina per fare scorte con scene di panico e la conseguenza è stata una sorta di speculazione in piccolo: molti distributori hanno aumentato i prezzi, vista la domanda impazzita, anche del 200% alla pompa. Tinubu, vista la situazione, ha dovuto in qualche modo tornare sui suoi passi: pur non smentendo la fine dei sussidi si è affrettato a dire.

«il panico che si è scatenato in seguito alla comunicazione è inutile, non avrà effetto immediato»,

perché i sussidi non termineranno prima della fine di giugno.

Ma ormai è il caos, anche perché la compagnia petrolifera statale nigeriana, subito dopo, ha reso noto un prossimo aumento del prezzo della benzina. La Nigerian national Petroleum corporation (Nnpc), attraverso una nota ufficiale, spiega che la mossa è in linea con la realtà di mercato:

«I prezzi continueranno a fluttuare per riflettere le dinamiche del mercato».

Il prezzo attuale della benzina è di circa 40 centesimi di euro al litro, e la Nnpc non ha specificato quale sarà il nuovo prezzo né a decorrere da quando, ma secondo i media nigeriani la nuova fascia di prezzo è compresa tra 0,97 euro e 1,19 euro al litro. Un aumento enorme che avrà ripercussioni importanti sull’economia e sull’inflazione – già elevata – nigeriana.
Come era prevedibile, negli ultimi giorni il carburante ha cominciato a scarseggiare e i prezzi sono schizzati con un impatto sul settore della logistica e dei trasporti, costretto a trasferire i costi più elevati sui prezzi di consegna, con un aumento tra il 20% e il 50%. Allo stesso modo i servizi di mobilità come Bolt e Uber sono stati costretti ad adeguare le loro tariffe. I prossimi mesi saranno cruciali per valutare la portata dell’impatto economico a lungo termine.

I paradossi petroliferi

Ma non poteva mancare la ciliegina sulla torta: il parlamento nigeriano ha richiesto un audit forense dopo che in un suo rapporto è stato rilevato che negli ultimi dieci anni sono stati spesi 25 miliardi di dollari per cercare di riparare e ammodernare le fatiscenti raffinerie di petrolio del paese. Nonostante gli enormi costi, il rapporto ha rilevato che queste lavorano a una capacità del 30% inferiore rispetto alle loro potenzialità. La buona notizia, ma solo in parte, è che nel mese di luglio dovrebbe entrare in funzione una raffineria costruita dal noto uomo d’affari nigeriano, Aliko Dangote, l’uomo più ricco della Nigeria.

Ma rimane il paradosso. La Nigeria, uno dei più grandi produttori di petrolio dell’Africa subsahariana, importa l’80% del suo fabbisogno di carburante.

Angola

L’altro grande produttore di petrolio, l’Angola non è da meno. Secondo un rapporto pubblicato l’11 maggio dall’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, l’Angola è il primo produttore di greggio dell’Africa, con 1,06 milioni di barili al giorno ad aprile e, tuttavia, è un grande importatore di carburante. In Angola, come in Nigeria, solo la raffineria di Luanda è attualmente operativa, mentre quelle di Lobito, Cabinda e Soyo sono ancora in costruzione.
Ecco dunque che anche il governo angolano ha deciso la graduale rimozione dei sussidi al carburante. Il prezzo della benzina passerà dagli attuali 0,27 dollari a 0,51 dollari al litro, con un aumento dell’87,5%, a partire dal 2 giugno. Mentre i prezzi degli altri derivati dal petrolio, come diesel, l’olio illuminante, rimarranno invariati. Il ministro angolano per il Coordinamento Economico, Manuel Nunes Junior, ha spiegato che la rimozione dei sussidi per il carburante è

«una misura necessaria per promuovere una solida crescita economica in grado di affrontare i gravi problemi del paese».

Secondo il ministro, le spese per i sussidi al carburante ammontavano, nel 2022, a 3,8 miliardi di dollari.
In un documento del ministero delle Finanze si legge che con la completa rimozione dei sussidi – dovrebbe concludersi entro il 2025 – per il gasolio e la benzina, l’Angola manterrà comunque un prezzo del petrolio competitivo all’interno della regione. Il rapporto specifica, inoltre, che i sussidi hanno un impatto negativo sulle finanze pubbliche, generando costi fiscali crescenti e insostenibili nel medio e lungo termine, ostacolando la capacità finanziaria del paese di investire nei servizi di base e nei progetti di sviluppo sociale. Nell’immediato ha l’effetto di far crescere i prezzi dei generi di prima necessità, diminuire il potere di acquisto e impoverire ulteriormente la popolazione. Ma all’Angola, evidentemente, sta molto a cuore l’industria petrolifera che, a detta del ministero delle Finanze, è minacciata proprio dai sussidi che incoraggerebbero il contrabbando di petrolio verso i paesi vicini, con prezzi di oltre il 70% superiori rispetto a quelli dell’Angola.

paradossi petroliferi

Il 2022 si è chiuso con i prezzi di mercato della benzina e del gasolio superiori ai prezzi sovvenzionati in Angola rispettivamente del 202% e del 279%. I sussidi per i carburanti nel 2022 rappresentavano circa il 92% delle spese per la sanità e l’istruzione del paese nello stesso anno. In quel rapporto si legge che potrebbero raggiungere circa il 3,5% del prodotto interno lordo del 2022 e circa il 20% del bilancio generale previsto per il 2023 in Angola.

A causa del «significativo impatto della rimozione dei sussidi per il carburante sull’inflazione e sulla solvibilità delle famiglie» il rapporto propone misure di mitigazione per riassegnare tali sussidi all’energia, ai trasporti pubblici e ai programmi sociali. Staremo a vedere.
Stando ai dati aggiornati alla fine di maggio del sito web Global Petrol Prices, dopo l’aumento del prezzo della benzina in Angola, il paese passerà dal quarto più economico al mondo al decimo in termini di prezzo della benzina.

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Africa Day: le sfide anticoloniali sono sempre attuali https://ogzero.org/africa-day-le-sfide-anticoloniali-sono-sempre-attuali/ Thu, 25 May 2023 21:40:42 +0000 https://ogzero.org/?p=11124 Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale. Eppure l’Africa è […]

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Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale.
Eppure l’Africa è al centro di ogni affare (Descalzi incontra Nguesso per inaugurare il “Congo Lng”), interesse (Kuleba incontra i leader dell’UA in vista di mediazione sulla guerra), ricchezza (Tshisekedi – nato nel 1963, come l’UA – si accorda sul cobalto con Xi)… queste solo alcune delle notizie odierne. In Ghana Gold Fields e AngloGold Ashanti si uniscono per creare la più grande miniera d’oro africana e contemporaneamente un tornado sradica l’albero della libertà… ci sarà una qualche correlazione?


Dopo il colonialismo… 60 anni di neocolonialismo

Le celebrazioni, in Africa, hanno sempre un valore simbolico. Ricche di retorica ma anche di auspici. Appartengono alla vita delle comunità e degli stati. Anche in questo giorno, in cui si celebra l’Africa Day, il continente si è mobilitato.
Oggi si ricordava la fondazione dell’Organizzazione dell’Unità africana (Oua), che avvenne il 25 maggio del 1963, sessant’anni fa. In alcuni paesi prende il sopravvento la retorica condita di anticolonialismo. In altri, invece, si guarda al futuro e alle sfide, che retoriche non sono, che attendono un continente provato dalla pandemia di Covid, dall’inflazione dei prezzi dei generi energetici e, soprattutto, alimentari dovuto alla situazione economica globale aggravata dalla guerra in Ucraina.

Le sfide del continente

Ma sono anche altre le sfide. Il terrorismo, per esempio, e tutt’altro che sconfitto anzi, dilaga in molti paesi come il Mali, Il Burkina Faso, che sembrano essere incapaci di farvi fronte nonostante i paesi siano stati squassati da colpi di stato. Dall’arrivo dei militari al potere la situazione, se possibile, si è ancora aggravata e nulla ha potuto la retorica anticoloniale, in particolare il sentimento antifrancese che pervade le popolazioni di questi due paesi, ma anche la simpatia, che è diventata rapporto strutturale con la Russia, che fornisce armi e mercenari della Compagnia Wagner. Tutto il Sahel è pervaso da una ondata jihadista senza precedenti, con le cancellerie internazionali preoccupate per la possibile saldatura con le organizzazioni criminali internazionali.  Cancellerie che, tuttavia, non sono state in grado di risolvere il problema perché hanno privilegiato l’intervento securitario – necessario – alla cooperazione allo sviluppo. Il terrorismo nel Sahel, così come in Somalia, si alimenta della povertà dilagante, dell’incapacità degli stati di far fronte ai bisogni della popolazione. Verrebbe da dire che l’arma più efficace per combattere i terroristi sarebbe mettere in campo riforme economiche e un welfare state degno di questo nome, così da togliere da sotto i piedi dei terroristi il loro terreno privilegiato, cioè la povertà. Lavoro non da poco.
Ma sono molte altre le sfide che attendono il continente, soprattutto economiche. L’intera Africa deve avere come faro la diversificazione economica, non può affidarsi, solo, alle materie prime, pur preziose per avere le risorse per creare un tessuto industriale manifatturiero. Significativo da questo punto di vista lo sbilanciamento delle relazioni con la Cina, il primo partner commerciale del continente. Nei primi quattro mesi del 2023 le esportazioni cinesi verso i paesi africani sono cresciute del 26,9%, mentre quelle dell’Africa verso la Cina sono diminuite dell’11,8%. Uno squilibrio evidente, aggravato dal fatto che Pechino esporta in Africa prodotti finiti – tessile, abbigliamento, macchinari, elettronica – mentre le esportazioni africane verso la Cina sono dominate da materie prime come petrolio greggio, rame, cobalto e minerale di ferro, di cui il Dragone ha estremamente bisogno. Proprio per queste ragioni il continente deve lavorare con più determinazione per la costruzione di un tessuto produttivo manifatturiero.
Questa, inoltre, è la grande sfida che attende l’Area di libero scambio continentale africana (Afcta) – entrata in vigore nel gennaio del 2021 – un mercato di 1,2 miliardi di persone e di un Pil combinato di circa 3,4 trilioni di dollari. Un’area commerciale che stenta a decollare per la mancanza di infrastrutture sicure, capaci di collegare gli stati ma soprattutto per la risibilità della manifattura africana. Tra i paesi del continente non possono circolare, solo, le materie prime, queste se le accaparrano le multinazionali e portano beneficio a pochi. L’Africa vive un paradosso: è ricca di risorse, ma, per fare un esempio, i due colossi nella produzione di petrolio in Africa subsahariana – Angola e Nigeria – importano circa l’80% del loro fabbisogno in carburante. Da non trascurare che le materie prime sono soggette alle oscillazioni dei mercati internazionali.
Altra sfida è quella dell’energia elettrica. Ancora nel 2023 milioni di africani rimangono al buio, e anche questo è un paradosso viste le potenzialità del continente: solare, idroelettrico, geotermico, eolico, energie pulite come l’idrogeno verde. Mettere a sistema tutto ciò darebbe un impulso al mercato unico e quindi a uno sviluppo sostenibile ma, soprattutto durabile.  Questione che solo un’organizzazione sovranazionale, come l’Unione Africana, può affrontare.

Oligarchie dinastiche senza fine…

Poi ci sono questioni puramente politiche. Lasciamo da parte i presidenti africani che durano in eterno senza produrre benefici per le popolazioni ma solo animati da bulimia di potere e, spesso, sostenuti dallo stesso occidente così attento allo stato di diritto. Il punto, per rimanere alle celebrazioni di oggi, sarebbe l’attribuzione di un ruolo da pari nei consessi internazionali all’Unione africana.

vs un seggio permanente all’Onu

Un’ipotesi che si sta materializzando e potrebbe diventare concreta: un seggio, per così dire, permanente, non solo da osservatore, come spesso è capitato nei vari G20 o G7 che siano, dove di volta in volta, veniva invitato qualche presidente africano o gli stessi esponenti dell’Unione africana. Così come soddisfare la richiesta dell’Unione africana di occupare un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Formalizzare e concretizzare una presenza “permanente” avrebbe il significato di trasformare il continente africano in potenza che decide, non più, dunque, con un ruolo subalterno che ogni volta negozia con questo o quello stato occidentale, ma protagonista del proprio futuro di fronte alle potenze internazionali. Tutto ciò sarebbe un cambio di paradigma perché porterebbe l’Africa a discutere, da pari, del proprio sviluppo sia economico sia politico e sociale, con l’occidente sviluppato.

Non è una cosa qualunque, sarebbe epocale.


Come epocale è l’espianto del Freetown Cotton Tree in questa data simbolica

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Pax africana in Ucraina https://ogzero.org/pax-africana-in-ucraina/ Tue, 23 May 2023 22:27:47 +0000 https://ogzero.org/?p=11105 La reazione all’esplosione del conflitto ai confini europei da parte degli stati africani è stata differenziata, ma spesso attenta a mantenere una neutralità interessata e spesso legata al forte intreccio di interessi e presenze russe sul territorio. Questo pone alcuni paesi nella condizione di proporsi come potenziali mediatori credibili. Al punto che la diplomazia americana […]

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La reazione all’esplosione del conflitto ai confini europei da parte degli stati africani è stata differenziata, ma spesso attenta a mantenere una neutralità interessata e spesso legata al forte intreccio di interessi e presenze russe sul territorio. Questo pone alcuni paesi nella condizione di proporsi come potenziali mediatori credibili. Al punto che la diplomazia americana ha subito cercato di delegittimare il governo più rappresentativo dei sei: non appena si è avuto sentore dell’iniziativa dei Sei Paesi in procinto di recarsi dai due contendenti la Casa Bianca ha scatenato i suoi giornali, accusando Pretoria di vendere armi ai russi e di non essere neutrale. Nonostante queste polpette avvelenate procede il piano elaborato a gennaio in gran segreto, proprio perché è ovvio che gli interessi di chi non vuole si raggiunga una tregua in vista di trattati di pace rimuoveranno chiunque si frapponga all’escalation.
Dall’altro lato è sintomatico che il ministro degli esteri ucraino Kuleba  incontri i leader dell’Unione africana in Etiopia: evidentemente la mediazione dell’Africa è presa sul serio da entrambe le parti in conflitto… e come spiega Angelo Ferrari nel suo articolo, l’Unione africana sarebbe l’interlocutore istituzionalmente più adatto, ma le pastoie burocratiche e diplomatiche che la contraddistinguono richiedono strutture più snelle ed efficaci. Ma il suo coinvolgimento dalla mossa di Kuleba avvia anche al livello più alto istituzionalmente il ruolo che potrebbe diventare – se non viene boicottato dagli americani e dai loro alleati – centrale nella composizione del conflitto.
L’estensore ci racconta i retroscena e i risvolti di questa “missione africana”, che non foss’altro per le forniture di cibo ha senz’altro bisogno  che ritorni una condizione di non belligeranza in Ucraina.


Il piano africano ha delle possibilità?

Il presidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, ha annunciato che Kyiv e Mosca hanno concordato di ospitare una delegazione guidata dai presidenti di Zambia, Senegal, Congo-Brazzaville, Uganda, Egitto e Sudafrica per discutere un piano di pace, preparato in gran segreto dai sei capi di stato. Un piano elaborato già a gennaio e che, ora, dovrebbe concretizzarsi con un incontro con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, e quello russo, Vladimir Putin. Quale sarà il primo incontro non è stato ancora stabilito, e non sarà facile. Sulla missione, tuttavia, rimangono ancora dei dubbi sulla sua fattibilità e, in particolare, sui tempi. Di certo c’è che domenica 21 maggio è iniziata una visita interlocutoria del presidente della Fondazione Brazzaville, che sovrintende il progetto, Jean-Yves Olliver, accompagnato da due emissari, uno del Senegal e uno del Sudafrica, che li a portati in Russia e Ucraina, per “chiarire le posizioni” e soprattutto per parlare di logistica.
Muovere sei capi di Stato non è cosa da poco.

Attivismo americano di contrasto

Vi sono anche frizioni internazionali che rischiano di compromettere la missione. Su tutte i rapporti tesi tra il Sudafrica e gli Stati Uniti, dopo le dichiarazioni americane volte ad accusare Pretoria di aver fornito armi alla Russia, ma anche per il fatto che il comandante delle forze di terra del Sudafrica ha visitato ufficialmente Mosca.


Dopo queste accuse, mosse dall’ambasciatore americano a Pretoria, il governo sudafricano ha promesso di svolgere un’indagine su queste presunte consegne. L’esercito sudafricano non ha risposto immediatamente. Il presidente sudafricano Ramaphosa, dal canto suo, ha assicurato che il suo paese non sarebbe stato coinvolto in «una competizione tra potenze mondiali» sull’Ucraina e che è stato soggetto a «straordinarie pressioni» per scegliere da che parte stare.

«Non accettiamo che la nostra posizione di non allineamento favorisca la Russia rispetto ad altri paesi. Non accettiamo nemmeno che metta a repentaglio le nostre relazioni con altri paesi» – in particolare la Russia – si legge in una nota al bollettino presidenziale settimanale.

Abboccamenti con i russi e gli ucraini

Ramaphosa ha parlato al telefono la scorsa settimana con il presidente russo Putin, e i due leader hanno mostrato il desiderio di far crescere ulteriormente la loro cooperazione. È noto, inoltre, che gli Stati Uniti stiano facendo pressioni su numerosi paesi africani affinché scelgano da che parte stare, cioè abbandonino Mosca, e quindi sono siano più soggetti “neutrali” rispetto alla guerra ucraina.
Tornando al progetto di pace africano, in discussione ormai da settimane, questo ha avuto un impulso nell’ultimo fine settimana. Secondo Ramaphosa i due “campi”, Mosca e Kyiv, hanno accettato di ricevere la visita di questa missione di pace. Il presidente sudafricano, inoltre, si augura che questo viaggio possa avvenire “il prima possibile”, anche se le modalità sono ancora tutte da discutere, in particolare quale presidente, Zelensky o Putin, riceverà per primo la missione.

Criteri di scelta della delegazione

Secondo la Fondazione Brazzaville, questi sei paesi sono stati scelti per rappresentare le diverse visioni del continente africano sul conflitto, con paesi come il Sudafrica e l’Uganda che difendono i loro legami con la Russia, e altri come lo Zambia e l’Egitto, che hanno votato per il ritiro delle truppe russe dall’Ucraina nell’ultima risoluzione delle Nazioni Unite.
La Fondazione Brazzaville, creata nel 2015 è presieduta dal francese Jean-Yves Ollivier, uomo d’affari che ha fatto fortuna commerciando materie prime in tutto il mondo, in particolare in Africa, dove ha stretto forti legami con numerosi presidenti africani: dall’ex presidente ivoriano, Félix Houphouët-Boigny, al presidente del Congo-Brazzaville, Denis Sassou-Nguesso, passando per l’antico uomo forte angolano, José dos Santos.

Jean-Yves Ollivier è un habitué dei palazzi presidenziali. «Mi sono dedicato agli affari e la politica mi ha raggiunto».

Dietro questa missione c’è anche un po’ di Francia.

La disposizione sudafricana al dialogo

Da parte sudafricana, non sorprende che in questo progetto, tanto ambizioso quanto difficile da concretizzare, sia stato coinvolto Cyril Ramaphosa. Il presidente sudafricano è sempre stato, fin dall’inizio del conflitto, colui che ha sempre invitato al dialogo per trovare una soluzione negoziata al conflitto e, quindi, cominciare a parlare di pace, piuttosto che schierarsi da una parte o dall’altra. Un atteggiamento di neutralità che, tuttavia, ha anche nascosto contraddizioni. La recente visita del comandante di terra dell’esercito sudafricano a Mosca, Lawerence Mbatha, è lì a dimostrarlo. Secondo Pretoria, tuttavia, il segretario generale delle Nazioni Unite e dell’Unione africana avrebbero accolto con favore questa iniziativa.

Il calendario “africano”?

Molte questioni organizzative, tuttavia, rimangono in sospeso. L’Africa non ha voluto rimanere inattiva su un tema che la riguarda direttamente, non fosse per le conseguenze economiche di questo conflitto su tutto il continente. È con questa volontà che questa missione di pace si è concretizzata a gennaio nella massima segretezza con discussioni solo tra capi di stato. Ora, la parte più complessa è il calendario dell’iniziativa di pace, tutto da discutere. Putin avrebbe proposto che si svolgesse a margine del vertice Russia-Africa di fine luglio, i sei presidenti vogliono che si tenga prima, in particolare entro la fine di giugno. La Fondazione Brazzaville, che è all’origine di questo progetto, sostiene che la composizione della delegazione ha senso con sei Stati che hanno posizioni politiche diverse sul tema della guerra in Ucraina: appoggio a uno dei due campi o neutralità. Non è un nodo da poco da sciogliere. Da questo punto di vista, nonostante l’Unione Africana abbia fatto sapere di sostenere questa missione, l’istituzione e il suo attuale presidente, il capo di stato delle Comore, Azali Assoumani, hanno preferito fare un passo indietro per non rallentare il processo diplomatico. Coinvolgere l’istituzione Unione africana avrebbe portato con sé un lavoro diplomatico di non poco conto per convincere gli stati membri della necessità di una missione di pace, un’opera di convincimento complessa che, tuttavia, poteva sfociare in un nulla di fatto.

La fase di preparazione di questa missione diplomatica a Sei è ormai cominciata, anche se gli ostacoli affinché l’iniziativa africana abbia successo sono numerosi.

 

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Il Pakistan brucia… la neve distrae, ovattando l’eco dei conflitti https://ogzero.org/il-pakistan-brucia-la-neve-distrae-ovattando-leco-dei-conflitti/ Sun, 21 May 2023 09:51:28 +0000 https://ogzero.org/?p=11093 Il Pakistan, già in sofferenza per gli attacchi dell’estremismo islamico e per i disastri ambientali, rischia forse di precipitare nella guerra civile. Niente di nuovo naturalmente. Almeno per le minoranze etniche e religiose e – soprattutto – per le donne, i bambini, i diseredati. Vittime designate di una costante “guerra a bassa intensità”. Ma l’importante […]

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Il Pakistan, già in sofferenza per gli attacchi dell’estremismo islamico e per i disastri ambientali, rischia forse di precipitare nella guerra civile. Niente di nuovo naturalmente. Almeno per le minoranze etniche e religiose e – soprattutto – per le donne, i bambini, i diseredati. Vittime designate di una costante “guerra a bassa intensità”.
Ma l’importante è continuare a sciare sulle “cime inviolate” del “Terzo Polo”. Come non mancano di segnalarci amabilmente su Instagram gli stessi vacanzieri d’alta quota nostrani… che non boicottano e così immemori non si accorgono di affiancare i militari di uno stato oppressore, in mano a un’oligarchia che spadroneggia su cittadini discriminati. Sintomatico del modo di fare affari, senza badare alla natura delle oligarchie genocidiarie che controllano i paesi con cui si intrecciano.
In questi giorni in cui il Pakistan è tornato alla ribalta per gli scontri con decine di morti dopo l’arresto di Imran Khan ci sembra interessante il modo in cui Gianni Sartori inforca il grandangolo perlustrando l’area pakistana, allargando lo sguardo sia nel tempo che ai temi.  


Il balletto criminale delle elezioni imminenti

Ma cosa sta succedendo in Pakistan? Davvero siamo alle soglie di una guerra civile? O stiamo assistendo al preludio (“con altri mezzi”) della campagna elettorale in vista delle elezioni di ottobre (salvo modifiche, rinvii)?

Il risvolto etnico

In realtà per alcune minoranze etniche o religiose: hazara, beluci, cristiani, sciiti… così come per le donne, i bambini e un gran numero di diseredati, la situazione era già difficile. Tra attentati, aggressioni, (guerra a bassa intensità ?), discriminazioni…che si vengono a sovrapporre (con effetti sinergici) alla grave crisi economica e alla disastrosa situazione sanitaria. Per non parlare di alluvioni e altre emergenze ambientali.

Il risvolto talebano

Un recente avvenimento è sintomo emblematico di una situazione in via di ulteriore degrado (e qui non mi riferisco a quello ambientale).
Qualche giorno fa Muhammad Alam Khan, un poliziotto assegnato alla protezione della Catholic Public High School (una scuola cattolica femminile) nel Nordovest del Pakistan (a Sangota, nella valle dello Swat, provincia del Khyber Pakhtunkhwa), ha aperto il fuoco contro il pulmino che trasportava le allieve uccidendone una di 8 anni e ferendone altre sei e un’insegnante.
Il tragico episodio è avvenuto nella stessa regione da cui proviene Malala Yousafzai, l’attivista premio Nobel per la pace per aver condotto una campagna contro il divieto all’istruzione femminile imposto dal Tehreek-e Taliban Pakistan (Ttp, i talebani pakistani). Nel 2012 anche lei era stata colpita alla testa da un proiettile sull’autobus per tornare a casa da scuola, mentre anni fa la Catholic Public High School aveva dovuto chiudere per le minacce e per gli attentati.

Nel 2022 in questa provincia si sono registrati almeno 225 attentati (“solo” 168 nel 2021). O almeno secondo le cifre ufficiali. Da parte loro i miliziani legati al Ttp ne avevano rivendicato oltre 360. Senza dimenticare gli attacchi di un’altra organizzazione jihadista-terrorista operativa anche in Pakistan: lo Stato islamico che solo nel marzo 2022 aveva ucciso oltre 60 persone.
E anche il 2023 non sembra promettere bene. Solo nei primi quattro mesi sono già 180 quelli ufficiali.

Nel gennaio di quest’anno i talebani pakistani avevano rivendicato anche il sanguinoso attacco suicida (con oltre una trentina di morti e centinaia di feriti) ad una moschea di Peshawar, situata in un complesso dove si trova il quartiere generale della provincia del Khyber Pakhtunkhwa.

Il risvolto separatista

Per completezza va anche ricordato che gli attentati non sono monopolio esclusivo degli estremisti islamici. Un attacco suicida dell’agosto 20121 nella città di Gwadar (contro un veicolo cinese) era stato rivendicato dai separatisti beluci.

Una situazione drammatica, convulsa e foriera di ulteriori lutti.

Le malefatte di Imran Khan

Non per niente tra le questioni sollevate dall’attuale conflitto interno tra governo e opposizione (ma anche tra militari e una parte della società civile) appare rilevante l’accusa di ambiguità rivolta all’ex primo ministro Imran Khan. Per aver consentito, favorito il rientro in patria dei talebani pakistani purché garantissero di deporre le armi (cosa auspicabile ma difficile da realizzare). Come era prevedibile, nonostante le trattative per il loro reinserimento e per una “soluzione politica” del conflitto, dopo poco tempo gli attentati erano ripresi. Alimentando il sospetto che i colloqui, le trattative avessero in realtà consentito al Ttp di riorganizzarsi.

Le persecuzioni contro Imran Khan

Quanto alle numerose azioni giudiziarie lanciate contro lo stesso leader del Pakistan Tehreek-e-Insaf (Pti) per corruzione e reati finanziari (e anche un probabile tentativo di eliminarlo fisicamente, stroncato dalla mobilitazione dei militanti del Pti), presumibilmente in parte strumentali, per ora sembrano aver portato più che altro all’incarcerazione di tanti suoi seguaci. Pare anche dietro sua indicazione: farsi arrestare per “saturare le carceri e screditare il governo”… quanto meno un rischioso azzardo.

Tra le accuse principali, quella relativa all’Al-Qadir Trust, proprietà di Khan e della moglie, a cui l’impresa immobiliare Bahria Town avrebbe fornito un terreno del valore di 530 milioni di rupie (1,71 milioni di euro)
Ma forse Imran Khan sta anche pagando il prezzo di un suo avvicinamento alla Russia (malvisto dagli Usa, oltre che dall’India per ragioni inverse). Questo potrebbe aver innescato la rottura con l’esercito e favorito la sua defenestrazione.

Come è noto l’ex primo ministro è stato arrestato (a quanto sembra da un gruppo paramilitare legato ai servizi segreti) mentre si trovava all’Alta corte di Islamabad per testimoniare in un processo.

Ambiguità pakistane nel posizionamento geopolitico

Naturalmente non mancano (anche a sinistra, tra quella più “campista”) gli estimatori del regime pakistano.
Pensando di intravedervi una componente di possibili “blocchi egemonici alternativi musulmani” per un mondo multipolare contro l’imperialismo statunitense. Blocchi di cui potrebbero far parte sia la Turchia che l’Iran e in buoni rapporti con Russia e Cina. Sarà, ma non mi convince. In realtà è più probabile che il Pakistan (come da tradizione) continuerà a giocare su due tavoli. Se con gli Stati Uniti prevale la collaborazione sul piano militare (e i finanziamenti), con la Cina va sviluppando l’aspetto commerciale (vedi la Via della Seta).

Lasciando per ora da parte l’altro rischio, quello di un possibile conflitto nucleare con l’India. Magari a causa di un “malfunzionamento tecnico”, di un errore. Come quando nel marzo scorso l’India ha lanciato accidentalmente un missile supersonico in Pakistan. Caduto senza danni particolari nel Punjab (distretto di Khanewal).

Indifferenza occidentale

In alta quota si trovano i retaggi degli scambi d’interessi tra imprese occidentali (molto spesso italiane, anche affondando nelle nevi storicamente del passato) e intrecci tra potere canaglia di uno stato dai molteplici scambi interessanti. Sempre intenti a individuare qualche residua “cima inviolata” (lapsus rivelatore?) da cui scendere con gli sci (anche qualche giorno fa nella regione del Gilgit-Baltistan).
Mentre – che so – negli anni Ottanta del secolo scorso era quasi normale (almeno per persone con un minimo di coscienza sociale, politica…) boicottare almeno turisticamente un paese come il Sudafrica dell’apartheid e in epoca più recente la Turchia che reprime il popolo curdo, oggi come oggi andare a trascorrere le “settimane bianche” in Pakistan per alpinisti, escursionisti e sciatori nostrani non sembra assolutamente fuori luogo. Anche a persone che magari poi se la tirano con le questioni umanitarie e ambientali. O quelli che mentre denunciano lo scioglimento dei ghiacciai del “Terzo Polo” vi contribuiscono con i loro mezzi (nel senso di veicoli).

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Una svolta culturale siamese non solo nelle urne thai: Move Forward https://ogzero.org/una-svolta-culturale-siamese-non-solo-nelle-urne-thai-move-forward/ Wed, 17 May 2023 22:21:48 +0000 https://ogzero.org/?p=11056 I due nostri riferimenti autoriali nel Sudest asiatico ci sono di aiuto per dare il corretto rilievo alla trasformazione in corso nella società thailandese, che ha visto nelle elezioni del 14 maggio l’emersione della volontà di “emancipazione” da parte della componente più giovane e che ha incarnato già nella Milk Tea Alliance preCovid la richiesta […]

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I due nostri riferimenti autoriali nel Sudest asiatico ci sono di aiuto per dare il corretto rilievo alla trasformazione in corso nella società thailandese, che ha visto nelle elezioni del 14 maggio l’emersione della volontà di “emancipazione” da parte della componente più giovane e che ha incarnato già nella Milk Tea Alliance preCovid la richiesta di modernizzazione e il rifiuto dell’Orientalismo; per cominciare ad approcciarci allo spirito che si aggira nella monarchia costituzionale controllata dai militari dal golpe del 2014 riprendiamo un articolo di Emanuele Giordana apparso su “L’Atlante delle Guerre” a cui aggiungiamo una lunga chiacchierata fatta nella mattinata di martedì 16 maggio in Radio Blackout con Massimo Morello, che  vive a Bangkok da alcuni anni e ha le antenne giuste per cogliere alcune sfumature che sfuggono alla maggioranza degli analisti privi delle competenze culturali e sociologiche, da lui acquisite soltanto con l’immersione in quel mondo in fermento.

«Il voto di domenica segna la sconfitta dei militari e l’ascesa del partito Move Forward. Ma servono delle “larghe intese”», è l’incipit del pezzo di Emanuele Giordana: questo avviene per il sistema elettorale, che però – come spiega Massimo Morello – incide solo tangenzialmente, perché in realtà l’approccio thailandese è in grado di aggirare e rendere possibile ciò che la società sente e finisce con l’imporre.


L’aria di rinnovamento che spira a Bangkok…

Il Move Forward Party e il Pheu Thai, due organizzazioni che incarnano l’opposizione tailandese a un’imperfetta democrazia gestita da militari in doppiopetto, sono i due partiti più votati della Thailandia. Hanno vinto le elezioni di domenica scorsa e hanno subito formato una coalizione promossa del Move Forward che dovrebbe assicurare 309 voti al futuro governo, ben oltre la maggioranza richiesta di 250 seggi alla Camera Bassa per poter proporre un nuovo gabinetto. Ma non è così semplice formare un governo in Thailandia.
Trecentosettantasei è il numero su cui si gioca il futuro politico della Thailandia dopo che i risultati del voto di domenica hanno dato la maggioranza ai due maggiori partiti di opposizione umiliando quelli legati ai generali, che per un decennio hanno tenuto in scacco la fragile democrazia siamese. La somma aritmetica e costituzionale che il futuro gabinetto deve ottenere dal voto a Camere riunite è infatti 376.

IL PROBLEMA è che le due Camere, il cui totale fa 750 scranni, sono assai diverse: la nuova Camera Bassa infatti si formerà sulla base del voto del 14 maggio, assicurando poco meno di 300 seggi ai due partiti di opposizione che hanno de facto vinto le elezioni: il Move Forward e il Pheu Thai. Ma la Camera Alta, il Senato dell’imperfetta monarchia costituzionale tailandese, è invece di nomina militare. I 500 voti dell’Assemblea – dove ha vinto l’opposizione – sommati ai 250 del Senato richiedono dunque una maggioranza di 376 voti perché il premier in pectore e il suo governo passino l’esame del parlamento. In buona sostanza i partiti dei militari, dei generali Prayut e Prawit – entrambi ex premier – possono farcela pur avendo raggranellato un’umiliante percentuale (meno di 80 seggi) in un’elezione che, a sorpresa, ha premiato il partito Move Forward di Pita Limjaroenrat (151 seggi) che i sondaggi non davano così in alto nei cuori dei tailandesi; è un partito che vuole riformare la legge durissima che punisce chi critica il re (articolo 112 della Costituzione) ed è un partito che vuole migliorare il welfare. Piace ai giovani ma anche agli imprenditori. Quanto ai senatori però, secondo il “Bangkok Post”, non avrebbero nessuna intenzione di approvare la candidatura di un “antimonarchico” per quanto blando, Ma, mai dire mai. C’è chi potrebbe invece farci un pensierino.
Sarà una marcia longa anche se poi tutto si giocherà a breve: nella capacità del Move Forward di tenere insieme la coalizione appena annunciata con altri 5 partiti, tra cui ovviamente Pheu Thai (in dote porta 141 seggi), di cooptare magari altri cespugli o nella possibilità che si formi alla fine un governo di “larghe intese” che faccia leva anche su parte delle minoranze. O ancora che qualcuno nel Senato, fiutando l’aria che tira, non cambi casacca. All’orizzonte dunque ci sono molte incognite e forse molte sorprese. Compresa l’ombra dell’ennesimo golpe anche se tutti lo ritengono ormai improbabile. E il re? Il monarca attuale, non molto amato nel regno, vorrà dire la sua?

QUEL CHE È CERTO è che dal 14 maggio la Thailandia respira un’aria diversa a cominciare da una partecipazione al voto di oltre il 70% degli aventi diritto. Move Forward poi, erede di un partito espulso dal parlamento e senza ombra di dubbio progressista, ha superato le aspettative: col voto giovanile, col voto di chi non vuole una Paese a democrazia limitata e una monarchia intoccabile, col voto di chi non crede nelle ricette neoliberiste del Pheu Thai (che si ispira al tycoon Thaksin Shinawatra che a capo del partito ha messo la figlia Paetongtarn), col voto di chi è stufo di dinastie, stellette e di un’asfittica libertà vigilata. Ora bisogna vedere se la neo coalizione (310 voti) terrà la strada. Ma una cosa è certa: essendo chiaro che il vincitore è Pita, e con lui l’opposizione, qualsiasi tentativo di scavalcarli non andrebbe liscio come in passato. Fuori dai palazzi c’è una piazza che ha già dimostrato – anche col voto – di voler un cambio.

… quell’aria potrebbe soffiare anche altrove in Asean?

VISTE DALL’EUROPA le elezioni thai possono forse sembrare solo un esotico balletto da cui dipende il destino di 70 milioni di sudditi. Ma visto dall’Asia il voto ha ben altro sapore. Queste elezioni sono state seguite con apprensione dall’India – dove ci troviamo – all’Indonesia, ora presidente di turno dell’Asean, l’organizzazione regionale dove siede – benché sotto schiaffo – anche il Myanmar. Al cambio di vertice a Bangkok corrisponderebbe un cambio di marcia verso la giunta birmana. Pita ha già detto – facendo felice Giacarta – che sosterrà l’Asean e la sua mediazione in 5 punti il che vorrebbe dire forse accantonare l’iniziativa (Track 1.5), caldeggiata da Delhi, che aveva il compito di ammorbidire i rapporti con la giunta. Destinati quindi a inasprirsi. Pita lo ha chiarito a poche ore dai primi risultati mostrando di avere idee molto chiare sulla democrazia. E non solo su quella tailandese. «Sarò premier», ha detto. In molti ci sperano.


A corredo di questa precisa analisi del voto di Emanuele siamo andati a Bangkok a incontrare Massimo Morello per collocare questo risultato nel contesto che lo ha reso possibile e nelle parole del reporter che vive da 15 anni nella capitale siamese si coglie l’intuizione che si tratti della scvolta che la generazione Z sia riuscita a imporre la modernizzazione del costume troppo stretto e anacronistico che la tradizione impone con le sue strutture sistemiche, travolte dallo spirito del paese.

“Move Forward è una vera rivoluzione del costume thai”.

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Cronache dalla terra del Quetzal https://ogzero.org/cronache-dalla-terra-del-quetzal/ Tue, 09 May 2023 23:18:54 +0000 https://ogzero.org/?p=11000 Si tratta di oblio – ed è possibile una rimozione collettiva così pesante, vista la quantità di lutti e soprattutto cenotafi che il regime di Rios Montt fece neanche tanti anni fa – oppure, come anche si evince dalla costituente cilena infarciti di arnesi della peggiore estrema destra, la politica non solo latinoamericana si costruisce […]

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Si tratta di oblio – ed è possibile una rimozione collettiva così pesante, vista la quantità di lutti e soprattutto cenotafi che il regime di Rios Montt fece neanche tanti anni fa – oppure, come anche si evince dalla costituente cilena infarciti di arnesi della peggiore estrema destra, la politica non solo latinoamericana si costruisce senza memoria storica e si fonda sull’immediato presente e le sue esigenze; un dibattito solo racchiuso nel recinto dei bisogni fissati dalla propaganda e dall’agenda imposta dal neoliberismo, che si basa sul costante e repentino ribaltamento degli orientamenti di una cittadinanza disorientata e resa sempre più omologata dal retrocedere delle grandi narrazioni, sostituite da populismi nazionalisti e corrotti, soprattutto laddove il degrado della democrazia è più palpabile e la libertà di espressione soffocata.
Diego Battistessa al termine di questo intervento su Radio Blackout (@rbo10525),
che inquadra l’oscillazione ondulatoria del consenso politico latinoamericano, segnala quel processo come travolgente per ogni paese chiamato alle urne in questo periodo e il flusso migratorio con il venir meno del Tituolo42 (e il Tren Maya) raggiungerà i confini del Guatemala, pronto a una tornata elettorale che non può essere persa dagli Usa in termini di contrasto alla immigrazione.

Ascolta “¿Desgaste de la izquierda en América Latina?” su Spreaker.


Temi e deliri securitari in mesoamerica

In questo periodo si parla molto nella stampa internazionale di America Centrale. Sulle prime pagine delle più note testate mondiali spicca l’immagine di un impavido Nayib Bukele che con pugno fermo (e sospendendo le libertà costituzionali) ferisce a morte le sanguinarie Maras diventando, come sancito dal sondaggio di Gallup a gennaio 2023, il politico più popolare dell’America Latina con un consenso del 92%. Segue la saga in Nicaragua di Daniel Ortega e della sua compagna Rosario Murillo, rispettivamente presidente e sua vice, che hanno oramai sequestrato il paese e che sono stati accusati il 6 marzo scorso (da un consiglio di esperti nominati dall’Onu) di crimini contro l’umanità; oltre che di una spietata e sistemica repressione del dissenso. Non mancano le prime pagine dei giornali neanche per Xiomara Castro, presidentessa dell’Honduras che da un lato prova a seguire le orme di Bukele nel delirio di securitarizzazione del paese e dall’altro prova a aprire degli spiragli per i diritti delle donne: l’8 marzo scorso Castro ha firmato il decreto legge 75-2023, che garantisce e promuove la libera diffusione, accesso, acquisto e vendita della Pillola anticoncezionale d’emergenza (Pae) in Honduras. Del Belize nemmanco si parla, ma questa non è una stranezza in quanto si tratta di un paese con una popolazione che non supera i 400.000 abitanti e che ha un passato coloniale diverso dal resto della regione: era infatti conosciuto come l’Honduras britannico ed è diventato indipendente solo nel 1981 – anche se continua a fare parte del Commonwealth e il suo capo di stato è il sovrano del Regno Unito, re Carlo III. Ma in questo “gran parlare” di America Centrale, che include anche Costa Rica e Panama soprattutto per i flussi migratori provenienti dal corridoio del Darién, “brilla” un grande assente: il Guatemala.

Si scrive Guatemala, si legge desaparición y migracion

Il Guatemala è un paese dal basso profilo eppure strategico per gli equilibri regionali, un paese che condivide una lunga frontiera con il Messico (quasi 1000 chilometri) e che possiede un oscuro passato e un futuro sempre più incerto. Tra poche settimane, il 25 giugno, infatti, nella terra nella quale nacque (triste primato) la parola desaparecido, si celebreranno le elezioni presidenziali, un appuntamento cruciale che riporta sulla scena i fantasmi della dittatura e del genocidio indigeno del Ventesimo secolo. Con tutti i desaparecidos che il periodo ha prodotto.

Questa pratica efferata nasce negli anni Sessanta in America Centrale, per mano delle forze militari. Un metodo repressivo, usato già nel 1932 nel Salvador dal regime di Hernández Martínez ma che trova la sua vera e propria genesi in Guatemala tra il 1963 e il 1966. Ana Lucrecia Molina Theissen, nel suo libro La desaparición forzada en America Latina (La sparizione forzata in America Latina) ci racconta che dopo il suo primo utilizzo massivo, la pratica si estese a macchia d’olio negli stati di El Salvador, Cile, Uruguay, Argentina, Brasile, Colombia, Perù, Honduras, Bolivia, Haiti e Messico.
Amnesty Internacional e Fedefam (Federación Latinoamericana de Asociaciones de Familiares de Detenidos-Desaparecidos) hanno denunciato che in poco più di 20 anni, dal 1966 al 1986, circa novantamila persone siano state vittima di questa orribile pratica in America Latina (che continua ancora oggi). Per i perpetratori è il delitto perfetto: se non si trova la vittima non c’è colpevole e quindi non c’è delitto. Una logica folle e inumana che ha seminato di morte, e continua a farlo, la regione latinoamericana.

Quei fantasmi tornano: tra i 23 candidati alla presidenza ammessi dal Tribunale supremo elettorale (Tse) del Guatemala si trova Zury Mayté Ríos Sosa.

Un nome che in Italia potrebbe non dire molto ma che ai chapines (soprannome colloquiale, oggi non dispregiativo, con il quale si identifica la gente del Guatemala) ricorda invece un periodo ben preciso della loro storia recente. La 55enne guatemalteca infatti (quattro volte consecutive eletta come deputata nel Congresso del Guatemala, dal 1996 al 2012)  non è una candidata qualunque, visto che è la figlia del militare e dittatore guatemalteco Efraín Ríos Montt, morto nel 2018. E nonostante esista una legge in Guatemala che esclude l’elezione a presidente per i consanguinei dei dittatori (articolo 186, comma C della Costituzione), il suo tramite burocratico è stata una pura formalità per il Tribunale supremo elettorale (Tse). In realtà Zury ci aveva già provato in precedenza, nel 2011 (anche se dopo aver avviato la campagna elettorale, non partecipò alle elezioni), nel 2015 e poi nel 2019, quando però una risoluzione della Corte Costituzionale (CC) la estromise dal processo elettorale proprio in base all’articolo 186.

Una campagna elettorale già partita con indizi di frode

Il Guatemala si avvicina a un processo elettorale dove non sono garantite le libertà costituzionali e dove la giustizia ha operato  come filtro per escludere possibili candidature alla presidenza che risultano scomode all’attuale dirigenza del paese centroamericano. Le elezioni sono previste per il prossimo 25 giugno e tra le candidature bocciate c’è quella di Thelma Cabrera, leader indigena maya Mam, attivista per la difesa dei diritti umani (già candidata alla presidenza nel 2019 dove ottenne il 4° posto con il 10,37 % dei voti), che si presentava in coppia con l’ex procuratore nazionale per i diritti umani, Jordán Rodas. Entrambi sono membri del partito politico di sinistra Movimento per la liberazione dei popoli (Mlp) e hanno già incontrato la Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) a Washington per denunciare questa situazione. Proprio la Cidh ha diffuso un comunicato in merito, nel quale invita lo Stato guatemalteco «a garantire i diritti politici, il pluralismo e la pari partecipazione al processo elettorale», sottolineando come le autorità giudiziarie competenti debbano agire in conformità con il quadro normativo e gli standard interamericani. Anche Human Rights Watch, congiuntamente al Washington Office on Latin America, ha lanciato un allarme, avvertendo che la decisione del Tse del Guatemala di impedire la partecipazione di alcuni candidati alle elezioni presidenziali di giugno 2023 si basa su motivi dubbi, mette a rischio i diritti politici e mina la credibilità del processo elettorale nella sua totalità. Il caso del binomio Thelma Cabrera – Jordán Rodas è arrivato anche al parlamento europeo, dove la coppia il 21 marzo ha potuto esporre le proprie ragioni e denunciare l’abuso del Tse, che ha determinato la loro esclusione, ottenendo l’appoggio di vari eurodeputati. Cabrera e Rodas non sono però i soli. A fare scalpore è anche l’esclusione dall’arena elettorale di Roberto Arzú, imprenditore e uno dei candidati della destra, colpevole, secondo il Tse, di aver violato le regole che vietano di iniziare la campagna elettorale prima della data ufficiale prevista, in questo caso il 27 marzo scorso.

Il retrocesso democratico del Guatemala

«Il presidente Alejandro Giammattei e i suoi alleati hanno velocizzato e reso ancora più profondo il deterioramento della democrazia in Guatemala, in un evidente sforzo congiunto per mantenere l’impunità rispetto alla diffusa corruzione ad alti livelli dello stato. Le autorità, agendo spesso in coordinamento con alcuni uomini d’affari, hanno minato lo stato di diritto e indebolito le garanzie sui diritti umani. L’ufficio del procuratore generale ha bloccato le indagini sulla corruzione e le violazioni dei diritti umani e ha avviato procedimenti arbitrari contro giornalisti, pubblici ministeri e giudici indipendenti. Giornalisti e difensori dei diritti umani continuano a subire vessazioni e violenze. Gli abusi contro i migranti, la scarsa protezione delle persone lgbtqi e gli alti livelli di povertà, soprattutto nelle comunità indigene, continuano a destare seria preoccupazione».

Quanto avete appena letto è il paragrafo d’inizio della scheda paese di Human Rights Watch, un quadro disarmante rispetto alle libertà civili e allo stato di salute della democrazia nel paese centroamericano. Un paese dove 3 degli ultimi 7 presidenti hanno avuto gravi problemi con la giustizia: Alfonso Portillo (2000-2004), detenuto negli Stati Uniti, Álvaro Colom (2008-2012) arrestato e imprigionato nel 2018 per la sua presunta relazione con un caso di frode e appropriazione indebita (morto il 23 gennaio di quest’anno) e Otto Pérez Molina (2012-2015), condannato a 16 anni di carcere nel 2022 per associazione illecita e frode doganale. Un degrado, quello della democrazia in Guatemala, che  è dimostrato anche da diversi indicatori che danno conto di una situazione al collasso. Oltre alle ingerenze nel processo elettorale del Tse, i dati di Trasparency International sulla percezione della  situazione della corruzione nel paese sono in peggioramento (il Guatemala si trova al 150esimo posto su 180 paesi). Anche il dossier sulla libertà di stampa a livello mondiale del 2022 di Reporter senza Frontiere aiuta a delineare il quadro di una situazione molto precaria. Infatti anche in questa classifica il Guatemala si trova in una pessima posizione (124esimo posto). Nel documento si sottolinea che, nonostante la libertà di espressione sia garantita dalla Costituzione, questo diritto è costantemente violato dalle autorità e dagli attori politici. I giornalisti e gli organi di stampa che indagano o criticano atti di corruzione e violazioni dei diritti umani spesso subiscono rappresaglie, come campagne di discredito e procedimenti penali.

Il pericolo di essere periodista

Questo però non ha frenato la stampa indipendente che in Guatemala come in tutta l’America centrale, vede grandi professionisti e professioniste rischiare la propria integrità fisica per mantenere viva la libertà di stampa. E uno degli esponenti di questo giornalismo coraggioso e implacabile è sicuramente Marvin Del Cid (che ho avuto il privilegio di conoscere ad aprile di quest’anno nel mio ultimo viaggio in Guatemala) che insieme a Sonny Figueroa ha pubblicato nel 2021 un libro che è già “cult”. Si tratta di ¡Yo no quiero ser reconocido como un hijueputa más! (Io non voglio essere riconosciuto come un altro figlio di puttana) un titolo che è tutta una provocazione e che cita testualmente quanto pronunciato da Alejandro Giammattei, in un discorso elettorale nel 2019. Un documento letterario che racchiude 15 reportage di giornalismo d’inchiesta pubblicati sui giornali digitali “Artículo 35” e “Vox Populi” e che passano ai raggi X quelli che furono i primi 12 mesi della gestione Giammattei. Due giornali che sono il riferimento di quanti vogliono vedere chiaro nei meandri di un paese storicamente in mano a poche famiglie (oscenamente ricche come le famiglie Gutiérrez Bosch, Castillo, Herrera, Paiz, Novella e López Estrada), che hanno il potere di muovere i fili della politica e dell’economia nazionale.

Come siamo arrivati a questo punto: un viaggio nella memoria

Per raccontare come in una terra così ricca di storia e cultura come il Guatemala, siamo arrivati a una deriva (senza ritorno?) come quella di oggi prendo in prestito le parole, quasi poetiche e premonitorie, che il professore cubano di storia, René Villaboy Zaldivar, scrisse nel dicembre 2019 e che potete trovare qui o a pagina 172 del libro Historia e Cultura de la Madre América:

«Il Guatemala, noto come la terra del Quetzal, mostra attualmente tassi allarmanti di povertà, disuguaglianza sociale, malnutrizione infantile e un’impressionante convivenza con la violenza e la criminalità organizzata. Le tante risorse naturali del paese vengono divorate dai proprietari terrieri locali, dalle compagnie straniere che costruiscono centrali idroelettriche, lasciando le comunità senz’acqua e uccidendo la ricca biodiversità, e il tutto con la complicità o l’ammissibilità di uno Stato corroso dalla corruzione in tutti i suoi poteri. e livelli.
Paese che ha ospitato la grande civiltà maya, patria di Miguel Ángel Asturias, Premio Nobel per la Letteratura, e Rigoberta Menchú, Premio Nobel per la Pace, la sua triste realtà attuale, contrasta con gli ideali che hanno spinto una parte dei suoi figli a imbracciare le armi per costruire un paese diverso . Dal 1979, sotto l’impatto diretto della vittoria del Fronte Sandinista in Nicaragua, la guerriglia è stata riorganizzata in Guatemala e fino al 1996 questo è stato il cammino di un gruppo di organizzazioni progressiste per cercare di trasformare l’ingiustizia sociale che prevaleva allora e continua a prevalere in questa nazione dolente. Durante tutti questi anni, le forze repressive dell’Esercito e dei suoi gruppi paramilitari hanno commesso ogni tipo di violazione dei diritti umani e massacri contro la popolazione civile, che consideravano il principale sostegno della guerriglia».

Ma Villaboy ci porta ancora più indietro perché il Guatemala è stato uno dei primi esperimenti delle politiche intervenzioniste degli Usa in America Latina.  La cosiddetta Dichiarazione di Caracas” (Decima Conferenza interamericana, Caracas del 1954) che avvenne in Venezuela nel contesto della dittatura di Marcos Pérez Jiménez (1953-1958), inventata a contenimento della presunta minaccia comunista sull’integrità politica degli stati americani, è infatti un chiaro esempio di come il postulato della lotta contro il comunismo locale e internazionale nel contesto della “guerra fredda” portò a un avvicinamento degli Stati Uniti ai populismi militari dell’epoca con una politica di intervenzionismo feroce e sanguinario a protezioni di precisi interessi, come quello della United Fruit Company.

Stralci della dichiarazione

Considerando che le repubbliche americane, alla IX Conferenza internazionale americana, dichiararono che il comunismo internazionale,
per la sua natura antidemocratica e per la sua tendenza interventista, è incompatibile con la concezione della libertà americana,
e decisero di adottare, nei rispettivi territori, le misure necessarie per sradicare e prevenire le attività sovversive;

Condanna le attività del movimento comunista internazionale, in quanto costituenti un intervento negli affari americani;
Esprimere la determinazione degli Stati d’America a prendere le misure necessarie per proteggere la loro indipendenza politica
contro l’intervento del comunismo internazionale, che agisce nell’interesse di un dispotismo straniero
.

Continua Villaboy spiegando che «dalla cosiddetta Rivoluzione d’Ottobre del 1944, interrotta dall’intervento diretto degli Stati Uniti nel 1954, dopo il rovesciamento del presidente Jacobo Arbenz, il Guatemala cadde nelle mani di persone prive della volontà di attuare veri cambiamenti per risolvere la grave crisi economica che il paese centroamericano viveva. In un contesto di stimolo alle lotte rivoluzionarie con mezzi armati, alla fine degli anni Settanta le principali organizzazioni di guerriglia che si erano formate ispirandosi prima dalla Rivoluzione cubana, e poi dalla vittoria sandinista, raggiunsero una maggiore organizzazione militare e politica».

Gli anni di repressione violenta

Cominciarono così gli anni di violenza che scatenarono una guerra all’ultimo sangue dell’Esercito contro il movimento rivoluzionario locale. I numerosi omicidi di leader sociali e il brutale assalto all’ambasciata spagnola (31 gennaio 1980), dove si rifugiarono contadini e indigeni quiches, la maggior parte dei quali furono bruciati vivi, furono segni della decisione del governo e delle sue forze armate di mantenere l’ordine stabilito dalle classi dirigenti.
Le Forze Armate Ribelli (Far), l’Esercito Guerriglia dei Poveri (Egp), l’Organizzazione del Popolo in Armi (Orpa) e una parte del Partito Laburista Guatemalteco (Pgt) diedero vita all’Urng nel febbraio 1982. Allo stesso tempo, venne strutturato il Comitato guatemalteco di unità patriottica (Cgup), che riunì personalità politiche e sociali di spicco che erano sostenitori della lotta armata. Poche settimane dopo un colpo di stato insediò il generale Efraín Ríos Montt, che riorientò l’esercito verso un profilo più repressivo e controinsurrezionale, integrato da mostruosità paramilitari come pattuglie civili e i cosiddetti “villaggi strategici”. I massacri contro le popolazioni indigene divennero una pratica frequente dei militari e del suo corpo d’élite, i kaibiles. Il ripristino della democrazia nel gennaio 1986, con l’elezione di Vinicio Cerezo, cercò di limitare gli eccessi dell’Esercito, in un impegno assecondato anche dai suoi successori, Jorge Serrano Elías e Ramiro León Carpio, mentre però il conflitto armato continuava.
Ecco dunque che nel racconto di René Villaboy Zaldivar appare uno dei protagonisti indiretti del processo elettorale del prossimo 25 giugno, quell’ Efraín Ríos Montt che oggi vede sua figlia tra le favorite (la quarta negli ultimi sondaggi) alla guida del Guatemala.

Il viaggio nella memoria del Guatemala, del professore di Storia cubano, termina con «l’ascesa al potere del magnate Álvaro Arzú, che nel 1996, mise sul tavolo il negoziato di pace con le principali forze della guerriglia, in un contesto in cui il vero socialismo era scomparso e Cuba resisteva alle devastazioni del cosiddetto “Periodo Speciale”. In questo modo, con il sostegno dell’Onu e di paesi come la Norvegia e il Messico, si arrivò alla firma della pace. Il 29 dicembre 1996 si conclusero lunghi anni di conflitto armato con un bilancio stimato di oltre 150.000 morti e 50.000 dispersi».

Importanza strategica del Guatemala in vista delle elezioni

Il solo fatto che Zury Rios sia stata ammessa come candidata per le elezioni presidenziali che si decideranno a giugno è un chiaro segnale dei gravi problemi che attraversa la democrazia guatemalteca. Una donna espressione di un sistema elitista che continua a discriminare e disprezzare la radice indigena di questa terra millenaria ricca di conoscenza e saperi ancestrali. La violenza continua a essere presente, così come l’impunità e la corruzione: le estorsioni alle imprese sono all’ordine del giorno così come denunciato da “Deutsche Welle” in questo articolo. I traffici di influenza sono all’ordine del giorno, come denunciato per esempio da “Vox Populi” che segnala una triangolazione sospetta proprio tra Rios, il suo partito Valor e membri del Tse. Il Guatemala ha già dimostrato di essere un paese strategico per gli Stati Uniti che devono provare a fermare il prossimo (e già preannunciato) enorme flusso migratorio in arrivo alla frontiera Sud (lungo il Rio Grande). L’11 maggio è infatti prevista la sospensione definitiva del titolo 42 da parte dell’amministrazione Biden (norma eredità della presidenza Trump che permetteva per motivi sanitari l’espulsione immediata dei migranti dagli Usa) e ci sarà bisogno per lo ZIO SAM, oltre alla “collaborazione” del Messico anche di quella del Guatemala per far diventare quei 1000 chilometri di frontiera un primo grande muro per fermare chi cerca l’American Dream. Da parte nostra è fondamentale rimanere informati e non lasciare sole quelle persone, tante, che credono ancora in una Guatemala migliore. Dall’Italia, una delle figure più preparate e rigorose che apre delle finestre su questa complessa e affascinante terra è sicuramente la giornalista Simona Carnino. (proprio ora in Guatemala), che vi invito a seguire. Nel frattempo, mentre aspettiamo il verdetto delle urne non possiamo non essere d’accordo con la considerazione di Villaboy che constata come

«i proiettili non si sono fermati nella terra del Quetzal, perché i proiettili dell’insicurezza, della mancanza di opportunità e della disuguaglianza continuano a privare centinaia di guatemaltechi della vita».

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n. 1 – Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e il conflitto russo-ucraino https://ogzero.org/n-1-il-consiglio-di-sicurezza-dellonu-e-il-conflitto-russo-ucraino/ Sat, 06 May 2023 10:52:27 +0000 https://ogzero.org/?p=10924 Questo saggio di Fabiana Triburgo inaugura una serie di contributi che analizzano con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come il Consiglio di Sicurezza che è l’organo più importante delle Nazioni Unite e che ha potere decisionale in ambito militare e sugli armamenti a livello internazionale, e come le Corti internazionali e quelle regionali; la serie […]

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Questo saggio di Fabiana Triburgo inaugura una serie di contributi che analizzano con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come il Consiglio di Sicurezza che è l’organo più importante delle Nazioni Unite e che ha potere decisionale in ambito militare e sugli armamenti a livello internazionale, e come le Corti internazionali e quelle regionali; la serie continuerà con la descrizione del processo di alcuni stati di l’adesione all’Unione europea (anch’essa un organismo a carattere internazionale e sovranazionale). Sarà interessante vedere nel tempo – se finirà l’attuale follia bellica – che cosa rimarrà dell’Europa e capire quali sono le possibili porte girevoli da cui accedere all’Unione.

Questo primo intervento parte dal conflitto russo-ucraino per spiegare lo scopo della Carta delle Nazioni Unite, la fisionomia del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e le contraddizioni insite nelle normative che ne regolano l’attività, considerando il potere di veto per esempio della Russia quale membro permanente.


“Dove sono le Nazioni Unite?”. La domanda in riferimento alla guerra russo-ucraina che sta assumendo ogni giorno le dinamiche e i tratti salienti di un confitto internazionale, anche se principalmente per procura – sia mediante la fornitura di armi che di truppe di nazionalità diverse da quelle coinvolte direttamente nel conflitto – sembra il quesito maggiormente ricorrente, da oltre un anno, nell’opinione pubblica. La questione è invero l’emblema di quel divario – quasi mai colmato – tra quanto viene percepito dalla popolazione degli stati e quanto si determina attraverso il tecnicismo proprio dei “grandi palazzi del potere”, siano pur essi quelli di un’organizzazione internazionale quale l’Onu che detiene il primato tra quelle maggiormente rappresentative dell’intera comunità internazionale e quindi dei singoli stati che di essa fanno parte. La Carta delle Nazioni Unite, infatti, è un trattato internazionale, ma, dando vita a un complesso di organi preposti al suo interno – tra cui il Consiglio di Sicurezza, l’Assemblea Generale, il Segretariato Generale e la Corte di Giustizia internazionale – è considerata in dottrina anche una Costituzione [B. Conforti e C. Focarelli, Le Nazioni Unite, 12a edizione].

La Storia e la Carta delle Nazioni Unite

L’immobilismo apparente in una svolta risolutiva del conflitto ucraino (ma anche di altri al momento in corso) da parte dell’Onu è dovuto a questioni tutt’altro che ovvie o di facile comprensione tanto che sul tema attualmente sono aperti ampi e contrastanti dibattiti riguardanti la revisione della Carta delle Nazioni Unite, in modo particolare rispetto al funzionamento e alla composizione del suo organo più importante ossia il Consiglio di Sicurezza.

Secondo l’art. 24 della Carta esso è l’organo dell’Onu principalmente demandato al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale – uno degli scopi fondamentali della Carta elencati all’art. 1 –  potere conferitogli dagli stessi stati membri, con la possibilità di agire in loro nome.

È infatti necessario fin da subito sottolineare che lo scenario geopolitico che ha visto l’emanazione della Carta delle Nazioni Unite nel 1945 – nel corso della Conferenza di San Francisco – era completamente diverso rispetto all’attuale assetto internazionale per cui da 50 stati membri iniziali dell’organizzazione si è oggi arrivati a un numero di ben 193 paesi. Ciò è principalmente dovuto alla fine di numerosi colonialismi, alla dissoluzione dell’Unione sovietica e al conflitto dell’ex Jugoslavia, tutti fenomeni che hanno contribuito – pur se in modo molto diverso tra loro – alla formazione di nuove entità statali, dotate di una propria sovranità e indipendenza. Se rispetto alla rappresentanza degli stati, formatisi in seguito al venir meno dei colonialismi, si è data risposta nella Carta con l’emendamento che ha visto negli anni Sessanta l’estensione in seno al Consiglio di Sicurezza del numero dei suoi membri non permanenti, non si è invece ancora risolta la vicenda relativa a un ulteriore aumento della rappresentanza nel Consiglio di Sicurezza degli stati del continente africano e asiatico – che rivendicano il primato dell’indice demografico internazionale – e soprattutto quella concernente l’enorme divario, in termini di poteri esercitati in concreto, tra i membri permanenti del Consiglio – ossia le 5 potenze vincitrici la Seconda guerra mondiale quali Urss, Cina, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna e i membri non permanenti, attualmente 10, rispetto ai 6 iniziali – nominati a rotazione tra tutti i membri delle Nazioni Unite ogni biennio – dopo la succitata modifica dell’art. 23 della Carta nel 1965.

Il diritto di veto

La principale questione quindi da affrontare per comprendere meglio le ragioni del mancato intervento diretto del Consiglio di Sicurezza rispetto al conflitto russo-ucraino, dato il suo ruolo di “custode” della pace e della sicurezza internazionale e considerato che esso dall’inizio del conflitto si è riunito oltre venti volte, è quella del diritto di veto. Esso infatti consiste nel potere, conferito ai cinque membri permanenti del Consiglio, secondo il quale l’espressione del parere contrario di uno soltanto di tali stati è in grado di fermare una proposta di risoluzione presentata in seno a tale organo, addirittura nell’ipotesi in cui non solo siano favorevoli tutti i membri non permanenti ma anche qualora siano comunque favorevoli all’adozione della decisione tutti gli altri quattro membri permanenti. L’unica ipotesi nella quale ciò non avviene è quando il Consiglio si riunisce per deliberare in merito a questioni di carattere procedurale e non sostanziale come per esempio l’inserimento all’ordine del giorno di una determinata questione o nell’ipotesi in cui il Consiglio ritenga necessario convocare l’Assemblea generale – organo plenario in cui sono rappresentati tutti gli stati membri –  in “sessione speciale” (art. 20) – che, come vedremo, è accaduto diverse volte in conseguenza dell’invasione russa dell’Ucraina nel 2022.

È bene ricordare che tale richiesta non veniva avanzata dal Consiglio da circa 40 anni.

Infatti, il periodo emblematico durante il quale l’attività del Consiglio fu quasi del tutto immobilizzata fu quello della Guerra Fredda, per cui spesso – essendo Russia e Stati Uniti entrambi membri permanenti – si verificava il cosiddetto sistema dei “veti incrociati” mediante il quale i paesi del blocco occidentale (Usa, Francia e Gran Bretagna) si contrapponevano all’allora Unione Sovietica o più in generale ai paesi socialisti e viceversa. Vale la pena quindi ricordare che attualmente – considerato l’aumento dei membri non permanenti dopo un ventennio dall’emanazione della Carta – la maggioranza richiesta affinché venga adottata una delibera su aspetti di carattere sostanziale in seno al Consiglio è quella di almeno nove membri, compresi tutti e cinque i membri permanenti. Nel caso invece di una delibera riguardante questioni di carattere procedurale è sufficiente la maggioranza di nove membri, senza la necessità dell’unanimità dei membri permanenti del Consiglio, poiché il diritto di veto in quest’ultima ipotesi non opera. Quindi in primo luogo il Consiglio di Sicurezza dell’Onu – la cui presidenza di turno è stata assunta dal primo aprile 2023 proprio dalla Federazione Russa – non riesce a intervenire con effetti diretti nel conflitto russo-ucraino proprio per il diritto di veto. Al riguardo si rammenta che l’unica proposta di risoluzione del Consiglio di Sicurezza, rispetto al conflitto in questione, ad essere stata adottata – dall’inizio del conflitto – è quella del 6 maggio del 2022.

La minaccia alla pace

La risoluzione è stata approvata all’unanimità da tutti i membri del Consiglio di Sicurezza e quindi con il voto favorevole anche della Russia. Con la succitata risoluzione proposta da Norvegia e Messico si sostengono gli sforzi del Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres a trovare una soluzione pacifica nelle circostanze in questione;

tuttavia rispetto a tale risoluzione la Russia non ha posto il veto in quanto è l’unica risoluzione presentata dinanzi al Consiglio nella quale non vi è alcun riferimento nel testo né alla parola “guerra” né alla parola “invasione”.

L’esercizio del diritto di veto comporta poi anche una serie di conseguenze come per esempio il fatto che la Federazione Russa non possa essere destinataria delle misure coercitive ex art. 41 e  42 della Carta (Capitolo VII) decise appunto dal Consiglio contro determinati stati nell’ipotesi in cui esso stesso rileva sussistere una «minaccia alla pace», una «violazione della pace» o ancora un «atto di aggressione» (art. 39), ossia quelle condotte che potrebbero dirsi integrate con l’invasione armata dell’Ucraina da parte della Federazione Russa. Vale la pena ricordare che quando il Consiglio ha voluto applicare le sanzioni di cui al Capitolo VII ha sempre richiamato la «minaccia alla pace» che può consistere in un conflitto attuato o minacciato in situazioni di violenza bellica o diverse da questa.

Definire l’“aggressione”

Rispetto all’individuazione di queste ultime il Consiglio di sicurezza può trarre indicazioni dalle risoluzioni dell’Assemblea generale e quindi più precisamente dal consenso informale degli stati che viene valutato dal Consiglio caso per caso. Nel corso della storia il Consiglio di Sicurezza ha ritenuto rientranti nel concetto di “minaccia alla pace”: la repressione irachena dei curdi nel 1991, il genocidio e l’uccisione di civili in Ruanda nel 1994, gli attentati terroristici avvenuti a Istanbul nel 2003, quelli di Madrid nel 2004 e quelli di Londra e in Iraq nel 2005, così come le violazioni gravi e sistemiche dei diritti umani e del diritto internazionale nel Kosovo nel 1999. La minaccia alla pace non deve confondersi con la «minaccia o dell’uso della forza» vietate dall’art. 2 par. 4 in modo del tutto generico e indeterminato. Per violazione della pace ex art. 39, invece, si intende un conflitto interno o internazionale già in atto, anche nel caso in cui non sia stato raggiunto il livello più grave di aggressione. Infine, per la definizione di aggressione deve essere richiamata la risoluzione dell’Assemblea generale n. 3314 del 1974 che in tale termine ha annoverato un ampio numero di casi come l’invasione, l’occupazione militare, il bombardamento da parte di forze terrestri o navali, il blocco dei porti e delle coste o l’invio di forze irregolari o di mercenari da parte di uno stato verso l’altro.

È interessante però rilevare che il Consiglio di Sicurezza dal 1945 a oggi non ha mai dichiarato il compimento di un atto di aggressione ex art. 39, ma ha sempre preferito parlare di “violazione della pace” anche nelle ipotesi nelle quali si è verificato un vero e proprio atto di aggressione come nel caso dell’invasione del Kuwait nel 1991. Con il termine “pace” si intende poi in via interpretativa sia l’assenza di conflitti di caratteri interstatali o interni sia l’insieme di circostanze politiche, sociali ed economiche che impediscono l’insorgere di conflitti futuri. Quanto sovraesposto è di particolare rilevanza se si considera che il conflitto russo-ucraino sembrerebbe integrare –  con riferimento all’elenco contenuto nella succitata risoluzione n. 3314 del 1974 – un atto di aggressione.

Misure coercitive (prive di uso della forza)

Con riferimento alle misure coercitive di cui sopra, all’art. 41 sono previste quelle non implicanti l’uso della forza – adottate dal Consiglio di Sicurezza mediante decisioni – che tendono per lo più a isolare a livello internazionale un paese che ha posto in essere una condotta rilevante ai sensi dell’art. 39. Tra le misure di cui all’art. 41 si annoverano, infatti, l’interdizione parziale e totale delle relazioni economiche, l’interdizione delle comunicazioni come per esempio quelle ferroviarie, postali e marittime e la rottura delle relazioni diplomatiche. Si ricorda che tali misure, come quelle implicanti l’uso della forza nei confronti degli stati – di cui al successivo art. 42 – devono essere rispettate non solo dal paese che ne è diretto destinatario ma anche dagli altri stati membri delle Nazioni Unite ai sensi dell’art. 25.

L’uso della forza

Le misure implicanti l’uso della forza ex art. 42, invece, vengono decise mediante delibere operative del Consiglio di Sicurezza che mantiene anche la direzione di tali provvedimenti quando vengono attuati in concreto. Tuttavia, va fin da ora precisato che il sistema di sicurezza collettivo internazionale che si sarebbe dovuto basare sull’affidamento da parte degli stati dell’impiego della forza armata al Consiglio di Sicurezza, ossia a un organismo imparziale – per tutte le questioni riguardanti la pace e la sicurezza internazionale – ha subìto un vero e persistente fallimento. Basti pensare che le disposizioni di cui agli artt. 43 e seguenti – che tra i vari obblighi prevedono quello per gli stati membri di stipulare accordi con il Consiglio di Sicurezza per concordare il numero di uomini, il grado e la dislocazione di contingenti che ciascun paese deve mettere a disposizione dell’organo – sono rimasti “lettera morta” poiché non è stato mai creato un corpo militare univoco composto dai vari contingenti nazionali dei Paesi membri che facesse capo al Consiglio di Sicurezza. È per tale ragione infatti che sono nate e si sono consolidate le missioni di peace-keeping e le autorizzazioni all’uso della forza da parte del Consiglio agli stati membri: entrambe le ipotesi non sono previste da alcun articolo della Carta ma create da consuetudini integrative della medesima. Qualora non vi fosse il diritto di veto, dunque, le misure coercitive previste dall’art. 42, ossia misure implicanti l’uso della forza, adottate dal Consiglio mediante risoluzioni, potrebbero essere applicate in linea di principio – come anche quelle ex art. 41 – nei confronti della Federazione Russa. Infatti, con riferimento alla minaccia alla pace – intesa come violenza bellica – l’unica ipotesi nella quale le misure coercitive di cui sopra non possono essere applicate è quando uno stato agisce per legittima difesa individuale o collettiva ex art. 51.

Tuttavia, perché tale limite all’applicazione delle misure coercitive operi è necessario che l’attacco armato da parte di un altro stato sia già sferrato o in procinto di colpire un obiettivo. Per tale ragione è escluso l’impiego della forza per fini meramente preventivi.

Non è infatti un caso che nel discorso divulgato nella notte tra il 23 e il 24 febbraio del 2022 il presidente del Cremlino Putin dichiari primariamente: «non c’è stata lasciata altra scelta che difendere la Russia e il nostro popolo se non quella che stiamo oggi per compiere. In queste circostanze dobbiamo immediatamente e con coraggio entrare in azione» e dichiara che in tale contesto si stia agendo «in conformità con l’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite». In realtà il presidente russo quando richiama la necessità di difendere la Russia e il suo popolo fa riferimento indirettamente all’espansione della Nato verso est ossia sempre più in prossimità al territorio della Federazione Russa, circostanza questa che delinea il proprio intervento armato come squisitamente preventivo.

Legittima difesa?

È noto tuttavia che non sia questa l’unica circostanza nella storia nella quale uno stato membro abbia richiamato esplicitamente la legittima difesa per giustificare un uso della forza militare in chiave preventiva. Si ricordi tra tutti il caso della sentenza emanata dalla Corte di Giustizia delle Nazioni Unite del 1986 contro gli Stati Uniti per le operazioni militari in Nicaragua, affermando che queste eccedessero notevolmente la legittima difesa. Più recentemente non sono chiaramente ascrivibili all’esercizio del diritto di difesa degli stati di cui all’art. 51: la guerra contro l’Afghanistan nel 2001, il bombardamento della Libia nel 1986, la guerra contro l’Iraq nel 2003 e il bombardamento della Nato (organismo regionale i cui rapporti con il Consiglio di Sicurezza – come vedremo – sono disciplinati nel Capo VIII) contro la Repubblica dell’ex Jugoslavia durante la crisi del Kosovo nel 1999. Tuttavia, il Capo del Cremlino nella parte iniziale del suo discorso – evidentemente orchestrato ad hoc – fa un riferimento indiretto anche a quella parte dell’art. 51 che consente non solo la difesa da parte dello stato attaccato (autotutela individuale) ma anche quello operato da stati diversi da quello attaccato (autotutela collettiva) purché con il consenso di quest’ultimo. Tale richiamo a questa ulteriore parte dell’art. 51 viene esplicitata nella frase in cui il presidente della Federazione Russa sostiene che «Le Repubbliche popolari del Donbass hanno chiesto l’aiuto della Russia». Le Repubbliche popolari del Donbass, però, non hanno i caratteri propri degli stati nazionali, dotati di una propria sovranità e indipendenza, facendo essi parte a pieno titolo del territorio dell’Ucraina. Al riguardo è importante richiamare la risoluzione presentata a settembre del 2022 dagli Stati Uniti e dall’Albania in seno al Consiglio di Sicurezza di condanna dei referendum voluti dal Cremlino per l’annessione delle aree ad est dell’Ucraina in particolare delle repubbliche Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia, Kherson. La risoluzione ovviamente non è stata adottata proprio in ragione del veto della Russia e rispetto a essa si sono registrati 10 voti a favore ma 4 astenuti ossia Cina, India, Brasile e Gabon che hanno dichiarato di non voler inasprire ulteriormente la tensione internazionale.

Le risoluzioni pacifiche

Per completezza si ricorda che il Consiglio di Sicurezza sempre ex Capo VII e quindi in caso di minaccia o violazione della pace o aggressione (ex art. 39) può anche adottare «congiuntamente o alternativamente» alle misure coercitive, raccomandazioni non vincolanti con le quali indica agli stati interessati procedure e termini di regolamento quali: i negoziati, la mediazione, l’arbitrato e la conciliazione per la risoluzione delle controversie tra gli stati membri. Vale la pena ricordare che tali raccomandazioni ex art. 39 del Capo VII sono simili a quelle che il Consiglio emana ex Capo VI concernente la funzione conciliativa dell’organo, volta a una risoluzione pacifica di questioni o controversie che siano in grado di «mettere in pericolo il mantenimento della pace e la sicurezza internazionale» (artt. 33, 36, 37) e che quindi non integrano chiaramente le minacce o le violazioni della pace o gli atti di aggressione di cui all’art. 39. Nelle ipotesi del Capo VI infatti, il Consiglio ha il potere di adottare – dato in questo caso l’obiettivo della risoluzione pacifica – raccomandazioni sempre prive di forza vincolante rivolte agli stati interessati. Tuttavia, se il Consiglio di Sicurezza nell’adottare le misure previste dal Capo VII – ivi comprese le stesse  raccomandazioni – agisce come “protagonista” a livello decisionale contro determinati stati e anche tutti gli altri – diversi da quelli destinatari delle misure – sono obbligati a collaborare perché queste siano efficaci, nel Capo VI sono soltanto gli stati membri destinatari delle raccomandazioni i veri, protagonisti, in quanto hanno l’esclusiva possibilità di tramutare la forza propulsiva di tali atti del Consiglio in azioni che possano considerarsi in concreto risolutive rispetto alla controversia o alla situazione in questione.

Tale distinzione tra le due funzioni del Consiglio – coercitiva e conciliativa – è rilevante in particolar modo con riferimento all’obbligo di astensione dal voto di uno stato previsto dall’art. 27 par. 3. Esso opera infatti soltanto nei confronti di uno stato membro del Consiglio di Sicurezza parte di una controversia relativa a decisioni di cui al Capo VI e non anche nel caso delle decisioni concernenti le misure coercitive del Consiglio di Sicurezza. Inoltre, l’apposizione del veto – comportando l’impossibilità di comminare per la Russia misure coercitive – determina come conseguenza anche quella di non poter essere destinataria di una sospensione dallo status di paese membro delle Nazioni Unite in quanto all’art. 5 della Carta è stabilito che «lo stato membro verso il quale il Consiglio abbia intrapreso un’azione punitiva o coercitiva può essere sospeso dall’esercizio di tutti i diritti e privilegi in seno all’Organizzazione con un’apposita delibera dell’Assemblea generale su proposta del Consiglio di Sicurezza».

Nel caso della Russia quindi non sarebbe possibile la sospensione, oltre per l’inapplicabilità delle misure coercitive, anche per il fatto che la stessa dovrebbe appunto essere proposta dal Consiglio di Sicurezza e la Russia quindi potrebbe apporre di nuovo il veto.

L’eccezione

A ogni modo l’unico caso in cui una Nazione sia stata sospesa come membro delle Nazioni Unite è quello del Sudafrica in ragione dell’Apartheid dal 1974 al 1994 ma fu una sospensione “anomala”, in quanto intervenne direttamente ed esclusivamente da una decisione dell’Assemblea generale senza la proposta del Consiglio di Sicurezza prevista dall’art. 5.  Rispetto all’espulsione di uno stato membro, prevista dal successivo articolo 6, nell’ipotesi in cui uno stato violi persistentemente la Carta, rileva la stessa preclusione in quanto la procedura prevista anche in questo caso prevede come presupposto della delibera dell’Assemblea Generale la richiesta del Consiglio di Sicurezza. Vi è da dire inoltre che tale norma dall’emanazione della Carta non ha mai trovato applicazione nei confronti di uno stato membro delle Nazioni Unite. Date le succitate preclusioni si è riaperto quindi il dibattito – in realtà mai sopito e iniziato nel 1990 – sulla possibilità della revisione della Carta delle Nazioni Unite prevista dall’art. 109.

Essa differisce dal semplice emendamento della Carta, di cui all’art. 108 – mediante il quale nel 1965 è stato aumentato il numero dei membri non permanenti – perché configura modifiche che incidono sensibilmente sulle caratteristiche dell’Organizzazione. Tuttavia, la procedura prevista dagli articoli 108 e 109 della Carta, anche se differente, in entrambi i casi non può essere portata a termine se non con il consenso di tutti e cinque i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

Quindi per risolvere le questioni analizzate si dovrebbe ipotizzare una revisione della Carta che restringesse l’ambito operativo del diritto di veto dei membri permanenti – come quella proposta in passato dalla Francia – secondo la quale il diritto di veto dovrebbe essere limitato in presenza di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e crimini relativi alla violazione dei diritti umani.

Con onestà è lecito affermare che risulta molto difficile che i membri permanenti – senza l’unanime consenso dei quali non vi può essere né revisione né emendamento della Carta – rinuncino ai privilegi derivanti dal diritto di veto a loro riservato. Tale eventualità si considera quasi impossibile poi data l’attuale posizione della Russia nel pieno di un conflitto internazionale e quella delle Nazioni del “blocco occidentale del Consiglio di Sicurezza” che sostengono l’Ucraina. Tutto ciò premesso rimane quindi soltanto la possibilità di monitorare costantemente i lavori dell’Assemblea generale, sia per il fatto che essa stessa è stata convocata, in conseguenza della paralisi derivante dal diritto di veto, in sessione speciale dal Consiglio più volte (considerata anche la risoluzione dell’Assemblea generale n. 377 del 1950 che verrà analizzata in seguito) sia perché resta pur sempre l’Organo nel quale sono rappresentati tutti i paesi facenti parte dell’Onu, anche se in ambito del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale può emanare solo raccomandazioni verso gli stati, verso il Consiglio di Sicurezza o verso entrambi, prive di forza vincolante.

Ne consegue infatti che dalle raccomandazioni dell’Assemblea generale si riesce a desumere in quale direzione vada la posizione dei singoli stati membri rispetto a un conflitto che, essendo ancora così lungo e foriero di continue esacerbazioni, può vedere il cambiamento radicale della loro posizione rispetto a quest’ultimo considerato che – come vedremo in seguito, analizzando le decisioni dell’Assemblea generale sul tema – al momento non si intravede ancora l’unanime condanna della comunità internazionale dell’invasione del territorio ucraino da parte della Russia.

L'articolo n. 1 – Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e il conflitto russo-ucraino proviene da OGzero.

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L’utile curdo per il regime turco https://ogzero.org/lutile-curdo-per-il-regime-turco/ Fri, 05 May 2023 22:52:29 +0000 https://ogzero.org/?p=10941 «Apparato operativo dei poteri globali», così la asservita stampa turca del 6 maggio 2023 accoglie e fa suo l’attacco scomposto del presidente a “The Economist”, perché la testata nella sua copertina definiva le elezioni del 14 maggio “le più importanti del 2023”, con un esplicito endorsement per Kılıçdaroğlu, mettendo in bella evidenza adesivi con su […]

L'articolo L’utile curdo per il regime turco proviene da OGzero.

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«Apparato operativo dei poteri globali», così la asservita stampa turca del 6 maggio 2023 accoglie e fa suo l’attacco scomposto del presidente a “The Economist”, perché la testata nella sua copertina definiva le elezioni del 14 maggio “le più importanti del 2023”, con un esplicito endorsement per Kılıçdaroğlu, mettendo in bella evidenza adesivi con su scritto «Erdoğan se ne deve andare».

 

Dopo 20 anni di morsa sul potere in ogni suo aspetto, dapprima graduale (da sindaco di Istanbul fino al terremoto di Izmit) e poi assoluta (dopo Taksim e soprattutto il tentato golpe del 2016), s’indovinano le crepe nel sistema di Erdoğan. Si colgono anche dall’affanno con cui reagisce ai titoli come quelli di “The Economist”, o con cui cerca alleanze in vista dell’appuntamento elettorale, anticipato dal presidente stesso prima che il terremoto producesse uno sconquasso nel suo progetto di perpetuare il suo controllo sul paese e sugli affari che hanno prosciugato le casse del paese, stremato l’economia, prodotto inflazione, arricchendo una sparuta oligarchia fondata sul consenso della provincia confessionale, sulla repressione della stampa ormai monopolizzata, come il settore delle infrastrutture, che per una beffa del destino potrebbe essere travolta dalle macerie del terremoto.


Con un piccolo aiuto dai nostri amici curdi

Le elezioni presidenziali e politiche che si svolgeranno in Turchia il 14 maggio hanno un’importanza storica per una serie di ragioni. Tra queste senz’altro il fatto che la maggior parte dei partiti d’opposizione, per la prima volta, abbiano deciso di indicare un candidato unico. Anche per questo, ma non solo, i sondaggi parlano del secondo turno per le presidenziali e di un’avanzata significativa dei partiti di opposizione in quelle politiche. Chiaramente queste dinamiche fanno sì che la coalizione al governo si metta alla ricerca di nuovi alleati a casa e rafforzi quelli all’estero. In questa ricerca è importante il voto della popolazione curdofona presente in Turchia e fuori dai confini.

Il reclutamento di HüdaPar: i devoti curdi ultraconservatori

Il 13 marzo, Numan Kurtulmuş, il vicepresidente generale del Partito dello sviluppo e della giustizia (Akp) si è presentato davanti alle telecamere con Zekeriya Yapıcıoğlu, il presidente generale del partito HüdaPar. In questa apparizione storica Yapıcıoğlu ha comunicato l’appoggio ufficiale del suo partito alla candidatura di Recep Tayyip Erdoğan, per le elezioni presidenziali. Dopo questo avvicinamento ufficiale e plateale, il 9 aprile il partito al governo Akp ha dichiarato ufficialmente che 4 membri del HüdaPar saranno candidati nelle liste del principale partito della Turchia. Con questa notizia HüdaPar entra nella casa dell’Alleanza della Repubblica. Ma chi è HüdaPar e perché oggi entra in questa coalizione già esistente dal 2017?


HüdaPar nasce come partito politico parlamentare nel 2012. Nello sfondo del suo logo è dominante il verde, poi al centro c’è un libro bianco da cui sorge un sole giallo. L’estensione del suo nome sarebbe Hur Dava Partisi, il partito della Causa Libera. Ovviamente va prestata l’attenzione sul significato della parola “Hüda” che trova spazio in diversi versi nel Corano e vuol dire “colui che indica la strada” ma è anche uno dei nomi attribuito ad “Allah” quindi in qualche maniera vuol dire “Dio”. Questa chiave semantica ci aiuta a capire che definirlo un partito conservatore è un eufemismo.
Infatti se andiamo a spulciare molto velocemente lo statuto del partito e anche il programma troviamo una serie di obiettivi, ideali e promesse molto conservatrici.

«Ricostruire il sistema governativo basandosi sui valori di fede della società. Ravviare i valori islamici. Definire l’omosessualità come una devianza, vietarla e punirla. Rafforzare i rapporti commerciali e politici con i paesi musulmani. Riformare il sistema scolastico secondo i valori dell’Islam. Iniziare con le lezioni di Arabo e del Corano già nel primo anno delle elementari. Parificare le scuole religiose con quelle statali. Concedere la possibilità di differenziare le classi nelle scuole pubbliche in base al sesso degli studenti. Definire la composizione della famiglia: uomo e donna».

È abbastanza, chiaro, no?

HüdaPar: dio turco e misogino, ma patria e lingua curde

Insieme a queste promesse e obiettivi vediamo una serie di punti che ci fanno capire il secondo “colore” del partito. Sempre nel programma elettorale e nello statuto leggiamo le seguenti affermazioni:

«Il diritto all’istruzione in lingua madre va riconosciuto e garantito. La Costituzione va privata da qualsiasi riferimento etnico. Il servizio militare deve essere abolito. L’obiezione di coscienza va riconosciuto come un diritto. Va ammesso che la nascita della Repubblica ha danneggiato la storica fraternità tra il popolo turco e quello curdo. La laicità dello stato ha reso difficile la vita ai curdi musulmani. I curdi sono le vittime delle politiche di assimilazione e turchizzazione. Lo stato deve ammettere i suoi crimini commessi nel Sudest del paese, chiedere scusa e risarcire i danni. I curdi devono essere riconosciuti nella Costituzione e la lingua curda deve essere riconosciuta come seconda lingua della Turchia. La forza del governo centrale deve essere alleggerita e il potere delle amministrazioni locali deve essere rafforzato».

Dunque è chiaro che siamo di fronte a una formazione che promette una serie di vittorie e riconoscimenti per le persone curdofone. Ma lo fa con un obiettivo e programma decisamente omofobico, fondamentalista e di certo non laico. Per questo l’HüdaPar rappresenta quella fetta della società curdofona che si identifica con un percorso politico decisamente conservatore e per cui “questi curdi” vanno bene per il partito al governo.
Infatti già nel 2020, l’ex presidente generale del partito, ossia Ishak Sağlam invitò il presidente della repubblica a uscire dalla Convenzione d’Istanbul. Quella convenzione forte e importante che fu creata proprio a Istanbul in Turchia nel 2011 con l’obiettivo di lottare contro i femminicidi e tutelare tutte le identità di genere e gli orientamenti sessuali delle persone. Oggi lo stesso partito, con un altro presidente, parla dell’eliminazione della legge 6284 che riguarda la famiglia e la violenza sulle donne.

Il terrorista curdo buono deve essere fondamentalista…

Purtroppo nel capitolo che riguarda HüdaPar ci sarebbe un altro piccolo approfondimento da fare. Ossia il passato di questo movimento e il suo presunto legame con l’Hezbollah turco.
Si tratta di una formazione paramilitare e armata che appare in Turchia negli anni Ottanta. Per chiarire tutto per una volta, l’Hezbollah turco non avrebbe alcun legame con l’omonimo Partito sciita libanese. Infatti Hezbollah turco sarebbe una formazione armata fondamentalista e sunnita. Il suo profilo terroristico è stato confermato dal Dipartimento di Stato degli Usa, nel 2011, e dalla Presidenza generale della Lotta contro il terrorismo in Turchia nel 2012. Questa formazione paramilitare è stata sempre accusata di avere dei legami con i servizi segreti di Ankara e di prendere di mira quasi esclusivamente quella parte marxista del movimento curdo in Turchia. Di questo parla in modo articolato il famoso giornalista Ruşen Çakır nel suo libro Derin Hizbullah pubblicato nel 2016.
La Turchia è venuta a sapere dell’esistenza di questa organizzazione terrorista nel 2000 quando il suo ex leader, Hüseyin Velioğlu, in uno scontro armato con la polizia è stato ucciso e presso la sua abitazione sono stati trovati numerosi documenti che hanno spalancato nuove porte. Le stesse che hanno portato i poliziotti e i procuratori a scoprire i piani per assassinare le persone e purtroppo anche le fosse comuni dove sono state sepolte numerose persone dopo lunghe e crudeli torture. Secondo il giornalista Çakır si tratta di una formazione politica e armata tra i giovani curdi fondamentalisti negli anni Settanta come una sorta di antitesi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan ossia Pkk.

… all’origine di HüdaPar: l’Hezbollah turco

Mentre dopo l’uccisione di Velioglu, Hezbollah turco pian piano scompariva, dall’altra parte nasceva un’associazione con il nome Muztazaf-Der. Anche se questa nuova realtà rigettava ogni accusa di legame con l’Hezbollah turco la Corte di Cassazione nel 2012 ha deciso di chiuderla proprio per questo presunto legame. Il suo presidente, Mehmet Hüseyin Yılmaz, pochi mesi dopo fonda HüdaPar. Un anno dopo, nel 2013, il timone del partito passa nelle mani di Zekeriya Yapıcıoğlu che oggi risulta candidato alle elezioni politiche presso l’Akp.
Oltre a Yapıcıoğlu, nelle liste dell’Akp salta all’occhio anche il nome di Faruk Dinç, accusato di appartenere al Hezbollah turco e trattenuto in carcere per due mesi in relazione con le indagini sul legame tra quest’organizzazione e l’associazione Ihya-Der. Secondo i procuratori l’associazione in questione era stata fondata dalle persone condannate, poi scarcerate, in un altro processo su Hezbollah turco.
Sempre secondo il giornalista Ruşen Çakır non ci sono troppi giri di parole da fare: HüdaPar è l’espressione partitica dell’Hezbollah turco. Infatti la notizia arrivata il 10 aprile, che informa della scarcerazione di 58 persone accusate di essere assassini di 183 persone uccise dall’Hezbollah turco, è una sorta di conferma della tesi di Çakır. Come se l’inserimento del HüdaPar nelle liste dell’Akp avesse trovato un riconoscimento. Addirittura secondo il giornalista Özgür Cebe, del quotidiano “Sözcü”, si potrebbe trattare di una notizia figlia di un accordo elettorale.

Già esisteva un alleato curdo oltreconfine

Molto probabilmente l’Alleanza della Repubblica, inserendo HüdaPar nelle sue liste, cerca di puntare sui voti di quella fetta della popolazione curdofona molto conservatrice e chiede il riconoscimento dei suoi diritti. Inoltre si tratterebbe di un gesto importante che rafforza il profilo conservatore della stessa alleanza, vista una parte del programma elettorale del partito in questione. Infine, questa new entry, oltre che nella politica interna, potrebbe avere un ruolo anche in quella estera. Quest’ultima ipotesi trova corpo grazie a un incontro avvenuto nel mese di aprile.


Sarebbe l’incontro tra Zekeriya Yapıcıoğlu e Masoud Barzani, l’ex presidente della Regione del Kurdistan (iracheno) e il leader storico del Partito democratico del Kurdistan (Pdk). È un incontro molto interessante, prima di tutto, perché si è svolto tra un “semplice” candidato per le elezioni e il personaggio più illustre del “movimento curdo” in Iraq. Quindi per il lato della Turchia non c’era un ministro oppure un sottosegretario ma una new entry dell’alleanza del governo. In secondo luogo il messaggio che è stato diffuso presso l’agenzia di stampa “Ilke” (semiufficialmente l’organo di stampa di HüdaPar) rende particolare quest’incontro «È stato deciso di rafforzare in futuro il rapporto tra HüdaPar e Pdk». Quindi per Barzani è chiaro che l’interlocutore da prendere in considerazione è quella formazione “curda” e fondamentalista che rappresenta Yapıcıoğlu e si trova accanto all’attuale presidente della repubblica di Turchia.

Le visitazioni islamiste

La visita di Yapıcıoğlu il 26 aprile è stata abbastanza proficua. Ha incontrato anche Aydin Maruf, membro del Fronte turcomanno iracheno, nonché il ministro degli Affari Religiosi e Etnici. Maruf è spesso presente in Turchia, si trova in ottimi rapporti con l’attuale governo e si è espresso varie volte a favore delle collaborazioni tra Ankara, Erbil e Bagdad per «lottare contro il terrorismo del Pkk».
Tra le persone visitate da Yapıcıoğlu vediamo anche il nome di Ali Bapir, membro del Movimento Islamico del Kurdistan e del Gruppo della Giustizia in Kurdistan. Si tratta di uno scrittore e studioso concentrato sulla fondazione di un Kudistan islamico. Bapir fu anche, nel 2021, uno degli sporadici personaggi politici al mondo a congratularsi con i Talebani dopo la loro salita al potere attraverso una lettera pubblica tuttora presente sul suo sito web personale.
Yapıcıoğlu in Kurdistan (iracheno) ha incontrato altri politici di formazione fondamentalista come Şeyh İrfan Abdulaziz, il leader attuale del Partito del Movimento islamista, e Rashid al-Azzawi che dirige il Partito islamico dell’Iraq.

Gli oleodotti dei curdi amici

Questi incontri ovviamente sono dei segni importanti se teniamo in considerazione soprattutto la crisi del petrolio nata verso la fine del mese di marzo di quest’anno. Una procedura arbitrale aperta nel 2014 si è conclusa questa primavera. Un percorso giuridico lungo che ha portato 1,4 miliardi di dollari di condanna per Ankara. Si tratta di un’azione portata avanti dal governo di Baghdad perché secondo il governo iracheno, Ankara non rispetta da tempo l’accordo del 1973. Secondo questo accordo sarebbe Baghdad l’unico interlocutore della Turchia per l’acquisto del gas e petrolio mentre invece Ankara da tempo tratta direttamente con Erbil quindi Nechirvan Barzani e Masoud Barzani. Inoltre, in questo processo, la Turchia sarebbe condannata a pagare 500 milioni di dollari perché diverse volte non ha aggiustato in tempo i danni avvenuti nelle “tubature Iraq-Turchia” a causa degli attentati di sabotaggio.

Oil vs Pkk

In questa procedura portata avanti per nove anni presso la Camera di Commercio internazionale di Parigi si notano alcuni appunti che parlano anche dell’avanzata dell’Isis in Iraq nel 2014 verso le città strategiche per il commercio petrolifero e la reazione degli Usa e della Turchia in quel momento. Appunto Ankara sarebbe accusata di approfittare delle dinamiche geopolitiche perché proprio in quel periodo avrebbe iniziato a non rispettare l’accordo del 1973 e avrebbe firmato nuovi contratti per la fornitura del petrolio direttamente con Erbil. Secondo il giornalista turco, Murat Yetkin, in questa fase storica ci sono varie dinamiche importanti come la volontà di ottenere ulteriore sostegno di Erbil nella sua storica lotta contro il Pkk: incassare più velocemente e più soldi scavalcando Baghdad e ottenere più credibilità e sostenitori in zona visto che proprio in quel periodo tra Erdoğan e Obama nascono le prime divergenze in merito a chi sostenere nella guerra in Siria.

In questa procedura arbitrale si cita anche l’illegale commercio del petrolio attraverso i camion cisterna. Un tema che fu sollevato dalla giornalista Bethan McKernan nel 2016 in un articolo pubblicato su “The Independent” che si basa sullo scandalo “Wikileaks”. Secondo questa fuga di e-mail, scatenata dal gruppo hacker turco “Redhack”, sarebbe l’azienda PowerTrans a gestire dal 2014 al 2015 il traffico illegale di petrolio dalle zone occupate dall’Isis in Siria e dal Kurdistan (iracheno) verso la Turchia. Secondo McKernan l’azienda in questione sarebbe legata in qualche maniera al genero del presidente della Repubblica di Turchia, ossia Beraty Albayrak che in quegli anni lavorava come il ministro dell’Energia al governo. Uno scandalo del genere era stato sollevato anche da Mosca nel 2015 durante quei nove mesi di conflitto che ci fu con Ankara. In quel caso fu il figlio del presidente della Repubblica ossia Bilal Erdoğan a finire nel mirino russo più o meno per le stesse accuse rivolte al genero.

I curdi utili fuori e dentro i confini

Oggi le trattative sono in corso. Secondo alcune fonti Ankara si rifiuta di risarcire Baghdad e secondo alcune fonti invece si tratta di trovare una cifra adatta per tutte le parti. In questo periodo di incertezza però c’è una cosa chiara: Ankara ha bisogno del petrolio e del sostegno politico di Erbil. L’amministrazione curda che si trova nel Nord dell’Iraq risulta tuttora il “curdo utile”, fuori dai confini nazionali, per l’attuale governo al potere in Turchia che deve fare i conti con le elezioni del 14 maggio. Il suo nuovo alleato, ossia HüdaPar, invece, sembra che abbia già deciso di muoversi come “mediatore” tra queste due parti indossando il costume del “curdo utile” in casa.

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La guerra birmana esplode al Casinò e uccide a Sagaing https://ogzero.org/la-guerra-birmana-esplode-al-casino-e-uccide-a-sagaing/ Wed, 03 May 2023 21:01:19 +0000 https://ogzero.org/?p=10898 Con il Myanmar OGzero ha un legame particolare fin dallo Studium collegato a Burma Blue, il libro dedicato da Max Morello al paese. Claudio Canal ha scritto un articolo interessante pubblicato su “Volere la Luna“, da dove lo recuperiamo corredato di un’integrazione: un podcast registrato da Radio Blackout con Emanuele Giordana, appena tornato dal confine […]

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Con il Myanmar OGzero ha un legame particolare fin dallo Studium collegato a Burma Blue, il libro dedicato da Max Morello al paese. Claudio Canal ha scritto un articolo interessante pubblicato su “Volere la Luna“, da dove lo recuperiamo corredato di un’integrazione: un podcast registrato da Radio Blackout con Emanuele Giordana, appena tornato dal confine birmano-thailandese. Le due testimonianze si compenetrano perfettamente nella descrizione informata degli eventi e nella analisi socio-culturale delle comunità coinvolte e degli interessi stranieri sul territorio, le esigenze del riciclaggio e dei traffici, che si combinano con la militarizzazione della società a cominciare dal controllo economico da parte degli eserciti.
Il ministro degli esteri cinese Qin Gang è giunto il 3 maggio in Myanmar, avvicinandosi alla riunione dei ministri della Shanghai cooperation organization, chiedendo anche lì di «mantenere confini chiari e stabili», le stesse parole usate da Xi entrando in medias res belliche; in questo caso mettendo in guardia da una “ricaduta” dell’escalation di violenza nel paese del Sudest asiatico e «reprimere la criminalità transfrontaliera» (Scmp, 3 maggio 2023). Il fatto che abbia
 sottolineato l’importanza di mantenere la stabilità nella regione e di promuovere una “cooperazione amichevole” tra i paesi confinanti risulta comprensibile dalla lettura e dall’ascolto di questi due contributi che vi proponiamo.


I can(n)oni di guerra sembrano lontani se tuonano in Myanmar

C’è una guerra in Europa, ci fa paura e ci divide in opposte tifoserie. Ci sono altre guerre nel mondo, non incutono timore perché ci sono ignote o perché ci abbiamo fatto il callo. Siccome l’arte della guerra gode di uno straordinario successo tra gli esseri umani, pensiamo di riconoscerla ovunque. C’è un paese in Asia, tra i più ricchi di risorse e dotato di una crudele bellezza, la Birmania-Myanmar, in cui è in corso una guerra che interpreta fedelmente i canoni dei manuali novecenteschi: eserciti schierati, bombardamenti aerei, artiglieria, guerriglia.

«Ma è così da più di settant’anni!» afferma chi conosce un po’ la storia di questo paese. Infatti, dal momento dell’indipendenza dal colonialismo britannico nel 1947, quando ci si prepara a inventare la nazione, una parte consistente degli abitanti delle Aree di Frontiera, escogitate e così marchiate dagli inglesi, si oppone senza tentennamenti. Le Aree sono refrattarie al progetto politico che la cultura maggioritaria – i Bamar/Bramar/Birmani, principalmente buddhisti  intende realizzare costituendosi come centro egemone di una nazione mai esistita prima, birmanizzando e, in qualche modo, buddhizzando tutto il resto.

Tradizionali guerre per i soliti traffici “etnici” vs. l’“esercito” del potere

Prendono così avvio le interminabili guerre e subguerre che hanno straziato fino a oggi la Birmania e reso l’esercito birmano, il Tatmadaw, un apparato estremamente distruttivo e la più importante potenza economica del paese, senza che sia mai riuscito a vincere una delle guerre che le forze armate locali gli hanno mosso e che mai si sia confrontato con un nemico esterno. Una forma molto originale di esercizio del potere: la guerra come istituzione costituente, la guerra per la guerra, la “guerra civile permanente”, diremmo noi in Europa. Alcune delle formazioni politiche e militari che combattono il potere centrale lo fanno per salvaguardare la loro diversità culturale, linguistica, religiosa; altre per non perdere gli incassi dalla produzione e coltivazione di metanfetamine, oppio, giada, legno pregiato; altre ancora per entrambe le ragioni. Forse perché non riescono più a immaginarsi a fare altro. Un paese dunque predisposto come poligono di tiro diffuso e residence per dittature militari da cui, nei recenti e limitati anni di democrazia approssimativa, sperava di disintossicarsi.

Le efferatezze di Tatmadaw, coacervo di sangue, narcos e crypto-crony capitalism

Un esercito che si identifica con lo stato, sacralizzato da una storia mitica di eroi guerrieri, «impregnato di crony capitalism cronico», una delle tante “apparizioni” del capitalismo, quello della solida rete di compari e amici degli amici attestati nei gangli economici e finanziari. È un impianto sociale di corruzione generalizzata, costruito sul rapporto servo-padrone, sulla impunità garantita, incapace e non particolarmente interessato a costruire l’unificazione dall’alto del paese mediando tra le molteplicità. Nonostante la sua smisurata forza, gli appoggi e gli armamenti ricevuti da Russia e Cina, a tutt’oggi controlla, a esser larghi, la metà del paese. Un esercito così conformato non impiega solo la mascolina brutalità, ma amministra leve materiali e simboliche che gli consentono di non intimorirsi troppo e perfino di esercitare ancora una egemonia culturale debilitata ma non moribonda.

Tradizionali appoggi monastici in periodi di magre elemosine

La manforte la riceve dal sangha, la numerosissima e autorevole comunità monacale buddhista, di scuola Theravada come altri buddhismi del Sudest asiatico, che si compiace del ruolo di avanguardia politica svolto dai monaci durante la lotta anticoloniale contro gli inglesi nella prima metà del Novecento e della loro a tutt’oggi capillare presenza tra la popolazioneMezza comunità è dedita allo studio e alla meditazione, in attesa di tempi migliori; un quarto è dichiaratamente antiregime; il resto è un segmento militante molto eccitato che ha assunto da diversi anni una posizione ultranazionalista, xenofoba, razzista e di conseguenza entusiasta sostenitrice e istigatrice della giunta militare. Nessuna novità, verrebbe da dire, tutto già visto in Birmania. E non solo lì.

Uno dei territori in cui lo scontro è più rabbioso è la zona centrale del paese, in particolare la regione Sagaing, grande quanto l’Italia Settentrionale. Cioè il cuore culturale e storico della Birmania. Abitato da una popolazione in stragrande maggioranza buddhista, partecipe di un ordine simbolico che fino a non molto tempo fa guidava la birmanizzazione forzata del paese. È la prima volta dal dopoguerra e questa innovazione trasforma in modo radicale la geometria politica nazionale che diventa centro contro centro e non solo centro contro periferia. Una parte dell’insurrezione è condotta dal People’s Defence Force (Pdf), braccio armato del National Unity Government (Nug), il governo in esilio o governo ombra che cerca il riconoscimento internazionale e, soprattutto, l’alleanza con le forze politiche e gli eserciti delle Aree di frontieraNon è detto che ci riesca in tempi brevi, ma il progetto è partito.

La strage dal cielo sulle coste dell’Irrawaddy nel centro del Mandalay

Intanto la guerra in sé e per sé va avanti, bombardamenti a tappeto, villaggi in fiamme, droni funesti, imboscate letali [l’esercito birmano perde in media 100 uomini alla settimana], attacchi alle infrastrutture [giovedì 6 aprile l’aeroporto internazionale di Yangon è stato chiuso nella notte perché colpito da artiglieria], incendio e distruzione delle stazioni di polizia, fuga delle popolazioni coinvolte e fioritura di campi profughi… L’Expo dell’arsenale non chiude mai. Il caos e l’emergenza come regola della vita sociale, in un paese tra i più colpiti al mondo dai cambiamenti climatici. La sofferenza dei viventi non incontra ostacoli. Intanto l’Irrawaddy continua bonario a scorrere lungo i suoi 2500 chilometri, i delfini meditano forse sulla loro estinzione e pure gli operosi esseri umani che condividono la vita del fiume.

E il doppio “gioco” cinese in periferia

Quanto durerà la guerra? Movimenti di riforma interni all’esercito? Torneranno nelle caserme i soldati? Un golpe? Un’implosione generale? Impossibili per ora risposte creative a queste domande. Nuove leadership si manifestano nelle Aree di frontiera. Aspirano, come minimo, a uno Stato molto, molto federale. Nel frattempo, il gigante di confine, la Cina, gioca come al solito su due tavoli. Sostiene e foraggia la giunta militare, e nello stesso tempo sussidia generosamente di armamenti e merci il Kokang e lo “Stato” Wa, regioni della Birmania in lotta armata contro la giunta militare.

Cronaca

Aung San Suu Kyi è in isolamento in carcere nella capitale surreale Naypyidaw a scontare i 33 anni a cui è stata condannata. Gli sgherri sono specialisti in vendetta. La resistenza è anche radicata nei mille gruppi e reti che continuano a far funzionare le scuole, a procurare medicine e a fare quanto è possibile in un welfare dal basso ricco di sorrisi e di delicatezze. Il regime ha appena tagliato 200 alberi di Poinciana reale o albero di fuoco nella 38ª strada di Mandalay, nei pressi dell’incantevole mercato della giada. I suoi fiori rosso fiamma rimandavano al colore della Lnd [Lega Nazionale per la Democrazia], il partito di Aung San Suu Kyi, a cui la via era stata intitolata. Terrorismo vegetale

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Non essere indeciso,
il detonatore della rivoluzione
sei solo tu, o io.
(K Za Win [1982-2021] poeta,
ucciso dalla polizia durante una manifestazione da lui organizzata contro la giunta, 3 marzo 2021)


 

La malavita cinese naviga sulle coste del Moei tra Thailandia e Myanmar

Emanuele Giordana a sua volta descrive i legami tra tutti i protagonisti in tragedia, senza indulgenza per una fazione o l’altra: la fotografia che si ricava è quella del malaffare generalizzato che non lascia spazio a interpretazioni desumibili da una qualunque etica: gli affari contrapposti animano le rive del Moei e si vedono sorgere città poi abbandonate, dove tutto è consentito, anzi è il malaffare la legge di una terra senza alcuna regola se non quella della truffa e dell’inganno, ora sempre più finanziario, che ha surclassato persino in parte la destinazione d’uso dei paradisi sessuali e del gioco d’azzardo. Manovre ad altissimo livello internazionale sovrintendono all’occupazione del territorio e alla cooptazione degli addetti nella zona del Karen State.

«Con le false credenziali della Belt and Road Initiative – messe in discussione dal precedente governo del Myanmar guidato da Aung San Suu Kyi e pubblicamente sconfessate dall’ambasciata cinese in Myanmar nel 2020 – la città si trova appena a nord di Mae Sot, in Thailandia. Secondo il materiale promozionale, la città avrà “parchi industriali scientifici e tecnologici, aree per il tempo libero e il turismo, aree per la cultura etnica, aree commerciali e logistiche e aree per l’agricoltura ecologica”. Ci sarà anche una struttura per “l’addestramento alle armi da fuoco”. Shwe Kokko è stato anche definito “la Silicon Valley del Myanmar” e una stazione chiave lungo la “Via della Seta marittima”» (NikkeiAsia), parte di un ponte terrestre tra l’Oceano Indiano che permette di aggirare i pericoli e i dazi della navigazione tra gli stretti del Mar Cinese Meridionale, avvalendosi di una ferrovia che unirà lo Yunnan al mar delle Andamane.  

 

“Shwe Kokko e i suoi modelli”.

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Etiopia Saudita. Fornire migranti usa-e-getta https://ogzero.org/etiopia-saudita-fornire-migranti-usa-e-getta/ Sun, 30 Apr 2023 11:33:24 +0000 https://ogzero.org/?p=10858 Qui Gianni Sartori offre un bello spaccato sui diritti a geometria variabile insiti nell’approccio alla filosofia ed economia politica dell’Arabia Saudita. Un mondo antropologicamente diverso retto da norme differenti, di cui  l’estensore del pezzo evidenzia le storture umanitarie, lo schiavismo e lo sfruttamento in particolare di genti etiopi. Motivo per cui l’articolo che proponiamo  è […]

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Qui Gianni Sartori offre un bello spaccato sui diritti a geometria variabile insiti nell’approccio alla filosofia ed economia politica dell’Arabia Saudita. Un mondo antropologicamente diverso retto da norme differenti, di cui  l’estensore del pezzo evidenzia le storture umanitarie, lo schiavismo e lo sfruttamento in particolare di genti etiopi. Motivo per cui l’articolo che proponiamo  è tutto sul filo del rapporto tra le due sponde del Mar Rosso. Il podcast dell’intervento di Laura Silvia Battaglia su Radio Blackout del 20aprile 2023, inserito a corredo del testo, inquadra la posizione nello scacchiere internazionale della Arabia Saudita in uno snodo epocale che con la rivoluzione di partnership operata da Mbs con il sua Vision2030 produrrà conseguenze per l’intero Medio Oriente e zone limitrofe… e al di là del Mar Rosso sono già evidenti con lo scardinamento della diarchia in Sudan, che di nuovo coinvolge l’Etiopia e il gioco di alleanze… e il cambio in ambito di diritti delle popolazioni locali non sta cambiando in meglio.

Il ruolo dell’Etiopia?

Serbatoio di mano d’opera docile e a buon mercato, disciplinata e addomesticata, per la borghesia saudita

Curioso. Solo un anno fa veniva siglato un accordo tra governo di Addis Abeba e Arabia Saudita per cui oltre centomila migranti etiopi dovevano venir espulsi dall’Arabia Saudita per essere riportati in patria (come poi sostanzialmente era avvenuto in questi ultimi mesi).
La notizia coincideva con l’arrivo (30 marzo 2022) nell’aeroporto di Addis-Abeba del primo migliaio (900 per la precisione, tra cui molte donne con figli), accolti e rifocillati dagli operatori dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim).

Per l’occasione un accorato appello veniva rivolto dal governo di Addis-Abeba alle Nazioni Unite e alle varie agenzie umanitarie affinché intervenissero per far fronte alle impellenti necessità.
Negli ultimi quattro anni l’Arabia Saudita ne aveva già rimandati in Etiopia oltre 350.000. Soprattutto persone con problemi di salute o comunque vulnerabili, in difficoltà: donne incinte, anziani, malati sia a livello fisico che mentale (applicando quindi una sorta di selezione poco “naturale”, ma funzionale al mercato del lavoro-sfruttamento).

Durante l’ultimo anno i programmi di rimpatrio si sono mantenuti, se non addirittura rinforzati per «garantire un rientro ordinato dei cittadini etiopi emigrati» (leggi: “non più funzionali alle esigenze delle classi dominanti saudite”).

Dal 12 novembre 2022 al 30 dicembre 2022 più di 20.000 etiopi sono rientrati in patria dall’Arabia Saudita

Per la cronaca, si calcola (presumibilmente per difetto) che attualmente siano almeno 750.000 i migranti etiopi presenti nel Reame (di cui circa 450.000 vi sarebbero giunti in maniera irregolare).
Così come previsto dal Piano regionale di sostegno ai migranti in situazioni di vulnerabilità e alle comunità di accoglienza nei Paesi del Corno d’Africa sulle rotte migratorie verso l’est (in genere con destinazione Arabia Saudita attraverso Gibuti e Yemen), erano intervenuti finanziariamente l’Ufficio dei rifugiati e delle migrazioni del Dipartimento di Stato americano (leggi: statunitense), l’Agenzia svedese  di cooperazione internazionale allo sviluppo e per le operazioni europee di protezione civile e di aiuto umanitario.

In controtendenza (ma solo apparente, se pensiamo che in realtà lo scopo è il medesimo: controllare i flussi migratori,  “addomesticarli” per renderli funzionali al sistema economico imperante) in questi giorni il governo regionale dell’Amhara ha annunciato un programma di reclutamento e formazione professionale (come donne di servizio nelle magioni dei benestanti sauditi) per migliaia di cittadine della regione. Garantendo che i loro salari in moneta straniera verranno depositato come moneta nazionale (birr) al tasso attuale del “mercato nero” e non a quello, sfavorevole, ufficiale.

Anche se questo sembra non turbare più di tanto le autorità etiopi (sia a livello regionale che nazionale), non si contano i casi di abusi sessuali subiti dalle donne di servizio di origine africana nei paesi del Golfo (ben sapendo che quelli denunciati o di cui comunque si viene a conoscenza, costituiscono solo la punta dell’iceberg). Per non parlare delle ricorrenti accuse di “trattamenti disumani” (torture, uccisioni…) nei centri di detenzione per migranti.

Come aveva denunciato Human Rights Watch «per anni l’Arabia Saudita ha arrestato e detenuto arbitrariamente migliaia di migranti etiopici in condizioni spaventose, incluse torture, pestaggi a morte e condizioni degradanti, deportandone a migliaia».

Stando a quanto riportava “Al Jazeera”, sarebbero almeno mezzo milione le donne (età compresa tra i 18 e i 40 anni) di cui si va pianificando il reclutamento per inviarle in Arabia Saudita come lavoratrici domestiche. Con una vera e propria campagna promozionale anche con cartelloni pubblicitari nelle maggiori città che invitano a registrarsi presso gli uffici governativi. Le donne verranno poi trasportate in aereo nel Golfo a spese del governo di Addis-Abeba.

Tutto questo, ripeto, mentre le organizzazioni umanitarie denunciavano il ritorno forzato in Etiopia di migliaia di donne e uomini vittime di abusi fisici e sessuali da parte dei loro datori di lavoro sauditi.

Questo il comunicato ufficiale dell’amministrazione dell’Amhara:
«In ragione dei forti legami diplomatici del nostro paese con l’Arabia Saudita, sono state rese disponibili opportunità di lavoro per 500.000 etiopiche, tra cui 150.000 dalla regione Amhara»

Il ruolo dell’Arabia Saudita?

Serbatoio di sfruttamento schiavista

Niente di nuovo sotto il sole naturalmente. Ricorda per certi aspetti quanto avveniva in Namibia quando era occupata dal Sudafrica (e sottoposta all’apartheid) con i lavoratori delle miniere di uranio rispediti a casa loro, nei villaggi, quando manifestavano i sintomi della malattia. O i migranti dai bantustan reclusi nei dormitori-prigioni (“ostelli” eufemisticamente), lontano dalle famiglie, forza lavoro a basso costo in condizioni di semischiavitù.

“L’epocale repentino cambiamento dei riferimenti sauditi”.
Volendo anche i nostri minatori in Belgio (previo accordo tra i governi dell’epoca) all’epoca di Marcinelle.

Coincidenza. Mentre avviava queste operazioni di ferreo controllo dei flussi migratori, il governo etiope procedeva allo smantellamento delle milizie regionali.

Stando a un comunicato del 6 aprile, si ripromette di «integrare le forze speciali regionali all’interno delle forze dell’esercito federale (Endf) e delle forze di polizia federale».

Allo scopo evidente di centralizzare il controllo sui gruppi armati e sminuire la relativa autonomia delle singole regioni.
La cosa non è risultata gradita proprio nello stato-regione dell’Amhara dove sono già scoppiate proteste e rivolte.

Quindi, per il governo centrale: Sì alla fornitura di forza-lavoro subalterna, ma No all’autodeterminazione regionale.

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La guerra fratricida in Sudan e le sue cause economiche https://ogzero.org/la-guerra-fratricida-in-sudan-e-le-sue-cause-economiche/ Fri, 28 Apr 2023 21:20:20 +0000 https://ogzero.org/?p=10842 La guerra fratricida che sta insanguinando il Sudan non si ferma. Ma le cause di questo conflitto vanno cercate non solo nei meccanismi politici e di potere ma anche negli aspetti di carattere economico della geopolitica e nello sfruttamento delle risorse da parte delle potenze internazionali per le quali il Sudan può diventare un vero […]

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La guerra fratricida che sta insanguinando il Sudan non si ferma. Ma le cause di questo conflitto vanno cercate non solo nei meccanismi politici e di potere ma anche negli aspetti di carattere economico della geopolitica e nello sfruttamento delle risorse da parte delle potenze internazionali per le quali il Sudan può diventare un vero e proprio “affare” regionale.


Esercito significa potere

La guerra fratricida che sta insanguinando il Sudan non sembra destinata a placarsi. I due contendenti, il generale Abdel Fattah al-Burhan a capo dell’esercito, e Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, a capo delle Forze di supporto rapido, sembrano essere intenzionati a portare alle estreme conseguenze il conflitto allontanando, in maniera irreversibile, il ritorno dei civili al potere. Processo politico che si era arenato alla vigilia dell’inizio del conflitto proprio per disaccordi tra i due signori della guerra. Il nodo non risolto e che ha portato allo scontro era proprio l’integrazione delle Forze di supporto rapido nell’esercito regolare, ma con dei “però”. Burhan, capo anche del Consiglio sovrano, voleva dettarne i tempi e il numero di paramilitari da integrare, Hemedti non era d’accordo, ma soprattutto, pretendeva un ruolo di primo piano nello stato maggiore del nuovo esercito che, però, non gli è stato garantito. Essere alla pari di Burhan, in termini di potere, nel nuovo assetto del Sudan, per Hemedti significava e significa mantenere il controllo di molte attività economiche, in particolare le miniere d’oro di cui il paese abbonda. Dunque, più che l’integrazione dei suoi paramilitari nell’esercito, l’oggetto del contendere è economico.

Lo stato parallelo

Da sempre, in Sudan, l’economia è controllata dai militari ed è ciò che ha frenato la transizione democratica e ha portato alla alleanza tra Burhan e Hemedti nel colpo di stato del 2021 che ha scalzato i civili dal governo di transizione. Già all’epoca del regime di Omar al-Bashir, deposto dopo la rivoluzione nel 2019, l’organizzazione economica faceva capo a uno stato parallelo, fatto di funzionari dell’apparato di sicurezza e delle istituzioni governative, che aveva lo scopo di consolidare il controllo sulle risorse economiche. Il colpo di stato del 2021 non ha fatto altro che impedire alle forze civili protagoniste della rivoluzione contro la dittatura, di smantellare la rete di controllo militare e, quindi, ritornare allo status quo.

Tutto ciò era già contenuto in un rapporto, Breaking the Bank, pubblicato nel 2022, dal Centro per gli Studi avanzati di Difesa, un’organizzazione statunitense senza scopo di lucro specializzata nell’analisi sui conflitti globali e problemi di sicurezza transazionale. Nel rapporto i ricercatori hanno mappato – come scriveva Nigrizia.it nel luglio dell’anno scorso – il sistema economico sudanese, dimostrando la capillarità del controllo militare, anche se definire il reticolo di cui è composta la rete delle attività economiche controllate dall’esercito è difficile perché opaco e impenetrabile.

Armamenti su licenza e import-export di risorse

Di sicuro il documento dei ricercatori americani prova che il governo, dunque i militari, sono titolari di numerose imprese, prima tra tutte è la Military Industry Corporation’s (Mic) che produce armamenti anche su licenza, in particolare russa, iraniana e di recente anche cinese. Questa azienda fa del Sudan uno dei più importanti produttori di armamenti africani, il terzo dopo Egitto e Sudafrica.

Ma ci sono anche aziende di assemblaggio di autovetture. Nelle mani dell’esercito c’è l’import-export del paese e una risorsa strategia, la gomma arabica, di cui il Sudan detiene il 50% della produzione mondiale.

L’oro e le banche

Poi c’è l’oro. Nelle mani del capo delle Forze di supporto rapido ci sono la maggior parte delle miniere. Il Sudan è il terzo produttore africano d’oro dopo il Ghana e il Sudafrica. A tutto ciò, e sempre nelle mani di Hemedti, si aggiungono diverse imprese finanziarie e banche. Mentre la Banca di Omdurman, la più importante del paese è di proprietà dell’esercito per l’86%.

Tutto ciò va a beneficio dei militari e non del paese, il Sudan rimane uno dei paesi più poveri al mondo dove oltre 18 milioni di persone soffrono di fame acuta. Ma tutto ciò spiega anche la ritrosia delle forze di sicurezza a passare le redini del potere ai civili, perché perderebbero enormi privilegi, e forse spiega questa guerra fratricida e insensata per i sudanesi, non certo per i militari.

Armi, basi militari e infrastrutture

Infine c’è la questione delle armi. Non è un mistero che dopo la visita del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, nel febbraio scorso, Mosca e Khartoum hanno finalizzato un accordo per la creazione di un centro logistico per la Marina russa in Sudan, a Port Sudan, sul Mar rosso. Lavrov ha incontrato Burhan e Hemedti promettendo loro di sostenere gli sforzi del Sudan per la revoca dell’embargo sulle armi da parte delle Nazioni Unite, che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, l’8 marzo 2023, ha deciso di estendere per un altro anno. Tredici dei quindici membri del Consiglio hanno votato a favore della risoluzione, mentre Russia e Cina si sono astenute. Non è mistero che la Russia sia uno dei maggiori fornitori di armi anche grazie all’impresa militare sudanese che le produce su licenza. La base navale russa sul Mar Rosso rappresenta, nel contesto geopolitico internazionale di oggi, una minaccia per l’Occidente e un grattacapo per la Cina che, invece, ha una base militare nel vicino Gibuti. Paese, tanto piccolo, quando ricco di insediamenti militari di tutto il mondo: francesi, americani, italiani, ma anche dei paesi del Golfo Persico.

Hemedti, poi, per ironia della sorte, ha visitato la Russia il giorno prima dell’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio 2022 e ha espresso la sua disponibilità o ospitare una base russa. Una garanzia per Mosca, ma gli analisti non escludono che anche una vittoria di Burhan, garantirebbe che l’accordo con il Cremlino diventi realtà.

L’embargo violato

L’embargo sulle armi, come si sta vedendo in questi giorni di drammatici combattimenti, è stato ampiamente violato. L’Egitto avrebbe mandato aerei da combattimento e piloti a sostegno dell’esercito sudanese guidato da Burhan e il generale libico Kalifa Haftar rifornimenti militari alle Forze si supporto rapido di Hemedti (che ottengono appoggio anche dalla compagnia di mercenari russi Wagner). Si ritiene, inoltre, che dietro il capo dell’esercito ci sia l’Egitto. Il generale Burhan proviene dai ranghi dell’esercito e dell’accademia militare egiziana, come il presidente dell’Egitto Abdel Fattah al-Sisi. Ma è anche vicino agli Usa e agli israeliani. Burhan ha giocato un ruolo fondamentale nel progetto di normalizzazione dei rapporti con Israele, poi sfociati con l’adesione del Sudan agli Accordi di Abramo. È accolto con favore nei paesi del Golfo, ma molti analisti ritengono che sia Hemedti a godere delle simpatie e dell’appoggio degli Emirati Arabi Uniti. Ma anche il governo italiano non disdegna di prestarsi all’addestramento dei “Diavoli a cavallo”, i tagliagole di Dagalo.

Tutti smentiscono, ma il rischio che il Sudan diventi un “affare” regionale è sempre più reale, come suggerisce Matteo Palamidesse in queste analisi registrate il 20 aprile 2023.

“Guerra civile in Sudan… con partecipazione esterna”.

 

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Sudan: scontro totale, si allontana la transizione democratica https://ogzero.org/sudan-scontro-totale-si-allontana-la-transizione-democratica/ Sun, 23 Apr 2023 17:35:07 +0000 https://ogzero.org/?p=10788 Lo scontro totale tra i due generali al comando in Sudan, alleati nel colpo di stato del 2021, è ormai guerra aperta. Oltre 100 civili hanno perso la vita. Le cancellerie occidentali, l’Onu e l’Unione africana lanciano continui appelli al cessate il fuoco che, allo stato attuale, sembra lontano dall’essere applicato. Anche la tregua per […]

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Lo scontro totale tra i due generali al comando in Sudan, alleati nel colpo di stato del 2021, è ormai guerra aperta. Oltre 100 civili hanno perso la vita. Le cancellerie occidentali, l’Onu e l’Unione africana lanciano continui appelli al cessate il fuoco che, allo stato attuale, sembra lontano dall’essere applicato. Anche la tregua per consentire l’evacuazione dei feriti, annunciata giorni fa, è durata pochissimo. Pubblichiamo qui un resoconto di Angelo Ferrari pubblicato in parte in Africa Rivista.


Come si è arrivati a questo punto?

Il divario tra il comandante dell’esercito, Abdel Fattah Barhan – a capo del Consiglio sovrano – e il suo numero due, Mohamed Hamdane Daglo, detto Hemedti – capo delle Forze di supporto rapido (Rsf) – si sta allargando sempre di più e una ricomposizione sembra essere difficile. Quello che appare abbastanza chiaro e che difficilmente potranno ripartire le trattative prima che uno dei due possa prevalere sull’altro o che entrambi subiscano perdite pesanti, tanto da indurli a trattare. Molti analisti convergono nel sostenere che anche in caso di vittoria di una delle due parti, in particolare nella capitale Khartoum, la guerra potrebbe continuare in altre parti del paese.

Il Sudan, a pochi giorni dall’inizio della contesa tra i due generali, sembra già essere piombato nello scenario peggiore e le prospettive non sono migliori. I due contendenti si accusano a vicenda dello scoppio delle ostilità e continuano ad annunciare nuove vittorie senza che nessuna fonte possa confermalo o smentirlo.

Come mai si è arrivati a questo punto? Nell’ottobre 2021 i due generali hanno unito le loro forze per cacciare i civili con cui avevano condiviso il potere dalla caduta del dittatore Omar al-Bashir nel 2019. Una alleanza di convenienza, legata più agli interessi economici che a una prospettiva politica di governo del paese. L’esercito di Burhan, ma anche le milizie paramilitari di Hemdti, hanno enormi interessi economici. L’esercito controlla molta parte dell’attività economiche del paese, le Forze di supporto rapido hanno nelle mani diverse miniere d’oro, una la condividerebbero anche con i mercenari russi della Compagnia Wagner. Hemedti, infatti, a stretti legami con Mosca, mentre il maggior partner commerciale del Sudan rimane la Cina. I due non hanno mai avuto una sincera collaborazione, ma solo l’interesse contingente di estromettere i civili dal potere, e se ne capiscono anche le ragioni visti gli interessi economici.

Dissapori e dissenso

I dissapori, infatti, sono presto venuti a galla. Hemedti ha più volte denunciato il “fallimento” di un golpe che secondo lui, avrebbe restaurato il vecchio regime di al-Bashir. Il dissenso vero, tuttavia, è nato quando si è trattato di firmare l’accordo per l’avvio del processo politico che avrebbe riportato nelle mani dei civili il potere in Sudan. Il nodo è stato il capitolo sull’integrazione delle milizie paramilitari nei ranghi dell’esercito. In gioco c’era il futuro dei paramilitari. L’esercito non ha rifiutato questo compromesso, ma ha voluto comunque imporre le sue condizioni di ammissione e limitarne l’integrazione. Hemedti, invece, rivendicava un’ampia inclusione e, soprattutto un ruolo centrale nello stato maggiore. Non solo, Hemedti ha denunciato il fatto che le raccomandazioni finali avrebbero ignorato le loro proposte relative alla tempistica dell’integrazione nell’arco di due anni. Hemedti si è sentito più autonomo e, proprio in virtù delle trattative, alla pari con Burhan e in grado così di realizzare le sue enormi ambizioni politiche. La trattativa si è interrotta e le conseguenze si vedono nello scontro fratricida che sta mettendo in ginocchio, ulteriormente, il Sudan, uno dei paesi più poveri al mondo.

Sudan:scontro totale

Hemedti e le Fsr

Le Forze di supporto rapido, create nel 2013 e guidate da Hemedti, riuniscono migliaia – si parla di 100.000 – ex janjawid, miliziani arabi reclutati da Omar al-Bashir per portare avanti la politica di terra bruciata nei confronti delle popolazioni di origine africana del Darfur. Questo conflitto, scoppiato nel 2003 tra Khartoum e membri delle minoranze etniche non arabe, ha causato 300.000 morti e 2,5 milioni di sfollati, secondo le stime delle Nazioni Unite, e fatto “guadagnare” all’ex dittatore sudanese due mandati di arresto della Corte penale internazionale per “crimini di guerra”, “crimini contro l’umanità” e “genocidio”. E al fianco di al-Bashir c’era proprio Hemedti. Nel 2004, Hemedti ha comandato direttamente uno dei massacri più feroci del conflitto del Darfur, quando ha ordinato l’assassinio a sangue freddo di circa 130 abitanti del villaggio di Adwa, che i janjawid hanno bruciato prima di stuprare centinaia di donne e seppellire gli uomini in fosse comuni.

Nel corso della sua vita, Hemedti si è dimostrato un soldato senza scrupoli, ma anche senza lealtà. Nel 2019 ha partecipato al rovesciamento del suo “padrino”, Omar al-Bashir, durante la cosiddetta rivoluzione sudanese, una mobilitazione popolare che finirà per reprimere brutalmente. Hemedti viene accusato del massacrato di più cento manifestanti in un solo giorno durante un sit-in nel giugno di quell’anno.

La rivoluzione tradita

La rivoluzione ha avviato un processo di transizione in Sudan e ha istituito un governo civile al quale Hemedti ha giurato fedeltà. Tuttavia, due anni dopo, nel 2021, i paramilitari al suo comando hanno ordito un colpo di stato insieme al capo dell’esercito, Abdelfatah al Burhan, diventando così vicepresidente del Consiglio sovrano, l’organo esecutivo del paese.

Sotto la pressione internazionale il Sudan ha avviato un processo politico per il ripristino delle istituzioni democratiche con la firma di un accordo quadro il 5 dicembre 2022 teso, anche, a rimuovere i militari dal potere. Il nodo non sciolto, che ha portato agli scontri di queste ore, è proprio l’integrazione delle Forze di supporto rapido nell’esercito. Hemedti non ci sta perché si ridurrebbe di molto il suo potere e lo spazio di manovra per i suoi affari. E a farne le spese è ancora la popolazione sudanese.

Le Forze di supporto rapido si sono unite nel 2015 alla coalizione saudita in Yemen – come mercenari – e alcuni di loro stanno combattendo anche in Libia. Una delle attività economiche di Hemedti è proprio quella di inviare mercenari in vari scenari di guerra. Nel 2019, poi, le Rsf sono state accusate di aver ucciso 100 manifestanti pro-democrazia a Khartoum durante un sit-in pacifico.

Resta dunque difficile che ci possa essere un riavvicinamento tra i due uomini forti del Sudan e quindi la riapertura del tavolo per l’accordo politico che porti il paese verso un governo formato da civili e che “allontani” i militari dal potere. Ad oggi, questa ipotesi sembra essere irrealizzabile.

E in tutto ciò ad andarci di mezzo è la popolazione civile. Più di un terzo dei 45 milioni di abitanti sudanesi già necessitavano di aiuti umanitari prima dello scoppio di questa insensata guerra fratricida. Il Programma alimentare mondiale, infatti, ha sospeso gli aiuti dopo la morte di tre membri del suo personale in Darfur, nell’Ovest del paese. Mentre accade tutto ciò le cancellerie internazionali vanno ripetendo i loro appelli al cessate il fuco che, però, sembrano cadere nel vuoto. Gli aiuti internazionali, poi, sono stati interrotti dopo il colpo di stato del 2021, e la condizione per la loro ripresa era proprio l’avvio della transizione democratica che è stata seppellita sotto le bombe.

Sudan:scontro totale

Gli unici attori internazionali in grado di far ragionare i due generali potrebbero essere la Cina, per i suoi legami commerciali con il paese, e la Russia per la sua amicizia con i paramilitari.

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La vita in codice https://ogzero.org/la-vita-in-codice/ Sun, 02 Apr 2023 21:32:17 +0000 https://ogzero.org/?p=10575 ChatGPT  (Generative Pretrained Transformer di OpenAI) viene sospeso dal garante il 31 marzo 2023; in precedenza Elon Musk, ma soprattutto ingegneri ed esperti di Intelligenza Artificiale, avevano chiesto una moratoria della ricerca e dell’interazione con sistemi informatici che si programmano per autoapprendimento. Si profilano scenari da Blade Runner in mezzo ai soliti lanci di allarmi […]

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ChatGPT  (Generative Pretrained Transformer di OpenAI) viene sospeso dal garante il 31 marzo 2023; in precedenza Elon Musk, ma soprattutto ingegneri ed esperti di Intelligenza Artificiale, avevano chiesto una moratoria della ricerca e dell’interazione con sistemi informatici che si programmano per autoapprendimento. Si profilano scenari da Blade Runner in mezzo ai soliti lanci di allarmi – spesso interessati (come nel caso di prodotti open source) –, e forse di quel film di Ridley Scott vengono a riproporsi piuttosto le figure inquiete di demiurghi alla Eldon Tyrell, contro cui le sue Creature “replicanti” si ribellano; certo che le proposte creative delle performance dell’Intelligenza Artificiale non offrono particolari guizzi geniali (dove forse si trovano a essere messi in gioco “concatenamenti” frutto di elaborazioni del pensiero personale), ma si riducono a compitini, a vacue accozzaglie di banalità… che possono essere confusi con brani o creazioni artistiche solo per la superficialità della maggioranza delle pubblicazioni culturali che ottengono successo solo grazie all’abbassamento del livello dell’elaborazione dei prodotti di ingegno della società – almeno quella italiana, narcotizzata da tutti gli organi di informazione e lo smantellamento di tutte le sedi preposte a istruire e diffondere erudizione. E il garantismo insito nella democrazia sconterà sempre un gap rispetto alle ricette superficiali ma repentine della tecnologia, non riuscendo a imbrigliare la sua pericolosità.
L’esatto opposto delle basi di questo intervento tanto creativo quanto colto e informato di Claudio Canal in bilico sul crinale tra Dna e tecnologia, tra le informazioni genetiche e quelle culturali; tra umanesimo, transumanesimo, postumanesimo, inumanesimo… mettendo in relazione i neuroni a disposizione del cervello umano dotato di sinapsi ben più avanzate degli algoritmi, in grado di replicare solo canovacci stantii e banali.

fin qui OGzero, ora le argomentazioni provenienti dalle sinapsi di Claudio Canal


De Sossiri – C’è un’aria tagliente oggi o solo io la sento?

Casnov – Non sbaglia, caro collega, infatti sono qui per fare il solito ritaglio, ma non vedo la cara Ribonu. Senza di lei come ci arrivo?

Ribonu – Scusate, ero sovrappensiero. Direi: Crìspalo, crìspalo adesso!

Si sente come un colpo di forbici grandi: Zac!

Shakespeare, Measure for Measure, Atto II, scena 1° [rivista]


L’agente CRISPR sfida la lotta per la vita sul pianeta.
Geopolitica della geogenomica

Qual è il ballo preferito dal Dna? Il tango, la mazurka o una balsamica zumba? Neanche per idea, Dna ama le marcette veloci nei rigorosi due/quattro tempi. L’hanno dimostrato molti laboratori che si sono applicati  alla sua sonificazione. Non metterei la mano sul fuoco sulla sostanza scientifica di certe applicazioni. C’è chi, al MIT di Boston, trascrive le vibrazioni sonore delle Variazioni Goldberg di J.S.Bach  in architetture di nuove proteine e, per quanto posso capire io, non mi sembra una baggianata. Scriveva Leonardo: Non sai tu che la nostra anima è composta di armonia? [Trattato della pittura, I/23: “Risposta del re Mattia ad un poeta che gareggiava con un pittore”].

Mattonelle del Castello di Buda di Mattia Corvino

Si può dunque ascoltare il Dna? Gli manca solo la parola, anche se possiede un alfabeto piccolo piccolo di quattro lettere con cui codifica ogni vivente e non solo (virus). Un cuoco con pochi ingredienti che cucina la vita.

Dna, in arte Acido Disossiribonucleico, ha dovuto aspettare non poco per essere scoperto e raccontarci con eleganza di che pasta siamo fatti. Da quando la sfortunata Rosalind Franklin ha mostrato la foto 51, i serpentelli in amore, la doppia elica danzante è entrata nel nostro immaginario tanto che è diventato luogo comune un po’ abusato dichiarare di avere questo o quello nel proprio Dna anche o soprattutto quando non è vero niente.

Era il maggio freddoloso del 1952, al King’s College di Londra la foto n. 51 veniva di fatto scippata dalle mani di Rosalind e iniziava la sua avventura sul palcoscenico della scienza. Sei anni dopo la scienziata sarebbe morta, trentaduenne. Ignota ai più.

Rosalind Franklon “osserva” la foto n. 51

 

Radici biotecnologiche

Lo sposalizio tra bio e tecnologie non risuona rassicurante, come succede invece al mistico bio prefisso a diversità, agricoltura, cibo, etica, architettura
Anche il Dna è dondolo, suscita a getto continuo speranze e paure, sogni e incubi. Nel 2002 l’editore Laterza pubblicava Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza [originale del 2000] di Richard Lewontin, noto biologo e genetista statunitense, deceduto nel 2021. Nella quarta di copertina si poteva leggere:

«Una volta che avremo a disposizione la mappa completa dei nostri geni, saremo in grado di predire lo sviluppo del nostro corpo, delle malattie, della nostra personalità? Comprenderemo meglio le relazioni sociali? Saremo capaci di creare la vita stessa? Da Darwin alla pecora Dolly, inclusi il determinismo biologico, le eredità della selezione naturale, la psicologia evolutiva, le indagini sociologiche sulle abitudini sessuali, la clonazione e il progetto Genoma umano: le critiche di Lewontin sferzano una falsa scienza e si abbattono sull’eccessivo orgoglio di quanti pretendono di dominare, oggi o in un futuro molto vicino, tutti i segreti della vita».

Domande e risposte buttate lì per promuovere un libro, ma non campate in aria. Dopo vent’anni ci è abbastanza chiaro.

Le Biotecnologie si prenderebbero la testa fra le mani se dovessero fornire una definizione di se stesse. Fare formaggio o yogurt è una biotecnologia. Anche il trapianto di fegato o di cuore lo è. Hanno a che fare con ciò che chiamiamo vita e, in certi casi, Vita, in rigoroso maiuscolo. Un campo di ricerca e applicazione in espansione accelerata che si scinde in subsegmenti di subsegmenti. Come la vita, d’altra parte, in cui bíos – la vita individuale e sociale – e zoé  – la vita biologica – si intersecano, si azzuffano e alla fine sembrano scambiarsi i ruoli.

«Io avrei affrontato in me stessa un grado di vita così primario da essere prossimo all’anonimato» (Clarice Lispector, La passione secondo G.H., La Rosa, Torino, 1982, pag. 17).

Per scrutare il Dna era stata concepita negli anni Ottanta del Novecento la Genomica, essendo la Genetica troppo generalista. Al suo fianco la bioinformatica per la eccezionale quantità di dati da trattare. Ne segue una esaltazione classificatoria che si diffonde nei laboratori e la genomica viene sottoposta a una “divisione cellulare” da cui si generano tecnoscienze che sbandierano la desinenza omics: proteomica, metabolomica, epigenomica, trascrittomica, lipidomicaignoroma.

da “Nature Reviews Gastroenterology & Hepatology”

Sembra una c.omica [nessuna parentela etimologica…] l’ingorgo di sentieri di ricerca da febbre dell’oro, dove l’oro è il processo che da qualche miliardo di anni guida il regno della vita e i suoi rituali cellulari. La discesa nel Dna e nei suoi infiniti brusii e moti primari si combina con l’esuberante potenza degli algoritmi. Questo accoppiamento postnovecentesco sollecita aspettative e promesse che nessuno sa se saranno mantenute, tradite o deviate. Mettere le mani sul codice della vita e manipolarlo con o senza secondi fini è l’ampio orizzonte entro cui si muove la genomica e la sua rigogliosa prole – da Joshua Lederberg, ‘Ome Sweet ‘Omics– A Genealogical Treasury of Words  (“The Scientist”, aprile 2001), a Separation Techniques Applied to Omics Sciences. From Principles to Relevant Applications, a cura di Ana Valéria Colnaghi Simionato (Springer, 2021); Wikipedia alla voce List of Omics Topics in Biology ne elenca, per ora, 45. La sesta edizione di 1520 pagine di un trattato universitario Biologia Molecolare della Cellula (traduzione Zanichelli di un’opera collettiva statunitense nota come “l’Alberts”), prevede per ognuno dei 24 capitoli un esteso paragrafo finale Quello che non sappiamo, che, a seconda dell’ottica con cui lo leggiamo, può essere di conforto o di disperazione.
Potremmo chiamarlo un hackeraggio del Dna.

Dispositivo CRISPR

Questo affanno epistemologico ha subìto un ulteriore stress quando una sigla tra le tante che fluttuano nel mare delle scienze ha cominciato a farsi notare:
Crispr. Si scioglie così: Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats che alla lettera si può tradurre Brevi ripetizioni palindrome raggruppate e separate in modo regolare, ancora meno comprensibile dell’originale. Provo: sequenze ripetute di Dna impiegate dai batteri come un vero e proprio sistema immunitario di protezione da acidi nucleici provenienti da altri batteri o da virus.
Venticinque anni di ricerca di base per capire che la sequenza Crispr è uno “schedario” dei Dna dei virus e batteri che in passato avevano sferrato attacchi ai batteri sotto osservazione. Lo “schedario” permette di riconoscere eventuali nuove incursioni e neutralizzarle con una proteina Cas9 [Crispr associated] adibita al taglio del Dna del virus o batterio invasore. Una specie di video gioco in cui, zak!,  non bisogna sbagliare il taglio del cordino infinitesimo che è minaccia.
La mia blasfema sintesi per dire che Crispr-Cas9 è un dispositivo che appartiene agli esseri viventi, perfetti sudditi della natura, come scriveva Giacomo di Recanati.

Nel 2012 due ricercatrici, Jennifer Doudna ed Emmanuelle Charpentier, precedute da una marea di studiosi e dall’attenta analisi della fermentazione del formaggio (e dello yogurt), si rendono conto che il congegno di taglia e incolla praticato dai batteri può essere con una certa facilità riprodotto da esseri umani dotati di intelligenza e di competenza adatte, senza dover spolpare i bilanci di super Stati, come succede ad esempio per l’energia atomica.
In sostanza, Crispr-Cas9 è un insieme di tecniche che permettono di localizzare una sequenza nel Dna di una cellula, rimuoverla, modificarla o sostituirla con una qualsiasi altra sequenza.

 

Si prende il meccanismo in prestito dai batteri e lo si trasforma in una tecnologia di intervento sulla vita. Cioè un prodotto ovvero una merce. Alla genomica vengono improvvisamente i capelli bianchi. Un invecchiamento folgorante. Era infatti concentrata sulla lettura del genoma, mentre si tratta a questo punto non solo di trascrivere-editing il Dna dei viventi [umani e non umani], ma di ricomporlo. Compito della biologia sintetica. Non più una interpretazione del reale, una teoria dell’esistente, ma – citando Bernanr Stiegler da un libro del 2008 (Ėconomie de l’hypermatériel et psychopouvoir-Entretiens avec Philippe Petit et Vincent Bontems) una teoria del possibile, una tecnoscienza che fa avvenire ciò che diviene. E Edward Bryan fornisce pure la prova dei mercati finanziari che scommettono sulla biologia sintetica in un dossier pubblicato nel febbraio 2022 per AllianceBernstein, La rivoluzione della biologia sintetica-Investire nella scienza della sostenibilità

Parte la maratona: migliaia di laboratori si mettono febbricitanti al lavoro, Nobel per la chimica 2020 alle due scienziate. Si può modificare il Dna dei viventi, con discreta facilità, precisione mai vista prima, relativa poca spesa. Sogni, chimere, castelli in aria. Si può guidare l’evoluzione umana, anzi, dei viventi tutti, proclama orgogliosamente la tecnoscienza asserendo, forse a sua insaputa, la materialità della vita e la sua universalità. Non noi e loro, ma solo noi viventi, di qualsiasi specie.

Questa interferenza suscita immediatamente due campi contrapposti:

  1. l’umanità ha una configurazione fissa che deve essere conservata. Guai a chi…! Sugli altri viventi – animali e piante – possiamo intenderci.
  2. l’essenza umana, se c’è, è flessibile e modificabile. In evoluzione, appunto.

Opposte categorie: umanesimo, transumanesimo, postumanesimo, inumanesimo

C’è, mimetizzato da qualche parte, un fronte neo hitleriano? Comunque la si voglia mettere, con CRISPR la biopolitica ha la sua celebrazione solenne. Un potere sulla vita, diretto, allo stato puro, drastico. Vita come campo di battaglia.

Il tumultuoso ginepraio di tecniche Crispr si traduce in migliaia di brevetti con le relative applicazioni industrial-commerciali, che manifestano una tendenza a crisperizzare presente e futuro. In simultanea si alzano grida di allarme: non tutto è innocente e benefico, si documentano danni irreparabili al genoma o esiti cancerosi. Crispr arma di distruzione di massa o elisir di vita nova? Il Nuovo Mondo è veramente brave new world?

Geopolitica

Il 26 novembre 2018 un sorridente biofisico annuncia  che sono nate due bambine a cui in fase embrionale ha modificato il Dna con tecnica CRISPR per renderle immuni all’HIV [AIDS]. Scalpore mondiale. Designer babies. Dopo un po’ il suo governo lo arresta e condanna a tre anni di carcere (non è chiaro in seguito a quale violazione di legge). Il biofisico si chiama He Jankui. Il governo è quello cinese. Lulù e Nana, le due bambine, sembra che non ne abbiano tratto vantaggio, anzi. E se un giorno He Jankui ricevesse il Nobel?
La biopolitica in forma di tecnoscienza inciampa così nella geopolitica. Il momento non è magico. Il Maestro del Mondo tentenna molto nella sua signoria. La splendida solitudine praticata dal 1989 viene poco alla volta rosicchiata dall’esterno e anche dall’interno. Siamo in un’epoca di ridefinizione dei rapporti di potenza e l’ex Contadino Arrabbiato dell’Estremo Oriente contende al Signore del Mondo la sua prerogativa. I due, Cina e Stati Uniti, sono molto interdipendenti economicamente (Global Times), non possono brutalmente disaccoppiarsi, decoupling come dicono gli addetti ai lavori. Il loro divorzio va per le lunghe, la loro separazione non consensuale procede un po’ alla volta e si realizza per ora sul piano della tecnologia, facilitando, di rimbalzo, il coupling, l’accoppiamento Cina/Russia. Sullo sfondo una guerra fredda che si intiepidisce e potrebbe anche diventare calda, se si presta attenzione alla nube che appanna Taiwan.

Il sistema mondo ha bisogno di un rimaneggiamento

Scriveva Giovanni Arrighi: «Uno stato dominante esercita una funzione egemonica se guida il sistema degli stati in una direzione desiderata e, nel far questo, è percepito come se perseguisse un interesse generale» (Il lungo XX secolo – Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, 2014, pag. 51)

Ecco, quest’ultima condizione per gli Stati Uniti non è più riconosciuta da buona parte del pianeta, esclusi governi italiani e consanguinei. Neppure la Cina sprigiona affabilità, nonostante i suoi rilevanti tentativi, la Belt Road Initiative – la nuova Via della Seta –, la fattiva presenza in Africa e in buona parte dell’Asia [ed Europa…], il suo prendere le distanze dal cosiddetto Occidente.  Dalla sua ha una straripante popolazione, in tendenziale decrescita, una coesione sociale imposta dall’alto che funziona epperò scricchiola, una crescita economica travolgente e tuttavia oggi in affanno, una capacità quasi unica di mobilitare menti e intelligenze e non solo corpi.
Anche la Cina deve prendere atto che conta molto la geo, la terra e non solo la politica. Geopolitica. La spaventosa siccità dei mesi estivi del 2022 e la conseguente drastica riduzione del motore dello sviluppo, la banale acqua, hanno messo in graticola popolazione e apparati, piani quinquennali e sviluppo. È indispensabile scongiurare una guerra con la Cina, ma altrettanto lo è esorcizzare una frenata della macchina produttiva cinese, a cui siamo ancora meno preparati.

Il lago Poyang nel tratto di Jinxian il 21 agosto 2022

I due contendenti intitolano il conflitto sulle nuove tecnologie alla propria “sicurezza nazionale” che inevitabilmente genera una spirale di insicurezza reciproca. I due governi sanno che il controllo delle nuove tecnologie emergenti determinerà il successo nel XXI secolo. Il vincitore di questa corsa sarà quello in posizione per guidare l’economia globale e godere dell’influenza e del potere che ne derivano.
Il primato degli Stati Uniti nelle scienze della vita e nelle biotecnologie è indiscutibile. Tuttavia è bene ricordare che fu sì l’URSS la prima a conquistare i cieli con lo Sputnik 1, ma a mettere per primo il piede sulla luna fu Neil Armstrong dell’Ohio. Come allora si tratta non di emulazione, ma di rivalità che negli ultimi tempi ha fatto a pezzi la feconda e significativa cooperazione che intercorreva tra i due. Il panico per le conquiste cinesi nell’intelligenza artificiale si è esteso anche alle biotecnologie (Il “balzo in avanti” nella ricerca scientifica compiuto dalla Cina non ha uguali: Qingnan Xie, Richard B. Freeman, Bigger Than You Thought: China’s Contribution to Scientific Publications and Its Impact on the Global Economy, “China & World Economy”, 2019, 27), con diverse drastiche iniziative di chiusura. Ma il settore biotecnologico è diverso da altri (per esempio quello dei semiconduttori), in particolare l’editing genomico è per sua natura transnazionale e a evoluzione rapidissima (Eric.S.Lander, The Heroes of Crispr, in Cell, 164, 1-2, 2016 la mappa n. 2). C’è rischio che la politica degli Stati Uniti si dia la zappa sui piedi.

Contro Usa contro Cina contro

Due decenni fa gli analisti pensavano che la Cina non avrebbe potuto diventare un gigante economico per l’eccessiva popolazione e per un reddito annuo pro capite pari a quello delle Filippine. Poi, nel decennio successivo, sarebbe invalsa l’abitudine di proclamare che sì, la Cina è economicamente gigantesca, ma tutto si basa sull’abilità di copiare i prodotti delle economie avanzate, non sull’innovazione, la quale ha bisogno di una società libera, di pensatori liberi e indipendenti, non sotto la cappa autoritaria di un regime centralizzatore… I sinologi più avvertiti davano un nome a questa abilità di riprodurre, Shanzhai, un neologismo riferito alla tecnologia che significa contraffatto, imitato. Per noi occidentali un termine spregiativo. Vuoi mettere la romantica creatività dell’individuo in cui si accende per miracolo la lampadina della ispirazione nella sua feconda testa e da cui a cascata poi piovono soluzioni scientifiche, prodotti, sinfonie, poemi. I cinesi in genere, soprattutto se giovani, interpretano Shanzhai come la capacità di incrementare, di migliorare, di far evolvere un quid già esistente. Per dirla in musica, variazioni su un tema.

Epistemologia caotica

Quatto quatto arriva il futuro nel nostro presente e si scopre, soprattutto gli Stati Uniti scoprono, che la Cina è diventata concorrente di livello, anzi competitor, che in effetti dà più l’idea, in questi settori chiave delle nuove tecnologie:

– intelligenza artificiale,
– telefonia di 5° generazione [5G]
– semiconduttori,
– QIS Quantum Information Science [meccanica quantistica applicata all’informazione computazionale]
– biotecnologie,
– energia green.

E non le nanotecnologie, la robotica, le scienze dei materiali, le neuroscienze, il metaverso ecc.? Va bene qualsiasi altro elenco che frulli digitale in mousse con qualcos’altro. È la famosa chaos-epistemology, da non intendersi come epistemologia del caos, il quale abbonda nella realtà, quanto proprio una epistemologia caotica, che non si preoccupa di conoscere, ma di agitare i sogni e i sonni. Lo fa gridando al lupo, al lupo e buttando sul piatto miliardi di dollari per rincorrere, sorpassare, lasciare indietro la Cina.

Se poi il presidente della medesima candidamente dichiara: Noi abbiamo afferrato ben bene lo scopo strategico di costruire un potere scientifico e tecnologico di livello mondiale… e sforzarci per essere i primi nei settori base e in quelli di frontiera non c’è scampo alla costernazione occidentale.

Il paradigma è cambiato. Se la Cina prima era il colosso dai soliti piedi di argilla, adesso è la minaccia da sconfiggere. Con ogni mezzo.

L’analogico senziente

Dentro gli stravolgimenti paradigmatici si sente un rumorino: è l’analogico che avanza, che torna da protagonista sulla scena. È doloroso che sia la guerra a ricordarcelo in mezzo alla nostra infatuazione per il digitale, il virtuale e le tecnologie che se ne nutrono. Bombardamenti, torture, stupri, devastazione, morte, dice la guerra. La vita dice: troppo caldo, troppo freddo, troppa acqua, troppo poca. Bellezza e virus. Nuovi sogni, nuove emozioni, nuova infanzia, nuova lunga vecchiaia. Pieno di gente che rovista nei cassonetti del mondo e quattro gatti [jeff bezos, mark zuckerberg, elon musk, bill gates] che potrebbero comprarsi sull’unghia metà del pianeta. Se gli addizioni il grappolo di oligarchi sparsi qua e là, si comprano tutto il pianeta, satelliti inclusi. Questo per dire che sarà pure una contesa tecnologica quella tra Cina e Stati Uniti, con rispettive confraternite, ma stiamo tutti col fiato sospeso in attesa che la stessa Cina decida o non decida di cosa fare di quella Cina che si chiama Taiwan, per fare un esempio molto analogico e scarsamente virtuale.

Le magnifiche sorti e progressive del digitale non imbottiscono tutto il futuro (David Sax, The Future is Analog, Public Affairs, New York, 2022).

Semaforo verde per Prometeo? Se si può fare una cosa, dobbiamo farla, dice il mito dell’imperativo tecnologico invece di soppesare quello che rischia di fare e sarebbe meglio non facesse. Non siamo forse stati creati come imago Dei? Dice una tradizione cristiana un po’ tirata per i capelli. Quindi con lui co-creatori. Giocando a dio siamo legittimati a cambiare l’evoluzione, a dirigerla come ci pare? Sì, naturalmente, evoluzione significa processo in trasformazione, non un codice fisso per l’eternità.

La paura del Demiurgo al cospetto della Creatura

«Ma noi abbiamo bisogno di pensare a fondo alle vaste implicazioni di una tecnologia potente e di come svilupparla in modo responsabile», dice Jennifer Doudna una delle due scienziate Nobel per il Crispr.

È in scena il rimorso degli inventori. Lo abbiamo già visto con l’energia nucleare o, più alla buona, la scienziata in quanto statunitense ha ben presente il caso dell’afroamericana Henrietta Lacks e il macroscopico business costruito sulle sue cellule immortali. Di cosa si preoccupa Doudna, che ha il DNA addirittura nel suo cognome? Del lato oscuro di Crispr? Sandy Sufian, Rosemarie Garland-Thomson sono due ricercatrici disabili che pongono domande vincolanti nel loro saggio del febbraio 2021 (The Dark Side of CRISPR). E infatti Doudna ribadisce:

«L’editing delle cellule germinali può inavvertitamente trascrivere nel nostro codice genetico le disuguaglianze finanziarie delle nostre società» (A Crack in Creation. Gene Editing and the Unthinkable Power to Control EvolutionCrack in Creation, p. 233)

Chissà perché cancellerei l’inavvertitamente?

Ma forse Doudna si preoccupa della ormai praticabile eugenetica di velluto? Vieni qua che ti togliamo il gene cattivo e, soprattutto, lo togliamo anche ai tuoi discendenti: più nessuno con i capelli rossi. La biodiversità va bene per piante e fiori, ma per gli umani è solo una disgrazia. Estremizzo, ma neppure tanto, una posizione presente in alcune correnti del postumano, del transumanesimo e, molto probabilmente, in alcuni laboratori genetici. Tutti convinti che sia finalmente arrivato il tempo dell’enhancemenet, del potenziamento, dell’aumento della condizione umana, del superamento dei limiti, del salto biologico di qualità. Un futuro aumentato. Sgombrato il negativo dalla vita, cioè la morte, ingombro fastidioso. Immortalità garantita, fra un po’.

Pensieri intriganti e intricati

«C’è una analogia strutturale tra genitori che modificano geneticamente i figli e genitori che li educano tradizionalmente… Non tutte le modificazioni genetiche sono moralmente legittime come non tutti i tipi di educazione sono moralmente appropriati».

Stefan Lorenz Sorgner è un filosofo assertivo e affilato, di cui sto appiattendo un pensiero composito, che non distoglie lo sguardo da una realtà completamente inedita: «guardo la forbice genetica di Crispr o l’editing genetico in generale, come la più importante invenzione scientifica di questo inizio del XXI secolo». Aggiungo, di mio: fino a non molto tempo fa si riteneva che più di due terzi del Dna fosse spazzatura, una materia oscura inerte, poi si è scoperto che invece no, pur non dando origine a proteine, ha un compito regolatore molto importante. Adesso si chiama DNA non codificante-Noncoding DNA. La scienza, come al solito, procede a sbalzi. Sempre più difficile essere lungimiranti.

Ruipeng Lei e Renzong Qiu sono una ricercatrice della School of Philosophy, Huazhong University of Science and Technology, e un ricercatore dell’Institute of Philosophy, Chinese Academy of Social Sciences, in Cina. Ragionando sulle radicali differenze tra l’editing genetico di cellule germinali, che hanno materiale genetico che può essere trasmesso ai discendenti, e quello praticato su cellule somatiche – per esempio quelle del fegato, che invece non hanno questa proprietà – toccano il tema della moralità di Crispr. Concludono con un esempio elementare, ma calzante circa la nostra attuale responsabilità verso il futuro degli umani:

«uno stato A lancia un missile sullo stato B e uccide persone innocenti violando il loro diritto alla vita. Lo stato A lancia oggi un missile che orbita per due secoli e solo dopo va a uccidere persone innocenti. Moralmente è del tutto irrilevante che il missile colpisca subito dopo il lancio o fra due secoli»

Si guardano ormai in cagnesco Cina e Stati Uniti, gli uni mettono tutti i possibili bastoni fra le ruote e lei canta l’inno all’autoproduzione, autosufficienza, autarchia, sovranità scientifico tecnica. Con i corollari che ne possono seguire in chiave di politica nazional/nazionalistica. Sono primedonne della ribalta globale, ma tra le quinte altri protagonisti si affacciano, per esempio l’India che nel campo delle biotecnologie e in specifico nell’Editing genomico sta accumulando una esperienza sostanziosa e mostrando un impegno più che ragguardevole, soprattutto nell’ambito delle coltivazioni, della produttività animale e delle malattie endemiche del Sud Asia [17]. E il Giappone, e il Qatar  e …

Editing the world

Battaglioni corazzati di ricercatori in tutto il mondo stanno espandendo a marce forzate le diverse configurazioni della tecnica Crispr. I geni dei virus, dei batteri, del bioma umano, animale e vegetale non si sono mai sentiti così tanto osservati e maneggiati. C’è un’atmosfera di esaltazione e di ansia utopica nei laboratori, che alimenta inediti sconquassi bioculturali e abissi di abominio. Sono in gioco i parametri fondamentali della vita, tanto che vedere il sommovimento in atto solo come una questione geopolitica tra grandi potenze si rivela una scena incartapecorita. E, come per qualsiasi tecnoscienza, si infiamma una famelica spinta industriale e commerciale che con l’acquolina in bocca intravede miraggi finanziari. Se questo inatteso brodo primordiale sia una chimera è troppo presto per dirlo. Non è invece presto, tornando alla geopolitica spicciola, sottolineare qualche tendenza significativa in ambito militare e agricolo, trascurando la sterminata applicazione in campo medico, difficilmente sintetizzabile.

Premessa simpatica e antipatica: chiunque con una formazione di scuola media superiore è oggi in grado di modificare il genoma di un essere vivente, animale o pianta, senza dover ricorrere a finanziatori formidabili bensì utilizzando i kit adatti a crisperizzarlo, ampiamente disponibili in rete – il caso della società The Odin del biohacker Josiah Zayner è il più noto (la rete è piena di ciarlatani, di genialoidi, di geni [plurale di genio] che operano con Crispr nella versione fai da te). La pericolosità di una proliferazione incontrollata della tecnica Crispr, il cui costo dei reagenti sul mercato Usa si aggira sui 20 dollari, è accuratamente analizzato nel cap. 6° di Genome Editing and Biological Weapons. Assessing the Risk of Misuse, di Katherine Paris (Springer, 2023).

Dual-use

Il criterio che cercava di definire il duplice uso / dual use di un prodotto ovvero la sua destinazione civile con accertate possibilità di impiego militare, caso paradigmatico l’energia nucleare, va svaporando in ambito biotecnologico pur continuando  la Cina a essere accusata di abusarne.  Se, per esempio, con la tecnica Crispr sarà possibile curare qualche tipo di cancro, sarà ugualmente possibile provocarlo, se sarà possibile incrementare una coltivazione basilare, sarà anche possibile ostacolarla. Altro esempio lampante dell’interscambiabilità e fluidità dei risultati è la Neuralink Corporation di Elon Musk che conta, a breve termine, di impiantare un chip neurale nel cervello umano, con finalità – ci mancherebbe – terapeutiche, anche se, al momento, la società è indagata per aver procurato la morte non necessaria in fase di sperimentazione ad almeno 1500 animali. Un piano di ricerca quello dell’interfaccia cervello-computer molto frequentato in ambito militare e Nato in particolare.

La militarizzazione delle biotecnologie non solo in Cina, ma dovunque, può realizzarsi senza recedere dalla loro destinazione “civile”. La nebbia di guerra, di cui parlava Clausewitz, aumenta, non diminuisce nella lettura di Wallace.
La smisurata e lievitante disponibilità di dati sul genoma dei viventi, rende l’applicazione bellica desiderabile e, combinata con altre tecnologie, utilizzabile nel teatro di guerra, senza dover incappare nella deterrenza nucleare che ha regolato la Guerra Fredda: tu spari il primo colpo atomico, io rispondo ed è la fine per entrambi. Cassandra suggerisce che si potrebbero avviare genocidi con bersaglio una certa popolazione ben taggata geneticamente, avendo come mandanti non solo grandi potenze o consueti stati canaglia o regimi apocalittici, come qualcuno li chiama, ma anche compagnie di ventura private, i contractors, ben attivi sul mercato geopolitico, reti mafiose onnipresenti, gruppi terroristici di varia specializzazione.
Attori statali e molti attori non statali. Guardando indietro: l’impero coloniale inglese è stato creato da una compagnia commerciale ben organizzata e non dall’esercito di Sua Maestà. Questa panoramica che risuona di echi di guerra appare linda e stuzzicante perché riesce a strofinare via il suo prodotto finale più genuino, il sangue umano sparso a terra.

Lo scorso ottobre un gruppo di genetisti ha pubblicato su Nature l’articolo Contrastare la militarizzazione della ricerca genetica da parte degli estremisti in cui documenta come la diffusione dei risultati di laboratorio possa incrementare tendenze razziste già ben presenti nella società, in questo caso gli Stati Uniti. Uno degli autori si era accorto che nel documento di 180 pagine pubblicato sui social dal suprematista bianco e fascista orgoglioso, il diciottenne Payton Gendron, era citata con ammirazione una sua ricerca. A maggio il razzista ha ucciso in diretta streaming dieci persone, quasi tutte afroamericane, sparando con un fucile in un supermercato di Buffalo, NY.

Foschia di guerra

In contrasto con questa popolarizzazione delle tecniche di editing genomico, negli ambienti militari prolifera un’ossessione golemica: la creazione del soldato aumentato, non solo per le armi letali che maneggia, ma per la sua strabiliante qualità umana. Opera notte e giorno, non sa cos’è il dolore, quello degli altri meno che mai, sopravvive in ambienti infernali, ha la vista dell’aquila, l’aggressività del leone affamato, è nefasto come un fulmine, immune da fragilità fisiopsichiche come un cherubino, intelligente almeno come Einstein. Un campo di battaglia gremito di vispi David che abbattono uno dopo l’altro i corpulenti Golia che osano presentarsi. Il sogno dei generali, dalla Guerra di Troia. L’alta concentrazione di studi (e di laboratori) sul guerriero superman, Übermensch, può darsi dia qualche risultato bellico, ma soprattutto racconta di un’antropologia militare tentata dalla mitologia in versione contemporanea cioè transumanista, un frullato di Ercole, Maciste, Rambo e Batman. Il Ministero della difesa britannico con quello tedesco parlano infatti di augmentation e non di miglioramento, come consentirebbe il termine enhancement, riferendolo ovviamente all’uomo maschio perché quando si tratta di uomo femmina per accedere alle meraviglie dell’aumentazione deve prima praticare la suppression delle mestruazioni, tanto per cominciare.

Nella foschia il microchip ci vede benissimo

Il nostro sguardo è concentrato sulle Grandi e Medie Potenze, su ciò che arriva ai nostri occhi, e non mi pare che si vedano in giro altri Julian Assange a rovistare  nei sancta sanctorum delle Potenze medesime mettendo in gioco la propria esistenza. È uno sguardo appannato quello con cui scrutiamo gli alti comandi degli stati e forse dovremmo anche scandagliare i tanti hitlerini che gironzolano per il pianeta con intenti predatori. Grabbing non solo di terre, materie prime, acque, biodiversità… ma anche di Dna che la tecnica Crispr ha reso manipolabili e indirizzabili. Sarebbe bene frugare a passi felpati in anonime cucine, cantine, garages, capannoni di periferia, imprese familiari, per mettersi al riparo da future sorprese non gradite e, nello stesso tempo, trarre frutto da questa caotica democrazia genetica per acquisire innovazioni che promuovano equità e non nuove disuguaglianze, che scalfiscano la scienza cementificata nelle istituzioni e nelle imprese multinazionali, che ogni volta aprano e incentivino una discussione pubblica su ciò che è veramente umano. Nella vasta e dispersa comunità di biohackers sarà necessario trovare il punto di equilibrio tra le sperimentazioni dissennate e i disciplinamenti arbitrari. Crispr si lascerà governare?
Mentre noi ci disponiamo ad aguzzare lo sguardo, se ne posa uno su di noi, molto penetrante, nel nostro intimo che più intimo non si può. La sorveglianza genetica in Cina da parte degli apparati governativi ha già racimolato un gruzzoletto di 80 milioni di Dna, negli Stati Uniti si rastrellano quelli degli immigrati, dei detenuti, dei delinquenti e,  meglio essere previdenti, dei neonati. La cara Unione Europea si impegna a far la sua parte.
Che siamo noi stessi a fornirli gioiosamente alla rete o siano scavati ed estratti da altri, il finale non cambia: fantastilioni di dati personali sono minuziosamente accatastati in megacapannoni detti data base, sparsi per il mondo e posseduti da una dozzina di proprietari che ne fanno merce squillante per i loro salvadanai. Le biobanche, in particolare, cresceranno esponenzialmente perché tutti vogliamo che siano debellate quelle malattie che ci fanno paura e quei virus malefici che si sono risvegliati, ben vengano perciò sequenziamenti e screening genetici di massa e magazzini di materiale biologico. Il tecno ottimismo che ci guida (detto anche tecno misticismo) lo esige e se Crispr, o chi per esso, ci promette una panacea per la nostra salute siamo disposti a rinunce anche consistenti. Dentro questa contraddizione, internet + genomica, siamo sballottati e senza grandi idee sul come attraversarla, mentre la Guerra Fredda 2.0 si sta srotolando sul contenimento tecnologico soprattutto dei microprocessori, i chips, che in quanto manufatti prodotti da un’industria rientrano in un quadro visivo tradizionale, più familiare. Una fabbrica con operai e operaie che vanno e vengono, un prodotto impacchettabile, dei consumatori in carne e ossa. La principale azienda produttrice si chiama TSMC, ha sede a Taiwan, ha filiali in Cina e, fra poco, anche in Arizona. Triangolazione bollente che riconosciamo al primo colpo. Crispr e ingegnerie genomiche affini sono meno a vista d’occhio, dunque quasi per niente avvistabili e soprattutto contenibili dalla sorveglianza istituzionale, dalle legislazioni, dalle etiche oggi prevalenti né, presumo, da quelle future.

Dacci oggi

Bazooka, granate e mitragliatrici, rimpiazzate da funghi, muffe e animaletti. Non è un nuovo videogioco per bebè, è uno scenario di guerra. Di agroguerra, un termine che mi invento ipso facto e che applico a una variante della guerra dei mondi che il capitalismo periodicamente ci regala. La cattivissima Cina può impossessarsi del Dna di un seme ogm usato negli Stati Uniti e alterarlo in modo tale da distruggere i raccolti. Proprio così, scrive un rapporto di una commissione governativa di Washington, anche se fino a poco fa vantavano la loro trentennale collaborazione nel settore agrario. Succede nelle migliori famiglie che, aumentando i dissapori, ogni gesto sia percepito come ostilità dichiarata. Nelle collettività in subbuglio tutto diventa strategico. In Iran lo è per le donne togliersi il velo e per il regime impiccarle e con loro chi le appoggia. È un vicolo cieco, finché non si capovolge la strategia dominante. Per farlo è necessario ogni tanto distogliere lo sguardo dai contrasti tra Grandi e setacciare invece lembi e frammenti di una realtà in grande fermento

Agricultural Biotechnology: Latest Research and Trends è un libro di 741 pagine sulle novità delle biotecnologie in agricoltura curato da Dinesh Kumar Srivastava, Ajay Kumar Thakur, Pankaj Kumar; sfogliandolo si sente sgorgare a più voci un’ode alle prodezze dell’ingegneria genomica, le NBT (New Breeding Techniques- nuove tecniche di ibridazione), Crispr e consanguinei. Molti paesi subiscono la scarsità di precipitazioni? Non possiamo ancora modificare il Dna della pioggia, ma possiamo crisperizzare semi, piante e terreni per insegnargli, già dopodomani. a fare a meno dell’acqua.
Fa molto caldo, per equilibrare il loro tasso metabolico i parassiti diventano sempre più voraci? Crisperizziamo a man bassa piante e tutto il resto. In certi luoghi del pianeta si crisperizzano alla vecchia maniera: Dacci oggi il nostro pane quotidiano.
Ci sono, non dubito, elementi di verità in queste attese un po’ messianiche e nelle migliaia di ricerche, esperimenti e applicazioni che si avvantaggiano del caos normativo che differenzia e qualche volta contrappone il comportamento degli stati. Le spinte del mercato costringono i legislatori a riprendere la discussione sugli ogm, mentre il fronte dei crisperizzatori ribatte che non si tratta di transgenico, non viene infilato un gene di altra specie, ma viene semplicemente aggiustato il genoma, la vita sulla terra non viene seviziata. L’effervescenza  del settore è alta, promette bene, piccoli e grandi attori ci scommettono, vale dunque la pena osservare ciò che si agita alle falde.

Biopirateria

Nel 1876 Henry Wickham arriva in Amazzonia per conto dei Reali Giardini Botanici di Londra, raccoglie 70.000 semi di gomma, si fa spiegare ben bene dai nativi come conservarli perché facilmente deperibili e, com’è come non è, a fine Ottocento il Brasile perde il monopolio della gomma che passa all’impero coloniale britannico. Il drenaggio delle risorse genetiche, come ci ha mirabilmente spiegato Crosby, è un tratto essenziale del rapporto Nord/Sud del mondo ed è molto in auge anche oggi, con due varianti. Quella tradizionale, chiamiamola estrattiva, che si impossessa direttamente del materiale genetico vegetale e animale, spesso frutto di un sapere antico, per esempio in Kenya, in Brasile e in generale, quella contemporanea che chiamerei, privatistica, che può accumulare dati genetici a piene mani impugnando una biotecnologia molto sviluppata. La frenesia genomica ha fatto sì che un sistema di conservazione dei miliardi di dati riguardanti il sequenziamento del Dna sia diventato una miniera d’oro in far west normativo. Sono tre i grandi contenitori di dati genetici: GenBank negli Stati Uniti, l’europeo EMBL-EBI e il giapponese DDBJ, pubblici e accessibili. Ci sono poi migliaia di banche dati private, di cui non si sa quali e quanti dati genetici custodiscano, sappiamo però che usufruiscono ampiamente delle banche pubbliche per realizzare le loro sperimentazioni e i loro affari. Si è riusciti nel 2016 a immagazzinare un video musicale, 100 libri e un data base di semi su un filamento di Dna grande come una punta di matita. Si riesce nel gennaio 2023 a produrre sequenze di proteine avendone decodificate 280 milioni. L’abbiamo già incontrata, è la biologia sintetica (o biologia di sintesi o SynBio) che consente, decodificando e ricodificando, il trasferimento digitale senza scambio fisico di materia biologica. E siccome tutto è merce, come predica l’andazzo prevalente, tutto è mercificabile, anche la vita stessa, soprattutto se in forma di astratto codice che di per sé non dà segni di vita, non piange, non ride. Fa da bancomat.

Privatizzazione e commercializzazione

È una pacchia. Scarichi una sequenza e la ricrei in laboratorio. I ricercatori che credono di sapere il latino dicono che tutto avviene in silico, gli altri parlano di Digital Sequence Information- DSI. Acchiappi la zanzara giusta, l’anofele, responsabile della malaria che, in Africa specialmente, uccide centinaia di migliaia di persone, soprattutto bambini e bambine, fai una microriparazione al Dna (detta Gene drive o genetica direzionata) e il gene diventa estintivo,  in questo modo poi lo si può brevettare e commercializzare. Le care estinte sono le zanzare femmine che portano così al collasso l’intera popolazione di animaletti assassini. In laboratorio. All’aria aperta non è ben chiaro se tutto fili così liscio. I piedi di piombo o principio di precauzione sarebbero benvenuti. Nel caso delle cuginette, le vespe,  l’estinzione avviene solo parzialmente e quindi l’esperimento fino a questo momento non sembra funzionare come da previsione. Sarebbe comunque gradito un registro pubblico dei test di gene drive o forzatura genetica, per evitare che le sperimentazioni dal vivo siano generosamente praticate là dove il neocolonialismo continua ad insediarsi con caparbietà, per esempio l’Africa.

Accaparrare biodiversità (“l’inventore” della biodiversità Nicolaj Vavilov [1887-1943] finì la sua vita nel gulag staliniano e, come lui, Aleksandr Čajanov [1888-1939], il più significativo teorico dell’impresa contadina a conduzione familiare) è diventato un must per molte corporations agroindustriali – farmaceutiche e simili – e per agrogenetisti a disposizione del miglior offerente. Si riproduce qui il dual use già evocato.

Tecnologie che sfiorano l’onnipotenza possono essere impiegate per distruggere territori interi o per farne fiorire altri. A scelta. L’infatuazione genomica apre le porte all’eugenetica tuttigusti, per grandi e piccini, ricchi e poverini. Piante in stile e fashion o augmented and multitasking animals: le fantazoologie di Emily Anthes e di Sukanta Mondal sono alla portata di molti.

Mi attrae un libro dal titolo allettante (Women in Sustainable Agriculture and Food Biotechnology. Key Advances and Perspectives on Emerging Topics di Laura Privalle) e dalle inedite informazioni storiche, dalle lodevoli intenzioni pedagogiche (Biotechnology in the Classroom), dalla solidarietà all’Africa’s Fight for Freedom to Innovate e, in ultimo, dalla curatrice che è una ricercatrice dipendente della BayerCropScience, North Carolina, cioè ex Monsanto acquisita dalla Bayer ovvero il connubio luciferino bigpharma e agroindustria globale.

Il biocapitalismo ci sa fare: «Siate astuti come serpenti e puri come colombe» (Matteo 10,16), diceva lui, ma si rivolgeva ai poveracci della Galilea e non agli impresari locali né agli affaristi romani in trasferta.

Il capitolo primo dell’eugenetica è stato scritto nel secolo XX, ed è una lettura ripugnante. Il capitolo secondo lo si sta scrivendo e non è chiara la trama, che oscilla tra lifting della natura a fini produttivistici o estetici e biopirateria e bioprospecting che si sovrappongono starnazzando come la gallina dalle uova d’oro. Ha un nome geopolitico un po’ altisonante lo strillo: agroterrorismo, dal futuro garantito e da una storia non  trascurabile. Può applicarsi alla catena di distribuzione del cibo, alla salute degli animali e di conseguenza a quella umana, ai patogeni per le piante…Una vasta gamma di eugenetiche o, meglio, di disgenetiche per combattere in una qualsiasi forma di guerra, che da sempre è una tecnologia sociale che procede per accumulo. La baionetta si accompagna tranquillamente con i droni, il ratto delle Sabine [=lo stupro di massa] con i bombardamenti a tappeto, le compagnie di ventura [=mercenari parastatali tipo Gruppo Wagner] con gli eserciti professionali di stato e Stati Maggiori. Le avvisaglie di un insolito teatro bellico non mancano. Non ci si potrà più lamentare delle braccia rubate all’agricoltura.

Morale della favola / Favola della morale

C’era una volta una scuola a cui accompagnavo ogni tanto un’amica, si insegnava Taglio e Cucito. Tecniche di ieri, molto in vigore oggi, non per aggiustare tessuti, ma per correggere la vita. Si annunciano benefici, si fiutano sventure. Non è chiaro se siamo immersi in una biofiction, come la chiamano, o se effettivamente i viventi tutti stiano per rigenerarsi, chi oggi chi domani o dopodomani, volenti nolenti.

Il futuro non sta bene di salute. È incerto. C’è chi ne ha paura, chi lo cavalca in sogni diurni, chi lo scambia col passato. Lui capita qua e là in incognito, sempre più biopolitico a prospettare mutazioni dei corpi e dei sistemi neurologici/cervelli, umani animali vegetali.
Questa farfalla non è una farfalla.  No, effettivamente è una farfalla. Insomma, è una farfalla umanizzata. Contiene un gene di una persona, il bioartista Yiannis Melanitis esponente dell’arte transgenica. In più la farfalla e l’uomo condividono lo stesso nome, lei è Leda Melanitis.  Non solo, dunque, ontologie linguistiche, ma scambio genetico come è di norma nella riproduzione dei viventi. Una riaffermazione della interconnettività tra esseri? Un reiterato dominio dell’umano? Una disinvolta indagine sulla vita? Arte chiaroveggente?

Un Ovidio futuro avrà materiale per poetare sulle nuove metamorfosi. Sarebbe meglio che prima di allora si creassero nuove metafore sull’interazione tra i regni viventi (regni!), tra vita sociale-biologia-tecnologie. Le scienze sono potenti, ma non onnipotenti. Corruttibili e, qualche volta, colluse. Le tecnologie godono in modo sproporzionato della loro sacralità. Non confessano depravazioni ed empietà, che hanno patito e patiscono invece le religioni. La vita sociale, che sia quella umana o quella delle api, fa la parte del parente povero. Il clamore mediatico qualche volta si agita ben bene prima dell’uso, intorbidando, o stordisce, tacendo.  Un’informazione non burattina sarebbe già una conquista. I viventi umani potrebbero dedicarsi a elaborare una genEtica non dozzinale e vulnerabile. Se siamo ancora in tempo.

Questo romanzo è opera di fantasia, tranne per le parti che non lo sono (Michael Crichton, Next, 2006).


Alcuni testi di riferimento:

Per ricostruire precedenti e conseguenti della scoperta di CRISPR-Cas9 sono a disposizione ormai bibliografie sterminate: Anna Meldolesi, E l’uomo creò l’uomo. CRISPR e la rivoluzione dell’editing genomico, BollatiBoringhieri, Torino, 2021; l’ottimo blog da lei diretto Crispermania e l’edizione italiana non fluentissima di Kevin Davies, Riscrivere l’umanità. La rivoluzione CRISPR e la nuova era dell’editing genetico, Raffaele Cortina editore, Milano, 2021.
Di Jennifer A.  Doudna e Samuel H. Sternberg, A Crack in Creation. Gene Editing and the Unthinkable Power to Control Evolution, Houghton Mifflin Harcourt, NY, 2017. Importante anche perché Doudna un po’ “mette le mani avanti”  sui pericoli insiti nella tecnica a cui ha contribuito.
Dare un nome alle cose: su come si è giunti a Crispr v. il capitolo terzo di CRISPR People. The Science & Ethics of Editing Humans, di Henry T. Greely, MIT Press, Cambridge, Mass., 2021. Senza tener conto del fatto che c’è ancora un contenzioso apertissimo su chi abbia veramente inventato la biotecnologia Crispr se le due Nobel o Feng Zhang dell’MIT: H. Leidfort,  Major CRISPR Patent Decision won’t end tangled dispute, in Nature, 17.03.2022. I criteri usati dall’Accademia di Svezia non sono quelli dell’Ufficio Brevetti degli Stati Uniti.

Categorie schierate sui due fronti: Umanesimo, transumanesimo, postumanesimo, inumanesimo:
E. Kirksey, The Mutant Project: Inside the Global Race to Genetically Modify Humans, Bristol University Press, 2021;
Aa.Vv., Critica al transumanesimo, Nautilus, Torino, 2019.

Sul concetto di “Shanzhai”:
Jeroen de Kloet, Chow Yiu Fai, and Lena Scheen, a cura di, Boredom, Shanzhai, and Digitisation in the Time of Creative China, Amsterdam University Press, 2019

Stefan Lorenz Sorgner, We Have Always Been Cyborg. Digital Data, Gene Technologies, and an Ethics of Transhumanism, Bristol University Press, 2022, pgg: 8-9, 193. Nonostante insegni in Italia, presso la John Cabot University di Roma, non mi pare che il lavoro complessivo di questo pensatore tedesco abbia suscitato nel nostro paese reazioni significative. Posso sbagliarmi, neppure il tema in generale ha incuriosito, eccetto gli importanti lavori di Mauro Mandrioli, docente di genetica all’università di Modena e Reggio, From genome editing to human genetic enhancement: a new time for discussing eugenics?, in Scienza&Filosofia, n. 27, 2022, e idem L’uomo creatore di se stesso. La rivoluzione della genetica tra nuove possibilità e (in)evitabili rischi, in Scienza&Filosofia, n. 24, 2020.

Su che cosa stia cambiando tra gli eterni contendenti cino/indiani è ben chiarito da Abhay Kumar Singh,  India-China Rivalry: Asymmetric No Longer An Assessment of China’s Evolving Perceptions of India,  Manohar Parrikar Institute for Defence Studies and Analyses, New Delhi, 2021: Il futuro delle due potenze sarà una cooperazione competitiva o un conflitto per l’egemonia?

Per approfondire la relazione in ambito bellico dell’interfaccia uomo-macchina, oltre ai capitoli curati da Alessandro De Pascale e da Gabriele Battaglia per l’opera collettanea 2023: Orizzonti di guerra (OGzero, 2023), un testo datato ma ancora valido è quello di Jonathan D. Moreno, Mind Wars. Brain Science and the Military in the Twenty-First Century, Bellevue Literary Press NY, 2012. Sul proverbiale accrescimento della truppa da parte degli Alti Comandi: Norman Ohler, Tossici. L’arma segreta del Reich. La droga nella Germania nazista, trad. Chicca Galli, Rachele Salerno e Roberta Zuppet di Der totale Rausch. Drogen im dritten Reich, Rizzoli, 2015; ma anche Łukasz Kamieński Shooting up. Storia dell’uso militare delle droghe, Trad. Chiara Baffa, Utet, 2017; la correlata somministrazione di sostanze per inibire remore o per accentuare le prestazioni fisiche, come il recente uso del Captagon nel conflitto siriano: Héloïse Goodley, Pharmacological performance enhancement and the military. Exploring an ethical and legal framework for ‘supersoldiers’ (The Royal Institute of International Affairs Chatham House, novembre.  2020). Jean-François Caron tenta una metainterpretazione comparativa in A Theory of the Super Soldier. The morality of capacity-increasing technologies in the military, Bellevue Literary Press, NY, 2018.

A proposito di microchip: Chris Miller (Chip War. The Fight for the World’s most critical Technology, Scribner, 2022) ricorda giustamente Federico Faggin, il creatore del primo chip nel 1971, ma non dedica un accenno alle biotecnologie e a Crispr. Ruolo dell’Europa in questa “guerra” di semiconduttori. Mi ripeto: gratta gratta anche le tecnologie più di frontiera hanno bisogno di quella cosa molto terra terra chiamata terra. In caso di siccità la produzione di chips ne patisce molto avendo un ingente bisogno di acqua pura. No water no microchips.

Una panoramica ben documentata su privatizzazione e commercio di Dna si trova in Biotechnology, Patents and Morality. A Deliberative and Participatory Paradigm for Reform, di Maureen O’Sullivan (Routledge, 2020).  

Alcune dritte sul Teatro bellico: Panoramica generale,  Panoramica generale n. 2, Panoramica generale n. 3 e curiosa pretesa di dotarsi di “armi bioterroristiche”, Nepal, Le difficoltà di difesa dall’agroterrorismo, l’India, Sospetti sulla Cina e Russia?  Agroterrorismo in Brasile, Modelli di difesa dall’agroterrorismo,  Maria Lodovica Gullino, James P. Stack, Jacqueline Fletcher, John D. Mumford (a cura di): Practical Tools for Plant and Food Biosecurity. Results from a European Network of Excellence, Springer, 2017, in particolare il cap. 2 di Frédéric Suffert: Characterization of the Threat Resulting from Plant Pathogen Use as Anti-cropBioweapons: An EU Perspective on Agroterrorism.
Alberto Cique Moja, Pedro Luis Lorenzo González, Del empleo estratégico de las armas biológicas al agroterrorismo: preparación y respuesta, cap. V di un ampio studio sulla Amenaza biológica dell’ Instituto Español de Estudios Estratégicos: IEEE, 2023, con speciali riferimenti a Crispr.

 

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Kamala Harris in Africa: investimenti e basi contro il pericolo Cina https://ogzero.org/kamala-harris-in-africa-investimenti-contro-il-pericolo-cina/ Fri, 31 Mar 2023 11:19:41 +0000 https://ogzero.org/?p=10651 Gli Stati Uniti si sono impegnati a fornire aiuti per 100 milioni di dollari agli stati dell’Africa occidentale che si affacciano sul Golfo di Guinea per combattere l’estremismo e l’instabilità. E stanno pensando all’apertura di una base Africa Command proprio sulla costa occidentale del continente. Anche gli Usa – come già stanno facendo altri paesi […]

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Gli Stati Uniti si sono impegnati a fornire aiuti per 100 milioni di dollari agli stati dell’Africa occidentale che si affacciano sul Golfo di Guinea per combattere l’estremismo e l’instabilità. E stanno pensando all’apertura di una base Africa Command proprio sulla costa occidentale del continente. Anche gli Usa – come già stanno facendo altri paesi occidentali – girano lo sguardo verso questi paesi minacciati dal dilagare del terrorismo negli Stati del Sahel, in particolare Mali e Burkina Faso, che sta sempre di più spostando la sua attenzione verso il Golfo di Guinea.

Investimenti, accordi pubblico-privato e sicurezza

L’annuncio è stato fatto dalla vicepresidente degli Stati Uniti, Kamala Harris, in visita in questi giorni in tre paesi africani: Ghana, Tanzania e Zambia. «Accogliamo con favore l’importante posizione del Ghana nella regione del Sahel e vi ringrazio per la vostra leadership in questa», ha detto Kamala Harris in un discorso nella capitale ghanese, Accra. «Oggi sono lieta di annunciare 100 milioni di dollari a Benin, Ghana, Guinea, Costa d’Avorio e Togo per aiutarli ad affrontare la minaccia dell’estremismo e dell’instabilità», ha aggiunto. La vicepresidente degli Stati Uniti ha anche sottolineato il piano strategico del presidente americano Joe Biden per prevenire i conflitti e promuovere la stabilità nella regione africana del Sahel. Il piano degli Usa, sviluppato durante il vertice Usa-Africa del dicembre scorso a Washington, poggia le sue basi su un approccio più legato agli investimenti per piani di sviluppo concertati con i paesi africani, che si possono sintetizzare in un cambio di passo:

non più “cosa possiamo fare per l’Africa, ma cosa possiamo fare con l’Africa”. Un cambio di paradigma che la vicepresidente americana ha più volte sottolineato durante questo suo viaggio – termina sabato 1° aprile – e cioè non più un approccio dove prevale l’aspetto securitario, ma dove a prevalere sono gli investimenti mirati pubblico-privato.

Gli Stati Uniti, dunque, vogliono tornare a esercitare un’influenza che si è un po’ annacquata negli ultimi anni soprattutto sul piano economico e dello sviluppo, visto che nell’ultimo decennio ha prevalso la politica securitaria che ha lasciato ampio spazio di manovra, sul piano commerciale, alla Cina e ora anche alla Russia che sta tornando a essere protagonista nel continente africano. Gli Usa, tuttavia, tengono sotto traccia la “disputa” con Pechino, non “chiedono di scegliere”, ma continuano a ritenere di offrire un modello “migliore”.

Kamala Harris in Africa

I numeri di Usa e Cina in Africa

Gli Usa hanno esportato 26,7 miliardi di dollari di beni e prodotti in Africa nel 2021 e, nello stesso anno, hanno importato 37,6 miliardi di dollari di beni dall’Africa, con il privilegio di importare prodotti senza dazi doganali in decine di paesi del continente. Nel 2011, le esportazioni statunitensi nel continente ammontavano a circa 32,8 miliardi di dollari e le importazioni a circa 93 miliardi di dollari. Se guardiamo alla Cina i numeri sono di tutt’altra entità: il commercio bilaterale totale tra il continente africano e la Cina nel 2021 ha raggiunto i 254,3 miliardi di dollari, in crescita del 35,3% su base annua. L’Africa ha esportato 105,9 miliardi di dollari di merci in Cina, un valore in crescita del 43,7% anno su anno. La Cina, dunque, è rimasta il principale partner commerciale dell’Africa per 12 anni consecutivi. A ciò si aggiungono gli investimenti infrastrutturali.

Come scalzare la Cina?

La visita del vicepresidente degli Stati Uniti è una delle visite di più alto livello nel continente dai tempi dell’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Dall’inizio dell’anno l’attività politico-diplomatica americana in Africa è stata intensa, con i viaggi del segretario di stato americano Antony Blinken, della moglie del presidente Joe Biden, Jill Biden, e della rappresentante permanente presso le Nazioni unite, Linda Thomas-Greenfield che, hanno visitato diversi paesi del continente. La crescente influenza della Cina sul continente africano è la ragione alla base di queste visite: gli Stati Uniti sono preoccupati per la crescente presenza economica della Cina in Africa e vogliono promuovere maggiori investimenti privati nel continente per far progredire le relazioni commerciali.

Gli Stati Uniti d’America, dunque, vogliono intensificare gli investimenti in Africa, recuperando posizioni sulla Cina, che rimane il maggior investitore nel continente africano.

Intensificare i rapporti pubblico-privato per dare più slancio all’economia africana e per rispondere alle esigenze di finanziamenti dei progetti infrastrutturali, stimate tra i 68 e i 108 miliardi di dollari.

La nuova strategia americana pone le sue basi su alcuni pilastri fondamentali: prosperità economica, la promozione della democrazia, i cambiamenti climatici, l’avanzamento tecnologico, l’emancipazione economica e la sicurezza alimentare. L’azione statunitense è, dunque, a tutto tondo: diplomatica, commerciale e securitaria. Il tema degli investimenti è l’aspetto cruciale dell’attivismo Usa dopo il vertice di Washington, tanto che il presidente della Banca africana di sviluppo, Akinwumi Adesina, ha sollecitato gli Stati Uniti a investire di più: «Questo è il momento per gli investitori statunitensi di spostarsi rapidamente e investire in Africa. Le opportunità non aspettano nessuno. Gli investimenti diretti esteri (Fdi) statunitensi verso l’Africa nel 2020 sono stati pari a 47,5 miliardi di dollari, ossia il 5,2% degli investimenti esteri globali degli Stati Uniti. Il Build Back Better World del presidente Biden può portare più investimenti del settore privato statunitense in Africa».

L’Africa Command piazza una nuova base in Liberia

Mentre in Africa la Harris spiega questo cambio di paradigma a Washington, invece, si sta pensando di aprire una base militare di Africa Command, proprio in Africa occidentale e uno dei paesi candidati sembra essere la Liberia. Il comandante dell’Africa Command degli Stati Uniti, il generale Michael Langley, è comparso davanti al Comitato per i servizi armati del Senato degli Stati Uniti e ha rivelato che l’Africa Command sta esplorando aree dell’Africa occidentale dove stabilire un nuovo centro di comando, ma non ha potuto rivelare i possibili paesi durante l’udienza pubblica.

 

E la Cina punta alla Guinea Equatoriale

Secondo i media liberiani questo nuovo centro potrebbe essere stabilito a Monrovia, capitale della Liberia. Gli Stati Uniti infatti sono preoccupati per le incursioni che Cina e Russia stanno facendo in Africa e sono ancora più preoccupati per la possibilità che la Cina stabilisca una base militare in Africa occidentale (in Guinea Equatoriale): «In questo momento, non possiamo lasciare che abbiano una base sulla costa occidentale perché stanno cambiando le dinamiche» ha detto Langley al Senato americano, dicendo che la necessità di un nuovo comando «è urgente».

Dopo l’audizione di Langley, il presidente liberiano, George Weah, ha visitato il quartier generale della Cia in Virginia, una visita che ha suscitato molte speculazioni in Liberia e non solo. Secondo il quotidiano liberiano “Front page Africa” «l’America ha bisogno di stabilità in Liberia» e necessita di una più ampia ed efficace collaborazione con il paese africano nella sua lotta contro la Russia e contro l’influenza cinese.

La Liberia, fondata da schiavi americani liberati, ha legami forti e storici con gli Stati Uniti ed è stata nell’orbita americana sin dalla sua esistenza. I liberiani residenti negli Stati Uniti inviano annualmente oltre 400 milioni di dollari in rimesse estere, il che rappresenta un importante impulso per l’economia liberiana.

L’America, dunque, non rinuncia del tutto all’opzione militare e securitaria e soprattutto rende ancora più evidente che il suo impegno in Africa – tornata a essere centrale nelle strategie geopolitiche mondiali – è anche di contrasto alla presenza cinese che non limita più la sua presenza all’aspetto economico e commerciale. Con una nuova base in Guinea Equatoriale – già ne ha una sulla costa orientale a Gibuti – rafforza anche la sua presenza militare nel continente. E questo dimostra come l’Africa sia ancora terreno di scontro tra potenze e i cambi di paradigma, per ora, rimangono solo sulla carta. Non solo.

I leader africani ne sono consapevoli e, spesso, non si fanno più incantare. Per ora il loro sguardo è rivolto a Est.

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Etiopia: crimini di guerra, un inciampo per una pace compiuta https://ogzero.org/etiopia-crimini-di-guerra-un-inciampo-per-una-pace-compiuta/ Thu, 30 Mar 2023 16:00:33 +0000 https://ogzero.org/?p=10637 Il Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf) non è più una “formazione” terroristica e il governo di Addis Abeba ha nominato un anziano capo ribelle alla guida della regione del Nord dell’Etiopia, il Tigray. Una svolta conseguenza degli accordi di pace che hanno messo fine a una guerra fratricida. Ma rimangono sul tavolo […]

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Il Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf) non è più una “formazione” terroristica e il governo di Addis Abeba ha nominato un anziano capo ribelle alla guida della regione del Nord dell’Etiopia, il Tigray. Una svolta conseguenza degli accordi di pace che hanno messo fine a una guerra fratricida. Ma rimangono sul tavolo questioni molto importanti come la violazione dei diritti umani e le responsabilità per i crimini di guerra.

In una recente visita nella capitale etiope del segretario di stato americano Antony Blinken, il nodo è stato messo sul tavolo con il disappunto sia dell’Etiopia sia dell’Eritrea, che ha combattuto a fianco di Addis Abeba in questa guerra.

Tplf, non più terroristi

Le decisioni del governo di Addis Abeba, comunque, segnano passi importanti verso l’attuazione dell’accordo di pace che il movimento ribelle ha firmato con il governo etiope lo scorso novembre a Pretoria in Sudafrica. «Il primo ministro Abiy Ahmed ha nominato Getachew Reda presidente ad interim dell’amministrazione regionale del Tigray», ha fatto sapere l’ufficio del primo ministro attraverso Twitter. Gatechew Reda, consigliere del leader del Tplf, Debretsion Gebremichael, era in precedenza il portavoce del movimento. Il dato importante, tuttavia, è la cancellazione del Tplf dalla lista delle formazioni terroristiche, decisione che ha aperto la strada all’istituzione di un’amministrazione ad interim nel Tigray a guida Tplf, come previsto dall’accordo di pace. I tigrini, pur essendo un’etnia minoritaria in Etiopia, hanno governato il paese per tre decenni prima di essere gradualmente emarginati proprio dall’arrivo alla guida del paese dal primo ministro Abiy Ahmed nel 2018. Un fatto mal digerito dal Tplf che è stato inserito nella lista delle formazioni terroristiche dalle autorità etiopi il 6 maggio 2021 a seguito del conflitto armato, iniziato nel novembre del 2020 e terminato oggi con un accordo di pace scaturito dai colloqui di Pretoria. La rimozione dalla “lista nera” del Tplf era la precondizione per l’attuazione degli accordi di pace.
La firma dell’accordo, inoltre, ha consentito di ripristinare i servizi di base – elettricità, telecomunicazioni, banche – ed è stato riaperto l’accesso alla regione, fondamentale per far arrivare gli aiuti a una regione devastata dalla guerra e che ha bisogno di tutto.

 

Sul tavolo rimane da risolvere la violazione dei diritti umani e dei crimini di guerra

Un nodo non da poco per il governo di Addis Abeba. Il segretario di stato americano, Blinken, di ritorno dal suo viaggio in Etiopia, ha accusato tutti i belligeranti – forze filogovernative e ribelli – di aver commesso crimini di guerra, considerando che questi atti non sono stati né «casuali» né «una conseguenza indiretta della guerra» ma «erano calcolati e deliberati». Blinken ha accusato, in particolare, l’esercito federale etiope e i suoi alleati – esercito eritreo e forze e milizie della regione Amhara – di crimini contro l’umanità, tra cui «assassini, stupri e altre forme di violenza sessuale e persecuzione». Accuse molto pesanti – Blinken non ha mai nominato il Tplf – che hanno provocato l’immediata reazione del ministero degli Esteri etiope: «Il governo dell’Etiopia non accetta le condanne generali contenute in questa dichiarazione americana e denuncia un approccio unilaterale e antagonista». La dichiarazione Usa, prosegue il ministero, «è selettiva perché distribuisce le responsabilità in modo iniquo tra le parti. Senza motivo apparente», gli Stati Uniti «sembrano esonerare una delle parti da alcune accuse di violazione dei diritti umani, come lo stupro o la violenza sessuale nonostante le chiare e schiaccianti prove della sua colpevolezza», ha proseguito il ministero, riferendosi alle forze delle autorità ribelli nel Tigray.

EtiopiaIl Tplf e Asmara

Il governo dell’Eritrea, un paese isolato a livello internazionale e governato con il pugno di ferro sin dalla sua indipendenza de facto nel 1991 da Issaias Afeworki, ha ritenuto che queste accuse «non nuove», non siano basate «su alcuna prova fattuale e incontrovertibile» e riflette la continua «ostilità e demonizzazione ingiustificate» di Washington nei confronti di Asmara. Il Tplf è stato il nemico giurato di Asmara sin dalla guerra tra Etiopia ed Eritrea tra il 1998 e il 2000, quando il Tplf governava ad Addis Abeba. Il primo ministro Abiy Ahmed ha ricevuto il premio Nobel per la pace nel 2019 per aver posto fine a 20 anni di guerra aperta o nascosta con l’Eritrea. Ma dopo il conflitto nel Tigray, è passato agli occhi di Washington dallo status di simbolo di una nuova generazione di leader africani moderni a quello di un quasi paria.

Washington influenza l’accordo di pace

L’accordo di pace, firmato il 2 novembre 2022 a Pretoria, ha posto fine al brutale conflitto nel Tigray, ma Asmara non ha partecipato alle discussioni e non è firmataria. La pace è stata negoziata e firmata sotto l’egida dell’Unione Africana, ma nelle trattative, rilevano gli analisti, vi è stata una significativa e cruciale influenza di Washington.
Secondo Addis Abeba le accuse di Washington rivelano una «ingiustificata distribuzione delle responsabilità» che «mina il sostegno degli Stati Uniti a un processo di pace inclusivo in Etiopia» e una «dichiarazione incendiaria» suscettibile di «sollevare le comunità le une contro le altre» in Etiopia. Visitando l’Etiopia il 15 marzo sorso, Blinken ha collegato la ripresa della collaborazione economica con Addis Abeba – interrotta dall’inizio del conflitto nel Tigray – alla «riconciliazione e alla presa di responsabilità» nelle atrocità che vi sono state commesse.

Le relazioni tra Washington e Addis Abeba sono state sempre “privilegiate” in funzione anche della stabilità della regione del Corno d’Africa e quindi arrivare a definire le responsabilità dei crimini di guerra è un passaggio cruciale per la ripresa, a pieno regime, dei rapporti tra le due capitali. Ma non solo, per impedire che anche in Etiopia, così come avvenuto in Eritrea, attecchisca l’influenza russa.

L’Etiopia, dopo aver espresso lo sdegno per le accuse americane, ha assicurato che «continuerà a mettere in atto tutte le misure volte a tenere conto dei responsabili e garantire che sia fatta giustizia per tutte le vittime». Il bilancio esatto delle vittime della guerra è difficile da fare – negli anni è stato impedito a istituzioni terze e indipendenti di entrare nella regione del Tigray – ma gli Stati Uniti stimano che circa 500.000 persone siano morte durante il conflitto.

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Una moneta unica per l’Africa… naturalmente parla cinese https://ogzero.org/una-moneta-unica-per-lafrica-naturalmente-parla-cinese/ Thu, 23 Mar 2023 00:55:28 +0000 https://ogzero.org/?p=10557 Proponiamo una Analisi dell’agenzia Agi, un po’ perché il chiacchiericcio sull’incontro di Xi a Mosca con Putin si è fermato alla scenografia che serviva ad amplificare il messaggio senza cogliere i dettagli – e la sostanza si trova nei particolari – e quelli meno evidenti ma più esibiti, come la lettera rubata di Poe, si […]

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Proponiamo una Analisi dell’agenzia Agi, un po’ perché il chiacchiericcio sull’incontro di Xi a Mosca con Putin si è fermato alla scenografia che serviva ad amplificare il messaggio senza cogliere i dettagli – e la sostanza si trova nei particolari – e quelli meno evidenti ma più esibiti, come la lettera rubata di Poe, si racchiudevano nell’intenzione di adottare lo yuan come moneta corrente per i paesi più contesi tra i contendenti. Un po’ perché quell’area dello scacchiere mondiale dopo questo vertice tra le due potenze che rivendicano il riconoscimento del multilateralismo diventa il fulcro dello scontro e ogni centimetro o infrastruttura africani, ciascun scambio commerciale difeso da un apparato militare, qualunque sistema economico diventa tassello strategico della competizione globale.
Il territorio in cui una scelta di questo tipo può spostare gli equilibri precari tra i sistemi politico-economici è l’Africa. Lo ha compreso persino “MilanoFinanza”, potente testata che si è appropriata del pezzo proposto da Agi, imponendo la “riproduzione riservata” e attribuendo a Marcello Bussi l’intuizione scritta invece da Angelo Ferrari, che ha ricondotto la proposta dell’incontro moscovita a conseguenza dei molti episodi che negli ultimi anni si sono riproposti di sostituire lo status quo attraverso il grimaldello monetarista per legare stati e territori a nuove valute; situazioni già da Ferrari analizzate in molti suoi scritti.


Lo yuan va a sud dopo gli accordi al Cremlino

Cina e Russia si accordano per un partenariato fino al 2030 che ha l’obiettivo di ridisegnare l’ordine mondiale. Tra i piani della Russia c’è, anche, quello di «utilizzare lo yuan cinese nei pagamenti con paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina».

Il presidente russo, Vladimir Putin, si dice sicuro che queste «forme di pagamento saranno sviluppate tra la Russia e i partner e colleghi di paesi terzi».

Tutto ciò fa tornare alla memoria un progetto, sponsorizzato dal Ghana, paese anglofono dell’Africa occidentale, per arrivare alla creazione di una moneta unica, chiamata eco, con lo scopo di superare la moneta cosiddetta coloniale, il franco Cfa, adottata da molte ex colonie francesi, e allargarla ad altri, come appunto il Ghana e Nigeria, e legare la sua stabilità proprio allo yuan cinese. Un progetto ambizioso.
A oggi il franco Cfa è legato all’euro. Dunque una partita che potrebbe riaprirsi.

Un bacino enorme da cui l’Occidente è vieppiù estromesso

La nuova moneta dovrebbe essere adottata da 15 paesi e da circa 350 milioni di persone e nelle intenzioni della Cina dovrebbe decretare la fine del predominio francese in quell’area. Non è chiaro se la Nigeria, prima economia del continente, aderirà al progetto. Di certo il cambio della moneta è stato voluto – in maniera insistente – dal Ghana, paese anglofono che ha una sua moneta (il cedi ghanese) e da alcuni stati che gradualmente stanno cercando di affrancarsi da Parigi o che sono, anche se non in maniera dichiarata, “ostili” alla Francia. Ma ciò che colpisce di più – ogni paese e ogni comunità economica ha il pieno diritto di decidere le proprie politiche monetarie – è che la nuova moneta, l’eco, potrebbe essere ancorato allo yuan cinese, per evitare oscillazioni pericolose per i mercati. Ciò che accade ancora oggi con il franco Cfa ancorato all’euro. Il progetto di moneta unica della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Cedeao) è fortemente voluto dal Ghana, paese con una moneta instabile. Se si guarda ai dati sull’inflazione e si paragonano economie simili dell’area, cioè Costa d’Avorio e Ghana, quest’ultimo paese ha visto l’inflazione raggiungere livelli insostenibili, mentre in Costa d’Avorio, che adotta il franco Cfa, è rimasta abbastanza stabile, pur in una fase di congiuntura negativa.

«Se per la sicurezza e le armi il riferimento preferito sono gli Usa, l’economia e lo scambio sono ancora privilegi della Francia, che tenta di mantenere almeno nel Golfo gli scampoli di un colonialismo in rovina nel resto della Françafrique; lo fa mantenendo in piedi le strutture ormai minate come il Franc Cfa, pur promettendo di agevolare il passaggio all’Eco, un progetto perseguito da Ouattara, che doveva vedere la luce nel giugno 2020; il leader ivoriano aveva individuato alcuni criteri base perché i paesi africani potessero aderirvi (bassa inflazione e rapporto deficit/pil sotto al 70% – metà di quello italiano) e Macron aveva appoggiato l’iniziativa per sfilarla ai cinesi, che si erano dichiarati disponibili a sostenerla, ma l’Eliseo aveva il preciso intento di procrastinarne il varo. Infatti il 2020 è passato e l’Eco non c’è. Troppe le incognite, tanto che il lancio della nuova moneta è slittato ulteriormente ma, questa volta, a data da destinarsi, in un futuro non ben precisato. La ragione: non sono pronti gli aspetti tecnici necessari al lancio della nuova moneta, dalla fabbricazione delle banconote, agli aggiornamenti informatici e amministrativi, alla banca federale regionale. Ma la questione è più complicata di quel che vogliono far credere. Prosegue, infatti, il braccio di ferro tra paesi francofoni e anglofoni. Questi ultimi vorrebbero una moneta ancorata a quella cinese. Dall’altra parte non ci stanno ma, soprattutto, non ci sentono. Un dialogo tra sordi. In ogni caso, il cambio della moneta – se mai avverrà – sarà accompagnato da due importanti riforme tecniche: l’estinzione del conto operativo (il 50% delle riserve in valuta estera) depositato presso la Banca di Francia e il ritiro dei rappresentanti francesi presenti negli organi della Banca centrale degli stati dell’Africa occidentale»
(Angelo Ferrari, Raffaele Masto, Africa Bazaar, Rosenberg & Sellier, maggio 2022, p 164).

Da Parigi a Pechino

Se tutto ciò dovesse avvenire, l’Africa occidentale potrebbe passare dalla tutela francese a quella cinese. Ciò dimostra, inoltre, che per questi paesi non è pensabile garantire la stabilità monetaria senza un ancoraggio a una moneta forte. Il franco Cfa, negli anni, ha garantito proprio questo: stabilità e bassa inflazione. Ma c’è stato un però che ha interrotto il processo.

Per scongiurare questo progetto è intervenuto, a sorpresa, il presidente francese Emmanuel Macron, durante una visita in Costa d’Avorio a fine 2019, durante la quale è stata annunciata la fine del dominio del franco Cfa, aprendo la strada alla nuova moneta, ma ancora collegata all’euro.

Questa ipotesi è stata abbracciata dalla Costa d’Avorio e la nuova moneta, nelle intenzioni di Abidjan, verrebbe adottata da Benin, Burkina Faso, Mali, Guinea-Bissau, Niger, Senegal, Togo e Costa d’Avorio. Moneta, tuttavia, che non verrebbe adottata dai paesi dell’Africa centrale legati al franco Cfa, cioè: Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana e Repubblica del Congo.

Un annuncio, come era prevedibile, che ha gettato lo scompiglio tra i paesi anglofoni dell’Africa occidentale: Nigeria, Sierra Leone, Ghana, Liberia e Gambia oltre che la Guinea (paese francofono ma fuori dal circuito del franco Cfa). Una mossa, quella di Macron, che letta alla luce della mossa moscovita, aveva più il sapore di interrompere il progetto del Ghana e quindi della Cina. Come era prevedibile l’ipotesi della moneta unica è naufragato nelle acque del Golfo di Guinea.

Presenza militare russa in moneta cinese: il cerchio si stringe

Ecco allora, che il progetto e l’intesa tra Russia – che ha acquisito nuovi partner scelti tra i vecchi alleati della Francia proprio in Africa occidentale – e la Cina che ha una presenza commerciale consolidata in Africa e che non teme rivali, potrebbe riportare in auge il progetto della moneta unica, tuttavia legata allo yuan. Così sarebbe più “facile”, almeno nelle intenzioni di Pechino e Mosca, per questa regione dell’Africa, utilizzare la moneta cinese nei pagamenti. Ma ciò avrebbe un altissimo impatto sull’intero continente: la Cina, così, potrebbe consolidare la sua influenza e aggiungerebbe un pilastro fondamentale nella sua politica espansionistica nel continente.

Ma rimane un però: i paesi africani saranno così convinti di mettersi totalmente nelle braccia di Pechino? La risposta non può che venire da Stati uniti e Unione europea.


Da ascoltare anche la puntata di radio3mondo del 22 marzo 2023 condotta da Luigi Spinola con l’intervento di Alessandra Colarizi, autrice di “Africa rossa. Il modello cinese e il continente del futuro”, e Alberto Zanconato: dalla mediazione di Xi nella guerra ucraina alle sanzioni condivise si finisce comunque a sottolineare la centralità del continente africano, dove la competizione corrisponde agli interessi di tutti contro tutti, sotto forme diverse, come ben descritto dalla caporedatrice di “China Files”.

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L’eterogenea unità dell’opposizione iraniana https://ogzero.org/leterogenea-unita-dellopposizione-iraniana/ Tue, 21 Mar 2023 23:43:39 +0000 https://ogzero.org/?p=10543 Un bell’ossimoro quello del titolo, ma se si facessero paragoni con il passato e le modalità con cui si andò agglomerando l’enorme insurrezione contro il regime dello shah nel 1978, portando alla sua caduta l’anno successivo, potrebbe assomigliare molto a un corso e ricorso storico: infatti anche allora ci fu un coacervo di opposte fazioni […]

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Un bell’ossimoro quello del titolo, ma se si facessero paragoni con il passato e le modalità con cui si andò agglomerando l’enorme insurrezione contro il regime dello shah nel 1978, portando alla sua caduta l’anno successivo, potrebbe assomigliare molto a un corso e ricorso storico: infatti anche allora ci fu un coacervo di opposte fazioni e ideologie politiche che portarono al potere Khomeini, il quale per prima cosa fece stragi dei comunisti e dei più progressisti, che furono i più impegnati nello sforzo di cacciare Pahlavi (al punto che il quotidiano “Lotta continua” esaltava la lotta che avrebbe condotto alla repubblica islamica). Quell’ossimoro discende da una situazione che vede la diaspora diversificata (e che si permette di dire che il Savak non si sarebbe dovuto sciogliere!) ringalluzzita dalle lotte che i giovani stanno portando nelle piazze iraniane e pronta ad approfittarne, magari sognando di mettere il cappello sull’onda degli insorti e dei morti costati alla spontanea rivolta… proprio come gli ayatollah 44 anni fa.

Giulia Della Michelina è riuscita a raccogliere informazioni e dati sulle manovre dei fuorusciti più eminenti che stanno preparandosi a rientrare in scena nel caso le rivolte dovessero aprire varchi nel regime, in cui potrebbero intrufolarsi, cavalcando il malcontento… e la restaurazione. 


Diaspora al vertice con dinastia

Mentre la Repubblica islamica si preparava a festeggiare il suo 44esimo anniversario con manifestazioni pubbliche e decine di migliaia di partecipanti, a 10.000 chilometri di distanza, a Washington, si teneva un incontro tra 8 figure della diaspora iraniana. Il tema del vertice era il futuro di quelle proteste che il presidente Ebrahim Raisi ha dichiarato di aver sconfitto durante le celebrazioni della Rivoluzione. Gli attivisti si sono riuniti al Georgetown Institute for Women, Peace and Security per costruire una piattaforma comune atta a preparare la transizione democratica del paese. È il primo tentativo di consolidamento dell’opposizione all’estero dall’inizio delle rivolte, innescate lo scorso settembre dall’omicidio della ventiduenne curda Mahsa Jina Amini in custodia della polizia morale. Eppure, sono molti i dubbi che aleggiano su questo progetto, capeggiato da Reza Pahlavi, figlio dell’ultimo shah deposto con la rivoluzione del 1979.

Ritorno alla monarchia… certo: “liberale”

Pahlavi invoca da anni il cambio di regime e la costruzione di uno stato secolare e liberale, sostenuto da alcuni iraniani residenti all’estero che lo ritengono un interlocutore affidabile per dialogare con la comunità internazionale. A gennaio l’attore Ehsan Karami aveva lanciato una petizione sottoscritta da 456.000 persone per sostenere il suo progetto di transizione, basato su tre principi: integrità territoriale, democrazia laica e rispettosa dei diritti umani e diritto del popolo a scegliere la nuova forma di governo attraverso il voto. In diverse occasioni il figlio dello shah ha precisato che il gruppo riunito a Washington non intende proporsi come nuova leadership, ma che il suo intento è creare le condizioni per trovare una nuova guida per il paese. Tuttavia Pahlavi, che non disdegna di farsi chiamare “principe” dai suoi sostenitori, ha espresso anche la sua apertura alla possibilità di instaurare una “monarchia elettiva”. Tra i suoi sostenitori ci sarebbero infatti diversi nostalgici della monarchia, come il prigioniero politico Manouchehr Bakhtiari, ma anche persone comuni che a colpi di tweet e di hashtag l’hanno investito del potere di rappresentanza in attesa della caduta della repubblica islamica. Al contempo Pahlavi è stato duramente criticato per non aver mai preso sufficientemente le distanze dal regime di Mohammad Reza, una dittatura non meno sanguinaria di quella degli ayatollah. L’accusa è di aver approfittato del patrimonio familiare costruito sulle sofferenze degli iraniani per la propria ascesa personale.

La coa(li)zione a ripetere

Kamelia Entekhabifard, caporedattrice dell’“Independent Persian” ha sollevato il dubbio che affidare a Pahlavi il mandato di transizione possa impedire la candidatura di persone più qualificate, con un passato più chiaro e richieste ben definite. Per esempio tra le migliaia di prigionieri rinchiusi nelle carceri come quello di Evin, tristemente ribattezzato “l’università Evin” per il grande numero di studenti e intellettuali presenti. In molti hanno sottolineato come affidare la responsabilità della transizione a una sola figura sia già di per sé lontano dalla democrazia auspicata. C’è poi chi vede nell’investitura di Pahlavi il ripetersi di una storia che l’Iran ha già vissuto affidandosi all’ayatollah Ruollah Khomeini per sbarazzarsi del padre dell’odierno candidato a rappresentare la volontà popolare.

Secondo lo scrittore e traduttore Khashayar Dayhimi se ci fosse un referendum «Pahlavi vincerebbe solo perché gli iraniani non conoscono un’altra alternativa».

La coalizione sta cercando di consolidarsi: si è dotata di un nome ufficiale e di un manifesto, intitolato Mahsa Charter. Sul loro sito si legge che l’obiettivo dell’Adfi (Alleanza per la democrazia e la libertà in Iran) è rovesciare il regime in maniera non violenta e costruire le fondamenta di una democrazia laica che possa servire la volontà del popolo iraniano. Oltre a Reza Pahlavi i primi firmatari del manifesto sono l’attivista e giornalista Masih Alinejad, l’attrice Nazanin Boniadi, l’avvocata premio Nobel Shirin Ebadi, Hamed Esmaeilion (ex portavoce dei familiari delle vittime del volo ucraino PS752) e il segretario del partito curdo Komala Abdulla Mohtadi.

Un supporto esterno alle lotte… neutrale, da Occidente

Secondo l’Adfi l’attivismo al di fuori del paese deve essere uno strumento per facilitare l’azione degli iraniani in patria. Un altro punto fondamentale è l’isolamento della Repubblica islamica, per cui è richiesta la collaborazione della comunità internazionale. Un sostegno che la coalizione sta cercando di guadagnarsi in diversi modi, partecipando a eventi internazionali e proclamando la propria adesione ai valori e agli obiettivi dei paesi occidentali. Tra i punti del manifesto compaiono l’adesione alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura, la Convenzione Internazionale sulla Sicurezza nucleare. Quest’ultimo punto risulta particolarmente sensibile dopo che i funzionari dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) hanno riportato che l’Iran ha arricchito l’uranio all’83,7%, un livello prossimo a quello necessario per la bomba atomica. Si cita inoltre la volontà di stabilire politiche di pacificazione nella regione. Pahlavi ha già dichiarato che un nuovo governo «non sarà belligerante e non manderà droni». Il figlio dello shah ha anche menzionato la volontà di cooperare con l’Europa sulla questione migratoria.

Quale legittimazione fuori dai confini iraniani?

Alcuni membri della coalizione hanno preso parte alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, che si è svolta dal 17 al 19 febbraio e dalla quale è stato escluso il governo di Teheran. Per i dissidenti è stata un’importante opportunità per dimostrarsi all’altezza di dialogare con i paesi occidentali e guadagnarsi la loro approvazione. La loro presenza non è stata sostenuta all’unanimità. Un gruppo di attivisti ha scritto una lettera aperta per denunciare la contraddizione di questa partecipazione con i valori della rivoluzione e la «completa mancanza di legittimazione democratica» della coalizione. Reza Pahlavi ha affermato di essere in contatto con i dissidenti in Iran, ma il reale supporto per la sua coalizione all’interno del paese rimane difficile da sondare.
Il 21 febbraio Alinejad e Esmaeilion hanno partecipato a un incontro al Senato italiano, dove solo un paio di mesi prima era stata invitata anche Maryam Rajavi, leader del Consiglio Nazionale della Resistenza dell’Iran, evoluzione dei Mojahedin-e-Khalq. Odiata dalla maggioranza degli iraniani in patria per la sua attività terroristica e per aver appoggiato Saddam Hussein durante la guerra tra Iran e Iraq, l’organizzazione gode di appoggio e finanziamenti di diversi paesi occidentali. Se la presenza di Rajavi ha suscitato lo sdegno della comunità iraniana in Italia, quella di Alinejad è stata accolta molto più calorosamente, sia dai suoi connazionali che dai media italiani.

Il volto conservatore non incorniciato dall’hijab

La conduttrice di Voice of America vive da anni in esilio negli Stati Uniti e si è sempre battuta per i diritti delle donne, in particolare per il diritto di scegliere di non indossare il velo. Il suo attivismo le è costato prima il suo lavoro di giornalista in Iran e poi diverse minacce di morte. Allo stesso tempo è stata bersagliata dalle critiche per la sua vicinanza a personaggi conservatori e antifemministi come Mike Pompeo e John Bolton. Secondo alcuni, Alinejad sarebbe la portavoce di quel femminismo “accettabile” agli occhi degli occidentali ossessionati dall’hijab e da una visione pietistica delle donne dei paesi musulmani.

“La diaspora iraniana e la realtà del paese dopo 40 anni”.

 

Manovre strategiche globali

I rapporti tra questa nuova coalizione e gli Stati Uniti rimangono un nodo importante da chiarire, oltre che una fonte di preoccupazione per il futuro delle proteste in Iran. Washington potrebbe trarre numerosi benefici da un nuovo “governo amico” allineato alle sue politiche. Inoltre, la mediazione cinese nell’accordo tra Iran e Arabia Saudita potrebbe portare gli Stati Uniti a un’ulteriore accelerazione nel sostegno all’opposizione al regime di Ali Khamenei, già avallata formalmente da diverse risoluzioni del Congresso.
Nel frattempo però anche all’interno del paese non mancano i tentativi di organizzazione e di confronto in vista di uno scenario postrivoluzionario. Mir Hossein Mousavi, ex primo ministro e leader delle proteste dell’Onda Verde del 2009 ha invocato un libero referendum per scrivere una nuova costituzione. Mousavi, agli arresti domiciliari dal 2011, si è sempre collocato nell’area riformista dell’establishment della repubblica islamica, pur facendosi portavoce di uno dei movimenti di contestazione più importanti degli ultimi anni. Questa presa di posizione rende ancora più evidente la fine dell’ambizione di trasformare il regime dall’interno e la necessità di un cambiamento radicale per il futuro dell’Iran.

Richieste dell’opposizione vera: cittadini che rischiano e lottano

Il 16 febbraio una ventina di sindacati, associazioni studentesche e gruppi femministi hanno pubblicato un documento contenente le richieste minime per «costruire una nuova, moderna e più umana società». Tra queste ci sono il rilascio incondizionato dei prigionieri politici, la separazione della religione dalla sfera pubblica, la libertà d’opinione e di espressione, la parità tra uomini e donne, il rispetto dei diritti della comunità Lgbtqia + e delle minoranze etniche e religiose.
Secondo l’antropologa Chowra Makaremi l’orizzontalità dell’organizzazione politica che si sta sviluppando nell’opposizione iraniana è un valore, coerente con le istanze portate avanti dalle proteste.


Per quella che si proclama una rivoluzione partita dalle donne e che porta avanti le rivendicazioni delle minoranze e della classe lavoratrice sarebbe un punto di forza mantenere in dialogo una pluralità di voci e di visioni.

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La rincorsa delle armi al mercato della guerra https://ogzero.org/la-rincorsa-delle-armi-al-mercato-della-guerra/ Tue, 21 Mar 2023 00:31:00 +0000 https://ogzero.org/?p=10526 “Dual”: non solo il metodo di produzione di oggetti a scopo bellico (e pure civile) lo è, ma risulta duale anche l’anello logistico delle armi, come si evince dal rapporto Sipri, descritto da Emanuele Giordana per l’Atlante dei conflitti e delle guerre del mondo: da un lato, in linea con l’intuizione del nostro Studium per […]

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“Dual”: non solo il metodo di produzione di oggetti a scopo bellico (e pure civile) lo è, ma risulta duale anche l’anello logistico delle armi, come si evince dal rapporto Sipri, descritto da Emanuele Giordana per l’Atlante dei conflitti e delle guerre del mondo: da un lato, in linea con l’intuizione del nostro Studium per cui la guerra capiterà presto laddove si stanno accumulando armi (in questo caso in prospettiva il quadrante indo-pacifico?); dall’altro in un climax classico della corsa al riarmo, addensandosi e accumulandosi dove già si erano concentrate armi per far esplodere un conflitto. Emanuele è tra gli autori del volume “2023: Orizzonti di guerra” curato da OGzero per  approfondire in questo momento particolare quel traffico d’armi che possono regolare il riequilibrio strategico delle forze in campo per una nuova disposizione dell’ordine mondiale, messo in discussione da superpotenze palestrate che mostrano i muscoli e si attrezzano ad assorbire e consumare la produzione bellica mondiale. Proprio il commercio di armi è al centro dei periodici rapporti del Sipri, citati e analizzati anche nel monitoraggio che sta a monte del volume appena pubblicato da OGzero con l’apporto del parterre di autori che l’hanno reso possibile.


La guerra si avvicina all’Asia preceduta dalle armi

L’Asia orientale è in testa alla classifica del commercio mondiale delle armi dominata dagli Stati Uniti e da una corsa al riarmo europeo.

Asia e Oceania hanno ricevuto il 41 per cento dei principali trasferimenti di armi nel 2018-22. È una quota leggermente inferiore rispetto al 2013-17 che rientra in una generale diminuzione del livello globale dei trasferimenti internazionali di armi, un decremento di oltre il 5%. Ma il calo complessivo non deve trarre in inganno, come lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) ha spiegato alcuni giorni fa in una dettagliata analisi sul mercato mondiale degli armamenti dove hanno inciso pandemia, problemi di logistica e cambio di priorità per la guerra ucraina.

Una dimensione di quanto delicato sia diventato il quadrante orientale

Sono dati che illuminano una scena – quella indo-pacifica – dove i numeri evidenziano come sei stati sono tra i dieci maggiori importatori a livello globale nel 2018-22: India, Australia, Cina, Corea del Sud, Pakistan e Giappone. Quadrante con una guerra in corso in Myanmar, mercato che è difficile sondare perché rigorosamente occultato nonostante le parate con carri, aerei e blindati di marca russa o cinese.

“Il mattatoio birmano dopo 2 anni: dati, analisi, prospettive allargate all’Asean”.
Un buco nero che rientra a fatica nei dati Sipri anche perché è un conflitto oscurato da quello in Europa. Un’Europa che ha comunque aumentato la sua quota di acquisti del 47 per cento negli otto anni che vanno dal 2013 al 2018.

Il boom del traffico si è spostato in Occidente con la guerra

Stoccolma spiega che le importazioni di armi dei soli membri europei della Nato sono aumentate del 65 per cento mentre il livello globale dei trasferimenti internazionali di armi è diminuito del 5,1 per cento. Le importazioni di armi sono diminuite complessivamente ovunque ma, come abbiamo visto, i maggiori attori in questa fetta di mondo (Cina, India, Australia e Giappone) continuano ad armarsi. Sono in buona compagnia: la quota degli Stati Uniti nelle esportazioni globali di armi è aumentata dal 33 al 40 per cento.

L’aumento del budget cinese allineato

Quanto ai cinesi, Pechino ha da poco annunciato un aumento del 7,2 percento del suo budget per la difesa, un dato i cui effetti troveremo nei dati Sipri del 2024: per l’ottavo anno consecutivo aumenta la percentuale di spesa militare del secondo budget militare del pianeta (OGzero ne ha parlato con Lorenzo Lamperti).

“Quanti fili si annodano attorno a Taiwan all’alba del terzo mandato di Xi?”.

Autarchia armiera russa…

L’export russo segna invece una diminuzione del 31 per cento tra il 2013-17 e il 2018-22 mentre la sua quota di esportazioni globali di armi si è ridotta di 6 punti percentuali.

«Anche se i trasferimenti di armi sono diminuiti a livello globale, quelli verso l’Europa sono aumentati notevolmente a causa delle tensioni tra la Russia e la maggior parte degli altri Stati europei», ha detto a Stoccolma Pieter Wezeman, ricercatore del Sipri Arms Transfers Programme: «Dopo l’invasione russa, gli Stati europei vogliono importare più armi e più velocemente. La competizione strategica continua anche altrove: le importazioni di armi verso l’Asia orientale – ha ribadito – sono aumentate e quelle verso il Medio Oriente rimangono a un livello elevato».

Secondo il Sipri è probabile che la guerra ucraina limiterà ulteriormente le esportazioni di armi di Mosca che «darà la priorità alla fornitura delle proprie forze armate» mentre «la domanda da parte di altri stati rimarrà bassa a causa delle sanzioni commerciali e per la crescente pressione da parte di Usa e alleati affinché non si acquistino armi russe».

… addiction ucraina dall’import armiero 

Quanto all’Ucraina, in seguito agli aiuti militari di Stati Uniti ed Europa dopo l’invasione, Kiev è diventata la terza maggior importatrice di armi importanti nell’anno passato (dietro a Qatar e India). E l’Italia? Tra i primi sette esportatori di armi dopo Usa, Russia e Francia, cinque Paesi hanno registrato un calo dell’export mentre due portano a casa forti incrementi: Italia (+45 per cento) e Corea del Sud (+74 per cento).

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Dopo le strade “gli” vogliamo fare anche le dighe https://ogzero.org/dopo-le-strade-gli-vogliamo-fare-anche-le-dighe/ Fri, 17 Mar 2023 23:47:46 +0000 https://ogzero.org/?p=10496 Il secondo habitat più grande per i coccodrilli in Africa si è quasi completamente prosciugato in seguito al fallimento, negli ultimi anni, delle stagioni delle piogge. Si tratta del lago Kamnarok, nella Rift Valley del Kenya, che un tempo ospitava 10.000 coccodrilli, secondo per capacità di contenimento al lago Ciad. Un residente della zona ha […]

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Il secondo habitat più grande per i coccodrilli in Africa si è quasi completamente prosciugato in seguito al fallimento, negli ultimi anni, delle stagioni delle piogge. Si tratta del lago Kamnarok, nella Rift Valley del Kenya, che un tempo ospitava 10.000 coccodrilli, secondo per capacità di contenimento al lago Ciad. Un residente della zona ha dichiarato alla stazione televisiva Ntv che numerose sono le carcasse di coccodrillo visibili nel bacino del lago. Il lago si è ridotto nel corso degli anni a causa dei cambiamenti climatici. Inoltre, secondo i rapporti locali, ha scaricato le sue acque in un fiume vicino attraverso una fessura naturale (“AfricaRivista”).
Poco prima delle elezioni di agosto l’allora candidato William Ruto lamentava che le dighe di Kimwarer e di Arror fossero state cancellate per «punire i miei sostenitori». Il blocco della costruzione era stato adottato per reati di frode, violazioni delle procedure amministrative sugli appalti, corruzione dalla procura generale del Kenya; Ruto era stato coinvolto in diversi scandali keniani per corruzione, furto di terra e persino un omicidio. A commettere i reati sarebbero stati pubblici ufficiali del Kenya e il consorzio di aziende italiane a cui sono stati assegnati i lavori di costruzione: una joint venture tra la Cooperativa Muratori e Cementisti (CMC) di Ravenna e Itinera, società del Gruppo Gavio. Colonialmente gli stessi protagonisti della costruzione della linea ferroviaria per il Tav in Val di Susa.

«A cinque anni dall’inizio dei lavori di Kimwarer e Arror, i misteri intorno a quanto sia davvero successo ai circa 500 milioni di euro destinati alle dighe invece che diradarsi si sono sempre più infittiti». (Irpimedia)

Ora Ruto è presidente e quindi le dighe possono tornare a ergersi sulla valle del Kerio (lungo la faglia della Rift Valley anche questa), percorsa da bande armate che hanno provocato 150 morti solo nel 2022 per il controllo della zona molto ricca di acqua pascoli e terreni fertili. Ma priva di infrastrutture. Ruto, da delfino di Kenyatta, era caduto in disgrazia proprio in seguito all’inchiesta sulle dighe.

Sergio Mattarella è arrivato a Nairobi il 13 marzo in pompa magna con staff quirinalizio, consiglieri e il viceministro degli Esteri con delega all’Africa, Sua Eccellenza il vicerè Edmondo Cirielli (fratello d’Italia), rimanendo in Kenya per 3 giorni (Africarivista). Tra le altre cose è stato firmato un nuovo accordo di cooperazione da 100 milioni di euro, tra crediti e doni, in un piano di programmazione triennale… ecco: con Gianni Sartori vediamo qualche “dono” di questi Re Magi.


Estinguiamoli a casa loro, ma in nome dello Sviluppo

Sinceramente non ho compreso l’entusiasmo con cui alcune riviste e associazioni che si occupano dell’Africa con – diciamo così – “benevolenza” (se poi sia “carità pelosa” o neocolonialismo ricoperto da buonismo non spetta a me stabilirlo) hanno celebrato la recente visita di Mattarella in Kenya. Dove ha confermato e sottoscritto la ripresa dei lavori per la costruzione di alcune grandi dighe nella Kerio Valley (provincia del Rift): Arror, Itare e Kimwarer. La realizzazione di quest’ultima era stata interrotta da un’indagine che l’aveva ritenuta «tecnicamente e finanziariamente irrealizzabile».

Almeno ufficialmente, ma si era parlato anche di mancanza di trasparenza e altre irregolarità. Tanto che erano stati avviati alcuni procedimenti giudiziari per «frode, violazioni delle procedure amministrative sugli appalti, corruzione» nei confronti di pubblici ufficiali del Kenya. Coinvolgendo più o meno indirettamente il consorzio di aziende italiane interessate alla costruzione, una joint venture tra la Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna (ops! Sarà mica quella del Dal Molin?) e Itinera, società del Gruppo Gavio (sempre quelli del Tav in Valsusa).
E in seguito anche la Sace (prendo nota: società assicurativo-finanziaria italiana specializzata nel sostegno alle imprese e al tessuto economico nazionale a sostegno supporto della competitività in Italia e nel mondo) e Banca Intesa Sanpaolo (intervenute per la copertura finanziaria).

La visita di Mattarella è stata l’occasione per il presidente del Kenya William Ruto di annunciare il superamento del contenzioso con Roma, lo sblocco e la ripresa della costruzione delle tre dighe sopracitate. Riconfermando (o forse rinegoziando) la partecipazione di aziende italiane con l’impegno finanziario della Sace e di banche italiane.


Nel comunicato di Ruto e Mattarella si afferma che «il governo keniano e italiano hanno concordato un nuovo processo per appianare le problematiche (…). Sospenderemo la questione giuridica e il governo italiano da parte sua ritirerà i casi di arbitrato, siamo d’accordo che ci sarà un nuovo inizio di questo progetto, urgente e prioritario, necessario, che darà acqua a molti paesi oltre al Kenya, oltre a Baringo e zone circostanti». Aggiungendo che «andremo poi avanti con l’avvio della costruzione nel giro di una manciata di mesi».

Eppure sui danni sociali e ambientali provocati dalle dighe in Africa in generale (e in Kenya e in Etiopia in particolare) non mancavano certo denunce ben documentate.
Anche recentemente (febbraio 2023) un rapporto (Dam and sugar plantations yield starvation and death in Ethiopia’s Lower Amo Valley) diffuso dall’Oakland Institute (attivo nella difesa delle popolazioni indigene), affrontava l’annosa questione dell’impatto negativo delle grandi opere (dighe in primis) sulle popolazioni indigene. Interventi come quello nella valle del fiume Omo in Etiopia. Con la diga Gilgel Gibe III (alta quasi 250 metri, costruita dalla Salini Impregilo – di nuovo protagonista nella impresa trentennale del Tav in Valsusa – e inaugurata nel 2016) ci si riprometteva di aumentare in maniera significativa sia la produzione di energia elettrica che di canna da zucchero. A spese soprattutto di Kwegu, Modi, Mursi e altre minoranze (o meglio: popolazioni minorizzate).
Ancora nel 2015 Survival International denunciava una possibile scomparsa dei Kwegu (ridotti alla fame e nella condizione di profughi interni), vuoi per il disastro socio-ambientale, vuoi per il prevedibile accaparramento di terre (“land grabbing”) nel bacino del fiume Omo. L’anno successivo era stata la sezione locale di SI (“Kenya Survival International) a rivolgersi direttamente all’Ocse per denunciare la Salini Impregilo S.p.a.

Tornando al Kenya, risale al 2017 l’allarme lanciato da Human Rights Watch (Hrw) per l’evidente abbassamento riscontrato nelle acque del lago Turkana. Con gli altrettanto evidenti pericoli sia per l’ecosistema che per la sopravvivenza della popolazione locale.
Una conseguenza (effetto collaterale?) appunto del contestato sistema di dighe Gilgel Gibe (Gibe I, Gibe II, Gibe III, già previste una Gibe IV e Gibe V).
Sgorgando a circa 2500 metri sull’altopiano etiopico, il fiume Omo percorre ben 760 chilometri (con un dislivello di 2000 metri) per poi sfociare nel lago Turkana in Kenya.
È notorio che il bacino dell’Omo con il Turkana rappresentano la principale fonte di vita per almeno 17 gruppi indigeni (oltre 260.000 persone) qui insediati da sempre. Ora con il faraonico sistema di dighe gran parte dell’acqua viene deviata altrove, sia per la produzione di energia elettrica che per irrigare le estese piantagioni a monocoltura (circa 450.000 ettari per ora).

Appare quantomeno contraddittorio, paradossale che le dighe di Arror, Itare e Kimwarer vengano realizzate da imprese italiane quando la carenza d’acqua in Kenya è anche una conseguenza della realizzazione di altre dighe, sempre per mano italica, in Etiopia.

Come sottolineava il compianto André Gorz (alias Gerhart Hirsch, alias Gerhart Horst…): «Il capitalismo cerca il rimedio ai problemi che ha creato, creandone di nuovi e peggiori» (cito a memoria).


A dimostrazione di questa chiosa di Gianni Sartori capita l’articolo con cui “Pagine esteri dà notizia di un rapporto (Northern Kenya Grassland Carbon Project) che di nuovo denuncia l’approccio coloniale di un progetto improntato al greenwashing a detrimento della popolazione del Nord del Kenya. Infatti il progetto gestito dall’organizzazione Northern Rangelands Trust (NRT) insiste su un territorio abitato da oltre 100.000 indigeni tra cui i Samburu, i Borana e i Rendille e prevede un riscontro di 300-500 milioni di dollari. Si tratta di un programma di crediti di carbonio, ottenuti anche da Meta e Netflix, basato sullo smantellamento dei sistemi di pascolo dei popoli indigeni, sostituiti da una sorta di allevamento su larga scala che, eliminando la pratica della migrazione durante la siccità, rischia di estinguere la pastorizia locale tradizionale.

Inoltre «la vendita di crediti di carbonio dalle Aree Protette potrebbe aumentare enormemente il finanziamento delle violazioni dei diritti umani dei popoli indigeni, senza per altro fare nulla per combattere i cambiamenti climatici»: già si hanno notizie di pastori uccisi dai guardaparco mentre portavano al pascolo i loro armenti.

 

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Fondato disincanto e probabile implosione nigeriana https://ogzero.org/fondato-disincanto-e-probabile-implosione-nigeriana/ Tue, 14 Mar 2023 00:25:11 +0000 https://ogzero.org/?p=10480 Il precedente articolo dedicato alla Nigeria riguardava ancora le elezioni, le stesse. Non c’era tanto entusiasmo, ma comunque qualche speranza per u minimo cambiamento, in primis lo scardinamento dell’alternanza Sud/Nord, cattolici/musulmani; Obi era il laico “giovane” – o comunque quello meno inviso ai giovani – ma forse i nigeriani erano già consapevoli di come funziona […]

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Il precedente articolo dedicato alla Nigeria riguardava ancora le elezioni, le stesse. Non c’era tanto entusiasmo, ma comunque qualche speranza per u minimo cambiamento, in primis lo scardinamento dell’alternanza Sud/Nord, cattolici/musulmani; Obi era il laico “giovane” – o comunque quello meno inviso ai giovani – ma forse i nigeriani erano già consapevoli di come funziona il loro paese: infatti la maggioranza dei potenziali influencer si guardava bene dal prendere posizione… come il 73% dei potenziali votanti, che non sono andati alle urne, probabilmente consapevoli che il presidente era già decretato. I brogli sono tanti e la divisione di un paese in crisi non consente di indovinare a cosa andrà incontro la nuova presidenza dell’ultrasettantenne Tinubu, a capo di una nazione giovane che in genere ha un terzo dei suoi anni, lasciatagli in eredità da Buhari con una povertà sempre più estesa, come la violenza, scorciatoia in risposta dell’indifferenza del potere.


Inutile votare, ma anche soltanto sperare

Mai nella storia democratica della Nigeria un presidente è stato eletto con una percentuale così bassa di voti. Nonostante ciò, Bola Ahmed Tinubu, nuovo capo di Stato – elezione contestata dall’opposizione – dovrà affrontare sfide senza precedenti e risolvere problemi immensi. Noti per la loro resilienza, i 216 milioni di abitanti del paese più popoloso dell’Africa vivono nella morsa di una diffusa insicurezza e di una grave crisi economica, e tutti gli indicatori sono allarmanti. Sullo sfondo di una gigantesca penuria di banconote e benzina, Bola Tinubu ha vinto le elezioni presidenziali di fine febbraio dopo una tornata elettorale segnata da numerosi guasti tecnici e da accuse di “massicce frodi”. Dopo la vittoria, Tinubu ha invitato l’opposizione a “lavorare insieme” per “raccogliere i pezzi” della Nigeria. Ma i suoi due principali oppositori, candidati alla presidenza senza successo, hanno contestato i risultati e sono in corso procedimenti legali.

«Tinubu dovrà prima lavorare sodo per costruire la sua legittimità, visto come le elezioni si sono svolte con una Commissione elettorale (Inec) incompetente o complice», ha affermato Nnamdi Obasi, esperto dell’International Crisis Group (Icg).

Un quadriennio ibernato dal letargico vecchio

A 70 anni (o più probabilmente 77), il candidato del partito al governo (Apc) ha vinto le elezioni raccogliendo solo 8,8 milioni di voti, ovvero il 36% di coloro che si sono recati alle urne, un risultato mai così basso se si conta che gli aventi diritti erano circa 87 milioni. L’astensione è stata da record, 73%, dovuta sia all’insicurezza in cui versa il paese, ma anche al disincanto della maggioranza della popolazione nei confronti della politica. Ma anche per colpa degli otto anni di potere del presidente uscente, Muhammadu Buhari. Durante i suoi due mandati, Buhari non è stato capace di arginare la povertà che, anzi, è esplosa, e la violenza, anch’essa cresciuta. Il presidente uscente non è stato in grado di mantenere le promesse e di raggiungere gli obiettivi che si era dato: riduzione della povertà e sconfitta del terrorismo di Boko Haram e dello Stato Islamico. A ciò si è aggiunta una crescente violenza dovuta al proliferare di bande armate e a lotte intercomunitarie per l’accaparramento della terra.

Per legittimarsi, Tinubu – considerato uno degli uomini più ricchi e influenti del paese e accusato di corruzione senza mai essere stato condannato – dovrà mandare “segnali forti e molto velocemente” e soprattutto non seguire l’esempio del suo predecessore che aveva aspettato sei mesi per formare un governo, sostiene Obasi dell’International Crisis Group. A ciò si aggiunge, a complicare ulteriormente la situazione, la sua età e problemi di salute che non è riuscito a nascondere durante la campagna elettorale. Fattore che aggrava “il suo problema di legittimità”, spiega Tunde Ajileye, esperto della società di consulenza nigeriana SBM Intelligenze. Tinubu, inoltre, dovrà cercare di fare presa sui giovani, in Nigeria il 60% della popolazione ha meno di 25 anni. Il nuovo presidente, secondo molti analisti sul campo, dovrà “molto probabilmente” affrontare la rabbia popolare, lui che ha annunciato una serie di decisioni “necessarie” ma con “conseguenze economiche molto negative nel breve termine”. Con la presidenza Buhari, l’economia è solo peggiorata, soprattutto dopo la pandemia e in conseguenza della guerra in Ucraina.

La disoccupazione supera il 33%, l’inflazione sfiora il 22%, il debito pubblico cresce e la povertà è colossale, con 133 milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà, cioè il 63% circa della popolazione. D’accordo con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, Tinubu, per esempio, ha assicurato che avrebbe abolito immediatamente i sussidi per il carburante. Ma sarebbe alienare un popolo già in ginocchio, lui che già non gode di grande popolarità.

Perché una tale decisione «raddoppierebbe il prezzo di un litro di benzina e provocherebbe un’inflazione su larga scala», avverte Obasi, «la gente sarà davvero arrabbiata».

Ma la rimozione dei sussidi consentirà alla Nigeria grande produttore di petrolio, di «gestire la crisi di bilancio e investire in programmi di istruzione, infrastrutture e protezione sociale», sottolinea Mucahid Durmaz, analista di Verisk Maplecroft.

Urne vuote in Nigeria

L’economia bruciata nel petrolio e negli abusi di polizia

Anche porre fine al furto di petrolio su larga scala che costa alla Nigeria 2 miliardi di dollari all’anno è una priorità, sostengono gli esperti. Occorre, tuttavia, ricordare che la Nigeria è il più grande produttore di petrolio dell’Africa Subsahariana, con circa 2 milioni di barili giorno, ma è anche il paese che importa l’80% del suo fabbisogno di carburante.

L’economia in crisi e sotto costante stress ha prodotto una maggiore insicurezza. La violenza rimane diffusa, tra gruppi jihadisti, separatisti e criminali. Da parte loro, le forze armate e la polizia sono a corto di personale, sono mal equipaggiate e regolarmente accusate di gravi violazioni dei diritti umani. Anche questo settore ha bisogno di «riforme strutturali di vasta portata e programmi di formazione completi», insiste Durmaz. Pure questa dovrà essere una priorità, anche perché nel Nordest, roccaforte dei gruppi jihadisti, l’esercito non riesce a porre fine a 13 anni di conflitto che ha provocato 40.000 morti e 2 milioni di sfollati.

«Non vi è alcuna indicazione che la strategia cambierà con l’arrivo di un nuovo presidente», ha affermato Jacob Zenn, ricercatore presso la Jamestown Foundation. «Questo stallo può semplicemente continuare».

Ma Tinubu dovrà anche scongiurare la “profezia” del premio Nobel per la letteratura Wole Soyinka che, solo due anni fa, sosteneva che la Nigeria sembra proprio essere un paese a rischio implosione.

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Western, merchandising e resistenza indiana https://ogzero.org/western-merchandising-e-resistenza-indiana/ Tue, 07 Mar 2023 15:23:50 +0000 https://ogzero.org/?p=10442 Da vecchi cinefili, un’attenzione quella per la pellicola imprescindibile per la nostra generazione, ci siamo appassionati innanzitutto alla ribellione inoculata dai film del regista indoamericano per eccellenza: Sam Peckimpah. Perciò non abbiamo saputo resistere alla proposta di Gianni Sartori. Fu efficace il contributo del cinema per liberare l’immaginario degli spettatori, soprattutto i boomer allora giovani, […]

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Da vecchi cinefili, un’attenzione quella per la pellicola imprescindibile per la nostra generazione, ci siamo appassionati innanzitutto alla ribellione inoculata dai film del regista indoamericano per eccellenza: Sam Peckimpah. Perciò non abbiamo saputo resistere alla proposta di Gianni Sartori. Fu efficace il contributo del cinema per liberare l’immaginario degli spettatori, soprattutto i boomer allora giovani, che cominciarono a occuparsi di emancipazioni di comunità represse, violate, estinte dall’Uomo bianco proprio con Leonard Peltier in carcere dal 6 febbraio 1976, accusato in modo palesemente falso di delitti attribuitigli dalla Fbi per il suo impegno nella liberazione del mondo dei nativi americani.


Preambolo cine-autobiografico

Risalenti a fine dei Sessanta e ai primi Settanta si sostanziano succulenti ricordi cinematografici, specchio della liberazione irripetuta di quegli anni. Oltre a qualche pellicola precedente, degli anni Cinquanta, vista da bambino nel cinema parrocchiale di Debba (tra cui Il massacro di Fort Apache – per Domenico Buffarini forse il primo esempio di una pellicola non apertamente razzista con i “pellerossa”). Successivamente, sempre in cinema parrocchiali – ma di Vicenza (Santa Chiara soprattutto) –, ci sono state altre visioni; al momento ne ricordo uno in particolare: E venne il giorno della vendetta che molti anni dopo avrei saputo ispirato dalla vicenda del “Chico” Sabaté. A cui fece seguito il corredo di cinema impegnato di tempi gravidi di speranze destinate a rimanere tali.
Insomma tutta quella roba lì con cui almeno un paio di generazioni si son fatte intortare pregustando improbabili “domani che cantano”. Di passaggio, quasi “de sforo”, le scarsamente filologiche rivoluzioni messicane evocate in ¡Vamos a matar, compañeros!, Tepepa, Faccia a faccia e il pretenzioso Giù la testa (In origine C’era una volta la rivoluzione) che ispirò – forse a sproposito – i giovani proletari milanesi della Banda Bellini.
Perfino, confesso, robaccia come Easy Rider o Woodstock. Con il senno di poi “armi di distrazione di massa”. Fine del preambolo.

PRIMO TEMPO:
SAND CREEK (Soldato blu)

Ma se c’è qualche film dell’epoca che merita di essere ricordato e conservato ritengo siano fondamentalmente due: Soldato blu e Piccolo grande uomo (anche se all’epoca apprezzai il primo, molto meno il secondo), entrambi del 1970.
Per altri aspetti (culturali, etnici..) aggiungerei Un uomo chiamato cavallo… forse.


L’idea di ritornarci su mi è venuta scoprendo che spesso vengono sottovalutati. Ritengo a sproposito in quanto all’epoca rappresentarono un rovesciamento non da poco delle ideologie dominanti, direi quasi un “cambio di paradigma”. O quantomeno risentirono pesantemente, subirono il contagio, dello spirito di rivolta che agitava le masse planetarie.
Anche se le vicende storiche si confondevano (forse troppo ?) rischiando di sfumare, con quelle personali, con gli amori e le scontate vicissitudini – tragiche o comiche – dei protagonisti. Per quanto impegnata, rimaneva pur sempre “Società dello spettacolo”, della merce, dell’intrattenimento, del consumo… Con un malcelato filo di ammirazione-invidia per un sistema tanto esperto (e privo di scrupoli) da saper trarre profitti anche condannando i massacri del passato, comunque imputabili a quel sistema (da ragionarci sopra effettivamente). D’altra parte – soprattutto se li confrontiamo con l’andazzo attuale – rimangono testimonianza preziosa di come anche “un altro cinema era possibile”. Detto questo, ho potuto verificare che tra chi conosceva Soldato blu, la maggior parte era convinta che il massacro, orrendo ma veritiero, descritto nel film corrispondesse a quello che ha goduto di maggior notorietà, ossia al Wounded Knee.
In realtà in Soldato blu si narra – con dettagli truculenti, ma corrispondenti a quanto era realmente accaduto (anche la scena terribile della fucilazione di donne e bambini rifugiati in una grotta) – della strage di stato subita dai Cheyenne (e da alcuni Arapaho qui accampati) il 29 novembre 1864 al Sand Creek).

Dove Pentola Nera aveva effettivamente innalzato la bandiera a stelle e strisce (nel film la sorregge andando incontro ai soldati per poi scagliarla a terra quando questi sparano e verrà simbolicamente calpestata dai cavalli al galoppo) insieme a quella bianca sul suo tepee. E qui si erano radunati donne e bambini pensando di sfuggire alle fucilate delle Giacche Blu. In realtà una sorta di milizia (seicento uomini del reggimento del Colorado) guidata dal colonnello Chivington, un predicatore fallito che intendeva riciclarsi in politica («Maledetto sia chiunque simpatizza con gli indiani! Io sono venuto a uccidere gli indiani e credo sia giusto e onorevole usare qualsiasi mezzo Dio ci abbia messo a disposizione per uccidere gli indiani» – così si era espresso Chivington contro il capitano Silas Soule, che durante il massacro aveva proibito ai suoi uomini di aprire il fuoco, e i tenenti Joseph Cramer e James Connor che protestavano contro l’ordine del colonnello di attaccare il villaggio di Pentola Nera. Ritenendolo un “assassinio nel senso pieno della parola”). Tra l’altro, la maggior parte dei “volontari” si erano arruolati per combattere gli indiani solo per sfuggire alla leva obbligatoria che li avrebbe inviati contro i sudisti (il che era molto più pericoloso ovviamente). Per cui inventarsi “battaglie sanguinose” con gli Indiani “ostili” garantiva di restarsene sostanzialmente al sicuro dai terribili combattimenti della Guerra Civile.
Gli indiani uccisi, in maggioranza donne e bambini, vennero scalpati e mutilati, per essere poi abbandonati in pasto gli animali della prateria.
Emblematico il caso di una donna – Kohiss – fuggita con tre bambini, uno per mano, uno sul petto (l’unico che si salvò) e un altro sul dorso. Purtroppo nella fuga due vennero colpiti e uccisi dagli spari dei bianchi. La donna conservò per tutta la vita il ricordo e le cicatrici di quel giorno, una testimonianza vivente delle ingiustizie subite dai nativi.

A titolo personale, di Soldato blu ricordo soprattutto un momento esemplare, indicativo di quale sia stato lo “spirito del tempo”: il film era terminato e nella sala le persone si stavano alzando per uscire quando apparve la didascalia, il commento finale con la voce fuori campo:

«Il 29 novembre del 1864, un reparto di 700 cavalleggeri del Colorado Cavalleria, attaccò un pacifico villaggio Cheyenne a Sand Creek, nel Colorado. Gli indiani sventolarono la bandiera americana e la bandiera bianca in segno di resa. Nonostante questo il reparto attaccò, massacrando 500 indiani; più della metà erano donne e bambini. Oltre 100 furono scotennati, molti corpi furono squartati, molte donne vennero violentate. Il generale Nelson Miles, capo di stato maggiore dell’esercito, così definì questo tremendo episodio: “È forse l’atto più vile ed ingiusto di tutta la storia americana”».

Tutti rimasero semplicemente bloccati, immobili, annichiliti. In un silenzio assoluto che però pareva un urlo. Nessuno fiatava, nessuno faceva il minimo movimento – letteralmente. Ricordo davanti a me due persone già in procinto di alzarsi rimanere quasi ripiegate. Chissà, forse pensavamo tutti al Vietnam, al relativamente recente massacro di Mỹ Lai (16 marzo 1968)…  Certo, per chi fino a poco tempo prima (riguardatevi i western, orrendi per quanto riguarda gli indiani, degli anni cinquanta e sessanta) era abituato a film dove i valorosi pionieri si dedicavano al tiro a segno sui nativi, lo scarto era notevole. E soprattutto era chiaro che si parlava anche del presente.

SECONDO TEMPO:
WASHITA E LITTLE BIGHORN (Piccolo grande uomo)

Nella realtà il capo Pentola Nera (sostanzialmente un pacifista, disposto non solo al dialogo, ma anche a compromessi con l’invasore) sfuggì al massacro (insieme a Piccolo Mantello, poi “ascaro” di Custer). Così come alcuni Arapaho (Mano Sinistra, No-ta-neee…). Era però scritto nel suo destino di dover soccombere insieme ad altri superstiti nel massacro del Washita di quattro anni dopo (27 novembre 1868). Operazione questa condotta dal “generale” Custer. Questa seconda strage subita dai Cheyenne (e nuovamente anche dagli Arapaho, intervenuti per salvare un gruppo di bambini Cheyenne inseguiti dai cavalleggeri statunitensi) ) viene raccontata in “Piccolo grande uomo”. Nel film il “mulattiere” Dustin Hoffman lo rinfaccerà a Custer a Little Bighorn prima della battaglia finale. Ma come quella del Sand Creek in Soldato blu, anche la strage del Washita in Piccolo, grande uomo viene talvolta confusa con Wounded Knee.


L’apoteosi nel film viene raggiunta con la grande vittoria dei nativi (Lakota,Cheyenne, Araphao…) guidati da Cavallo Pazzo (Oglala), Fiele e Toro Seduto (Hunkpapa) e Due Lune (Cheyenne) contro il militarismo colonialista delle giacche blu a Little Bighorn (25 giugno 1876). Dove il criminale di guerra colonnello George A. Custer, comandante del 7° Cavalleria, pagò infine per i suoi peccati.
Se vogliamo, la rivincita dei guerrieri usciti direttamente dal neolitico sui cadetti di West Point. Per una volta almeno.
Niente riferimenti a Wounded Knee quindi in questi due classici. Verrà invece citato (con una evidente forzatura, strumentalmente), oltre che in qualche serie televisiva, in Hidalgo. Un film discutibile, ma che si in parte si salva per l’epica scena finale quando i mustang destinati a essere ammazzati vengono liberati (soprattutto perché a un certo punto essi stessi abbattono gli steccati). Mi piace pensare che avrebbe commosso anche Bill Rodgers.

Come è noto dopo la vittoria del Little Bighorn le cose per gli Indiani precipitarono. Costretto, per non veder morire di fame e di freddo il suo popolo braccato, Tashunka Witko (Cavallo Pazzo) si consegnò ai soldati e venne assassinato (5 settembre 1877). Colpito con una baionetta dal soldato William Gentles, mentre era trattenuto dall’indiano collaborazionista Piccolo Grande Uomo (quello storico naturalmente, non quello del film che si ispira – forse – a un Piccolo Uomo Bianco vissuto a lungo tra gli indiani). Il suo cadavere, prelevato dai familiari, venne portato in un luogo nascosto nella valle del Wounded Knee.

Tatanka Yotanka (Toro Seduto), dopo essersi rifugiato nel 1877 in Canada, nel 1881 fu costretto a rientrare negli Stati Uniti dove venne arrestato. In seguito per un breve periodo si prestò a lavorare, interpretando se stesso, nello spettacolo viaggiante dello sterminatore di bisonti Buffalo Bill, ma ogni dollaro guadagnato lo donava ai poveri e ai senzatetto della sua tribù. Coincidenza? Uno dei maggiori esponenti dell’American Indian Movement, Russel Means (1939-2012, le sue ceneri vennero sparse nelle Black Hills), già tra gli organizzatori dell’occupazione dell’isola di Alcatraz e di Wounded Knee, divenne un attore tra i più richiesti nei film sugli indiani. Basti pensare al ruolo di Chingachgook nel film L’ultimo dei Mohicani di Michael Mann.
Toro Seduto, nel dicembre 1890, forse perché ritenuto troppo vicino al culto della “Danza degli Spiriti” del profeta Wovoka (un Paiute), venne assassinato nel corso di un arbitrario arresto. La banda dei Lakota Minneconjou di Heȟáka Glešká (Alce Chiazzato, più conosciuto come Piede Grosso, fratellastro di Tatanka Yotanka e cugino di Tashunka Witko), temendo le rappresaglie dei militari e dei collaborazionisti indiani, tentò di fuggire a Pine Ridge (da Nuvola Rossa), ma venne appunto massacrata a Wounded Knee.

Nel frattempo (settembre 1886) anche Goyaałé (Geronimo), l’irriducibile apache Bedonkohe (ma in genere assimilato ai Chiricahua) aveva consegnato le armi. Così come Hinmaton Yalaktit (Capo Giuseppe) intercettato e bloccato con i suoi Nasi Forati al confine canadese dopo un’incredibile marcia di 2740 chilometri (settembre 1877).

Fine della storia quindi. Anche se nella seconda metà del Novecento l’American Indian Movement (Aim) rilancerà la questione indiana dissotterrando l’ascia di guerra.

Epilogo

La canzone Soldier Blue (Soldato blu) del film omonimo era scritta e interpretata dall’indiana Piapot Buffy Saint-Marie che in anni successivi scrisse anche Bury My Heart at Wounded Knee (in riferimento al noto libro di Dee Brown). Frase che venne tracciata sui muri nel 1973, durante l’occupazione. Nella canzone viene ricordata anche la militante Anna Mae Aquash, violentata e assassinata, le mani mozzate. Una vicenda impregnata di ombre e sospetti di “guerra sporca” (nei confronti sia del Fbi che delle milizie native filogovernative e anche dell’Aim), presumibilmente legata a quella di Leonard Peltier. Dopo gli oltre settanta giorni di occupazione, negli anni successivi, numerosi partecipanti e membri o simpatizzanti dell’Aim morirono in maniera non chiara, “accidentale” (si parla di circa 300 vittime). Si ritiene che le milizie native filogovernative abbiano così voluto “regolare i loro conti” nelle riserve.

E così il discorso si chiude, ma non il Cerchio irreparabilmente spezzato, frantumato della Nazione indiana. Purtroppo.

 

RECENSIONE DI LEONARD PELTIER (6 febbraio 2023)

Il mio saluto ai miei amici, sostenitori, alle persone che mi sono vicine. So di aver già detto queste parole mille volte, o cose simili. E ogni volta che le dico, è come se fosse la prima volta. Dal profondo della mia anima, vi ringrazio per il vostro sostegno.
Vivere qua dentro, anno dopo anno, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, cambia la tua concezione del tempo e persino il modo di pensare, più di quanto possiate immaginare.
Ogni giorno, al mattino, devo dire una preghiera per tenere alto il mio spirito e quello del nostro popolo.
Le lotte dell’American Indian Movement sono le lotte di tutti noi, e per me non sono mai finite. Continuano, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno.
A volte penso di poter sembrare un po’ troppo sensibile quando parlo, ma l’amore per il mio popolo e l’amore che voi sostenitori mi avete dimostrato nel corso degli anni è ciò che mi mantiene in vita.
Non leggo le vostre lettere con la testa. Le leggo con il cuore.
La mia detenzione è solo un altro esempio del trattamento e delle politiche che il nostro popolo ha dovuto subire fin dall’arrivo dei primi europei.

Sono un uomo comune e vengo da una società che vive e lascia vivere, come tutta la nostra gente. Ma dall’arrivo di Cristoforo Colombo, ci siamo trovati costretti a vivere in uno stato di sopravvivenza.
Non c’è nulla nel mio caso, nulla in quel trattato tra il popolo americano e il governo che è la Costituzione, che possa giustificare la mia prolungata incarcerazione.
La storia ci insegna che hanno imprigionato o annientato il nostro popolo, si sono appropriati della nostra terra e delle nostre risorse. Ogni volta che la legge era a nostro favore, hanno ignorato la legge. O l’hanno cambiata secondo i loro piani. Dopo aver ottenuto ciò che volevano, magari una generazione dopo, qualche politico si è scusato.
Non hanno mai sinceramente negoziato con noi, a meno che non avessimo qualcosa che volevano a tutti i costi e non potevano ottenere altrimenti; o nel caso che potessimo creare imbarazzo per il mondo; o che fossimo una sorta di opposizione. L’opposizione è sempre stata la ragione principale che li ha spinti a trattare con noi.

Potrei continuare a parlare dei maltrattamenti subiti dal nostro popolo, come del mio caso, ma l’hanno già detto le Nazioni Unite: il motivo per cui gli Stati Uniti mi hanno tenuto rinchiuso, è perché sono un Indiano d’America. [come nel film di Montaldo, Vanzetti dice alla corte: «E mì son anarchìc»]
L’unica cosa che mi rende fondamentalmente diverso dagli altri Indiani d’America che sono stati maltrattati, che sono stati derubati delle loro terre, o che sono stati imprigionati dal nostro governo, è che il mio caso è stato almeno messo agli atti del tribunale. La violazione dei miei diritti costituzionali è stata dimostrata in tribunale. La falsificazione di ogni prova usata per condannarmi è stata dimostrata in tribunale. Lo stesso Consiglio delle Nazioni Unite, composto da 193 nazioni, ha chiesto la mia liberazione, constatando che sono un prigioniero politico.

Nel mio caso di prigioniero politico non è necessario uno scambio di prigionieri. Lo scambio che devono fare è passare dalla loro politica di ingiustizia a una politica di giustizia.
Non importa quale sia il vostro colore e la vostra etnia. Nero, rosso, bianco, giallo, marrone: se possono farlo a me, possono farlo a te.
La Costituzione degli Stati Uniti è appesa a un filo.
Di nuovo voglio dire, dal mio cuore al vostro cuore, in tutta sincerità: fate del vostro meglio per educare i vostri figli. Insegnate loro a difendersi: fisicamente, mentalmente, spiritualmente. Rendeteli consapevoli della nostra storia.
Insegnate loro a piantare una foresta che possa dare frutti, o qualsiasi altra pianta che possa provvedere a loro, in futuro.

Ancora una volta, dal mio cuore al vostro cuore, piantate un albero per me.

Nello spirito di Cavallo Pazzo.

Doksha («ci vediamo», nella lingua Navajo)

Leonard Peltier

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Come uscire dalla Françafrique e rimanere buoni amici, però? https://ogzero.org/come-uscire-dalla-francafrique-e-rimanere-buoni-amici-pero/ Fri, 03 Mar 2023 13:57:56 +0000 https://ogzero.org/?p=10429 Una scommessa impossibile, dopo l’arroganza plurisecolare della potenza coloniale francese. Macron, presidente dimezzato in patria, si sottrae all’ira sulla riforma delle pensioni proseguendo il tentativo di recuperare un rapporto postcoloniale con il continente africano. Dall’inizio del suo primo mandato – va riconosciuto – ha tentato di mutare l’atteggiamento gaullista, ma non ha un paradigma scevro […]

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Una scommessa impossibile, dopo l’arroganza plurisecolare della potenza coloniale francese. Macron, presidente dimezzato in patria, si sottrae all’ira sulla riforma delle pensioni proseguendo il tentativo di recuperare un rapporto postcoloniale con il continente africano. Dall’inizio del suo primo mandato – va riconosciuto – ha tentato di mutare l’atteggiamento gaullista, ma non ha un paradigma scevro da ogni possibile idea coloniale: non è nei cromosomi francesi, tanto che non sono riusciti a cogliere il momento giusto per tagliare i cordoni con le colonie, riuscendo a renderle autonome e un embrione di politica macroniana per il continente vede gli africani francesi fare da ponte. Il presidente francese ha dovuto registrare la sostituzione da parte dei russi sul piano militare (rimangono truppe francesi in Gabon, Niger, Senegal, Ciad… ma è proprio la loro figura a restituire quel feedback che procura un rigurgito antifrancese) e dei cinesi in economia, che hanno acquisito larghe fette del mercato della Françafrique (ma il ritorno per l’economia francese è ormai ridotto all’osso), prima di avventurarsi nel viaggio tra le foreste gabonesi, i Congo e l’Angola.

Un passato che sembra non passare mai. Infatti il tour di Macron comincia dal vicino Gabon della dinastia Bongo (emblematico del sistema “francese” di rapportarsi all’Africa attraverso famiglie fedeli che gestiscono il paese con corruzione e centri di potere), e poi si concentrerà su quelli più a rischio di sfuggire al controllo (Congo Kinshasa – dove sventola già la bandiera russa come “bienvenue” e l’ex luso-cinese Angola). Angelo Ferrari si lascia ispirare dal viaggio disperato dell’inquilino dell’Eliseo, cacciato dal Sahel occidentale e contestato per la mancata difesa del Congo dall’aggressione ruandese, per augurarsi che gli africani trovino la forza di liberarsi dei coloni di qualsiasi colore (ma con scarse speranze che cambi qualcosa); Macron si trova vituperato in patria dai nostalgici della grandeur d’outre-mer e destinato a risultare il presidente che “perderà” il controllo delle colonie, forse proprio in virtù dell’approccio iniziale di riconoscimento della brutalità dell’occupazione coloniale; ed è svillaneggiato in Françafrique, dove prova il grimaldello spuntato dell’approccio green per organizzare il tour elettorale a sostegno di regimi autocratici… e degli interessi petroliferi di Total (il green-paradox).


Macron l’Africano… ingombrante

Proteste a Kinshasa

La missione africana del presidente francese Emmanuel Macron non è iniziata nel migliore dei modi. Mentre il suo aereo arrivava in Gabon, prima tappa della sua visita in Africa, nella capitale della Repubblica democratica del Congo, Kinshasa – ultima fermata del suo viaggio – decine di giovani congolesi manifestavano contro di lui davanti all’Ambasciata di Francia. Brandendo bandiere russe, questi giovani lo accusavano di sostenere il Ruanda a spese del loro paese. “Macron assassino, Putin in soccorso”, questi gli slogan scanditi in piazza e su alcuni cartelli e striscioni si leggevano accuse ancore peggiori: “Macron padrino della balcanizzazione della Rdc”, “I congolesi dicono no alla politica della Francia” o anche “Macron indesiderabile in Rdc”. La Repubblica Democratica del Congo (Rdc), dove nel fine settimana è atteso il presidente francese, accusa il vicino Ruanda di sostenere una ribellione attiva nell’est – confermata dagli esperti Onu nonostante le smentite di Kigali – e si aspetta una chiara condanna di questa “aggressione” da parte della comunità internazionale.

«Siamo qui per dire no all’arrivo di Emmanuel Macron perché la Francia è complice della nostra disgrazia», ha dichiarato davanti ai giornalisti Josue Bung, del movimento cittadino Sang-Lumumba, sfoggiando la tipica acconciatura dell’eroe dell’indipendenza congolese Patrice Lumumba (1925-1961).

Lunedì scorso Emmanuel Macron ha presentato a Parigi la sua strategia africana per i prossimi anni e, rispondendo a una domanda sulla Rdc, ha sostenuto che la sovranità e l’integrità territoriale del paese «non possono essere discusse». Ma “non ha menzionato il Ruanda, che è il nostro aggressore”, gli hanno rimproverato i manifestanti.

Le bandiere russe significano «che non abbiamo più bisogno della Francia, vogliamo collaborare con partner affidabili, come la Russia o la Cina», ha sostenuto Bruno Mimbenga, altro organizzatore delle proteste davanti all’ambasciata francese, in un momento in cui la Russia è sempre più in competizione con la Francia nella sua storica sfera di influenza in Africa.

I giovani congolesi hanno ribadito quello che è un sentimento diffuso sia in Africa centrale sia nel Sahel e cioè che “la comunità internazionale non ci serve”. La Rdc sarà questa settimana l’ultima tappa di un viaggio di Emmanuel Macron in Centrafrica, che lo porterà anche in Gabon per un vertice sulle foreste, in Angola e in Congo-Brazzaville.

La dinastia Bongo e la foglia di fico delle foreste

Il diciottesimo viaggio nel continente è iniziato, quindi, a Libreville, dove Emmanuel Macron vuole dare nuovo impulso al rapporto tra i due paesi. Sono passati 13 anni da quando un presidente francese ha fatto un viaggio in Gabon. L’ultimo è stato Nicolas Sarkozy, nel febbraio 2010. Nel frattempo, la contestata rielezione del presidente Ali Bongo e la crisi elettorale del 2016 sono passate attraverso aspre tensioni tra i due paesi. Poi c’è stata la crisi sanitaria, e la lite è continuata fino a un inizio di riavvicinamento dal 2021. Questo viaggio per Macron era, secondo una fonte vicina all’Eliseo, diventato essenziale. Era già in lavorazione da diversi mesi, ed è stato nell’estate del 2022 che è stata presa in considerazione l’idea di usare il One Forest Summit e di focalizzare il viaggio sulla protezione delle foreste, per fugare ogni dubbio sulla natura della visita che arriva nell’anno elettorale del Gabon, con le elezioni presidenziali previste per la prossima estate. Una tempistica che ha fato sobbalzare la società civile e l’opposizione gabonese:

«È venuto per lanciare la campagna elettorale del suo amico», ha detto l’ambientalista Marc Ona.

Perplessità espresse anche dall’opposizione a Macron a Parigi. Un gruppo di parlamentari del gruppo Lfi-Nupes della Commissione Affari Esteri ha infatti scritto alla ministra degli Esteri, Catherine Colonna, facendo notare che due dei paesi visitati terranno fra pochi mesi le elezioni presidenziali, il Gabon e la Repubblica democratica del Congo. «In un tale contesto, questa visita potrebbe essere interpretata come un sostegno politico da parte dell’esecutivo francese a governi o regimi le cui derive autoritarie, persino autocratiche» sono evidenti, si legge nella nota.

La lettera ricorda che in Gabon, dove nessun presidente francese si recava da 13 anni, le elezioni si terranno fra cinque mesi. La visita, secondo i deputati d’opposizione, “offre una legittimità internazionale” a un regime, quello della famiglia Bongo, al potere dal 1967. Sottolinea inoltre che è stato negato un visto a una giornalista di “Liberation” per seguire il One Forest Summit – co-organizzato dalla Francia – lasciando intendere che si vuole coprire l’evento in un’ottica solo positiva per il regime, mentre molti osservatori temono che si tratterà di un’operazione di greenwashing.

I deputati di La France insoumise et Nouvelle union populaire écologique et sociale evidenziano anche dubbi sulla sincerità che circonda le prossime elezioni in Congo-Kinshasa, nonché la repressione di manifestazioni dell’opposizione in Angola nei mesi scorsi.

«Il carattere a volte selettivo e contraddittorio delle posizioni del governo francese sulla natura e le pratiche dei regimi e dei governi, in particolare in Africa, lascia spazio alle critiche, sincere o pilotate da altre potenze, che indeboliscono le nostre relazioni strategiche con i paesi del continente» africano, stigmatizzano gli autori della lettera.

Arginare il legittimo sentimento antifrancese: safari impossibile

Un viaggio, inoltre, che arriva a pochi giorni da una lunghissima conferenza stampa nella quale Macron ha voluto ridisegnare la politica francese nei confronti del continente africano. Un tentativo legittimo, visto il dilagare del sentimento antifrancese in buona parte dell’Africa centrale e del Sahel. Per Macron è necessario un nuovo rapporto “equilibrato, reciproco e responsabile”. Questo il mantra presidenziale. Ma ancora:

«L’Africa non è terra di competizione», ha detto Macron durante la conferenza stampa all’Eliseo, invitando a «passare da una logica degli aiuti a quella degli investimenti».

Ha, inoltre, affermato di aver mostrato «profonda umiltà di fronte a quanto si sta svolgendo nel continente africano, una situazione senza precedenti nella storia», con «una somma di sfide vertiginose. Dalla sfida della sicurezza climatica alla sfida demografica con i giovani ai quali dobbiamo offrire un futuro in ognuno degli stati africani», invitando a «consolidare stati e amministrazioni, investendo in modo massiccio in istruzione, salute, lavoro, formazione, transizione energetica».

L’inquilino dell’Eliseo ha voluto anche sottolineare che la Francia «sta chiudendo un ciclo segnato dalla centralità della questione militare e della sicurezza», annunciando una “riduzione visibile” del personale militare francese in Africa e un “nuovo modello di partenariato” che prevede un “aumento del potere degli africani”. Tutto ciò segna un cambio di paradigma nella politica dell’Eliseo? Per ora sono solo parole a cui devono seguire dei fatti concreti, anche perché la riduzione del personale militare più che una scelta è stata una via obbligata visto il ritiro dal Mali, dal Burkina Faso e dalla Repubblica Centrafricana, tre roccaforti dell’influenza parigina in Africa. Paesi che, dopo la “cacciata” dei francesi si sono affidati in maniera decisa proprio alla Russia, dimostrando che l’Africa è, ancora, una terra dove la competizione tra potenze internazionali è viva più che mai, a differenza di ciò che sostiene Macron e lui stesso ne è complice.

Da ultimo occorre ricordare che nei paesi visitati dal presidente francese – Gabon, Angola, Repubblica del Congo e Repubblica democratica del Congo – la Francia ha enormi interessi economici soprattutto nel settore petrolifero.

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La “Grande sostituzione” si estende al Maghreb https://ogzero.org/saied-la-grande-sostituzione-si-estende-al-maghreb/ Mon, 27 Feb 2023 11:43:33 +0000 https://ogzero.org/?p=10397 Il contagio del razzismo a supporto della governance di despoti e democrature è l’unico pensiero che può attraversare frontiere. L’Unione africana, dopo la conferma delle sanzioni ai danni del Mali, Burkina e Guinea equatoriale per i golpe filorussi, si è trovata a dover difendere le genti provenienti proprio dal Sahel e dal resto del continente […]

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Il contagio del razzismo a supporto della governance di despoti e democrature è l’unico pensiero che può attraversare frontiere. L’Unione africana, dopo la conferma delle sanzioni ai danni del Mali, Burkina e Guinea equatoriale per i golpe filorussi, si è trovata a dover difendere le genti provenienti proprio dal Sahel e dal resto del continente subsahariano da attacchi che provengono dall’interno dello stesso continente ai massimi livelli delle istituzioni di un paese africano. Lo ha fatto condannando le parole “scioccanti” del “pallido” presidente della Tunisia sui migranti più “scuri” provenienti dall’Africa subsahariana e ha richiamato i suoi stati membri ad «astenersi da qualsiasi discorso di odio e di natura razzista, che danneggiano le persone». In trasparenza si possono riconoscere i contorni delle richieste italiane, sicuramente avanzate – perseguendo l’intento di esternalizzare le frontiere – proprio con gli stessi argomenti razzisti, che facilmente non si sbaglia ad attribuire al viaggio di Meloni in Maghreb, andata a procurarsi gas e soprattutto a perorare il blocco della rotta dei migranti; peraltro un perfetto argomento – in tutto uguale al disgustoso tentativo di Erdogan di scaricare sui migranti la colpa della corruzione del suo sistema di potere in buona parte responsabile del disastro del terremoto per le sue dimensioni – che offre il destro a Saïed per trovare un capro espiatorio su cui far convergere l’odio per il disastro economico e sociale tunisino.

Una grande manifestazione contro il razzismo e la xenofobia si è svolta a Tunisi il 26 febbraio 2023, per dire no alle parole di Saïed e per cambiare rotta al governo sul trattamento riservato ai migranti dai paesi africani subsahariani. Le organizzazioni della società civile hanno assunto una posizione di principio netta e determinata contro l’idea nazista del complotto per la sostituzione etnica mediata dal presidente autocrate prendendo a prestito gli slogan delle destre europee. Il corteo è partito dalla sede del sindacato dei giornalisti, uno dei promotori, per raggiungere il centro città coinvolgendo nel percorso l’aggregazione di migliaia di altri cittadini. Il portavoce del “Forum per i Diritti Sociali ed Economici” ha affermato che il discorso dell’odio non sarà mai accettato in una società come quella tunisina, perché è contro natura: «Quando quel discorso proviene dal capo dello Stato, rischia di sdoganare atti violenti contro i nostri fratelli migranti, che vivono condizioni di emarginazione economica tra di noi». Angelo Ferrari aveva già rilevato l’enormità di un leader africano che esplicitamente prende a prestito il razzismo europeo, adattando “Le Grand Remplacement” di Renaud Camus alle fobie arabe verso le culture subsahariane, in un intervento che proponiamo qui.


Saïed sdogana il razzismo serpeggiante concordato con Roma

Montano le polemiche in Tunisia dopo le parole del presidente Kaïs Saïed che ha invocato “misure urgenti” contro l’immigrazione clandestina di africani subsahariani nel suo paese, sostenendo che la loro presenza è fonte di «violenze, crimini e atti inaccettabili». Ma Saïed si è spinto anche oltre, sostenendo che l’immigrazione dall’Africa subsahariana fa parte di una «impresa criminale ordita all’alba di questo secolo per modificare la composizione demografica della Tunisia», in modo che potesse essere considerata un paese “solo africano” e offuscarne il suo carattere “arabo-musulmano”. Date queste premesse, per Saïed è necessario «porre fine in fretta» a questa immigrazione invocando misure urgenti.

Reazioni dell’Unione africana

Con una nota, il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki Mahamat, ha condannato «fermamente le dichiarazioni scioccanti fatte dalle autorità tunisine contro i connazionali africani, che vanno contro la lettera e lo spirito della nostra organizzazione e i nostri principi fondatori». Faki Mahamat ha ricordato a «tutti i paesi, in particolare agli stati membri dell’Unione Africana, che devono onorare gli obblighi ai sensi del diritto internazionale, vale a dire trattare tutti i migranti con dignità, da qualsiasi parte provengano, astenersi da qualsiasi discorso di odio con natura razzista, che probabilmente danneggerà le persone e dà la priorità alla loro sicurezza e ai loro diritti fondamentali».

Moussa Faki Mahamat ribadisce «l’impegno del comitato a sostenere le autorità tunisine al fine di risolvere i problemi di migrazione e rendere la migrazione sicura, degna e regolare».

Proprio il Mali – paese che al suo interno vive da anni profondi travagli sfociati nell’apertura ai “servizi” dei contractors della Wagner – in una nota dell’ambasciata tunisina ha dichiarato di aver seguito «con la massima preoccupazione la situazione dei maliani» nel paese. Riferendosi a “momenti molto inquietanti”, e ha invitato i suoi cittadini “a essere vigili” e ha chiesto a «coloro che desiderano di registrarsi per un ritorno volontario».

La crisi tunisina e il facile capro espiatorio “nero”

Il discorso di Saïed, che ha concentrato su di sé tutti i poteri dopo aver sospeso nel luglio 2021 il parlamento e licenziato il governo, si è verificato mentre il paese sta attraversando una grave crisi economica contrassegnata da carenze ricorrenti di prodotti di base, in un contesto di forti tensioni politiche.
Secondo i dati ufficiali citati dal Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes) la Tunisia, un paese di circa 12 milioni di abitanti, conta più di 21.000 africani subsahariani, la maggior parte dei quali è irregolarmente nel paese. Molti di loro, la maggioranza, arriva in Tunisia per poi tentare di immigrare illegalmente in Europa via mare. Alcuni tratti della costa tunisina sono a meno di 150 chilometri dall’isola italiana di Lampedusa. Secondo i dati ufficiali italiani, nel 2022 sono arrivati in Italia clandestinamente dalla Tunisia oltre 32.000 migranti, di cui 18.000 tunisini.
La Tunisia sta attraversando una grave crisi economica caratterizzata da ricorrenti carenze di beni di prima necessità, in un contesto di tensioni politiche, e molti analisti e attivisti ritengono che il presidente stia strumentalizzando la crisi dei migranti per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle questioni economiche e sociali “inventando un nuovo pericolo”. Altri ritengono che Saïed stia cedendo alle pressioni dell’Italia per ottenere lo stop dei flussi migratori.

Reazioni della società civile tunisina

Le sue parole dunque hanno gettato benzina sul fuoco delle incarcerazioni degli oppositori, dei giornalisti e delle proteste di piazza per il referendum andato deserto nelle urne, indignando buona parte delle organizzazioni non governative, parte della classe politica ma anche gli intellettuali. Su Twitter, hanno reagito alcuni analisti politici. Amine Snoussi (@amin_snoussi), autore di libri sulla politica tunisina e giornalista, scrive:

«Il presidente della Repubblica tunisina ha appena convalidato la tesi del grande ricambio. Abbiamo un dittatore razzista che arresta i suoi oppositori e incolpa gli immigrati subsahariani per i nostri problemi. È il peggior regime nella storia di questo paese».

Mohamed Dhia Hammam (@MedDhiaH), ricercatore in scienze politiche alla Maxwell School, definisce le parole di Saïed disgustose, e parla di una “campagna fascista contro i neri”:

«L’oltraggiosa dichiarazione della presidenza sulla riunione del Consiglio di sicurezza nazionale, durante la quale Saïed ha deciso di usare tutte le forze, compresi i militari, per prendere di mira gli immigrati neri, arriva nel bel mezzo di una odiosa campagna mediatica. La logica del complotto messa in atto dal governo fa eco alle teorie del complotto diffuse sia nei media mainstream che nei social media pro- Saïed», twitta l’analista.

«Questo discorso non ha alcuna somiglianza con la Tunisia. La posizione internazionale della Tunisia e la sua storia umanitaria sono molto più grandi di questo discorso», ha reagito su Facebook il presidente dell’Osservatorio tunisino per i diritti umani, Mostafa Abdelkebir. Anche Mnemty, associazione che si batte contro la discriminazione, ha condannato il comunicato stampa della presidenza tunisina, definendolo un «discorso di razzismo e odio e incitamento alla violenza contro i migranti subsahariani».

Le dichiarazioni di Saïed sull’esistenza di una “impresa criminale” volta a cambiare la composizione demografica della Tunisia assomigliano alla teoria del complotto della “grande sostituzione” sostenuta in Francia dal polemista di estrema destra Eric Zemmour che, infatti, reagisce immediatamente alle parole di Saïed: «Gli stessi paesi del Maghreb iniziano a lanciare l’allarme di fronte all’impennata migratoria. Qui, è la Tunisia che vuole adottare misure urgenti per proteggere la sua gente. Cosa aspettiamo a lottare contro la Grande Sostituzione?», ha commentato Zemmour su Twitter condividendo un articolo di stampa sulle osservazioni fatte da Saïed.


A completamento proponiamo questa bella discussione tra Arianna Poletti da Tunisi e Karim Metref, algerino-torinese di origine berbera, entrambi raffinati analisti della situazione e società nordafricana; troverete preoccupazioni inusitate e interpretazioni  di situazioni che danno il quadro di una trasformazione repressiva epocale:


“Tutto il Maghreb sta filando cattivo cotone”.
 

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Incertezza e violenza al centro delle elezioni presidenziali nigeriane https://ogzero.org/incertezza-e-violenza-al-centro-delle-elezioni-presidenziali-nigeriane/ Fri, 24 Feb 2023 15:06:17 +0000 https://ogzero.org/?p=10346 Una delle elezioni più combattute, dove il risultato è in forse e potrebbe anche venire meno la tradizionale alternanza tra presidenti provenienti dal Nord musulmano con quelli cristiani del Sud a causa della forte candidatura di Peter Obi, laico laburista che trova il suo consenso tra i giovani; e in Nigeria, il paese più popoloso […]

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Una delle elezioni più combattute, dove il risultato è in forse e potrebbe anche venire meno la tradizionale alternanza tra presidenti provenienti dal Nord musulmano con quelli cristiani del Sud a causa della forte candidatura di Peter Obi, laico laburista che trova il suo consenso tra i giovani; e in Nigeria, il paese più popoloso dell’Africa, il 40 per cento dei votanti ha meno di 35 anni. Obi potrebbe essere percepito come il più accreditato a raccogliere quello che rimane della protesta #EndSars contro le violenze della polizia; un movimento che si è ridimensionato, ma che potrebbe essere paradigma e focolaio di un pacifico rivolgimento del sistema. Angelo Ferrari ha scritto un articolo per inquadrare la situazione e ci ha segnalato anche un contributo comparso su “AfricaRivista” dedicato all’inaspettata “astensione” delle star dell’afrobeats, la musica onnipresente e in grado di trascinare nugoli di fan; i candidati attingono alla loro musica senza pagarne i diritti, proprio perché i cantanti hanno preferito non schierarsi, dando così un segnale di timore rispetto al mondo politico: ci si può schierare contro la potente e feroce polizia delel Sars, ma è meglio non sbilanciarsi sulle elezioni


Ballot or Bullet

Eleggere un presidente capace di arginare la violenza in Nigeria, durante un’elezione minacciata dalla stessa violenza è la difficile sfida che deve affrontare il paese più popoloso dell’Africa, che andrà alle urne il 25 febbraio per scegliere il suo prossimo capo dello stato. Non passa settimana – non passa giorno! – senza che vi siano attacchi, azioni da parte di gruppi criminali, jihadisti o separatisti che siano e che tentano di piegare e gettare nel caos il gigante dell’Africa occidentale, uno dei paesi più dinamici del continente. L’ex generale golpista Muhammadu Buhari, eletto democraticamente nel 2015 e nel 2019 per porre fine all’insicurezza, non si ripresenta alle presidenziali dopo due mandati segnati da un aumento della violenza, in particolare nella sua regione natale, il Nordovest.

«I politici ci hanno abbandonato al nostro destino», accusa Dahiru Yusuf, che vive a Birnin Gwari, un distretto dello Stato di Kaduna, dove gruppi criminali, chiamati “banditi”, stanno aumentando gli attacchi ai villaggi e praticando rapimenti di massa a scopo di riscatto. «Non sono riusciti a proteggerci dai criminali che ci terrorizzano, quindi non hanno motivo di venire a chiederci voti», lamenta Yusuf.

Nel Nord del paese la situazione è terribile: se il presidente Muhammadu Buhari e il suo esercito sono riusciti a riconquistare alcuni territori in mano ai jihadisti di Boko Haram e dello Stato islamico (Iswap), questo conflitto – dura da 13 anni e ha provocato più di 40.000 morti e 2 milioni di sfollati – è tutt’altro che finito. La situazione si è ulteriormente aggravata e negli ultimi anni si è aperto un nuovo fronte: nel Nordovest e nel Centro bande criminali, che usano ad arte un conflitto mai sopito tra pastori e contadini, operano impunemente nelle zone rurali, attaccando villaggi, ma anche cittadini che transitano sulle strade di queste regioni. Gruppi “criminali”, inoltre, pesantemente armati, hanno effettuato attacchi su larga scala contro le scuole nel 2021, sequestrando più di mille studenti. Molti dei rapiti sono stati rilasciati dietro pagamento di un riscatto – ma alcuni di loro rimangono ancora nelle mani dei criminali nelle foreste, i luoghi dove si nascondono i banditi.

La sicurezza è uno dei temi principali della campagna elettorale di queste elezioni, che si preannunciano molto serrate tra i tre candidati: Bola Tinubu del partito al governo (Apc), Atiku Abubakar del principale partito di opposizione (Pdp) e Peter Obi, l’outsider visto come il candidato dei giovani, laburista (Lp), accreditato dagli ultimi sondaggi di un 40%. I tre promettono di farla finita con la violenza e il terrorismo, lo stesso mantra del presidente uscente Buhari, obiettivo, però, che non è riuscito a raggiungere. Ma la minaccia di violenze diffuse pesa anche sullo svolgimento dello scrutinio del 25 febbraio, durante il quale sono chiamati alle urne circa 94 milioni di elettori, per eleggere il presidente, i deputati e i senatori. Gli analisti, inoltre, pongono molta attenzione sul dopo voto:

«i gruppi criminali fanno crescere il rischio di proteste postelettorali che potrebbero anche intensificarsi», secondo il think tank International Crisis Group (Icg).

Dimensioni della scheda elettorale

Alcuni seggi sono inagibili

Il presidente della Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni), Mahmood Yakubu, ha recentemente rassicurato che le elezioni si svolgeranno senza problemi. Le autorità affermano di avere in programma lo schieramento di più di 400.000 uomini delle forze di sicurezza sul territorio. Nonostante ciò, secondo il gruppo di osservazione elettorale Yiaga Africa, lo svolgimento delle urne è compromesso in sei stati e 14 distretti locali, a causa dell’insicurezza o della presenza di gruppi armati. Nel Sudest, afflitto dai disordini separatisti ereditati dalla guerra del Biafra, negli ultimi anni sono stati presi di mira più di 50 uffici delle commissioni elettorali e centinaia di agenti di polizia. Questa violenza è spesso attribuita al Movimento per l’indipendenza dei popoli indigeni del Biafra (Ipob). Ma Ipob, che chiede la rinascita di uno stato separato per l’etnia Igbo, ha più volte negato ogni responsabilità.

Da quando il paese è tornato alla democrazia nel 1999, dopo anni di dittature militari, le elezioni sono state spesso segnate da violenze politiche, scontri etnici, voti “comprati”, frodi elettorali e problemi logistici.

Incontro degli ex presidenti della Nigeria

La maggior parte degli analisti ritiene che la commissione elettorale sia meglio preparata di prima, in particolare grazie all’introduzione di software biometrici destinati a prevenire le frodi e al trasferimento elettronico dei risultati. Ma i suoi funzionari hanno avvertito che le recenti gravi carenze di carburante e banconote in tutto il paese potrebbero avere un impatto sulla logistica e sul trasporto del materiale elettorale. I nigeriani – la maggior parte dei quali vive in condizioni di povertà – a queste carenze strutturali di uno stato che non riesce a far fronte ai bisogni della popolazione, non sono indifferenti. Anzi, da due settimane sono scoppiate sporadiche rivolte in diverse città del Nord e del Sud, con manifestanti che hanno bloccato strade o attaccato banche. Molti analisti temono una deflagrazione alla vigilia delle elezioni presidenziali.

Per il think tank Icg, «le prospettive postelettorali sono ancora più fosche».

In Nigeria i risultati sono quasi sempre stati contestati, e il rischio di violenze, in questa occasione, è ancora più grande perché il paese potrebbe essere chiamato, per la prima volta nella sua storia, a un secondo turno per il ballottaggio se nessuno dei candidati dovesse essere eletto al primo turno, allungando, così, il periodo elettorale e con esso il rischio di violenze e disordini.

“Qual è l’affare migliore per gli africani?”.


Come accennato nel podcast dell’intervento di Angelo Ferrari su Radio Blackout, sono mancate nella campagna elettorale le intenzioni di voto, gli endorsement… i concerti a sostegno di un qualunque candidato da parte dei divi dell’Afrobeat, che invece si erano mobilitati nel movimento EndSars, che è sopito o rimane sotto traccia, probabilmente perché quel mondo è avulso dalle beghe politiche lontane dai problemi di lavoro, sicurezza, di interessi giovanili e di persecuzione poliziesca. Perciò riprendiamo l’articolo comparso su “Africa Rivista” a completamento delle considerazioni sull’elezione più controversa, ma anche forse considerata distante dal sentimento dei giovani elettori; magari invece scopriremo che – a prescindere dal passaggio elettorale – questa congiunzione astrale avrà permesso a chi rappresenterà la Nigeria di incarnare la trasformazione del paese in una comunità enorme affrancata dalla protezione straniera… a sessant’anni dall spinta indipendentista di liberazione dal controllo coloniale.


Nigeria: la patria dell’afrobeats va alle presidenziali senza le star della musica

La Nigeria è la patria dell’afrobeats e i suoi ritmi risuonano ovunque in Africa e ora anche in Occidente, dove i giovani ondeggiano al ritmo orecchiabile di Burna Boy, Wizkid e Tems.

 

Ma con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali nigeriane, le pop star sono “tranquille”, non “cantano”, stanno defilate, quasi a dire che è meglio non inimicarsi il potere. La nazione più popolosa dell’Africa, che il 25 febbraio eleggerà un nuovo presidente, è spesso teatro delle rappresaglie dei terroristi di Boko Haram e dei gruppi jihadisti che imperversano nel Nordest, ma la Nigeria è anche la più grande economia del continente e la culla di un genere musicale che, senza esagerare, ha incendiando il pianeta intero. Le star dell’afrobeats vincono Grammy (Burna Boy, Tems), riempiono le più grandi sale da concerto del mondo (Wizkid, Davido), fanno milioni di visualizzazioni su Tik Tok (Rema, CKay) e collaborano con celebrità nordamericane, come Chris Brown, Justin Bieber o Drake. Queste celebrità sono adorate tanto quanto l’anziana élite politica nigeriana è odiata. I politici, la cui corruzione è quasi endemica, sono visti come responsabili delle disfunzioni del paese: mancanza di scuole, elettricità, medici, adesso anche carta moneta. Per queste elezioni presidenziali, dove il 40% degli elettori registrati ha meno di 35 anni, i candidati dei due principali partiti sono espressione della vecchia guardia: Bola Tinubu, del partito al governo (Apc) ha 70 anni, e Atiku Abubakar, del principale partito di opposizione (Pdp), ne ha 76 anni.

«I cantanti hanno un potere enorme sui giovani, che i candidati non hanno», sottolinea Oris Aigbokhaevbolo, giornalista musicale. Ma «fanno di tutto per evitare ogni legame con la politica, soprattutto durante le elezioni presidenziali».

L’afrobeats nasce negli anni 2000, da una commistione, tra gli altri stili, dell’afrobeat (senza s) del leggendario Fela Kuti, musicista che ha lottato per tutta la vita contro la corruzione, e l’influenza hip-hop proveniente dagli Stati Uniti. I primi artisti producevano anche testi politici, ma quando il genere ha iniziato ad avere successo, a dare i suoi frutti anche in termine di denaro, i testi sono diventati più “fluidi”, meno impegnati. Fino a poco tempo fa le canzoni erano per lo più odi al capitalismo in versione Naija, celebravano successi, macchine di lusso e conquiste femminili, o dichiarazioni d’amore un po’ mielose. Ma uno storico movimento di protesta giovanile, scoppiato nell’ottobre 2020, ha dato una nuova dimensione al genere, come se ci fosse stato un risveglio politico.

Mentre migliaia di giovani scendevano in piazza per protestare contro la brutalità della polizia e il malgoverno, le star dell’afrobeats sono improvvisamente uscite dal loro silenzio, mostrando il loro sostegno sui social media. Burna Boy aveva acquistato giganteschi spazi pubblicitari per mostrare gli slogan di questo movimento (“EndSARS”). Davido ha guidato una protesta nella capitale Abuja, dove si è inginocchiato davanti alla polizia, e Wizkid ha arringato una folla di nigeriani della diaspora a Londra. Dopo la sanguinosa repressione del movimento, molti artisti avevano reso omaggio alle vittime, come Burna Boy con la sua canzone 20.10.2020, data in cui l’esercito ha sparato sui manifestanti a Lagos. Ma da allora il silenzio è tornato ad essere la regola.

«Non li sentiamo», aggiunge Osikhena Dirisu, direttore della radio The Beat. Né quando si tratta di sostenere le campagne di registrazione degli elettori o di sostenere un particolare candidato.

«Mi delude, ci hanno mobilitato durante EndSARS e oggi nessuno chiede ai giovani di votare o di sostenere Peter Obi, il candidato dei giovani», dice Ifiy, 30 anni, che sostiene l’outsider di queste elezioni presidenziali.

A 61 anni, questo ex governatore, sostenuto da parte dei giovani e dal movimento EndSARS, si è affermato come uno sfidante credibile contro Tinubu e Atiku. Ma a parte P-Square, gli autori gemelli di successi del 2020 come Alingo, le superstar che mostrano il loro sostegno a Obi sono rari, secondo Dirisu. Le celebrità investono poco in politica, «perché in Nigeria è meglio non essere nemici del potere».

Al contrario, i politici hanno bisogno dell’afrobeats: una campagna elettorale senza musica è semplicemente inimmaginabile.

Così, nelle adunate elettorali, gli altoparlanti rimbombano dei successi del momento, il più delle volte usati senza pagare alcun diritto. I cori orecchiabili possono scaldare i militanti di questo o quel partito o le folle di poveri pagati per riempire gli stadi prima dell’arrivo dei candidati. La musica permette anche di umanizzare, persino ringiovanire, i candidati, come Tinubu che ha fatto scalpore durante la sua campagna elettorale abbozzando passi di danza del successo Buga di Kizz Daniel.


Infine, artisti sconosciuti a livello internazionale e che faticano a monetizzare la propria musica vengono spesso pagati dai partiti per cantare durante questi incontri, come Portable per il partito al governo o Timi Dakolo per l’opposizione. Cantanti, tuttavia, criticati sui social media, ma i due artisti si giustificano sostenendo che il denaro non ha alcun odore, insomma si vendono al miglior offerente.

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Litio, legno e… tamponare l’emorragia africana https://ogzero.org/litio-legno-e-tamponare-lemorragia-africana/ Mon, 16 Jan 2023 12:46:24 +0000 https://ogzero.org/?p=10094 La Svezia ha scoperto l’11 gennaio a Kiruna quello che sembra uno dei più significativi giacimenti di terre rare, valutato in circa un milione di tonnellate di ossidi; sicuramente la più grande miniera europea di metalli strategici per la transizione ecologica e digitale. Ma ci vorranno almeno una dozzina di anni prima che si possa […]

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La Svezia ha scoperto l’11 gennaio a Kiruna quello che sembra uno dei più significativi giacimenti di terre rare, valutato in circa un milione di tonnellate di ossidi; sicuramente la più grande miniera europea di metalli strategici per la transizione ecologica e digitale. Ma ci vorranno almeno una dozzina di anni prima che si possa procedere all’estrazione. Quindi è necessario nel frattempo approvvigionarsi altrove, magari continuando a saccheggiare l’Africa.
Il 21 dicembre 2022 il governo di Harare ha adottato il decreto “Base Minerals Export Control” forse con l’obiettivo di imporre restrizioni all’esportazione del litio grezzo; apparentemente è una disposizione volta a imporre alle potenze straniere – in un momento di estremo bisogno di materia prima – di impiantare stabilimenti di lavorazione in territorio africano, prima di portarlo in Occidente. Specifichiamo i porti di destinazione, perché una nota di Reuters, ripresa da “GreenReport” ha segnalato la deroga nei confronti di tre importanti compagnie minerarie cinesi che hanno investito 678 milioni di dollari nel 2022.

E poi c’è l’emorragia del contrabbando da cui ha preso le mosse questo informatissimo articolo di Angelo Ferrari, che in un unico flusso di minerali con numero atomico compreso tra 51 e 71 lega nel discorso l’intera Africa australe, ma poi assumendo come criterio i meccanismi di saccheggio del continente raggiunge il mercato dell’ammoniaca autoctona del Maghreb, attraverso il legno grezzo rapinato dai cinesi al Congo. In questo Angelo è affiancato da Massimo Zaurrini nel breve podcast inserito dove, partendo dalla travagliata regione in cui il 15 gennaio le bombe hanno risvegliato per un giorno le coscienze mondiali, si legano facilmente scontri, tensioni e milizie agli interessi minerari.

OGzero


Le arterie pulsanti dell’Africa

Lo Zimbabwe ha vietato l’esportazione del litio grezzo. Un materiale preziosissimo utilizzato per la fabbricazione delle batterie. Senza il litio è impossibile pensare a un futuro di energie rinnovabili e per l’auto elettrica su vasta scala. La decisione dello Zimbabwe può essere storica e diventare punto di riferimento anche per altri paesi africani ricchi di materie prime e terre rare. Il paese dell’Africa australe intende avviare con questa decisione una propria industria di trasformazione.
Le materie prime vengono esportate grezze per poi essere trasformate altrove. Inoltre la decisione dello Zimbabwe vuole mettere un freno ai minatori “artigianali” che lo estraggono più o meno illegalmente e poi lo esportano all’estero. Secondo le stime fatte dal governo tutto ciò costa 1,7 miliardi di mancati guadagni a causa del contrabbando in Sudafrica e negli Emirati Arabi Uniti. A trarne maggiore beneficio, dunque, sono le multinazionali del settore e in particolare quelle cinesi che ne hanno praticamente il monopolio. Se questa scommessa avrà successo, molti consigli di amministrazione delle multinazionali non dormono sonni tranquilli, ma soprattutto i governi africani potranno cominciare a pensare a uno sviluppo dell’industria mineraria non più sbilanciata verso l’esterno, tesa piuttosto ad avviare processi di trasformazione nei paesi di estrazione.

I preziosi dello Zimbabwe: oro, diamanti e… litio

Per Harare il litio è una risorsa enorme: lo Zimbabwe è il terzo produttore africano e detiene le più grandi riserve di minerale del continente che, nei calcoli del governo, dovrebbero essere sufficienti per soddisfare un quinto del fabbisogno mondiale. Il paese poi si spinge ancora più in là: gli operatori minerari che operano nel paese dovranno pagare alcune delle royalties in metallo raffinato anziché in denaro contante. È lo stesso presidente dello Zimbabwe, Emmerson Mnangagwa, ad annunciarlo attraverso un articolo pubblicato del “Sunday Mail”; il paese, infatti, ha abbondanti riserve di minerali come l’oro e i metalli del gruppo del platino (Pgm), ma i problemi di approvvigionamento energetico, la mancanza di industrie ausiliarie per supportare l’estrazione mineraria e le fluttuazioni valutarie rendono complicato tranne profitto dal boom del mercato. L’iniziativa, dunque, riguarda quattro principali minerali estratti nel paese: oro, diamanti, Pgm e litio.
L’obiettivo è quello di costruire una riserva nazionale di metalli preziosi e “riserve critiche” a beneficio della popolazione attuale e delle generazioni future. Il presidente scrive così sul “Sunday Mail”:

«Non possiamo, come governo attuale e come generazione attuale, gestire risorse limitate in modo dissoluto, senza alcun riguardo per le generazioni a venire».

Se tutto ciò diventerà realtà, potrà rappresentare un cambio di paradigma per l’intero continente. Quindi le compagnie che operano nel settore, come le sudafricane Impala Platinum e Anglo American Platinum, dovranno adeguarsi così come quelle cinesi che hanno il monopolio del litio.
Le restrizioni imposte dallo Zimbabwe non riguarderanno, con molta probabilità, le miniere a livello industriale perché dovrebbero esportare solo materiale trattato, un “concentrato di litio”. Miniere, però, che sono ancora in fase di realizzazione, dato che l’unica importante produttrice di litio è quella di Bikita.

E la Namibia apre all’UE: uranio, diamanti e… litio

Sono anche altri i paesi, sempre rimanendo nell’Africa australe, che stanno lanciando timidi segnali di volersi svincolare dallo sfruttamento selvaggio delle risorse. La Namibia ha infatti interrotto le operazioni di esplorazione dell’uranio affidate dal 2019 a One Uranium, sussidiaria dell’agenzia statale russa per l’energia atomica Rosatom, dicendosi preoccupata per la potenziale contaminazione delle acque sotterranee. La One Uranium, infatti, non è riuscita a dimostrare che il suo metodo estrattivo non causa inquinamento.

La Namibia poi ha ambizioni anche in altri settori minerari; l’Europa sta cercando partner per lo sfruttamento delle terre rare in Africa, finora detenuto dalla Cina. In questo quadro si inserisce l’accordo concluso tra la Namibia e l’Unione europea per la vendita delle terre rare, minerali essenziali per lo sviluppo del settore delle energie rinnovabili come le turbine eoliche e le batterie delle auto elettriche. Windhoek, capitale della Namibia, sta sviluppando con la canadese NCM un progetto per lo sfruttamento e la trasformazione del disprosio e del terbio. Più in generale, il paese dell’Africa meridionale intende posizionarsi come attore globale nella transizione verso le energie verdi.
Mentre la Cina detiene il monopolio virtuale della produzione di terre rare nel mondo, molti paesi sono alla ricerca di alternative (e la Svezia ha annunciato l’11 gennaio la scoperta di imponenti giacimenti di terre rare, ma non in tempi brevi). Per gli europei il progetto Lofdal, attualmente in fase di sviluppo da parte di un’azienda canadese, rappresenta un serio vantaggio. La miniera potrebbe produrre negli anni a venire più di cento tonnellate di disprosio e 17 tonnellate di terbio, due metalli usati nei magneti per le turbine eoliche e le batterie delle auto. La concorrenza in questo settore è molto forte: infatti anche il Giappone è in corsa per acquisire parte della produzione.
Windhoek desidera che la lavorazione industriale avvenga in loco e vede nello sviluppo di questa miniera un’opportunità per diversificare un settore minerario che sta guadagnando slancio.
Oltre ai diamanti e all’uranio, già operativi, il paese si sta posizionando anche come attore nel mercato del litio. Più in generale, la Namibia spera di diventare un hub per fornire idrogeno verde privo di emissioni di carbonio all’Europa. Un grande progetto misto, eolico e solare, mira a produrre idrogeno verde che verrebbe poi esportato in Europa. La Germania ha collaborato con diversi paesi africani per sviluppare un atlante del potenziale idrogeno e stanziato 45,7 milioni di dollari per la Strategia nazionale di sviluppo dell’idrogeno verde proprio in Namibia. L’idrogeno verde, secondo gli esperti giocherà un ruolo cruciale nella futura economia europea decarbonizzata.

Infrastrutture, il problema di fondo

Ma tutto dipenderà dalle infrastrutture che verranno realizzate per il trasporto. Questo è uno dei nodi. Anche per questo l’Europa sta cercando di sviluppare partenariati con i paesi della costa sud del Mediterraneo, in particolare il Marocco e in seconda battuta la Tunisia. Inoltre qualsiasi strategia per sviluppare le esportazioni di idrogeno – come scrive Massimo Zaurrini su “Africa e Affari” – dovrà tenere conto dell’uso interno africano e delle ambizioni di politica industriale di importanti attori del continente.

“Terre rare nella polveriera Africa”.

Fertilizzanti, ammoniaca e tecnologie dell’idrogeno

Il Marocco, uno dei principali esportatori di fertilizzanti, prevede di sostituire le importazioni di ammoniaca convenzionale (utilizzata per la preparazione di questi prodotti) con ammoniaca verde nazionale, grazie a un progetto che dovrebbe vedere la luce a breve che immagina, appunto, l’impiego di idrogeno pulito anziché a base di idrocarburi. Analogamente, l’Egitto sta investendo in un impianto per la produzione di un milione di tonnellate di ammoniaca verde all’anno. Il Sudafrica ha lanciato una strategia finalizzata non solo alla produzione di idrogeno, ma anche alla produzione nazionale di tecnologie e prodotti legati all’idrogeno.

L’inutile sacrificio di ettari di legno congolese

Sull’Africa, dunque, aleggia una nuova aria? Forse, ma le regole si possono aggirare con facilità. In Congo Brazzaville, per esempio, è vietata l’esportazione dei tronchi interi, ma solo di prodotti semilavorati, proprio per favorire l’industria locale. Un’iniziativa che, però, non ha avuto grande successo, o l’ha avuto solo in parte, perché le aziende cinesi del settore che operano nel paese, sono riuscite ad aggirare il divieto attraverso “oculate strategie di convincimento” delle autorità. In una parola: corruzione. Dal porto di Pointe Noire, sull’oceano Atlantico, continuano a partire i tronchi interi e non i semilavorati. La Cina sia nella Repubblica del Congo sia in Gabon – insieme rappresentano circa il 60% dell’area del Bacino del Congo – taglia in maniera indiscriminata e, soprattutto, importa legno grezzo, non i semilavorati come vorrebbero le regole. Tutto ciò oltre a distruggere milioni di ettari di foreste, non porta alcun beneficio alla popolazione, perché viene saltato un passaggio fondamentale, quello che crea lavoro, perché i semilavorati vanno elaborati nei paesi produttori. Dopo quattro anni di investigazioni sotto copertura, terminate nel 2019, la ong britannica, Environmental Investigation Agency (Eia), ha evidenziato come il legname africano tagliato illegalmente sia stato poi trasformato in prodotti che venivano venduti come “eco-frendly” negli Stati Uniti.

Fatta la legge, trovato l’inganno

Tutto ciò è imputabile a un gruppo cinese, il Djia Group che controlla oltre 1,5 milioni di ettari di foresta del Gabon e della Repubblica del Congo. Ettari di foresta ottenuti attraverso pratiche corruttive. Il gruppo cinese, attraverso queste elargizioni di denaro, ha potuto sovrasfruttare le concessioni, esportando tronchi interi, per un valore di 80 milioni di dollari in violazione della legge nazionale in un periodo di quattro anni e avrebbe eluso le tasse per diversi milioni di dollari in ogni anno di attività. Quei tronchi “illegali”, poi, potrebbero essere finiti anche in Europa, attraverso i semilavorati, visto che la Cina è il maggior fornitore di legno dell’Europa. Insomma, la morale è: una volta fatta la legge si può comodamente aggirarla proprio grazie agli stessi legislatori a cui sono state “regalate” valigette stracolme di denaro.

Il solito serbatoio che non diventa mercato

Per tornare allo Zimbabwe, il governo di Harare, con le restrizioni che ha imposto, intende favorire aziende locali per la trasformazione in loco del minerale così che possa essere utilizzato direttamente dall’industria dei veicoli elettrici. Per decenni, infatti, così come altri stati africani ricchi di minerali e risorse naturali, lo Zimbabwe ha permesso che le sue risorse fossero estratte dalle multinazionali, senza sviluppare industrie locali che potessero lavorarle e creare posti di lavoro dignitosi. Vedremo se questa iniziativa avrà il successo sperato o non si troverà il modo, anche qui, di aggirare i divieti e le restrizioni.

L’Africa, più in generale, risulta essere un grande serbatoio di risorse energetiche ma non ancora un mercato “interessante” per chi vende energia. Gli investimenti in infrastrutture non sono ancora adeguati e molta parte del continente rimane al buio. Ecco perché occorre trovare un bilanciamento: il continente è caratterizzato da un’ampia disponibilità di risorse minerarie, ma anche di potenziali risorse verdi, idroelettrico per i grandi fiumi, fotovoltaico nelle ampie zone desertiche, eolico e anche geotermico. Se ben valorizzata politicamente, la grande disponibilità di risorse rinnovabili può mitigare la competizione tra l’esigenza di vendere energia e quella di usarla per il proprio sviluppo. È una strada da percorrere; il divario di competenze tecniche tra occidente e paesi africani sta diventando progressivamente meno esclusivo. Per queste ragioni i paesi africani, come sta cercando di fare la Namibia, cercheranno dei partner con cui stabilire un rapporto più equo.

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L’equilibrismo di tre pesi diversi in Nordamerica https://ogzero.org/lequilibrismo-di-tre-pesi-diversi-in-nordamerica/ Sat, 14 Jan 2023 00:52:49 +0000 https://ogzero.org/?p=10062 Dietro alla relativa eco ottenuta dall’ennesimo incontro tra i tre paesi del Nordamerica si nascondono invece tematiche annose difficilmente risolvibili: i cartelli dei narcos che sull’altra riva del Rio Bravo chiamano War on drugs e che sviluppano  business sempre diversi con l’obiettivo dei mercati anglosassoni del continente; mentre visti dalla frontiera settentrionale i flussi migratori […]

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Dietro alla relativa eco ottenuta dall’ennesimo incontro tra i tre paesi del Nordamerica si nascondono invece tematiche annose difficilmente risolvibili: i cartelli dei narcos che sull’altra riva del Rio Bravo chiamano War on drugs e che sviluppano  business sempre diversi con l’obiettivo dei mercati anglosassoni del continente; mentre visti dalla frontiera settentrionale i flussi migratori si ammassano sulla riva opposta del Rio Grande, come in un grande hub, dove comunque si riescono a spuntare salari maggiori, dove in qualche modo si può “aspettare”. Però sia gli uni – i flussi di droga – che gli altri – i flussi migratori – risalgono lungo tutto il territorio messicano a partire dalla frontiera meridionale. Infatti non manca nemmeno nell’incontro del Distrito Federal di Ciudad de México il confronto tra comunità native e afrodiscendenti – vessate e umiliate dai colonialisti e dai loro discendenti – e bianchi che diventano ancora più feroci nella difesa di privilegi anacronistici. Ma non sono rappresentate da nessuno dei partecipanti, sono pura merce di scambio: per creare difficoltà ai paesi antagonisti (non ammessi alla Cumbre di L.A.) si accettano migranti da quelle frontiere… e si sbattono le porte in faccia agli altri.
Amlo è riuscito nell’intento di apparire all’altezza dei due “amici” anglosassoni? Diego Battistessa ha analizzato la tre giorni de los tres amigos anche mantenendo accesa la luce proveniente dal continente che si apre a Sud di quel confine meridionale messicano che non trova spazio nell’economia autosufficiente del vertice.

fin qui OGzero


Dal 9 all’11 gennaio si sono riuniti a Città del Messico “I tre amici”, in spagnolo Los tres amigos. Non stiamo parlando di Alfonso Cuarón, Alejandro González Iñárritu e Guillermo del Toro, direttori di cinema messicani, conosciuti appunto come “Los tres amigos” – e nemmeno Steve Martin, Chevy Chase e Martin Short (protagonisti della omonima pellicola di John Landis del 1986 all’origine dell’espressione) –, ma bensì dei capi di stato di Canada (nella veste del primo ministro), Usa e Messico (presidenti delle reciproche Federazioni di stati). Trudeau, Biden e Lopez Obrador hanno dato vita al vertice dei leader nordamericani per stabilire delle politiche comuni su temi chiave per “i tre paesi”: in special modo migrazione, sicurezza (leggi narcotraffico) e commercio. Questo incontro trilaterale è il decimo della sua storia, iniziata il 23 marzo 2005 sotto il nome di Alliance for North American Security and Prosperity, con la riunione a Waco (Texas) di George W. Bush (USA) , Paul Martin (Canada) e Vicente Fox (Messico).

Un evento che segna questo inizio 2023 ma che affonda le radici nel 2022. Prima di addentrarci infatti dentro l’analisi di quanto discusso dai tre leader nordamericani nell’evento di Città del Messico è necessario volgere lo sguardo all’anno appena trascorso per capire con quale stato d’animo Trudeau, Biden e Lopez Obrador, si sono seduti al tavolo delle trattative.

 

Mexico – United States of America

Tensione diplomatica

In primo luogo non si può non sottolineare che questo vertice risana una frattura che si era palesata durante un altro importante summit, quello delle Americhe, celebratosi a Los Angeles dal 6 al 10 giugno 2022. Un incontro del quale vi abbiamo parlato in queste pagine  (dove ho potuto partecipare di persona) e dove, tra le altre, pesava proprio l’assenza di Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo). La presa di posizione del presidente messicano rispetto alla sua non partecipazione a questo importante incontro, che si celebra ogni 4 anni, riguardava l’esclusione a priori di Cuba, Nicaragua e Venezuela, paesi ritenuti antidemocratici dagli Usa. Tra il 9 e l’11 gennaio dunque, Lopez Obrador e Biden hanno potuto tornare a negoziare “face to face” in un contesto internazionale, dove strette di mano e foto di rito hanno allentato (almeno a favore di telecamera) una tensione che ancora era nell’aria.

War on drugs di Nixon: mezzo secolo fa

Non è da sottovalutare neanche quanto sono riusciti a realizzare Messico e Usa – nello specifico le autorità messicane –, lavorando insieme alla Drug Enforcement Agency (Dea) degli Stati Uniti rispetto alla lotta ai cartelli che controllano le rotte del narcotraffico. La cattura a luglio 2022 in Messico del narcotrafficante Rafael Caro Quintero (uno dei fondatori del Cartello di Guadalajara insieme a Miguel Ángel Félix Gallardo ed Ernesto Fonseca Carrillo) considerato uno dei latitanti più ricercati del mondo e reso famoso al grande pubblico per la serie Narcos, è stato un gran risultato.

Amlo antidroga

Operazione che ha fatto vedere in modo chiaro la volontà dell’amministrazione di Amlo di lottare contro questa piaga (il Messico ha dichiarato guerra al narcotraffico nel 2007) e di appoggiare le autorità Usa nella persecuzione di questi criminali. Persecuzione, cattura ed estradizione, quest’ultima proprio la più temuta dai leader dei cartelli che sanno di poter vivere una vita “alla grande” nelle carceri messicane ma di tutt’altra storia si tratta se invece la pena è da scontare in una prigione “gringa”.

La catena delle estradizioni

In questo senso il Messico nel 2022 ha estradato più di 50 criminali legati al narcotraffico, principalmente verso gli Stati Uniti, assestando duri colpi ai cartelli di Sinaloa, del Golfo, di Arellano Félix e del gruppo criminale Guerreros Unidos (quest’ultimo collegato al caso dei 43 studenti di Ayotzinapa nel 2014, episodio della politica avversa alle realtà indigene del Mexico). Oltre a Rafael Caro Quintero, altri “narcos” di spicco catturati o estradati nel 2022 sono Mario Cárdenas Guillén, uno dei capi del Cartello del Golfo (conosciuto come “M-1” o “El Gordo), Adán Casarrubias Salgado, conosciuto come El tomate, che si suppone essere il leader del gruppo Guerreros Unidos e Carlos Arturo Quintana, alias “El 80”, uno dei capi del gruppo criminale La Línea, nell’ orbita del Cartello di Juárez. E ancora Juan Francisco Sillas Rocha, uomo di fiducia degli Arellano Felix e Jaime González Durán, alias El Hummer, parte del gruppo di comando degli Zetas.

Welcome, Mr President

Insomma una collaborazione che ha portato buoni frutti e che proprio pochi giorni prima dell’inizio di questo nuovo vertice dei leader nordamericani ha avuto la sua ciliegina sulla torta. Si perché non è certo passato inosservato il tempismo con il quale, proprio 4 giorni prima dell’inizio dell’incontro trilaterale, le autorità messicane hanno realizzato un imponente operazione che ha portato alla cattura di Ovidio Guzmán, uno dei figli (“los chapitos”) dello storico capo del Cartello di Sinaloa, Joaquín El Chapo” Guzmán.

Alle 5 del mattino di giovedì 5 gennaio, diversi elicotteri, uno dei quali armato di mitragliatrice, hanno aperto il fuoco contro bersagli a terra nella città di Culiacán, stato di Sinaloa. Così è iniziato il blitz delle forze federali messicane che hanno catturato Ovidio, conosciuto anche come El Ratón” o “El Gato Negro, sul quale pendeva una taglia di 5 milioni di dollari. Il Cartello ha però reagito in modo rapido e violento, Culiacán è rimasta ostaggio di più di 50 blocchi stradali realizzati da uomini armati appartenenti all’esercito di Guzmán, criminali che hanno anche assaltato l’aeroporto per evitare che Ovidio venisse portato via dalla città.

Il governo messicano ha notificato all’amministrazione di Joe Biden l’azione portata a termine con successo, una sorta di gesto di buona volontà che Amlo ha presentato al presidente degli Stati Uniti d’America prima del suo arrivo a Città del Messico.

Lunga vita all’infame Titolo 42

Sul tema migratorio bisognerebbe scrivere un articolo a parte. È comunque chiaro che questo aspetto è stato centrale nella strategia dell’amministrazione Biden fin dall’inizio della presidenza nel 2021: basti considerare che il primo viaggio fatto dalla vicepresidente Kamala Harris (giugno 2021) riguardava proprio la questione migratoria, ed è stato realizzato tra Messico e Guatemala. Amlo è stato un buon alleato per le politiche migratorie dei democratici statunitensi che durante questi ultimi due anni hanno dovuti fare i conti con l’aumento dei flussi e della pressione verso la frontiera nord, nella misura in cui si minimizzavano (o eliminavano) le barriere per prevenire la diffusione del Covid-19.

L’esternalizzazione delle frontiere in salsa guacamole

Frontera norte

Biden nel 2022 ha cercato per ben due volte di far eliminare il famoso Titolo 42 (a maggio e a dicembre) ma in entrambe le occasioni la maggioranza repubblicana dei giudici ha fermato l’azione della Casa Bianca. Nel frattempo nell’ottobre del 2022 il governo del Messico dava per concluso il programma chiamato Quédate en Mexico (rimani in Messico): programma creato nella legislatura dell’ex presidente Donald Trump (2017-2021) che stabiliva che i migranti che volevano entrare negli Stati Uniti d’America legalmente, dovevano attendere la risoluzione delle procedure burocratiche in territorio messicano. Una misura che il Messico ha subito suo malgrado e che oltre a creare un enorme caos alla frontiera, ha generato multiple violazione dei diritti fondamentali delle persone migranti.

Nonostante ciò, il 2022 si è concluso con dei record storici di transiti migratori irregolari verso gli Usa, situazione che ha esposto il fianco di Joe Biden agli attacchi dei repubblicani che parlano di vera e propria “invasione”, minacciando di processare il segretario alla sicurezza nazionale, Alejandro Mayorkas. Da qui l’ultimo “asso nella manica” giocato dall’attuale presidente a stelle e strisce proprio pochi giorni prima del vertice dei Tre amigos: ancora una volta un piano di bastone e carota.

«Do not come!»

Proprio mentre a Culiacán l’esercito messicano battagliava con il Cartello di Sinaloa per arrestare Ovidio Guzmán, Joe Biden annunciava nuove misure per rafforzare il controllo del confine con il Messico e in cambio prometteva l’apertura di nuovi canali di immigrazione legale, soprattutto alle persone provenienti da Venezuela e Cuba (che vivono la più grande crisi migratoria della loro storia) oltre a Nicaragua e Haiti. Gli Usa, ha detto Biden, accetteranno 30.000 migranti al mese provenienti dai sopracitati paesi, a patto che queste persone in movimento possano dimostrare legami familiari con emigrati già presenti nel territorio statunitense. Allo stesso modo verrà rafforzato il controllo nella frontiera sud e non ci sarà “nessuna pietà” per chi cerca di passare il confine in modo illegale. «Do not come!» (Non venite), continua a recitare Biden, il mantra gringo che sentiamo ripetere ai democratici da giugno 2021, quando proprio in Messico lo disse Kamala Harris per la prima volta in questa amministrazione – e ribadito durante la Cumbre di Los Angeles.

Dossier top secret

Per concludere, a Biden in questi giorni non sono mancati neanche problemi interni. Infatti proprio lunedì 9 gennaio, mentre stavano iniziando i lavori del vertice si è saputo di una importante indagine che lo vede implicato direttamente. Sarebbero infatti stati trovati circa una dozzina di documenti riservati su Iran, Ucraina e Gran Bretagna nell’armadio di un ufficio che l’attuale presidente ha utilizzato mentre collaborava con l’Università della Pennsylvania (2017- 2021), periodo nel quale non ricopriva nessun incarico politico. Una volta trovati i documenti è stato informato il Dipartimento di Giustizia, che ha nominato un pubblico ministero, John Lausch (uomo scelto a suo tempo da Donald Trump), per portare avanti le indagini. Il problema (un altro) è che mentre erano in corso le indagini preliminari per determinare se sussistono gli indizi di reato, sono venuti alla luce nuovi documenti “top secret”, stipati nel garage della residenza di Biden nel Delaware, suo feudo elettorale. Ora bisogna capire se ci sono gli estremi per istruire un processo e in quel caso si staglierebbero nubi molto oscure nell’orizzonte dei democratici, visto che tra poco l’ottantenne presidente Usa dovrà far sapere se correrà per un secondo mandato nel 2024 o se lascerà il testimone del partito a qualcun altro.

Canada

Sappiamo che il Canada è un paese dal basso profilo, nel senso che non riempie di scandali i “rotocalchi” internazionali. Nonostante ciò, questa vetrina internazionale offerta da Amlo è però servita al primo ministro Justin Trudeau per sottolineare il rispetto dovuto alle comunità indigene e alla protezione dell’ambiente.

Pellegrinaggi penitenziali

Parole che riportano subito all’immagine simbolo del 24 luglio 2022, quando Jorge Bergoglio atterrava dopo un volo di 10 ore all’aeroporto canadese di Edmonton per iniziare un viaggio di 6 giorni nel quale avrebbe chiesto perdono ai rappresentanti di vari popoli indigeni (Inuit e Métis tra gli altri) per la complicità della Chiesa cattolica negli abusi perpetrati nei collegi dove venivano internati i bambini indigeni.

Più di 150.000 di loro vennero allontanati dalle loro case dal 1800 fino agli anni Settanta del secolo scorso e internati con la forza nelle scuole nel tentativo di isolarli dall’influenza delle loro famiglie e della loro cultura. Queste scuole/collegi erano finanziati dalla Chiesa cattolica e dal governo e il loro compito era quello di integrare alla forza le nuove generazioni di indigeni alla società canadese di religione cristiana. Dopo la visita di papa Francesco, il governo canadese ha effettuato una dichiarazione nella quale riteneva insufficienti le scuse del Pontefice, che non aveva fatto menzione nei suoi discorsi agli abusi fisici e sessuali perpetrati contro i bambini indigeni. Lo stesso Justin Trudeau aveva chiesto perdono alle popolazioni indigene native il 25 giugno 2021 dopo che la Federation of Sovereign Indigenous Nations (FSIN, che rappresenta nazioni indigene native a Saskatchewan) aveva riferito del ritrovamento di circa 750 tombe anonime in una fossa comune in un collegio in Canada: nel luogo dove prima si ergeva la  Marieval Indian Residential School nella provincia di Saskatchewan. Un tema ancora scottante in Canada e che ha segnato il governo di Trudeau.

I temi del vertice

«Condividiamo una visione comune per il futuro, basata su valori comuni», le parole di Biden a corollario di un incontro che si è centrato principalmente su sicurezza, economia, clima e migrazione.

Autosufficienza economica

Una delle azioni concrete è stata la creazione di un comitato di 12 membri (4 per ogni paese) per la pianificazione e la sostituzione delle importazioni in Nordamerica. L’idea è che i tre paesi possano raggiungere insieme l’autosufficienza, creando un‘unione economica forte ed efficace.

In questo senso Trudeau ha sottolineato che insieme i tre amici superano il pil dell’Unione Europea e che possono essere il volano di una «economia continentale, solida e resiliente».

Respingimenti limitati

Il tema migratorio è stato centrale e se da un lato Amlo ha chiesto a Biden di promuovere riforme per agevolare la legalizzazione di milioni di messicani che vivono e lavorano in Usa, dall’altro lo ha ringraziato per non aver costruito nemmeno “un metro” di muro (il famoso muro promesso da Trump). Il Canada, che riceve una minore migrazione di cittadini messicani, dal canto suo ha posto in marcia il programma di concessione di visti di lavoro a giornalieri messicani, un piano di mobilità regolare che già include 25.000 persone. Il focus però è stata la frontiera del Rio Bravo o Rio Grande, a seconda della riva da cui si guarda, e della pressione migratoria che viene esercitata in questo punto. Come detto in precedenza il nuovo piano di Biden è stato annunciato pochi giorni prima del vertice, spazio nel quale è stato reiterato e confermato da Amlo.

Il mercato di Fentanyl

Lopez Obrador ha poi posto sul tavolo un’altra questione, quella che riguarda il fentanyl, e la sua sempre maggiore diffusione in Usa e Canada. Si tratta di una droga molto potente, che viene confezionata in modo illegale in Messico e che viene poi esportata nel Nord del continente. Dal sito del Centers for Disease Control and Prevention:

«Il fentanyl è un oppioide sintetico che è fino a 50 volte più forte dell’eroina e 100 volte più forte della morfina. È un importante fattore che contribuisce alle overdose fatali e non fatali negli Stati Uniti. Esistono due tipi di fentanyl: fentanyl farmaceutico e fentanyl prodotto illegalmente. Entrambi sono considerati oppioidi sintetici. Il fentanyl farmaceutico è prescritto dai medici per trattare il dolore intenso, specialmente dopo un intervento chirurgico e negli stadi avanzati del cancro.
Tuttavia, i casi più recenti di overdose correlate al fentanyl sono collegati a quello prodotto illegalmente, che viene distribuito nei mercati di stupefacenti per il suo effetto simile all’eroina. Viene spesso aggiunto ad altri farmaci a causa della sua estrema potenza, rendendo i farmaci più economici, più potenti, più stimolanti e più pericolosi».

In questo senso, il presidente del Messico si è impegnato con Stati Uniti e Canada a lottare contro il traffico di fentanyl, confermando che questa attività è stata messa tra le priorità delle Forze Armate del paese latinoamericano.
Il vertice si è chiuso in un clima di cordialità e mutuo intendimento, un gioco politico di do ut des , nel quale ognuno dei tre attori ha “giocato” pensando al cortile di casa sua.

Lo scenario latinoamericano visto dal vertice dei tre amici

Durante il vertice Amlo ha chiesto a Biden e Trudeau di «porre fine a questo oblio, abbandono e disprezzo verso l’America Latina». Parole lapidarie che però rendono bene l’idea di come le forti economie nordamericane facciano “orecchie da mercante” rispetto alla situazione attuale del resto del continente, in preda a forti convulsioni sociali e attacchi profondi alle fondamenta democratiche, così faticosamente costruite negli anni passati.

Tre casi su tutti ci portano a una riflessione sullo stato della regione: Brasile, Perù e Bolivia.

In Brasile abbiamo visto l’8 gennaio migliaia di sostenitori di Bolsonaro assaltare la piazza dei tre poteri a Brasilia. Un atto di superbia morale, terrorismo interno e sdegno verso le istituzioni che ha connotato uno dei giorni più tristi per il Brasile.

In Perù, dove i fatti di dicembre che hanno portato all’arresto dell’ex presidente Pedro Castillo e la nomina della sua vice, Dina Boluarte come prima donna a dirigere il paese sudamericano, le repressioni delle proteste hanno causato decine di morti e centinaia di feriti. Il popolo che si rispecchia in Castillo, contadini e indigeni delle zone rurali, grida que se vayan todos (che se ne vadano tutti) chiedendo elezioni anticipate e la cacciata della corruzione dalle istituzioni: le forze dell’ordine rispondono con proiettili ad altezza d’uomo. Per capire il livello dello scontro basti pensare che a Lima la procura ha chiesto di indagare Boluarte per «presuntos delitos de genocidio, homicidio calificado y lesiones graves».

In Bolivia nel periodo natalizio è stato arrestato il governatore del dipartimento di Santa Cruz, (zona che fa parte della chiamata mezzaluna bianca) dove la destra conservatrice si oppone da anni a Evo Morales prima e ad Arce ora. Luis Fernando Camacho (il governatore) è stato detenuto per i fatti legati alla crisi politica che ha seguito le elezioni del 2019, la cacciata di Evo dal paese e l’insediamento di Jeanine Áñez come presidente del paese (oggi anche lei in carcere): dopo la sua cattura sono iniziate manifestazioni per chiederne la liberazione.


Proprio di questi eventi distribuiti tra Brasilia, Cuzco, Ayacucho, Arequipa, Puno e di considerazioni sui fatti boliviani di questi giorni si è parlato su Radio Blackout il 12 gennaio 2023 con Diego, concludendo ad anello il discorso, ritornando all’inizio di questo articolo:
“Sacudidas en la marea rosa”.


Insomma, uno scenario di instabilità che vede proprio nell’occhio del ciclone tre dei paesi della nuova “ondata” della Marea Rosa fare i conti con la polarizzazione sociale e politica. Se a questo aggiungiamo gli appuntamenti elettorali importanti di questo 2023, specialmente in Argentina, dove il kirchnerismo sembra partire in svantaggio per l’elezione del prossimo presidente e l’attentato sventato contro Francia Marquéz (vicepresidente) in Colombia, possiamo capire quanto il bandolo della matassa sia difficile da districare.

Un aiuto può venire da Moleskine Sur, un ottimo compagno di viaggio nei meandri delle realtà latinoamericane proiettate verso un 2023 dai risvolti molto incerti.

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Le nubi etiopi si sono spostate in Oromia https://ogzero.org/le-nubi-etiopi-si-sono-spostate-in-oromia/ Sun, 08 Jan 2023 21:23:35 +0000 https://ogzero.org/?p=10048 Abbiamo ritenuto opportuno riprendere un articolo pubblicato dai complici di “Atlante delle Guerre” che richiama l’interesse sulla area di guerra più micidiale del mondo, dove i conflitti tra comunità diverse non sono mai sopite e quando – dopo centinaia di migliaia di morti – si raggiunge una tregua in un’area come il Tigray nel Nord […]

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Abbiamo ritenuto opportuno riprendere un articolo pubblicato dai complici di “Atlante delle Guerre” che richiama l’interesse sulla area di guerra più micidiale del mondo, dove i conflitti tra comunità diverse non sono mai sopite e quando – dopo centinaia di migliaia di morti – si raggiunge una tregua in un’area come il Tigray nel Nord della Federazione etiope, si riaccende un conflitto nella centrale regione dell’Oromia, dove si scatenano rivalità e contenziosi tra ahmara e oromo, spostando schieramenti (Ola e Tplf) già contrapposti nel distretto tigrino, come potete sentire nel podcast in cui Matteo Palamidesse (@PalaMatteo) spiega con la consueta prudente cognizione di causa cosa muove le istanze dei singoli attori.


Le truppe eritree stanno lentamente abbandonando le principali città del Tigray centrale e occidentale. Una presenza, quella di Asmara, che, nonostante non sia mai stata ufficializzata ha creato non poche complicazioni nel conflitto. Il ritiro arriva in seguito all’accordo di pace mediato dall’Unione Africana e firmato il 2 novembre 2022 a Pretoria dal governo federale dell’Etiopia e dal Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf).

Nei due anni di guerra in Tigray, l’esercito eritreo è stato accusato di aver commesso atrocità su larga scala, tra cui aggressioni sessuali, uccisioni sommarie, stupri, saccheggi di città e distruzione di infrastrutture. L’Eritrea è infatti entrata a più riprese in Etiopia per reprimere i tigrini ed è stata in prima linea nelle stragi e nelle pulizie etniche. Gli eritrei hanno preso di mira anche i campi profughi presenti nel Tigrai che ospitano esuli del regime eritreo. Nonostante questo, mancando un coinvolgimento ufficiale, l’Eritrea non ha preso parte al processo di pacificazione in atto.

Il ritiro delle truppe di Asmara era però una delle principali condizioni definite dall’incontro di Nairobi (Kenya) del 12 novembre. Dopo l’accordo di pace di Pretoria, le autorità del Tigray avevano infatti accusato il governo eritreo di ostacolare il processo di pace e hanno esortato il governo etiope a rispettare i termini dell’accordo del 2 novembre ritirando le forze straniere e non federali. Un altro punto dell’accordo prevedeva il dispiegamento della polizia federale, che dovrà sostituire quella regionale. Le forze di polizia dovranno infatti garantire la sicurezza nella Regione e lavorare insieme all’Unione africana per garantire il rispetto dei termini stabiliti nell’accordo. Intanto altri obiettivi sono quelli di ripristinare i servizi di base nella regione e consentire l’accesso umanitario incondizionato a tutta la regione, il disarmo delle milizie e il ritiro completo delle truppe eritree e delle milizie ahmara ancora presenti nel Tigray. Il conflitto nel Tigray, scoppiato nel novembre 2020, tra le forze del governo federale etiope e il Tplf ha causato la morte di oltre mezzo milione di persone e migliaia di sfollati.

Ma la strada è tutt’altro che in discesa. Kibrom G/Selassie, amministratore delegato dell’ospedale comprensivo di Ayde, il più grande nella regione del Tigray, ha infatti denunciato, come riportato da “Africa Rivista”, di stare ancora aspettando i medicinali per le cure mediche salvavita.

«Nulla è cambiato anche dopo l’accordo di pace; il governo federale non sta fornendo all’ospedale le medicine tanto necessarie, inclusi i reagenti di laboratorio», ha segnalato Kibrom.

Già nel mese di ottobre, Kibrom aveva dichiarato ad Addis Standard che l’ospedale era sull’orlo del collasso a causa dell’esaurimento dei farmaci essenziali, della mancanza di reagenti di laboratorio e di macchinari difettosi. Dall’altro lato il ministero federale della Salute ha affermato, in una relazione resa nota a dicembre, che i medicinali e le forniture mediche essenziali sono stati distribuiti nella regione del Tigray attraverso l’Organizzazione mondiale della sanità e il Comitato internazionale della Croce Rossa.

Oltre ai delicati passi per la risoluzione del conflitto in Tigray, un’altra ondata di violenza preoccupa l’Etiopia. Le due comunità più numerose del paese, infatti, Oromo e Amhara, denunciano da settimane omicidi e si incolpano l’un l’altro. Le forze di sicurezza etiopi, gli insorti oromo e la milizia amhara si stanno infatti combattendo nella Regione di Oromia, la più grande dell’Etiopia. Le forze di sicurezza federali etiopi combattono contro l’Esercito di liberazione dell’Oromo (Ola), che il governo ritiene un gruppo terroristico e pare che anche i residenti di Oromo e Amhara e i loro alleati armati si stiano scontrando.


A questo proposito Matteo Palamidesse a fine dicembre era intervenuto su Radio Blackout nella trasmissione Bastioni di Orione per approfondire come si è venuta sviluppando la situazione in Oromia:
“In Oromia la tensione non si vede, si colgono narrazioni di guerra”.

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Competizione africana tra Usa e Cina sul litio https://ogzero.org/competizione-africana-tra-usa-e-cina-sul-litio/ Sat, 07 Jan 2023 12:23:14 +0000 https://ogzero.org/?p=10014 Competizione africana tra Usa e Cina sul litio La corsa al litio nascosto nel suolo delle nazioni-minerarie africane prosegue, nonostante alcuni governi cerchino di “proteggere” l’emorragia di terre rare; certi giacimenti sono già controllati e di proprietà cinese. Forse su imbeccata americana, oppure invece solo innescando meccanismi di confronto tra poteri interni ai paesi, si […]

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Competizione africana tra Usa e Cina sul litio

La corsa al litio nascosto nel suolo delle nazioni-minerarie africane prosegue, nonostante alcuni governi cerchino di “proteggere” l’emorragia di terre rare; certi giacimenti sono già controllati e di proprietà cinese. Forse su imbeccata americana, oppure invece solo innescando meccanismi di confronto tra poteri interni ai paesi, si è operato in modo da imbrigliare l’esportazione per aggirare il monopolio che stavano costituendo i possedimenti stranieri dei minerali più ricercati. Una corsa che ha accelerato negli ultimi mesi la sua corsa, perché indispensabili nelle lavorazioni delle nuove tecnologie e dei prodotti collegati al superamento dell’energia fossile. Da un lato il bell’articolo che Marco dell’Aguzzo ha scritto per “StartMag” il 2 gennaio si sofferma sull’episodio dell’export ban del litio adottato dal governo dello Zimbabwe, con la anodina e conseguente decisione di Pechino di aprire raffinerie di litio in loco (ma episodi di precedenti cantieri lasciano immaginare che anche le maestranze saranno importate), anche se si ha notizia di una deroga al bando delle esportazioni nel caso di investimenti annosi – e dunque le miniere cinesi risulterebbero in gran parte esentate; dall’altro Giuseppe Gagliano il 6 gennaio ha ripreso l’argomento sempre su “StartMag”, approfondendo gli aspetti collegati al boom della richiesta di litio che ha fatto lievitare i prezzi di 10 volte in 2 anni, con gli episodi di corruzione (in particolare in Namibia) che hanno interessato i governi di quel paese. Abbiamo chiesto di riprendere i due articoli (le immagini non appartengono agli articoli originali) perché completano il quadro che OGzero ha realizzato nel dossier sulle armi da cui sta prendendo forma un libro dedicato al traffico nel 2022 come paradigma delle modalità dello spaccio di armi, mettendo in relazione quale compra-vendita di macchinari bellici si può riscontrare a fronte del frenetico estrattivismo in terra africana innescato dalla guerra in Ucraina e dalla conseguente diversificazione energetica.

 


2 gennaio 2023,

di Marco dell’Aguzzo

Export ban del litio in Zimbabwe

Il 20 dicembre il ministro delle Miniere dello Zimbabwe, nell’Africa meridionale, ha annunciato un divieto di esportazione di litio grezzo, un metallo utilizzato per le batterie dei veicoli elettrici.
Le esportazioni di minerali valgono circa il 60 per cento delle entrate zimbabwesi legate alle esportazioni; il settore minerario, invece, contribuisce al prodotto interno lordo per il 16 per cento.

Harare punta a sfruttare le materie prime di cui dispone per stimolare la crescita, sul territorio nazionale, di una filiera industriale completa, che non si limiti cioè all’estrazione del litio ma comprenda anche la sua raffinazione e la produzione di batterie, le due attività a maggior valore aggiunto.
Lo Zimbabwe possiede i depositi di litio più grandi di tutta l’Africa. La miniera di Bikita, la più importante del paese, contiene riserve per 10,8 milioni di tonnellate.

Dopo che lo Zimbabwe ha comunicato la decisione le aziende cinesi che hanno investito nella nazione dovranno costruirvi anche degli impianti di raffinazione del materiale.

La miniera di litio di Bikita, in Zimbabwe.

Quali sono gli interessi coinvolti?

È uno sviluppo rilevante, perché il litio è un metallo critico per la transizione energetica, essendo fondamentale per la produzione delle batterie dei veicoli elettrici. Lo Zimbabwe ne è il sesto maggiore produttore al mondo, e si pensa che possieda i depositi inesplorati più grandi di tutta l’Africa. La Cina, invece, vale da sola circa il 60 per cento della capacità di raffinazione globale.

Gli intenti dello Zimbabwe (e altre nazioni)

Attraverso il ban all’esportazione del litio grezzo, lo Zimbabwe punta a sfruttare le materie prime di cui dispone per stimolare la crescita sul proprio territorio di una filiera industriale completa: ossia di una supply chain che non si limiti all’estrazione del metallo, ma comprenda anche la sua raffinazione e la produzione di batterie, le due attività a maggior valore aggiunto.

La mossa dello Zimbabwe non è unica: anche l’Indonesia ha fatto grossomodo la stessa cosa, e con gli stessi obiettivi, con l’esportazione di nichel (un altro metallo critico per le batterie) e più recentemente di allumina (un minerale necessario alla produzione di acciaio). È un approccio che i critici hanno definito “nazionalismo delle risorse”.

Cosa comporta per gli interessi cinesi…

Le aziende cinesi che operano nell’industria zimbabwese del litio, e che in passato hanno effettuato acquisizioni di asset dal valore complessivo di miliardi di dollari, hanno due opzioni per continuare a esportare il metallo: aprire degli stabilimenti di raffinazione nel paese, oppure ottenere dal governo l’autorizzazione all’export della materia grezza per casi eccezionali.

 «L’apertura di raffinerie in Zimbabwe avrà un costo di centinaia di milioni di dollari e richiederà un periodo di due-tre anni tra costruzione e messa in servizio» (Chris Berry, presidente della società di consulenza sulle commodities House Mountain Partners, al quotidiano cinese “South China Morning Post).

… e per i prezzi…

Berry ha aggiunto che se altri paesi dovessero seguire l’esempio dello Zimbabwe, i prezzi del litio e degli altri metalli per la transizione energetica, come il cobalto, potrebbero aumentare. Negli ultimi due anni quelli del litio sono già cresciuti di circa il 1100 per cento a causa dello squilibrio tra offerta e domanda. In Cina (il mercato delle auto elettriche più grande al mondo) il prezzo spot del carbonato di litio ha raggiunto il valore record di 84.000 dollari a tonnellata lo scorso novembre.

… e per i mercati

Secondo Lauren Johnston, che si occupa dei rapporti tra Cina e Africa all’Istituto sudafricano di affari internazionali, «se un numero maggiore di paesi africani vieterà l’esportazione di minerali chiave per l’energia rinnovabili, ma non sono ancora pronti per lavorarli in patria a causa di problemi di governance, infrastrutture, energia e manodopera, questo potrebbe ostacolare lo sviluppo delle rinnovabili a livello globale».

La reazione cinese

L’anno scorso tre società estrattive cinesi – Huayou Cobalt, Sinomine e Chengxin Lithium – hanno acquisito progetti sul litio in Zimbabwe per un valore complessivo di 679 milioni di dollari. Due di queste – ossia Huayou Cobalt e Chengxin Lithium – stanno già lavorando allo sviluppo di stabilimenti di lavorazione, e dunque verranno esentate dal divieto di esportazione.

Huayou Cobalt, in particolare, ha acquisito la miniera di Arcadia, dove si estrae litio dalle rocce, dall’azienda australiana Prospect Resources per 422 milioni di dollari. Il governo zimbabwese aveva imposto a Huayou Cobalt la condizione che il minerale estratto dovesse venire lavorato nel paese per produrre batterie.

A settembre la compagnia cinese aveva detto al “South China Morning Post” che stava investendo 300 milioni nello sviluppo del sito, con l’obiettivo di aumentare la produzione di materiali per l’industria dell’auto elettrica. Aveva inoltre assicurato che non avrebbe esportato litio grezzo.

Chengxin Lithium, invece, ha speso 77 milioni per l’acquisizione dei diritti minerari nel progetto Sabi Star, nello Zimbabwe orientale, che contiene giacimenti di litio e di tantalio (un metallo utilizzato nella produzione di componentistica elettronica) perlopiù inesplorati. Ha destinato 130 milioni all’apertura di una raffineria di litio.

La Competizione USA-Cina sui metalli africani

A dicembre gli Stati Uniti hanno siglato un memorandum d’intesa con la Repubblica democratica del Congo e con lo Zambia per lo sviluppo di una “catena del valore dei veicoli elettrici”: i due paesi ospitano importanti giacimenti importanti di cobalto.

In occasione della firma del documento, il segretario di Stato Antony Blinken disse che Washington «esplorerà meccanismi di finanziamento e di sostegno agli investimenti nelle catene del valore africane dei veicoli elettrici».

Le aziende cinesi possiedono gran parte delle miniere di cobalto in Congo, che vale oltre il 70 per cento della produzione mondiale di questo metallo. Gli Stati Uniti, dunque, potrebbero voler cercare di contrastare l’enorme influenza di Pechino sul mercato delle materie prime per la transizione energetica.

Il Kivu: un non-luogo


Perché il prezzo del litio schizza in alto

6 gennaio 2023,

di Giuseppe Gagliano

L’aumento della domanda di litio manterrà alti i prezzi

Il prezzo del litio, ingrediente chiave nelle batterie dei veicoli elettrici, è salito del 1000% dal 2020 a 82.000 dollari per tonnellata a dicembre. L’aumento della domanda, man mano che la produzione di veicoli elettrici si espande, manterrà i prezzi alti.

Ci sarà carenza di litio?

Gli esperti del settore prevedono una carenza mentre le aziende occidentali e cinesi combattono con le unghie e con i denti per avere più risorse. Alla conferenza annuale Mines and Money a Londra il 29 novembre è stata sottolineata la necessità di dare priorità ai collegamenti della catena di approvvigionamento ai nuovi depositi più lo sviluppo della capacità produttiva intermedia.

Altrimenti, hanno avvertito gli esperti, la desiderata transizione energetica verde di molti paesi verso il trasporto a emissioni zero non sarebbe realizzabile entro il 2030.

Il ruolo della Cina e della Namibia

Mentre la Cina domina la produzione di batterie agli ioni di litio utilizzate nei veicoli elettrici, per le quali è il mercato più grande, rappresenta solo una piccola quantità di produzione mineraria di litio.

Infatti la Namibia e gli altri paesi africani con risorse di litio finora non sfruttate e altri “metalli per le batterie” – tra cui cobalto, grafite e nichel – sono stati presi di mira da aziende occidentali e cinesi alla disperata ricerca di nuove fonti di approvvigionamento.

Ad esempio la Lepidico australiana sta sviluppando una miniera di litio da 63 milioni di dollari e un impianto di lavorazione nei vecchi giacimenti di Helikon e Rubikon vicino a Karibib nella regione centrale di Erongo;

l’impianto in loco realizzerà concentrato per l’esportazione in un nuovo impianto di conversione chimica di 203 milioni di dollari ad Abu Dhabi. L’azienda prevede un tasso di rendimento interno annuo del 42% in 15 anni.

La Namibia indaga sulla Cina

Nel frattempo, le autorità namibiane stanno indagando sulle circostanze in cui un’azienda cinese finora sconosciuta, Xinfeng Investments, è riuscita ad acquisire una licenza al litio. La Commissione anticorruzione indipendente sta indagando sulle accuse secondo cui i funzionari del ministero delle Miniere e dell’energia (MME) hanno impropriamente facilitato l’acquisizione da parte di 50 milioni di dollari della Namibia (2,3 milioni di dollari) da parte di Xinfeng dei diritti di esplorazione e esportazione del litio vicino a Omaruru nel nord-ovest di Erongo.

Ad agosto all’azienda cinese è stata concessa una licenza mineraria fino al 2042 per metalli di base e gli addetti ai lavori affermano che i funzionari MME sono ampiamente sospettati di utilizzare i loro parenti e associati per richiedere diritti di esplorazione in aree con depositi minerari di alto valore, specialmente quando c’è interesse da parte di investitori cinesi e altri investitori stranieri.

Nel frattempo, Xinfeng ha attirato polemiche tentando presumibilmente di esportare grandi volumi di minerale di litio – tra 54.000 e 135.000 tonnellate – come “campioni di prova” in Cina senza test locali o elaborazione di prova.

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Caro fratello Assad, ti va un panino insieme?! https://ogzero.org/caro-fratello-assad-ti-va-un-panino-insieme/ Mon, 02 Jan 2023 00:29:02 +0000 https://ogzero.org/?p=9934 Il 28 dicembre si è svolto a Mosca un vertice a tre con la partecipazione del ministro della Difesa turco Hulusi Akar e il generale Ali Mahmoud Abbas, alla presenza del ministro della Difesa russo Sergey Shoigu nell’ottica della svolta turca per cambiamenti politici e trasformazioni globali – in riavvicinamento e riconciliazione con Damasco per […]

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Il 28 dicembre si è svolto a Mosca un vertice a tre con la partecipazione del ministro della Difesa turco Hulusi Akar e il generale Ali Mahmoud Abbas, alla presenza del ministro della Difesa russo Sergey Shoigu nell’ottica della svolta turca per cambiamenti politici e trasformazioni globali – in riavvicinamento e riconciliazione con Damasco per «la necessità di porre fine alle differenze e raggiungere soluzioni che servano gli interessi della regione». Secondo al-Watan si tratta del risultato finale di diversi incontri avvenuti in precedenza tra i servizi di intelligence e la Turchia avrebbe contestualmente accettato un completo ritiro dal conflitto siriano; oltre al riconoscimento da parte di Ankara del rispetto per la sovranità e l’integrità territoriale della Siria; sarebbe stata discussa anche l’attuazione dell’accordo concluso nel 2020 per l’apertura della strada M4.
È stato pianificato dal Cremlino a breve un incontro tra i ministri degli esteri e infine, sempre nella capitale russa, il vertice Erdoğan-Assad. Evidente che per l’ennesima volta il presidente turco intende sfruttare a proprio favore la situazione siriana, sabotando l’autonomia curda e nello stesso tempo rimandando in patria i profughi siriani residenti attualmente in Turchia. Due carte da giocare nelle prossime elezioni presidenziali. Intanto si continua a vellicare l’istinto militarista, vera continuità tra potere ottomano, kemalista e neo-ottomano di Erdoğan, con un costante riarmo e investimenti in produzioni belliche

In questo processo, che è evidentemente il proseguimento dello spirito di Astana nell’ambito più precipuamente della Guerra siriana per cui si è manifestato inizialmente, le parti riunite hanno confermato che il Pkk, con le sue emanazioni siriane Ypg-Ypj, è una milizia per procura di America e Israele e rappresenta il pericolo maggiore per la Siria e la Turchia. L’articolo che proponiamo è stato completato da Murat Cinar il giorno prima di questo incontro, ma già da quasi un mese ci stava lavorando,  avendo avuto sentore della direzione in cui si stavano evolvendo gli eventi geopolitici in Mesopotamia.

Fin qui l’introduzione di OGzero, la parola a Murat…


Retaggio ottomano

Tra Turchia e Siria c’è un confine di 911 chilometri. I due paesi hanno iniziato a avere un rapporto complicato sin dal crollo dell’Impero Ottomano; confini, acqua, formazioni armate, rapporti commerciali, energia, rifugiati, traffico di droghe e persone e infine spese militari. Oggi sembra che sia giunto il momento di aprire l’ennesimo “nuovo capitolo”.

Un passato importante lungo l’Eufrate

L’Eufrate è uno dei due fiumi che danno il nome alla Mesopotamia. Nasce nel territorio della Repubblica di Turchia ma cresce e prosegue il suo percorso verso lo Shatt-al Arab attraversando la Siria. Innegabile l’importanza di questa fonte d’acqua, ma anche che ne scaturiscano conflitti e manovre politiche. Sia Ankara che Damasco, tranne alcuni momenti nella storia, hanno sempre voluto sfruttare questa risorsa comune come elemento di ricatto e non di cooperazione. In Turchia, sia il governo di Süleyman Demirel sia quello di Turgut Özal sono stati sempre sostenitori, negli anni Settanta e Ottanta, dell’idea che Ankara avesse il diritto di controllare totalmente il regime delle acque. Infatti la costruzione del megaprogetto delle dighe (Progetto del Sudest Anatolia) aveva l’obiettivo di risultare una opportunità di ricatto ai danni del regime di Damasco.
Ovviamente il fatto che la Turchia fosse sempre stata un fedele membro della famiglia Nato e la Siria fosse l’alleato numero uno dell’Unione Sovietica in zona ha fatto sì che la rivalità tra questi due vicini risultasse come una sorta di “guerra fredda” di riflesso per procura.

Il ruolo in commedia del Pkk

Senz’altro la nascita e la crescita negli anni Settanta e Ottanta dell’organizzazione armata Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ha un po’ scombussolato la situazione. Soprattutto dopo la decisione da parte dell’organizzazione di lasciare, quasi totalmente, il territorio della Repubblica di Turchia e creare le proprie “basi” e “accademie” in Siria, le relazioni tra questi due vicini sono diventate molto complicate. Dalle lezioni di “sicurezza nazionale” presso le scuole pubbliche alle dichiarazioni dei governatori, dal linguaggio dei media fino alle scelte politiche dei governi che risiedevano ad Ankara ormai la presenza del Pkk per la maggior parte della società turca risultava essere un enorme problema e una notevole minaccia. Ormai la vicina Siria ufficialmente “sosteneva i terroristi”.

La svolta di Adana

Infatti proprio su questo tema nel 1998 fu firmato l’Accordo di Adana tra questi due vicini. Un accordo che impegnava Damasco a collaborare con Ankara nella sua “lotta contro il terrorismo”, perché ormai per la Turchia la presenza del Pkk sul territorio del vicino era un “casus belli”. Proprio in quel periodo, ottobre 1998, mentre si consolidava per la prima volta una collaborazione del genere, Abdullah Öcalan (“Apo”), il leader storico del Pkk che viveva da anni in Siria, dovette lasciare il paese e nel giro di pochi mesi a Nairobi in Kenya fu arrestato dai servizi segreti turchi. Öcalan, condannato all’ergastolo, vive tuttora in isolamento in un carcere speciale sull’isola di Imrali in Turchia.

Il progetto del Grande Medioriente

Pochi anni dopo l’arrivo al potere dell’Akp (Partito dello Sviluppo e della Giustizia) i rapporti tra Ankara e Damasco si consolidano ancora di più. La Turchia lavorava come intermediario nei tentativi di dialogo tra Israele e Siria che si svolgevano a Istanbul e il presidente siriano, Bashar al-Assad, insieme a sua moglie decideva di fare le vacanze a Bodrum in Turchia, incontrando l’attuale presidente della repubblica, Recep Tayyip Erdoğan che all’epoca era il primo ministro. Proprio in quel periodo Erdoğan si intestava, in diretta tv, la copresidenza del Greater Middle East Project, ideato e promosso dall’allora presidente statunitense George W. Bush con l’obiettivo di creare una zona di collaborazione e alleanza tra i paesi di maggioranza musulmana, dai Balcani fino all’Asia orientale.

Una nuova fase

In alcuni incontri del 2004 tra i paesi della Nato e del G8 erano persino state organizzate delle presentazioni per annunciare alcuni dettagli di questo progetto, che secondo alcuni analisti rappresentava un tentativo di allargamento non ufficiale della Nato con l’intento di limitare lo spazio di manovra dei paesi ancora comunisti e socialisti. A dirigere questo progetto c’era anche Erdoğan, quindi il rapporto intercorrente tra Ankara e Damasco diventava fondamentale.
A quest’ondata di cambiamenti in positivo per una collaborazione amichevole tra i due paesi si può aggiungere l’abolizione del visto tra i due paesi nel 2009 e una serie di accordi commerciali straordinari firmati tra Erdoğan e Assad soprattutto nell’ottica delle privatizzazioni che il governo di Damasco aveva avviato.

La guerra per procura

Senz’altro la guerra per procura ancora in corso in Siria ha cambiato radicalmente le carte in tavola. L’instabilità generalizzata che domina tuttora in Siria è partita nel 2011 con le prime rivolte popolari. In poco tempo l’infiltrazione dei servizi segreti delle terze parti, la nascita e la crescita delle formazioni armate terroristiche sostenute da numerosi paesi vicini e la presenza dei soldati di vari paesi hanno fatto sì che ormai la guerra in Siria potesse essere definita come una proxy war.

Le prime reazioni e scelte

«Assad è come Mussolini, lasci il suo potere. Prima che scorra ulteriore sangue lasci la sua poltrona».

Subito dopo le prime manifestazioni che hanno ricevuto la risposta dura di Damasco, erano queste le parole pronunciate da Recep Tayyip Erdoğan. Una posizione netta e chiara, assunta nel lontano 2011, dichiarata durante il suo intervento nel gruppo parlamentare dell’Akp.
All’inizio della guerra in Siria il piano di Ankara era quello di fare il possibile perché Assad lasciasse il suo potere. In quest’ottica nel 2014 aveva anche partecipato agli incontri di Ginevra con l’intento di creare un nuovo percorso per la ricostruzione politica e amministrativa della Siria. Nel mentre non mancavano le dichiarazioni forti e convinte di Erdogan:

«Il Presidente siriano ha ucciso circa un milione di cittadini suoi. In realtà stiamo parlando di un terrorista che sparge il terrorismo di stato. Non possiamo dialogare con una persona del genere, non sarebbe corretto nei confronti di un milione di siriani assassinati».

Le prime milizie antisiriane e il ruolo dell’Isis

Sempre nello stesso periodo, in collaborazione con l’amministrazione statunitense dell’epoca, Ankara aveva avviato i lavori per l’addestramento delle prime brigate dell’Esercito libero siriano (Fsa) con l’intento di creare un corpo militare che potesse lottare contro il regime di Damasco. Successivamente questa forza in parte è scomparsa, in parte ha aderito alle formazioni terroristiche e in parte ha collaborato con Ankara.


Quel periodo fu molto importante per la Turchia e per il resto del Medioriente. La nascita e crescita dell’Isis ha rimescolato i piani: soprattutto i lavori di reclutamento dei nuovi adepti, l’utilizzo di territori senza rispetto del confine e la creazione di nuove fonti di guadagno in Turchia, da parte dell’organizzazione terroristica, hanno fatto sì che Ankara ormai fosse direttamente coinvolta nella guerra in Siria. Alcune intercettazioni relative alle riunioni dei servizi segreti turchi, varie dichiarazioni rilasciate da parte di numerosi esponenti del governo e la posizione dei mezzi di propaganda rivelarono quanto poco Ankara fosse dispiaciuta della presenza dell’Isis in Siria. Alla fine della partita avrebbe potuto anche rendere più “facile” la caduta di Assad.

Tuttavia sono successe tre cose che hanno ribaltato ancora un’altra volta i piani.

L’alba degli Accordi di Astana

Mosca in Siria

Innanzitutto la Russia, insieme all’Iran, decise d’intervenire militarmente in Siria per salvare Damasco che stava subendo dei gravi colpi in questa guerra. Ormai chiunque avesse avuto l’intenzione d’immischiarsi con gli affari interni della Siria era obbligato a dialogare con Mosca e Teheran.

Confederalismo democratico in Rojava

Poi la nascita del Confederalismo democratico con il protagonismo delle sue forze armate nella lotta contro l’Isis fece sì che a livello mondiale la nuova esperienza politica ed economica guadagnasse credibilità e rispetto. Questo punto ovviamente era un problema per Ankara dato che dietro il progetto del Confederalismo democratico che sorgeva, come zona autonoma nel Nord della Siria (il Rojava), c’erano una serie di attori molto “problematici” come Öcalan e Pkk. Nel 2012 il Partito dell’unione democratica (Pyd) dichiarava la nascita delle unità di difesa popolari (Ypg-Ypj) impegnate nella lotta contro il terrorismo fondamentalista nella regione.

Isis in Turchia

Infine gli attentati dell’Isis sul territorio della Repubblica di Turchia che causarono la morte di centinaia di persone in meno di due anni coinvolgevano ancora di più Ankara in questa guerra che era in corso ormai da quasi cinque anni. Alla lista di priorità nuove si aggiungeva la lotta contro l’Isis che ormai era una netta minaccia contro la sicurezza nazionale per la Turchia.

Forzata alleanza

Per risolvere i suoi problemi Ankara si trovava ormai obbligata a consolidare i rapporti con la Russia per poter agire in Siria. Oltre a ciò le Ypg-Ypj non potevano essere degli interlocutori dato che erano i cugini degli storici “terroristi” per Ankara. Anche se per poco un tentativo di dialogo con Salih Muslim era stato fatto. Muslim è il leader politico del partito politico siriano Pyd – la forza non armata dominante in Rojava. Tuttavia in poco tempo questo tentativo si è concluso senza successo. Secondo alcuni analisti perché Ankara aveva proposto al Pyd di lottare contro Assad in collaborazione con l’Esercito libero siriano, invece il Pyd ha rifiutato la proposta decidendo di non prendere parte nella guerra in Siria e proseguire per la sua strada. Questa “terza scelta” non prevedeva né di collaborare con la Turchia né di sostenere Damasco.
Relativamente a quest’ultimo punto non si può ovviamente tralasciare il fatto che il tentativo di dialogo tra lo stato e il Pkk, in Turchia, sia fallito proprio nel periodo in cui le Ypg-Ypj acquisivano più credibilità a livello internazionale nella loro lotta contro l’Isis.


Dunque si tratta di un momento che ha creato una notevole preoccupazione strategica per Ankara.

Le “operazioni speciali” turche in Siria

Dunque nel 2016, poche settimane dopo il fallito golpe in Turchia e in pieno stato d’emergenza, Ankara decise di avviare la sua prima operazione militare. Gli obiettivi erano 3: lottare contro l’Isis, contro le Ypg-Ypj e contro il governo centrale. Da quel momento a oggi sono passati circa 7 anni e la Turchia, ufficialmente, ha lanciato 4 altre operazioni aumentando nel Nord della Siria la sua presenza militare, politica e economica. Ankara è stata accusata in questo periodo di avviare anche una campagna di cambiamento culturale e demografico della zona provando a cancellare l’identità curda e distruggendo i segni del Confederalismo democratico.

Equilibrismi tra Nato e Russia

In questo gioco molto delicato e pericoloso Ankara ha dovuto gestire i rapporti con la Russia e con i suoi alleati della Nato presenti sul territorio. Non è stata una partita facile perché quanto più il tempo passava, tanto Ankara diventava sempre più dipendente dalla Russia anche al di fuori dalla guerra in Siria: turismo, accordi energetici, agricoltura, investimenti militari, presenza dei servizi segreti, centrali nucleari…

Quest’avvicinamento ovviamente presupponeva una sorta di allontanamento parziale e graduale dalla famiglia della Nato anche se la Turchia restava sempre un membro del patto transatlantico e l’unico membro fortemente presente sul territorio siriano.

Freddezza tra Turchia e UE

Il rapporto consolidato, delicato ma anche fragile tra Ankara e Mosca con la nascita del conflitto armato in Ucraina è entrato in una nuova fase. Il rapporto con la Nato e con l’UE invece è diventato sempre più debole e oggi lo possiamo considerare come una “collaborazione strategica” più che alleanza. Tra Ankara e Nato in tutto questo tempo ci sono state delle divergenze: dai processi per evasione fiscale e frode, all’embargo non rispettato contro l’Iran, fino ad arrivare agli accordi militari con Mosca e l’acquisto degli S-400. Oggi l’Isis sembra essere morto oppure in coma e l’esperienza del Confederalismo Democratico molto indebolito, accerchiato e in parte anche distrutto.
Invece a Damasco è ancora al potere Assad.

Nuova fase dopo l’“operazione speciale” in Ucraina

Oggi Ankara ha deciso di riprendere, gradualmente, il dialogo con il presidente siriano. Il 27 novembre 2022 l’attuale presidente della Repubblica di Turchia ha rilasciato queste dichiarazioni dopo aver inaugurato il ripristino delle relazioni con l’Egitto:

«Ci sono diversi paesi che vogliono approfittare delle relazioni precarie del nostro paese con i paesi del Golfo. Non glielo possiamo permettere. Come abbiamo ripristinato le relazioni con l’Egitto in futuro possiamo fare la stessa cosa anche con la Siria».

Proprio in quei giorni l’agenzia di notizia internazionale Associated Press pubblicava un articolo in cui sosteneva che Erdogan avesse mandato una lettera ad Assad invitando l’esercito siriano di riprendere in mano le zone liberate delle Ypg-Ypj e chiedeva a Damasco di collaborare per il rimpatrio dei siriani presenti in Turchia, ormai circa 4 milioni.
Pochi giorni dopo, il 15 dicembre, sempre lo stesso Erdoğan, sull’aereo, al rientro dal Turkmenistan ha deciso di concretizzare la sua proposta, parlando con i giornalisti a bordo:

«Vorremmo fare un incontro a tre con la Russia e la Siria. Prima si impegneranno i servizi segreti e poi i Ministri di Sicurezza Nazionale. Dopo questi potrebbero incontrare anche i leader. Ne ho parlato con il Presidente Putin anche lui è d’accordo. Così possiamo iniziare a una serie di incontri».

Mentre Mosca accoglieva con piacere questa proposta, dalla Siria arrivavano le prime dichiarazioni scettiche: Pierre Marjane, parlamentare siriano responsabile delle Relazioni esteri del parlamento, il 29 novembre rilasciava queste dichiarazioni a un giornale in Turchia, “Kisa Dalga”:

«Potremmo dialogare con la Turchia tuttavia deve ammettere che ha finanziato e addestrato le forze armate terroriste e le ha fatte entrare in Siria. Poi deve dichiarare che è pronta a ritirarsi dalla Siria».

Ovvero: lo stato dell’arte

Infatti – secondo una serie di osservatori internazionali, alcuni governi stranieri e una serie di giornalisti che lavorano in Turchia – l’attuale governo ha sostenuto direttamente oppure indirettamente alcune organizzazioni terroristiche fondamentaliste che hanno agito in questi anni in Siria. Questo punto ovviamente ha causato sempre le reazioni dure di Damasco: a oggi la Turchia risulta presente militarmente sul territorio siriano in modo massiccio, tanto che solo nel 2021 il numero di truppe impegnate contava più di 10.000 soldati.

Tra le parole pronunciate da Marjane si vede anche un riferimento all’Accordo di Adana firmato nel 1998. Secondo il parlamentare siriano sarebbe necessario prenderlo in mano e applicarlo. In realtà si tratta di una premessa ch’era stata fatta negli incontri di Astana nel 2019 tra Mosca e Ankara. Dunque oggi la situazione in cui ci troviamo ci fa capire che, a grandi linee, l’intenzione sia di tornare alle condizioni del 2010: prima delle rivolte arabe.

“Erdoğan esagerato: un dittatore rilancia sempre nuove pretese”.

Come mai?

Le risposte sono tante. Potremmo studiare questa sezione concentrandoci sulle motivazioni legate alla politica interna ma anche estera.

Elezioni del 2023

Se guardiamo la politica interna senz’altro la profonda crisi economica che strozza la Turchia rappresenta un problema per Ankara soprattutto alla luce delle elezioni del 2023. L’inflazione alle stelle, la fuga dei giovani, le opposizioni sempre più compatte e il caro vita ogni giorno fa perdere punti a Erdogan nei sondaggi.
Le spese militari in Siria forse per Ankara risultano ormai difficilmente sostenibili e un rapporto commerciale (soprattutto petrolio) regolare con il vicino confinante per più di 900 km potrebbero essere una soluzione.

I rifugiati in ostaggio

Ovviamente la presenza di circa 4 milioni di siriani in Turchia rappresenta un problema per Ankara. Una popolazione in parte proveniente dalle zone, come Afrin, colpite dalla Turchia in questi ultimi anni e “ripulite” delle sue popolazioni curdofone. Un esercito privo di diritti, di persone ricattabili e sfruttate rappresenta il nuovo proletariato a basso salario messo in concorrenza con la mano d’opera locale. Mentre questa contrapposizione può far piacere agli industriali, ma non è gradita ai cittadini che devono fare i conti con la profonda crisi economica. Quindi l’eventuale rimpatrio graduale di queste persone è necessario per Ankara in particolare per riprendere quell’emorragia di voti che defluisce verso quei partiti che da tempo sostengono che “i siriani se ne devono andare”.


Si tratta di un progetto che in prima persona Erdoğan promuove ormai da circa 4 anni:

«Una zona cuscinetto nel nord della Siria, lunga 480 chilometri e profonda 30,  dove sarebbero collocati circa 2 milioni di siriani».

In diversi interventi pubblici e televisivi Erdoğan raccontava il suo progetto di costruire nuove cittadelle in questa zona e collocarci principalmente le persone arabofone. Per fare tutto questo è ormai necessario accettare che a Damasco c’è un interlocutore e parlare con questo anche perché il progetto di Erdogan in questi anni non ha ricevuto riconoscimento né dalla Russia né dalla Nato.

Al posto di Ypg-Ypj: dialogo tra autocrati

Invece nella politica estera molto conta la presenza della Russia in Siria che potrebbe diventare debole, se la guerra in Ucraina non si concludesse a breve. Dunque per Ankara iniziare a costruire ponti con Damasco attraverso un canale di dialogo diretto senza l’ausilio di Mosca potrebbe essere un investimento per quel giorno in futuro quanto Putin deciderà di lasciare definitivamente la Siria. Nel fare questo ovviamente Ankara avrebbe un piatto pronto per Damasco ossia le zone che controlla in Rojava, “bonificate” dalle Ypg-Ypj, che potrebbero essere consegnate a Damasco [come sancirebbero le indiscrezioni di “al-Watan”]. Inoltre ovviamente Ankara vuole mettere le mani avanti per evitare ciò che è successo in Iraq quando si è “conclusa” l’invasione statunitense ossia la nascita di un Kurdistan. Il regime al potere in Turchia senz’altro non ha voglia di avere una zona federale curda che si comporti in modo diverso rispetto a quella irachena che collabora senza problemi con Ankara. Quindi per Ankara ovviamente è meglio avere il governo centrale siriano al di là del confine al posto dei “terroristi”. In quest’ottica spolverare l’Accordo di Adana, che promette una reciproca collaborazione nella lotta contro il “terrorismo” ha molto senso.

Dalla parte della Nato

Sempre bazzicando affari geopolitici il ripristino dei rapporti con Damasco potrebbe fornire ad Ankara come una mossa apprezzata da parte della famiglia della Nato, dato che sarebbe l’unico paese del “club” a dialogare direttamente con Assad. Dunque Erdoğan risulterebbe ancora un importante e irrinunciabile interlocutore. Alla luce delle elezioni generali del 2023 per Erdoğan questo potrebbe dire portare a casa una vittoria importante in termini di credibilità internazionale.

Ma contemporaneamente sarebbe anche una mossa che renderebbe “indipendente” e “privilegiata” la Turchia. Erdoğan potrebbe usare questa novità come un elemento di forza o un ricatto contro i suoi alleati (come ha fatto per contrastare le reazioni ogni volta che ha invaso il Rojava), visto che il suo rapporto con gli alleati è sempre più precario. Le relazioni tra Ankara e Nato sono diventate deboli in questi anni anche perché la scelta di sostenere politicamente e militarmente le Ypg-Ypj è stata definita come un “tradimento” per Ankara dato che queste sigle per il regime in Turchia sarebbero le cugine dei “terroristi”.
Inoltre anche la nascita dell’Esercito Democratico Siriano (Sdf) con il sostegno degli Usa ha creato preoccupazione ad Ankara che temeva la nascita di un esercito curdo in zona. Dunque le scelte radicalmente diverse per quel che concerne la Siria si fondano tuttora sulla grande amarezza derivante dalla tensione che esiste tra Ankara e il resto della Nato. Quindi la manovra di Ankara (per consolidare i rapporti con Damasco) potrebbe fare sì che Erdoğan continui ad agire in Siria con l’intento di creare nuove strategie indipendentemente dalla Nato.

Stuccare vicendevolmente le crepe, perpetuando i relativi poteri

Il 28 dicembre Hulusi Akar, il ministro della Difesa Nazionale, e il capo dei Servizi segreti Hakan Fidan, sono partiti da Ankara per Mosca per incontrare i loro colleghi siriani. L’incontro avvenuto dopo 11 anni di gelo nelle relazioni è stato produttivo secondo Akar: avrebbero parlato della questione dei rifugiati, della lotta contro il “terrorismo”, della difesa dell’integrità territoriale della Siria e dell’espulsione delle forze straniere dal territorio.

Ripristinare i rapporti con la Siria per Ankara ha questi valori. Invece per Damasco ha qualche importanza in più. Nel caso in cui si potesse avviare il progetto congiunto di eliminare il Confederalismo democratico in Rojava e le sue forze (Sdf, Ypg-Ypj) per Damasco significherebbe riprendersi quel quarto del suo territorio occupato e controllare una grande fonte di petrolio e gas che attualmente si trova sotto il controllo di queste forze armate e degli Usa.

Inoltre, per Assad, ripristinare i rapporti con Ankara vuol dire far accettare la sua presenza al potere e archiviare le possibili proposte legate all’abbandono del potere. In quest’ottica per Damasco accettare la proposta di Erdoğan potrebbe sembrare il conferimento di una sorta di vittoria che potrebbe usare nella campagna elettorale del 2023; ma contemporaneamente Assad avrebbe immediatamente un interlocutore già al potere con il quale interloquire senza discutere di tutti i crimini contro il suo popolo da lui commessi durante questa guerra lunga 11 anni. In realtà la situazione rientrerebbe all’interno delle scelte che sta facendo Ankara ultimamente, ossia: il consolidamento dei rapporti direttamente con i leader dei paesi controllati dai regimi o dalle famiglie come l’Arabia Saudita, il Qatar, l’Egitto e gli Emirati Arabi.

Sostanzialmente: due regimi potrebbero trovare un accordo su una serie di temi senza avere “il peso” della giustizia e della democrazia.

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Il ruolino di marcia di un sistema basato sull’escalation bellica https://ogzero.org/il-ruolino-di-marcia-di-un-sistema-basato-sullescalation-bellica/ Fri, 23 Dec 2022 15:58:01 +0000 https://ogzero.org/?p=9888 La messinscena delle prime mosse per un negoziato Consumati un po’ di arsenali, uccise 250.000 persone tra civili e militari nella pianura sarmata, misurate alleanze e potenzialità di imporre la propria supremazia, sembra che 3 incontri contemporanei lancino segnali precisi alle cancellerie internazionali: Zelensky con il cappello in mano a Washington, Putin a organizzare le […]

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La messinscena delle prime mosse per un negoziato

Consumati un po’ di arsenali, uccise 250.000 persone tra civili e militari nella pianura sarmata, misurate alleanze e potenzialità di imporre la propria supremazia, sembra che 3 incontri contemporanei lancino segnali precisi alle cancellerie internazionali: Zelensky con il cappello in mano a Washington, Putin a organizzare le truppe a Minsk, Medvedev a ricevere ordini a Pechino. Bisogna trovare una nuova area dove proseguire la guerra ibrida mondiale con lo scopo di misurarsi in preparazione del redde rationem.

Come si è arrivati qui

Si sono definitivamente composti in un unico giorno (il primo del gelido inverno nella steppa di famose ritirate della Storia) gli schieramenti e i ruoli dei singoli in questa che, come si era capito dal 24 febbraio, era la prima fase di una lunghissima guerra ibrida tra potenze – intrecciate dalla medesima ideologia neoliberista che impone complicati legami – da combattere sulla estesa scacchiera globale, con interessi ed economie dipendenti l’una dall’altra, ma a un punto di rottura dato dall’impressione di essere equiparabili e dunque entrambe le fazioni ritengono di potersi candidare al controllo globale come potenza di riferimento: gli Usa a difendere la propria supremazia, le potenze non democratiche a proporre il loro modello di sviluppo – comunque all’interno della visione capitalista del mondo.

La disposizione sul palcoscenico

E allora si usano media e incontri per marcare il territorio in vista della lenta composizione della disputa. Localmente: Biden prepara il terreno a un nuovo piano Marshall da aggiungere agli 85 miliardi già erogati per ricostruire e “mangiarsi” l’Ucraina come gli Usa hanno iniziato a fare dal 2014 di Maidan, quando Kiev era un satellite di Mosca (ha cominciato a parlarne “Fortune” già il 7 dicembre).
Intanto i russi attivano anche Lukašenka per annettersi quanto più territorio possibile e fare da cuscinetto al confine con la Nato, arrivando alle trattative con il massimo risultato possibile («La Russia fornisce alla Belarus’ petrolio e gas a condizioni molto favorevoli e preferenziali», ha commentato Interfax a proposito della visita a Minsk, ma come fa notare “ValigiaBlu“, Putin ha dichiarato che avevano concordato di «dare priorità all’addestramento delle nostre truppe… ci forniremo reciprocamente le armi necessarie e produrremo insieme nuovo materiale militare… per l’eventuale uso di munizioni aviotrasportate con una testata speciale») e arrivando gradualmente all’annessione della Bielorussia. Ognuno potrà investire in piani di ricostruzione che faranno girare denaro utile per una nuova spirale virtuosa economico-finanziaria.
Globalmente la Cina si schiera, schermendosi – probabilmente anche per partecipare agli appalti – e senza impegnarsi direttamente in questa Prima guerra del confronto del mondo contro la Nato (che Trump aveva azzerato e Biden resuscitato, investendo una quantità di miliardi inimmaginabile), detentrice di una primazia in parte erosa dal multilateralismo di forze intermedie pronte a schierarsi in modo autonomo volta per volta, come la Turchia – appartenente alla Nato! – o l’India (due specchiati esempi di democratura), o anche i paesi del Golfo sempre più impegnati in attività di maquillage, ma anche di autonomizzazione dallo schieramento filoamericano.

«Servitor vostro»

Medvedev non è omologo di Xi, ma può ricevere indicazioni che tutte le diplomazie interpretano come invito a ritornare a una situazione in cui si possano scambiare merci con minori sanzioni o dazi; la guerra si deve spostare su altri piani, in modo che la Cina possa acquisire ulteriori avanzamenti; per uscire dalla sindrome del Giappone targata 1990 – incapace di progredire con lo stesso ritmo e quindi imploso nella sua scalata al cielo. Esistono altre potenze indopacifiche che stanno crescendo d’importanza e infatti si rinnovano i periodici scontri alla frontiera himalayana con l’India.

Lukashenka non è omologo di Putin, ma si adatta bene al ruolo di subordinato nella alleanza militare – utile per mostrare quel che resta dei muscoli di Mosca per arrivare a un primo negoziato che chiuda il contenzioso in quell’area, in attesa che si sposti altrove (e si stanno ammassando armi attorno all’Iran). Intanto è utile mostrare che almeno sulla Bielorussia il Cremlino può ancora contare ed è l’area che in questo momento è geograficamente fondamentale controllare e dove accumulare minacciosi missili logistici e strumenti ipersonici.

Zelensky non è omologo di Biden, ma è il terzo fantoccio (dagli occhi umani, non come quelli da killer come Putin nei folkloristici ritratti di Biden, fintamente gaffeur) che serve ai tre potenti della terra per lanciare messaggi agli altri due. Zelenski va a prendere gli spiccioli, oltre ai Patriot da schierare contro le dotazioni nucleari collocate contemporaneamente alla frontiera bielorussa dall’esercito russo, sapendo che poi arriveranno i soldi per la ricostruzione. E rilancia le richieste nel monologo al parlamento, mancava solo un elenco alla Leporello (ma questa volta come lista della spesa); dei tre incontri quello davvero mediatico e diffuso su ogni media è il kolossal americano, dove anche i dettagli come gli abiti indossati dai due protagonisti sono funzionali a lanciare messaggi precisi e assegnare ruoli. Zelensky è il buffone di corte in ogni senso, comprendendo pure la facoltà di asserire verità scomode, ovviamente a maggior lustro del monarca e Biden non è re Lear infatti Zelensky non ha mai la medesima statura, non solo fisicamente.

Uno schema bellico inesorabile

La concomitanza dei tre eventi non si configura come complotto globale di un’oligarchia che interpreta in modi diversi il neoliberismo e che quindi trova contrapposti gli interessi delle potenze che si misurano per spartire aree di influenza e ruoli in concorrenza e individuano volta per volta territori che si prestino al confronto perché si tratta di aree di crisi incancrenite (da anni si assisteva alle provocazioni sulle pipeline ucraine; il conflitto in Nagorno Karabakh da decenni volutamente irrisolto e costantemente rinfocolato dai vincitori; come quello del Kosovo, dove sta montando da un paio di mesi la tensione che cova dalla “fine” della guerra di Clinton tra opposti nazionalismi, coccolati apposta dai rispettivi riferimenti…); oppure nuovi protagonisti molto potenti e militarmente approvvigionati e minacciosi come le petropotenze emergenti che usano vetrine diverse – per ora strategicamente collegate con una facciata culturale (il marchio Louvre nel deserto in cambio dell’acquisto di Rafele e altre connessioni vantaggiose per Parigi), velata da megaeventi sportivi (il mondiale di football invernale, imposto a suon di corruzione e interpretando in modo ancora diverso il verbo unico capitalista) e che hanno una concezione del sistema socio-politico ancora più oligarchico e fondato sull’oppressione e la cancellazione della maggior parte dei diritti civili, usando la tradizione come collante per i poteri forti interni.

Automatismi di un ruolino di marcia bellico

Piuttosto che un accordo per svolgere ciascuno un ruolo in commedia distribuito da una regia collettiva (una pièce complottista), si può concepire questo snodo epocale come il processo innescato che non può non passare attraverso tappe inevitabili costituite da molteplici guerre. Quei conflitti che, finché non hanno coinvolto equilibri europei, erano rimasti nella percezione occidentale a bassa intensità, mentre ora si manifestano con distruzioni di arsenali e migliaia di vittime civili anche in Europa, non più solo nel Sud del mondo, dove si sparge il sale sulle ferite non rimarginate mai, per suppurare periodicamente e far esplodere furiosi combattimenti utili per sostituire localmente il predatore di turno: infatti Biden è stato spinto a finanziare potentemente il continente africano per tentare di contrastare la penetrazione di Cina, Turchia e Russia, proprio mentre non è ancora del tutto sopita la guerra in Tigray ed esplode un nuovo focolaio nel Sud dell’Etiopia per l’insorgenza dell’Oromia.

Un’ipotesi che si può avanzare sulla base delle prime mosse di incontri diplomatici ad alto livello tra non omologhi, che usano gli incontri per dettare la politica delle macrofazioni e assistere alla conseguente disposizione delle alleanze, è che si cerchi ora di comporre molto lentamente la questione ucraina, lasciandola però accuratamente non del tutto risolta; contemporaneamente preparando nuovi conflitti in aree significative per il confronto tra le maxipotenze, che possano montare ben più che per una proxy war, a impattare su una nuova emergenza (energetica, lievitando prezzi per fibrillazioni borsiste? religiosa, per induzione jihadista?…) e poi confrontarsi in un nuovo scacchiere (Taiwan?) più vicino al confronto diretto e risolutivo.

Il senso del capitalismo per la guerra

Dunque fa tutto parte della vera Guerra tra Usa e Cina, che non finirà se non trovando un’uscita dal sistema capitalistico, motore mobile che necessita e si alimenta di quel costante conflitto, perché il capitalismo ha bisogno sempre di incrementare il profitto, triturandovi tutto: industria del divertimento, alimentare, consumo di beni… industria bellica.

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Mosaico etiope: a Nord guerra, a Sud referendum autonomista https://ogzero.org/mosaico-etiope-a-nord-guerra-a-sud-referendum-autonomista/ Mon, 19 Dec 2022 00:48:32 +0000 https://ogzero.org/?p=9822 Decenni di lotte postcoloniali hanno portato il Corno d’Africa e in particolare l’Etiopia alla condizione attuale di frammentazione di etnie, divergenze di interessi, rivendicazioni di territori e… autonomia. Appunto: a questo snodo si finisce con l’arrivare laddove si innescano guerre sanguinosissime, cambi al vertice di Addis Abeba con il ridimensionamento tigrino all’avvento di Abiy Ahmed […]

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Decenni di lotte postcoloniali hanno portato il Corno d’Africa e in particolare l’Etiopia alla condizione attuale di frammentazione di etnie, divergenze di interessi, rivendicazioni di territori e… autonomia. Appunto: a questo snodo si finisce con l’arrivare laddove si innescano guerre sanguinosissime, cambi al vertice di Addis Abeba con il ridimensionamento tigrino all’avvento di Abiy Ahmed che ha condotto alla guerra scatenata dal premio Nobel per la Pace appoggiato dal despota eritreo Afewerki, da sempre avversario del confinante Tigray; il risultato è stato un conflitto feroce di tutti contro tutti. Le alleanze e le divisioni tra comunità di ceppi diversi od omologhi hanno esacerbato ulteriormente una condizione che era negativamente fluida già quando cercammo di farne il punto all’inizio del conflitto. Per arrivare ai preoccupati interventi su Radio Blackout di Palamidessa.
Ora Gianni Sartori allarga un po’ il grandangolo e dunque vengono comprese anche le comunità del Sud dell’Etiopia, scoperchiando il vaso delle rivendicazioni di autonomia che cominceranno a sfociare in referendum nei primi mesi del 2023, quando il governo centrale vedrà di rafforzare il federalismo; peccato che le spinte centrifughe si moltiplicano anche a Ovest del paese…


A quanto pare in Etiopia va rinforzandosi il federalismo e si opera per il superamento di antichi conflitti etnici attraverso una maggiore autonomia di ciascun gruppo. Soluzione forse inevitabile in un paese costituito da un mosaico di etnie conviventi con quelle dei tre gruppi principali (amhara, oromo e sidama).

Abyi Ahmed

Un primo segnale era giunto nel 2018 con la nomina a primo ministro di Abiy Ahmed di origini miste oromo-amhara e per questo inizialmente ben accetto da entrambi i gruppi etnici (anche se poi gli Oromo lo hanno accusato di “tradimento”).
Abiy Ahmed aveva intrapreso alcune riforme a favore delle storiche rivendicazioni identitarie e territoriali della frammentazione di etnie (in parte conseguenza di non opportune precedenti divisioni amministrative) rimaste irrisolte.

Eterna stagione referendaria

Gli ultimi referendum di questo genere erano stati quelli del 20 novembre 2019 e del 23 novembre 2021 (“Nigrizia”). Avevano rispettivamente sancito la nascita di due nuovi stati federali, Sidama (dove il 99,7% per cento degli aventi diritto si era recato alle urne e il 98,5% aveva votato per l’autonomia) e South West. Separandosi entrambi dal Snnrr (Stato regionale delle nazioni, nazionalità e popoli del sud) già teatro di scontri e conflitti etnici.

Ultima tappa della frammentazione di etnie

Previsto per il 6 febbraio 2023, il nuovo referendum si terrà nella prospettiva della creazione di un dodicesimo stato regionale. Dovrebbe svolgersi in sei zone amministrative (Wolayita, Gamo, Gofa, South Omo, Gedeo e Konso) e cinque distretti speciali (Amaro, Burji, Basketo, Derashe e Alle). Attualmente integrati nel Snnpr.

Federalismo etnico

Risale al 1995 la Costituzione basata sul “federalismo etnico” che formalmente garantiva una relativa autonomia agli oltre 80 ceppi della frammentazione di etnie che comporrebbe il  paese (uno dei più popolati dell’Africa con quasi 120 milioni di abitanti). Possibilità non sempre adeguatamente accolta dagli interessati o rispettata dai governi.
Si consideri a titolo di esempio il conflitto armato nel Nord del paese tra il governo centrale e l’Eprdf, la coalizione guidata dal Fronte di liberazione popolare del Tigray (Tplf).
Anche recentemente, in settembre, si era nuovamente interrotta la tregua durata alcuni mesi nella prospettiva di una adeguata soluzione politica.

“Il genocidio atroce e diffuso nel Corno d’Africa” è un’intervento di Matteo Palamidessa trasmesso su Radio Blackout il 1° ottobre 2022.

Altri conflitti ricorrenti sono quello con l’Esercito di liberazione Oromo e la ribellione del Benishangul (Ovest dell’Etiopia).

Ribellismo e milizie

Ma i problemi dell’Etiopia non riguardano soltanto le questioni etniche. Altre emergenze coinvolgono trasversalmente ogni regione del paese, in particolare le ultime generazioni. Con il 70 per cento della popolazione sotto ai 35 anni (in buona parte disoccupata, emarginata nonostante il notevole incremento della scolarizzazione), manifestazioni, scioperi, rivolte e disordini sono fenomeni ricorrenti (e in genere repressi duramente).

Ma contemporaneamente al contenimento del ribellismo, i governi hanno sviluppato un altro modo per controllare, incanalare le istanze della gioventù etiope: quello di integrarli in formazioni giovanili strutturate su base regionale. Come i Fano per gli Amhara (una delle più consistenti numericamente e ben armata, talora qualificati come “vigilantes”) e i Qerro (sinonimo di “scapoli”, molti legati al sistema tradizionale di autogoverno, democratico e inclusivo) per gli Oromo. In passato alleati dei Fano, erano poi sorti contrasti a causa dell’ideologia panetiopica, egemonica e antifederale, caratteristica degli Amhara.
Consistenti numericamente anche altre organizzazioni giovanili come gli Yelega in Wolayta, gli Ejeetto Sidamo…a cui si sono aggiunti Nebro, Zarma, Aeigo, Dhhaaldiim.

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Chi specula sulla questione Saharawi? https://ogzero.org/progressiva-annessione-del-sahara-occidentale/ Sat, 17 Dec 2022 22:08:28 +0000 https://ogzero.org/?p=9799 La diplomazia di Rabat nell’ultimo anno ha ottenuto risultati importanti in vista della progressiva annessione del Sahara Occidentale, anche grazie ai ritorni derivanti dalla guerra in Ukraina: il ricatto nei confronti della Spagna sulla concessione riguardo al passaggio di oleodotti ha drasticamente azzerato la simpatia tra la Spagna e il Saharawi, vista la fame di […]

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La diplomazia di Rabat nell’ultimo anno ha ottenuto risultati importanti in vista della progressiva annessione del Sahara Occidentale, anche grazie ai ritorni derivanti dalla guerra in Ukraina: il ricatto nei confronti della Spagna sulla concessione riguardo al passaggio di oleodotti ha drasticamente azzerato la simpatia tra la Spagna e il Saharawi, vista la fame di gas di Madrid; ma aveva cominciato a ottenere risultati già con la presidenza Trump che ne aveva riconosciuto le pretese di controllo sull’ex Sahara spagnolo, in cambio degli Accordi di Abraham con Israele, che sancivano solamente una collaborazione ormai annosa soprattutto sul piano militare (infatti si sono viste sventolare bandiere palestinesi e algerine dopo la sconfitta dei “Leoni” in semifinale dei mondiali di football a Doha – nonostante l’eliminazione provenisse per mano dell’odiata potenza francese).

Il risultato ai mondiali qatarini è comunque spendibile dal regime per una nuova autorevolezza nel mondo arabo, spostando a ovest gli equilibri disputati con i sauditi; il fatto che sia stato relegato nei giochi della Fifa al quarto posto allargando a orologeria anche al Marocco lo scandalo della corruzione riuscita con il lobbismo dei commissari socialisti europei non può che giocare a favore di Rabat, perché colloca il Marocco tra le nazioni che si accreditano per un lavoro di “convincimento” credibile (e può anche richiamarsi a una sorta di discriminazione dell’ultimo paese africano in lizza).
Per questo ci sembra opportuno rendere pubblico l’articolo di Gianni Sartori che vi proponiamo a poche ore dalla sconfitta della nazionale marocchina nella disputa per il terzo posto con una Croazia, che contemporaneamente rifiuta l’accoglienza a soldati ucraini da addestrare in ambito Nato (“Le Parisien”), temendo di farsi coinvolgere nel conflitto.

OGzero


Corruttori ed eurocorrotti

Stando alle notizie riportate da“Le Soir”, da “Knack” e da “il manifesto”, l’ex deputato europeo Panzeri a Strasburgo si sarebbe occupato soprattutto di “diritti umani e del Maghreb”. Oltre ad aver fondato nel 2019 una ong (Fight Impunity), avrebbe intrattenuto rapporti amichevoli con l’esponente marocchino Abderrahim Atmoun (dal 2019 ambasciatore in Polonia).

Sempre nel 2019, Panzeri figurava tra gli oltre 400 deputati europei che avevano votato a favore di un accordo di pesca che interessava anche le coste del Sahara Occidentale. A tutto vantaggio di Rabat, ma naturalmente senza il consenso del popolo saharawi e del Fronte Polisario. Va sottolineato che questo mare molto pescoso è una delle due principali risorse (l’altra è rappresentata dai fosfati) in grado di garantire la futura sopravvivenza della popolazione saharawi e della Rasd.
Fortunatamente tale accordo iniquo venne poi annullato (ma solo nel 2021) dalla Corte di Giustizia europea in quanto

«sancirebbe il diritto di sfruttamento di uno stato occupante in un territorio riconosciuto internazionalmente come “non autonomo”».

Congiurati socialisti in combutta con Mohammed VI contro il Polisario

Annessione del Sahara Occidentale camuffata

Pressanti le ricorrenti richieste di Rabat all’Unione europea di allinearsi con le posizioni di Washington (nel 2020 con Trump) che di fatto sottoscrivevano quelle marocchine in merito a una non meglio definita (ma comunque limitata) “autonomia del Sahara Occidentale all’interno dei confini del regno del Marocco” – in pratica l’ufficializzazione dell’annessione del Sahara Occidentale.
La proposta risaliva all’aprile 2007: presentata dal Marocco come una

«risposta alle richieste del Consiglio di Sicurezza alle parti per porre fine alla situazione di stallo politico» e rivolta direttamente al Segretario Generale, venne descritta come «l’iniziativa marocchina di negoziazione di uno status d’autonomia per la regione del Sahara».

Scontato che ai saharawi apparisse come una mossa propedeutica alla completa assimilazione.

Recentemente tale prospettiva sembra aver raccolto il favore sia del governo madrileno, sia di alcuni ex esponenti del Polisario, dissidenti nei confronti del Fronte (ma non per questo collaborazionisti del Marocco).

Il dovere della memoria come garanzia della non ripetizione

Sul ruolo sempre più “conciliante” (eufemismo) assunto da Madrid nei confronti di Rabat, era intervenuto Luis Portillo Pasqual del Riquelme (“Etnie”).

Per il docente di scienze economiche alla madrilena Università Complutense, il leader socialista Pedro Sánchez avrebbe «ceduto vergognosamente alle richieste di Mohamed VI perpetrando un secondo tradimento del popolo saharawi». Anzi, aggiungeva, «stando ai miei calcoli addirittura il terzo» (il secondo sarebbe quello operato da Felipe Gonzalez, precedente leader socialista, che già nel 2008 Luis Portillo stigmatizzava su “Rebellion”, sottolineando il lobbismo spinto di Rabat).
L’illustre accademico ricordava come Félix Bolaños, ministro della Presidenza, Relazioni con le Cortes e Memoria Democratica, aveva affermato nel suo intervento che

«la memoria è un diritto, un diritto della cittadinanza e soprattutto un diritto delle vittime».

In sintesi: “Il dovere della memoria come garanzia della non ripetizione”. In riferimento soprattutto alle violazioni dei diritti umani e del diritto dei popoli perpetrate dal franchismo, una questione con cui la Spagna non aveva fatto i conti a momento debito.

Ma questa legge, continuava Bolaños, per quanto riguardava la questione del Sahara Occidentale e del popolo saharawi risultava quantomeno “insoddisfacente”. Nonostante costituisse l’estrema colpa dell’ultimo governo della dittatura fascista.

 

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Da qui il coltan… https://ogzero.org/da-qui-il-coltan/ Fri, 09 Dec 2022 23:45:12 +0000 https://ogzero.org/?p=9746 Bagatelle contrastanti per un massacro Soltanto venti giorni fa, in occasione del 18° vertice della francofonia (Oif, in rappresentanza di una novantina di stati) nell’isola tunisina di Djerba, Louise Mushikiwabo (ministro degli Esteri ruandese dal 2009 al 2018 e segretaria generale dell’Oif, appena rieletta per i prossimi quattro anni) lanciava accuse – se non proprio […]

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Bagatelle contrastanti per un massacro

Soltanto venti giorni fa, in occasione del 18° vertice della francofonia (Oif, in rappresentanza di una novantina di stati) nell’isola tunisina di Djerba, Louise Mushikiwabo (ministro degli Esteri ruandese dal 2009 al 2018 e segretaria generale dell’Oif, appena rieletta per i prossimi quattro anni) lanciava accuse – se non proprio del tutto infondate, perlomeno non documentate – secondo cui ci sarebbero «elementi nella Repubblica democratica del Congo, proprio alla frontiera con il Ruanda, che sono una minaccia per la sicurezza del mio paese».
Quando in realtà – stando ai rapporti onusiani – quello che sta avvenendo sarebbe esattamente il contrario. Basti pensare al sostegno anche di natura militare dato dal governo di Kigali (e dal presidente Kagame di etnia tutsi, quella che subì il genocidio del 1994) al movimento M23 che imperversa nel Nord Kivu, una regione nell’Est della Repubblica democratica del Congo da dove sono fuggiti centinaia di migliaia di sfollati (e dove, ricordo, sono stati assassinati l’ambasciatore Luca Attanasio, l’autista Mustapha Milambo e il carabiniere Vito Iacovacci).

Erano passati soltanto alcuni giorni quando, il 29 novembre, veniva attaccata la città di Kishishe (circa 70 chilometri da Goma, la capitale del Nord Kivu). Se inizialmente si parlava di una cinquantina di vittime, via via che le indagini proseguivano si arrivava alla cifra terribile di oltre 270 civili uccisi (tra cui diversi bambini).
Stando alle fonti ufficiali, il governo e le forze armate congolesi, la responsabilità dell’attacco cruento sarebbe del Movimento 23 marzo (l’M23 però, da parte sua, smentisce). Nella generale costernazione del paese, il presidente della Rdc, Félix Tshisekedi, aveva indetto tre giorni di lutto nazionale.
Significativo che tale strage sia avvenuta (come una provocazione per sabotare gli accordi se non di pace, almeno di non belligeranza attiva) a soli cinque giorni dall’ultima dichiarazione di cessate il fuoco. Anche se, forse inopportunamente, M23 (inattivo dal 2013 al 2021) era rimasto escluso dalle trattative del vertice dei Grandi Laghi (fine di novembre) che si erano svolte a Luanda.
Invitato invece Paul Kagame, pur facendosi sostituire da Biruta, suo ministro degli Esteri.

Milioni al Ruanda… per pagare cosa?

Lotta al terrorismo?

Intanto, dando prova di scarso tempismo, l’Unione Europea approvava il 1° dicembre un ulteriore stanziamento (circa 20 milioni di dollari) per l’esercito ruandese. Ufficialmente per rafforzare la lotta al terrorismo in Mozambico (regione di Cabo Delgado), ma alcuni osservatori non escludono che in parte tali finanziamenti vengano dirottati ad alimentare il conflitto nel Nord Kivu.
Recentemente la politica di Kagame nei confronti del Congo Kinshasa è stata messa in discussione proprio da uno dei principali sostenitori del governo di Kigali. Il segretario di stato statunitense Antony Blinken ha chiesto infatti a Kagame di non sostenere più M23 e di promuovere concretamente “pace e stabilità”.
Critiche che non sarebbero state ben accolte dal presidente del Ruanda.

Soldo per milizie predatrici?

Quanto a M23, sarebbe costituito soprattutto da miliziani ed ex insorti di etnia tutsi (ma spesso di nazionalità congolese) che in parte erano stati integrati nell’esercito congolese. Il tentativo di smantellare le unità formate appunto da tali ex ribelli (o di trasferirli in altre regioni della Rdc) aveva provocato la loro ribellione.
Attualmente chiedono l’amnistia e la possibilità di rientrare dai campi profughi del Ruanda e dell’Uganda per i rifugiati tutsi di nazionalità congolese. Senza escludere la possibilità di essere reintegrati nell’esercito congolese in modo da poter esercitare un maggiore controllo su traffici e commerci nel Nord Kivu. Per esempio quello del cobalto, nella cui estrazione, su un totale di 300.000 minatori, sono coinvolti almeno 35.000 bambini ridotti in schiavitù. Oppure dell’altrettanto famigerato coltan che ugualmente si estrae a mani nude con danni irreparabili per la salute dei giovanissimi minatori. Per non parlare degli abusi sessuali di cui sono vittime.

Subappalti?

Da qui il coltan, attraverso una catena commerciale gestita da bande, milizie e mercenari di varia etnia ed estrazione (a cui le compagnie subappaltano il lavoro sporco), arriva in Ruanda e Uganda. Per essere acquistato dalle compagnie che si occuperanno dell’export, eventualmente della raffinazione. Destinazione finale: le multinazionali in Germania, Usa, Cina…

Di questa crisi avevamo parlato con Massimo Zaurrini a metà novembre, immaginando già scenari apocalittici verso cui ci stiamo avviando, visti gli interessi di tutte le comparse coinvolte: il gigante congolese incapace di controllo, gli esportatori di terre rare ruandesi e ugandesi (senza estrarne, ma controllando), militari di frapposizione (kenioti); le potenze occidentali, interessate a calmierare i prezzi con la schiavitù giovanile…:

“Rischio di Terza guerra mondiale africana dei Grandi Laghi?”.

to be continued

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n. 22 – Il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (I). Respingimenti, Sar, esternalizzazioni https://ogzero.org/il-nuovo-patto-europeo-sulla-migrazione-e-lasilo/ Mon, 14 Nov 2022 10:05:54 +0000 https://ogzero.org/?p=9459 L’ipocrisia europea evita di dare indicazioni precise e umanitarie, lasciando ai singoli stati la manipolazione dell’opinione pubblica più retriva e identitaria; e così i politici fanno, usando a scopo interno episodi singoli per dimostrazioni muscolari con l’ossessione per la presenza delle ong (il 12 per cento dei salvati provengono dalle loro imbarcazioni, ma sono soprattuto […]

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L’ipocrisia europea evita di dare indicazioni precise e umanitarie, lasciando ai singoli stati la manipolazione dell’opinione pubblica più retriva e identitaria; e così i politici fanno, usando a scopo interno episodi singoli per dimostrazioni muscolari con l’ossessione per la presenza delle ong (il 12 per cento dei salvati provengono dalle loro imbarcazioni, ma sono soprattuto un occhio su quello che avviene nel Mediterraneo), sia facendo leva sulla ferocia innata nella propria fazione di radice fascistoide, sia intervenendo internazionalmente per isolare la nazione rivale, restituendo però un modello che non si discosta molto per grado di accoglienza, per non esporre il fianco ai razzisti interni. I paesi già distintisi per la propensione ad adottare norme draconiane per rastrellare voti esasperati – quelli  esposti agli sbarchi (Cipro, Grecia, Malta e sovranisti italiani) – aggirano il diritto e spingono per creare hotspot (Lager); in Libia Minniti fu il primo, ora Piantedosi in Tunisia, con l’idea di creare un fortilizio contro i disperati resi tali dal neoliberismo, dalle politiche predatorie europee ed estrattiviste, da carestie nate dal cambiamento climatico provocato dall’Occidentalismo. Il governo di estrema destra italiano storna fondi della cooperazione per potenziare il controllo delle frontiere (tanto Shengen è sospeso da 9 anni). Addirittura in questi giorni l’abitudine allo squallore ha permesso l’impunità per un ministro che ha parlato di carico residuo, depositato sul fondo del setaccio per umani, schiuma ottenuta dalla valutazione del grado di vulnerabilità, che non considera come il concetto comprende non solo donne incinte, bambini e mutilati, ma anche le vittime di tortura, quelli resi deboli psichicamente dagli anni di umiliazioni, lavori in condizioni estreme, violenze, stenti, stupri, visioni apocalittiche per deserti e mari.

Il doppio articolo di Fabiana sembra fatto apposta sulle ultime idee di esternalizzazione, ma in realtà era in gestazione da un paio di mesi, perché approfondisce enormemente le dirimenti questioni giuridiche di Diritto internazionale, individuando nell’intento di questa pantomima una moltiplicazione degli accordi simili a quelli stipulati con Istanbul, fino a che il contorno delle frontiere saranno divenuti muri, cortine, filo spinato…


Premesse storiche e fallimenti

Consuetudini di confinamento e respingimenti

Il 23 settembre del 2020 la Commissione europea presentò la proposta per un nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo insieme a un pacchetto di nuove proposte di regolamenti europei alquanto preoccupanti come:

  • la Proposta di regolamento che introduce il procedimento di accertamento di preingresso ossia il cosiddetto “Regolamento screening”;
  • la Proposta che modifica la procedura in materia di riconoscimento e di revoca della protezione internazionale;
  • la Proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione;
  • la Proposta che istituisce procedure per affrontare situazioni di crisi e di forza maggiore in ambito migratorio;
  • la Proposta di regolamento che modifica il regolamento Eurodac.

Si precisa che tutte le proposte, essendo appunto “proposte di regolamento”, qualora venissero approvate dal parlamento Ue e dal Consiglio sarebbero immediatamente applicabili in ogni stato dell’Unione, non avendo il regolamento – come invece avviene per le direttive – necessità di alcuna legge di recepimento da parte degli stati membri per la propria vigenza. Ursula von der Leyen, nel corso della presidenza tedesca della Commissione UE, ha sottolineato come tale Patto mettesse d’accordo i vari stati membri e si ponesse in chiave di rottura rispetto al passato. Nulla di più falso. Non solo il nuovo Patto non introduce nulla di particolarmente innovativo ma viene meno – nella quasi totalità dei casi di richiesta di protezione internazionale – l’esame individuale della domanda; è invece affermata inequivocabilmente la logica dei campi di confinamento dei migranti; e soprattutto – ancora una volta – l’Unione fallisce nella modifica del regolamento di Dublino per l’individuazione dello stato Ue competente a trattare le richieste d’asilo.

Come primo criterio di individuazione della competenza continua infatti a essere applicato quello del paese di primo ingresso con il consueto ed evidente svantaggio per quei paesi che geograficamente sono maggiormente esposti agli arrivi dei cittadini dei paesi terzi.

Ricollocamento inesistente, rimpatri ed esternalizzazione delle frontiere

Nel nuovo Patto inoltre non vi è poi ancora alcuna previsione sul ricollocamento obbligatorio e automatico dei migranti nei paesi membri ma come vedremo solo su base volontaria e in casi eccezionali. Si persiste nell’ignorare la portata effettiva e incondizionata che dovrebbe avere il principio di solidarietà tra i paesi membri, indicata nell’art. 80 del trattato sul funzionamento dell’UE, anzi si potrebbe affermare che tale principio è stato quasi del tutto svuotato essendo prevista, come strumento di solidarietà, la cosiddetta Sponsorizzazione dei rimpatri dei cittadini dei paesi terzi ossia il finanziamento o il supporto di uno stato membro all’altro affinché i migranti possano essere espulsi più rapidamente dal territorio dell’Unione. Come noto già con l’Agenda europea del 2015, a fronte della crisi migratoria derivante dal conflitto siriano, e con il Summit della Valletta dello stesso anno, la Commissione europea aveva manifestato come la propria politica in materia di migrazione e asilo fosse volta – con la complicità di buona parte degli stati membri – al rafforzamento della dimensione esterna dell’Unione mediante il meccanismo comunemente definito “esternalizzazione delle frontiere”, ossia quelle azioni politiche, militari, diplomatiche e “giuridiche” che mirano a impedire che i cittadini dei paesi terzi arrivino nel territorio dell’Unione.

  (Elaborazione openpolis su dati Edjnet. ultimo aggiornamento: mercoledì 13 aprile 2022)

Il sotterfugio delle intese tecniche

La Commissione ben consapevole che non avrebbe potuto attuare tale sistema senza la collaborazione dei paesi terzi – perlopiù in via di sviluppo – ritenne necessario offrire loro “un incentivo” per la delega di tali attività illegittime stornando parte sostanziale dei fondi per lo sviluppo dalla lotta alla povertà alla gestione delle frontiere. È quanto avvenuto con il cosiddetto Fondo fiduciario per l’Africa – un insieme di vari piccoli fondi per lo sviluppo – istituito ad hoc con il Summit della Valletta nel corso del quale veniva rimarcato il ruolo centrale affidato ai paesi terzi nell’ambito delle politiche migratorie dell’Unione. Secondo le più consuete logiche coloniali tuttavia i paesi terzi non hanno assunto di fatto alcun ruolo nel processo decisionale di tali meccanismi ma sono stati semplicemente finanziati – facendo leva sulla loro condizione di indigenza – perché svolgessero tali attività in modo che l’Unione, i suoi organi, le sue Agenzie e gli stati dell’UE apparissero immacolati. La parvenza di legittimità giuridica di tale macchinoso impianto è stata affidata alle cosiddette intese tecniche dell’Unione o dei singoli stati membri con i paesi terzi e non invece con la sottoscrizione di accordi internazionali che non solo sarebbero dovuti passare per il parlamento per l’approvazione ma anche resi pubblici e accessibili alla società civile.

(Fonte Unione Europea 2022)

 

Criminalizzazione globalizzata dei processi migratori

Allora come oggi occorreva alla Commissione un sistema finanziario flessibile e immediato per raggiungere tali intenti. Secondo questi presupposti ideologici quindi si inserivano l’accordo Ue-Turchia del 2016 e il Memorandum Italia-Libia del 2017 già ampiamente analizzati negli articoli relativi alla rotta dell’Egeo e a quella del Mediterraneo centrale. Tale approccio non si è limitato al controllo dei confini ma si è audacemente spinto addirittura al controllo della mobilità umana come è avvenuto con il Niger e con il Gambia. In particolare, è nota la pressione che l’Unione ha esercitato nei confronti del Niger per l’emanazione di una legge – la n. 36 del 2015 – che criminalizzasse “il traffico dei migrantiper evitare lo snodo della mobilità migratoria da Agadez verso la Libia e soprattutto gli arrivi verso l’Unione mediante la rotta del Mediterraneo centrale.

Il ricatto dell’aiuto vincolato

Interessante è poi l’intesa tecnica che l’Unione nel 2018 ha sottoscritto con il governo gambiano perché si consentisse e si agevolasse la riammissione dei gambiani espulsi dal territorio europeo: più nello specifico a partire dal 2019 sulla base di tale intesa tecnica il governo gambiano si impegnava a rimpatriare i propri cittadini presenti nel territorio dell’Ue.
Da alcuni paesi dell’UE cominciavano così a partire voli charter con a bordo cittadini gambiani che nel corso del 2020 venivano sospesi in ragione della diffusione del virus da Covid-19. Il governo gambiano nel 2021 decideva però di interrompere tali flussi migratori di espulsione dall’Europa dei propri cittadini dichiarando di non avere più le capacità di sostenere un ingresso così numeroso di soggetti espulsi anche perché tale prassi stava creando disordini sociali nel paese.

A questo punto l’Unione decideva di sospendere il Codice visti nei confronti del Gambia: veniva messa in atto in tale modo una sorta di ricatto sulla base del quale

se un paese terzo contravviene all’impegno di riammissione dei propri concittadini o di altri migranti presenti nel territorio dell’Ue, non solo, non riceve l’incentivo ossia il denaro proveniente dai fondi per lo sviluppo – che si precisa sarebbe uno strumento di cooperazione e non di ritorsione – ma viene anche drasticamente ridotta la possibilità per tutti i cittadini di quel paese terzo di ottenere visti di ingresso nel territorio dell’Unione.

Proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione

La vicenda anticipa nella prassi quanto è attualmente disposto a livello normativo in una delle cinque proposte di regolamento che accompagnano il nuovo patto. In particolare, con la Proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione che verrà in seguito analizzata in modo più approfondito – si afferma il cosiddetto Principio di condizionalità nei rapporti tra paesi terzi e Unione europea. Infatti oltre all’art. 3 (“Approccio globale alla gestione dell’asilo e della migrazione”) e all’art. 4 (“Principio dell’elaborazione integrata delle politiche”) mediante i quali si regolamentano le politiche esterne dell’Unione per farle coincidere maggiormente con i suoi obiettivi interni,

all’art. 7 (“Cooperazione con i paesi terzi volta a facilitare il rimpatrio e la riammissione”) si richiama la modifica del Codice Visti del 2019 in particolare l’introduzione dell’art. 25 bis con il quale si prevede – nell’ipotesi in cui un paese terzo non sia particolarmente incisivo in termini di riammissione dei migranti irregolari – che la Commissione possa deliberatamente decidere di limitare i visti verso il territorio dell’Unione per tutti i cittadini di quel paese terzo.

Esternalizzazione a “paesi terzi sicuri” dell’iter per la concessione della protezione

La rotta libica

Comunque qualora le proposte di regolamento che accompagnano il patto venissero approvate ci si spingerebbe ben oltre. Più nello specifico la delega ai paesi terzi potrebbe non essere più circoscritta alle ipotesi già gravi del controllo delle frontiere o della mobilità umana – come nel caso del Niger – ma anche all’esternalizzazione della trattazione delle domande d’asilo. Al riguardo è interessante notare preliminarmente come le procedure di esternalizzazione si possono legare alle procedure di screening, previste da una delle proposte che accompagnano il patto e ad alcune nozioni contenute nella Proposta di modifica del regolamento sulle procedure in materia di riconoscimento e revoca della protezione internazionale che introduce – come vedremo – il concetto di protezione sufficiente con riferimento al cosiddetto “paese terzo sicuro”.

nuovo patto europeo

Al confine Tunisia-Libia

La rotta tunisina

Peraltro negli ultimi anni l’Unione europea nella prassi ha già reso moltissimi paesi di transito sufficientemente sicuri: per esempio la Tunisia che sebbene abbia sottoscritto la Convenzione di Ginevra non ha una legge interna sull’asilo. Infatti, nonostante sia presente nel suo territorio l’Unhcr che si occupa della registrazione della domanda e di tutta la procedura di protezione internazionale, di fatto il rifugiato riconosciuto tale in Tunisia non ha accesso poi ad alcun diritto, proprio per l’assenza di una normativa interna in materia (e la contingenza attuale vede una progressiva autocratizzazione del potere tunisino sotto la pressione della presidenza Saied e una delegittimazione delle istituzioni e quindi si vanno creando i potenziali prodromi – perciò proponiamo la considerazioni raccolte da Tunisi con Arianna Poletti – per accogliere un’“economia” e una filiera di strutture d’ispirazione “libica”: hotspot al di là del Canale di Sicilia).

“La periodica collera non è un rito di piazza in Tunisia”.

L’evidenza della rotta atlantica

Per comprendere meglio il rischio dell’esternalizzazione del diritto d‘asilo occorre analizzare alcune dinamiche che hanno interessato un’altra rotta ossia quella atlantica. Come noto questa rotta è stata caratterizzata negli ultimi anni da patti dell’Ue in particolare della Spagna con il Senegal, il Marocco e la Mauritania per l’intercettazione dei migranti nelle loro acque territoriali affinché venissero riammessi in tali paesi con il supporto di Frontex. L’ipotesi in cui però il migrante si trovasse già di fatto in acque internazionali rendeva illegittima tale prassi. Per tale ragione è stato previsto uno status Agreement con il Senegal che permetterà di superare la questione in merito al luogo in cui riportare i cittadini stranieri intercettati in acque extraterritoriali: più specificamente i migranti intercettati in esse si potranno riportare in Senegal in quanto definito di fatto nello status Agreement paese sicuro per i propri cittadini e soprattutto un paese sicuro per tutti i richiedenti asilo e rifugiati. Tale meccanismo è proprio quello che consente l’esternalizzazione del diritto d’asilo in paesi come il Senegal semplicemente per il fatto che è prevista una normativa interna sull’asilo, perché è presente l’Unhcr – anche se non all’interno delle Commissioni che si occupano dell’esame della domanda – e perché alla fine viene rispettato il principio di non refoulement!! Quindi l’individuo intercettato in acque internazionali dovrà fare tutta la procedura di riconoscimento della protezione internazionale in Senegal, in luogo della Spagna.

Search and Rescue

Le contestuali raccomandazioni sulle operazioni Sar e l’accresciuto ruolo delle Agenzie europee Frontex e Euaa

Ipocrita equidistanza tra ong e aguzzini libici

Rispetto alle operazioni Sar – Search and Rescue – la Commissione invece non ha ritenuto di avanzare una proposta di regolamento bensì di emanare semplicemente delle raccomandazioni che se da un lato possono essere valutate prima facie positivamente, in quanto in esse si dichiara espressamente che l’assistenza umanitaria anche svolta da ong – ossia da privati – nel corso di tali operazioni non può essere criminalizzata, in quanto conforme al diritto internazionale e al diritto di soccorso in mare, dall’altro però in esse si ribadisce che i flussi migratori in mare non si sono mai fermati e che occorre contrastare il traffico dei migranti. La Commissione deliberatamente ignora però la collaborazione con la cosiddetta “Guardia Costiera Libica” (la collaborazione con la quale è stata tacitamente rinnovata a inizio novembre 2022 per altri tre anni) che in cambio dell’addestramento e dei finanziamenti dell’Europa e dell’Italia continua a intercettare i migranti in mare per poi riportarli nei lager libici.

Tacito consenso a disattendere le regole umanitarie

Insidiosa diventa così l’altra affermazione della Commissione con la quale si ribadisce che le operazioni Sar devono essere gestite a livello normativo dagli stati come tema di politica pubblica, che finisce con consentire a un governo razzista di immaginare impunemente lo sbarco selettivo; riflettendo su tali affermazioni, da parte italiana non si può non pensare a quanto sia già stata molto grave invece la legislazione interna sul tema emanata con il cosiddettoDecreto Sicurezza bis”, ora persino peggiorato dai decreti di inizio legislatura.

Infine, appare chiaro come dalla lettura delle proposte di regolamento che accompagnano il Patto, il ruolo delle Agenzie Ue in particolare di Frontex– ossia l’Agenzia della guardia di Frontiera e costiera europea – e dell’Euaa (ex EASO) ossia l’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo – venga notevolmente accresciuto. Si precisa al riguardo che le due agenzie sono già state interessate dalle modifiche dei regolamenti che disciplinano l’ambito delle loro competenze rispettivamente nel 2019 con il Regolamento (UE) 2019/1896 del 13 novembre 2019 e nel 2021 con Regolamento (UE) 2021/2303 del 15 dicembre 2021.

Frontex manu militari nelle attività antimigratorie, congiuntamente

In particolare, ciò si evidenzia nella procedura di preingresso o screening – rispetto alla quale sarebbe stata più opportuna la previsione della presenza dell’“Agenzia Europea per i diritti fondamentali” – e nel corso dell’attivazione dei meccanismi di solidarietà visto che entrambe le agenzie sono disgregate per individuare le persone da ricollocare o da sottoporre a misure di sponsorship. Più nel dettaglio la dimensione operativa delle agenzie che prima si identificava in un’implementazione indiretta delle misure e dei provvedimenti messi in atto dagli stati in ambito migratorio ora può essere definita a tutti gli effetti un’implementazione congiunta e condivisa: ovverossia le autorità esecutive dei paesi membri implementano le azioni in ambito migratorio a fianco degli uomini delle due agenzie europee di cui sopra. Da qui addirittura anche il reclutamento da parte di Frontex di agenti di pubblica sicurezza dei singoli paesi membri per inserirli tra le proprie fila.

Euaa istruisce domande d’asilo, congiuntamente

Per quanto riguarda l’Euaa invece si può affermare che essa guadagna sempre maggiori margini per entrare nel merito delle decisioni delle domande d’asilo per cui diversamente dal passato l’istruzione della domanda d’asilo viene svolta dalle autorità nazionali degli stati membri congiuntamente a essa anche se poi la responsabilità delle decisioni rimane comunque in capo ai soli stati membri. Infatti si stabilisce con la modifica del regolamento interno dell’Agenzia Easo del 15 dicembre 2021 che essa debba assistere i paesi membri nel registrare le domande d’asilo, facilitare l’esame da parte delle competenti autorità nazionali all’esame della domanda e fornire a quelle autorità la necessaria assistenza alle domande di protezione internazionale. Viene poi accresciuta anche la dimensione di monitoraggio delle agenzie: entrambe oggi infatti hanno ampie prerogative sulla raccolta delle informazioni dei flussi migratori e sulla valutazione dello stato di “vulnerabilità” delle frontiere di ciascun paese membro nonché del suo sistema d’asilo e d’accoglienza fino al punto che – nell’ipotesi in cui si ravvisino rischi nei rispettivi settori di competenza – le due agenzie adottano raccomandazioni che gli stati membri sono chiamati a rispettare. Infine, aumenta anche la dimensione politica delle agenzie: esse sono divenute infatti importanti centri di raccolta informazioni in ambito migratorio sulla base delle quali vengono elaborate poi le decisioni politiche dell’Unione e dei singoli stati membri. Basti pensare che l’Euaa non solo può adottare indicatori per misurare l’efficacia del sistema d’asilo ai quali i paesi membri devono adeguarsi ma elabora anche le Country of Origin Information influendo non poco sulle decisioni delle singole Commissioni Territoriali.

nuovo patto europeo

(Fonte Osservatorio Diritti)

Fronte(x) disumanitario

Questo comporta la necessità, considerate le accresciute competenze anche con riferimento alla proposta del Nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo di aumentare anche la loro responsabilità (ossia la cosiddetta “accountability”), non semplicemente a livello giudiziario – per le violazioni dei diritti umani commesse dallo Staff delle agenzie nel loro operato (vedi Frontex) sulle quali ha già una funzione di monitoraggio il Parlamento UE – ma anche a livello politico, tenuto conto delle informazioni rilevanti che le due agenzie forniscono ai singoli stati sulla base delle quali spesso questi determinano il loro indirizzo politico in ambito migratorio (tanto che messo alle strette per i respingimenti operati direttamente da uomini in quel momento assunti da Frontex, Leggeri ha dovuto dimettersi dalla dirigenza dell’agenzia di stanza in Polonia).

Si aggiunge infine che, anche se è previsto un meccanismo di reclamo che ogni individuo può avanzare per la violazione dei propri diritti da parte delle due agenzie indirizzato al direttore esecutivo delle stesse, questo nei fatti continua a essere poco efficace soprattutto nei confronti degli agenti di Frontex che non fanno pienamente parte dello Staff ma che sono distaccati ossia reclutati dall’agenzia temporaneamente tra le forze di sicurezza dei singoli stati membri. Fin qui dunque il substrato sul quale sono state gettate le fondamenta per il così scarsamente coraggioso ma allarmante Patto del 2020 nonché le sue conseguenze altrettanto poco audaci rispetto alle raccomandazioni sulle operazioni di soccorso e salvataggio ma fin troppo temerarie nel già accresciuto ruolo delle Agenzie Frontex e Euaa rafforzato nelle già citate proposte di regolamento complementari a esso della cui analisi giuridica si rimanda al successivo approfondimento.

L'articolo n. 22 – Il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (I). Respingimenti, Sar, esternalizzazioni proviene da OGzero.

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n. 22 – Regolamento sullo screening: il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (II) https://ogzero.org/n-22-regolamento-sullo-screening-il-patto-europeo-sulla-migrazione-e-lasilo-ii/ Mon, 14 Nov 2022 10:05:34 +0000 https://ogzero.org/?p=9491 Lo studio e l’esposizione delle proposte di regolamento europeo che fanno da corollario al nuovo patto sulla migrazione, se possibile, ancora più restrittivo e rappresentante di chiusure all’accoglienza, completa e integra le speculazioni dell’articolo precedente. Qui si leggono disposizioni “disumanitarie”, che inaspriscono con fantasie al limite della tortura psicologica, che rispondono evidentemente a criteri puramente […]

L'articolo n. 22 – Regolamento sullo screening: il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (II) proviene da OGzero.

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Lo studio e l’esposizione delle proposte di regolamento europeo che fanno da corollario al nuovo patto sulla migrazione, se possibile, ancora più restrittivo e rappresentante di chiusure all’accoglienza, completa e integra le speculazioni dell’articolo precedente. Qui si leggono disposizioni “disumanitarie”, che inaspriscono con fantasie al limite della tortura psicologica, che rispondono evidentemente a criteri puramente disincentivanti. Nelle pieghe delle modifiche, delle proposte, dei regolamenti che l’UE targata Von Der Layen si rintracciano tentativi di blindare le frontiere, ma anche di demandare ai paesi di prima accoglienza la solidarietà a cui persino Fortress Europe non può sottrarsi, né esternalizzare. Quindi è impossibile riformare come vorrebbero i paesi del blocco Sud, ed è per questo che si creano casi come quelli della Ocean Viking, o si minacciano altre infamità per giungere a una trattativa giocata sui destini delle persone in movimento (Pom). Allora si riprendono slogan come “taxi del mare” (riprendendo un’improvvida uscita di Di Maio) per definire l’azione di vascelli solidali, denunciando ideologicamente l’operato delle ong; o si invita a portare i salvati in Tunisia, guarda caso proprio dove si vuole implementare il sistema di hotspot esternalizzati per impedire l’arrivo in Europa, o retrivi scontri fondati su cifre – anche malamente – taroccate. 

Con questa documentata appendice, fondata sulla lettura dei documenti giuridici e su dati reali, Fabiana intendeva conferire un sostegno all’articolo dedicato alle conseguenze delle proposte di modifica al Regolamento europeo per il riconoscimento dell’asilo e protezione, ne ha ottenuto un contributo autonomo che travalica il tecnicismo analizzato e disinnescato, andando a scoperchiare motivi e strategie sottesi a rendere impossibile il Diritto internazionale che a buon senso darebbe scampo in Europa a chi fugge dai danni che l’Europa produce nei paesi di provenienza. Ma la strategia prevede che il Diritto sia affossato, anzi sommerso…


Procediamo con lo screening a casa loro

Due delle cinque proposte che accompagnano il patto sulla migrazione e l’asilo – presentato dalla Commissione europea il 23 settembre del 2020 – sono la Proposta di regolamento sullo screening e appunto quella relativa alla modifica della procedura di riconoscimento e di revoca della protezione internazionale. In particolare, con la Proposta di regolamento sullo screening dei migranti si prevede una procedura “preingresso di accertamento” lo screening appunto – in merito all’identità, alla nazionalità, allo stato di salute, alla vulnerabilità e alla pericolosità sociale del migrante finalizzata – come candidamente dichiarato nella sua presentazione dalla Commissione europea – a individuare «il prima possibile i cittadini dei paesi terzi che abbiano scarsa possibilità di ottenere protezione internazionale all’interno dell’UE». Alla registrazione dell’identità quindi si accompagna in questa fase l’inserimento dei dati biometrici dei migranti mediante le banche dati pertinenti.

 

regolamento sullo screening

Truccare le regole fingendo una terra di nessuno

La procedura però viene svolta non solo interamente in frontiera ma anche in una condizione di trattenimento del migrante e in modo rapido (la procedura di accertamento può durare fino a un massimo di 5 giorni).

L’intento della proposta è dunque quello di creare uno strumento idoneo a decidere già in frontiera a chi possa essere “consentito” di presentare domanda di protezione internazionale e chi invece “debba” essere rimpatriato immediatamente dalla “frontiera”.

Rispetto al luogo nel quale dovrebbero avvenire tali operazioni di accertamento, si precisa che quanto orchestrato dalla Commissione altro non è che una fictio iuris.
Il migrante sottoposto a tali procedure in realtà già si trova sul territorio dell’Unione e come tale sarebbe titolare di tutta una serie di diritti, sanciti dal diritto europeo oltre che dal diritto internazionale, ma affinché tale titolarità non venga attivata si opera appunto “una finzione giuridica”: si finge ovverosia che il migrante si trovi a una frontiera esterna dell’Unione altrimenti tale meccanismo sarebbe evidentemente illegittimo. Sicuramente infatti alcune persone soggette alla procedura di screening sono già alle frontiere interne. Si pensi che alcuni dei destinatari dell’ambito di applicazione di tale normativa sono persone entrate nel territorio europeo a tutti gli effetti perché attraverso operazioni di Search and Rescue (Sar)! Altri destinatari sono invece coloro che sono presenti alla frontiera esterna ma non soddisfano le condizioni di ingresso – come nel caso della mancanza del visto – e che presentano domanda di protezione internazionale.

Si precisa però che anche con riferimento a tali soggetti gli stati membri, in base al regolamento Eurodac, sarebbero chiamati a registrare le impronte e quindi si attiverebbe il regolamento “Dublino” per l’individuazione dello stato membro competente: una situazione tutt’altro che esterna all’Unione!

L’intero impianto rientra nel consueto meccanismo di rafforzare le frontiere esterne per proteggere quelle interne dell’area Schengen dai movimenti secondari dei migranti ossia quelli compiuti mediante il transito da uno stato all’altro dell’Unione.

La detenzione negli hotspot è illegittima, per ora

È previsto in questa fase un sistema di monitoraggio indipendente di dubbia efficacia visto che non prevede neanche l’accesso dell’Agenzia europea sulla tutela dei diritti umani oltre a quella dei membri e degli operatori delle ong o dei rappresentanti della società civile.

È prevista inoltre l’impugnazione del provvedimento di accertamento che abbia un esito negativo per l’accesso alla procedura d’asilo ma in questo caso è stabilito il rimpatrio immediato e il ricorso non ha effetto sospensivo.

Tale impianto giuridico richiama immediatamente l’approccio degli hotspot in Italia come quello di Lampedusa. Anche negli hotspot infatti, per prassi, vi è una fase di preidentificazione che si caratterizza dalla compilazione del cosiddetto foglio notizie – non previsto da alcuna normativa italiana – davanti alle autorità di pubblica sicurezza. Il modulo prescreening previsto nel Patto ricalcherebbe proprio il foglio notizie italiano (!) che contiene sì le generalità del migrante ma che non possiede alcun contenuto informativo sulla procedura di protezione internazionale. Inoltre, come nella procedura prescreening anche negli hotspot vi è una condizione di detenzione dei migranti. Al riguardo si precisa che qualora il regolamento in questione venisse approvato tali prassi degli hotspot diventerebbero legittime e quindi non solo lo stesso foglio notizie diverrebbe obbligatorio – proprio mediante il suo omologo ossia il “modulo preescreening” – ma il trattenimento del migrante sarebbe previsto per legge nonostante l’Italia sia già stata condannata per detenzione illegittima dei migranti negli hotspot dalla Corte di Strasburgo – sentenza Khlaifia – per aver agito in violazione dell’art. 5 della Cedu.

Proposta di modifica del regolamento procedure 2016

Dopo le procedure di preingresso – procedura di screening è prevista nella modifica anche una procedura di frontiera per il riconoscimento della protezione internazionale sempre in una condizione di trattenimento del migrante. Infatti, secondo l’art. 41 paragrafo 6, i richiedenti sottoposti alla procedura di asilo alla frontiera non sono autorizzati a entrare nel territorio dello stato membro.

Si precisa, più in generale,

che la procedura di esame alla frontiera deve essere attuata ogni qualvolta la persona è entrata irregolarmente – e chi richiede la protezione lo è nella quasi totalità dei casi perché in fuga dal proprio paese d’origine – o se ha fatto ingresso con sbarco dopo operazioni di ricerca e soccorso (Sar – Search and Rescue) o ancora nell’ipotesi in cui il migrante non sia irregolare ma comunque sia destinatario di un provvedimento di ricollocamento (art. 41).

Persecuzione preventiva di innocenti incarcerati. Disincentivazione

Ciò che risulta particolarmente assurdo è che dal momento dell’approvazione di tale norma ogni richiedente asilo dovrebbe subire 12 settimane di detenzione e di isolamento per completare non solo la procedura di riconoscimento della protezione internazionale ma – nell’ipotesi di rigetto della domanda – anche per presentare il ricorso che nella quasi totalità dei casi non ha effetto sospensivo automatico (art. 54) – e per essere sottoposto a rimpatrio forzato (art. 41 bis).

Si ricorda che ai sensi dell’art. 35 bis della proposta la decisione di rimpatrio è emanata

nell’ambito della decisione di rigetto della protezione internazionale o, nel caso sia contenuta in un atto distinto dal provvedimento di rigetto, è comunque contestuale a esso.

Se lo stato tuttavia non riesce a organizzare il rimpatrio alla frontiera nell’arco delle 12 settimane, il migrante potrà entrare finalmente nel territorio dell’Unione ma sempre con il trattamento previsto per legge per le persone in condizione di irregolarità. Inoltre, la cosiddetta “procedura accelerata”, con la proposta di regolamento in oggetto, non rappresenta più un’eccezione ma diviene «obbligatoria e sistemica» (art. 40) e al suo termine si può già decidere in frontiera per l’ammissibilità o meno della domanda.

Infatti, alle ipotesi già previste per l’applicazione della procedura accelerata – come quella in cui il richiedente tenta di eludere o elude i controlli alle frontiere o quella secondo la quale rappresenta un pericolo per la sicurezza pubblica interna – si aggiunge quella in cui

il richiedente appartenga a una nazionalità che registri un tasso di riconoscimento della protezione internazionale inferiore al 20 %

come per esempio potrebbe essere nell’ipotesi di un richiedente asilo proveniente dalla Nigeria o addirittura dall’Egitto! Si sottolinea la standardizzazione di tale valutazione che oltretutto si applica anche ai minori stranieri non accompagnati!!

La provenienza da un “paese di primo asilo” inficia la protezione

Il giudizio preliminare sull’ammissibilità o meno della domanda di protezione internazionale in frontiera è inoltre previsto anche nei casi in cui

il richiedente provenga da un «paese di primo asilo» (art. 44): ossia un paese in cui il richiedente ha già goduto e può continuare ad avvalersi non solo di una protezione ai sensi della condizione di Ginevra ma anche semplicemente di «una protezione sufficiente».

Motivo per il quale, se durante l’esame, le autorità ritengono che

il richiedente provenga da un paese in cui anche se non si applica la Convenzione di Ginevra non sussistono minacce per i motivi di cui alla Convenzione stessa, il richiedente non rischi di subire un danno grave e ancora venga rispettato il principio di non-refoulement e garantito il godimento di alcuni diritti – quali la possibilità di soggiornare o di lavorare – allora la sua domanda di protezione internazionale verrà dichiarata inammissibile.

Il potere discrezionale del funzionario. La sindrome Eichmann

Si osservi al riguardo l’enorme discrezionalità da parte delle autorità competenti nella valutazione della sussistenza di tali elementi, anche perché la qualifica di paese di primo asilo è decisa ogni anno proprio da ciascuno degli stessi paesi dell’UE con la predisposizione di specifiche liste. Il giudizio preliminare di ammissibilità si applica infine anche nell’ipotesi in cui

il richiedente provenga da un paese terzo sicuro (art. 45)

ossia un paese nel quale il richiedente può anche essere soltanto transitato ma che venga considerato sicuro non solo in quanto firmatario della Convenzione di Ginevra. E pure nell’ipotesi in cui sia semplicemente idoneo a garantire – come abbiamo visto nel caso del paese di primo asilo – una protezione sufficiente.

L’impianto supportato dagli accordi bilaterali…

In questo caso però la qualifica del paese terzo sicuro non è da rinvenirsi nelle liste predisposte dal paese membro annualmente ma viene considerato tale con una decisione della stessa Unione Europea ossia presumibilmente in base anche agli accordi informali tra questa e i paesi terzi. Tale decisione unilaterale dell’Unione viene operata anche con riferimento alla

qualifica di «paese di origine sicuro» (art. 47), nozione in cui oggi – è bene ricordarlo – si fregia la Turchia e in conseguenza della quale è sempre prevista l’applicazione della procedura accelerata.

Qualora quindi ricorresse una delle succitate condizioni le autorità competenti in frontiera dovrebbero concludere sempre per una dichiarazione preliminare di inammissibilità della domanda di protezione internazionale, in caso contrario invece si potrebbe finalmente accedere alla procedura per il riconoscimento della medesima.

L’intero impianto riporta alle prassi già consolidate nella rotta dell’Egeo: la Turchia infatti per i siriani è già stata considerata di fatto “paese terzo sicuro” perché rispettava (a fronte dei 6 miliardi di euro donati dall’Unione) il principio di non refoulment e perché dava la possibilità a questi di soggiornare legalmente sul territorio a disprezzo e in completo svuotamento di ogni norma del diritto europeo e internazionale che consentirebbe loro di beneficiare di una “forma di protezione” che si ricorda – e non ci dovrebbe essere neanche il bisogno di dirlo – è un diritto ben diverso da quello di consentire semplicemente a un individuo di lavorare nel proprio territorio!

… e da nuovi enormi Lager

Si ricorda che la Turchia – pur essendo firmataria della Convenzione di Ginevra – ha mantenuto la riserva territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato: ciò vuol dire che esso può essere riconosciuto in Turchia solo ai cittadini provenienti dai paesi dell’Unione europea. Sempre con riferimento alla rotta dell’Egeo è chiaro che una previsione della procedura d’asilo strutturata totalmente in frontiera implicherebbe la creazione di enormi campi di detenzione nei paesi di primo arrivo – compreso il nostro – come già avvenuto in Grecia a Leros, Lesbos, SamosKos Chios. Ci si chiede quindi se gli stati membri di primo ingresso e l’Unione stessa siano in grado di sostenere le spese finanziarie derivanti dalla creazione di tali centri considerato il numero dei migranti che dovrebbero essere “contenuti” in regime di detenzione.

Il contrasto degli “irregolari” eccita la Destra nostrana

È facile notare come i nazionalismi di destra al potere attualmente in diversi stati membri dell’Ue compreso il nostro – così contrari alle politiche delle istituzioni europee in particolare a quelle della Commissione – si ritrovino invece perfettamente allineati alle sue decisioni in ambito migratorio quando si tratta di ostacolare l’accesso dei migranti con l’inevitabile compressione dei loro diritti come nel caso dei due regolamenti “procedure” e “screening”.

Sarà pertanto interessante vedere se quegli stessi nazionalismi di destra che rappresentano il nuovo trend politico europeo saranno così d’accordo tra di loro, come negli alti lai per ottenere il riconoscimento della pressione migratoria insopportabile a cui sono sottosti, quando si tratterà di approvare le ulteriori proposte di regolamento che accompagnano il nuovo patto sulla migrazione e l’asilo in primo luogo la già citata Proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione, dove si prevede una «solidarietà obbligatoria».

 

(fonte voxeurope / Tjeerd Royaards)

Solidarietà obbligatoria, ma ordinaria

La proposta di regolamento in esame prevede meccanismi di “solidarietà” volontaria ma obbligatoria da parte di tutti i paesi membri nei casi di sbarchi Sar o pressione migratoria messi in atto quindi soprattutto nei confronti di paesi di primo arrivo come l’Italia. I meccanismi di solidarietà si distinguono tra ordinari e meccanismi di solidarietà speciali/straordinari. I primi rappresentano la solidarietà post sbarchi – operazioni SAR – mentre i secondi sono quelli che si applicano nelle ipotesi di pressione migratoria (art. 50 e seguenti) (oltre che nelle condizioni di crisi e di forza maggiore che vedremo in seguito nello specifico regolamento). I meccanismi ordinari di solidarietà (art. 45, 1) più nello specifico sono:

il ricollocamento delle persone non soggette e trattenute nel corso di procedure di frontiera; la “sponsorizzazione” di cittadini di paesi terzi in condizioni di soggiorno irregolare; il ricollocamento di beneficiari di protezione internazionale entro 3 anni dall’ottenimento della stessa; l’aiuto in termini di “Capacity bulding measures”- ossia il supporto di uno stato membro ad un altro – con riferimento alle misure di sviluppo delle capacità in materia di asilo, accoglienza, rimpatrio.

Con «misure straordinarie di solidarietà» (art. 45,2) che come detto si applicano alla pressione migratoria si intendono invece due sole misure:

il ricollocamento di richiedenti asilo soggetti questa volta alla procedura di frontiera e il ricollocamento di cittadini di paesi terzi in ipotesi di soggiorno irregolare.

Procedimentalizzare la solidarietà ordinaria

Per quanto attiene alla procedura nell’ipotesi di pressione migratoria lo stato membro richiede il riconoscimento alla Commissione di tale situazione. La Commissione in questo caso deve adottare un report finalizzato a condurre una conseguente attivazione degli altri stati membri. Come visto nel caso di pressione migratoria si allarga lo spettro dei destinatari dei ricollocamenti e sono previsti tempi ridotti per la loro attuazione.

Esclusione di Sar e ingressi non autorizzati per procedura

Tutto ciò premesso è chiaro come si escludano dai candidati ai ricollocamenti – previsti nelle procedure ordinarie – i soggetti arrivati a seguito di operazioni di ricerca e soccorso perché sottoposti alla procedura di frontiera (e i soggetti arrivati tramite ingressi non autorizzati). Più in generale il tentativo di questo regolamento è quello di procedimentalizzare la solidarietà ordinaria (artt.47-49). La procedura in primo luogo prevede che la Commissione emani un report annuale nel quale dichiari se uno stato membro dell’Unione sia soggetto ad arrivi ricorrenti e determina ciò che serve a tale stato.
Tale report viene notificato poi agli altri stati con l’invito a contribuire. Gli stati a loro volta notificano alla Commissione i contributi con un piano di risposta indicando, o i ricollocamenti o le misure di sviluppo e capacità o i ricollocamenti di vulnerabili. Una di queste tre misure è necessariamente obbligatoria ma ogni stato liberamente può scegliere.

Solidarietà corretta in salsa ricollocamenti e rimpatri

In seguito la Commissione, con una valutazione discrezionale, se ritiene che le offerte degli altri stati sono sufficienti per la creazione di una “riserva di solidarietà” con un atto di esecuzione ratifica le offerte degli stati (art. 48). Tuttavia, se le offerte non sono sufficienti o meglio sono significativamente inferiori rispetto alle necessità dello stato, la Commissione convoca il “Forum di solidarietà”: gli stati a questo punto possono adottare i piani di aiuto rivisti dalla Commissione che in questo caso vengono messi in un atto di esecuzione.
Invece, se gli stati si rifiutano di rivedere i propri piani di aiuto, la Commissione stessa adotterà un atto di esecuzione nel quale deciderà cosa devono fare gli stati che si sono mostrati “poco generosi”; in particolare, se la discrepanza totale tra quanto offerto e quanto necessario allo stato è maggiore del 30 per cento, ogni altro stato membro sarà obbligato a versare il 50 per cento di una quota minima di solidarietà da intendersi in termini di numero di ricollocamenti, di sponsorizzazione dei rimpatri o di entrambe le misure (meccanismo correttivo della solidarietà).

In particolare, con sponsorizzazione di rimpatri si intende il meccanismo mediante il quale uno stato che non ha nel proprio territorio migranti in condizione di irregolarità da rimpatriare sostenga il rimpatrio di cittadini di paesi terzi irregolari che si trovano in un altro stato membro. Il sistema non appare invero immediatamente efficace considerando che per i primi 8 mesi comunque lo stato membro beneficiario della sponsorizzazione mantiene la responsabilità giuridico-amministrativa del cittadino del paese terzo da rimpatriare mentre lo stato cosiddetto sponsor si impegna piuttosto a un’assistenza da remoto di tipo materiale, logistico e finanziario, mentre nell’ipotesi di rimpatri volontari si occupa della policy dialogue con il paese terzo e offre assistenza durante il viaggio o sull’esecuzione. Se trascorso tale periodo lo stato sponsor non assicura le misure di rimpatrio di cui sopra il rimpatrio diventa ricollocamento: si procede non più al rimpatrio del cittadino del paese terzo ma al ricollocamento del migrante dello stato terzo nel territorio dello stato sponsor. Anche qui tuttavia potrebbe essere sufficiente la mera segnalazione dello stato sponsor che il cittadino del paese terzo potrebbe rappresentare un pericolo per la sicurezza interna per potersi rifiutare di eseguire il ricollocamento. È opportuno dunque analizzare ora più nello specifico la Proposta di regolamento concernente le situazioni di crisi e di forza maggiore.

 

regolamento sullo screening

Ma cos’è questa “crisi”?

Con la nozione di crisi si intende l’esistenza di una situazione eccezionale di afflusso massiccio di cittadini di paesi terzi arrivati in uno stato membro oppure un numero elevato di sbarchi che interessa uno stato UE in esito ad operazioni SAR – Search and Rescue – la cui entità in proporzione all’indice demografico e al prodotto interno lordo di quello stato rende inefficace il suo sistema di asilo e di accoglienza e potrebbe implicare gravi conseguenze sul funzionamento del sistema comune d’asilo in ambito europeo.

Va preliminarmente sottolineato che non vi è nel testo del regolamento alcun riferimento circa le misure che lo stato membro abbia messo effettivamente in campo per gestire i flussi migratori e per prevenire la situazione di crisi. Tale omissione come è facile intuire lascerebbe un ampio margine alla possibilità degli stati membri di strumentalizzare l’attivazione dei meccanismi che discendono dalla situazione di crisi con il chiaro intento di impedire l’ingresso dei migranti nel proprio territorio.
Nel caso di crisi la procedura si struttura in tal modo: lo stato membro presenta una richiesta motivata alla Commissione che – in base alle informazioni che essa stessa provvede a raccogliere, alle informazioni raccolte dall’Eauu e ovviamente a quelle di Frontex – valuta se la richiesta dello stato di crisi sia fondata. Qualora venga ritenuta tale la Commissione emana un atto di esecuzione dello stato di crisi senza che però alcun soggetto esterno e indipendente possa compiere attività di monitoraggio o contestazione in riferimento a tale decisione.

In concreto con l’atto di esecuzione la Commissione autorizza lo stato membro all’applicazione di particolari misure relative alle procedure d’asilo e di rimpatrio per un periodo di 6 mesi estendibile a 1 anno. Infatti il termine per la sola registrazione delle domande d’asilo in caso di crisi potrà essere esteso fino a 4 settimane e prorogato fino a 12 settimane! Il sistema è alquanto pericoloso poiché inevitabilmente vi sarebbero garanzie più limitate in merito ai diritti dei richiedenti asilo considerato che tutta la procedura della richiesta d’asilo in situazione di crisi verrebbe comunque svolta in frontiera e in una condizione di privazione della libertà per tutti i cittadini la cui nazionalità in questo caso vede un tasso di riconoscimento della protezione pari o inferiore al 75 per cento.

Inoltre, anche il rimpatrio sarebbe previsto in frontiera: in questo caso i tempi dell’intera procedura che prevede sempre una condizione di trattenimento dell’individuo – data anche la novità dell’introduzione della presunzione del rischio di fuga del migrante – potrebbero ulteriormente estendersi a livello temporale. Se a fronte di tale svuotamento dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo tuttavia ci si vuole davvero impegnare a trovare degli aspetti positivi di tale procedura – che comunque non bilanciano tale compressione delle tutele giuridiche dell’individuo – questi possono ravvisarsi nella previsione della concessione di una nuova forma di protezione: ossia la cosiddetta “protezione immediata” e nel «rafforzamento dei meccanismi di solidarietà» (art. 2) ma solo se la crisi è in atto e non se vi è un rischio imminente di crisi, nonostante anche il rischio sia compreso nell’art. 1 che definisce l’ambito di applicazione del regolamento. Rispetto al rafforzamento dei meccanismi di solidarietà: i ricollocamenti in questo caso verrebbero previsti

«anche se i richiedenti asilo sono sottoposti alla procedura di frontiera; ai migranti irregolari; a coloro ai quali è concessa la protezione immediata e infine alle persone sottoposte a misure di rimpatrio sponsorizzate da un altro stato membro».

La protezione immediata invece è concessa agli sfollati esposti a un rischio eccezionalmente alto di subire violenza indiscriminata nel proprio paese e se non possono farvi ritorno. Dopo che la Commissione infatti – per mezzo di una decisione di esecuzione – dichiara l’esistenza di una situazione di crisi sulla base degli elementi di cui all’art. 3 stabilisce la necessità di sospendere le domande di protezione internazionale – definendo il periodo di tale sospensione – e di concedere la protezione immediata.

Rispetto alla condizione di forza maggiore, al Considerando 7 del regolamento, si fa riferimento all’«esistenza di circostanze “anormali ed imprevedibiliin ambito migratorio che sfuggono al controllo degli stati membri e le cui conseguenze non avrebbero potuto essere evitate neanche con l’impiego di tutta la dovuta diligenza». (La Commissione come esempi cita l’ipotesi dell’emergenza epidemiologica da Covid 19 e la crisi al confine tra Grecia e Turchia nel 2020).

Nel caso di “forza maggiore” tuttavia diversamente dallo stato di crisi la procedura non si attiva con una richiesta dello stato membro che deve passare al vaglio della Commissione bensì con una semplice «dichiarazione unilaterale dello stato» per cui appaiono ancora più evidenti i margini di discrezionalità che possono insinuarsi in tale procedura. Con la dichiarazione di una situazione di “forza maggiore” infatti lo stato dichiara che

«non sarà in grado di rispettare i termini per la procedura di richiesta asilo per cui potranno essere estesi fino a quattro settimane».

Non solo, rispetto al diritto del richiedente a una risposta in merito alla propria domanda d’asilo, lo stato

«dichiara che non sarà possibile rispettare i termini della procedura in termini di “presa (e ripresa) in carico” del richiedente e i limiti previsti per il trasferimento del medesimo verso lo stato competente in base al regolamento Dublino. Infine, lo stato dichiara che non sarà possibile rispettare neanche l’obbligo dell’attuazione delle misure di solidarietà che quindi potranno essere sospese fino a 6 mesi».

Anche in questo caso l’unico aspetto positivo è la previsione della concessione al migrante della protezione immediata – già menzionata con riferimento alla situazione di crisi – che deve essere concessa

«nell’evenienza della sospensione della domanda di protezione internazionale e sulla base della quale il cittadino del paese terzo possederà gli stessi diritti sociali ed economici del titolare di protezione sussidiaria».

In ogni caso al termine del periodo di sospensione gli stati dovranno valutare nel merito la domanda di protezione internazionale.

In conclusione, dall’analisi di tali proposte di regolamento sorprende non solo la mancanza, ancora una volta, di qualsiasi previsione di vie legali per l’accesso al territorio dell’Unione che non siano legate alla domanda di protezione internazionale – visto che in molti casi si presuppone la sua inammissibilità – ma quanti sforzi, e quali elucubrazioni ed acrobazie giuridiche si riescano a ideare pur di non rispettare principi fondamentali sui diritti degli individui che – prima ancora che nelle Convenzioni internazionali e nel diritto europeo – sono sanciti all’interno di ordinamenti nazionali come il nostro in particolare nella Costituzione all’art. 10 co. 3 e che i partiti nazionalisti qualificandosi come tali dovrebbero per coerenza rispettare e fare rispettare senza alcuna condizione di sorta in quanto principio immodificabile come deciso dai nostri padri costituenti.

L'articolo n. 22 – Regolamento sullo screening: il nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo (II) proviene da OGzero.

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Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi https://ogzero.org/guerre-di-religione-continuazione-del-colonialismo-con-altri-mezzi/ Sat, 12 Nov 2022 08:48:30 +0000 https://ogzero.org/?p=9436 Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che […]

L'articolo Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi proviene da OGzero.

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Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che si fonde e intreccia con le altre che muovono masse di disperati, distruggono il clima, depredano territori, spacciano armi, innescano conflitti per controllare risorse. Si può interpretare questo uso della divisione religiosa come un nodo delle diverse emergenze del Finanzkapitalismus nella sua fase iperliberista, un nodo a cui arrivare dagli altri orrori geopolitici, o da cui partire per inserirlo nella rete che mette insieme l’uso politico-aggressivo della religione, il pastone mediatico, la scorciatoia militarista, l’espansionismo imperialista… ma partiamo dallo storico conflitto irlandese tra cattolici separatisti e unionisti protestanti e poi ci espandiamo nelle più complesse – ma riconducibili agli stessi modelli di potere – contrapposizioni mediorientali.


Solo un’ipotesi, la mia. Da “proletario autoalfabetizzato” senza pretese accademiche. A naso diciamo.
Se in passato le “guerre di religione” potevano, forse, esprimere (“fotografare”) in qualche modo i conflitti etnici e/o sociali del tempo (vedi alcune “eresie” e certe “riforme” diretta conseguenza dei conflitti di classe), direi che in seguito, perlomeno dal secolo scorso, il più delle volte sono state la copertura, la “vetrina” di interessate strumentalizzazioni.

Partiamo dall’Irlanda…

A titolo di esempio, il conflitto irlandese, soprattutto dopo la divisione dell’Isola di smeraldo. Se già nel Settecento cattolici e protestanti (discendenti i primi dagli indigeni irlandesi colonizzati, gli altri dai coloni scozzesi presbiteriani) avevano fatto fronte comune per l’indipendenza dell’Irlanda, anche in seguito (vedi gli scioperi di lavoratori salariati cattolici e protestanti a Belfast) non mancarono lotte comuni. A porvi fine intervennero le ricche borghesie filobritanniche (si veda La Casa d’Orange) elargendo piccoli privilegi e organizzando milizie settarie “lealiste” (v. Uvf). Non potendo utilizzare – che so – un diverso colore della pelle o diversità etniche rilevanti (in quanto entrambe le comunità erano di origine celtica, diversamente dagli inglesi anglosassoni – di origine germanica – e anglicani) si accontentarono di ampliare il modesto solco di natura religiosa.


Poi è andata come sappiamo. Esperimento sostanzialmente riuscito, un modello per future strumentalizzazioni a “geometria variabile”.

… e giungiamo tra le comunità beluci, curde e hazara

Quindi ritengo che anche le sanguinose faide mediorientali tra sunniti e sciiti (con ricadute particolarmente gravi per le minoranze qui presenti: yazidi, alaviti, assiro-cristiani, zoroastriani…) siano state perlomeno “pompate”, gonfiate, esasperate ad arte.
Quanto è avvenuto nelle aree curde, occupate militarmente dalla Turchia, di Afrin e di Sere Kaniyê (Nord della Siria) appare emblematico. Non essendo in grado di controllare adeguatamente le proprie milizie mercenarie (vedi l’Esercito Nazionale Siriano, Sna), Ankara si starebbe affidando direttamente al gruppo terrorista Hayat Tahrir al-Sham (Hts, successore di al-Nusra), con tutta probabilità l’emanazione locale di al-Qaeda.

Il ruolo della Turchia

Anche perché tra le fila di alcune formazioni sul libro paga di Ankara ultimamente serpeggiava, oltre al malcontento, anche una certa preoccupazione.

Le voci su un possibile riavvicinamento tra Ankara e Damasco (patrocinato da Mosca) lasciava intravedere la possibilità di venir scaricati, se non addirittura consegnati, per diversi membri delle milizie mercenarie. In quanto ricercati da Damasco potrebbero venire estradati e questo suggerisce una possibile spiegazione su alcuni episodi di insubordinazione. Come per gli scontri a mano armata intercorsi tra membri di Jabhat al-Shamiya e di Jaish al-Islam.
Tali dispute ricorrenti (oltre al rischio concreto di insubordinazione e defezione) tra le diverse fazioni di Sna (forse non adeguatamente attrezzate, oltre che sul piano politico, anche in quello religioso?) avrebbero suggerito a Erdoğan di far leva sul maggiore entusiasmo, fervore religioso (eufemismo per fanatismo) di Hts. Un fanatismo indispensabile per annichilire le minoranze “eretiche” e non omologate (tutti apostati, dissidenti, “pagani”… addirittura comunisti o anarchici talvolta) del nord della Siria. Nella prospettiva di ulteriori invasioni.
Già all’epoca delle prime manifestazioni contro il regime siriano si assisteva a una proliferazione di gruppi armati, in genere appoggiati, oltre che dalla Turchia, da alcuni stati del Golfo come il Qatar.

Negli Usa è ancora in corso il processo contro “Qatar Charity” e contro Qatar Bank per aver finanziato con 800.000 dollari il leader dell’Esercito Islamico Fadhel al-Salim.

Pulizie etnico-religiose nella Mezzaluna sciita

Per inciso, è probabile che questo stia oggi avvenendo in Iran, nel tentativo di strumentalizzare, “dirottare” altrove, le legittime proteste popolari. Con un occhio di riguardo per i beluci, già manovrati in passato anche da qualche potenza imperialista di Oltreoceano. Come da manuale, ça va sans dire, anche i beluci ci mettono “del loro”: per esempio in Pakistan alcuni gruppi indipendentisti beluci sono ritenuti responsabili di vere e proprie stragi ai danni degli hazara, un’altra minoranza, ma di fede sciita.
Va anche detto che da parte sua la Repubblica islamica sembra far di tutto per fornire pretesti in tal senso. In una recente manifestazione (4 novembre 2022) a Khach, provincia di Zahedan, le forze di sicurezza hanno ucciso una ventina di civili beluci (16 le vittime identificate, tra cui alcuni bambini) ferendone oltre sessanta. Da segnalare – stando a quanto dichiarato da alcuni attivisti – che altri feriti erano poi deceduti non essendo stati traspostati all’ospedale dove rischiavano seriamente di essere arrestati.


Un’altra strage di 90 civili beluci era già avvenuta, sempre nella provincia di Zahedana, il 30 settembre.

Appare evidente che – analogamente a quella curda – anche la popolazione minorizzata dei beluci (“minorizzata” e non minoritaria, in quanto divisa da frontiere statali) in Sistan e Baluchistan subisce quotidiane discriminazioni ed è sottoposta a una dura repressione (come del resto altre comunità delle aree periferiche del paese) da parte di Teheran.
Sia per la loro appartenenza etnica, sia per ragioni religiose in quanto sunniti.
Il comandante di al-Nusra, Al-Hana (Abu Mansour al-Maghrebi) arrestato nel 2020 in Iraq aveva rivelato che lo sceicco Khalid Sueliman (della potente famiglia al-Thani), a capo del Jabhat al-Nusra (e pare anche delle organizzazioni derivate), veniva finanziato con qualcosa come un milione di dollari al mese. Turchia e Qatar sosterrebbero, sia finanziariamente, sia con la fornitura di armamenti, i vari gruppi combattenti emanazione dei Fratelli musulmani salafiti in quanto utile strumento per la loro politica estera. Anche in chiave panislamica.

Guerra turca ai curdi in Siria

Alcune organizzazioni hanno stabilito un’analogia, per vastità e inasprimento, tra l’attuale repressione in Iran e i massacri subiti dai beluci a Deraa (in Siria) nel 2011, denunciati dall’Onu come crimini di guerra.
Storicamente accertato che potenze regionali ostili a Damasco avevano favorito la militarizzazione (vedi appunto la formazione di Sna) e l’escalation del conflitto.
Oltre che a Sna, la Turchia non avrebbe lesinato nel fornire sostegno al fronte al-Nusra (dal 2012 nella lista del terrorismo internazionale in quanto ritenuto emanazione di al-Qaeda) e addirittura a Daesh. Formazioni entrambe notoriamente jihadiste.

Quanto al fronte al-Nusra, va ricordato che nell’ottobre 2012 attaccava i distretti autonomi di Şêxmeqsûd e Eşrefiye (regione di Aleppo) uccidendo decine di curdi. Subito dopo gli ascari jihadisti si scagliavano contro Afrin, incontrando però la ferrea resistenza delle Ypg/Ypj. Nel voler annichilire in primis le zone curde del Rojava (dove si sperimentava la rivoluzione del Confederalismo democratico) il Jabhat al -Nusra si smascherava da solo, mostrando apertamente di agire su indicazione della Turchia.

Sempre nel 2012, in novembre, veniva attaccata, partendo direttamente dalla Turchia, anche Serêkaniyê. Un’operazione congiunta tra al-Nusra e alcune milizie curde collaborazioniste legate al Pdk. Entrando in alcuni dei quartieri a maggioranza araba di Serêkaniyê, queste milizie si spacciavano per ribelli antiAssad cercando di stabilire alleanze. Solo successivamente (il 19 novembre) partiva il brutale attacco contro i quartieri a maggioranza curda. Veniva assassinato il sindaco della città e la chiesa diventava un bivacco per il loro quartiere generale.

Nel frattempo la loro già consistente presenza veniva rinforzata dall’apporto della cosiddetta Coalizione nazionale (Etilaf), che – secondo i curdi – sarebbe al Etilaf di Sna o comunque della sua derivazione, il “governo di transizione siriano”. Oltre al seggio di Istanbul, Etilaf ne controlla uno anche a Berlino (oltretutto finanziato dal governo tedesco).
Avrebbe anche una certa influenza in alcuni progetti (ugualmente finanziati dal governo tedesco) che sembrano funzionare come “specchietti per allodole”, allo scopo di creare cortine fumogene sulla realtà della situazione curda. Tra questi, il Centro europeo di studi curdi (Ezks) e il sito Kurdwatch, divulgatore di notizie farlocche intese a giustificare le operazioni militari di Erdoğan nel Nord della Siria e nel Nord dell’Iraq. Ma nonostante questo ulteriore apporto di milizie, successivamente venivano scacciati dalla popolazione insorta dei quartieri curdi, grazie anche all’intervento dei combattenti di Ypg e Ypj.

Gli scontri ripresero, durissimi, nel gennaio 2013. Praticamente una vera e propria ammucchiata di gruppi mercenari guidata da al-Nusra quella che contese per circa due settimane il controllo dei quartieri alle milizie curde. Sconfitte nuovamente, le truppe jihadiste si misero in salvo direttamente oltre il confine turco (immediatamente blindato dai soldati turchi per maggior sicurezza), ma lasciando in mano ai curdi un’ampia documentazione della loro intensa collaborazione con Ankara.
Purtroppo durante la ritirata sia al-Nusra che Daesh non mancarono di vendicarsi sulla popolazione curda con una vile rappresaglia.

Come a Til Eran (luglio 2013) e a Tal Hasil. Dichiarando pubblicamente, attraverso le moschee, che sia il bagno di sangue nei confronti della popolazione curda (circa un’ottantina le vittime accertate) che il sequestro-rapimento delle donne curde (prelevate a centinaia) era giustificato dal punto di vista religioso. Rastrellando poi casa per casa le due località sopracitate alla ricerca di “Apoisti”, ossia di seguaci di Apo Öcalan. Oltre a quelli crudelmente assassinati (alcuni bruciati vivi, con le immagini poi diffuse nei social), vanno considerati anche i desaparecidos (qualche decina) e i cadaveri (una ventina) di cui non è stata possibile l’identificazione.

Til Hasil

Da sottolineare che – per quanto entrambe aspirassero alla supremazia – Al-Nusra e Daesh (o Stato Islamico che dir si voglia) non smisero mai di collaborare proficuamente. Sia garantendo una certa “osmosi” di combattenti –praticamente intercambiabili – da una formazione all’altra (in base alle necessità del momento), sia dandosi il cambio, alternandosi nel controllo delle aree occupate. E soprattutto instaurando congiuntamente durante l’occupazione delle città, dei villaggi e dei quartieri curdi un aspro regime di ispirazione salafita. Anche a livello di tribunali islamici dove operavano in coppia.

Sempre sotto la supervisione di Ankara ovviamente. L’assalto al carcere di Sina à Hesekê (gennaio 2022) era stato pianificato dai territori occupati dalla Turchia.

Come già detto negli ultimi tempi al-Nusra aveva cercato di “riciclarsi” prendendo (almeno ufficialmente) le distanze da al-Qaeda e cambiando pelle e nome. Diventando prima, nel 2016, Liwa Fatah al-Sham e successivamente, nel 2017, appunto Hayat Tahrir al-Sham (Hts, in realtà una finta coalizione di vari gruppi, sostanzialmente sotto il controllo della vecchia al-Nusra, comunque denominata). Attualmente la casa madre sarebbe localizzata in quel di Idlib, in felice coabitazione con l’alleato turco. Allo scopo dichiarato di soffocare il risorgere e la diffusione del Confederalismo democratico in questa parte del Rojava. Esperienza pericolosa perché esemplare e contagiosa, soprattutto così in prossimità del confine turco.

Dal maggio di quest’anno (a seguito dell’incontro di Idlib-Sarmada con esponenti del regime turco) le milizie di Hts hanno ripreso a riposizionarsi e raggrupparsi su Idlib puntando quindi su Afrin. Inoltre si sarebbero acquartierati anche nelle zone di Girê Spî, Azaz, al-Bab, Cerablus e intorno alla città di Minbić (ancora gestita dall’amministrazione autonoma).
Sempre in vista di ulteriori attacchi in Rojava.

Per concludere, pur essendo presto rientrato nella lista nera dei gruppi terroristi, Hts continua a godere dei finanziamenti di Turchia, Qatar, Arabia Saudita…
Pare anche di qualche non meglio identificato “paese occidentale”…

Vai a sapere.

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“Alta Marea” in America Latina https://ogzero.org/alta-marea-in-america-latina/ Tue, 08 Nov 2022 20:30:20 +0000 https://ogzero.org/?p=9403 Il Brasile svolta con fatica. I governanti sovranisti usano ogni trucco pur di non lasciare il potere: fake news, calunnie, alleanze con il peggio della società retriva e delle sette religiose; Bolsonaro ne è un modello, come Trump. Ma il Brasile ha indubbiamente svoltato non rieleggendo per la prima volta il proprio presidente al secondo […]

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Il Brasile svolta con fatica. I governanti sovranisti usano ogni trucco pur di non lasciare il potere: fake news, calunnie, alleanze con il peggio della società retriva e delle sette religiose; Bolsonaro ne è un modello, come Trump. Ma il Brasile ha indubbiamente svoltato non rieleggendo per la prima volta il proprio presidente al secondo mandato. Questo però apre a uno scenario apparentemente positivo per un Latinoamerica che vede la stragrande maggioranza dei paesi governati da esponenti di variegate sinistre, ciascuna con peculiarità diverse ed elementi che gettano ombre da un lato sull’effettiva attenzione ai diritti civili (la dinastia nicaraguense, il partito unico cubano), dall’altro sulla reale volontà di eliminare diseguaglianze, sganciarsi dal giogo neoliberista (in particolare in Cile) o dal paternalismo (il Perù di Castillo). Tutto questo produce incertezza: sarà possibile per questi governi progressisti contenere il consueto ritorno del populismo fascistoide? quale unità della nuova “Marea Rosa” si potrà ottenere con queste radici tra loro diversissime e senza un collante che vent’anni fa proveniva dal carisma di alcuni leader e dal laboratorio sociale in fermento?
Da questa situazione prende spunto Diego Battistessa, che già in altri snodi si era peritato di cogliere possibili sviluppi per le comunità latinoamericane, per riassumere le puntate immediatamente precedenti – schieramenti, accordi, patti, strategie degli ultimi 30 anni, dal crollo del muro… – e tentare di immaginare i temi che rappresentano la sfida per i progressisti sudamericani: o riusciranno a cambiare le condizioni di vita, le strutture economiche, le disparità imposte dal neoliberismo, le storture puramente mediatiche; oppure tornerà la ferocia bolsonarista, che sopravvive al fantoccio Bolsonaro.

Fin qui OGzero…   


Il Giro di Giostra

Con la vittoria di Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile il 30 ottobre scorso, sono quasi 570 milioni le persone che a oggi in America Latina sono governate dalla sinistra: quasi il 90% di un subcontinente la cui popolazione si aggira intorno ai 640 milioni di abitanti. Tra questi paesi figurano le 5 più grandi economie della regione: Brasile, Messico, Argentina, Colombia e Cile.
Uno scenario storico che ci riporta a una nuova manifestazione espansiva della cosiddetta “Marea Rosa”, apparsa all’inizio del terzo millennio con un giro, una svolta a sinistra di molti paesi della regione latinoamericana. Oggi questa marea è ancora più estesa (da capire se anche più forte) visto che include Messico e Colombia (anche se ha perso Uruguay ed Ecuador).
Vediamo però da dove viene questa ondata di “governi di sinistra”, in quale contesto storico si è generata e soprattutto di che sinistra (sinistre) stiamo parlando quando osserviamo con maggiore dettaglio cosa succede nel contesto latinoamericano.

Doveroso a questo punto premettere la definizione di “gringo”, perché la diffidenza nei suoi confronti è uno dei collanti, forse il più viscerale per gli abitanti del Cono Sur, e allora eccolo:

Esistono varie versioni sull’origine della parola “gringo”, qui vediamo le due più diffuse. La prima versione, accreditata dalla Reale Accademia Spagnola dice che “Gringo” equivale a «straniero, soprattutto di lingua inglese o persona che generalmente parla una lingua diversa dallo spagnolo». Gringo è un’antica parola spagnola che si è evoluta dalla parola “greco”, perché quando si ascoltava parlare qualcuno una lingua sconosciuta, si diceva che ti stavano “parlando in greco”, spiega il linguista messicano Luis Fernando Lara alla BBC Mundo. La seconda versione ci riporta alla guerra tra Messico e Stati Uniti d’America nella quale i soldati messicani solevano gridare “Green go home!” riferendosi al colore dell’uniforme degli statunitensi. Sulla stessa linea un’altra versione dice che i battaglioni statunitensi erano identificati con dei colori e che quando il battaglione verde si lanciava all’attacco, nell’aria risuonava il grido: “Green go!” Ad ogni modo il termine oggi è usato in America Latina per definire in modo specifico gli statunitensi e in modo generico uno straniero: il primo uso in un testo scritto in inglese rimonta al 1849.

Il Foro de São Paulo come risposta al criminale imperialismo “Gringo”

Tutto nasce nel Foro de São Paulo, che è stato senza ombra di dubbio l’embrione di quanto oggi vediamo nella regione. Dal sito della stessa organizzazione possiamo leggere l’incipit della presentazione:

«Il Forum trae origine nel luglio 1990 dall’appello rivolto a partiti, movimenti e organizzazioni di sinistra da parte di Lula e Fidel Castro, affinché si riflettesse al di là delle risposte tradizionali sugli eventi successivi alla caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989) e sui possibili percorsi alternativi e autonomi per la sinistra dell’America Latina e dei Caraibi».

In quel primo storico incontro parteciparono in 48, tra partiti e organizzazioni, plurali e diverse ma tutte appartenenti all’arco politico della sinistra, che firmarono la Dichiarazione di San Paolo, manifestando obiettivi precisi e una comunione d’intenti in chiave antineoliberista. In quel documento possiamo sottolineare l’intenzione di continuare a elaborare proposte di unità consensuale di azione nella lotta antimperialista e popolare, di produrre sforzi mirati alla promozione di scambi specializzati su problemi economici, politici, sociali e culturali e di definire, in contrasto con la proposta di integrazione sotto il dominio imperialista, le basi di un nuovo concetto di unità e integrazione continentale.

Un manifesto per una nuova visione latinoamericana, lontana dalla “Dottrina Monroe” (Monroe Doctrine, 1823), dall’“Operazione Condor” (Operación Cóndor, 1975-1989) e dal “Accordo di Washington” (Washington Consensus, le riforme neoliberali raccomandate nel 1989). Il preludio di quanto sarebbe successo solo 10 anni dopo…

Monroe Doctrine

Il concetto di Dottrina Monroe fa riferimento al principio della politica estera degli Stati Uniti d’America di non consentire l’intervento delle potenze europee negli affari interni dei paesi dell’emisfero americano. Questa dottrina deriva da un messaggio al Congresso del presidente James Monroe  inviato il 2 dicembre 1823 (paragrafi 7, 48 e 49). Si riassume nella famosa frase «America agli americani» dove per americani si fa ovviamente riferimento agli uomini bianchi del Nordamerica, ma soprattutto “non alle potenze coloniali”.

Operación Cóndor

«L’Operazione Condor invade il mio nido: io perdono, però non dimenticherò mai», canta il famoso gruppo portoricano Calle 13 in uno degli inni moderni della regione: la canzone lanciata nel 2011:

Quando parliamo di questa operazione, anche conosciuta come Plan Condor facciamo riferimento a una strategia di ingerenza criminale degli Usa, messa in atto per frenare l’espansione dei governi di sinistra nella regione latinoamericana. Dopo il trionfo della rivoluzione cubana (1° gennaio 1959) e i successivi falliti tentativi statunitensi di diroccare Fidel Castro, la Casa Bianca dette il via libera a una nuova strategia che “raffinava” quanto già la Cia (Agenzia Centrale di Intelligence) stava realizzando nella regione. Per contrastare l’insediamento di governi di sinistra in America Latina nei primi anni della Guerra Fredda gli Usa promossero e finanziarono diversi colpi di stato (golpe) come parte del loro interesse geostrategico nella regione. Tra questi ricordiamo il colpo di stato guatemalteco del 1954, il colpo di stato brasiliano del 1964, il colpo di stato cileno del 1973 e il colpo di stato argentino del 1976. Paesi nei quali vennero poi installate feroci dittature militari di destra, che commisero massive violazioni dei diritti umani, tra le quali detenzioni illegali di sospetti oppositori politici e/o dei loro parenti, torture, stupri, sparizioni forzate e traffico di bambini. Tutto questo sotto lo sguardo compiacente e complice degli Stati Uniti d’America che appoggiarono questi regimi fino a quando la pressione internazionale e la pressione dell’opinione pubblica interna non obbligò Washington a fare marcia indietro. Le dittature nelle quali l’intervenzionismo “gringo” ha lasciato il segno (e una lunga scia di sangue) prima e durante il “Plan Condor” sono quelle di Fulgencio Batista a Cuba, Rafael Trujillo nella Repubblica Dominicana, la famiglia Somoza in Nicaragua, Tiburcio Carias Andino in Honduras, Carlos Castillo Armas in Guatemala, Hugo Banzer in Bolivia, Juan María Bordaberry in Uruguay, Jorge Rafael Videla in Argentina, Augusto Pinochet in Cile, Alfredo Stroessner in Paraguay, François Duvalier in Haiti, Artur da Costa e Silva e il suo successore Emílio Garrastazu Medici in Brasile e Marcos Pérez Jiménez in Venezuela. I nuovi processi democratici nella regione iniziarono solo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, mentre si estendeva e rafforzava tra i popoli dell’America Latina un forte sentimento antistatunitense e antimperialista.

Washington Consensus

Per Accordo di Washington si intende un insieme di “ricette” economiche neoliberiste promosse da varie organizzazioni finanziarie internazionali negli anni Ottanta e Novanta. Proposte che formavano un nuovo decalogo del neoliberismo volto ad affrontare la crisi economica del 1989 in America Latina, regione che stava vivendo una lunga e drammatica recessione, passata alla storia come il decennio perduto. Fu l’economista britannico John Williamson a coniare il termine in un suo articolo del 1989 che esaminava le dieci misure economiche professate dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), dalla Banca Mondiale, dalla Banca Interamericana di Sviluppo e dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America: tutte istituzioni con sede a Washington DC.


Anche per introdurre gli eventi del nuovo millennio con le fughe in avanti progressiste e i bruschi ritorni all’ordine reazionari va spiegato il concetto di “Socialismo del XXI secolo”:

l’espressione fa riferimento al concetto originariamente formulato nel 1996 dal sociologo tedesco Heinz Dieterich Steffan e si riferisce alla combinazione di socialismo con democrazia partecipativa e diretta. È una tendenza che cerca di dare risposte al grave problema del sottosviluppo in cui l’America Latina vive sommersa a causa delle devastazioni del capitalismo. Il socialismo del XXI secolo è una manifestazione attuale del socialismo; cioè del periodo di transizione relativamente lungo dal capitalismo al comunismo. Pertanto, questo “nuovo socialismo” prende spunto dalle precomprensioni socialiste che si trovano nei fondatori del marxismo. Il socialismo del XXI secolo presuppone uno sfondo democratico: è necessario costruire una democrazia partecipativa o diretta nella regione e in ciascuno dei suoi paesi che lasci alle spalle la tradizionale democrazia rappresentativa. Il punto di partenza deve essere la dignità inviolabile di ogni essere umano, che richiede la considerazione dell’uomo come un essere eminentemente sociale, di tendere al pieno sviluppo umano, di istituire una democrazia partecipativa, di creare un nuovo modello economico e di raggiungere un alto grado di decentramento

La prima apparizione ufficiale del termine in America Latina si deve a un discorso dell’allora presidente del Venezuela, Hugo Chávez, il 30 gennaio 2005 dal V World Social Forum.

La “Marea Rosa”: il socialismo del XXI secolo

Come detto, nel Foro de São Paulo si comincia a dare vita a un nuovo sogno latinoamericano che verrà poi plasmato da eventi storici come il primo forum sociale mondiale di Porto Alegre (Brasile) nel 2001 nel quale si forgia la consegna “Un altro mondo è possibile”. In quegli anni la regione è attraversata da enormi livelli di disuguaglianza e da una frustrazione nell’accessibilità di grandi fasce della popolazione ai diritti fondamentali: basti pensare che nel 2002 vivevano in povertà 221 milioni di latinoamericani, ovvero all’epoca il 44% della popolazione della regione. Per rispondere a questa situazione e frenare le politiche neoliberali proposte (imposte) da Washington, sorgono nuovi leader che, anche grazie alla legalizzazione della concorrenza elettorale (con la transizione alla democrazia in America Latina i partiti di sinistra hanno potuto competere per il potere), guidano i popoli oppressi della regione a una rivincita storica.

L’inizio di quella che verrà chiamata in seguito “Marea Rosa” (termine di Larry Rohter, inviato del “NY times” per seguire le elezioni in Uruguay) si ha con l’elezione di Hugo Rafael Chávez Frías in Venezuela, che assume il potere il 2 febbraio 1999. Un momento cruciale nel quale si consolida il primo governo di un partito membro del Foro de São Paulo e che segna l’inizio di un’onda socialista e progressista seguita dalle vittoriose elezioni di Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile (2003), Néstor Kirchner in Argentina (2003), Tabaré Vázquez in Uruguay (2005), Evo Morales in Bolivia (2006), Michelle Bachelet in Cile (2006), Rafael Correa in Ecuador (2007), Daniel Ortega in Nicaragua (2007) e José “Pepe” Alberto Mujica in Uruguay (2010). Si configura quindi un nuovo assetto latinoamericano che ruota intorno a innovativi progetti di integrazione economica e politica come l’Alba e l’Unasur e che riporta Cuba e la sua rivoluzione al centro del panorama politico.

Questa prima ondata della “Pink Tide”, il termine inglese per “Mare Rosa”, subisce però una brusca frenata dopo la fine del primo decennio del 2000, situazione aggravata poi dalla forte recessione del 2012. La morte di Chavéz prima (2013) e di Fidel Castro poi (2016), gli scandali di corruzione (soprattutto Argentina e Brasile) e uno spinto “caudillismo” presidenziale che in molti casi ha spinto i leader a mettere in dubbio le basi del sistema democratico (così per come si concepisce in Europa), ha portato un risorgimento delle forze conservatrici. Partiti di destra che hanno ripreso il controllo delle principali economie della regione partendo dall’Argentina nel 2015, passando poi per il Brasile nel 2016 e per il Cile nel 2017.

Il gruppo di Lima

Nel 2017, in quel contesto e sospinto dal crollo economico Venezuelano che ha provocato un esodo di milioni di persone dal paese sudamericano (a oggi più di 7 milioni secondo l’Onu), prende forma un nuovo gruppo di lavoro con un baricentro palesemente spostato verso destra. Questo consorzio di Stati latinoamericani (e non) , prende il nome di Gruppo di Lima e si configura come un organismo multilaterale basato sulla Dichiarazione di Lima dell’8 agosto 2017. Quel giorno rappresentanti di dodici paesi ufficializzano il loro appoggio all’opposizione venezuelana contro il chavismo-madurismo, per accompagnare un processo negoziato e pacifico che possa portare al superamento della crisi multilivello del Venezuela. Vengono stabilite delle condizioni di base per la negoziazione come la liberazione dei prigionieri politici, lo svolgimento di libere elezioni con supervisione esterna, la possibilità di far entrare aiuti umanitari e la necessità di riportare una separazione di poteri nel Paese. I paesi firmatari della dichiarazione furono: Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Honduras, Messico, Panama, Paraguay e Perù. A questi si sono aggiunti in seconda battuta Guyana, Haiti e Santa Lucia, mentre la Bolivia si è unita con la gestione di Jeanine Áñez (oggi in carcere) dopo la crisi politica del 2019 che ha portato all’uscita di Evo Morales dal paese. Il documento ha ricevuto l’appoggio anche dell’Unione Europea, dell’Oea (Organizzazione degli Stati Americani) oltre che degli Stati Uniti d’America, Barbados, Granada e Giamaica. Con il Lima Group si configura dunque una antitesi del Foro de São Paulo che rende chiara la lotta ideologica e politica che attraversa l’America Latina. Il Gruppo di Lima ha lavorato per ottenere l’isolamento politico venezuelano, con sorti alterne e varie vicissitudini. Nicolás Maduro ha sempre potuto contare, oltre che sull’appoggio dell’alleato storico Cuba, anche sula vicinanza del Nicaragua e fuori dalla regione sul sostegno di Russia e Iran. Inoltre i circa due anni di attività del Gruppo, che formalmente non è ancora sciolto, hanno dovuto fare i conti con l’inizio di una nuova ondata socialista che ci porta alla situazione odierna e che ha visto l’Argentina (da paese fondatore e firmatario) lasciare l’organismo nel 2019, Messico e Bolivia ritirare l’appoggio all’opposizione venezuelana e disconoscere la dichiarazione, oltre allo stesso Perù che ha riallacciato relazioni diplomatiche con il Venezuela di Maduro. A questo si aggiunge la visita del 1° novembre 2022 del presidente colombiano Gustavo Petro al palazzo di Miraflores a Caracas, in un incontro storico con Nicolás Maduro che segna un nuovo riavvicinamento diplomatico tra le sue nazioni sorelle. È da immaginare che anche Lula in Brasile, da gennaio 2023 farà lo stesso.

Una nuova “Alta Marea”

La nuova ondata socialista che ha visto il suo apogeo con il voto del 30 ottobre in Brasile inizia nel 2018 con la storica vittoria di Andrés Manuel Lopez Obrador “Amlo” in Messico, continuando nel 2019 in Argentina con l’elezione di Alberto Fernández, passando poi nel 2020 in Bolivia con l’elezione di Arce, nel 2021 in Perù con Pedro Castillo, in Honduras con Xiomara Castro e in Cile con Gabriel Boric, per arrivare a questo 2022 in Colombia con Gustavo Petro e ora in Brasile con il terzo mandato di Lula.

L’analisi di questo nuovo zenit dei partiti di sinistra può estendersi a molti ambiti ma sicuramente va riconosciuto che la prima “Marea Rosa” aveva raggiunto importanti traguardi legati all’inclusione, all’equità, ai diritti e alla dignità dei popoli indigeni e alla democratizzazione delle risorse. Le donne hanno avuto accesso a posizioni di potere effettivo in politica e nell’esercito e l’agenda dei diritti umani aveva compiuto un notevole salto in avanti soprattutto riguardo a minoranze storicamente perseguitate ed escluse come il collettivo Lgbtqi+.

Ora si apre uno scenario nuovo nel quale la sinistra (le sinistre) latinoamericane si trovano a dover convivere con un contesto globale più che mai volatile e frammentato. Da un lato la guerra in Ucraina, dall’altro gli interessi economici e geostrategici di Stati Uniti d’America, Russia e Cina che per motivi diversi continuano a guardare all’America Latina come un bacino di risorse, commerciale e di influenza, per arrivare agli effetti della pandemia da Covid-19, che ha riportato le lancette dell’orologio indietro di 10-15 anni rispetto ai livelli di povertà e disuguaglianze.

Che sinistra(e) e che democrazia?

El pueblo unido, jamás será vencido” cantava la banda cilena Quilapayún in un manifesto di protesta politica e di futuro possibile che per decenni ha scaldato i cuori “rossi” dell’America Latina e non solo. Un passaggio di questa storica canzone scritta da Sergio Ortega Alvarado e lanciata nel 1973 intona: «De pie, cantar que vamos a triunfar. Avanzan ya banderas de unidad…».

Repressione del dissenso / Condivisione di linee guida socialiste

Cantiamo, in piedi, andiamo a trionfare. Stanno già avanzando le bandiere dell’unità, uno degli attacchi più famosi del mondo nei cori imponenti dei concerti degli Inti Illimani. Ma è proprio sulle bandiere dell’unità che si gioca oggi la partita nella regione. Si perché se un da un lato e in modo generico, vengono definite tutte sinistre quelle che governano oggi in America Latina, tra le stesse esistono fratture e differenze che riguardano la percezione dello stato di diritto, il rispetto dei diritti umani e il contenuto della parola democrazia. È possibile definire Cuba, Nicaragua e Venezuela degli Stati di Diritto? Secondo la definizione canonica, che ci parla degli elementi di base dello stesso (impero della legge, separazione dei poteri, rispetto dei diritti fondamentali) si direbbe proprio di no. Non solo non esiste separazione dei poteri (partito unico a Cuba, controllo totale dello stato da parte del partito di governo in Venezuela, vera e propria istituzionalizzazione della dinastia Ortega-Murillo in Nicaragua) ma assistiamo a una persecuzione totale del dissenso, una privazione del diritto di libertà di espressione e una massiva e strutturale violazione di una lunga lista di diritti umani. Attenzione perché queste critiche non vengono da governi conservatori della regione quali, per esempio quello di Guillermo Lasso in Ecuador, ma bensì da governi di una nuova (e a volte giovane) sinistra come quella di Gabriel Boric in Cile o quella di Petro in Colombia.

Le dichiarazioni del presidente cileno a inizio 2022 in un suo viaggio negli Stati Uniti d’America dove ha parlato alla Columbia University hanno marcato un chiaro punto di inflessione: «Mi dà davvero fastidio quando sei di sinistra e condanni la violazione dei diritti umani in Yemen o El Salvador, ma non puoi parlare delle violazioni degli stessi in Venezuela, Nicaragua o Cile». Aggiungendo poi che non è possibile avere un doppio standard di valutazione perché si tratta di temi di civiltà e non di ideologia. Sempre Boric nel giugno 2022, nel contesto della sua partecipazione al Summit delle Americhe a Los Angeles ha fortemente criticato la repressione del governo cubano contro i manifestanti: «Oggi ci sono delle persone incarcerate a Cuba solo per pensare diversamente (rispetto al partito di governo) e questo per noi è inaccettabile».

Insomma una prima frattura cavalcata poi anche da Gustavo Petro, che già con la fascia presidenziale non ha risparmiato critiche contro Chávez e Ortega (Venezuela e Nicaragua): «Per noi i diritti umani sono fondamentali. La prima discussione che ho avuto con Hugo Chávez mentre era in vita, e forse l’ultima prima della sua morte, riguardava proprio il rispetto del sistema interamericano dei diritti umani. Molti di noi devono la vita, incluso io, a questo sistema dal quale Chávez ha deciso di far uscire il Venezuela», ha affermato Petro in una intervista internazionale a fine giugno 2022. Parlando di Nicaragua ha poi aggiunto: «Coloro che sono imprigionati oggi in Nicaragua sono quelli che hanno fatto la rivoluzione contro la dittatura di Anastasio Somoza», sottolineando che «erano nostri amici e ora sono in prigione. E perché? Ebbene, perché ci sono delle derive che non sono più propriamente democratiche e che vanno evitate».

Le difficoltà e il rischio di risacca

Insomma una chiara e netta frattura sul rispetto dei diritti umani e sul concetto di democrazia, che non può essere sminuito solo all’esercizio del voto (soprattutto quando questo si esercita nella più totale repressione e vulnerabilità). A questo si aggiunge una instabilità interna ai vari paesi del “blocco” di sinistra che potrebbe cambiare la scacchiera con nuovi possibili ritorni di fiamma dei governi conservatori. Pedro Castillo in Perù è in crisi di governo fin dal primo giorno di presidenza e ha già affrontato due mozioni di censura e ora un processo costituzionale. Alberto e Cristina (Fernández e Kirchner) Presidente e Vicepresidente in Argentina sono in rotta da tempo e le prossime elezioni presidenziali saranno tutte in salita per la sinistra argentina. Boric è in caduta libera di consensi e la sconfitta nel referendum per la nuova costituzione cilena a settembre 2022 ha fatto capire che il suo governo cammina “sulle uova”. In Bolivia il presidente Arce ha sostituito tutta la cupola militare a inizio novembre di fronte a quella che lui stesso ha qualificato come «una minaccia di un nuovo colpo di stato». In Messico, Andrés Manuel Lopéz Obrador deve provare a spegnere un incendio dopo l’altro (a livello interno) e la sua leadership regionale è molto debole. Cuba e Venezuela affrontano due crisi migratorie (ed economiche) senza precedenti e il Nicaragua è immerso in una guerra interna contro la Chiesa cattolica, tacciata come terrorista e dissidente da Daniel Ortega. Xiomara Castro non è ancora riuscita a dare un impulso forte al cambiamento in Honduras, sommerso da narcotraffico, impunità e violenza generalizzata. Petro ha dato il primo passo diplomatico con il Venezuela ma ora dovrà concentrarsi su questioni interne come le riforme promesse in campagna elettorale, il processo di Pace con l’Eln (Esercito di Liberazione Nazionale) e la questione del narcotraffico nel paese. Rimane da vedere che impronta darà Lula a questa nuova “Alta Marea”, giacché è l’unico grande leader carismatico sopravvissuto alla prima onda della “Marea Rosa” e veterano della prima riunione del Foro di San Paolo.

Anche su questo si sono confrontati Diego Battistessa e Alfredo Somoza

“Lula riprenderà per mano il Latinoamerica?”: un dialogo a caldo sulla vittoria di Lula tra Diego Battistessa e Alfredo Somoza su Radio Blackout.

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Armi a regimi feroci: storia della diplomazia israeliana in Myanmar https://ogzero.org/armi-a-regimi-feroci-storia-della-diplomazia-israeliana-in-myanmar/ Thu, 27 Oct 2022 16:11:17 +0000 https://ogzero.org/?p=9267 Il 24 ottobre Israele ha bombardato i siti iraniani che riforniscono di armi la Russia: una scelta di campo precisa e non scontata, visti i rapporti tra le due potenze militari di reciproca tolleranza e spesso di collaborazione a prescindere da qualunque considerazione morale, che arriva a otto mesi dall’inizio della invasione dell’Ucraina. Infatti è […]

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Il 24 ottobre Israele ha bombardato i siti iraniani che riforniscono di armi la Russia: una scelta di campo precisa e non scontata, visti i rapporti tra le due potenze militari di reciproca tolleranza e spesso di collaborazione a prescindere da qualunque considerazione morale, che arriva a otto mesi dall’inizio della invasione dell’Ucraina.
Infatti è prassi per i governi di Tel Aviv intrattenere traffici con le peggiori dittature e i regimi più brutali, rifornendoli – spesso in gran segreto – di sofisticati sistemi di morte. Attingendo anche a un recente dossier pubblicato su “Haaretz” a firma dell’attivista Eitay Mack e ai dossier dell’attivismo di Justice for Myanmar, Eric Salerno ricostruisce la storia emblematica dei rapporti tra Israele dalla sua nascita con  Burma-Myanmar. Sul filo di eventi di sessant’anni fa si vede in tralice come il sistema della condivisione di armi e sistemi bellici con i regimi più autocratici sia rimasta invariata per Israele fin dalla sua fondazione; e un nuovo rapporto sull’uso di armi biologiche nel 1948 da parte dell’Haganà per avvelenare interi villaggi arabi in Palestina confermerebbe questa predisposizione. «Le cose da allora non sono cambiate», chiosa Eric, ed è interessante andare a scoprire i meccanismi ripetuti fino a oggi, che forse non a caso ora sono oggetto di studi accademici seri e circostanziati come quello di Benny Morris della Ben Gurion University e Benjamin Z. Kedar della Hebrew University di Gerusalemme sulla Guerra biologica dei sionisti.


«Sapevano, o avrebbero dovuto sapere, di essere coinvolti nella corruzione e nella cospirazione in Myanmar»

Così scrive Eitay Mack a proposito di una società in Myanmar implicata in crimini e corruzione – i cui responsabili ai massimi livelli sono stati arrestati in Thailandia con l’accusa di riciclaggio di droga e denaro. Avrebbe svolto un ruolo da intermediario tra gli esportatori di armi israeliani e la brutale giunta militare che governa il paese secondo i documenti svelati da Justice for Myanmar. Gli alti dirigenti della società mantengono legami d’affari e familiari con esponenti di spicco della giunta e dell’esercito del Myanmar. La Gran Bretagna ha imposto sanzioni alla società, Star Sapphire Trading, per i suoi legami con l’esercito di Naypyidaw durante la pulizia etnica dei Rohingya.

I documenti trapelati, e di cui l’organizzazione è entrata in possesso, sono oggetto di una lettera inviata dall’avvocato israeliano Eitay Mack al procuratore generale Gali Baharav-Miara, chiedendo l’avvio di un’indagine contro l’industria aerospaziale israeliana, Elbit e Cantieri navali israeliani per aver procurato sistemi d’arma usati per crimini contro l’umanità e genocidio , e contro figure di spicco dei ministeri della Difesa e degli Affari Esteri, incaricate di supervisionare, regolamentare e approvare commercializzazione ed esportazione di quei sistemi d’arma in Myanmar. Risulta che siano stati trasferiti a Tatmadaw anche droni, venduti da Elbit Systems e usati per commettere crimini di guerra, e i pattugliatori veloci Super Dvora MK III venduti da IAI (entrambe compagnie pubbliche controllate dal governo israeliano).

La tradizionale (e criminale) cooperazione militare

La denuncia è sempre la stessa. E l’alleanza Israele-Myanmar è soltanto un tassello di un quadro molto più vasto e inquietante. Tutti i governi israeliani, da quando è stato fondato lo stato nel 1948, hanno visto la corruzione di alcuni eserciti, certe guerre civili, la violenza di taluni regimi dittatoriali come una importante opportunità diplomatica per Israele e affaristica per l’esercito di quel paese mediorientale nonché per le industrie militari israeliane. Uno dei casi più eclatanti è stato recentemente raccontato sul quotidiano di Tel Aviv, “Haaretz”, da Eitay Mack, avvocato e attivista per i diritti umani, che ha analizzato 25.000 pagine degli archivi del ministero degli Esteri di Gerusalemme recentemente resi pubblici. Quello che deriva è un comportamento, o meglio una politica, che va avanti da sempre. Da pochi anni dopo la sua nascita, Israele infatti ha mantenuto relazioni militari con il paese asiatico che si chiamava Burma all’epoca e soltanto dal 1989 è noto come Myanmar.

«Una guerra civile assassina? Tortura? Massacro? Per Israele è terreno fertile per la cooperazione»

Riproponiamo qui con lo stesso ruolo uno dei sottotitoli del lungo e circostanziato articolo pubblicato dal quotidiano di Tel Aviv nel quale Mack, citando documenti ufficiali, dimostra come Israele ha armato, addestrato e per decenni rafforzato i regimi militari del Myanmar.

«Israele ha aiutato l’esercito a riorganizzarsi come una forza moderna, lo ha armato e addestrato e ha contribuito in modo drammatico a costruire la sua potenza e consolidare la sua presa come l’elemento più potente del paese. Quel potere inizialmente permise all’esercito di gestire il paese da dietro le quinte, e in seguito di rimuovere la leadership civile e forgiare una varietà di diversi regimi militari».

Mack è preciso, le carte che cita ufficiali e circostanziate. Non interessava ai successivi governi israeliani, scrive, che l’aiuto militare non fosse inteso a scopo di difesa contro nemici esterni, ma fosse usato per fare la guerra contro gli abitanti di quei paesi: «In tutte le migliaia di pagine, che coprono 30 anni di relazioni, non c’è nemmeno un rappresentante israeliano che esprima un’obiezione alla vendita di armi al Myanmar». Vale la pena riprendere alcune delle affermazioni di Mack tratte dalla documentazione ufficiale.

«Un cablogramma inviato dall’ambasciatore israeliano in Birmania nel dicembre 1981 riassume bene l’essenza delle relazioni tra i paesi dal 1949. L’ambasciatore, Kalman Anner, ha riferito al direttore dell’Asia Desk del ministero degli Esteri di aver incontrato il ministro degli Esteri birmano nel tentativo di persuaderlo a sostenere Israele nelle votazioni delle Nazioni Unite. “Israele è uno dei paesi più amichevoli con la Birmania, e la Birmania è un paese estremamente amichevole con Israele”, scrisse nel 1955 Mordechai Gazit, membro dello staff dell’ambasciata israeliana a Rangoon (ora Yangon), mentre riferiva di un incontro con il capo segretario del primo ministro birmano U Nu. “[Il segretario capo] ha osservato che i due paesi stanno cooperando strettamente nell’arena delle Nazioni Unite. Spiegando da dove deriva questa amicizia, ha notato che Israele e la Birmania sono gli unici paesi socialisti in Asia”».

La parola “socialismo” fu ampiamente usata, direi abusata, per giustificare la vicinanza politica dei due paesi: «Un cablogramma – scrive Mack – fu inviato al primo ministro David Ben-Gurion dal ministero degli Esteri nel settembre 1952 in cui affermava che la guerra civile in Birmania aveva causato fino ad allora 30.000 vittime e che “il 55% del bilancio statale è stanziato fino a oggi per scopi di difesa”».

Parlamento birmano negli anni Cinquanta

Gli accordi del 1955

Nel 1955, i due paesi arrivarono a un accordo: armamento massiccio e addestramento militare, in cambio di spedizioni annuali di migliaia di tonnellate di riso dalla Birmania. La corrispondenza vista da Mack e resa pubblica in Israele offre un quadro preciso e dettagliato dell’accordo. Da Tel Aviv, in cambio delle spedizioni di riso, sono arrivati nell’ex Birmania 30 aerei da combattimento, munizioni, 1500 bombe al napalm, 30.000 canne di fucile, migliaia di ordigni di mortaio e equipaggiamento militare, dalle tende all’attrezzatura per il paracadutismo. Inoltre, dozzine di esperti israeliani venivano inviati in Birmania per addestrare i soldati mentre ufficiali dell’esercito birmano furono condotti in Israele per un’istruzione completa sulle basi dell’Idf. Dai documenti risultano l’addestramento dei paracadutisti e quello per i piloti di caccia dell’aviazione birmana. In collaborazione con l’esercito birmano, Israele ha anche fondato in Myanmar società di navigazione, agricoltura, turismo e costruzioni.

«I birmani menzionavano spesso il grande aiuto che ricevevano da noi», risulta questo scritto da un delle carte del ministero degli Esteri, Shalom Levin, un diplomatico israeliano a Rangoon, inviata al direttore generale del ministero della Difesa Shimon Peres nel dicembre 1957. «L’equipaggiamento arrivava proprio quando ne avevano bisogno, per le operazioni contro i ribelli».

La società militarizzata, un modello targato Idf

Risulta che Israele abbia istituito una scuola per il combattimento aereo e terrestre in Birmania e la Birmania attinto all’assistenza di Israele per organizzare il suo esercito sulla base del modello dell’IDF di una divisione in corpi e in forze regolari e riserviste. Una serie di cablogrammi inviati alle legazioni israeliane nell’Asia orientale e citate da “Haaretz” ha fornito dettagli su una delegazione birmana di alto rango che era venuta in Israele per «imparare i metodi dell’Idf». La delegazione ha visitato una base di assorbimento e addestramento, il produttore di armi Israel Military Industries, basi di addestramento per l’amministrazione militare e per le nuove reclute, il comando centrale, una brigata di fanteria e il corpo di artiglieria. Inoltre, secondo un documento, «ufficiali di stato maggiore sono stati inviati per studiare la questione della mobilitazione della manodopera in Israele, i metodi di mobilitazione, la legge sul servizio di difesa [coscrizione obbligatoria] e simili».

Nel 1958 all’ombra di una profonda crisi politica ed economica e sullo sfondo della guerra civile in corso – infuriava da un decennio – il governo birmano crollò e subentrò un regime guidato dal gen. Ne Win. «L’esercito sta prendendo il controllo di molte aree della vita», ha scritto Zvi Kedar, il secondo segretario dell’ambasciata israeliana a Rangoon, in un cablogramma del dicembre dello stesso anno. «La stessa stampa è stata anche colpita dalla promulgazione di leggi di emergenza che limitano la libertà di scrittura… Sono stati effettuati ampi arresti tra i leader di gruppi di sinistra che hanno legami con i ribelli».

Ben Gurion passa in rassegna le truppe con Ne Win nel 1959

Israele, tuttavia, ha visto dei benefici nell’arrivo di un generale a capo del governo:

«Nonostante le numerose crisi interne che hanno afflitto la Birmania negli ultimi anni, l’amicizia Israele-Birmania rimane salda ed è stata in realtà notevolmente rafforzata nell’ultimo anno, da quando il governo è effettivamente passato nelle mani dell’esercito», ha scritto un ministero degli Esteri del giugno 1959. «Gli amici più fedeli di Israele sono principalmente nei circoli dell’esercito».

Ne Win visitò Israele quel mese. Incontro il primo ministro Ben-Gurion e il capo di stato maggiore, il capo della polizia, alcuni ufficiali dell’Idf, ha visitato le basi dell’esercito e, rilevano i documenti ufficiali dell’epoca, ha ricevuto in regalo un centinaio di fucili mitragliatori Uzi. Armi moderne considerate le più efficienti dell’epoca. Mark cita un episodio che definisce particolarmente strano nel coinvolgimento di Israele in Birmania. «I birmani, a quanto pare, consideravano Israele un’ispirazione per i programmi di insediamento di terre e tentavano di insediare personale militare in regioni abitate da minoranze etniche ribelli, nello stile degli avamposti della Brigata Nahal dell’Idf». Un’indagine del giugno 1959 redatta dall’Asia Desk del ministero degli Esteri citava un piano in Birmania per stabilire «locali di insediamento costruiti secondo il piano del distretto di Lachish, nel formato di un moshav dei lavoratori cooperativi israeliani, con i gruppi principali [di coloni] composto da ex militari». Agli esperti agricoli israeliani inviati nel cuore della patria della minoranza etnica shan, che si era ribellata al governo centrale era subito chiaro che la popolazione locale era ferocemente contraria al piano, vedendolo come un tentativo di invasione. «Lo stato Shan non ha assolutamente alcun desiderio per un piano di insediamento birmano o israeliano, e certamente non il nostro piano congiunto», scrisse Daniel Levin, ambasciatore di Israele in Birmania, nel 1958.

Col tempo cambiano i leader, non le prassi

Cambiarono i leader politici ma non la politica e la collaborazione tra il paese asiatico e Israele. «Questa sera l’esercito ha preso il potere», riferì a Gerusalemme in un cablogramma nel marzo 1962 l’ambasciata israeliana in Birmania. «Secondo notizie non confermate, tutti i ministri tranne il primo ministro e i ministri dell’istruzione e delle finanze sono agli arresti domiciliari. Tutto il traffico aereo è stato interrotto. Pattuglie dell’esercito in tutti gli angoli della capitale. Prevale la quiete assoluta». Tre mesi dopo quel colpo di stato, il viceministro della Difesa, Shimon Peres giunse in Birmania per incontrare i vertici del governo militare. «Il signor Peres ha dichiarato a nome del primo ministro che Israele è interessato, come sempre, ad aiutare su ogni argomento e in qualsiasi modo deciderà il generale», si legge in un memorandum.

Poche settimane dopo l’incontro con Peres, Ne Win, a quel punto capo del Consiglio Rivoluzionario, ordinò il massacro degli studenti che stavano tenendo manifestazioni a Rangoon: «I soldati hanno sparato sulla folla», scrisse Michael Elitzur, un consigliere dell’ambasciata israeliana, nel luglio 1962. Raccontò come l’esercito avesse demolito un edificio universitario dove gli studenti si erano barricati. Le autorità hanno fatto in modo che non si tenessero funerali pubblici per le vittime. È stato uno spettacolo scioccante vedere centinaia di persone – molte delle quali genitori e parenti di coloro che sono stati uccisi e feriti – riunirsi nel silenzio più totale intorno al Policlinico… Due giorni dopo, è stata ordinata la chiusura di tutti gli istituti di istruzione in tutto il paese. Elitzur riferì inoltre che i servizi di sicurezza avevano fatto sparire dozzine di altri studenti. I massacri da parte di Tatmadaw non sono mai stati sospesi fino all’ultimo raid –per ora – del 24 ottobre 2022: 4 bombe su un concerto per celebrazione dell’organizzazione per l’indipendenza kachin sganciate da un aereo militare che hanno ucciso 80 persone, ferendone almeno 70.

Kansi, una cittadina del distretto di Hkpant nello Stato nordorientale del Kachin, bombardata dall’aviazione birmana durante un concerto in corso per celebrare la resistenza Kachin il 23 ottobre 2022

Molti altri i documenti citati da Mack che ha rilevato come «La rottura, per periodo breve, del rapporto economico non ha portato Israele a smettere di sostenere la Birmania all’Onu, né ha comportato la cessazione degli aiuti militari al regime. Una parte considerevole delle esportazioni israeliane verso la Birmania è destinata all’esercito birmano (equipaggiamento militare, provviste, prodotti chimici delle industrie militari israeliane e così via)», scrisse Daniel Levin, allora direttore dell’Asia Desk, nel gennaio 1966.

Consiglieri militari, addestratori all’antiguerriglia… e al pogrom

In un cablogramma dell’aprile 1966, l’addetto militare israeliano in Birmania, il colonnello Asher Gonen, chiese l’approvazione al colonnello Rehavam Ze’evi, all’epoca assistente capo della divisione operativa dell’Idf, per un nuovo programma per addestrare i comandanti del battaglione birmano in Israele, con l’obiettivo di combattere i ribelli. Il programma includeva un corso da quattro a sei mesi in Israele con addestramento per una brigata di fanteria e una brigata aviotrasportata, integrazione della difesa territoriale, operazioni con il paracadute, problemi di manutenzione, artiglieria, comunicazioni, combattimento e partecipazione alle manovre. Nel marzo 1966, l’allora capo di stato maggiore Yitzhak Rabin visitò la Birmania. Un anno più tardi – giugno 1967 –, il diplomatico Zeev Shatil, rilevò che «a partire dalle 11:00 [AM], iniziò un pogrom organizzato e sistematico contro i residenti cinesi di Rangoon, che è davvero difficile da descrivere. Gruppi organizzati andavano di casa in casa e di negozio in negozio, buttavano via tutti i loro averi, li ammucchiavano e vi appiccavano il fuoco per le strade. Dalle finestre dei piani superiori sono stati lanciati oggetti in strada e nelle strade sono state date alle fiamme le auto… Fonti, non confermate, parlano di circa 30 morti e più di 100 feriti, alcuni gravemente».

La situazione non migliorò e pochi anni dopo, nel gennaio 1982, un funzionario dell’ambasciata, Avraham Naot, scrisse di aver parlato con un alto funzionario del ministero degli Esteri birmano di un’altra “crisi”: «Era chiaro … che il paese deve fare tutto il possibile per impedire alla popolazione musulmana in Birmania di crescere attraverso l’immigrazione dai paesi vicini». Nel mirino c’erano e ci sono ancora i Rohingya. Israele e Birmania hanno creato un collegamento tra servizi segreti e ambasciata israeliana in Birmania che ha ricevuto una busta dal Mossad contenente materiale di intelligence da trasmettere alla sua controparte birmana in merito alla attività «sotterranea musulmana nel Sudest asiatico [che opera sotto l’ispirazione] dell’Iran e della Libia». Le cose da allora non sono cambiate e nel novembre 2019, Ronen Gilor, ambasciatore di Israele in Myanmar, ha twittato un messaggio di sostegno e auguri di successo ai capi dell’esercito del Myanmar in merito alle deliberazioni in corso contro di loro presso la Corte internazionale di giustizia a L’Aia con l’accusa di genocidio contro il popolo Rohingya. «Incoraggiamento per un buon verdetto e buona fortuna!» Gilor ha scritto.

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La carne da cannone imparerà mai a sfuggire al macello? https://ogzero.org/la-carne-da-cannone-imparera-mai-a-sfuggire-al-macello/ Sun, 23 Oct 2022 12:11:03 +0000 https://ogzero.org/?p=9239 Khinstein, un consigliere di Putin, ha dichiarato che la Rosgvardiya metterà sotto maggiore sorveglianza gli uffici di reclutamento di carne da cannone dopo i molti attacchi subiti: evidentemente la propaganda delle operazioni speciali produce invece una consapevolezza sempre più estesa della necessità di boicottare la coscrizione, un recupero da parte dei civili di quella resistenza […]

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Khinstein, un consigliere di Putin, ha dichiarato che la Rosgvardiya metterà sotto maggiore sorveglianza gli uffici di reclutamento di carne da cannone dopo i molti attacchi subiti: evidentemente la propaganda delle operazioni speciali produce invece una consapevolezza sempre più estesa della necessità di boicottare la coscrizione, un recupero da parte dei civili di quella resistenza di stampo novecentesco contro qualunque aspetto abbia attinenza con il mondo militare. A un istintivo moto di sottrazione al reclutamento in una guerra zarista cominciano a moltiplicarsi gli episodi di sabotaggio. Questo si spiega anche con l’analisi della provenienza di classe e dalla periferia dell’impero degli arruolati; e proprio da questo prende spunto Yurii per illustrare in una cavalcata attraverso il territorio della Federazione e i luoghi della diaspora, inseguendo resistenza, controinformazione antimilitarista contrapposta alla propaganda del Cremlino… mobilitazioni di madri, mogli, figlie. Ma Yurii non tralascia nemmeno l’arruolamento ucraino, altrettanto subdolo perché si affida a una censura preventiva di chi si fa passare per la parte buona del conflitto; tuttavia l’impegno internazionalista di Assembly scoperchia la bugia dell’unità nazionale che si regge solo come contrasto all’aggressore. 


La mobilitazione “parziale” dell’esercito della Federazione russa imposta da Putin il 21 settembre ha fatto entrare il conflitto russo/ucraino in un una nuova fase che pone non poche domande sia sulla consistenza e reale tenuta dell’esercito della Federazione che sui particolari caratteri di classe e sulle ricadute sociali della guerra stessa.

La propaganda e la guerra ai poveri

I contorni stessi della mobilitazione di carne da cannone sono rimasti vaghi. Formalmente il ministro della difesa russa Sergej Shojgu ha parlato di 300.000 uomini ma resta aperta l’incognita dell’ormai famosi punto 7 del decreto di Putin che si sussurra dovrebbe prevedere il suo ampliamento fino a un milione di uomini in caso di necessità (era già stato previsto l’aumento di 137.000 membri combattenti dell’esercito entro il 1° gennaio 2023).
Il maggiore successo di reclutamento è avvenuto, senza sorpresa alcuna, nelle regioni più povere e degradate del paese. Già ci s’avvicina al 100% dei riservisti programmati presenti nei campi di addestramento o addirittura ormai al fronte, carne da cannone proveniente da regioni come la Cecenia (reddito pro capite annuo 2170 dollari), dal Kabardino- Blakaria (2670 dollari), dalla Buritia (3650 dollari), dall’Altaj (3730). Si tratta di popolazioni anche con tassi di scolarità tra i più bassi della Federazione e quindi più indifesi di fronte alla propaganda sciovinista dei mass-media e dei social network.

Una recente indagine ha portato alla luce che il 69% dei russi non è mai stata all’estero, mentre oltre il 50% non ha neppure il passaporto. Nelle regioni più povere la mancanza di passaporto supera l’80%. Non si è mai viaggiato all’estero per mancanza di mezzi materiali ma anche per mancanza di curiosità culturale. Sono loro la vera “carne da cannone” che hanno alimentato lo sforzo bellico putiniano negli ultimi 8 mesi.

Le cose cambiano radicalmente quando si arriva nelle capitali storiche della Russia, San Pietroburgo e Mosca. Nella città sulla Neva hanno risposto alla lettera di mobilitazione solo il 18% dei riservisti, a Mosca peraltro sono state chiamate a servire la nazione in Ucraina solo 14.000 persone ma buona parte di queste al momento della chiamata avevano già preso la strada dell’esilio. Non è certo un segreto che chi ha seguito la via della fuga appartiene socialmente – in buona parte – a quegli strati della società che potremmo definire “ceto medio” e che condividono “valori occidentali”. Le lunghe teorie di uomini che si sono visti nei primi giorni della mobilitazione attraversare le frontiere con ogni mezzo disponibile però non sono solo giovani; spesso si tratta di intere famiglie che abbandonano il paese definitivamente.

Renitenti a Volgograd

Esposizione infame a Volgograd delle foto dei renitenti

«Non voglio e non posso attendere – ci dice Igor 32 anni di Samara – quando cambierà qualcosa in Russia. Proverò a ricostruirmi una vita in Germania se riuscirò a raggiungerla».

Per ora è andato in Kazakistan e da lì spera di avere un visto europeo, con lui la moglie e il figlio di tre anni. Anche l’emigrazione verso Israele per chi ha sangue ebraico è molto gettonata:

Valerij è ora in Tajikistan: “Si tratta del paese in cui la vita costa di meno, ma sto preparando i documenti per volare a Tel Aviv e ottenere il passaporto israeliano».

Ma quasi nessuno degli oltre 30.000 che hanno fatto per ora richiesta del passaporto d’Israele intende fermarsi lì: «Troppo difficile inserirsi lavorativamente», dice ancora Valerij che sogna i paesi scandinavi.

Il dissenso al minimo sindacale

La decisione della dirigenza di tenere le frontiere aperte (ma nel Donbass con la dichiarazione della Legge marziale sono state prontamente chiuse) si basa su un calcolo cinico: più oppositori e refrattari alla leva se ne andranno, meno potenziali movimenti interni no-war potranno svilupparsi nel futuro. Si tratta tuttavia di calcoli che potrebbero rivelarsi superficiali, se la guerra dovesse continuare a lungo e la lista dei morti e degli invalidi diventasse insostenibile. Del resto le manifestazioni delle donne in Daghestan contro l’invio dei mariti e dei figli al fronte come carne da cannone la dice lunga su come si stia incrinando la narrazione putiniana sulla guerra. Non era mai avvenuta una mobilitazione spontanea di donne musulmane all’interno dei confini della Federazione russa e segnala quanto potrebbe essere inedita la crescita del femminismo in Russia.

I residenti del villaggio di Endirey in Daghestan hanno bloccato l’autostrada federale La polizia spara in aria a Khasavyurt-Makhachkala, dove le donne avevano inscenato una protesta contro la “mobilitazione parziale” dei loro uomini

Allo stesso tempo è evidente che i caratteri del rifiuto della guerra, per certi versi, assumono caratteristiche diverse da quelli della Prima guerra mondiale e pongono in modo nuovo la questione della lotta contro la guerra. Il’ja Budraytskis uno dei più importanti attivisti e intellettuali russi di sinistra, che ha deciso malgrado tutto di restare nel paese, ritiene che «ci sono importanti cose che chi ha deciso di emigrare può comunque fare». Come per esempio creare dei collegamenti stabili sia con gli altri fuoriusciti nei diversi paesi, naturalmente con chi sta in Russia al fine di giungere a una piattaforma comune di chi è contro la guerra. E allo stesso tempo produrre dei materiali di propaganda per chi è andato al fronte, lo sviluppo sistematico di una controinformazione sull’andamento reale del conflitto (anche se ricordiamo che ai reclutati russi a differenza di quelli ucraini sono stati tolti gli smartphone).

Straccioni mercenari, la carne da cannone

Come già nel caso dei contractors e dei “volontari” reclutati nei mesi precedenti, la parziale mobilitazione è stata selettiva in termini di classe anche sotto altri profili: non è casuale che la maggior parte dei mobilitati (secondo i dati ufficiali 230.000) sono attratti dalla possibilità di ricevere paghe da 200.000 rubli al mese (media nazionale 50.000) e moltissimi benefit quali la possibilità di formazione professionale e la possibilità di acquistare una casa a tassi agevolati nel dopoguerra.

Per esempio il governatore della Yugra, Natalija Komarova, ha deciso di fissare la paga del mobilitato a ben 250.000 rubli e altrettanti al momento della smobilitazione. Alle Sakhalin, in Chukotka e Yamal, si va anche oltre: pagano subito 300.000 rubli a testa. In Jakutia, il presidente Aisen Nikolajev ha addirittura emanato un decreto speciale in cui si afferma che, oltre a vari benefici, le famiglie dei residenti mobilitati riceveranno anche una somma forfettaria di 200.000 rubli. È stata diffusa un’altra promessa del presidente della Crimea Sergej Aksenov: ogni coscritto riceverà anche 200.000 rubli dalle autorità dell’unità militare in cui è stato arruolato. Il denaro dovrà arrivare sulla carta entro cinque giorni. Sembra che siano stati promessi 100.000 rubli ciascuno nelle regioni di Belgorod, Irkutsk, Kursk, Omsk, Tula, Adjgea e in diverse altre regioni.

La mobilitazione ha anche il suo lato industriale: andare a combattere spesso significa abbandonare posti di lavoro che sono comunque utili allo sforzo bellico neozarista nelle retrovie.

Gli operai della fabbrica non hanno voglia di combattere. A poco a poco dal fronte vengono a conoscenza della mancanza di tutto ciò di cui hanno bisogno e che devono comprare tutto a proprie spese, che vengono portati al fronte senza preparazione. Non ci sono nemmeno persone che hanno lasciato [il paese].

Dicono: «Dove potremmo andare? Siamo operai. Nessuno vuole gente come noi, cazzo» (l’intervistato si definisce operaio, ma si tratta di un ingegnere della difesa); e aggiunge: «L’atteggiamento dei soldati all’ufficio di arruolamento militare è brutale, ci chiamano “usa e getta”, prendono tutti indistintamente. Come se ci stessero preparando per il macello… Le persone sono diventate nervosissime, ci sono molti casi di depressione. Di fronte alla morte la loro paura della repressione svanisce», afferma un tecnico di una fabbrica di San Pietroburgo.

Molti, tuttavia, accettano il loro destino con fatalismo (tipicamente russo) e non sembrano essere pienamente consapevoli del grado di pericolo. Un fatalismo che molti pagano con la vita: secondo i servizi segreti britannici (che forniscono gli unici dati “equilibrati”) a settembre le perdite russe sarebbero state di oltre 16.500 uomini a cui aggiungere almeno 35.000 feriti).

La propaganda nazionalista di Kyiv basata sulla censura

“Dall’altra parte della barricata” le informazioni sono assai più ridotte. Da una parte sembra funzionare bene una certa censura “preventiva” messa in atto dal ministero della difesa ucraino, dall’altro, i fenomeni di diserzione e anche di malcontento tra le truppe sembrano essere più limitati temporaneamente. In questo senso l’arma della mobilitazione nazionalista sembra aver funzionato molto più per Zelenskij che per Putin e un certo grado di motivazione a combattere è presente sia nell’esercito regolare che tra le Unità Territoriali volontarie. Come ha ricordato da questo punto di vista Assembly, un gruppo libertario di Kharkhiv impegnato nella solidarietà internazionalista ma piuttosto tiepido verso la partecipazione alla “resistenza armata”:

«Dovremmo capire che l’unità nazionale degli ucraini intorno al potere di Zelenskij si basa solo sulla paura della minaccia esterna. Pertanto, gli atti sovversivi contro la guerra in Russia sono indirettamente una minaccia anche per la classe dirigente ucraina, ed è per questo che consideriamo il loro sostegno informativo un atto internazionalista».

Il malcontento sotto le braci dell’occupazione

Allo stesso tempo gli attivisti di Assembly ricordano come «nonostante l’assenza di una differenza qualitativa tra gli stati in guerra, essi differiscono quantitativamente: se tutti i soldati russi smettono di combattere, la guerra finirà, se lo fanno i soldati ucraini, finirà l’Ucraina. La zona di occupazione inizia a 20 km dalla circonvallazione della nostra città, e sappiamo cosa significa: la “scomparsa” di tutti gli abitanti almeno un po’ attivi e l’età della pietra per il resto della popolazione. Allo stesso tempo, dopo che le truppe russe hanno perso per lo più il loro potenziale offensivo, un’ondata di malcontento sociale ha iniziato a manifestarsi anche in Ucraina – ne abbiamo già parlato».

Il diritto a uscire dal paese e non partecipare al conflitto è anche rivendicato da Assembly, tuttavia la formale mobilitazione generale e la chiusura delle frontiere per i maschi in età adulta grazie alla diffusa corruzione nella società ucraina è stato spesso risolto praticamente da chi non intende fare da carne da cannone: secondo alcune fonti bastano poco più 100 dollari per “oliare” le guardie alla frontiera.
La diserzione vera e propria si è quindi concentrata nei periodi di maggiore difficoltà per l’esercito ucraino, durante la lunga offensiva russa nel Donbass di primavera scorsa. In quel periodo lo stesso presidente ucraino sosteneva che il suo esercito perdeva 200-300 uomini al giorno. Come riportava l’agenzia di stampa russa “Tass” all’epoca:

«I casi di diserzione delle truppe ucraine sono sempre più diffusi», ha dichiarato il servizio stampa del Ministero della Difesa. «Così, nei pressi del villaggio di Aleksandropil nella Repubblica Popolare di Donetsk, più di 30 militari ucraini di uno dei battaglioni della XXV Brigata aviotrasportata, dopo aver abbandonato le armi personali, hanno lasciato volontariamente le loro posizioni», si leggerà sull’agenzia russa.

Altri si erano avuti a inizio estate: il 22 giugno il Ministero russo ha dichiarato che i militari della 57a brigata di fanteria motorizzata ucraina che difendevano gli insediamenti di Gorske, Podleske e Vrubovka nella Repubblica Popolare di Luhansk, dopo aver perso oltre il 60% degli uomini, si sono rifiutati di eseguire gli ordini e hanno abbandonato volontariamente le loro posizioni.

Scarsi o nulli invece i fenomeni di fraternizzazione tra soldati dei due paesi slavi anche se alcune decine di soldati russi, dopo l’inizio della mobilitazione si sono volontariamente consegnati prigionieri alle Forze armate di Kyiv, pur di non combattere.

Il ministero della Difesa ha dichiarato che il comando ucraino è stato costretto a formare battaglioni separati di armi leggere con cittadini mobilitati non addestrati per compensare le perdite.


Questo articolo ha avuto un prequel embrionale in un intervento di Yurii su Radio Blackout  l’11 ottobre 2022. Ecco il podcast che espone ulteriormente l’analisi relativa ai tentativi di resistenza antimilitarista durante l’“Operazione speciale”:
“Quale narrazione della guerra in Ucraina esula dalla propaganda militare?”.

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Vecchie corone e turbanti consunti, curdi e beluci sudditi dell’impero persiano https://ogzero.org/vecchie-corone-e-turbanti-consunti-curdi-e-beluci-sudditi-dellimpero-persiano/ Tue, 18 Oct 2022 20:20:44 +0000 https://ogzero.org/?p=9151 Ospitando queste considerazioni di Gianni Sartori comparse su “Osservatorio repressione” proseguiamo l’interesse per un movimento che non accenna ad arrendersi al brutale massacro di forze di una brutale polizia che fin dai tempi della Savak della famiglia Pahlevi è famigerata per le sue efferatezze; ma la storia fa ben sperare, perché quando il popolo iraniano […]

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Ospitando queste considerazioni di Gianni Sartori comparse su “Osservatorio repressione” proseguiamo l’interesse per un movimento che non accenna ad arrendersi al brutale massacro di forze di una brutale polizia che fin dai tempi della Savak della famiglia Pahlevi è famigerata per le sue efferatezze; ma la storia fa ben sperare, perché quando il popolo iraniano è esausto non recede fino al rovesciamento del potere. Non sappiamo quale sarà l’epilogo ma la determinazione meriterebbe migliori analisi da parte dell’Occidente. Sartori ha il merito di usare occhiali che pescano nell’immaginario ipocrita che attraverso gli organi di stampa mainstream evidenziano episodi, a tratti beatificano, ma poi non considerano il patriarcato e si focalizzano esclusivamente sulla questione del velo senza considerare le istanze sociali e politiche che alimentano il movimento e senza accorgersi del tentativo di organizzazioni nostalgiche dello sha’ intente a scippare le lotte, cercando di replicare la manovra degli ayatollah che sterminarono i rivoltosi progressisti che avevano cacciato i Pahlevi. 


L’antifascismo nelle piazze iraniane

Affrontando i nostalgici del passato e gli oscurantisti del presente

Qualche considerazione, mi auguro non “allineata”, su quanto sta avvenendo in Iran. Già in precedenza avevo sottolineato come l’autodeterminazione dei popoli in generale e l’indipendentismo in particolare, siano divenuti una variabile “USA e getta” a seconda degli interessi geostrategici in gioco. Quella che uno studioso catalano aveva definito “indipendenza a geometria variabile”, di cui si è esaustivamente parlato in un articolo precedente. Gli esempi dei “due pesi e due misure” si sprecano, come avevo segnalato qualche anno fa (in epoca non sospetta) nella “postfazione” a un mio libro sui curdi.
E i curdi, da questo punto di vista, non fanno certo eccezione, se pur loro malgrado.
Beatificati qualche anno fa quando si facevano massacrare per sconfiggere l’Isis, erano stati poi – di fatto – dimenticati. Abbandonati in balia delle milizie islamiste filoturche in Rojava, sotto i bombardamenti turchi (anche con armi proibite dalla convenzione di Ginevra) in Bashur e sepolti vivi nelle carceri di sterminio in Turchia.
Quanto al Rojhilat (il Kurdistan sotto amministrazione iraniana), se si esclude in passato qualche tentativo di strumentalizzazione da parte del Mossad, parevano completamente scomparsi dal radar. Nuovamente alla ribalta in quanto tra i principali protagonisti della rivolta in corso (innescata dall’assassinio di una donna curda, Jina Amini) tornano a godere di qualche attenzione – interessata – da parte dei media occidentali.
Women Life Freedom
Talvolta in maniera paradossale. In un recente articolo apparso su un noto quotidiano italico si celebra “l’arte di resistere” di questo popolo indomito, ma – a mio avviso – in modo alquanto parziale. Ben due paginoni per ricordare, oltre alla lotta contro l’Isis e Daesh, perfino il “rapporto turbolento” dei curdi dell’Iraq con Bagdad e dilungarsi – addirittura – sulle antiche battaglie dei Carduchi (probabili progenitori dei curdi) celebrate da Senofonte in Anabasi.
Ma nessun accenno al Bakur (il Kurdistan sotto occupazione turca) o al “Mandela curdo” Ocalan.

L’analisi deve considerare molti aspetti

Riproponendo comunque una visione riduttiva – sempre a mio modesto avviso – dell’attuale crisi iraniana interpretata come legata essenzialmente alla questione dell’hejjab. In realtà ritengo che il problema, in particolare per le donne curde, sia leggermente più complesso. Andarsi a rivedere le percentuali di donne impiccate per essersi ribellate al patriarcato (con le minorenni – in genere vittime di matrimoni combinati – che se accusate di aver ammazzato il marito o un cognato, rimangono in cella in attesa della maggiore età e dell’esecuzione).

La rivolta in carcere dei fomentatori curdi

Del resto anche la rivolta nel famigerato carcere di Evin (a Teheran) sembrerebbe essere stata innescata (nella serata del 15 ottobre) dai prigionieri politici curdi.
Non i soli qui rinchiusi, ovviamente (ci sarebbero anche personaggi noti, in quanto stranieri, come la franco-iraniana Fariba Adelkhah e almeno fino alla fine di settembre lo statunitense di origine iraniana Siamak Namazi).
Per completezza va riportata anche un’altra inquietante ipotesi. Ossia che potrebbero essere state le stesse autorità carcerarie ad appiccare l’incendio come pretesto per eliminare dei pericolosi dissidenti.
Evin Prison

L’egemonia imperiale persiana

I seguaci dello sha’ cercano di scippare le lotte

In ogni caso, oltre a strumentalizzare le lotte dei curdi, stavolta si è fatto avanti anche chi vorrebbe ora emarginarli, ridimensionare il ruolo fondamentale che questa “minoranza” ha avuto, insieme ai beluci, nella rivolta in atto ormai da oltre un mese.
Il 15 ottobre a Londra, a una manifestazione di sostegno ai manifestanti e rivoltosi iraniani, i nostalgici dell’artificiosa monarchia decaduta nel 1979 hanno cercato di allontanare coloro che inalberavano bandiere del Kurdistan e del Belucistan, in quanto, secondo i seguaci della buonanima di Mohammad Reza Pahlavī, “non graditi”.
E rivendicando il fatto che nel 1936 Reżā Shāh Pahlavī (il padre di Mohammad Reza) aveva proibito per decreto l’uso di hijab e chador. Ma sorvolando, al solito, sulle concessioni fatte tre anni prima alla Anglo-Persian Oil Company, operazione a cui tenterà di porre termine nel 1951 Mossadeq (poi destituito con un colpo di stato imbastito da Usa e G.B.) riuscendo anche per un breve periodo ad allontanare lo sha’ dal Paese.
E così i tardi epigoni di quel regime crudele (ricordate le brutalità, le torture commesse tra il 1957 e il 1979 dalla polizia segreta, la Savak?), mentre con grande faccia tosta pubblicamente invocano l’unità del popolo iraniano contro l’attuale regime, negano a priori i diritti dei popoli minoritari (ma sarebbe più corretto definirli “minorizzati” in quanto sia i curdi che i beluci vivono separati in vari stati, divisi dalle artificiose frontiere).
Popoli sottoposti all’egemonia persiana e a cui viene tuttora negato il diritto alla propria lingua e cultura. Per non parlare di quello all’autodeterminazione.
Oggi con gli ayatollah così come ieri con lo sha’.
Fatti del genere, oltre che a Londra, erano già avvenuti a Parigi davanti all’Hôtel de Ville il 6 ottobre.
Durante – si badi bene – l’omaggio reso dalla sindaca di Parigi Anne Hidalgo a Jina Amini, la giovane curda uccisa dalla polizia.
Appare evidente come questi reazionari monarchici (potremmo, credo, definirli tranquillamente dei “fascisti”) vorrebbero impadronirsi della rivolta popolare, strumentalizzarla ai loro fini. Quanto al fatto che possano riuscirci è tutto un altro paio di maniche. Anche se …

La Realpolitik del diritto all’autodeterminazione

… coltivo qualche perplessità sugli sbocchi assunti da alcune lotte di liberazione in tempi recenti (talvolta strumentalizzate dal sistema industriale-militare – l’imperialismo – o da qualche potenza regionale), ma non per questo rinuncio a schierarmi a fianco degli oppressi e contro l’oppressione.

Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e al-Da’wa, notoriamente filoiraniani e responsabili di violazioni dei diritti umani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente Washington starebbe utilizzando in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad al-Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?

Indipendenze a geometria variabile

Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale, come di quelli autonomistici o identitari, non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Manuel Castells ha parlato di “indipendenze a geometria variabile”, denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese «a seconda di chi, del come e del quando».

«Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione –, sostiene il sociologo catalano, – sono frutto di un cinismo tattico e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente»

Pensiamo al trattamento riservato ai curdi in Iraq, praticamente autonomi e quasi alleati degli Usa, mentre quelli in territorio turco continuavano a essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, storicamente alleato strategico degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. E intanto i curdi dell’Iran (“Partito per una vita libera in Kurdistan”, Pjak, considerato il ramo iraniano del Pkk attivo in Turchia), dopo una serie di impiccagioni che l’opinione pubblica mondiale ha ignorato, nel 2010 si sarebbero rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva documentato “Le Monde”, ma poi le cose sarebbero cambiate).

 

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Il dazio dell’inondazione pakistana sulle tavole africane https://ogzero.org/il-dazio-dellinondazione-pakistana-sulle-tavole-africane/ Thu, 29 Sep 2022 13:56:07 +0000 https://ogzero.org/?p=9038 Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo […]

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Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo il paese il quinto produttore di cotone e il quarto di riso, l’impatto di questa perdita sarà sicuramente globale.
Di qui prendeva spunto l’articolo che abbiamo pubblicato di Masha Hassan sull’inondazione pakistana; l’autrice del pezzo ha poi approfondito gli addentellati collegati alla filiera del cotone, più che quella del riso, seguita invece dall’attenzione di Angelo Ferrari (già in luglio un suo intervento lanciava l’allarme alimentare, prima della guerra in Ucraina e dei disastri climatici) per le ripercussioni sull’alimentazione dell’Africa, riproponiamo qui il pezzo ripreso da “AfricaRivista” per completare l’analisi del cataclisma poco seguito dai media occidentali miopi di fronte alle conseguenze del cambiamento climatico subito nei disastri dal Sud del Mondo, ma prodotto soprattutto dal mondo industrializzato.


Secondo gli analisti molti governi dovranno far fronte all’aumento dei prezzi di mercato del riso, un alimento base per gli africani, dovuto alle catastrofi naturali che stanno colpendo l’Asia e alle nuove strette sulle esportazioni imposte da India, Vietnam e Thailandia.

L’Africa non ha pace. La sicurezza è messa a rischio dall’aumento dei prezzi delle materie prime e ora potrebbe aggravarsi ulteriormente per le inondazioni che hanno investito il Pakistan. Il continente africano deve far fronte all’aumento dei prezzi del grano e del mais a causa della guerra in Ucraina, ma, secondo molti analisti economici, dovrà far fronte anche all’aumento dei prezzi di mercato del riso, un alimento base per gli africani, a causa delle inondazioni che hanno investito il Pakistan e alla decisione dell’India di limitare le sue esportazioni.

L’accaparramento asiatico

L’India ha vietato le esportazioni di riso spezzato (frammenti di chicchi rotti) dopo l’inondazione e ha imposto un dazio del 20% sulle esportazioni di riso di qualità superiore. Con questa misura, il più grande esportatore mondiale cerca di abbassare i prezzi a livello locale, dopo che le piogge monsoniche sono state inferiori alla media. Le esportazioni potrebbero, grazie a questa misura, crollare del 25% nei prossimi mesi.

«Tutti i cereali sono aumentati, tranne il riso, ma ora si unirà a questa tendenza», ha spiegato Himanshu Agarwal, direttore di Satyam Balajee – il principale esportatore di riso indiano – sentito dalla Reuters.

Contemporaneamente Thailandia e Vietnam hanno deciso di aumentare i prezzi per remunerare meglio i loro agricoltori. Secondo Phin Zinell, economista alimentare presso la National Australia Bank, ci «saranno tensioni significative sulla sicurezza alimentare in molti paesi». E a farne maggiormente le spese, sarà l’Africa, tanto più che la situazione in Pakistan di fronte alle alluvioni che lo hanno investito potrebbe pesare sui prezzi mondiali.

«Il Pakistan è un grande esportatore di riso, ma un terzo del paese è sott’acqua e quindi il rischio, a lungo termine, è un aumento del prezzo del riso sul mercato internazionale», ha spiegato Nicolas Bricas, titolare della Cattedra mondiale dell’alimentazione dell’Unesco, sentito da France24.

Un altro fattore rischia di aggravare ulteriormente la situazione: la forte domanda cinese di rotture di riso per sostituire il mais, diventato troppo costoso per nutrire il bestiame, ha provocato un innalzamento dei prezzi.

Il fabbisogno africano

Tutto ciò, evidentemente, rappresenta una brutta notizia sul fronte della sicurezza alimentare nell’Africa subsahariana, che dipende in larga misura dalle importazioni di cereali bianchi dall’Asia. L’Africa, quest’anno, potrebbe assorbire il 40% del commercio mondiale di riso, ovvero 20 milioni di tonnellate, un vero e proprio record.

La dipendenza dalle importazioni di riso è cronica e durerà nel tempo, anche perché la produzione locale non è in grado di seguire la curva dei bisogni che cresce con la crescita demografica urbana. In Africa il riso è l’alimento preferito dagli abitanti delle città perché è un prodotto pronto all’uso a differenza dei tradizionali cereali, come il miglio e il sorgo, che hanno bisogni di una preparazione.

Se la sicurezza alimentare in Africa subsahariana non si base esclusivamente sul riso, come in altri continenti, questo rimane il secondo cereale più consumato dopo il mais. Un’impennata dei prezzi rappresenterebbe un nuovo colpo per le popolazioni africane, già indebolite dai prezzi dei generi di prima necessità, soprattutto quelli agricoli. La situazione è particolarmente critica nel Corno d’Africa, che sta attraversando una siccità mai vista negli ultimi quarant’anni. Secondo le Nazioni Unite, dall’Etiopia meridionale al Kenya settentrionale fino alla Somalia, 36 milioni di persone sono a rischio fame.

«Con l’aggravarsi della situazione della sicurezza alimentare in Etiopia, siamo particolarmente preoccupati per l’impatto che sta avendo su donne e ragazze. Anche se CARE è intervenuta tempestivamente con distribuzioni di cibo per alcune comunità colpite, oltre che con interventi nel settore agricolo, trasferimenti di denaro, salute e nutrizione e WASH, il bisogno insoddisfatto rimane sconcertante».

L’aumento del prezzo del riso è, dunque, atteso, ma secondo molti analisti dovrebbe rimanere contenuto e di breve durata. Di sicuro è un azzardo, anche se il raccolto dei principali paesi produttori ed esportatori – India, Thailandia e Vietnam – inizierà tra poche settimane. Questo riso dovrà andare ad aggiungersi alle scorte, già al massimo, e quindi dovrebbe spingere questi paesi a vendere il vecchio raccolto, allentando la pressione sul mercato. Ma bisognerà capire se i maggiori esportatori di riso applicheranno misure di protezionismo del proprio mercato interno.

Di sicuro gli effetti maggiori si vedranno nei primi mesi dell’anno prossimo. Occorre ricordare, infine, che il Pakistan esporta 4 milioni di tonnellate di riso all’anno, contro i 21 milioni dell’India. La domanda è: il mercato sarà in grado di resistere allo shock anche se il Pakistan, come è prevedibile, limiterà le sue esportazioni e l’India manterrà i dazi e il tetto alle esportazioni di riso?

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«Kurdistan, Kurdistan: occhi e luce dell’Iran!» https://ogzero.org/kurdistan-kurdistan-occhi-e-luce-delliran/ Sat, 24 Sep 2022 11:58:16 +0000 https://ogzero.org/?p=9006 Un punto di vista attento alle origini curde di Jîna Mahsa Amini per raccontare ulteriori aspetti (rispetto a quelli rilevati da Marina Forti) della vicenda che ha scatenato un movimento determinato a ottenere almeno un allentamento dell’oppressione religiosa… e che forse può avviare un più ampio processo di emancipazione dal sistema oscurantista legato ai turbanti […]

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Un punto di vista attento alle origini curde di Jîna Mahsa Amini per raccontare ulteriori aspetti (rispetto a quelli rilevati da Marina Forti) della vicenda che ha scatenato un movimento determinato a ottenere almeno un allentamento dell’oppressione religiosa… e che forse può avviare un più ampio processo di emancipazione dal sistema oscurantista legato ai turbanti di Tehran, estendendo le proteste al desiderio di liberazione dal manto plumbeo degli ayatollah, con un gesto come i tanti dal hejjab. Gianni Sartori in questo pezzo comparso su “Osservatorio repressione” ricostruisce gli eventi di questi giorni con lo sguardo dei curdi del Khorasan, in particolare del Rojhilat (le province del Nordovest), esteso al resto delle speranze soprattutto dei giovani in piazza in questi giorni, rischiando anche di venire giustiziati, come da richieste degli oscurantisti chiamati in una contromanifestazione dal governo conservatore di Raisi, che si rende conto del pericolo di insurrezione.  


In Iran non si placano le proteste per l’assassinio di Jîna Mahsa Amini

Sappiamo che la popolazione curda del Rojhilat (il Kurdistan orientale, sotto amministrazione iraniana) detiene il record non invidiabile del maggior numero (in percentuale) di giustiziati e giustiziate del pianeta. Altri – e altre – invece sono vittime della tortura.
L’ultimo caso, quello della ventiduenne curda Jîna Mahsa Amini, ha scatenato la rivolta prima nella regione, poi nell’intero paese.
Nei primi cinque giorni (e cinque notti, come a Parma nel 1922) manifestazioni e scontri erano avvenuti a Sine, Dehgulan, Diwandara, Mahabad, Urmia, Piranshahr, Saqqez…
Mentre ancora il 22 settembre i telegiornali parlavano “soltanto” di una decina di manifestanti uccisi dalla polizia iraniana nel Rojhilat, alcune agenzie ne calcolavano già una trentina.

È probabile che ormai le vittime siano più di cinquanta e destinate, purtroppo, ad aumentare. Per non parlare della sorte di centinaia di feriti e di migliaia di persone arrestate.

Immediatamente veniva indetto dal Pjak (Partito per una vita libera nel Kurdistan) e da Kodar (Società democratica e libera del Kurdistan orientale) lo sciopero generale. Sciopero a cui avevano aderito i partiti affiliati al Centro di cooperazione dei partiti del Kurdistan iraniano, il Partito comunista iraniano-Kurdistan, altri partiti del Kurdistan orientale, numerose organizzazioni della società civile e vari esponenti politici. E così il 19 settembre scuole e negozi sono rimasti chiusi in gran parte della regione.
Il giorno dopo, 20 settembre, nel corso di una manifestazione, a Kermanshah moriva un’altra donna curda, Minoo Majidi, madre di tre bambini. Colpita dalle pallottole (dal “fuego real”) delle unità speciali antisommossa, prontamente mobilitate dal regime.

Nel frattempo le proteste per l’uccisione di Jîna Mahsa Amini (22 anni, deceduta per emorragia cerebrale a seguito delle torture subite) si estendevano all’intero paese.

In almeno una quindicina di città uomini e donne (la gran parte delle quali aveva gettato via il velo) sono scesi in strada. Non solo aTeheran, ma anche a Mashhad (nel nord-est), Tabriz (nord-ovest), Rasht (nord), Ispahan (centro) e Kish (sud). Bloccando la circolazione, incendiando i veicoli della polizia, lanciando pietre sulle forze di sicurezza e distruggendo i ritratti degli ayatollah (così come era accaduto a Saqqez, città natale della giovane curda). Oltre naturalmente a scandire slogan contro il regime. Sia quello diffuso tra le donne curde del Bakur e del Rojava: “Jin jiyan azadi“ (La Donna, la Vita, la Libertà), sia uno di nuovo conio:

“Kurdistan, Kurdistan: occhi e luce dell’Iran”.

Identificata dai media come Mahsa Amini, in realtà si chiamava Jîna (o anche Zhina) che significa “donna” (Jin) in curdo. Ma al momento di registrarla all’anagrafe, il funzionario del regime, come in tanti altri casi, si era rifiutato e aveva imposto la sostituzione del nome curdo con quello di Masha. Un evidente caso di colonialismo culturale che costringe milioni di curdi, espropriati del loro stesso nome, a portarne altri turchizzati (in Bakur), arabizzati o persianizzati (in Rojhilat).

Arrestata dalla polizia per un velo portato in maniera “scorretta”, o qualcosa del genere, mentre si trovava nell’auto del fratello da cui si era recata in visita, è morta all’ospedale di Kasra a Teheran, dove era giunta già in stato di morte cerebrale.

Mentre le autorità iraniane si giustificavano evocando improbabili “preesistenti problemi di salute” –  parlando prima di una presunta epilessia, poi di problemi cardiovascolari – dalle lastre e altri esami al cranio della giovane curda emergeva la conferma di quanto già si sospettava: Jina è morta a causa delle torture, delle percosse subite appena dopo l’arresto. In particolare quella che sembra una tomografia assiale computerizzata, ha evidenziato fratture ossee, un’emorragia e un edema cerebrale.
Una fonte ospedaliera ha parlato di “tessuto cerebrale schiacciato, danneggiato da numerosi colpi”. Inoltre i polmoni erano “pieni di sangue e non poteva più essere rianimata”. In alcune delle foto di lei sul letto dell’ospedale si vede chiaramente che le orecchie sanguinano, e ciò sarebbe un segno inequivocabile che il coma era la conseguenza di un trauma cranico.

Indignate manifestazioni di protesta si sono immediatamente svolte soprattutto nel Rojhilat dove scuole e negozi sono rimasti chiusi per lo sciopero generale.

Secondo il giornalista Ammar Goli (Erdelan) le forze di sicurezza del regime iraniano utilizzerebbero anche le ambulanze per reprimere i manifestanti, in violazione del diritto internazionale. Infatti «molte delle persone arrestate vengono portate nei centri di detenzione a bordo delle ambulanze in quanto le forze di sicurezza sanno che non verranno assalite dai manifestanti. E ovviamente molti manifestanti feriti si rifiutano di recarsi negli ospedali per paura di essere arrestati».

Dalla giornalista Behrouz Boochani un appello alla comunità internazionale per intendere la voce delle donne iraniane insorte contro la dittatura islamista: «Le donne dell’Iran sono fonte di ispirazione: stanno costruendo la Storia nelle strade ribellandosi alla dittatura. Non ignoratele; se siete femministe, siate la loro voce, amplificate il loro appello! Questa è una rivoluzione femminista storica».

 

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Sollevato il velo di Mahsa. La società iraniana sfida la “morale” repressiva https://ogzero.org/mahsa-amini-la-societa-iraniana-sfida-la-morale-repressiva/ Fri, 23 Sep 2022 23:57:45 +0000 https://ogzero.org/?p=8988 La sensibilità della vivace società iraniana è avvezza alla protesta di piazza senza paura della feroce repressione del sistema ispirato da una dottrina morale ormai scollata dal comune sentire. Abbiamo dato conto in altre occasioni al malcontento sfociato in rivolta: individualmente, quando donne ai semafori platealmente liberavano le chiome, sfidando le basi del paternalismo; oppure […]

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La sensibilità della vivace società iraniana è avvezza alla protesta di piazza senza paura della feroce repressione del sistema ispirato da una dottrina morale ormai scollata dal comune sentire. Abbiamo dato conto in altre occasioni al malcontento sfociato in rivolta: individualmente, quando donne ai semafori platealmente liberavano le chiome, sfidando le basi del paternalismo; oppure nei momenti in cui la siccità minava i precari equilibri della sopravvivenza nelle aree rurali; oppure quando l’autarchia imposta dalle sanzioni erodeva l’economia popolare. Questa volta però in piazza, in occasione della morte di Mahsa Amini, scendono uomini e donne per un’enormità intollerabile, che però mina le fondamenta del sistema… e questo sentire comune si va espandendo incontenibile in tutto il paese a difesa dei diritti delle donne. Dopo il rientro di Raisi dall’intervento all’Onu la repressione si è moltiplicata con il conteggio dei morti, ma sembra non riuscire ancora a soffocare le proteste che in una settimana sempre più hanno posto nel mirino i vertici di un sistema che si sta esprimendo con esagerati giri di vite conservatori che hanno esacerbato il rapporto con la società civile. E stavolta la rivolta è fuori controllo. Ne abbiamo parlato con Marina Forti – e potete trovare nel podcast inserito nel suo articolo la sua voce che approfondisce alcuni aspetti accennati nell’articolo, dove vengono illustrati tutti i singoli elementi che compongono questo snodo epocale – per collocare nella storia dell’Iran e nella comunità che attualmente abita il paese questa incontenibile indignazione che può fare paura al sistema che da 43 anni governa e impone la morale con una polizia anacronistica.
Si è poi aggiunto un nuovo contributo propostoci da Gianni Sartori sulle lotte che in questi giorni fanno scricchiolare il consenso degli ayatollah nelle strade iraniane.


La spontanea protesta contro morali anacronistiche

Una folla di giovani circonda un falò, in una piazza: gridano “azadi”, libertà. Una ragazza si avvicina volteggiando, si toglie dalla testa il foulard e lo agita prima di gettarlo tra le fiamme, poi si si riunisce alla folla danzando. Altre la seguono, altre sciarpe finiscono bruciate tra gli applausi. È una delle numerose scene di protesta venute dall’Iran negli ultimi giorni, catturate da miriadi di telefonini e circolate sui social media in tutto il mondo.

Sono proteste spontanee, proseguono da una settimana nonostante la repressione. E se è già avvenuto in anni recenti che proteste spontanee infiammino il paese, è la prima volta che questo avviene in nome della libertà delle donne.
Ad accendere le proteste infatti è la morte di una giovane donna, Mahsa Amini, 22 anni. Era stata fermata il 13 settembre a Tehran dalla “polizia morale”, quella incaricata di far rispettare le norme di abbigliamento islamico: a quanto pare portava pantaloni attillati e il foulard lasciava scoperti i capelli. Qualche ora dopo il fermo Mahsa era in coma; trasferita all’ospedale Kasra di Tehran, è morta il 16 settembre.

La sorte di questa giovane donna di Saqqez, nella provincia del Kurdistan iraniano, in visita a Tehran insieme al fratello, ha suscitato grande emozione: fin da quando è circolata la foto di lei incosciente sul lettino, con flebo e respiratore e segni di ematomi sul volto. Davanti all’ospedale si sono riunite molte persone in attesa di notizie, e l’annuncio della morte ha suscitato profonda indignazione. Al funerale, avvenuto il giorno dopo nella cittadina del Kurdistan dove vive la famiglia Amini, la tensione era palpabile; le foto circolate mostrano una famiglia distrutta dal dolore.

Le proteste sono cominciate all’indomani: le prime e più intense proprio in Kurdistan, poi a Tehran e altrove. Al 23 settembre c’era notizia di dimostrazioni in almeno 18 città, da Rasht sul mar Caspio a Isfahan e Shiraz; da Kermanshah a ovest a Mashhad a est, fino a Kerman nel sud.

Le sfide

Migliaia di brevi video caricati sui social media mostrano folle di donne e uomini, per lo più giovani ma non solo, che esprimono grande rabbia. Molti video mostrano ragazze che bruciano il foulard; una si taglia pubblicamente i capelli in segno di lutto e protesta (a Kerman, 20 settembre). A Mashhad, sede di un famoso mausoleo shiita e luogo di pellegrinaggio, una ragazza senza foulard arringa la folla dal tetto di un’automobile: le nipoti della rivoluzione si rivoltano contro i nonni, commenta chi ha messo in rete il video.

 


A morte il dittatore

Le forze di sicurezza reagiscono. Altre immagini mostrano agenti in motocicletta che salgono sul marciapiede per intimidire i cittadini mentre un agente in borghese manganella alcune donne. La polizia che spara lacrimogeni contro i manifestanti in una nota piazza di Tehran. Agenti con manganelli che inseguono dimostranti; un agente circondato da giovani infuriati che lo gettano a terra e prendono a calci (a Rasht, 20 settembre). Si sentono ragazze urlare “vergogna, vergogna” agli agenti dei Basij (la milizia civile inquadrata nelle Guardie della Rivoluzione spesso usata per reprimere le proteste).

Manifestazioni particolarmente numerose sono avvenute nelle università di Tehran, sia nel campus centrale che al Politecnico. All’Università Azad è stato udito lo slogan “Uccideremo chi ha ucciso nostra sorella”. Anche negli atenei di altre città si segnalano proteste. Ovunque si sente gridare “la nostra pazienza è finita”, “libertà”, e spesso anche “a morte il dittatore”: lo slogan urlato a suo tempo contro lo shah Reza Pahlavi. A Tehran si sentiva “giustizia, libertà, hejjab facoltativo”, e “Mahsa è il nostro simbolo”.

La vicenda di Mahsa Amini: riformare la polizia morale?

La sorte di Mahsa Amini ha suscitato reazioni anche oltre le proteste di piazza. Il giorno del suo funerale, la foto della giovane sorridente e gli interrogativi sulla sua morte erano sulle prime pagine di numerosi quotidiani in Iran, di ispirazione riformista e non solo. Dure critiche alla “polizia morale” sono venute da esponenti riformisti e perfino vicine alla maggioranza conservatrice al governo. La morte di una donna in custodia di polizia non è giustificabile con nessun codice, e ha messo in imbarazzo il governo, a pochi giorni dall’intervento del presidente Ebrahim Raisì all’Assemblea generale dell’Onu.

Così il presidente Raisi in persona ha telefonato al signor Amini, per esprimere il suo cordoglio: «Come fosse mia figlia», gli ha detto, promettendo una indagine per chiarire fatti e responsabilità.

In effetti il ministero dell’interno ha ordinato un’inchiesta; così la magistratura e pure il Majles (il parlamento). Il capo della polizia morale, colonnello Mirzai, è stato sospeso in attesa di accertare i fatti, si leggeva il 19 settembre sul quotidiano “Hamshari (“Il cittadino”, di proprietà della municipalità di Tehran e considerato vicino a correnti riformiste). Perfino l’ayatollah Ali Khamenei, Leader supremo della Repubblica islamica, ha mandato un suo stretto collaboratore dalla famiglia Amini per esprimere “il suo grande dolore”: secondo l’agenzia stampa Tasnim (affiliata alle Guardie della Rivoluzione), l’inviato del leader ha detto che «tutte le istituzioni prenderanno misure per difendere i diritti che sono stati violati».

Per il momento però la polizia si attiene alla sua prima versione: Mahsa Amini avrebbe avuto un infarto mentre si trovava nella sala del commissariato, una morte dovuta a condizioni pregresse. Ha anche distribuito un video in cui si vede la ragazza che discute con una poliziotta, nella sala del commissariato, poi si accascia su sé stessa. Ma il video è chiaramente manipolato.

 

Sentito al telefono giovedì 22 settembre dalla Bbc, il signor Amini ha smentito che sua figlia avesse problemi di cuore. «Sono tutte bugie», ha detto, i referti medici sono pieni di menzogne, non ha potuto vedere il corpo della figlia né i filmati integrali di quelle ore; si è sentito rispondere che le body-cam degli agenti erano fuori uso perché scariche.

Le giovani donne fermate con Mahsa Amini – o Jina, il nome curdo noto agli amici – hanno raccontato invece che la giovane è stata colpita da violente manganellate nel cellulare che le trasferiva nello speciale commissariato dove alle donne fermate per “abbigliamento improprio” viene di solito impartita una lezione sulla moralità dei costumi islamici. Chi è passato attraverso quell’esperienza parla di umiliazioni verbali e spesso fisiche. Questa volta è andata molto peggio.

Prima di ripartire da New York, a margine del suo intervento ufficiale (in cui non ha fatto parola delle proteste in corso), il presidente iraniano Raisì ha tenuto una conferenza stampa per esprimere cordoglio e confermare di aver ordinato una indagine sulla morte della giovane Mahsa Amini.

Le promesse di indagini, le telefonate e le visite altolocate alla famiglia Amini non hanno certo calmato le proteste. Né hanno impedito che fossero represse con violenza.

Il bilancio è pesante. In diverse occasioni la polizia ha usato proiettili di metallo ad altezza d’uomo, secondo notizie raccolte da Amnesty International. Al 24 settembre la polizia ammette 35 morti ma circolano stime molto più alte, forse più di cinquanta, tra cui alcuni poliziotti. Dirigenti di polizia e magistrati ora parlano di “provocatori esterni”, nemici infiltrati. Martedì il capo della polizia del Kurdistan, brigadiere-generale Ali Azadi, ha attribuito la morte di tre dimostranti a imprecisati “gruppi ostili” perché, ha detto all’agenzia di stampa Tasnim, le armi usate non sono quelle di ordinanza delle forze di sicurezza. A Kermanshah, il procuratore capo ha dichiarato che due manifestanti morti il 21 settembre sono stati uccisi da “controrivoluzionari”.

Il governatore della provincia di Tehran, Mohsen Mansouri, ha detto che secondo notizie di intelligence, circa 1800 tra i dimostranti visti nella capitale «hanno preso parte a disordini in passato» e molti hanno «pesanti precedenti giudiziari». In un post su Twitter se la prende con l’attivo intervento di «servizi di intelligence e ambasciate stranieri».

Elementi ostili, infiltrati, facinorosi: ogni volta che l’Iran ha visto proteste di massa, la narrativa ufficiale ha additato “nemici esterni”. Al sesto giorno di proteste, i media ufficiali hanno cominciato a usare il termine “disordini”. Da mercoledì 21 settembre il servizio internet è soggetto a interruzioni; i social media sono stati bloccati “per motivi di sicurezza”. Da giovedì 22 è bloccato Instagram, ultimo social media ancora disponibile, e così anche WhatsApp. Nelle strade ormai si respira tensione: provocazioni da un lato, rabbia dall’altro.

Tutto questo sembra preludere a un intervento d’ordine più violento per mettere fine davvero alla protesta, ora che il presidente Raisi non è più sotto i riflettori a New York.

Mahsa Amini: una insofferenza collettiva

“La protesta avvolta nel velo di morte di Mahsa Amini”.

Restano però i veli bruciati nelle strade: come un gesto di insofferenza collettiva verso una delle prescrizioni simboliche fondamentali della Repubblica Islamica.

L’insofferenza in effetti è profonda. Nei cortei si vedevano giovani donne in chador e altre con i semplici soprabiti e foulard ormai più comuni, accomunate dalla protesta. Molti ormai in Iran considerano assurde e datate le prescrizioni sull’abbigliamento femminile, e ancor di più la “polizia morale”. Assurde le proibizioni sulla musica, sui colori, sui comportamenti personali. Solo pochi oltranzisti considerano normale che lo stato si permetta di dire alle famiglie come devono coprire le proprie figlie. Alcuni autorevoli ayatollah ripetono da tempo che l’obbligo del velo è insostenibile e datato.

Hassan Rohani, pragmatico e fautore di aperture politiche ma pur sempre un clerico ed esponente della nomenklatura rivoluzionaria, quando era presidente ironizzava sulla polizia morale che «vuole mandare tutti per forza in paradiso».

Il fatto è che l’abbigliamento femminile, come del resto ogni ambito della vita pubblica e della cultura, sono un terreno di battaglia politica in Iran. E l’avvento dell’ultraconservatore Raisi ha segnato un giro di vite. È stato il suo governo a proclamare il 12 luglio “giorno del hejjab e della castità”. Il presidente si è detto addolorato dalla morte di Mahsa Amini: ma è stato proprio lui a firmare, il 15 agosto, un decreto per ripristinare le corrette norme di abbigliamento islamico e prescrivere punizioni severe per chi viola il codice, sia in pubblico che online (è diventato comune mettere sui social media proprie foto a testa scoperta, video di persone che ballano, in aperta sfida alle prescrizioni ufficiali).

Sarà costretto a fare qualche marcia indietro? Ora diverse voci tornano a chiedere di abolire la cosiddetta “polizia morale”, che dipende dal ministero della “cultura e della guida islamica”, noto come Ershad.

Tanto che il ministro della cultura Mohammad Mehdi Esmaili, sulla difensiva, ha dichiarato che stava considerando di riformare la polizia morale già prima della morte di Amini: «Siamo consapevoli di molte critiche e problemi», ha detto.

Il vertice della repubblica islamica però dovrebbe ormai sapere che nella società iraniana la rabbia e la frustrazione sono profonde. Ed è già successo che proteste nate da un preciso episodio poi si allargano. L’Iran sta attraversando una crisi economica che ha impoverito anche le classi medie. Ogni rincaro dei generi alimentari o della benzina colpisce gli strati più modesti della società, e quindi il sistema di consenso che regge da quattro decenni le basi della Repubblica islamica. Soprattutto, i giovani iraniani non vedono un futuro. Si sentono soffocare. La rabbia è pronta a esplodere a ogni occasione. Non che sia una minaccia immediata, per il vertice politico: sono proteste spontanee, non ci sono forze organizzate che possano abbattere il sistema. Ma lo scollamento sociale cresce. Un sistema che tiene alla sua sopravvivenza dovrà tenerne conto.

 

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Dalla Perestrojka al Commonwealth in Africa https://ogzero.org/dalla-perestrojka-al-commonwealth-in-africa/ Sat, 17 Sep 2022 23:23:21 +0000 https://ogzero.org/?p=8921 Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche […]

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Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi

Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche di periodi storici rendono conto di un passaggio epocale, scandito simbolicamente dalla morte di due ultranovantenni protagonisti della politica degli anni Ottanta: Michail Sergeevič Gorbačëv ha incarnato la fine della Guerra Fredda – con tutto ciò che la sua archiviazione ha significato per la spartizione di tasselli sullo scacchiere internazionale che facevano rigidamente riferimento all’una o all’altra grande potenza. La contrapposizione per blocchi è apparentemente un modello di rapporti tra grandi potenze che torna a riconfigurarsi, e di cui dovremmo analizzare cosa può riproporsi e in quali modalità, considerando anche il progresso delle comunità da depredare a trent’anni dalla caduta del muro e dalla trasformazione dei regimi marxisti-leninisti sostenuti dall’Urss in Africa.
Elisabeth Windsor-Mountbatten è stata la più rigida conservatrice dell’impero britannico così come le era stato consegnato, opprimendo con brutalità (fin dall’inizio soffocando le richieste di emancipazione dei Mau-Mau in Kenya); la spasmodica attenzione dei media francesi per le sue esequie è una buona cartina al tornasole, perché evidenzia la sensazione dei regicidi francesi che i destini delle due ex potenze coloniali siano strettamente correlati, angosciando gli ancora tanti nostalgici della grandeur, ma anche galvanizzando gli anticolonialisti come “Mediapart”, che preconizzano che, dopo il bagno di folla ebete dei funerali «Con la morte della regina Elisabetta II, il velo di oblio o di cecità intenzionale che ha coperto la mente pubblica britannica sul suo passato imperiale e coloniale scomparirà. I dannati della memoria si alzeranno in piedi e parleranno». E dopo il processo indipendentista a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta – che ha richiesto la trasformazione dell’approccio e dei processi di occupazione di territori, il loro saccheggio e il condizionamento economico –, ora non è l’emancipazione delle comunità autoctone ma la ripresa dell’espansione di quel colonialismo russo nel Continente nero (che i processi di apertura di Nikita Sergeevič Chruščëv prima e poi di Gorbačëv avevano trasformato, ridimensionandolo) a premere sulle acciaccate potenze coloniali europee.
E di nuovo l’impegno di Mosca sorge nel momento in cui la tensione ha il sopravvento sul multilateralismo. Queste pulsioni, assimilabili alle esigenze che spingono la Realpolitik turca a espandere la propria sfera di influenza su alcuni angoli africani, aggiungono un elemento che configura il neoimperialismo, echeggiando altri momenti epocali in cui si è assistito a conflitti di blocchi contrapposti: neo-ottomanesimo e neozarismo possono sperare che la divisione europea ridimensioni l’egemonia occidentale, approfittando di una nuova Guerra Fredda da cui trae linfa l’espansionismo autocratico nella realtà africana.
Fin qui OGzero, ma questo sproloquio attinge alle suggestioni e ai dati esibiti da Angelo Ferrari nei suoi due originali obituary. E non a caso iniziamo dallo studio sul rilancio del Commonwealth (l’espressione imperiale britannica rivale di quella zarista e dei sultani) che paradossalmente ottiene nuovo slancio dalla morte della simbolica depositaria per 70 anni della potenza inglese, dacché era già sovrana – ingombrante figura difficile da adeguare alle istanze indipendentiste dell’impero senza modificarne l’icona (interessante come nell’articolo di Angelo non venga citata, ma aleggi il venir meno di una prassi pluridecennale caratteristica del suo lungo regno) – quando gli stati decolonizzati entrarono nell’organizzazione grazie alla Dichiarazione di Londra che riformava il vecchio Commonwealth con un compromesso costituzionale, proprio in quegli stessi primi anni Sessanta che costrinsero alla apertura con la prima parziale sospensione della Guerra Fredda.

Ora il Commonwealth rappresenta una valida alternativa per la cooperazione economica tendente a 2 trilioni di scambi. Per gli altri c’è l’“amicizia” predona della Wagner, che non chiede conto alle leadership cresciute militarmente a Rostov (o disposte a scommettere di restituire i prestiti ai cravattari cinesi), di certo non è l’epilogo immaginato dalla perestrojka africana.


Il Commonwealth sempre più africano

Londra sta intensificando la sua presenza nel continente africano attraverso rapporti bilaterali, vuole – è stata la promessa fatta da BoJo nell’ultimo vertice afro-britannico a Londra il 20 gennaio 2020 – incrementare i suoi investimenti ed espandere il suo mercato. Vuole diventare il maggior investitore sul continente africano e superare gli altri membri del G7 e stiamo parlando di Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Giappone e mettiamoci anche l’Italia.

Carta d’identità dell’organizzazione

Il Commonwealth è il più grande gruppo di nazioni che non coinvolge la Russia o la Cina e gli conferisce, sono parole della Truss, «un peso crescente sulla scena mondiale». Quanto può valere entrare nell’ormai grande famiglia? Secondo Patricia Scotland, segretario generale dell’organizzazione nata sulle ceneri dell’impero britannico e andata ormai oltre le ex colonie di Londra, già oggi il commercio tra i paesi membri vale 700 miliardi di dollari. Ma l’obiettivo, anche guardando gli ultimi ingressi, Togo e Gabon, è di superare i 2 trilioni di dollari entro il 2030.
Il Commonwealth è un’organizzazione che conta 56 nazioni per un totale di 2,5 miliardi di abitanti, con un Prodotto interno lordo che si prevede salirà a 19,5 trilioni di dollari nei prossimi cinque anni.


Il Gabon, che si affaccia sul Golfo di Guinea, ultimo arrivato nell’organizzazione è un paese con una superficie boscosa molto rilevante ed è destinato a svolgere un ruolo importante nel commercio dei crediti di carbonio per combattere il cambiamento climatico. E questo, per Londra, è un vantaggio non da poco.

Strategia in chiave anticinese

Londra vuole aprire le sue porte all’Africa e il Commonwealth (oggi conta 21 paesi africani: Sudafrica, Ghana, Nigeria, Sierra Leone, Uganda, Kenya, Malawi, Tanzania, Zambia, Gambia, Botswana, Lesotho, eSwatini, Seychelles, Namibia, Camerun, Mozambico, Nauru, Ruanda, Gabon, Togo) potrebbe diventare la chiave di volta. Ma non solo. Nelle strategie di Londra rientra anche il contrasto alla Cina e in Africa la sfida sembra quasi improba. Ciò era negli intenti dell’ex premier Boris Johnson, ma ribaditi dall’attuale prima ministra, Liz Truss, che è stata molto chiara.

Il Regno Unito deve aumentare l’interscambio commerciale con i paesi del Commonwealth per contrastare la «grave minaccia della Cina ai nostri valori e al nostro modo di vivere, e firmare accordi commerciali con procedure accelerate con gli stati così da aiutare il Regno Unito e altre democrazie a vincere la lotta contro gli stati autoritari».

Truss ritiene che legami economici più stretti aiuteranno ad annullare lo schema della Belt Road Initiative della Cina in base alla quale Pechino ha finanziato progetti in dozzine di paesi in via di sviluppo che si sono rivelati come una “coercizione economica”.

Per allargare il mercato cade la pregiudiziale democratica

Tutti vogliono entrare nel Commonwealth e Londra apre le porte a chiunque, rinunciando anche ai principi fondativi dell’organizzazione delle ex colonie britanniche. Non guarda se è un paese è democratico, se rispetta i diritti fondamentali delle persone. Tutto questo, dopo la Brexit, non conta. Londra sembra avere mani libere, tanto da accettare nell’organizzazione membri che non hanno legami storici con il Regno Unito. Contano gli investimenti e le potenzialità di mercato che offre chi entra nell’organizzazione.

«In passato alcuni paesi africani non avevano relazioni con i paesi del Pacifico o con i paesi anglofoni», ha spiegato il ministro degli Esteri del Gabon – ex colonia francese – Michael Moussa-Adamo, ma ora «ci stiamo allargando e stiamo ottenendo nuovi partner internazionali, rafforzando la nostra economia».

Dinastie africane nell’organizzazione della dinastia britannica

Dati gli obiettivi che si prefigge è evidente che qualsiasi stato è ben accetto. «Il Commonwealth – ha spiegato Scotland – ha iniziato con otto nazioni nel 1949, è cresciuta fino a raggiungere 56 nazioni. La nostra continua crescita, al di là della nostra storia, riflette i vantaggi dell’appartenenza al Commonwealth e la forza della nostra nazione. Sono entusiasta di vedere questi vivaci paesi unirsi alla famiglia e dedicarsi ai valori e alle aspirazioni della nostra Carta» (“360Mozambique”).

È del tutto evidente che la “Carta”, oggi, conta ben poco. Se l’organizzazione dovesse tenere fede ai suoi principi non potrebbe accettare nelle sue file paesi come il Gabon e il Togo che non hanno nulla a che fare con una democrazia moderna.
Il Gabon più che uno stato è una monarchia governata da sempre dalla dinastia dei Bongo Ondimba, padre e figlio, stiamo parlando di oltre cinquant’anni di regno (però i Windsor sono avvezzi a questo tipo di regime, ma proprio il Gabon può rappresentare un ponte tra gli imperi, visto che era in quota sovietica fino al crollo del Pcus). E anche il Togo non è da meno: l’attuale presidente, Faure Gnassingbé detiene il potere dal 2005, ma lo ha ereditato dal padre che lo gestiva in maniera dittatoriale dal colpo di stato del 1967.
Ma anche il Ruanda, che ha ospitato l’ultimo vertice del Commonwealth a fine giugno 2022, non sarebbe un paese “idoneo”, perché nelle sue carceri sono ancora detenuti oppositori, giornalisti indipendenti e youtuber critici con le autorità ruandesi.

Centro congressi di Kigali, sede della convention del Commonwealth 2022

Paul Kagame è presidente del Ruanda dal 1994 quando entrò a Kigali da trionfatore e liberatore, ha modificato la Costituzione così da permettergli di governare il paese fino al 2034. Per non parlare di un altro membro del Commonwealth, il Camerun. Il paese è “guidato” dal 1982 da Paul Biya, ma se aggiungiamo i sette anni da primo ministro, 1975-1982, è al potere da 47 anni.


Le aree di interesse evidenziate dalle citazioni di paesi aderenti alla sfera britannica, poste a confronto con quelle evocate dal mondo sovietico africano, mostrano una vera e propria spartizione tra i due imperialismi che non sovrapponevano i domini. Le incursioni russe e turche in Sahel, Centrafrica e Corno d’Africa entrano in diretta concorrenza soprattutto con l’imperialismo francese, quello più debole e impreparato, perché ancora troppo fondato sull’occupazione militare, ambito in cui i contractor russi e i miliziani turchi sono più efficaci su quel terreno.


Con la fine dell’Urss cambiarono i giochi di potere in Africa… erano solo sospesi?

Cosa ha comportato la scomparsa dell’Urss e quali le conseguenze per chi deteneva il potere? I regimi alleati del blocco orientale, per esempio, furono costretti a riformarsi o cadere.
L’opera intrapresa da Michail Gorbačëv di riforma del sistema sovietico negli anni Ottanta e di disgelo delle relazioni internazionali, cambiando radicalmente la situazione internazionale, ha avuto ripercussioni ed effetti importanti anche per il continente africano. La scomparsa dell’Urss dallo scacchiere africano ha costretto i regimi alleati del blocco orientale a riformarsi o cadere. Nella prima categoria, Angola e Mozambico sono stati costretti a entrare in processi di democratizzazione che hanno posto fine alle guerre civili, prima Maputo e poi Luanda.

Superamento del colonialismo lusitano

Frelimo/Renamo

In Mozambico il sostegno dell’Unione Sovietica si è rivelato fondamentale per la sopravvivenza del paese negli anni Ottanta del secolo scorso. Le spinte anticoloniali portarono i movimenti indipendentisti a coalizzarsi nel movimento armato Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico) e dopo dieci anni di guerriglia contro i coloni portoghesi, il paese ottiene l’indipendenza nel 1975. Iniziò una campagna di nazionalizzazione delle piantagioni e furono costruite scuole e ospedali per i contadini. Una rivoluzione di stampo sovietico. Il Frelimo sostenne le forze rivoluzionarie in Rhodesia e Sudafrica. I governi di questi paesi, appartenenti al blocco occidentale, risposero sostenendo i ribelli mozambicani della Renamo. Ne scaturì un’atroce guerra civile che terminò con gli accordi di pace di Roma del 1992 da cui nacque una nuova costituzione di stampo multipartitico. Il Frelimo, nelle elezioni libere tenute negli anni successivi si confermò sempre il primo partito del Mozambico.

Mpla/Unita

In Angola la situazione era abbastanza simile. Il Movimento per la liberazione dell’Angola, che lottò con determinazione contro i colonizzatori portoghesi, ottenendo l’indipendenza nel 1975, portò il paese nell’orbita sovietica e instaurò un regime totalitario. Di contro il blocco occidentale, per far valere i suoi interessi, sosteneva un gruppo di ribelli sotto il nome di Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola.
Da questo scontro iniziò una guerra civile durata oltre un ventennio al termine della quale vennero firmati gli accordi di pace che portarono alle prime elezioni nel 1992. Le ostilità, tuttavia, continuarono e terminarono solo dopo l’uccisione del leader dell’Unita, Jonas Savimbi, nel 2002. Il paese, dall’indipendenza è sempre stato governato dall’Mpla e l’Unita ha sempre svolto un ruolo di opposizione. Ma il padre della patria, Eduardo dos Santos, si è trasformato presto in un cleptocrate, governando il paese con pugno di ferro fino al 2017.

Il passaggio dalla geopolitica alla geoeconomia

In Mozambico e Angola i regimi, riformati, sono sopravvissuti, mentre in Etiopia, nel 1991, Menghistu, soprannominato il “Negus rosso”, viene estromesso dal potere.

Mandela/Mobutu

Proprio in quegli anni anche il Sudafrica è costretto a riformarsi ed è nel contesto della fine della Guerra Fredda che cade l’apartheid, che porta alle prime elezioni multirazziali del 1994 e la Namibia trova l’indipendenza. Anche gli interessi degli Stati Uniti per l’Africa cambiano di conseguenza, meno legati alla geopolitica e più all’economia. Il loro grande alleato nell’Africa centrale, Mobuto Sese Seko, dittatore dello Zaire, è costretto ad aprire il sistema politico e cedere, su pressione degli Stati Uniti, al multipartitismo. Soluzione che non porta alcun beneficio al paese, perché è sempre il dittatore che muove i fili, ma il paese crolla nel giro di pochi anni e si apre una fase di guerra permanente.

La perestroika africana

Benin, Congo, Mali, Niger…

Nel mondo francofono, sempre in quegli anni, soffia un vento di libertà. Era l’epoca delle Conferenze nazionali che avevano lo scopo di creare un clima democratico con la partecipazione di tutti. Il Benin fu il precursore nel 1990, il marxista Mathieu Keredoku fu sconfitto alle elezioni e si ritirò. Ma non andò così nella Repubblica del Congo, dove il presidente di allora, Denis Sassou Nguesso, continua a governare il paese. Fasi alterne vivono i paesi come il Mali, il Niger. Ma hanno una caratteristica comune: sono regimi poco democratici e accentratori del potere. La “perestrojka africana” che si poteva leggere tra le righe delle Conferenze nazionali non ha mai attecchito, anche se aveva suscitato molte speranze nelle popolazioni di questi paesi.

Rimane, tuttavia, il fatto che Gorbačëv si era adoperato per porre fine al mondo bipolare in cui l’Africa era alla mercè del gioco strategico di Washington e Mosca.

Secondo lo scrittore Vladimir Fedorovski, molto vicino all’ultimo leader sovietico, ai paesi africani mancherà il suo messaggio a favore di un mondo equilibrato: «Aveva un grande rispetto per il continente africano, che considerava il continente del futuro. Gorbačëv diceva che bisognava tener conto degli interessi delle diverse nazioni e trovare equilibri, e anche e forse essere prima di tutto africani. Sprecheremo somme da capogiro per la guerra, dimenticando che l’Africa è minacciata dalla carestia».

I primi a dimenticarsi delle parole di Gorbačëv sono stati proprio quei presidenti africani che si ispiravano all’Unione Sovietica. La Guerra Fredda non c’era più, ma le contrapposizioni rimangono e diventano sempre più complesse. Da una parte il mondo occidentale che cerca di frenare le aspirazioni di Mosca che, piano piano, sta rosicchiando pezzi di influenza occidentale. Il messaggio di Gorbačëv vale ancora oggi.

Dal 24 al 27 luglio, il ministro degli Esteri della Federazione russa, Sergej Lavrov, ha visitato quattro stati africani: Egitto, Repubblica del Congo, Uganda ed Etiopia. Non ha parlato di progetti o interventi. La sua missione era chiedere agli africani di schierarsi con la Russia contro l’Occidente, con un unico argomento: l’Occidente ha un passato coloniale e ha tuttora delle mire coloniali e imperiali.

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Man made disasters: Floods in Pakistan https://ogzero.org/man-made-disasters-floods-in-pakistan/ Fri, 16 Sep 2022 00:52:07 +0000 https://ogzero.org/?p=8884 Abbiamo ricevuto da Masha Hassan un interessante punto di vista sul Pakistan nel momento in cui l’economia di Islamabad è sull’orlo della bancarotta e il Balochistan è stato devastato da alluvioni. Preferiamo proporlo nella sua lingua originale (trovate comunque la traduzione in calce), premettendo un abstract riassuntivo senz’altro riduttivo rispetto alla rotonda prosa che ci […]

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Abbiamo ricevuto da Masha Hassan un interessante punto di vista sul Pakistan nel momento in cui l’economia di Islamabad è sull’orlo della bancarotta e il Balochistan è stato devastato da alluvioni. Preferiamo proporlo nella sua lingua originale (trovate comunque la traduzione in calce), premettendo un abstract riassuntivo senz’altro riduttivo rispetto alla rotonda prosa che ci riconduce in spazi ridotti dalla gentrificazione e che prende spunto dalla vulnerabilità della nazione pakistana ai cambiamenti climatici; un aspetto che ha agevolato il disastro originato da monsoni e scioglimento di ghiacciai. Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, ma l’insostenibilità ambientale dei marchi pakistani di prodotti tessili andrebbe perseguita già solo perché sposta le emissioni occidentali in territorio pakistano e i danni irreparabili di questo disastro ambientale ricadono sulle case dei lavoratori schiavizzati del Balochistan, spazzate via, mentre le aziende – per nulla “sostenibili” – non vengono scalfite dalla furia delle acque. Nell’articolo si accenna alla rivendicazione diffusa nei paesi dell’area che non hanno partecipato al benessere derivante dalla debacle ambientale, ma ne subiscono pesantemente gli effetti: il nome per identificare questo stato è “apartheid climatica”, visto il paragone con le emissioni dell’esercito statunitense.
Ma le cause del disastro sono anche interne, visto il crollo di 12 dighe in Balochistan per l’uso di materie prime scadenti per la corruzione endemica negata dal governo provinciale, mentre l’approccio dovrebbe rifiutare l’idea di naturalezza dei disastri perché in realtà sono causati da processi sociali antropici che evidenziano la sproporzione nella spartizione delle risorse (di tradizione coloniale britannica) e l’assenza di infrastrutture pubbliche (causata dal collaborazionismo dei potentati locali, comprati con assegnazioni di terre irrigue), con il corollario di proprietari terrieri in solidi complessi abitativi e contadini che vivono in case di fango spazzate dalle inondazioni. Così si esprime Shozab Raza, ricercatore che ricorda come fin dai primi anni dello stato pakistano le dighe abbiano rappresentato la deportazione e la miseria di migliaia di persone; e già nel 2010 questo ha provocato le alluvioni. Il prossimo disastro è annunciato dal Corridoio economico sino-pachistano, una trappola del debito sul modello di quello che ha strozzato lo Sri-Lanka nell’esposizione con la Cina.
Un aspetto che non si considera mai a sufficienza dei disastri ambientali è quello di genere, perché le strutture sanitarie fuori uso per il cataclisma rendono ancora più complesso portare a termine una gravidanza e il disinteresse per i servizi sanitari ginecologici sono un’ulteriore prova di quanto l’atteggiamento patriarcale finisca con il rendere più vulnerabili minoranze sessuali, di genere, o le puerpere.

La dichiarazione d’intenti nell’epilogo dell’articolo è totalmente condivisibile: «Ciò che serve ora è una radicale decolonizzazione delle scienze della sostenibilità, una decrescita per i paesi occidentali, un piano d’azione per un sistema energetico decarbonizzato e, soprattutto, una decostruzione della femminilizzazione negativa della terra antropomorfizzata».


  • Pakistan’s climate change vulnerability: colonialism to blame

 

  • In the midst of celebrating rivalries between India and Pakistan’s cricket match, where both the countries were busy trolling each other on social media or bursting fireworks in their backyards, in other news, a third of Pakistan was under water.

Often referred to as the Third Pole, containing around 7200 glaciers, that is more glacial ice than anywhere else in the world outside of the polar-region, the Global Climate Index in its annual report of 2020 placed Pakistan on the fifth spot on the list of countries being most vulnerable to climate change. As this vulnerability increases with a considerably high rate of warming, Pakistan faced an extreme heat wave this summer. While climate analysts are unsure if torrential monsoon rains or accelerating of the melting of glaciers is the cause of these disastrous flooding but they are certain of the fact that climate crisis is a global responsibility.

 

Compared to the floods of 2010, this year’s damage is 4 times more. With 50 million people being affected and more than 1100 killed, around 90% of farmland has been flushed away hitting Pakistan’s major agricultural productions i.e. cotton and rice. The country being the fifth largest producer of cotton and fourth largest producer of rice, the impact of this loss will definitely be global. In 2021 Pakistan exported cotton worth $3.4 billion i.e. 6% of the global supply meaning that they fed the so called ‘sustainable’ cotton requirements of brands such as H&M, Zara and Gap.

Pakistan

September 13, 2012 Over 250 workers perished in the fire at a garment factory in Baldia

Climate change and slavery

Acknowledging the fact that there is nothing sustainable about these brands as their industry not only outsources western emissions (causing politicians such as Donald Trump and Peter Mackey playing the blame game by pointing fingers towards the population divide in the global south) it is also tightly linked to modern slavery, continuing to profit through labor exploitation with the deception of corporate greenwashing. The manufacturing industries remain intact whereas the irreparable damages of homes and livelihoods of the workers in Pakistan that have been washed away will fall only on to its shoulders.
In an article published by “the thirdpole”, Pakistan’s climate minister Sherry Rehman stated that the country “would press hard for big polluters to pay up at the annual UN climate summit in Egypt this November”. The country that is suffering from  ‘climate apartheid’, has less than 1% of carbon emissions but is disproportionately bearing the brunt of what wealthy nations have caused. We shouldn’t shy away from mentioning the less spoken role of the U.S military’s carbon boot print that is said to be as big as 140 countries. Remember two decades ago how the Bush administration unhesitatingly denied climate change that is caused due to human activity! The Biden presidency is no better. Although the U.S has rejoined the Paris agreement with a claim for a decarbonization push, it still avoids imposing limits in order to cut emissions produced by their department of defence.
The loss and damage is a contentious debate for the developed countries who have a historical responsibility since the time of the industrial revolution such as the UK and they remain worried regarding climate litigations and negotiations in terms of compensation and liability, for example the historic climate litigation between Luciano Lliuya v. RWE AG. Saúl Luciano Lliuya who is a farmer from Peru has sued the German energy company called RWE AG to pay for the damages for the floods that took place in his hometown in Huaraz. This lawsuit could be a landmark and a game changer, opening doors for many to sue against world’s largest polluters.

Lake Palcacocha in 2014. Siphons were installed in the glacial lake to lower the water level. Photo: Cooperación Suiza COSUDE/ via Flickr CC

Climate change and corruption

Sherry Rehman rightly called out the wealthy nations asking for reparations, however, international assistance is not the only solution for avoiding a climate catastrophe of this magnitude.

A ground level interview with The New Humanitarian reveals how in the southwestern province of Balochistan 12 dams broke. The provincial government’s response was a denial of corruption in sub standard construction of these Dams whereas local narratives explain otherwise that often water is released through irrigation canals that are not well constructed. The Pakistani elite as well as the provincial ministers are hiding behind the monsoon rains and the water overflow by calling it ‘natural disasters’, indirectly implying its inevitability and brushing off their responsibility by leaving us at the usual mercy of God. Many Risk mitigation scholars for decades have asked to give up the very phrase “natural disaster”,

Ilan Kelman from the Institute for Risk and Disaster Reduction at University of College London says “natural disasters do not exist”: «Disasters are caused by society and societal processes, forming and perpetuating vulnerabilities through activities, attitudes, behaviour, decisions, paradigms, and values».

These societal processes are undeniably anthropic posing questions such as; why there is a disproportionate division of resource? Why are people compelled to live on areas prone to climate disasters? Who is responsible for the approval or rejection of building codes and most importantly how much money is allotted and how much is actually used up to build public infrastructures?

The fault of British imperialism…

In Pakistan, this disproportionality has a close relationship to  Britain’s imperialist extractive legacy, resulting in economic and social invisibilisation of regions such as Balochistan that lies on the periphery. The alliances built during the 19th century between the British aristocrats and local elites collaborated together, mutually profiting through feudalism, pillaging and exploitation of these regions leaving the future generation with its after effects.

… responsibility of Pakistani notables…

Shozab Raza, writer and researcher, explains that the loyalty of tribal chiefs was bought by the British through allotting them huge amounts of land estates in irrigated areas. He further explains how the disparities grew between the peasant and the landlords resulting in unequal housing ownership. Peasants were forced to live in mud houses becoming vulnerable to the disasters of flooding whereas the landlords ended up constructing strong luxurious housing compounds for themselves on these land estates. In this neoliberal era, feudal societies and mutually benefitting extraction practices and extortion exists till date.
Raza further points out how after the 1950s the local elite politicians teaming up with international firms organized several hydropower and irrigation infrastructures such as the construction of the Taunsa Barrage leading to the displacement of thousands. Its faulty construction is said to play a significant role in the 2010 floods.

Pakistan

… and chinese Trap

Another such project that will dry up Pakistan is the China-Pakistan Economic Corridor (CPEC), the country that is already drowning in a debt crises with the IMF prior to these floods, with the CPEC that lacks transparency, they might end up(or probably already have) falling into a similar ‘debt trap’ that of Sri Lanka with the upcoming imperial power of China.

Man made disasters and Patriarchy

Around 8.2 million women are affected in this year’s floods where 650,000 are pregnant women and 73,000 are expected to deliver next month. Estimated 1,000 health care infrastructures are damaged. In the flood affected areas of Balochistan 198 health care structures are destroyed, and damaged bridges and roads is a logistical hindrance to gain access to health facilities. In Pakistan where there is a great stigma and taboo attached to menstruation, in many affected areas of Balochistan, Sindh and Southern Punjab menstruation materials were left out from donation lists of many foundations on the claim that it is a ‘luxury item’.  Inadequate supply of menstruation materials will create a high risk of urogenital infections like vaginosis and UTIs (urinary tract infections).  This disregard of health care infrastructures, toilets, feminine hygiene, menstruation relief and maternal health care services is a proof of how patriarchy and climate change are intrinsically intertwined. Perils of climate catastrophe are gendered which means that it amplifies social instability by disproportionately impacting the already marginalized and vulnerable people in the social ladder. Sexual and gendered minorities who lived inside a certain gendered space are now forced to move from a private to public domain, making them vulnerable to violence, harassment and sexual abuse inside flood relief camps.

As says Tithi Battacharya  “Against this explicitly anti-solidaristic policies of state and capital, feminists, now more than ever, need to rescue a solidarity that is as anti-capitalist as it is openly confrontational with capital. In the current moment of escalating social inequalities and the climate emergency we should realize how deeply imbricated are our fates with that of others.  And as wars and pandemics rip through the world, we need to re-animate a politics of recuperative hospitality, where the fate of our most vulnerable is only the vision of our own future”

As international funds very slowly pour in, there has been a call to cancel Pakistan’s international debt with the International Monetary Fund (IMF) and can prove to be an important step to avoid the further worsening of the economic crisis. Simultaneously asking for accountability from the disaster management and their lack of preparation in anticipatory action and prioritizing grassroots narratives by making them equal stakeholders in policy-making and resource management can be effective measures. What is required now is a radical decolonization of sustainability sciences, degrowth for Western countries, an action plan for a decarbonized energy system and most importantly a deconstruction of the negative feminization of the very anthropomorphized earth.

La vulnerabilità pakistana al cambiamento climatico: colonialismo alla sbarra

  • Pakistan

    2022 Pakistan Floods – August 27, 2021 vs. August 27, 2022 in Sindh Source: https://worldview.earthdata.nasa.gov/ Corrected Reflectance (Bands 7-2-1) Aqua / MODIS

  • Nel bel mezzo dei festeggiamenti per la partita di cricket tra India e Pakistan, in cui entrambi i paesi erano impegnati a trollarsi a vicenda sui social media o a far scoppiare fuochi d’artificio nei loro cortili, in altri servizi giornalistici, un terzo del Pakistan si trovava sott’acqua.

Spesso indicato come il Terzo Polo, che contiene circa 7200 ghiacciai, cioè più area glaciale di qualsiasi altra parte del mondo al di fuori della regione polare, il Global Climate Index nel suo rapporto annuale del 2020 ha collocato il Pakistan al quinto posto nella lista dei paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici. Poiché questa predisposizione aumenta con un tasso di riscaldamento considerevolmente elevato, quest’estate il Pakistan ha dovuto affrontare un’ondata di caldo estremo. Gli analisti climatici non sanno se le piogge torrenziali dei monsoni o l’accelerazione dello scioglimento dei ghiacciai siano la causa di queste disastrose inondazioni, ma sono certi che la crisi climatica sia una responsabilità globale.

Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo il paese il quinto produttore di cotone e il quarto di riso, l’impatto di questa perdita sarà sicuramente globale. Nel 2021 il Pakistan ha esportato cotone per un valore di 3,4 miliardi di dollari, pari al 6% dell’offerta globale, il che significa che ha alimentato il cosiddetto fabbisogno di cotone “sostenibile” di marchi come H&M, Zara e Gap.

Cambiamento climatico e schiavitù

Riconoscendo il fatto che non c’è nulla di sostenibile in questi marchi, poiché la loro industria non solo esternalizza le emissioni occidentali (facendo sì che politici come Donald Trump e Peter Mackey colpevolizzino il Sud del mondo per il divario demografico), ma è anche strettamente legata alla schiavitù moderna, continuando a trarre profitto attraverso lo sfruttamento del lavoro con l’inganno del greenwashing aziendale. Le industrie manifatturiere rimangono intatte, mentre i danni irreparabili alle case e ai mezzi di sussistenza dei lavoratori pakistani che sono stati spazzati via ricadranno solo sulle loro spalle

In un articolo pubblicato dal Terzo Polo, il ministro pakistano per il clima Sherry Rehman ha dichiarato che il paese «eserciterà forti pressioni affinché i grandi inquinatori paghino al vertice annuale delle Nazioni Unite sul clima che si terrà in Egitto a novembre». Il paese che soffre di “apartheid climatica”, ha meno dell’1% delle emissioni di carbonio ma sta sopportando in modo sproporzionato il peso di ciò che le nazioni ricche hanno causato. Non ci si può esimere a questo proposito dal menzionare il ruolo meno esposto dell’impatto di emissioni di carbonio dell’esercito statunitense, che si dice sia pari a quella di 140 Paesi. Ricordiamo che due decenni fa l’amministrazione Bush negava senza esitazione il cambiamento climatico dovuto all’attività umana! La presidenza Biden non è migliore. Sebbene gli Stati Uniti abbiano aderito all’accordo di Parigi con la richiesta di una spinta alla decarbonizzazione, continuano a evitare di imporre limiti per ridurre le emissioni prodotte dal loro dipartimento della difesa

Le perdite e i danni sono un dibattito controverso per i paesi sviluppati che hanno una responsabilità storica fin dai tempi della rivoluzione industriale, come il Regno Unito, e che continuano a essere preoccupati per le controversie e i negoziati sul clima in termini di risarcimento e responsabilità, come per esempio la storica controversia sul clima tra Luciano Lliuya e RWE AG. Saúl Luciano Lliuya, un agricoltore peruviano, ha citato in giudizio la società energetica tedesca RWE AG per il risarcimento dei danni causati dalle inondazioni che hanno colpito la sua città natale, Huaraz. Questa causa potrebbe essere un punto di riferimento e cambiare le carte in tavola, aprendo a molti la possibilità di fare causa ai maggiori inquinatori del mondo.

Cambiamento climatico e corruzione

Sherry Rehman ha giustamente richiamato le nazioni ricche che chiedono risarcimenti, ma l’assistenza internazionale non è l’unica soluzione per evitare una catastrofe climatica di questa portata.

Un’intervista sul campo con “The New Humanitarian” rivela che nella provincia sudoccidentale del Balochistan sono crollate 12 dighe. La risposta del governo provinciale è stata la negazione della corruzione nella costruzione di queste dighe al di sotto degli standard, mentre le narrazioni locali spiegano invece come spesso l’acqua viene rilasciata attraverso canali di irrigazione non ben costruiti. L’élite pakistana e i ministri provinciali si nascondono dietro le piogge monsoniche e gli straripamenti d’acqua chiamandoli “disastri naturali”, sottintendendo indirettamente la loro inevitabilità e scansando le loro responsabilità affidandosi alla solita misericordia di Dio. Molti studiosi del contenimento del rischio da decenni chiedono di abbandonare l’espressione stessa di “disastro naturale”.

Ilan Kelman dell’Istituto per la riduzione dei rischi e dei disastri dell’Università del College di Londra afferma che «i disastri naturali non esistono: I disastri sono causati dalla società e dai processi sociali, che formano e perpetuano le vulnerabilità attraverso attività, atteggiamenti, comportamenti, decisioni, paradigmi e valori».

Questi processi sociali sono innegabilmente antropici e pongono alcune domande come per esempio: perché c’è una divisione sproporzionata delle risorse? Perché le persone sono costrette a vivere in aree soggette a disastri climatici? Chi è responsabile dell’approvazione o del rifiuto delle norme edilizie e, soprattutto, quanto denaro viene stanziato e quanto viene effettivamente utilizzato per costruire infrastrutture pubbliche?

La colpa dell’imperialismo britannico…

In Pakistan questa sproporzione ha una stretta relazione con l’eredità estrattiva imperialista della Gran Bretagna, che ha portato all’invisibilizzazione economica e sociale di regioni come il Balochistan, che si trova alla periferia. Le alleanze costruite durante il Diciannovesimo secolo tra gli aristocratici britannici e le élite locali hanno collaborato strettamente, traendo reciproco profitto attraverso il feudalesimo, il saccheggio e lo sfruttamento di queste regioni, lasciando alle prossime generazioni tutti gli effetti collaterali.

… responsabilità dei notabili pakistani…

Shozab Raza, scrittore e ricercatore, spiega che la lealtà dei capi tribali fu comprata dagli inglesi attraverso l’assegnazione di enormi quantità di proprietà terriere in aree irrigue. Spiega inoltre come siano cresciute le disparità tra i contadini e i proprietari terrieri, con conseguenti disuguaglianze nella proprietà degli alloggi. I contadini furono costretti a vivere in case di fango, diventando così vulnerabili ai disastri delle inondazioni, mentre i proprietari terrieri finirono per costruire per loro stessi forti e lussuosi complessi abitativi in queste proprietà terriere. In quest’epoca neoliberale, le società feudali e le pratiche di estrazione ed estorsione a reciproco vantaggio permangono invariate ancora oggi. Raza sottolinea inoltre come, dopo gli anni Cinquanta, l’élite politica locale, in collaborazione con imprese internazionali, abbia organizzato diverse infrastrutture idroelettriche e di irrigazione, come la costruzione dello sbarramento di Taunsa, che ha portato alla deportazione di migliaia di persone. Si dice che la sua costruzione difettosa abbia giocato un ruolo significativo nelle alluvioni del 2010.

… e trappola cinese

Un altro progetto di questo tipo che prosciugherà il Pakistan è il Corridoio economico Cina-Pakistan (Cpec), il paese – che stava già affogando in una crisi del debito con il Fmi prima di queste inondazioni – con il Cpec, che manca di trasparenza, potrebbe finire (o probabilmente è già caduto) in una “trappola del debito” simile a quella dello Sri Lanka con l’immanente potenza imperiale della Cina.

Disastri ascrivibili all’uomo in generale e al patriarcato in particolare

Circa 8,2 milioni di donne sono state colpite dalle inondazioni di quest’anno, di cui 650.000 sono incinta e 73.000 dovrebbero partorire il mese prossimo. Si stima che 1000 infrastrutture sanitarie siano state danneggiate. Nelle aree colpite dalle inondazioni del Balochistan 198 strutture sanitarie sono state distrutte e i ponti e le strade danneggiati rappresentano un ostacolo logistico per accedere alle strutture sanitarie. In Pakistan, dove c’è un grande stigma e tabù legato alle mestruazioni, in molte aree colpite del Balochistan, del Sindh e del Punjab meridionale il materiale mestruale è stato escluso dalle liste di donazione di molte fondazioni, sostenendo che si tratta di un “bene di lusso”.  L’inadeguata fornitura di supporti ginecologici comporta un alto rischio di infezioni urogenitali, come vaginosi e UTI (infezioni del tratto urinario).  Questo disinteresse per le infrastrutture sanitarie, per i servizi igienici, per l’igiene femminile, per le mestruazioni e per i servizi di assistenza sanitaria materna è una prova di come il patriarcato e il cambiamento climatico siano intrinsecamente intrecciati. I pericoli delle catastrofi climatiche sono “di genere”, il che significa che amplificano l’instabilità sociale colpendo in modo sproporzionato le persone già emarginate e vulnerabili nella scala sociale. Le minoranze sessuali e di genere che vivevano all’interno di un certo spazio di genere sono ora costrette a spostarsi da un ambito privato a uno pubblico, rendendole vulnerabili alla violenza, alle molestie e agli abusi sessuali all’interno dei campi di soccorso per le alluvioni.

Come afferma Tithi Battacharya: «Contro queste politiche esplicitamente antisolidaristiche dello stato e del capitale, le femministe, ora più che mai, devono salvare una solidarietà che sia tanto anticapitalista quanto apertamente conflittuale con il capitale. Nell’attuale momento di escalation delle disuguaglianze sociali e di emergenza climatica, dobbiamo renderci conto di quanto i nostri destini siano profondamente intrecciati con quelli degli altri.  E mentre guerre e pandemie dilaniano il mondo, dobbiamo rianimare una politica di ospitalità recuperativa, in cui il destino dei più vulnerabili sia solo la visione del nostro futuro» (“Transnational Strike”).

Mentre i fondi internazionali arrivano molto lentamente, è stato chiesto di cancellare il debito internazionale del Pakistan con il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e può rivelarsi un passo importante per evitare un ulteriore peggioramento della crisi economica. Chiedere contemporaneamente la responsabilità della gestione delle catastrofi e la loro mancanza di preparazione nell’azione preventiva e dare priorità alle narrazioni della base, rendendole parti interessate a pieno titolo nella definizione delle politiche e nella gestione delle risorse, possono essere misure efficaci. Ciò che serve ora è una radicale decolonizzazione delle scienze della sostenibilità, una decrescita per i paesi occidentali, un piano d’azione per un sistema energetico decarbonizzato e, soprattutto, una decostruzione della femminilizzazione negativa della terra antropomorfizzata.

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Ucraina. Chiavi di lettura dal Latinoamerica https://ogzero.org/ucraina-chiavi-di-lettura-dal-latinoamerica/ Sun, 04 Sep 2022 00:00:38 +0000 https://ogzero.org/?p=8732 Senza attrarre la doverosa attenzione internazionale i giganti del Latinoamerica sono stati teatro di alcuni episodi e appuntamenti inconsueti tra fine agosto e inizio settembre, inquietanti ma forse il continente stesso ci può dotare di chiavi geopolitiche di lettura per spiegare i rivolgimenti derivanti dalla lenta distribuzione degli schieramenti entro cui vanno configurandosi i due […]

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Senza attrarre la doverosa attenzione internazionale i giganti del Latinoamerica sono stati teatro di alcuni episodi e appuntamenti inconsueti tra fine agosto e inizio settembre, inquietanti ma forse il continente stesso ci può dotare di chiavi geopolitiche di lettura per spiegare i rivolgimenti derivanti dalla lenta distribuzione degli schieramenti entro cui vanno configurandosi i due fronti destinati a contrapporsi in ogni ambito del conflitto globale, che i traffici di armi dimostrano essere realmente tale, visto che il mondo partecipa alla corsa al riarmo… per poi andare a definire le sfere di influenza in punta di baionetta.

Avevamo chiesto a Diego Battistessa questo sguardo dall’altro lato dell’Atlantico sulle conseguenze del conflitto in Ucraina prima che venisse alla luce lo sventato golpe militare in Brasile – preventivo, orchestrato negli ambienti fascisti vicini al presidente in carica – volto a contrastare la probabile vittoria di Lula alle elezioni di ottobre; e non era ancora avvenuto il fallito attentato a Cristina Kirchner in Argentina; e nemmeno si era svolto il referendum sulla Costituzione cilena che doveva scardinare il lascito di Pinochet. Ma forse anche questi avvenimenti, dopo aver letto questa ricostruzione ragionata degli eventi collegabili al mondo latinoamericano, possono venire letti con lo scopo di schierare il Cono Sur – o sue parti –, da un lato o dall’altro.

OGzero


Sei mesi di guerra in Ucraina

Chiavi di lettura dell’approccio sudamericano

A sei mesi dall’invasione russa dell’Ucraina, oltre al tragico costo umano della guerra, molti degli equilibri geopolitici e geoeconomici sono stati scossi, ridisegnando una nuova normalità fatta di impennate dell’inflazione, costi esorbitanti dell’energia, nuove alleanze politiche e movimenti nello scacchiere mondiale. Cosa è successo in America Latina e nei Caraibi in questi sei mesi e come hanno reagito i leader politici del subcontinente latinoamericano di fronte all’attacco di Putin all’integrità dell’Ucraina? Ecco qui una dettagliata cronistoria che ci porta passo dopo passo a creare un mosaico fatto di molte sfumature e paesaggi ancora in definizione.

Febbraio – Marzo

Il movimento tellurico avvenuto dentro la comunità internazionale subito dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio 2022 ha portato decine di paesi e organismi multilaterali a condannare immediatamente e con veemenza quanto stava accadendo.

Prime scelte di campo

Un primo grande passo è stato quello preso dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu che in una risoluzione del 25 febbraio ha provato a fermare sul nascere l’invasione. Dobbiamo qui ricordare che il Consiglio di Sicurezza è uno degli organi principali dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ed è composto di 15 membri, di cui 5 permanenti (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti d’America) e 10 eletti ogni due anni dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. I 5 membri permanenti sono i vincitori della Seconda guerra mondiale e su ogni votazione hanno la possibilità di veto: veto che annulla di fatto le conseguenze della votazione. In questo caso era già previsto che la Russia avrebbe posto il veto alla mozione, impedendo all’Onu di poter prendere in considerazione misure militari di dissuasione contro l’esercito di Putin. Interessante però, per ciò che ci riguarda in questo articolo, è il comportamento degli altri 14 membri, in particolare di Messico e Brasile che siedono come membri “transitori” per questo periodo. Dei 15 aventi diritto al voto, 11 hanno votato a favore della risoluzione che imponeva alla Russia di fermare l’offensiva, ritirare completamente e incondizionatamente le sue truppe dai confini internazionalmente riconosciuti e astenersi da qualsiasi nuova minaccia e uso illegale della forza contro qualsiasi stato che faccia parte delle Nazioni Unite. Tra questi stati firmatari troviamo proprio Messico e Brasile. La Russia come detto ha posto il veto alla risoluzione, di fatto annullandola, mentre si sono astenute Cina, India e gli Emirati Arabi.

In questo caso dunque l’America Latina, rappresentata da Messico e Brasile ha fatto parte del coro di voci che condannavano l’invasione in Ucraina ma la questione era tutt’altro che priva di sfumature, perché solo poche ore dopo l’inizio delle ostilità, è arrivata la notizia ufficiale di un comunicato da parte della Oea (Organizzazione degli Stati Americani), che in una sessione straordinaria esprimeva una dura condanna verso un’invasione definita «illegale, ingiustificata e non provocata», chiedendo «l’immediato ritiro della presenza militare russa» dall’Ucraina. Se però andiamo a leggere i firmatari di tale documento scopriamo che hanno ratificato la “condanna” dell’Oea: Antigua e Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Giamaica, Granada, Guatemala, Guyana, Haiti, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Perù, Repubblica Domenicana, Suriname, Trinidad e Tobago, Usa e Venezuela (quest’ultimo rappresentato da un delegato del leader dell’opposizione Juan Guaidó dopo l’uscita dall’organismo multilaterale del governo di Nicolás Maduro nel 2019). Leggendo questi nomi scopriamo delle assenze di prim’ordine come Argentina, Brasile, Uruguay, Bolivia e Nicaragua. (Da ricordare che Cuba fu espulsa dalla Oea nel 1962).

2 marzo 2022

A sei giorni dall’inizio dell’invasione russa in territorio ucraino, l’Assemblea Generale dell’Onu emette una risoluzione che condanna le azioni dell’esercito di Putin. Si tratta di una risoluzione che non ha carattere vincolante e che viene appoggiata da 141 dei 193 Stati che siedono nell’Assemblea. Dei 52 restanti, ben 12 decidono di non partecipare alla votazione (tra questi il Venezuela di Maduro) e solo 5 votano contro: Bielorussia, Corea del Nord, Eritrea, Russia e Siria. Le astensioni sono 35 e tra queste si trovano Bolivia, Cuba, Nicaragua e il Salvador. Insomma, la settimana dopo l’inizio della guerra, l’America Latina mostra una netta divisione tra il gruppo dell’antimperialismo statunitense sorretto dall’asse La Avana – Caracas ed esteso a Managua e La Paz, con l’aggiunta del Salvador guidato da Nayib Bukele (sempre più solo per le sue politiche quantomeno discutibili in termini di libertà e democrazia) e il resto del subcontinente che condanna ufficialmente l’invasione. Una divisione comprensibile se vista dall’alto delle relazioni diplomatiche, economiche e di supporto militare che la Russia ha fornito negli ultimi anni in particolare a tre paesi latinoamericani sempre più isolati dalla comunità internazionale occidentale, quali sono Cuba, Nicaragua e Venezuela.

Figura 1 – Dettaglio voto del 2 marzo 2022

La risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu viene in soccorso a una tergiversazione che come abbiamo visto in precedenza aveva caratterizzato buona parte delle cancellerie latinoamericane tra il 24 e il 25 febbraio, a poche ora dalla notizia che le truppe russe erano entrate in territorio ucraino. Nel mio articolo del 25 febbraio comparso su “Il Fatto Quotidiano” davo appunto conto da San Paolo in Brasile, di come la regione latinoamericana stava reagendo alle ferali notizie che arrivavano dall’Est europeo. I portavoce di Bolivia, Messico e Perù non avevano condannato esplicitamente l’invasione, chiedendo piuttosto l’apertura immediata di un dialogo. Cuba, Nicaragua e Venezuela, paesi notoriamente vicini alle politiche di Mosca, si erano preoccupate fin da subito invece di difendere l’azione militare di Putin anche se con un tenore diverso a seconda dei casi.

Il più veemente era stato Nicolás Maduro, che in un messaggio del 24 febbraio aveva dichiarato: «Cosa si aspetta il mondo? Che il presidente Putin se ne stia con le braccia incrociate e non agisca in difesa del suo popolo?».

Nel discorso non sono poi mancate le accuse alla Nato e all’imperialismo statunitense, additati come principali responsabili di quanto sta succedendo. Daniel Ortega dal Nicaragua aveva difeso il riconoscimento della repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk condannando con forza l’applicazione di sanzioni economiche contro la Russia. Toni diversi da Cuba, dove proprio mentre Putin lanciava il suo attacco all’Ucraina (la sera di mercoledì 23 febbraio in America Latina) il presidente cubano Miguel Diaz-Canel era riunito con Viacheslav Volodin, il presidente della Duma russa (il parlamento russo). Diaz-Canel aveva espresso la sua solidarietà alla Federazione Russa di fronte all’imposizione di sanzioni e all’allargamento della Nato verso i suoi confini, evitando però di fare riferimento all’incursione militare russa in Ucraina. Dall’altro lato, forti invece erano giunte le condanne da parte di Cile, Ecuador, Uruguay, Paraguay, Colombia e del Caricom (la comunità caraibica, organizzazione internazionale che riunisce 15 membri con pieno diritto, oltre a 5 associati e 8 membri osservatori).

Camminavano “sulle uova” Argentina e Brasile, presi alla sprovvista da un’azione militare che li poneva in serie difficoltà di fronte alla comunità internazionale. Sì, perché da un lato, proprio all’inizio di febbraio, il presidente argentino Alberto Fernández aveva offerto il suo paese come “porta di accesso” della Russia all’America Latina durante un incontro molto discusso con Vladimir Putin al Cremlino. Solo di fronte a intense critiche e pressioni sia interne che esterne al suo governo, Fernández era stato costretto a rilasciare una dichiarazione in cui lamentava la situazione in Ucraina, rifiutando l’uso della forza e chiedendo alla Russia di «cessare l’azione militare in Ucraina», ribadendo però che «nessuna delle parti doveva usare la forza». Dall’altro lato il Brasile del presidente Jair Bolsonaro che, la settimana prima dell’inizio della guerra, si trovava in visita ufficiale proprio a Mosca. Un viaggio che, viste le ripetute avvisaglie di Washington sull’imminente invasione russa dell’Ucraina, aveva creato non poche polemiche e tensioni. Dopo il 24 febbraio sono arrivate da Brasilia delle dichiarazioni tiepide che esprimevano preoccupazione per le operazioni militari lanciate dalla Russia contro il territorio dell’Ucraina senza però condannare esplicitamente l’operato di Putin.

La lista dei paesi ostili a Mosca

La lista dei paesi ostili a Mosca fu creata per la prima volta nel maggio del 2021 e annoverava solo due nomi: Stati Uniti d’America e Repubblica Ceca. Si tratta di un documento pubblicato dal governo della Federazione Russa nel quale sono ascritti quegli stati, territori, regioni ed entità sovranazionali che sono coinvolti in attività che il Cremlino considera “ostili” o “aggressive” nei confronti della Russia. La lista è stata ampliata a inizio marzo 2022, pochi giorni dopo la risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu e dopo l’applicazione di forti sanzioni da parte dell’Unione Europea e degli Usa contro la Federazione Russa. Oggi il documento conta al suo interno 56 stati o dipendenze territoriali e l’essere menzionati in questa lista comporta l’applicazione di restrizioni rispetto alle relazioni commerciali, valutarie e diplomatiche con Mosca.

Anche questa lista però ci aiuta a capire che la Russia vuole mantenere aperta la porta all’America Latina visto che nessuno dei paesi di questo subcontinente è menzionato nel documento (fatto salvo per la Guyana francese e le Bahamas, quest’ultima aggiunta alla lista il 24 luglio). Le sanzioni infatti colpiscono la quasi totalità del continente europeo, ad eccezione di Bielorussia, Bosnia ed Erzegovina, Moldova e Serbia; in Asia troviamo Giappone, Corea del Sud, Micronesia, Taiwan, Australia e Nuova Zelanda e nella Americhe (a parte le già menzionate) solo Canada e Stati Uniti d’America. Non viene menzionato nessuno Stato africano o latinoamericano.

Aprile

Il 7 di aprile, sempre all’interno dell’Assemblea Generale dell’Onu, è andato in scena il voto per estromettere la Russia dal consiglio dei diritti umani (decisione straordinaria applicata in passata solo nel marzo 2011 alla Libia). Anche questa volta la comunità internazionale si è trovata divisa, ancora più divisa del voto del 2 marzo, chiaro segnale che la macchina diplomatica del Cremlino è riuscita a ampliare la sua sfera di influenza. Sebbene infatti la votazione abbia ufficialmente comportato la sospensione della Russia dal consiglio dei diritti umani dell’Onu, questa volta i voti a favore sono stati “solo” 93 (contro i 141 di marzo), 24 contrari e 58 astensioni: da notare che ben 18 stati non hanno votato tra cui ancora il Venezuela e in questa occasione anche Bolivia, Cuba, Nicaragua e Suriname, che si erano astenute il 2 marzo, hanno invece votato contro questa risoluzione mentre il Salvador ha confermato la sua astensione. Tra gli astenuti fano però il loro ingresso il Belize, Trinidad e Tobago ma soprattutto il Brasile di Bolsonaro e il Messico di Andrés Manuel Lopéz Obrador. Questione geopolitica non di poco conto se si considera che questi due giganti latinoamericani sono la prima (Brasile) e la seconda (Messico), economia del subcontinente.

Figura 2 – dettaglio del voto del 7 Aprile 2022

Maggio

Brasile di Lula

Il mese di maggio si apre con il clamore provocato dalle parole dell’ex presidente del Brasile, Lula Ignacio da Silva, favorito per le prossime elezioni presidenziali di ottobre nella quali affronterà Jair Bolsonaro (presidente uscente).

Lula, in una lunga intervista realizzata da Time e pubblicata mercoledì 4 maggio ha dichiarato:

«Vedo il presidente dell’Ucraina in televisione come se stesse festeggiando, applaudito in piedi da tutti i parlamenti (del mondo). Lui è responsabile quanto Putin. Perché in una guerra non c’è un solo colpevole», ha detto Lula aggiungendo poi che «Voleva la guerra (Zelenski). Se non avesse voluto la guerra, avrebbe negoziato un po’ di più».

Tra i passaggi salienti dell’intervista troviamo poi anche questo:

«Ho criticato Putin quando ero a Città del Messico, dicendo che è stato un errore invadere, ma penso che nessuno stia cercando di contribuire alla pace. Le persone stanno stimolando l’odio contro Putin. Questo non lo risolverà! Dobbiamo stimolare un accordo. Ma c’è un incoraggiamento (al confronto)!».

Infine, nella sua critica a tutto tondo, Lula non ha risparmiato attacchi agli Stati Uniti d’America e all’Onu, specificando

«gli Stati Uniti hanno un peso molto grande e lui (Biden) potrebbe evitarlo (il conflitto), invece di stimolarlo. Avrebbe potuto dialogare di più, partecipare di più, Biden avrebbe potuto prendere un aereo per Mosca per parlare con Putin. Quello è l’atteggiamento che ci si aspetta da un leader».

Rispetto all’Onu invece il 76enne politico brasiliano ha affermato che «è urgente e necessario creare una nuova governance mondiale. L’Onu di oggi non rappresenta più nulla, non è presa sul serio dai governanti. Ognuno prende decisioni senza rispettare l’Onu. Putin ha invaso l’Ucraina unilateralmente, senza consultare l’Onu».

Giugno

Le alleanze si cercano al Vertice

Il mese di giugno è stato il mese dei vertici internazionali: la Cumbre (in presenza) delle Americhe, celebrato a Los Angeles tra il 6 e il 10 giugno, la riunione dei Brics celebrata in forma virtuale a Beijing il 23 giugno e il vertice (presenziale) del G7 di Schloss Elmau in Germania tra il 26 e il 28 giugno. In tutti e tre i vertici si è parlato della guerra della Russia all’Ucraina ma il peso, la presenza e la visibilità dei paesi latinoamericani sono stati molto eterogenei in questi spazi di dialogo e di decisione. Da un lato, il vertice delle Americhe, ospitato quest’anno dagli Usa, ha mostrato la grande frattura esistente nel continente visto e considerato che su 35 stati possibili partecipanti alla fine sono intervenuti solo 26 paesi: con il Brasile arrivato in extremis per la soluzione all’ultimo minuto di un disaccordo tra Biden e Bolsonaro. Cuba, Nicaragua e Venezuela non sono stati invitati e per solidarietà con questi tre paesi non sono intervenuti neanche i presidenti di Bolivia, Honduras e Messico. Dall’altro lato Salvador e Guatemala sono in rapporti molto aridi con l’amministrazione Biden e hanno declinato l’invito, mentre il presidente dell’Uruguay non ha potuto partecipare perché positivo al Covid-19. Un vertice dunque “azzoppato” che ha mostrato l’isolamento Usa nel subcontinente latinoamericano riaffermando la distanza delle politiche e delle visioni di Washington da molte delle amministrazioni latinoamericane. Questo è sicuramente un elemento ad appannaggio di Mosca che, non ha partecipato “fisicamente” al successivo G7 in Germania ma che è stata il centro del dibattito dei 7 “big” presenti: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America (oltre a una rappresentanza politica della UE).

Da ricordare che quello che oggi è il G7 era in precedenza il G8 e includeva anche la Russia. La Federazione russa fu espulsa dal gruppo a seguito della crisi in Ucraina del 2014 che portò all’annessione della penisola di Crimea da parte del presidente russo Vladimir Putin.

Schloss Elmau, G7 del 26 giugno 2022

Al vertice tedesco ha partecipato come invitato il presidente argentino Alberto Fernández, in veste di rappresentante della Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi (Celac). Fernández in questa occasione ha condannato dalle Alpi bavaresi l’operato della Russia in Ucraina, dando un segnale importante di allineamento con le politiche di Washington e della UE.

Solo alcuni giorni prima del G7 però (il 23 giugno) la Russia era stata protagonista del vertice dei Brics, acronimo coniato per associare cinque grandi economie emergenti: Brasile, Cina, India, Russia e Sud Africa. Questo gruppo, che si riunisce dal giugno del 2009, ha rappresentato per anni il paradigma della cooperazione Sud-Sud ed è visto come un’alternativa alle politiche di influenza statunitensi o anche “occidentalocentriche” a livello globale. Tra questi 5 paesi spicca il Brasile, come detto la più grande economia latinoamericana che, per bocca di Jair Bolsonaro, ha detto di voler rafforzare e ampliare la collaborazione commerciale con Mosca. Anche qui troviamo però ancora una volta l’Argentina, paese candidato a un prossimo ingresso nel gruppo, come ricordato proprio nei giorni del suddetto vertice dal ministro degli esteri russo Sergéi Lavrov, in un annuncio nel quale sembrava dire che l’ingresso di Buenos Aires nei Brics potrebbe essere prossimo.

Luglio

Latenti manovre rendono ondivaga la posizione continentale

A inizio luglio si manifesta un segnale inequivocabile rispetto alle profonde divisioni generate dall’invasione russa in Ucraina in America Latina e alle correnti di pensiero a questo riguardo. Il presidente ucraino Volodímir Zelensky fa richiesta ufficiale al Paraguay di poter essere presente in videoconferenza nel prossimo vertice del Mercosur (Mercato Comune del Sud) che sarebbe stato celebrato appunto ad Asunción, capitale del paese sudamericano giovedì 21 luglio. Zelensky, forte dei precedenti discorsi realizzati in svariati forum e vertici internazionali come quello della Nato, del G7, alle Nazioni Unite e nel Forum Economico Mondiale vuole ripetere l’impresa, magari proponendo uno “speech” cucito ad hoc per l’occasione, così come ha fatto in diversi parlamenti in giro per il mondo. In quei giorni è lo stesso ministro degli esteri del Paraguay, Julio Cesar Arriola, a dare la notizia della richiesta che il presidente ucraino ha presentato direttamente a Mario Adbo Benítez (presidente del Paraguay), spiegando però che la domanda verrà sottoposta al vaglio di tutte le parti interessate. Sembrava un puro rito diplomatico e invece arriva il colpo di scena: dopo una votazione interna e segreta del blocco commerciale composto da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay arriva il diniego. Zelenski non parlerà al vertice Mercosur, e a dirlo in una conferenza stampa è questa volta il viceministro degli esteri paraguaiano, Raúl Cano Ricciardi, che però non svela quale paese o quali paesi abbiano votato contro la richiesta del presidente ucraino.

L’America Latina ci ha però abituato a continui colpi di scena e solo 4 giorni dopo il mancato appuntamento di Zelenski con il vertice del Mercosur di Asunción succede qualcosa che ancora una volta muove le carte in tavola. Si perché il 25 luglio arriva la prima visita di un presidente Latinoamericano a Kyiv: si tratta di Alejandro Giammattei, presidente del Guatemala dal 14 gennaio 2020. Questa visita è la prima di un presidente dell’America Latina dal 24 febbraio (data dell’inizio dell’invasione russa) ma è anche la prima in generale degli ultimi 12 anni. Giammattei che aveva ricevuto l’invito a recarsi in Ucraina nel giugno scorso proprio da Zelenski, ha visitato le oramai tristemente famose città di Bucha, Irpin e Borodianka, assicurando che il suo paese non lascerà solo il popolo ucraino nel momento della ricostruzione.

Agosto

Ad agosto, a sei mesi dall’inizio dell’invasione ci troviamo di fronte a un altro “coup de théâtre” questa volta organizzato dall’asse Caracas-Mosca. Infatti il Venezuela di Maduro è diventato il 13 agosto il primo paese latinoamericano a ospitare come anfitrione le “Army Games”, anche chiamate “Olimpiadi della Guerra”. Ovvero delle competizioni militari organizzate proprio dal ministero della Difesa della Russia dal 2015. Ai “giochi” hanno partecipato 270 squadre provenienti da 37 paesi e le gare hanno avuto luogo tra il 13 e il 27 agosto, in 36 modalità di competizione (in Venezuela hanno gareggiato i cecchini). Oltre a Venezuela e Russia, anche Algeria, Bielorussia, Cina, India, Iran, Kazakistan e Vietnam sono state le sedi secondarie dell’edizione di quest’anno. L’alto comando militare venezuelano ha mantenuto un certo riserbo sull’evento, che ovviamente ha risvegliato l’interesse e la preoccupazione degli Usa, visto che la competizione ha comportato l’arrivo di centinaia di militari stranieri in Venezuela. Soldati provenienti da Abcasia, Bielorussia, Cina, Iran, Myanmar, Russia e Uzbekistan: paesi che in molti casi sono colpiti dalle sanzioni degli Stati Uniti d’America.

Ad aumentare la tensione anche una “coincidenza”, se tale si vuole considerare. Infatti le “Olimpiadi della guerra” sono iniziate proprio mentre si concludevano le operazioni militari annuali organizzate dal comando sud degli Stati Uniti d’America: operazioni battezzate PanamaX 2022. A questa importante esercitazione, svoltasi tra il 1° e il 12 agosto, hanno partecipato le forze armate di Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Repubblica Domenicana, Giamaica, Guatemala, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Perù Salvador e Spagna.

Proprio mentre si svolgevano le “Olimpiadi della Guerra” in Venezuela con la benedizione del Cremlino, avviene però un altro colpo di scena. Zelenski riguadagna lo spazio che gli era stato negato al vertice del Mercosur e mercoledì 17 agosto, questa volta nelle aule della Pontificia Universidad Católica de Chile (Puc) riesce a parlare in videoconferenza mandando un messaggio ai presidenti della regione e a tutto il popolo latinoamericano, al quale ha chiesto di cessare il commercio con la Russia.

Ha poi aggiunto: «Per credere a quello che sta succedendo, è importante vederlo. Voglio che i vostri leader, i giovani, vengano in Ucraina. Per noi è importante che l’America Latina conosca la verità», apparendo per la prima volta su uno schermo latinoamericano a 175 giorni dall’inizio della guerra.

Un messaggio seminato in Cile, paese dove il giovane presidente Gabriel Boric aveva da subito dato il suo appoggio, in termini umanitari, verso il popolo ucraino.

Di fronte a tutto questo rimante difficile decifrare le vere intenzioni di Putin in America Latina, dove però sicuramente le sue alleanze con Cuba, Venezuela e Nicaragua e i suoi ammiccamenti ad Argentina e Brasile hanno complicato la risposta dell’Occidente alla sua invasione dell’Ucraina. Non sono da sottovalutare però le agende dei singoli paesi latinoamericani che dal canto loro potrebbero “usare” Putin come “spauracchio” da giocare nell’infinita partita a scacchi con Washington e Beijing, i due poli che continuano a oggi a esercitare comunque la maggiore influenza nella regione.

Conseguenza economiche della guerra nell’area Cono Sur

Chiavi di lettura delle alleanze globali

Per dare uno sguardo in chiave economica di come quanto sta succedendo in Ucraina abbia un riflesso diretto sulle società nazionali della regione latinoamericana, possiamo fare riferimento a un’analisi realizzata dal Real Instituto Elcano di Madrid, elaborata da Carlos Malamud e Rogelio Nuñez Castellano dal titolo L’America Latina e l’invasione dell’Ucraina: il suo impatto sull’economia, la geopolitica e la politica interna.

Spiegano Malamud e Nuñez Castellano che i paesi dell’America Latina, seppur in posizione periferica si vedono influenzati in modo importante dalla crisi in Ucraina. Economicamente, l’aumento dei ricavi per i paesi produttori di materie prime, in particolare idrocarburi, ha convissuto con il rimbalzo inflazionistico causato dall’aumento dei prezzi dell’energia e dalla scarsità di importazioni dalla Russia (fertilizzanti) e dall’Ucraina (cereali). Ci sono stati notevoli disaccordi all’interno di ciascun paese sulla posizione di fronte al conflitto, questione che rende ancora più difficile la politica interna in mezzo alla crescente incertezza sul futuro dell’economia mondiale e regionale, con un possibile aumento dei disordini sociali (vedi il caso delle recenti proteste a Panama). Inoltre la lotta geopolitica globale per il controllo e l’accesso alle risorse energetiche, ha rilanciato alcune potenze petrolifere regionali (come il Venezuela) e ha favorito alcuni spazi commerciali in termini di esportazioni (per esempio quelli argentini con l’esportazione di cereali).

Un’altalena di costi e benefici che però se vista nella foto regionale porta delle cifre tutt’altro che ottimistiche. Secondo i dati della Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (Cepal) resi noti a fine aprile scorso, il conflitto in Ucraina ha esacerbato i problemi di inflazione, aumentando la volatilità dei costi finanziari abbassando le stime di crescita regionale da 2,1% (gennaio 2022) a 1,8% (aprile 2022). Le economie del Sud America cresceranno dell’1,5%, quelle del Centro America e del Messico del 2,3%, mentre quelle dei Caraibi cresceranno del 4,7% (esclusa la Guyana).

Sempre la Cepal, nel volume Ripercussioni in America Latina e Caraibi della guerra in Ucraina: come affrontare questa nuova crisi? pubblicato a giugno, parla anche di un lento e incompleto recupero del mercato del lavoro dopo il Covid-19, prevedendo che la povertà e la povertà estrema supereranno i livelli stimati per il 2021.

«L’incidenza della povertà regionale raggiungerà il 33,7% – 1,6 punti percentuali in più rispetto alle proiezioni per il 2021- mentre la povertà estrema raggiungerà il 14,9% – 1,1 punti percentuali in più rispetto a nel 2021».

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Brecce nei modelli dello status quo https://ogzero.org/brecce-nei-modelli-dello-status-quo/ Fri, 12 Aug 2022 08:53:28 +0000 https://ogzero.org/?p=8520 Si stanno indubbiamente aprendo brecce nell’equilibrio mondiale a cui s’ispira il modello che ha consentito finora all’Occidente di imporre la propria impronta sul mondo. Il multilateralismo faceva perno su una potenza globale come quella americana che assicurava la possibilità di intessere relazioni multilaterali, ora quel sistema vede erodere la propria incontrastata egemonia in particolare dalla […]

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Si stanno indubbiamente aprendo brecce nell’equilibrio mondiale a cui s’ispira il modello che ha consentito finora all’Occidente di imporre la propria impronta sul mondo. Il multilateralismo faceva perno su una potenza globale come quella americana che assicurava la possibilità di intessere relazioni multilaterali, ora quel sistema vede erodere la propria incontrastata egemonia in particolare dalla Cina e dal corredo di potenze locali in grado di portare sfide in aree specifiche. Nell’ultimo anno, dopo la caduta di Kabul il 15 agosto 2021, si è assistito a un’accelerazione inarrestabile della messa in discussione della globalizzazione e alla proposta di modelli socio-politici autocratici che si contrappongono alla “rassicurante” liberal-democrazia.
Era un sogno della sinistra libertaria aprire brecce nel capitalismo liberal-democratico per scardinarne il sistema, e ora chi metterebbe al centro l’emancipazione antitotalitaria dei popoli non riesce a interpretare l’attacco allo strapotere americano come una rivoluzione imposta dall’alto e realizzata dal nazionalismo autoritario, militarista e tecno-finanziario come quello statunitense. Infatti non sortisce di meglio che accettare la narrazione che vede ancora due blocchi contrapposti, da cui non si riesce a prescindere… né a evitare di schierarsi, non riconoscendo che si tratta della riproposta di schieramenti ottocenteschi: il superamento del “secolo breve” sta avvenendo, sì… ma in senso contrario, nel passato di oligarchie imperiali ottocentesche che controllano i propri territori, rinverdendo tradizioni culturali che si appropriano della critica alla globalizzazione.

Dopo un anno il regime talebano consegue il riconoscimento da parte di Cina e Russia. Quella capitolazione di Kabul alla più vieta e arcaica concezione religiosa e culturale locale del Waziristan ha dato la stura alla spartizione del mondo in aree di riferimento. OGzero ha pensato che ci fosse la necessità di ipotizzare e far dialogare processi in corso e possibili strategie adottate dai protagonisti del rivolgimento epocale, sperando così di avviare un dibattito che descriva la situazione prescindendo dalla versione parziale che scaturisce da un sistema in mutazione e quindi non in grado di fotografare il cambiamento che sta subendo.


Sostituzioni di modelli

Nelle infinite analisi del ribaltamento in corso di quell’equilibrato sistema di relazioni internazionali sancito da Yalta – e mantenuto invariato perché a nessuna delle potenze andava stretto o non avevano l’opportunità di imporre finora alcun rilievo – esistono un paio di elementi che sembrano non venir evidenziati a sufficienza nelle disamine della situazione geopolitica attuale: la rivoluzione è imposta dall’alto, è un pranzo di gala esclusivo dove gli invitati giocano a Risiko – e infatti si punta su una comunicazione che fondi la legittimità delle mosse sul confronto nazionalista; e al contrario di quel che avviene di solito in caso di conflitti, il contenzioso non coinvolge il Sud del mondo, sconvolgendolo. Le popolazioni alle quali ci si riferiva come Terzo mondo, ai tempi in cui lo spunto per molte speculazioni proveniva dall’internazionalismo non solo ora non si schierano a favore della “democrazia”, ma cominciano a considerare l’occasione ghiotta per ridimensionare la presenza e il condizionamento di un sistema, forgiato su un modello culturale ed economico sviluppato da una cultura estranea come quella europea, esportato in forma coloniale.

«Noi giovani abbiamo organizzato questa manifestazione per il ritiro delle forze armate francesi dal territorio nazionale del Mali. Vogliamo dare un contributo alla soluzione definitiva della crisi e ripristinare i valori della sovranità della nostra nazione. Non nascondiamo e riaffermiamo la nostra comune disponibilità con le nuove autorità di transizione a dare priorità alla cooperazione militare con la Russia per il rapido ripristino della Repubblica, in modo da poter lottare per la stabilità a lungo termine, che porterà alla nostra sovranità assoluta» (appello ad Assimi Goita pubblicato dalla piattaforma Debout sur les remparts, Yerewolo: giovani maliani, settembre 2021)

Ecco: un primo errore nella narrazione e nell’approccio al rivolgimento epocale sta nel vizio occidentale di voler imporre il proprio sguardo etico-politico anche sull’interpretazione dei conflitti globali, senza considerare le narrazioni sviluppate da altre tradizioni politico-culturali. Geopolitica chiederebbe di attenersi all’analisi di strategie messe in atto a seguito di bisogni e presunta potenza; invece la propaganda sia dal punto di vista liberal-capitalista, sia nell’ambito autocratico-capitalista sfrutta le spinte nazionaliste identitarie, inanellando tutti i più vieti luoghi comuni per salvaguardare la propria sussistenza entro i confini di riferimento di stati consorziati militarmente a fare da scudo al proprio ordine socio-culturale. Persino l’internazionalismo era caduto nella stessa trappola di avanzare una filosofia di emancipazione comunque sviluppata all’interno della cultura occidentale, nonostante l’intento meritevole di liberazione dell’Altro.

Vecchi sogni antimperialisti offuscati da modelli di imperialismi contrapposti

Infatti la sfida in corso al predominio americano e al suo sistema di sfruttamento mondiale era il sogno di ogni rivoluzionario degli anni Sessanta-Ottanta. Al contrario vediamo i regimi autocratici intenti a scalfire il potere americano, avendo ipotizzato, dopo la disfatta di Kabul, che si sia avviato allo stesso declino subito dall’Urss dopo il pantano afgano. Ma forse si tratta soltanto di una speculare reazione al pressing statunitense sui russi, volto a togliere alla potenza locale il terreno sotto i piedi; e questo cominciò con l’amministrazione Obama. In particolare l’esecuzione di Gheddafi ha suggestionato il capo del Cremlino: infatti dal 2011 Putin ha cambiato strategia geopolitica, convinto nel suo sospetto dalla costante cooptazione nel campo filoamericano di molte nazioni ex sovietiche, sottratte alla influenza russa; questo ha giocato un ruolo rilevante di intenzionale provocazione per la potenza militare moscovita.

Un po’ tutti hanno impugnato quelle forbici, che hanno innescato il cambiamento, tagliando i fili del multilateralismo che erano in tensione già da tempo.
Putin è stato forse indotto a credere nella possibilità di costituire un fronte antiamericano sufficientemente ampio e militarmente sostenibile: potrebbe essere credibile una sorta di accordo tacito di non belligeranza se non di reciproco sostegno con altre grandi potenze, come la Cina che invece – a cominciare dall’amministrazione Trump – è stata messa sotto pressione dal punto di vista economico. Si potrebbe adottare uno sguardo capace di spiegare le indubbie provocazioni americane (l’ultimo episodio è quello che ha visto protagonista Pelosi a Taiwan, imbarazzante per gli alleati coreano e giapponese, come si è visto nelle tappe successive del viaggio) per arrivare a un confronto di intensità variabile che consenta a Washington di ridimensionare gli sfidanti quando ancora gli Usa detengono la preminenza nei mezzi sia militari che economici (il “momento tucidideo” di cui parla Streeck su “New Left Review”, ripreso da “Internazionale”). I rivali non hanno potuto evitare di rispondere alle provocazioni e mettersi in gioco quando ancora gli Usa sono in grado di fronteggiarli.

«Gli Stati Uniti si stanno comportando da stupidi, ed effettivamente lo sono. Fingendo di esserlo significa che sanno quali sono gli interessi della Cina sulla questione di Taiwan e la sua linea rossa. Ma, nonostante questo, la calpestano ripetutamente» (Wang Wen dell’Università Renmin)

Si è arrivati alla guerra aperta perché a quel risultato erano improntati i piani strategici di tutti i protagonisti per rispondere all’esigenza da parte di potenze nucleari energivore di espandere il controllo di risorse e mercati e in nome di quelle dinamiche dominanti si sta tentando la scalata all’egemonia, la stessa che gli Usa intendono mantenere ancora per alcuni decenni, com’è avvenuto 30 anni fa quando a crescere al punto da sfidare la preminenza tecnologico-finanziaria fu il Giappone simboleggiato da Goldrake, allora detentore delle maggiori conoscenze sui semiconduttori e ora investito da Blinken del ruolo di gendarme del Pacifico; la sfida di Tokyo fu ridimensionata proprio con l’avvento della globalizzazione e agevolando la crescita della Cina ispirata a Deng in grado di eclissare prima e surclassare nel 2010 l’ascesa del Giappone – isolato e costituzionalmente privo di deterrenza militare; ora il conflitto appena scatenato rappresenta la fine della globalizzazione e l’industria nipponica torna a fare da testa di ponte per conservare al campo “occidentale” il controllo dei microchip, collaborando con le maggiori fabbriche di Taiwan. Premendo così in ambito tecnologico sulla possibilità di sviluppo dell’economia cinese, costretta a mostrare i muscoli a Nancy Pelosi (per uso interno, ma anche più pragmaticamente per salvaguardare le forniture tecnologiche di Formosa), come il pressing e la cooptazione degli stati satelliti dell’ex Urss lasciava poche chance alla sicurezza russa.

«Putin ha lanciato un’invasione per eliminare la minaccia che vedeva, perché la questione non è cosa dicono i leader occidentali sui propositi o le intenzioni della Nato: è come Mosca vede le azioni della Nato. la politica occidentale sta esacerbando i rischi di un conflitto allargato. Per i russi, l’Ucraina non è tanto importante perché ostacola le loro ambizioni imperiali, ma perché un suo distacco dalla sfera d’influenza di Mosca è “una minaccia diretta al futuro della Russia”» (John Mearsheimer da “The Economist”).
«Molti tendono a equiparare egemonia e imperialismo. In realtà imperialismo è una nazione che ne forza altre a entrare nella sua sfera, mentre egemonia è più una condizione che un proposito. Il problema di Putin e di coloro che sostengono l’esistenza di sfere d’influenza russa e cinese è che “tali sfere non sono ereditate, né sono create dalla geografia, dalla storia o dalla ‘tradizione’. Sono acquisite dal potere economico, politico e militare” che gli Stati Uniti possiedono più della Cina e che la Russia non ha» (Robert Kagan, “Foreign Affairs”).
(Ugo Tramballi, Ispi).

Conflitti collaterali e proxy wars

Ormai appare evidente che l’escalation di tensione costringe il mondo a uno stretto passaggio tramite il quale ogni area dello scacchiere internazionale è costretta a transitare, ovvero locali confronti tra protagonisti per definire gli schieramenti attraverso innumerevoli conflitti ristretti che ambiscono al controllo di territorio, risorse, commodities e mercati a cui attingere quando lo sforzo bellico sarà globale e a tutti i livelli.

Di tutti il confronto che maggiormente ha costituito la consapevolezza che si stava andando verso un rivolgimento globale è la crisi sarmatico-pontica, usata come grimaldello per coinvolgere anche l’Occidente europeo nel processo di trasformazione degli equilibri e delle supremazie su zone di influenza che si è innescato con l’attacco di Sarkozy a Gheddafi. Di lì discende la nuova strategia russa da un lato (innescata come già spiegò Bagnoli dalla paura di Putin di fare la stessa fine) e dall’altro la pulsione all’affrancamento nel Mediterraneo dei satrapi che nel 2011 erano ancora al guinzaglio di potenze globali e da allora invece sempre più autonomi e spregiudicati, come la Turchia, l’Arabia Saudita, gli Emirati… che hanno cominciato a sgomitare perseguendo strategie, alleanze, riarmo, penetrazioni in territori colonizzati proprio da quell’Occidente europeo da cui gli Usa si allontanavano, non avendo più interesse energetico derivante dal Mena, essendo divenuto autosufficiente durante l’amministrazione Obama con lo shale oil, e che ha optato in quel quadrante per la delega alle autocrazie locali. Si è venuta così a creare una pulsione all’autodeterminazione, all’affrancamento e all’autoaffermazione che passa attraverso un forte impulso al nazionalismo e al militarismo. Altra benzina sul fuoco.

Modelli sovranisti stanziano ad Astana

In questo quadro van rivisti a livello di potenze locali, tendenzialmente non più tali, la guerra siriana e i conseguenti accordi di Astana… Si sono svolti nelle ultime due settimane due atti di questo canovaccio, uno a Tehran e uno a Soci, di quest’ultimo Yurii Colombo ha parlato nel suo canale telegram Matrioska.info, sottolineando i due aspetti richiamati dal viceprimoministro Alexander Novak che rinsaldano i legami tra i due autocrati: le forniture di 26 miliardi di metri cubi annui di gas alla Turchia – il cui Turkish Stream diviene un hub del gas russo ad aggirare gli embarghi – e gli scambi in valuta nazionale: lira e rubli, entrambe in sofferenza. L’incontro in Iran è stato affiancato dall’Ispi agli sviluppi dell’attività diplomatica di Lavrov:

«A pochi giorni dall’incontro del terzetto di Astana dove oltre a Ebrahim Reisi Putin ha incontrato anche l’omologo turco Recep Tayyip Erdoğan, la visita di Lavrov sembra anche voler ribadire che la Russia non è isolata sulla scena internazionale. Al termine dell’incontro con il presidente egiziano Abdelfattah al Sisi e con il segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit, il ministro ha esortato il mondo arabo a sostenere la Russia “contro i tentativi palesi degli Stati Uniti e dei loro satelliti europei di prendere il sopravvento e di imporre un ordine mondiale unipolare”. Non è detto che in paesi in cui il sentimento antiamericano è forte (corroborato dall’invasione in Afghanistan e Iraq e dal sostegno storico a Israele) i suoi argomenti non facciano presa» (Alessia De Luca, Ispi).

Mosca è tutt’altro che isolata, se si ripensa al voto di marzo all’Onu sulla risoluzione di condanna dell’invasione ucraina.

Tutti contro tutti appassionatamente insieme

Ankara contemporaneamente è un nodo della gestione per procura americana del Medio Oriente insieme a Tel Aviv (il giorno dopo l’incontro con Herzog, Hamas è stato cacciato da Ankara, come avvenne ad Arafat a Beirut) – però Israele è schierato con Egitto, Cipro e Grecia per controllare il Mediterraneo orientale in contrasto con Ankara – e Riad, gradualmente disciogliendo il contenzioso yemenita come il corpo di Kasshoggi nell’abbraccio tra Erdoğan e Mbs (con sullo sfondo gli Accordi di Abramo voluti da Kushner e proseguiti da Blinken).  A maggio persino sauditi e iraniani hanno ripreso relazioni diplomatiche. Evoluzioni tutte previste da Antonella De Biasi in Astana e i 7 mari.

“Astana prepara crepe nell’asse mondiale sparigliando le polarità”.

Risulta sempre più importante districarsi tra alleanze interstatali, che in ogni caso – siano regimi liberal-democratici o democrature rette da autocrati e oligarchi, dinastie, latifondi o gruppi economico-industriali – soffocano le libertà civili e il controllo dei media impedisce ai sudditi di riconoscersi come tali e proporre una coalizione dei sottomessi che si sottraggano e levino il consenso alle istituzioni militari assassine.

Questa ricostruzione permane all’interno di un quadro a blocchi, ma lo fa diversamente dal rimpianto che si affaccia presso alcuni vecchi rivoluzionari per quella condizione semplice da leggere costituita da due imperi anche geograficamente divisi per blocchi contigui. Invece in realtà lo sconquasso operato con l’invasione ucraina ha sconvolto ogni possibile lettura di strategie e mosse sullo scacchiere internazionale, che va componendosi all’interno di quel quadro in una serie di alleanze militari (Quad, Aukus), cooptazioni (gli stati africani controllati da Wagner e quelli inseriti negli accordi di Abramo), scelte di campo fondate sui nemici dei nemici (Etiopia), attendismo neutralista (eclatante in questo senso la posizione dell’India), ambigue mediazioni (il ruolo che si è conferito Erdoğan).

Il rivolgimento globale registra soprattutto in Mena e in Europa (e nelle sue colonie africane) il rimescolamento di alleanze, controllo di risorse e sfere di influenza, mentre nell’Indopacifico si assiste a viaggi diplomatici che si inseguono per creare coalizioni in vista del confronto.

Orizzonti senza gloria

Però quei vecchi rivoluzionari ormai incanutiti dovrebbero leggere il presente con occhiali diversi da quelli adottati negli anni Settanta e proporre un pensiero estraneo all’ottica meramente mercantile di un capitalismo ancora più feroce di allora che permea tutte le innumerevoli parti in causa, le quali infatti si confrontano con i mezzi previsti dal Finanzcapitalismo (non a caso Gallino lo scrisse nel 2011, l’anno del tracollo libico, durante le Primavere arabe).

Un modello che sconfigga il sovranismo neototalitario non può certo affidarsi al nazionalismo dell’imperialismo di stampo americano in contrapposizione a quelli irricevibili di stampo cinese o russo o neo-ottomano o saudita, o viceversa: rispondono tutti ai medesimi criteri ed è come rivelare l’acqua calda la denuncia che la barbarie dell’esercito russo è identica a quella delle invasioni americane di Vietnam, Somalia, Iraq… Afghanistan. Quest’ultima, emblematicamente comune a quella sovietica, dovrebbe anche simbolicamente chiudere il cerchio e l’epoca.

Allora bisognerebbe riuscire a fabbricare una chiave per attribuire il fulcro delle strategie che regolano i rapporti nel mondo a valori diversi, esterni al capitalismo – o alla identità nazionale o religiosa. Per farlo andrebbe forse messa al centro della proposta di ricostruzione dei modelli mondiali l’emancipazione dei popoli e la loro difesa dagli imperi sovranisti che non solo ripropongono l’idea degli imperi ma anche la loro considerazione della carne da cannone, contrapponendogli quel ripudio delle guerre, militari o economiche che siano, sicuramente diffuso come all’inizio della Prima guerra mondiale su cui potrebbe costruirsi un modello che si sottrae agli interessi imperialistici.

Quindi innanzitutto vanno smontati i meccanismi e gli interessi militari che stanno informando le cancellerie del mondo. E per farlo vanno individuati e descritti nei particolari quegli stessi meccanismi per disinnescarli, come la bomba che gli imperialismi, cambiando gli equilibri di sistema dall’interno e ponendosi fuori dai blocchi, stanno preparando, intessendo l’ordito di trame e temporanei accordi che sfoceranno in nuovi focolai di guerra funzionali a uno di quei modello di mondo.

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La crisi dissolve il voto tribale e la stabilità del Kenya? https://ogzero.org/la-crisi-dissolve-il-voto-tribale-e-la-stabilita-del-kenya/ Fri, 05 Aug 2022 14:46:33 +0000 https://ogzero.org/?p=8425 Il passaggio elettorale che il 9 agosto attende il Kenya è ancora un voto tribale che capita in uno snodo epocale manifestatosi come tempesta perfetta. Dopo una pandemia, che in Africa ha moltiplicato i suoi effetti per la carenza dei servizi; seguita da una guerra lontana, che ha ripercussioni peggiori di quelle nel medesimo Corno […]

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Il passaggio elettorale che il 9 agosto attende il Kenya è ancora un voto tribale che capita in uno snodo epocale manifestatosi come tempesta perfetta. Dopo una pandemia, che in Africa ha moltiplicato i suoi effetti per la carenza dei servizi; seguita da una guerra lontana, che ha ripercussioni peggiori di quelle nel medesimo Corno d’Africa per la carestia che provoca – con il corredo di shabab che destabilizzano l’intera area; una siccità devastante che sta prostrando il paese. Forse tutto questo può provocare un cambiamento nel sistema del voto tribale che da sempre regola gli equilibri di potere nel paese africano tra i più sviluppati di quelli che si affacciano sull’Oceano Indiano. Riprendiamo per questo il bell’articolo pubblicato sull’Agi da Angelo Ferrari, che è il responsabile della parte africana della nostra collana sulle città e che ha voluto fortemente che Freddie Del Curatolo scrivesse il volume dedicato a Nairobi.    


Gli schieramenti del voto tribale

Mancano pochi giorni alle elezioni presidenziali del 9 agosto in Kenya. La campagna elettorale, tuttavia, si è svolta in un clima di apatia, di disillusione politica e, soprattutto, è stata segnata dalla crisi economica e dall’elevato costo della vita con un’impennata dei prezzi dei generi di prima necessità; mettendo da parte il fattore etnico da sempre determinante nelle elezioni.
Quattro sono i candidati in corsa per la presidenza – in Kenya si voterà anche per le legislative – tra cui il vicepresidente William Ruto e Raila Odinga, ex leader dell’opposizione e ora sostenuto dal presidente uscente Uhuru Kenyatta. A contendersi la poltrona più alta del paese anche gli avvocati David Mwaure e George Wajackoyah – una eccentrica ex spia che vuole legalizzare la cannabis – con pochissime chance di vittoria. Le elezioni si prospettano come un serrato duello tra Ruto e Odinga. Chi vincerà? È difficile dirlo, sembra quasi demandato a un lancio di monetina: tutto si giocherà all’ultimo voto.

Oligarchie e loro interrelazioni malate alle urne

I due favoriti, i cui ritratti campeggiano su enormi cartelloni pubblicitari in tutto il paese, sono volti noti ai keniani. Odinga, 77 anni, è un veterano della lotta democratica, che ha vissuto il carcere prima di diventare primo ministro (2008-2013); si candida alla presidenza per la quinta volta. Ruto, 55 anni, ha ricoperto la carica di vicepresidente per quasi un decennio come delfino del presidente in carica Kenyatta, che lo aveva designato come suo successore. Ma le cose sono poi andate diversamente: un’alleanza inaspettata tra Kenyatta e Odinga lo ha messo da parte già nel 2018. Con un capovolgimento della politica keniana, del resto molto versatile, Odinga è diventato il candidato del presidente uscente; Ruto, da membro del potere, si è trovato a sfidarlo.

«“Evitate di eleggere un ladro”, ha affermato Kenyatta riferendosi chiaramente, pur senza nominarlo, a Ruto. “Non voglio sentirvi piangere e avere rimorsi di coscienza. Ci sono persone che raccontano storie simpatiche, sono dolci come il miele e sanno essere convincenti, ma sono veleno”» (“AfricaRivista”).

Comunque vadano le elezioni si aprirà una nuova pagina dopo oltre vent’anni di presidenze Kikuyu, la prima e molto influente etnia del paese. Infatti Odinga è un Luo e Ruto un Kalenjin, come sentiamo da Freddie Del Curatolo in questo duetto radiofonico con Angelo Ferrar, avvenuto sulle frequenze di Radio Blackout.

Percentuali di tribalità e affarismo sulla bilancia elettorale keniota

Un sistema corrotto, populista ed elitario

La politica keniana degli ultimi anni è stata segnata da manovre di palazzo che non hanno fatto altro che accrescere la disaffezione della popolazione nei confronti della politica. È aumentata l’apatia soprattutto tra i giovani che hanno risposto con meno entusiasmo all’iscrizione nelle liste elettorali. I 22,1 milioni di elettori iscritti dovranno votare per il presidente, ma anche per i parlamentari, i governatori e per circa 1500 funzionari locali elettivi.
C’è disillusione e sono in molti coloro che pensano che la politica non risolverà i problemi della gente, chiunque verrà eletto farà le stesse scelte del suo predecessore. E poi c’è un paese afflitto dalla corruzione che è diventata endemica. Odinga nella sua campagna elettorale ha proprio dato la priorità alla lotta a questo flagello, nominando come vicepresidente l’ex ministro Martha Karu, ritenuta una donna inflessibile proprio sul tema della corruzione, e denunciando i procedimenti legali contro il compagno di corsa di Ruto, Rigathi Gachagua.
Lo sfidante di Odinga ha impostato tutta la campagna elettorale ergendosi a paladino del popolo, promettendo aiuti e lavoro quando tre keniani su dieci vivono con meno di 2 dollari al giorno, secondo la Banca Mondiale…

… e il Fmi “supporta” la crisi

A tenere banco, però, in questa campagna elettorale, è stato il tema del potere di acquisto e la crescita drammatica dei prezzi dei generi di prima necessità.

Eastleigh, Nairobi

Nairobi, Eastleigh in uno scatto di Leni Frau

Un fattore destabilizzante per il Kenya, locomotiva economica dell’Africa orientale, scossa prima dalle conseguenze della pandemia da Covid, poi dalla guerra in Ucraina e infine da una grave siccità che non si vedeva da 40 anni. E a pagarne le conseguenze sono tutti: la gente che acquista sempre meno e i commercianti frustrati dall’innalzamento dei prezzi dei generi alimentari. In questo contesto la questione economica potrebbe soppiantare il voto tribale, da sempre fattore chiave presente nelle cabine elettorali.

Tè, caffè; parchi, spiagge… golf e slum

Nonostante ciò il Kenya è da sempre una delle economie più dinamiche dell’Africa orientale e si è sempre preso cura della sua immagine di hub regionale. Il suo profilo è atipico in Africa: relativamente poche risorse naturali ma un notevole dinamismo economico, in particolare nel settore dei servizi. L’agricoltura è anche uno dei suoi pilastri (22% del Pil) e la principale fonte di esportazione (tè, caffè, fiori). Dopo un calo dello 0,3% correlato alla pandemia del 2020, l’economia del Kenya ha iniziato a riprendersi nel 2021.
Un altro fattore determinante è il turismo, grazie alla cinquantina tra parchi e riserve naturali e alle coste dalle acque cristalline dell’oceano Indiano, che hanno attratto, nel 2021, circa 1,5 milioni di visitatori e che sta crescendo nell’anno in corso. Ma i prezzi del carburante e del cibo sono aumentati vertiginosamente negli ultimi mesi, in particolare quello della farina di mais – cibo base – alimentando così la frustrazione in un paese afflitto dalla corruzione endemica.

Grafico della corruzione percepita nel periodo 2012-2021 in Kenya

Nel 2021 il Kenya è stato classificato al 128esimo posto su 180 paesi da Trasparency International. Le diseguaglianze, inoltre, sono evidenti in Kenya, dove i campi da golf e gli slum possono essere adiacenti e dove il salario minimo mensile è di 15.120 scellini (124 euro). Secondo la ong Oxfam, il patrimonio dei due keniani più ricchi è maggiore del reddito combinato del 30% della popolazione, ovvero 16,5 milioni di persone.

L’impianto tribale di una nazione giovane

La popolazione di circa 50 milioni di persone è per lo più giovane e cristiana. Degli oltre 40 gruppi etnici, i Kikuyu sono il gruppo più numeroso, davanti ai Luhya, ai Kalenjin e ai Luo. Il fattore etnico da sempre gioca un ruolo fondamentale nello stampo elettorale del voto tribale, ma è anche stato un fattore destabilizzante. Sono trascorsi, infatti, quindici anni dalle violenze postelettorali del 2007-2008 che hanno provocato più di 1100 morti, principalmente negli scontri da Kikuyu e Kalenjin. Una ferita mai rimarginata che pesa ancora oggi.

Fotografia del voto tribale: ogni centimetro è coperto dai cartelloni elettorali nel 2017 nella Contea di Nanok, zona Masai

Nel 2017, la contestazione dei risultati elettorali da parte di Odinga ha provocato una severa repressione delle manifestazioni da parte della polizia che ha provocato decine di morti. I risultati elettorali, negli ultimi vent’anni, sono sempre stati contestati, anche davanti alla Corte Suprema nel 2013 e nel 2017, queste ultime presidenziali sono state annullate per “irregolarità” – una prima volta in Africa – e Kenyatta è stato eletto con un nuovo scrutinio.

Lo spettro di possibili violenze incombe anche su queste elezioni presidenziali. La Commissione nazionale per la coesione e l’integrità, un organismo di promozione della pace creato dopo le violenze del 2007-2008, ha stimato in un recente rapporto che la probabilità di violenze nel periodo elettorale è del 53%. L’augurio è che dentro le urne non prevalga il fattore etnico, ma la volontà di rendere stabile la democrazia in Kenya.

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n. 21 –  Lo “strano” caso della protezione temporanea per i cittadini ucraini https://ogzero.org/il-massiccio-afflusso-di-sfollati-ucraini-e-la-politica-europea/ Tue, 02 Aug 2022 09:46:31 +0000 https://ogzero.org/?p=8359 Proseguiamo l’analisi delle conseguenze migratorie della guerra russo-ucraina, fornendo un panorama giurisprudenziale dei cavilli che regolamentano il massiccio afflusso di sfollati ucraini in Europa, e mettendo in evidenza attraverso le parole di Fabiana Triburgo quanto ancora una volta si riesumi una direttiva che prevede la protezione temporanea, e si offrano sempre soluzioni ad hoc che […]

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Proseguiamo l’analisi delle conseguenze migratorie della guerra russo-ucraina, fornendo un panorama giurisprudenziale dei cavilli che regolamentano il massiccio afflusso di sfollati ucraini in Europa, e mettendo in evidenza attraverso le parole di Fabiana Triburgo quanto ancora una volta si riesumi una direttiva che prevede la protezione temporanea, e si offrano sempre soluzioni ad hoc che salvano il salvabile ma che dimostrano che ancora non vi è nelle coscienze delle istituzioni dell’Unione una visione lungimirante per affrontare la questione migratoria che è e sarà sempre una costante nella storia dell’umanità.


Afflusso massiccio di sfollati

L’attivazione di strumenti giuridici come conseguenza di dinamiche geopolitiche ha avuto la sua massima espressione con la decisione da parte dell’Unione europea e dei paesi membri di attivare la Direttiva n. 55 del 2001 a seguito dell’attacco sferrato su larga scala nel territorio ucraino da parte della Federazione Russa e dalla Bielorussia il 24 febbraio scorso. La direttiva stabilisce uno standard di norme minime nell’ipotesi in cui nel territorio europeo vi sia un afflusso massiccio di sfollati provenienti da paesi terzi che non possono tornare nel paese d’origine finalizzate alla concessione di una protezione temporanea per i medesimi (art. 1 e art. 2 lett. a direttiva 2001/55/CE) che gli stati membri sono chiamati obbligatoriamente ad attuare.

La migrazione ucraina (Fonte Unhcr, per approfondire la singola situazione degli afflussi paese per paese consultare i dati aggiornati costantemente sul sito https://data.unhcr.org/en/situations)/ukraine#_ga=2.235099137.1057807161.1659368831-42331758.1659368831).

La prima applicazione della Direttiva 55

Ciò appare singolare, non certamente in quanto non si ritenga legittima l’attivazione della direttiva con riferimento alle specifiche circostanze del conflitto ucraino, ma piuttosto poiché è la prima volta in assoluto che tale norma viene applicata, nonostante sia stata ideata appositamente per la guerra nell’ex Jugoslavia – in particolare quella nel Kosovo – e nonostante, se vogliamo soffermarci solo all’ultimo ventennio, altri gravissimi conflitti armati hanno avuto come conseguenza un massiccio afflusso di sfollati che intendevano dirigersi verso l’Europa. A riguardo basti pensare ai cittadini provenienti dall’Iraq, dall’Afghanistan e dalla Siria che nei primi due casi oltretutto fuggivano da conflitti pianificati dall’Occidente. In particolare, più recentemente nel caso dei cittadini afghani in relazione alla presa di possesso del paese da parte dei talebani, ormai quasi un anno fa, è fondamentale ricordare che la direttiva in base all’art. 2 lett. d – è attivabile non solo qualora l’arrivo degli sfollati avvenga spontaneamente ma anche mediante programmi di evacuazione!

Ma per cittadini iraqeni, afghani e siriani solo respingimenti

Nei confronti degli individui provenienti da questi paesi terzi, l’Unione invece non ha mai ritenuto importante lanciare un messaggio a livello internazionale di solidarietà dei paesi membri in ambito migratorio, e – come visto, ripercorrendo le attuali correnti migratorie del vecchio continente – ha messo in atto respingimenti dei migranti, anche a catena da un paese all’altro dell’Unione, impedimenti fisici alla presentazione delle domande d’asilo, anche con l’uso della violenza, nonché finanziamenti per la costruzione di muri, di fili spinati e di campi di confinamento, per citare soltanto alcune delle cosiddette “cattive prassi” dell’esternalizzazione delle frontiere.

Possiamo dunque affermare con certezza che il conflitto in Ucraina abbia scosso talmente tanto la coscienza delle istituzioni europee e dei paesi membri da trovarci oggi in una nuova stagione della politica europea in ambito migratorio? O forse è più lecito pensare che la riesumazione di una direttiva risalente a 21 anni fa ci dice che quando vi sono ragioni squisitamente politiche per un timore, pur legittimo di una guerra prossima ai confini dell’Unione, si è disposti a tutto ma nulla di fatto oggi è davvero cambiato nelle politiche europee nei confronti dei migranti?

La musica non cambia: non è una nuova coscienza istituzionale europea

La speranza è chiaramente che sia la prima delle due ipotesi a rispondere a verità ma rispetto a ciò solo il tempo darà delle risposte chiare e definitive alle suddette questioni. Alcuni dubbi rispetto a un effettivo cambiamento dell’humus europeo tuttavia sorgono in ragione del fatto che la Direttiva 55 del 2001 non sia stata recepita in modo totalmente conforme al suo testo ma, sia nella Decisione del Consiglio dell’Unione Europeo (da non confondere con il Consiglio d’Europa) n. 382 del 4 marzo 2022 che ha “attivato” la direttiva – accertando l’esistenza di un massiccio afflusso di sfollati dall’Ucraina – sia per quanto riguarda l’Italia, nel Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri (da ora in poi DPCM) del 28 marzo 2022, con il quale è stata recepita, sono state aggiunte delle ulteriori specifiche a livello giuridico che comprimono e non estendono le tutele derivanti dall’applicazione della protezione temporanea e il rilascio del relativo permesso di soggiorno, soprattutto con riferimento alle categorie dei potenziali destinatari, ossia cosiddetti “sfollati”.

Visegrad esclude gli altri cittadini di paesi terzi residenti in Ucraina

Infatti, i cittadini di paesi terzi dell’Unione, chiaramente diversi da quelli ucraini, – pur se residenti o soggiornanti anch’essi in Ucraina al momento dello scoppio del conflitto e fatte salve alcune rare ipotesi che analizzeremo in seguito – non possono chiedere e quindi beneficiare della protezione temporanea nel territorio di un paese membro. Quello che fa riflettere in modo più specifico – conformemente ai dubbi sovraesposti rispetto a un radicale ed effettivo cambiamento delle politiche dell’Unione e di tutti i suoi paesi membri in materia – è che l’esclusione degli altri cittadini di paesi terzi nell’alveo dei beneficiari della protezione temporanea, eccetto i casi eccezionali, sia stata posta da parte dei paesi appartenenti al gruppo di Visegrad, in particolare dalla Polonia, dall’Ungheria, dalla Slovacchia e dalla Repubblica Ceca come conditio sine qua non per  l’approvazione della Decisione di esecuzione del Consiglio, che richiede la maggioranza qualificata (art. 5 Direttiva 55/2001/CE), necessaria per attivare la direttiva del 2001.

Questo d’altronde non stupisce, considerato che – ancor prima dell’entrata in vigore della decisione di esecuzione del Consiglio il 4 marzo 2022, soprattutto in Polonia, venivano fatti entrare milioni di ucraini ed escluse poche migliaia di altri cittadini di paesi terzi provenienti dall’Ucraina, attuando così una vera e propria discriminazione su base razziale. Non solo, la direttiva così come attivata e recepita in Italia non offre neanche una tutela, per così dire lungimirante rispetto alla condizione degli stessi cittadini ucraini, prevedendo sia la Decisione del Consiglio dell’Unione che il nostro DPCM che la direttiva possa essere applicata soltanto ai cittadini ucraini residenti e che vivevano fisicamente in Ucraina prima del 24 febbraio del 2022 ma fuggiti dopo il 24 febbraio del 2022 incluso.

Ragionando per assurdo quindi, un cittadino ucraino fuggito qualche giorno prima del 24 febbraio, magari intuendo l’imminenza del conflitto, in teoria non può oggi beneficiare della protezione temporanea!

Il confine ucraino-polacco (foto dal profilo Twitter di Nico Popescu).

L’inadeguatezza della Direttiva 55

Chiaramente invece la Direttiva 55 del 2001 – anche solo per il fatto di essere stata pensata in ragione di un altro conflitto e dati i suoi caratteri di generalità – non prevede né l’esclusione dei cittadini terzi di cui sopra né i limiti temporali così stringenti per la presentazione della richiesta della protezione temporanea. Per essere più precisi vengono oggi quindi esclusi dall’applicazione della direttiva:  a) tutti i cittadini che il 24 febbraio vivevano fuori dall’Ucraina; b) i cittadini, come già accennato, che sono fuggiti prima del 24 febbraio del 2022 dall’Ucraina; c) tutti i cittadini di paesi terzi diversi dagli ucraini seppur   viventi in Ucraina, alla data del 24 febbraio 2022 – per tornare al gioco forza antimigranti del gruppo di Visegrad – tranne nell’ipotesi in cui fossero già titolari di protezione internazionale o protezione equivalente ai sensi della legge ucraina o titolari di un permesso di soggiorno permanente prima del 24 febbraio 2022 e che solo qualora dimostrino di non poter ritornare in condizioni sicure e stabili nel proprio paese di origine!

Nel Decreto del Consiglio tuttavia al considerando n. 13 e all’art. 3 invece si specifica che tale ultima circostanza – in merito alla sicurezza e alla stabilità del paese di origine per i cittadini dei paesi terzi – può consentire agli stati membri di estendere tale protezione anche a coloro che si trovavano in Ucraina legalmente per un breve periodo quindi per esempio a quanti  fossero titolari di un permesso per motivi di lavoro o di studio al momento degli eventi che hanno determinato l’afflusso massiccio di individui sfollati.

Il nostro DPCM però esclude tale ipotesi e per questo motivo i cittadini di paesi terzi, titolari di permesso di studio e lavoro – fuggiti dall’Ucraina in conseguenza del conflitto e anche qualora nel proprio paese d’origine non sussistano condizioni di stabilità e sicurezza – in Italia non possono vedersi riconoscere in Italia la protezione temporanea.

Sia il Decreto di esecuzione del Consiglio sia il DPCM del 28 marzo 2022 stabiliscono invece che possono beneficiare della protezione temporanea anche i familiari dei cittadini di nazionalità ucraina residenti in Ucraina prima del 24 febbraio 2022 e i familiari dei cittadini dei paesi terzi titolari di protezione internazionale o equivalente in Ucraina. In entrambi i testi normativi, all’art. 4 si elencano infatti le categorie di persone che possono essere considerati familiari, specificando la necessità tuttavia che anche questi soggiornassero in Ucraina già prima del 24 febbraio del 2022. Il Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri in aggiunta, stabilisce tra i requisiti che i succitati familiari debbano possedere la titolarità di un permesso di soggiorno valido ai sensi del diritto ucraino e il possesso di certificazione attestante il vincolo familiare preventivamente validata, ove possibile, dalla competente rappresentanza consolare. Inoltre, se la direttiva prevede che la durata del permesso di soggiorno per “protezione temporanea” sia di un anno prorogabile fino a due anni, il nostro DPCM all’art. 1, così come la Decisione di esecuzione del Consiglio, prevede che la protezione temporanea abbia la durata massima di un anno (per l’Italia a decorrere dal 4 marzo del 2022). Ancora, sempre secondo il DPCM, il permesso di soggiorno per protezione temporanea – la cui domanda deve essere presentata direttamente nella questura del luogo in cui lo sfollato è domiciliato – dà diritto all’accesso al Servizio Sanitario Nazionale, al diritto allo studio e al lavoro, conformemente a quanto stabilito dall’art. 12 della Direttiva 55/2001.

Non si dimentichi, comunque, che in Italia il 28 febbraio 2022 con una Delibera del Consiglio dei Ministri è stato dichiarato lo stato di emergenza in relazione all’esigenza di assicurare soccorso e assistenza alla popolazione ucraina sul territorio nazionale in conseguenza della grave crisi internazionale in atto.

Italia: stato di emergenza

Come noto, tradotto in termini giuridici, questo consente all’esecutivo di derogare alle consuete norme ordinarie e quindi all’attività parlamentare in merito alla questione migratoria in oggetto, delegando l’esecuzione delle proprie decisioni principalmente alla protezione civile.

A complicare ulteriormente il quadro normativo non solo europeo ma soprattutto interno, nel tentativo di armonizzare la disciplina relativa alla protezione temporanea, vi è il DLgs 85 del 2003 che di fatto aveva già previsto il recepimento della suddetta direttiva, introducendo l’art. 20 nel TUI (Testo Unico sull’Immigrazione) tuttora vigente che prevede anch’esso, in presenza di determinate circostanze, il riconoscimento di tale protezione.

Sotto invece il profilo normativo comune a tutti gli stati membri dell’Unione occorre specificare che

qualora il Consiglio – e questo vale per tutti i beneficiari della protezione temporanea – decidesse di revocare l’attivazione della direttiva, per esempio qualora l’Unione stringesse paradossalmente un accordo con il Capo del Cremlino, il diritto alla protezione temporanea cesserebbe immediatamente e con esso la validità del rispettivo titolo di soggiorno in qualsiasi paese membro dell’Unione.

E i russi in fuga non sono inclusi nella protezione temporanea

Prima di soffermarci sulla compatibilità tra la protezione temporanea e la protezione internazionale che è la protezione comunemente riconosciuta nelle ipotesi di conflitto armato, vale la pena riflettere anche su un’altra categoria di esclusi dalla possibilità di richiedere la protezione temporanea ossia i cittadini russi. Già, perché non sono pochi i cittadini russi che non identificandosi con la decisione del conflitto armato del proprio rappresentante di governo Vladimir Putin abbiano deciso di fuggire dalla Federazione Russa recandosi prevalentemente in paesi come l’Armenia o il Kirghizistan con i quali hanno una comunanza linguistica ma anche perché consapevoli che l’Europa non li considera potenzialmente beneficiari di una protezione temporanea nonostante anche loro siano fuggiti a causa del medesimo conflitto armato! Si ricorda che l’applicazione di un diritto di protezione debba però prescindere da una valutazione politica di uno stato verso un altro e guardare esclusivamente al singolo individuo e ai diritti che gli spettano in quanto tale e non alla nazionalità di sua provenienza se non – come nel caso della protezione internazionale – al fine dell’individuazione di uno dei motivi ai sensi della Convenzione di Ginevra, per il riconoscimento dello status di rifugiato. È proprio la convivenza dell’una e dell’altra disciplina – protezione internazionale e protezione temporanea – a creare tuttavia alcuni problemi giuridici in merito alla corretta applicazione del contenuto della Direttiva 55 del 2001.

Ascolta “Diaspora russa in Armenia” su Spreaker.

Decreti contraddittori

D’altronde le due protezioni sono inscindibilmente legate in ragione del fatto che la protezione temporanea è stata pensata proprio affinché l’afflusso massiccio di sfollati, in conseguenza di un conflitto non possa gravare eccessivamente sul sistema di asilo di ciascun stato membro. La direttiva stabilisce che la protezione temporanea non pregiudica il riconoscimento dello status di rifugiato ma che gli stati membri possano disporre che le persone che hanno ottenuto la protezione temporanea non possano avere al contempo lo status di richiedente asilo. Al riguardo il DPCM all’art. 3 pur stabilendo al comma 1 che il titolare di protezione temporanea possa sempre presentare domanda d’asilo, ai sensi del decreto legislativo n. 25 del 2008 (c.d. Decreto procedure), aggiunge al comma 3 del medesimo articolo – rispetto al testo della direttiva – che questa debba essere momentaneamente sospesa. Ciò significa che il richiedente, titolare della protezione temporanea, non verrà dunque ascoltato dalla Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale e questa verrebbe riattivata (non si comprende ancora se in modo automatico o meno) in alcune ipotesi per esempio se il Consiglio dell’Unione decidesse di porre fine all’attivazione della protezione temporanea. Se invece uno “sfollato” ha già presentato domanda di protezione internazionale e successivamente presenta domanda di protezione temporanea – fintanto che non si veda rilasciare il relativo permesso – verosimilmente beneficerà dell’una o dell’altra forma di protezione a seconda di quale iter delle due domande si svolgerà in modo più celere.

Non è escluso pertanto che qualora la valutazione della domanda di protezione temporanea richieda più tempo del previsto, nel mentre “lo sfollato” possa essere convocato dalla Commissione territoriale e vedersi riconoscere quantomeno la protezione sussidiaria – poiché in fuga da un conflitto armato internazionale ai sensi dell’art. 14 del Dlgs 251/2007 (c.d. Decreto qualifiche) – se non addirittura lo status di rifugiato. Si ricorda che secondo l’art. 3 comma 4 del DPCM del 28 marzo 2022 il riconoscimento della protezione internazionale preclude l’accesso al beneficio della protezione temporanea. In particolare, al cittadino ucraino, oltre all’ipotesi del rifugiato sur place – ossia quella del cittadino di paese terzo già presente e soggiornante in Italia ad altro titolo al quale viene riconosciuto comunque il diritto di presentare domanda di protezione internazionale per ragioni sopravvenute – potrebbe essere riconosciuto lo status di rifugiato nell’ipotesi in cui sia un obiettore di coscienza rispetto al conflitto armato, un disertore della leva obbligatoria in ragione dei crimini compiuti nel corso del conflitto al quale avrebbe dovuto prendere parte, perché appartenente a minoranze etniche/nazionali – come potrebbe avvenire per i cittadini ucraini del Donbass – o nell’ipotesi in cui appartenga a una delle minoranze russofone in Ucraina. Infine, secondo un’interpretazione più estensiva, lo status potrebbe essere riconosciuto anche a tutti i cittadini ucraini in quanto più genericamente individui perseguitati in ragione della propria nazionalità.

L’asilo non richiesto

Si precisa in questa sede, senza entrare precipuamente nel merito, che i cittadini ucraini in particolari circostanze, potrebbero beneficiare, a determinate condizioni, altresì in Italia della “protezione speciale” erede della protezione umanitaria abrogata dal cosiddetto Decreto Salvini ossia il DL n. 113 del 2018 che ha subito una forte estensione con il cosiddetto Decreto Lamorgese, ossia il DL n. 130 del 21 ottobre 2020, convertito nella Legge n. 173 del 2020. È stato chiaro in ogni caso come fin dall’inizio i cittadini ucraini non volessero presentare domanda d’asilo principalmente per due ragioni: in particolare la prima, più facilmente intuibile, poiché qualora venisse loro riconosciuto lo status non potrebbero far ritorno nel proprio paese d’origine, l’altro più specifico è perché al momento della presentazione della domanda di protezione internazionale dovrebbero lasciare il proprio passaporto in questura e questo non consentirebbe loro di andare a trovare i propri familiari ancora in Ucraina.

Si ricorda infatti che nel caso di presentazione della domanda di protezione temporanea il cittadino ucraino non solo mantiene il proprio passaporto ma ha il diritto di circolare liberamente nel territorio dell’Unione per un periodo massimo di 90 giorni come turista, ossia senza possibilità di lavorare ma anche di entrare e uscire nel territorio ucraino ai sensi dell’art. 6 comma 1 del DPCM al fine di prestare soccorso ai propri familiari.

Sempre con riferimento alla domanda d’asilo, in particolare in relazione all’applicazione del Regolamento Dublino che individua lo stato membro competente a trattare la domanda di protezione internazionale, è necessario sottolineare un’ulteriore differenza tra i cittadini ucraini che abbiano deciso di presentare domanda di protezione internazionale in conseguenza del conflitto armato, rispetto agli altri cittadini di paesi terzi che comunque sono fuggiti per la medesima ragione.

I cittadini ucraini infatti sono cittadini “esenti visto”, ciò vuol dire che per poter circolare nel territorio dell’Unione non hanno necessità di alcun visto di ingresso. Per tale ragione per il cittadino ucraino fuggito dal conflitto nel proprio paese di origine non è essenziale accertare che il paese nel quale abbia presentato domanda di protezione internazionale sia effettivamente il paese europeo di primo ingresso. Viceversa, gli altri cittadini terzi dell’Unione, diversi dagli ucraini, non sono esenti visto, ragione per la quale qualora presentino domanda di protezione internazionale, per esempio in Italia è necessario che dichiarino di non aver prima varcato il territorio di un altro paese europeo. Ciò chiaramente risulta altamente improbabile e quindi difficile da credere anche qualora al cittadino del Paese terzo non siano state prese le impronte in un paese o più paesi membri diversi da quello in cui è stata presentata la domanda di protezione internazionale. In conclusione, si può affermare che la protezione temporanea, almeno con riferimento alla sua applicazione in Italia, non ha rappresentato il simbolo del superamento di ancestrali recrudescenze rispetto all’ingresso di cittadini di paesi terzi ma ha avuto una particolare efficacia in ragione di alcune caratteristiche della migrazione ucraina. Sono gli stessi ucraini infatti ad aver superato qualsiasi questione in merito alla distribuzione solidale legata alla loro accoglienza nel territorio dell’Ue, essendosi collocati spontaneamente e autonomamente  nel paese membro nel quale più agevole era la fuga o maggiore erano i contatti familiari e poiché hanno principalmente optato per un sistema di accoglienza privato presso amici e  familiari e non per il sistema di accoglienza pubblico degli stranieri in Italia attraverso i Cas (Centri di accoglienza straordinari) o i Sai (centri per l’accoglienza e l’integrazione) i cui posti è bene ricordarlo sarebbero stati insufficienti ad accogliere tutti i profughi arrivati in conseguenza del conflitto.

Questo viene confermato dall’ordinanza n. 881 del 28 marzo del 2022 secondo la quale il capo della Protezione civile ha stabilito l’erogazione di un contributo una tantum per un massimo di tre mesi per i cittadini ucraini che abbiano optato per un’accoglienza presso privati.

È chiaro quindi che la protezione temporanea sia stata attivata in Europa, a seguito del conflitto ucraino, in ragione del fatto che non si sarebbe potuto procedere all’esame individuale della domanda di tutti i cittadini ucraini che avessero voluto presentare la protezione internazionale in ciascun stato membro e che gravissima è l’esclusione dei cittadini dei paesi terzi diversi dagli ucraini che sono scappati dall’Ucraina sempre per l’aggressione armata russa.

Ancora una volta la miopia europea

Tale visione è fortemente miope e si spera venga superata, se necessario a livello giurisprudenziale, considerando piuttosto l’effettivo radicamento nel territorio ucraino del cittadino del paese terzo a prescindere dal proprio titolo di soggiorno in Ucraina. Quello che si nota inevitabilmente ancora una volta, con la riesumazione di una direttiva che prevede la protezione temporanea, è che si offrono sempre soluzioni ad hoc che salvano il salvabile ma che dimostrano

che ancora non vi è nelle coscienze delle istituzioni dell’Unione una visione lungimirante per affrontare la questione migratoria che è e sarà sempre una costante nella storia dell’umanità.

L'articolo n. 21 –  Lo “strano” caso della protezione temporanea per i cittadini ucraini proviene da OGzero.

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Inclusività o assimilazione nell’India tribale in rivolta? https://ogzero.org/inclusivita-o-assimilazione-nellindia-tribale-in-rivolta/ Tue, 26 Jul 2022 06:54:22 +0000 https://ogzero.org/?p=8278 Lo schiaffo del partito induista nazionalista al potere a tutto ciò che è alieno, diverso, “intollerabile” diventa scherno con l’elezione di una donna di origine tribale a presidente dell’India. Sicuramente non risolve i problemi di discriminazione e le pulizie etniche su cui Narendra Modi ha costruito il suo potere, ma con altrettanta certezza gli conferisce […]

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Lo schiaffo del partito induista nazionalista al potere a tutto ciò che è alieno, diverso, “intollerabile” diventa scherno con l’elezione di una donna di origine tribale a presidente dell’India. Sicuramente non risolve i problemi di discriminazione e le pulizie etniche su cui Narendra Modi ha costruito il suo potere, ma con altrettanta certezza gli conferisce una patente di tolleranza. Laddove invece registriamo solo militarizzazione e repressione dell’India tribale in rivolta, sia nel Centronord indiano sia nel profondo Sud del Tamil Nadu.
Qui con Gianni Sartori intendiamo dare voce, o almeno testimonianza, del saccheggio e delle modalità di soffocazione di istanze di emancipazione delle comunità tribali a Kallakurichi come a Sukma.
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Diritti e oppressione dei popoli indigeni

Non si può certo affermare che quanto avviene in India ai danni delle popolazioni tribali sia sotto la lente e l’interesse dei media internazionali. Difficilmente si viene adeguatamente informati riguardo a massacri, deportazioni (per consentire alle multinazionali, in particolare quelle dedite all’estrazione mineraria, di appropriarsi dei territori ancestrali delle popolazioni indigene), esecuzioni extragiudiziali, stupri di donne tribali e arresti arbitrari operati dal regime di Narendra Modi.
Si è invece parlato della elezione a presidente dell’India (una carica più che altro formale, cerimoniale…) di Droupadi Murmu, donna di origine tribale (i santhal), in precedenza governatrice del Jharkhand. Originaria dell’Odisha, milita da anni nel Bharatiya Janata Party, il partito dei fondamentalisti indù.
Per carità. Tutto può tornare utile e se questo evento dovesse portare qualche beneficio alle popolazioni tribali (gli adivasi) e alle caste diseredate (i dalit) ben venga.
Anche se l’augurio è che non avvenga nella logica sviluppista (e di devastazione umana e ambientale) che auspica Modi.

Addomesticamento e rivolta delle comunità tribali

È lecito infatti avere qualche riserva su questo coinvolgimento, più che altro spettacolare ed elettorale, dei tribali nel progetto del Bjp. Allargare la propria base di sostenitori farà sicuramente gli interessi del Bjp. Ma è lecito chiedersi quali vantaggi porterà alla conservazione delle lingue e della cultura tradizionale (oltre che alla loro sopravvivenza fisica) degli adivasi. Più che di “inclusività” si dovrebbe forse parlare di assimilazione.
Nel frattempo – ovvio – si mantiene la stretta repressiva, l’addomesticamento forzato delle popolazioni indocili e refrattarie al “progresso” neoliberista.

Landgrabbing e resistenza nel Chhattisgarh

Di questi giorni è la notizia (ignorata dai media internazionali in quanto scoperchiava le passate malefatte governative) dell’avvenuta liberazione (il 15 luglio 2022) nel Chhattisgarh di 121 tribali (tra cui alcuni minorenni) arrestati nel 2017 con una serie di rastrellamenti nei villaggi della zona. Nel frattempo uno degli arrestati (o almeno quello finora accertato) era deceduto dietro le sbarre.
Tutte queste persone, come del resto era evidente fin dall’inizio, sono risultate del tutto estranee all’imboscata, opera di almeno trecento guerriglieri naxaliti (maoisti del People’s Liberation Guerrilla Army), di Sukma (Burkapal, 24 aprile 2017)) in cui avevano perso la vita 26 paramilitari della Crpf.
Sono completamente cadute sia le accuse di possesso di armi, sia di appartenenza al Pci (maoista). Per cui la loro lunga, ingiusta detenzione acquista il senso di una rappresaglia a scopo “educativo” per tutta l’India tribale in rivolta.
A Sukma militari e paramilitari sorvegliavano in armi i lavori per la costruzione di una strada che doveva attraversare i territori tribali per conto di un gruppo industriale. Il gruppo maoista Dkszc (Dand Karanya Special Zone Committee) aveva rivendicato l’attacco.

Villaggio di Silger resistente, dove sono ormai trascorsi 400 giorni dall’inizio della resistenza del movimento del villaggio di Silger al confine tra Bijapur e Sukma nel Bastar meridionale del Chhattisgarh

L’attacco di Sukma

Nel comunicato si sottolineava come l’attacco fosse una risposta di autodifesa non solo nei confronti delle politiche antipopolari del governo, ma soprattutto per le «atrocità sessuali commesse dalle forze di sicurezza contro le donne e le ragazze tribali». Ossia gli innumerevoli stupri opera soprattutto dalle milizie paramilitari filogovernative. In sostanza «per la dignità e il rispetto delle donne tribali».

Il comunicato inoltre smentisce decisamente (come poi è stato riconosciuto anche ministero dell’Interno) che sui corpi dei soldati uccisi si fosse infierito con mutilazioni e castrazioni: «Noi – aveva dichiarato Vikalp, portavoce della guerriglia – non manchiamo di rispetto ai corpi dei soldati uccisi. Sono i media borghesi che diffondono tali false notizie e invece spesso sono i militari che operano brutali trattamenti sui corpi dei guerriglieri maoisti». Così come, aveva continuato «vengono riprese e diffuse nei social immagini riprovevoli delle guerrigliere uccise» (un inciso estraneo all’India tribale in rivolta: questa è una pratica abituale anche da parte dei soldati turchi nei confronti delle combattenti curde).
Per concludere: «I soldati non sono nostri nemici. Tantomeno nemici di classe. Tuttavia si pongono al servizio dell’apparato antipopolare e dello sfruttamento operato dal governo. Rivolgiamo a loro un appello affinché cessino di combattere schierati al fianco dei politici sfruttatori, dei grandi imprenditori, delle compagnie nazionali e internazionali, delle mafie, dei fascisti indù… che sono, per loro stessa natura, nemici dei dalit, dei tribali, delle minoranze religiose e delle donne. Soldati, non sprecate la vostra vita per difendere tali personaggi e le loro ricchezze. Lasciate l’esercito e prendete parte alla lotta popolare».

E adesso la resistenza ricomincia nel Tamil Nadu

Tornando ai nostri giorni, va ricordato che il 17 luglio 2022 nel Sud dell’India si sono verificati duri scontro tra giovani e polizia (con decine di feriti) dopo il suicidio di una studentessa.
I manifestanti penetrarono nel campus (distretto di Kallakurichi nello stato di Tamil Nadu), incendiando veicoli della polizia e bus scolastici.
La ragazza prima di togliersi la vita aveva scritto una lettera in cui denunciava alcuni insegnanti per averla sottoposta a sistematici maltrattamenti (aveva usato il termine “torture”). La stessa cosa sarebbe toccata ad altre studentesse.
All’inizio del mese invece le proteste – con scontri, numerosi feriti e una dozzina di arresti – erano scoppiate a Nepali Nagar. Il 3 luglio una quindicina di bulldozer arrivarono per distruggere un centinaio di abitazioni costruite su terreni pubblici: le autorità locali le avevano definite “abusive” (nonostante da anni fossero stati realizzati gli allacciamenti e venissero raccolte le tasse municipali).
E solo uno stretto braccio di mare divide il Tamil Nadu da quello Sri Lanka in subbuglio.
Una nota di Francesco Valacchi per contestualizzare le rivolte e la figura presidenziale di Droupadi Murmu si trova in “China Files”. Abbiamo registrato un suo breve intervento su Radio Blackout:

“Lavacro tribale del nazionalismo Bjp”.

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Giappone: la tollerabile gravità del nulla https://ogzero.org/abe-shinzo-e-il-giappone-la-tollerabile-gravita-del-nulla/ Sat, 23 Jul 2022 00:04:29 +0000 https://ogzero.org/?p=8252 Già Wim Wenders aveva sottolineato in Tokyo-ga il carattere inciso sulla tomba di Ozu Yazujiro: mu, che vuol dire “nulla” (sequenza a cui fa riferimento l’immagine in copertina); Roland Barthes ragionava sul fatto che al centro dell’impero nipponico ci sia un’immensa oasi di vuoto attorno alla casa dell’imperatore. Il senso di assenza di materia come […]

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Già Wim Wenders aveva sottolineato in Tokyo-ga il carattere inciso sulla tomba di Ozu Yazujiro: mu, che vuol dire “nulla” (sequenza a cui fa riferimento l’immagine in copertina); Roland Barthes ragionava sul fatto che al centro dell’impero nipponico ci sia un’immensa oasi di vuoto attorno alla casa dell’imperatore. Il senso di assenza di materia come motore culturale dell’arcipelago giapponese può essere una delle chiavi adottate in questa analisi di Carlotta Caldonazzo riguardo a strategie geopolitiche e forme di lutto nazionale per la morte di un simbolo come Abe Shinzo.

Tokyo è forse il fulcro della talassocrazia statunitense ed è l’alleato chiave per Washington tanto nella strategia di contenimento dell’intraprendenza geoeconomica (e geopolitica) cinese, quanto su un eventuale fronte russo sul Pacifico. Sul piano interno, intanto, un’apparente «continuità» cela un tessuto sociale devastato dalle diseguaglianze e da fratture storiche, che affondano le radici soprattutto nella tensione tra la necessità di accettare la propria condizione di sovranità mutilata e l’aspirazione allo status di potenza.


Molto rumore per nulla?

Come ha osservato Marco Zappa in un’intervista trasmessa da Radio Blackout, al di là delle riflessioni di buona parte della stampa internazionale sulla sua importanza storica e sulla sua eredità, l’uccisione dell’ex primo ministro giapponese Abe Shinzo ha avuto sulla popolazione un impatto emotivo minimo. Lo si evince dai risultati delle elezioni senatoriali del 10 luglio, vinte in larga misura dal Partito liberaldemocratico (Pld, partito di Abe), e dalla sua coalizione, come preannunciato dai sondaggi, e dal basso tasso di affluenza alle urne, rimasto sostanzialmente invariato rispetto alle precedenti consultazioni del 2019.

Eppure, l’uccisione dell’ex primo ministro ha rivelato le falle di un sistema di sicurezza basato sul controllo capillare del tessuto urbano da parte della polizia, al quale le istituzioni attribuivano una buona parte del merito del basso tasso di criminalità nel paese. In sostanza, sul piano politico-elettorale sembra dunque aver prevalso la linea della continuità, già tracciata a ottobre 2021, al momento della successione tra Abe Shinzo e l’attuale primo ministro Kishida Fumio, ministro degli Esteri dal 2012 al 2017. Scelta oculata, che ha rassicurato Washington sulla fedeltà dell’alleato nipponico, il cui peso geostrategico continua a crescere in ragione dell’inasprimento delle relazioni internazionali, in particolare tra Stati uniti e Russia, per ora impegnati sul fronte europeo orientale, e tra Stati uniti e Cina, il cui terreno di scontro privilegiato è l’Indo-Pacifico.

La teoria degli oceani comunicanti

La stessa espressione Indo-Pacifico, in realtà, suggerendo una continuità tra oceano Pacifico e oceano Indiano, sintetizza la visione strategica di Abe, che ha sempre sostenuto i vantaggi di un coinvolgimento dell’India nel contenimento della proiezione di potenza di Pechino sui mari. Una mossa che, di fronte a un avversario come l’Impero del Centro, che storicamente è una potenza di terra, dovrebbe contribuire a preservare la talassocrazia statunitense, ostacolando l’aspirazione cinese sia al controllo dei traffici marittimi nel Pacifico, sia al potenziamento della propria capacità offensiva per mare.

Abe Shinzo: il nazionalista riluttante

Rapporti indopacifici

In fondo, benché non si siano create, almeno finora, le condizioni per la costituzione di un’alleanza militare sul modello dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico Nord (Nato/Otan), Abe aveva cercato di elaborare un piano efficace per impedire l’ascesa della potenza cinese; tanto sul piano commerciale e finanziario, tentando di sottrarre partner asiatici a Pechino, quanto a livello geopolitico e militare, trovando una possibile chiave nel coinvolgimento di New Delhi. Contestualmente, sempre allo stesso scopo, Abe aveva intensificato la cooperazione economica e di sicurezza, oltre che con gli Usa, anche con Australia, Regno unito (i tre componenti dell’asse denominato Aukus, dalle loro iniziali) e Nuova Zelanda. Quanto all’economia interna, la cosiddetta “Abenomics” e i toni trionfalistici che avevano accompagnato la realizzazione delle riforme neoliberali in essa incluse, nonostante il loro discutibile impatto sociale e i dubbi sulla reale uscita dalla stagnazione decennale che avrebbero comportato, avevano diffuso nel panorama mediatico internazionale l’immagine di un Giappone pronto a cavalcare una straordinaria ripresa economica, pur continuando a rinunciare allo status di potenza regionale e pur restando subordinato agli interessi strategici statunitensi.

Tre frecce
«La strategia economica, fiscale e finanziaria della “Abenomics” consisteva nelle cosiddette “tre frecce”: 1. quantitative easing (QE) della banca centrale (BoJ), 2. Massiccio stimolo fiscale e 3. Riforme strutturali. Come è emerso, tuttavia, due di queste tre politiche – quantitative easing e stimolo fiscale – dopo aver avuto successo nel breve termine appaiono oggi sempre più insostenibili e troppo costose, con possibili danni ben più gravi nel lungo termine. L’unica freccia della ‘Abenomics’ in grado di poter creare ancora maggior valore rimane quella delle riforme strutturali. Molte delle riforme che Abe ha promesso devono però ancora essere implementate mentre ne rimarrebbero altre utili per il paese che però non sono ancora nell’agenda politica di Tokyo» (Axel Berkofsky).

Neoimperialismo tradizionalista

Tuttavia, l’adozione, da parte dell’ex primo ministro giapponese, della tradizionale dialettica imperiale nipponica, contestuale all’ascesa delle correnti più nazionaliste del Pld, per le quali Abe era un riferimento politico importante, da un lato aveva deteriorato le relazioni non solo con la Cina, ma anche con la Corea del Sud, utile alleato degli Usa. Con la Russia, invece, Abe aveva portato avanti i negoziati per giungere a un accordo definitivo sullo status delle isole Curili, ma i colloqui sono stati interrotti a seguito dell’esplosione del conflitto russo-statunitense in Ucraina, in merito al quale Tokyo si è subito schierata al fianco di Washington. Una presa di posizione che, peraltro, ha isolato in un certo senso l’India all’interno del Quad (dialogo quadrilaterale) indo-pacifico. New Delhi, infatti, che nel conflitto sino-statunitense appare disponibile ad assecondare gli interessi di Washington, sul fronte russo finora ha scelto una sostanziale neutralità, preferendo mantenere gli storici rapporti con Mosca, soprattutto in ambito militare. D’altronde, a differenza di Usa, Giappone e Australia, l’India è membro fondatore del Movimento dei paesi non-allineati.

Il giorno dell’auto(in)determinazione

Intanto, coltivando l’aspirazione a fare del Giappone una potenza almeno regionale, durante i suoi vari mandati, Abe aveva riportato in auge il dibattito politico sulla modifica della costituzione pacifista imposta dal generale Douglas McArthur nel 1947, soprattutto dell’articolo 9, che obbliga Tokyo a rinunciare alla guerra e a dotarsi di forze armate proprie, condannandolo di fatto alla dipendenza da Washington. Tra i primi ad affrontare apertamente questo tema, fu, nel 1985, sul finire della guerra fredda, il primo ministro Nakasone Yasuhiro (anch’egli appartenente al Pld), che, in precedenza, aveva adottato la strategia, più prudente, della reinterpretazione, analoga a quella scelta a più riprese da Abe: aumento progressivo delle spese militari, sempre ufficialmente con finalità difensive; ipotesi di dotare il paese di un arsenale atomico proprio o, laddove ciò fosse impossibile, di ospitare testate nucleari gestendone in modo congiunto con gli Usa; istituzione, nel 2013, di un Consiglio di sicurezza nazionale (ufficialmente finalizzato alla difesa da eventuali attacchi cinesi). Da parte sua, l’ex primo ministro Koizumi Junichiro (Pld), nei primi anni Duemila, rafforzando l’alleanza militare con la superpotenza statunitense impegnata nella «guerra al terrorismo», aveva proposto un emendamento costituzionale per consentire al Giappone un maggior coinvolgimento nelle sfide di sicurezza globale. Parole allettanti per Washington, soprattutto perché provengono da un paese che aveva fornito la più cospicua assistenza finanziaria all’invasione dell’Iraq nel 1991 (come riporta il ministero degli Esteri giapponese). Nella prospettiva dei nazionalisti nipponici, infatti, la pesante ingerenza Usa, oltre a essere un impedimento è anche, in certa misura, un alibi per portare avanti gli interessi strategici del paese, considerati sempre più in chiave nazionalista e militarista. Un’evoluzione, che, d’altronde, non riguarda solo il Giappone degli ultimi decenni, stando alle stime dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri). La peculiarità nipponica è stata, invece, l’abilità di trarre sistematicamente vantaggio dalle convergenze strategiche con la potenza occupante, sapendone interpretare anche le virate reali o apparenti. Almeno finora, anzi, fino al periodo della presidenza statunitense di Donald Trump. Quest’ultimo, infatti, aveva lasciato intendere a satelliti e alleati che Washington intendeva diminuire il più possibile la propria presenza diretta in prossimità delle varie faglie geopolitiche, Pacifico in primis. È stato proprio Abe a cogliere l’occasione per aumentare le proprie «capacità difensive», forse inducendo Tokyo a illudersi della possibilità di un percorso verso l’autodeterminazione.

«È naturale per il governo garantire una spesa per la difesa equivalente al 2 per cento del Pil» (Abe Shinzo, 27 maggio 2022)

Illusione che l’attuale presidente Usa Joe Biden non sembra intenzionato a coltivare, se non altro per scongiurare il rischio di trovarsi di fronte una Turchia del Pacifico, tanto più che il Giappone ospita importanti basi militari statunitensi, tra cui quella di Yokosuka, la più grande al di fuori del territorio statunitense, sede del comando della potente Settima flotta. Senza considerare che Tokyo è tra i grandi detentori (recentemente, peraltro, ha conquistato il primo posto) del debito statunitense.

Tra metus hostilis e bellum factionum

In effetti, come ha rilevato Marco Zappa nella medesima intervista, Abe era l’esponente più «carismatico» delle fazioni più militariste e nazionaliste del Pld. Inoltre, in quanto fervente scintoista, era una figura di raccordo e di equilibrio tra il mondo politico e la sfera del culto: un ruolo importante, in un paese dove il potere e l’influenza delle sette religiose sono significativi. Intanto, la frantumazione sociale, aggravata nell’ultimo decennio dalla diffusione esponenziale del lavoro precario e somministrato, promossa dalla Abenomics come misura di modernizzazione neoliberista e produttivista, si riflette nello scontro latente e a bassa intensità tra le fazioni politiche (e religiose), in particolare tra quelle che compongono il Pld. Per esempio, una delle fazioni concorrenti di quella che faceva riferimento ad Abe, si raduna intorno a Kishida, che prima di essere nominato primo ministro, in campagna elettorale, aveva indicato diversi elementi di discontinuità rispetto al suo predecessore. A partire proprio dalla Abenomics, di cui ammetteva la responsabilità nell’acuirsi delle diseguaglianze, lanciando un appello (generico) a concepire e a mettere in atto un nuovo capitalismo in grado di trovare una soluzione efficace alle questioni sociali più cogenti. Anche nelle relazioni internazionali, da ex ministro degli Esteri, Kishida ha sin da subito mostrato un atteggiamento più moderato, lasciando la porta aperta a una visita del presidente cinese Xi Jinping, dopo l’annullamento dell’ultima, fissata nel 2020, ufficialmente a causa delle restrizioni dovute all’emergenza sanitaria.  Nondimeno è probabile che l’attuale primo ministro si trovi, in autunno, ad affrontare, anche nel dibattito parlamentare, il delicato tema della modifica della costituzione.

«Vorrei proseguire gli sforzi per giungere alla proposta di una revisione il prima possibile» (dell’articolo 9 della costituzione pacifista; dichiarazione di Kishida Fumio ripresa da “Kyodo News”, durante una conferenza stampa sui risultati elettorali dell’LDP e riportata da Deutsche Welle”).

Malgrado le critiche riguardo la gestione delle diseguaglianze sociali e della pandemia da Covid-19, infatti Abe aveva reso il Giappone capace, in termini di tecnologia e di competenze, di dotarsi di armi nucleari nel giro di poche settimane, come sottolineato a più riprese dagli autori della rivista “Limes”. Anche per questo è stato definito da molti analisti il personaggio più importante della storia giapponese degli ultimi decenni, tanto a livello di gestione politica interna, quanto sul piano geopolitico. Le sue dimissioni nel 2021, ufficialmente per motivi di salute, avevano già lasciato intendere il declino della sua fazione politica, cui ha probabilmente contribuito una diminuzione del sostegno di Washington: anzitutto durante la presidenza Trump, caratterizzata dal disimpegno, poi dall’insediamento di Biden, che sembra adottare l’equazione, che Pechino definisce «da guerra fredda», tra l’impegno e un controllo che rasenta l’asservimento. Abe e la sua fazione, da parte loro, sembravano invece premere nella direzione di una maggiore autonomia strategica di Tokyo, in ragione del suo peso geostrategico crescente.

Il nazionalismo «moderato» di Kishida Fumio

L’attuale primo ministro, invece, oltre a ostentare toni meno aggressivi e un atteggiamento più pragmatico nei confronti della Cina e, soprattutto, della Corea del Sud, si mostra anche più propenso a fare a meno dell’autonomia strategica, e maggiormente concentrato sulla crescita economica, sulla gestione del malcontento sociale (un tema quasi sconosciuto al dibattito pubblico giapponese) e sul progresso e l’innovazione tecnologici. Inoltre, almeno finora, è parso meno insistente del suo predecessore nel chiedere agli Usa di rompere la storica ambiguità strategica riguardo Taiwan e di prendere una posizione più netta in suo sostegno. Una postura politica, forse, più rassicurante per Washington, la cui considerazione per il Giappone dal punto di vista geostrategico si comprende anche dalla scelta di Tokyo come luogo dell’ultima riunione del Quad, tenutasi alla fine di maggio.

Cinque pilastri per un Indo-Pacifico libero e aperto
«Questo si basa essenzialmente su cinque pilastri che andranno a ispirare l’azione politica giapponese sul piano internazionale: promuovere lo stato di diritto internazionale, rafforzare le capacità di difesa nazionale, impegnarsi per la denuclearizzazione, lavorare a una riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e migliorare la cooperazione internazionale soprattutto in materia economica» (Kishida al meeting di Shangri-La a Singapore).

Un vertice di fondamentale importanza strategica, perché incentrato sul contenimento della potenza cinese dal punto di vista, simultaneamente, militare e finanziario, con l’annuncio da parte di Biden dell’Indo-Pacific Economic Forum (Ipef). Il piano, o meglio, la cornice economica mediante la quale Washington, con una strategia analoga a quella di Abe, intende mettere i bastoni tra le ruote alle nuove vie della seta cinesi, note con l’espressione inglese Belt and Road Initiative (Bri), che sintetizzano la politica di potenza di Xi Jinping. Di conseguenza, sarebbe meglio per gli Usa non correre il rischio che l’Impero del Sol Levante, sia pure nell’impossibilità di modificare il testo costituzionale, introduca il concetto di «attacco preventivo» (analogo a quello sbandierato dall’ex presidente Usa George W. Bush nei primi anni Duemila) nella nuova Strategia per la sicurezza nazionale, che sarà promulgata entro il prossimo autunno. Questo concetto, infatti, rischierebbe di erodere il pacifismo giapponese dall’interno, offrendo il fianco a un’ulteriore, e soprattutto più offensiva, corsa al riarmo. Nondimeno, anche un riarmo sotto l’egida statunitense, soprattutto in una fase di inasprimento delle relazioni internazionali, rischia di spingere l’Impero del Sol Levante verso un nuovo pericoloso imperialismo.

Fratture scomposte

Infine, Marco Zappa ha notato che, in un contesto di declino demografico, dopo tre decenni di stagnazione economica, l’uccisione di Abe da parte del quarantunenne Yamagami Tetsuya ha aperto due piste di riflessione sociologica e socio-politica sul Giappone: anzitutto la commistione tra partiti politici e movimenti religiosi (la madre di Yamagami aveva donato un’ingente somma di denaro alla Chiesa dell’Unificazione, con cui Abe aveva legami indiretti); in secondo luogo, un disagio sociale diffuso, soprattutto tra le fasce di popolazione non coperte neppure dal welfare. Si pensi, per esempio, che la madre di Yamagami, secondo quanto reso noto da Tokyo, ha cresciuto da sola due figli, dei quali il maggiore sarebbe morto suicida, come riporta lo stesso Marco Zappa.

“Mondi e disagi intrecciati nel Pacifico: il caso del Giappone”.

La compresenza di estrema innovazione tecnologica e superstizione arcaica

D’altra parte, il Giappone è caratterizzato dalla costante tensione non solo tra subalternità e autonomia geostrategiche, ma anche tra un forte avanzamento tecnologico accompagnato da uno strenuo impegno nell’innovazione, soprattutto nei settori della robotica e dell’intelligenza artificiale, e consuetudini e credenze arcaiche. Un’altra dicotomia peculiare della cultura giapponese sin da tempi remoti è quella tra tatemae, il volto pubblico, e honne, la vera essenza, ossia la dimensione interiore. Per esempio, nel dibattito pubblico interno, stampa inclusa, non solo non viene affrontato il tema del disagio e del malcontento sociali, ma non si discute neppure del disagio mentale all’interno di una società ossessionata tradizionalmente dalla codificazione e dal controllo, in cui negli ultimi decenni, in particolare con le riforme liberali lanciate all’inizio del millennio, si sono accentuati gli aspetti più disfunzionali, soprattutto quelli legati all’iperproduttivismo. Nel corso dell’intervista a Marco Zappa a Radio Blackout, per esempio, si è fatto riferimento al karoshi, la morte causata da iperlavoro, ma si potrebbe citare anche il fenomeno, emerso con la crisi economica dell’inizio degli anni Novanta, degli hikikomori, individui che trascorrono la propria vita reclusi nelle rispettive abitazioni, contando sui familiari per il sostentamento.

Banzaiii…! ma troppo vecchi per combattere?

In Giappone, dunque, un paese che sin dalla Rivoluzione/Restaurazione Meiji della seconda metà del Diciannovesimo secolo ha saputo conservare intatta la propria essenza, pur in una continua e febbrile metamorfosi materiale, numerose sono le forze contrastanti che covano sotto l’aspetto di un tessuto sociale stabile e controllato. Terreno fertile per le strumentalizzazioni della dialettica imperiale da parte delle forze politiche, anche se quando si parla di disposizione alla guerra non si può prescindere dal cosiddetto fattore umano. In altri termini, anche se Tokyo arrivasse a modificare la costituzione del 1947, non è detto che una popolazione con un alto tasso di senescenza possa favorire l’ascesa di partiti e movimenti che porterebbero il paese a impegnarsi in un conflitto armato.

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Biden in Medio Oriente: le insidie che declinano la centralità Usa https://ogzero.org/biden-in-medio-oriente-le-insidie-che-declinano-la-centralita-usa/ Tue, 19 Jul 2022 14:48:13 +0000 https://ogzero.org/?p=8226 La disposizione delle pedine sulla scacchiera conduce a frenetiche consultazioni, vertici, summit, visite di rappresentanza e di scambi più o meno confessabili; la preparazione del confronto sull’egemonia o sulla oppositiva concezione tra multilateralismo e bipolarismo.  Inauguriamo con questa analisi di Eric Salerno sulle visite di Biden in Medio Oriente alcuni interventi estemporanei, di cui cercheremo […]

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La disposizione delle pedine sulla scacchiera conduce a frenetiche consultazioni, vertici, summit, visite di rappresentanza e di scambi più o meno confessabili; la preparazione del confronto sull’egemonia o sulla oppositiva concezione tra multilateralismo e bipolarismo. 
Inauguriamo con questa analisi di Eric Salerno sulle visite di Biden in Medio Oriente alcuni interventi estemporanei, di cui cercheremo di fare tesoro per arrivare a comprendere le strategie e gli schieramenti in alcune tappe. Cominciamo a proporre interventi o editoriali proprio oggi, quando si sta svolgendo l’incontro a Tehran tra i vecchi protagonisti degli incontri iniziati ad Astana con l’idea di comporre il conflitto siriano e poi proseguiti spartendosi ruoli e aree di influenza nel bacino mediterraneo, nella regione caucasica e nella penisola araba, come descritto da Antonella De Biasi in Astana e i 7 mari. Un percorso che passa anche attraverso il rifiuto del “paria” MbS alla richiesta di incrementare  la produzione al di là degli accordi Opec, che avrebbe segnato una precisa scelta di campo contro la Russia, con la quale i sauditi hanno sempre stabilito il prezzo del petrolio accordandosi sulla produzione.

Fin da subito in questo articolo viene evidenziato da Eric il punto principale: l’irreversibile declino degli Usa come unica potenza di riferimento, motivo del confronto globale che scuote il mondo.

Fin qui la presentazione di OGzero, la parola passa ora a Eric Salerno


Biden in Medio Oriente: «Ne valeva la pena?»

«Was it worth it?»

È la domanda che si pone il “Washington Post”, analizzando la visita del presidente Biden in Medio Oriente. Una domanda lecita da molti punti di vista, e non soltanto da chi guarda agli interessi Usa. La toccata – pugno contro pugno – tra il presidente americano e il principe della corona saudita Mohammed bin Salman – immagine scandalosa, per tanti, che ha fatto il giro del mondo – non è soltanto imbarazzante ma indicativo di un cambiamento profondo in corso nel mondo che sempre di più non considera gli Usa il punto di riferimento di ogni forma di sviluppo. E di gestione del futuro, sempre incerto, della Terra.

«Saudi Arabia can’t raise oil output more in the medium term»

È la risposta del “paria” Mbs.
Jamal Khashoggi, saudita critico del regime che governa il suo paese, era un collaboratore del quotidiano della capitale americana. I servizi segreti americani ritengono che la sua uccisione, avvenuta in Turchia, era stata autorizzata, o meglio commissionata da Mohammed bin Salman per eliminare uno dei personaggi più critici della monarchia. Biden aveva fatto della sua presunta-certa colpevolezza nella vicenda Khashoggi uno dei suoi cavalli di battaglia durante la campagna elettorale. Aveva giurato di osteggiare, punire Mbs (come è noto ormai a tutti, l’erede al trono dei Saud). Il pragmatismo, ci dicono i diplomatici, è un elemento fondamentale nelle scelte strategiche e in questo momento, con Russia e Cina e una parte considerevole del mondo su posizioni ben lontane da quelle Usa-Europa, il capo della Casa Bianca non aveva altra scelta per cercare di convincere i sauditi ad aumentare la produzione di petrolio (continuano a dire di no) e per cercare di riportarli sotto il controllo Usa mentre si fanno corteggiare con un certo successo da Pechino.
Con la guerra che infuria in Europa, le alleanze da guerra fredda che riaffiorano, l’economia mondiale in caduta libera,  e l’unica industria che tira come mai quella degli armamenti, c’è chi afferma che Biden non aveva altra scelta. E che comunque, tutto sommato, Bin Salman non è il primo tiranno-assassino con cui gli Usa o l’Europa fanno affari.

Visita elettorale a Tel Aviv

Se quel ragionamento tattico-strategico in Arabia Saudita può essere condiviso, diversamente non ci sono giustificazioni per il comportamento di Biden in Israele, la tappa precedente della sua visita regionale, se non quella di non turbare difficili equilibri interni americani a pochi mesi dalle elezioni parlamentari di mezzo termine. Le azioni del presidente sono in caduta libera e il leader democratico non può – e non vuole – rischiare di perdere il voto di chi sostiene da sempre e in maniera totalmente acritica lo stato d’Israele. Biden arrivando a Tel Aviv ha ripetuto il suo storico sostegno alla soluzione “due stati per due popoli” per poi mettere le mani avanti con un «ma i tempi non sono maturi per la ripresa dei negoziati».  Si è poi vantato di aver stanziato un miliardo di dollari per aiutare ad affrontare la fame in alcune parti del Medio Oriente e del Nordafrica. Soldi promessi, ricorda il quotidiano Usa, anche ai palestinesi per i quali il perpetuarsi dello status quo rafforza l’occupazione israeliana delle loro terre, ossia della Cisgiordania e della parte orientale di Gerusalemme.

«The only way to stop them is to put a credible military threat on the table»

È la pretesa di Yair Lapid rivolta a Biden dopo avergli chiesto soldi per l’Iron Beam, il sistema missilistico di difesa antiraniano.

Ci sono state, dopo questa visita di Biden, poche analisi e commenti. Si è accennato al contenzioso con l’Iran con cui continuano i negoziati per cercare di mettere insieme un altro accordo Jcpoa sul nucleare mentre Israele ribadisce che agirà militarmente (oltre agli attentati e assassini mirati di scienziati e militari di Tehran) se lo dovesse ritenere necessario per restare l’unico paese armato di ordigni nucleari in tutta la regi0ne. E qui, da osservatore impegnato da troppi anni a seguire il conflitto israelo-palestinese, appare doveroso chiedersi: «Ma è mai possibile che gli Usa e l’Europa non abbiano capito che Israele – governanti, politici, opinione pubblica – concorda e si è fissata su una valutazione assurda: “Uno stato palestinese indipendente sarebbe un pericolo esistenziale per lo ‘stato ebraico’”».

Armi di distruzione di etnie: curdi palestinesi saharawi

Israele è all’avanguardia nelle tecnologie militari del futuro; vende know-how a tutti (quasi); potrebbe “appiattire” una Palestina indipendente se fosse ostile in pochi minuti con gli stessi strumenti che minaccia di usare per distruggere il Libano se dalla frontiera settentrionale Hezbollah o altri alleati di Tehran dovessero attaccare. E allora? Forse è venuto il momento di capire che, salvo stravolgimenti difficili da prevedere oggi, della sofferenza dei palestinesi – tra Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est, campi profughi in Siria e Libano e Giordania, e una diaspora mondiale – si sentirà parlare a lungo, così come si parla del popolo curdo, se vogliamo restare nella stessa regione.

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Nord Kivu: la tregua tra Ruanda e Congo resuscita l’M23 https://ogzero.org/nord-kivu-la-tregua-tra-ruanda-e-congo-resuscita-lm23/ Thu, 14 Jul 2022 10:52:21 +0000 https://ogzero.org/?p=8201 La distrazione globale derivata dalla guerra in Europa nasconde ancora di più tensioni, conflitti esplosi o quasi, guerre prolungate e seriali. Lo scontro in Nord Kivu è tra i più annosi e coinvolge diversi interessi, in particolare quelli tra comunità che si contendono interessi e sfruttamento delle risorse della regione. I due protagonisti di questa […]

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La distrazione globale derivata dalla guerra in Europa nasconde ancora di più tensioni, conflitti esplosi o quasi, guerre prolungate e seriali. Lo scontro in Nord Kivu è tra i più annosi e coinvolge diversi interessi, in particolare quelli tra comunità che si contendono interessi e sfruttamento delle risorse della regione. I due protagonisti di questa disputa abitano a Kigali e Kinshasa; si sono scatenate guerre, massacri, sfruttamenti e il controllo di miniere maledette di metalli preziosi legittima il perdurare delle tensioni, che richiedono la presenza di antagonisti, conosciuti e riconoscibili. Il movimento M23 nelle province nordorientali della Repubblica democratica del Congo serve per evitare che sui Grandi Laghi scenda il livello di scontro; un Movimento che si muove sempre più come un esercito regolare con la stessa potenza di fuoco, come sottolinea “Nigrizia”. Angelo Ferrari, contestualizzando gli eventi e segnalando il ruolo autonomo di M23 come attore in commedia, ha scritto per l’agenzia Agi questa breve nota che riprendiamo, lasciando immaginare l’incertezza come sistema per perpetuare lo scontro… e gli affari. 


Cosa sta succedendo nel Nordest della Repubblica democratica del Congo?

Ma, soprattutto, a cosa è servito l’incontro del 6 luglio a Luanda tra il presidente congolese, Felix Tshisekedi e quello ruandese, Paul Kagame, mediato dal loro omologo angolano, João Lourenço? Probabilmente a nulla.
I tre dovevano trovare una soluzione alle crescenti tensioni tra Congo e Ruanda che si sono acuite con l’intensificarsi delle attività nel Nord Kivu del gruppo ribelle M23, che si riteneva sconfitto dal 2013, ma che ha ripreso le sue attività provocando decine di vittime e migliaia di sfollati. Kinshasa sostiene che i ribelli siano sostenuti dal Ruanda, quasi una longa manus di Kigali che, invece, nega in maniera decisa.
Smentite che non hanno fatto calare la tensione che, anzi, si è riaccesa dopo l’annuncio del 13 giugno scorso da parte delle Forze armate della Repubblica del Congo (Fardc) che hanno parlato di «un’occupazione della città di confine di Bunagana» da parte delle Forze di difesa del Ruanda (Rdf). A dimostrazione che non si tratta solo di una disputa tra diplomazie ci sono le manifestazioni della popolazione a Goma: una vera e propria rivolta, una marcia verso il confine con il Ruanda al grido “dateci le armi che sconfiggeremo il nemico”, cioè Kigali. Manifestazioni che sono state sedate dalle forze di polizia del Congo.

Nord Kivu

Cessate il fuoco in Nord Kivu: fare la tregua senza l’oste

I tre presidenti, il 6 luglio, si erano accordati per un “cessate il fuoco”, annunciato in pompa magna dal capo di stato angolano e mediatore tra le parti.

«Sono felice di annunciare che abbiamo compiuto progressi, dal momento che abbiamo concordato un cessate il fuoco», ha detto pomposamente Lourenço.

Il presidente del Congo e quello del Ruanda, dal canto loro, avrebbero anche deciso di «creare un meccanismo di monitoraggio ad hoc», che sarà guidato da un ufficiale dell’esercito angolano. La tensione tra i due paesi è “inutile”, ha spiegato Tshisekedi, perché «costituisce un fattore destabilizzante e non contribuisce allo sviluppo e al benessere dei rispettivi popoli». Kagame, dal canto suo ha ritenuto “soddisfacenti” i risultati del vertice di Luanda che prevede, tra l’altro, l’immediata cessazione delle ostilità e il ritiro immediato e incondizionato dell’M23 dalle sue posizioni.

Il giorno dopo il vertice arrivano le dichiarazioni dell’M23, una doccia fredda sugli accordi. Il portavoce del movimento ribelle, Willy Ngoma, spiega che «l’accordo non coinvolge l’M23. Siamo congolesi, non ruandesi. Se c’è un cessate il fuoco, può essere solo tra noi e il governo congolese, non abbiamo niente a che fare con il Ruanda. Ci viene chiesto di partire da qui, ma per andare dove? È impossibile».

Probabilmente a Luanda si sono dimenticati di invitare il terzo attore delle tensioni in Nord Kivu, oppure credono davvero che i ribelli in questione siano realmente sostenuti da Kagame. Non è una questione da poco. L’M23 è un gruppo ribelle a maggioranza tutsi – la stessa etnia che ha le redini del potere a Kigali – che ha ripreso le ostilità alla fine dell’anno scorso, accusando Kinshasa di non aver rispettato gli accordi sulla smobilitazione e il reinserimento dei suoi combattenti.

Ascolta “Nord Kivu: la consuetudine alla guerra” su Spreaker.

Ma la trama si infittisce

Nessun accordo, nessun cessate il fuoco ma solo una tabella di marcia comune “con obiettivi e attività chiari”, in vista del prossimo vertice a Luanda. Così il 12 luglio il governo di Kigali ha ufficialmente smentito la firma o un qualsiasi accordo di cessate il fuoco nell’Est della Repubblica democratica del Congo, come invece annunciato il 6 luglio. La smentita è stata diffusa dal ministro ruandese degli Esteri e della Cooperazione, Vincent Biruta, che ha poi aggiunto che la «disinformazione e il populismo stanno minando l’obiettivo generale di raggiungere la pace» nella Repubblica democratica del Congo.

Nord Kivu: tutto da rifare?

Pare proprio di sì.
Le schermaglie diplomatiche si aggiungono a quelle sul campo e non fanno altro che surriscaldare gli animi. La contesa armata tra Fardc e M23 continua e a farne le spese, come sempre, la popolazione che si trova tra due fuochi, senza comprenderne bene la ragione, sa solo che deve fuggire dalle proprie case; e sono già 170.000 i profughi di questo ritorno di fiamma del conflitto. Il Nord Kivu continua a essere teatro di scontri e delle scorribande di gruppi armati, ribelli o no che siano, da ormai 25 anni e il governo congolese non riesce a governare il territorio dove ha decretato, l’anno scorso, lo stato di emergenza che consente all’esercito pieni poteri e libertà di azione, con risultati, tuttavia, molto scarsi ed è comprensibile visto che neanche i tre presidenti, quello congolese, quello ruandese e quello angolano, riescono a concordare una dichiarazione comune.

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La Cumbre de los pueblos: il non vertice visto dall’interno https://ogzero.org/il-non-vertice-delle-americhe-di-los-angeles/ Sun, 10 Jul 2022 08:44:29 +0000 https://ogzero.org/?p=8170 Diego Battistessa ha partecipato in presenza ai lavori del vertice delle Americhe a Los Angeles, in qualità di Coordinatore regionale per l’America Latina e i Caraibi di Every Woman Treaty. E quindi ci ha potuto dare conto di prima mano dei lavori ufficiali, quelli che hanno dato dimostrazione che il cortile di casa non è […]

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Diego Battistessa ha partecipato in presenza ai lavori del vertice delle Americhe a Los Angeles, in qualità di Coordinatore regionale per l’America Latina e i Caraibi di Every Woman Treaty. E quindi ci ha potuto dare conto di prima mano dei lavori ufficiali, quelli che hanno dato dimostrazione che il cortile di casa non è più considerabile tale a tutti gli effetti, e delle attività parallele del Forum della società civile, rappresentata da quelle ong i cui interessi collidono con le conclusioni antimigratorie formulate dal vertice organizzato malamente da Biden, che come unico intento aveva quello di sancire la chiusura degli Usa (e di conseguenza per imitazione dell’intero Occidente) a qualsiasi forma di immigrazione.


L.A. Cumbre: America non è (solo) Usa

Dal 6 al 10 giugno si è celebrato a Los Angeles (California) il nono Vertice della Americhe. Un incontro regionale che si realizza ogni quattro anni dal 1994 (prima edizione a Miami e unica negli Usa fino a quella del mese scorso) e che riunisce capi di governo, imprese private e delegazioni della società civile del continente americano. L’ultimo vertice di questo genere fu quello di Lima nel 2018 (Trump non aveva partecipato inviando il vicepresidente Mike Pence al suo posto) e questo è stato dunque il primo dell’era Covid-19.

L’amministrazione di Joe Biden non è certamente arrivata all’appuntamento nel migliore dei modi: infatti sia problemi di politica interna (economia, sicurezza e tema migratorio), che l’instabile situazione geopolitica mondiale (guerra in Ucraina) hanno deviato l’attenzione dall’importante vertice continentale abbassandone il “tono”. In quanto anfitrioni, gli Usa hanno dettato le regole e fin da subito hanno fatto sapere che non sarebbero stati invitati i presidenti di Nicaragua, Cuba e Venezuela (Daniel Ortega, Miguel Diaz-Canel e Nicolas Maduro): etichettati dal governo di Biden come regimi antidemocratici dove si violano massivamente e sistematicamente i diritti umani. Una posizione condivisibile o discutibile a seconda dei punti di vista (quella del non invito) che però ha generato un’ondata di protesta regionale che forse  il presidente statunitense non si aspettava. Questa posizione unilaterale e monolitica degli Usa ha infatti portato al rifiuto di partecipare ai lavori del vertice a Los Angeles da parte del presidente del Messico (Andrés Manuel Lopéz Obrador), di quello della Bolivia (Luis Arce) e di quello dell’Honduras (Xiomara Castro). Come se non bastasse neanche Nayib Bukele e Alejandro Giammattei, rispettivamente presidenti del  Salvador e del Guatemala,  sono andati in California perché in aperto conflitto con Biden, mentre il presidente dell’Uruguay, Luis Lacalle Pou, ha dovuto rinunciare al viaggio perché positivo al Covid-19. Insomma, uno scenario tutt’altro che allettante e che ha rischiato di aggravarsi con la minaccia di Jair Bolsonaro (presidente del Brasile) di non partecipare al vertice delle Americhe, se Biden non gli avesse concesso un incontro bilaterale al margine dei lavori dell’evento continentale.

Il presidente Usa ha subito negato questa possibilità e Bolsonaro, in cerca di visibilità per le elezioni presidenziali che si svolgeranno a ottobre  2022 (e che lo vedono in svantaggio nei sondaggi di fronte a Lula) ha quindi palesato il rifiuto al viaggio in California.

Questa situazione di tensione si è manifestata apertamente quando proprio l’8 giugno, con il discorso del presidente Biden al “Microsoft Theater” di Los Angeles si sono aperti ufficialmente i lavori diplomatici del nono vertice delle Americhe Costruire un futuro Sostenibile, Resiliente ed Equo. Il presidente USA ha parlato alla platea di suoi pari accorsi per l’occasione, tra i quali mancava (oltre ai 9 già segnalati in precedenza) proprio il presidente del Brasile. La sera dell’8 giugno però il colpo di scena: Biden viste le numerose assenze (25 presenti su 35 possibili) chiama Bolsonaro, accetta la proposta di riunione bilaterale. E così venerdì 10 giugno, nei discorsi ufficiali di chiusura del nono vertice delle Americhe vediamo apparire un gaudente presidente del Brasile (giunto la sera prima a Los Angeles), che pontifica su futuri accordi e sulle relazioni Usa-Brasile. Un discorso , quello di Bolsonaro, nel quale si fa menzione anche alle ricerche del giornalista britannico Dom Phillips e dell’indigenista Bruno Pereira Araujó, scomparsi il 5 giugno in Amazzonia (verranno poi ritrovati morti il 15 giugno).

Quello con Jair Bolsonaro non è stato però l’unico retroscena di Realpolitik messo in atto da Biden. Non è da meno infatti il gioco di funambolismo che ha legittimato il presidente Usa a inviare una delegazione a parlare con Nicolas Maduro (non riconosciuto ufficialmente dagli Usa come presidente in carica del Venezuela) a pochi giorni dal vertice, per risolvere la questione petrolio viste le sanzioni imposte alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina.
Quindi da un lato il Venezuela non è stato invitato ufficialmente ma dall’altro, proprio in prossimità di questo grande evento continentale, gli Usa negoziavano con il regime di Maduro per esplorare vie di riattivazione di un’industria petrolifera che nel paese sudamericano della rivoluzione bolivariana è ormai ai minimi termini. Ma dov’era Juan Guaidó in tutto questo? Il presidente dell’Assemblea nazionale venezuelana (esautorata da Maduro), riconosciuto da più di 50 stati della comunità internazionale (tra cui gli Usa) come il legittimo presidente del Venezuela, non è stato invitato al nono vertice delle Americhe da Biden. A lui è stata dedicata però una telefonata di circa 8 minuti partita dall’Air Force One proprio mentre Biden stava viaggiando per arrivare a Los Angeles. Il presidente USA ha rinnovato l’appoggio del paese nordamericano a Guaidó, ribadendo la politica di tolleranza zero contro i delitti del regime di Nicolas Maduro e sottolineando che l’Assemblea Nazionale del 2015 è l’ultimo organo eletto democraticamente in Venezuela riconosciuto dagli Stati Uniti d’America.  Guaidó però dunque non ha calcato il red carpet del vertice in quanto ospite “complicato da gestire”, la cui presenza avrebbe potuto appesantire ancora di più la tensione dei lavori a Los Angeles.

Il tema migratorio

Lavori che per l’amministrazione Biden sembra avessero un unico grande scopo. Infatti, al margine delle magniloquenti dichiarazioni dei giorni anteriori al vertice, che parlavano di necessari e urgenti accordi su temi quali stabilità democratica della regione, sicurezza, energie rinnovabili, clima, salute e diritti umani, il tutto si è ridotto al tema migratorio. Si perché se un documento importante è uscito da questo vertice è proprio la “Dichiarazione di Los Angeles” . Un testo che progetta una migrazione coordinata e ordinata, che vuole trovare una soluzione alla crisi migratoria che attraversano gli Usa e che riguarda la maggior parte dei paesi centroamericani: paesi i cui presidenti non erano però presenti al vertice. «Nessun paese dovrebbe assumere da solo il peso dei flussi migratori», ha detto Biden, mentre presentava il testo della dichiarazione di Los Angeles insieme a i suoi pari del continente. «Dobbiamo fermare le dinamiche pericolose e illegali con le quali le persone stanno migrando. La migrazione illegale non è accettabile e metteremo al sicuro i nostri confini», ha poi aggiunto. Mentre risuonavano queste parole nel Centro di Convenzioni nel downtown di Los Angeles arrivava però la notizia di una nuova enorme carovana, circa 7000 persone, composta principalmente da venezuelani, che aveva iniziato la marcia dal Sud del Messico (Chiapas) per arrivare alla sua frontiera settentrionale con gli Usa. Inoltre la dichiarazione di Biden non può non essere letta anche in chiave di politica interna, visto e considerato che proprio la sua amministrazione aveva provato nel maggio scorso a mandare in pensione il Titolo 42. Un articolo che risale al 1944 e che fu reinterpretato da Donald Trump al fine di utilizzare l’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 come vero e proprio scudo per respingere i migranti della frontiera meridionale con il Messico, senza considerare i trattati internazionali vigenti in materia. Una norma che ha portato all’espulsione di milioni di persone alla frontiera tra Messico e Usa e la cui eliminazione costituiva per Biden una battaglia di civiltà. Battaglia però momentaneamente persa, visto che dopo l’annuncio della fine del Titolo 42 i governi repubblicani degli stati dell’Arizona, della Louisiana e del Missouri hanno chiesto a un tribunale federale di fermare la decisione e continuare con il divieto di ingresso per motivi sanitari: richiesta accolta dal giudice Robert Summerhays, del distretto occidentale della Louisiana, che con un ordine dell’ultima ora ha sospeso l’eliminazione del Titolo 42 da parte dell’amministrazione Biden.

Insomma un tema quello migratorio che sembra essere tutt’altro che risolto e che continua a essere materia divisiva tra Repubblicani e Democratici negli Usa. Non va però dimenticato che anche la posizione di Biden rispetto alla migrazione “illegale” è stata fin da subito chiara. Infatti, nello stesso giorno in cui veniva trionfalmente annunciato che sarebbe stato sospeso il Titolo 42, la ormai ex portavoce della Casa Blanca, Jen Psaki, aveva chiarito di avere una posizione tutt’altro che “accogliente” verso i migranti.

«Do not come!» (non venite!): un messaggio che richiama quello della vicepresidentessa Kamala Harris (originaria proprio della California), che aveva detto le stesse parole nel suo primo viaggio internazionale a giugno 2019 in Messico e in Guatemala.

“La Cumbre e gli interessi nel cortile di casa”.

Il flop di Biden e lo scenario latinoamericano

Il nono vertice delle Americhe è stato anche un banco di prova per la compattezza di un nuovo blocco socialista-progressista che ricalca in America Latina quanto successo nei primi anni Duemila con la cosiddetta marea rosa. Il vertice si è infatti celebrato mentre in Colombia, storico alleato Usa nella regione, era in corso una serrata campagna elettorale per il ballottaggio presidenziale celebrato il 19 giugno. Un ballottaggio che vedeva la destra uribista (quella del presidente uscente Duque) fuori dai giochi e che per la prima volta apriva la porta a un governo di sinistra nel paese sudamericano: circostanza confermatasi poi con la storica vittoria di Gustavo Petro sull’outsider Rodolfo Hernánez.


Adesso dunque con l’arrivo di Petro alla presidenza della Colombia possiamo dire che la maggioranza della popolazione dell’America Latina (circa 350 milioni di persone su 630) è governata dalla sinistra giacché diventeranno (Petro si insedierà ad agosto) ben 10 i paesi appartenenti alla sfera socialista / progressista. Qui un breve ripasso:

  • Dal 2007 il presidente del Nicaragua è Daniel Ortega, ex comandante della rivoluzione sandinista che affrontò la dittatura di Somoza;
  • Dal 2013 il presidente del Venezuela è il delfino di Hugo Chvez, Nicolas Maduro;
  • Dal 2018 il presidente di Cuba è Miguel Diaz-Canel che ha preso il timone dell’isola dopo i fratelli Castro;
  • Sempre dal 2018, il presidente del Messico è il socialista Andrés Manuel Lopéz Obrador;
  • Dal 2019 il presidente dell’Argentina è Alberto Fernandez che governa in coppia con Cristina Kirchner;
  • Dal 2020 il presidente della Bolivia e Lusi Arce, ex ministro di Evo Morales;
  • Dal 2021 il presidente del Perù è Pedro Castillo, professore contadino che ha sorpreso tutta la comunità internazionale con la sua vittoria contro Keiko Fujimori.
  • Da gennaio scorso la presidentessa dell’Honduras è Xiomara Castro, ex moglie del presidente Manuel Zelaya deposto da un colpo di stato nel 2009;
  • Da marzo scorso, il presidente del Cile è Gabriel Boric, giovane leader studentesco che ha catalizzato l’onda di protesta arrivando al Palacio de la Moneda;

In un’altra epoca questo avrebbe fatto tremare le pareti della Casa Bianca a Washington ma non oggi, perché possiamo osservare come gli interessi geopolitici e geoeconomici abbiamo sparigliato le carte e creato scenari alquanto particolari. Dentro questo gruppo di paesi di “sinistra” (o autodichiaratisi tali, visto che molti considerano Cuba, Nicaragua Venezuela semplici dittature che usano la maschera del socialismo) esistono “amici” del governo Usa o quantomeno soci d’affari, mentre tra i governi di centrodestra o destra arrivano spesso critiche o “spallate” al vicino nordamericano. Questo nuovo blocco al quale si unisce la Colombia non è però così coeso e sono forti le critiche mosse per esempio contro Venezuela, Nicaragua e Cuba da Gabriel Boric in Cile, che rappresenta una sinistra più giovane e progressista, meno incline a giustificare violenza, soprusi e violazioni massive dei diritti umani (infatti Boric ha partecipato al vertice delle Americhe non allineandosi con Messico, Bolivia e Honduras).

La società civile presente al vertice delle Americhe

L’evento di Los Angeles è iniziato in realtà il 6 giugno con la due giorni del forum della società civile promossa dalla segreteria dell’organizzazione degli Stati Americani (Oea in spagnolo), che ha favorito i tavoli di lavoro e discussione tra le decine di Ong arrivate in California, intorno ai pilastri di questo organismo multilaterale regionale (democrazia, diritti umani, sicurezza e sviluppo) e tematiche oggi cruciali come genere, digitalizzazione, energia pulita e cambio climatico. Numerosi anche gli eventi paralleli che hanno toccano i principali temi dell’agenda che è stata poi discussa dai capi di stato arrivati sulla costa ovest degli Usa.

La zona del downtown di Los Angeles da lunedì 6 giugno ha visto quindi l’arrivo di centinaia di attivisti e attiviste, accademici e accademiche, diplomatici, giornalisti e artisti: come il cubano Yotuel, che ha lanciato nel 2021 (insieme a Gente de Zona, Decemer Bueno, Manuel Osorbo e El Funky) la canzone “Patria y vida” che critica apertamente il governo di Cuba.

Trattato globale per sradicare la violenza contro le donne: Every Woman Treaty

La società civile delle Americhe ha giocato dunque un ruolo importante (con delegazioni anche dei paesi esclusi politicamente dal vertice), presentando petizioni coordinate ai rappresentanti diplomatici degli stati del continente americano su temi cruciali quali sono le sfide del cambio climatico e l’uguaglianza di genere tra gli altri. In questo senso una delle grandi petizioni che ha fatto breccia e che ha trovato l’avvallo e l’appoggio del presidente della Colombia Iván Duque e del segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani, Luis Almagro, riguarda la creazione di un nuovo trattato globale per sradicare la violenza contro donne e bambine. Al vertice infatti ha partecipato anche una delegazione dell’alleanza Every Woman Treaty: una coalizione globale di oltre 1700 attiviste per i diritti delle donne, provenienti da 128 paesi diversi e appoggiate da 840 organizzazioni. Un’alleanza internazionale che lavora dal 2013 per raggiungere uno standard globale vincolante sull’eliminazione della violenza contro donne e bambine e che dopo anni di consultazioni e lavoro di attivismo, nel novembre 2021 ha lanciato una bozza di trattato, che rappresenta un punto di partenza per gli stati per discutere e approvare un nuovo quadro giuridico globale vincolante in materia. L’appello, come detto, è stato raccolto da Iván Duque, che durante il suo discorso di chiusura, venerdì 10, ha dichiarato:

«Oggi voglio fare riferimento alla difesa illimitata dei diritti umani, e in particolare accogliere tutte le voci che chiedono a gran voce che venga adottato questo trattato internazionale per respingere ogni forma di violenza contro le donne e le bambine. Lì si concentra uno dei più grandi drammi della nostra regione…».

Anche Luis Almagro ha sottolineato che

«Abbiamo la responsabilità di promuovere e proteggere i diritti fondamentali delle donne e delle bambine in tutta la loro diversità, il diritto di ogni individuo a essere libero da ogni forma di violenza […] Dobbiamo impegnarci a promuovere urgentemente un nuovo trattato globale autonomo per porre fine alla violenza contro donne e bambine».

Dalle Americhe dunque, in uno scenario di grande simbolismo, queste due importanti voci si uniscono a quelle dei premi Nobel per la Pace Jody WilliamsShirin Ebadi e Tawakkol Karman, a quella della ex relatrice speciale dell’Onu per la violenza contro le donne Rashida Manjoo e dei presidenti della Repubblica democratica del Congo, Félix Tshisekedi, e della Nigeria, Muhammadu Buhari. Un movimento globale e plurale che chiama a una azione urgente per arrestare la violenza contro donne e bambine, una violenza che UN Women chiama “shadow pandemic” (pandemia nell’ombra) e che l’Oms cataloga come “devastantemente generalizzata”. Basti pensare che i dati dell’Onu dicono che una donna su tre nel mondo soffre violenza e che solo nel 2020, ben 81.000 donne e bambine sono state assassinate: una ogni 6 minuti e mezzo.

Proteste e attività parallele in Latinoamerica

Ovviamente non sono però mancate le proteste. Da un lato proprio di fronte al centro di convenzioni di Los Angeles, molte persone hanno manifestato contro la politica migratoria degli Usa e contro le difficoltà per ottenere i permessi di residenza nel paese nordamericano. Dall’altro alcune delegazioni della società civile dei paesi esclusi dal vertice hanno voluto far sentire il loro dissenso denunciando le politiche imperialiste degli Usa al suono di canzoni simbolo come Latinoamerica

e This is not America (il videoclip di quest’ultima canzone ha vinto un premio a Cannes 2022).

Importante inoltre segnalare che mentre si svolgevano i lavori delle delegazioni politiche e delle Ong ufficialmente accreditate per partecipare al nono vertice delle Americhe, sempre a Los Angeles è stato lanciato un vertice parallelo, sotto il nome di Vertice dei popoli per la Democrazia. Un evento critico con il “vertice dell’esclusione” di Joe Biden (così chiamato dai partitari dei governi di Cuba, Venezuela e Nicaragua). Rispetto a questo, Manolo de los Santos, rappresentante dell’Assemblea Internazionale dei Popoli (Aip), ha dichiarato a Telesur che

«in realtà, non vediamo il vertice dei popoli per la democrazia solo come un vertice opposto, ma come il vero vertice a cui parteciperanno gli esclusi, che non sono solo Cuba, Venezuela e Nicaragua, ma che sono anche i milioni di persone che all’interno degli Stati Uniti d’America non hanno il diritto di partecipare ai processi politici in atto».

 

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Mediterranean Shield: espansione Nato a sud https://ogzero.org/mediterranean-shield-espansione-nato-a-sud/ Fri, 08 Jul 2022 08:05:03 +0000 https://ogzero.org/?p=8103 Riprendiamo due articoli scritti da Angelo Ferrari per l’agenzia Agi correlati alla corsa al controllo del territorio saheliano, a partire dall’esigenza di contrastare l’avanzata di potenze coloniali alternative a quelle occidentali con la perentoria reazione di un’espansione Nato in epoca globalizzata: la sua estensione oltre le sponde meridionali del Mediterraneo attraverso accordi con potenze locali […]

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Riprendiamo due articoli scritti da Angelo Ferrari per l’agenzia Agi correlati alla corsa al controllo del territorio saheliano, a partire dall’esigenza di contrastare l’avanzata di potenze coloniali alternative a quelle occidentali con la perentoria reazione di un’espansione Nato in epoca globalizzata: la sua estensione oltre le sponde meridionali del Mediterraneo attraverso accordi con potenze locali a fungere da satrapi ma sotto l’egida di un’alleanza che si estende sull’intero pianeta. Il vecchio approccio francese che fino a pochi mesi fa non poteva immaginare qualunque forma di autonomia locale va cestinato e ripensato completamente. Ma da nuovi protagonisti. 


Lo Scudo Nato a Sud

La Nato volge il suo sguardo anche a sud del Mediterraneo, in particolare verso il Sahel. E questa sembrerebbe una novità se non fosse che già nel passato la Nato è intervenuta nella gestione delle crisi su richiesta dell’Unione Africana (Ua). L’esordio è del 2005 quando, con l’acuirsi della crisi del Darfur, la Nato ha accolto la richiesta della Ua di supportare la sua missione di peacekeeping in Sudan. Poi nel 2009 la richiesta, sempre da parte della Ua di sostenere la missione in Somalia. Poi nel 2009 con l’operazione “Ocean Shield” per la lotta contro la pirateria nel Corno d’Africa. Per non dimenticare ciò che è successo in Libia a partire dal 2011. Sono solo alcuni esempi.

Con l’ultimo vertice della Nato a Madrid, che ha ridisegnato la postura dell’Allenza a livello globale puntando con più forza alla deterrenza e alla difesa collettiva, resta l’impegno verso la prevenzione e la gestione delle crisi con un focus significativo sul Nordafrica e il Sahel. Di sicuro l’Italia può dirsi soddisfatta del linguaggio usato nel nuovo Concetto strategico – come scrive su “Affarinternazionali.it”, Elio Calcagno – rispetto a una regione di primario interesse per il paese. Tuttavia il capitale politico, militare ed economico dell’Allenza verrà inevitabilmente incanalato verso est e verso la minaccia russa. L’Italia, dunque, dovrà giocare un ruolo più propositivo e concreto sul fianco sud in ambito Nato di quanto abbia fatto fino a oggi. Roma non può permettersi di stare a guardare e non può essere uno spettatore passivo come in Libia.

Necessari nuovi approcci alle crisi nelle marcoaree

La gestione e la prevenzione delle crisi, in particolare nel Sahel, dovranno necessariamente passare attraverso una “richiesta” dell’Unione africana e il consenso dei paesi coinvolti. E visto il clima antioccidentale che regna in questa regione dell’Africa è abbastanza complesso che i governi saheliani si affidino all’Alleanza per risolvere le crisi interne, senza dimenticare, poi, la forte presenza della Russia in quell’area.

Detta in parole povere la lotta al terrorismo nel Sahel non può essere camuffata come deterrenza nei confronti della minaccia russa. Insomma, i paesi dell’area saheliana hanno dimostrato, finora, di privilegiare il rapporto con Mosca. Un esempio eclatante è il ritiro dal Mali dei francesi con l’operazione Barkhane e di quella europea Takuba. Un bel rompicapo.

Soldati dell’operazione Barkhane in Mali (foto Fred Marie / Shutterstock)

Fino ad ora tutto è sulla carta ma alcune fughe in avanti di qualche ministro degli Esteri europeo, fanno già discutere nel Sahel. In particolare in Mali dove l’ambasciatore spagnolo a Bamako, Romero Gomez, è stato convocato dal ministro degli Esteri maliano, Abdoulaye Diop, dopo le parole del suo omologo spagnolo, Manuel Alvares che in una dichiarazione non escludeva un possibile intervento della Nato in Mali.

Diop non le ha mandate a dire e in un’intervista ha spiegato: «Oggi abbiamo convocato l’ambasciatore spagnolo per sollevare una forte protesta contro queste affermazioni. L’espansione del terrorismo nel Sahel è principalmente legata all’intervento della Nato in Libia, le cui conseguenze stiamo ancora pagando».

Parole dure, ma Diop non si ferma qui, ha infatti definito le affermazioni del suo omologo spagnolo “ostili, gravi e inaccettabili”, perché «tendono a incoraggiare l’aggressione contro un paese indipendente e sovrano». L’ambasciata spagnola, in un tweet, ha cercato di smorzare i toni spiegando che la «Spagna non ha richiesto, durante il vertice della Nato o in un qualsiasi altro momento, un intervento, una missione o qualsiasi azione dell’Alleanza in Mali». L’occidente dovrà abituarsi a questa ostilità che, in parte, è persino giustificata dalle missioni militari francesi ed europee nell’area.

Secondo il direttore del Centro studi sulla sicurezza dell’Istituto francese di relazioni internazionali (Ifri), Elie Tenenbaum, la Francia, ma anche l’Occidente nel suo insieme, deve “pensare” una nuova strategia, perché attualmente la «dinamica strategica produce l’opposto di ciò che si è prefissa». L’analista sostiene che i tentativi di entrare in partenariato con gli attori locali ha prodotto attriti – il Mali ne è un esempio –: i francesi hanno cercato di arginare il deterioramento della sicurezza in Sahel ma non ci sono riusciti. Nel difendere i propri interessi la Francia non ha fatto altro che alimentare un sentimento antifrancese.

Ma il problema su tutti è quello di avere trascurato le ambizioni russe, turche e cinesi

Attori nello scacchiere africano molto più spregiudicati e soprattutto meno interessati alle politiche interne dei paesi con cui diventano partner. La Francia, invece, non ha fatto altro che continuare, anche “sottobanco”, a determinare le politiche interne delle ex colonie, a “scegliere” chi di volta in volta avrebbe governato. Insomma, un’ingerenza inizialmente mal sopportata e ora totalmente avversata da buona parte delle popolazioni saheliane, certo con gradazioni diverse, ma pur sempre penetrante.

È chiaro che l’occidente dovrà ripensare completamente la sua strategia globale nel Sahel e nell’Africa occidentale se non vuole essere “sfrattato”. Ciò lo chiedono anche le opinioni pubbliche, in particolare quella francese, che cominciano a non capire più le politiche postcoloniali della Francia e quelle dell’Europa che sembra avere come unico obiettivo quello di spostare sempre più a sud il confine del Mediterraneo per arginare i flussi migratori.

Parigi vs Mosca in Françafrique

In Niger per rendere meno urticante la presenza francese in Sahel

La Francia cambia strategia nel Sahel, almeno ci prova. Dopo il ritiro dal Mali, che dovrebbe completarsi entro l’estate, Parigi trasferisce la sua presenza in Niger, paese diventato strategico per tutta la comunità occidentale. La sfida di Parigi è quella di mantenere una presenza nell’area per non vanificare la sua influenza storica, anche se è ormai messa a repentaglio da un sentimento antifrancese diffuso e alimentato ad arte dalla Russia, che esprime nella regione una politica molto aggressiva.

Dunque, un cambio di passo. L’esercito francese intende intervenire a “sostegno” e non più in sostituzione degli eserciti locali. Ma questo dipenderà, soprattutto, dalla volontà degli stati africani. Sono frenetiche le consultazioni e gli scambi tra capitali saheliane, Parigi e le capitali europee. Francesi ed europei si stanno muovendo in direzione di una maggiore cooperazione a seconda delle richieste dei paesi africani.

Dopo lo schiaffo maliano, Parigi intende operare non più da “protagonista” ma in seconda linea. Un modo per ridurre la visibilità della sua azione che finora ha dimostrato di essere un “irritante” per le opinioni pubbliche africane, ma di certo manterrà una presenza nella regione di influenza storica. L’attenzione si concentrerà in Niger, nuovo partner privilegiato, dove i francesi manterranno una presenza con circa mille uomini e capacità aeree. Quindi verrà avviato un partenariato strategico spiegato dal comandante del quartier generale, Hervé Pierre:

«Oggi invertiamo completamente il rapporto di partnership: è il partner che decide cosa vuole fare, le capacità di cui ha bisogno e controlla lui stesso le operazioni svolte con il nostro supporto. È il modo migliore per continuare ad agire efficacemente al loro fianco».

L’obiettivo di Parigi sarebbe quello di non irritare i partner e operare con discrezione, ma occorre anche sottolineare una mancanza di direttive chiare dell’esecutivo francese sulla prosecuzione delle operazioni. Si attendono “ordini” dalla politica in un quadro interno, dopo le legislative, molto complicato. L’opinione pubblica d’oltralpe non comprende più la politica postcoloniale della Francia.

Ciad, Burkina e sospettosamente il Golfo

Il quartier generale francese dell’operazione che succederà all’estinta Barkhane sarà mantenuto, per il momento, a N’Djamena, in Ciad, con cui la Francia ha un accordo di difesa. Ma la sua forza lavoro sarà ridotta. Per quando riguarda il Burkina Faso, dove altri civili sono stati uccisi per mano dei jihadisti nel fine settimana, sta ricevendo l’aiuto francese ma rimane perplesso sul fatto di una intensificazione della presenza sul terreno. Anche qui la propaganda antifrancese, ma soprattutto il sentimento che ne deriva, hanno attecchito molto bene.
Oltre a contribuire a contenere la violenza jihadista che minaccia di diffondersi nel Golfo di Guinea, la sfida per Parigi nel mantenere una sua presenza militare è quella di evitare un declassamento strategico, in un momento di accresciuta competizione sulla scena internazionale. In Africa occidentale i russi stanno perseguendo una strategia di influenza aggressiva, anche attraverso massicce campagne di disinformazione antifrancesi.

Le mosse Wagner

L’intelligence, infatti, sta monitorando gli attacchi compiuti da Wagner sui i social network che hanno superato i confini del Mali, e si stanno diffondendo in Africa. Un’ossessione francese? Non proprio, perché Mosca è riuscita a strappare all’impero d’oltralpe il Mali, si appresta a fare altrettanto in Burkina Faso, la Repubblica Centrafricana è saldamente nelle mani dei russi, e si stanno moltiplicando gli accordi militari con molti stati dell’area. Una penetrazione, tuttavia, che non è dell’ultima ora. È tempo che i russi stanno cercando di tornare ad avere un ruolo decisivo e strategico in Africa, dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, consapevoli che non hanno molto da offrire sul piano commerciale ed economico, ma su quello militare e degli armamenti sì.

L’irritazione di Parigi è evidente. I nervi sono scoperti e lo chiarisce bene, in un’intervista a Radio France International, l’attuale comandante dell’operazione Barkhane, il generale Laurent Michon:

«La manipolazione della popolazione esiste, si diffondono enormi bugie sul fatto che armiamo gruppi terroristici, rapiamo bambini, lasciamo fosse comuni. È facile fare da capro espiatorio a persone che stanno attraversando situazioni umanitarie e di sicurezza estremamente difficili. C’è stata una manovra di disinformazione sulle reti, con mercenari Wagner che seppellivano cadaveri a Gossi, per accusare i francesi. Per la prima volta l’esercito francese ha deciso di spiegare come si fanno le cose nella vita reale, declassificando e mostrando le immagini dei droni. Vivono nel paese (i Wagner, N. d. A.), depredano, commettono abusi, hanno le mani sull’apparato di comando dell’esercito maliano e fanno le cose alle spalle dei leader. La reazione migliore è rispettare i nostri valori, essere chiari su ciò che stiamo facendo e lasciare che i giornalisti africani ed europei vengano a vedere, fare qualche verifica sui fatti. L’arma migliore è l’informazione verificata e sottoposta a controlli incrociati».

Approccio militare o cooperazione: il dilemma dell’Eliseo

La confusione regna sovrana e Parigi, anche senza ammetterlo, si rende conto che un declassamento strategico è in atto, ciò che si chiede è se è un fatto inesorabile oppure si possono, ancora, recuperare posizioni e, soprattutto mantenere una presenza che salvaguardi i propri interessi. L’operazione Barkhane, per essere gentili, è stata un fallimento. La Francia, invece, dovrebbe chiedersi se la strategia militare, che prevale su quella della cooperazione allo sviluppo, sia vincente.

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El paro mueve (a las masas) y gana a Quito https://ogzero.org/acta-de-paz-el-paro-mueve-a-las-masas-y-gana-a-quito/ Sun, 03 Jul 2022 08:35:57 +0000 https://ogzero.org/?p=8040 Alle ore 14 del 30 giugno presso la Basilica di Quito Leonidas Iza (Conaie), Eustaquio Tuala (Feine), Gary Espinoza (Fenocin) e Francisco Jiménez, in qualità di Ministro del Governo per conto del presidente della repubblica dell’Ecuador, hanno firmato l’Acta de Paz e posto fine al conflitto sociale. All’incirca nello stesso momento sulle frequenze di Radio […]

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Alle ore 14 del 30 giugno presso la Basilica di Quito Leonidas Iza (Conaie), Eustaquio Tuala (Feine), Gary Espinoza (Fenocin) e Francisco Jiménez, in qualità di Ministro del Governo per conto del presidente della repubblica dell’Ecuador, hanno firmato l’Acta de Paz e posto fine al conflitto sociale.

All’incirca nello stesso momento sulle frequenze di Radio Blackout stavamo ospitando questa testimonianza di Davide Matrone, docente a Quito e attento analista del mondo latinoamericano:

riproponiamo qui il suo articolo pubblicato su “PagineEsteri subito dopo l’intervento in radio, analizzando immediatamente motivazioni e conseguenze, lotte e rivendicazioni, richieste ottenute e tavoli avviati da una mobilitazione popolare e tragica per lo strascico di morti e fatica prodotta… certo, mantenendo la vigile attenzione dovuta nel momento in cui la piazza smobilita e gli accordi proseguono al tavolo negoziale. Quello che ci sembra essenziale è la ricostruzione di chi ha fatto pressione (il capitalismo messo in difficoltà dall’unanime blocco del paese, che per la mediazione si è rivolto all’istituzione principale: la chiesa) e anche la chiosa sulle possibili suture tra sinistre latinoamericane in questo periodo che vede l’avanzata delle istanze di emancipazione in tutto il Cono Sur.


Dopo 18 giorni di forti proteste popolari contro le politiche neoliberiste del governo Lasso, la Confederazione Episcopale dell’Ecuador ha insistito affinché si trovasse un accordo tra le parti in conflitto. In realtà, le pressioni son giunte da più parti e cioè, dal mondo imprenditoriale e dal commercio che messo alle strette ha pressato a sua volta la Conferenza Episcopale affinché giocasse un ruolo determinante in questo duro scontro. La situazione era giunta all’apice e gli ultimi 3 giorni sono stati incandescenti dopo la sollevazione del quartiere popolare di San Miguel de los Bancos di Calderón in cui ci sono stati scontri durissimi con le forze dell’ordine. Altri espisodi analoghi si erano registrati al Puyo, in Amazzonia e nella località di Sant’Antonio del Pichincha dove erano state incediante le caserme della polizia dopo uno spargimento di sangue. Il bilancio di questo sciopero è pesante: 8 morti, centinaia di feriti e violazioni dei diritti umani come dichiara il rapporto della Commissione di Solidarietà dei Diritti Umani di Argentina in visita nel paese dal 24 al 26 giugno.

Grazie alla lotta popolare del movimento indigeno, dei lavoratori, degli studenti, degli operatori sanitari, dei docenti e finanche del settore dei trasporti, il Governo ha dovuto cedere e negoziare alcuni dei 10 punti rivendicati della Conaie. In definitiva, si può concludere che dopo 18 giorni di lotta il movimento indigeno dell’Ecuador porta a casa quanto segue:

  • Riduzione dei carburanti di 0,15 centesimi per ogni gallone,
  • Derogazione del Decreto 95 che vieta l’ampiamento della frontiera petrolifera per proteggere i territori e i diritti collettivi dei popoli indigeni,
  • Riforma del Decreto 151 con il quale si vieta lo sfruttamento delle risorse naturali nelle aree protette, nelle zone dichiarate intangibili, nelle zone archelogiche. Inoltre, si garantisce la consulta previa e libera nei territori interessati allo sfruttamento delle risorse naturali d’accordo a quanto stabilito dalla Corte Interamericana dei Diritti e dalla Corte Costituzionale dell’Ecuador,
  • Emanazione del Decreto 456 che prevede l’aumento del Bonus sociale da 50 a 55 dollari che beneficierà a 1,4 milioni di ecuadoriani, riduzione dei tassi d’interessi dal 10% al 5% per crediti fino a 3000 dollari e i prestiti scaduti fino a 3000 dollari saranno condonati,
  • Si elabora un progetto di Legge di riforma dell’articolo 66 della Legge Organica della Circoscrizione Territoriale Speciale Amazzonica,
  • Raddoppio delle risorse dello stato per l’Educazione Bilingue e Interculturale.

Inoltre, per 90 giorni si istallerà un tavolo di concertazione per continuare il dialogo tra le due parti per risolvere i temi questionati durante lo sciopero nazionale. Tra i quali l’aumento delle risorse statali per l’Educazione pubblica, l’attuazione di politiche statali che aumentino l’occupazione e intervento dello stato in materia di prevenzione alla delinquenza.

Potremmo trarre alcune conclusioni da questo sciopero popolare e nazionale:

  • Il Governo neoliberista del banchiere Lasso ne esce più indebolito e con pochissima legittimità popolare. Dopo 1 anno di governo (24 maggio) i sondaggi registravano una disapprovazione del 72%, oggi è aumentata al 88%. È di fatti un governo impopolare. Inoltre, si registra una delegittimazione all’interno del parlamento in quanto la mozione di sfiducia, presentata dal partito dell’opposizione Unes, pur non riuscendo nell’intento ha raccolto 82 voti che rappresenta la maggioranza del parlamento. Lasso ha raccolto 44 voti e, se dovesse continuare così, non riuscirebbe a governare.
  • Il costo politico ed elettorale di 2 partiti del parlamento e cioè la Izquierda Democratica e il Partito Social Cristiano: dopo l’appoggio a Lasso vedranno quasi sicuramente ridimensionati i loro voti alle prossime elezioni.
  • Il Movimento Indigeno ne esce rafforzato, dimostrando una grande capacità organizzativa in tutto il territorio nazionale. La strategia di accendere fuochi e rivolte in tutto il paese ha raggiunto un risultato vittorioso. Inoltre, il leader Leonidas Iza aumenta il suo capitale politico e simbolico riposizionandosi molto bene all’interno del Movimento Indigeno e nello schiacchiere politico nazionale.
  • C’è un malcontento generale contro le politiche neoliberiste che negli ultimi 5 anni hanno aumentato la povertà relativa ed assoluta nel paese, hanno incrementato la precarizzazione del lavoro, hanno smantellato il sistema di salute pubblica e svenduto il patrimonio pubblico del paese.
  • Si sono aperte delle interessanti contraddizioni in termini politici, all’interno del campo politico, che possono determinare una serie di alleanze all’interno della compagine di centro / sinistra che potrebbe vincere le destre alle prossime elezioni amministrative del 2023.

Inoltre, questo sciopero si inserisce in un quadro regionale interessante che vede nuovamente la vittoria delle sinistre latinoamericane che criticano il paradigma di sviluppo neoliberista. Le ultime vittorie in Cile e in Colombia danno speranza anche per l’Ecuador, se si riuscisse a unire le forze politiche progressiste contro le destre reazionarie e fasciste.

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N. 20 – Polonia e Unione Europea: il segnale non intercettato dell’imminente conflitto in Ucraina https://ogzero.org/polonia-e-unione-europea-il-segnale-non-intercettato/ Mon, 27 Jun 2022 17:33:53 +0000 https://ogzero.org/?p=7994 I campanelli di allarme che non sono stati ascoltati erano tutti nel vacillare degli assetti politici dell’Europa centrale. Attraverso una lettura attenta anche dal punto di vista giuridico delle normative, Fabiana Triburgo fa emergere i cavilli e le deroghe che rendono possibile una strumentalizzazione del migrante che corrisponde alle strategie politiche e geopolitiche degli stati […]

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I campanelli di allarme che non sono stati ascoltati erano tutti nel vacillare degli assetti politici dell’Europa centrale. Attraverso una lettura attenta anche dal punto di vista giuridico delle normative, Fabiana Triburgo fa emergere i cavilli e le deroghe che rendono possibile una strumentalizzazione del migrante che corrisponde alle strategie politiche e geopolitiche degli stati membri (e non) dell’Unione Europea in difficoltà attraverso patti e accordi che rendono possibile attuare respingimenti illegali, costruire ancora muri e campi di detenzione con la scusa di false emergenze. In questo saggio si analizza il caso di Polonia e Unione Europea, nel suo sviluppo all’interno di un contesto più ampio di interessi internazionali scatenatisi con la guerra ucraina.


Risulta sempre più evidente come i flussi dei movimenti umani non siano semplicemente fenomeni da valutare nell’ambito dei temi riguardanti le politiche migratorie di uno o più stati o più specificatamente rispetto al sistema normativo in materia ma piuttosto qualificabili quali eventi che nascondono questioni, giochi di forza e interessi geopolitici dei quali sono la diretta conseguenza e, non come si potrebbe superficialmente pensare, la causa. Ciò emerge anche rispetto al conflitto armato in corso in Ucraina: rileggere all’indietro alcuni accadimenti della storia degli ultimi due anni dell’Europa orientale ci consente di comprendere come il fenomeno migratorio, così come era andato strutturandosi già nell’agosto del 2021 e ancor prima – almeno negli intenti di due attori statali dell’area ossia Russia e Bielorussia – fosse uno dei primi e più rilevanti campanelli d’allarme che gli assetti politici – apparentemente calcificati a livello geografico lungo la nuova cortina di ferro – stavano cominciando a vacillare. Gli eventi verificatisi a partire dal 2020 potrebbero dunque essere definiti iniziali scosse di terremoto che, a distanza di oltre trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, hanno risvegliato il sottosuolo degli equilibri internazionali creando delle faglie o – visti gli attuali sviluppi del conflitto ucraino – vere e proprie voragini, simbolo di questioni silenti ma non certo più esistenti. Occorre dunque per l’analisi dei flussi migratori nell’Europa orientale – certamente anomali, per come sono andati delineandosi, ma non particolarmente emergenziali quantitativamente come invece si è voluto lasciare intendere – tornare indietro all’estate del 2020 quando il presidente bielorusso Lukashenko, in carica dal 1994, è stato rieletto con circa l’80% dei voti favorevoli ma al contempo accusato di brogli elettorali al punto da essere destinatario di violente proteste da parte della popolazione civile finalizzate a far cadere il regime. A questo punto il primo elemento rilevante è che l’ondata di proteste che interessò gran parte della popolazione bielorussa anche prima delle elezioni venne foraggiata dalla Lituania e dalla Polonia.

Proteste a gennaio 2014 a Kiev (foto Roman Mikhailiuk / Shutterstock).

La strumentalizzazione dei migranti

In particolare, la Polonia costituisce l’ultimo avamposto dell’Alleanza Atlantica o meglio ancora l’ultimo stato satellite degli Stati Uniti a livello militare in quell’area. Con gli Stati Uniti la Polonia vanta solidi patti di cooperazione e intese che non sono esattamente speculari rispetto al tipo di relazioni che la Polonia intrattiene con l’Unione, pur essendone a tutti gli effetti un paese membro.

Il tentativo quindi di Polonia e Lituania in quel momento di voler far entrare la Bielorussia nella sfera di influenza posta dall’altro lato della cosiddetta “nuova cortina di ferro”, cercando di rafforzarla a proprio vantaggio, è stata percepita come una pericolosa provocazione dal regime di Lukashenko che ha quindi prontamente provveduto a chiedere il sostegno militare e politico del capo del Cremlino Vladimir Putin che è riuscito a sedare le proteste popolari nel paese a lui alleato e con il quale ha successivamente sottoscritto 28 programmi per l’unione statale.

Si pensi come negli ultimi anni il presidente russo prima in Siria ma a gennaio del 2021 anche in Kazakistan, sia intervenuto su esplicita richiesta dei leader al potere per mantenere lo status quo a livello politico, spesso con il beneplacito di buona parte della comunità internazionale, sebbene non palesemente espresso. Tutto questo per far riflettere che a livello politico il leader di uno stato acquisisce sempre più potere nella misura in cui altri attori statali gli attribuiscono un ruolo fondamentale nel dirimere talune annose questioni internazionali. Tuttavia, la crisi di governo bielorussa e l’intervento del capo del Cremlino che in un primo momento sembrava fosse una vicenda eccezionale – risolta ristabilendo l’allineamento al preesistente asse della cortina di ferro – nascondeva evidentemente proiezioni geopolitiche molto più ambiziose, emerse un anno dopo, proprio mediante quella che è stata definita “strumentalizzazione della questione migratoria”.

Le proteste in Kazakhstan.

Il piano orchestrato

Iniziata apparentemente come una pressione migratoria che Minsk intendeva porre limitatamente al confine lituano e che, come si scrisse allora, venne attuata per lanciare un messaggio all’Unione Europea in ragione delle sanzioni applicate alla Bielorussia in seguito al dirottamento dell’aereo della Ryanair con a bordo i due dissidenti del regime di Lukashenko, a settembre dello stesso anno raggiungeva invero risvolti ben più allarmanti. Infatti, con la spinta dei migranti attuata da Minsk al confine con la Polonia si delineavano più nettamente i profili di un piano orchestrato ad hoc del quale – anche qualora il presidente russo non si voglia definire il regista – non si può non qualificare quale complice, avendo mostrato di non voler intervenire nella vicenda, nonostante – considerati  i rapporti con la Bielorussia – avrebbe potuto fermarla in qualsiasi momento e tenuto conto degli ignorati appelli di sostegno più volte avanzati telefonicamente dall’allora cancelliera tedesca Angela Merkel.

In realtà si può affermare che l’appoggio della Russia a Minsk nella questione migratoria è stato la conditio sine qua non affinché essa si realizzasse. Al riguardo non si dimentichi che la quasi totalità dei migranti, prima spinti al confine bielorusso verso la Lituania e in seguito verso la Polonia, provenissero dal Medioriente – principalmente iracheni curdi, afghani e siriani – e che beneficiarono di un rilevante numero di rilasci di visti turistici per la Bielorussia nella quale arrivarono attraverso compagnie aeree turche. Non si può sottovalutare infatti che la Russia vanti un rapporto privilegiato con la Turchia: i due paesi – come più volte detto – sono in una condizione di continuo antagonismo nello scacchiere internazionale ma dimostrano di avere un reciproco rispetto nelle decisioni in politica estera. Ciò si traduce nel fatto che quando le circostanze lo richiedono sono in grado di stringere accordi, compromessi, alleanze per fronteggiare le questioni che man mano si presentano, soprattutto in situazioni di conflitti armati come in Nagorno Karabakh o ancor di più in Siria relativamente alla questione dei curdi.

Ascolta “Mosca chiude: autarchia senza prospettive” su Spreaker.

Il ruolo della Turchia

Non si può del tutto escludere dunque il coinvolgimento, almeno in un primo momento, della Turchia in questa specifica strumentalizzazione dei migranti portata avanti da Minsk. D’altra parte la Turchia è già avvezza a tattiche, o meglio strategie, basate sulla questione migratoria per il soddisfacimento dei propri interessi espansionistici ma anche puramente economici. Basti pensare al più volte citato accordo di 6 miliardi di euro elargiti dall’Unione Europea alla Turchia – recentemente rinnovato – per “l’accoglienza/trattenimento” nel proprio territorio dei profughi siriani per scongiurare la solita “invasione” che avrebbe coinvolto il vecchio continente.

E, di nuovo, i diritti violati

Come si può tristemente constatare tuttavia la cosiddetta invasione non sarebbe mai avvenuta e non ci sarebbe alcuna questione geopolitica in merito sulla quale discutere nell’ipotesi di obbligatoria ed equa ripartizione dei flussi migratori nei 28 stati dell’Unione, attraverso piani di ricollocamento, ancorati a indici demografici e del prodotto interno lordo dei paesi di destinazione. In questa sede ciò che interessa è la continua violazione dei diritti fondamentali dei migranti attuata dalla Polonia a partire da settembre 2021 quando le forze armate bielorusse cominciarono a scortarli verso quel tratto di confine tra i due stati. Va preliminarmente sottolineato che la Polonia – trovatasi in tale situazione – ha deciso di agire fin da subito in completa autonomia, senza consultare o dar seguito alle istanze – come vedremo in seguito prevalentemente di facciata – provenienti dalle istituzioni dell’Unione rispetto alla “crisi migratoria (?!)” che si stava verificando sul proprio territorio. A settembre del 2021 quindi il capo di stato polacco con l’approvazione del Parlamento proclama lo stato di emergenza che poi rinnova prontamente nel mese di novembre. Ai migranti dunque – anche richiedenti asilo – non viene data la possibilità di entrare nel territorio polacco e di presentare la domanda di protezione internazionale. Uomini singoli, soggetti vulnerabili tra cui minori, nuclei familiari e donne incinte vengono fatti stazionare al di fuori dei check point polacchi all’addiaccio.

Tuttavia, l’intento di ignorare esseri umani in difficoltà e respingerli prima dell’ingresso, oltre a violazioni formali del diritto internazionale – primo tra tutti il principio di non-refoulement – e del diritto europeo in materia d’asilo, ha causato la morte nel 2021 di ben 21 persone!

Ci si potrebbe fermare su questo dato che per la sua gravità non ammette giustificazioni di sorta e non solo con riferimento all’Unione ma a tutti i paesi membri che non sono intervenuti nella vicenda. La discussione invece in modo sterile si è sviluppata sul fatto che a Spagna, Grecia e Italia non è stato mai offerto alcun sostegno con arrivi numericamente più elevati. Ci si chiede perché in tali situazioni invece di fare confronti non si convoglino le forze politiche dell’Unione per cogliere l’occasione  di un atteggiamento politico diverso e per rivedere gli assiomi europei attuati – diversi da quelli teorizzati – dando un segnale forte, in modo tale che nessuna strumentalizzazione dei migranti produca più effetti sull’Unione o su uno dei paesi membri e non perché venga ignorata o repressa ma perché vengano rispettate le norme sul diritto d’asilo già vigenti e finalmente messo in atto il principio di solidarietà di cui all’art. 78 del trattato sul funzionamento dell’Unione.

Il punto debole dell’Unione

È chiaro infatti che a livello internazionale gli stati che hanno proiezioni egemoniche, spesso in contrasto con gli interessi del vecchio continente, hanno ben compreso – vedi Russia e Turchia – come la questione migratoria sia il vero, grande punto debole dell’Unione con il quale ricattarla, dato che non riesce in alcun modo a gestirla, se non cercando di renderla invisibile e traghettandola al di là dei propri confini. Tuttavia, visto che a quanto pare il fatto che degli esseri umani siano lasciati in tali indegne e mortifere condizioni non desta alcuna indignazione e non comporta mutamenti delle tattiche degli stati membri forse è il caso di cominciare più cinicamente a riflettere sulle conseguenze politiche ed economiche (che forse interessano maggiormente) che il perpetrare di tali comportamenti implicano e che sono ben più gravi rispetto all’adozione di un’accoglienza condivisa dei migranti soprattutto in un  caso come quello della Polonia rispetto al quale, data anche l’estensione del suo territorio e il numero di rifugiati accolti è un’eresia definire crisi o situazione di emergenza migratoria l’arrivo di 10.000 migranti!

Muri e centri di detenzione

Nonostante ciò sono stati apportati emendamenti alla normativa nazionale polacca in materia di migrazione – che a quanto pare però non vengono applicati (fortunatamente, anche se non si capisce la differenza con gli altri profughi) ai profughi ucraini – rendendola più restrittiva così come era avvenuto in Lituania e sempre alla stessa stregua si è realizzata la costruzione di un muro al confine con la Bielorussia lungo circa 186 chilometri e alto 5 metri e mezzo oltre, alla costruzione di ulteriori tre centri di detenzione all’interno dei quali in ogni stanza sono ammassate circa 22 persone in meno di 2 metri quadri ciascuno per potersi muovere.

Istituzioni in difficoltà

Nessuna novità quindi o quasi. Infatti, per quanto riguarda l’analisi dei profili giuridici, rispetto a tale vicenda, va posta attenzione sulla proposta di regolamento avanzata alla fine del 2021 dalla Commissione europea riguardo le misure che gli stati membri possono adottare in caso di strumentalizzazione dei flussi migratori ossia la “Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio volta ad affrontare le situazioni di strumentalizzazioni nel settore della migrazione e l’asilo”.

Prima di entrare nel merito del testo va preliminarmente detto che se un’istituzione europea “alla bisogna” compone un testo giuridico ad hoc per fronteggiare una situazione squisitamente politica – quando tra l’altro si è presentata già una proposta di regolamento europeo nei casi di crisi e di forza maggiore nel settore della migrazione e dell’asilo” – dimostra di essere in palese difficoltà.

Tuttavia, anche in questo testo normativo non solo non si evidenzia alcun cambiamento di visione ma si è andati ben oltre ogni limite del rispetto dei diritti fondamentali degli individui migranti per cui si auspica vivamente che il Parlamento europeo non approvi tale proposta, assurda sotto il profilo giuridico.

Nella relazione introduttiva alla proposta di regolamento viene delineato l’ambito di applicazione del medesimo ancorandolo a quelle situazioni nelle quali gli attori statali utilizzino «i flussi migratori come strumento per fini politici, per destabilizzare l’Unione europea e i suoi Stati membri».

Il diavolo sta nei dettagli

A conferma della singolarità del testo normativo in oggetto e del suo contenuto squisitamente politico – dettato da un evidente senso di preoccupazione rispetto alla situazione allora in corso – si noti come in esso vi siano, in modo del tutto inconsueto per un atto giuridico, addirittura specifici riferimenti alla situazione geopolitica in prossimità di quel confine che emergono mediante l’impiego di espressioni quali «in risposta alla strumentalizzazione delle persone da parte del regime bielorusso» o mediante l’utilizzo di termini politici – o ancor meglio propri del gergo militare – per definire la  strumentalizzazione, come per esempio «attacco ibrido in corso lanciato dal regime bielorusso alle frontiere dell’UE».

C’è da dire infatti che nella proposta di regolamento non viene data alcuna puntuale definizione giuridica del termine “strumentalizzazione” – rendendo più estesa e quindi più pericolosa l’applicazione del regolamento a situazioni che potrebbero verificarsi in futuro – tanto che per ricavarla è necessario far riferimento ad un altro testo giuridico (già analizzato nell’articolo relativo ai flussi migratori al confine Ventimiglia-Menton) ossia la proposta di modifica del Regolamento Shenghen del 14 dicembre 2021 che all’art. 2 (con l’introduzione del punto 27) stabilisce che

la «strumentalizzazione dei migranti è la situazione in cui un paese terzo istiga flussi migratori irregolari  verso l’Unione incoraggiando o favorendo attivamente lo spostamento verso le frontiere esterne di cittadini di paesi terzi già presenti sul suo territorio o che transitino sul suo territorio se tali azioni denotano l’intenzione del paese terzo di destabilizzare l’Unione».

Per quanto attiene alle conseguenze della “strumentalizzazione” inoltre è necessario che la natura delle azioni del paese terzo sia potenzialmente tale «da mettere a repentaglio le funzioni essenziali dello stato quali la sua integrità territoriale, il mantenimento dell’ordine pubblico o la salvaguardia della sicurezza nazionale». Sono chiaramente delle conseguenze gravissime ma dato che la proposta di regolamento in esame è stata stilata specificatamente per la situazione al confine polacco-bielorusso, o comunque in conseguenza di questa, ci si chiede:

può realmente l’arrivo di circa 10.000 migranti in Polonia potenzialmente mettere a repentaglio l’integrità del suo territorio, il mantenimento del suo ordine pubblico o mettere a rischio la sicurezza nazionale?!

Anomalie e volute mancanze

Inoltre, si fa riferimento alla solita dizione “migranti irregolari” quando, come noto, il richiedente asilo è irregolare nella quasi totalità dei casi perché in fuga dal proprio paese d’origine – e non è certamente ammissibile che nell’ipotesi della strumentalizzazione attuata da uno stato terzo – non abbia il medesimo diritto di altri richiedenti a presentare la domanda di protezione internazionale! Per di più altre anomalie – o meglio volute mancanze – si rilevano nel testo del regolamento: non vi è alcuna menzione di indicatori, in particolare di tipo quantistico, con i quali delineare la strumentalizzazione, per cui – ragionando per assurdo – anche due soli migranti strumentalizzati potrebbero portare all’applicazione del regolamento. Ancora più pericoloso è che il regolamento, qualora venga applicato, sia idoneo a comportare gravissime deroghe al rispetto dei diritti fondamentali in materia d’asilo.

Deroghe e cavilli

La prima deroga è relativa alla registrazione delle domande d’asilo prevista all’art. 2 (“Procedura di emergenza per la gestione dell’asilo in una situazione di strumentalizzazione”): in caso di domande presentate alla frontiera, tra l’altro in punti specifici, il termine è di ben 4 settimane per la loro registrazione (e non per l’esame!), durante le quali ovviamente i profughi restano al di fuori del territorio dell’Unione. In secondo luogo, lo stato può decidere alle sue frontiere o più genericamente nelle zone di transito, «sull’ammissibilità e il merito di tutte le domande» registrate nell’arco del periodo in cui il regolamento viene applicato. Ciò quindi senza alcun riferimento alla nazionalità di alcuni profughi come i cittadini afgani per i quali sarebbe facilmente ipotizzabile una palese fondatezza della domanda di protezione internazionale.

L’unica priorità legata alla visibile fondatezza delle domande è quella data a quelle presentate dai minori o dai nuclei familiari ma ciò che è fondamentale ricordare è che comunque tutta la procedura anche in questi casi è una procedura squisitamente di frontiera! All’art. 4 (“Procedura di emergenza per la gestione dei rimpatri in una situazione di strumentalizzazione”) si deroga inoltre rispetto al regolamento sulla procedura d’asilo e all’applicazione della direttiva rimpatri: viene meno in questo modo il diritto ad un ricorso effettivo in caso di rigetto della domanda di protezione internazionale.

Più esattamente resta il diritto alla presentazione del ricorso ma senza che questo implichi un diritto di permanenza nel territorio dell’Unione nelle more dell’attesa di una decisione in merito e ciò a meno che non venga accolta un’istanza di sospensiva degli effetti della decisione di rigetto del ricorso.

Si precisa tuttavia che qualora l’istanza di sospensiva non venga comunque accolta è disposto l’allontanamento immediato del richiedente asilo, pur se «nel rispetto del principio di non refoulement».

Inoltre, l’ipocrisia di questa proposta di regolamento si riscontra tanto nell’articolo 3 che nell’articolo 5. Nel primo infatti (“Condizioni materiali di accoglienza”) si fa riferimento a misure di accoglienza «diverse» nel caso di applicazione del regolamento e non inferiori come in realtà sono – cercando di celare i propri intenti – dietro l’espressione «in grado di soddisfare le esigenze essenziali del migrante»: si noti al riguardo quanta discrezionalità possa nascondersi dietro al termine «esigenze essenziali». Nell’articolo 5 invece (“Misure di sostegno e solidarietà”) si raggiunge l’apice dell’assurdo. La solidarietà degli altri paesi membri, qualora venga richiesta, prevista nei confronti dello stato membro vittima di una strumentalizzazione dei migranti – anche se per inciso le vere vittime della strumentalizzazione sono i migranti stessi – non è certamente quella di una ripartizione per quote dei profughi tra gli stati ma l’impiego di «misure di sviluppo delle capacità, misure a supporto dei rimpatri» che vuol dire il semplice invio di funzionari e personale appartenenti agli altri stati membri per fronteggiare la situazione “emergenziale” nonché  provvedimenti operativi a sostegno dei rimpatri.

È chiaro quindi come anche in questa circostanza l’intento reale della Commissione, con tale proposta, non sia quello di offrire a livello europeo un supporto allo stato in una situazione “emergenziale” dal punto di vista migratorio, ma quello di assicurarsi il rinforzo delle misure di frontiera al fine di porre velocemente fine a tale situazione cercando di attuare il rinvio degli individui arrivati alle porte del territorio dell’Unione il più velocemente possibile.

Gli eventi tuttavia sono sempre un passo avanti nell’imprevedibilità del loro verificarsi rispetto a qualsiasi logica o tentativo di controllo sia esso da parte degli esseri umani, degli attori statali o delle istituzioni europee e internazionali.

La solidarietà “mirata”

Alla fine del 2021 si scrisse tale proposta per l’arrivo di circa 10.000 migranti, inconsapevoli che da lì a poco si sarebbe scatenato un conflitto di portata internazionale in Ucraina alle porte dell’Unione in ragione del quale, per l’arrivo di milioni di profughi, sarebbero caduti di fatto come le tessere di un domino gli emendamenti polacchi in materia di migrazione insieme ad ogni velleità europea di contenimento e con la conseguente apertura dei confini degli stati membri. Perché dunque non pensare prima a rendere effettiva la solidarietà europea per esseri umani che avevano e hanno gli stessi diritti dei cittadini ucraini? E ancora, non conviene riflettere come per interessi economici ed energetici si è scesi a patti e sotto ricatto del leader del Cremlino e come forse non si stia facendo lo stesso errore individuando Erdoǧan come mediatore per la risoluzione di tale conflitto, considerato come detto che egli stesso è sospettato di essere stato complice della pressione iniziale dei flussi migratori al confine con la Lituania? Corsi e ricorsi storici a quanto pare spesso nulla insegnano.

barriere e ostacoli

L'articolo N. 20 – Polonia e Unione Europea: il segnale non intercettato dell’imminente conflitto in Ucraina proviene da OGzero.

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«Non posso accettare che dei miei concittadini sostengano la guerra» https://ogzero.org/l-esodo-dalla-russia/ Sun, 19 Jun 2022 16:14:18 +0000 https://ogzero.org/?p=7943 Le interviste qui di seguito sono state originariamente registrate in video alla metà del mese di giugno 2022 per la Tv Svizzera Italiana nella capitale dell’Armenia, Erevan, una delle mete dell’esodo dalla Russia. Qui viene proposta la versione integrale tradotta dal russo di cinque di queste interviste. Come è normale la televisione le ha utilizzate […]

L'articolo «Non posso accettare che dei miei concittadini sostengano la guerra» proviene da OGzero.

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Le interviste qui di seguito sono state originariamente registrate in video alla metà del mese di giugno 2022 per la Tv Svizzera Italiana nella capitale dell’Armenia, Erevan, una delle mete dell’esodo dalla Russia. Qui viene proposta la versione integrale tradotta dal russo di cinque di queste interviste. Come è normale la televisione le ha utilizzate solo in misura assai ridotta per un reportage sui fuorusciti dalla Russia di molti suoi cittadini, iniziata sin dall’inizio dell’“operazione speciale” ma che a chi scrive sembra che possano rappresentare un interessante spaccato delle opinioni, degli umori ma anche delle fratture psichiche che si sono prodotte nella Federazione con il conflitto.

La proposta di questo articolo è bilingue: in italiano lo sbobinamento delle interviste inserite in russo nella loro integrità ad alcuni fuorusciti dalla Russia verso l’Armenia in seguito all’esodo dalla Russia prodotto dalla “Operazione speciale” in Ucraina. Sono voci e volti che erano già critici verso l’apparato di potere che fa capo a Vladimir Putin pur non essendo per nulla famosi; ognuno di loro è di età, professione, provenienza diverse. Speriamo in questo modo di poter informare gli italiani che non si può categorizzare l’intera comunità russa come filoputiniana e guerrafondaia e i russofoni che non sono pochi i transfughi che hanno deciso di non tornare in Russia se non a seguito di un cambio di regime.

È molto difficile quantificare oggi quanti russi si sono rifugiati o hanno preso la strada dell’esilio dal 24 febbraio fino a oggi. Sicuramente sono centinaia di migliaia le persone che sono giunte in questi mesi in Armenia, in primo luogo giovani che temono la mobilitazione generale ma anche coppie e intere famiglie. Spesso sono persone a medio-alta qualifica professionale che possono sperare di trovare lavoro nel paese caucasico o in Europa occidentale.

Si giunge in Armenia perché è relativamente facile. Si tratta di un paese ex sovietico dove tutti sanno il russo, non occorre il visto e la popolazione è nota per la sua ospitalità. Molti pensano che sia solo un ponte per raggiungere altri paesi europei, altri pensano di restarci, altri ancora – passata la buriana – potrebbero tornare in Russia. Tuttavia il costo della vita con l’arrivo dei russi ha iniziato a crescere soprattutto nel settore degli affitti. Ormai non si trova più un monolocale per meno di 350 dollari al mese nella capitale (dove il reddito medio è di 5000 dollari l’anno) e molti russi stanno iniziando a scegliere altre destinazioni per tenersi lontani dal conflitto. La Georgia ma anche i paesi centroasiatici. In primo luogo, tra questi il Kirghizistan dove si trovano appartamenti a 50 dollari, frutta e verdura fresche abbondano ed è noto come il paese più democratico di tutta l’area.

Представленные ниже интервью были записаны на видео для итальянского телевидения Швейцарии в столице Армении Ереване в середине июня 2022 года. Здесь предлагается полная версия пяти из этих интервью, переведенная с русского языка. Как обычно, телевидение использовало их лишь в очень ограниченной степени для репортажа об отъезде из России многих ее граждан, который начался с самого начала “спецоперации”, но который, как кажется писателю, представляет собой интересный срез мнений, настроений, но также и психических переломов, произошедших в Федерации в связи с конфликтом.

Предложение этой статьи – двуязычное, на итальянском языке не опубликованные интервью, включенные полностью на русском языке, свидетелям, бежавшим из России в Армению после начала “спецоперации” на Украине. Это голоса и лица, которые уже критиковали аппарат власти при Владимире Путине, хотя они отнюдь не знамениты; каждый из них разного возраста, профессии и происхождения. Мы надеемся таким образом донести до итальянцев, что нельзя считать всю российскую общину пропутинской и воинствующей, а до русскоязычных – что есть не мало перебежчиков, которые решили не возвращаться в Россию, пока не произойдет смена режима.

Сегодня очень трудно подсчитать, сколько россиян укрылось или уехало в изгнание после 24 февраля. Безусловно, за последние месяцы в Армению прибыли сотни тысяч человек, в первую очередь молодые люди, опасающиеся всеобщей мобилизации, а также семейные пары и целые семьи. Часто это люди со средне-высокой профессиональной квалификацией, которые могут надеяться найти работу в кавказской стране или в Западной Европе.
Люди приезжают в Армению, потому что здесь относительно легко. Это бывшая советская страна, где все знают русский язык, виза не требуется, а население известно своим гостеприимством. Многие считают, что это просто мост в другие европейские страны, другие планируют остаться там, а третьи – когда буря пройдет – могут вернуться в Россию. Однако стоимость жизни с приездом русских начала расти, особенно в секторе аренды жилья. В столице (где средний доход составляет $5000 в год) больше нельзя найти однокомнатную квартиру дешевле $350 в месяц, и многие россияне начинают выбирать другие направления, чтобы быть подальше от конфликта. Грузия, но и страны Центральной Азии. Первым среди них является Кыргызстан, где квартиры можно найти за 50 долларов, свежие фрукты и овощи в изобилии, и он известен как самая демократическая страна во всем регионе.


Yurii ci aveva preannunciato in un intervento radiofonico su Radio Blackout questa serie di interviste raccolte a Erevan il 6 giugno:

“Diaspora russa in armenia”.

Queste interviste forniscono un quadro di chi emigra che toglie dalla “zona comfort” molti lettori che culturalmente provengono “da sinistra”. Il regime putiniano viene colto – possa ciò piacere o meno – come una continuità dell’Urss e perlomeno come un suo ritorno di fiamma. Balugina qua là anche dell’anticomunismo viscerale. Permangono illusioni inoltre sui regimi occidentali. Ma se quelle economiche sono destinate a sciogliersi presto a contatto con la dura realtà del mercato del lavoro europeo, le illusioni politiche sono destinate a permanere a lungo, inevitabilmente. La fame di democrazia politica – seppur nella forma sempre più vuota che osserviamo in Occidente – rappresenta una chimera per chi ha vissuto in un regime che qualcuno degli intervistati non fa fatica a chiamare fascismo.
Allo stesso tempo – in controluce – ritorna in alcuni degli intervistati che hanno lasciato il paese un anelito a una società non solo più “stabile” ma più giusta, più equa, meno autoritaria. Un’aspirazione in buona parte evaporata da decenni nelle metropoli capitalistiche occidentali.

Tutti gli intervistati hanno rifiutato di coprirsi il viso, distorcere la voce, cambiare nome per l’occasione. Non si tratta solo o eventualmente di coraggio ma di affermare la propria dignità e identità, soprattutto in un momento difficile come quello in cui si lascia il proprio paese.


Yurii Alexeev 48 anni. In Russia prima di emigrare a maggio 2022 viveva nella provincia di Vladimir. Laureato in giurisprudenza, esperto di IT, blogger, attivista dei diritti umani.

Che giudizio esprime dell’operazione speciale in corso in Ucraina da parte dell’esercito russo?

Innanzi tutto voglio dire che mi batto ormai da 5 anni contro il regime di Putin. Penso che Putin sia un problema per la Russia ma anche per il resto del mondo. Mi batto perché le istituzioni democratiche in Russia possano conoscere un nuovo inizio.
Per quanto riguarda la guerra che Putin sta conducendo in Ucraina, e i russi insieme a Lui (Putin da solo non avrebbe potuto condurre una tale guerra senza il sostegno di parte della popolazione) la situazione è diventata così difficile che condurre una difesa dei diritti umani e politica in Russia è diventato pericoloso. Io, il giorno in cui iniziò la guerra misi sul balcone una bandiera con scritto “No alla guerra” e mi dichiarai pubblicamente contro di essa sul mio canale YouTube. Per questo venni arrestato amministrativamente per 15 giorni. Allora capii che se fossi restato in Russia sarei stato perseguito anche penalmente. La nuova legge contro il “discredito delle Forze Armate Russe” (tale legge è stata approvata appena dopo l’inizio delle operazioni e prevede condanne penali dai 3 ai 15 anni di reclusione N.d.R.) mi avrebbe colpito sicuramente perché io non riesco a stare zitto.

Pensa quindi che la maggioranza dei russi sostenga qui l’azione in corso?

Non è proprio così. Putin e la sua banda mettono in risalto tutte quelle voci e quelle posizioni a lui favorevoli ma in realtà le cose stanno diversamente. Se la domanda sul sostegno alla guerra fosse posta dai sociologi e chi svolge i sondaggi in modo corretto la percentuale di chi è contro sarebbe due o tre volte superiore a quella di chi è favorevole.

L’impressione da fuori è che ci sia una consistente maggioranza di russi favorevole, anche se poi bisognerebbe capire dove è concentrata questa maggioranza per classi sociali e di età e per posizionamento geografico…

Ritengo che alla maggioranza assoluta, parliamo forse del 60% della popolazione, il tema “guerra” non interessi. La vedono in Tv ma ne sono distanti. Poi c’è un 20% di persone contrarie ma silenti e qualcosa di meno del 20% di favorevoli.

In Occidente dopo che si è assistito inizialmente a una grande copertura dei mass-media alle proteste ora è calato il silenzio. Cosa è successo nel frattempo?

Tutta questa gente che protestava ha lasciato la Russia. Sono qui in Armenia, in Georgia, in Lituania, in Europa. Credo che degli attivi oppositori alla guerra siano rimasti circa la metà.
Io personalmente aiuto chi arriva a Erevan a trovare una sistemazione. Spesso arriva gente traumatizzata da tutti questi mesi di pressione. Gi faccio capire che già qui in Armenia hanno dei diritti.  E il flusso continua. Gli altri, coloro che sono rimasti in Russia, sono costantemente sotto la pressione delle multe, dei fermi e degli arresti.

Lei ha deciso di andarsene dalla Russia per sempre o solo temporaneamente?

Tornerò solo se non ci sarà più “Putin”. Putin come persona e il putinismo come regime. Ma quando questo avverrà non lo posso immaginare. Nessuno lo sa. Quando i bolscevichi presero il potere chi emigrò o divenne esule pensava che sarebbe presto tornato ma poi il potere sovietico restò in piedi 70 anni. Può darsi che tutto ciò si ripeta.

Se potesse sintetizzare la sua visione politica cosa direbbe?

Mi sento un democratico e un liberale allo stesso tempo, insomma sono per la libertà. La democrazia è lo strumento “tecnologico” della libertà, prendere insieme le decisioni.

Pensa di restare qui in Armenia o di trasferirsi in Europa Occidentale?

Per me esiste il pianeta terra, non mi pongo limiti. Per questo posso dire che non mi manca neppure la Russia. Se nel futuro riterrò che dovrò spostarmi in un luogo, cercherò di farlo. Per adesso posso dire a chi ha intenzione di andarsene dalla Russia: «Venite qui! C’è molto da fare!»; se molti se ne vanno ciò comunque produrrà un indebolimento del regime.

Lei pensa che questo conflitto durerà ancora a lungo?

Non lo so, nessuno lo può dire. Spero solo che l’Ucraina vinca in modo tale che i russi capiscano che ciò che hanno fatto non si può fare. Io spero che per la Russia sia una lezione. La Russia, per usare le parole di Fëdor Dostoevskij ha realizzato un “delitto” e ora dovrà subire il “castigo”.

Per come l’ha inteso qual è l’atteggiamento degli armeni di fronte al conflitto russo/ucraino?

Lo osservano da lontano. Tendono a vedere questo scontro attraverso le lenti della crisi con l’Azerbaijan e la questione del Nagorno-Karabakh. Potremmo dire che la maggioranza non si schiera e solo una piccola parte “realisticamente” sostiene che vista la situazione geopolitica non si può non essere alleati con Putin. Ma una parte significativa ha ancora il dente avvelenato perché il Csto (Collective Security Treaty Organization, l’alleanza militare a guida russa N. d. R.) non intervenne a fianco dell’Armenia nel 2020 quando ci fu l’esplicita richiesta da parte del governo di Nikol Pashinyan


 

Ivan, 26 anni di Mosca. Specialista IT.

 

Perché ha deciso di venire a vivere a Erevan?

In Russia c’era una situazione molto difficile e poco intellegibile. I nostri politici erano assai ambigui sulla questione della mobilitazione generale. E non era neppure chiaro se le frontiere sarebbero rimaste aperte o no. Anche i cosiddetti “volontari a contratto” non si capisce se siano tali o meno. E perciò ho deciso di andarmene.
Ho partecipato a qualche manifestazione a partire dal 2017. Soprattutto quando ci furono le elezioni comunali di Mosca nel 2019. Ma ne sono rimasto deluso. Molta gente ha partecipato a delle proteste dal 2012, ma purtroppo è cambiato ben poco. Per cui ho capito che si rischiava troppo senza alcuna prospettiva e ho pensato che sarebbe stato meglio preoccuparmi del mio futuro. Ora ci sono molti programmatori e specialisti IT single come me che hanno lasciato la Russia e sono venuti in Armenia. Altri sono dubbiosi poiché dovrebbero trasferire tutta la famiglia in tal caso.

Lei ha fatto il servizio militare?

No sono stato riformato. Come si fa a essere riformati penso che tutti lo sappiano. Potrei essere mobilitato solo se fosse dichiarata formalmente la guerra. Cosa che per ora non è stata fatta.

Pensa di tornare in Russia?

Difficilmente tornerò se non cambierà il regime. Potrei tornare qualche volta per incontrare amici e parenti, ma non di più. Tornerò solo se si imporrà un sistema democratico.  Ora sto valutando diverse proposte di lavoro a distanza. Con qualche azienda armena o europea. Mi piacerebbe vivere in qualche paese europeo per un certo periodo.

Pensa che questa situazione durerà a lungo?

Vedo che molti paesi stanno cercando di isolare la Russia e c’è il rischio che il paese diventi una Nuova Corea del Nord. Vedo anche che l’Occidente ha i suoi progetti per ricostruire l’Ucraina ma non ho idea di come si ricostituirà la Russia. Non vedo nessuno a cui interessi –oltre che a noi russi – che la Russia diventi democratica. Per molti in Occidente se la Russia si trasformerà in una Nuova Corea del Nord non è poi così importante. Dipenderà quindi molto da noi russi. Si fa un grande errore se si confondono i russi con il loro attuale regime politico.

 


La fuga degli esperti di informatica.


Albert 28 anni, insegnante di Novosibirsk. Ha partecipato al movimento politico di Navalny.

Perché ha deciso di venire in Armenia?

Per me con la guerra è iniziato un periodo assai difficile. Era davvero difficile per me vivere in un’atmosfera da stato fascista e di odio. Non posso accettare che dei miei concittadini sostengano la guerra e pensino sia normale combattere contro gli ucraini, non posso accettare che si possa tentare di risolvere le controversie con la forza.

È una scelta che ha fatto da solo?

Ne ho parlato con chi faceva parte del movimento di Navalny prima della sua liquidazione, ma la mia scelta è stata individuale. Per me questa vicenda è anche una tragedia personale, qualcosa di devastante dal punto di vista umano.

Lei ha fatto parte del movimento di Navalny in quale periodo?

Non sono mai stato affiliato ma ho partecipato a tutte le fasi del suo sviluppo a Novosibirsk e certamente ancora oggi mi batto per la liberazione di Navalny e perché possa tornare alla vita politica russa. Tra il 2017 e il 2020 sono stato molto attivo sia nelle manifestazioni sia nelle campagne elettorali. È stato il più bel periodo della mia vita.

Ritiene che oggi sia insensato lottare in Russia per un cambiamento?

Io penso che per ognuno di noi sia possibile fare le sue scelte. Io credo che per me in questo momento restare in Russia e tentare di cambiare le cose non abbia senso. Tutti i mass media di opposizione come “Novaya Gazeta” e il canale televisivo Dozhd sono stati messi fuori gioco. Cercare di ridurre il tasso di fascismo è stato vano. Io sono preoccupato e temo per chi la pensa come me ed è restato in Russia. E sono felice di ogni persona che incontro qui in Armenia per il solo fatto che sia libero e vivo.

Pensa quindi che ora vivrà in Armenia a lungo?

Fino a quando Putin resterà al potere io non tornerò in Russia. Solo se si imporrà la democrazia potrò valutare la possibilità di tornare. Non credo però che resterò tutta la vita in Armenia. È un bel paese e molto ospitale ma non amo molto i suoi valori patriarcali e “tradizionali”. Per esempio l’atteggiamento verso i gay e le lesbiche. Li rispetto ma non li condivido. Pensa che ci debba essere un pluralismo su come la gente intende vivere. Per cui adesso intendo qui riprendermi moralmente ma poi vorrei cercare di trovare lavoro in Europa.

Pensa che le sanzioni che colpiscono direttamente lo stile di vita dei russi come quelle sul cinema, lo sport e la cultura siano utili o aiutino Putin a presentarsi come una vittima della russofobia per unire intorno a sé parte dell’opinione pubblica?

Ci sono delle sanzioni che conducono in Russia a un deficit di medicinali e ciò ha delle ricadute tragiche per chi non ha possibilità di recarsi all’estero per curarsi. Questo non è accettabile. Io sono contro le sanzioni settoriali che colpiscono buona parte della popolazione russa e favoriscono la propaganda del regime. Bisognerebbe puntare ancora di più sulle sanzioni individuali. In questo momento però sarebbe importante soprattutto fermare il bagno di sangue e quindi non dare la possibilità alla Russia di produrre armi. Tutto il resto è secondario.

Pensa che ci potrà essere a medio termine un cambiamento progressivo in Russia?

Che dire, ci abbiamo provato in questi anni. Invece siamo arrivato al fascismo.

Quindi nessuna speranza?

La speranza c’è sempre. Per esempio io ho un’ottima opinione di una nazione europea che è riuscita a superare il fascismo come la Spagna. Per me sarebbe molto interessante conoscere questa realtà, capire come ha superato l’eredità del fascismo e come quindi potrebbero prodursi tali tipi di mutamento anche in Russia. Però penso che dovranno passare alcune generazioni perché la Russia si metta sulla strada della democrazia definitivamente.

Credo che i mutamenti in Russia potranno avvenire più rapidamente di quanto si creda perché si tratta di un sistema molto personalistico anche se poi per consolidare i cambiamenti ovviamente ci vorrà del tempo. Il fascismo si basi sull’odio, sulla divisione dall’altro. Il fascismo è come una droga, finisce per dare dipendenza. Quando hanno iniziato a dire il Tv che gli ucraini erano i cattivi, erano da odiare, molti hanno iniziato a farlo. Purtroppo troppi si sono abituati a odiare.


Jaroslav, 25 anni, di Samara. Ha lavorato nel settore del commercio all’ingrosso, ora nell’IT.

Qui si vede l’intervista / видеоинтервью можно скачать здесь

Perché è venuto in Armenia?

Per le stesse ragioni di molti, perché la guerra, e non una “operazione speciale” come dicono, sta continuando e temo la mobilitazione. Ma già dal 2014 con l’annessione della Crimea e l’inizio delle sanzioni, sono iniziate a peggiorare le condizioni di vita. Ma non è solo questo: ho iniziato a percepire che nel paese non si assimilavano più le nuove tecnologie americane, non c’erano più start-up, insomma che stavamo arretrando. Non recepivamo più le novità dei paesi democratici avanzati.

L’idea che ci fossimo presi un pezzo di terra come la Crimea – nel mondo contemporaneo dove per le nuove tecnologie permettono di lavorare e vivere in ogni dove – mi sembrava arcaica. Nel Ventunesimo secolo avere ancora tali ambizioni imperiali mi sembrava non solo sbagliato ma fuori tempo. Già allora iniziai a riflettere dove avrei potuto trasferirmi, pensavo alla Germania soprattutto.

E poi…

Quello che è avvenuto il 24 febbraio nessuno se lo aspettava, nessuno ne sapeva nulla. In un attimo capisci che tutti i tuoi piani per il futuro saltano in aria e sei costretto a fare un bilancio finale di tutto ciò. Ecco perché ora sono in Armenia.

A Samara, la gente come ha visto il conflitto?

Mia madre e la mia fidanzata sono nettamente contrarie, mentre mio padre lo sostiene. Lui ritiene che andandomene mi sono dimostrato un traditore della patria. Ma non ritengo di esserlo. Questa non è la Seconda guerra mondiale, non ci stanno invadendo, non c’è nessun pericolo per le nostre persone care o i nostri amici.

Chi è favorevole alla guerra guarda all’America come a un mondo che degenera e allora capisci immediatamente da dove vengono queste idee, si originano dalla televisione. Forse il 60% delle persone che frequento provano a dare una giustificazione in qualche modo a questa guerra. Si tratta di persone martellate dalla propaganda che continua a ripetere all’unisono: «State tranquilli, tutto questo passerà, presto tutto finirà!». Come dicono i nostri dirigenti, “tutto sta andando secondo i piani”. Molti credono che passeranno ancora 3-4 mesi e tutto tornerà come prima.

Mi ha detto che la sua ragazza è rimasta lì. Vuole venire via anche lei?

Sì attende solo che ci siano le condizioni per farlo. Io voglio definire prima che fare nel futuro. Stabilizzare la mia situazione qui o in un altro paese. Aver da vivere insomma.

Non le sembra che così la Russia piano piano perderà tutta la forza-lavoro più specializzata, le persone più attive e intelligenti? Che il paese si impoverirà ed emergeranno solo gli “yes-man”?

Ai tempi dell’Urss non tutti volevano andare via ed era difficile andarsene. Anche ora non è facile, è qualcosa che provoca una grande tensione morale e quindi ci sarà ancora chi pazienterà. La situazione resterà probabilmente instabile anche quando Putin morirà…. Può darsi che ci sarà una continuità di regime con Patrushev (il più accreditato ora a prendere il posto di Putin nel futuro. È stato a capo del Fsb N. d. R.). Non è detto che si formerà una massa critica per il cambiamento. Nessuno può saperlo. Del resto nessuno si aspettava ai tempi che l’Urss crollasse.

Dunque la situazione resta aperta?

Sì c’è gente che ancora sostiene il regime ma con cui va tenuto aperto il dialogo, potranno cambiare idea. Prima o poi la pace, in ogni caso, arriverà, anche se non sappiamo quando sarà. E sono ottimista, non ci sarà la guerra nucleare. Ogni regime basato su un grande leader quando muore produce una grande instabilità. Successe perfino con Mao in Cina. Bisognerà muoversi verso una pace mondiale. Lentamente e sarà difficile ma è una strada che deve essere percorsa. Il processo di democratizzazione sarà lungo, deve essere basato su nuove persone e su nuove garanzie. E come russo spero che si arrivi a una stabilità come da voi in Europa. Insomma un mondo senza fame, guerre e grandi migrazioni e dove si pensi al progresso per tutti, è possibile.


Dmitry Andreyanov, 55 anni. Rostov sul Don. Giornalista prima della Tv di stato poi del canale di opposizione Dozhd (ora chiuso).


Lei viene da Rostov sul Don, una regione un po’ di confine tra il Donbass, dove ora si combatte, e il resto della Russia…

Sì è così. Già prima del 24 febbraio tutto quando succedeva ci passava sotto gli occhi. Dove vivevo io si vedevano passare le truppe e si sentivano ogni tanto anche delle esplosioni. Abbiamo visto passare i profughi già a partire dal 2014 e anche adesso prima di andarcene (sono emigrato in Armenia con tutta la famiglia, io, mia, moglie e i nostri due figli).

Lei come giornalista che viveva in quelle zone ha avuto la sensazione che si sia trattata di una guerra che è continuata senza soluzione di continuità per 8 anni?

La guerra è proseguita tra il 2014 e il 2015. Poi c’è stato un periodo di congelamento e di cessate il fuoco. E poi è ripresa già all’inizio del febbraio 2022. Quando si verificavano degli eventi importanti su scala internazionale, allora c’era una qualche ripresa del conflitto, ma complessivamente la situazione era tranquilla. Nelle due Repubbliche autoproclamate erano state aperte delle banche, c’era una qualche attività commerciale e comparvero anche attività produttive anche se non erano riconosciute, neppure dalla Russia. Provavano anche a esportare il carbone in Russia…

Dalla parte del confine ucraino c’era il blocco completo?

Non proprio. Le due repubbliche cercavano di commerciare anche in Ucraina, usando sulla “linea di contatto” dei metodi di corruttela. Insomma il contrabbando esisteva. Inoltre gli anziani e invalidi di Lugansk e di Donetsk ricevevano le pensioni ucraine. Ma per riceverle bisognava recarsi in Ucraina. Ricevevano 3 pensioni: quella russa, quella ucraina e quella della Repubblica. Cifre misere tutt’e tre, naturalmente.

Dopo il 2014 furono molti quelli che emigrarono dalle Repubbliche verso la regione di Rostov?

Sì tanti. Va capito che queste due Repubbliche autoproclamate sono una “zona grigia” dove non ci sono leggi certe, dove non c’è attività lavorativa legale. Chi ha in mano un mitra decide quali sono le leggi. E così molti nel tempo sono arrivati a Rostov ma poi si sono sparpagliati in tutta la Russia, perfino in Kamchatka. Arrivarono complessivamente 1.230.000 profughi che poi si dispersero in giro.

Lei faceva attività giornalistica nel Donbass occupato?

Fino al 2018. Ci si doveva prendere dei rischi in quanto la legge era qualcosa che andava interpretata e da ciò ne discendeva l’approccio di quelle cosiddette autorità. Poi venne introdotto un sistema di accreditamento per i giornalisti. Il primo canale russo cercò di accreditarmi ma non se ne venne a capo: neppure dopo l’interessamento del ministero degli Esteri Io non venni accreditato, mentre altri sì.

Aveva la sensazione che tutti coloro i quali erano contrari alle Repubbliche se ne fossero andati in precedenza o una parte era rimasta?

Difficile dirlo, non ci sono statistiche al riguardo. La gran parte della gente che si accorse allora che si stava imponendo il cosiddetto “Mondo russo” si rifugiarono in Ucraina. Gli altri dal 2016 furono raggruppati in campi di concentramento temporanei e poi molti tornarono a casa. Pensavano che il Donbass sarebbe diventata la nuova Crimea con tanti investimenti russi e un certo tenore di vita. Cosa che ovviamente non divenne mai realtà.  Anche perché al tempo Putin, a essere onesti, non aveva fatto alcuna promessa. Per la Russia questa regione è sempre stata solo una piattaforma da cui condurre una guerra di aggressione.

In Italia esiste una minoranza dell’opinione pubblica che ritiene che nel 2014 sia stata condotta una guerra tra battaglioni ipernazionalisti o nazisti come l’Azov e dei battaglioni antifascisti delle Repubbliche cosiddette popolari. Cosa può dire a tale proposito?

In Ucraina non c’è stata a mio avviso alcuna guerra civile. C’è stata un intervento diretto della Federazione Russa nel territorio ucraino con l’occupazione di tre provincie. Il ruolo fondamentale che venne giocato dall’esercito russo nel 2014, ormai non è un segreto per nessuno. L’uso di armi sofisticate e di missili lo dimostra con evidenza come del resto l’uso dell’aviazione. Anche alcuni reparti del Donbass ovviamente combatterono ma furono ben equipaggiati dalla Russia. E una buona fetta di costoro erano avventuristi e mercenari. L’esercito ucraino ben poco organizzata poté fare ben poco in quella situazione. Anche perché del resto era ben poco motivato a combattere.

Da quante tempo fa il giornalista?

Dal 1996 sono giornalista televisivo soprattutto su questioni politico-sociali. Ma quel tipo di giornalismo che facevo prima, in Russia già non è più possibile. Ormai negli ultimi due anni, ogni cosa che filmavi non andava bene per la polizia. Molte volte siamo stati fermati mentre riprendevamo qualcosa. Prima si poteva mettere in discussione le loro decisioni amministrative, ora hanno ragione “per principio”. I giudici ogni volta ripetono come un mantra «non abbiamo motivo di non credere a quanto sostengono le forze dell’ordine». E non importa quali prove tu possa portare a tuo sostegno, magari portando la testimonianza che qualcuno è stato picchiato senza motivo, la canzone è sempre quella: “non abbiamo motivo di non credere a quanto sostengono le forze dell’ordine”.

Lei con la sua famiglia ha deciso di andarsene per sempre?

Ce ne siamo andati subito dopo il 24 febbraio, appena è stato possibile. Appena abbiamo raccolto i mezzi economici (per ora a Erevan si possono spostare i soldi) fatto il passaporto, e quindi abbiamo fatto le valigie e siamo andati in aeroporto. Del resto non avevamo nessuna voglia di finire in galera come disertori!

Non so se torneremo. Deve cambiare qualcosa neppure tanto a livello di regime quanto qui, nell’animo. Oggi come oggi direi, per il mio stato morale, che non voglio ritornare in Russia mai più. Non voglio più essere associato con il paese in cui ho vissuto tutta la mia vita. Oggi come oggi non riesco a vedere nulla di positivo in quel paese. Se torno indietro torno all’epoca del Komsomol (la gioventù comunista dell’epoca sovietica N. d. R.), al passato sovietico, al mio lavoro all’aviazione, alla perestrojka, e via via non riesco a vedere niente di soddisfacente.

Qualcuno mi dice: “Ma lei a chi servirà in Occidente?”, io rispondo: “Cosa servo io alla Russia?” In Russia non sono né cittadino, né elettore, ma devo comunque pagare le tasse. Io da solo pago lo stipendio di due poliziotti. Sono stato scrutatore a quasi ogni elezione e ogni volta è finita che è arrivata la polizia e mi cacciavano via. Se fossi gay potrei essere ammazzato solo per essere tale. Ecco perché io non voglio tornare in quel paese.

Potrà secondo lei avvenire nel futuro un cambiamento in Russia?

Come dicevano i classici del marxismo ci vogliono le “condizioni oggettive”. Oggi in Russia ci sono le “precondizioni” solo per una dittatura ancora più dura e sanguinosa. I sondaggi che appaiono sulla guerra attuale dimostrano che esiste una maggioranza favorevole a questa guerra e potenzialmente a una dittatura ancora più dura. In realtà la maggioranza dei russi sarebbe contro la guerra: ma da una parte c’è una minoranza che abbandonato il paese e ora si trova da qualche altra parte e dall’altra una maggioranza che però in qualche modo la giustifica. “Il Capo ha deciso in questo modo, avrà avuto le sue ragioni”, si dice. Oppure: “Noi eravamo contro la guerra ma non c’erano altre possibilità!” Insomma c’è chi è categoricamente contrario e chi è contrario ma la giustifica o prova a farlo.

Ma non crede che se le cose non andranno così bene in Ucraina e all’interno si creeranno delle possibilità di cambiamento?

Credo che molti russi non siano diversi dai cubani che vivono poveramente e sotto la dittatura ma ritengono che sia sempre e solo colpa degli americani. La colpa anche in Russia sarà degli Occidentali che non ci hanno capito, che ci hanno emarginato e così via. Purtroppo abbiamo avuto tutto il mondo contro, si dirà.

Pensa che lei è la sua famiglia resterete qui o vi trasferirete altrove?

Noi sfruttiamo l’occasione che ci ha dato Putin, per girare il mondo per quanto avremo le possibilità economiche. Può darsi che quando saremo molto anziani io e mia moglie, silenziosamente torneremo a casa. Avevo sempre promesso a mia moglie che l’avrei portata a Kiev, dove sono stato studente in gioventù; le ho detto: «Per ora Kiev non si può fare. Ti basterà Parigi?».

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I fiori avvelenati di Atacama https://ogzero.org/i-fiori-avvelenati-di-atacama/ Tue, 14 Jun 2022 15:05:41 +0000 https://ogzero.org/?p=7915 Riprendiamo il fotoreportage realizzato da Alice Pistolesi per l’“Atlante dei conflitti e delle guerre”, in cui viene mostrato lo sfruttamento delle risorse minerarie in Cile a scapito delle popolazioni native e con ripercussioni sull’ambiente in un paese già provato dal cambiamento climatico. Quanto è davvero “green” la produzione di ciò che è utile al mondo […]

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Riprendiamo il fotoreportage realizzato da Alice Pistolesi per l’“Atlante dei conflitti e delle guerre”, in cui viene mostrato lo sfruttamento delle risorse minerarie in Cile a scapito delle popolazioni native e con ripercussioni sull’ambiente in un paese già provato dal cambiamento climatico. Quanto è davvero “green” la produzione di ciò che è utile al mondo per la sua svolta verde? Le foto sono state scattate in Cile nel dicembre 2018 e la mostra è stata presentata a Villa Lascaris a Pianezza il 12 giugno 2022.


L’antica lotta tra lavoro e ambiente, tra interessi economici e tutela del territorio ha in Cile e nelle sue miniere uno dei più significativi campi di battaglia. Il Cile è un paese minerario, ricco di risorse dal deserto di Atacama alla Patagonia. Il Nord è pieno di giacimenti di rame, ferro, molibdeno, piombo, zinco, oro, argento e litio. Moltissimo carbone si trova poi nella macro regione Meridionale. Il Cile è il primo produttore mondiale di rame e di litio, il terzo di molibdeno, il quinto di argento, il diciottesimo di oro. L’attività legata all’estrazione di minerali e alla loro esportazione rappresenta circa un terzo del Pil.

Dietro l’imponente attività estrattiva del paese non può che nascondersi il pericolo ambientale: su un totale di 205 conflitti ambientali mappati dall’Osservatorio dei conflitti minerari in America Latina, almeno 35 interessano il Cile.

Lo stato è uno più vulnerabili al climate change: possiede, nonostante produca solo lo 0,25% delle emissioni globali di gas serra, sette dei nove fattori di rischio stabiliti dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Nel paese il settore industriale e minerario è responsabile del 77,4% delle emissioni di gas serra.

Questa mostra ci porta al Nord del Cile, nei suoi paesaggi e nelle sue contraddizioni. Si parte dalla celebre Chuquiquamata, la più grande miniera a cielo aperto del mondo e, attraverso il villaggio costruito all’interno del comparto minerario e abbandonato nel 2009, si approda nel deserto di Atacama, dove si trova tra il 27% e il 30% delle riserve mondiali di litio. Un elemento essenziale per le batterie di laptop, telefoni cellulari e auto elettriche, considerato uno dei simboli dell’economia verde. Difficile però stabilire se sia davvero green o se le sue conseguenze siano semplicemente ignorate.

Scenari che ci parlano, oltre che di ambiente e lavoro, anche di progresso e transizione ecologica, di quanto si continui a pretendere dalla Terra per inseguire uno sviluppo sempre meno sostenibile.

Chuquiquamata è la più grande miniera a cielo aperto del mondo e opera dal 1910. Gli scarti della miniera hanno prodotto un conflitto ambientale a Quillagua, un’oasi nel bacino del fiume Loa, nel Comune di María Elena a nordovest di Calama. Lì vivevano tra le 2000 e le 3000 persone, sfollate verso la città di Calama a causa della contaminazione delle acque del fiume con sostanze chimiche come xantate e isopropanolo, detergenti e metalli pesanti, tutti elementi utilizzati nei processi di estrazione del rame. L’inquinamento delle acque del Loa ha causato la graduale morte di colture e bovini. Dal 2020 si è iniziato a lavorare in sotterranea. Questo ha comportato molti cambiamenti, tra cui la notevole diminuzione dei lavoratori.

Nel complesso della miniera di Chuquiquamata fino al 2009 hanno abitato oltre 15.000 lavoratori con le rispettive famiglie. Oggi è un villaggio fantasma visitato ogni anno da migliaia di turisti grazie alle visite guidate effettuate dalla stessa azienda che gestisce la miniera, la Codelco.
I minatori che abitavano il villaggio vivono ora a Calama, a 9 chilometri da Chuquiquamata. La città ha un alto livello di contaminazione ed è una delle più inquinate del paese. La principale causa di morte è il cancro e si contano più di 2.000 casi di malattie respiratorie ogni inverno.

Il territorio che circonda il vecchio villaggio minerario e la strada che collega la città di Calama a Chuquiquamata è cosparso da “torte”, montagnole di terreno scavato e di scarto minerario. Quantificare chi si ammalerà a causa dell’arsenico respirato in anni di lavoro, ma anche di vita dentro il villaggio, non è a oggi possibile.

Il Salar de Atacama è uno dei più grandi del continente dopo il Salar de Uyuni (Bolivia). Si trova nel comune di San Pedro de Atacama, la più grande destinazione turistica del Cile. Qui si trova tra il 27% e il 30% delle riserve mondiali di litio; l’80% si trova in America Latina, nel cosiddetto ‘triangolo del litio’, ovvero la regione al confine tra Cile, Argentina e Bolivia. In questi tre Stati il minerale si trova nei deserti salati: qui il litio è presente nell’acqua dei laghi salati sotterranei che viene portata in superficie e fatta evaporare in grandi vasche. Ad estrarre litio ad Atacama sono principalmente le società Sociedad Química y Minera (SQM) e ALBEMARLE, che costituiscono due dei principali gruppi economici mondiali nell’estrazione della risorsa. In previsione dell’aumento della domanda di litio, la SQM, società privatizzata sotto la dittatura di Pinochet e i cui familiari possiedono ancora oggi parte rilevante delle azioni, promette di triplicare la produzione entro il 2030.

L’estrazione del litio, che risale alla metà degli anni Ottanta, ha nel tempo causato gravi danni agli ecosistemi e alle comunità. Questo secondo l’Osservatorio Plurinazionale di Salares Andinos, un gruppo nato a San Pedro de Atacama e che riunisce rappresentanti di comunità, organizzazioni e ricercatori provenienti da Cile, Argentina e Bolivia, preoccupati per le conseguenze, l’intensificazione e l’espansione dell’estrazione del litio nel triangolo delle saline andine e le altre associazioni ambientaliste. L’osservatorio ha rilevato che con il tempo si è danneggiata la distesa di sale, prosciugando gradualmente le sue zone umide. Queste aree e le oasi del bacino di Atacama hanno anche il compito di regolare la temperatura del deserto e catturare la CO2: sono armi vive contro il cambiamento climatico. Secondo gli studi dell’Università di Antofagasta in Cile, per ogni tonnellata di minerale estratto sono necessari due milioni di litri di acqua.

Nella comunità di San Pedro de Atacama convivono quattro fattori di rischio: presenta aree aride o semi-aride, è incline a disastri naturali, ha aree soggette a siccità e desertificazione e ecosistemi montuosi. Nel territorio le alte temperature e l’estrema aridità (il deserto di Atacama è considerato l’area più arida della terra) si combinano con le violente piogge estive che causano morti, inondazioni, erosione ed enormi perdite economiche. Secondo i ricercatori, per soddisfare il crescente mercato delle auto elettriche, il già sovrasfruttato Salar de Atacama non sarà sufficiente, e sarà necessario sfruttare più falde acquifere e saline in territori indigeni Atacameños o Lickanantay, Colla, Quechua e Aymara, andando ad impattare su altre aree protette.

Nell’area di San Pedro de Atacama vivono 11mila abitanti, di cui la metà sono indigeni, per la maggior parte Atacameños. Il costante intervento di tutte le società minerarie della zona ha generato forti divisioni, conflitti, inganni e resistenze nella convivenza comunitaria. L’estrazione mineraria indiscriminata colpisce direttamente le comunità, che devono affrontare gravi problemi di approvvigionamento idrico per l’agricoltura, la pastorizia (allevamenti di lama in primis) e per il turismo locale. Secondo gli osservatori, gli accordi e le compensazioni che le società minerarie hanno concluso nel territorio hanno causato divisioni e tensioni tra la popolazione. Le aziende hanno sfruttato l’assenza dello Stato per soddisfare numerosi bisogni primari della popolazione locale e sottoscrivere accordi di assistenza in cambio dell’accettazione delle aziende e delle gravi conseguenze socio-ambientali dell’estrazione mineraria nei loro territori.

Fenicotteri nella Laguna Chaxa. Lo squilibrio idrico collegato all’estrazione sta provocando il prosciugamento di fiumi e falde acquifere e sta interessando i laghi e le zone umide ai margini della distesa di sale e nelle montagne, ovvero ecosistemi che ospitano specie endemiche altamente vulnerabili, molte delle quali protette. Nel territorio, secondo gli osservatori, a causa degli effetti dell’estrazione e del riscaldamento globale, stanno scomparendo i fenicotteri e altre specie autoctone del salare.

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La strategia del grano https://ogzero.org/la-strategia-del-grano/ Fri, 10 Jun 2022 16:01:50 +0000 https://ogzero.org/?p=7867 Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento […]

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Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento prima del 24 febbraio e che sono periodiche le rivolte del pane (anche dopo il 2011 delle Primavere arabe).
La guerra è stata solo il la ciliegina su una torta immangiabile per i 20 milioni di potenziali morti per fame che la contingenza può creare e i due autocrati di Astana si stanno mettendo d’accordo anche in questo caso per spartirsi guadagni e prestigio nei paesi africani sbloccando la situazione del Mar Nero con il blocco delle tonnellate di grano ammassato nei silos ucraini che rappresentano comunque soltanto l’8 per cento del prodotto annuale mondiale. Un’arma ibrida come le bombe di migranti gettate ai confini, che si produrranno anche attraverso questa nuova fame indotta dalla guerra sarmatica. Ma non solo: esistono infinite esponenziali conseguenze al conflitto (e allo scellerato agribusiness, all’intollerabile landgrabbing, allo sfruttamento coloniale, che hanno preparato il terreno alla fame globale) che portano alle scelte strategiche dei singoli stati vincolati in qualche modo ai prodotti russi (per esempio il Brasile) e il ritorno d’immagine per i popoli affamati d’Africa che si troveranno a ringraziare i garanti russo-turchi delle forniture alimentari di cui sono responsabili per l’improvvisa carenza; senza contare la stagflazione ormai globale e l’indebitamento generalizzato.
Per questo riprendiamo, con l’accordo dell’autore – che ringraziamo –, un pezzo di Angelo Ferrari scritto per l’Agi sul ritorno delle mosse russo-turche nei paesi africani a rischio di carestia per la carenza di approvvigionamenti di cereali, a cui alleghiamo il podcast di un intervento di Alfredo Somoza su Radio Blackout a proposito delle cause globali della carestia.


La guerra del grano deve essere risolta nel più breve tempo possibile e vincerla non è solo una questione di “buon cuore”, ma anche strategica. I numeri dimostrano che la carestia potrebbe colpire oltre 400 milioni di persone. A questi si debbono aggiungere tutti coloro che vivono con gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite. Il Corno d’Africa e gran parte del Sahel si apprestano ad affrontare una carestia senza precedenti (Human rights watch) che, indubbiamente, sarà aggravata dalla guerra in Ucraina. Sbloccare centinaia di milioni di tonnellate di grano nei silos nei porti ucraini è dunque una priorità per scongiurare una catastrofe umanitaria che avrà ripercussioni globali che potrebbero durare anni. Molto attivi su questo fronte sono i turchi e i russi, anche se un accordo chiaro che garantisca tutti, in primo luogo gli ucraini, sembra lontano dall’essere siglato.

La penetrazione russa

La Russia, come stiamo vedendo in questi giorni, ha tutto l’interesse a scaricare sull’Occidente la responsabilità di una possibile crisi alimentare globale. Un interesse che non deve stupire. Di sicuro, come è già avvenuto, farà partire le sue navi cariche di grano dai porti ucraini conquistati sul mar d’Azov. Grano rubato, secondo gli ucraini. Grano di loro proprietà secondo Mosca. Al di là di chi abbia ragione questa è la realtà. Le navi hanno fatto rotta verso l’Africa dove la presenza russa si fa sempre più penetrante.
Il caso del Mali, nel Sahel, è l’aspetto più eclatante. È riuscita a “cacciare” la Francia da un’ex colonia. Poi c’è la Repubblica Centrafricana, anch’essa ex colonia francese. Qui la presenza russa è ancora più evidente. Senza dimenticare il Burkina Faso e ancora i recenti accordi militari e di sicurezza tra il Camerun e Mosca. Nel mirino di Putin c’è anche il Ciad, dove nella capitale N’Djamena ci sono state manifestazioni antifrancesi molto violente. Il sentimento antifrancese e antioccidentale sta dilagando in gran parte del Sahel e Mosca lo cavalca e incoraggia abilmente.

L’attivismo turco

Dall’altra parte del tavolo negoziale c’è la Turchia, il sultano Recep Erdoğan, che non fa nulla senza che ne abbia un tornaconto significativo. Anche Ankara ha interessi diffusi in Africa. Oramai è un po’ ovunque, ha stretto accordi commerciali, di fornitura di armi, ma anche si sta impegnando molto sul fronte dell’aiuto alimentare, come in Somalia. La forza della Turchia in Africa è assai maggiore di quella russa. Dal 2004 Erdoğan ha fatto più di 50 viaggi nel continente africano e visitato oltre 30 nazioni. Solo nell’ottobre del 2021 il capo di stato turco ha visitato Angola, Nigeria e Togo e nello stesso mese, Istanbul ha ospitato leader aziendali e dozzine di ministri degli stati africani per un vertice volto specificatamente ad aumentare il commercio. Nei primi mesi del 2021 il commercio bilaterale Turchia-Africa ha raggiunto i 30 miliardi di dollari e l’obiettivo della Turchia è di aumentarlo ad almeno 50-75 miliardi di dollari nei prossimi anni. Inoltre circa 25.000 lavoratori africani sono attualmente impiegati nel continente da aziende turche in progetti del valore di 78 miliardi di dollari e più di 14.000 studenti africani hanno studiato in Turchia. Il numero degli ambasciatori turchi distaccati nel continente è passato dai 12 del 2005 ai 43 nel 2021, mentre il numero degli ambasciatori africani ad Ankara è passato da 10 a 37. «Miriamo ad aumentare il numero dei nostri ambasciatori fino a 49», ha detto Erdoğan, affermando che il vertice di Istanbul ha dato luogo a sessioni congiunte a livello ministeriale nei settori della sanità, dell’istruzione, dell’agricoltura e della difesa. Turkish Airlines vola verso 61 destinazioni in Africa, l’Agenzia turca di cooperazione e coordinamento (Tika) ha 22 uffici locali, la Fondazione Maarif gestisce 175 scuole in 16 paesi e la presidenza dei turchi all’estero e delle comunità correlate offre borse di studio a oltre 5000 studenti africani. Una potenza di fuoco enorme che ha anche lo scopo di ottenere il sostegno africano per un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.Per Ankara, dunque, arrivare a una soluzione negoziata sul grano ucraino sarebbe un grande successo e rafforzerebbe i legami già molto stretti con l’intero continente. Obiettivo che ha anche lo zar di Mosca. Putin e Erdoğan, su questa partita si intendono benissimo. Tutto ciò avrebbe, inoltre, anche lo scopo di allontanare sempre di più il continente africano dall’influenza occidentale, sostituendola con quella turca e russa. La Cina, vera padrona del continente, sta a guardare anche perché non ha competitor. Vincere la guerra del grano non è solo una questione di buon cuore, ma ha una valenza strategica tale da spostare gli equilibri anche in Africa, dove quasi la metà degli stati non ha votato o si è astenuta per la risoluzione delle Nazioni Unite di condanna all’invasione russa dell’Ucraina. Di sicuro, se Erdoğan avrà ragione in questa partita, sarebbe la sconfitta dell’occidente – oltre che quella dell’Onu – la cui diplomazia non fa altro che accusare Mosca della catastrofe alimentare. Non basta. Agli africani di certo non basta.

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n. 19 – L’Afghanistan e i corridoi umanitari fantasma https://ogzero.org/corridoi-umanitari-dall-afghanistan-abbandono-e-false-promesse/ Sat, 28 May 2022 20:34:17 +0000 https://ogzero.org/?p=7731 Procede il lavoro accurato di Fabiana di ricostruzione dei “percorsi migranti” e delle loro cause in un’ottica giurisprudenziale, che evidenzia sempre più le contraddizioni razziste e colonialiste dell’Occidente persino in quell’ambito che dovrebbe distinguerlo dalla barbarie autocratica, dimostrando quanto tutto sia infingimento e gioco delle parti. Questa volta Fabiana si occupa dei corridoi umanitari per […]

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Procede il lavoro accurato di Fabiana di ricostruzione dei “percorsi migranti” e delle loro cause in un’ottica giurisprudenziale, che evidenzia sempre più le contraddizioni razziste e colonialiste dell’Occidente persino in quell’ambito che dovrebbe distinguerlo dalla barbarie autocratica, dimostrando quanto tutto sia infingimento e gioco delle parti.

Questa volta Fabiana si occupa dei corridoi umanitari per gli afgani tanto sbandierati quando già in agosto ci occupavamo della terrificante situazione afgana poi scomparsa dai radar geopolitici e creatasi in seguito all’assurdo accordo tra Trump e i Talebani – messo in atto da Biden. Un abbandono repentino che ha causato le attuali condizioni in cui versano le persone rimaste intrappolate nel regime talebano, una responsabilità ormai sancita anche dall’ispettorato per l’Afghanistan istituito dal Congresso. Il capo del Sigar, Sopko ha scritto: «La limitazione dei raid aerei (contro le forze avversarie) dopo la firma dell’accordo Usa-Talebani, ha lasciato l’Andsf senza un vantaggio chiave. Molti afgani – ha aggiunto – pensavano che l’accordo Usa-Talebani fosse un atto di malafede e un segnale che gli Stati Uniti stavano consegnando l’Afghanistan al nemico e che si precipitavano a lasciare il paese».
Anche molti afgani hanno lasciato il paese o vorrebbero farlo, ma si trovano di fronte a un nuovo abbandono con false promesse di corridoi umanitari; Fabiana incrocia nuovamente il loro percorso, già altre volte descritto – per esempio sulla rotta balcanica o al confine bielorusso.


Quando nell’agosto del 2021 i talebani hanno preso possesso della città di Kabul, assicurandosi il controllo della totalità del territorio afghano, l’opinione pubblica internazionale e i governi dei paesi Nato – prima tra tutti l’amministrazione americana guidata da Joe Biden – sono rimasti attoniti dinanzi a una tale rapidità dell’ascesa al potere da parte del gruppo estremista islamico. A ciò è seguito oltretutto un improvviso cambiamento dello scenario politico, militare e sociale: l’esercito afgano è stato costretto ad arrendersi, si è resa necessaria l’evacuazione immediata – oltre che dei cittadini afghani – degli esponenti dei membri del precedente esecutivo guidato da Ashraf Ghani e dei cittadini stranieri presenti in Afghanistan a qualsiasi titolo in quel momento, mentre le forze internazionali militari – stanziate nel territorio da oltre venti anni – convergevano verso una repentina ritirata. Una disfatta totale per l’intero versante occidentale dell’emisfero che tuttavia non si è determinata certamente nell’arco di dieci giorni ma più precisamente nel corso di diciotto mesi, ossia dalla stipula del famigerato accordo di Doha – siglato nel febbraio del 2020 – che ha visto sedere al tavolo dei negoziati, accanto all’amministrazione Trump, i “rappresentanti diplomatici” dei talebani, primo tra tutti Abdul Ghani Baradar che Islamabad per anni si è rifiutata di consegnare agli Stati Uniti.

Nel corso dei negoziati gli Stati Uniti – accecati dalla volontà di riconquistare consensi da parte dell’opinione pubblica interna americana e di occuparsi principalmente di limitare l’espansionismo di Cina e Russia – si sono accontentati di vaghe promesse da parte talebana, acconsentendo anche alla liberazione di molti prigionieri appartenenti al gruppo. Inoltre, accanto a una rinnovata veste diplomatica del movimento dei taliban (c.d. corrente degli studenti pashtun) al tavolo internazionale, si è affiancata – nei mesi immediatamente precedenti la proclamazione del nuovo Emirato islamico – da parte del gruppo estremista un’opera di persuasione e di captazione dei consensi di alcuni dei più rilevanti esponenti delle comunità locali afgane – situate soprattutto nel Nord e nell’Ovest del paese – di alcuni miliziani, nonché di dissidenti dell’esercito nazionale che ha accelerato la conquista del territorio. I paesi Nato che avevano seguito immediatamente gli Usa venti anni prima nella “guerra al terrorismo” – senza che per essa fosse stato previsto alcun exit plan – ad agosto del 2021 hanno scelto non solo dunque di chinare il capo e concludere il proprio impegno militare, ma anche di voltare le spalle ai civili lì intrappolati e che a oggi – a parte un primo piano di evacuazione – sono stati lasciati completamente a loro stessi. C’è da dire che vista l’attuale regressione del paese in meno di un anno dal punto di vista del rispetto dei diritti fondamentali nei confronti della popolazione civile (oltre che da quello economico-finanziario) avvenuta con la proclamazione dell’Emirato islamico, facili appaiono le conclusioni in merito all’effettiva utilità del conflitto, considerate la totale incapacità della creazione, da parte delle forze occidentali, di un effettivo sistema di state building come risultato, il numero ingente dei costi che questo ha comportato, nonché il numero di vite perse. Pertanto l’effettiva accoglienza dei profughi afgani sarebbe oggi l’unico passo di civiltà che potrebbe consentire a tutti gli stati che hanno partecipato al conflitto di acquisire una qualche credibilità rispetto all’opinione pubblica di un popolo che già in passato ha mostrato sconcerto e rabbia a causa dell’abbandono da parte del mondo occidentalenello specifico da parte degli Stati Uniti che misero in atto dinamiche limitate alla sola militarizzazione e all’addestramento della popolazione civile e con la medesima preoccupazione di oggi ossia il contenimento della Russia – l’allora Unione Sovietica – alla quale ora però, come detto, si affianca nell’alveo dei timori egemonici statunitensi, la Cina.

Per quanto riguarda l’Italia l’idea dell’accoglienza immediata dei profughi afgani è stata prontamente sollevata dalle associazioni comprese quelle religiose del terzo settore e dalle organizzazioni internazionali con la richiesta dell’attivazione dei cosiddetti corridoi umanitari.

È un’espressione questa che nell’ultimo periodo con la “crisi afgana” si è quasi svuotata del suo significato: un classico di quando si ripete all’infinito lo stesso insieme di parole senza specificarne però il significato in concreto. I corridoi umanitari vengono infatti menzionati attraverso i consueti canali mediatici ogni qual volta si verificano flussi migratori rilevanti ma spesso senza che vengano approfonditi e analizzati gli aspetti strutturali di tale “rimedio” e senza chiedersi se questi possano costituire soluzioni effettivamente attuabili nel lungo periodo per affrontare in modo sistemico il “problema” della mobilità umana. Si cerca pertanto in questa sede di dare, preliminarmente all’analisi del fallimento del loro impiego rispetto ai profughi afgani almeno fino a oggi, alcune nozioni fondamentali dell’istituto in oggetto.

Va in primo luogo specificato che i corridoi umanitari non sono previsti da alcuna legge, né dal nostro ordinamento giuridico, né da quello dell’Unione europea, né tanto meno dall’insieme di norme che costituiscono il diritto internazionale.

I corridoi umanitari infatti altro non sono che progetti che consentono – mediante l’intervento delle associazioni del terzo settore e delle organizzazioni internazionalia determinate categorie di individui, in condizioni di vulnerabilità e presenti in paesi diversi da quello di origine, di giungere nel territorio dell’Unione – in questo caso l’Italia – attraverso vie legali e sicure come i voli di linea, evitando i cosiddetti “viaggi della morte” per poter poi presentare domanda di protezione internazionale. L’Italia ha fatto da apripista nella conduzione di tali iniziative mediante l’attività di impulso – iniziata nel 2015 – dalla Comunità di Sant’Egidio in collaborazione con la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e la Tavola Valdese.

Monaco di Baviera, 2015, rifugiati da Siria, Afghanistan e Balcani.

I primi profughi arrivati nel nostro paese attraverso tale prassi sono stati prevalentemente nuclei familiari di cittadini siriani provenienti dal Libano, nel 2016. Dal 2015 a oggi i progetti sono stati tuttavia rinnovati più volte e sono aumentate anche le associazioni e le organizzazioni che hanno aderito a tali iniziative come Caritas Italiana, e altre non aventi carattere ecumenico come l’Arci. Si è implementato altresì il novero dei paesi di transito che hanno consentito la partenza attraverso tali vie legali e sicure (Etiopia e Grecia – in particolare dall’isola di Lesbo – Giordania, Turchia, Kenya) per cui dal 2016 sono arrivati mediante i corridoi umanitari circa 3000 profughi. Anche se apparentemente questo può sembrare un numero esiguo – considerando i milioni di profughi attualmente presenti nel mondo che fuggono da conflitti armati o da situazioni di violenza generalizzata – se si considerano gli aspetti peculiari di tali progetti, il risultato è sicuramente rilevante e apprezzabile tanto da essere definiti dal parlamento europeo una “best practice” italiana da replicare in tutti gli altri paesi dell’Unione. Oltretutto il fatto che siano stati portati avanti dei progetti di tale tipo, in assenza di un impianto giuridico che li regolamenti, ha del sorprendente e lo ha ancor di più se si pensa che

non solo l’attività di impulso, ma anche la gestione di tutti i costi dei corridoi umanitari sono a carico esclusivamente delle associazioni proponenti e delle realtà ecumeniche senza che per lo stato italiano vi sia alcun costo diretto.

Tuttavia, se l’iniziativa e la gestione dei corridoi umanitari dipende da tali soggetti giuridici è pur vero che questi progetti per poter essere attuati necessitano dell’approvazione da parte del Ministero degli Esteri e degli Interni. Proprio però la concertazione in sede di attuazione con i due ministeri talvolta ha costituito un “intoppo” alla loro effettiva realizzazione, come nel caso dei corridoi umanitari – ancora mai partiti – a favore dei cittadini afgani in seguito alla proclamazione dell’Emirato islamico da parte dei talebani. Altro aspetto che occorre sottolineare è, come annunciato in precedenza, il fatto che tali corridoi siano attivabili soltanto per specifiche categorie di soggetti che fuggono da conflitti armati, da situazioni di violenza generalizzata o di violazione prolungata dei diritti umani e da persecuzioni, in comprovate condizioni di vulnerabilità per le quali si fa riferimento prevalentemente al Capo IV, art. 21 della Direttiva 2013/33/UE che individua tra i soggetti vulnerabili i minori stranieri – accompagnati o meno – i disabili, gli anziani, le donne in stato di gravidanza, le vittime di tratta, di stupri e torture e le persone affette da malattie o da gravi disturbi mentali.

Il meccanismo per l’attivazione dei corridoi umanitari si struttura in tale modo: chiese, associazioni, ong e organizzazioni internazionali, attraverso contatti diretti in loco – ossia nei paesi di transito in cui si trovano i profughi – predispongono liste dei potenziali beneficiari, trasmesse alle autorità consolari italiane dei paesi interessati per consentire i dovuti controlli da parte del Ministero degli Interni. Solo a questo punto i consolati dei paesi europei – come quello italiano – rilasciano visti con validità territoriale limitata a quegli stati membri dell’Unione nelle quali normalmente hanno sede le associazioni che hanno predisposto le liste.

Va infatti sottolineato che l’unico vero appiglio normativo ai quali i corridoi umanitari si ancorano è l’art. 25 al Capo IV del Codice comunitario dei visti (Regolamento CE N. 810/2009) che al punto 1 lett. a) prevede che uno stato membro possa eccezionalmente rilasciare un visto di ingresso a un cittadino di un paese terzo se lo ritiene necessario per motivi umanitari, di interesse nazionale o derivante da obblighi internazionali.

Occorre tuttavia rilevare che – nonostante la legittima applicabilità del riferimento normativo di cui sopra alla prassi dei corridoi umanitari – tutti i progetti attivati dal 2015 a oggi hanno visto l’ingresso dei profughi prevalentemente con visti per turismo! Una volta giunti in Italia i profughi vengono accolti nelle strutture dei soggetti promotori dei corridoi umanitari, prevalentemente secondo il modello dell’accoglienza diffusa e facilitano il processo di integrazione dei profughi nel territorio attraverso l’assistenza legale – per la presentazione delle domande di protezione internazionale – l’apprendimento della lingua italiana e la scolarizzazione per i minorenni. È il caso a questo punto di specificare la differenza tra corridoi umanitari e reinsediamenti – i cosiddetti resettlementmenzionati spesso dai media e più volte citati negli articoli riguardanti le attuali rotte migratorie – in particolare rispetto alla rotta del Mediterraneo centrale – con riferimento a quelli attuati in Niger, con il supporto dell’Unhcr. I due istituti spesso infatti vengono confusi tra loro – nonostante abbiano aspetti differenti – a ragione del carattere di emergenzialità che contraddistingue entrambi, motivo per cui non possono rappresentare strumenti idonei per affrontare la questione migratoria in modo strutturato.

I resettlement consistono in programmi che prevedono il trasferimento di individui fuggiti dal proprio paese d’origine – già riconosciuti rifugiati dall’Unhcr – per i quali nel paese di primo arrivo non vi è possibilità di integrazione e la protezione accordata loro potrebbe essere a rischio (per esempio perché il paese di primo arrivo non ha ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951).

Per tale ragione si chiede il reinsediamento del rifugiato in un paese terzo – chiaramente diverso da quello di primo arrivo – nel quale al rifugiato potrà invece essere assicurata una protezione effettiva e permanente. Va precisato che i programmi di reinsediamento – per i quali gli afgani sono ai primi posti tra i soggetti potenzialmente beneficiari – hanno come presupposto fondamentale la volontà del paese terzo – nel quale i rifugiati si dovranno stabilire definitivamente – di aderire al trasferimento dei medesimi nel proprio territorio e di “selezionarli” basandosi o sui dossier dell’Unhcr, o su un’intervista individuale o ancora su entrambi i metodi, al momento l’opzione maggiormente impiegata.

In questa analisi – mediante la quale comunque si coglie l’occasione per ribadire una sentita preoccupazione per i cittadini e le cittadine afgane rimasti intrappolati in Afghanistan e per quanti sono tutt’ora bloccati e respinti lungo la rotta balcanica – già prima dell’agosto del 2021 – occorre soffermarsi sulle ragioni del fallimento dell’impiego dei corridoi umanitari rispetto ai profughi afgani bloccati al momento in Iran e in Pakistan ancora in attesa che vengano attivati i progetti.

Già, perché dopo ripetuti appelli al Ministero degli Esteri da parte delle organizzazioni della società civile, prima fra tutte Asgi, il 4 novembre del 2021 Sant’Egidio, Arci, Caritas Italiana, Fcei, Oim e Unhcr hanno firmato un protocollo di intesa con il Ministero degli Interni e degli Esteri per l’attivazione di corridoi umanitari destinati a 1200 beneficiari afgani, ma a oggi questo non è stato ancora attuato nonostante le associazioni proponenti continuino a ribadire di essere pronte per l’accoglienza e disposte a pagare ogni costo del progetto, compresi quelli aggiuntivi legati ai voli di linea richiesti dai due ministeri nell’addendum al protocollo.

Ciò che a ogni modo risulta ancora più assurdo è la ragione per la quale, a detta dei ministeri, il protocollo non sarebbe partito: ossia la mancanza nei due consolati italiani – rispettivamente in Iran e in Pakistan – della macchinetta rodata per le impronte digitali che serve al ministero degli Interni per fare i controlli sull’identità dei profughi per ragioni di sicurezza.

Tuttavia, la maggior parte dei profughi inseriti nelle liste sono già dotati di passaporto internazionale che dovrebbe essere sufficiente alla loro identificazione in quanto viene rilasciato mediante rilevazione dei dati biometrici. Non solo, le associazioni di cui sopra si sono proposte di acquistare loro stesse le macchinette per le impronte nonostante ciascuna abbia un costo di circa 10.000 euro. Si rifletta quanto sia paradossale che degli individui rischino la propria vita per ragioni di questa natura: buona parte dei profughi in attesa dei visti per fare ingresso in Italia infatti hanno dei visti in scadenza o scaduti in Iran e in Pakistan – nell’attesa delle macchinette per le impronte. Al riguardo va sottolineato che nei suddetti paesi è previsto che se non si è regolari sul territorio – come appunto nell’ipotesi di visto scaduto – non si può beneficiare di un exit permit per recarsi in un altro stato, in questo caso l’Italia, e si deve disporre il rimpatrio immediato dei migranti nel paese d’origine, in questo caso l’Afghanistan!! E va precisato altresì che la questione produrrà dei danni gravi, se non verrà risolta rapidamente, in quanto in questi paesi il secondo rinnovo del visto non è garantito e dopo il terzo non si ha la possibilità di concederne un altro quindi il rimpatrio nel paese d’origine è quasi automatico. Sempre con specifico riferimento ai corridoi umanitari per i cittadini afgani, è opportuno inoltre fare riferimento alla pronuncia del Tribunale di Roma intervenuta il 21 dicembre del 2021 nei confronti di due giornalisti afgani che fuggiti dal paese in mano ai talebani hanno presentato ricorso d’urgenza ex art. 700 del codice di procedura civile, reso necessario a causa della mancata risposta del ministero degli Esteri rispetto a una segnalazione a questo inviata, nella quale era stato evidenziato il pericolo al quale erano esposti i due giornalisti.

Il Tribunale di Roma si è pronunciato affermando che «nel caso di specie ricorrono condizioni idonee al rilascio del visto per motivi umanitari, specificando che se per l’autorità statale questo è una mera facoltà, per il giudice dei diritti fondamentali è un’attività doverosa poiché il nostro ordinamento attribuisce al giudice il compito di adottare i provvedimenti d’urgenza necessari».

Tuttavia, ciò non è stato sufficiente per il ministero degli Esteri che ha presentato reclamo sostenendo che i due giornalisti debbano beneficiare dei corridoi umanitari e non della concessione di un visto ai sensi dell’art 25 del Codice comunitario dei visti: peccato che i corridoi umanitari – almeno in via di principio – si basino, come detto, proprio sull’art. 25!! La contestazione appare dunque evidentemente contraddittoria e pretestuosa.

Mentre si perde tempo prezioso tra macchinette delle impronte e reclami in Tribunale, in Afghanistan la situazione è drammatica: metà della popolazione soffre a causa della siccità e i minori oltre a non avere più accesso all’istruzione – come d’altronde le donne, costrette definitivamente al burqa in pubblico – sono in gran parte in una condizione di malnutrizione mentre le sanzioni internazionali e il congelamento dei fondi della Banca Centrale peggiorano la situazione economica generale nella quale il prezzo dei beni essenziali è salito in maniera vertiginosa.

Prima di addentrarci quindi nel successivo articolo in merito alla vicenda dello scorso novembre riguardo al mancato accesso al diritto d’asilo per migliaia di profughi – tra cui gli stessi afgani – al confine polacco-bielorusso e delle modifiche apportate ad hoc nelle legislazioni nazionali in materia di immigrazione da parte di Polonia, Lituania e Lettonia – in contrasto con il diritto europeo e internazionale – è necessario trarre conclusioni importanti circa i rimedi emergenziali finora analizzati, ossia i corridoi umanitari.

Tuttavia, si segnalano caratteri di precarietà anche rispetto ai reinsediamenti, alle evacuazioni e da ultimo alla protezione temporanea, riconosciuta applicabile dal Consiglio europeo ai cittadini ucraini ma non a quelli afgani e che analizzeremo nell’articolo giuridico dedicato alla crisi migratoria Ucraina.

I corridoi umanitari infatti pur essendo un lodevole e importante rimedio per l’accesso in modo sicuro al territorio dell’Unione, in particolare a quello italiano – replicati con numeri inferiori da altri paesi europei come Germania e Francia – sono pur sempre uno strumento che non può fronteggiare, anche se implementato, la gestione dei flussi migratori che invece richiede decisioni politiche più coraggiose o più semplicemente che non siano volte a ostacolare l’applicazione del diritto europeo e internazionale vigente, come avvenuto negli ultimi anni con la proposta della Commissione del nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo del settembre del 2020 e con quella di modifica del Codice Frontiere Schengen del dicembre del 2021.

I corridoi umanitari infatti hanno alcuni elementi di criticità che non permettono un pieno rispetto del diritto alla mobilità dei migranti.

In primo luogo, è molto forte il carattere discrezionale dell’istituto in quanto la lista dei migranti potenzialmente beneficiari dei corridoi viene predisposta sulla base di una scelta del tutto imponderabile delle associazioni promotrici; inoltre, poiché il procedimento non è disciplinato da alcuna disposizione di legge, non è totalmente trasparente in tutte le sue fasi per i migranti anche nell’ipotesi in cui venissero riconosciuti beneficiari del progetto; infine, nell’ipotesi di esclusione, non è previsto alcun tipo di rimedio giurisdizionale con il quale il migrante possa impugnare la decisione di esclusione dalla lista predisposta dalle associazioni. Anche se quindi l’impegno negli ultimi anni dell’associazionismo ecumenico e laico in ambito migratorio ha un’importanza straordinaria, esso non può sostituirsi alla politica che è e rimane l’unica vera responsabile sia a livello nazionale che internazionale, non solo per le prassi negative e le leggi poste in essere in spregio ai basilari diritti dei migranti, ma anche per quello che non ha avuto il coraggio di fare o di smettere di fare, come con gli accordi Italia-Libia che non sono stati fermati in cinque anni da nessun partito al governo in Italia. A questo punto quindi finché la politica agirà o non agirà in questo modo è doveroso, non solo per rispetto dei cittadini afgani ma per tutti gli individui che fuggono da conflitti, come quello in Yemen o in Corno d’Africa, che la società civile continui a dare visibilità e a denunciare quello che da anni si vuole nascondere inutilmente.

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Le sanzioni internazionali funzionano? https://ogzero.org/le-sanzioni-internazionali-funzionano/ Fri, 20 May 2022 10:19:21 +0000 https://ogzero.org/?p=7680 Congelamento di beni di individui e aziende, diniego di visti, divieto di importazione ed esportazione, embargo commerciale, restrizioni finanziarie, nonché sanzioni secondarie e “indirette” come la chiusura di conti bancari… ma le sanzioni – oltre a portare alla fame le popolazioni civili – possono davvero spingere il governante di turno a cambiare la sua politica? […]

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Congelamento di beni di individui e aziende, diniego di visti, divieto di importazione ed esportazione, embargo commerciale, restrizioni finanziarie, nonché sanzioni secondarie e “indirette” come la chiusura di conti bancari… ma le sanzioni – oltre a portare alla fame le popolazioni civili – possono davvero spingere il governante di turno a cambiare la sua politica? Vari studi e rapporti dimostrano di no. Inoltre, perché le sanzioni abbiano legittimità devono discendere dalla condanna espressa dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ed è qui che generalmente si inceppa il meccanismo – come ha spiegato alcuni mesi fa Alfredo Somoza nel suo ultimo volume – «perché il suo statuto prevede che Usa, Russia, Cina, Francia, Regno Unito siano membri permanenti e abbiano potere di veto su qualsiasi argomento discusso dal Consiglio. Questo meccanismo “truccato”, che fu pensato nella logica della Guerra Fredda, impedisce che il Consiglio di Sicurezza sia davvero una guida del diritto internazionale. Lo si è ancora verificato dopo il sanguinoso colpo di stato in Myanmar, non condannato a causa del veto russo e cinese».

E qui, in questo saggio, Giulia Della Michelina ci fornisce, dati alla mano, qualche strumento in più per capire i contorni di quest’arma a doppio taglio che rimane lo strumento punitivo di deterrenza più utilizzato dall’Occidente, mentre il podcast di Raffaele Sciortino fornisce un quadro degli sconvolgimenti sul sistema economico a livello globale e del ridimensionamento del ruolo di ciascuna delle grandi potenze, nonché di un loro potenziamento sotto nuova forma e sviluppo.


Negli ultimi mesi il dibattito attorno alle sanzioni e alla loro efficacia è tornato di attualità a causa delle tensioni tra Ucraina e Russia e alla guerra scatenata da quest’ultima. Si sta discutendo molto di “sanzioni senza precedenti”, embargo, restrizioni finanziarie e commerciali, e delle conseguenze economiche e politiche scatenate da queste misure, anche sui paesi che le impongono. A più di due mesi dall’inizio dell’invasione russa è lecito porsi una serie di domande: le sanzioni contro Mosca stanno avendo successo? Le misure adottate sono adeguate all’intento di sperare in un risultato positivo? E in quanto tempo? Più in generale ci si potrebbe domandare se lo strumento delle sanzioni funzioni davvero nelle controversie internazionali. Si tratta di questioni complesse, in cui oltre a considerazioni economiche e diplomatiche intervengono anche riflessioni di ordine morale e su cui analisti ed esperti non hanno un parere univoco. I dati a disposizione possono però aiutare a fare chiarezza e sembrano mostrare che, nella maggioranza dei casi, le sanzioni non funzionano.

Cosa sono le sanzioni

Come spiega Francesco Giumelli, professore associato al Dipartimento di Relazioni internazionali e Organizzazione internazionale (Irio) dell’Università di Groningen, le sanzioni sono provvedimenti di varia natura (complessive o mirate) solitamente adottati da uno o più stati (o organismi internazionali) che le impongono contro un soggetto (stato, azienda, persona) con lo scopo di modificarne un comportamento. Nel rapporto intitolato Quando sono utili le sanzioni internazionali? dell’Osservatorio di Politica internazionale, Giumelli individua tre sostanziali obiettivi dietro l’imposizione di sanzioni: coercizione, contenimento e segnalazione/ammonimento. Le sanzioni mirate (come restrizioni finanziarie, al commercio di armi, allo scambio di prodotti specifici e alla limitazione del movimento di persone), si legge nel rapporto, sono ormai prevalenti perché dovrebbero limitare i loro effetti agli attori responsabili dei comportamenti che si vorrebbero disincentivare, risparmiando quindi le conseguenze sulla popolazione.

Gli effetti sulle popolazioni

Eppure i dati rivelano che le ripercussioni delle sanzioni hanno un impatto importante, talora devastante, anche sui cittadini degli stati che si intende colpire. Secondo uno studio del “Journal of Development Studies” effettuato su 98 paesi per un periodo di 35 anni (dal 1977 al 2012) le sanzioni economiche riducono l’aspettativa di vita di 1,2-1,4 anni delle popolazioni e in particolare le donne risultano essere i soggetti maggiormente colpiti. In alcuni casi, le sanzioni comportano difficoltà nell’approvvigionamento di medicinali o presidi sanitari di base, come documentato da uno studio di Oxfam sugli effetti dell’embargo contro Cuba. In questo paese e negli altri stati più duramente sanzionati (Iran, Venezuela, Siria) secondo quattro esperti dell’Onu le sanzioni stanno impedendo il diritto allo sviluppo e aumentando il tasso di povertà, rendendo inaccessibili servizi essenziali come acqua, elettricità, gas, cibo e medicine. In Venezuela, le sanzioni hanno contribuito al più grave crollo del Pil nella storia dell’America Latina (74,3%).

Uno dei più drammatici esempi del costo umanitario derivante dalle sanzioni è il caso dell’Iraq, sottoposto nel 1990 a un durissimo regime sanzionatorio in seguito all’invasione del Kuwait. Già nel 1993 un report della Fao e del Wfp sottolineava come queste misure avessero causato «persistenti privazioni, fame e malnutrizione per una vasta maggioranza della popolazione irachena» e l’impossibilità di continuare con le sanzioni «senza aggravare la già drammatica situazione dei rifornimenti di cibo in Iraq».
Poche settimane fa diversi gruppi di attivisti hanno inviato una lettera al presidente Biden in cui si sottolinea il paradosso delle sanzioni, usate come strumento alternativo all’offensiva militare e tuttavia capaci di provocare vittime civili innocenti, e si richiede di rivedere radicalmente l’utilizzo di queste misure.

Le sanzioni funzionano solo nel 30% dei casi

Uno studio della Drexel University di Filadelfia riporta un drastico calo nell’efficacia delle sanzioni a partire dal 1995 e afferma che il tasso medio di successo si attesta al 30%. Inoltre negli ultimi due decenni si è riscontrata la tendenza al perdurare di sanzioni per anni, senza che il loro obiettivo venga considerato né soddisfatto né disatteso. Le sanzioni continuano semplicemente a restare in vigore, quasi per inerzia. Secondo lo studio questo sarebbe dovuto alla crescente complessità delle sanzioni e alla compresenza di target diversificati e spesso non chiaramente delineati.

Il fattore temporale non è un aspetto secondario perché, come ha dichiarato Benn Steil del think tank Council on Foreign Relations al “New Yorker”, «le sanzioni funzionano raramente e quando funzionano tendono a metterci molto tempo». E non a costo zero, si potrebbe aggiungere. Come per esempio nel caso della Rhodesia (attuale Zimbawe), che ha subito 10 anni di sanzioni e 20.000 morti per arrivare a un cambio di regime.

Le sanzioni secondarie

A tutto ciò si aggiungono le conseguenze “indirette” delle sanzioni, come nel caso che ha riguardato diversi cittadini iraniani residenti in Europa a cui è stato chiuso il conto corrente da un momento all’altro e senza spiegazioni da parte delle banche. Ciò si è verificato in seguito alla reintroduzione delle cosiddette sanzioni secondarie da parte dell’allora presidente degli Usa Donald Trump, ovvero quelle sanzioni che penalizzano indirettamente un soggetto colpendo chi fa affari con lui. In questi casi è molto costoso per le banche compiere verifiche per non incorrere nelle sanzioni, perché alcuni soggetti si avvalgono di prestanome o altri stratagemmi per aggirare il meccanismo. L’ipotesi è che ad alcune banche sia bastato accertare la nazionalità iraniana dei correntisti per chiudere arbitrariamente i loro conti: una piccola perdita incomparabile rispetto alle multe comminate in violazione delle sanzioni.

L’effetto rally-around-the-flag

Questi sono solo alcuni esempi di come le sanzioni agiscono e si ripercuotono concretamente sulla vita delle persone comuni. C’è chi sostiene che l’impatto di queste misure sui cittadini possa rivelarsi positivo e renderle più efficaci.

Una popolazione strangolata economicamente dal giogo delle sanzioni sarebbe più incline a protestare e a richiedere alla classe politica di conformarsi alle richieste esterne. Tuttavia non sempre questa tesi risulta veritiera.

In presenza di regimi autoritari, abituati a reprimere o a gestire il dissenso, è raro che le pressioni della cittadinanza apportino cambiamenti sostanziali alla linea governativa. Il rovescio della medaglia è il cosiddetto effetto rally-around-the-flag, ovvero la possibilità che la popolazione faccia fronte comune con i suoi leader contro i paesi sanzionatori, percepiti come i responsabili delle privazioni e delle difficoltà in cui si trovano. In questi casi la posizione dei governanti del paese sanzionato può addirittura rafforzarsi, compromettendo di conseguenza l’efficacia delle sanzioni. Questo effetto è stato riscontrato anche in Russia dopo le sanzioni imposte nel 2014 in seguito all’annessione della Crimea, percepite dal 71% della popolazione come un tentativo di “indebolire e umiliare” il paese.

Uno strumento essenziale di politica estera

Il passaggio alle sanzioni mirate a discapito di quelle complessive ha incentivato notevolmente l’uso di questo strumento, diventato ormai tutt’altro che eccezionale. Il rapporto dell’Osservatorio di Politica internazionale ricorda infatti che «la Carta delle Nazioni Unite indica le condizioni entro le quali è possibile ricorrere alla forza nelle relazioni fra stati, per esempio per legittima difesa o se autorizzata dal Consiglio di sicurezza come indicato dall’articolo 39 del capitolo VII, ma non pone condizioni per l’utilizzo delle sanzioni». L’articolo 41 prevede la sospensione delle relazioni economiche tra le misure che non implicano l’uso della forza, ma la vaghezza dei regolamenti ha di fatto portato le sanzioni a diventare uno strumento essenziale di politica estera per gli stati occidentali.

È bene sottolineare quest’ultimo aggettivo, poiché le sanzioni sono state finora appannaggio di questi paesi, che se ne sono serviti contro i nemici per le più svariate ragioni: pressioni diplomatiche, rivalità economiche, scontri ideologici, deterrenti per futuri attacchi. Le sanzioni sono molto più facilmente giustificabili di un’operazione militare davanti all’opinione pubblica e assicurano allo stesso tempo l’impressione di una presa di iniziativa rispetto a una situazione conflittuale.

Monopolio occidentale

Gli Usa sono il paese che impone il maggior numero di sanzioni: attualmente sono 37 i programmi attivi, alcuni dei quali in corso da decenni, e i paesi coinvolti sono una ventina. Una tendenza che negli ultimi anni, e in particolare dopo l’11 settembre 2001, risulta in crescita: da circa 6000 soggetti nel 2014 a quasi 10.000 del 2021. L’amministrazione Trump ha imposto il doppio delle sanzioni rispetto al predecessore Barack Obama e l’attuale presidente Joe Biden ha confermato finora questa inclinazione. Anche l’Unione Europea ha attivato decine di programmi di misure restrittive in 34 paesi, e le ha definite uno «strumento essenziale della politica estera e di sicurezza comune». Vi sono infine le sanzioni imposte dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu che, dal 1966, ha stabilito 30 regimi di sanzioni. Attualmente sono in vigore 14 programmi, focalizzati sulla risoluzione dei conflitti territoriali, la non-proliferazione del nucleare e l’antiterrorismo.

 

Il monopolio occidentale dello strumento sanzionatorio è legato a una delle condizioni della sua efficacia, ovvero il controllo sul sistema economico e finanziario globale. In altre parole il ruolo di primo piano nell’economia globale dei paesi occidentali, e in particolare degli Usa, renderebbe più efficace l’utilizzo delle sanzioni. Tuttavia, negli ultimi decenni il dominio economico e finanziario occidentale si sta sgretolando a favore di altri attori e ciò contribuisce a erodere anche l’efficacia delle sanzioni.

Paesi come Cina e Russia si stanno attrezzando da diversi anni a reggere il colpo delle sanzioni adottando diverse misure, come l’accumulo di riserve economiche (per esempio di oro) o con altri sistemi volti ad aumentare l’autosufficienza economica.

La Cina sta fortemente puntando sul decoupling (disaccoppiamento, su cui si intreccia un approfondimento di Raffaele Sciortino), rilocalizzando la produzione delle imprese americane fuori dal paese in settori strategici, e sul rafforzamento dell’autosufficienza nel ciclo produttivo.

Ascolta “Il grumo di contraddizioni verso la fine della globalizzazione” su Spreaker.

In aggiunta, l’interdipendenza delle economie porta alla luce un’obiezione non secondaria, ovvero le ripercussioni delle sanzioni sugli stessi paesi che le impongono. Questione che è stata ampiamente dibattuta nel caso della dipendenza dal petrolio e dal gas russi.

Le sanzioni contro la Russia nel 2014

In seguito all’invasione dell’Ucraina la Russia è diventato il paese più sanzionato al mondo, passando da 2754 tipi di sanzioni a oltre 10.000. A partire dal 2014, in seguito all’annessione russa della regione ucraina della Crimea, sono state imposte le prime sanzioni contro Mosca: congelamento di beni di individui e aziende, diniego di visti, divieto di importazione ed esportazione di armi in Russia, embargo commerciale sulla Crimea. Gli effetti delle sanzioni hanno fatto traballare l’economia russa per almeno due anni, facendo scendere il valore del rublo e aumentare i prezzi di molti beni per aziende e consumatori. Nonostante qualcuno le abbia ritenute troppo timide, le sanzioni del 2014 hanno giocato un ruolo di deterrenza nell’immediato, considerando che, secondo un report dell’Atlantic Council, l’invasione dell’Ucraina sarebbe già stata pianificata per quell’anno.le sanzioni internazionali funzionano?Se le sanzioni hanno potuto arginare le azioni della Russia per un certo periodo, e avvalorare così le posizioni dei sostenitori di questo strumento, oggi possiamo dare una lettura diversa.

Dal 2014 la Russia si è adoperata per rendere la propria economia più resiliente di fronte alle pressioni esterne, accumulando circa 630 miliardi di dollari in riserve internazionali, il 50% in più rispetto al 2017.

Le ultime sanzioni hanno certamente scosso l’economia di Mosca, oltre ad aver gettato nel panico i russi, che hanno svuotato gli scaffali dei supermercati e si sono messi in coda davanti ai bancomat. Ma le manovre della Banca centrale russa hanno evitato il collasso e il rublo è ritornato al valore precedente alla guerra. Alcuni economisti, come Elina Ribakova dell’Institute of International Finance, sostengono che questi siano indicatori superficiali, utili alla propaganda del presidente russo Vladimir Putin. Le difficoltà nel reperire materie prime, la chiusura o la delocalizzazione di molte aziende e l’aumento dell’inflazione stanno già provocando effetti diretti sulla popolazione e, secondo le stime, sono già 200.000 le persone che rischiano di perdere il lavoro. L’impatto sul lungo termine sarà probabilmente devastante in termini di crescita, disoccupazione e abbassamento del livello di vita dei cittadini russi.

Ma come insegnano le esperienze precedenti di sanzioni, che le sofferenze della popolazione portino a dissuadere un leader dai propri criminali progetti è ancora tutto da dimostrare.

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Società civile e popoli indigeni: protagonisti dell’accordo di Escazú https://ogzero.org/l-accordo-di-escazu-parla-la-societa-civile-e-i-popoli-indigeni/ Wed, 04 May 2022 15:31:08 +0000 https://ogzero.org/?p=7267 L’America Latina e il Caribe compongono una delle regioni del pianeta con maggiore megadiversità, possiedono cioè un immenso patrimonio di specie animali, vegetali ed ecosistemiche. Inoltre, in questo subcontinente si trova il 28% delle terre coltivabili, un terzo delle riserve di acqua dolce e il 22% delle foreste mondiali. Allo stesso tempo, la regione latinoamericana […]

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L’America Latina e il Caribe compongono una delle regioni del pianeta con maggiore megadiversità, possiedono cioè un immenso patrimonio di specie animali, vegetali ed ecosistemiche. Inoltre, in questo subcontinente si trova il 28% delle terre coltivabili, un terzo delle riserve di acqua dolce e il 22% delle foreste mondiali. Allo stesso tempo, la regione latinoamericana è la seconda al mondo per esposizione e vulnerabilità a disastri naturali, che gli effetti del cambio climatico stanno intensificando rapidamente. Infine, l’elevato numero di conflitti socio ambientali in questa area del mondo è legato principalmente alle attività di deforestazione, all’agro business e allo sfruttamento minerario, oltre all’installazione di grandi idroelettriche e mega impianti di energie rinnovabili.

Difensori della terra e della vita

Secondo l’ultimo rapporto della ong Global Witness, durante il 2020 sono avvenuti nel mondo 227 omicidi di persone che difendono la terra, più di 4 alla settimana. È la cifra più alta registrata dal primo monitoraggio del 2012, questo significa che la pandemia e le misure di isolamento non hanno frenato la violenza. Sette dei dieci paesi più colpiti si trovano in America Latina e più di un terzo degli attacchi sono rivolti contro popolazioni indigene.

È in questa cornice che, tra il 20 e il 22 aprile appena passati, si è svolta a Santiago del Cile la prima Conferenza delle Parti (COP) dell’accordo regionale sull’accesso all’informazione, la partecipazione pubblica e la giustizia in materia ambientale in America Latina e nei Caraibi, conosciuto come Accordo di Escazú, dal nome della località dove è stato approvato, in Costa Rica, nel 2018.

Si tratta del primo trattato regionale latinoamericano in materia ambientale – simile alla Convenzione di Aarhus europea, che l’Italia ha ratificato nel 2001 – ma è l’unico al mondo a contenere disposizioni specifiche per la protezione degli attivisti ambientali.

Stabilire come si traduce questo principio in meccanismi e dispositivi concreti sarà uno dei compiti del Comitato di appoggio all’applicazione e al compimento di Escazú, la cui creazione è stato uno dei maggiori risultati di questa COP e che il prossimo anno eleggerà i suoi 7 rappresentanti tra figure indipendenti dalle istituzioni governative e con traiettoria in democrazia ambientale.

L’idea è che serva ad «assicurare l’applicazione delle norme di Escazú, che l’accordo non resti lettera morta», spiega Natalia Gómez, della Ong EarthRights International, una dei sei rappresentanti della società civile alla COP. Quando il Comitato si sarà installato, qualsiasi persona di un paese aderente a Escazú potrà denunciare una violazione direttamente a questa istituzione che dovrà mettere in atto misure di protezione, «è in questo modo che comincerà realmente l’implementazione dei dispositivi di difesa degli attivisti» conclude.

 

La partecipazione è l’essenza di Escazú

Il traguardo della prima COP di Escazú è in realtà soltanto un inizio: tra gli obiettivi della tre giorni di Conferenza c’erano l’elezione del tavolo direttivo e l’approvazione del regolamento interno, documento già ampiamente discusso dai 12 paesi aderenti. Per questo ha colto tutti di sorpresa la proposta della delegazione boliviana di eliminare la partecipazione del pubblico dalle decisioni in materia ambientale, durante la giornata di giovedì 21 aprile. Si tratta di una condizione che è stata inserita nel trattato fin dal 2014, durante il lungo cammino di negoziazioni che hanno portato all’attuale Conferenza.

«Eliminare la partecipazione del pubblico significa tradire lo spirito dell’Accordo», ha affermato lapidario il leader indigeno Nadino Calapucha di fronte alla riunione plenaria, attorno al tavolo rotondo della sede della CEPAL. Con il volto dipinto e il copricapo di piume della sua comunità, il portavoce del Coordinamento di Organizzazioni Indigene della Regione Amazzonica (COICA) ha chiamato a rispettare uno dei pilastri di Escazú: la possibilità che, al tavolo direttivo, prenda la parola qualsiasi persona proveniente dai territori dei paesi aderenti.

L’intervento di Nadino Calapucha (foto Cepal).

Il momento di tensione è rientrato grazie al rifiuto unanime della proposta presentata dalla Bolivia da parte degli oltre 700 delegati presenti, ed è stata così confermata la presenza di un rappresentante del pubblico, inteso come la società civile in senso ampio, al tavolo direttivo della Conferenza.

Ma i delegati del COICA sono andati oltre, con la richiesta di un posto riservato a un portavoce dei popoli indigeni. «Non c’è Accordo di Escazú senza i popoli indigeni», afferma Lolita Piyahuaje, vicepresidente della Confederazione delle Nazioni Indigene dell’Amazzonia Ecuadoriana (CONFENIAE) presentando la proposta, che prevede anche l’implementazione di un caucus, un’assemblea indigena nella COP.

José Gregorio Díaz Mirabal, coordinatore generale del COICA, ha ricordato il Principio 10 della Dichiarazione di Río sull’ambiente del 1992, «che è stato il primo germoglio da cui nato l’Accordo di Escazú», in cui si afferma che «il miglior modo per trattare le questioni ambientali è con la partecipazione di tutti i cittadini interessati», evidenziando che «ci sono 476 milioni di indigeni nel mondo, in America Latina siamo 58 milioni, 826 popoli, non è un tema secondario la partecipazione indigena a Escazú, perché stiamo parlando delle nostre vite, dei nostri diritti, dei nostri territori».

Difensori del territorio, popoli indigeni e giovani generazioni

Durante la COP si sono formati due gruppi di lavoro coordinati dai sei rappresentanti del pubblico, uno ha raccolto l’urgenza della situazione in cui si trovano i difensori ambientali, mentre l’altro ha preso in carico la richiesta di una specifica rappresentanza indigena. «Abbiamo lavorato sulla proposta, che ora deve ottenere l’appoggio di un paese aderente per entrare in discussione», spiega Andrea Sanhueza, direttrice del centro studi cileno Espacio Público e una delle sei persone che attualmente rappresentano la società civile alla Conferenza. Aggiunge che nel frattempo il seggio messo in discussione dalla Bolivia e infine confermato è aperto perché possa sedersi al tavolo delle trattative chiunque lo richieda. «Nessuno può metterlo in discussione perché come pubblico abbiamo diritto a stare nelle negoziazioni», continua Andrés Napoli, un altro degli attuali rappresentanti, direttore della fondazione ambientalista argentina FARN. «Se la mettiamo al voto, ci sono paesi che potrebbero opporsi a una delegazione indigena, ma se c’è un portavoce indigeno seduto nel seggio del pubblico la riunione comincia, questo lo possiamo dire per esperienza».

Secondo i rappresentanti, che saranno eletti nuovamente il prossimo agosto, un’altra differenza importante rispetto alle COP sul cambio climatico che conosciamo da anni è che la società civile non prende la parola alla fine, quando la maggior parte dei delegati se n’è già andata e nessuno ascolta, ma durante il dibattito, alla pari con i funzionari degli stati, e questo favorisce la capacità di incidere nelle decisioni, nonostante il pubblico abbia solo diritto di parola e non di voto.

La società civile prende la parola durante il dibattito (foto Cepal).

«Stiamo iniziando una campagna per invitare le generazioni più giovani a candidarsi per essere i prossimi rappresentanti del pubblico», conclude Sanhueza, riferendosi alla grande presenza di giovani a seguire le attività della COP e all’importanza che abbiano a loro volta un ruolo di rilievo nelle negoziazioni tra i paesi membri.

L’Accordo di Escazú è uno strumento necessario per l’America Latina e il Caribe, ma la sua reale efficacia dipenderà proprio dalla società civile organizzata e dalla sua capacità di incidere nelle decisioni politiche. Una delle principali sfide è ottenere l’adesione dei paesi che non hanno ancora firmato l’accordo: solo 12 dei 33 che compongono la regione sono attualmente parte del tavolo direttivo, altri 12 hanno firmato ma non ratificato e restano in una posizione di osservatori, come il Cile, che ha dato un passo avanti a marzo, con l’assunzione del nuovo governo di Gabriel Boric.

Delle nazioni che condividono il bacino amazzonico, per esempio, fanno parte dell’accordo solo l’Ecuador, la Guyana e la Bolivia, e quest’ultima ha rivelato la sua polemica posizione. Guyana francese, Suriname e Venezuela sono tra i firmatari, mentre la Colombia, il Brasile e il Perù sono i grandi assenti.

I pericoli per l’Amazzonia

«Noi siamo i difensori della vita, chi ci difende?», si domanda durante gli incontri organizzati dalla COP Elsa Merma Ccahua, presidente dell’Associazione di Donne che difendono il territorio e la cultura K’ana a Espinar, nella regione di Cuzco in Perù. «Io sono portavoce di organizzazioni sociali di 11 regioni peruviane che affrontano malattie per metalli pesanti e tossici, conviviamo da 40 anni con le imprese minerarie», spiega. L’estrazione mineraria ha prodotto contaminazione nella zona e colpisce direttamente le comunità contadine originarie: «i nostri animali stanno morendo di malattie sconosciute, le coltivazioni nella chakra si sono impoverite. Come donne, soprattutto, siamo private della terra che è il nostro sostento per mantenere la famiglia, educare i figli, è la nostra sicurezza alimentare».

Nella provincia di Pangoa in Perù, proprio il giorno prima dell’inizio della COP è stato assassinato Ulises Rumiche, leader di un’organizzazione di popoli originari amazzonici, mentre tornava alla sua comunità dopo una riunione con funzionari ministeriali.

In Brasile e in Perù quasi tre quarti degli omicidi avvengono nella zona amazzonica e solo in Colombia sono state uccise 65 persone durante il 2020, portando questo Paese in cima alla lista mondiale stilata da Global Witness per il secondo anno di fila.

In Brasile, il presidente Jair Bolsonaro è stato denunciato davanti alla Corte Penale Internazionale per le sue responsabilità nella deforestazione dell’Amazzonia, eliminando e ostacolando gli organismi e le leggi che proteggono il polmone verde del pianeta. La denuncia, sostenuta da un’equipe di esperti insieme alla ong AllRise, ha calcolato che si può imputare al governo di Bolsonaro la perdita di circa 4000 km quadrati di selva all’anno, da quando ha assunto la presidenza nel 2019 il tasso di deforestazione è aumentato fino all’88%. Il Brasile andrà alle elezioni il prossimo ottobre e la ricandidatura di Lula da Silva potrebbe indicare un cammino diverso nei confronti della foresta amazzonica. In Colombia invece le presidenziali saranno il prossimo 29 maggio e per la prima volta da decenni esiste una possibilità che la coalizione di centro sinistra del Pacto Histórico possa vincere sulla destra legata alla figura di Alvaro Uribe, mentre il progetto di legge per approvare l’Accordo di Escazú nel paese è tornato in discussione al Congresso la scorsa settimana scorsa.

(Foto Cepal)

I prossimi appuntamenti della COP sono nel 2023 per una riunione straordinaria in Argentina, dove saranno eletti i sette responsabili del Comitato incaricato di verificare l’applicazione e il compimento delle regole del trattato, e nel 2024 nuovamente a Santiago del Cile. Qui, il risultato dei prossimi appuntamenti politici nella regione potrebbe avere una forte influenza per avanzare nella protezione dei beni naturali latinoamericani e di chi li difende.

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Risorse e rotte artiche in tempo di guerra https://ogzero.org/risorse-e-rotte-artiche-in-tempo-di-guerra/ Sun, 01 May 2022 21:58:15 +0000 https://ogzero.org/?p=7227 L’inviato speciale Ue per l’Artico, Michael Mann ha commentato il 30 aprile 2022 le decisioni del Consiglio artico rispetto alla collaborazione con la Russia, ritenendo che nonostante le tensioni, «grazie ai fondi europei l’Artico può diventare un laboratorio di sviluppo di tecnologie e risorse sostenibili con cui vincere la sfida della crisi energetica», però un […]

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L’inviato speciale Ue per l’Artico, Michael Mann ha commentato il 30 aprile 2022 le decisioni del Consiglio artico rispetto alla collaborazione con la Russia, ritenendo che nonostante le tensioni, «grazie ai fondi europei l’Artico può diventare un laboratorio di sviluppo di tecnologie e risorse sostenibili con cui vincere la sfida della crisi energetica», però un sempre maggior numero di navi russe navigano nell’Artico.

L’importanza delle risorse artiche a cui il riscaldamento globale consente di accedere (per le tecnologie e per la transizione energetica – che ridurrebbe la capacità di ricatto russo) e lo scontro per la Northern Sea Route che si va liberando dai ghiacci e che Mosca intende controllare considerandola parte integrante del proprio territorio, producono anche nel Grande Nord ribaltamenti geopolitici e costringono a trovare soluzioni alternative alla cooperazione sostenibile finora perseguita tra le potenze mondiali. Ciò che è destinato a patire di questa contingenza è l’ambiente, l’accesso a energia sostenibile… e gli interessi cinesi. Alessandra Colarizi fornisce qualche elemento per comprendere quali fossero i progetti e la pianificazione di Pechino riguardo al Mar Glaciale Artico e cosa ne rimane dopo la crisi ucraina.


L’“amicizia senza limiti” e le forniture di gas russo. È quanto le cronache internazionali ricordano dell’ultimo – ormai storico – incontro tra Vladimir Putin e il presidente cinese Xi Jinping. Ma, durante quelle ore trascorse insieme a ridisegnare l’ordine internazionale, i due leader si sono soffermati su un’altra questione centrale tanto per la stabilità energetica mondiale, quanto per i futuri assetti geostrategici: la necessità di promuovere una Cooperazione sostenibile e pratica nell’Artico, come recita il motto della presidenza moscovita iniziata nel maggio 2021.

L’estremo Nord rappresenta, insieme all’Asia centrale, lo scacchiere regionale in cui i due giganti collaborano più attivamente. È anche una delle aree più colpite dal colpo di coda della crisi ucraina. Compiendo un passo decisivo, il 24 marzo 2022 i membri del Consiglio Artico (Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Svezia e Stati Uniti) hanno sospeso tutti i colloqui con Mosca. Non una cosa di poco conto: la Russia controlla oltre metà della costa bagnata dall’Oceano Artico ed è al centro delle principali iniziative multilaterali, dalla ricerca scientifica allo sviluppo economico passando per la collaborazione militare. Ora la sua estromissione rischia di paralizzare il funzionamento della principale organizzazione regionale.
Per Pechino, non è una buona notizia.

La Cina un “paese quasi artico”

Geograficamente parlando un outsider, la Cina si definisce un “paese quasi artico”.  Dal 2013 è membro osservatore del Consiglio (paradossalmente, dal punto di vista geografico, lo è anche l’Italia). Ma frequenta la zona addirittura dal 1925, ovvero da quando siglò il trattato delle Svalbard che disciplina le attività commerciali nelle isole a metà strada tra la Norvegia e il Polo Nord. Il perché è spiegato nel libro bianco sull’Artide pubblicato dal governo cinese quattro anni fa (dove si dispiega l’Operazione Dragone Bianco): nonostante la distanza, le «condizioni naturali dell’Artico e i loro cambiamenti hanno un impatto diretto sul sistema climatico e sull’ambiente ecologico della Cina e, a loro volta, sui suoi interessi economici nell’agricoltura, la silvicoltura, la pesca, l’industria marina e altri settori».

Non è quindi solo un fenomeno di interesse scientifico. ll riscaldamento ambientale sta causando un progressivo scioglimento dei ghiacci, rendendo sempre più navigabili acque un tempo impercorribili. Proprio alla creazione di nuove rotte commerciali tra l’Asia orientale, l’Europa e il Nordamerica passando attraverso l’Artide, guarda la cosiddetta “Via della seta polare”, declinazione artica della Belt and Road Initiative, la strategia di politica estera con cui Pechino sostiene la penetrazione internazionale delle aziende statali cinesi e dei suoi standard industriali attraverso la costruzione di grandi vie di comunicazione marittime e terrestri in Eurasia.

I nuovi corridoi settentrionali non solo permetteranno di aggirare “lo stretto di Malacca”, l’impervio passaggio (uno dei chokepoint mondiali) sotto il controllo degli Stati Uniti e dei suoi alleati asiatici. Contribuiranno anche ad accorciare i tempi di percorrenza delle merci tra i porti cinesi e gli scali europei. Passando per Suez oggi una nave che parte da Shanghai diretta a Rotterdam impiega circa 50 giorni; attraverso la rotta nordica e la Via della Seta Polare lo stesso viaggio durerebbe circa 33 giorni. Per il momento la tratta è ancora in fase di test: il colosso cinese China Ocean Shipping Company (Cosco) effettua circa nove spedizioni all’anno. Ma il numero è destinato a salire e alcune società sono già in trattative per garantire un volume di transazioni prestabilito ogni anno.

La Cina come player responsabile

Commercio a parte, gli interessi cinesi nel quadrante includono scopi scientifici, ambientali, e diplomatici. Inserita nell’ultimo “piano quinquennale” 2021-2025, la strategia polare cinese annovera tra gli obiettivi la realizzazione di esplorazioni in acque profonde, la pianificazione di missioni spaziali, e la tutela del diritto internazionale marittimo. Conscia del suo nuovo status internazionale, negli ultimi anni la Cina ha utilizzato il Consiglio Artico per presentare un’immagine di sé più responsabile, soprattutto alla luce delle accuse che dall’altra parte dell’Eurasia accompagnano l’espansionismo cinese nelle acque contese con i vicini rivieraschi.

Nel white paper Pechino spiega che il suo coinvolgimento nel quadrante è teso a «comprendere, proteggere, sviluppare e partecipare alla governance dell’Artico, in modo da salvaguardare gli interessi comuni di tutti i paesi e la comunità internazionale e promuovere lo sviluppo sostenibile» della regione. Ne consegue un’immagine rassicurante ma parziale della Polar Silk Road. A giudicare dai report comparsi sulla stampa cinese, infatti, gli aspetti militari, sebbene mai espliciti, sono altrettanto fondamentali per comprendere la crescente assertività di Pechino nell’area.

La marina cinese vede nel passaggio a Nordest una scorciatoia per spostare truppe dal Pacifico all’Atlantico, in mancanza di basi militari (la più vicina è a Gibuti, nel Corno d’Africa) da cui tenere a tiro la costa americana con i propri bombardieri e missili balistici intercontinentali. Un sogno vagheggiato da Mao nel 1959 e che l’Unione sovietica di Chruščëv congelò per decenni. Secondo il tabloid nazionalista “Huanqiu Shibao”, se i sottomarini cinesi dotati di armi nucleari riuscissero ad accedere indisturbati al Mar Glaciale Artico, i rapporti di forza con gli States e gli alleati Nato cambierebbero radicalmente rendendo la Cina una “potenza militare mondiale”.

Se la Cina perde la Russia

Consapevole dei suoi limiti geografici, fino a oggi la Cina ha puntato a cementare la propria presenza nello scacchiere polare in partnership con Mosca. Passando dentro la zona economica esclusiva russa, la Rotta del Mare del Nord è in balia delle decisioni del Cremlino in termini di tariffe e accesso alle infrastrutture marittime lungocosta. Soprattutto dopo l’occupazione della Crimea e il crescente isolamento internazionale di Mosca, la Cina è riuscita a sfruttare il proprio ascendente su Mosca per ottenere importanti quote di partecipazione nei principali progetti energetici in Siberia. A partire dal 2016 la statale China National Petroleum Corporation (Sinopec) e il Silk Road Fund hanno affiancato la russa Novatek e l’azienda francese Total nello sviluppo di un giacimento di gas naturale liquefatto nella penisola di Yamal. Società petrolifere statali cinesi stanno lavorando all’ultimazione di Arctic LNG-2 e del giacimento di Payakha, mentre Pechino ha già messo gli occhi sulle infrastrutture di trasporto, vero fiore all’occhiello della Silk Road: secondo un accordo del 2016, la costruzione di un porto d’altura vicino ad Arkhangelsk, sul Mar Bianco, doterà Cosco di un’importante base logistica lungo la rotta a Nordest. E, nonostante sia in fase di stallo da circa vent’anni, la Cina ha espresso interesse anche per la ferrovia di Belkomur, con cui le autorità locali puntano a creare un sistema di trasporto unificato nei territori settentrionali.

Non è solo una questione di business. L’allineamento con la Russia è servito, come in altri frangenti, a sostanziare la postura cinese con una visione strategica di più ampio respiro. Senza Mosca la Cina nell’estremo Nord rimane un intruso, anche piuttosto sgradito. In tempi recenti, nel resto dell’Artide, la Via della Seta Polare ha incontrato notevoli ostacoli, spesso a causa delle preoccupazioni di paesi, come Canada e Svezia, con cui Pechino ha rapporti politici tesi. Gli Stati Uniti non hanno nascosto il proprio disagio per le mire del gigante asiatico sull’industria mineraria in Groenlandia – prima che la vittoria nel 2021 della sinistra ambientalista di Inuit Ataqatigiit sospendesse le attività estrattive.

Cosa succederà adesso? 

C’è chi, guardando al passato recente, pronostica un attivismo anche maggiore del gigante asiatico nel quadrante artico. Secondo gli ottimisti, senza alternative, la Russia sarà costretta a darsi mani e piedi alla Cina: gli yuan sostituiranno i capitali sborsati delle multinazionali europee e giapponesi, continuando a foraggiare i piani artici di Mosca. Non tutti concordano, però. Non solo perché, aldilà della sbandierata pseudo-alleanza, dall’introduzione delle misure punitive le aziende cinesi hanno mostrato una maggiore cautela nel fare affari con l’Orso. Lo dimostra il rallentamento delle attività di Sinopec in Russia, nonché il calo delle importazioni di carbone russo nei primi mesi dell’anno.

Mentre, per alcuni esperti cinesi, la rottura tra gli otto stati membri del Consiglio Artico non comprometterà automaticamente la strategia cinese nella regione, le sanzioni internazionali contro Mosca potrebbero eccome. Soprattutto considerati i divieti (diretti e indiretti) sull’export di tecnologia americana, da cui il progetto di Yamal dipende enormemente.

I risvolti politici non sono meno insidiosi. Per l’Artic Institute Pechino pagherà il prezzo di quella che i vertici Ue hanno definito una “neutralità filorussa”: secondo il think tank con base a Washington, infatti, «è difficile immaginare che gli Stati Uniti, il Canada o i cinque paesi nordici del Consiglio acconsentiranno ad approfondire la cooperazione economica o a integrare la Cina nei forum regionali se [Pechino] continuerà a schierarsi con la Russia». Fattore che potrebbe inficiare di riflesso la “diplomazia omnidirezionale” condotta dal governo comunista con Svezia, Finlandia e Norvegia nei settori aerospaziale, dei cambiamenti climatici e dell’esplorazione scientifica. Ora che – contrariamente alle intenzioni di Putin – la crisi ucraina ha intensificato la cooperazione tra la Nato, Helsinki e Stoccolma, separare la ricerca pacifica dalla sicurezza armata risulta sempre più difficile. Collaborando con Mosca nella regione polare, Pechino rischia di dover rispondere ad accuse che trascendono il presunto supporto militare in Ucraina.

C’è poi un problema più profondo, che riguarda la natura stessa della cooperazione sino-russa. Mosca non ha mai visto di buon occhio lo sconfinamento cinese nel proprio cortile di casa. Anche dopo l’ingresso della Cina nel Consiglio Artico, la partnership polare tra i due giganti ha continuato a risentire della diffidenza che storicamente contraddistingue le relazioni sino-russe. Nel 2020 il direttore dell’Arctic Civic Academy di San Pietroburgo è finito agli arresti per aver passato a Pechino informazioni classificate sulla ricerca idroacustica e il rilevamento di sottomarini. L’invasione russa dell’Ucraina irrompe in una crisi di fiducia che il mancato coordinamento dei rispettivi vertici sul fronte europeo rischia persino di esacerbare.

Le considerazioni economiche aggiungono ulteriori incognite all’equazione polare. Perché se è vero che gli investitori cinesi potrebbero trarre benefici dal ripiegamento dei competitor occidentali dai giacimenti russi, la sostenibilità dei finanziamenti nei combustibili fossili è tutt’altro che scontata. Da quando Pechino ha annunciato l’obiettivo emissioni zero entro il 2060, i prestiti cinesi destinati al comparto energetico lungo la Belt and Road sono crollati verticalmente. Nelle terre dei ghiacci prevarranno i calcoli politici o le valutazioni ambientali?

La politica estera o l’agenda interna?

Cambiano gli equilibri mondiali, ma cambiano soprattutto le priorità cinesi. È il grande limite dell’“amicizia senza limiti” tra Cina e Russia.

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All’Ovest Sahara qualcosa di nuovo… ma poco rassicurante https://ogzero.org/allovest-sahara-qualcosa-di-nuovo-ma-poco-rassicurante/ Tue, 26 Apr 2022 14:15:51 +0000 https://ogzero.org/?p=7141 Nello scacchiere internazionale si stanno delineando le aree delle future crisi e i vari protagonisti stanno disponendosi nelle alleanze contrapposte, spinti anche da necessità energetiche e da iniziative di grandi potenze che influenzano le scelte di schieramento. Uno dei focolai del prossimo confronto tra potenze mondiali è il Maghreb, in particolare la questione del Sahara […]

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Nello scacchiere internazionale si stanno delineando le aree delle future crisi e i vari protagonisti stanno disponendosi nelle alleanze contrapposte, spinti anche da necessità energetiche e da iniziative di grandi potenze che influenzano le scelte di schieramento. Uno dei focolai del prossimo confronto tra potenze mondiali è il Maghreb, in particolare la questione del Sahara occidentale, e le forze in campo si rimescolano: la mossa spagnola di distensione con il Marocco, dopo forti tensioni tra le due coste limitrofe e contrapposte. Questa scelta ha prodotto forti cambiamenti nei rapporti tra soggetti che insistono sul Mediterraneo occidentale: se l’Italia, interessata al gas, si avvicina all’Algeria, abbandonata nella difesa del popolo saharawi dalla Spagna, quest’ultima abbraccia il Marocco, potenza africana di riferimento in ascesa, con investimenti in infrastrutture, ottimi rapporti con Israele da cui riceve anche armi sofisticate inserite nell’enorme sforzo di riarmo in una competizione strenua con la vicina Algeria, che si approvvigiona con armi russe.
In questo panorama è prevedibile che riesploda un conflitto sulla condizione saharawi, di cui si riconoscono i primi inneschi nei mesi scorsi, perciò abbiamo chiesto a Lorenzo Forlani di fare il punto per evitare di essere colti di sorpresa da una prevedibile evoluzione critica della situazione.


«Serio, credibile, realistico». Con queste inattese parole il governo spagnolo di Pedro Sanchez meno di un mese fa ha definito il piano marocchino di concessione dell’autonomia amministrativa al Sahara occidentale. Un riconoscimento de facto, quindi, della sovranità di Rabat sulla regione al confine con l’Algeria e la Mauritania, che nel giro di un mese ha generato la reazione del Fronte Polisario (FP): lo scorso 10 aprile, infatti, il movimento che dal 1976 – cioè dopo il ritiro delle truppe coloniali spagnole dall’area – persegue l’autodeterminazione del Western Sahara (WS), ha annunciato l’interruzione dei contatti ufficiali con il governo iberico, suo storico “garante” europeo (pur nel quadro di una neutralità strategica). Solo un anno fa Madrid  ne aveva accolto e curato il leader, Brahim Ghali, malato di Covid-19, innescando con la stessa Rabat una crisi diplomatica che può dirsi estinta proprio in queste settimane, col ritorno a Madrid dell’ambasciatrice marocchina, richiamata all’indomani dell’affare Ghali.

Popolo saharawi: vittima sacrificale di nuove proxy war

Una mossa, quella del FP, che secondo molti osservatori è stata in realtà decisa da Algeri, “sponsor” dei Sahrawi, che all’indomani dell’inversione di rotta da parte di Madrid, aveva richiamato a sua volta il proprio ambasciatore dalla Spagna, aprendo contestualmente il varco a migliaia di migranti verso Ceuta e Melilla. Mentre il pianeta rivolge la sua attenzione al conflitto in Ucraina, il riposizionamento quasi improvviso di questi attori regionali racconta essenzialmente di una tensione latente tra due potenze come Marocco e Algeria, e di riflesso fa luce sulla scarsa coesione dell’Unione Europea, la cui mancanza di un approccio integrato in politica estera produce posture massimaliste, proprio come quella che sembra aver improvvisamente assunto la Spagna.

Quella nel Western Sahara è la linea del fronte più lunga al mondo: un terrapieno che si estende per 2700 km nei pressi del quale si sono susseguiti scontri armati nel corso degli ultimi 50 anni, cioè da quando Rabat ha annesso la regione contesa dopo il ritiro degli spagnoli. Nel 1991 si raggiunge un cessate il fuoco tra il Fronte Polisario e Rabat, dopo il quale le Nazioni Unite avviano un processo di pace che finirà per arenarsi: il voto per l’indipendenza che era stato previsto non ha mai avuto luogo e oggi il WS è controllato all’80% dallo stesso Marocco, mentre nella città algerina di Tindouf si sono rifugiati più di 150.000 profughi Sahrawi, coinvolgendo ancor più direttamente Algeri nella disputa, specie se si considera il rischio di radicalizzazione di alcuni segmenti dello stesso popolo Saharawi, nel quale le nuove generazioni spingono per una ripresa del conflitto.

Secondo l’Onu il WS è un “territorio non autonomo”, una definizione che riassume una situazione di grande ambiguità se associata all’annunciato piano marocchino e all’autoproclamazione d’indipendenza da parte dello stesso Fronte Polisario, che invoca stabilmente il referendum per l’indipendenza programmato più di 30 anni fa. Lo scorso dicembre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha prolungato la missione MINURSO, chiedendo la ripresa dei negoziati e inviando nuovamente il diplomatico Staffan de Mistura, il cui lavoro negli ultimi due anni era stato sostanzialmente impedito dai veti incrociati di Marocco e Algeria.

La posizione massimalista che ha improvvisamente assunto Madrid ha generato spaccature nella maggioranza di governo – con la sinistra molto critica rispetto all’”abbandono” dei sahrawi – ma rispecchia inevitabilmente la mancanza di una strategia occidentale ed europea: già nel 2020 l’ex presidente americano Donald Trump – in cambio della “normalizzazione tra Marocco e Israele – aveva riconosciuto la sovranità marocchina sul WS, contraddicendo la posizione dell’Onu, e nelle ultime settimane l’amministrazione Biden ha aggiunto confusione al quadro, dichiarando di essere favorevoli alla “autodeterminazione del popolo del Western Sahara”, pur non modificando il proprio posizionamento generale, che ribadisce la sovranità marocchina.

Potenze energivore e l’indipendentismo strabico algerino

In questo contesto è interessante seguire le mosse del governo italiano. La recente visita di Mario Draghi ad Algeri è avvenuta appena dopo la svolta spagnola sul WS ed è stata “salutata” dai media algerini come la formalizzazione di un “rimpiazzo” – anche dal punto di vista della collaborazione militare –: «Algeri ha preferito consolidare la partnership con l’Italia a danno della Spagna, che non godrà più della stessa considerazione di prima da parte dell’Algeria», si legge su Dernieres Info d’Algerie (DiaTEbb).

Il gasdotto Enrico Mattei attraversa il Mediterraneo tra Mellilah (in Libia) e Gela (in Sicilia), portando il gas algerino in Europa.

Le tensioni tra Marocco e Algeria sono anche più antiche, profonde; riflesso di assetto e orizzonti diversi, che rendono la situazione in questo quadrante regionale altamente esplosiva, soprattutto dall’ultima rottura dei rapporti diplomatici nell’agosto del 2021, con conseguente stop all’export di gas algerino verso Rabat (e poi verso Madrid), che copriva circa un decimo del suo fabbisogno. La disputa sul confine va avanti dal 1962 e storicamente, laddove Rabat – investito del ruolo di “gendarme” regionale da parte dell’UE, specie sui flussi migratori e sui fenomeni di radicalizzazione jihadista – ha volentieri sostenuto movimenti islamisti che minacciavano il potere dei militari algerini, oltre a offrire incentivi ai cittadini marocchini che vogliano trasferirsi in WS, Algeri da par suo è da decenni un esplicito sostenitore dei movimenti separatisti e rivoluzionari (ha sostenuto Che Guevara, Arafat, Mandela), pur vivendo con apprensione le ambizioni autonomiste di una sua regione, la Cabilia.

Il confine tra Algeria e Marocco è chiuso, e nei mesi scorsi la tensione si è ulteriormente alzata dopo i rumor secondo cui Rabat, servendosi di un software di spionaggio fornitole da Tel Aviv, avrebbe a lungo spiato decine di funzionari algerini. Algeri sostiene i saharawi anche per ragioni squisitamente strategiche: il WS è una regione ricca di petrolio, fosfati e diritti di pesca, un aspetto, quest’ultimo, che rende appetibile l’idea di avere un accesso all’Oceano Atlantico.

Ascesa marocchina, difficoltà algerine

Nel 2017 il Marocco è rientrato nell’Unione Africana (UA), boicottata per 32 anni proprio a causa del diffuso riconoscimento del WS. Oggi meno della metà dei membri dell’UA riconosce l’autonomia del Western Sahara: un aspetto che evidenzia anzitutto l’aumento dell’influenza marocchina, accanto alla diminuzione di quella algerina. Rabat sembra proiettata al futuro: ha le più grandi fabbriche d’auto del continente nonché i treni più veloci; ha vaccinato con due dosi oltre il 60% della popolazione e, nell’ambito della corsa al riarmo con l’Algeria, sta cercando di completare un profondo upgrading delle proprie Forze Armate, all’interno del quale ricade il recente accordo – dello scorso febbraio – con la Israel Aerospace Industries (IAI) per la fornitura dei sistemi di difesa missilistica Barak MX, per un valore di 500 milioni di dollari. Tel Aviv e Rabat a novembre 2021 avevano firmato un accordo nel campo della difesa, che impegna i due paesi a a cooperare nella condivisione di intelligence, nella realizzazione di progetti e nella vendita di armamenti.

L’Algeria, al contrario, è in una fase molto delicata: il piano per rendere l’economia meno vincolata alle entrate petrolifere è miseramente fallito; le proteste antiestablishment (Hirak, in arabo “movimento”) sono state represse; il presidente Abdelmajid  Tebboune è considerato un fantoccio nelle mani degli alti quadri militari. Di riflesso, Algeri è un gigante bellico: secondo i dati del SIPRI, nel 2020 il suo budget militare è stato il più corposo del continente, quasi 10 miliardi di dollari, il doppio di quello marocchino (che è comunque aumentato del 54% dal 2011 al 2020, e che dovrebbe arrivare a 5,5 miliardi di dollari nel 2022), e il suo esercito è numericamente secondo solo a quello egiziano; il 70% degli armamenti algerini provengono dalla Russia, e proprio quest’anno sono state calendarizzate delle forniture di armamenti da Mosca, che includono 14 jet Su-34 e gli stealth Su-57.

Ambiguità del ruolo dei governi maghrebini nel Mediterraneo occidentale

Qualunque confronto militare diretto tra i due eserciti nordafricani rischierebbe di aprire un fronte esplosivo nella regione, mettendo l’uno di fronte all’altro due paesi fondamentali nel mediterraneo, in assenza di adeguati contrappesi garantiti da un’Unione europea sempre più vittima delle strategie particolari dei suoi membri più importanti. Sarebbe forse opportuno elaborare una strategia di lungo termine che da una parte tenga conto del contributo marocchino alla sicurezza del mediterraneo ma che allo stesso tempo non consideri questo contributo come un lasciapassare per l’assertività di Rabat in WS e nei confronti di Algeri, e tantomeno come la merce di scambio per un endorsement europeo (e non più solo spagnolo) al piano marocchino sulla regione.

Il mantenimento di una posizione equilibrata nei confronti dell’Algeria è forse più complicato: questo perché i rapporti – culturali, commerciali, politici – con Algeri sono molto meno profondi che con Rabat, ma la contingenza del conflitto in Ucraina, e le conseguenti sanzioni alla Russia, hanno reso le forniture di gas algerine ancor più importanti in vista di una possibile transizione energetica. Secondo Anthony Dworkin dell’Ecfr, è nell’interesse europeo sviluppare rapporti con l’Algeria tali da allontanarla da Mosca, e ciò può essere realizzato soltanto non allineandosi con Rabat sul WS. E la delicatezza della posizione algerina si può evincere dal suo cambio di postura nel giro dell’ultimo mese: il 2 marzo si era astenuta all’Assemblea generale dell’Onu, sulla mozione di condanna dell’invasione russa in Ucraina; il 7 aprile, invece, ha votato contro l’estromissione di Mosca dal Consiglio dei diritti umani. Al tempo stesso, l’UE dovrebbe dissuadere Algeri dal rafforzare l’assistenza militare al Fronte Polisario, spingendola verso una partecipazione a un nuovo negoziato. Il 20 aprile il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha tenuto una sessione dedicata al dossier Western Sahara, nella quale Staffan De Mistura ha presentato un report sull’evoluzione della crisi.

 

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n. 18 – Tra mare e boschi alpini. La frontiera che uccide (II) https://ogzero.org/la-cancellazione-del-diritto-alla-mobilita/ Wed, 13 Apr 2022 19:20:10 +0000 https://ogzero.org/?p=7034 Movimenti secondari dei flussi migratori si riscontrano, oltre che tra Francia e Inghilterra, anche in prossimità dei confini italo-francesi, più specificatamente in Alta Val di Susa e a Ventimiglia. Nella frontiera Nordovest dell’Italia con la Francia si registra un’importante corrente migratoria che ogni anno nell’ultimo triennio ha visto il transito di circa 100.000 persone e […]

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Movimenti secondari dei flussi migratori si riscontrano, oltre che tra Francia e Inghilterra, anche in prossimità dei confini italo-francesi, più specificatamente in Alta Val di Susa e a Ventimiglia. Nella frontiera Nordovest dell’Italia con la Francia si registra un’importante corrente migratoria che ogni anno nell’ultimo triennio ha visto il transito di circa 100.000 persone e che vede intensificarsi la repressione poliziesca che bloccano gli autobus in transito, bloccano le persone in movimento in situazioni fatiscenti e pericolose, applicando la cancellazione del diritto alla mobilità grazie a una legislazione europea che va sancendo un po’ alla volta la cancellazione del Codice Schengen e il “collaborazionismo transfrontaliero” tra polizie. Fabiana Triburgo, Emilie Pesselier, Chiara Maugeri e Daniela Trucco uniscono le loro competenze e i loro materiali in questo articolo, corredato dalle riprese video girate da Stefano Bertolino fonte di notizie anche sul passaggio del Colle dell’Agnello e nella sua provvidenziale presenza sui Balzi Rossi nel 2015, lungo il confine meridionale italo-francese, che vede da un lato e dall’altro persone solidali e squadracce intolleranti.


La rotta secondaria Ventimiglia-Menton

La rotta migratoria dalla città di Ventimiglia alla città di Menton – primo avamposto del confine meridionale francese con l’Italia – viene percorsa sia con il treno che transita tra le stazioni delle due città, sia in macchina – principalmente avvalendosi dei passeurs e infine a piedi mediante il cosiddetto “Passo della Morte”, il sentiero non indicato sulle cartine topografiche – in prossimità della località italiana di Grimaldi, frazione del comune di Ventimiglia – che attraversa Francia e Italia e che in passato ha visto il passaggio dei migranti provenienti dal conflitto civile dell’ex Jugoslavia ma anche quello di persone che più generalmente fuggivano da persecuzioni come Sandro Pertini da quella fascista e gli ebrei da quelle razziali del 1938.

Mappa della zona con indicati gli uffici della polizia di frontiera italiana e francese, il posto di sostegno Kesha Niya, il passaggio del Passo della Morte e il valico di confine Ponte San Ludovico. Fonte: Serena Chiodo e Anna Dotti (Rosa Luxembourg Stiftung, Bruxelles).

L’imbuto che raccoglie rotta balcanica e mediterranea

La rotta è percorsa prevalentemente da migranti provenienti dall’Africa subsahariana dopo aver attraversato la rotta del Mediterraneo centrale ed essere transitati o aver soggiornato in Italia; minore invece è la percentuale al momento dei migranti che tenta di percorrerla dopo aver attraversato quella dei Balcani – soprattutto cittadini afghani. Il motivo prevalente che caratterizza i movimenti secondari, tuttavia, è quello di legami familiari o affettivi che evidentemente non vi sono nel primo paese di approdo.

Nell’analisi delle caratteristiche peculiari di tale rotta secondaria è opportuno porre attenzione alla nuova proposta di modifica normativa del Codice frontiere Shengen avanzata dalla Commissione europea il 14 dicembre del 2021.

Disposizione di legge: cancellare il diritto alla mobilità

L’intenzione di chi scrive è quella di dare un contributo di sensibilizzazione rispetto a un contingente tentativo di aggiramento delle normative europee e internazionali vigenti, attraverso l’introduzione di nuove disposizione di legge volte a impedire in ogni modo i flussi migratori all’interno del territorio dell’Unione; non solo quindi alle frontiere esterne – come si è visto nella maggior parte degli articoli riguardanti le attuali correnti migratorie – ma anche a quelle interne all’Unione, come già parzialmente approfondito anche nel precedente articolo riguardante il confine italo-francese Oulx-Monginevro/Briançon. La proposta infatti, qualora venisse approvata dal Parlamento e dal Consiglio europeo, potrebbe essere foriera di importanti conseguenze giuridiche, sia rispetto al Regolamento Dublino – più specificatamente in merito al trasferimento di un cittadino di un paese terzo da un paese all’altro dell’Unione – sia in relazione a un maggior ricorso a dispositivi di alta tecnologia per il tracciamento dei movimenti secondari – con scarsa tutela dei diritti della persona – sia infine a una maggiore attribuzione di poteri alla cooperazione delle forze di polizia dei paesi membri nelle zone di frontiera già interessate da numerosi respingimenti, con riferimento al confine italo-francese circa 24.000 nell’anno 2021. Non solo, cambierebbe la condizione di legittimità di una serie di situazioni di fatto consolidatesi a livello geopolitico – al momento solo considerate cattive prassi – che coinvolge in particolare in questo caso il confine italo-francese a Ventimiglia/Menton e a Oulx/Briançon (oltre a quello austro-sloveno e austro-tedesco) interessato negli ultimi anni da un ripristino continuo dei controlli temporanei alle frontiere interne da parte della Francia. Tale analisi giuridica – pur se chiaramente limitata – è doverosa visto che ancora oggi indirettamente si consente che un migrante possa morire folgorato al di sopra di un treno in viaggio dalla stazione di Ventimiglia o come accaduto per due migranti deceduti il 2 aprile scorso, essere travolti da un furgone nell’autostrada A20 a Bordighera, la città appena prima di Ventimiglia andando verso Nizza – nel tentativo disperato di attraversare il confine tra due paesi membri dell’Unione.

Pattugliamento bilaterale e cooperazione poliziesca transfrontaliera

Tali argomentazioni acquisiscono una valenza ancora più grave se si pensa che il transito delle merci e dei servizi – diversamente da quello delle persone – non registra alcun tipo di controllo alle frontiere interne dell’Unione e ciò nonostante entrambi i movimenti – secondo la versione ancora attuale del Codice Shenghen (n. 399 del 2016) – siano ugualmente sottoposti al principio di libera circolazione. Si pensi che a partire dal 2015 – anno in cui diversi paesi sono stati interessati dal flusso di “importanti” movimenti migratori e nel quale si è registrata la crisi del sistema Shengen, Francia, Germania e Austria – nonostante il limite di 2 anni previsto per la reintroduzione degli stessi – hanno ripristinato per ben 268 volte i controlli alle frontiere interne, facendo ricorso ad accordi bilaterali di riammissione e di cooperazione delle diverse forze di polizia, come il già citato accordo di Chambery, tra Francia e Italia, applicato ovviamente anche ai flussi migratori di cittadini terzi dell’Unione che transitano sulla rotta Ventimiglia-Menton, ora sotto la lente di questa analisi. La Commissione tuttavia, anziché impedire tali prassi illegittime, con la proposta di modifica normativa del regolamento Shengen del dicembre 2021, le ha consolidate – e questo si evince sia dai “considerando” che dall’“articolato” della presente proposta legislativa – stabilendo da una parte che la decisione del ripristino dei controlli alle frontiere possa essere adottata dagli stati anche unilateralmente, senza ancora prevedere alcuna sanzione in caso di proroga continua dei controlli, dall’altra spingendo affinché gli stati ricorrano sempre più a misure alternative al controllo delle frontiere interne.

La polizia respinge con la violenza i migranti al confine italo-francese.

Tra queste in primo luogo si annovera (al considerando 25) il pattugliamento bilaterale dei confini e la cooperazione transfrontaliera delle forze di polizia che si precisa possa portare – rispetto ai movimenti secondari – ai medesimi risultati del ripristino dei controlli.

Inoltre (al considerando 26), con una contestuale proposta di modifica della direttiva rimpatri (2008/115/CE) – più specificatamente l’art.6 paragrafo 3 che così modificato prevede la facoltà per gli stati di concludere nuovi accordi e intese bilaterali da notificare alla Commissione – viene di fatto introdotta la legittimazione delle riammissioni informali (al momento oggetto di diversi procedimenti giurisdizionali tra cui quello pendente dinanzi al Tribunale di Roma riguardante le riammissioni attuate al confine italo/sloveno e momentaneamente sospese)trasformandole in “formali”, mediante le disposizioni normative che prevedono il rilascio di una copia del provvedimento alla persona con la possibilità di presentar ricorso ma senza che questo abbia un effetto sospensivo del provvedimento di riammissione (Procedura di cui all’allegato XII al codice frontiere Shengen punti 5,6,7).

Legittimato arbitrio

Verrebbe in questo modo dunque resa legittima la possibilità di trasferire i migranti da uno stato membro all’altro, qualora venissero intercettati in prossimità di un confine interno. Al riguardo si sottolinea quanto labile sia l’espressione “cittadino di un paese terzo fermato nelle immediate vicinanze delle frontiere interne” (contenuta nell’articolo 23 bis – “Procedura per il trasferimento di persone fermate alle frontiere interne”) rispetto a un’eventualità così compressiva della libertà del migrante quale quella di essere riammesso nello stato di provenienza. Si incentiva inoltre l’utilizzo della sorveglianza tecnologica delle frontiere interne che secondo la Commissione, non deve essere equiparato al controllo delle frontiere (considerando 21), ragione per cui l’impiego di droni e di scansioni termiche – utilizzati spesso per controllare le aree e i confini – non sarebbe soggetto a tutti quei limiti temporali e motivazionali previsti invece per il ripristino dei controlli dei confini interni. Nello specifico si aggiunge che le attività di controllo effettuate sulla base di tecnologie di monitoraggio e sorveglianza generalmente utilizzate nel territorio al fine di affrontare le minacce alla sicurezza pubblica o all’ordine pubblico «non sono assimilabili ai controlli alle frontiere interne, senza però stabilirne i limiti della loro applicazione» (art. 23).

Frontex: il diritto d’asilo a rischio valutazione

Altra questione da sottolineare è l’accresciuto ruolo che viene conferito da tale proposta di modifica ad alcune istituzioni dell’Unione. In base all’art. 27 – come emendato dalla proposta – qualora il ripristino temporaneo dei controlli sia legato a «movimenti secondari di persone prolungati nel tempo, la notifica relativa a essi deve essere sì svolta dallo stato membro ma deve includere qualsiasi informazione che derivi dalle agenzie interne all’Unione: Frontex appunto. Essendo l’agenzia UE specificatamente demandata a svolgere la Risk Assessment (la valutazione dei rischi) dei movimenti secondari».

Non è difficile comprendere come questo possa essere particolarmente pericoloso per il rispetto del diritto d’asilo alle frontiere.

Inoltre all’art. 28 si prevede un nuovo ruolo di impulso della stessa Commissione nelle ipotesi di ripristino temporaneo dei controlli, in particolare nei casi in cui vi sia una minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna che riguardi la maggioranza degli stati membri e che metta a repentaglio il funzionamento globale dello spazio Shengen: in questo caso la Commissione può presentare essa stessa al Consiglio una proposta per l’adozione di una decisione di esecuzione che autorizzi il ripristino dei controlli alle frontiere interne. L’unico punto di tale macchinoso impianto normativo – che lascia la possibilità di muovere contenziosi strategici relativi ai controlli che oggi si basano sul racial profiling (profilo razziale) riguardanti anche il confine italo-francese di Ventimiglia – è quello del succitato art. 23 (al punto iii) attraverso il quale la Commissione, invitando gli stati a implementare le misure alternative, ossia i controlli di polizia transfrontaliera, stabilisce che questi non possano essere considerati controlli alle frontiere interne solamente se pensati ed eseguiti in maniera distinta dai controlli sulle persone alle frontiere esterne dell’Unione, «anche nell’ipotesi in cui vengano attuati alle stazioni degli autobus o più genericamente nei poli di trasporto che collegano i vari stati o a bordo dei servizi dei passeggeri». È noto invece che al confine Ventimiglia/Menton, a partire dal 2015, si attuino sistematicamente respingimenti dei migranti alla frontiera dalla Francia e vere e proprie deportazioni dall’Italia nei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) collocati in altre regioni come quelli di Taranto o di Torino. Rispetto a quest’ultimo si ricorda Musa Balde il ragazzo guineano di 23 anni morto suicida nel maggio del 2021 nel Cpr di Torino dopo essere stato vittima di una grave violenza in strada proprio a Ventimiglia. Rispetto ai respingimenti l’attività di osservazione collettiva e di sostegno ai migranti alla frontiera Ventimiglia/Menton è svolta dal già citato CAFI – Coordination d’actions aux frontières intérieures, in partenariato con l’Anafé – Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers.

Il supporto legale ai migranti e i rigetti dei loro ricorsi

L’Anafé svolge tanto un’attività operativa di osservazione e di supporto legale per i migranti alla frontiera quanto un’attività di tipo politico ossia di advocacy e sensibilizzazione rispetto ai respingimenti contraddistinti dai Refus d’entrée e ai trattenimenti alla frontiera eseguiti dalla Paf (Police aux frontières). Nello specifico l’avvocato Emilie Pesselier coordinatrice dell’Anafé durante la riunione online organizzata a marzo con la dottoressa Chiara Maugeri di Médecins du Monde – ex coordinatrice del programma di migrazione alla frontiera transalpina – ha riferito che, a partire dal 2015, quando la Francia ha “chiuso le frontiere” è iniziata l’attività di sostegno e accompagnamento, rispetto ai contenziosi individuali dell’associazione a favore dei migranti che si affianca ad attività di formazione sul quadro normativo vigente in materia. Dal 2017 si registra la denuncia delle violazioni dei diritti da parte dell’Anafé rispetto alle intercettazioni dei migranti compiute dalla Paf che notificando il refus d’entrée – senza alcun rispetto dei diritti di informazione come quello alla mediazione culturale e all’assistenza legale – respingono i migranti direttamente verso l’Italia o li accompagnano alla stazione di polizia a Menton qualora i respingimenti non possano essere eseguiti – ossia dalle 19 alle 7 di mattina – perché, essendo chiusa la stazione di polizia italiana, la riammissione da parte dell’Italia non sarebbe possibile.

Si specifica che nell’attesa che la polizia italiana sia nuovamente “disponibile”, i migranti pernottano esposti alle intemperie in strutture prive delle superfici di copertura, sprovviste di servizi igienici, senza accesso all’acqua e in condizioni di promiscuità tali da non consentire il distanziamento sociale previsto per il virus da Covid 19. L’avvocato Pellier ha poi segnalato due importanti pronunce emesse dai tribunali francesi: in particolare dal Tribunale amministrativo di Nizza e dal Consiglio di stato francese. Con la sentenza n. 1800699 del 23 febbraio 2018 il Tribunale amministrativo di Nizza, dietro a un ricorso che aveva per oggetto un provvedimento di non ammissione nel territorio francese, ha dichiarato l’illegittimità dello stesso da un lato per il mancato rispetto del diritto fondamentale a richiedere asilo dall’altro per l’assenza di protezione in Francia per i minori stranieri non accompagnati, sistematicamente respinti verso l’Italia dalla Paf senza alcuna considerazione rispetto alla loro minore età.

Tuttavia, nonostante tale pronuncia va detto che continuano i respingimenti dei minori stranieri che siano accompagnati o meno.

Respingimenti!

Al riguardo è necessario richiamare un’altra sentenza riguardante il ricorso presentato da una donna straniera respinta alla frontiera con il figlio di cinque anni dalla Paf: in questo caso a pronunciarsi è il Consiglio di stato francese che ha rigettato il ricorso con l’ordinanza n. 440756 del primo luglio del 2020, sostenendo nelle argomentazioni che al confine italo-francese sia rispettato il diritto d’asilo potendo la donna presentare la sua domanda in Italia! Per di più a tale pronuncia si è fatto riferimento al fine di rigettare successive richieste di liberazione provvisoria di alcuni richiedenti asilo respinti, con il pretesto che non fosse soddisfatta alcuna esigenza per l’adozione di una decisione di urgenza – avendo questi libero accesso alla domanda d’asilo in Italia.

Da allora le persone respinte alla frontiera non hanno avuto più alcuna possibilità di presentare ricorsi urgenti ma solo nel “merito” dinanzi al tribunale competente ossia facendo ricorso a procedure che possono durare fino a due anni prima dell’emissione di una pronuncia.

La vicenda legata ai respingimenti al confine Ventimiglia/Menton, quando la Francia ha ripristinato i controlli alle frontiere nel 2015, ha chiaramente dispiegato i suoi effetti anche in Italia accendendo però un esempio di resistenza memorabile da parte della società civile e dei migranti stessi unitisi nel presidio No Borders in contestazione delle politiche di riammissione, da parte della polizia italiana in collaborazione con la polizia francese e più in generale delle politiche europee in ambito migratorio. Il presidio è stato considerato da Guglielmo Mazzia nel libro Presidio permanente No Borders Ventimiglia. Diario 13 giugno/30 settembre, uno dei più potenti e vincenti eventi politici degli ultimi anni. La ricostruzione delle origini del Movimento è stata possibile grazie al professor Broglio autore del libro Bucare il confine al quale si rimanda e il giornalista Stefano Bertolino, autore di alcuni reportage, uno dei quali famoso perché l’agente digos ripreso riassumeva tutta la brutalità offensiva dei metodi polizieschi.

Per individuarle occorre tornare indietro all’11 giugno del 2015 quando, in seguito al G7 dello stesso anno tenutosi in Baviera, la Francia ripristina improvvisamente i controlli alle frontiere interne iniziando a respingere circa 80 migranti al giorno: la Paf li identifica e – a volte anche sulla base di uno scontrino di un acquisto in Italia in possesso del migrante – decide per il loro respingimento appellandosi al succitato accordo di Chambery del 3 ottobre del 1997 e al Regolamento Dublino che come detto individua la competenza degli stati membri dell’Ue a trattare la domanda d’asilo sulla base del criterio del primo paese di arrivo del migrante.

Dopo l’estate 2015: tra Balzi Rossi e Campo Roja

I migranti decidono per questo di occupare gli scogli, i cosiddetti Balzi Rossi al confine tra i due paesi, dando vita alla protesta We are not going back; la Gendarmerie schiera quindi i blindati mentre da Ventimiglia non transitano più i treni verso la Francia accrescendo la presenza di migranti bloccati nella stazione. Nei giorni successivi, con l’arrivo della digos e della polizia in assetto antisommossa con scudi e manganelli, il presidio No Borders diviene un presidio permanente. Tuttavia, il 16 giugno del 2015 la polizia alla presenza dei media italiani procede allo sgombero della scogliera e i migranti vengono deportati sulle macchine della polizia italiana e sui pullman della Croce Rossa verso la città di Ventimiglia. Con la manifestazione non autorizzata del 20 giugno dello stesso anno contraddistinta dallo striscione “Siamo tutti cittadini del mondo no frontiere, no borders” iniziano le deportazioni dei migranti nei Cpr del Suditalia ma si unisce anche il supporto al presidio del collettivo di Bologna Eat the Rich. L’8 agosto si tiene l’assemblea nazionale sostenuta da varie associazioni e ong tra cui Médecins du Monde, Amnesty International e Arci Camalli Imperia. Il sindaco Ioculano nel mentre si dimette dal Pd denunciando la mancata posizione politica del partito sulla vicenda e chiede per l’ennesima volta al ministro degli Interni Alfano lo sgombero definitivo del presidio e del campo.

Il mese successivo tuttavia anche il Consiglio regionale della Liguria si schiera per lo sgombero del presidio che inizia il 30 settembre del 2015 con l’intervento della polizia italiana. Ai Balzi Rossi cittadini europei e migranti continuano l’occupazione resistendo per 12 ore fino a quando si concretizza un accordo: i migranti verranno rilasciati senza essere identificati e i manifestanti europei verranno portati in questura. Il presidio commenta così la sua “fine”: «Hanno distrutto un luogo, una casa, un riparo per molti. Hanno distrutto un presidio ma non un percorso di lotta perché Ventimiglia non è solo un luogo. Ventimiglia è un’idea di resistenza che poggia su una rete di solidarietà consolidata in questi 3 mesi e mezzo e che nessuna ruspa e nessuno sgombero riuscirà a smantellare». Da quel momento in poi vi saranno diversi tentativi di riorganizzazione: tra questi si segnalano sia i campi informali presso la chiesa di San Nicola e quella delle Gianchette, sia l’accoglienza del Campo Roja aperto il 16 luglio del 2016 e a oggi uno dei simboli del fallimento della coordinazione politica tra municipalità, prefettura e ministero degli Interni con riferimento alle politiche di accoglienza a Ventimiglia. Rispetto a ciò si sottolinea il contributo della dottoressa Daniela Trucco ricercatrice presso l’Università di Nizza e le testimonianze della dottoressa Annalisa Trombetta. In particolare, la dottoressa Trucco ha sviluppato un’analisi dell’amministrazione della città di Ventimiglia nel periodo di tempo intercorrente dal 2014 al 2019, comprese le ronde civiche di cittadini in opposizione al transito e bivacco coatto dal respingimento dei migranti.

La conseguenza dei continui rapporti altalenanti di cooperazione e opposizione tra prefettura e amministrazione comunale si evidenzia soprattutto rispetto alla gestione del sistema di accoglienza cittadino a favore dei migranti.

In conseguenza del ripristino dei controlli alle frontiere interne della Francia, infatti, sono stati aperti tre centri di accoglienza: quello emergenziale nel giugno del 2015 su mandato della prefettura e d’intesa con il Comune e con la compagnia ferroviaria, gestito dal Comitato regionale della Croce Rossa e chiuso nel maggio del 2016 proprio su iniziativa dell’amministrazione comunale; quello aperto con il benestare del vescovo di Ventimiglia-Sanremo Antonio Suetta a fine maggio del 2016 e chiuso nell’agosto del 2017 – inizialmente tollerato sia dal Comune che dalla Prefettura – sulla base di un’ordinanza emessa dal sindaco Enrico Ioculano e infine il Campo Roja aperto dalla Prefettura nel 2016, in collaborazione con l’allora amministrazione comunale guidata dal sindaco Ioculano (nonostante sia stato firmatario di discutibili ordinanze relativamente all’accesso a cibo e acqua da parte dei migranti), collocato ai margini della città e gestito sempre dalla Croce Rossa italiana ma definitivamente chiuso il 31 luglio del 2020, su richiesta della Prefettura, dal sindaco Scullino appartenente alla coalizione di centro-destra, rieletto nel 2019 dopo aver governato la città dal 2007 al 2012.

La conseguenza di tale decisione ormai da due anni è nota ma volutamente non visibile come sempre accade in tali circostanze: i migranti oggi si trovano a vivere ai margini della città riuscendo ad accedere ai beni essenziali soltanto tramite la Caritas diocesana, stazionando in prossimità delle rive del fiume Roja ed esposti ai pericoli derivanti dai periodici straripamenti, nell’abbandono totale delle istituzioni in mezzo ai rifiuti in accampamenti definibili più che informali, improvvisati.

È la quiete agghiacciante e senza riflettori, nostalgica di quella tempesta di resistenza che per un breve periodo aveva posto attenzione alla sofferenza degli individui su questa rotta cercando di elevarla a strumento per l’affermazione di diritti che ancora oggi però evidentemente restano incompiuti.

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La guerra non ha il congiuntivo, ma l’economia sì https://ogzero.org/la-guerra-non-ha-il-congiuntivo-ma-leconomia-si/ Wed, 06 Apr 2022 20:39:01 +0000 https://ogzero.org/?p=7001 Dichiarata la guerra il suo banale corredo è intriso di propaganda, retorica, ostentazioni scontate e risapute ipocrisie; strategie e dichiarazioni, video reali e manipolati su cui dibattere vanamente costellano la cronaca… Tutto questo orrore è consueto e si riassume nella parola “guerra”. Ormai è in corso e dovrà arrivare al fondo, che sia un Blitzkrieg, […]

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Dichiarata la guerra il suo banale corredo è intriso di propaganda, retorica, ostentazioni scontate e risapute ipocrisie; strategie e dichiarazioni, video reali e manipolati su cui dibattere vanamente costellano la cronaca… Tutto questo orrore è consueto e si riassume nella parola “guerra”. Ormai è in corso e dovrà arrivare al fondo, che sia un Blitzkrieg, una “operazione speciale”, o un impantanamento di un poderoso esercito; una resistenza determinata, motivata o preparata… seguirà il suo corso e avrà sul campo una delle due o tre potenziali soluzioni. Quella cronaca diventerà storia, come le stragi di civili, i massacri di comunità, le distruzioni di case e mezzi bellici; la frustrazione, le defezioni e gli arruolamenti di mercenari e l’esaltazione della truppa: sentimenti da gestire per evitare spiacevoli “effetti collaterali”.
I morti ne sono ovvio corollario.
La precognizione di quale potrà essere il coinvolgimento del mondo si avvicina maggiormente all’approfondimento a un livello più elevato di uno squallido salotto televisivo. Cinicamente la geopolitica considera nella sua contabilità questi dati comuni a tutte le guerre e li fa interagire: ciò che interessa all’analista geopolitico è la trasformazione socio-economica dopo una guerra che coinvolge potenze di questo livello. Come si svilupperà l’esistenza in tempo di guerra e quale sarà la ricaduta sull’economia mondiale? tariffe del grano e bollette energetiche, approvvigionamento e reti di distribuzione… fame e freddo. Le svolte imposte da una guerra di queste proporzioni all’economia neoliberista imperante da 30 anni potrebbero far deragliare il libero mercato e dunque lo scenario che si comincia ad aprire è quello dello statalismo: non incentrato sul welfare ma quello bellico, fatto di riarmo e interventismo monetarista, di autarchia e di stretto controllo da parte del potere di ogni aspetto macroeconomico: centralizzazione del controllo dell’energia e sua nazionalizzazione.

Fin qui la sintesi di OGzero dopo le sollecitazioni di questo nuovo articolo di Yurii Colombo che state per leggere


Sindromi propagandistiche e stalli reali

I sondaggi d’opinione in Russia (per quanto possano valere quelli in tempi di “operazioni speciali”) sostengono che la popolarità di Putin sia aumentata dall’inizio del conflitto. Non deve stupire. Il rublo si è in parte ripreso, le sanzioni inizieranno a farsi sentire tra qualche mese e il nazionalismo russo nelle “ore supreme” è storia nota. L’annuncio di Putin poi di voler chiedere in cambio del gas e del petrolio ai paesi “non amici” il pagamento in rubli ha inorgoglito i russi anche se poi continueranno a ricevere i soliti euro e dollari anche nel futuro. La dedollarizzazione di parte delle transazioni internazionali era già stata fatta baluginare dal presidente russo ai tempi dei Brics, ma continuerà ad avere un difficile decollo se non diventerà un’arma di Pechino.

Del resto le truculente interferenze di Joe Biden hanno aiutato il Cremlino a fornire un’immagine alla propria opinione pubblica da “cittadella assediata”, in cui l’aggressore tenta di dimostrare contro ogni evidenza di essere l’aggredito. Le stesse campagne di russofobia che qua e la sono emerse in tutto l’Occidente hanno dato la possibilità a Dmitry Peskov, il portavoce ufficiale di Putin, di sostenere di «essere di fronte a campagne simili a quelle dei nazisti quando bruciavano i libri negli anni Trenta». Anche misure come quelle assunte dalla società farmaceutica tedesca Miltenyi Biotec, un produttore di attrezzature e materiali per la terapia cellulare, che ha smesso di fornirle alla Russia a causa del conflitto, producendo un (giusto) sdegno tra la popolazione visto che non si tratta di sanzioni che colpiscono oligarchi, funzionari, personale militare o aziende, ma invece negano il diritto alla salute dei malati anche se si tratta, secondo gli esperti, di terapie a cui sono sottoposti pochissimi pazienti. Tuttavia, ci sono altre forme di assistenza medica in cui la Russia è criticamente dipendente dalle attrezzature importate. In Russia circa 50.000 persone sono sottoposte a emodialisi su base permanente e in totale circa 1 milione di persone hanno bisogno di una terapia sostitutiva in un modo o nell’altro. Sanzioni in questo o altri settori sanitari alla Russia potrebbe portare al collasso della catena di assistenza medica per coloro che hanno bisogno di tali cure e mettere decine di migliaia di persone a rischio della vita.

Risultati dell’insoddisfacente riuscita della “spezial operazy”

La sconfitta politica di Putin è però ormai nelle cose. A 40 giorni dall’inizio dell’ostilità l’esercito russo non ha conquistato alcuna grande città e i segnali di demoralizzazione e di frustrazione da parte delle truppe (che probabilmente sono all’origine del massacro di Bucha) che a parti invertite si erano colte nel conflitto nel Donbass del 2014. In queste ore si stanno moltiplicando tra le truppe russe i casi di diserzione individuale e di massa. Il più clamoroso è quello portato alla luce (e poi confermato il 5 aprile ufficialmente) dal blogger osseto Alik Pukhaev secondo il quale trecento militari dell’Ossetia del Sud hanno rifiutato volontariamente di combattere in Ucraina e sono tornati a casa:

«Circa 300 militari (per lo più di etnia osseta) della base militare russa sono tornati nell’Ossetia del Sud di loro spontanea volontà», ha scritto sulla sua pagina Twitter il giornalista perché erano stati chiamati ad un’azione kamikaze contro le truppe nemiche.

Il rifiuto di fare da carne da cannone è stato segnalato anche tra settori dell’esercito occupante a Melitopol’ e a Sumy.
Che ormai la voglia di combattere dei russi sia scarsa è confermato anche da altre segnalazioni. Già da giorni circolano video e foto in internet in cui si viene a sapere che nella zona di Irkutsk vengono richiamati i riservisti mentre a Norilsk per i maschi di 18-35 anni che decidono di arruolarsi nella “Campagna Z” l’esercito promette ai volontari oltre a uno stipendio di 60.000 rubli, un’abitazione, vacanze pagate, il pensionamento dopo 10 anni.

Escalation in Vietnam, эскалация se declinato in Ucraina

Il bluff dei “rublocarburi” (mossa per evitare la fuga di capitali non solo degli oligarchi) potrebbe aprire però la strada a uno scenario “Blitzkrieg2”: ovvero a un nuovo tentativo di dare l’assalto a Kiev e tentare lo sbarco a Odessa.

Secondo Boris Kagarlitsky (@B_Kagarlitsky) «il Cremlino ha bisogno di ottenere qualcosa in campo di battaglia prima che l’economia crolli per tornare a trattare da una posizione di forza».

Ma anche questa sarebbe poco più di un’illusione Nella vita è impossibile rigiocare all’infinito una partita ormai persa. Sarebbe la soluzione peggiore, perché l’Orso ferito potrebbe perfino tentare nuove avventure militare nei paesi limitrofi.
Il conflitto di per sé sembra giunto a un punto di stallo o perlomeno di reload. Le estenuanti trattative tra le due delegazioni proseguono stancamente e per ora hanno prodotto un solo anche se significativo risultato. L’Ucraina avrebbe accettato nel futuro di diventare uno “stato neutrale” (se in versione austriaca o finlandese è ancora tutto da vedere) e di rinunciare definitivamente all’ingresso nella Nato. Il gruppo dirigente di Zelensky, del resto, si è scottato con le troppe promesse degli alleati occidentali che hanno trasformato il paese slavo solo in una piazza d’armi rivolta contro la Russia e immagina un futuro di Kiev a cavallo tra Bruxelles, Ankara e chissà magari Mosca, se nel futuro ci saranno dei cambiamenti significativi – per ora non immaginabili – al Cremlino.

“спецоперация” suona più minacciosa di “война”

Per il resto le posizioni restano distantissime. Mosca non ha ottenuto la “demilitarizzazione e denazificazione” (ovvero il cambio di regime) e difficilmente può immaginare l’occupazione dell’intera Ucraina e punta probabilmente al pieno controllo del Donbass ed eventualmente ad alcune aree del sud. In altissimo mare resta invece la questione del riconoscimento della Crimea e del Donbass da parte dell’Ucraina dove Zelensky avrebbe enormi difficoltà a far digerire un’amputazione così importante del territorio a un popolo in armi e che appare ancora fortemente motivato a battersi sul campo.
La “pace armata” e un eventuale cessate il fuoco con l’invio di forze di interposizione potrebbero apparire all’orizzonte delle trattative nel prossimo futuro ma anche l’ipotesi di una guerra a bassa intensità di lunga durata potrebbe anch’esso diventare lo scenario del futuro dell’area. La Russia non può bloccare una parte del proprio esercito professionale a lungo nell’area o permettersi un’occupazione e l’Ucraina prima o poi dovrà far ripartire la propria economia: sono questi gli elementi che potrebbero imporre a entrambi i contendenti un ammorbidimento delle rispettive posizioni.

Sullo sfondo si colloca la “guerra fredda 2.0” tra Russia e Occidente che rischia di far impallidire quella del Novecento.

La Federazione dovrà ripensare per forza non solo il proprio orizzonte strategico che ne aveva fatto un paese “semi-periferico” votato all’esportazione di materie prime con massicce importazioni di prodotti finiti. Il ritorno a un’economia che ricordi vagamente l’autarchia sovietica è simbolicamente già iniziato con la sostituzione a Mosca dei McDonalds con la nuovissima (ma assai simile) catena russa “Дядя Ваня” [Zio Vania] e sta alimentando un dibattito a più ampio raggio.

Yurii Colombo sta girando la penisola per incontrare chi è curioso di sentire un punto di vista diverso da quello dei salotti televisivi sulla crisi ucraina; questa chiacchierata con alcuni redattori di Radio Blackout è stata registrata il 7 aprile dopo un incontro organizzato dal Centro di Documentazione Porfido di Torino presso l’Edera Squat.

Ascolta “Crisi ucraina tra etno-nazionalismi e ridimensionamento dell’eredità imperiale” su Spreaker.

 

Svolte antiliberiste: il volano statalista dell’economia bellica

«La crisi al vertice…»

Su “Kommersant” – il quotidiano della Confindustria russa – è apparso un lungo saggio di Dmitry Skrypnik studioso di economia e matematica dell’Accademia russa delle scienze di Mosca. Secondo Skrypnik la cosiddetta politica di stabilizzazione macroeconomica che ha segnato tutta l’era putiniana, che consisteva nell’accumulare riserve auree ingenti «avrebbe potuto essere giustificata solo in un caso: se il suo scopo fosse stato quello di sottovalutare il rublo come elemento di una politica industriale mirata alla sostituzione delle importazioni e alla conseguente crescita orientata alle esportazioni».

Invece «l’economia ha continuato a rimanere indietro in tutti questi decenni e a deteriorarsi in molte aree, e la crescita economica è stata inaccettabilmente bassa. La storia, come sapete, non ha il congiuntivo, ma l’economia sì. La scienza economica ha ricette per lo sviluppo in un ambiente di alta corruzione, clientelismo e un sistema giudiziario debole, quindi i tentativi da parte delle autorità economiche e di alcuni esperti di assolvere se stessi dalla responsabilità attribuendo tutti i problemi ai servizi di sicurezza e al sistema giudiziario non dovrebbero essere presi in considerazione. E il fatto che le sanzioni sembrano ora in grado di privare la Russia di questi beni e tecnologie è una conseguenza delle politiche economiche sbagliate degli ultimi 30 anni».

… a Est…

Una disamina impietosa dello stato della Russia in cui non ci sarebbero soluzioni semplicistiche e neppure grandi possibilità per un arroccamento ormai impossibile nel quadro delle dimensioni della globalizzazione. Per lo studioso ci si dovrebbe invece muovere «contemporaneamente lungo l’intera catena del valore, e non solo modificarne il singolo elemento dove lo stato dovrebbe mirare a coordinare i produttori nella fase di creazione della produzione, seguita dalla creazione della concorrenza e dall’entrata delle imprese nel libero mercato. Se questi obiettivi non vengono raggiunti entro un certo periodo di tempo limitato, i relativi progetti dovrebbero essere gradualmente abbandonati».

… e a Ovest

Si tratta di un dibattito che sta attraversando – per altri versi – anche l’occidente dove già a partire dalla crisi del Covid-19 ha rilanciato il ruolo dello stato e dei governi in chiave non solo regolatrice ma interventista anche con la ripresa in grande stile del deficit-spending militarista che mette in discussione sin dalle radici il modello neoliberale. Una svolta non per forza di sinistra, anzi, che si alimenterebbe di russofobia e di un ulteriore rafforzamento della Nato (la Georgia ha già annunciato di non voler deflettere dal suo intento di voler entrare a far parte dell’Alleanza Atlantica nei prossimi anni).
Sono volani che potrebbero produrre dei giganteschi profitti per tutte le aziende legate alla Difesa e al loro indotto che però lasciano dietro di sé le solite vittime predestinate.

Fame e stagflazione alimenteranno proteste?

La guerra, stima la Banca Mondiale, produrrà una riduzione del Prodotto interno lordo ucraino quest’anno di oltre il 20% riportando il paese ben sotto i livelli di vita sovietici. Fame, morte, migrazioni di massa sono già diventate la quotidianità di milioni di ucraini. In Russia le sanzioni comminate dall’Occidente hanno fatto esplodere l’inflazione che si attesterà sicuramente alle due cifre mentre milioni di russi inizieranno a conoscere l’indigesto cocktail della stagflazione (il Pil russo dovrebbe calare del 10%).
In questo quadro, tra qualche mese, con l’arrivo dell’autunno i “fronti interni” potrebbero riaprirsi improvvisamente. Non bisogna dimenticare che l’Ucraina è uno dei paesi più sindacalizzati tra quelli dell’ex Urss e anche recentemente – prima dell’inizio del conflitto – ha conosciuto forti movimenti di sciopero e di protesta. Lo stesso discorso, seppur con altre caratteristiche, potrebbe valere anche per la Federazione.

Come ha sostenuto ancora Kagarlitsky recentemente su “Forum.msk.ru”: «Il Cremlino non capisce non solo gli europei, che sono veramente immaginati come codardi coccolati, il che è totalmente falso. I nostri governanti non capiscono nemmeno il loro popolo, che immaginano come una massa di contadini analfabeti del Diciannovesimo secolo, credenti nello zar e in Dio, pronti a soffrire le privazioni senza domande, a combattere e a morire senza compiacenza sotto l’ordine. Lo stile di vita della popolazione della Russia moderna differisce poco da quello occidentale. La differenza non è che il nostro popolo è più fedele alle autorità, ma che è più diviso e più intimidito. Ma la crisi li costringerà a unirsi. E in nessun modo intorno allo zar».

мусор

Gettalo nella spazzatura. Guerra al fascismo e all’imperialismo

 

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Podcast Rebelde https://ogzero.org/podcast-rebelde-proiettili-fatti-di-parole/ Tue, 29 Mar 2022 20:34:57 +0000 https://ogzero.org/?p=6921 Complesse e uniche frequenze (r)esistenti Il podcast è diventato un nuovo linguaggio per raccontare l’America latina dall’America latina: un mercato comunicativo in costante crescita, che è stato favorito anche dal confinamento prodotto dalla pandemia. Una specie di nuovo adattamento delle radio comunitarie e dei tessuti di (r)esistenza che hanno giocato un ruolo chiave nel seminare […]

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Complesse e uniche frequenze (r)esistenti

Il podcast è diventato un nuovo linguaggio per raccontare l’America latina dall’America latina: un mercato comunicativo in costante crescita, che è stato favorito anche dal confinamento prodotto dalla pandemia. Una specie di nuovo adattamento delle radio comunitarie e dei tessuti di (r)esistenza che hanno giocato un ruolo chiave nel seminare coscienza, “rebeldia” e rivendicazione sociale tra i “nadie” di Eduardo Galeano.

L’originalità e la varietà di questi podcast riflette l’eterogeneità di una regione uguale e diversa, nella quale si vivono drammi comuni e trasversali ma anche lotte particolari e non riproducibili in altre latitudini. Una chiave di lettura per comprendere questa disarmonica e affascinante complessità regionale è stata offerta dallo scrittore e attivista uruguaiano Raúl Zibechi, in Movimientos sociales en América Latina. El “mundo otro” en movimiento (2017):

«… i movimenti sociali in Europa e Nord America si muovono in società relativamente omogenee in cui il controllo e lo sfruttamento del lavoro avviene essenzialmente attraverso il salario, e dove le relazioni sociali sono relativamente omogenee e quindi, la logica che governa l’insieme, governa anche le parti. Nel frattempo, in America Latina abbiamo cinque tipi di relazioni o modalità di controllo del lavoro: schiavitù, servitù personale, reciprocità, piccola produzione commerciale e salario. Siamo di fronte a quella che Anibal Quijano definisce “eterogeneità storico-strutturale” delle nostre società, in cui si mettono in moto relazioni sociali diverse. Quindi è più conveniente chiamare i nostri movimenti collettivi come “società in movimento” o, come essi stessi si autoidentificano: “popoli” o “nazioni” che lottano per la loro sovranità e autodeterminazione».

proiettili fatti di parole

I movimenti collettivi come “società in movimento” o, come essi stessi si autoidentificano: “popoli” o “nazioni” che lottano per la loro sovranità e autodeterminazione.

La controstoria diversamente “trasmessa”

Sono dunque, nella maggior parte dei casi, queste società in movimento, o chi ne rappresenta le lotte o rivendicazioni, a creare o protagonizzare questi podcast che dipingono una geografia della resistenza, della controstoria e della narrazione altra. Visto in questo modo, il podcast diventa un nuovo strumento di lotta che pervade le maglie di una società plurale che prova a resistere, secondo le parole di Zibechi a una «ricolonizzazione dei nostri territori e dei nostri popoli». L’uruguaiano infatti nel dipingere la situazione vissuta dalla regione nel periodo prepandemia scriveva:

«È importante evidenziare la nascita di nuovi movimenti, in quasi tutti i paesi che incarnano le oppressioni più pressanti, derivate dalla crescita esponenziale dell’estrattivismo predatorio, dei femminicidi e della violenza strutturale contro i poveri. L’attuale fase del capitalismo nel mondo (e nella nostra regione) è la più grande sfida affrontata dai settori popolari organizzati, poiché il sistema scommette sulla loro scomparsa come popoli, classi, etnie, razze, generi e generazioni. Non è un’esagerazione affermare che i poveri dell’America Latina stanno subendo un genocidio di tale intensità e portata come non si conosceva dai tempi del colonialismo. In questo senso, sia economicamente che politicamente, stiamo vivendo una sorta di ricolonizzazione dei nostri territori e dei nostri popoli».

Tutti i mondi nuovi compresi nel nuovo mondo web

In questa lotta per la sopravvivenza di quella speranza così ben plasmata dalle parole del sub-comandante Marcos «È necessario costruire un mondo nuovo. Un mondo nel quale possano convivere molti mondi, dove ci sia spazio per tutti i mondi», i podcast si trasformano in proiettili fatti di parole, in pillole di sensibilizzazione e risveglio che attraversano, grazie a internet, tutta la regione.

Il fatto poi che lo spagnolo sia una lingua veicolare per la maggior parte degli abitanti dell’America Latina, aumenta la capacità di diffusione dei contenuti in questa lingua, espandendo l’onda d’urto dei messaggi e delle storie in essi contenute. A questo contesto si aggiunge poi il Brasile, paese-continente nel quale si parla il portoghese e dove i podcast hanno trovato, anche qui, terreno fertile.

Historias que merecen ser escuchadas

In un contesto così dinamico e impermanente risulta estremamente difficile offrire una mappa completa dei podcast (ribelli, divulgativi o informativi) che nascono quotidianamente nella regione. Nonostante ciò, di seguito una breve lista di podcast (sia nazionali che regionali) che toccano tematiche legate ai diritti umani, all’emancipazione della donna, alle discriminazioni razziali, alle disuguaglianze economiche, ai diritti dei popoli indigeni, alle migrazioni, al collettivo lgbtiq+, alle persone con disabilità, al cambio climatico, all’impunità, alla violenza dello stato, alla difesa dell’ambiente e alla vita comune dei latinoamericani e delle latinoamericane.

Las historias de Radio Ambulante

Una delle piattaforme più famose e premiate è sicuramente Radio Ambulante, un progetto comunicativo che da quasi un decennio racconta storie di tutta l’America Latina: storie commoventi, divertenti e sorprendenti, che rivelano la diversità della regione in tutta la sua complessità. Radio Ambulante è distribuito da NPR, la radio pubblica statunitense e a oggi ha prodotto oltre 200 episodi in più di 20 paesi, dimostrandosi il progetto di giornalismo narrativo più ambizioso dell’America Latina. Racconta la vita latinoamericana con storie di amore e migrazioni, giovani e politica, ambiente e famiglie in circostanze straordinarie, offrendo un vero e proprio ritratto sonoro della regione. Nel 2020 Radio Ambulante si è evoluta in una società di produzione di podcast, lanciando El Hilo, un podcast di notizie settimanali presentato da Silvia Viñas e Eliezer Budasoff, con la direzione editoriale di Daniel Alarcón. El hilo approfondisce le notizie più importanti della settimana in America Latina, offrendo contesto e permettendo di andare oltre i titoli dei giornali.

El Collectivo La Brega

Da Portorico arriva invece La Brega, un progetto di WNYC Studios e Futuro Studios che hanno creato una serie di podcast per raccontare la peculiarità della vita portoricana. Disponibile in inglese e spagnolo e presentato da Alana Casanova-Burgess, La Brega è il risultato del lavoro di un collettivo di giornalisti, produttori, musicisti e artisti portoricani.

La Brega

Bregar: trabajar con entrega y luchar contra las dificultades.

Suena así en Mexico

Dal Messico arriva un esperimento molto interessante, che riunisce una dozzina di podcast con contenuti diversi tra loro: si tratta di Así como suena. Questa piattaforma si presenta così al pubblico: «storie di amore e odio, criminalità, politica, corruzione e quotidianità. Parliamo di persone e di personaggi. Il nostro team di giornalisti non rimane in superficie, scava in profondità. “Así Como Suena” offre brani sonori straordinari. Si tratta anche di discutere del paese e delle sue circostanze. Si tratta di ridere e scoprire musica che nemmeno immaginavamo esistesse. Si tratta di sapere cosa offre ogni notte la nostra città preferita. Chi di noi fa “Así Como Suena” scommette sul suono, sull’intimità che solo l’audio è in grado di creare. E ci piace quello che facciamo: lavoriamo per offrirti storie che meritano di essere ascoltate».

proiettili fatti di parole

En Así como suena contamos historias: historias de amor y de odio, de crimen, de política, de corrupción, de vida cotidiana. Nuestro extraordinario equipo de reporteros no se queda en la superficie, en la nota.

La narrativa indomable

In America centrale troviamo Indomables, una creazione delle giornaliste indipendenti Leila Nilipour y Melissa Pinel, che a ottobre 2018 hanno dato vita al primo podcast narrativo di saggistica a Panama. Il progetto è di grande qualità e fin dall’inizio ha avuto un enorme impatto sia a Panama che in America centrale: basti pensare che il primo episodio Si desaparezco, no me busquen ha ricevuto il Premio Nazionale per il Giornalismo Radiofonico.

Intervistate proprio all’inizio del 2022 dal giornale spagnolo “El Pais”, Nilipour e Pinel hanno confermato che stanno lavorando alla stagione 2022 del podcast e che l’idea è anche quella di raccontare almeno una storia da El Salvador e un’altra dal Costa Rica, dal momento che sono paesi centroamericani che non sono stati raccontati nelle stagioni anteriori.

Nessuna vergogna in Nicaragua

Dal Nicaragua, che in generale non sta certo affrontando il suo miglior momento riguardo alle libertà civili, troviamo il podcast Cuerpos sinvergüenzas (Corpi senza vergogna). Uno spazio radiofonico per condividere preoccupazioni, idee ed esperienze di coloro che sfidano coscientemente il bodyshaming e anche di coloro che lo soffrono e cercano aiuto. Uno spazio dove si parla di sessualità, delle identità maschili e femminili, delle lotte per l’uguaglianza, del desiderio di continuare a rendere il Nicaragua un paese migliore. Un obiettivo ambizioso che nasce dentro lo spazio del programma femminista La Corriente e che è gestito dagli stessi membri dell’organizzazione.

Cuerpos sinvergüenzas

Conversamos sobre los problemas que enfrentan niñas, niños y adolescencia en Nicaragua, particularmente en el actual escenario de crisis.

Il bisogno di informazione in Colombia

Passando all’America del Sud e parlando di Colombia, troviamo che uno dei podcast più famosi e ascoltati del paese è A Fondo Con María Jimena Duzán. Si tratta di uno spazio comunicativo giornalistico protagonizzato da María Jimena Duzán, una giornalista e politologa colombiana con una lunghissima traiettoria professionale e che è diventata una dei riferimenti dell’informazione in Colombia.

“Francia Márquez, attivista afrocolombiana epocale”.

Il movimento cileno diffonde la sua maturità in podcast

Spostandoci in Cile, scopriamo Las Raras Podcast. Uno spazio nel quale vengono raccontate storie di persone che infrangono le regole e combattono per il cambiamento sociale: storie di libertà. L’idea è quella di amplificare voci che non si trovano nei media tradizionali, unendo il personale al politico. Nel manifesto del podcat si legge: «Siamo in sintonia con i movimenti sociali. Siamo femministe. Trattiamo argomenti come l’ambiente, l’arte, la scienza, l’istruzione, il genere, l’amore, la famiglia, la maternità, la migrazione, i diritti umani e altro ancora».

… y el feminismo argentino tambien

In Argentina uno dei podcast più ascoltati nel paese è ConchaPodcast (Feminismo esplicito), con le voci di Laura Passalacqua, Dalia F. Walker e Jimena Outeiro che condividono con il pubblico discorsi femministi tra amiche.

Lusofonia

Dal Brasile e spostandoci quindi sul portoghese, possiamo trovare una vasta gamma di podcast. Qui segnalo per esempio il podcast PAMITÊ , una realizzazione dell’Istituto Maria da Penha che porta riflessioni su questioni di genere e diritti umani. Oppure Mulheres na Comunicação un podcast che mira a diffondere e promuovere la comunicazione popolare, fatta dalle donne e basata sui diritti umani e sulle questioni di genere.

Altro podcast di voci (in spagnolo) dall’America Latina è ProComuNicando Ciberfeminismo, un podcast di Marta García Terán che nasce con l’obiettivo di essere un megafono per le voci e le riflessioni di donne che, in America Latina e Caraibi, promuovono azioni, spazi o iniziative cyberfemministe, o che mettono in relazione le tecnologie dell’informazione (Ict) e la comunicazione di genere .

Ma se non parlate spagnolo, portoghese o inglese non disperate. Dall’Italia e in italiano, meritano sicuramente una menzione Macondo, Café Frio e LatinoAmericando.

Il primo è un progetto che Federico Larsenn e Federico Nastasi, due giornalisti latinoamericani (per nascita o per scelta) hanno proposto nel 2021 sulla piattaforma di Treccani. Un percorso in dieci tappe che ha raccontato l’America Latina, smarcandosi da pregiudizi e stereotipi, e avvicinandosi, con serietà e precisione, a questo complessa regione. I due sono già pronti per la stagione 2022 per aiutarci di nuovo a mettere a fuoco un ritratto trasversale di questo subcontinente, alternando voci e protagonisti italiani e latinoamericani.

Il secondo è un progetto portato avanti da Ivanilde Carvalho e Francesco Guerra, nato dalla collaborazione del comitato Italiano Lula Livre e il blog “LatinoAmericando”. Un podcast che vuole offrire uno sguardo sulle principali notizie settimanali dall’America Latina con una speciale lente d’ingrandimento sul Brasile.

Il terzo è un progetto comunicativo all’insegna della cultura, informazione e musica latinoamericana condotto da Gustavo Claros. Uno spazio che nasce nel seno di Radio Cooperativa e che in formato podcast può essere ascoltato sulla principali piattaforme on demand.

proiettili fatti di parole

I podcast stanno cambiando il volto della regione latinoamericana, democratizzando la produzione di contenuti audio e facilitando l’accesso all’informazione anche da parte di chi non gode di una permanente connessione internet. Il fatto poi che possano essere ascoltati in differita e non in un orario specifico li rende più fruibili e la loro diffusione su diverse piattaforme ne aumenta anche l’impatto. Si tratta dunque di un fenomeno che continuerà a crescere, promosso anche da enti statali che sono interessati a intercettare questa nuova frontiera della comunicazione.

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Il “nuovo” ordine mondiale e il gioco delle parti da Astana a Kyiv https://ogzero.org/il-gioco-delle-parti-e-il-nuovo-ordine-mondiale/ Sun, 27 Mar 2022 21:52:07 +0000 https://ogzero.org/?p=6901 Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 […]

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Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 spunti offerti da Eric Salerno e Sabrina Moles, che ci hanno rievocato le intuizioni messe in gioco in Astana e i 7 mari di Antonella De Biasi. Così “OGzero” nel momento dell’annuncio di un tavolo di pace imbandito a Istanbul comincia a credere che lo spirito di Astana non è sfumato del tutto e su questo dubbio ha cercato di ricostruire i cocci prodotti dall’esplosione del multilateralismo nei rapporti tra stati, dallo scardinamento di alleanze esili, dalla individuazione del momento in cui il Cremlino ha pensato che fosse più opportuno far saltare gli equilibri. Un istante che Antonella nel suo scritto, steso a ottobre, preconizzava individuando nella ignominiosa ritirata americana dall’Afghanistan il segnale della debolezza per cui era possibile azzardare il morso del serpente.

Salvo poi accorgerci che ciascuno ha tratto vantaggio o imponendo spese militari, o annettendosi nuovi territori rivieraschi, o soffiando su un nazionalismo sovranista, cancellando piani ecologisti e ridistribuendo energia con un maggior profitto per i produttori. Distribuito sciovinismo e testosterone in tutti i paesi del primo mondo.

Perciò a partire dalla chiosa del libro, proviamo con questo editoriale a mettere in fila gli eventi di queste ultime 5 settimane sulla scorta di quello che il volume di Antonella De Biasi aveva già individuati come potenziali snodi critici; andremo a trovare nel libro verifiche delle analisi prodotte a posteriori dagli equilibri scaturiti dalla “spezial operazy” di Putin, così da inserirla nell’annoso flusso geopolitico senza gli isterismi cavalcati dal profitto guerrafondaio. Infatti il volume si chiude con una frase emblematica: «Il gioco di Astana, seppur precario, in fondo è anche un gioco delle parti» e le dichiarazioni e le mosse diplomatiche di fine marzo seguono il canovaccio.


Il conflitto in corso è figlio della interpretazione data da una nazione come la Russia al periodo governato da una sorta di multilateralismo: se ne riconoscono i metodi inseguendo i gangli della dottrina Gerasimov (mai realmente scritta o teorizzata, ma resa evidente dalla prassi bellica russa), il cui scopo principale era quello di spezzare l’unilateralismo derivato dalla fine della Prima guerra fredda, in particolare: la soluzione cecena, da cui deriva la carriera del generale; Georgia e Crimea, rimaste senza risposta da parte delle altre potenze… ancora più palese l’uso strumentale del Donbass oggi, come 8 anni fa a suffragio della considerazione dei territori a est del Dnepr come giardino di casa.

Nel caso del conflitto in Nagorno-Karabakh gli armeni hanno pensato erroneamente che Mosca li avrebbe difesi “contro una minaccia turca e musulmana”, come sostiene il professore francese esperto di islam Olivier Roy. Così non è stato perché in fondo l’immagine di una Russia cristiana, ultimo argine all’islam di cui l’Armenia si sente avamposto, serve solo a intermittenza e sempre più raramente come topic/pedina intercambiabile per la personale partita a scacchi di Putin, per ristabilire la grandezza della Russia agli occhi degli occidentali e dei paesi rappresentati dalle economie emergenti. Alcune reazioni caute e sottotono lasciano pensare che Putin non solo fosse al corrente dell’offensiva azera ma che ne abbia addirittura discusso i limiti con il regime di Aliyev così da riprendere solo i territori che, secondo il diritto internazionale, sono azeri. L’estrema destra occidentale ha sempre visto la Russia di Putin, costruita a sua immagine e somiglianza negli ultimi vent’anni, come il baluardo dei valori cristiani minacciati dall’islam. Il Cremlino sfrutta quando servono queste simpatie da sempliciotti. L’obiettivo di Putin è riprendersi e controllare his back-yard.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 49)

Ma anche e soprattutto andava preso nella giusta considerazione l’interventismo in Siria. E in Libia: non si dimentichi il voto del 3 marzo all’Onu che ha visto la metà di paesi africani compromessi per armi, sicurezza e traffici con la Russia compattamente astenuti, in particolare allarmanti le astensioni dei paesi maghrebini fornitori di gas e con interessi – anche militari – intrecciati con il Sud dell’Europa; tutto questo dinamismo del Volga sullo scacchiere internazionale è un prodotto degli accordi di Astana, che è l’altro snodo diplomatico-pragmatico attraverso cui passa la strategia russa di questo periodo e che ha finora imposto i dossier al mondo.

Ma la preparazione alla guerra classica, dotandosi di armi sofisticate, da parte dell’Ucraina attraverso gli stessi meccanismi di alleanze e accordi ibridi con ciascuna potenza locale (e talvolta globale, ma cambiando ogni volta campo contrapposto) ha scombinato il disegno di Shoigu, Gerasimov e Putin. Questa si può considerare una conseguenza del fatto che la Nato si è risvegliata dal coma (indotto da Trump, sodale della deriva reazionaria putiniana mondiale) di cui parlava Macron, ma lo ha fatto predisponendosi a rispondere alla guerra che Bruxelles (e soprattutto Arlington e Langley) sapeva sarebbe stata scatenata: in che modo si preparava? armando gli ucraini con ogni ordigno convenzionale o meno, sia attraverso le armi in dotazione agli alleati europei (baltici in primis), sia con i droni turchi, che con alcune armi di fabbricazione israeliana – ma non tutte, come vedremo – e producendo una propaganda nazionalista identitaria per sollevare lo spirito bellico dell’Europa. Addirittura gli S-400 che furono motivo di sanzioni americane contro la Turchia potrebbero diventare paradossalmente strumenti di difesa per gli ucraini se Ankara si farà convincere a passarle a Zelensky, o le porrà sulla bilancia della trattativa: la tecnologia di cui sono dotate sicuramente è efficace contro le macchine belliche del cui impianto sono parte.

L’amministrazione Biden è ben consapevole che deve tenere la Turchia dentro l’asse Nato per impedire che passi nell’orbita russo-cinese. Così Erdoğan userà questo punto per ottenere vantaggi almeno nelle relazioni bilaterali. La questione critica più importante per gli Usa è il sistema missilistico S-400 che Erdoğan ha acquistato da Putin, non compatibile con quello Nato

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 84).

Si può dunque parlare di una proxy war combattuta in territorio europeo e con obiettivi gli interessi europei, che vede gli Usa defilati e non interventisti, ma guerrafondai e impegnati a far esporre l’UE, tagliando così tutti i ponti (e gli oleodotti) euro-russi che in particolare la Germania merkeliana (e di Schroeder) avevano costruito: doppio risultato per gli americani che vendono all’altra sponda atlantica il loro gas poco ambientalista, piazzando (o affittando a caro prezzo) anche le navi che trasportano i rigasificatori.

Ora che gli altri protagonisti in commedia hanno appreso come prendere le misure al sistema bellico ordito da Mosca dalla Cecenia in avanti, accettando una vera e propria guerra con migliaia di morti e smaltimento di magazzini di armi novecentesche; ora che si è dimostrata la marginalità della UE e la sua riduzione a mera potenza locale succube della Nato, mentre la Russia – pur non sfondando e rimettendoci in immagine guerresca e di efficienza militare, piangendo molti più morti e dissanguandosi in spese  – si prende tutte le coste del Mar Nero settentrionale e del mar d’Azov; ora rimane in piedi il modello di rapporti e accordi spartitori; scambi e traffici multilaterali che han funzionato per spartirsi territori di confine, operazioni militari e aree di riferimento tra potenze locali: quel sistema di accordi, che Antonella De Biasi ha correttamente descritto nel suo testo dedicato agli Accordi di Astana, e dove si possono rintracciare in nuce le dinamiche e gli equilibri che ora dopo la guerra spiccano nella narrazione della resistenza ucraina, trova una riproposizione nella fornitura di armi e nelle candidature alla composizione del conflitto da parte di potenze “locali”. Insomma: gli Accordi di Astana vedono trasformati gradualmente i ruoli dei singoli attori e la chiave che ne promana vede protagonisti Turchia (che ospita sia gli yacht degli oligarchi – magari sfuggiti al Novichok dell’Fsb –, sia le denunce dei dissidenti) e Israele (che accoglie ebrei russi e ebrei ucraini), nella totale assenza di strategia Usa/EU.

In fondo la prospettiva di incontri bilaterali russo-ucraini riferita da David Arakhamia, leader parlamentare ucraino e partecipante ai negoziati, previsti per il 28-30 marzo a Istanbul (e/o successivamente a Gerusalemme, probabilmente) con padrini gli equidistanti Turchia e Israele che stanno facendo avance l’un l’altro per ritessere reciproci rapporti diplomatici dopo l’incidente della Mavi Marmara evocato da Murat Cinar nel suo articolo, appare come i memoranda d’intesa stipulati durante il vuoto trumpiano riempito ad Astana, evocati da Antonella De Biasi:

Erdoğan e Putin per primi, e a seguire l’appena eletto Raisi, cercheranno di mantenere l’influenza guadagnata negli ultimi quattro anni della presidenza Trump facendo buon viso a cattivo gioco. Si sa che le alleanze non sono per sempre – anche e soprattutto tra leader autoritari e populisti –, ma ogni volta che ci sarà una crisi, e quindi anche un’occasione per aumentare l’influenza nello scacchiere internazionale, si farà sempre in tempo a scrivere inediti memorandum d’intesa e scegliere una nuova suggestiva località per sottoscriverli.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85)

 

E il terzo protagonista degli Accordi di Astana, l’Iran, che vi ha partecipato da potenza locale impegnata a mantenere la preminenza sulla mezzaluna sciita e con l’intento di contribuire alla marginalizzazione delle potenze europee, non ha avuto reazioni dopo la crisi afgana e non prende posizione in quella attuale: è apparso chiaro che la repubblica islamica viene tenuta in sospeso per il fatto proprio che a Putin serve l’appoggio di Bennett e quindi potrebbe far pesare un veto alla ripresa degli accordi Jcpoa, nel momento in cui pare che l’amministrazione Biden sarebbe invece disponibile a riprendere i negoziati sul nucleare iraniano, per focalizzarsi sull’indo-pacifico. Come per gli altri teatri delle guerre scatenate e composte ad Astana, il ruolo iraniano è stato in genere di supporto non attivo agli accordi: una sorta di notaio che assicura il proprio assenso in cambio della non intromissione nei propri affari.

Gilles Kepel su “Le Grand Continent” anticipando stralci del suo ultimo libro: «L’amministrazione Biden, il cui primo impulso diplomatico è consistito nel relativizzare il peso del Medio Oriente nella sua agenda politica estera a favore delle questioni cinesi e russe, e nel far prevalere nella regione la riattivazione del Jcpoa sull’antagonismo israelo-palestinese, le cui asperità si pensava fossero state cancellate dagli Accordi di Abramo, si trova così costretta a giocare dietro le quinte durante la guerra del maggio 2021», chiamata dal professore francese “la guerra degli undici giorni”. In questo nuovo caos con gli smottamenti nei paesi dell’area mediorientale, caucasica e mediterranea la Libia e quel che accadrà a cavallo del nuovo anno, determineranno i confini geopolitici degli attori di Astana, nello specifico la Turchia e la Russia.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85).

Applicazione di un modello

Qui infatti ritroviamo attivo come sempre il compare di Putin di tanti incontri ad Astana: Erdoğan ha mantenuto lo stesso atteggiamento ambiguo che lo ha contraddistinto in Siria, in Libia, in Nagorno-Karabakh – non a caso di nuovo gli azeri stanno sfruttando l’occasione che impedisce a Mosca di difendere l’alleato armeno – quando ha sostenuto in genere la parte avversa al fantoccio locale di Putin, salvo poi comporre ogni questione attraverso una spartizione de facto di territori, interessi, occupazioni. Anche in questo caso Erdoğan ha fornito a Zelensky armi e sostegno da appartenente alla Nato, ha mantenuto un ruolo ambiguo sui Dardanelli e sull’accesso al Mar Nero in relazione alla Convenzione di Montreux – e anche in questo caso la sottolineatura di Antonella De Biasi di p. 48 di Astana e i 7 mari, relativa all’appoggio russo ad abkhazi e agiari che solleva questioni ataviche in contrapposizione russi e turchi, sostenitori dell’etnia tatara, poneva già il problema di schieramenti – ma poi non aderisce a sanzioni ed embarghi… e questo consente ad Ankara di proseguire la diplomazia di Astana verso Mosca e di proporsi come mediatore, forse per la sua esperienza di occupazione del Rojava e strage di curdi. Ruolo che è in grado di svolgere l’altro campione di democrazia: Israele che da 55 anni occupa territorio palestinese e applica l’apartheid. Anche Israele compare 49 volte nel libro di Antonella De Biasi, pur non essendo tra gli ospiti di Astana, se non in veste di Convitato di Pietra: infatti Tel Aviv ha mantenuto un profilo basso, senza contrariare il Cremlino, sia per i milioni di russi e ucraini immigrati in Israele, sia per gli innumerevoli interessi che legano i due paesi; peraltro ha fornito qualche ordigno a Kyiv, senza consentire l’uso di Pegasus o di Blue Wolf, e tantomeno Iron Dome, sistema di difesa antiaerea richiesto dall’Ucraina fin dal 2019 (per dire da quanto si stavano preparando alla “sorprendente” aggressione russa). E soprattutto, come dice Eric Salerno: «Israele ha bisogno di alleati» e questo è reso ancora più evidente dall’accoglienza per gli Accordi di Abramo che ha stipulato prontamente con alcuni paesi arabi.

Israele e Turchia evidenziano il proseguimento sotto altre forme del multilateralismo sotto il cappello della crisi russo-ucraina: come ci ha detto Eric Salerno nella puntata di Transatlantica24 per quanto riguarda Tel Aviv – ma vale anche per Ankara, nonostante il disastro economico: se va in porto l’occupazione coloniale di tutte le zone in cui la Turchia è impegnata, il colonialismo predatorio può rimpinguare le casse. A entrambe il ruolo di potenze locali va stretto e sia nell’area interessata dalle operazioni belliche, sia nel resto dei 7 mari presi in considerazione nel volume dedicato da OGzero ad Astana, si propongono come interlocutori privilegiati, spesso in sostituzione degli interessi delle potenze coloniali europee classiche, assurgendo a un ruolo di potenze più ampia di quella locale mediterranea.

Il ridimensionamento del ruolo dell’Occidente nel panorama internazionale è determinato soprattutto dalla radicale contestazione del suo modello politico, economico e culturale attuata dalla Cina e in secondo luogo dalla Russia. Non è un caso che Cina e Russia siano tra i principali sostenitori di due organizzazioni multilaterali come i Brics e la Shangai Cooperation Organization (Sco). Di recente i due paesi hanno iniziato a collaborare per ridurre la loro dipendenza dal dollaro.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Dunque di nuovo le potenze asiatiche evidenziano la inadeguatezza della prosopopea dell’UE, che preferisce riarmarsi, dissanguandosi e riducendo a nulla il sistema welfare liberal-democratico, pur di rincorrere sul piano militare le altre potenze guerrafondaie e venditrici di tecnologie militari per sostenere le industrie belliche anche europee, ringalluzzite dalla guerra per procura al confine eurasiatico, evocativo di altre invasioni, ma che sembra preludere a un ridimensionamento tanto dell’Europa, quanto della Russia stessa, ridotti a belligeranti locali di una guerra a cui stanno alla finestra le due vere potenze globali, che preparano il confronto in ambito indo-pacifico. Gli Usa ottengono – dopo che da due amministrazioni lo richiedono – che tutti gli europei destinino il 2% del pil alla “sicurezza”, sgravando gli americani di parte della spesa militare; la Cina – come ci spiegava Sabrina Moles nell’incontro di Transatlantica24 – senza schierarsi, ma lanciando segnali di propensione per l’invasore, pur facendo attenzione a non confondersi con una potenza sull’orlo del fallimento come la Russia che ha il pil di una provincia cinese (il Guandong), può trarre vantaggi, se non si prolunga troppo la crisi e se non si propone come mediatrice, perché rischierebbe di venire degradata al rango di potenza intermedia come appunto Turchia e Israele. I mediatori nel gioco delle parti.

Dopo la normalizzazione delle relazioni sino-russe alla fine della Guerra Fredda, la Russia è emersa come un importante fornitore di armi e tecnologia per la Cina. Quella relazione era un’ancora di salvezza finanziaria per l’industria della difesa russa in un momento in cui gli ordini di approvvigionamento nazionali si erano prosciugati. Ma da allora le vendite russe alla Cina sono diminuite man mano che l’industria della difesa cinese è maturata «in misura significativa grazie al trasferimento di tecnologia e al furto dalla Russia», commentano Eugene Rumer e Richard Sokolski sul sito di Carnegie Endowment for international peace. La Cina ora compete con la Russia nei mercati delle armi. Attualmente le vendite di armi dalla Russia alla Cina rappresentano solo il 3% del commercio totale annuo dei due paesi, che supera i 100 miliardi di dollari. Con l’accesso alla tecnologia occidentale tagliato a causa delle sanzioni, l’industria della difesa russa ha guardato alla Cina come una fonte alternativa di innovazione che non ha la capacità di sviluppare a livello locale.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Può essere che il prossimo teatro di questo “Risiko per procura” torni in zona balcanico-caucasica (Nagorno Karabakh ed enclave etniche della Repubblika Srpska, oppure le tensioni panslavistein Bosnia); può darsi si inaspriscano le dispute che in Africa vedono impegnati militari turchi e miliziani della Wagner in contrasto – soprattutto in Françafrique – con gli eserciti coloniali classici; sicuramente Russia e Cina stanno collaborando assiduamente per spartirsi il Sudamerica, grazie alla distrazione di Biden che prosegue il disimpegno del suo predecessore.

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La guerra in Ucraina cambierà le scelte di Ankara? https://ogzero.org/la-posizione-di-ankara-nel-conflitto-russo-ucraino/ Fri, 18 Mar 2022 14:40:19 +0000 https://ogzero.org/?p=6806 Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di […]

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Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di accordi per spartire senza problemi le aree lasciate “libere” dal disimpegno dell’America trumpiana, dimostrando forse un inizio di affanno a svolgere il ruolo di grande potenza. Forse si può inquadrare la “spezial operazy” come una delle tappe delle spartizioni di Astana, che hanno visto diversamente impegnati gli eserciti e le milizie di Ankara e Mosca e quindi l’equidistanza  tra i contendenti da parte di Erdoğan fa il paio con l’interposizione di Putin in finale di conflitto in Nagorno Karabakh concluso a favore dell’Azerbaijan dai droni Bayraktar, protagonisti anche nel confronto bellico in Ucraina. L’equilibrio di Ankara, apparentemente sbilanciato a favore di Kiev (in chiave atlantista), ma attento a lasciare ampi spiragli di apertura a Mosca per proporsi come mediatore – forse per esperienza diretta nell’occupazione imperiale di territori limitrofi al proprio come il Rojava –, può ottenere riconoscimento internazionale, premiando l’ambiguità e la politica dei due forni di Erdoğan? Ed è vera competizione tra Israele e Turchia per ottenere il ruolo di paciere («proprio loro!?!», diranno curdi e palestinesi), o non è il gioco delle parti, per cui ognuno appare come campione valido per ciascuno dei due contendenti, perché tutti legati a filo doppio dallo scambio delle armi?

Vera rivalità tra Israele e Turchia per il ruolo di mediatore?

L’ossessione di OGzero per Astana arriva fin qui, lasciando spazio alle intuizioni di Murat Cinar…


Due paesi importanti per la Turchia sono in piena guerra; Ucraina e Russia. Dai droni ai pomodori, dalla centrale nucleare agli S-400, dal turismo al grano… e dal gas al riciclaggio di denaro. Per il governo centrale della Turchia, Mosca e Kiev sono due partner strategici con i quali ha consolidato dei rapporti economici, politici e militari in questi ultimi anni.
Ora invece questi due vicini stanno attraversando un forte conflitto armato tra loro. Dunque qual è stata, finora, la posizione di Ankara?

Le prime scelte

La politica della Turchia, dal 24 febbraio, quando la Russia ha iniziato a invadere l’Ucraina, mostra che rimarrà in armonia e coordinamento con l’occidente e la Nato, ma senza mettere in pericolo il suo legame con questi due paesi.

Atlantismo

La Turchia, che ha attuato la Convenzione di Montreux e ha impedito a più navi da guerra russe di accedere al Mar Nero, attraverso il mar di Marmara e gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo, afferma che non intende imporre sanzioni alla Russia e che farà del suo meglio per mantenere aperti i canali di dialogo con Mosca per la soluzione del problema, accolto con favore anche dall’Occidente.
Con le dichiarazioni rese il giorno dell’inizio dell’operazione, che la Russia definisce “operazione militare speciale”, la Turchia ha chiesto il rispetto dell’integrità territoriale e dell’unità politica dell’Ucraina e ha dichiarato di rifiutare l’attacco russo. La Turchia, che non ha riconosciuto l’invasione e l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014, ha rivelato che continuerà ad agire insieme all’opinione pubblica internazionale con questa posizione che ha assunto. La Turchia ha anche appoggiato il testo della risoluzione di condanna della Russia all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (Onu).

Oltre a condannare la Russia, la Turchia ha anche fornito all’Ucraina il massimo livello di sostegno. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky e i ministri degli Esteri e della Difesa turchi si sono incontrati spesso con le loro controparti ucraine e hanno discusso degli sviluppi riguardanti l’occupazione russa esprimendo il sostegno della Turchia alla sovranità dell’Ucraina.
L’uso efficace dei droni armati “made in Turkey”, Bayraktar venduti dalla Turchia, che negli ultimi anni ha approfondito la cooperazione con l’Ucraina nel campo dell’industria della difesa, ha reso ancora più importante il dialogo tra i ministri della Difesa dei due paesi. Le dichiarazioni delle autorità ucraine di voler acquistare più droni dalla Turchia si sono riflesse anche sulla stampa durante questo processo.

Droni autarchici turchi: l'esercito di Ankara si fornisce di ogni dettaglio tecnologico dall'industria nazionale per equipaggiare il proprio gioiello bellico: i sistemi aerei senza pilota

Bayraktar-TB2 Sịha, che fanno strame dei carri armati russi incolonnati.

Sin dall’inizio della guerra, la Turchia ha annunciato di aver iniziato a inviare aiuti umanitari in Ucraina. Con tutti questi passi, la Turchia ha dimostrato di sostenere l’Ucraina.

Caro amico Putin

Il presidente della Repubblica di Turchia, prima e dopo l’inizio dell’operazione, ha dichiarato: «Non rinunceremo alle nostre relazioni speciali né con l’Ucraina né con la Russia» e ha lanciato il messaggio che cercherà di mantenere una politica equilibrata anche se la crisi approfondisse.

Tuttavia, ciò non ha impedito ad Ankara di «invitare Mosca a interrompere l’operazione il prima possibile». Nelle loro dichiarazioni, il presidente Erdoğan e il ministro degli Esteri Mevlüt Çavuşoğlu hanno sottolineato che l’operazione militare ha messo in pericolo la sicurezza sia regionale che mondiale e che la Russia dovrebbe rinunciarvi il prima possibile. Nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa è stato anche affermato che Çavuşoğlu ha trasmesso direttamente questo richiamo al ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, con il quale aveva parlato al telefono.
La Turchia è stata anche tra i paesi che hanno criticato le minacce sventolate da Putin sull’eventuale utilizzo delle armi nucleari. İbrahim Kalın, il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, ha definito “sconcertante” il fatto che Mosca abbia messo sul tavolo la carta nucleare.

Con la Nato ma…

La dedizione della Turchia al patto transatlantico è molto discutibile da parecchi anni. Sia Trump sia Biden, diverse volte hanno criticato Ankara per le sue scelte militari e politiche in Siria e per le sue relazioni con la Russia. Mentre gli Usa sono arrivati anche alle sanzioni economiche e militari, con la Grecia e la Francia ci sono stati dei momenti di grande tensione e reciproche minacce in questi ultimi 2 anni.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Settembre 2020, dispute tra appartenenti alla Nato nel Mediterraneo orientale: Grecia e Francia contro Turchia.

Tuttavia dalla guerra in Libia fino al caso degli uiguri, dall’Afghanistan alla produzione militare joint venture con gli alleati, dall’occupazione russa in Crimea e ora con l’appoggio a Kiev, possiamo dire che la Turchia ha seguito molto fedelmente la linea politica, economica e militare della Nato.

… It’s the economy…

La guerra in Ucraina arriva in un momento molto importante per la Turchia; sia per le sue relazioni forti con Mosca sia per la devastante situazione economica e politica che Erdoğan deve affrontare a casa. Un governo ai minimi storici nei sondaggi (meno di 35%) un anno prima delle elezioni presidenziali e parlamentari, sia per il lavoro di grande successo che portano avanti i sindaci delle opposizioni eletti nelle grandi città nel 2019 sia per l’enorme corruzione sempre più conosciuta e evidente che rappresenta il governo e la famiglia del presidente della Repubblica. Ovviamente a questa situazione catastrofica politica bisognerà aggiungere anche la crisi economica senza precedenti. Un’inflazione che supera la soglia del 130%, una Lira che perde il suo valore ogni giorno davanti alle monete straniere, una povertà diffusa e terribile e un vuoto nel fisco che spinge Ankara a svendere qualsiasi cosa al capitale russo, cinese e mediorientale.

… l’intermediario

Insomma: le scelte discutibili, radicali e pericolose di Erdoğan, operate in questi ultimi anni per consolidare un rapporto forte con Putin, fanno paradossalmente sì che la Nato trovi in Ankara un alleato a cui attribuire un ruolo chiave in questo conflitto. Quello del mediatore. Dall’altro lato Erdoğan non vorrebbe assolutamente perdere l’occasione per fare una forte propaganda elettorale nella politica interna portando a casa prestigio, rispetto e forse anche un po’ di soldi, vista la situazione economica e elettorale devastante.

Mediazione

Infatti l’incontro importante ma non fruttifero, avvenuto ad Antalya in Turchia, tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e quello ucraino Kubela il 10 marzo è una delle dimostrazioni del fatto che il governo centrale vorrebbe lavorare come mediatore in questo conflitto, molto probabilmente per portare a casa un paio di carte vincenti. L’impegno apprezzato sia da Zelensky sia da Putin ha ricevuto anche gli applausi dal segretario generale della Nato, Stoltenberg che ha espresso la sua gratitudine direttamente al presidente della repubblica di Turchia quando l’ha incontrato durante la sua visita ad Ankara l’11 marzo.
Inoltre, la Turchia si era astenuta, il 26 febbraio, dal votare contro la sospensione della Russia nel Consiglio d’Europa, sulla base del fatto che «una completa interruzione del dialogo e la demolizione dei ponti non sarebbe vantaggiosa». Il ministro Çavuşoğlu ha dichiarato: «Non dovremmo concordare sull’interruzione del dialogo. C’è qualche vantaggio per il Consiglio d’Europa nel rompere i legami con la Russia qui? No. Ecco perché ci siamo astenuti nella votazione. Perché questo comporterebbe la chiusura del dialogo». Tuttavia il 17 marzo, durante una riunione straordinaria: «Il Comitato dei Ministri ha deciso, nel quadro della procedura avviata in virtù dell’articolo 8 dello Statuto del Consiglio d’Europa, che la Federazione russa cessa di essere membro del Consiglio d’Europa a partire da oggi, 26 anni dopo la sua adesione».

La diplomazia di Twitter e le telefonate private

Ankara, sin dall’inizio della guerra, ha mantenuto l’opinione secondo la quale tenere aperti i canali di dialogo con Mosca avrà un impatto positivo sul processo negoziale avviato tra funzionari russi e ucraini. Il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, İbrahim Kalın, in una dichiarazione alla stampa turca, ha affermato che la Turchia segue da vicino il processo negoziale tra le parti in guerra e trasmette i suoi suggerimenti alla Russia, soprattutto grazie al dialogo in corso.
A tutti questi passi e dichiarazioni ovviamente dovremmo aggiungere il continuo traffico di telefonate tra Ankara, Mosca e Kiev e i ringraziamenti di Zelensky direttamente verso Erdoğan comunicati ripetutamente su Twitter, per il suo sostegno

Importanti relazioni sia con Kiev sia con Mosca

In un’intervista rilasciata alla Cnn International, İbrahim Kalın ha dichiarato di non volere che i loro forti legami economici con Mosca, inclusi settori come l’energia, il turismo e l’agricoltura, siano danneggiati, e ha sottolineato che credono nei vantaggio provenienti da una condizione di dialogo alternativa all’imposizione di sanzioni.

La Turchia, che l’anno scorso ha ospitato circa 5 milioni di turisti russi (e 2 milioni di ucraini), ha preferito non assecondare i paesi occidentali che hanno chiuso il loro spazio aereo.

La Russia è il più grande fornitore di gas naturale della Turchia e sta anche costruendo la prima centrale nucleare del paese. I primi reattori dovrebbero essere messi in servizio nel 2023. Il volume degli scambi tra Turchia e Russia supera i 20 miliardi di dollari. I due paesi puntano ad aumentare questa cifra a 100 miliardi di dollari.

Questo rapporto commerciale in crescita vale anche per l’Ucraina. Secondo la Camera di Commercio di Istanbul (Ito) nel 2021 il volume commerciale superava i 7,4 miliardi di dollari Usa e nel 2022 l’obiettivo è raggiungere i 10. Solo nell’ultimo incontro avvenuto il 3 febbraio sono stati firmati ben 8 accordi commerciali tra Erdoğan e Zelensky. La collaborazione tra questi due paesi è in forte crescita anche nel campo militare.

Mediatori sì ma non da soli

La crisi energetica, l’interruzione dei rapporti commerciali, degli investimenti finanziari e del gigantesco riciclaggio di soldi nelle banche europee e in collaborazione con le mafie europee e la minaccia sulla sicurezza cibernetica sono solo alcuni punti che necessitano un piano B nel caso in cui le cose si mettessero molto male a lungo termine con Mosca. Dunque a questo punto insieme ad Ankara subentrano nel gioco due altri attori insospettabili: Grecia e Israele.
La Turchia, ultimamente, sembra che stia ricucendo i suoi rapporti con questi due “alleati”/vicini.

Israele, una volta “razzista” e ”terrorista” per Erdoğan

Infatti non è un caso che il presidente della Repubblica d’Israele, Isaac Herzog, abbia visitato la Turchia, incontrando il suo omologo turco il 9 di marzo. Una visita che era stata già organizzata ma ovviamente ha assunto un’importanza particolare in questo periodo esattamente come il contenuto delle dichiarazioni finali.

«Sia l’inizio di una nuova fase nelle relazioni tra questi due paesi. Dobbiamo rafforzare i nostri obiettivi commerciali soprattutto nel campo dell’energia»: erano alcune parole pronunciate da Erdoğan alla fine dell’incontro. Herzog invece ha voluto parlare anche della convivenza dei popoli, la pace tra le religioni e ha pure citato una poesia di Hikmet.

Secondo il conduttore televisivo israeliano, Mohammad Micedle, questi due paesi hanno obiettivi in comune in Siria e in Ucraina. Quindi devono lavorare insieme. Invece secondo, Jonathan Freeman, uno dei professori dell’Università di Gerusalemme il ruolo di questi due paesi acquisisce un valore aggiunto derivante dalla guerra in Ucraina soprattutto nell’ambito della sicurezza, dell’energia e dal punto di vista economico.

«Grecia e Cipro avranno le risposte che meritano» (Erdoğan, 14 ottobre 2020)

Lo stesso tipo di visita a Istanbul è stato effettuato il 13 di marzo anche dal primo ministro greco Kyriakos Mītsotakīs con Erdoğan.

L’incontro si è concluso con una serie di buoni intenti e progetti legati al «nuovo piano di sicurezza in Europa alla luce della guerra in Ucraina, lotta contro l’immigrazione irregolare e rafforzamento dei rapporti commerciali».

Una nuova fase, una nuova era positiva e felice meno di 2 anni dopo quel famoso momento di crisi registrato nelle acque dell’Egeo che portava quasi alla guerra questi due vicini storici; come l’incontro tra Erdoğan e Herzog mette la parola fine ai dissapori sorti nel maggio 2010 con la vicenda della Freedom Flotilla e l’assalto alla Mavi Marmara, nave turca assaltata dai servizi israeliani che causarono la morte di 9 marinai turchi.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Assalto del Mossad alla nave turca Mavi Marmara in rotta verso Gaza nel maggio 2010: causarono 9 morti tra l’equipaggio e il pretesto al presidente turco per ergersi a paladino della causa palestinese.

Oligarchi e oppositori già in Turchia

Approfittare della fuga dei capitali dai paesi in conflitto e isolati è una scelta ormai molto diffusa in diversi angoli del mondo. Esattamente come quello di aprire le porte agli oppositori che a lungo andare potrebbero rappresentare una “carta” politica importante nei confronti dell’alleato di oggi. La Turchia ha fatto queste mosse ospitando quell’enorme quantità di denaro dello stato libico e di quello venezuelano nei momenti di grande crisi economica, politica e militare. Questa scelta fatta da Tripoli e Caracas comporta fedeltà e collaborazione e per Ankara la parziale disponibilità di questi due paesi rappresenta anche un elemento di forza nei confronti dei suoi alleati. In merito alla presenza degli oppositori invece possiamo citare il caso degli uiguri in fuga dallo Xinjiang e dei tatari scappati dalla Crimea in due tempi diversi in questi ultimi anni, rendendo così la Turchia rifugio degli oppositori e degli oppressi per quegli attivisti che rappresentano “minaccia e problema” per gli alleati Cina e Russia.

La storica attrazione per Istanbul

Secondo il professore universitario, Aydin Sezer, la vicinanza geografica della Turchia fa sì che per chi volesse portare via il suo capitale dalla Russia la rende più accessibile e attraente rispetto alla Cina e ai paesi del Golfo. Nel suo intervento fatto in diretta il 7 marzo, organizzato dal portale di notizie “Gazete Duvar, Sezer sostiene che numerose aziende russe stanno già avviando operazioni di acquisto dei beni di lusso, immobili costosi e vari investimenti finanziari a Istanbul. La stessa notizia è stata approfondita il 15 marzo in un articolo di Nuran Erkul Kaya ed Emre Gurkan Abay anche sul sito dell’agenzia di stato “Anadolou Ajansi” e un’esaustiva carrellata di patrimoni investiti in Turchia da parte di oligarchi russi molto vicini a Putin è stata redatta da su “medyascope”.
In una notizia firmata da “Euronews”, il 15 marzo, invece si parlava di quelle migliaia di “benestanti” russi che hanno deciso di lasciare la Russia per via della loro opposizione contro la guerra ma anche perché pensano che una catastrofe economica sia in arrivo. Lo stesso argomento era stato reso pubblico il giorno prima anche da “The New York Times”. In questo articolo, firmato da Anton Troianovski e Patrick Kingsley, si citavano i principali paesi di destinazione come Armenia, Georgia, Uzbekistan, Kirghizistan e Kazakistan ma anche la Turchia. Perché?

Profughi russi a Istanbul

Un turco trasporta nella neve stambulina materassi comprati da organizzazioni umanitarie per aiutare profughi russi contrari alla guerra e timorosi della catastrofe economica russa.

I motivi sono parecchi. Per esempio, nonostante il fatto che i paesi europei abbiano chiuso i loro spazi aerei agli aerei russi, la Turchia non l’ha fatto e questa scelta rende Istanbul una delle alternative per i russi che vogliono lasciare il paese. Solo la Turkish Airlines continua a organizzare 5 voli al giorno per Mosca e, insieme ad altre compagnie, questo numero supera i 30 in alcuni giorni. Kirill Nabutov, un commentatore sportivo di 64 anni fuggito a Istanbul, nell’intervista rilasciata al quotidiano statunitense afferma che la storia si ripete. Anche la cugina della madre di Nabutov fuggì a Istanbul nel 1920 e da lì andò in Tunisia. Anche se non grande come gli ucraini, questa fuga ricorda quelle 100.000 persone in fuga dalla guerra civile negli anni Venti, dopo la rivoluzione bolscevica, rifugiate a Istanbul.

Politica interna appesa ai colpacci internazionali

Il ruolo della Turchia, da diversi punti di vista, possiede un peso importante in questa fase storica che sta attraversando prima di tutti l’Ucraina poi il resto del mondo. Questo ruolo senz’altro è dovuto alle relazioni che Ankara ha costruito in questi ultimi anni, quelle relazioni basate sul reciproco sfruttamento, esattamente come diversi leader mondiali fanno da tempo. A questo fattore sarebbe opportuno aggiungere anche la crisi diplomatica, economica, energetica e politica in cui si trovano alcuni alleati della Turchia. Come abbiamo visto nell’esperienza della “gestione dei migranti” e nei conflitti armati in Libia e Azerbaigian/Armenia, dove l’incapacità oppure l’indifferenza dell’Unione europea e della Nato subalterna, Ankara approfitta dell’occasione. Infine la situazione economica e politica, devastante, in cui si trova il governo di Erdoğan deve fare qualcosa. Un leader che ha sempre fatto alimentare la politica interna con quella estera non può perdere quest’occasione sperando di perdere a casa qualche vittoria. Ce la farà? Questo dipende anche dagli alleati e dai partner della Turchia.

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n. 18 – Tra monti e boschi alpini. La frontiera che uccide (I) https://ogzero.org/la-frontiera-che-uccide-tra-monti-e-boschi-alpini/ Wed, 16 Mar 2022 12:40:27 +0000 https://ogzero.org/?p=6761 Movimenti secondari dei flussi migratori si riscontrano, oltre che tra Francia e Inghilterra, anche in prossimità dei confini italo-francesi, più specificatamente in Alta Val di Susa e a Ventimiglia. Nella frontiera Nordovest dell’Italia con la Francia si registra un’importante corrente migratoria che ogni anno nell’ultimo triennio ha visto il transito di circa 100.000 persone e […]

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Movimenti secondari dei flussi migratori si riscontrano, oltre che tra Francia e Inghilterra, anche in prossimità dei confini italo-francesi, più specificatamente in Alta Val di Susa e a Ventimiglia. Nella frontiera Nordovest dell’Italia con la Francia si registra un’importante corrente migratoria che ogni anno nell’ultimo triennio ha visto il transito di circa 100.000 persone e che si intensifica proprio in questo periodo dell’anno quando le temperature cominciano a essere meno rigide. All’atmosfera turistica incantata di chi ama sciare si sostituisce a partire dal tardo pomeriggio e per tutta la notte, la contrapposta quotidiana sofferenza e la fatica di migliaia di migranti – soprattutto famiglie – che percorrono gli stessi luoghi a piedi, sfiancati da temperature che in inverno toccano circa i 15 gradi sotto lo zero; privi d’equipaggiamento da montagna con abiti logori e indossati da giorni se non da mesi. Fabiana Triburgo e Matthias Canapini uniscono le loro competenze e i loro materiali in questo articolo, corredato dalle testimonianze raccolte da Matthias nella sua esperienza lungo il confine italo-francese.


 The Milky Way, per pochi

È il tentativo disperato di chi prova a raggiungere la Francia attraverso le località sciistiche italiane per evitare di essere intercettato e rimandato indietro dalla polizia italiana e francese. I due stati infatti, anche in questo caso – come già visto nei precedenti articoli riguardanti le attuali rotte migratorie – nel 1997 hanno siglato un importante accordo di cooperazione bilaterale, l’accordo di Chambery, sul quale ci soffermeremo in seguito, al fine di agevolare le riammissioni dalla Francia all’Italia. I migranti che attraversano tale rotta sono prevalentemente afgani, iraniani, pachistani e in piccola percentuale migranti provenienti dall’Africa subsahariana e arrivano, nella quasi totalità dei casi, dalla rotta balcanica: questo vuol dire che prima di raggiungere l’Alta Val di Susa i migranti possono aver attraversato circa otto diverse nazioni quasi esclusivamente a piedi.


Luigi D’Alife, regista di The Milky Way, lavoro che documenta e racconta
il passaggio della rotta migrante dalla Valsusa; Luigi ha fornito preziose
informazioni per l’estensione di questo saggio.

Spesso gli stessi nuclei familiari dei profughi si sono generati durante il transito di tali paesi essendo il loro precedente viaggio durato – nella migliore dell’ipotesi – almeno quattro anni, come narrano le testimonianze e le immagini del freelance Matthias Canapini che pubblichiamo in questo articolo.

Il principale snodo della cosiddetta “rotta alpina” si individua nella città di Oulx in provincia di Torino – raggiunta dai migranti per lo più con il treno – dalla quale poi si sviluppa un ulteriore bivio di transito per raggiungere la città francese di Briançon dalla quale dista circa 30 km. I profughi, infatti, dalla città di Oulx si dirigono a piedi o verso Bardonecchia, per poi attraversare il traforo del Frejus con filobus o con il treno – soprattutto quanti possiedono documenti di riconoscimento – oppure si dirigono verso Claviere sempre in provincia di Torino, a oggi il tratto maggiormente praticato dai migranti su tale rotta – per poi attraversare il Colle del Monginevro. Se dunque la destinazione di entrambi i percorsi è la città di Briançon è altrettanto vero che anche questa non è altro che una prima tappa, pur se finalmente in territorio francese, per raggiungere principalmente Lione o Calais con l’obiettivo rispetto a quest’ultima (come già riscontrato) di raggiungere la Gran Bretagna.

La casa cantoniera occupata e sgomberata più volte dagli sbirri italiani

Chez JesOulx era la casa cantoniera occupata (e poi sgomberata) dopo che l’accoglienza del rifugio autogestito era stata scacciata dai locali della curia occupata nel comune di Oulx

Va specificato che solo una parte dei migranti che transitano per Oulx ha come fine ultimo quello di stabilirsi in Francia perché nella maggior parte dei casi la meta finale è la Germania nella quale vivono stabilmente molti dei familiari dei profughi da diversi anni.

Il Colle dell’Agnello

Non è tuttavia da ignorare un altro percorso quello del Colle dell’Agnello, poco battuto per la sua elevata impraticabilità, ma in prossimità del quale le intercettazioni da parte della polizia francese, data proprio l’ostilità del territorio, sono molto sporadiche. La rotta nasce ufficialmente nel 2017, due anni dopo quella, sempre al confine italo-francese, che interessa la città di Ventimiglia. In realtà già nel 2016 alcuni migranti erano stati intercettati in prossimità del monte Chaberton in Francia e scambiati per turisti. Se dunque la rotta si delinea nel 2017 e nel 2018 raggiunge il suo apice – quando si “apre” la rotta balcanica e anche attraverso Trieste si arriva in Italia – in essa è altrettanto importante delineare una rilevante mutazione del suo originario tratto di percorrenza che a oggi non segue più l’originario pericoloso percorso di montagna del Colle della Scala (in prossimità della città di Bardonecchia) – in quanto soggetto a slavine e interamente  in salita – ma, come già detto, quello del Colle del Monginevro.

Rifugi e marauders

Nella rotta vi sono a ogni modo due importanti centri di accoglienza per i migranti in transito: nella città di Oulx il rifugio Fraternità Massi – Talita’ Kum aperto dalle 16 alle 10 del mattino con a disposizione circa 40 posti, e a Briançon, il Refuge Solidaire, rispetto al quale più volte è stato richiesto dalla municipalità lo sgombero. Invece è chiusa la casa cantoniera abbandonata e autogestita da volontari sempre nella città di Oulx che ospitava dai 30 agli 80 profughi al giorno e che da settembre a dicembre del 2020 ha accolto 3500 persone. Interessante capire come sia nato il Refuge Solidaire essendo il presente articolo immediatamente successivo a quello relativo alla rotta della Manica. I primi interventi di accoglienza dei migranti a Briançon sono infatti stati attivati nel 2015 proprio per i migranti di Calais quando il governo francese chiese alle altre città del paese di farsi carico della accoglienza in seguito allo smantellamento della Jungle. A Briançon quindi fino al 2017 stazionavano pochi profughi provenienti da Calais ma nello stesso anno con lo strutturarsi della rotta alpina nasce il Refuge Solidaire grazie anche all’intervento di Médicins du Monde che ancora oggi opera in loco insieme ad altre associazioni tra cui Rainbow for Africa. L’attività che si affianca all’accoglienza del Refuge Solidaire e che non può essere ignorata è quella svolta dai marauders: circa 200 volontari provenienti da tutta Europa che quotidianamente si occupano di prestare soccorso ai migranti che si perdono nei sentieri in montagna o riportano ferite gravi agli arti in seguito a cadute dovute al territorio impervio e che chiaramente non consentono loro di proseguire il viaggio rimanendo intrappolati nella rotta. Spesso i marauders, agevolando il transito dei migranti e soccorrendoli, sono sottoposti a comportamenti vessatori subendo multe, accuse e convocazioni a comparire davanti alle autorità francesi.

la frontiera che uccide

Claviere, protesta per Blessing, la giovane donna scomparsa dal 7 maggio nelle acque del fiume (foto Matthias Canapini).

Occorre, inoltre segnalare il lavoro della rete del progetto Cafi “Coordination d’actions aux frontièrs intérieures”, del quale fa parte anche Amnesty International e Médecin Sans Frontieres che da diversi anni svolge attività di osservatorio quotidiano permanente sul rispetto dei diritti dei migranti alle frontiere interne all’Unione in questo caso specifico in prossimità degli snodi Oulx-Monginevro-Briançon.

Accordi Italia-Francia

Tale attività risulta particolarmente importante perché documenta i respingimenti ossia il “Refus d’entrée” che viene notificato ai profughi dalla polizia francese (Paf) alla frontiera, sotto la direzione del ministero degli Interni. Risulta necessario quindi procedere all’analisi giuridica relativa ai motivi che sottendono alla cooperazione delle forze di polizia dei due paesi alla frontiera, alla militarizzazione della frontiera francese e alla sospensione dell’applicazione di alcuni articoli del Codice frontiere Shenghen – ossia del regolamento 2016/399 da parte della Francia. Come già accennato l’Italia e la Francia il 3 ottobre del 1997 hanno concluso l’Accordo bilaterale di Chambery, al fine di intensificare la cooperazione degli uffici di polizia e di dogana nelle rispettive zone di frontiera, garantendo comunque la libertà di circolazione sancita dal Codice Shengen ma non certamente per i cittadini dei paesi terzi anche nelle ipotesi in cui siano dotati di documenti.

Tale principio invece – è bene ricordarlo – ha valenza tanto per i cittadini europei che per i cittadini di paesi terzi dell’Unione ma comunque presenti sul territorio europeo.

Conformemente a tale intento sia da parte italiana che da quella francese sono stati costituiti dei Centri comuni di Cooperazione di polizia di frontiera e di dogana che realizzano la propria attività di diretta collaborazione mediante appositi uffici dislocati in prossimità dei luoghi di frontiera tra i due paesi e all’interno dei quali può essere chiesto da ciascuno dei due stati contraenti, l’ausilio delle forze di polizia dell’altro paese sul proprio territorio. È importante fin da subito precisare che la creazione di tali Centri di Cooperazione è prevista nel testo dell’accordo in due luoghi specifici: nella città di Ventimiglia e nella città francese di Modane vicina allo snodo migratorio proveniente da Bardonecchia.

Migranti risalgono i boschi al confine tra Francia e Italia (foto Matthias Canapini)

Uno dei punti maggiormente preoccupante del presente accordo è quello “nascosto” in modo subdolo nella lettera a) dell’art. 8

ossia che nei Centri di Cooperazione gli agenti di polizia di entrambi i paesi si impegnano «al compimento degli atti precari e alla consegna delle persone in situazione irregolare nel rispetto degli accordi vigenti». È evidente infatti come in questo passaggio si possa scorgere il “fondamento giuridico” (?!) sulla base del quale i due stati realizzano le cosiddette riammissioni con respingimenti dei migranti dalla Francia all’Italia che come noto si determinano a catena fino al confinamento dei migranti in stati terzi dell’Unione. Come al solito dietro l’enunciato «situazione irregolare» si è consapevoli che si nasconda la posizione dei richiedenti asilo che sono irregolari per definizione dovendo essere messi nella condizione – in base alle Convenzioni Internazionali come quella di Ginevra – di poter fare ingresso nel paese di destinazione per formalizzare la domanda di protezione internazionale mediante la quale quindi possono eventualmente ottenere un permesso che sancirebbe la propria regolarità di soggiorno, in questo caso uno stato membro dell’Unione. Come evidente, tale accordo riproduce quello che già è stato analizzato per l’accordo di cooperazione franco-britannico di Le Touquet in relazione alla rotta della Manica: anche in questo caso infatti si sancisce che la vigenza dell’accordo debba considerarsi a tempo indeterminato.

Controllo e sicurezza (!?)

L’art. 10 dell’Accordo di Chambery inoltre specifica che per la Repubblica Italiana sono considerate zone di frontiera le province di Aosta, Cuneo, Imperia e Torino mentre per la Repubblica francese le Alpi Marittime, dell’Alta Provenza, le Alpi Alte, quella della Savoia e dell’Alta Savoia. Ciò che è altrettanto destabilizzante è il binomio continuo nel testo tra le frasi “controllo delle frontiere” da parte delle due forze di Polizia e il termine “sicurezza”, come al solito. Non solo, nell’art. 8 lettera c) dell’Accordo di Chambery si fa puntualmente riferimento al «coordinamento delle misure congiunte di sorveglianza nelle rispettive zone di frontiera»: un enunciato che inevitabilmente si pone in contrasto con il Codice delle frontiere Shengen.

la frontiera che uccide

Claviere, posto di controllo della polizia italiana (foto Matthias Canapini).

Le frontiere interne infatti sono disciplinate al Titolo III – Capitolo I del Codice Shengen che secondo l’art. 22 «possono essere attraversate in qualsiasi punto senza che sia effettuata una verifica di frontiera sulle persone indipendentemente dalla loro nazionalità». Infatti, l’esercizio dei poteri di polizia da parte delle autorità competenti degli stati membri non viene considerato equivalente all’esercizio dei controlli di frontiera, solo ad alcune condizioni in particolare per esempio se «sono concepiti ed eseguiti in modo chiaramente distinto dai controlli sistematici sulle persone alle frontiere esterne» secondo l’art. 23 (iii). Nello specifico la reintroduzione temporanea del controllo di frontiera alle frontiere interne è disciplinata dagli artt. 25-35 contenuti nel Titolo III, Capitolo II del Codice Shengen. La Francia dal 2015 si è appellata alle «gravi minacce alla sicurezza interna» – citate nell’art. 25 – che hanno consentito il ripristino temporaneo dei controlli alle frontiere interne, dopo l’attentato terroristico al Bataclan nel 2015, e in seguito nel 2017 per lo choc di quello sulla Promenade des Anglais di Nizza e da ultimo per la diffusione del virus da Covid-19. Tuttavia, il Codice Shengen sancisce chiaramente all’art. 25, paragrafi 1, 2, 3, 4 che i controlli relativi alla libertà di movimento delle persone all’interno del territorio dell’Unione, debbano essere considerati un’extrema ratio ossia aventi caratteri di eccezionalità e pertanto devono essere attuati per un periodo iniziale di trenta giorni o della durata della minaccia, rinnovabile – «tenuto conto di eventuali novità» – per periodi di ulteriori 30 giorni ma per un periodo complessivo non superiore ai 6 mesi. Solo in circostanze di eccezionale gravità caratterizzate da una procedura specifica di cui all’art. 29 del Codice Shengen il ripristino dei controlli alle frontiere può arrivare a due anni. Tuttavia, come detto, la Francia ha ripristinato il controllo alle frontiere interne in particolare per quel che ci riguarda al confine italo-francese, da oltre 6 anni! È bene ricordare inoltre che l’adozione da parte di uno stato membro del ripristino del controllo alle frontiere interne debba essere notificato ai sensi dell’art. 27 del Codice Shengen agli altri stati membri e alla Commissione UE.

Tuttavia, come noto anche per altre questioni in ambito migratorio non solo le cattive prassi adottate superano le disposizioni legislative europee (e i trattati internazionali) senza che vi sia alcun richiamo di un organo istituzionale ufficiale dell’Unione al rispetto delle medesime, ma costituiscono addirittura “fonte di ispirazione” per nuove proposte di legislazione europea da parte della Commissione che hanno come obiettivo quello di rendere legittimo ciò che oggi è ancora illegittimo in modo da potere aggirare gli ostacoli dei ricorsi giurisdizionali dinanzi alle corti competenti.

Tutto ciò purtroppo è già realtà, considerato non solo il più volte citato nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, ma anche lo stesso Codice Shengen, dato che a dicembre del 2021 la Commissione Europea ha presentato una proposta di riforma del medesimo, adeguandosi alle pratiche illegittime (e se possibile, anche peggiorandole) adottate dagli stati membri per contrastare i flussi migratori attraverso i controlli ai confini.

la frontiera che uccide

«La frontiera uccide» (foto Matthias Canapini).

L’appello per la modifica delle politiche migratorie

Dell’analisi di tale proposta di riforma ci si soffermerà nel successivo articolo sulla rotta migratoria al confine italo-francese con la città di Ventimiglia; tuttavia va precisato che il fine di tali analisi giuridiche è soprattutto quello di non dimenticare le tragiche morti riportate anche su questa rotta come quella di Ullah Rezwan Sheyzad un ragazzo afghano di 15 anni trovato morto nei pressi dei binari della ferrovia di Oulx nel giugno del 2021 e di Fathallah Balafhail  un marocchino di 31 anni trovato senza vita non lontano da Modane, entrambi mentre tentavano di raggiungere Briançon.  La speranza è che la cieca politica della Commissione e degli stati membri non sia più complice di tali accadimenti: è necessario pertanto ribadire l’appello di diverse associazioni tra le quali AsgiMédicins du MondeDiaconia Valdese e Melting Pot Europa rivolto alle autorità italiane e francesi per la modifica delle politiche relative alla gestione delle frontiere interne e alle autorità locali dei due paesi affinché rispondano alle esigenze e ai bisogni dei migranti che transitano lungo i loro confini.

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Ma in Russia… a che punto è la notte? https://ogzero.org/la-crisi-economica-in-russia-a-che-punto-e-la-notte/ Fri, 11 Mar 2022 17:07:54 +0000 https://ogzero.org/?p=6723 La crisi economica in Russia abbraccia nella stretta mortifera delle sanzioni la popolazione e le aziende che finora hanno investito nel paese. Mosca studia mosse difensive che non sono contro-sanzioni e il rublo si svaluta sempre più. Il cauto alleato cinese pensa agli affari e molti attori economici di tutto il mondo si ritirano dalla […]

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La crisi economica in Russia abbraccia nella stretta mortifera delle sanzioni la popolazione e le aziende che finora hanno investito nel paese. Mosca studia mosse difensive che non sono contro-sanzioni e il rublo si svaluta sempre più. Il cauto alleato cinese pensa agli affari e molti attori economici di tutto il mondo si ritirano dalla piazza russa. Migliaia di posti di lavoro in fumo, esportazioni bloccate verso i paesi non amici, soldati di leva spediti al fronte e fatti prigionieri non ammansiscono certo l’opinione pubblica che – vedendo lo spettro di un ritorno all’era sovietica – non segue il suo presidente, nonostante il bombardamento propagandistico dei media. Ma esiste un piano B?

[fin qui OGzero…  Ora Yurii Colombo prosegue fornendo una analisi della situazione economica russa in questo tempo] 


Import-export: le contro-sanzioni?

Non è ancora panico ma ora i russi sono davvero preoccupati. La messe delle sanzioni occidentali, come ha dovuto riconoscere lo stesso portavoce di Putin Dmitry Peskov, sono veramente pesanti e rischiano di essere un colpo di maglio insostenibile per l’economia del paese. «Ora bisogna agire e in fretta», ha detto Peskov anche se per ora le decisioni assunte dalla presidenza e dal gabinetto russo appaiono poco chiare e incerte. Il governo ha definito una lista di beni temporaneamente vietati per l’esportazione dalla Russia per tutto il 2022. Un totale di 200 articoli tra cui attrezzature tecnologiche, apparecchiature per telecomunicazione, attrezzature mediche, veicoli di qualsiasi tipo, attrezzature agricole, attrezzature elettriche. A ben vedere si tratta di una mossa difensiva e non di contro-sanzioni. Di queste si è parlato dei primi giorni della spez operazy (in Russia il termine più prosaico per definire ciò che succede in Ucraina è vietato e può costare fino a 15 anni di reclusione a chi lo usa) ma poi è stato deciso di derubricare visto che perlopiù avrebbero un effetto boomerang. Del resto, è vero, si potrebbe vietare l’importazione di vino italiano o gin, ma questi beni a breve avranno dei prezzi tali che i russi stessi li toglieranno dalle loro tavole senza dover essere soggetti a imposizioni dall’alto. In realtà resta poco chiaro in quale direzione voglia spingere Putin dopo aver limitato a 5000 dollari i versamenti all’estero di valuta pregiata.

Cambio, insolvenza e titoli di stato: lo spettro del default

Da quando dai bancomat sono spariti dollari ed euro (il loro cambio è tassato al 30% per tentare di frenarne l’ascesa) si fanno ora lunghe file – prima e dopo il lavoro – per ritirare anche rubli. Non certo per tesaurizzarli ma per acquistare immediatamente soprattutto beni durevoli. Giovedì l’agenzia di statistica ufficiale Rosstat ha confermato un tasso d’inflazione settimanale del 2,2%, che in linea di tendenza sarebbe intorno al 100% annuo, ma nessuno sa quali saranno gli effetti delle sanzioni tra 3 o 6 mesi.

Le pagine di internet e dei blog in lingua russa sono piene di titoli sulla possibile insolvenza russa, il che rende nervosi i possessori di titoli di stato e spaventa la gente comune sopravvissuta al crack del 1998 che non vorrebbe ripetere l’esperienza di vedere andare in fumo i propri risparmi da un giorno dall’altro.

Secondo Morgan Stanley si può prevedere il default già il 15 aprile, data in cui terminerà il periodo di grazia di 30 giorni dalla scadenza degli eurobond russi per un valore di 117 milioni di dollari. Certo non pagare più i paesi ormai considerati “non amici” attira il Cremlino. Tecnicamente come spiega il canale Telegram moscovita “L’ufficio dell’investitore”, «il ministero delle Finanze onorerà gli obblighi di pagamento, ma a causa delle restrizioni imposte, la Banca Centrale russa non trasferirà le cedole dovute ai detentori stranieri dei titoli». Ma anche questa variabile appare poco potabile. I creditori della Russia e dei paesi che non hanno aderito alle sanzioni non sono interessati da questo “regolamento di conti” politico. Tanto è vero che i produttori cinesi di tecnologia di consumo come Huawei e Xiaomi si sono autoridotti le esportazioni di telefonini e Pc del 60% in Russia temendo di non essere più pagati dagli importatori o rischiare di ricevere sui conti rubli in rapida svalutazione.

Gli amici cinesi: business as usual

Insomma “l’alleato cinese” pensa più al business as usual che alle romanticherie “antimperialiste” di Sergey Lavrov che ha tuonato dalla Turchia: «Non saremo più in ginocchio di fronte allo Zio Sam». Laconicamente una agenzia Tass ha dovuto però registrare che «La Cina ha rifiutato di fornire alle compagnie aeree russe pezzi di aerei, ma la Russia cercherà opportunità di fornitura in altri paesi, tra cui Turchia e India, ha sostenuto il portavoce di Rosaviatsiya». Se però non si parlerà di biglietti verdi difficile che anche questi due paesi possano commuoversi più di tanto.

Le aziende straniere abbandonano il mercato

In questi giorni è fuga dal mercato russo anche per gli attori economici che non avrebbero voluto lasciare una piazza di 145 milioni di consumatori ma che le prospettive dell’insolvenza e delle ridotte capacità di pagamento è considerato “poco attraente”. Ha iniziato Ikea svendendo i mobili stoccati nei depositi di Mosca e San Pietroburgo e chiudendo in fretta e furia. Seguiti dai giganti dell’automobile come Ford, Volkswagen e Porsche. “Pausa di riflessione” anche per Nissan e Toyota.

Secondo quanto riporta “Japan News”, la Panasonic ha smesso di fornire prodotti da fuori della Russia al suo distributore russo a Mosca: «Abbiamo preso in considerazione le difficoltà economiche e logistiche», ha detto un portavoce della compagnia.
Out anche la Komatsu, produttore leader di macchinari per l’edilizia, come anche la Hitachi Construction Machinery che smetterà di esportare escavatori idraulici in Russia. L’azienda prevede anche di cessare la produzione locale a metà aprile. Sempre nello stesso settore, il produttore di gru mobili Tadano ha sospeso le spedizioni in Russia e Bielorussia venerdì per la preoccupazione che le sanzioni finanziarie ostacolino i pagamenti.
Yamaha Motor, che vende motociclette e motori fuoribordo in Russia, ha anche sospeso le esportazioni dal Giappone e da altri paesi verso la Russia.

Disoccupazione, antimperialismo e autarchia: una soluzione?

Migliaia e migliaia di posti lavoro che stanno andando in fumo in un mondo dove il mercato del lavoro – per usare un eufemismo – è sempre stato “volatile”. I comunisti di Zjuganov hanno chiesto a gran voce la «nazionalizzazione delle imprese capitaliste», ma non si capisce bene cosa si potrebbe mai produrre alle condizioni attuali.

Una postura “antimperialista” che piace anche al sindaco di Mosca Sergey Sobjanin che ha promesso di sostituire a breve tutti i McDonald’s con dei fast food russi. L’investimento per ora è limitato (500 milioni di  rubli, al cambio attuale poco più di 3 milioni di euro) ma è il segnale di una chiusura a riccio semiautarchica che ricorda l’Unione Sovietica e che non può piacere soprattutto alle nuove generazioni della capitale.

Il fronte più specificatamente militare lascia più che fredda l’opinione pubblica russa, bombardata da un lato sulle Tv che insistono con messaggi rassicuranti secondo cui «tutto sta andando secondo i piani» e dall’altro dalla macchina delle fake news occidentali che vedono bombardamenti di centrali nucleari dell’esercito russo a ogni piè sospinto.

I “volontari” siriani e le perdite russe (ammesse)

L’impressione – dalla Russia – è che Putin abbia ordinato ai suoi generali di non calcare la mano e di usare il “guanto di velluto” (nella misura in cui si possa fare in una operazione del genere). I russi – anche quelli più convinti delle tesi del Cremlino – difficilmente accetterebbe bombardamenti a tappeto sulla popolazione civile. Ma le difficoltà dell’esercito ad avanzare, malgrado la superiorità tecnica e numerica – appare evidente ai più. Tanto è vero che Putin ha autorizzato perfino la mobilitazione di 16000 “volontari” provenienti dal Medio Oriente, in particolare dalla Siria.

Se si eccettua il Donbass il livello motivazionale a combattere appare scarso mentre lo stato maggiore di Mosca sembra voler evitare lo scontro nelle grandi città e affrontare il pericolo della guerriglia. Secondo Sergey Kirchuk, un attivista comunista ucraino emigrato in Russia e non certo simpatizzante per il regime di Volodymir Zelensky, «l’esercito russo non è riuscito a prendere nessuna grande città ucraina in quindici giorni di combattimenti, a eccezione di Kherson, dove l’insubordinazione locale e la guerriglia sono però già iniziate. I territori degli oblast di Luhansk e Donetsk non sono stati completamente posti sotto controllo. Ci sono battaglie a Kharkiv, Mykolaiv, Sumy, Marjupol e Kyiv. E l’esercito russo sta subendo pesanti perdite. I soldati di leva russi sono coinvolti nell’invasione russa, e molti di loro sono stati fatti prigionieri dall’esercito ucraino. Il ministero della Difesa russo ha confermato questi fatti. L’esercito ucraino sta respingendo con forza l’attacco. Non ci sono stati casi di abbandono di massa delle posizioni o di resa, né di comandanti di formazioni che si sono consegnati al nemico (come successe in Crimea nel 2014). La Russia continua a ridispiegare truppe dall’Estremo Oriente, poiché le attuali forze sono insufficienti per prendere l’Ucraina».

Il piano B è il governo “non ostile”: un film già visto

Si tratta di una interpretazione – quella secondo cui Mosca vorrebbe occupare tutta l’Ucraina – respinta dai vertici del Cremlino e che resterebbe assai onerosa da ogni punto di vista ma che potrebbe diventare un “piano B” se non si riuscisse a trovare la quadra con Kiev. A questo punto il problema sarebbe comunque la formazione di un governo “non ostile” alla Russia.

La vecchia leadership del “Partito delle regioni” di Viktor Janukovich (ora ridenominatasi “Ucraina, casa nostra”) non sembra per ora disponibile all’operazione. L’unico uomo di quell’area che sembra spendibile sarebbe Oleg Zariov, classe 1970, già deputato alla Rada, piccolo businessman tra Mosca e il Donbass. Tuttavia più di un osservatore ritiene che non abbia lo spessore e l’esperienza per prendersi simili responsabilità.

Le trattative di Antalya tra il ministro della Difesa ucraino Dmytro Kuleba e il capo della diplomazia russa Sergey Lavrov sono, come era prevedibile, fallite. Per ora l’argine ucraino non è crollato e la Russia non può tornare a casa senza aver realizzato alcun obiettivo tra quelli apertamente dichiarati, per cui la situazione appare bloccata. Alla fine il Cremlino potrebbe puntare perlomeno a sottomettere Marjupol e aggiungere lo sbocco al mar d’Azov al bottino.

«La Nato non è pronta a garantire la sicurezza dell’Ucraina», ha protestato Kuleba dalla Turchia, senza però citare proprio Erdoǧan che tra i paesi dell’Alleanza è quello che più sta facendo il doppio gioco. Una pressione sull’opinione pubblica occidentale che può far comodo, ma che non sposterà di un millimetro la posizione della UE e degli Usa. Si tratta di un refrain agitato ormai spesso da Zelensky nei suoi quotidiani interventi. Il quale entrato nella crisi con rating bassissimi di consenso e a rischio di essere travolto dalla corruzione che impera nel suo entourage ora si trova a essere “eroe per caso” di un paese che necessita di una qualsiasi leadership per continuare a resistere.

Ascolta “Tutto secondo i piani” su Spreaker.

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Appunti per una tragedia yemenita: i droni di Sana′a https://ogzero.org/appunti-per-una-tragedia-yemenita/ Thu, 10 Mar 2022 17:24:49 +0000 https://ogzero.org/?p=6643 Lo scacchiere internazionale vede molteplici guerre sanguinose in corso da anni fuori dall’Europa; lo Yemen viene usato come scenario dove affondano le dispute tribali storiche e locali, che risalgono al tempo in cui il territorio era suddiviso in entità statali del Nord e del Sud; rinfocolate da guerre per procura che contrappongono potenze locali, a […]

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Lo scacchiere internazionale vede molteplici guerre sanguinose in corso da anni fuori dall’Europa; lo Yemen viene usato come scenario dove affondano le dispute tribali storiche e locali, che risalgono al tempo in cui il territorio era suddiviso in entità statali del Nord e del Sud; rinfocolate da guerre per procura che contrappongono potenze locali, a loro volta sostenute militarmente e propagandisticamente da potenze globali. Scatole cinesi belliche aperte in questo studio di Lorenzo Forlani che dischiude un percorso storico a dipanare il filo dei contrasti dal punto di vista del confronto armato e degli addentellati geopolitici insiti negli intrecci soffocati da un abbraccio mortale di quei riferimenti culturali in contrasto per ragioni storiche e costretti a convivere nelle pieghe di dissidi tribali documentati nella parallela analisi di Carlotta Caldonazzo, che non rinuncia a collocarli nello schema geopolitico dell’area compresa tra lo Stretto di Hormuz e Bab el-Mandeb.

Fu la mattina seguente, a venti chilometri da Taïz, nella dolcezza di una luce che il verde dei campi e dei boschetti privava della sua crudezza, in un palazzo che sembrava uscito da una miniatura persiana, che la mia ricerca delle fonti dell’Islam finì negli occhi di un bambino…
Il guardiano del luogo, un bin Maaruf, proveniente dalla regione più selvaggia dell’antico Hedjaz, ha dei lineamenti affilati e canini la cui espressione astuta è, mi dicono, comune a tutti gli uomini della sua tribù, che fu per molto tempo la più odiata in Arabia. Disprezza qualcuno per generazioni e hai buone possibilità di renderlo spregevole, fino al giorno in cui, con le armi in mano, riacquisterà la sua dignità…

Roman Gary, Les Trésors de la mer Rouge, Gallimard, 1971

 

Il Castello di Taïz com'era (e com'è)

Il Castello di Taïz com’era (e com’è)

fin qui il sommario di OGzero…
La penna ora passa a Lorenzo Forlani


Nuovi scenari scaturiscono dai droni houthi

La crisi umanitaria in Yemen, generata da un grave conflitto militare che non accenna a estinguersi, viene raccontata a fasi e intensità alterne dai media internazionali. Letto unicamente attraverso il prisma della rivalità regionale tra Arabia saudita e Iran, ciò che accade nel paese raccontato da Pasolini tende a guadagnare i titoli delle prime pagine quando i suoi spillover – cioè gli “sconfinamenti” di un conflitto in un contesto diverso da quello in cui ha luogo – sono particolarmente visibili, cioè quando coinvolgono paesi più presenti nel (selettivo) immaginario collettivo occidentale.

È successo alla fine del mese di gennaio, quando i ribelli yemeniti di Ansarullah – anche conosciuti come Houthi – nel giro di due settimane hanno sferrato tre distinti attacchi con droni e missili balistici negli Emirati Arabi Uniti (uno dei quali durante la prima visita ufficiale negli Emirati del presidente israeliano Isaac Herzog) con l’obiettivo di colpire la base militare di Al Dhafra – che ospita truppe britanniche e americane –, un aeroporto e un deposito di carburante. Dopo aver intercettato i missili sui cieli di Abu Dhabi, le forze della coalizione filosaudita, di cui gli emiratini sono parte, hanno bombardato alcune aree sotto il controllo degli Houthi, tra cui la capitale Sana′a e la provincia di Saada, cioè l’area dove il movimento si è strutturato negli anni Novanta.

Attacco di uno stormo di droni Houthi sulla base di al-Dhafra

Lo “Yemen utile”, dimezzato e marginalizzato

Dal punto di vista formale, la situazione in Yemen appare quasi speculare a quella determinatasi in Siria: se nel paese levantino l’esercito di Bashar al Assad, coadiuvato da milizie regionali alleate e soprattutto dall’aviazione russa, dopo quasi dieci anni di conflitto ha ripreso il controllo della gran parte del territorio, e anzitutto di quella che gli osservatori definiscono “Siria utile” (cioè l’area del paese più densamente abitata, lungo la direttrice Damasco-Aleppo), in Yemen sono oggi i ribelli – quelli emersi nel tempo come i più organizzati, cioè gli Houthi – a controllare le regioni più abitate, nonché la capitale Sana′a.

 

La guerra in Yemen ha finora prodotto quasi mezzo milione di morti, dei quali il 70 per cento erano bambini. Secondo la Banca mondiale, su una popolazione iniziale di 30 milioni, oggi in Yemen sono non meno di 20 milioni le persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria permanente, e almeno 14 milioni a soffrire la fame. Quattro milioni sono gli sfollati, e un bambino su due soffre di malnutrizione. Lo Yemen era già lo stato arabo più povero – il quartultimo per Indice di sviluppo umano, dopo Sudan, Mauritania e Gibuti – prima dell’inizio delle primavere arabe del 2011, e oggi sembra affogare nella più grave crisi umanitaria del pianeta, trovandosi ai margini della narrazione tanto quanto, geograficamente, si trova ai margini della regione.

Lo scenario precedente: le “primavere” del 2011

Come si è arrivati sin qui? Sette anni di feroce conflitto hanno forse contribuito a rendere sfocato il ricordo del 2011: anche a Sana′a, la capitale del paese, nel mese di gennaio esplodono proteste popolari estremamente partecipate, proprio nei giorni successivi alla “cacciata” di Ben Ali in Tunisia. Le proteste – che prendono di mira anzitutto il presidente Ali Abdullah Saleh – si espandono a macchia d’olio in brevissimo tempo, e in diverse aree si trasformano in piccole rivolte, represse duramente. Già ad aprile, un terzo dei diciotto governatorati dello Yemen sfuggono al controllo del governo.

 

Come in tutte le rivolte che aspirano a diventare rivoluzioni, partecipate in modo più o meno orizzontale dalla società civile, c’è sempre un gruppo più organizzato, più radicato, più predisposto a prevalere sugli altri nella conquista e nella successiva gestione del potere, nel sovvertimento delle istituzioni esistenti. Gli Houthi – perlopiù riconducibili al ramo zaydita dell’Islam sciita, cioè quello che prende il nome dal pronipote di Ali Ibn Abi Talib, figura fondante dello sciismo – iniziano a avanzare le loro rivendicazioni e la loro soggettività politica nella prima metà degli anni Novanta, insistendo sulla lotta alla corruzione sul piano interno e sull’ostilità verso gli Stati Uniti, avversando Israele come posizionamento geopolitico. Sin dal principio si oppongono al presidente dello Yemen, Ali Abdullah Saleh (al potere dal 1990), riconducendolo all’interno di una narrazione che lo descrive come vassallo dell’Arabia Saudita, e di riflesso degli Stati Uniti.

Appunti per una tragedia yemenita

Yemen in piazza.

Il punto di svolta, cioè il momento in cui l’opposizione degli Houthi si trasforma in sistematica insorgenza anche armata – a intensità diverse, nel corso del tempo – arriva nel 2004: dopo aver rigettato un mandato d’arresto, il leader del movimento sciita Hussein Badreddine al Houthi viene ucciso dall’esercito durante un’offensiva a Saada. Da quel momento, sarà il fratello Abdelmalik al Houthi a guidare il movimento, ed è proprio lui che nel febbraio 2011 dichiara il suo appoggio alle proteste antigovernative, invitando i suoi a parteciparvi, soprattutto nella “roccaforte” di Saada.

Intrecci settari: regionalismo imposto al radicamento territoriale

 

Non è quindi un caso che il primo dei sei governatorati a scivolare via dalla giurisdizione del governo yemenita sarà proprio quello di Saada, che a fine marzo viene dichiarato indipendente dagli stessi membri di Ansarullah. In questo periodo inizia anche una fase di polarizzazione settaria con altre formazioni antigovernative di orientamento sunnita come Al Islah (vaga espressione della Fratellanza musulmana), accusati dagli Houthi di avere legami con al-Qaeda, laddove invece gli Houthi, anche alla luce di una effettiva identità di posizionamenti internazionali, nonché della affiliazione religiosa, vengono sempre più ricondotti a movimento organico alle strategie internazionali dell’Iran, rivale regionale dell’Arabia saudita.

Un importante sviluppo si ha nel novembre 2011, quando gli Houthi, già detenendo il controllo di una porzione rilevante di territorio, rifiutano un piano mediato dai paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, che intendeva dividere lo Yemen in sei regioni federali: secondo i ribelli zayditi, il piano non avrebbe cambiato nulla nella distribuzione del potere e nella governance, e anzi avrebbe rafforzato la netta divisione dello Yemen tra regioni ricche e povere. In più avrebbe frazionato aree già sotto il controllo degli Houthi, che in questo vedevano un tentativo di indebolirne la posizione negoziale. È la prima vera rottura di portata regionale, il momento in cui il piano inizia a inclinarsi verso una feroce guerra civile, alimentata anche da istanze esterne, figlie della proxy war tra Iran e Arabia Saudita.

Milizie. Coperture, forniture, alleanze

È in questo periodo che Ansarullah entra stabilmente in contatto con l’Iran e la sua orbita di milizie regionali, che forniscono addestratori e in seguito armi di vario genere. Dopo aver catturato Sana′a nel 2014, gli Houthi resistono ad alcune offensive saudite nella capitale e si scontrano a Est con formazioni qaediste sotto l’ombrello di Aqap (al Qaeda in the Arabic peninsula). L’offensiva saudita viene declinata soprattutto dal cielo: secondo lo Yemen Data Project, sono circa 25.000 i raid aerei sauditi dal 2015 a oggi, con i picchi più severi nel 2015, 2016 e 2020.

Appunti per una tragedia yemenita

Soldati emiratini rientrano dopo un anno di battaglie in Yemen.

D’altro canto dal 2016 gli Houthi smettono in qualche modo di essere solo una formazione dedita alla guerriglia interna – dal 2018 le battaglie più feroci sono quelle contro gli Amaliqah [i Giganti], un esercito di circa 20.000 uomini, sostenuto da Dubai – e portano a termine diversi attacchi oltre confine, prendendo di mira aeroporti, giacimenti petroliferi e di gas, sia in Arabia Saudita che negli Emirati arabi uniti. Lo fanno servendosi di armamenti via via più sofisticati – e sempre più diffusi in movimenti armati che non possono contare su una copertura aerea – come droni e missili a corto raggio. A partire dai dati del Center for Strategic and International studies, Riad avrebbe intercettato circa 4000 tra missili e droni provenienti dalle zone controllate dagli Houthi negli ultimi 5 anni.

Ed è interessante notare come Ansarullah sia entrato in possesso o abbia direttamente assemblato questo tipo di armamenti, se ancora lo scorso gennaio un report delle Nazioni Unite rilevava la violazione dell’embargo sulle armi, continuando «ad ottenere componenti fondamentali per i loro sistemi d’arma da società europee (soprattutto tedesche, i cui componenti arrivano a Sana′a dopo esser transitate per Atene e Teheran, N.d.R.) e asiatiche, utilizzando una complessa rete di intermediari per occultare la catena di custodia».

Droni in dotazione

In modo simile a quanto fatto da altre milizie sciite, più o meno organiche all’impalcatura di politica di sicurezza regionale dell’Iran, anche gli Houthi dal 2019 hanno persino presentato in via semiufficiale una piccola flotta di droni presumibilmente assemblati in Yemen: si tratta dei velivoli da ricognizione Hudhed 1, Raqib, Rased, Sammad 1 e di quelli da combattimento, Sammad 2, Sammad 3, Qasef 1 e Qasef 2k, questi ultimi praticamente identici ai droni Ababil di fabbricazione iraniana. Se fino al 2019 i droni utilizzati erano soprattutto quelli non armati, che però venivano fatti schiantare contro i radar dei sistemi di difesa della coalizione, da almeno due anni i droni utilizzati sono caricati con esplosivo e hanno un raggio più lungo. In sostanza: da qualche anno gli Houthi hanno accresciuto di molto le loro capacità militari, e questo costituisce uno dei motivi della loro resilienza a fronte della campagna di bombardamenti sauditi ed emiratini.

Qasef 2k, il drone in dotazione ai ribelli Houthi utilizzato per colpire obiettivi sauditi ed emiratini

Dopo sette anni dall’inizio dell’offensiva filosaudita, gli Houthi controllano ancora buona parte dell’area occidentale del paese, che a nord incontra un confine di 1300 km con l’Arabia saudita, mentre a ovest termina sulla costa di fronte allo stretto di Bab el Mandeb, una cruciale zona di transito commerciale. L’unica zona occidentale del paese non controllata dai ribelli di Ansarullah è il lembo di terra costiero a sud, dove sorge la città portuale di Aden, che dal 2019 è sotto il controllo del Southern Transitional Council a guida saudita-emiratina, cioè il governo temporaneo dello Yemen, alternativo a quello guidato dagli Houthi e riconosciuto dalla comunità internazionale.

La guerra finisce con lo Yemen

La guerra in Yemen racconta anzitutto di una incomunicabilità strategico-militare: da una parte una coalizione che, a fronte della quota più alta di import di armi in tutta la regione e di un dispiegamento di forze senza precedenti, non riesce a riportare sotto al proprio controllo gran parte di un paese considerato importante per la propria sicurezza regionale; dall’altra un movimento di resistenza yemenita, endogeno, ma la cui crescente integrazione con gli obiettivi regionali iraniani (a loro volta connessi alla propria idea di sicurezza regionale) ne ha aumentato l’isolamento sia interno – a causa di una gestione draconiana del potere e delle amministrazioni locali – che internazionale (il cui ultimo capitolo è l’inserimento nella lista delle organizzazioni terroristiche).

Il dramma dello Yemen sta soprattutto in questa incomunicabilità, in grado di protrarre un conflitto che non sembra poter avere vincitori, né soluzioni politiche che non passino da un accordo tra Iran e Arabia Saudita, a oggi molto lontano. Gli Houthi controllano una parte di paese sofferente e isolato, senza poter disporre dei suoi confini, e dovendo fare i conti con le campagne di bombardamenti che mirano ad annientarli: un movimento di guerriglia che sembra sempre più propenso a difendere le proprie posizioni e sempre meno destinato ad aver un ruolo politico concreto, in un eventuale futuro Yemen pacificato. I sauditi e gli emiratini, dal canto loro, accanto a una impossibilità di trovare una soluzione politica, mostrano alla regione una rischiosa inefficacia militare: non sufficiente a farli desistere, anzi in grado di suggerire pericolosamente che la guerra in Yemen possa finire soltanto quando sarà finito lo stesso Yemen.

 

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Aden, Arabie: opposte visioni del mondo collidono https://ogzero.org/aden-arabie-opposte-visioni-del-mondo-collidono/ Thu, 10 Mar 2022 17:23:04 +0000 https://ogzero.org/?p=6668 L’annosa crisi yemenita affonda radici in un passato, dove si possono trovare motivi per un conflitto e obiettivi per ciascuno dei contendenti molto divergenti. Sono questi a minare l’equilibrio della regione e contemporaneamente ne sarebbero garanti se l’interesse geopolitico delle potenze globali non si fosse giustapposto sui dissidi locali per farne teatro delle loro dispute: […]

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L’annosa crisi yemenita affonda radici in un passato, dove si possono trovare motivi per un conflitto e obiettivi per ciascuno dei contendenti molto divergenti. Sono questi a minare l’equilibrio della regione e contemporaneamente ne sarebbero garanti se l’interesse geopolitico delle potenze globali non si fosse giustapposto sui dissidi locali per farne teatro delle loro dispute: infatti oltre a essere uno dei campi di battaglia per la supremazia regionale – come ben documenta l’attenzione alle armi usate nel conflitto yemenita nell’articolo parallelo di Lorenzo Forlani –, lo Yemen subisce, a causa della sua posizione strategica, le pressioni generate dalla convergenza delle proiezioni delle potenze mondiali; Gran Bretagna, Unione sovietica, monarchie del Golfo, Iran, Stati uniti: i titani si scontrano tra Hormuz e Aden.

L’ampio conflitto yemenita – una guerra che ha già causato mezzo milione di morti, molti dei quali civili (nel marzo 2019 un ospedale di Save the Children a Saada era stato attaccato dai sauditi con bombe prodotte dalla Rwm italiana) senza riuscire a smuovere coscienze caucasiche –, che trova qui un’esaustiva disamina da parte di Carlotta Caldonazzo, ha una delle sue icone nella Safer, petroliera ormeggiata in decomposizione al largo di Hodeida. Il 5 marzo si è raggiunto un accordo perché l’Onu possa occuparsi di disinnescare una delle bombe a orologeria disseminate da decenni nello Yemen. La sua sorte somiglia a quella di un territorio ormeggiato nel ‘pelago’ pericoloso degli scontri tra concezioni di vita e religione, di interessi locali e geostrategici.

Al Crater, sull’Esplanade, stavano adunati attorno al campo di calcio gli Arabi dell’Hadramut e dello Yemen, gli Indù di ogni casta, i Negri della sponda africana mescolati coi fantaccini di Sua Maestà: talvolta suonava la banda del reggimento punjabi; nei giorni dello Shabbàth i ragazzini ebrei si scaltrivano, non osando ancora radersi i ricciolini, ma solamente portare quelle giacche chiare, che avrebbero indossato definitivamente un giorno sui marciapiedi di piazza Mohammed Alì all’inizio della Muski al Cairo
(Paul, Nizan, Aden Arabie, edizioni Fahrenheit 451, 1994, p. 128; ed. or. 1926)

fin qui il sommario di OGzero…
La penna ora passa a Carlotta Caldonazzo


Attriti arabo-iranici

Il 28 febbraio, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite (Onu) ha votato la risoluzione 2624, proposta dagli Emirati arabi uniti (Eau), che estende l’embargo delle armi all’intero gruppo dei ribelli sciiti noti come Houthis o Ansarullah, limitato a singoli individui dalle precedenti risoluzioni, a partire dalla 2140 e dalla 2216. Undici i voti favorevoli, nessuno contrario, mentre Irlanda, Messico, Brasile e Norvegia si sono astenuti. A votare in favore della risoluzione è stata anche Mosca, che secondo alcuni analisti avrebbe sostenuto la proposta emiratina in cambio dell’astensione di Abu Dhabi su due precedenti risoluzioni sull’Ucraina. Sia la Russia, sia gli Eau smentiscono una simile lettura mercantilista, ma intanto in Yemen si manifestano contemporaneamente due tipi di conflitto: il primo livello di scontro è interno e il prodotto dell’intersecarsi degli attriti tra le molteplici e fluide fazioni politico-tribali e tra le due entità storiche che costituiscono il paese; il secondo, invece, e quello esterno ed è la risultante del convergere nello stesso territorio degli interessi strategici di potenze regionali e globali. Da quest’ultimo punto di vista, infatti, lo Yemen è uno dei terreni di scontro privilegiati dall’Iran e dalla coalizione arabo-sunnita. Senonché, il fronte, un tempo compatto, di quest’ultima si è recentemente incrinato, prima a causa della crisi diplomatica tra il Qatar e gli altri membri del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), poi per via dell’emergere di una personalità geopolitica emiratina. Gli Eau, infatti, si sono inizialmente allineati con Riyadh, ma soprattutto dall’avvento del principe ereditario Mohammed bin Zayed, hanno tentato di ricavarsi uno spazio geopolitico proprio, autonomo dal tradizionale predominio storico-culturale saudita.

Fratture geopolitiche

Sullo stesso livello regionale degli equilibri geopolitici mediorientali, tra i rivali di Tehran, oltre alle monarchie del Golfo, si deve annoverare Israele, anche se implicata nel conflitto yemenita solo da tempi recenti. Ad attrarre l’attenzione di Tel Aviv, in realtà, è stata la svolta politica operata nei primi anni Duemila dal gruppo di ribelli sciiti Ansarullah, noto per lo più con il nome della tribù in esso dominante, gli Houthi. In realtà, le radici di questo gruppo politico-tribale affondano principalmente nella diffidenza di alcune tribù sciite dello Yemen settentrionale di fronte all’unificazione yemenita del 1990, percepita come una potenziale minaccia per almeno due ordini di motivi. In primo luogo, perché comportava il rafforzamento della Repubblica araba dello Yemen, che non solo era nata nel 1962 dopo la deposizione dell’ultimo imam mutawakkilita (l’imamato era la forma monarchica con cui lo Yemen settentrionale aveva ottenuto l’indipendenza dall’impero ottomano sull’orlo del crollo), ma era anche ispirata sin dall’inizio al modello nazionalista panarabo e laico del presidente egiziano Gamal Abd al-Naser. In secondo luogo, perché nel 1990, dopo l’implosione del sistema sovietico, l’Arabia saudita aveva fondato il partito islamico sunnita yemenita al-Islah, sia in funzione anticomunista (a Riyadh fu assegnato il compito di gestire la globalizzazione dell’ultimo decennio del Ventesimo secolo tra le popolazioni arabe sunnite, un ruolo simile a quello della Turchia tra le popolazioni musulmane non arabe – e non necessariamente sunnite, come nel caso dell’Azerbaijan), sia per evitare che lo Yemen diventasse uno stato sciita, potenziale appiglio per la minoranza sciita che vive all’interno dei suoi confini in condizioni di cittadinanza di serie b.

Graffiti di Murad Subay sui muri di Sana'a

Graffiti di Murad Subay sui muri di Sana’a: opere collettive piene di ironia nella loro denuncia degli attacchi jihadisti e degli scontri settari

Il movimento Houthi

È in questo contesto che il movimento Houthi fu fondato nel 1992, nella provincia di Saada, con il nome di Gioventù credente e, originariamente, con due obiettivi fondamentali: il primo era promuovere il risveglio dell’islam sciita zaydita come modello di islam politico moderato, contrapposto alla rigidità dei Fratelli musulmani sunniti e al wahhabismo e al salafismo sauditi; il secondo, invece, era denunciare la corruzione del sistema messo in piedi dall’allora presidente Ali Abd Allah Saleh e l’accordo da lui siglato con gli Stati Uniti, considerato una sorta di atto di svendita alla superpotenza imperialista del momento. In principio, inoltre, le letture religiose che circolavano nelle associazioni studentesche erano soprattuto di due teologi sciiti libanesi, nonché personalità di spicco nel partito sciita Hizbullah: Mohammad Hussein Fadlallah e Hasan Nasrallah. Vale la pena forse notare, a questo punto, che esiste una differenza tra lo sciismo iraniano e libanese, che in massima parte è di scuola duodecimana (detta così perché riconosce dodici imam storici), e quello yemenita, in maggioranza zaydita (per esempio, questa scuola riconosce solo cinque imam storici). La divergenza non è profonda, ma risiede in dettagli come il mancato riconoscimento da parte degli zayditi dell’infallibilità dell’imam. Di conseguenza la contrapposizione non è così netta come rispetto all’islam sunnita prevalente in Arabia saudita e che Riyadh ha cercato di diffondere anche in Yemen. Peraltro, le differenze confessionali il più delle volte sono un pretesto per i conflitti, non la loro causa remota. Ne sia un esempio la presa di posizione dell’Iran, nel conflitto nel Nagorno-Karabakh, in favore della cristiana Armenia e contro l’Azerbaijan, paese turcofono ma a maggioranza sciita duodecimana.

Guerra per procura contro l’alleanza sciita

Tra la fine degli anni Novanta del secolo scorso e l’inizio degli anni Duemila, gli Houthi hanno iniziato a integrare nel loro programma politico tematiche di geopolitica regionale e globale, in particolare la resistenza a Israele e all’imperialismo statunitense, nonché la teoria di un complotto ordito da Tel Aviv e Washington con la complicità delle monarchie arabe del Golfo. Dal 2003, infine, ossia dopo l’invasione statunitense dell’Iraq, compare tra i loro sloganmorte agli Usa, morte a Israele”. Nel momento in cui gli Usa dichiaravano guerra al terrorismo di matrice islamica, facendo di Israele la punta di diamante della loro proiezione di potenza in Medio Oriente, l’Iran tesseva una serie di relazioni con i movimenti sciiti arabi della regione, in particolare con il partito sciita libanese Hezbollah, con gli alawiti siriani, con gli Houthi yemeniti e con gli sciiti iracheni, con i quali, tuttavia, il rapporto è da sempre piuttosto complesso. D’altronde, l’ayatollah Ruhollah Khomeini aveva dichiarato Israele nemico dell’Iran già prima della rivoluzione islamica del 1979, a seguito della quale elaborò una forma di islam politico rigoroso sciita e non arabo, da contrapporre ai modelli sunniti fioriti in Egitto (i Fratelli musulmani e la loro costola scismatica takfirita) e Arabia saudita (wahhabiti e salafiti) e all’allora modello laico della Repubblica di Turchia. Negli anni Novanta, quindi, Tehran ospitava gli studenti della Gioventù credente, tra i quali Hussein Badreddin al-Houthi, che fu uno degli ispiratori del movimento. Quest’ultimo, dopo il suo assassinio (assieme a diversi uomini della sua scorta) da parte dell’esercito yemenita, a Sa’ada, nel 2004, prese il suo nome, Houthi, e lanciò la rivolta armata contro il governo di Sana’a. La linea di Hussein al-Houthi, infatti, era essenzialmente riformista e improntata al dialogo, tribale e confessionale, come dimostrò nella sua esperienza di deputato del Parlamento yemenita, nel partito al-Haqq (“la verità”), che è anch’esso una sua creazione. A inimicargli il governo di Ali Abdallah Saleh furono le sue prese di posizione in favore dei movimenti separatisti meridionali, anch’essi impegnati nella lotta contro la corruzione del potere centrale, sia pure per ragioni diametralmente opposte. Nacque in tal modo in molti separatisti e socialisti meridionali una certa forma di simpatia e solidarietà nei confronti degli Houthi, al punto che alcuni di essi, per prendere posizione contro l’integralismo sunnita del partito al-Islah, si sono dichiarati sciiti.

Mezzaluna sciita

L’evoluzione della Mezzaluna sciita nell’area Mena fotografata nel 2015 dalla Columbia University

Fratture storiche

Nell’analizzare i rapporti tra le forze politiche yemenite, occorre tener presente che tanto nelle alleanze, quanto nei dissidi, entrano in gioco diversi fattori: oltre alle scelte del capo di partito o di fazione del momento e alle differenti posizioni riguardo l’islam politico, nel Nord hanno un ruolo significativo i legami tribali, mentre nelle regioni meridionali, la nascita del Movimento per il Sud, nel 2007, ha le sue radici nella percezione, diffusa nella ex Repubblica democratica popolare dello Yemen, dell’unificazione come una conquista brutale da parte di un Nord arretrato e corrotto, che ha imposto al Meridione ex socialista, laico e urbanizzato un sistema basato sul nepotismo, sulle dinamiche tribali e sui privilegi di casta. Una posizione che, paradossalmente, accomuna questo movimento a quello degli Houthi, nato per aggregazione attorno all’omonima tribù, ma dal 2004 maggiormente connotato in senso ideologico-religioso. Peraltro, buona parte degli esponenti del Partito socialista yemenita (Psy), al governo durante l’epoca sovietica (lo Yemen meridionale è l’unico paese arabo ad aver partecipato con un suo contingente all’invasione sovietica dell’Afghanistan), nel 1990 aveva accettato a malincuore l’unione con il Nord. Qui, infatti, le istituzioni nate dalla rivoluzione repubblicana del 1962 non facevano che mascherare le tradizionali dinamiche tribali, che il Movimento accusa Sana’a di aver diffuso anche al Sud. Inoltre, vigeva un sistema analogo a quello indiano delle caste, inclusi gli intoccabili, chiamati akhdam, “servi”, spesso di origine somala. In generale, rispetto al Sud, nelle regioni settentrionali le differenze di genere erano nette, l’analfabetismo dilagante e, soprattutto, i tradizionali privilegi tribali si erano sovrapposti a quelli derivati dall’appartenenza al “clan” di Ali Abdallah Saleh. Un regime originariamente laico, nazionalista e militarista, che in seguito ha fatto ricorso alle forze politiche religiose per opportunismo politico e, all’occorrenza, si è prostrato agli Stati Uniti e all’Arabia saudita, in nome, rispettivamente, della lotta al terrorismo di matrice islamica e del contrasto alle forze laiche progressiste. Gli attriti tra i due Yemen emersero nel 1993, appena tre anni dopo l’unificazione, quando il vicepresidente della Repubblica Ali Salem al-Beidh, segretario generale del Psy integrato nelle istituzioni unitarie, abbandonò il governo e si ritirò ad Aden, ex capitale del Sud e porto strategico nell’omonimo golfo.

Saleh assedia Aden e impone il nuovo corso. Il reportage de “l'Unità” il 9 maggio 1994

Saleh assedia Aden e impone il nuovo corso. Il reportage de “l’Unità” il 9 maggio 1994

La guerra infinita

Al-Beidh denunciava l’intenzionale impoverimento del Sud da parte del governo centrale e l’uso da parte di Saleh delle alleanze tribali e delle organizzazioni integraliste sunnite per intimidire, o addirittura eliminare, gli oppositori politici del Sud (accuse simili a quelle mosse dagli Houthi). Dopo un tentativo di accordo siglato ad Amman nel febbraio 1994, scoppiò una breve ma sanguinosa guerra civile e fu proclamata l’indpendenza della Repubblica democratica dello Yemen. Saleh chiamò in soccorso anche le milizie islamiche e riuscì a sconfiggere l’esercito messo in piedi dai capi politici del Psy, che optarono per l’esilio volontario. Le ragioni profonde della guerra civile risiedono nella profonda diffidenza che Saleh nutriva nei confronti di questo partito, preferendo quindi contare, da un lato, sulla fedeltà tribale delle milizie islamiche affiliate ad al-Qaeda nella Penisola araba (Aqpa) e, dall’altro, sull’alleanza istituzionale con al-Islah (che ha anche un considerevole braccio armato), partito vicino alla Fratellanza musulmana, ma sostenuto dall’Arabia saudita, prezioso alleato per l’allora presidente yemenita, almeno finché gli aveva assicurato la permanenza al potere. Infatti, nel 2012, quando Saleh fu costretto alle dimissioni dopo che un ordigno lo aveva quasi ucciso nel palazzo presidenziale, nel giugno 2011, rendendo evidente l’impossibilità di un ritorno alla presidenza, Riyadh iniziò a sostenere il suo successore ed ex vicepresidente Abdorabbou Mansour Hadi. A quel punto, Saleh, tornato in Yemen, si schierò con gli Houthi (d’altronde era di famiglia sciita) quando, nel 2014, si apprestavano a prendere il controllo di Sana′a, costringendo alle dimissioni prima il vicepresidente Mohammed Basindawa, poi Hadi, che riparò temporaneamente ad Aden, per fuggire poi in Arabia saudita. Qui si trova tuttora, data l’impossibilità di tornare in Yemen per via della condanna a morte sentenziatagli nel 2017 da un tribunale di Sana′a controllato dagli Houthi, con l’accusa di alto tradimento. La conquista di Sana′a da parte dei ribelli sciiti diede, dunque, al Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) l’occasione di arginare l’influenza iraniana in Yemen con un intervento militare condotto da una coalizione di paesi sunniti guidata da Riyadh saudita.

Consiglio di Cooperazione del Golfo che decide di Arginare l'influenza iraniana in Yemen

Consiglio di Cooperazione del Golfo che decide di Arginare l’influenza iraniana in Yemen (luglio 2017)

Riyadh e Abu Dhabi: alleati tattici o rivali strategici?

Nel 2017, intanto, Saleh, consapevole che gli Houthi non avrebbero mai conquistato tutto lo Yemen e che, di conseguenza, non gli avrebbero restituito il potere di un tempo, ruppe anche con loro, probabilmente a seguito di colloqui segreti con funzionari di Emirati arabi uniti (Eau), Russia e Giordania, e aprì al dialogo con la coalizione a guida saudita, ma fu ucciso nel dicembre dello stesso anno in un’imboscata dei ribelli sciiti. In questa vicenda, emerge una trasformazione progressiva del ruolo di Abu Dhabi all’interno della coalizione condotta da Riyadh e, di conseguenza, nel complesso quadro dei conflitti yemeniti. Gli Eau, infatti, non contenti del sostegno saudita a una forza politica, al-Islah, gravitante nell’orbita dei Fratelli musulmani, hanno preferito sostenere, sin dall’inizio delle proteste popolari del 2011 (che si inscrivono nel quadro delle cosiddette primavere arabe), il Movimento per il Sud, ben sapendo che, caduta l’Unione sovietica, non avrebbe mai avuto la capacità di controllare tutto lo Yemen, limitandosi a mettere i bastoni tra le ruote al governo centrale e a contrastare, in minima parte, l’influenza dell’islam nella sfera politica. Inoltre, dal 2017, Abu Dhabi si è progressivamente ritirata dalla partecipazione diretta all’intervento militare, offrendo piuttosto un sostegno militare e finanziario alle Brigate dei Giganti: milizie in gran parte salafite, costituite dai membri delle tribù provenienti dalle città di Lahj, Abyan e Dammaj (quest’ultima nel governatorato di Sa′ada, roccaforte Houthi). Questo graduale distacco degli Emirati dalla strategia saudita, che mira, in ultima analisi, alla neutralizzazione della potenza iraniana, coincide con l’elaborazione di una propria visione strategica, meno monolitica e più aperta al dialogo con Tehran. Per questo, molti analisti si sono interrogati sulle ragioni degli attacchi missilistici sferrati dagli Houthi, il 17 gennaio, contro Abu Dhabi. Nondimeno, essi sono avvenuti in un momento cruciale dei negoziati internazionali sul programma nucleare iraniano e in una fase di cambiamento nelle politiche estere emiratina e saudita: entrambe le monarchie del Golfo, infatti, stavano tessendo rapporti di cooperazione economica e finanziaria con la Cina, dalla quale ultimamente Abu Dhabi ha anche acquistato aerei da guerra. Inoltre, mentre l’acquisto emiratino di tecnologia Huawei per il 5G aveva indotto gli Usa a provocare uno stallo nella trattativa per la vendita del sistema F-35 agli Eau, dopo gli attacchi del 17 gennaio, Washington è tornata sui suoi passi.

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La distribuzione delle armi ai patrioti https://ogzero.org/la-distribuzione-delle-armi-ai-patrioti/ Mon, 28 Feb 2022 02:36:46 +0000 https://ogzero.org/?p=6548 Non è compito, né obiettivo di OGzero riportare notizie, anche se stravolgono il mondo e condizionano ogni aspetto della geopolitica, finché non si decanta il polverone che sollevano, consentendo un’analisi distaccata di ciò che provocano. Questa la natura analitica del sito; poi OGzero ha una sua componente parziale, schierata – per quanto cinica – e […]

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Non è compito, né obiettivo di OGzero riportare notizie, anche se stravolgono il mondo e condizionano ogni aspetto della geopolitica, finché non si decanta il polverone che sollevano, consentendo un’analisi distaccata di ciò che provocano. Questa la natura analitica del sito; poi OGzero ha una sua componente parziale, schierata – per quanto cinica – e contraria a ogni autoritarismo e militarismo che rivendichiamo come tratto distintivo. E che ci spinge a intervenire quando un’enormità inaccettabile viene assorbita come se non si trattasse di una barbarie: un’“involuzione copernicana”, che non è tanto l’invasione di un paese ex satellite da parte di un autocrate riconosciuto (Biden ha definito Putin un “killer” a inizio mandato), ma che l’Unione Europea con la sua prosopopea sull’approccio burocraticamente democratico si riduca al rango di trafficante per delegare un suo contenzioso. Questo passo è la vera svolta della vicenda ucraina, che per il resto dal punto di vista geopolitico è una delle innumerevoli situazioni di conflitto che ammorbano il pianeta.


Le infinite declinazioni degli aggettivi bellici

La guerra boot on the ground e il Glovo dei missili anticarro

Abbiamo anche avviato uno studium – non perché subodoravamo risvolti guerrafondai, ma perché l’escalation delle guerre di droni e nuovi sistemi di difesa e offesa è in atto da alcuni anni, producendo sempre nuove guerre – che ci impegna per l’intero 2022 (e forse anche oltre) a monitorare le movimentazioni, le consegne, i traffici di armi nel mondo, perché laddove c’è una transazione di questo tipo, prima o poi quell’arma viene usata. Non siamo anime belle che pensano che l’Europa non venda armi a chi è impegnato in un conflitto (chi se non i combattenti adoperano, consumano e ricomprano altre armi, se non chi le sta usando?) e quindi non ci stupiamo che si stanzino alcune centinaia di milioni per comprare armi da girare a un combattente, preoccupa che venga fatto senza infingimenti: hanno trovato il pretesto per poter moltiplicare gli affari per l’industria bellica senza dover pagare dazio. Senza contare che avevano già iniziato il giorno prima degli annunci ufficiali di Von der Leyen, a consegnare – come da consuetudine – armi ai belligeranti:

Guido Limpio, Missili e lanciarazzi. Italia, i primi soldati, “Corriere della Sera”, 27 febbraio 2022, p. 11. Pubblicato la sera precedente l’annuncio di Ursula Von der Leyen sugli stanziamenti UE per acquisto di armi da consegnare all’Ucraina

Il rilievo che ci viene spontaneo è il fatto che la tipologia degli articoli del delivery europeo via Polonia (ma anche le repubbliche baltiche sono tra i protagonisti più attivi già da alcune settimane nella distribuzione) denuncia la classificazione di quella che sarà la proxy war nel cortile di casa per alcuni anni: armi per un contrasto sul terreno, invischiando l’armata russa nella trappola scavata al suo confine a cominciare da Maidan.

Equipaggiamenti per guerre non lineari e guerriglia urbana

E infatti come sito attento ai rivolgimenti geopolitici siamo mitridatizzati alle guerre: uguali a quella carpatica ce ne sono state e se ne stanno combattendo molte altre nel mondo, certo non con una delle 3 potenze mondiali come protagonista diretta, ma sempre sullo sfondo si trovano impegnate tutte le potenze globali e locali. Perciò del gran polverone suscitato in questi giorni ciò che maggiormente indigna OGzero è il fatto che per la prima volta l’UE sovvenziona ufficialmente l’acquisto di armi per consegnarle a un paese terzo in guerra. Non siamo anime belle illuse che immaginano che con le manifestazioni di un weekend si possa fermare una determinazione alla imposizione delle proprie visioni deliranti da parte di un potere che usa spietati mercenari dovunque, uccide oppositori con il polonio, ammazza giornalisti come regalo di compleanno, sostituisce il colonialismo della Françafrique; ci indigniamo piuttosto a scoprire che un cancelliere socialdemocratico, appena valuta le centinaia di migliaia di migranti ucraini che premono ai confini, fa strame di scelte decennali e decide il riarmo tedesco – che non si può sentire dopo la Seconda guerra mondiale e le macerazioni degli anni Settanta a elaborare il senso di colpa di una nazione (cosa che l’ipocrisia cattolica italiana non ha mai consentito) – trovando 100 miliardi (!!!) per rinnovare la Bundeswehr… nemmeno Merkel sarebbe arrivata a una tale faccia di bronzo. Ma sicuramente il rinnegamento dei “valori europei” maggiore è quello che vede l’intera Unione allineata a rinunciare a ogni retorica – bastano 300.000 migranti – e vendere armi letali per costituire una guerriglia antirussa, affidandole probabilmente a Pravi Sektor e al Battaglione di Azov: più nazisti del modello collaborazionista di Bandera. Piuttosto che trovarsi 7 milioni di migranti (bianchi e caucasici) all’uscio, si impedisce che possano emigrare se hanno meno di 60 anni e più di 18 (coscrizione obbligatoria!), li si approvvigionano di armi e si organizza una guerriglia per procura; gli stessi razzisti polacchi che fino a un mese fa hanno fatto morire di freddo e fame nella foresta, riempiendoli di botte, quei migranti che arrivano dalle guerre scatenate dall’Occidente (afgani, africani, di “speci” evidentemente non abbastanza “famigliari”), accolgono fraternamente – e giustamente – i fuggitivi dai massacri della guerra perpetrata da Putin in Ucraina (ma non le sue vittime siriane).

Manifesto anarchico russo: “ No alla guerra degli oligarchi! Vogliono il carbone del Donbass? Combattano e muoiano loro”

Guerra ibrida e guerra nucleare ipermediatizzata: armi tattiche e molotov

La soluzione sarebbe dunque una proxy war in più (in Yemen siamo già oltre i 300.000 morti civili, ma sono distanti e arabi), fa solo più effetto perché europea e perché il bullo del Cremlino sventola la minaccia delle armi tattiche nucleari cercando di mantenere un ruolo da cattivo credibile dopo lo smacco per il fatto che la Blitzkrieg non è riuscita nemmeno questa volta (ricordate dall’altro lato la Mission accomplished?). Inquieta anche perché gli ucraini vengono trattati da europei di serie B – un nuovo apartheid all’interno del continente –  rimandati indietro al confine e “invitati” a imbracciare i fucili e fabbricare le molotov – se solo avessimo preparato in Valsusa gli stessi “pintoni attivi” in favore di telecamera saremmo pericolosi insurrezionalisti – per assaltare carri armati russi; addirittura si agevolano arruolamenti di volontari targati Europa, mentre i compagni che sono andati a condividere la lotta curda in Rojava (quella davvero una lotta antinazista) sono in sorveglianza speciale. Infingimenti geopolitici: guerra mediatica.

Istruzioni per la preparazione di una bottiglia molotov sui social ucraini

Istruzioni per la preparazione di una bottiglia molotov sui social ucraini

La guerra geopolitica

Si evidenzia allora una stortura che ci fa sospettare che la guerra non sia poi così ideologica come vorrebbe spacciare il Cremlino con il suo improbabile antinazismo, ma smaccatamente geopolitica, come non possono ammettere né Biden (che costringe il mondo a schierarsi, per occuparsi del quadrante indopacifico – ottenendo la neutralità dell’India da un lato, ma anche del Kazakhstan dall’altro… e la preponderanza degli affari nelle scelte degli “alleati” arabi; e che dire dell’imbarazzo turco sul trattato di Montreux e il diritto di chiusura dei Dardanelli che non si capisce come e se viene applicato o meno alle navi da guerra russe?). Tantomeno può definirlo “conflitto geopolitico” l’attendismo cinese – che cerca di capire come sfruttare l’occasione con Taiwan, e gli conviene che si ammanti il tutto di nobili principi degni di una guerra santa, o di liberazione; né gli europei spacciatori di armi letali, un altro aspetto tipico della geopolitica, ammantato come sempre di idealismo di liberazione. Come geopolitiche sono le conseguenze delle sanzioni: tutte avvantaggiano le risorse americane. Il gas – molto più caro, perché va trattato – verrebbe erogato da un ponte navale transatlantico, che legherebbe ancora di più gli europei arruolati dallo Zio Sam; le chiusure di rotte aeree richiederanno maggiore consumo di idrocarburi, forniti da Usa e mondo arabo… NordStream2, capitolo chiuso e nuova umiliazione tedesca (che non è mai una bella cosa, se ricordiamo le cause dell’ascesa di Hitler).

Ascolta “Paralisi e delirio a Mosca. Europa anno zero?” su Spreaker.

 

Quindi ci saremmo aspettati anche da Bruxelles reazioni tipicamente geopolitiche, tattiche come le sulfuree mosse del Cremlino, test di alleanze come quelle intessute da Washington, persino i traccheggiamenti in punta di diritto internazionale di Ankara (che evidentemente non considera concluso il rapporto privilegiato con Putin all’interno degli Accordi di Astana e non intrappola le navi russe nel Mar Nero, pur vendendo droni all’Ucraina), o il sornione attendismo di Pechino… invece si spaccia per raffinato pensiero il nuovo ruolo di mediatori di ordigni per guerriglia che l’impaurita Europa si è ritagliata, facendo strame del raffinato pensiero contro la guerra e interpretando la strategia politica come tattica da trafficante. L’Europa come comparsa in commedia nel ruolo del trafficante: una nuova accezione della esigenza di “aiutarli a casa loro”, fornendogli le armi e alimentando altro fiero nazionalismo. Ma schierandosi così in modo esplicito contro Mosca, rimanendo facili bersagli dei missili tattici per impaurire meglio l’opinione pubblica, quella sì non geopolitica ma ideologizzata dai media mainstream.

Comunque dove ci sono molotov che volano addosso al potere costituito o a un esercito di occupazione, qualunque esse siano, ci trovano solidali

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Cambi della guardia in Africa, e la Russia suona Wagner https://ogzero.org/cambi-della-guardia-in-africa-e-la-russia-suona-wagner/ Thu, 24 Feb 2022 08:45:35 +0000 https://ogzero.org/?p=6471 In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari […]

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In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari in un paese stabile, l’indigenza delle popolazioni è funzionale all’assoggettamento del tessuto sociale, basta frenare le partenze per oltremare… con le buone (accordi capestro e che calpestano i diritti umani) o con le cattive (presenza militare mercenaria ben pagata).

[fin qui… OGzero]

Qui una rielaborazione di due articoli di Angelo Ferrari pubblicati su Africa Rivista e Agi, ampliati per OGzero. Aggiungiamo un podcast realizzato con Edoardo Baldaro (ricercatore alla Scuola Sant’Anna di Pisa, esperto di Sahel) e Stefano Ruzza (professore associato in Scienze politiche all’Università di Torino, responsabile di T.wai – Torino, esperto di agenzie di sicurezza).


Spostare il confine del Mediterraneo

Il Niger è e diventerà sempre di più il bastione italiano nel Sahel. L’Italia, nel suo piccolo – sia geografico sia diplomatico – ha deciso di rilanciare la sua presenza nel continente africano proprio privilegiando il rafforzamento di quella militare in parte a scapito della cooperazione allo sviluppo, soprattutto in chiave anti-immigrazione. L’obiettivo è fermare i flussi proprio alle porte della Libia, cioè in Niger, con la presunzione e l’illusione che blindando i confini i problemi possano restare dall’altra parte. Spostare, dunque, più a Sud il confine del Mediterraneo. Ci riuscirà? Non è del tutto scontato.

In Niger la presenza militare è rilevante. Si tratta di 290 militari, 160 mezzi terrestri e 5 aerei. Mentre il rapporto tra spese militari e cooperazione allo sviluppo è di 10 a 1. Un po’ quello che è successo in Afghanistan, con le conseguenze, dopo il ritiro occidentale, che sono sotto gli occhi di tutti dal punto di vista umanitario. Tutto ciò, evidentemente, confligge con un principio che dovrebbe accompagnare le missioni militari all’estero in generale, e in particolare in Africa, è cioè quello per cui creare le condizioni di sicurezza nelle aree di crisi è indispensabile per poter realizzare anche le missioni civili e di sostegno socio-economico che aiutino i paesi interessati a costruire o ricostruire i loro apparati pubblici e a sviluppare le loro economie, a loro volta premessa indispensabile per migliorare le condizioni di vita della popolazione e stabilizzare il contesto locale e regionale.

Il Mali lasciato dagli occidentali

Il sentimento antifrancese che è montato in buona parte del Sahel deriva proprio da questo. Cioè le popolazioni hanno visto un gran numero di militari occidentali, ma nessun cambiamento sostanziale, non solo nella sicurezza, ma soprattutto nelle condizioni di vita reale. La precarietà “umanitaria” si è aggravata. La lezione del Mali dovrebbe insegnare qualcosa anche a noi italiani. Non a caso il presidente del Niger, Mohamed Bazoum, si è detto molto “preoccupato” per il ritiro dei francesi e degli occidentali in generale dal Mali.

A questo punto può risultare utile ascoltare le considerazioni sulla situazione dopo la chiusura di Barkhane e il subentro conseguente dei contractor russi, oltre al confronto tra le diverse reazioni nei paesi subsahariani, con Stefano Ruzza ed @EdoardoBaldaro

 “Il senso di Wagner per le crepe: le interconnessioni con le giunte del Sahel?”.

La “fortuna” del Niger, il paese più povero al mondo

Il Niger, tuttavia, interessa moltissimo all’Italia e non si tira indietro, lo ha dimostrato nel recente passato aprendo un’ambasciata nel 2017 e dal 2018 con la “Missione bilaterale di supporto” – militare. Il Niger, dunque, è un partner strategico e, nelle intenzioni del governo italiano, può rappresentare un’opportunità di business per l’Italia. L’Italia è tra quei paesi che guardano con interesse al crescere di questo mercato e in generale a quello di tutta l’area saheliana e la presenza dell’ambasciata italiana a Niamey ha anche il significato di voler accompagnare quanto più possibile le imprese italiane che vorranno avviare affari in questo contesto relativamente ancora incontaminato. Queste le intenzioni del governo italiano. Ma, diciamo noi, occorre arrivare per tempo. Per l’Italia, dunque, il Niger è un paese stabile – e questo aiuta – ma non si può dimenticare il passato recente. Il paese è sempre stato il crocevia di traffici illeciti, dalla droga alle armi, dal riciclaggio dei soldi sporchi alla tratta degli esseri umani.

Le fortune del Niger – se così si può dire – e dei suoi governanti, sono derivate proprio da questo. Un paese che ha fatto dell’illecito la ragione dei propri guadagni.

È il paese più povero al mondo, ma, Mohammad Issoufou, ex presidente nigerino – ha governato il paese per dieci anni fino al 2021 – ha speso milioni e milioni di dollari per acquistare armi, elicotteri e aerei da combattimento russi e francesi, tradendo la sua piattaforma elettorale di stampo socialista-progressista, che lo ha portato al vertice dello stato, impoverendo ancora di più la sua gente. Il suo successore, Bazoum, va nella stessa direzione, non a caso sul finire del 2021 ha acquistato dalla Turchia nuovi droni. L’impegno e le spese militari prevalgono su tutte, pur di mantenere i privilegi ereditati dal suo predecessore. Le cancellerie di tutto il mondo conoscono a perfezione i due burattinai nigerini, sanno perfettamente con chi hanno a che fare, ma hanno deciso che del Niger si possono fidare. Ma alcune domande, tra le tante, vengono spontanee: per quale ragione le varie milizie e fazioni che controllano il territorio dovrebbero abbandonare i lauti profitti che arrivano dai traffici illeciti che siano di esseri umani, droga, armi o denaro? Quali garanzie sono state fornite? Quali accordi stipulati?

Il governo italiano dovrebbe rispondere a queste domande con il linguaggio schietto della politica e non con quello della diplomazia. Occorre, dunque, fare attenzione. Ma le parole chiave sono “arrivare in tempo”. Non possiamo dimenticare che il paese saheliano è strategico anche per la Francia che è ormai una presenza organica, ma sul quale Parigi rivolge lo sguardo, soprattutto ora che si è ritirata dal Mali. L’intenzione francese è proprio quella di rafforzare la sua presenza in Niger e sul fronte Sud del Sahel, paesi come Costa d’Avorio, Togo e Benin. Gli interessi strategici di Parigi sono noti: l’estrazione dell’uranio è fondamentale per un paese che vive di centrali nucleari. Il Niger è il quarto produttore di uranio al mondo e il sesto per riserve.

L’Italia, dunque, deve adottare una via pragmatica e diplomatica per non andare a cozzare con gli interessi di altri paesi che hanno radici solide in quel pezzetto di deserto.

Wagner: gli strumenti “non convenzionali ” della Russia

In Africa, per esempio, la Russia suona la musica di Wagner. La presenza dei mercenari di Mosca rappresenta per Vladimir Putin la guarnigione di “sfondamento” nella sua politica di espansione in Africa. Non è un mistero che la Russia stia cercando di tornare agli antichi fasti dell’Unione Sovietica e non lo fa impegnandosi direttamente sul campo militare, quello dove si combatte, ma inviando la Wagner che per Mosca fa il lavoro sporco. Lo si vede in maniera evidente, per esempio, nella Repubblica Centrafricana, che è diventata la base operativa russa in Africa centrale. Lì i mercenari combattono a fianco delle truppe regolari e sostengono il regime. La guardia presidenziale è tutta nelle mani del Cremlino, così come i consiglieri del ministero della Difesa. Il Centrafrica è diventata una sorta di portaerei nel mezzo dell’Africa che funziona come trampolino di lancio per l’espansionismo russo. Già nel passato questo paese ha avuto questa funzione, con la presenza di numerose basi della Francia, ex potenza coloniale, almeno fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso. Ora la storia è molto diversa e, come è normale che sia, Putin nega tutto. Si limita a spiegare che l’intervento russo in Africa riguarda la fornitura di armi e l’addestramento militare. Ma ogni evidenza porta da un’altra parte. Lo si sta vedendo in maniera plastica in Mali, dove il sentimento prevalente è quello filorusso. Così come in Burkina Faso dove si sono viste manifestazioni a sostegno dei golpisti, con la gente in piazza che sventolava le bandiere di Mosca.

L’Africa, per Putin, è diventato uno degli scenari privilegiati della sua competizione con il mondo occidentale.

Lo fa, appunto, attraverso la fornitura di armi e con il sostegno dell’industria bellica, come in Sudan terzo produttore di armi nel continente africano dopo Egitto e Sudafrica. Per raggiungere i suoi obiettivi, il Cremlino utilizza non solo i normali canali diplomatici ma anche strumenti non “convenzionali”: i famigerati mercenari della Wagner e la propaganda attraverso i social network, come accade in altre parti del mondo. E funziona.

L’impegno italiano: ridurre le partenze

Il governo italiano sta mettendo in atto un cambio di paradigma nel guardare a questo paese e alla regione del Sahel nel suo insieme, cercando di colmare la sua lacuna di presenza, intercettando in maniera tempestiva il crescere dell’attenzione internazionale. Il Niger guarda ormai all’Italia come un “partner di riferimento”, soprattutto nella gestione delle migrazioni, nella lotta all’avanzamento del terrorismo jihadista, nel contenimento delle sfide ambientali e nello sviluppo. Se sul piano militare l’Italia è ben posizionata e il rinnovo delle missioni all’estero voluto dal governo Draghi va proprio in questa direzione. L’Africa si conferma il continente in cui l’Italia è maggiormente coinvolta, con 17 missioni in corso. Tra quelle più rilevanti in termini di unità impiegate e risorse economiche c’è la Task Force Takouba, per il contrasto della minaccia terroristica nel Sahel, e l’impiego di un dispositivo aeronavale nazionale nel Golfo di Guinea in funzione antipirateria.

Le forze della missione Takouba si preparano a lasciare il paese (fonte Africa Rivista).

Sul piano, invece, della cooperazione allo sviluppo fa segnare il passo. Non si può dimenticare che oltre il 40 per cento della popolazione nigerina vive sotto la soglia di povertà e il paese si colloca in fondo alla ben poco onorevole classifica dell’indice di sviluppo umano. C’è da augurarsi, dunque, che il rinnovato impegno in Niger e in tutta la regione sia teso, anche, al rafforzamento di un impegno umanitario. L’impegno italiano è concentrato – almeno così sembra – alla riduzione delle partenze dei migranti (come racconta qui Fabiana Triburgo). Rimane, tuttavia, la domanda: “È sufficiente la cooperazione militare per impedire le partenze?”. È lecito chiedersi se controllo del territorio di questi paesi e lotta al terrorismo non passino anche e soprattutto attraverso politiche di sviluppo: cioè alla creazione di un welfare state che manca totalmente in questi paesi. Non si considera infatti che la maggior parte delle persone che fuggono da quelle situazioni lo fanno perché manca totalmente la percezione della possibilità di costruirsi un futuro solido per sé e la propria famiglia. Non è solo mancanza di cibo, spesso è la mancanza di welfare state, cioè di una rete sanitaria adeguata e di una rete scolastica capace di formare.

In quei paesi dove la cooperazione militare è importante, gli apparati di governo sacrificano, già di loro, gli investimenti per il welfare a scapito di una crescente spesa militare. Tutto ciò dovrebbe far riflettere.

L’impegno russo: fornire armi e sfruttare le risorse

L’arrivo in Centrafrica, tuttavia, rappresenta, uno spartiacque per Mosca. Le armi russe fanno gola un po’ a tutti: Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania hanno lanciato appelli a Mosca perché aiuti le loro forze di sicurezza a combattere il terrorismo, appelli che hanno avuto risposte positive. Tutto ciò piace molto al Cremlino e preoccupa enormemente l’occidente che sta perdendo posizioni strategiche. L’opzione di Mosca è quella di rafforzare la presenza militare per poi passare all’incasso, anche in termini di risorse naturali. L’interesse militare si giustifica, inoltre, con il fatto che il Cremlino è consapevole della sua marginalità nei mercati africani e di non poter competere con l’espansionismo cinese. Le armi, quelle vere, per Mosca, tuttavia, funzionano ancora. Ma è del tutto evidente che l’aiuto militare è subordinato, nel futuro, ad avere un ruolo anche nello sfruttamento delle materie prime.

Non a caso il paradigma di collaborazione con l’Unione africana – emerso nel forum Russia-Africa – che Putin vuole, mira a migliorare i rapporti esistenti, rafforzare i legami diplomatici e aumentare la sua presenza economica nel continente, per avvicinarsi agli elevati livelli di scambi commerciali che già caratterizzano Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Turchia, Europa e Stati Uniti.

La presenza russa in Africa (fonte Ispi).

La retorica di Putin definisce la sua agenda per l’Africa “positiva” e si contrappone, a detta sua, ai “giochi geopolitici” degli altri, spiegando che la Russia non è interessata a depredare la ricchezza dell’Africa, ma a lavorare a favore di una cooperazione “civilizzata”. Parola, questa, già usata da coloro che hanno colonizzato il continente.

Dal punto di vista economico, non è da trascurare la presenza in Namibia dove la Russia è impegnata nell’estrazione dell’uranio e in Angola nel settore diamantifero. Da qui, dall’Africa, Putin vuole ripartire per lanciare la sua sfida e tornare a vantare il ruolo di potenza mondiale. Ma la “prudenza” sta caratterizzando la presenza russa. Putin non arriverà a schierare l’esercito regolare e per questo si avvale di mercenari della Wagner, che fa il bello e cattivo tempo un po’ ovunque, in particolare nella Repubblica Centrafricana che, di fatto, è governata proprio dai russi. Il Mali, dopo il ritiro delle truppe occidentali, rappresenta una vittoria significativa per Putin che è riuscito a ridimensionare l’impero francese.

Attività russe in Africa nel 2019 (Fonte ISW).


Gruppo Wagner: un po’ di storia

Sul Gruppo Wagner, ovviamente, sono più le supposizioni che le certezze. Ciò che si sa è che nasce intorno al 2013 con il nome di Corpi Slavi. Il loro fondatore è l’ex colonnello dei servizi segreti militari Dmitry Utkin. Insieme a un piccolo contingente di ex appartenenti alle forze speciali russe, Utkin si schiera in Siria a protezione delle infrastrutture strategiche per la Russia e per il governo siriano di Bashar al-Assad. I mercenari non ottengono grandi risultati e ben presto rientrano in patria. Qui Utkin rifonda l’organizzazione ribattezzandola Gruppo Wagner in onore del compositore tedesco (Utkin ha forti simpatie naziste). È l’incontro con Yevgeny Prigozhin, oligarca con interessi nei comparti dell’alimentazione, dell’estrazione mineraria e nel mondo della gestione dei dati informatici, che fa compiere al Gruppo Wagner il salto di qualità. Prigozhin è legato a doppio filo a Putin che lo utilizza per portare a termine “operazioni delicate”. I mercenari di Utkin vengono quindi impiegati in Ucraina e a sostegno dei separatisti della Repubblica separatista di Lugansk. Poi di nuovo in Siria, dove si affiancano alle forze di Bashar al-Assad. Il momento più tragico avviene nel febbraio 2018 a Deir ez-Zor, quando un centinaio di uomini viene ucciso in un raid americano nei pressi del villaggio di al-Isba durante gli scontri con le forze curde dell’Sdf. Le imprese compiute in tre anni di guerra, permettono a Prigozhin di passare all’incasso. Un incasso chiamato Africa, dove, nel frattempo, la Russia sta conducendo una delicata partita per recuperare spazi di influenza. Mosca cerca di stringere rapporti con numerosi paesi offrendo assistenza militare in cambio di risorse minerarie. Ma in modo informale. Un gruppo di uomini viene quindi inviato in Sudan. Vengono schierati a protezione del presidente Omar al-Bashir e come presidio sul confine con il Sud Sudan. In cambio, i mercenari russi ricevono la gestione di alcuni impianti minerari. Un’operazione molto simile avviene anche nella Repubblica Centrafricana, dove nel luglio 2018 vengono uccisi tre giornalisti russi che indagavano proprio sulle operazioni di Prigozhin. Il magnate russo farebbe affari con almeno dieci paesi, tra i quali Repubblica democratica del Congo, Madagascar, Angola, Guinea, Guinea-Bissau, Mozambico e Zimbabwe. Uomini del Gruppo Wagner sono stati incorporati nelle milizie di Khalifa Haftar in Libia. Il resto è storia recente.


Per rinfrescarvi la memoria su come operano i contractors o le milizie mercenarie e su come funzionano le regole di ingaggio e quali sono i rapporti di forza con gli stati che li “assumono” guardate questa intervista di OGzero a Stefano Ruzza, regia di Murat Cinar.


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Sipario sull’ouverture tattica in Donbass. Ora la strategia si impronta al dissidio https://ogzero.org/sipario-sullouverture-tattica-in-donbass-ora-la-strategia-si-impronta-al-dissidio/ Wed, 23 Feb 2022 23:13:01 +0000 https://ogzero.org/?p=6479 Il sipario, sceso sulle ultime note della rabbiosa ricostruzione storica di Putin eseguita a canali unificati, ora si rialza su una trama  molto meno definita dell’ouverture in Donbass, che ha seguito un canovaccio previsto e definito nei suoi passaggi: sancito il controllo russo sul Donbass, acquisite le conseguenti – ancora blande – sanzioni americane, accolte […]

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Il sipario, sceso sulle ultime note della rabbiosa ricostruzione storica di Putin eseguita a canali unificati, ora si rialza su una trama  molto meno definita dell’ouverture in Donbass, che ha seguito un canovaccio previsto e definito nei suoi passaggi: sancito il controllo russo sul Donbass, acquisite le conseguenti – ancora blande – sanzioni americane, accolte obtorto collo dagli europei; quest’ultimi vittime sacrificali delle trame dell’uno, mosso dal livore della nemesi storica dell’implosione dell’impero sovietico (ereditato dal bolscevismo, peraltro ripudiato da Putin il 21 febbraio come creatore dell’Ucraina), e anche dell’altro, poco interessato al quadrante europeo e proiettato verso l’Indo-pacifico, non rimane che la guerra scatenata dal presidente russo nelle prime ore del 24 febbraio, simbolicamente festa russa del “Difensore della patria”: l’interpretazione degli ultimi 10-12 anni nella mente scacchistica di Putin lo ha portato a intendere la costante erosione dell’impero ex sovietico (ma il 21 si è riferito direttamente alla Russia zarista) come una morsa volta a strozzare la Russia.

Fin qui era in buona sostanza prevedibile come si sarebbe dipanata la trama, sfociata nella sorprendente messa in scena (un decadente barocchismo novecentesco) del Consiglio di sicurezza russo con gli “yesman” a sancire la scontata annessione che concludeva  l’incipit del monumentale Guerra e Pace riscritto da Putin. La scena finale è stata rivelatrice di quanto i criteri che sottostanno all’approccio storico moscovita provengano da interpretazioni divergenti in partenza rispetto alla cultura storica occidentale… da qui sorge il dissidio che, come insegna Jean-François Lyotard, non trovando un punto di partenza comune è quindi di difficile composizione. Da qui menti poco lungimiranti fanno la scelta della Guerra e i 27 minuti trasmessi in Tv nella notte del 24 febbraio – ma registrati il 21 – con minacce di ritorsioni (non sanzioni) contro chiunque si frapponga ai piani militari dell’invincibile esercito russo sono il primo esemplare momento di propaganda bellica nella sfida mondiale.

[fin qui OGzero…]

Per farci un’idea di come la società russa ha reagito a questa fuga in avanti di Putin, che forse ha perso il collegamento con la realtà russa, Yurii Colombo ha fotografato prima dei bombardamenti alcuni momenti di questi giorni convulsi…


La decisione russa di riconoscere le due repubbliche autoproclamate del Donbass porta la crisi delle relazioni tra Russia e Occidente in territorio sconosciuto, di cui è per adesso difficile prevedere gli esiti. Soprattutto quelli a medio e lungo termine.

In modo abbastanza inconsueto Putin ha assunto la storica decisione usando due lunghe differite trasmesse pubblicamente in Tv sui canali a reti unificate.

Riconoscimento o annessione? Vada al punto, Sergey “Fracchia” Naryshkin

La prima è stata quello del Consiglio di Sicurezza dove tutti gli uomini del “cerchio magico”, i più stretti collaboratori di una vita, sono passati in passerella per dire il loro sì all’«annessione». L’effetto è stato straniante: le facce rese terre dal timore reverente, le parole ripetute spesso con retorica stentorea, il capo dei Servizi segreti per l’estero Sergey Naryshkin balbettando ha persino tentato di proporre il rilancio del dialogo diplomatico subito rintuzzato con durezza dallo stesso Putin.

Bignami di uso geopolitico della storia

L’annuncio della decisione è stato ufficializzato in un discorso del presidente russo di 70 minuti infarcito di richiami storici – in primo luogo in chiave anticomunista, dove non veniva tanto preso di mira Josip Vissarionovich Stalin, quanto lo stesso fondatore dell’Urss, Vladimir Ilic Lenin. Un discorso in cui si rinverdiva la tradizione imperiale del paese rivolto essenzialmente all’opinione pubblica di lingua russa e più in generale alla “diaspora sovietica”.

La trasmissione del discorso era stata sapientemente anticipata in Tv dalle immagini in diretta dove nel grande palasport di Mosca si festeggiava il ritorno degli atleti russi vincitori delle 32 medaglie in diverse discipline alle Olimpiadi invernali di Pechino. Grande entusiasmo: i pianti e l’inno russo intonato ben due volte in coro prima di dare la parola al presidente per “le comunicazioni straordinarie al popolo russo”.

La decisione era stata anche anticipata dalla mossa di procedere alla rapida evacuazione delle donne e dei bambini in buona parte fallita: fino a ora meno di 100.000 abitanti della regione (su oltre 4 milioni), secondo i dati ufficiali, hanno abbandonato le loro case. Lo scorso sabato i blogger di Donetsk hanno fatto fare il giro del mondo ad alcuni video registrati nelle discoteche della città stracolme di giovani ad alto tasso adrenalinico, dove tutto sembrava consumarsi – soprattutto libagioni – meno che una tragedia. Abitudine alla guerra forse ma anche poca voglia di imbarcarsi in un trasferimento incerto e forse senza ritorno.


Così la “crisi dei profughi” che ormai in tutto il mondo dalla Libia fino alla Polonia è diventata un’arma “ibrida” nella definizione dei rapporti di forza a livello internazionale, è risultata un’arma spuntata rapidamente accantonata dall’arsenale propagandistico.

Oro alla Patria sbeffeggiato: Russia distaccata e disillusa

Di sicuro l’“effetto Crimea” non c’è. Le grandi manifestazioni di giubilo e di orgoglio nazionalistico seguite all’annessione che si videro nel 2014, non si sono registrate 8 anni dopo. Se è vero che una maggioranza passiva ha sostenuto il riconoscimento, oggi è la paura e la preoccupazione a prevalere. Nel 2014, malgrado le grandi proteste seguite alle presidenziali del 2012, si attendeva una ripartenza dell’economia del paese, un “nuovo balzo in avanti”, dopo le grandi performances economiche del periodo 2000-2008.

Oggi il clima è completamente diverso: l’economia è formalmente ripartita grazie agli alti prezzi degli idrocarburi degli ultimi mesi, ma il rublo resta debolissimo e i redditi dei lavoratori dipendenti e dei piccoli commercianti in calo. I grandi progetti di modernizzazione delle infrastrutture restano ai blocchi di partenza e la popolarità di Putin ridotta ai minimi termini. L’annuncio che la ricostruzione del Donbass potrebbe costare 20 miliardi di rubli e la conseguente proposta della Duma di destinare a questo scopo le tredicesime dei russi hanno scatenato il sarcasmo e l’ironia negli uffici e sui social network.

Riconoscimenti “bizzarri”, fino a dove e da chi?

A 24 ore dal “riconoscimento” la confusione regnava comunque sovrana persino al Cremlino. I novelli stati indipendenti sostengono di voler controllare le intere aree delle provincie in buona parte controllate ancora dal governo ucraino. Ma se in un primo momento il portavoce di Putin aveva contraddetto questa postura sostenendo che «la giurisdizione sarà nelle aree già controllate dalle Repubbliche» dopo poche ore il Ministero degli Esteri è intervenuto per chiarire che «tale aspetto deve essere ancora definito»; il che fa la differenza tra Guerra aperta in Donbass o un’eventuale Guerra guerreggiata e dimostra il grado di autonomia politica e amministrativa dei due nuovi soggetti internazionali per ora riconosciuti solo da una modestissima pattuglia di paesi: Cuba, Nicaragua e Venezuela. Fa specie che né il Kazakhstan (a cui recentemente l’esercito russo ha portato la sua determinante “solidarietà internazionalista” per bloccare la rivolta operaia e popolare scoppiata nel paese), né tutti gli altri paesi aderenti alla Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto) – in primis la Bielorussia che in questi giorni ha l’esercito russo di stanza sul proprio territorio – si siano allineati nel riconoscimento per evitare le sanzioni occidentali.

Svolte belliche autoimposte

Nella decisione di rompere gli indugi c’è evidentemente anche la crisi definitiva della mancata realizzazione seppur parziale degli accordi di pace di Minsk. Zelensky infatti non appariva disposto a concedere uno status speciale di autonomia alle due provincie (che gli sarebbe costata la rielezione), mentre Putin avrebbe dovuto fare un complicato dietrofront a una annessione, de facto, già realizzata con la concessione del passaporto ai cittadini del Donbass (lo avrebbero preso già in 2 milioni) e l’integrazione della sua economia in quella russa già dallo scorso novembre. Tuttavia così Putin si è posto da solo in un tunnel di cui non si vede l’uscita, togliendo dal mazzo l’unica carta che aveva per una trattativa globale sull’area e spingendo le relazioni con l’Ucraina alla rottura formale che il governo di Kiev ha subito deciso con la richiesta formale di adesione alla Nato (e il richiamo in servizio dei riservisti).

L’esercito russo ora potrebbe dare facilmente una “sculacciata” a quello ucraino sullo stile dell’azione in Georgia del 2008 per poi ritirarsi ma è impensabile che possa realizzare un’occupazione dell’Ucraina per cui non ha la forza prima di tutto economica e che provocherebbe la reazione inevitabile della Turchia. Le conseguenze sarebbero comunque gigantesche e condurrebbero al completo allineamento di Emmanuel Macron e Olaf Scholz dietro Joe Biden, un’eventualità che annullerebbe i già scarsi spazi di manovra a Putin, sul quale si possono dire tante cose meno che fino a oggi non sia stato un abile tattico capace di lavorare sulle contraddizioni del campo avversario come si è visto in Siria.

A tutto gas con le sanzioni

Olaf Scholz, seppur a malincuore, ha dovuto procedere al blocco della ratificazione di North Stream2. Se ne riparlerà ad eventuali acque calme ma questo arrivederci potrebbe diventare presto un addio. La reazione di Mosca è stata furibonda:

Il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo Dmitriy Medvedev ha dichiarato su Twitter: «Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha ordinato di fermare la certificazione del gasdotto North Stream2. Bene, benvenuti nel nuovo mondo dove gli europei pagheranno presto 2000 euro per mille metri cubi di gas!»

Una minaccia che se messa in pratica avrebbe ulteriori conseguenze politiche ed economiche in tutto il continente ma che dimostra quanto Mosca sia pronta ad alzare l’asticella dello scontro.

Le mosse europee occidentali appaiono per ora limitate a un pacchetto di sanzioni a dire il vero però già abbastanza corposo. Blocco totale su due grandi istituzioni finanziarie russe, VEB e Promsvyazbank, così come 42 delle loro filiali; contro il debito sovrano russo:

lo stato russo non potrà più accedere ai finanziamenti e commerciare il suo nuovo debito sovrano sui nostri mercati o su quelli europei.

Particolare scalpore ha fatto l’allargamento delle sanzioni anche ai figli e ai parenti dei grandi imprenditori e funzionari di stato abituati a viaggiare e studiare all’estero invisi alla gran parte della popolazione per i loro stili di vita e per i loro privilegi stentoreamente mostrati. Dopo la riunione dei ministri degli esteri dell’Unione europea, il capo della diplomazia europea ha fatto scattare anche il blocco finanziario e la possibilità di viaggiare in Occidente anche per i 351 deputati della Duma che hanno votato l’unificazione. L’asso di cuori, cioè l’ipotesi di sganciare la Russia dal sistema Swift sembra messa per ora in naftalina perché rischierebbe di essere un boomerang capace di destabilizzare l’insieme della finanza internazionale.

Appeasement europeo / containment americano

Fino a qualche giorno fa si era ironizzato da parte russa riguardo alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza dei paesi occidentali, facendo un’analogia con il fallimento della politica di appeasement di quella del 1938: incertezza atlantica contro decisionismo putiniano. Ma presto si è smorzata. La dipendenza dagli idrocarburi russi gioca certo un ruolo in questa circospezione occidentale, tuttavia ora che il gioco si fa duro anche gli europei sembrano voler aderire alla versione riveduta e corretta del “containment” portata avanti dalla Casa bianca già nella Prima guerra fredda.

La teoria era stata formulata per la prima volta da George F. Kennan nel 1947, l’ambasciatore Usa a Mosca di quel periodo. Il risultato fu il cosiddetto “Long Telegram” che conteneva una valutazione della situazione politica nell’Unione Sovietica in cui Kennan spiegava non solo le premesse alla base della politica estera di Mosca, cercando di immaginare su quali direttrici avrebbe potuto dispiegarsi l’azione di Stalin ma suggeriva anche a Washington come si sarebbero potute efficacemente fronteggiare le iniziative sovietiche.

Kennan, in una maniera apparentemente molto precisa e “scientifica”, rilevava come l’Unione Sovietica desiderava evitare una guerra, ma il ritratto che ne faceva era comunque quello di un nemico implacabile e inevitabile. Come gli Stati Uniti avrebbero dovuto agire contro la potenza sovietica fu spiegato da Kennan in una conferenza del 17 settembre 1946, tenuta davanti a funzionari e personale del Dipartimento di stato.

In questa occasione egli affermò che gli Usa avevano un decisivo margine di vantaggio sugli avversari sovietici che avrebbe permesso loro «di contenerli sia militarmente che politicamente per un lungo periodo a venire». Una tesi poi affinata sul “Foreign Affairs” nel luglio del 1947: «In queste circostanze è chiaro che l’elemento principale di qualsiasi politica degli Stati Uniti nei confronti dell’Unione Sovietica deve essere quella di un contenimento a lungo termine, paziente ma saldo e vigile, delle tendenze espansioniste russe. È importante notare, tuttavia, che una tale politica non ha nulla a che fare con l’isteria esteriore: con minacce o gesti sfuocati o superflui di ‘durezza esteriore’ […]. Per l’autore l’unico modo per contenere la pressione sovietica contro le libere istituzioni dell’Occidente era «l’applicazione abile e attenta di una forza contraria in una serie di punti geografici e politici che si spostano in continuazione, in corrispondenza degli spostamenti e delle manovre della politica sovietica».

La comune valutazione occidentale sarebbe quella di limitare il raggio d’azione dell’amministrazione putiniana sulla base dell’esperienza storica che la Russia non si batte mai in campo aperto militare come dimostrano le sfortunate avventure di Hitler e Napoleone ma risucchiandola in un lungo confronto soprattutto finanziario-economico in cui ha tutto da perdere.

Ma oggi non appare così certo che la Russia voglia evitare a tutti i costi la guerra. In questo quadro la richiesta di Putin al Consiglio della Federazione di avere la possibilità in quanto capo dell’esercito di poter usare le forze armate in zone extraterritoriali, per ora limitate al Donbass, potrebbe essere il cattivo presagio di un’invasione in grande stile dell’Ucraina. Questa ipotesi che solo fino a poche settimane sembrava fantapolitica ora è diventata oggetto di studio su scala mondiale. Se il leader russo decidesse di intraprendere una tale avventura vorrebbe dire che si è deciso a giocarsi il tutto per tutto, persino la sua futura permanenza al Cremlino.

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Bit & Coin: la geostrategia criptata https://ogzero.org/il-bitcoin-divide-la-geostrategia-criptata/ Fri, 18 Feb 2022 22:15:02 +0000 https://ogzero.org/?p=6301 Una cosa è certa: il Bitcoin divide. Da una parte ci sono quelli, come la Banca Centrale Russa, che vogliono bandire la criptovaluta per il rischio di forte instabilità finanziaria che ne scaturirebbe, rendendo fragile la sovranità del paese e vanificando le sue politiche monetarie. Dall’altra quelli, come El Salvador, che l’hanno addirittura adottata come moneta in […]

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Una cosa è certa: il Bitcoin divide. Da una parte ci sono quelli, come la Banca Centrale Russa, che vogliono bandire la criptovaluta per il rischio di forte instabilità finanziaria che ne scaturirebbe, rendendo fragile la sovranità del paese e vanificando le sue politiche monetarie. Dall’altra quelli, come El Salvador, che l’hanno addirittura adottata come moneta in corso legale: il primo paese al mondo a consentire ai cittadini di fare acquisti in tutti i negozi e di pagare le tasse tramite Bitcoin. A discapito di una crescente preoccupazione della propria popolazione, nonché del FMI, che in un comunicato del 25 gennaio scorso ha espressamente chiesto al paese di rinunciare alla criptomoneta. Ben lungi dal voler essere esaustivi di un argomento oltremodo complesso, cerchiamo di fare luce sulle due decisioni.

Questo era l’incipit di un bell’articolo di Marco Grisenti apparso su “Atlante delle Guerre”, quando l’ultimo rapporto del Financial Stability Board avvertiva che le criptovalute «presto potrebbero mettere in pericolo la stabilità finanziaria globale»; e allora Joe Biden sta per firmare un decreto presidenziale sulle blockchain, per mobilitare le istituzioni (gli Usa sono il primo paese al mondo per attività di mining, si stima che circa 60 milioni di americani detengano delle criptovalute) e portare il braccio della legge nell’anarchica frontiera digitale, che nel 2021 è giunta a valere 2600 miliardi di dollari. La Cina ha completamente bandito pure il mining per concentrarsi sulla diffusione dello Yuan digitale. La Russia sta decidendo se bandire o regolamentare (Vladimir Putin propende per la seconda). L’India tassa i cripto-profitti al 30%, legittimando le valute digitali e scatenando un’ondata di entusiasmo

(fin qui OGzero… )

Claudio Canal ci fornisce un punto di vista che approfondisce in modo suggestivo e originale gli “indici” del Bitcoin. 


In principio era un mistero: chi è Satoshi Nakamoto il creatore di Bitcoin? È lui, il nippo-americano della California. No, è l’ingegnere svizzero. Che dici? Satoshi è un team di persone. È Elon Musk. È l’australiano Craig Steve Wright. Chi, l’impostore? Mio cuggino dice di conoscere Satoshi. Gli hanno anche dedicato un busto a Budapest.

il Bitcoin divide

Il busto dedicato al fantomatico Satoshi Nakamoto a Budapest.

Sono trascorsi quattordici anni e il famoso capitalismo della sorveglianza non è riuscito a scoprire chi stia dietro allo pseudonimo Satoshi Nakamoto che nel 2008 ha pubblicato un paper in cui spiega cosa intende per e come si può costruire una moneta virtuale crittografica peer-to-peer governata da algoritmi e senza intermediari, cioè Bitcoin.

Il fantasma in questione dalla quarta o quinta dimensione in cui dimora stabilmente può prendersi le sue soddisfazioni rimirando il pianeta Terra e il videogioco geopolitico in atto.

I paradisi dei minatori

Il Kazakhstan, un sandwich tra Cina e Russia, al momento è scomparso ai nostri videocchi, ma alcune evidenze si sono manifestate oltre alle proteste, i morti e la brutalità poliziesca: siamo nel secondo produttore al mondo di moneta digitale, dietro solo agli Stati Uniti. Dopo la proibizione di Bitcoin da parte del governo cinese, il Kazakhstan ne era diventato un santuario: 90.000 società di estrattori di criptovaluta, i famosi miners, erano emigrate nel paese caucasico. Il clima freddo che evita le spese dei refrigeratori per i computers sempre al massimo dei giri e il basso costo dell’energia – prodotta dal carbone! – ne avevano fatto il paradiso del Bitcoin, convenzionalmente indicato come BTC.

Non si surriscaldano solo i computers, ma anche le società e il governo ha bloccato per sei giorni le connessioni internet nel riuscito tentativo di fermare la protesta dando però una severa mazzata anche alla rete di minatori. Molte imprese restano incerte sul da farsi. Il deserto gelido o nuovi lidi?

BTC si rivela non così svincolato e affrancato dal potere dello stato come sostengono i suoi predicatori e lo scorso 2021 ha visto una bella miscela di segnali contrastanti, che è un po’ il distintivo di fondo di un’innovazione sociotecnica come questa:

  • gli Stati Uniti hanno approvato gli investimenti in BTC sui fondi ETS,
  • è stato realizzato un fondamentale aggiornamento tecnico detto Taproot che consente maggiore privacy, scalabilità, cioè aumento di scala secondo le necessità, e sicurezza,
  • la Nigeria ha posto severe restrizioni alle banche commerciali di trattare criptovalute, la Turchia ha proibito i pagamenti, anche l’Iran ha tentato a più riprese qualcosa di simile
  • salgono a 8 i paesi che, con tempistiche diverse, hanno vietato di trattare in BTC, tra cui la Cina ovviamente.
  • El Salvador, il pulgarcito-pollicino dell’America Latina, adotta BTC come moneta ufficiale e progetta una città dedita alla moneta virtuale alimentata dalla energia geotermica dei vulcani. Ho, addirittura, coltivato anteriore intimità con questo paese, il cui brillante presidente, Nayib Bukele, si autoqualifica sull’amatissimo Twitter come Amministratore Delegato [CEO] di El Salvador.

il Bitcoin divide

Bitcoin City (fonte: Architectura viva).

Roba per cuori forti

Nel radioso 2022 appena avviato si è di nuovo manifestata un’altra delle caratteristiche strutturali di BTC: ama il dondolo, su e giù su e giù,  ovvero spiccata volatilità. Da novembre ad oggi, fine gennaio 2022, ha perso più del 50%, trascinandosi dietro anche le altre numerose criptovalute. Chi ha investito ed è debole di cuore, oggi non riesce a frenare le sue palpitazioni. Ieri era Paperone, oggi non riesce a fare il pieno di benzina. Ogni stormir di fronde mette in moto inarrestabili montagne russe degli indici. A proposito. La Russia ha appena posto forti restrizioni alle transazioni in cripto e il paese non sta alla periferia della rete globale criptovalute, ma viene subito dopo i già nominati Stati Uniti e Kazakhstan. Infatti, per dirla in dialetto bitcoinico, ha un elevato hashrate, che indica l’unità di misura di potenza di elaborazione della rete BTC. Un hash rate di 10 Th/s, indica che il network è in grado di realizzare un trilione di calcoli al secondo. La Russia di Putin detiene l’11,2% della potenza globale. Non bruscoletti.

Il gioco, che già non era uno scherzo, si fa durissimo. Narendra Modi, primo ministro dell’India, in video conferenza al Forum Economico Mondiale di Davos ha invitato le nazioni a far qualcosa in comune e in fretta per affrontare il problema delle criptovalute. Non si era ancora ripreso dal fatto che un mese fa il suo canale Twitter ufficiale era stato hackerato e aveva prodotto per i suoi 73 milioni di followers la seguente solenne dichiarazione: «In India la valuta ufficiale ora è il Bitcoin».

Dopodiché Modi si è barcamenato tra banno o non banno le cripto? Nel frattempo, come negli Stati Uniti, da metà gennaio è possibile investire in Bitcoin sui fondi ETS e il primo ministro vagheggia una CBDC, che al momento resta un brusio su cui si dirà più avanti.

Primo: BTC non piace agli stati, soprattutto se autoritari

È decentralizzata, non ha bisogno di Banche Centrali, non consente controlli statali. Consuma troppa energia. C’è chi la considera uno strumento contro il colonialismo monetario. C’è chi la considera per quello che è, un gigante della speculazione.

Ci sono stati che invece ne incentivano l’uso, come l’Uruguay, che ha appena installato un “bancomat” per criptovalute. In Italia ce ne sono una settantina e complessivamente la crescita degli impianti si sta incrementando:

Fonte Cointamtradar.

Gli corrisponde in rete una profusione di blog, siti, guru, illusionisti, riviste e piattaforme, in ogni lingua immaginabile che, mentre addestrano alla terminologia e ai “segreti” del BTC e della blockchain che gli sottostà, propongono e facilitano investimenti da fiaba.  Torna l’imperituro mantra: Arricchitevi!

Non è mai stato facile distinguere la retorica dalla realtà. In America latina poi il realismo magico sprizza dappertutto. Le magagne  e i pregi delle criptovalute si affastellano aggrovigliandosi e tutti ci provano: Venezuela, Cuba, Argentina, ColombiaCripto alle masse! È la parola d’ordine.

  • Le cripto facilitano l’invio delle rimesse degli emigrati, che sono il salvagente di svariati paesi.
  • Si svincolano, almeno in parte, dal dominio del dollaro, non a caso il Fondo Monetario Internazionale bacchetta El Salvador sulla legalizzazione della criptomoneta e lo fa adesso [fine gennaio 2022], quando BTC sta scivolando ai minimi rischiando di diventare merdomoneta.
  • Le cripto permettono un libero accesso alla finanza a milioni di persone che non hanno un conto in banca. La definiscono inclusione finanziaria ed è una tappa dell’incessante processo di finanziarizzazione/valorizzazione dell’umanità che il capitalismo da mo’ persegue con metodica determinazione. Anche tu, piccolo indigeno Aymara delle montagne boliviane potrai finalmente acquistare il forno a microonde su Amazon con due clic senza passare per banche e società come Mastercard Tu e Jeff Bezos, faccia a faccia.
  • Permettono l’indipendenza finanziaria delle donne. Forse. Si dice. Parrebbe.
  • Le criptomonete non sono così virtuali come sembra, ingurgitano energia senza pudore. Se il loro uso continuasse a espandersi dovremmo ricorrere alle candele e alla legna da ardere. Queste fondamenta materialisticamente reali potrebbero in tempi per niente geologici pericolosamente sprofondare.

L’Assoluto Mistico della crescita illimitata e perpetua sembra non accorgersi che le emissioni di carbonio di un anno di BTC sono pari a quelle della Nuova Zelanda, per ora.

Con lo stesso entusiasmo c’è chi guarda all’Africa dove nel 2020 il mercato delle cripto è cresciuto nel 1200%  e nel 2021 è andata ancora meglio, tanto che l’ultimo rapporto di ChainalysisAnalysis of Geographic Trends Cryptocurrency Adoption and Usage October 2021 ne parla (a p. 108), in questi termini accalorati [grassetto mio]:

Africa has the smallest cryptocurrency economy of any region we study, having received $105.6 billion worth of cryptocurrency between July 2020 and June 2021, but despite that it’s also one of the most dynamic and exciting. Not only has Africa’s cryptocurrency market grown over 1200% by value received in the last year, but the region also has some of the highest grassroots adoption in the world, with Kenya, Nigeria, South Africa, and Tanzania all ranking in the top 20 of our Global Crypto Adoption Index. In addition to being the third-fastest growing cryptocurrency economy, Africa also has a bigger share of its overall transaction volume made up of retail-sized transfers than any other region at just over 7%, versus the global average of 5.5%.

il Bitcoin divide

Se dici moneta dici scambi commerciali, investimenti, territori, politiche economico-sociali, sovranità.

Uno spettro si aggira per il mondo. La moneta è un modo di governare il mondo.
Tutte le monete sono spettri. [sillogismo sgangherato]

  • Tutte le monete sono virtuali, anche il dollaro,  essendo segni del denaro che è una riserva di valore che si basa su… [citare D. Ricardo, K. Marx, G. Simmel, J.M. Keynes, F. Hayek…].
  • Alcune sono digitali [per esempio, Visa…]
  • Alcune digitali sono criptate, cioè “nascoste”, visibili/utilizzabili solo conoscendo un determinato codice informatico. Entità governate algoritmicamente da un grande registro di scambi detto “Blockchain”, in cui la conservazione e lo scambio è regolato e certificato per condivisione [per esempio BTC e tutte le altre, Ethereum…].

Dopo una fatica bestiale di scavo, i miners-minatori devono portare i loro sudati bitcoin alla cassa [Coinbase, Kraken, Local Bitcoins], se intendono ottenere moneta spendibile fuori del mondo cripto. Ciò che fa l’habitué di un qualsiasi Casino con le fiches che ha vinto. Ottenere moneta vera, quella che ha una Banca Centrale alle spalle, uno stato.

Non è tutto oro ciò che luccica. Saluti e baci a Libra o Diem, la criptovaluta che era stata pomposamente lanciata nel 2019 da Facebook, nella forma di stablecoin, cioè ancorata a un’attività di riserva stabile come il dollaro statunitense o l’oro. FB l’ha venduta al miglior offerente.

Secondo: sono digitali le central bank digital currency

CBDC, come Petro del Venezuela, lanciata nel 2018,  che usa blockchain o lo Yuan elettronico della Cina atteso prossimamente. Sono digitali, ma seguono una logica opposta a BTC e affini perché sono o saranno gestite da autorità governative e dalle banche centrali che sono anche prestatori e garanti di ultima istanza. Stesse tecnologie, finalità incompatibili.

il BItcoin divide

Dove la criptopolitica diventa geopolitica

E qui giochiamo in casa. La geopolitica trova la sua grammatica e può cantare i suoi ritornelli. Gli attori del contendere sono i ben visibili e consolidati stati e non ectoplasmi monetari come le criptovalute con cui il nostro comprendonio suda le note camicie.

La spettro-valuta chiamata $

C’è qualcuno che domina la finanza mondiale con uno spettro-valuta che si chiama $, qualcun altro vuole sottrarsi a questa egemonia, che sia una riconosciuta, temuta Grande Potenza o uno stato malandrino o ancora una combriccola di stati denominata UE momentaneamente fuori stanza. Si tratta anche qui di una guerra già guerreggiata assai che meriterebbe inviati speciali più attenti perché ne va del futuro. Come non bastasse tutto il rimanente.

eNaria

La primizia della Nigeria, che aveva lanciato nell’ottobre scorso la propria moneta digitale eNaria, adesso sta zoppicando ed è molto curioso che a cimentarsi con questi esperimenti di fintech [Finance e Technology] siano microstati come Le Bahamas, Antigua e Barbuda, Grenada, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia e colossi come Nigeria e Cina. Disposti su un atlante darebbero filo da torcere anche al più navigato geopolitico e tuttavia sono il sintomo di una trasformazione globale in corso.

Tether

E gli USA, gli USA cosa fanno? Temporeggiano, studiano, discutono. Il dollaro digitale non è alle porte anche se induce in tentazione. D’altra parte la terza più grande, discussa e discutibile, criptovaluta, Tether, è ancorata al dollaro, è cioè una stablecoin, ha una capitalizzazione di 98 miliardi di dollari, come dichiarano i suoi dirigenti, senza che nessuno l’abbia mai verificato, e la sua moneta è nominata USDT. Funge da banca centrale delle cripto e affronta gagliarda i processi che le vengono intentati.

Una interessante conversazione in video con l’amministratore delegato di Tether, Paolo Alboino, la si può trovare qui.

Euro digitale

Per l’euro digitale non c’è fretta. È allo studio, i dibattiti si infittiscono, il prototipo fra tre o quattro anni, poi fase di sperimentazione e finalmente…

Pausa di riflessione

C’è un libro importante, curato da due studiosi italiani, Nicola Bilotta e Fabrizio Botti, che fa il punto su quest’ultimo tipo di monete: The (Near) Future of Central Bank Digital Currencies, Risks and Opportunities for the Global Economy and Society (Peter Lang, 2021), che, udite udite, è liberamente scaricabile qui. In italiano N. Bilotta ha scritto un report dell’IAI [Istituto Affari Internazionali] confidenzialmente intitolato Cbdc per principianti. Tutto quello che c’è da sapere sulla moneta digitale della banca centrale (e perché non dovrebbe far paura) come in un film della compianta Lina Wertmüller.

Resterebbe da sciogliere il dilemma quantistico: che fine ha fatto il gatto di Schrödinger contemporaneamente vivo e morto? Ovvero: le monete digitali nelle loro diverse incarnazioni sono contemporaneamente di destra e di sinistra?

Lascio a chi se ne intende la soluzione del quesito, rimando ad altra occasione l’eventuale discussione di piccole esperienze locali non trite e ritrite, come The Socialist Blockchain, Trustlines, Aleeza Howitt  e molte altre che non conosco.

Io mi posiziono su questi appoggi

  • La rivista statunitenseJacobindel 21 gennaio 2022 titola un articolo:
  • La criptomoneta è un gigantesco schema Ponzi, di Sohale Andrus Mortazavi. La prima frase dell’articolo è: La criptomoneta è una truffa.   Per chi l’avesse dimenticato lo schema Ponzi consisteva nel promettere fraudolentemente agli investitori alti guadagni, pagando gli interessi maturati dai vecchi investitori con i soldi dei nuovi investitori. Non fa male ricordare che Bernard Madoff con la sua truffa tra i 50/65 miliardi di dollari in stile Ponzi coinvolse i più pregiati istituti finanziari mondiali, tra cui molti italiani [ad esempio Unicredit].
    È morto in carcere il 14 aprile del 2021.
    Jacobin argomenta anche tecnicamente una interpretazione radicale. Mi auguro segua un’ampia discussione.
  • Edemilson Paraná un giovane e brillante ricercatore brasiliano, già autore di Digitalized Finance: financial capitalism and informational revolution (Brill, 2019); Haymarket, 2020, ha pubblicato Bitcoin: a utopia tecnocrática do dinheiro apolítico (Autonomia Literária, 2020) [acquistabile su Kindle, € 6,49]. Non mi sogno di riassumerlo qui. Segnalo alcuni spunti che mi hanno interessato:
    → BTC pone sfide interessanti alle grandi banche, alle istituzioni finanziarie internazionali, ai governi. Va preso sul serio questo paradosso, senza prostrarsi ai santoni del criptoevangelismo che ne decantano le virtù terapeutiche universali
    → BTC chiede al neoliberismo, di cui è figlio ribelle,  di realizzare le sue promesse: competere per promuovere innovazione, incoraggiare mercificazione e privatizzazione, esasperare la turbotendenza a trasformare qualsiasi cosa in un generatore di reddito, in una risorsa scambiabile: assetisation of everything [com’è già che la chiamava il barbone di Treviri?]
    → nonostante il radicalismo libertario, BTC e consanguinei sono interni all’ortodossia dominante per cui la moneta è una cosa, quando invece è una relazione sociale. I miliardi messi in movimento sono tutti “depositati” in una stratosfera magica ed eterea [… Ethereum] che ha vita solo sui monitor luccicanti e letteralmente muore con il loro spegnimento. La metafora dominante delle criptovalute è invece, non a caso, ipermaterialistica: a far funzionare la cortina fumogena è l’epica dei minatori che scavano alla ricerca dell’oro.

Conclusione filmica

In rete pullulano Predicatori del culto Bitcoin con centinaia di migliaia di fedeli.

Proposta n. 1: avviare un’analisi dei contenuti, delle tecniche espositive, dell’antropologia visuale, della maschilità dilagante, dei commenti ecc.

Proposta 2: montare un docu di spassosa rappresentazione dello zombie capitalismo imperante.

Assaggi: qui, qui, qui, qui  …   …   …   …

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