Tullio Togni Archivi - OGzero https://ogzero.org/autore/tullio-togni/ geopolitica etc Fri, 25 Mar 2022 11:54:54 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 La terra, il petrolio e il conflitto https://ogzero.org/la-terra-il-petrolio-e-il-conflitto/ Wed, 26 Jan 2022 00:45:01 +0000 https://ogzero.org/?p=5928 Luz Marina Arteaga Il corpo di Luz Marina Arteaga è stato ritrovato lungo il Río Meta lo scorso 17 gennaio, a 5 giorni dalla scomparsa della donna dalla sua residenza nel paesino di Orocué, nella pianura orientale colombiana non lontana dalla frontiera con il Venezuela. È il drammatico esito di una storia già scritta che […]

L'articolo La terra, il petrolio e il conflitto proviene da OGzero.

]]>
Luz Marina Arteaga

Il corpo di Luz Marina Arteaga è stato ritrovato lungo il Río Meta lo scorso 17 gennaio, a 5 giorni dalla scomparsa della donna dalla sua residenza nel paesino di Orocué, nella pianura orientale colombiana non lontana dalla frontiera con il Venezuela. È il drammatico esito di una storia già scritta che non lascia speranza, tanto che fra dolore e tristezza, molti sospettano che non poteva esserci finale diverso.

Luz Marina Arteaga, medica, attivista, leader sociale e comunitaria, aveva alle spalle una vita intera di lotte per i diritti delle comunità indigene e contadine: una traiettoria politica che l’aveva portata a collaborare nei processi di base delle fasce sociali che più di tutte hanno sofferto il conflitto interno colombiano e che sono sempre rimaste ai margini della storia e della giustizia. Oggi come ieri.

Nei territori di Orocué, Porvenir e Matarratón, zone che si estendono lungo la frontiera fra i dipartimenti del Meta e di Casanare, Luz Marina Arteaga è stata attiva in prima linea e fino alla fine dei suoi giorni nella lotta per la restituzione delle terre alle comunità indigene e contadine che a causa del conflitto armato, del paramilitarismo e della privatizzazione, sono rimaste senza nulla. La sua è stata e continua a essere una lotta che esemplifica chiaramente la conflittualità sociale presente in buona parte della Colombia, del Sudamerica e non solo: una lotta che svela interessi e alleanze, dinamiche di corruzione, di guerra e di violenza. Al centro, il cuore e il motore del conflitto: la tierra, risorsa e condanna per centinaia di migliaia di persone.

Brian Cardenas, avvocato della Corporación Claretiana Norman Pérez Bello, spiega il ruolo di questa organizzazione attiva nell’accompagnamento sociale e giuridico alle comunità contadine e indigene, e poi nel ricordare il ruolo assunto da Luz Marina Arteaga riassume il processo di lotta per il recupero della terra che le è costata la vita.

La lotta per la terra

Impossibile e ovviamente troppo pericoloso indicare mandanti e mercenari responsabili dell’assassinio dell’attivista, ma le dinamiche sono chiare: quelle che passano attraverso azioni di rioccupazione dei territori di proprietà storica.

“Lucha Tierra”.

Tutto ciò si accompagna a un caso giuridico durato anni, le comunità di Matarratón e Porvenir ottengono due sentenze a loro favore da parte degli organi più alti della giustizia colombiana, la Corte Suprema (STP 16298 del 2015) e la Corte Constitucional (SU-426 del 2016), le quali determinano che lo stato deve restituire loro le terre e assicurare diritti con prospettiva etnica e collettiva, servizi pubblici e garanzie di sicurezza. Ma proprio qui, nella pianura infinita che separa il dire e il fare, l’assetto giuridico e la sua realizzazione pratica, si perde la giustizia e si crea un vuoto colmato da gruppi armati che rappresentano gli interessi di chi sta al di sopra della legge.

Il risultato è che lo stato e i grandi latifondisti si organizzano in vari modi: i territori in questione vengono dichiarati zone di interesse per lo sviluppo economico, sostituiscono la popolazione mostrando che la restituzione si sta effettuando secondo le regole salvo poi espellerla per mantenere i titoli di proprietà, vittime e carnefici del conflitto armato si confondono con tutte le conseguenze del caso, e non da ultimo contrattano e organizzano gruppi paramilitari perché prevalga la loro volontà. Così, alla fine, non rimane che l’esito scontato per quelle persone che si ostinano a reclamare diritti e giustizia.

Nel caso di Luz Marina Arteaga come in quello di molte altre attiviste e attivisti, lo stato e le istituzioni hanno una responsabilità diretta anche rispetto all’assenza di protezione e misure di sicurezza che dovrebbero garantire, soprattutto nei casi in cui l’omicidio è preceduto da svariate minacce e ricatti.

Quanto alle modalità, Brian Cardenas della Corporación Claretiana Norman Pérez Bello non ne è per nulla sorpreso: in questo tipo di casi si va ben oltre un semplice proiettile o un “omicidio convenzionale”. L’idea è quella di colpire la figura più emblematica della lotta sociale per mandare un messaggio all’intera comunità, e per questa ragione l’agguato avviene in modo estremamente violento ed è quasi sempre preceduto dalla scomparsa – desaparición – della persona.

 

Centroriente: petrolio e conflitto

Così come l’Occidente colombiano che si apre sull’Oceano Pacifico e che vede nel porto di Buenaventura il principale sbocco per il commercio di ogni tipo di merce e sostanza, anche la pianura Centrorientale assume un ruolo strategico e attrae vari tipi di attori. La vicinanza con la frontiera venezuelana crea commerci di ogni genere, ma il Centroriente colombiano è conosciuto soprattutto per essere zona di estrazione di petrolio (circa un quarto della produzione a livello nazionale trova radici nei dipartimenti di Arauca, Meta e Casanare), per cui non sorprende la presenza di grandi imprese straniere che si dedicano a questa attività.

Già negli anni Trenta venne scoperta la ricchezza presente nel sottosuolo della regione, ma fu solo a partire dai primi anni Cinquanta che l’impresa Texas Petroleum Company (Texaco) cominciò le attività di estrazione di petrolio. Queste ultime si intensificarono esponenzialmente durante gli anni Ottanta, con la scoperta dei pozzi di Caño Limón (dipartimento di Arauca), Cupiagua e Cusiana (dipartimento di Casanare). Si trattava di riserve di petrolio con una capacità stimata in 100 miliardi di barili. In epoca più recente, dal 2010 a questa parte, nei municipi di Trinidad, San Luis de Palenque e Orocué (esattamente dove viveva Luz Marina Arteaga) sono stati destinati vari pozzi all’estrazione da parte di imprese come Alange, Canacol Energy, Pacific Rubiales e Lewis Energy Colombia INC. Altre multinazionali presenti nel territorio sono Parex Resources ed EcoPetrol.

Le implicazioni per le comunità presenti nel territorio sono molte e ancora una volta trovano nella terra il punto di partenza e di arrivo: vanno dall’inquinamento delle acque alla sottrazione di spazi per il pascolo e l’agricoltura, mentre a livello giuridico si traducono nel mancato rispetto del diritto alla consulta previa secondo la quale le comunità presenti nel territorio possono decidere se accettare o meno i “mega-progetti” che le vedono implicate. Infine le più gravi implicazioni in termini di vite e diritti umani consistono negli omicidi selettivi da parte dei gruppi armati e nello sfollamento forzato di intere comunità: la logica denunciata da queste ultime vede nella creazione di “zone di conflitto” e nella militarizzazione del territorio la giustificazione per espellere la popolazione civile e permettere in tal modo l’entrata delle multinazionali, con tutti i giochi di potere e di corruzione del caso.

Pressioni sulle comunità: violenze antisindacali e conflitti tra guerriglie

Squadrismo paramilitare petroliero

In questo scenario il paramilitarismo gioca un ruolo centrale; e del resto in questa zona del paese già durante la violenza degli anni Cinquanta i conservatori crearono i pajaros, gruppo armato impegnato nella repressione della resistenza liberale guidata da Guadalupe Salcedo. Fu poi a partire dagli anni Novanta che si incrementò il fenomeno del paramilitarismo, quando l’impresa British Petroleum (BP) favorì la creazione di “gruppi di sicurezza privata”. Si moltiplicarono così gli esempi: il gruppo Martín Llanos, le Autodefensas Unidas del Casanare e le Autodefensas Campesinas de Casanare (Acc o Los Buitragueños), i quali non entrarono nel processo Jusiticia y Paz di smobilitazione delle più famose Autodefensas Unidas de Colombia (Auc) nel 2005.

Il loro operato si tradusse sempre – e continua a farlo oggi – in attacchi verso le organizzazioni sindacali che si oppongono agli interessi delle imprese, verso le comunità in resistenza per la difesa del territorio, verso i leader sociali e gli attivisti di base.

Quanto accaduto a Luz Marina Arteaga non è che un altro esempio del tipo di repressione che spetta a chi osa toccare gli interessi dei potenti, mentre l’altra certezza è che insieme alla terra, il petrolio ha alimentato il conflitto e la violenza da oltre mezzo secolo a questa parte.

Guerriglie e giochi di potere

Il Centroriente colombiano, soprattutto nei dipartimenti di Arauca e Casanare, è pure territorio storico di controllo della guerriglia: l’Eln principalmente e in minor misura le Farc. Imprese multinazionali, esercito e gruppi paramilitari hanno da sempre dovuto fare i conti con loro e molte zone sono rimaste inaccessibili all’estrazione di petrolio proprio grazie alla presenza della guerriglia.

La situazione fino a qualche mese fa non mostrava grandi differenze rispetto al passato, con una forte presenza politica dell’Eln nel substrato politico e popolare e con l’espansione militare del Frente 10 e 28 delle dissidenze delle Farc agli ordini di alias Gentil Duarte, mai entrati nelle trattative degli Accordi di Pace del 2016. Fra Eln e Farc reggeva un patto di alleanza politica, militare e ideologica stretto nel 2013 e mantenuto anche dopo il 2016, a seguito di una lunga guerra fra il 2004 e il 2010 che costò la vita a 500 civili e 600 combattenti.

Frente e Eln

Nel corso del 2021 qualcosa è tuttavia cambiato: nel mese di marzo è stato dato l’allarme per l’espansione del paramilitarismo nelle zone di controllo storico della guerriglia, e quasi al contempo Maduro ha dichiarato guerra alla dissidenza delle Farc (Frente 10) attiva lungo la frontiera fra Colombia e Venezuela. A inizio 2022 le dissidenze delle Farc hanno dichiarato guerra all’Eln e in un comunicato hanno affermato la costituzione del Comando Conjunto del Oriente, composto dal Frente 10, 28, 45 e 56, con l’idea di riattivare i blocchi di guerra delle antiche Farc. Tutto ciò malgrado un’altra fazione delle Farc pure presente nel territorio, la Segunda Marquetalia agli ordini di Ivan Márquez – entrato nelle negoziazioni degli Accordi di Pace e poi sottrattosi – sarebbe invece alleata con l’Eln.

Sono scenari che possono sembrare irreali ma che rispondono a interessi politici ed economici oltre che a strategie militari; quel che è certo è che in questo inizio di 2022, tali avvicendamenti hanno lasciato una lunga scia di sangue: a farne le spese è stata soprattutto la base civile e il movimento sociale, come dimostrano gli attacchi del Frente 28 delle Farc all’acquedotto autogestito di Saravena e l’autobomba fatta esplodere lo scorso 19 gennaio di fronte alla sede del Congreso de los Pueblos, movimento politico legato ideologicamente alla linea dell’Eln. Oltre a ciò, in questo mese di gennaio si contano 20 omicidi selettivi e 3 stragi nella regione.

Diverse organizzazioni sociali concordano nel dire che lo stato e le dissidenze delle Farc presenti nel territorio si sarebbero alleati per combattere contro l’Eln, e non a caso i principali scontri militari starebbero avvenendo in zone di interesse per l’estrazione di petrolio fino a oggi inaccessibili perché sotto controllo dell’Eln stesso, come è il caso della regione de La Esmeralda. A ciò si aggiunge la forte repressione da parte dello stato, che considera eleno – appartenente alla guerriglia dell’Eln – ogni attivista delle comunità contadine e indigene, mentre al contempo denuncia la complicità del governo venezuelano nell’appoggiare tale guerriglia.

Uno scenario complesso

La scomparsa e il successivo assassinio di Luz Marina Arteaga risponde a una logica piuttosto chiara in quanto rappresenta una punizione per il suo impegno nelle lotte per la restituzione della terra; al contempo si inserisce in un contesto socio-politico specifico e relativamente nuovo, in cui si presentano scontri fra guerriglie e possibili alleanze fra stato, dissidenze e paramilitari, tanto più in una zona di frontiera (chiusa ufficialmente) con il Venezuela e in un clima di relazioni bilaterali pressoché inesistenti specialmente da quando Duque ha smesso di riconoscere Maduro come legittimo presidente.

 

Uno scenario che dimostra la profondità e la complessità del conflitto interno colombiano, tutto fuorché terminato con gli Accordi di Pace del 2016.

Al contempo, dall’altro lato del paese, a Cali, a inizio gennaio l’Eln ha rivendicato un attacco esplosivo che ha ferito 14 agenti dell’Esmad (il corpo antisommossa della polizia) in risposta alla violenta repressione messa in atto durante le proteste del Paro Nacional e all’uccisione del comandante alias Fabián lo scorso mese di settembre. Nella capitale Bogotá, invece, pochi giorni fa è stata trovata una bomba pronta per essere fatta esplodere nella sede del partito di ex combattenti delle Farc, Comunes.

Tutti segnali piuttosto univoci nel suggerire che la campagna elettorale è in pieno corso e che il 2022 promette di essere un altro anno molto intenso.

L'articolo La terra, il petrolio e il conflitto proviene da OGzero.

]]>
La Colombia della “pace” https://ogzero.org/la-colombia-della-pace/ Sun, 12 Dec 2021 21:25:45 +0000 https://ogzero.org/?p=5547 A 5 anni dagli Accordi di Pace fra il Governo Santos e la guerriglia storica delle Farc, il cammino per lasciarsi il conflitto alle spalle sembra ancora lungo e tortuoso, come il corso degli innumerevoli  corsi d’acqua del Delta del Rio Danubio; il dipartimento del Cauca si affaccia sulla costa pacifica della Colombia, ma di […]

L'articolo La Colombia della “pace” proviene da OGzero.

]]>
A 5 anni dagli Accordi di Pace fra il Governo Santos e la guerriglia storica delle Farc, il cammino per lasciarsi il conflitto alle spalle sembra ancora lungo e tortuoso, come il corso degli innumerevoli  corsi d’acqua del Delta del Rio Danubio; il dipartimento del Cauca si affaccia sulla costa pacifica della Colombia, ma di pacifico c’è solo la certezza del conflitto tra narcos. Tullio Togni ci ha inviato questi scatti che illustrano nel suo racconto un paesaggio di difficile composizione del cinquantennale conflitto ufficialmente concluso 5 anni fa dal premio Nobel, il presidente Juan Manuel Santos.


Jefferson commenta lo sparo isolato appena sentito poco lontano, dice che sicuramente non si tratta di un’esecuzione: se il colpo fosse stato diretto al cranio, lo avremmo sentito più soffice e diffuso; attutito. Usa le mani per spiegare qualcosa che va oltre il senso dell’udito, ma per chi non ci è abituato questo rimane un concetto astratto; aleggia nell’aria.

Costa colombiana sul Pacifico

 

Buenaventura, città portuale sulla costa pacifica colombiana, è un inferno a ritmo di salsa che a partire dalle sette di sera tace quasi del tutto: un coprifuoco informale proibisce ogni danza per le strade, nessuno osa togliere la scena alle bande locali che si spartiscono il controllo e il microtraffico; “los chotas” e “los espartanos” da un anno a questa parte si sono dichiarate guerra, ma rimangono parte della stessa struttura illegale detta “La Local”. Le principali occupazioni di quest’ultima sono il narcotraffico e l’estorsione, oltre a quella pratica terribile a cui la Colombia si è abituata nel corso degli anni di conflitto e che si definisce come “pulizia sociale”. La relazione storica è con le “Autodefensas Gaitanistas de Colombia – Agc”, anche dette “Clan del Golfo”, gruppo paramilitare presente a livello nazionale il cui massimo esponente, Dairo Antonio Úsuga David (alias Otoniel), è stato recentemente arrestato. Anche se molti pensano che si sia consegnato nel quadro di un accordo ben più ampio con il governo attuale; del resto, alle elezioni di maggio 2022 non manca molto tempo.

La riconfigurazione del conflitto

Se potesse scegliere, Jefferson non andrebbe mai a Buenaventura, rimarrebbe tutta la vita in uno dei numerosi villaggi di palafitte sparse che si estendono lungo i cosiddetti “Fiumi di Buenaventura”, rami d’acqua che dalla cordigliera occidentale attraversano la foresta del Chocó e del Valle del Cauca per poi sciogliersi nell’Oceano pacifico. Ma c’è una relazione stretta fra gli spari e la casa di legno lasciata vuota davanti alla quale è seduto: in tutta questa zona, la popolazione locale – principalmente afrocolombiana – vive sotto il fuoco incrociato dei gruppi armati presenti, in particolare le dissidenze delle Farc che non sono entrate nel Processo di Pace o vi si sono sottratte, l’Eln – Esercito di Liberazione Nazionale, i paramilitari delle Agc e lo stesso Esercito colombiano. È errato gettare tutto nello stesso calderone, ma nella confusione generale della riconfigurazione del conflitto nel post-Accordo, la stessa guerriglia ha perso la sua identità storica e varia molto a seconda della regione e del contesto in cui opera; nell’Occidente colombiano, punto d’incontro fra l’entroterra e il porto di Buenaventura da cui passa oltre il 60 per cento della merce del paese, quasi tutti i gruppi armati sembrano avere vocazione economica – la cocaina – più che ideologica, per cui anche se nella maggior parte dei casi l’esercito e le Agc si alleano informalmente per combattere la guerriglia, non è raro assistere a scontri armati fra le Farc e l’Eln.

Valle Cauca

Innumerevoli rivoli d’acqua sulla costa colombiana del Pacifico e qualche drappo di rivendicazione territoriale (© – Red de Hermandad y Solidaridad con Colombia)

La riconfigurazione del territorio

Nel conglomerato di villaggi in cui vive Jefferson detta legge la Colonna Mobile Jaime Martinez, dissidenza delle Farc-Ep riunita nel “Comando Coordinador de Occidente”; lo dimostrano i cartelloni che si affacciano sul fiume o la stessa delegazione armata che si presenta: ragazzi sui vent’anni vestiti in civile se non fosse per il giubbotto verde militare, le armi e le munizioni al collo. Ma il controllo territoriale va oltre i fucili e gli spari: è fatto di ordini e restrizioni con mine antiuomo ai margini dei villaggi per limitare la mobilità della popolazione civile e le incursioni dei gruppi armati rivali, è il reclutamento forzato e le isolate esecuzioni extragiudiziali. È quanto successo alla fine di ottobre nel villaggio accanto, quando un membro del consiglio comunitario è stato assassinato perché sospettato di essere un informatore dell’esercito colombiano, dopo che i media avevano strumentalizzato alcune sue dichiarazioni rispetto al conflitto armato nella regione e lo avevano di fatto esposto a un alto rischio. È lo sparo attutito a cui si riferisce Jefferson, è la complessità del vivere in un contesto intricato e precario, in cui chi oggi è costretto a offrire un pranzo a un gruppo armato, domani viene ucciso dall’altro per aver collaborato con il nemico, oppure è perseguito dalla magistratura per aver dialogato con attori illegali presenti nel territorio. Lo stato in tutto questo si limita alla presenza militare, con incursioni frequenti, scontri armati ad alto impatto simbolico e ulteriori danni per le popolazioni locali. Queste ultime, organizzate nei consigli comunitari, denunciano la stessa convivenza fra stato e gruppi armati, chiedono che si rispetti la Legge 70 del 1993 che riconosce le comunità afrocolombiane come gruppo etnico con diritti sul territorio e autonomia di governo, rivendicano garanzie di sicurezza, educazione e sanità in tutta la zona della “Buenaventura rurale”: a proposito, nessun piano di vaccinazione per il Covid è stato ancora previsto qui. Alla guerriglia e in particolare alle dissidenze delle Farc, invece, chiedono semplicemente coerenza. In generale, per come si vive oggi, dicono che si stava meglio prima.

Villaggi su palafitte nella Valle del Cauca (© – Red de Hermandad y Solidaridad con Colombia)

Gli accordi di pace

A 5 anni dalla convulsa firma degli Accordi di Pace del 2016 fra il governo Santos (2010-2018) e le Farc, la Colombia vive una situazione paradossale a cui i numeri fanno da cornice: 299 ex guerriglieri e 1270 leader sociali assassinati, 500 organizzazioni della società civile vittime di minacce, 250.000 persone costrette all’esodo forzato. Numeri importanti che evidenziano una tragica realtà.

La terra rimane a tutti gli effetti il motore del conflitto, lo stato non si è impegnato a restituirla né a redistribuirla, ha abbandonato molti territori precedentemente controllati dalle Farc dando il via libera all’entrata di nuovi gruppi armati. Quando ha investito, lo ha fatto per generare monocolture per l’esportazione o piani di esplorazione per soddisfare gli interessi di multinazionali straniere anziché quelli delle comunità indigene e contadine che più di tutti hanno sofferto. E quanto alla difesa dell’ambiente, benché nella recente Cop26 il presidente Duque abbia dichiarato di essere disposto a difendere gli ecosistemi del paese, solo nel 2020 sono stati registrati oltre 65 omicidi contro attivisti ambientalisti. Per non parlare del processo di sostituzione delle coltivazioni illegali a suon di glifosato e di assenza di alternative valide alla coca.

Cauca indigena, ottobre 2020

Le poche prospettive per la popolazione smobilitata e gli omicidi di ex guerriglieri e attivisti sociali, sono l’altro grande cruccio del bilancio a 5 anni dagli Accordi di Pace, poiché dimostrano che lo spazio per le nuove lotte sociali e l’esercizio delle attività politiche e pubbliche, continuano a costare vite umane. A ciò si aggiunge l’altissimo livello di impunità per chi commette questi crimini e chi li ordina, un fenomeno messo in relazione con la corruzione della classe politica e gli attacchi della destra uribista al sistema di giustizia transizionale (Jep) nato nel 2016.

La Colombia oggi

Oltre a Cali, epicentro del “Paro Nacional”, Buenaventura è destinazione obbligata e recipiente delle popolazioni sfollate di tutta la regione del Pacifico colombiano. Lo scorso agosto è occorso a 1600 persone della zona del “Litoral San Juan”, vittime dei bombardamenti dell’esercito colombiano contro l’Eln, mentre negli ultimi giorni è toccato ad altre centinaia di persone appartenenti alle comunità indigene e afrocolombiane dei “Fiumi di Buenaventura”. Una volta in città, la loro prospettiva è quella di cercare di sopravvivere in un modo o nell’altro nei quartieri popolari, alla mercé delle bande locali e di quel ciclo di violenza che sembra non finire mai.

Da qualche parte a Buenaventura si nasconde anche Santiago, giovanissimo coordinatore delle brigate mediche a Cali che durante i mesi del “Paro Nacional” offrivano i primi ausili ai manifestanti vittime della violenza della polizia. Come successo a molti altri, una volta ristabilitosi l’“ordine sociale” gli sono cominciate a piovere addosso minacce di morte da parte di gruppi non identificati; la pressione su di lui è cresciuta al punto tale che, credendosi perduto, ha voluto farla finita. Ma oggi è ancora vivo, nascosto e protetto da una piccola cerchia di persone di fiducia. Lo stesso, purtroppo, non si può dire di suo fratello: vittima della vendetta trasversale, 10 giorni fa è stato fatto sparire.

Vecchia copia della rivista “Semana” uscita prima che venisse cooptata nella galassia uribista, asservendosi al potere da posizioni di denuncia come queste.

La Colombia del post-Accordo fra Governo e Farc non ha raggiunto una reale fase postbellica; quest’ultima si è semplicemente adattata e rimodellata al presente, forse a causa di alcune debolezze strutturali come la non messa in questione del sistema economico e di “sicurezza nazionale”, oppure il fatto che a vederlo ora, l’accordo appare come un’intesa esclusiva fra le alte sfere di due mondi opposti che hanno commesso lo stesso errore: dimenticarsi delle loro basi.

A circa sei mesi dalle elezioni presidenziali di maggio 2022, è difficile immaginare quale sarà il destino della pace in Colombia.

Un cielo pieno di nubi (© – Red de Hermandad y Solidaridad con Colombia)

 

 

 

L'articolo La Colombia della “pace” proviene da OGzero.

]]>
Popoli indigeni e sciopero nazionale https://ogzero.org/popoli-indigeni-e-sciopero-nazionale/ Wed, 30 Jun 2021 23:18:36 +0000 https://ogzero.org/?p=4077 L’insurrezione in corso in una Colombia stremata da anni di neoliberismo imposto da Uribe, dal latifondo, dalle divise, scatenato dalla riforma fiscale e che vede in piazza da due mesi migliaia di persone determinate e per nulla spaventate dalle centinaia di morti, scomparsi, seppelliti in fosse comuni, vede protagoniste le comunità indigene, oggetto del desiderio […]

L'articolo Popoli indigeni e sciopero nazionale proviene da OGzero.

]]>
L’insurrezione in corso in una Colombia stremata da anni di neoliberismo imposto da Uribe, dal latifondo, dalle divise, scatenato dalla riforma fiscale e che vede in piazza da due mesi migliaia di persone determinate e per nulla spaventate dalle centinaia di morti, scomparsi, seppelliti in fosse comuni, vede protagoniste le comunità indigene, oggetto del desiderio degli interessi minerari e agrari; del narcotraffico e dei paramilitari. La minga della Cauca fa tremare i monumenti secolari del colonialismo per colpire il neocolonialismo del neoliberismo. 

Tullio Togni continua a ribadirci che «el paro no para» anche attraverso la testimonianza di Edwin Guetio, di cui ci ha fornito alcune interessanti analisi, introiettate in questo articolo, aggiornate poi in questa corrispondenza da Bogotà, trasmessa in diretta il 1° luglio 2021 dalla trasmissione Bastioni di Orione di Radio Blackout.

Ascolta “Differenti protagonisti della rivolta colombiana. La necropolitica uribista” su Spreaker.


Il 7 maggio 2021, a poco più di una settimana dall’inizio delle sollevazioni popolari del Paro Nacional, un gruppo di giovani del popolo indigeno Misak abbattevano a Bogotá la statua dello spagnolo Gonzálo Jimenez de Quesada, a cui si attribuisce la fondazione della capitale della Colombia. In un comunicato a poche ore dai fatti, i manifestanti rivendicavano l’atto in nome del «recupero di uno spazio fisico e simbolico, sottraendolo alle violazioni che da secoli sono state perpetrate da parte dei sicari della conquista».

Gonzálo Jimenez de Quesada

L’abbattimento delle statue è la sineddoche del superamento di quel colonialismo… mentre si avversa il neocolonialismo

Oltre un mese più tardi, il 9 giugno, mentre le mobilitazioni si protraevano a oltranza nel nome di el paro no para, manifestanti indigeni dello stesso gruppo etnico abbattevano la statua di Cristobal Colón e danneggiavano quella della regina Isabella di Castiglia, detta “La cattolica”.

Claudia Lopez, sindaca di Bogotá, non tardava a condannare pubblicamente e con estrema risolutezza tali violenze rivolte al passato e alla memoria; quasi al contempo, in un’intervista rilasciata nelle strade, un manifestante appartenente al popolo Misak specificava che «questa terra non è quella degli spagnoli, bensì quella dei popoli indigeni».

La questione indigena. I numeri…

Nella molteplicità delle forme di lotta e delle rivendicazioni, nell’eterogeneità della piazza e delle mobilitazioni, la questione indigena è di primaria importanza, e dato il contesto attuale oltre che storico sarebbe impossibile negarlo. Per quanto percentualmente limitata rispetto ad altri paesi sudamericani (4,4% della popolazione – 1.905.617 persone), la popolazione indigena in Colombia è ben presente, come dimostra il censimento nazionale del 2018 che ha registrato 115 popoli indigeni presenti in tutto il paese. I dipartimenti in cui si concentrano maggiormente le popolazioni indigene sono Guajira (394.683 abitanti), Cauca (308.455), Nariño (206.455), Córdoba (202.621) e Sucre (104.890). Al contempo, i principali popoli indigeni presenti su suolo colombiano per numero di abitanti, sono i Wayuu (380.460 persone), gli Zenú, (307.091), i Nasa, (243.176) e i Pastos (163.873).

… e la Minga
popoli indigeni e sciopero nazionale

La minga nella Cauca convoca il paro nacional indigeno. La minga è un gruppo di persone piuttosto ampio che si occupa della “sicurezza”, che poi si conforma come minga interpretando il risultato dell’unione di diversi gruppi etnici indigeni. In particolare durante i cortei la marcia indigena è detta “minga”, che in sé racchiude anche il significato di protesta

Il Cric – Consejo Regional Indígena del Cauca conta 10 popoli indigeni e 127 autorità ancestrali, è figlio della resistenza indigena di fronte all’etnocidio che ha caratterizzato gli ultimi 500 anni e, più recentemente, delle lotte per la terra e l’identità portate avanti lungo il secolo XX, in particolare quelle di Martin Quintín Lame e poi dalla Asociación nacional de Usuarios Campesinos (Anuc). Edwin Guetio, coordinatore del settore per la difesa e la promozione dei Diritti Umani, ci spiega in quale situazione si trovano attualmente i popoli indigeni del Cauca colombiano e quale è stato finora il loro coinvolgimento nel Paro Nacional:

“La criminalizzazione della protesta sociale”.

Terra e territorio nella storia e nei simboli

Ha ragione Claudia Lopez, sindaca di Bogotá: le statue sono il passato e la memoria. Attaccarle, però, è un atto simbolico che riporta indietro l’attenzione, aiuta a non dimenticare. Non sorprende dunque che le mobilitazioni dello sciopero nazionale iniziato lo scorso 28 aprile 2021 abbiano voluto andare a toccare anche quella che è indubbiamente una delle radici dei tanti problemi strutturali di questo paese. Non sorprendono nemmeno le parole dei manifestanti indigeni rispetto ai soprusi perpetrati dai colonizzatori spagnoli e al diritto a terra e territori.

Latifondo, monocultura e controllo militare

È forse proprio quest’ultimo punto il centro e l’origine della discriminazione storica contro i popoli indigeni e gli altri considerati “marginali”: la proprietà privata della terra, l’accumulazione e la sottrazione delle proprietà collettive ancestrali. In questo processo storico, si individuano tre momenti fondamentali: il primo coincide con l’espropriazione della terra durante i secoli XVI e XVII – subito dopo la fine della resistenza armata delle comunità indigene del Cauca – e la costituzione delle grandi haciendas; il secondo momento corrisponde con l’espansione del latifondismo durante il secolo XIX e XX, quando alcune grandi famiglie ottennero titoli di proprietà privata a scapito della proprietà collettiva tradizionale dei popoli indigeni; il terzo e più recente momento coincide con l’epoca della “Violenza” degli anni Cinquanta del Novecento, che aumentò considerevolmente l’accumulazione delle terre nelle mani di pochi. Il lungo conflitto interno, la privatizzazione ulteriore e la militarizzazione dei territori con il fenomeno del paramilitarismo, contribuirono poi a fare il resto durante i decenni successivi. La situazione attuale non si distanzia di molto da quella degli anni scorsi, basti pensare che il 60% della terra della regione del Cauca risiede nelle mani del 7,8% della popolazione, mentre l’85% dei piccoli proprietari possiede solo il 26% della terra, che viene inoltre classificata con livello di fertilità basso o molto basso. Rimangono poi le altre problematiche di sempre, come il controllo militare dei territori, le coltivazioni illegali destinate al narcotraffico e le monocolture, prima fra tutte quella della canna da zucchero.

Los resguardos indígenas si definiscono come proprietà collettive di una comunità indigena, come dagli articoli 63 e 329 della Costituzione politica, che le dichiara non trasferibili né alienabili: indispensabili per rispettare il territorio e la cultura in cui ciascun colombiano si riconosce

Los resguardos indígenas si definiscono come proprietà collettive di una comunità indigena, come dagli articoli 63 e 329 della Costituzione politica, che le dichiara non trasferibili né alienabili: indispensabili per rispettare il territorio e la cultura in cui ciascun colombiano si riconosce

Per quanto riguarda i cosiddetti resguardos indígenas – territori appartenenti alle popolazioni indigene – va segnalato che la loro autonomia viene spesso violata sia da gruppi armati di vario tipo sia dalle forze statali, mentre il settore imprenditoriale non perde occasione per chiederne la riduzione in termini di estensione.

Autonomia e partecipazione: le Costituzioni

Vi è un altro asse parallelo nel processo di discriminazione ed esclusione storica delle popolazioni indigene: la loro considerazione e rappresentanza all’interno dello spazio pubblico e politico, i diritti concessi e riconosciuti dalla legge, la loro efficacia. A tal proposito, la Costituzione del 1991, cosiddetta Costituzione dei Diritti Umani arrivata dopo 105 anni dalla precedente, ha segnato una svolta storica, almeno sulla carta. Prima di allora le popolazioni indigene non godevano di alcun tipo di riconoscimento di fronte alla legge, tanto che la Costituzione del 1886 non ne menzionava nemmeno l’esistenza. In generale, l’impostazione portata dagli spagnoli e il modus operandi di fronte agli indigeni si mantenne anche dopo l’Indipendenza nazionale e si tradusse nell’uniformità etnica, religiosa e linguistica. Ne è un chiaro esempio la legge 89 del 1890, che elevò ulteriormente il livello di violenza e assimilazione nei confronti delle popolazioni indigene: l’idea era quella di portare i “selvaggi” alla “civiltà”, l’imposizione della religione cattolica era una condizione sine qua non.

Multiculturalità sulla Carta e diritti da conquistare

popoli indigeni e sciopero nazionale

Trent’anni fa, al momento della creazione dell’Assemblea Costituente, si registra la prima rappresentanza indigena nella storia colombiana costituita da Lorenzo Muelas, Francisco Rojas Birry e l’ex guerrigliero Alfonso Peña Chepe. I risultati furono importanti: divieto costituzionale del razzismo, garanzie per la rappresentanza e la partecipazione politica indigena, riconoscimento dell’autonomia nei resguardos e delle specificità culturali in termini di organizzazione sociale e della proprietà, usi e costumi, educazione, medicina tradizionale. In generale, il principale obiettivo raggiunto fu il riconoscimento della diversità etnica e della multiculturalità, confermato dalla ratifica della Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Una vittoria su più livelli nonostante varie lacune, prima fra tutte l’assenza di un capitolo esplicito dedicato ai diritti etnici e indigeni; al tempo stesso, però, una minaccia per l’oligarchia al potere e le sue mire di controllo sull’intero territorio nazionale.

Proprio da lì sembra derivare buona parte della violenza che oggi continua a perpetrarsi:

“Il controllo indigeno sul territorio: contro narcos, estrattivismo e gruppi armati”.

Paramilitarismo urbano

Lo sciopero nazionale ha sicuramente esacerbato il grado di violenza con cui si deve confrontare l’opposizione sociale in Colombia, e in tale contesto le popolazioni indigene sono state attaccate da più parti. Emblematico è quanto avvenuto lo scorso 9 maggio a Cali, quando un gruppo di civili armati ha aperto il fuoco contro la minga indígena. Un fatto allarmante in quanto rappresenta l’uscita alla luce pubblica di un fenomeno definibile come paramilitarismo urbano, finora rimasto più o meno nascosto nell’immensa zona grigia della continuità fra simili atti e gli altissimi livelli di impunità.

La solita condotta calunniosa di Uribe

Ma per capire meglio alcuni meccanismi dell’apparato repressivo dello stato, ancora una volta occorre fare un salto nel passato, quando il 30 maggio 1999 l’Esercito di Liberazione Nazionale (Eln) organizzò uno degli attentati più eclatanti della sua storia, conosciuto come il “Secuestro en la Iglesia La Maria”, avvenuto nel quartiere Ciudad Jardín della città di Cali. Decine di guerriglieri dell’Eln proruppero all’interno della chiesa nel momento della celebrazione religiosa e sequestrarono circa 200 persone, obbligandole a salire su dei camion che li portarono nelle montagne circostanti. Tutti furono poi liberati ma il bilancio fu comunque pesante: 3 morti e 1 ferito.

Ebbene, nel momento in cui, 22 anni più tardi, gli indigeni del Valle del Cauca si mobilitavano per raggiungere le manifestazioni del Paro Nacional a Cali, il solito Álvaro Uribe Veléz, in un tweet poi rettificato, “confondeva” la bandiera rossoverde del Cric con quella rossonera dell’Eln, e allarmava la popolazione civile sull’imminente arrivo in città dei guerriglieri:

Grupo terrorista ELN en Jamundí, Valle. El camino es apoyar la acción de las Fuerzas Armadas con estricta observancia de la Constitución; evitar el avance de la defensa privada armada. No repetir preferencia del terrorismo sobre las Fuerzas Armadas, se sufren consecuencias.

 

In altre parole, si trattava di un gravissimo atto di diffamazione nei confronti del Cric e di un forte incitamento alla violenza: il risultato non poteva di certo essere una sorpresa, e non a caso avvenne nello stesso quartiere di 22 anni prima, Ciudad Jardín di Cali:

“Resistenza e repressione: 9 maggio a Cali”.

I prossimi passi

Nella sua visita in Colombia avvenuta in giugno 2021 fra le mille polemiche, la Commissione Interamericana dei Diritti Umani (Cidh) ha espresso serie preoccupazioni per quanto mostrato da parte dello stato in termini di gestione della protesta sociale, di fatto tradottasi in repressione violenta sia a livello fisico che giudiziario. La piattaforma Indepaz ha denunciato che dall’inizio del Paro Nacional e fino al 24 giugno 75 persone sono state uccise. In un rapporto dell’anno scorso, giugno 2020, la stessa organizzazione sottolineava che dal 2016, anno della firma degli Accordi di Pace, 269 attivisti indigeni erano stati assassinati. Nel solo 2021, dei 79 attivisti sociali uccisi in tutto il paese, 26 risultano essere indigeni.

Sono cifre impressionanti e che dipingono in maniera esaustiva lo scenario di “pace fragile” che vive il paese, in cui ampi settori al potere non hanno alcuna intenzione di invertire la rotta e sono pronti a rispondere come hanno sempre fatto: con la forza e la violenza.

Allo stesso tempo, lento ma irreversibile, nell’intersezionalità della lotta procede il cammino verso l’autodeterminazione dei popoli indigeni e di tutti i gruppi etnici considerati “altri”. È un cammino per la vita, per la terra e per la pace, che ha trovato nel Paro Nacional del 2021 un momento di svolta:

“Una Colombia giusta e sociale. Insorgente, ma evitando la Guerra civile”.

La Dichiarazione di Quito

Uno degli slogan che più è risuonato in questi mesi di sciopero, è stato il seguente: A PARAR PARA AVANZAR, come fosse un intreccio fra cosmogonie e concezioni diverse del tempo, più o meno lineari. Allo stesso modo, è opportuno, un’ultima volta, volgere lo sguardo al passato, tornare all’attualità di oltre trent’anni fa, prima ancora dell’Assemblea Costituente del 1991.

È il 1990, è la Dichiarazione di Quito in occasione del Primo Incontro Continentale dei Popoli Indigeni, si parla di autodeterminazione:

“(…) La autodeterminación es un derecho inalienable e imprescriptible de los pueblos indígenas. Los pueblos indígenas luchamos por el logro de nuestra plena autonomía de los marcos nacionales. La autonomía implica el derecho que tenemos los pueblos indios al control de nuestros respectivos territorios, incluyendo el control y manejo de todos los recursos naturales del suelo y subsuelo y espacio aéreo. Asimismo, la autonomía (o soberanía para el caso de los pueblos indios de Norteamérica) implica la defensa y la conservación de la naturaleza, la Pachamama, de la Abya Yala, del equilibrio del ecosistema y la conservación de la vida.

Por otra parte, autonomía significa que los pueblos indios manejaremos nuestros propios asuntos para lo cual constituiremos democráticamente nuestros propios gobiernos (autogobiernos). Exigimos en forma urgente y lucharemos por conquistar las modificaciones de las constituciones de los distintos países de América, a fin de que se establezca en ellas el derecho de los pueblos indios, especificando muy claramente las facultades del autogobierno en materia jurídica, política, económica, cultural y social.

Los pueblos indígenas estamos convencidos de que la autodeterminación y el régimen de autonomía plena sólo podremos lograrlo previa destrucción del actual sistema capitalista y la anulación de toda forma de opresión sociocultural y explotación económica. Nuestra lucha está orientada a lograr ese objetivo que es la construcción de una nueva sociedad plural, democrática, basada en el poder popular”.

[D.R., Bernal Camargo, Autonomía y libre determinación de los pueblos indígenas en el marco del Estado social de derecho de la Constitución política colombiana de 1991, in “Revista Republicana”, ISSN: 1909-4450, nn. 4-5, Corporación Universitaria Republicana].

popoli indigeni e sciopero nazionale

L'articolo Popoli indigeni e sciopero nazionale proviene da OGzero.

]]>
Colombia: parlano i muri https://ogzero.org/la-lotta-prosegue-in-colombia-e-i-muri-parlano/ Sun, 13 Jun 2021 10:43:01 +0000 https://ogzero.org/?p=3828 Colombia: a oltre un mese dall’inizio dello sciopero nazionale, il bilancio di un paese con clima da guerra civile. Tullio Togni ci racconta – anche con una serie di sue immagini – che, nonostante la dura repressione dell’Esmad, la lotta prosegue e sopra ogni altra voce, anche attraverso i muri, anche se coperti da teli […]

L'articolo Colombia: parlano i muri proviene da OGzero.

]]>
Colombia: a oltre un mese dall’inizio dello sciopero nazionale, il bilancio di un paese con clima da guerra civile. Tullio Togni ci racconta – anche con una serie di sue immagini – che, nonostante la dura repressione dell’Esmad, la lotta prosegue e sopra ogni altra voce, anche attraverso i muri, anche se coperti da teli neri che li censurano, lo sciopero continua, inaugurando così una serie di articoli inviati dalla Colombia in lotta: potete già anche leggere (e ascoltare la testimonianza di Edwin Guetio) il secondo contributo dedicato all’apporto al “paro nacional” da parte della comunità indigena


Hanno oscurato le pareti di piazza Bolívar, Bogotá, per paura che parlassero. Un immenso telone nero è stato calato sulle facciate principali del Palazzo di Giustizia e del Campidoglio nazionale, così come lungo le arterie principali che portano al cuore della città: sipari bianchi di plastica a protezione degli edifici più significativi, dei centri commerciali e delle statue di conquistatori spagnoli e politici di spicco di uno o due secoli fa. L’idea era che un colpo di spugna sarebbe bastato per lavare tutto il sangue, ma questa volta non è andata così, perché i muri – tutti – durante il lungo maggio di rivolta hanno continuato a parlare. Hanno detto che “il popolo vuole educazione e salute anziché guerra”, che “con la fame ci controllano”, che il “narcostato è corrotto” e che “la polizia tortura”. Ma soprattutto, ovunque e più forte di ogni altra voce, da 40 giorni continuano a gridare che “lo sciopero continua”.

La lotta prosegue

El paro no para

La prima scossa era stata data il 21 novembre 2019 con uno sciopero nazionale che sembrava essere logica conseguenza delle mobilitazioni in Cile ed Ecuador: anche in Colombia si protestava contro l’ennesima offensiva neoliberale e le sue agevolazioni fiscali alle grandi imprese in cambio di tagli ai salari della classe media e dei meno abbienti. A ciò si aggiungeva la prostrazione di fronte alla corruzione endemica della classe politica, la rivendicazione di una reale implementazione degli Accordi di Pace del 2016 fra Governo e Farc e infine il rispetto, da parte dello stato e la sua forza pubblica, del diritto alla protesta sociale. Poi venne la pandemia a placare gli animi o meglio a rinchiuderli in casa, almeno per chi ne aveva una: un rigido e lungo lockdown di quasi 6 mesi diede il colpo di grazia a quella grande fetta di popolazione che sopravviveva grazie all’economia informale. Tre milioni di persone finirono in povertà mentre 2,4 milioni di posti di lavoro si persero per strada: a pagarne le spese, come sempre, i giovani e le donne, oltre alle categorie storicamente e strutturalmente svantaggiate.

El covid es mentira

El covid es mentira – “Il covid è una menzogna”, sussurra un altro muro vicino al Museo nazionale, pieno centro Bogotá. Nessun negazionismo bensì un graffio alla gestione del governo e alle parole del presidente Ivan Duque, che di fronte alle dimissioni del ministro delle Finanze Alberto Carrasquilla, fautore della Riforma Tributaria che ha incendiato il paese intero, lo ha ringraziato per aver realizzato un sistema sociale che ha saputo far fronte alla pandemia. Così, nel picco della terza ondata di Covid-19 e a fronte degli oltre 90.000 morti che si contano in tutto il paese, la stessa Riforma tributaria arrivata senza previa consultazione di alcun tipo si è trasformata in una scintilla: imposizione dell’Iva al 19 per cento su beni e servizi, tagli alle pensioni, ai salari e al sistema sanitario, fra le altre cose. Il 28 aprile il Comitato di Sciopero Nazionale – formato dalle principali organizzazioni sindacali e di studenti, insegnanti, pensionati, contadini, camionisti, indigeni e afrocolombiani, oltre alla comunità lgbtqi – ha indetto il primo giorno di sciopero nazionale e ha espresso le sue rivendicazioni, simili a quelle del 2019 con l’aggiunta di una campagna di vaccinazione di massa, un salario minimo legale mensile, facilitazione di accesso agli studi per gli studenti, rispetto della diversità di genere.

La lotta prosegue

La risposta della popolazione è stata immediata e imponente in tutto il paese, tanto che quasi subito, il 2 maggio, il governo ha ritirato la Riforma Tributaria e annunciato le dimissioni del suo artefice, il ministro delle finanze Alberto Carrasquilla. Ma questo non ha calmato la protesta, che prosegue da oltre un mese e che lo scorso 19 maggio ha ottenuto anche il ritiro della Riforma alla Salute.

Ma non è andato tutto liscio, anzi. Lo dicono i muri, lo urlano più forte che possono.

La lotta prosegue

Nos están matando

Il 29 aprile 2021 appare un tweet – poi eliminato dalla piattaforma per incitamento alla violenza – in cui Alvaro Uribe, uomo forte del partito di estrema destra Centro Democratico al governo, nonché ex presidente in carica fra il 2002 e il 2010, chiede la militarizzazione delle città e sostiene il diritto di soldati e poliziotti di usare le armi. Detto fatto, il suo scagnozzo Ivan Duque dà immediatamente l’ordine, scatenando la violenza indiscriminata e impunita della forza pubblica, che guarda caso nella democrazia colombiana risponde al ministero della Difesa anziché a quello degli Interni. Bastano pochi giorni per far calare un clima di terrore su tutto il paese, contrastato solo dalle manifestazioni rumorose e colorate che imperterrite continuano a sfilare. Si crea ben presto una nuova normalità, termine abusato e dettato ora dall’Esmad, l’unità antisommossa nata nel 1999 sotto la presidenza di Pastrana e poi formalizzata dallo stesso Alvaro Uribe, conosciuta per la ferocia e le brutalità commesse tanto contro gli oppositori politici come ai fini di una “pulizia sociale”. La nuova normalità, molto simile a un ennesimo “stato di eccezione”: mattino tranquillo, pomeriggio di mobilitazioni e notte di scontri e repressione. L’Esmad presidia i centri di potere e quando riceve l’ordine dalle alte gerarchie attacca i cortei sparando lacrimogeni ad altezza umana e usando armi da fuoco, mentre l’esercito schiera soldati, blindati ed elicotteri. A ciò si aggiungono gruppi di civili armati che attaccano i manifestanti.

La lotta prosegue

Poi succede di tutto, dalle irruzioni in casa alla caccia all’uomo, dalle esecuzioni extragiudiziali alle sparizioni forzate: l’atmosfera è surreale. Il caso più emblematico e triste è quello di Alison Salazar, una ragazza di 17 anni morta suicida dopo che il giorno prima, il 12 maggio, era stata catturata e abusata sessualmente da quattro agenti dell’Esmad a Popayan, dipartimento del Cauca. È proprio in questa zona che si è spostato l’epicentro della violenza, insieme alla regione della Valle del Cauca e alla città di Cali: aree con alte percentuali di povertà che coincidono con la maggior presenza di popolazione indigena e afrocolombiana, ma anche con l’insediamento di gruppi armati illegali nei territori smilitarizzati dopo gli Accordi di Pace fra Governo e Farc. I manifestanti e le loro prime linee eterogenee composte da giovani provenienti dai vari settori sociali rispondono con pietre e scudi improvvisati, danno alle fiamme numerosi centri di polizia e di tortura, colpiscono alcuni supermercati e lo scorso 25 maggio hanno incendiato il Palazzo di Giustizia della città di Tuluá in risposta all’uccisione di quattro giovani di cui uno minorenne; ma le azioni più efficienti per la destabilizzazione del settore impresariale al potere sono i blocchi delle strade a cui partecipano anche i camionisti, lasciando transitare solo beni di prima necessità nei cosiddetti corridoi umanitari.

I numeri della violenza

Aggiornati lo scorso 31 maggio, i numeri di quanto sta succedendo – resi noti dalla piattaforma di diritti umani Temblores – confermano che nel paese regna un clima da guerra civile: 3789 casi di violenza poliziesca; 74 persone uccise, 45 dalla forza pubblica e 29 in processo di verifica, casi legati probabilmente ad attacchi da parte di civili armati contro i manifestanti; 1248 persone ferite da polizia ed Esmad, di cui 65 con lesioni oculari; 187 casi di uso di armi da fuoco da parte della forza pubblica; 1649 persone detenute arbitrariamente per aver preso parte alle mobilitazioni; 25 vittime di violenza sessuale perpetrata da agenti della forza pubblica; 91 desaparecidos dall’inizio delle proteste secondo il pubblico ministero – ma il numero reale potrebbe essere molto più alto: persone fatte sparire senza lasciare alcuna traccia, probabilmente rinchiuse in centri di tortura informali. Ironia della sorte, la cosa più tragica è che per il loro bene occorre quasi sperare che siano già morte. Del resto, negli ultimi giorni hanno cominciato a circolare voci e denunce sempre più fondate secondo cui la forza pubblica starebbe sotterrando cadaveri in fosse comuni.

Sappiamo chi ha dato l’ordine

Potrebbe sembrare, ma non è così: la Colombia non ha nulla a che vedere con le dittature militari latinoamericane del secondo Novecento. Lo sostiene l’oligarchia al potere, la stessa che secondo denunce informali sta attualmente reclutando mercenari e pianificando stragi di massa all’interno dei cortei; lo conferma la storia recente e il suo apparato statale che si è sempre mantenuto democratico. Solo qualche macchia: i massacri, l’epoca della “violenza” negli anni Cinquanta, le dottrine di Sicurezza nazionale e poi Sicurezza democratica, la corruzione e le elezioni rubate, il genocidio politico del partito di sinistra Unione Patriotica, il narcotraffico e il paramilitarismo, i 6402 “falsi positivi” e i milioni di dollari americani spesi per combattere il cosiddetto “nemico interno”. E poi la situazione attuale: peggio di così sembra saper fare solo un’altra democrazia, in Medio Oriente.

La lotta prosegue

In tale contesto, è oggi difficile porre le basi per una negoziazione fra il governo e il Comitato di Sciopero Nazionale: nelle tavole rotonde dei giorni scorsi il primo ha dimostrato di non essere disposto a considerare la radice del problema e si ostina a paventare il fantasma del “terrorismo vandalico e le sue infiltrazioni guerrigliere”, mentre il secondo chiede ora a gran voce la riforma della forza pubblica e lo smantellamento dell’Esmad, un punto che era rimasto tabù anche negli accordi di pace del 2016. A proposito, da allora sono stati assassinati quasi 1200 leader sociali, senza contare questo mese di maggio.

Intanto, nell’effervescenza attuale la verità rimane scritta sui muri, che da un mese o forse un secolo lo ripetono all’infinito: Nos estan matando – “ci stanno uccidendo”.

L'articolo Colombia: parlano i muri proviene da OGzero.

]]>