Pierre-Jean Luizard Archivi - OGzero https://ogzero.org/autore/pierre-jean-luizard/ geopolitica etc Tue, 28 Dec 2021 10:01:15 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Che cos’è la trappola Daesh? https://ogzero.org/che-cose-la-trappola-daesh/ Sun, 29 Mar 2020 14:30:21 +0000 http://ogzero.org/?p=37 Intervista di Lorenzo Avellino a Pierre-Jean Luizard La trappola Daesh si riferisce alla volontà deliberata dello Stato islamico di provocare la reazione del maggior numero di attori possibili, stati arabi in testa, come la Turchia, l’Iran ma andando anche oltre – ossia all’Europa – in una dichiarazione di guerra universale a tutti quanti. Ciò aiuta […]

L'articolo Che cos’è la trappola Daesh? proviene da OGzero.

]]>
Intervista di Lorenzo Avellino a Pierre-Jean Luizard

La trappola Daesh si riferisce alla volontà deliberata dello Stato islamico di provocare la reazione del maggior numero di attori possibili, stati arabi in testa, come la Turchia, l’Iran ma andando anche oltre – ossia all’Europa – in una dichiarazione di guerra universale a tutti quanti. Ciò aiuta lo Stato islamico a presentarsi agli occhi delle popolazioni che controlla come uno dei legittimi eredi delle primavere arabe e delle società civili che si sono sollevate contro i regimi repressivi e che hanno avuto come solo risposta, in Iraq, in Siria o altrove, la repressione e l’autoritarismo.

Si può dire che la trappola Daech ha funzionato nella misura in cui gli stati arabi (in particolare lo stato iracheno e siriano) e i paesi occidentali hanno reagito alle campagne di terrorismo sui propri territori lanciandosi in una guerra attraverso una coalizione internazionale di cui si cerca ancora di capire, un anno dopo la sua formazione, gli obiettivi politici (a parte quello di eliminare ciò che viene presentato come un semplice movimento terroristico). Tutto ciò corrisponde esattamente a quanto ricercato dallo Stato islamico ossia far dichiarare ai paesi occidentali una guerra contro di sé prima di avere definito gli obiettivi di guerra e suscitare un’alleanza tra gli stati occidentali e gli stati in loco. Lo Stato islamico è in effetti assolutamente cosciente della situazione di avanzata decomposizione delle istituzioni statali mediorientali e del fatto che tale decomposizione ha un carattere irreversibile che rende la campagna militare magari produttiva sul piano militare ma totalmente controproducente dal punto di vista politico. Tutti gli stati occidentali appaiono così come alleati di istituzioni moribonde.

Ciò che lei fa nel libro è storicizzare il fenomeno Stato islamico. Parlava prima di frazionamento e decomposizione degli stati mediorientali. Qual è la traiettoria di questi stati e come lo Stato islamico è riuscito a inserirvisi, con un notevole intuito politico?

Lo Stato islamico rivendica uno Stato multinazionale che cancella le frontiere, in particolare le frontiere ereditate del periodo dei mandati e si appoggia sul fallimento di un certo numero di stati, in primis lo stato iracheno poi quello siriano. Lo Stato islamico non perde occasione di mostrare che si relaziona con la storia moderna della regione e con le circostanze che hanno portato alla formazione degli stati arabi che, non bisogna scordarlo, sono tutti – eccezion fatta per l’Egitto – delle creazioni coloniali che sono state imposte con la forza militare dalle grandi potenze dell’epoca, la Gran Bretagna e la Francia. Questa operazione è stata fatta a partire dalla concezione che era allora dominante in Europa, ossia quella che la nazione è il fondamento di ogni tipo di sovranità. Le cose erano però ben diverse in Medio oriente, nella misura in cui solamente nel Levante (Libano, Palestina e Siria) cominciava a farsi strada l’idea di cosa potesse essere una nazione araba ma in Iraq e in gran parte del Medio oriente l’idea stessa di nazione era totalmente estranea. Ci si sentiva arabi, profondamente arabi, ma questo sentimento si riferiva più a ciò che chiamerei “arabità” – uruba – e non all'”arabismo” ossia a un nazionalismo etnico esclusivo. La miglior prova è il fatto che i dirigenti politici e religiosi delle tribù arabe in Iraq erano, in maggioranza, iraniani di nascita e di nazionalità e ciò non poneva alcun problema. C’erano certo delle identità molto forti in Medio oriente, secondo una gerarchia che andava dall’identità locale a quella tribale, confessionale e culturale e che differenziavano in particolare gli arabi dai curdi ma queste identità non si sono assolutamente espresse attraverso i nuovi stati nazionali. I nuovi stati nazionali fondati dalla Francia e la Gran Bretagna sono stati osteggiati dalle maggioranze. In Iraq gli sciiti maggioritari si sono rivoltati contro i mandati e l’occupazione britannica. Ciò è successo anche in Siria, dove l’esercito di Faysal –  animatore della Rivolta araba contro l’Impero ottomano sobillata dagli Alleati – ha affrontato le truppe del generale francese Gouraud in nome di un regno arabo unito, di una Grande Siria che doveva includere il Libano, la Palestina e anche una parte del nord dell’Iraq. C’è stato quindi un gioco di prestigio da parte delle potenze mandatarie che hanno provato a far credere di aver importato una cittadinanza irachena, siriana e libanese quando invece si sono appoggiate su delle minoranze: arabe sunnite in Iraq, mentre la Francia ha diviso la Siria in una serie di stati confessionali. Tutto ciò è stato fatto in modo che le maggioranze fossero escluse del potere a beneficio delle minoranze. La miglior illustrazione di questo processo è la fondazione del Grande Libano, quando la Siria è stata privata di province a maggioranza sciita e sunnita al sud e al nord del Libano, in particolare della grande città di Tripoli, per poter creare uno stato che si voleva presentare come il solo stato a maggioranza cristiana del Medio oriente. Bisogna ricordarsi che, allora, i protagonisti di questa politica confessionale in Francia erano élite repubblicane e laiche in lotta contro la chiesa cattolica. Ma ciò che valeva in Francia non valeva in Libano. In particolare le politiche francesi si sono appoggiate molto sulle congregazioni cattoliche, che erano state espulse in Francia nel 1901 e che si sono ritrovate in esilio a Beirut e nella montagna libanese messe quindi al servizio del progetto confessionale. Progetto che sappiamo essere stato un fallimento visto che ha avuto come risultato il confessionalismo che è oggi rifiutato dalla maggior parte della popolazione che lo vede come responsabile delle guerre civili.

Nella conclusione del libro lei dice che le difficoltà ad affrontare lo Stato islamico derivano da un’incapacità dell’Occidente di assumersi il suo passato coloniale e punta il dito contro questa sorta di “spaccatura” tra i valori proclamati a parole in quell’epoca e il fatto che siano stati una copertura per una dominazione imperiale. Ecco quindi che la storia ritorna attraverso lo Stato islamico…

L’Occidente non si assume il suo passato coloniale. Ma il punto è che non può assumerselo! È anche questa la trappola che ci tende lo Stato islamico, lo si vede benissimo attraverso la sua rivista in inglese “Dabiq” che illustra ampiamente le contraddizioni delle politiche occidentali e il fatto che i nostri universalismi basati sui Lumi sono serviti come legittimazione alle conquiste coloniali. La cosa peggiore è che ciò è stato spesso fatto in completa buona fede. Quando leggiamo i discorsi di Jules Ferry – il padre della scuola laica francese – per legittimare la colonizzazione della Tunisia, non vi troviamo altro che buone intenzioni, quelle di una missione civilizzatrice dell’Europa rispetto a popoli che sarebbero meno civili. E cosa dimostra il loro inferiore grado di civilizzazione? Il loro attaccamento alla religione. Per le élites francesi, l’attaccamento dei musulmani all’islam mostrava la necessità degli arabi di essere civilizzati e visto che non si arriva alla civiltà dall’oggi al domani bisognava essere guidati da potenze democratiche e secolarizzate come la Francia e la Gran Bretagna. I 14 punti del presidente americano Wilson in favore dell’autodeterminazione dei popoli sono serviti a legittimare l’imposizione dei mandati, ultima forma di colonizzazione anche se limitata nello spazio, perché c’erano delle frontiere, e nel tempo, perché avevano una data limite. Questi mandati hanno soprattutto istituito degli stati e dei sistemi politici che hanno condizionato la vita politica della regione per più di un secolo nella misura in cui le élite locali, una volta battute militarmente dalle truppe francesi e britanniche, poco a poco hanno abbandonato le loro utopie e non hanno quindi avuto altro obiettivo che quello di controllare gli stati a cui si erano inizialmente opposti. Alla fine degli anni Venti i nazionalisti arabi usano la retorica dell’unità araba unicamente per avere una certa popolarità ma appena sono al potere è evidente che ciò che interessa loro non è certo l’unità ma il controllo di stati che non riusciranno mai ad aprire uno spazio pubblico e a stabilire una cittadinanza condivisa per tutti. Dietro la retorica nazionalista araba si celavano infatti strategie comunitarie, familiari, regionali e confessionali come si può oggi vedere chiaramente in particolare in Iraq e in Siria dove non ci sono più partiti politici ma solo partiti comunitari, arabi e curdi, e gli stessi partiti arabi sono divisi tra loro in sciiti, sunniti e alauiti.

Nel libro lei indica che è come se lo Stato islamico facesse di tutto per inscenare uno “scontro di civiltà” in una sorta di gioco di specchi con il libro di Huntington. Come questo aspetto rientra nella trappola Daech?

Come si deduce da ciò che ho appena detto, la base sociale e politica dello Stato islamico è molto locale. È proprio ciò che fa la sua forza, il fatto che si sia impiantato in alcuni quartieri delle grandi città. Il problema dello Stato islamico però è diventato quello di trascendere un localismo molto forte e ciò è stato fatto attraverso l’universalismo. Questo universalismo, a livello di discorso, si può ottenere esclusivamente attraverso una messa in scena che gli consenta di legare la lotta sul posto contro uno stato predatore e assassino con la lotta su grande scala tra il “vero” islam e le potenze occidentali presentate come “crociate”. Questo ha permesso allo Stato islamico di occultare il carattere molto locale della sua base in Medio oriente e di sviluppare una propaganda che all’universalismo occidentale oppone un altro universalismo, che non comprende più solo gli interessi locali degli arabi sunniti d’Iraq o di Siria ma che è un appello a difendere il “vero” islam e la umma islamica contro i “crociati”. Un’illustrazione dell’efficacia di questa tattica è l’arrivo massiccio di combattenti stranieri originari di paesi musulmani ma anche europei che vengono a dare un viso a questa nuova coalizione islamica che ha intenzione di combattere l’altra coalizione di “miscredenti”, come veniamo chiamati.

Lei segnala anche questo altro paradosso dello Stato islamico: un progetto cosmopolita ma che deve la sua attrattiva a un ancoraggio territoriale. Per la prima volta un gruppo salafita si mette ad applicare la sharia, addirittura ad instaurare il califfato qui e ora. Pensa che sia questa la differenza principale tra lo Stato islamico e gli altri gruppi salafiti?

L’instaurazione del califfato è un’utopia comune a tutti i gruppi salafiti ed è un obiettivo comune di tutti i gruppi jihadisti, che siano alleati con lo Stato islamico o che siano legati ad al Qaeda. C’è semplicemente una differenza di timing. Al Qaeda rimprovera allo Stato islamico di aver bruciato le tappe e di aver voluto territorializzare la fondazione del califfato troppo presto, prima di aver avuto le basi sufficienti per la sua sovranità. Lo Stato islamico, al contrario, ha una visione che afferma che il fatto di possedere un territorio al di là delle frontiere – siamo in un jihad globale – e delle istituzioni è il miglior modo per riunire tutti quelli che vorrebbero unirsi al jihad mentre invece, nella visione dello Stato islamico, al Qaeda resterà sempre condannata ad essere prigioniera di questioni locali. La fondazione di uno Stato e la sua proclamazione, nel discorso dello Stato islamico, gli permette di trascendere i limiti della propria base locale.

Se, al momento dell’uscita della prima edizione francese del libro, il risultato della scommessa dello Stato islamico risultava incerta ora è sempre più definita visto che la stessa struttura statale del califfato è sempre più in difficoltà. Oltre a storicizzare il fenomeno Daech, lei mette anche in luce le cause sociali che hanno portato alla nascita dello Stato islamico. Cause sociali che sono ben lungi dall’essere risolte. Che ne sarà del califfato dopo il califfato?

I paesi occidentali e più in generale della coalizione anti-Daesh fanno finta che lo Stato islamico sia il responsabile del caos in Medio Oriente quando invece il caos precede lo Stato islamico anzi è proprio quello che ha permesso a Daesh di diventare ciò che è. Quindi una sconfitta militare di Daesh senza soluzioni politiche affidabili non risolverebbe nulla e, per esempio, se Daesh perde terreno sul campo, se il califfato diventa sempre più virtuale e meno territoriale, vedremo molto rapidamente le altre questioni – al momento occultate dalla preminenza dello Stato islamico – tornare alla ribalta. Tra queste questioni c’è ovviamente quella curda, che è molto complessa dal momento che si presenta in maniera parecchio diversa in Turchia, in Siria e in Iraq inglobando però oggi tutta la regione, ci sono poi le relazioni tra i curdi e i sunniti, tra i curdi e gli sciiti, tra i sunniti e gli sciiti. La soluzione a volte presa in considerazione di un Iraq federale “a tre”, a mio avviso, non è fattibile perché oggi assistiamo a un processo da cui non c’è ritorno, bisognerebbe che ci fossero degli interlocutori ma gli interlocutori arabi sunniti che hanno fatto il gioco del governo di Bagdad non hanno nessun futuro, prendiamo Atheel al-Nujaifi, che è oggi sostenuto da curdi e vicino alla Turchia. È stato l’ex-governatore di Mosul prima dell’arrivo dello Stato islamico ed è probabilmente una delle persone più odiate di Mosul, che si ricorda bene le condizioni che erano loro imposte prima dell’arrivo di Daesh. Non ci sono quindi, nel quadro delle istituzioni attuali, riforme possibili che permettano ad ognuno di trovare il proprio posto. In caso di sconfitta militare lo Stato Islamico sceglierà l’opzione della guerriglia invece che della difesa di un territorio. Si assisterà a una diffusione, mentre la territorializzazione era, nonostante tutto, una forma di contenimento dello Stato islamico. Rischieremo invece di avere uno Stato islamico che si diffonde fino a Bagdad come è stato già il caso negli anni Novanta. Ricordo che possiamo far risalire l’origine dello Stato islamico, militarmente, alla regione di Helebce, in Kurdistan, lungo la frontiera iraniana. È stata la volontà delle truppe dell’Unione patriottica del Kurdistan di Ǧahlāl Tāhlabānī di espellerli da questa regione che ha permesso la diffusione dei combattenti jihadisti nella zona araba arrivando quindi alla formazione di Daesh negli anni Duemila. Rischiamo quindi di avere lo stesso fenomeno in Iraq mentre in Siria è probabile che la perdita del progetto iniziale dello Stato islamico avrà come effetto l’unificazione dei ranghi jihadisti e in particolare di quelli di al-Qaeda con quelli dello Stato islamico.

Parigi, 30 agosto 2016

Cfr. La trappola Daesh. Lo Stato Islamico o la Storia che ritorna, di Pierre-Jean Luizard, con una prefazione di Alberto Negri, introduzione di Franco Cardini, Torino, Rosenberg & Sellier, 2016, disponibile in libreria e sulle principali piattaforme online.

L'articolo Che cos’è la trappola Daesh? proviene da OGzero.

]]>
A chi è servito Daesh? La guerra internazionalizzata (e inefficace) e la costruzione del nemico https://ogzero.org/la-guerra-internazionalizzata/ Sun, 29 Mar 2020 09:37:01 +0000 http://ogzero.org/?p=32 Perchè si parla di guerra internazionalizzata ? Com’è stato possibile che l’Occidente sia caduto nella trappola del califfato e si sia lasciato coinvolgere in un conflitto che resta fondamentalmente interno all’islam, al di là delle stentoree dichiarazioni di guerra ai “miscredenti”, agli “infedeli”? Com’è possibile che l’ampia coalizione militare messa frettolosamente in piedi dai paesi […]

L'articolo A chi è servito Daesh? La guerra internazionalizzata (e inefficace) e la costruzione del nemico proviene da OGzero.

]]>
Perchè si parla di guerra internazionalizzata ?

Com’è stato possibile che l’Occidente sia caduto nella trappola del califfato e si sia lasciato coinvolgere in un conflitto che resta fondamentalmente interno all’islam, al di là delle stentoree dichiarazioni di guerra ai “miscredenti”, agli “infedeli”? Com’è possibile che l’ampia coalizione militare messa frettolosamente in piedi dai paesi arabi che si sentono in qualche modo minacciati dall’Isis sia stata fino a oggi così poco efficace?

In altri termini, i problemi sono di quattro ordini. Primo: come e perché i rapporti tra mondo occidentale e parte almeno di quello musulmano (non solo arabo) si sono tanto deteriorati nell’ultimo secolo da lasciar credere oggi a tanta parte dell’opinione pubblica che essi siano “sempre” stati cattivi? Secondo: attraverso quali fasi, e quali errori, si è giunti alla situazione attuale? Terzo: ci si trova dinanzi a una realtà davvero definibile in termini statuali, o a un’organizzazione terroristica che gioca sui due tavoli del tentato radicamento territoriale nel Vicino Oriente e della disseminazione di cellule di guerriglia tra Africa e Occidente? Quarto: com’è possibile che una coalizione così ampia da abbracciare, almeno in teoria, tutta la società civile del mondo intero contro quello che si proclama il Pericolo Pubblico Numero Uno non riesca ad aver ragione di una realtà politico-militare che in fondo, durante questi due anni, si è dimostrata tanto fragile da venir nella sostanza tenuta a bada dal sia pur debilitato esercito lealista siriano, da un po’ di milizie curde e da un pugno di pāsdārān iraniani, dal momento che l’amplissima e fortissima coalizione internazionale schierata contro lo Stato islamico, nonostante le migliaia di raid aerei fin qui realizzati, si è dimostrata inefficace? Siamo davvero dinanzi a una carenza di chiarezza sul piano del comune disegno politico, oppure in realtà l’Isis è servita e continua a servire a qualcuno e a qualcosa? E, se sì, a chi?

La risposta non può che partire da lontano: ma badate, non da tanto lontano come potrà sembrare a qualche lettore impaziente. La storia è vendicativa: la si può anche dimenticare, ma lei non si dimentica di noi. E il suo ritorno può essere molto brutale, magari inatteso, ma ha una sua logica di ferreo rigore. A quanti di voi l’espressione “Sykes-Picot” dice qualcosa di preciso? Eppure bisogna cominciare proprio da lì, da un secolo fa: da quando due diplomatici rappresentanti delle due potenze liberali impegnate nel primo conflitto mondiale disegnarono la mappa di quel che avrebbe dovuto essere il Vicino Oriente egemonizzato da francesi e britannici all’indomani della guerra, cioè una volta eliminato il “vecchio ordine” ottomano e senza tener il minimo conto delle genti che in quell’area erano insediate. Solo che, a quelle genti, la Repubblica Francese e Sua Maestà Britannica avevano fatto promesse precise e vincolanti: e su quelle basi alcune di esse, gli arabi sudditi dell’impero sultaniale – e, come sunniti, ligi al sultano ch’era anche califfo – si erano impegnati in quella guerra che noi conosciamo bene, se non altro, dall’efficace ancorché tendenzioso resoconto che il colonnello Thomas E. Lawrence ha tracciato nei Sette Pilastri della Saggezza. Il trattato anglofrancese e la ripartizione territoriale del Vicino Oriente che ne scaturì non violava soltanto le promesse che le potenze occidentali avevano fatto allo sharif al-Ḥusayn e alle tribù arabe che lo seguivano: violava confini nazionali, realtà religiose territoriali, antichi equilibri tradizionali per ritagliare su un territorio trattato come se fosse stato “vergine” – e che corrispondeva invece ai rapporti insediativi tra alcune delle più antiche e venerabili civiltà della storia umana – gli spazi ritenuti adatti alla nascita e allo sviluppo di “nuovi” stati destinati a vivere da satelliti delle potenze liberali sulla base di una mentalità che definire “coloniale” è un pietoso eufemismo. 

E l’analisi di Luizard prosegue impietosa, analizzando le conseguenze della “cattiva pace” di Versailles: l’Iraq, «uno stato contro la sua società», fondato sulla duplice dominazione confessionale dei sunniti sugli sciiti e degli arabi sui curdi, attraverso una catena di rivolgimenti e di colpi di stato fino al Totentanz delle guerre avviate nel 1980 con lo scontro iracheno-iraniano e non ancora concluso; la Siria, quasi “risucchiata” dalla questione confessionale e dove la “rivoluzione” socialista e nazionale del partito Ba’th, attraverso la rottura con la Repubblica Araba Unita nasseriana e la progressiva conquista dell’esercito da parte degli alauiti, ha finito con il provocare la reazione sunnita di rito hanbalita, prossimo al wahhabismo saudita e caratterizzato da un violento antisciismo; il Libano e la Giordania, nati direttamente dalla spartizione anglo-francese del Vicino Oriente fondata sul “regime dei mandati” (e complicata dalla questione sionista e, dopo la fondazione dello stato d’Israele del 1948, dall’irrisolto problema israelo-palestinese); la presenza di stati vicini come Egitto, Turchia e Arabia Saudita, portatori ciascuno di una propria politica e caratterizzati da tipi d’islam profondamente differenti tra loro. 

Lo Stato islamico, al di là del pericolo da esso rappresentato nell’equilibrio del Vicino Oriente e – attraverso l’azione terroristica – nel resto del mondo, non è quindi una causa, bensì semmai un effetto di un secolo di lotte e di errori. Se il tentativo più energico di fondare un nuovo tipo di società arabo-musulmana attraverso il ricorso alla “laicizzazione” proposta dalle varie componenti del fenomeno che indichiamo come “socialismo arabo” non fosse fallito per vari motivi, tra i quali primeggiano tuttavia l’ostilità delle potenze occidentali e d’Israele, e se il fondamentalismo d’origine salafita non fosse stato incoraggiato in varie occasioni – non solo nel Vicino Oriente, ma anche nell’Afghanistan degli anni Ottanta nel quale gli statunitensi e i loro alleati se ne sono serviti contro il governo socialista di Kabul e l’Armata Rossa –, ci troveremmo oggi forse dinanzi a un quadro differente da quello che siamo costretti a fronteggiare: e dove, incarnato dalla compagine califfale, emerge un islam fatto anche di occidentali, di foreign fighters che hanno in qualche modo conosciuto la Modernità ma l’hanno concettualmente respinta pur mantenendone i connotati tecnici. Il caso delle Brigate Femminili di al-Khansā, così denominate dalla poetessa del VII secolo soprannominata Madre dei Martiri e alle quali sono affidate importanti mansioni di “polizia etica” e nell’ambito delle quali pochissimo si pratica l’arabo parlato, è quantomai eloquente a proposito della situazione che ci troviamo ad affrontare. Qui, le informazioni che Luizard ci fornisce a proposito dell’organizzazione interna dello Stato islamico, del suo funzionamento, del rapporto tra propaganda e comunicazione e della politica califfale nei confronti delle minoranze sono illuminanti e anche molto equilibrate. Per esempio, il suo parere a proposito del rispetto, da parte dello Stato islamico, dei cristiani che accettano sul suo territorio lo statuto di dhimmi, cioè di “assoggettati-protetti”, diverge da quello di molti osservatori. 

Ma è di grande interesse, soprattutto, quanto l’Autore ci dice a proposito della specifica volontà, da parte dell’Isis, di mostrare se stesso in un modo che possa coincidere con il peggiore ritratto che molti occidentali tracciano della società musulmana nel suo complesso: come se l’ispiratore e il consigliere segreto del califfo e della sua équipe di governo fosse lo “scontro di civiltà” descritto e preconizzato da Samuel P. Huntington. Insistendo presso i musulmani sul tema della lunga prevaricazione degli occidentali sull’islam, ma al tempo stesso presentandosi come una forza fondata sull’universalismo della umma musulmana che non conosce limiti né etnici né nazionali, e si annunzia quindi come potenzialmente conquistatrice, l’Isis è in ultima analisi riuscita a ottenere quello che voleva: la grande coalizione occidentale guidata dagli americani che, attaccandolo, dovrebbe dimostrare al mondo intero che esso rappresenta il “puro islam” che gli infedeli vogliono distruggere, e che qualunque musulmano che si lasci convincere a fiancheggiare il progetto degli infedeli è perciò stesso un rinnegato, un traditore passibile di morte ai sensi della sharī ‘a.

D’altronde, la coalizione anti-Daesh per il momento – non osando portare lo scontro sul territorio nel quale ancora sussistono le forze califfali – altro non può fare se non affidarsi a forze a loro volta già da tempo compromesse nella destrutturazione del sia pur tutt’altro che ideale equilibrio vicino-orientale nato dalla Prima guerra mondiale. Luizard vede nella mancanza di un progetto politico da parte delle forze che avversano l’Isis il loro principale difetto politico: che cos’hanno gli eventuali “liberatori” da offrire agli arabi siriani e iracheni che in qualche modo si sono lasciati abbagliare, o convincere, o piegare, dal califfo? Ormai, una restaurazione degli antichi equilibri è divenuta impossibile per motivi tanto geopolitici quanto etno-religiosi. L’Iraq appare in mano alle milizie sciite che fatalmente guardano con simpatia al vicino Iran, ma non sembra che il riavvicinamento tra Iran e Stati Uniti (e perfino tra Iran e Turchia di Erdoğan, magari grazie al partner russo), e nemmeno quello diretto tra Stati Uniti e Russia – che del resto ha probabilmente le settimane contate, dato il prossimo avvicendamento nella Casa Bianca – stia aprendo la strada a soluzioni politiche nuove. Sia la Siria che l’Iraq parrebbero votate alla dissoluzione, magari camuffata da ridefinizione come stati federali: ma l’Isis, che appare a sua volta ormai in crisi, può aspirare a riciclarsi in forza musulmana “rispettabile”, come vorrebbero gli occidentali, tanto da proporsi come nucleo di uno stato sunnita arabo che magari non dispiacerebbe ai sauditi, addossato come si trova alla frontiera iraniana…

Non sembra quindi fuor di luogo, per quanto possa essere inaspettato e per questo stupirci un po’ (quanto meno, noialtri non francesi…), il fatto che nelle ultime righe del suo saggio Luizard torni a citare nientemeno che il vecchio nobilissimo Jules Ferry, «il padre della nostra scuola laica», che nondimeno difendeva con le unghie e con i denti (bec et ongles) la colonizzazione della Tunisia: quella che per noi fu “lo schiaffo di Tunisi” e la radice revanscistica del suo pur men che modesto colonialismo italiano… Siamo ancora prigionieri, in fondo, della vecchia contraddizione dell’Occidente: stato di diritto e diritti umani da una parte, “missione civilizzatrice dell’Europa” che peraltro – parole di Luizard, non mie – «è servito da copertura ad appetiti coloniali senza limiti». Appetiti, va aggiunto, complicati nell’ultimo secolo dalla questione del petrolio e dalla paradossale situazione creatasi da quando una dinastia di fedeli al credo islamico wahhabita (se di “credo islamico” si può ancora davvero parlare, per una dottrina che riduce insegnamento coranico e ḥadīt del Profeta all’ossessiva questione dell’unicità divina) da un lato si è vista padrona d’una buona fetta delle risorse energetiche del mondo, dall’altro si è aggiudicata il ruolo di fondamentale partner e alleata dell’Occidente sul piano militare ma anche su quello economico e finanziario; e ha posto le sue illimitate risorse al servizio della fitna antisciita. 

Forse, quando questo libro uscirà, lo Stato islamico sarà giunto da solo a una situazione di stallo; o forse lo squilibrio vicino-orientale si trascinerà ancora a lungo, vista appunto la carenza di soluzioni politiche che i governi occidentali sono stati in grado di proporre (o, peggio, gli errori che hanno fatto: senza ripensare a pagine più vecchie, basti pensare a quel che francesi e inglesi sono stati capaci di combinare tra Libia e Siria nel 2011). Nell’una come nell’altra evenienza, come si evolverà il rapporto tra presenza territoriale del califfato e disseminazione terroristica di cellule sue o che da esso si presentano come ispirate? Questa è forse, oggi, la più angosciosa domanda che noi ci poniamo. La “trappola dello Stato islamico” non sarebbe scattata, se il mondo occidentale avesse al tempo stesso combattuto con efficacia – ma la battaglia è ancora in corso – il pericolo terroristico, che si batte con l’intelligence, l’infiltrazione e la prevenzione socio-culturale, non certo con i raids aerei, e fosse riuscito a promuovere al tempo stesso una convinta e convincente risposta da parte dei suoi alleati arabi o comunque musulmani sunniti, i soli che dinanzi all’opinione pubblica islamica di tutto il mondo hanno il diritto di schiacciare la mostruosità ideologica travestita da estremismo religioso della quale in questo momento al-Baghdādī è formalmente il capo. Né i “crociati” occidentali, né gli “eretici” sciiti iraniani, potrebbero mai farlo senza trasformare gli adepti del califfo agli occhi del proletariato e del sottoproletariato musulmano del mondo – specie di quello dell’Africa – in altrettanti shuhadà, il martirio della fede. E noi sappiamo che l’ha spiegato quasi duemila anni fa il vecchio Tertulliano, che il sangue dei martiri è seme di nuovi fedeli. È questo il senso ultimo della “trappola” del Daesh. Un omicidio-suicidio.

L'articolo A chi è servito Daesh? La guerra internazionalizzata (e inefficace) e la costruzione del nemico proviene da OGzero.

]]>