OGzero Archivi - OGzero https://ogzero.org/autore/ogzero/ geopolitica etc Mon, 13 Nov 2023 22:32:04 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Lettera22: luoghi e tempi per immaginare il sequel https://ogzero.org/lettera22-luoghi-e-tempi-per-immaginare-il-sequel/ Thu, 09 Nov 2023 16:17:25 +0000 https://ogzero.org/?p=11838 Nell’estate 2023 è uscito dopo una accorta e lunga gestazione, il numero zero di “Lettera22”, manifestazione in forma di rivista del consorzio omonimo di giornalisti indipendenti in occasione del trentennale della creazione del gruppo di professionisti che testimoniano la realtà dove si svolge, essendone esperti di lunga data. La produzione è descritta nell’editoriale come “lento […]

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Nell’estate 2023 è uscito dopo una accorta e lunga gestazione, il numero zero di “Lettera22”, manifestazione in forma di rivista del consorzio omonimo di giornalisti indipendenti in occasione del trentennale della creazione del gruppo di professionisti che testimoniano la realtà dove si svolge, essendone esperti di lunga data.
La produzione è descritta nell’editoriale come “lento ruminare” che racconta l’addensarsi dell’esplorazione dello spazio scritto a specchio di quella dei luoghi dove gli eventi, liberati dalle colonne della cronaca geopolitica, fuoriescono per costituire i capitoli di un libro in forma di magazine; l’oggetto dell’esplorazione diventa così una “terra di mezzo”, come esplicitano gli autori che rivendicano l’ibridazione delle forme narrative: dalla graphic novel al saggio sociologico, dal reportage di viaggio al racconto storico immerso in un orto o in un aeroporto al momento dello scoppio di una “operazione militare speciale”… rigoroso, circostanziato, preciso, eppure godibile per la creatività spontanea.
Rilegate in una confezione raffinata le storie graficamente impreziosite dei complici dell’Associazione di giornalisti indipendenti ci portano a spasso per il mondo con storie che si dipanano tra Corno d’Africa e Sudest asiatico, dal preludio al ritorno dei Talebani in Afghanistan all’Italia del fascismo – quello precedente e parallelo alla contemporanea invasione nazista della Serbia descritta nei disegni inediti di Zograf

Alla fine della lettura abbiamo pensato che valesse la pena tornare su alcuni dei luoghi evocati nel libro-fascicolo: ciascuno degli interventi è corredato da un Secondo Tempo, ci sembra che un buon approccio per OGzero per interpretare l’utilità di questa formula editoriale – e proporne un processo di lettura in sintonia con gli obiettivi di entrambe le testate – sia quello di partire dalla realtà in cui si stanno evolvendo ora i processi che troviamo in nuge tra le righe di questo volume e rintracciarvi le tracce o i prodromi; una sorta di Terzo tempo che ritorna sulla meditazione dei testi proposti per rilanciarne la attualità che li ribadisce.


In the mook del giornalismo indipendente

Gli afgani collaterali

Il fascicolo si apre sul quartiere del Politecnico di Kabul dopo il ripristino della shari’a, ma la storia rievocata da Giuliano Battiston insieme al padre della vittima, a cui le illustrazioni pointilliste di Giacomo Nanni conferiscono cromatismi psichedelici, percorre il 3 maggio 2009 una strada vicino a Gozarah…

Illustrazione di Giacomo Nanni

Ora si è richiuso il sipario sul paese abbandonato dalla Nato definitivamente due anni fa, ma quell’episodio di sprezzo per la vita delle popolazioni civili autoctone da parte del contingente italiano ai tempi in cui Ignazio Benito era ministro della Difesa rimane irrisolto e il generale Rosario Castellano ha potuto andare in pensione come generale di corpo d’armata il 28 giugno 2023 senza macchia e con tutti gli onori; solo un ulteriore episodio del corollario di collateral damage, perla lessicale eufemistica coniata da Bush per le stragi perpetrate dagli eserciti alleati. Nei vent’anni di occupazione euro-americana l’Afghanistan è stato oggetto di aiuti che servivano di più alle organizzazioni e istituzioni occidentali, che hanno gestito il paese in maniera diversamente coloniale, spesso con disprezzo per una cultura che nessuno ha voluto conoscere e che le truppe non incrociavano nell’apartheid armato che vigeva e che causò l’omicidio al centro della ricostruzione di Battiston. Il risultato è la diffidenza restituita dagli afgani che si sono sentiti presi in giro e non hanno trovato motivi per resistere al ritorno dei Talebani a seguito di una nuova fuga dopo quelle dei britannici del Great Game e del generale Gromov, mentre attraversava il ponte della Fratellanza, prima crepa sul muro dell’imperialismo sovietico. Le condizioni del paese fanno da sfondo alla precisa restituzione della testimonianza del padre della vittima effettuata da Battiston e si ripresentano invariate: la situazione delle carceri, le spie, l’economia dell’oppio dell’Hellmand sostituita dalla produzione di metanfetamine, la prevenzione inesistente per i disastri dei terremoti (con il corredo di migliaia di morti nell’autunno delle province dell’Ovest), proprio dove operava quel contingente italiano.

OGzero ha frequentato spesso la tragedia afgana e raccolto i racconti dei ragazzi, le cui radici affondano in quella cerniera tra mondo persiano, continente indiano e corridoi per le merci dal mondo cinese al di là dell’Himalaya, da dove sono espatriati quasi vent’anni fa, mantenendo forti contatti con le famiglie, tornando tutti a sposare donne scelte dal clan, a volte ancora nelle case avite di Ghazni, in altri casi già trapiantati a Quetta fin dalla disfatta sovietica. La novità di questo periodo è quella che la diaspora di un popolo espulso dalle sue terre non ha fine e il governo pakistano ha decretato la cacciata degli afgani dal proprio territorio, adducendo il pretesto che molti degli attentati jihadisti sono attribuibili a profughi afgani.

 

 

Ma proprio quei ragazzi hazara ci invitano ad approfondire chi sarebbero quel paio di milioni di afgani che devono lasciare il Pakistan e la loro destinazione, per comprendere meglio il disegno che potrebbe nascondersi dietro il loro rimpatrio. Innanzitutto i senza documenti afgani non stanno a Quetta, ma a Nord e i Talebani afgani saprebbero già dove collocarli: sarebbero destinati al territorio confinante con il Tagikistan e l’Uzbekistan, perché nella regione a maggioranza tagika e uzbeca scarsi sono gli islamisti e la deportazione dei pashtun molto probabilmente affini ai talebani servirebbero a diventare maggioranza in un territorio in cui si è completato un canale, il Qosh Tepa, che dirotta le acque del Amu Darya, in grado di irrigare i terreni desertici e poco abitati, dando opportunità di lavoro a comunità poco rappresentate in zona. Ma soprattutto possono esportare nei paesi limitrofi il radicalismo islamista caro ai talebani, e in particolare l’Uzbekistan potrebbe essere a rischio di infiltrazione, ovvero la nazione a ridosso della quale si trova l’area più arretrata dell’Afghanistan, quella con minori risorse.

Mappa tratta dal volume La grande illusione (Rosenberg &Sellier, 2019)

A proposito di deportazioni e diaspore capitano a fagiolo due dei racconti del “Secondo tempo” di “Lettera22”, quello che vede protagonista Ahmad Naser Sarmast, fondatore dell’Istituto nazionale di musica, chiuso dai talebani provocando la fuga all’estero delle allieve musiciste e il breve racconto da Kandahar, la capitale delle melograne, dove il conflitto si fece aspro quando gli americani precipitosamente restituirono il paese all’oscurantismo e gli agricoltori dovettero abbandonare case e terreni. Ora «la guerra è finita e siamo tornati a lavorare i campi».

Questo avviene più al Sud del paese; al Nord si stanno preparando penetrazioni del jihad verso le repubbliche centrasiatiche, attraverso una possibile “sostituzione etnica”; proprio le due repubbliche che Francia e Unione europea hanno preso in considerazione per imbastire una rete di relazioni commerciali, in alternativa alle risorse minerarie di cui non riescono più ad approvvigionarsi in Africa. E il viaggio di un paio di giorni di Mattarella a Samarcanda non può non avere risvolti strategici in questo senso.

Una serie di dubbi di una serie con troppi spunti e ipotesi, che proprio il cofondatore di “Lettera22” ci aiuta a ricomporre in questo podcast:

“L’ingombrante presenza afgana in Pakistan risolta con l’espulsione?”.

 

Il giornalista a una dimensione: quella in viaggio

Uno dei fili rossi del numero zero di “Lettera22” si può individuare nel reportage, talvolta seguendo itinerari di camminanti alla scoperta di territori; più spesso i paesaggi sono di conflitti e talvolta di intrichi delittuosi; in altri casi si tratta di semplici brevi spostamenti nello spazio, ma sprofondati nell’utopia delle performance voguing inseguita in Germania o dislocamenti lontani nel tempo a disvelare delitti irrisolti nella Lucania insurrezionale postborbonica. Appassionanti comunque, non ci soffermiamo su questi apporti contenuti nel fascicolo solo perché il nostro ambito è già fin troppo ampio delimitandolo alle questioni geopolitiche.

La tassonomia coloniale come classificazione della specie

Illustrazione di Adriana Marineo

Un approccio neanche tanto nascosto tra le pieghe dell’intelligente apporto di Paola Caridi che mette al centro la Sicilia, quella dell’annuncio mussoliniano dell’impero dell’agosto 1937– sembra di assistere ancora una volta alle immagini dell’Istituto Luce – quello dalla vicina Libia e del remoto Corno d’Africa. Entrambe aree non a caso in fibrillazione: 120 anni di storia di un colonialismo (e protettorato dell’Agip/Eni) straccione hanno prodotto scollamento e odio intercomunitario come eredità delle nefandezze. La Sicilia al centro geografico dell’impero che rende colonialismo l’emigrazione, e ora diventa testimonianza di ciò che di quella Palermo hanno lasciato i bombardamenti: Villa Giulia e l’Orto botanico – “colonizzati” ora per contrappasso dall’immigrazione bengalese per praticare il cricket. Quella Sicilia al centro dello schieramento strategico Nato nel Mediterraneo: Sigonella, il Muos… come racconta un altro complice di “OGzero” e “Lettera22”, Antonio Mazzeo.

Come si vede s’intrecciano in poche pagine serie di argomenti che regolano i rapporti mondiali tuttora, affondando le radici in quel precedente regime fascista – e in quell’altra Guerra mondiale –, retaggi della storia che tornano, evocati da quei luoghi che nella storia hanno rappresentato le stazioni di molte tappe. Anche se ora il Giardino coloniale non esiste più fisicamente, però le piante dell’Altro ci hanno conquistato, dimostrando come si ripeta la seduzione eclettica della cultura aliena che aveva ellenizzato la vittoria militare della Roma antica. Ma soprattutto l’aggettivo del Giardino è importante nell’evoluzione dell’articolo di Paola Caridi che si può gustare da pagina 68 di “Lettera22” numero zero: l’approccio coloniale dell’Italia fascista rispunta nella sua brutalità come la gramigna sulla falsariga di britannici e soprattutto degli olandesi descritti da Amitav Gosh a proposito della noce moscata. Scrive l’estensore del saggio:

«L’agricoltura coloniale doveva imporre alle comunità native un modo di coltivare secondo la nostra impostazione agricola. Allo stesso tempo doveva formare tecnici italiani capaci di coltivare le specie locali», a cui nel trasporto in “patria” gli scienziati italiani avevano persino cambiato nome a piante che loro ritenevano di aver “scoperto” e riconducendole alla sistematica classificazione linneana, ma che stavano lì da sempre, con quell’atteggiamento che Gerima, il regista etiope, stigmatizza da sempre: l’imposizione di un punto di vista culturale esogeno che fa della “integrazione” delle Species plantarum un paradigma per quella delle “razze”, per dirla alla Almirante. E infatti nell’articolo di Caridi lo spostamento dall’Orto botanico palermitano a quello romano trova protagonista una donna di origine somala, lingua letteraria italiana e «cosmogonia botanica complessa», che mette in relazione lo stato «sofferente, striminzito, piccolo» di una pianta d’incenso, che erano le stesse condizioni in cui si sentiva l’animo della donna; per poi tornare all’Orto siciliano e lì ritrovare gli insegnamenti paterni e l’originario nome della coltura. Le jacaranda palermitane però sono solo una “citazione lontana” delle strade di Gaza… quando esisteva ancora: forse per non offuscare la bellezza della copia si è operato in modo da cancellare l’originale.

In questa tassonomia non poteva mancare la supponenza bonapartista della reinterpretazione in chiave orientalista della cultura dei popoli attraversati dalle armate francesi:

«Dare un nome alle piante significa non soltanto appropriarsene, ma cancellare completamente una storia. È la storia all’interno di un preciso ecosistema che viene resa invisibile, anche attraverso il “nominare”. E assieme a questo battesimo non richiesto ci son le ramificazioni scientifiche, mediche, culturali».

Le stesse usate da Bonaparte: è la cancellazione degli eventi precedenti all’arrivo del colonizzatore, in modo da restituire una verginità culturale su cui imbastire una narrazione occidentale che faccia sue le risorse altrui. Il pessimo ultimo colonialismo italiano si insediò con le scuole di agraria. Sempre meglio che esternalizzare lager in Albania.

Quel treno per Yunnan

E questo “orientalismo” ci consente di salire insieme a Emanuele Giordana sul Cina-Laos Express, senza provare l’ebbrezza del viaggio verso le terre evocate dall’Orient Express.

Mappa di Andrea Bruno

L’estensore aveva accennato a questo percorso già in un intervento radiofonico (dal minuto 45 di questo podcast) in cui illustrava con evidente ammirazione il percorso ferroviario che porta da Kunming nello Yunnan cinese a Singapore, attraverso Vientiane. Un ramo di quella rete di trasporti che i cinesi hanno inserito nella Belt Road Initiative per omogeneizzare e far crescere l’Asean, aggirando il chockpoint potenziale dello Stretto di Malacca:

“Il mattatoio birmano dopo 2 anni: dati, analisi, prospettive allargate all’Asean”.

Subito il pezzo di Emanuele Giordana si dipana dalla capitale del Laos, ma anche sollevando il velo del tempo sulla prima esperienza degli anni Settanta: facile il confronto… anche perché allora persino la Thailandia era coinvolta dagli Yankee nella guerra al Vietnam. Gli spostamenti e l’attraversamento come sempre relativi alla situazione epocale si alternano nel racconto che è sempre avventura: in questo caso si trascorre da ricordi “stupefacenti” di rivoluzioni e sostanze, monaci e Ak-47, bombe e principi rossi, a taxi carissimi e le difficoltà a muoversi autonomamente; cimeli museali di chemins de fer e “scommesse” (arriveremo a Boten in una delle tappe del treno: «centro del gioco d’azzardo con annessi e connessi») cinesi sul futuro avamposto laotiano, trascorrendo dal periodo coloniale classico al neocolonialismo, attraversando nuvole di oppio che escono dal treno su cui risaliamo a Vang Vieng, dopo una pausa narrativa tutta da godere nel Triangolo d’oro, di cui ancora vagheggiamo in certi articoli. Adesso i divertimenti sono equiparabili a divertifici economici a basso contenuto culturale e infima attenzione ecologica… ma si può proseguire alla tappa successiva Luang Prabang; ma soprattutto il viaggio racconta tante verità sul paese e sulla condizione dei laotiani (e forse di un po’ tutto il Sudest asiatico), che il testimone rileva da par suo: infrastrutture cinesi e platea di consumatori laotiani; appaltatori e tecnologie… ovvero il Bignami della Bri fatto tratta ferroviaria… con tutto il contorno di affari e presenza cinesi.

Illustrazione di Andrea Bruno

E allora si coglie la politica della rieducazione dell’intera area effettuata da Pechino alla propria cultura, alla propria lingua; e il treno – lo insegna il vecchio West e Sam Peckimpah – è fattore unificante e ficcante, utile per diffondere idee e modi di vita ad “alta velocità”.

E così arriviamo a Boten: come Oudom Xai è l’ombelico del mondo ferroviario, così Boten è la fenice locale che risorge sempre dalle sue ceneri… però solo il ricordo del viaggiatore, che negli ultimi decenni è transitato di qui periodicamente, può restituire l’evoluzione del territorio. E Boten è di nuovo un fulgido modello di molte città sul confine di stati, dove è concesso ciò che altrove non si può fare. E intanto il Laos muta la sua natura: ambiziosi progetti cinesi visti dal finestrino tolgono spazio al Laos agricolo e rurale… ma queste lampisterie non sono che alcuni passaggi di un racconto preciso e a tutto tondo dell’evoluzione del paese ai lati della ferrovia… che i cinesi vorrebbero portare fino a Bangkok, e infatti i tailandesi temono il progetto, perché con il treno si estende l’influenza di Pechino.

Ma questa è un’altra storia e vedremo di raccontarla sia con “Lettera22” che nei libri di “OGzero”

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Il ruolino di marcia di un sistema basato sull’escalation bellica https://ogzero.org/il-ruolino-di-marcia-di-un-sistema-basato-sullescalation-bellica/ Fri, 23 Dec 2022 15:58:01 +0000 https://ogzero.org/?p=9888 La messinscena delle prime mosse per un negoziato Consumati un po’ di arsenali, uccise 250.000 persone tra civili e militari nella pianura sarmata, misurate alleanze e potenzialità di imporre la propria supremazia, sembra che 3 incontri contemporanei lancino segnali precisi alle cancellerie internazionali: Zelensky con il cappello in mano a Washington, Putin a organizzare le […]

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La messinscena delle prime mosse per un negoziato

Consumati un po’ di arsenali, uccise 250.000 persone tra civili e militari nella pianura sarmata, misurate alleanze e potenzialità di imporre la propria supremazia, sembra che 3 incontri contemporanei lancino segnali precisi alle cancellerie internazionali: Zelensky con il cappello in mano a Washington, Putin a organizzare le truppe a Minsk, Medvedev a ricevere ordini a Pechino. Bisogna trovare una nuova area dove proseguire la guerra ibrida mondiale con lo scopo di misurarsi in preparazione del redde rationem.

Come si è arrivati qui

Si sono definitivamente composti in un unico giorno (il primo del gelido inverno nella steppa di famose ritirate della Storia) gli schieramenti e i ruoli dei singoli in questa che, come si era capito dal 24 febbraio, era la prima fase di una lunghissima guerra ibrida tra potenze – intrecciate dalla medesima ideologia neoliberista che impone complicati legami – da combattere sulla estesa scacchiera globale, con interessi ed economie dipendenti l’una dall’altra, ma a un punto di rottura dato dall’impressione di essere equiparabili e dunque entrambe le fazioni ritengono di potersi candidare al controllo globale come potenza di riferimento: gli Usa a difendere la propria supremazia, le potenze non democratiche a proporre il loro modello di sviluppo – comunque all’interno della visione capitalista del mondo.

La disposizione sul palcoscenico

E allora si usano media e incontri per marcare il territorio in vista della lenta composizione della disputa. Localmente: Biden prepara il terreno a un nuovo piano Marshall da aggiungere agli 85 miliardi già erogati per ricostruire e “mangiarsi” l’Ucraina come gli Usa hanno iniziato a fare dal 2014 di Maidan, quando Kiev era un satellite di Mosca (ha cominciato a parlarne “Fortune” già il 7 dicembre).
Intanto i russi attivano anche Lukašenka per annettersi quanto più territorio possibile e fare da cuscinetto al confine con la Nato, arrivando alle trattative con il massimo risultato possibile («La Russia fornisce alla Belarus’ petrolio e gas a condizioni molto favorevoli e preferenziali», ha commentato Interfax a proposito della visita a Minsk, ma come fa notare “ValigiaBlu“, Putin ha dichiarato che avevano concordato di «dare priorità all’addestramento delle nostre truppe… ci forniremo reciprocamente le armi necessarie e produrremo insieme nuovo materiale militare… per l’eventuale uso di munizioni aviotrasportate con una testata speciale») e arrivando gradualmente all’annessione della Bielorussia. Ognuno potrà investire in piani di ricostruzione che faranno girare denaro utile per una nuova spirale virtuosa economico-finanziaria.
Globalmente la Cina si schiera, schermendosi – probabilmente anche per partecipare agli appalti – e senza impegnarsi direttamente in questa Prima guerra del confronto del mondo contro la Nato (che Trump aveva azzerato e Biden resuscitato, investendo una quantità di miliardi inimmaginabile), detentrice di una primazia in parte erosa dal multilateralismo di forze intermedie pronte a schierarsi in modo autonomo volta per volta, come la Turchia – appartenente alla Nato! – o l’India (due specchiati esempi di democratura), o anche i paesi del Golfo sempre più impegnati in attività di maquillage, ma anche di autonomizzazione dallo schieramento filoamericano.

«Servitor vostro»

Medvedev non è omologo di Xi, ma può ricevere indicazioni che tutte le diplomazie interpretano come invito a ritornare a una situazione in cui si possano scambiare merci con minori sanzioni o dazi; la guerra si deve spostare su altri piani, in modo che la Cina possa acquisire ulteriori avanzamenti; per uscire dalla sindrome del Giappone targata 1990 – incapace di progredire con lo stesso ritmo e quindi imploso nella sua scalata al cielo. Esistono altre potenze indopacifiche che stanno crescendo d’importanza e infatti si rinnovano i periodici scontri alla frontiera himalayana con l’India.

Lukashenka non è omologo di Putin, ma si adatta bene al ruolo di subordinato nella alleanza militare – utile per mostrare quel che resta dei muscoli di Mosca per arrivare a un primo negoziato che chiuda il contenzioso in quell’area, in attesa che si sposti altrove (e si stanno ammassando armi attorno all’Iran). Intanto è utile mostrare che almeno sulla Bielorussia il Cremlino può ancora contare ed è l’area che in questo momento è geograficamente fondamentale controllare e dove accumulare minacciosi missili logistici e strumenti ipersonici.

Zelensky non è omologo di Biden, ma è il terzo fantoccio (dagli occhi umani, non come quelli da killer come Putin nei folkloristici ritratti di Biden, fintamente gaffeur) che serve ai tre potenti della terra per lanciare messaggi agli altri due. Zelenski va a prendere gli spiccioli, oltre ai Patriot da schierare contro le dotazioni nucleari collocate contemporaneamente alla frontiera bielorussa dall’esercito russo, sapendo che poi arriveranno i soldi per la ricostruzione. E rilancia le richieste nel monologo al parlamento, mancava solo un elenco alla Leporello (ma questa volta come lista della spesa); dei tre incontri quello davvero mediatico e diffuso su ogni media è il kolossal americano, dove anche i dettagli come gli abiti indossati dai due protagonisti sono funzionali a lanciare messaggi precisi e assegnare ruoli. Zelensky è il buffone di corte in ogni senso, comprendendo pure la facoltà di asserire verità scomode, ovviamente a maggior lustro del monarca e Biden non è re Lear infatti Zelensky non ha mai la medesima statura, non solo fisicamente.

Uno schema bellico inesorabile

La concomitanza dei tre eventi non si configura come complotto globale di un’oligarchia che interpreta in modi diversi il neoliberismo e che quindi trova contrapposti gli interessi delle potenze che si misurano per spartire aree di influenza e ruoli in concorrenza e individuano volta per volta territori che si prestino al confronto perché si tratta di aree di crisi incancrenite (da anni si assisteva alle provocazioni sulle pipeline ucraine; il conflitto in Nagorno Karabakh da decenni volutamente irrisolto e costantemente rinfocolato dai vincitori; come quello del Kosovo, dove sta montando da un paio di mesi la tensione che cova dalla “fine” della guerra di Clinton tra opposti nazionalismi, coccolati apposta dai rispettivi riferimenti…); oppure nuovi protagonisti molto potenti e militarmente approvvigionati e minacciosi come le petropotenze emergenti che usano vetrine diverse – per ora strategicamente collegate con una facciata culturale (il marchio Louvre nel deserto in cambio dell’acquisto di Rafele e altre connessioni vantaggiose per Parigi), velata da megaeventi sportivi (il mondiale di football invernale, imposto a suon di corruzione e interpretando in modo ancora diverso il verbo unico capitalista) e che hanno una concezione del sistema socio-politico ancora più oligarchico e fondato sull’oppressione e la cancellazione della maggior parte dei diritti civili, usando la tradizione come collante per i poteri forti interni.

Automatismi di un ruolino di marcia bellico

Piuttosto che un accordo per svolgere ciascuno un ruolo in commedia distribuito da una regia collettiva (una pièce complottista), si può concepire questo snodo epocale come il processo innescato che non può non passare attraverso tappe inevitabili costituite da molteplici guerre. Quei conflitti che, finché non hanno coinvolto equilibri europei, erano rimasti nella percezione occidentale a bassa intensità, mentre ora si manifestano con distruzioni di arsenali e migliaia di vittime civili anche in Europa, non più solo nel Sud del mondo, dove si sparge il sale sulle ferite non rimarginate mai, per suppurare periodicamente e far esplodere furiosi combattimenti utili per sostituire localmente il predatore di turno: infatti Biden è stato spinto a finanziare potentemente il continente africano per tentare di contrastare la penetrazione di Cina, Turchia e Russia, proprio mentre non è ancora del tutto sopita la guerra in Tigray ed esplode un nuovo focolaio nel Sud dell’Etiopia per l’insorgenza dell’Oromia.

Un’ipotesi che si può avanzare sulla base delle prime mosse di incontri diplomatici ad alto livello tra non omologhi, che usano gli incontri per dettare la politica delle macrofazioni e assistere alla conseguente disposizione delle alleanze, è che si cerchi ora di comporre molto lentamente la questione ucraina, lasciandola però accuratamente non del tutto risolta; contemporaneamente preparando nuovi conflitti in aree significative per il confronto tra le maxipotenze, che possano montare ben più che per una proxy war, a impattare su una nuova emergenza (energetica, lievitando prezzi per fibrillazioni borsiste? religiosa, per induzione jihadista?…) e poi confrontarsi in un nuovo scacchiere (Taiwan?) più vicino al confronto diretto e risolutivo.

Il senso del capitalismo per la guerra

Dunque fa tutto parte della vera Guerra tra Usa e Cina, che non finirà se non trovando un’uscita dal sistema capitalistico, motore mobile che necessita e si alimenta di quel costante conflitto, perché il capitalismo ha bisogno sempre di incrementare il profitto, triturandovi tutto: industria del divertimento, alimentare, consumo di beni… industria bellica.

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Brecce nei modelli dello status quo https://ogzero.org/brecce-nei-modelli-dello-status-quo/ Fri, 12 Aug 2022 08:53:28 +0000 https://ogzero.org/?p=8520 Si stanno indubbiamente aprendo brecce nell’equilibrio mondiale a cui s’ispira il modello che ha consentito finora all’Occidente di imporre la propria impronta sul mondo. Il multilateralismo faceva perno su una potenza globale come quella americana che assicurava la possibilità di intessere relazioni multilaterali, ora quel sistema vede erodere la propria incontrastata egemonia in particolare dalla […]

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Si stanno indubbiamente aprendo brecce nell’equilibrio mondiale a cui s’ispira il modello che ha consentito finora all’Occidente di imporre la propria impronta sul mondo. Il multilateralismo faceva perno su una potenza globale come quella americana che assicurava la possibilità di intessere relazioni multilaterali, ora quel sistema vede erodere la propria incontrastata egemonia in particolare dalla Cina e dal corredo di potenze locali in grado di portare sfide in aree specifiche. Nell’ultimo anno, dopo la caduta di Kabul il 15 agosto 2021, si è assistito a un’accelerazione inarrestabile della messa in discussione della globalizzazione e alla proposta di modelli socio-politici autocratici che si contrappongono alla “rassicurante” liberal-democrazia.
Era un sogno della sinistra libertaria aprire brecce nel capitalismo liberal-democratico per scardinarne il sistema, e ora chi metterebbe al centro l’emancipazione antitotalitaria dei popoli non riesce a interpretare l’attacco allo strapotere americano come una rivoluzione imposta dall’alto e realizzata dal nazionalismo autoritario, militarista e tecno-finanziario come quello statunitense. Infatti non sortisce di meglio che accettare la narrazione che vede ancora due blocchi contrapposti, da cui non si riesce a prescindere… né a evitare di schierarsi, non riconoscendo che si tratta della riproposta di schieramenti ottocenteschi: il superamento del “secolo breve” sta avvenendo, sì… ma in senso contrario, nel passato di oligarchie imperiali ottocentesche che controllano i propri territori, rinverdendo tradizioni culturali che si appropriano della critica alla globalizzazione.

Dopo un anno il regime talebano consegue il riconoscimento da parte di Cina e Russia. Quella capitolazione di Kabul alla più vieta e arcaica concezione religiosa e culturale locale del Waziristan ha dato la stura alla spartizione del mondo in aree di riferimento. OGzero ha pensato che ci fosse la necessità di ipotizzare e far dialogare processi in corso e possibili strategie adottate dai protagonisti del rivolgimento epocale, sperando così di avviare un dibattito che descriva la situazione prescindendo dalla versione parziale che scaturisce da un sistema in mutazione e quindi non in grado di fotografare il cambiamento che sta subendo.


Sostituzioni di modelli

Nelle infinite analisi del ribaltamento in corso di quell’equilibrato sistema di relazioni internazionali sancito da Yalta – e mantenuto invariato perché a nessuna delle potenze andava stretto o non avevano l’opportunità di imporre finora alcun rilievo – esistono un paio di elementi che sembrano non venir evidenziati a sufficienza nelle disamine della situazione geopolitica attuale: la rivoluzione è imposta dall’alto, è un pranzo di gala esclusivo dove gli invitati giocano a Risiko – e infatti si punta su una comunicazione che fondi la legittimità delle mosse sul confronto nazionalista; e al contrario di quel che avviene di solito in caso di conflitti, il contenzioso non coinvolge il Sud del mondo, sconvolgendolo. Le popolazioni alle quali ci si riferiva come Terzo mondo, ai tempi in cui lo spunto per molte speculazioni proveniva dall’internazionalismo non solo ora non si schierano a favore della “democrazia”, ma cominciano a considerare l’occasione ghiotta per ridimensionare la presenza e il condizionamento di un sistema, forgiato su un modello culturale ed economico sviluppato da una cultura estranea come quella europea, esportato in forma coloniale.

«Noi giovani abbiamo organizzato questa manifestazione per il ritiro delle forze armate francesi dal territorio nazionale del Mali. Vogliamo dare un contributo alla soluzione definitiva della crisi e ripristinare i valori della sovranità della nostra nazione. Non nascondiamo e riaffermiamo la nostra comune disponibilità con le nuove autorità di transizione a dare priorità alla cooperazione militare con la Russia per il rapido ripristino della Repubblica, in modo da poter lottare per la stabilità a lungo termine, che porterà alla nostra sovranità assoluta» (appello ad Assimi Goita pubblicato dalla piattaforma Debout sur les remparts, Yerewolo: giovani maliani, settembre 2021)

Ecco: un primo errore nella narrazione e nell’approccio al rivolgimento epocale sta nel vizio occidentale di voler imporre il proprio sguardo etico-politico anche sull’interpretazione dei conflitti globali, senza considerare le narrazioni sviluppate da altre tradizioni politico-culturali. Geopolitica chiederebbe di attenersi all’analisi di strategie messe in atto a seguito di bisogni e presunta potenza; invece la propaganda sia dal punto di vista liberal-capitalista, sia nell’ambito autocratico-capitalista sfrutta le spinte nazionaliste identitarie, inanellando tutti i più vieti luoghi comuni per salvaguardare la propria sussistenza entro i confini di riferimento di stati consorziati militarmente a fare da scudo al proprio ordine socio-culturale. Persino l’internazionalismo era caduto nella stessa trappola di avanzare una filosofia di emancipazione comunque sviluppata all’interno della cultura occidentale, nonostante l’intento meritevole di liberazione dell’Altro.

Vecchi sogni antimperialisti offuscati da modelli di imperialismi contrapposti

Infatti la sfida in corso al predominio americano e al suo sistema di sfruttamento mondiale era il sogno di ogni rivoluzionario degli anni Sessanta-Ottanta. Al contrario vediamo i regimi autocratici intenti a scalfire il potere americano, avendo ipotizzato, dopo la disfatta di Kabul, che si sia avviato allo stesso declino subito dall’Urss dopo il pantano afgano. Ma forse si tratta soltanto di una speculare reazione al pressing statunitense sui russi, volto a togliere alla potenza locale il terreno sotto i piedi; e questo cominciò con l’amministrazione Obama. In particolare l’esecuzione di Gheddafi ha suggestionato il capo del Cremlino: infatti dal 2011 Putin ha cambiato strategia geopolitica, convinto nel suo sospetto dalla costante cooptazione nel campo filoamericano di molte nazioni ex sovietiche, sottratte alla influenza russa; questo ha giocato un ruolo rilevante di intenzionale provocazione per la potenza militare moscovita.

Un po’ tutti hanno impugnato quelle forbici, che hanno innescato il cambiamento, tagliando i fili del multilateralismo che erano in tensione già da tempo.
Putin è stato forse indotto a credere nella possibilità di costituire un fronte antiamericano sufficientemente ampio e militarmente sostenibile: potrebbe essere credibile una sorta di accordo tacito di non belligeranza se non di reciproco sostegno con altre grandi potenze, come la Cina che invece – a cominciare dall’amministrazione Trump – è stata messa sotto pressione dal punto di vista economico. Si potrebbe adottare uno sguardo capace di spiegare le indubbie provocazioni americane (l’ultimo episodio è quello che ha visto protagonista Pelosi a Taiwan, imbarazzante per gli alleati coreano e giapponese, come si è visto nelle tappe successive del viaggio) per arrivare a un confronto di intensità variabile che consenta a Washington di ridimensionare gli sfidanti quando ancora gli Usa detengono la preminenza nei mezzi sia militari che economici (il “momento tucidideo” di cui parla Streeck su “New Left Review”, ripreso da “Internazionale”). I rivali non hanno potuto evitare di rispondere alle provocazioni e mettersi in gioco quando ancora gli Usa sono in grado di fronteggiarli.

«Gli Stati Uniti si stanno comportando da stupidi, ed effettivamente lo sono. Fingendo di esserlo significa che sanno quali sono gli interessi della Cina sulla questione di Taiwan e la sua linea rossa. Ma, nonostante questo, la calpestano ripetutamente» (Wang Wen dell’Università Renmin)

Si è arrivati alla guerra aperta perché a quel risultato erano improntati i piani strategici di tutti i protagonisti per rispondere all’esigenza da parte di potenze nucleari energivore di espandere il controllo di risorse e mercati e in nome di quelle dinamiche dominanti si sta tentando la scalata all’egemonia, la stessa che gli Usa intendono mantenere ancora per alcuni decenni, com’è avvenuto 30 anni fa quando a crescere al punto da sfidare la preminenza tecnologico-finanziaria fu il Giappone simboleggiato da Goldrake, allora detentore delle maggiori conoscenze sui semiconduttori e ora investito da Blinken del ruolo di gendarme del Pacifico; la sfida di Tokyo fu ridimensionata proprio con l’avvento della globalizzazione e agevolando la crescita della Cina ispirata a Deng in grado di eclissare prima e surclassare nel 2010 l’ascesa del Giappone – isolato e costituzionalmente privo di deterrenza militare; ora il conflitto appena scatenato rappresenta la fine della globalizzazione e l’industria nipponica torna a fare da testa di ponte per conservare al campo “occidentale” il controllo dei microchip, collaborando con le maggiori fabbriche di Taiwan. Premendo così in ambito tecnologico sulla possibilità di sviluppo dell’economia cinese, costretta a mostrare i muscoli a Nancy Pelosi (per uso interno, ma anche più pragmaticamente per salvaguardare le forniture tecnologiche di Formosa), come il pressing e la cooptazione degli stati satelliti dell’ex Urss lasciava poche chance alla sicurezza russa.

«Putin ha lanciato un’invasione per eliminare la minaccia che vedeva, perché la questione non è cosa dicono i leader occidentali sui propositi o le intenzioni della Nato: è come Mosca vede le azioni della Nato. la politica occidentale sta esacerbando i rischi di un conflitto allargato. Per i russi, l’Ucraina non è tanto importante perché ostacola le loro ambizioni imperiali, ma perché un suo distacco dalla sfera d’influenza di Mosca è “una minaccia diretta al futuro della Russia”» (John Mearsheimer da “The Economist”).
«Molti tendono a equiparare egemonia e imperialismo. In realtà imperialismo è una nazione che ne forza altre a entrare nella sua sfera, mentre egemonia è più una condizione che un proposito. Il problema di Putin e di coloro che sostengono l’esistenza di sfere d’influenza russa e cinese è che “tali sfere non sono ereditate, né sono create dalla geografia, dalla storia o dalla ‘tradizione’. Sono acquisite dal potere economico, politico e militare” che gli Stati Uniti possiedono più della Cina e che la Russia non ha» (Robert Kagan, “Foreign Affairs”).
(Ugo Tramballi, Ispi).

Conflitti collaterali e proxy wars

Ormai appare evidente che l’escalation di tensione costringe il mondo a uno stretto passaggio tramite il quale ogni area dello scacchiere internazionale è costretta a transitare, ovvero locali confronti tra protagonisti per definire gli schieramenti attraverso innumerevoli conflitti ristretti che ambiscono al controllo di territorio, risorse, commodities e mercati a cui attingere quando lo sforzo bellico sarà globale e a tutti i livelli.

Di tutti il confronto che maggiormente ha costituito la consapevolezza che si stava andando verso un rivolgimento globale è la crisi sarmatico-pontica, usata come grimaldello per coinvolgere anche l’Occidente europeo nel processo di trasformazione degli equilibri e delle supremazie su zone di influenza che si è innescato con l’attacco di Sarkozy a Gheddafi. Di lì discende la nuova strategia russa da un lato (innescata come già spiegò Bagnoli dalla paura di Putin di fare la stessa fine) e dall’altro la pulsione all’affrancamento nel Mediterraneo dei satrapi che nel 2011 erano ancora al guinzaglio di potenze globali e da allora invece sempre più autonomi e spregiudicati, come la Turchia, l’Arabia Saudita, gli Emirati… che hanno cominciato a sgomitare perseguendo strategie, alleanze, riarmo, penetrazioni in territori colonizzati proprio da quell’Occidente europeo da cui gli Usa si allontanavano, non avendo più interesse energetico derivante dal Mena, essendo divenuto autosufficiente durante l’amministrazione Obama con lo shale oil, e che ha optato in quel quadrante per la delega alle autocrazie locali. Si è venuta così a creare una pulsione all’autodeterminazione, all’affrancamento e all’autoaffermazione che passa attraverso un forte impulso al nazionalismo e al militarismo. Altra benzina sul fuoco.

Modelli sovranisti stanziano ad Astana

In questo quadro van rivisti a livello di potenze locali, tendenzialmente non più tali, la guerra siriana e i conseguenti accordi di Astana… Si sono svolti nelle ultime due settimane due atti di questo canovaccio, uno a Tehran e uno a Soci, di quest’ultimo Yurii Colombo ha parlato nel suo canale telegram Matrioska.info, sottolineando i due aspetti richiamati dal viceprimoministro Alexander Novak che rinsaldano i legami tra i due autocrati: le forniture di 26 miliardi di metri cubi annui di gas alla Turchia – il cui Turkish Stream diviene un hub del gas russo ad aggirare gli embarghi – e gli scambi in valuta nazionale: lira e rubli, entrambe in sofferenza. L’incontro in Iran è stato affiancato dall’Ispi agli sviluppi dell’attività diplomatica di Lavrov:

«A pochi giorni dall’incontro del terzetto di Astana dove oltre a Ebrahim Reisi Putin ha incontrato anche l’omologo turco Recep Tayyip Erdoğan, la visita di Lavrov sembra anche voler ribadire che la Russia non è isolata sulla scena internazionale. Al termine dell’incontro con il presidente egiziano Abdelfattah al Sisi e con il segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit, il ministro ha esortato il mondo arabo a sostenere la Russia “contro i tentativi palesi degli Stati Uniti e dei loro satelliti europei di prendere il sopravvento e di imporre un ordine mondiale unipolare”. Non è detto che in paesi in cui il sentimento antiamericano è forte (corroborato dall’invasione in Afghanistan e Iraq e dal sostegno storico a Israele) i suoi argomenti non facciano presa» (Alessia De Luca, Ispi).

Mosca è tutt’altro che isolata, se si ripensa al voto di marzo all’Onu sulla risoluzione di condanna dell’invasione ucraina.

Tutti contro tutti appassionatamente insieme

Ankara contemporaneamente è un nodo della gestione per procura americana del Medio Oriente insieme a Tel Aviv (il giorno dopo l’incontro con Herzog, Hamas è stato cacciato da Ankara, come avvenne ad Arafat a Beirut) – però Israele è schierato con Egitto, Cipro e Grecia per controllare il Mediterraneo orientale in contrasto con Ankara – e Riad, gradualmente disciogliendo il contenzioso yemenita come il corpo di Kasshoggi nell’abbraccio tra Erdoğan e Mbs (con sullo sfondo gli Accordi di Abramo voluti da Kushner e proseguiti da Blinken).  A maggio persino sauditi e iraniani hanno ripreso relazioni diplomatiche. Evoluzioni tutte previste da Antonella De Biasi in Astana e i 7 mari.

“Astana prepara crepe nell’asse mondiale sparigliando le polarità”.

Risulta sempre più importante districarsi tra alleanze interstatali, che in ogni caso – siano regimi liberal-democratici o democrature rette da autocrati e oligarchi, dinastie, latifondi o gruppi economico-industriali – soffocano le libertà civili e il controllo dei media impedisce ai sudditi di riconoscersi come tali e proporre una coalizione dei sottomessi che si sottraggano e levino il consenso alle istituzioni militari assassine.

Questa ricostruzione permane all’interno di un quadro a blocchi, ma lo fa diversamente dal rimpianto che si affaccia presso alcuni vecchi rivoluzionari per quella condizione semplice da leggere costituita da due imperi anche geograficamente divisi per blocchi contigui. Invece in realtà lo sconquasso operato con l’invasione ucraina ha sconvolto ogni possibile lettura di strategie e mosse sullo scacchiere internazionale, che va componendosi all’interno di quel quadro in una serie di alleanze militari (Quad, Aukus), cooptazioni (gli stati africani controllati da Wagner e quelli inseriti negli accordi di Abramo), scelte di campo fondate sui nemici dei nemici (Etiopia), attendismo neutralista (eclatante in questo senso la posizione dell’India), ambigue mediazioni (il ruolo che si è conferito Erdoğan).

Il rivolgimento globale registra soprattutto in Mena e in Europa (e nelle sue colonie africane) il rimescolamento di alleanze, controllo di risorse e sfere di influenza, mentre nell’Indopacifico si assiste a viaggi diplomatici che si inseguono per creare coalizioni in vista del confronto.

Orizzonti senza gloria

Però quei vecchi rivoluzionari ormai incanutiti dovrebbero leggere il presente con occhiali diversi da quelli adottati negli anni Settanta e proporre un pensiero estraneo all’ottica meramente mercantile di un capitalismo ancora più feroce di allora che permea tutte le innumerevoli parti in causa, le quali infatti si confrontano con i mezzi previsti dal Finanzcapitalismo (non a caso Gallino lo scrisse nel 2011, l’anno del tracollo libico, durante le Primavere arabe).

Un modello che sconfigga il sovranismo neototalitario non può certo affidarsi al nazionalismo dell’imperialismo di stampo americano in contrapposizione a quelli irricevibili di stampo cinese o russo o neo-ottomano o saudita, o viceversa: rispondono tutti ai medesimi criteri ed è come rivelare l’acqua calda la denuncia che la barbarie dell’esercito russo è identica a quella delle invasioni americane di Vietnam, Somalia, Iraq… Afghanistan. Quest’ultima, emblematicamente comune a quella sovietica, dovrebbe anche simbolicamente chiudere il cerchio e l’epoca.

Allora bisognerebbe riuscire a fabbricare una chiave per attribuire il fulcro delle strategie che regolano i rapporti nel mondo a valori diversi, esterni al capitalismo – o alla identità nazionale o religiosa. Per farlo andrebbe forse messa al centro della proposta di ricostruzione dei modelli mondiali l’emancipazione dei popoli e la loro difesa dagli imperi sovranisti che non solo ripropongono l’idea degli imperi ma anche la loro considerazione della carne da cannone, contrapponendogli quel ripudio delle guerre, militari o economiche che siano, sicuramente diffuso come all’inizio della Prima guerra mondiale su cui potrebbe costruirsi un modello che si sottrae agli interessi imperialistici.

Quindi innanzitutto vanno smontati i meccanismi e gli interessi militari che stanno informando le cancellerie del mondo. E per farlo vanno individuati e descritti nei particolari quegli stessi meccanismi per disinnescarli, come la bomba che gli imperialismi, cambiando gli equilibri di sistema dall’interno e ponendosi fuori dai blocchi, stanno preparando, intessendo l’ordito di trame e temporanei accordi che sfoceranno in nuovi focolai di guerra funzionali a uno di quei modello di mondo.

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Il “nuovo” ordine mondiale e il gioco delle parti da Astana a Kyiv https://ogzero.org/il-gioco-delle-parti-e-il-nuovo-ordine-mondiale/ Sun, 27 Mar 2022 21:52:07 +0000 https://ogzero.org/?p=6901 Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 […]

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Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 spunti offerti da Eric Salerno e Sabrina Moles, che ci hanno rievocato le intuizioni messe in gioco in Astana e i 7 mari di Antonella De Biasi. Così “OGzero” nel momento dell’annuncio di un tavolo di pace imbandito a Istanbul comincia a credere che lo spirito di Astana non è sfumato del tutto e su questo dubbio ha cercato di ricostruire i cocci prodotti dall’esplosione del multilateralismo nei rapporti tra stati, dallo scardinamento di alleanze esili, dalla individuazione del momento in cui il Cremlino ha pensato che fosse più opportuno far saltare gli equilibri. Un istante che Antonella nel suo scritto, steso a ottobre, preconizzava individuando nella ignominiosa ritirata americana dall’Afghanistan il segnale della debolezza per cui era possibile azzardare il morso del serpente.

Salvo poi accorgerci che ciascuno ha tratto vantaggio o imponendo spese militari, o annettendosi nuovi territori rivieraschi, o soffiando su un nazionalismo sovranista, cancellando piani ecologisti e ridistribuendo energia con un maggior profitto per i produttori. Distribuito sciovinismo e testosterone in tutti i paesi del primo mondo.

Perciò a partire dalla chiosa del libro, proviamo con questo editoriale a mettere in fila gli eventi di queste ultime 5 settimane sulla scorta di quello che il volume di Antonella De Biasi aveva già individuati come potenziali snodi critici; andremo a trovare nel libro verifiche delle analisi prodotte a posteriori dagli equilibri scaturiti dalla “spezial operazy” di Putin, così da inserirla nell’annoso flusso geopolitico senza gli isterismi cavalcati dal profitto guerrafondaio. Infatti il volume si chiude con una frase emblematica: «Il gioco di Astana, seppur precario, in fondo è anche un gioco delle parti» e le dichiarazioni e le mosse diplomatiche di fine marzo seguono il canovaccio.


Il conflitto in corso è figlio della interpretazione data da una nazione come la Russia al periodo governato da una sorta di multilateralismo: se ne riconoscono i metodi inseguendo i gangli della dottrina Gerasimov (mai realmente scritta o teorizzata, ma resa evidente dalla prassi bellica russa), il cui scopo principale era quello di spezzare l’unilateralismo derivato dalla fine della Prima guerra fredda, in particolare: la soluzione cecena, da cui deriva la carriera del generale; Georgia e Crimea, rimaste senza risposta da parte delle altre potenze… ancora più palese l’uso strumentale del Donbass oggi, come 8 anni fa a suffragio della considerazione dei territori a est del Dnepr come giardino di casa.

Nel caso del conflitto in Nagorno-Karabakh gli armeni hanno pensato erroneamente che Mosca li avrebbe difesi “contro una minaccia turca e musulmana”, come sostiene il professore francese esperto di islam Olivier Roy. Così non è stato perché in fondo l’immagine di una Russia cristiana, ultimo argine all’islam di cui l’Armenia si sente avamposto, serve solo a intermittenza e sempre più raramente come topic/pedina intercambiabile per la personale partita a scacchi di Putin, per ristabilire la grandezza della Russia agli occhi degli occidentali e dei paesi rappresentati dalle economie emergenti. Alcune reazioni caute e sottotono lasciano pensare che Putin non solo fosse al corrente dell’offensiva azera ma che ne abbia addirittura discusso i limiti con il regime di Aliyev così da riprendere solo i territori che, secondo il diritto internazionale, sono azeri. L’estrema destra occidentale ha sempre visto la Russia di Putin, costruita a sua immagine e somiglianza negli ultimi vent’anni, come il baluardo dei valori cristiani minacciati dall’islam. Il Cremlino sfrutta quando servono queste simpatie da sempliciotti. L’obiettivo di Putin è riprendersi e controllare his back-yard.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 49)

Ma anche e soprattutto andava preso nella giusta considerazione l’interventismo in Siria. E in Libia: non si dimentichi il voto del 3 marzo all’Onu che ha visto la metà di paesi africani compromessi per armi, sicurezza e traffici con la Russia compattamente astenuti, in particolare allarmanti le astensioni dei paesi maghrebini fornitori di gas e con interessi – anche militari – intrecciati con il Sud dell’Europa; tutto questo dinamismo del Volga sullo scacchiere internazionale è un prodotto degli accordi di Astana, che è l’altro snodo diplomatico-pragmatico attraverso cui passa la strategia russa di questo periodo e che ha finora imposto i dossier al mondo.

Ma la preparazione alla guerra classica, dotandosi di armi sofisticate, da parte dell’Ucraina attraverso gli stessi meccanismi di alleanze e accordi ibridi con ciascuna potenza locale (e talvolta globale, ma cambiando ogni volta campo contrapposto) ha scombinato il disegno di Shoigu, Gerasimov e Putin. Questa si può considerare una conseguenza del fatto che la Nato si è risvegliata dal coma (indotto da Trump, sodale della deriva reazionaria putiniana mondiale) di cui parlava Macron, ma lo ha fatto predisponendosi a rispondere alla guerra che Bruxelles (e soprattutto Arlington e Langley) sapeva sarebbe stata scatenata: in che modo si preparava? armando gli ucraini con ogni ordigno convenzionale o meno, sia attraverso le armi in dotazione agli alleati europei (baltici in primis), sia con i droni turchi, che con alcune armi di fabbricazione israeliana – ma non tutte, come vedremo – e producendo una propaganda nazionalista identitaria per sollevare lo spirito bellico dell’Europa. Addirittura gli S-400 che furono motivo di sanzioni americane contro la Turchia potrebbero diventare paradossalmente strumenti di difesa per gli ucraini se Ankara si farà convincere a passarle a Zelensky, o le porrà sulla bilancia della trattativa: la tecnologia di cui sono dotate sicuramente è efficace contro le macchine belliche del cui impianto sono parte.

L’amministrazione Biden è ben consapevole che deve tenere la Turchia dentro l’asse Nato per impedire che passi nell’orbita russo-cinese. Così Erdoğan userà questo punto per ottenere vantaggi almeno nelle relazioni bilaterali. La questione critica più importante per gli Usa è il sistema missilistico S-400 che Erdoğan ha acquistato da Putin, non compatibile con quello Nato

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 84).

Si può dunque parlare di una proxy war combattuta in territorio europeo e con obiettivi gli interessi europei, che vede gli Usa defilati e non interventisti, ma guerrafondai e impegnati a far esporre l’UE, tagliando così tutti i ponti (e gli oleodotti) euro-russi che in particolare la Germania merkeliana (e di Schroeder) avevano costruito: doppio risultato per gli americani che vendono all’altra sponda atlantica il loro gas poco ambientalista, piazzando (o affittando a caro prezzo) anche le navi che trasportano i rigasificatori.

Ora che gli altri protagonisti in commedia hanno appreso come prendere le misure al sistema bellico ordito da Mosca dalla Cecenia in avanti, accettando una vera e propria guerra con migliaia di morti e smaltimento di magazzini di armi novecentesche; ora che si è dimostrata la marginalità della UE e la sua riduzione a mera potenza locale succube della Nato, mentre la Russia – pur non sfondando e rimettendoci in immagine guerresca e di efficienza militare, piangendo molti più morti e dissanguandosi in spese  – si prende tutte le coste del Mar Nero settentrionale e del mar d’Azov; ora rimane in piedi il modello di rapporti e accordi spartitori; scambi e traffici multilaterali che han funzionato per spartirsi territori di confine, operazioni militari e aree di riferimento tra potenze locali: quel sistema di accordi, che Antonella De Biasi ha correttamente descritto nel suo testo dedicato agli Accordi di Astana, e dove si possono rintracciare in nuce le dinamiche e gli equilibri che ora dopo la guerra spiccano nella narrazione della resistenza ucraina, trova una riproposizione nella fornitura di armi e nelle candidature alla composizione del conflitto da parte di potenze “locali”. Insomma: gli Accordi di Astana vedono trasformati gradualmente i ruoli dei singoli attori e la chiave che ne promana vede protagonisti Turchia (che ospita sia gli yacht degli oligarchi – magari sfuggiti al Novichok dell’Fsb –, sia le denunce dei dissidenti) e Israele (che accoglie ebrei russi e ebrei ucraini), nella totale assenza di strategia Usa/EU.

In fondo la prospettiva di incontri bilaterali russo-ucraini riferita da David Arakhamia, leader parlamentare ucraino e partecipante ai negoziati, previsti per il 28-30 marzo a Istanbul (e/o successivamente a Gerusalemme, probabilmente) con padrini gli equidistanti Turchia e Israele che stanno facendo avance l’un l’altro per ritessere reciproci rapporti diplomatici dopo l’incidente della Mavi Marmara evocato da Murat Cinar nel suo articolo, appare come i memoranda d’intesa stipulati durante il vuoto trumpiano riempito ad Astana, evocati da Antonella De Biasi:

Erdoğan e Putin per primi, e a seguire l’appena eletto Raisi, cercheranno di mantenere l’influenza guadagnata negli ultimi quattro anni della presidenza Trump facendo buon viso a cattivo gioco. Si sa che le alleanze non sono per sempre – anche e soprattutto tra leader autoritari e populisti –, ma ogni volta che ci sarà una crisi, e quindi anche un’occasione per aumentare l’influenza nello scacchiere internazionale, si farà sempre in tempo a scrivere inediti memorandum d’intesa e scegliere una nuova suggestiva località per sottoscriverli.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85)

 

E il terzo protagonista degli Accordi di Astana, l’Iran, che vi ha partecipato da potenza locale impegnata a mantenere la preminenza sulla mezzaluna sciita e con l’intento di contribuire alla marginalizzazione delle potenze europee, non ha avuto reazioni dopo la crisi afgana e non prende posizione in quella attuale: è apparso chiaro che la repubblica islamica viene tenuta in sospeso per il fatto proprio che a Putin serve l’appoggio di Bennett e quindi potrebbe far pesare un veto alla ripresa degli accordi Jcpoa, nel momento in cui pare che l’amministrazione Biden sarebbe invece disponibile a riprendere i negoziati sul nucleare iraniano, per focalizzarsi sull’indo-pacifico. Come per gli altri teatri delle guerre scatenate e composte ad Astana, il ruolo iraniano è stato in genere di supporto non attivo agli accordi: una sorta di notaio che assicura il proprio assenso in cambio della non intromissione nei propri affari.

Gilles Kepel su “Le Grand Continent” anticipando stralci del suo ultimo libro: «L’amministrazione Biden, il cui primo impulso diplomatico è consistito nel relativizzare il peso del Medio Oriente nella sua agenda politica estera a favore delle questioni cinesi e russe, e nel far prevalere nella regione la riattivazione del Jcpoa sull’antagonismo israelo-palestinese, le cui asperità si pensava fossero state cancellate dagli Accordi di Abramo, si trova così costretta a giocare dietro le quinte durante la guerra del maggio 2021», chiamata dal professore francese “la guerra degli undici giorni”. In questo nuovo caos con gli smottamenti nei paesi dell’area mediorientale, caucasica e mediterranea la Libia e quel che accadrà a cavallo del nuovo anno, determineranno i confini geopolitici degli attori di Astana, nello specifico la Turchia e la Russia.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 85).

Applicazione di un modello

Qui infatti ritroviamo attivo come sempre il compare di Putin di tanti incontri ad Astana: Erdoğan ha mantenuto lo stesso atteggiamento ambiguo che lo ha contraddistinto in Siria, in Libia, in Nagorno-Karabakh – non a caso di nuovo gli azeri stanno sfruttando l’occasione che impedisce a Mosca di difendere l’alleato armeno – quando ha sostenuto in genere la parte avversa al fantoccio locale di Putin, salvo poi comporre ogni questione attraverso una spartizione de facto di territori, interessi, occupazioni. Anche in questo caso Erdoğan ha fornito a Zelensky armi e sostegno da appartenente alla Nato, ha mantenuto un ruolo ambiguo sui Dardanelli e sull’accesso al Mar Nero in relazione alla Convenzione di Montreux – e anche in questo caso la sottolineatura di Antonella De Biasi di p. 48 di Astana e i 7 mari, relativa all’appoggio russo ad abkhazi e agiari che solleva questioni ataviche in contrapposizione russi e turchi, sostenitori dell’etnia tatara, poneva già il problema di schieramenti – ma poi non aderisce a sanzioni ed embarghi… e questo consente ad Ankara di proseguire la diplomazia di Astana verso Mosca e di proporsi come mediatore, forse per la sua esperienza di occupazione del Rojava e strage di curdi. Ruolo che è in grado di svolgere l’altro campione di democrazia: Israele che da 55 anni occupa territorio palestinese e applica l’apartheid. Anche Israele compare 49 volte nel libro di Antonella De Biasi, pur non essendo tra gli ospiti di Astana, se non in veste di Convitato di Pietra: infatti Tel Aviv ha mantenuto un profilo basso, senza contrariare il Cremlino, sia per i milioni di russi e ucraini immigrati in Israele, sia per gli innumerevoli interessi che legano i due paesi; peraltro ha fornito qualche ordigno a Kyiv, senza consentire l’uso di Pegasus o di Blue Wolf, e tantomeno Iron Dome, sistema di difesa antiaerea richiesto dall’Ucraina fin dal 2019 (per dire da quanto si stavano preparando alla “sorprendente” aggressione russa). E soprattutto, come dice Eric Salerno: «Israele ha bisogno di alleati» e questo è reso ancora più evidente dall’accoglienza per gli Accordi di Abramo che ha stipulato prontamente con alcuni paesi arabi.

Israele e Turchia evidenziano il proseguimento sotto altre forme del multilateralismo sotto il cappello della crisi russo-ucraina: come ci ha detto Eric Salerno nella puntata di Transatlantica24 per quanto riguarda Tel Aviv – ma vale anche per Ankara, nonostante il disastro economico: se va in porto l’occupazione coloniale di tutte le zone in cui la Turchia è impegnata, il colonialismo predatorio può rimpinguare le casse. A entrambe il ruolo di potenze locali va stretto e sia nell’area interessata dalle operazioni belliche, sia nel resto dei 7 mari presi in considerazione nel volume dedicato da OGzero ad Astana, si propongono come interlocutori privilegiati, spesso in sostituzione degli interessi delle potenze coloniali europee classiche, assurgendo a un ruolo di potenze più ampia di quella locale mediterranea.

Il ridimensionamento del ruolo dell’Occidente nel panorama internazionale è determinato soprattutto dalla radicale contestazione del suo modello politico, economico e culturale attuata dalla Cina e in secondo luogo dalla Russia. Non è un caso che Cina e Russia siano tra i principali sostenitori di due organizzazioni multilaterali come i Brics e la Shangai Cooperation Organization (Sco). Di recente i due paesi hanno iniziato a collaborare per ridurre la loro dipendenza dal dollaro.

(Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Dunque di nuovo le potenze asiatiche evidenziano la inadeguatezza della prosopopea dell’UE, che preferisce riarmarsi, dissanguandosi e riducendo a nulla il sistema welfare liberal-democratico, pur di rincorrere sul piano militare le altre potenze guerrafondaie e venditrici di tecnologie militari per sostenere le industrie belliche anche europee, ringalluzzite dalla guerra per procura al confine eurasiatico, evocativo di altre invasioni, ma che sembra preludere a un ridimensionamento tanto dell’Europa, quanto della Russia stessa, ridotti a belligeranti locali di una guerra a cui stanno alla finestra le due vere potenze globali, che preparano il confronto in ambito indo-pacifico. Gli Usa ottengono – dopo che da due amministrazioni lo richiedono – che tutti gli europei destinino il 2% del pil alla “sicurezza”, sgravando gli americani di parte della spesa militare; la Cina – come ci spiegava Sabrina Moles nell’incontro di Transatlantica24 – senza schierarsi, ma lanciando segnali di propensione per l’invasore, pur facendo attenzione a non confondersi con una potenza sull’orlo del fallimento come la Russia che ha il pil di una provincia cinese (il Guandong), può trarre vantaggi, se non si prolunga troppo la crisi e se non si propone come mediatrice, perché rischierebbe di venire degradata al rango di potenza intermedia come appunto Turchia e Israele. I mediatori nel gioco delle parti.

Dopo la normalizzazione delle relazioni sino-russe alla fine della Guerra Fredda, la Russia è emersa come un importante fornitore di armi e tecnologia per la Cina. Quella relazione era un’ancora di salvezza finanziaria per l’industria della difesa russa in un momento in cui gli ordini di approvvigionamento nazionali si erano prosciugati. Ma da allora le vendite russe alla Cina sono diminuite man mano che l’industria della difesa cinese è maturata «in misura significativa grazie al trasferimento di tecnologia e al furto dalla Russia», commentano Eugene Rumer e Richard Sokolski sul sito di Carnegie Endowment for international peace. La Cina ora compete con la Russia nei mercati delle armi. Attualmente le vendite di armi dalla Russia alla Cina rappresentano solo il 3% del commercio totale annuo dei due paesi, che supera i 100 miliardi di dollari. Con l’accesso alla tecnologia occidentale tagliato a causa delle sanzioni, l’industria della difesa russa ha guardato alla Cina come una fonte alternativa di innovazione che non ha la capacità di sviluppare a livello locale.

 (Antonella De Biasi, Astana e i 7 mari, OGzero, Torino 2021, p. 73).

Può essere che il prossimo teatro di questo “Risiko per procura” torni in zona balcanico-caucasica (Nagorno Karabakh ed enclave etniche della Repubblika Srpska, oppure le tensioni panslavistein Bosnia); può darsi si inaspriscano le dispute che in Africa vedono impegnati militari turchi e miliziani della Wagner in contrasto – soprattutto in Françafrique – con gli eserciti coloniali classici; sicuramente Russia e Cina stanno collaborando assiduamente per spartirsi il Sudamerica, grazie alla distrazione di Biden che prosegue il disimpegno del suo predecessore.

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La distribuzione delle armi ai patrioti https://ogzero.org/la-distribuzione-delle-armi-ai-patrioti/ Mon, 28 Feb 2022 02:36:46 +0000 https://ogzero.org/?p=6548 Non è compito, né obiettivo di OGzero riportare notizie, anche se stravolgono il mondo e condizionano ogni aspetto della geopolitica, finché non si decanta il polverone che sollevano, consentendo un’analisi distaccata di ciò che provocano. Questa la natura analitica del sito; poi OGzero ha una sua componente parziale, schierata – per quanto cinica – e […]

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Non è compito, né obiettivo di OGzero riportare notizie, anche se stravolgono il mondo e condizionano ogni aspetto della geopolitica, finché non si decanta il polverone che sollevano, consentendo un’analisi distaccata di ciò che provocano. Questa la natura analitica del sito; poi OGzero ha una sua componente parziale, schierata – per quanto cinica – e contraria a ogni autoritarismo e militarismo che rivendichiamo come tratto distintivo. E che ci spinge a intervenire quando un’enormità inaccettabile viene assorbita come se non si trattasse di una barbarie: un’“involuzione copernicana”, che non è tanto l’invasione di un paese ex satellite da parte di un autocrate riconosciuto (Biden ha definito Putin un “killer” a inizio mandato), ma che l’Unione Europea con la sua prosopopea sull’approccio burocraticamente democratico si riduca al rango di trafficante per delegare un suo contenzioso. Questo passo è la vera svolta della vicenda ucraina, che per il resto dal punto di vista geopolitico è una delle innumerevoli situazioni di conflitto che ammorbano il pianeta.


Le infinite declinazioni degli aggettivi bellici

La guerra boot on the ground e il Glovo dei missili anticarro

Abbiamo anche avviato uno studium – non perché subodoravamo risvolti guerrafondai, ma perché l’escalation delle guerre di droni e nuovi sistemi di difesa e offesa è in atto da alcuni anni, producendo sempre nuove guerre – che ci impegna per l’intero 2022 (e forse anche oltre) a monitorare le movimentazioni, le consegne, i traffici di armi nel mondo, perché laddove c’è una transazione di questo tipo, prima o poi quell’arma viene usata. Non siamo anime belle che pensano che l’Europa non venda armi a chi è impegnato in un conflitto (chi se non i combattenti adoperano, consumano e ricomprano altre armi, se non chi le sta usando?) e quindi non ci stupiamo che si stanzino alcune centinaia di milioni per comprare armi da girare a un combattente, preoccupa che venga fatto senza infingimenti: hanno trovato il pretesto per poter moltiplicare gli affari per l’industria bellica senza dover pagare dazio. Senza contare che avevano già iniziato il giorno prima degli annunci ufficiali di Von der Leyen, a consegnare – come da consuetudine – armi ai belligeranti:

Guido Limpio, Missili e lanciarazzi. Italia, i primi soldati, “Corriere della Sera”, 27 febbraio 2022, p. 11. Pubblicato la sera precedente l’annuncio di Ursula Von der Leyen sugli stanziamenti UE per acquisto di armi da consegnare all’Ucraina

Il rilievo che ci viene spontaneo è il fatto che la tipologia degli articoli del delivery europeo via Polonia (ma anche le repubbliche baltiche sono tra i protagonisti più attivi già da alcune settimane nella distribuzione) denuncia la classificazione di quella che sarà la proxy war nel cortile di casa per alcuni anni: armi per un contrasto sul terreno, invischiando l’armata russa nella trappola scavata al suo confine a cominciare da Maidan.

Equipaggiamenti per guerre non lineari e guerriglia urbana

E infatti come sito attento ai rivolgimenti geopolitici siamo mitridatizzati alle guerre: uguali a quella carpatica ce ne sono state e se ne stanno combattendo molte altre nel mondo, certo non con una delle 3 potenze mondiali come protagonista diretta, ma sempre sullo sfondo si trovano impegnate tutte le potenze globali e locali. Perciò del gran polverone suscitato in questi giorni ciò che maggiormente indigna OGzero è il fatto che per la prima volta l’UE sovvenziona ufficialmente l’acquisto di armi per consegnarle a un paese terzo in guerra. Non siamo anime belle illuse che immaginano che con le manifestazioni di un weekend si possa fermare una determinazione alla imposizione delle proprie visioni deliranti da parte di un potere che usa spietati mercenari dovunque, uccide oppositori con il polonio, ammazza giornalisti come regalo di compleanno, sostituisce il colonialismo della Françafrique; ci indigniamo piuttosto a scoprire che un cancelliere socialdemocratico, appena valuta le centinaia di migliaia di migranti ucraini che premono ai confini, fa strame di scelte decennali e decide il riarmo tedesco – che non si può sentire dopo la Seconda guerra mondiale e le macerazioni degli anni Settanta a elaborare il senso di colpa di una nazione (cosa che l’ipocrisia cattolica italiana non ha mai consentito) – trovando 100 miliardi (!!!) per rinnovare la Bundeswehr… nemmeno Merkel sarebbe arrivata a una tale faccia di bronzo. Ma sicuramente il rinnegamento dei “valori europei” maggiore è quello che vede l’intera Unione allineata a rinunciare a ogni retorica – bastano 300.000 migranti – e vendere armi letali per costituire una guerriglia antirussa, affidandole probabilmente a Pravi Sektor e al Battaglione di Azov: più nazisti del modello collaborazionista di Bandera. Piuttosto che trovarsi 7 milioni di migranti (bianchi e caucasici) all’uscio, si impedisce che possano emigrare se hanno meno di 60 anni e più di 18 (coscrizione obbligatoria!), li si approvvigionano di armi e si organizza una guerriglia per procura; gli stessi razzisti polacchi che fino a un mese fa hanno fatto morire di freddo e fame nella foresta, riempiendoli di botte, quei migranti che arrivano dalle guerre scatenate dall’Occidente (afgani, africani, di “speci” evidentemente non abbastanza “famigliari”), accolgono fraternamente – e giustamente – i fuggitivi dai massacri della guerra perpetrata da Putin in Ucraina (ma non le sue vittime siriane).

Manifesto anarchico russo: “ No alla guerra degli oligarchi! Vogliono il carbone del Donbass? Combattano e muoiano loro”

Guerra ibrida e guerra nucleare ipermediatizzata: armi tattiche e molotov

La soluzione sarebbe dunque una proxy war in più (in Yemen siamo già oltre i 300.000 morti civili, ma sono distanti e arabi), fa solo più effetto perché europea e perché il bullo del Cremlino sventola la minaccia delle armi tattiche nucleari cercando di mantenere un ruolo da cattivo credibile dopo lo smacco per il fatto che la Blitzkrieg non è riuscita nemmeno questa volta (ricordate dall’altro lato la Mission accomplished?). Inquieta anche perché gli ucraini vengono trattati da europei di serie B – un nuovo apartheid all’interno del continente –  rimandati indietro al confine e “invitati” a imbracciare i fucili e fabbricare le molotov – se solo avessimo preparato in Valsusa gli stessi “pintoni attivi” in favore di telecamera saremmo pericolosi insurrezionalisti – per assaltare carri armati russi; addirittura si agevolano arruolamenti di volontari targati Europa, mentre i compagni che sono andati a condividere la lotta curda in Rojava (quella davvero una lotta antinazista) sono in sorveglianza speciale. Infingimenti geopolitici: guerra mediatica.

Istruzioni per la preparazione di una bottiglia molotov sui social ucraini

Istruzioni per la preparazione di una bottiglia molotov sui social ucraini

La guerra geopolitica

Si evidenzia allora una stortura che ci fa sospettare che la guerra non sia poi così ideologica come vorrebbe spacciare il Cremlino con il suo improbabile antinazismo, ma smaccatamente geopolitica, come non possono ammettere né Biden (che costringe il mondo a schierarsi, per occuparsi del quadrante indopacifico – ottenendo la neutralità dell’India da un lato, ma anche del Kazakhstan dall’altro… e la preponderanza degli affari nelle scelte degli “alleati” arabi; e che dire dell’imbarazzo turco sul trattato di Montreux e il diritto di chiusura dei Dardanelli che non si capisce come e se viene applicato o meno alle navi da guerra russe?). Tantomeno può definirlo “conflitto geopolitico” l’attendismo cinese – che cerca di capire come sfruttare l’occasione con Taiwan, e gli conviene che si ammanti il tutto di nobili principi degni di una guerra santa, o di liberazione; né gli europei spacciatori di armi letali, un altro aspetto tipico della geopolitica, ammantato come sempre di idealismo di liberazione. Come geopolitiche sono le conseguenze delle sanzioni: tutte avvantaggiano le risorse americane. Il gas – molto più caro, perché va trattato – verrebbe erogato da un ponte navale transatlantico, che legherebbe ancora di più gli europei arruolati dallo Zio Sam; le chiusure di rotte aeree richiederanno maggiore consumo di idrocarburi, forniti da Usa e mondo arabo… NordStream2, capitolo chiuso e nuova umiliazione tedesca (che non è mai una bella cosa, se ricordiamo le cause dell’ascesa di Hitler).

Ascolta “Paralisi e delirio a Mosca. Europa anno zero?” su Spreaker.

 

Quindi ci saremmo aspettati anche da Bruxelles reazioni tipicamente geopolitiche, tattiche come le sulfuree mosse del Cremlino, test di alleanze come quelle intessute da Washington, persino i traccheggiamenti in punta di diritto internazionale di Ankara (che evidentemente non considera concluso il rapporto privilegiato con Putin all’interno degli Accordi di Astana e non intrappola le navi russe nel Mar Nero, pur vendendo droni all’Ucraina), o il sornione attendismo di Pechino… invece si spaccia per raffinato pensiero il nuovo ruolo di mediatori di ordigni per guerriglia che l’impaurita Europa si è ritagliata, facendo strame del raffinato pensiero contro la guerra e interpretando la strategia politica come tattica da trafficante. L’Europa come comparsa in commedia nel ruolo del trafficante: una nuova accezione della esigenza di “aiutarli a casa loro”, fornendogli le armi e alimentando altro fiero nazionalismo. Ma schierandosi così in modo esplicito contro Mosca, rimanendo facili bersagli dei missili tattici per impaurire meglio l’opinione pubblica, quella sì non geopolitica ma ideologizzata dai media mainstream.

Comunque dove ci sono molotov che volano addosso al potere costituito o a un esercito di occupazione, qualunque esse siano, ci trovano solidali

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Syngué sabour: appunti per un’Orestiade afgana https://ogzero.org/l-occidente-non-ha-mai-compreso-larea-centrasiatica/ Sat, 04 Sep 2021 13:40:21 +0000 https://ogzero.org/?p=4811 L’Occidente non ha mai compreso l’area centrasiatica, perché l’ha assimilata nell’immaginario alla propria mentalità e alla propria filosofia, senza sforzarsi di collocare i sistemi delle comunità nella loro tradizione di riferimento. A decolonizzazione avvenuta si può forse tentare di inquadrare alcuni aspetti per intessere poi una tragedia pasoliniana che possa raccontare il Great Game come […]

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L’Occidente non ha mai compreso l’area centrasiatica, perché l’ha assimilata nell’immaginario alla propria mentalità e alla propria filosofia, senza sforzarsi di collocare i sistemi delle comunità nella loro tradizione di riferimento. A decolonizzazione avvenuta si può forse tentare di inquadrare alcuni aspetti per intessere poi una tragedia pasoliniana che possa raccontare il Great Game come è avvenuto e perché si è arrivati a questo epilogo. E di lì imparare a trovare la corretta e rispettosa forma relazionale con il mondo compreso tra l’Hindu-Kush e il deserto iranico.

Syngué sabour: la pietra paziente, la pietra ascolta, finché non si frantuma.


La clanicità esibita dal processo di talebanizzazione

Rassicuranti non lo sono mai stati e le loro biffe senza sorriso non lo saranno mai. Ma ora sono cambiati: i Talebani hanno imparato soprattutto il modo di promuoversi sugli schermi occidentali e quanto sia importante la comunicazione in un mondo mediatico, dove persino l’impressione levantina dei capi e quella orrifica dei tagliagole, nei loro stracci e barboni vecchi di due millenni nell’iconografia stantia e un po’ razzista, diventano folklore; se fanno la parte a loro assegnata da Trump, risultando credibili a Doha, perché svolgono il ruolo di negoziatori (attribuitogli dal circo mediatico per assicurare il business degli accordi geopolitici), consentono al mondo di sfilare gli scarponi costosi dal terreno e consegnare al Pakistan, loro mentore, di controllare il territorio su mandato americano.

Un ruolo quello di negoziatori che la loro cultura riconosce ai capiclan maschi e che è quella ricercata dalla controparte fatta di maschi americani. Ciò che li ha accomunati è l’appartenenza al più vieto conservatorismo di entrambe le società.
Certo l’evoluzione degli squadristi diventa la requisizione delle auto degli anziani hazara nella provincia di Ghazni, come ci racconta un afgano delal diaspora di ciò che è avvenuto a suo padre al villaggio durante un rastrellamento (a cui il fratello si è sottratto scappando in montagna), quando 30 anni fa avrebbero perpetrato l’abigeato di tutti gli armenti; ma in fondo anche i fascisti nostrani usano con spregiudicatezza i social, pur rimanendo buzzurri celoduristi.

Colonizzatori si nasce

La solita eccezione culturale francese si chiede se sia possibile confrontarsi, e quindi conferirgli un riconoscimento, con le posizioni talebane senza venir meno ai propri principi. Una posizione palesemente ancora fondamentalmente colonialista perché connota il gruppo in senso razzista e prevede una superiorità di principi da esportare: in realtà quei principi dovrebbero riuscire a comprendere come ragiona la controparte per poter individuare i punti su cui avviare la trattativa (ed eventualmente insinuare un elemento che possa fare da base a un sincretismo che permetta un’evoluzione di entrambi), perché senza il confronto non c’è che la soluzione di forza, visto che non si è potuta creare una alternativa nazionale credibile riconosciuta dagli afgani ai quali si sono volute imporre figure – corrotte e inconsistenti – ritagliate sul modello occidentale, alieno a chi rimaneva povero e sfruttato dagli occidentali come dai Signori della Guerra – tutti ugualmente fondamentalisti (uzbeki di Dostum, tajik di Massoud, hazara di Mazari, pashtun di Hekmatyar). E questo è il risultato.

L’anima feroce

Vero che il movimento politicamente retrivo dei Talebani ha due facce: una pashtun, quindi interna alla nazione – anche se proveniente dall’unica cultura dei monti del Waziristan divisi dalla Durand Line tra Pakistan e Afghanistan – le cui tribù si possono scoprire nel capitolo (collocato nel 1960!) dedicato al Pakistan da Eric Salerno nel suo volume Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati – e guida politica di questo tradizionalismo che ambisce a dare vita a un governo che imponga tutte le convinzioni tribali, legittimate da un sunnismo invariato anche perché utilizzato per fungere da collante contro le molte aggressioni coloniali a cui ha fatto fronte proprio grazie alla sua chiusura; l’altra, in parte uzbeka e in buona parte araba – saudita, qatariota e tutta la compagnia di giro del jihadismo – che costituisce il nerbo dell’ala militare, feroce e pervasa di volontà di vendetta fanatica, che impone il giro di vite sui diritti all’interno della nazione… e questo potrebbe risvegliare le coscienze della società civile che mal tollerava la presenza straniera e ora guarda con altrettanto dispetto ai jihadisti di varia provenienza – con aggiunta di orrore nelle notti riempite da musiche inneggianti alla guerra santa sparate a tutto volume nei pressi dei quartieri hazara, minacciosa e incombente presenza che prelude a rastrellamenti e abusi come nelle notti kabuline subito dopo la fuga statunitense. Un disimpegno che ha permesso già molti abusi e atti di violenza: l’uccisione in diretta Fb di un hazara cittadino australiano che riprendeva violenze, apostrofato dagli squadristi e ucciso sotto gli occhi di moglie e figli; l’umiliazione di dover seguire un percorso attraverso le fogne per arrivare all’aeroporto e venire sollevati di peso e rigettati dai marines sul gregge vociante, ma incapace di ribellione (perché non è nelle modalità previste da nessun clan); essere sottomessi al trattamento dei militari addestrati dallo US Army, che nell’aeroporto ti fanno abbassare la mascherina per riconoscere i connotati hazara e a quel punto avvicinano l’arma al tuo orecchio, esplodendo colpi che sfiorano tua moglie… questi sono episodi narrati con indignato terrore da un hazara che usava le ferie per ottenere documenti per il ricongiungimento e che il Console buono ha sedotto e abbandonato.

Clan e tribù: la coazione a ripetere

Per capire come funziona un accordo che si va a stringere con una realtà simile a quella talebana ci si deve ancora una volta immergere nell’idea clanica, opposta a quella di comunità di individui postilluminista: ciò che accomuna gli afgani – a qualunque appartenenza culturale facciano riferimento (pashtun, tajik, uzbek, hazara, turkmeni, kirghizi, nuri, aimak, wakhi…) – è la consapevolezza che tutto si regge sulla tradizionale competizione tra tribù fondata sulla coazione a ripetere invariata di ogni singola consuetudine della struttura, e quindi dei riti, delle cerimonie, dei matrimoni combinati, ma soprattutto dei ruoli; ciò che l’Occidente non è in grado di capire, perché ha scardinato quel sistema secoli fa e non ne ha più memoria, è che nessuno dei fondamenti custoditi dai potenti del clan può venir meno, a rischio di implosione di tutto. E quindi, come ribadiscono testimoni abbandonati dai ponti aerei, le donne non devono poter accedere alla istruzione per più di 7 anni (perché la cultura è l’antidoto contro ogni forma di repressione), le barbe non vanno tagliate (perché si è sempre fatto così), le donne non possono indossare pantaloni bianchi (mamnu, perché il loro culo contaminerebbe il colore della bandiera talebana)… sciocchezze per altre tradizioni, ma metodi già ripristinati con il corredo di taglio di mani ai ladri e lapidazione alle adultere, per rassicurare chi ha introiettato un ordine prescrittivo forte che non tralascia alcun dettaglio per perpetuare invariato un mondo, preservandolo da incrinature che potrebbero rovesciare i rapporti di controllo sulla società.

L’articolo di Giuliano Battiston è stato pubblicato da “il manifesto” il 29 agosto 2021 e si trova tra gli articoli di analisi prodotti da “Lettera 22

La ribellione non è contemplata

Ma non è un caso che non ci siano state resistenze all’avvento delle orde talebane: erano già collaterali a una società che tra occupanti portatori di affari e tradizionalisti aveva già deciso come regolarsi. Sarebbe bastata quella incrinatura a minare il “cimitero degli Imperi” ben più di un’oliata macchina da guerra tecnologica. In realtà la ribellione, anzi anche solo la protesta, non è contemplata. Per esempio le donne (poche significative decine inizialmente e poi sempre di più, ma ancora minoranza, nonostante il supporto di molti uomini estranei alla tradizione patriarcale) che il 2 settembre hanno inscenato manifestazioni in particolare a Herat sono il risultato dei vent’anni di apparente vacanza dal controllo della tradizione: il fatto che abbiano potuto farlo senza una reazione significativa iniziale da parte dei fondamentalisti dimostra come non le considerino realmente pericolose e che i vent’anni di affari e traffici senza immaginare di poter consentire la creazione di un sistema alternativo non hanno emancipato che pochi individui… e che i Talebani hanno imparato anche come in certe situazioni conviene fingersi tolleranti: finisce che fa gioco mostrare che non si reprimono manifestazioni pubbliche. E non ci si può scandalizzare per un po’ di lacrimogeni il giorno successivo a Kabul, perché altrimenti gli stessi giornalisti inorriditi dai manganelli a Kabul, dovrebbero farlo anche in Val di Susa; piuttosto è da valutare l’imbarazzo e la reazione legata alla sorpresa di scoprire un mondo femminile sconosciuto, e così diventano le situazioni quotidiane, che vengono represse dal patriarcato, a fare la differenza rispetto alla predisposizione a un confronto dialettico impossibile, non avendo una lingua comune. Sparare nervosamente in aria, perché non si può (ancora) sparare addosso a questi che sono alieni per l’universo di riferimento talebano, è la più esplicita esibizione di lontananza dal mondo cresciuto in questi vent’anni a Kabul e nelle grandi città, spazi fuori controllo rispetto ai giochetti rassicuranti dei vilayet dei monti. Lo stesso distacco, che non può tollerare la ricetta oscurantista, produce un mondo separato di repressi, brutalmente – e quindi per la legge islamica giustamente terrorizzati dai poco lucidi e ancor meno rassicuranti filopakistani. E quelle donne a loro volta vengono sottoposte a minacce da parte dei confusi (dall’impatto con la metropoli) Talebani e sgomente al punto di indossare il burqa –anche manifestando – pur se nessuno lo ha prescritto.

Herat, manifestazione di donne 3 settembre 2021

Dal fronte femminile si registrano alcune ribellioni, contestazioni – impossibile sognare che si svolgano provocatoriamente senza veli: sarebbe davvero suicidio –, o prese di posizione che possano infastidire, ma non è vero che non agiscano “autonomamente”: sono sempre più numerosi i casi di mogli selezionate dal clan che – dopo un tempo più o meno lungo di permanenza nei paesi in cui i giovani afgani protagonisti della migrazione di 15 anni fa le hanno ricongiunte – abbandonano il tetto coniugale per raggiungere i paesi del Nordeuropa attraverso una rete che organizza il trasferimento. Fin dal primo momento insistono per ricollocarsi in paesi in cui le possibilità sono migliori di quelle del Sudeuropa – evidente la missione assegnata dal clan anche a loro, un incarico che non prevede il coinvolgimento del coniuge, ridotto a semplice passeur legale che spesso non è nemmeno a conoscenza dell’intenzione iniziale della famiglia, benché la blanda opposizione lasci intendere che l’epilogo era messo in conto, conoscendo i calcoli clanici. Anche in questo caso in cui apparentemente sembra che le donne prendano in mano il loro futuro, sono ancora una volta strumenti della volontà della famiglia patriarcale.

Una storia, tante storie

Figurarsi quanto possono radicarsi e durare i diritti mai realmente compenetrati nella società afgana, perché non è una società di individui: persino quando scrivono i libri che raccontano la loro storia, commuovendo l’Occidente, ciascuno dei giovani afgani, stimolati a far conoscere la loro storia dagli amici europei ammaliati dall’esotismo e colpiti dalle vicissitudini, non riesce a fare una biografia ma la figura dell’io narrante comprende tante storie di tanti esuli: tutti insieme costituiscono la comunità afgana della diaspora e la sua narrazione che è unica e collettiva e quindi è anche eticamente corretto per loro attribuirsi episodi non vissuti in prima persona, ma comuni ai “conoscenti” afgani che hanno incrociato nel viaggio e nell’inserimento nella società europea e contemporaneamente i nuovi rituali degli expat e le telefonate quotidiane con il clan.

Scatto di Seyf Karimi, Kabul – Chindawol, 4 settembre 2021

Una realtà che non si fonda sull’individuo riconosce solo il ruolo collettivo in cui il singolo è un numero la cui attività è regolata dalla tradizione: infatti ora i Talebani si trovano di fronte a un incrocio: i giovani che in questi 20 anni sono stati contaminati dalla frequentazione di mentalità e comportamenti estranei alla tradizione, o i ragazzi della diaspora costretti all’emigrazione – che tutti, nessuno escluso, hanno mantenuto i contatti con il clan e ne sono stati in qualche modo condizionati e manipolati, soprattutto per legami matrimoniali o per mantenere il ruolo che era loro prescritto già alla partenza – ora trentenni con metà della vita trascorsa in Europa, pur sempre avvolti o protetti o comunque coinvolti dalla comunità expat, sono portatori di modi di pensare e vivere che sarebbero letali per il meccanismo clanico, quindi vanno trattenuti per il loro know how tecnologico utile all’emirato di “trogloditi in turbante” come vengono concepiti da quelli intrappolati a Kabul dalla loro repentina avanzata, oppure è meglio consentirgli di abbandonare il territorio per continuare a mandare rimesse senza contaminare la restaurazione? Forse che vengano riconosciuti come elementi ormai irrecuperabili all’islam e quindi nocivi può consentire il successo dei corridoi umanitari; dopo probabilmente i restanti verranno eliminati, pena mantenere attivi e inglobati nella realtà congelata locale potenziali tarli capaci di minare il processo di conservazione.
Poi gli affari si fanno con chiunque anche da confini nei quali la cultura estranea non può insinuarsi, ma pecunia non olet.

Emanuele Giordana è attento da tempo alle potenziali esportazioni di califfati fuori dalla Mesopotamia, fin dal volume collettaneo pubblicato da Rosenberg & Sellier nel 2017: A oriente del califfo.

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Il trailer del kolossal hollywoodiano “America is back” https://ogzero.org/america-is-back-la-regia-del-road-movie-di-biden/ Sun, 20 Jun 2021 01:34:58 +0000 https://ogzero.org/?p=3925 «America is back» in Europe, but… Biden torna a proporre la politica multipolare americana, che mira a presentare gli Stati Uniti come riferimento di un’ampia alleanza in cui si distribuiscono patenti di democrazia a tutti, tollerando in parte anche il regime putiniano (o comunque mostrando di voler aprire un dialogo), purché si adotti un profilo […]

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«America is back» in Europe, but… Biden torna a proporre la politica multipolare americana, che mira a presentare gli Stati Uniti come riferimento di un’ampia alleanza in cui si distribuiscono patenti di democrazia a tutti, tollerando in parte anche il regime putiniano (o comunque mostrando di voler aprire un dialogo), purché si adotti un profilo intransigente verso Pechino o si rendano meno stretti legami e partnership con l’unico rivale riconosciuto. Infatti la regia raffinata ha dapprima restituito una riunione di famiglia nella verde Cornovaglia, dove il vecchio patriarca è venuto in Europa a cercare location adatte per una ridistribuzione dei ruoli all’interno del consesso europeo, lanciando segnali distensivi di collaborazione che superassero l’isolazionismo dell’amministrazione precedente – di cui si sono frettolosamente cancellati gli sgarbi –, ma sancendo la globalizzazione e lo spostamento dal marcato eurocentrismo, già abbandonato da Obama, all’asse indopacifico.

America is back

Ripulitura preventiva delle deiezioni trumpiane

E di nuovo la trama del film lascia trasparire il messaggio anticinese dell’intreccio.

Il Convitato di Pietra

E allora scomponendo il film del viaggio di formazione della presidenza Biden nei suoi duetti, cominceremmo con quello non ancora avvenuto tra Xi Jinping e Biden – ma di cui c’è già stata una prolessi nei titoli di coda, immaginandolo nella cornice del G20 italiano, in scena esattamente vent’anni dopo quello tragico genovese. Ci pare che cominciare l’analisi dei fotogrammi del road-movie europeo di Biden dal fuoricampo in cui è rimasto collocato per tutto il tempo il co-protagonista principale sia l’ottica attraverso cui assistere almeno a una sequenza della pellicola. Quella che consideriamo centrale e che ci sforziamo di inquadrare come nel film Dark Passage con Humphrey Bogart (regia di Delmer Davies per un titolo perfetto nel 1947 come per sottotitolare l’attuale film di Biden), in cui Vincent non viene inquadrato se non con particolari degli occhi e invece la cinecamera coincide con il suo sguardo, cercando di restituire l’ottica della soggettiva fuori scena di Xi Jinping, il controcampo del Convitato.

Don Giovanni 1979, di Joseph Losey

Per quanto sommessa, accennata e rimasta impigliata nel resto della trama, fatta invece di spettacolari palcoscenici e forti illuminazioni (quasi a voler spostare l’attenzione su episodi collaterali, come avviene spesso nei road-movie); la mano tesa del Convitato di pietra ha preso il fuoriscena come nel finale del Don Giovanni, relegando l’annuncio di un percorso delle merci alternativo a quello promosso dalla Bri, la nuova Via della seta, al rango del catalogo di Leporello: una smargiassata fin dall’allitterazione del nome Build Back Better World.

Il messaggio principale del film, sempre sottotraccia, è che vanno ridimensionati innanzitutto i rapporti commerciali con i cinesi, ma fingendo che si tratti di una guerra morale alle violazioni dei diritti civili.

E parlando di questa sequenza con Sabrina Moles (@moles_sabrina), il film si è trasformato in un viaggio interstellare, con al centro la nuova piattaforma spaziale cinese, che ha costretto Biden a un aggiornamento dell’articolo 5 dell’accordo Nato, estendendolo al dominio spaziale:

“La pantomima globalizzata della Guerra morale alla Cina”.

Il servo di due padroni

Di tutta la pantomima messa in scena nel viaggio di formazione del mondo di Biden infatti, riconsiderando il tourbillon dei messaggi mediatici, una volta conclusa la kermesse e lasciate decantare le dichiarazioni, spenti i riflettori, a posteriori nel consuntivo non si annoverano risultati apparentemente tangibili, ma è stata come una proiezione di slide della sceneggiatura da recitare nei prossimi anni della serie-tv che potrebbe intitolarsi The Great Game. The Revenge, la cui regia è affidata a Biden, con Blinken aiutoregista nelle sequenze del ritiro da Kabul, quindi al di là di ogni simulacro simbolico – che non avrà mai lo stesso impatto dell’ultimo elicottero che il 1° maggio 1975 lasciava l’ambasciata americana in Vietnam, anche se si tratta proprio di quel remake – offerto in pasto alle telecamere i nodi del film vero ruotano ancora attorno a Donbass e Crimea – come ci racconterà Yurii Colombo alla fine di questo articolo – e di conseguenza alle ex repubbliche sovietiche, che ritroviamo nel discorso di Baku, pronunciato da Erdoğan guarda caso proprio il giorno dopo il ritorno nell’alveo della Nato, con il compito speciale di andarsi a immolare in Afghanistan, come già avvenne quando la Turchia dovette pagare l’ingresso nella Nato dissanguandosi nella Guerra di Corea.

M.A.S.H., 1970, regia di Robert Altman

Stavolta il presidente turco di buon grado allunga i suoi tentacoli anche verso il Khorasan con la benevolenza degli Usa, che gli delegano così controllo militare, sfruttamento e ricostruzione di un’area fondamentale per il passaggio di merci tra XInjiang uyguro, Karakum turkmeno, Pamir tajiko, HinduKush multitribale, Karakorum e pianure indo-pakistane… monti e pianure persiane. Nomi evocativi di pellicole in costumi di mercanti: l’autentica antica Via della seta – il copyright – da contrapporre alla Belt Road Initiative per conto americano.

D’altronde nel duetto realmente interpretato con Putin si è giunti a una comunità di intenti («un dialogo bilaterale sulla “stabilità strategica”») su quel territorio che ha visto i due imperialismi rimanere impantanati nella Campagna d’Afghanistan.  Come riporta l’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della Luiss: «Nella conferenza stampa tenuta da Biden, a seguito dell’incontro che è durato circa 3 ore, il presidente ha affermato di aver discusso dell’interesse condiviso di Stati Uniti e Russia nel prevenire «una recrudescenza del terrorismo in Afghanistan»; [anche se ci sono prove del “Times” di aiuti economici e in armi elargiti da Mosca ai Talebani, ai quali erano anche state promesse taglie dal Cremlino per ogni soldato statunitense ucciso]. Un giornalista gli ha quindi chiesto se avesse fatto qualche domanda a Putin al riguardo. «No, è stato lui a chiedere dell’Afghanistan. Ha detto che spera che saremo in grado di mantenere un po’ di pace e sicurezza, e io ho detto: “questo dipende molto da voi”».

Dunque si direbbe che entrambe le potenze appaltino a Erdoğan il vuoto lasciato dal ritiro, ma poi gli affari azeri hanno inebriato il presidente turco spingendolo a parlare di imminente unità d’intenti tra 6 nazioni, tra queste le tre che hanno animato i protocolli di Astana e che si inserivano nella assenza trumpiana per spartirsi l’area (Russia, Turchia, Iran). Il colpo di scena turco di Baku allarga il novero a Georgia, Azerbaijan e… Armenia (!), dichiarando nella composizione dell’accordo quanto sia centrale proprio l’area caucasica, un’area che Putin non si può permettere sia sotto il controllo occidentale. E in questo caso l’ottica adottata nelle proiezioni della trama del film imbastita a Bruxelles, a cui hanno assistito Biden e Erdoğan alterna quello del documentario in stile Settimana Incom, con la promozione delle prodezze dei droni Bayraktar in Caucaso; mentre l’altro stile retorico utile per inquadrare lo sforzo richiesto alla Turchia in territorio libico non è più quello del materiale mediatico per l’arruolamento nelle Private military and security companies, quanto la brochure patinata delle imprese edili per la ricostruzione con l’imprimatur di Biden.

Illuminante risulta cercare di adottare lo sguardo di Ankara sull’incontro di Bruxelles, il primo tra Biden e Erdoğan, usando la lucida ironia di Murat Cinar (@muratcinar):
“Finto multilateralismo al servizio di reali democrature affaristiche”.

Il Terzo Uomo

Dunque in qualche modo Erdoğan dimostra ambiguità anche genuflettendosi a Bruxelles il giorno prima da Biden e quello successivo intraprendendo anche lui un road-movie interno all’Azerbaijan per controllare appalti e rilanciare l’alleanza di Astana allargata a un’area limitrofa e complementare a quella che coinvolge l’Afghanistan… e che è fondamentale per la politica di Putin, di cui il presidente turco rimane alleato. 

Proprio del terzo incontro del Gran Tour bideniano rimane da parlare, dopo la presenza inquietante del Convitato ingombrante Xi e l’infido Erdoğan, la scena madre e l’epilogo del viaggio di formazione vedeva la compresenza nell’inquadratura del “Killer dagli occhi di ghiaccio e senz’anima”, come lo stesso Biden aveva definito Putin

America is back

L’occhio che uccide, 1960, di Powell e Pressburger

Il consumato stratega aveva organizzato la sfida non tanto come nel torneo di The Quick and the Dead (Sam Raimi, 1995), piuttosto spingendo sull’atmosfera da spy story, per evocare i giornalisti uccisi e i dissidenti avvelenati, senza con questo appendere il Cremlino al cappio dei diritti umani e quindi cambiando registro narrativo l’incontro non ha risolto i veri nodi che rappresentano il dissidio tra Russia e Stati Uniti, ma si è trasformato in una partita a scacchi in stallo… riguardo al possibile  scacco di uno dei due contendenti possiamo seguire lo sguardo moscovita di Yurii Colombo (@matrioska2021):

“Le relazioni insolubili”.

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Non di soli contrasti tribali vive lo scontro etiope… https://ogzero.org/dispute-etniche-e-svolte-liberiste-dietro-la-guerra-in-corno-dafrica/ Wed, 18 Nov 2020 01:55:38 +0000 http://ogzero.org/?p=1775 … anzi, il sottile velo delle dispute etniche non riesce a nascondere gli interessi internazionali, il neocolonialismo che muove i protagonisti locali, la spartizione di risorse, territori, infrastrutture. I ribaltamenti dei sistemi politico-economici non possono che passare attraverso crisi apertamente belliche e quindi dal 4 novembre è scoppiata una guerra civile che può estendersi all’intera […]

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… anzi, il sottile velo delle dispute etniche non riesce a nascondere gli interessi internazionali, il neocolonialismo che muove i protagonisti locali, la spartizione di risorse, territori, infrastrutture. I ribaltamenti dei sistemi politico-economici non possono che passare attraverso crisi apertamente belliche e quindi dal 4 novembre è scoppiata una guerra civile che può estendersi all’intera area della Rift Valley.

Redde rationem trentennale nel superamento dell’etnofederalismo

Abiy Ahmed, oromo giunto rocambolescamente al potere etiope in sostituzione del “controllo” trentennale tigrino e al nobel in premio per un accordo storico con l’Eritrea, utile al primo ministro etiope per contare su naturali alleati storicamente interessati a contenere i vicini tigrini di Macallè (fin dai tempi coloniali, agevolando il compito di quelle potenze occidentali), ma indispensabile anche ad Isaias Afewerki, dittatore eritreo, per mantenere il potere concentrato nelle sue mani – ma forse la guerra può aver creato un’alleanza tra tigrini e oppositori eritrei, tanto che pare che alcuni guerriglieri siano penetrati nel territorio eritreo e dal Tigray è stato bombardato l’aeroporto di Asmara. Già due anni fa, al momento dell’accordo fortemente ricercato dai sauditi di Bin Salman, si scaricarono transfughi eritrei al confine tigrino (minato e costellato da campi profughi), folle corrispondenti a quelle che ora premono sulla frontiera che divide Etiopia e Sudan (forse 100.000).

A completare il quadro del rinnovato sciovinismo del Corno d’Africa (una scena che ha come sfondo il controllo del Mar Rosso) c’è il rischio che venga coinvolta la variegata galassia delle Somalie e il Sudan, ancora in procinto di uscire dalla transizione dopo la cacciata di al-Bashir, teatro nella provincia orientale di Cassala al confine con Eritrea ed Etiopia di scontri proprio per rivendicazioni di maggiore rappresentanza tra tribù Juba.

L’economia detta l’agenda nazional-federale

L’etnia oromo è maggioritaria nel paese ma è rimasta marginalizzata per lo strapotere del Nord, che possedendo la maggioranza delle risorse e infrastrutture del paese ed essendo al centro di vie di comunicazione, controllando l’esercito fino all’epurazione del 2018 effettuata da Abiy Ahmed, aveva potuto mantenere un sistema etnofederalista che salvaguardava non solo le componenti minoritarie, ma impediva svolte neoliberiste che invece si sono imposte nel momento in cui Abiy Ahmed ha preso il potere, cominciando a configurarsi come un regime e il timore ha preso a serpeggiare tra i cittadini etiopi.

Il premio Nobel ha ammantato l’archiviazione del sistema economico con la spinta alla riconciliazione nazionale, che vede solo la resistenza del Tigray, un’etnia con una forte percezione di sé (e della sua storia di contrapposizione al saccheggio delle proprie risorse e all’occupazione militare del proprio territorio, fin dai tempi coloniali) che individua nel cambiamento il conseguente ridimensionamento dell’autonomia regionale. Ovviamente le altre etnie, che rappresentano il 94 per cento della popolazione, mal tollerano la resistenza tigrina, perciò le milizie ahmara hanno appoggiato l’esercito di Addis Abeba intervenuto in risposta a una reazione alla provocazione dello stato centrale che ha inviato ingenti truppe in Tigray.

La percezione del momento nella società etiope

Perciò il 10 novembre 2020 durante la trasmissione “I Bastioni di Orione” sulle frequenze di Radio Blackout si è potuta sentire questa ricostruzione degli eventi fatta da un giovane emigrato etiope, evidentemente non tigrino, che sostanzialmente attribuisce alla minoranza la responsabilità della deriva violenta di queste settimane:

Ascolta “Rivolta tigrina contro il superamento dell’etno-nazionalismo di Ahmed” su Spreaker.

La testimonianza, per quanto pacata, palesa la posizione fortemente critica della maggioranza degli etiopi, probabilmente non tanto per lo strappo attuale, ma per i 30 anni di oppressione tigrina, una reazione che ha fatto parlare di rwandizzazione per descrivere la reazione antitigrina. Difficile valutare se si tratta di esagerazioni, perché Abiy Ahmed ha fatto tesoro della esperienza da ministro delle comunicazioni, quando ha imparato a gestire e controllare i flussi di informazioni telematici: infatti trapelano pochissime notizie.

Il primo tassello da cui partire per descrivere la situazione è dunque l’ancora forte determinazione della minoranza tigrina a contrastare il nazionalismo identitario di Abiy – che dapprima ha dovuto fronteggiare per lo stesso motivo le rimostranze della sua stessa etnia oromo, portato a interpretare la propensione a diluire le differenze tribali nella comune “identità” etiope come un tradimento della propria gente; in realtà la scelta è essenzialmente un cambio di orientamento del modello di sviluppo su istanza cinese, che vede nel Corno d’Africa e nel presidio dello stretto di Bab al Mandab (ovvero di Gibuti) uno snodo essenziale per la Belt Road Inititive. Per fare ciò Abiy ha bisogno di poter gestire centralmente le ingenti risorse del Tigray, di abbracciare il neoliberismo e di indicare simboli che possano rappresentare la nazione etiope, stretta attorno a lui e al suo nuovo corso: a questo scopo si presta perfettamente la Diga della Rinascita sul Nilo azzurro.

Neocolonialismo Corno d'Africa 2020

Infrastrutture, basi militari, territori contesi, vie di comunicazione nella Rift Valley

Qualche snodo storico, ma i fattori divisivi sono infiniti

La crisi del Tigray nasce dallo scontro politico con il Tpfl, che è stato a lungo il partito egemone in seno all’Ersdf: i tigrini avevano sconfitto trent’anni fa il regime comunista e deposto Menghistu (l’ultimo a lanciare un escalation militare in Tigray), gestendo il potere da allora in avanti, senza abbracciare pienamente il neoliberismo. Il Fronte tigrino si è sentito più volte preso di mira dalle riforme del nuovo premier, che intanto ha creato una propria formazione politica, il Partito della prosperità.  Nel Tigray le autorità locali hanno deciso di tenere elezioni indipendenti a settembre, quelle che erano state rinviate ad agosto con la scusa della epidemia di SarsCov2 e il Tpfl è stato riconfermato al governo regionale. Ora lo scontro è diventato militare, con il rischio che la rivalità politica si trasformi in conflitto interetnico. Mulu Nega è stato nominato da Ahmed nuovo governatore ad interim per la regione settentrionale del Tigray. Poco prima il parlamento aveva preso la risoluzione di stabilire un’amministrazione provvisoria.

Per dipanare questo groviglio ne abbiamo discusso con Angelo Ferrari all’interno della stessa trasmissione diffusa da Radio Blackout in cui avevamo proposto la ricostruzione del giovane etiope.

Ascolta “Chi sta sabotando la convivenza e l’integrazione etnica?” su Spreaker.

L’apertura liberista al capitale privato crea attriti nell’intera società; nel Tigray ancora di più; la penetrazione di militari nazionali nella regione settentrionale è quindi vista come intrusione e ha fatto esplodere gli attacchi di Macallè. Si rischia l’esatto opposto del tentativo di unificare: la frammentazione perché ciascuno non si sente rappresentato a sufficienza e la repressione di Addis Abeba può incendiare l’intera area. Intanto sono già 25.000 gli sfollati e innumerevoli i morti (si parla di 500 solo nel massacro del 10 novembre a Mai-Kadra, in Tigray).

Ancora uno scambio di opinioni tra i redattori dei “Bastioni di Orione” di Radio Blackout e l’analista di eventi africani Angelo Ferrari

Ascolta “Nazionalismo e svolta liberista di Ahmed” su Spreaker.

Traffici d’armi e colonialismo

Nel 2019 il governo giallo-verde aveva stipulato attraverso la ministra Trenta accordi militari con il presidente-nobel_per_la_pace_Ahmed: «Difesa e sicurezza, formazione e addestramento, assistenza tecnica, operazioni di supporto alla pace… trasferimento di struttura d’arma e apparecchiatura bellica… è auspicata la promozione di iniziative finalizzate a razionalizzare il controllo sui prodotti a uso militare»; lo smercio di armamenti è comune ai precedenti governi italiani, soprattutto di centrosinistra, che avevano appoggiato la parte eritrea, ora già coinvolta con esplosioni all’Asmara perché Macallè accusa il regime di Afewerki di appoggiare Ahmed, inoltre le milizie ahmara si sono schierate subito con Addis Abeba. Duecento ufficiali tigrini inquadrati nell’African Union Mission in Somalia sono stati disarmati; l’isolamento è totale, probabilmente perché tutte le forze che agiscono in quello scacchiere temono si estenda l’incendio e scommettono sul ridimensionamento del peso del Tigray sull’area.

Colonialismo novecentesco in Corno d'Africa

Etnie e date fondamentali nella corsa novecentesca al Posto al sole

Il mai realmente sopito colonialismo italiano sta cercando di tornare a essere protagonista nel Corno d’Africa, perché gli interessi energetici e di appalti per infrastrutture (la Diga della Rinascita vede allignare ditte italiane nella costruzione progetta a Pechino) fanno gola come il Posto al sole di memoria mussoliniana… e quindi soffierà sul fuoco della guerra in un’area popolata dagli apparati militari di tutte le potenze mondiali (a Gibuti sono presenti compound militari di tutte le potenze globali), che si stanno accaparrando fette di un territorio che controlla traffici, merci, risorse. Una vera operazione neocoloniale nascosta sotto la cooperazione allo sviluppo.

Ascolta “Etiopia meta del complesso militar-industriale italiano” su Spreaker.

Le nazioni sono al soldo di potenze straniere per ridisegnare la geopolitica internazionale come avvenne nel periodo coloniale classico: tutte le potenze sono intente a controllare il passaggio del Mar Rosso da Aden a Suez (infatti a Gibuti, snodo essenziale del Belt Road Initiative, sono presenti tutti i contingenti militari) e ogni mossa è un riposizionamento strategico

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Segnali di fumo dal Bosforo a Washington https://ogzero.org/segnali-di-fumo-dal-bosforo-a-washington/ Fri, 13 Nov 2020 12:59:02 +0000 http://ogzero.org/?p=1757 Annusate le possibilità di nuove concessioni con il cambio della guardia alla Casa Bianca si fanno notare i movimenti del presidente turco per sondare e preparare una nuova faccia rispetto a quella adottata con l’abbandono da parte di Trump degli interessi americani in Medio Oriente, delegati a sauditi e israeliani, tollerando le scorrerie turche; mentre […]

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Annusate le possibilità di nuove concessioni con il cambio della guardia alla Casa Bianca si fanno notare i movimenti del presidente turco per sondare e preparare una nuova faccia rispetto a quella adottata con l’abbandono da parte di Trump degli interessi americani in Medio Oriente, delegati a sauditi e israeliani, tollerando le scorrerie turche; mentre nei quattro anni di amministrazione evanescente i motivi di attrito erano soprattutto in materia di embarghi, sanzioni non rispettati, minacce di dazi e collisione tra i traffici di armi, gli affari con Cina, Russia e Iran… Le elezioni statunitensi con il cambio in Pennsylvania avenue impongono il riposizionamento.

Cina e Iran convitati di pietra   

Per Biden due sono i problemi centrali della politica estera statunitense: la Cina e l’Iran. Nel primo caso la Turchia è ben posizionata, perché ha continuato a fare affari e perché è uno degli hub della Belt Road Iniziative, da tantissimo tempo la Cina vende armi alla Turchia, i due paesi collaborano da tempo in materia di antipirateria e nel contrasto dell’irredentismo uyguro, la cui diaspora è in parte tollerata da Ankara ma in forma di controllo per conto di Pechino, soprattutto sui rifugiati privati dei contatti con la famiglia e tenuti in un limbo senza speranze.

Ma anche per quel che riguarda l’Iran, con cui Erdoğan partecipa delle decisioni prese nei tanti accordi intestati ad Astana triangolando con Putin, la Turchia si trova a intersecare il punto di incontro tra il bisogno degli ayatollah di trovare un intermediario e le necessità di ricostruire un lavoro diplomatico statunitense. La soluzione siriana è stata trovata insieme, come avvenuto in Nagorno in un modo ancora più smaccato a favore della Turchia; senza considerare che il problema delle rivendicazioni curde si ritrovano identiche per i territori a maggioranza curda al confine turkmeno con l’Iran, come quelli da sempre occupati dai curdi in Anatolia. La Turchia ha sempre aggirato anche l’embargo contro Tehran, allo stesso modo in cui si è accordata sulle merci cinesi.

Ascolta “La Turchia nei dossier “Iran” e “Cina” della Casa Bianca” su Spreaker.

Dunque in qualche modo la Turchia si trova ben posizionata con entrambi gli schieramenti.

Perciò la diplomazia di lungo corso che la figura di Biden rappresenta non potrà che venire a patti, cercando di far rientrare a pieno Erdoğan nella Nato, aprendo questi due dossier e considerando quanto la Turchia sarà disponibile a offrire, ma soprattutto anticipando gli aspetti su cui è in grado di tornare indietro sulle forzature e sugli strappi creati finora. I rumors sui nomi che entreranno a far parte dell’amministrazione Biden lasciano immaginare un orizzonte di questo tipo.

Rapporti con la Nato, questione di schieramenti

Ankara può ribaltare tutti i rapporti perseguiti con gli altri potenti che in questi 4 anni di vacanza strategica internazionale degli Stati Uniti sono stati gli interlocutori principali di Erdoğan per spartirsi le spoglie abbandonate da Washington in Medio Oriente: è il modo di adattarsi a Biden e alla sua politica, tornando magari ad altre forme di difesa targate Usa, stracciando per esempio i contratti di fornitura degli S-400.

Ascolta “Rapporti con Nato, questione di schieramenti” su Spreaker.

Caatsa disatteso: sanzioni applicabili da Biden

L’interazione commerciale con Mosca, da cui Ankara dipende per l’enorme fame di energia che contraddistingue la Turchia. Anche qui Erdoğan si è inserito nel solco delle sanzioni del 2017 (Countering America’s Adversaries through Sanctions Act) contro chi collabora con Corea del Nord, Iran e Russia, finora disattese. Erdoğan dovrà immaginare una contromossa nel caso Biden decida di applicarle.

Ascolta “Caatsa disatteso: sanzioni applicabili da Biden?” su Spreaker.

Albayrak vittima sacrificale in dono a Biden?

Potentissimo fino al 9 novembre 2020, con cariche ministeriali e il controllo di affari strategici in Africa, ma inviso all’elettorato di Erdoğan e quindi, pur essendo erede di una delle famiglie oligarchiche e genero dello stesso presidente, compromesso con l’amministrazione Trump, è il capro espiatorio ideale per avviare un nuovo corso di relazioni con la Casa Bianca di Biden e stornare l’attenzione dal sultano riguardo alla miseria che si allarga nel paese. Si è dimesso con un messaggio su Instagram, Twitter gli è stato sottratto… palesando le forme di censura e solo dopo la nota ufficiale di Erdoğan si è potuta diffondere la notizia. La stampa rimane strettamente sotto il controllo del governo di Ankara.

Ascolta “Albayrak offerto sull’altare di rapporti nuovi con la nuova Casa Bianca” su Spreaker.

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Ayotzinapa, sei anni fa se li sono presi vivi https://ogzero.org/la-realta-distopica-della-necropolitica-e-il-potere-di-decidere-chi-deve-vivere-o-morire/ Sun, 27 Sep 2020 17:06:05 +0000 http://ogzero.org/?p=1280 Sei anni dopo la strage dei normalistas di Ayotzinapa il governo messicano riconosce gli insabbiamenti e arresta 70 militari, considerandoli responsabili per i fatti avvenuti a Iguala il 26 settembre 2020. Miguel A. Cabañas ha incastonato in un suo lungo saggio quella collusione di apparati militari, magistratura, politici corrotti e cartelli della droga, riconducendola alla necropolitica che affonda le sue radici nel neoliberismo e nel saccheggio del territorio, delle risorse e della manodopera da parte delle multinazionali, ottenendo una società dispotica animata dall'horrorismo

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War on drugs e repressione di classe

Il potere di decidere chi deve vivere o morire: «La guerra alle droghe rappresenta un importante dispositivo di controllo sociale per i governi nazionali. Il massacro di Apatzingán o il caso di Ayotzinapa in Messico e il Plan Colombia sono tra i più chiari esempi della commistione fra guerra alle droghe e repressione sociale… è ben più di una lotta contro i signori della droga: essa rappresenta oggi uno strumento cardine nelle politiche interne, nonché la più importante strategia per garantire la presenza economico-militare degli Stati Uniti in America Latina». Così Ana Cristina Vargas nel 2017 riassumeva il brodo di coltura geopolitico in cui  si è potuta consumare la notte da incubo di Iguala, facendo risalire alla Necropolitica la causa di questo massacro tra i più famosi per efferatezza nella travagliata storia contemporanea della federazione messicana, soltanto perché il caso Ayotzinapa ha ottenuto la dovuta attenzione da parte della stampa internazionale mettendo radici nella coscienza messicana perché ha scoperchiato i meccanismi del controllo mediatico e ufficiale prodotti in Messico.

Il ricordo degli studenti di Ayotzinapa è ancora tenuto vivo dai genitori dei 43 normalistas torturati, uccisi e ridotti in cenere nella collusione tra potere politico, cartelli del Guerrero e longa manus militare. Una strage avvenuta il 26 settembre 2014 a Iguala, per la quale il 27 settembre 2020 si sono viste migliaia di persone riversarsi nello Zocalo del DF per chiedere una verità accettabile. Questo ha smosso il procuratore Omar Gómez Trejo a dichiarare che sono stati spiccati 70 ordini di cattura ai danni di militari e magistrati dell’epoca (e 34 eseguiti), mentre Andrés Manuel López Obrador ha alluso a una falsa verità sostenuta dal governo precedente di Enrique Peña Neto

Amlo, presidente del Messico

Ma qual è lo sfondo su cui scorrono le immagini di Iguala e in che contesto deve affondarsi l’analisi di quella Necropolitica che continua a ispirare i rapporti coloniali tra le due sponde del Rio Bravo / Rio Grande? Proponiamo qui alcuni brani tratti dal volume Narcos del Norte, pubblicato nel 2017 per la collana di Orizzonti geopolitici di Rosenberg & Sellier. [OGzero]


Neoliberismo e Necropolitica

di Miguel A. Cabañas

La Guerra alle droghe fin dal suo concepimento nel xx secolo non ha ottenuto di eliminare l’insaziabile brama del consumo di stupefacenti. Si può anzi sostenere facilmente come la politica della droga abbia paradossalmente stimolato la produzione, il consumo e l’intervento di contrasto. Sappiamo che già molti hanno prestato la propria voce a criticare le sue conseguenze, la sua inefficacia, l’interminabile repressione che ne deriva. Però la politica non è cambiata, al contrario si è intensificata. Anche la Guerra alle droghe si è modificata entrando in contatto con un altro tipo di conflitti: la Guerra Fredda o quella al terrorismo. È cominciata come una metafora politica e adesso si è trasformata in una “guerra reale” in cui l’esercito e la sua tecnica nell’uccidere son stati resi accessibili e comuni, anche per le strade delle città. Nel XXI secolo il Messico sta patendo le conseguenze di questa “guerra aperta” tra lo stato e il narcotraffico. Questo, tuttavia, è più complesso di quanto i mezzi di comunicazione cerchino di farci credere. Non è una guerra tra buoni e cattivi, e neppure uno stato di belligeranza “legale”; i protagonisti che rimangono esterni al quadro sono le multinazionali che stanno approfittando delle riforme neoliberiste messicane. Come si vedrà in seguito la guerra si concretizza contro la popolazione messicana più debole, contro gli indifesi che non detengono alcun accesso al “monopolio dalla violenza”.

La violenza, secondo Antonio Gramsci, è uno strumento di dominio di una classe sopra le altre ed è anche usata per ottenere il consenso dei governati, al fine di istituire la propria egemonia. Perciò non ci si può esimere dall’intendere il fenomeno della violenza se non contestualizzandolo nei mutamenti neoliberisti avvenuti in Messico e nell’ascesa di un nuovo genere di capitali di provenienza illecita che prendono parte alla lotta per il potere. Come ci ricorda Pierre Bourdieu: «Ogni esercizio della forza è accompagnato da un discorso che mira a legittimare la forza di colui che lo esercita; si può addirittura affermare che la particolarità di ogni rapporto di forza consiste nel dissimularsi come rapporto di forza e di esprimere tutta la sua forza soltanto nella misura in cui riesce a dissimularsi come tale». L’attuale Guerra alle droghe viene pensata come tentativo di legittimare la violenza che nasce dalla svolta neoliberale e nel contesto storico della crisi di legittimazione patita da Felipe Calderón. Non possiamo tralasciare il fatto che il tessuto legato all’accordo strategico Iniziativa Mérida alimentato dal governo di George W. Bush si presenta nell’ambito della convergenza di interessi di entrambi i paesi e dei risultati del Plan Colombia, il cui scopo era rendere questo paese stabile secondo i parametri neoliberisti e il Trattato di libero commercio ratificato nel 2007 tra Stati Uniti e Colombia e approvato dal Congresso statunitense nel 2011. Il Plan Colombia fu approvato negli Stati Uniti con il pretesto della Guerra alle droghe e, comunque, il suo principale obiettivo era di rintuzzare il potere dei gruppi rivoluzionari. Molti assicurano che il Plan Colombia è stato il motivo per cui le Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) decisero di partecipare ai piani di pace, essendo state decisamente indebolite dalla guerra. Secondo le cifre ufficiali, con il rafforzamento delle forze di sicurezza colombiane attraverso una sovvenzione di 10 miliardi di dollari a partire dal 1999, il piano ha fatto in modo che i membri delle Farc perdessero la metà dei combattenti (erano 20 000 e nel 2009 erano ridotti a 10 000), perdendo di conseguenza le zone da loro controllate, sia in ambito urbano che nelle campagne. La Iniziativa Mérida include due miliardi di dollari a partire dal 2008 destinati a rinsaldare ordine e giustizia e a sostenere i diritti umani in Messico. Purtroppo in realtà quello che ha prodotto è una violenza indiscriminata contro i cittadini da parte delle forze armate, dello stato, dei paramilitari e delle organizzazioni criminali. Il congresso degli Stati Uniti ha stanziato 139 milioni di dollari per il 2016 e il 2017 a dispetto del fatto che il governo messicano fosse stato molto criticato per gli abusi in materia di diritti umani (in particolare il caso di Ayotzinapa ha conquistato una grande solidarietà internazionale) e per i casi di tortura, di esecuzioni sommarie e le sparizioni forzate nelle quali si vedono coinvolti membri dei corpi di sicurezza e più specificamente dell’esercito. Era dai tempi della Guerra Fredda che gli Stati Uniti non adottavano un approccio tanto interventista come adesso: stanno cercando di “vincere” guerre volte ad aprire nuovi mercati. La Guerra alle droghe si prospetta come la leva dell’implementazione di un nuovo contratto sociale: il neoliberalismo. Durante la Guerra Fredda gli Stati Uniti avevano appoggiato e promosso le dittature che tralignavano in dittature della borghesia. Adesso siamo passati a un altro modello: la dittatura del capitale. In questo caso ci riferiamo ai due tipi di capitale, quello legale e quello illegale che circola grazie al neoliberismo. Il capitale che si appropria dei minerali e di altre risorse attraverso la spoliazione delle popolazioni latinoamericane; e allo stesso modo il capitale del narcotraffico che sottomette le popolazioni per riprodursi e duplicarsi, mentre le forze di sicurezza fanno la guardia agli interessi dei padroni del capitale.

Neoliberismo: dal Nafta alla svendita di Pemex e Cfe

Il potere del capitale (legale e illegale) collabora per ottenere più benefici. Può essere in concorrenza, ma stipulare anche taciti accordi. Il neoliberismo si consolidò in Messico con il Trattato di libero commercio del Nordamerica (Nafta) nel 1993, che ebbe come conseguenza la ristrutturazione dell’agricoltura e dell’industria messicane: per esempio Donna Chollett analizza i suoi effetti sull’industria saccarifera del Michoacán, quando il presidente Salinas de Gortari privatizzò i mulini dello zucchero statali. L’antropologa del Minnesota spiega come il vuoto economico causato dal trattato fu riempito dall’attività del narcotraffico che portò alla violenza tuttora esercitata nella zona del Puruarán, nel Michoacán. In altri casi i narcos si sono infiltrati nelle industrie, come nel caso della raffineria di resina Ario sempre nel Michoacán. La compagnia Eastman Chemical del Tennessee continuava comunque a fare affari con la raffineria di proprietà de Los Templarios che intimidiva i lavoratori, uccideva, stuprava e taglieggiava, nonostante le informazioni che aveva ricevuto.

Successivamente in Messico si sono privatizzate le telecomunicazioni e il comparto minerario e energetico. Queste riforme neoliberiste hanno portato all’ingresso di compagnie multinazionali che non avevano alcun interesse a rafforzare la società civile, anzi al contrario entravano nelle comunità per sfruttare il territorio e la manodopera. Nel 2009 Calderón “ristrutturò” l’industria dell’energia elettrica e 44 000 lavoratori si trovarono senza lavoro quando si chiuse la compagnia Luz y Fuerza del Centro. Nel 2012 Pemex, l’ente petrolifero statale del Messico, era stato valutato secondo la rivista “Forbes” 416 miliardi di dollari ed era l’ottava azienda petrolifera più grande del mondo, e tuttavia nel 2013 il governo di Enrique Peña Nieto dichiarò che l’impresa registrava perdite e dunque il settore energetico aveva bisogno di una riforma. Si può ipotizzare che i narcos abbiano cominciato a rubare a Pemex migliaia e migliaia di dollari nell’ambito petrolifero nel 2014, per quanto queste circostanze non siano state corroborate da altro che “informazioni ufficiose”. Dall’altro lato del muro gli avvoltoi osservavano la Pemex come un cadavere che si sarebbe potuto spolpare in qualsiasi momento. George Baker, direttore e redattore di “Mexico Energy Intelligence”, una newsletter di orientamento industriale e politico per consiglieri e analisti dell’industria petrolifera texana ma con lo sguardo rivolto al Messico, spiegò nel 2015 alla Cbc News che il 15 per cento era controllato dai narcos e il costo era di 114 miliardi di perdite e «questa è una grande ammissione di vulnerabilità». Malgrado la presenza dell’esercito a Tamaulipas, secondo le informazioni ufficiali, i furti sono aumentati di numero in questi anni. Non funziona secondo la logica che vorrebbe che così come Pemex era a rischio di saccheggio da parte dei narcos prima, allo stesso modo lo sarebbero state anche le compagnie straniere, una volta subentrate nel controllo dell’ente petrolifero. Tuttavia si usò ideologicamente questo argomento per giustificare la necessità di privatizzare la Pemex. Tra il 2013 e il 2015 il governo di Enrique Peña Nieto decapitalizzò Pemex e Cfe (la Comisión Federal de la Electricidad), stornando in segreto 240 miliardi e 518 milioni di pesos (circa 14 miliardi di dollari) del patrimonio nazionale investito in queste imprese e lo ridiresse su altre spese di bilancio. I disinvestimenti nelle due imprese più produttive dello stato messicano aprivano anche la strada alle multinazionali per competere in modo iniquo nel sistema delle aste relative ai contratti, nelle quali si stabiliva la nuova agenda di progetti energetici. Le multinazionali lavoravano con il beneplacito e l’aiuto dei signori della guerra o dei narcos che controllavano certe zone.

I cartelli messicani del narcotraffico

Violenza di stato e terrore narcos per imporre riforme del neoliberismo

la vita e la morte sono regolamentate dal mercato e dalla logica neoliberista tramite la creazione di uno “stato di emergenza” nel quale le forze di sicurezza dello stato possono intervenire con totale carta bianca. Il narcotraffico cresce, si riproduce e si moltiplica nel sistema neoliberale. Inoltre questo partecipa in toto e attivamente a questa neoliberalizzazione e privatizzazione con la preoccupazione di ripulire il denaro sporco.

Necropolitica ed esistenze cestinabili

Achille Mbembe definisce “necropolitica” come la costruzione della sovranità o il potere di decidere chi deve vivere o morire. Contiene pure l’idea del “biopotere” intesa come il dominio della vita in merito al quale il potere prende il controllo in uno “stato di emergenza”. La necropolitica in Messico assembla il neoliberismo con i suoi accompagnatori, i narcos. Entrambi si appoggiano l’un l’altro per sopraffare una popolazione che si trova in un sistema economico che investe in morte. Il problema delle comunità messicane è che non abbassano la guardia rispettando i dettami di questa necropolitica e continuano a lottare per i loro diritti: un esempio è costituito dai padri dei massacrati di Ayotzinapa.

Ayotzinapa - massacro di Igual

Le vite dei poveri e di quelli che si oppongono al sistema vengono trasformate in esistenze cestinabili. Il ribelle, il migrante, il rifugiato sono rifiuti. La popolazione si trasforma in scudo del potere, in qualcos’altro che lo stato non deve difendere, anzi in qualcosa che può essere scomodo e di cui sbarazzarsi. Come afferma Howard Campbell: «I flussi del narcotraffico sono evidenti e fortemente creati dalla globalizzazione neoliberista […] il narcotraffico frontaliero e il fenomeno culturale che chiamo Dwz [Drug War Zone: zona di Guerra alla droga] non possono essere totalmente compresi senza metterli in relazione ai gruppi del crimine internazionale e alle strutture del potere sociale ed economico globale».

Horrorismo, cannibalismo e narcomantas

L’horrorismo è esattamente la violenza nei confronti del corpo vulnerabile e esercitata contro gli indifesi. Questo tipo di violenza estrema è passato alla “legalità” in questo mondo globalizzato e politicizzato dalla guerra al terrorismo e alle droghe. Gli Stati Uniti mantengono prigioni clandestine dove vengono praticate torture e perpetrati orrori contro persone indifese che non saranno giudicate dalla giustizia ordinaria, ma piuttosto secondo le leggi dello stato di eccezione promulgate a cominciare dagli attentati dell’Undici Settembre. Parallelamente i narcos e le forze di sicurezza usano la tortura e altre tecniche orrificanti per diffondere la paura che trattiene la popolazione nella sfera di potere del capitale.

Le decapitazioni si sono trasformate in modo da esprimere questo orrore e poi trasmetterlo attraverso i media con messaggi infarciti di errori ortografici nelle ben note narcomantas che sfidano gli altri gruppi o lo stato stesso. Si tratta di una forma di propaganda primitiva che consegna il messaggio di paura a tutti quelli che non vogliono arrendersi. Le esecuzioni sommarie perpetrate dalle forze di sicurezza con il “colpo di grazia” in fronte mandano lo stesso messaggio territoriale. È l’avviso che non ci sarà pietà contro il nemico, chiunque egli sia. La tortura è la tecnologia più disumanizzante che maneggia l’essere umano come un taglio di carne e trova la forma più orripilante di disumanizzare l’“altro”. Le autorità la usano e i narcos la perfezionano.

L’abuso violento è una maniera per demoralizzare il nemico, per provare che la violenza è una forma di piacere per il barbaro. Il cannibalismo è stato adoperato da Los Zetas e adesso anche dal Cjng (Cártel Jalisco Nueva Generación). Mangiarsi il corpo del proprio nemico acquisendo così misticamente la sua forza era una pratica adottata in precedenza dal gruppo militare Los Kaibiles nella lotta contro i rivoluzionari nel Guatemala del dittatore Efraín Ríos Montt. Los Kaibiles collaborarono con Los Zetas e Los Zetas cominciarono a fare del cannibalismo una forma di intimidazione del nemico e come “patto di fratellanza” si mangiavano le cosce dei nemici avvolte nei tacos condividendole con tutti i presenti. Entrambi, Los Kaibiles e Los Zetas, furono addestrati dalle Forze speciali della School of the Americas (Escuela de Las Américas) a Fort Benning, in Georgia.

Le tante menzogne sulla notte di Iguala

Uno studente di Ayotzinapa superstite della strage di Iguala

Fin dall’inizio sorse il sospetto che l’esercito fosse stato informato di quello che capitava e che non avesse fatto nulla per evitare le sparizioni e la violenza di quella notte. Già nel dicembre 2014 un reportage della rivista d’inchiesta messicana “Proceso” di Anabel Hernández e Steve Fisher, usando testimoni, video, rapporti inediti e dichiarazioni di magistrati, concludeva che la polizia federale aveva partecipato direttamente e attivamente all’aggressione ai normalistas. Ottennero anche un documento governativo del Guerrero in cui si provava come gli studenti della Escuela Normal de Ayotzinapa erano stati seguiti fin dalla loro uscita da agenti della amministrazione federale e statale. Secondo questo documento «alle 17,59 il Centro de Control, Comando, Comunicaciones y Cómputo (C4) di Chilpancingo ha informato che i normalistas erano partiti da Ayotzinapa diretti a Iguala. Alle 20 la PF [polizia federale] e la polizia statale hanno raggiunto l’autostrada federale Chilpancingo-Iguala, dove gli studenti stavano cominciando a raccogliere denaro per una colletta. Alle 21,22 il comandante della base della PF, Luis Antonio Dorantes, è stato informato dell’ingresso dei giovani al terminal degli autobus e alle 21,40 il C4 di Iguala ha segnalato la prima sparatoria». Ma questo rapporto affermava: «anche l’esercito ha operato». Le modalità del C4, che opera con video e fotografie, fa sì che tutti i differenti livelli della polizia siano simultaneamente informati. Questo sistema è stato istituito per coordinare gli sforzi dei distinti organi di polizia contro il crimine organizzato. In questa caso Hernández e Fisher inquadravano la dinamica all’interno della guerra sporca contro «gruppi di attivisti politici in formazione».

Nel settembre 2015 i membri della commissione di esperti comparirono davanti alla Commissione per i diritti umani del DF (Comisión de Derechos Humanos del Distrito Federal) e presentarono la Relazione Ayotzinapa (El Informe Ayotzinapa). Il documento di 560 pagine contiene i risultati dell’inchiesta indipendente seguita dalla commissione che include documentazione della procura stessa (Pgr e Pgj) del Guerrero. Giunsero alla conclusione che per opere o omissioni furono coinvolti almeno cinque corpi di sicurezza: l’esercito messicano, la polizia federale, quella statale del Guerrero, la polizia municipale di Iguala e quella di Cocula. Lo smarrimento di alcune prove e video del C4 evidenziavano l’insabbiamento della verità e l’impunità dei colpevoli. Ma questo caso evidenziava anche la grave crisi umanitaria che viveva il Messico, con l’esercito nel mirino delle accuse. Il 5 ottobre il segretario alla Difesa nazionale comparve nel notiziario di Televisa a ripetere che il 27° battaglione di Iguala non avrebbe conferito con la commissione o con nessun altro al riguardo, perché – assicurava – non era colpevole di nulla, dopodiché minacciò di dimettersi dalla carica se i suoi soldati fossero stati interrogati da un gruppo di investigatori stranieri.

Dopo vari anni di inchieste Hernández pubblicò il suo libro La verdadera noche de Iguala. Una delle domande di Hernández senza risposta era come mai gli scomparsi provenissero da un autobus specifico mentre gli altri non erano stati aggrediti allo stesso modo. Nella documentazione della Pgr veniva menzionato anche un quinto mezzo che all’inizio compare nei documenti dell’inchiesta e di cui a poco a poco ci si è “dimenticati”. “Il quinto autobus” è l’unico che non sia stato assalito a fucilate dalla polizia municipale, ma è stato intercettato dalla polizia federale e gli studenti trasferiti sotto la minaccia delle armi. I due autobus Estrella de Oro requisiti dagli studenti di Ayotzinapa sono quelli intercettati dalle forze statali. Però Anabel Hernández è andata oltre: ha assodato che il 27° fanteria era il corpo operativo agli ordini di un boss locale impiegato a recuperare i pacchi di eroina che erano stati nascosti su questo quinto autobus e che, essendosi accorti gli studenti di quello che stava capitando, furono fatti sparire perché non rimanesse alcun testimone oculare. Il libro evidenzia che la Pgr chiese di aprire un’inchiesta sul 27° fanteria, ma fu ostacolata da ordini presidenziali. Il seguente documento segreto sancisce tutto ciò: «Si provveda… a che si allarghi l’inchiesta riguardo al capitano José Martínez Crespo con l’intento di fare piena luce sugli addebiti che sono scaturiti in relazione a possibili connivenze del suddetto con la delinquenza organizzata e i risultati della quale siano rimessi alla Subprocuraduría Especializada en Investigación de Delincuencia Organizada (Seido)». Secondo Hernández esistono anche prove balistiche della presenza e del coinvolgimento nell’attacco dell’esercito sul luogo del crimine. Negli ultimi due anni e mezzo l’esercito ha respinto la richiesta di ispezionare le sue strutture e si è rifiutato categoricamente di rilasciare dichiarazioni riguardo alla torbida vicenda della sparizione dei 43. Peña Nieto ha promosso il militare, Alejandro Saavedra Hernández, che era al comando del 27° fanteria quella notte. Due anni dopo e durante l’ondata di maggior violenza scatenata nello stato, secondo il quotidiano “El País” «due mesi dopo la sparizione, Saavedra Hernández acquisì poteri ancora maggiori e fu nominato comandante della IX regione militare del Guerrero», e due anni dopo arrivò addirittura a ricoprire l’incarico di nuovo ispettore e supervisore generale dell’esercito messicano. I padri dei 43 continuano a ripetere che Saavedra Hernández fu una delle menti che orchestrarono quanto accadde quella notte del 2014 a Iguala.

Secondo l’inchiesta di Hernández nel suo libro La Verdadera Noche de Iguala: La historia que el gobierno trató de ocultar, nel Guerrero «opera una rete di complicità tra autisti di autobus, passeggeri e diversi gruppi criminali per trasferire la droga; normalmente lo scambio funzionava senza contrattempi grazie alla corruzione che lo proteggeva». Questa connivenza tra il legale e l’illegale nel Guerrero è quello che ha fatto sì che gli studenti di Ayotzinapa costituissero un inconveniente nella logica di mercato. Questo incidente pone concretamente in evidenza la collusione di tutti i livelli dello stato e delle forze dell’ordine per coprire la verità e far sì che la gente non abbia la chiave per comprendere la violenza perpetrata in Messico.

 

La necropolitica proviene dal cuore di tenebra del neoliberismo e dilaga nella geopolitica caratterizzata dall’espansionismo. Gli Stati Uniti sono molto interessati a che questo continui a incrementare i loro redditi e i miliardi di dollari che lubrificano la macchina di morte in Messico. Se non si comincia a capire, a denunciare e a estirpare l’espansione neoliberista con le sue strategie dell’orrore, in un futuro molto vicino vivremo in una realtà distopica. In Messico sta già accadendo.

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La pace di Doha è quella sospirata dagli afgani? https://ogzero.org/la-pax-talebana-preparata-a-doha-dagli-americani/ Sun, 13 Sep 2020 12:07:56 +0000 http://ogzero.org/?p=1233 O non è piuttosto quella di Mike Pompeo, segretario di stato statunitense, di Abdul Ghani Baradar, numero due della gerarchia talebana, e persino di Abdullah Abdullah, capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale? La pax (elettorale) americana si combina con l’occasione storica per il movimento jihadista di riprendersi il paese (ora Repubblica, nel 2001 Emirato […]

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O non è piuttosto quella di Mike Pompeo, segretario di stato statunitense, di Abdul Ghani Baradar, numero due della gerarchia talebana, e persino di Abdullah Abdullah, capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale? La pax (elettorale) americana si combina con l’occasione storica per il movimento jihadista di riprendersi il paese (ora Repubblica, nel 2001 Emirato islamico) senza colpo ferire.

Una guerra lunga 40 anni

Gli americani sono apparentemente arbitri, l’intento di Trump è quello di ritirare le truppe (a fine ottobre si ridurranno a 4000 unità, secondo gli accordi del 29 febbraio con i Talebani) a scopi elettorali e ottenere uno stato non troppo islamico, controllato attraverso l’indispensabile erogazione di fondi e assistenza a un tessuto socio-economico reso incapace di reggersi da 40 anni di guerra ininterrotta; ai Talebani è richiesta un’abiura dei legami con al-Qaeda, un brand a cui hanno aderito obtorto collo per l’aggressività di Bush, di cui il negoziato è la più patente sconfitta; il governo di Ghani e Abdullah è da sempre debole, quotidianamente sotto scacco per gli attentati che costano la vita a 50 persone al giorno e che vedono Isis e al-Qaeda disputarsi la leadership jihadista, un potere fondato su elezioni andate deserte e i cui risultati hanno impiegato mesi a essere diramati e che deve presenziare a negoziati che hanno come fine la dissoluzione del governo stesso per crearne uno condiviso tra tutte le fazioni, le culture e le tribù che costituiscono la nazione.

Il vicepresidente Amrullah Saleh, tagico della cerchia di Masud ed ex capo dei servizi nel governo Karzai, è il più scettico sull’opportunità dei negoziati con i Talebani, che considera marionette in mano ai militari pakistani. È infatti scampato al secondo attentato ai suoi danni; lui è rimasto illeso, non così le decine di feriti e i 10 morti procurati da quella bomba piazzata a Kabul – in un quartiere residenziale non a caso presidiato dagli americani – emblematicamente quattro giorni prima che iniziassero i negoziati. E già una settimana dopo l’inizio dei negoziati era stato ucciso il presunto responsabile dell’attentato (il mullah Sangeen, il numero due della Red Unit talebana) in un’operazione condotta a Surobi.

Quello intrafgano è un negoziato tra fronti opposti delegittimati agli occhi degli afgani, che non li ha mai considerati propri rappresentanti: poche frange tribali al confine pakistano riconoscono l’autorità dei Talebani, le richieste dei quali sono il ritiro delle truppe straniere e l’imposizione di uno stato islamico; peraltro nessuno riconosce l’autorevolezza di un governo corrotto e fondato sugli interessi di lobbies oligarchiche, che ha obbedito agli accordi siglati dall’amministrazione Trump in campagna elettorale e in assenza di rappresentanti del governo e della società civile afgani, così Ghani ha dovuto liberare obtorto collo 5000 prigionieri talebani (in cambio di mille governativi).

Intanto all’inizio della seconda settimana il leader del partito Jamiat-e-Islam, Salahuddin Rabbani, che è stato anche a capo dell’Alto Consiglio per la pace del governo Karzai ha esposto notevoli dubbi sull’efficacia della road map dei temi proposti, proponendo di rivedere anche il sistema politico attuale.

In previsione di un approfondimento che intendiamo proporre una volta che gli sviluppi consentano valutazioni sulle trattative, riproponiamo uno stralcio dell’analisi che inquadra precisamente la situazione attuale. Un saggio scritto quasi un anno fa da Giuliano Battiston, e compreso in La Grande Illusione, volume a cura di Emanuele Giordana sull’Afghanistan in guerra dal 1979, di cui l’attuale teatrino qatariota (regime sunnita filojihadista) è il nuovo atto messo in scena, mentre i civili – fisicamente vulnerabili – muoiono per gli attentati, o – vulnerabili economicamente – sopravvivono sotto la soglia di povertà.

[OGzero]


Delegazione talebana a Doha il 12 settembre 2020

Dipendenza dall’estero: sovranità parziali e segmentate

La questione che qui vogliamo sottolineare è che il progetto di state-building ha avuto effetti controproducenti. Ha generato uno state-rentier, frammentato, debole, fortemente dipendente dalle risorse esterne. Il welfare sociale, l’educazione, la salute, le infrastrutture, l’esercito, la regolamentazione e la pianificazione economica: in Afghanistan ogni aspetto della vita pubblica è dipendente da aiuti esterni. La dipendenza dall’esterno ha inficiato la legittimità dello stato e del governo, ha modificato radicalmente il panorama della governance, la stessa nozione di potere, le relazioni tra il territorio e la politica, producendo principi politici, valori morali e culturali, fonti di potere e di legittimità diversi. In poche parole, ha prodotto “sovranità segmentate”, parziali, per ricorrere ancora una volta al lessico di Territorio, autorità, diritti. A ben vedere, poi, sebbene questi nuovi network di potere globale abbiano istituito tra di loro rapporti diversi e discontinui, a volte competendo, a volte confliggendo, a volte finendo per cooperare, è la loro stessa presenza ad aver impedito che il governo centrale trovasse e potesse rivendicare fonti autonome ed esclusive di legittimità normativa e politica. Infine, ma non da ultimo, l’emergere di nuove forme di sovranità e governance ha indebolito non soltanto lo stato, ma la stessa capacità dei cittadini di rivendicare trasparenza, aumentando la distanza tra governo/stato e popolazione. In poche parole, il processo di state-building centripeto ha creato un regime di poteri multipli, privi di responsabilità e di “responsività” verso i cittadini. Un esito che ha conseguenze anche sul processo di pace. Vediamo come.

Governo e Talebani: attori illegittimi

All’interno della complessa geografia di poteri appena descritta, esistono due attori – non monolitici e diversificati al loro interno (due reti di potere sarebbe più opportuno definirli) – che almeno a livello simbolico giocano un ruolo preminente: il governo di Kabul e i Talebani. I Talebani sono il principale movimento di opposizione armata in Afghanistan. Ci interessa però sottolineare alcuni aspetti, funzionali al nostro discorso. Il primo è che i Talebani rappresentano una galassia articolata al proprio interno, con centri di potere (le shure, i consigli) diversificati, con indirizzi strategici, finanziatori, priorità diverse e a volte confliggenti; il secondo è che la postura dei Talebani recentemente è stata condizionata dall’ingresso in Afghanistan di un altro attore della guerriglia, la “Provincia del Khorasan”, la branca locale dello stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi; il terzo è che, proprio in ragione del rapporto dialettico tra le varie componenti dei Talebani e gli sponsor stranieri, come il governo/stato anche i Talebani sono percepiti come un attore soltanto parzialmente legittimo, perché non del tutto autonomo, ma eterocondizionato; il quinto punto è che non sono una forza residuale, ma un gruppo consapevole delle proprie potenzialità, tanto da sommare ai successi strategici sul campo anche quelli politici: deboli, divisi e sfiduciati all’inizio del 2002, oggi i Talebani hanno fatto digerire all’Amministrazione degli Stati Uniti l’idea che l’opzione militare sia ormai impraticabile e che l’unica opzione plausibile per mettere fine alla guerra sia quella diplomatica. Fino a pochi anni fa soltanto dei “terroristi” o dei pariah, oggi godono di una patente di legittimità politica. Se non degli alleati veri e propri contro l’espansione dello Stato Islamico in Asia centrale, sono diventati degli interlocutori politici a tutti gli effetti.   

Resistenti sul campo di battaglia, forti al tavolo negoziale, finanziariamente ancora piuttosto solidi, i Talebani appaiono però fragili in casa, in termini di consenso. Se in alcune aree e fasce sociali godono di un appoggio logistico e dell’adesione della popolazione, altrove sono guardati con sospetto: troppo pesante l’eredità del loro governo, troppo pesante il bilancio delle vittime civili, troppo lontani dal sentire comune le loro idee sull’economia e sulla società, sull’Afghanistan che verrà. La domanda da porsi allora è: perché rimangono un attore egemone? Per tre motivi principali. La prima rimanda a quella particolare economia politica di guerra a cui abbiamo fatto riferimento. La seconda è la presenza delle truppe straniere, di per sé un fattore di mobilitazione antigovernativa, un carburante per la macchina della propaganda jihadista. La terza è il forte deficit di legittimità del governo, screditato agli occhi della popolazione.

Delegazione governativa a Doha

L’attuale governo ha una storia particolare, che merita di essere raccontata. Il governo si basa su un compromesso politico, imposto dall’esterno, uno dei simboli della subalternità alle reti di potere globale. Per porre fine alla lunga contesa sugli esiti del ballottaggio presidenziale del 14 giugno 2014, l’allora segretario di stato Usa John Kerry ha sollecitato un accordo che prevedeva un governo bicefalo: accanto alla carica del presidente – attribuita ad Ashraf Ghani – è stata introdotta una nuova figura istituzionale, quella del Chief of Executive Officer, con poteri «simili a quelli di un primo ministro», attribuita allo sfidante Abdullah Abdullah. L’inedito esperimento di ingegneria istituzionale non ha funzionato, finendo con il paralizzare le attività dell’esecutivo, istituzionalizzando la rivalità che intendeva sanare. Anche se politicamente debole e diviso, il governo di unità nazionale è rimasto in carica per un intero mandato, cinque anni, per due ragioni: la debolezza delle opposizioni e il sostegno della comunità internazionale, che in assenza di alternative ha preferito accordargli credito, come dimostrano i 15,2 miliardi di dollari stanziati al termine della conferenza dei donatori di Bruxelles dell’ottobre 2016.

Al di là del ruolo giocato dagli attori esterni, l’impasse in cui si è ritrovato il governo Ghani-Abdullah rimanda a una discussione interna, la grande questione irrisolta della governance dell’Afghanistan posTalebano. Affrontata già negli incontri preliminari alla conferenza di Bonn del 2001, è stata particolarmente dibattuta nel corso della Loya Jirga costituzionale del 2003, quando si sono contrapposti due grandi blocchi etnico-politici: da una parte il blocco “pashtun”, con l’idea di un sistema presidenziale fortemente centralizzato, modellato sulla Costituzione del 1964, poi adottata con alcune modifiche; dall’altra il blocco “tagico”, propugnatore di un sistema di governo più rappresentativo e meno centralizzato, che includesse la carica del primo ministro, anche come contrappeso alla storica, contestata egemonia dei pashtun come reggenti dello stato-nazione. Dietro all’antagonismo e alla reciproca diffidenza personale tra Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah si è giocata dunque una partita cruciale: quella tra rappresentanza, società ed esercizio istituzionale del potere. Una partita simile a quella che si gioca ora, o che si potrebbe giocare, tra il governo da una parte e i Talebani dall’altra. Una partita che va sotto il nome di processo di pace, ma che non si esaurisce in quello.

Reti di potere, pace politica e pace sociale

«Leader dei Talebani, la decisione è nelle vostre mani. Accettate la pace, sedetevi al tavolo negoziale e costruiamo insieme il paese». È con queste parole che il 28 febbraio 2018 il presidente Ashraf Ghani ha offerto ai Talebani il riconoscimento come partito politico, l’implicita garanzia dell’immunità, la possibilità di rivedere la Costituzione, l’inclusione nelle istituzioni, un ufficio politico a Kabul e l’ipotesi di un cessate il fuoco, realizzato poi per tre giorni nel giugno 2018. In quel discorso Ghani ha fatto riferimento alla possibilità di affrontare «aspetti controversi della futura presenza internazionale», questione dirimente per i Talebani. Un riferimento che lasciava presagire margini di manovra futuri per un dialogo diretto tra i Talebani e gli Stati Uniti, un negoziato che ha assunto una forma concreta con gli incontri tenuti nell’estate del 2018 tra esponenti del movimento antigovernativo e l’inviato di Donald Trump, Zalmay Khalilzad, da cui è scaturito nel gennaio 2019 una bozza di accordo.

Anche la proposta di Ghani di una «revisione congiunta» della Costituzione era un passo verso gli “studenti coranici”, che però hanno continuato a lungo a invocarne la riscrittura completa. Oltre ai dissidi interni del fronte antigovernativo, incapace di trovare una linea comune sul “che fare” una volta che le armi verranno deposte, dietro alla questione della revisione costituzionale e dell’architettura politico-istituzionale si nasconde un nodo politico: per i Talebani il governo di Kabul è illegittimo, semplice braccio amministrativo delle forze di occupazione, soltanto un pezzo di una rete di potere globale, un interlocutore privo di coesione, facile da manipolare e dividere. A dispetto dell’unità di facciata e dei successi politici che li hanno condotti al tavolo negoziale di Doha, in Qatar, anche i Talebani però, come abbiamo visto, sono un attore attraversato da spinte centrifughe, frutto dell’adesione delle diverse anime del movimento alle diverse reti di potere globale emerse in Afghanistan negli ultimi anni. Da questo punto di vista, se il dibattito con gli americani, un nemico esterno, può essere facilmente condotto sulla base di posizioni condivise dalla maggioranza, quello con il governo di Kabul sulla governance postnegoziato potrebbe risultare molto più difficile e frammentare ulteriormente il già composito fronte antigovernativo.

In sintesi, proprio a causa della presenza delle reti di potere globale che abbiamo provato a descrivere, sia il governo/stato sia i Talebani sono divisi al loro interno e godono di una scarsa legittimità agli occhi degli afgani. Ciò rende rischioso e costitutivamente fragile qualunque accordo i due attori possano trovare in futuro, sottolineano molti esponenti della società civile. In termini generali, tra gli intervistati prevale l’idea che la soluzione militare si sia rivelata inefficace e che sia indispensabile seguire la via del dialogo politico, attraverso un piano di riconciliazione nazionale e un contestuale processo di pace. Si registra la tendenza a sostenere l’ipotesi che i Talebani possano ottenere posizioni di potere in un futuro governo di “ampia coalizione”, a due condizioni: che ciò serva davvero a porre fine al conflitto e che non pregiudichi, se non l’architettura politico-istituzionale creata dopo il 2001, le conquiste legislative e sociali degli ultimi anni, spesso associate a tale architettura. Le aspettative che i Talebani siano in grado o siano disposti a soddisfare tali condizioni sono superiori a quelle registrate dallo stesso autore negli anni passati, ma rimangono piuttosto basse. Quanto alla capacità dei rappresentanti governativi di garantire la sopravvivenza dell’ordine normativo/istituzionale corrente, si registrano aspettative molto basse, che sembrano rimandare alla convinzione che i Talebani siano “più forti” del fronte governativo-statuale, giudicato litigioso e fragile. Comunque tutti gli attori risultano scarsamente legittimi.

Per questo gran parte degli intervistati distingue tra “pace politica” e “pace sociale” e reclama un doppio approccio al processo di pace: al negoziato politico-diplomatico che punta nel breve periodo all’interruzione del conflitto dovrebbe accompagnarsi un parallelo processo sociale di lungo periodo che punti alla ricostruzione delle relazioni tra le comunità locali. E che offra canali di comunicazione e confronto agli attori che, pur godendo di maggiore legittimità e rappresentatività del governo o dei Talebani, sono stati esclusi dalle reti di potere globale emerse in Afghanistan. Molti degli intervistati condividono infatti una diagnosi di partenza: alla base dell’instabilità del paese ci sono molti fattori, endogeni ed esogeni, ma uno di questi è la crisi identitaria causata da quattro decenni di guerra. Il tessuto connettivo che fa di una società una nazione sarebbe stato indebolito dalla guerra e questa fragilità sarebbe stata sfruttata dagli attori endogeni che fanno parte delle reti di potere globale, parzialmente esogene. Reti opache, che non possono essere smantellate attraverso un negoziato, dall’alto al basso, ma che vanno prima “rese trasparenti”, poi trasformate con processi sociali di lunga durata, dal basso all’alto. Senza una sottostante pace sociale che gli dia solidità e consistenza, sostengono gli intervistati, ogni accordo politico tra attori illegittimi è destinato a produrre risultati effimeri. Il dialogo politico-diplomatico è lo strumento più adatto per porre fine al conflitto nel breve periodo, ma il dialogo sociale, il recupero di sovranità e autonomia di fronte all’egemonia delle reti di potere globale, sono gli strumenti per costruire un nuovo spazio sociale e politico dotato di legittimità, unico antidoto a una nuova esplosione del conflitto.

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Flint, Michigan: il piombo nell’acqua e i tagli in bilancio https://ogzero.org/flint-michigan-il-piombo-nellacqua-e-i-tagli-in-bilancio/ Fri, 21 Aug 2020 07:40:21 +0000 http://ogzero.org/?p=1095 Lo stato del Michigan dovrà pagare 600 milioni di dollari come risarcimento alle vittime dell’inquinamento dell’acqua pubblica nella città di Flint; migliaia di residenti hanno intentato una causa contro lo stato e dopo 18 mesi di trattative il giudice federale Judith E. Levy (di nomina obamiana nel 2014) ha sancito che chiunque abbia abitato nella […]

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Lo stato del Michigan dovrà pagare 600 milioni di dollari come risarcimento alle vittime dell’inquinamento dell’acqua pubblica nella città di Flint; migliaia di residenti hanno intentato una causa contro lo stato e dopo 18 mesi di trattative il giudice federale Judith E. Levy (di nomina obamiana nel 2014) ha sancito che chiunque abbia abitato nella città tra il 2014 e il 2016 riceverà una somma di denaro proporzionata al danno subito entro la primavera del 2021. I lavori di ripristino dell’acquedotto si sarebbero dovuti completare entro gennaio 2020, ma sono stati interrotti a causa della pandemia e sono ripresi solo nel mese di giugno. Nel frattempo la popolazione, per anni, ha dovuto consumare solo acqua in bottiglia per cucinare, lavarsi, bere…

In questo articolo i particolari di quanto accaduto raccontati da Marina Forti e i dettagli della ricaduta sociale di una simile crisi in una città tra le più povere del paese e abitata per la maggior parte da neri, situazione che evidentemente non può non avere avuto un peso nelle decisioni prese dalle istituzioni riguardo i tagli di bilancio. Tema quanto mai attuale, quello del trattamento riservato ai cittadini di serie B afroamericani, se si pensa al movimento di rivendicazione “Black lives matter” attivo in tutto il mondo, che qui a Flint ha trovato particolare sviluppo. [OGzero]


Per oltre un anno i residenti di Flint, nello stato del Michigan, Usa, hanno visto uscire dai loro rubinetti acqua giallastra e maleodorante. Le loro proteste però sono state ignorate dalle autorità, perfino quando le prime analisi hanno rivelato che quell’acqua era piena di piombo, e i medici hanno cominciato a trovare piombo nel sangue dei bambini sotto i 5 anni. Solo parecchi mesi dopo l’allarmante scoperta, il governatore del Michigan, Rick Snyder, ha dichiarato lo stato d’emergenza; poi però è emerso che il governatore e il suo staff erano informati del problema, e anche i dirigenti dell’Ente federale di protezione ambientale ne erano al corrente, e ppure nessuno aveva fatto nulla, fino a quando gruppi di cittadini, ricercatori e giornalisti hanno fatto scoppiare lo scandalo.

Il caso di Flint, centomila abitanti al censimento del 2010, città una volta nota come quartier generale della General Motors, è molto più che un episodio di gestione irresponsabile da parte di alcuni funzionari pubblici. Chiama in causa la logica che porta a sacrificare la salute dei cittadini in nome dei tagli di bilancio, e probabilmente anche una discreta dose di quello che molti chiamano “razzismo istituzionale”, ovvero il disprezzo per una popolazione in gran parte nera e povera in una ex città operaia. Un meccanismo di profonda ingiustizia che ha negato a un’intera cittadinanza l’accesso all’acqua potabile. Vediamo perché.

Tutto è cominciato alla fine nel 2013, quando un commissario speciale nominato dal governatore Snyder per risanare i conti dell’amministrazione di Flint ha deciso di chiudere il contratto di fornitura con l’ente idrico della vicina città di Detroit (che attinge dal lago Huron) e di costruire un proprio sistema di approvvigionamento. Questo però richiedeva alcuni anni di lavori e nel frattempo l’acquedotto cittadino avrebbe attinto dal fiume Flint. In tempi di tagli di bilancio, con enti locali indebitati, l’amministrazione avrebbe risparmiato 5 milioni di dollari nel primo anno e 19 milioni nell’arco di 8 anni – così fu detto alla cittadinanza.

Dunque il 25 aprile del 2014, in nome del risanamento finanziario, l’acquedotto di Flint è stato collegato al fiume omonimo, la stampa locale ha cominciato molto presto a raccogliere lamentele dei residenti, che parlavano di acqua giallastra, maleodorante: «Gli abitanti hanno capito subito che l’acqua era cattiva: aveva un colore orribile, il sapore era cattivo, l’odore cattivo», ha poi testimoniato Curt Guyette, giornalista investigativo che lavora con la American Civil Liberties Union (Aclu) del Michigan e ha contribuito a far emergere lo scandalo.

Per mesi però i cittadini si sono sentiti dire che l’acqua era perfettamente sicura, finché, ormai nei primi mesi del 2015, una residente, LeeAnn Walters, è riuscita a far analizzare la sua acqua dalle autorità, ed è risultato che conteneva oltre 100 parti per miliardo di piombo. Il piombo è un elemento tossico, non esiste una soglia definibile «sicura». Le norme federali Usa considerano che 15 parti per miliardo sia il livello di guardia, e che superato questo limite c’è un rischio per la salute che impone di intervenire. A Flint però nessuno è intervenuto.

Nel frattempo alcuni ricercatori di Virginia Tech, il Politecnico dell’Università della Virginia, a cui si erano rivolti alcuni cittadini, hanno cominciato a raccogliere campioni e analizzare l’acqua che esce dai rubinetti delle case di Flint, sotto la direzione del professor Marc Edward. È stato un vero e proprio lavoro di mobilitazione popolare, con squadre di dottorandi che hanno distribuito ai residenti oltre 300 kit per raccogliere i campioni d’acqua. I ricercatori hanno poi creato un sito web, FlintWaterStudy.org, dove pubblicavano man mano i risultati delle analisi, strada per strada. Il 2 settembre 2015 hanno diffuso le prime conclusioni della loro ricerca: dicevano che l’acqua dell’acquedotto di Flint conteneva livelli preoccupanti di sostanze corrosive, e «questo provoca una minaccia alla salute pubblica nelle case che hanno tubature di piombo», spiegavano.

Allarmata da quanto stavano scoprendo i ricercatori di Virginia Tech, una pediatra del Hurley Medical Center, l’ospedale di Flint, ha pensato di esaminare il sangue dei bambini. La dottoressa Mona Hanna-Attisha ha osservato il livello di piombo nel sangue dei bambini sotto i 5 anni e l’ha confrontato con i dati delle analisi degli anni precedenti: è risultato che il numero di bambini con altissimi livelli di piombo nel sangue era schizzato in alto da quando la città beve dal fiume Flint.

L’attenzione ormai era alta. Il primo rapporto di Virginia Tech è stato diffuso quando ormai un ampio fronte di comitati civici aveva raccolto 26 000 firme su una petizione rivolta al sindaco di Flint, Dayne Walling, per chiedere di tornare alla fornitura del sistema idrico di Detroit. Le autorità però continuavano a negare che esistesse un pericolo per la salute pubblica. Attivisti sociali e giornalisti indipendenti hanno cominciato a loro volta ad analizzare campioni d’acqua. Le proteste sono aumentate. Infine le autorità pubbliche hanno riconosciuto ciò che ormai tutti sospettavano (e alcuno avevano cercato di provare): l’acqua dei rubinetti di Flint non era da bere: il 1° ottobre 2015 il governatore Snyder ha stanziato 12 milioni di dollari perché l’acquedotto di Flint tornasse ad allacciarsi al sistema di Detroit, cosa che è avvenuta il 15 ottobre. I cittadini della città del Michigan avevano bevuto acqua contaminata per un anno e mezzo.

Il danno però era fatto, e per molti bambini rischia di essere irreversibile, perché il piombo agisce sullo sviluppo del cervello e del sistema nervoso, con effetti profondi e permanenti. In seguito un’indagine del Center for Desease Control and Prevention (Cdcp) di Atlanta, il maggiore centro pubblico Usa per la ricerca epidemiologica e sulla prevenzione delle malattie, ha confermato che i bambini sotto i sei anni che hanno bevuto quell’acqua hanno il 50 per cento di probabilità di avere un livello allarmante di piombo nel sangue.

Le indagini hanno ormai chiarito che l’acqua del fiume Flint contiene sostanze corrosive in misura tale che in breve hanno cominciato a corrodere le vecchie tubature di ghisa della città (oltre metà dell’acquedotto di Flint ha più di 75 anni): ora è chiaro che gli amministratori non avevano fatto tutte le necessarie analisi sulla qualità dell’acqua di quel fiume prima di immetterla nell’acquedotto. Paradossale: nell’ottobre 2014 General Motors aveva smesso di usare l’acqua prelevata dal fiume Flint perché faceva arrugginire i suoi motori. I motori hanno ricevuto più attenzione degli esseri umani.

Eppure l’allora sindaco Dayne Walling, aveva segnalato il problema al governatore del Michigan già all’inizio dell’anno, parecchi mesi prima che scoppiasse lo scandalo: lo si deduce da un promemoria datato 1° febbraio 2015, inviato al governatore Snyder dal suo staff, in esso si diceva che «il sindaco [di Flint] cavalca il panico pubblico… per chiedere allo stato di condonargli il debito e ottenere soldi per migliorie delle infrastrutture». Lo stesso promemoria liquidava le lamentele dei cittadini per quell’acqua giallastra e di cattivo sapore, dicendo che la Safe Drinking Water Act (la legge federale sull’acqua potabile) «non regolamenta l’aspetto estetico dell’acqua».

Quel documento non parlava di piombo, ma citava la corrosione delle tubature e i trialometani (gruppo di sostanze usate nella disinfezione), che in concentrazioni alte possono causare tumori. Insomma, fin dal febbraio 2015 l’ufficio del governatore del Michigan aveva abbastanza elementi da suggerire quantomeno una indagine accurata sulla situazione. Invece nulla, la nota al governatore Snyder tagliava corto: «Sarebbe un problema di salute pubblica solo in caso di esposizione cronica, a lungo termine». Un anno dopo, quel memorandum al governatore è diventato parte dello scandalo.

L’emergenza a Flint non è finita. Certo, la città è tornata ad attingere l’acqua dal lago Huron (via l’acquedotto di Detroit), ma gli effetti della contaminazione perdurano. Tanto che il 5 gennaio 2016 il governatore Snyder ha dichiarato lo stato d’emergenza, stanziando 28 milioni di dollari per interventi sanitari e infrastrutturali immediati, mentre infuriavano le polemiche sulle responsabilità di un tale caso di avvelenamento pubblico.

Il 16 gennaio 2016 è intervenuta la Casa Bianca: il presidente Usa, Barack Obama, ha emesso una dichiarazione d’emergenza per lo stato del Michigan e ordinato aiuti federali in aggiunta a quelli ormai disposti dal governo locale (l’intervento presidenziale è stato visto come una implicita critica al governatore, ormai accusato da più parti di aver sottovalutato la situazione). La Fema, l’agenzia federale per le emergenze, è arrivata a Flint a distribuire ai cittadini acqua, filtri, kit per le analisi (l’emergenza è stata poi estesa fino all’agosto 2016).

Bombardato di accuse, il 19 gennaio del 2016, durante il suo discorso annuale su «lo stato dello stato», il governatore Snyder si è scusato con i cittadini per lo “spiacevole” disservizio. Qualche giorno dopo, nel tentativo di parare lo scandalo, ha anche diffuso quasi 300 pagine di e-mail (tra cui la citata nota del suo staff) come chiesto dalle associazioni di cittadini. Il suo portavoce intanto continuava a ripetere che il governatore non ha saputo della gravità del problema fino al 1° ottobre, quando ha preso le misure necessarie. Ma sembra una tesi difficile da sostenere.

Anche perché ormai piovevano le rivelazioni. È emerso per esempio che le autorità federali avevano cominciato a indagare sul caso di Flint già nel febbraio 2015, e che almeno da aprile l’ente di protezione ambientale, Epa, era consapevole che mancava un sistema di controllo sulla corrosione delle tubature: lo ha confermato la responsabile dell’Epa nel Michigan, Susan Headman (poi criticata per aver lasciato quell’informazione nel cassetto).

Insomma: le autorità sanitarie sapevano, il governatore anche, ma hanno lasciato che i cittadini bevessero acqua avvelenata. I ricercatori di Virginia Tech dicono che tutto si poteva evitare filtrando l’acqua, con una spesa di appena 100 dollari al giorno.

Nell’estate 2016 c’erano ancora allarmi sanitari a Flint; i ricercatori di Virginia Tech stavano analizzando una possibile contaminazione da legionellosi, malattia respiratoria causata da un batterio che si diffonde tramite aerosol o acqua contaminata.

Alla fine, la crisi dell’acqua a Flint sarà costata allo stato del Michigan molto più di quanto pretendeva di risparmiare somministrando ai cittadini l’acqua di un fiume contaminato: dopo il primo stanziamento d’emergenza di 28 milioni del gennaio 2016, il governatore Snyder ha stanziato altri 30 milioni per crediti sulle bollette dell’acqua per il 65 per cento dei residenti. Il 29 giugno infine ha approvato la spesa di 165 milioni di dollari per sostituire le vecchie tubature soggette a corrosione.

Molti si sono chiesti se tutto questo sarebbe successo anche in una città di bianchi. Perché Flint è abitata al 56 per cento da neri; è anche una delle città più povere del paese, in piena rust belt («cintura della ruggine», allusione alla deindustrializzazione). Non è più la città operaia raccontata da Ben Hamper in Revithead, entrata in profonda crisi quando la General Motor ha chiuso quasi tutte le sue attività produttive, ormai in città la disoccupazione è altissima, la povertà è la regola, 41 per cento degli abitanti sono considerati sotto la soglia di povertà, mentre i residenti più benestanti se ne sono andati. Proprio come è successo nella vicina Detroit. Ovvio che le amministrazioni municipali vanno in bancarotta: chi poteva pagare tasse è andato via. Alla radice di questa crisi c’è una profonda ingiustizia.

Per aggiungere beffa al danno, nella primavera 2016 il dipartimento alle finanze del comune di Flint ha annunciato un’ondata di distacchi dell’acqua a cittadini che non pagano la bolletta. L’annuncio ha suscitato un coro di indignazione.

La crisi dell’acqua a Flint rimanda ovviamente anche a responsabilità penali: nell’aprile 2016 il procuratore generale dello stato del Michigan, Bill Schuette, ha formalmente incriminato tre persone: due dirigenti del Dipartimento statale responsabile dei controlli ambientali (Mdeq), accusati di «condotta criminale» in violazione alla legge federale sul’acqua potabile (Clean Water Act) e di aver deliberatamente falsificato prove della contaminazione; e l’ex responsabile della gestione dell’acqueotto per aver falsificato le informazioni sulla qualità dell’acqua.

Al di là delle responsabilità penali però, molti a Flint continuano a chiedere le dimissioni del governatore dello stato, Rick Snyder, per il deliberato avvelenamento di una intera popolazione.

 

Cfr. per il testo di Marina Forti Guerra all’acqua. La riduzione delle risorse idriche per mano dell’uomo, a cura di Alessandro C. Mauceri con la collaborazione di Marina Forti, Torino, Rosenberg & Sellier, 2016

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La spartizione delle risorse nel Mediterraneo https://ogzero.org/accordo-tra-erdogan-e-serraj-e-la-spartizione-delle-risorse-nel-mediterrano/ Fri, 24 Jul 2020 00:24:15 +0000 http://ogzero.org/?p=99 24 luglio 2020 Con le esplicite intenzioni espresse ad alto livello dai due responsabili degli Affari esteri turco e russo in relazione alla soluzione libica, che da opposte fazioni sarebbe individuata nella diplomazia da trovare in un prossimo incontro a Mosca, appare sempre più evidente un più ampio piano comune globale giocato nel centinaio di […]

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24 luglio 2020

Con le esplicite intenzioni espresse ad alto livello dai due responsabili degli Affari esteri turco e russo in relazione alla soluzione libica, che da opposte fazioni sarebbe individuata nella diplomazia da trovare in un prossimo incontro a Mosca, appare sempre più evidente un più ampio piano comune globale giocato nel centinaio di incontri tra Putin e Erdoğan nei quattro anni intercorsi dal fallito golpe del 15 luglio 2016 e sancito dagli Astana Papers. Dovunque nello scacchiere mediorientale le due potenze locali occupano campi avversi e in ciascuno di questi teatri di guerra, dopo scaramucce per procura, giocano il ruolo dei pacificatori, spartendosi risorse e territori, economie e infrastrutture, governance e vie di comunicazioni… Hanno cominciato il gioco in Siria, dove la Turchia, appartenente ancora alla Nato, ha coperto il maggiore interesse russo – procurandosi la striscia antikurda che richiedeva e congelando Idlib, bacino di milizie jihadiste da svuotare per utilizzarle in Libia,  dove risulterà il vincitore accaparrandosi il petrolio dell’Eni (come nel quadrante del Mediterraneo orientale), pur beneficiando l’“alleato” russo del controllo di parte del territorio sottraendolo all’influenza occidentale tanto paventata da Putin all’indomani dell’abbattimento di Gheddafi; e ora il connubio tra zar e sultano si va a occupare del Nagorno Karabakh, resuscitando una disputa trentennale nei piani di Putin utile a bloccare il South Caucasus Pipeline, impossibile da far passare in mezzo a una nuova guerra tra armeni (fieri nemici dei turchi per il genocidio e alleati dei russi per affinità religiosa) – che infatti hanno iniziato le provocazioni belliche nel giugno 2020 – e azeri, appoggiati dai turchi.

Il prossimo palcoscenico della pantomima che apparentemente divide Russia e Turchia, ma non i loro interessi finali si gioca attorno al reale interesse dei due tiranni: le pipeline, quelle da boicottare per l’interesse di Gazprom, a cominciare da quella che passerebbe attraverso la Grecia a partire da Israele per giungere in Salento, che si configura come concorrente del South Stream turco, ma anche delle pipeline russe, da cui dipendono gli approvvigionamenti energetici occidentali.  

Le prime reazioni internazionali al sempre maggiore dinamismo turco nell’area si ebbero con l’accordo intercorso tra Erdoğan e Sarraj per spartirsi il petrolio del Mediterraneo, un vero e proprio abuso, sono state minime: una fregata italiana a difendere i giacimenti che l’Eni si era aggiudicata nel mare prospiciente Cipro – dimenticata in questa operazione, forse perché comunque la Turchia la considera integralmente di sua proprietà – e infatti  la Grecia ha espulso l’ambasciatore turco. Ma cosa si può immaginare in trasparenza dietro a questa sorprendente iniziativa? In quale contesto nei due paesi si va a inserire?

 

Il maresciallo libico Khalifa Haftar e il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov a Mosca, il 13 gennaio 2020 (Ufficio stampa del ministero degli Esteri russo via AP)

Murat Cinar analizza i meccanismi che il 12 dicembre 2019 regolavano gli interessi nell’area

Da quell’episodio si è potuto allargare il campo, ai molti motivi di scontro e guerra aperta, di repressione e strategie, alleanze e affinità religiose (piegate a fare da foglia di fico per gli interessi geopolitici): il parlamentare Demirtaş malato non curato nel carcere di Edirne dove è ostaggio del regime, banche nazionalizzate per svuotarne i forzieri e sovvenzionare le infrastrutture che fanno da bacino di voti per l’Akp, e poi l’arabizzazione forzata del Rojava negli intenti di Erdoğan – e in questo ambito si registrano le affermazioni di Assad, disponibile a incontrare il presidente turco ma solo per ricordargli che è un invasore (ma in fondo anche Assad padre aveva operato un’arabizzazione della regione ai danni dei curdi); le due fazioni che si contendono il potere in quella che era la Libia sono sempre più internazionalizzate, con precisi appoggi agli uni o agli altri, con la presenza russa che condiziona protagonisti di entrambi i campi di questa guerra per procura, che è un risvolto di quanto è successo e sta accadendo in Siria, un paese che sta diventando modello anche per una nazione che non esiste più dalla fine di Gheddafi; l’attenzione turca si sta da tempo concentrando anche sul Nordafrica e la Libia dove Arabia Saudita ed Emirati, insieme all’Egitto del generale al-Sisi, sostengono il capo della Cirenaica Khalifa Haftar. Mentre Ankara, con il Qatar e in parte l’Italia, appoggia il governo di Tripoli, la città di Misurata e la Fratellanza Musulmana.

La guerra in Libia non è più guerra civile, è diventata regionale. A sostegno di Haftar si prodigano militarmente Egitto, Emirati Arabi e Russia. A oggi l’unico attore forte regionale è la Turchia che non ha mai cambiato posizione e non ha problemi a dichiarare il suo approccio interventista, riaffermando il suo ruolo nella regione anche in relazione a quanto accade in Siria (lì si riproduce lo stesso meccanismo insito nel rapporto di Ankara con la Russia).
La Francia auspica una risoluzione politica-diplomatica ma è, insieme alla Nato, sul campo a combattere a fianco di Haftar. L’Italia – che politicamente appoggia Tripoli (e ha interessi economici in Tripolitania) – è in realtà statica, non ha “amici” in Libia, ma in realtà non è ostile a Haftar. Al-Sarraj aveva bisogno di sostegno militare, ma a parte la missione in difesa dell’ospedale di Misurata sicuramente una certa attività di intelligence, l’Italia non si è poi attivata più di tanto. La Turchia invece è disposta a farlo e al-Sarraj è stato obbligato ad accettare l’aiuto della Turchia. Le reazioni a catena dimostrano che ormai in quel territorio si sta svolgendo una proxy war, una guerra per procura.

Nancy Porsia spiegava il carattere regionale della guerra in Libia nel dicembre 2019

Il governo di Tripoli, ha reso noto di temere la “minaccia” di intervento egiziano in Libia dopo che il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, in una dichiarazione pubblicata, ha definito il Governo di accordo nazionale libico (Gna) “ostaggio di formazioni armate e terroriste”. Il Consiglio del Gna afferma di comprendere “il diritto dello Stato egiziano” alla “sicurezza nazionale ma non accetta alcuna minaccia alla propria sovranità” e “invita le autorità egiziane a rivedere le proprie posizioni circa la crisi libica e a giocare un ruolo positivo che rifletta la profondità delle relazioni storiche fra i due Paesi fratelli”.

E mentre a Tripoli si combatteva e le milizie misuratine lanciavano lo stato di mobilitazione contro l’ennesima fase dell’offensiva del generale cirenaico Haftar sulla capitale, il presidente turco Erdogan incassava l’approvazione da parte della commissione parlamentare Esteri dell’accordo di cooperazione militare con il Gna (il governo tripolino, inventato dall’Onu) siglato il 27 novembre a Istanbul con il premier Serraj.

Quanto la guerra libica sia sempre legata alla profonda crisi in atto nel Mediterraneo Orientale sui confini marittimi delle Zone Economiche Esclusive lo si evince anche dal rischieramento di un drone turco armato BayraktarTB2 all’aeroporto di Gecitakle nella regione di Famagosta, nella Cipro del Nord.

Come affermava Chiara Cruciati su “il manifesto” del 17 dicembre 2019:

Se con il memorandum Ankara si impegna a inviare materiale e consulenze (cosa che con i droni già fa da tempo, violando l’embargo libico), ora Erdogan promette anche truppe, in cambio del controllo sullo specchio di mare tra Creta e Cipro.

Il cosiddetto “accordo di demarcazione” regalerebbe ad Ankara la giurisdizione in acque che ospitano giacimenti di gas naturale tra i più ricchi al mondo, da quelli ciprioti (su cui minaccia anche Israele: è di domenica la notizia dell’allontanamento di una nave dell’Istituto di Oceanografia israeliano da parte della marina turca nelle acque di Cipro) e su quelli nordafricani.

Lo fa sfidando apertamente l’altro attore regionale della crisi libica, l’Egitto, che sta sulla barricata opposta, con Haftar. E sfida anche l’Italia, convinta da aspirazioni neocoloniali, più che dalla vicinanza geografica, che la Libia sia doverosamente affar suo: oggi il ministro degli Esteri Di Maio dovrebbe volare a Bengasi per vedere il generale renegade perché, come dicono in tanti, è tempo di mediare tra le due parti (fossero solo due…) e uscire dal guado. Il probabile incontro è stato preparato nei giorni scorsi dall’Aise, i servizi segreti italiani, già a Bengasi.

Insomma, ormai Haftar va rivalutato (questa sembra la visione dell’Italia che teme di perdere il malloppo a favore della Francia) sebbene da mesi stia stringendo d’assedio il governo voluto dall’Onu e riconosciuto come il solo legittimo dalla comunità internazionale, a partire da Roma.

Identica narrazione, indirettamente, la dà il governo egiziano: «Il governo a Tripoli – ha detto da Sharm el Sheik il presidente al-Sisi – è ostaggio di milizie armate e terroriste». Non li nomina, ma nel mirino di al-Sisi ci sono i Fratelli musulmani, considerati i veri reggenti tripolini e riferimento politico dell’Akp di Erdogan e del Qatar, l’altra potenza regionale alleata di Sarraj che nei giorni scorsi, per bocca dell’emiro Al Thani, ha detto di voler/poter intervenire «sul piano economico e della sicurezza» al fianco di Tripoli.

Dall’interventismo turco in mezzo Vicino Oriente non poteva mancare la stoccata al nemico-amico statunitense. Brucia ancora il riconoscimento da parte della Camera Usa, il 31 ottobre, del genocidio armeno. Ma bruciano di più la sospensione della vendita degli F35 e le sanzioni che Washington ha paventato se Ankara proseguirà nell’acquisto del sistema di difesa missilistico russo S-400.

E così Erdogan ha pensato bene di minacciare gli Usa di «chiudere la base aerea di Incirlik e la stazione radar di Kurecik, che ospitano i militari americani». Nella seconda c’è la Nato, nella prima bombe atomiche Usa. Erdogan non vede l’ora di metterci le mani: da Incirlik è partito un pezzo del tentato golpe del 2016.

L’aeroporto di al-Watiya a sudovest di Tripoli diventerà una base militare turca

Intanto, in seguito all’accordo bilaterale di cooperazione militare sottoscritto lo scorso novembre tra Ankara e il Gna, la Turchia occuperà due basi militari in Libia: il grande aeroporto di al-Watiya (nella foto), vicino al confine tunisino, 125 chilometri a sudovest di Tripoli, da dove sono state cacciate da poco le forze dell’Lna che la controllava dal 2014) e nel porto di Misurata. Forse la base verrà occupata anche dalle forze statunitensi dell’Africa Command (Africom) dopo le intese tra Ankara e Washington dei giorni scorsi e il colloquio tra Donald Trump ed Erdoğan. Mentre a Misurata verrebbe invece creata una base navale: la presenza di navi turche è considerata essenziale per la sicurezza delle attività di perforazione (petrolio e gas) nella regione.

Il porto di Misurata dove la Turchia installerà la sua base navale

 

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Lo Spirito del tempo che percorre il territorio del Sahel https://ogzero.org/lo-spirito-del-tempo-che-percorre-il-territorio-del-sahel/ Mon, 06 Jul 2020 07:28:38 +0000 http://ogzero.org/?p=393 Nei due anni che vanno dal maggio 2018 al giugno 2020 nel territorio del Sahel si sono verificati cambiamenti che forse oltrepassano i rivolgimenti di una pandemia, poiché sta recedendo la graduale estensione del controllo di Aqmi (al-Qaeda del Maghreb islamico), ma con appoggi saharawi laicissimi, tuareg nomadi che combattevano peul stanziali, con cui han […]

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Nei due anni che vanno dal maggio 2018 al giugno 2020 nel territorio del Sahel si sono verificati cambiamenti che forse oltrepassano i rivolgimenti di una pandemia, poiché sta recedendo la graduale estensione del controllo di Aqmi (al-Qaeda del Maghreb islamico), ma con appoggi saharawi laicissimi, tuareg nomadi che combattevano peul stanziali, con cui han finito con il convergere nella lotta contro gli invasori coloniali occidentali, dando una patina di legittimazione religiosa a conflitti le cui motivazioni vanno ricercate tra entità locali divise tradizionalmente, che cercano di controllare le vie dei traffici illeciti (la droga sovvenziona Daesh) e dei migranti, che sostanzialmente coincidono… e dall’altro lato ci sono settori di collaborazionisti con le politiche antiterroriste di potenze europee, in primis la Francia.

Importante è sottolineare che il Sahel comprende un’area periferica tra le più povere al mondo, con scarso accesso all’acqua, soprattutto a seguito del progressivo prosciugamento del lago Ciad, e con nessuna tradizione nazionale, in quanto fino a pochi anni fa molti erano privi di documenti che attestassero l’appartenenza a uno stato.

Il 4 maggio 2018 avevamo registrato un intervento radiofonico lucidissimo e ancora molto illuminante di Luca Raineri che qui trovate inserito in tre parti per avviare un’analisi incentrata sul Sahel nel momento in cui si assiste a frenetiche manovre a più livelli per sostituire le influenze. Qui è descritto il quadro relativo al contesto, fatto di frontiere liquide e guerre a bassa intensità, al contrario della Siria, dove i brand jihadisti si sono combattuti apertamente:

Ascolta “Giochi di influenze nel Sahel” su Spreaker.

Oltre al passaggio di merci tra Africa subsahariana e Maghreb, quali risorse del territorio sono appetibili ora? Luca Raineri parla di Uranio – più che di petrolio i cui giacimenti maliani sono di scarso valore –, una manna per la voracità delle centrali nucleari francesi, ma meno per il Niger dopo il tracollo del prezzo dell’uranio a seguito del disastro di Fukushima, che ha imposto la ricerca di alternative. Per cui va studiata anche la trasformazione di quell’area dedita alla pastorizia e ora crogiolo e snodo degli interessi globali per quel che riguardano i traffici di armi (crocevia delle guerre in Mali e in Libia), droga e migranti (tra i principali affari dei tuareg, alternativamente impegnati nel contenimento dell’espansione dell’Isis e nella alleanza con lo stesso Daesh contro le forze antiterrorismo del Fc-G5s)

 

Ascolta “Quali interessi economici si intersecano nel crocevia di traffici del Sahel?” su Spreaker.

Forse assistiamo ora al ridimensionamento di quell’interventismo del Marocco a cui alludeva nel maggio 2018 Luca Raineri, che vedeva la monarchia alawide contrapporsi all’Iran, che da sempre cerca di fomentare disordini nell’area per destabilizzarla, eversione avversata dal Marocco. Peraltro più che i gruppetti eversivi stavano cominciando a diventare maggioritarie talune fazioni che mirano a imporre la shari’ia per via di una spinta democratica delle popolazioni.

Ascolta “Le frontiere liquide del Sahel” su Spreaker.

Interessante la ricostruzione della storia del jihad in Sahel e della situazione attuale dopo l’eliminazione a Talahandak dell’emiro algerino Abd al-Malik Droukdel (leader di Aqmi, basata sulla promozione di alleanze claniche) e il conseguente rafforzamento della componente saheliana del jihad qaidista e la definitiva africanizzazione del jihad in Sahel (e infatti si stanno ampliando gli attacchi etnici nel Mopti che contrappone dogon e fulani), che Lorenzo Forlani ha fornito a OGzero con questo Punctum.

 

 

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Approdo africano della Belt Road Initiative: i meccanismi in gioco nella Great Rift Valley https://ogzero.org/approdo-africano-della-belt-road-initiative-great-rift-valley/ Wed, 24 Jun 2020 10:42:00 +0000 http://ogzero.org/?p=122 l’Africa, l’Asia meridionale e il Sud America sembrano, per molti versi, sopravanzare il mondo euro-moderno, forieri della sua storia-in-fieri, anticipando fenomeni e caratteristiche di “sviluppo”. Che la collocazione dell’Africa nella narrazione dominante della Storia universale sia fondamentalmente errata è un punto che non necessita di ulteriori elaborazioni. Anche se l’Euro-America e il Sud del mondo sono, ora […]

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l’Africa, l’Asia meridionale e il Sud America sembrano, per molti versi, sopravanzare il mondo euro-moderno, forieri della sua storia-in-fieri, anticipando fenomeni e caratteristiche di “sviluppo”.

Che la collocazione dell’Africa nella narrazione dominante della Storia universale sia fondamentalmente errata è un punto che non necessita di ulteriori elaborazioni. Anche se l’Euro-America e il Sud del mondo sono, ora come ora, inglobati dagli stessi processi storici mondiali è al Sud che gli effetti di tali fenomeni tendono a manifestarsi in maniera più esplicita. I vecchi margini stanno diventando le nuove frontiere, posti in cui il capitale competitivo a livello globale – sempre più, di questi tempi, asiatico e meridionale – trova zone scarsamente regolate in cui riversare i propri affari; nei quali l’industria manifatturiera apre siti sempre più convenienti; dove economie informali e altamente flessibili fioriscono da sempre; dove questi stessi servizi esternalizzati estremamente efficienti hanno sviluppato imperi info-tecnologici, legali e non, all’avanguardia; nei quali i nuovi e tardomoderni linguaggi del lavoro, del tempo e del valore prendono piede, alterando così le pratiche del resto del mondo. Ecco perché, nella dialettica della storia mondiale contemporanea, il Nord sembra “evolvere” verso il Sud.

Frag tratto da Jean, John L. Comaroff, Teoria dal sud del mondo, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

Episodi e strategie geopolitiche distanti tra loro, ricondotte a evidenti calcoli economici locali, volti a tessere efficacemente le trame pensate e messe in atto a livello macroeconomico, come quelle vissute dalle popolazioni coinvolte nell’evoluzione repentina del continente: infrastrutture, costruite e gestite da potenze extrafricane per il naturale contatto con le potenze asiatiche affacciate al di là dell’Oceano (anche l’India, non solo la Cina) o con l’Occidente, convenzioni e investimenti, metissage e tecnologie, risorse e metropoli, pil e inflazione, invasioni di insetti biblici ed epidemie racchiudono un concentrato di interazioni che stanno producendo conseguenze da analizzare per la loro unicità.

Collaborazioni, partnership, potenze economiche in competizione sul territorio del Rift.

  • l’Africa, l’Asia meridionale e il Sud America sembrano, per molti versi, sopravanzare il mondo euro-moderno, forieri della sua storia-in-fieri, anticipando fenomeni e caratteristiche di “sviluppo” (Comaroff, p. 13).
  • Interessi in contrasto da sempre per attingere a risorse sempre più risicate per i bisogni delle singole nazioni locali; il caso della Diga della Rinascita etiope che rischia di scatenare la guerra del Bacino del Nilo.
  • Caratteristiche del neocolonialismo: Belt Road Iniziative e investimenti indiani.

Piaghe del Rift:

  • Infestazione militare del territorio
  • Infestazione del territorio di locuste

Acque contese del Bacino del Nilo

 

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Parallelismi tra l’evoluzione del SARS-CoV-2 e la diffusione delle locuste in Africa orientale https://ogzero.org/facili-parallelismi-con-levoluzione-del-cosar19-e-la-diffusione-delle-locuste-in-africa-orientale/ Sun, 21 Jun 2020 11:07:19 +0000 http://ogzero.org/?p=124 Risvolti economici del disastro epidemico sommato alla piaga delle locuste e al tracollo dei prezzi dei minerali preziosi Per l’Africa è necessario un piano di sviluppo globale. Un piano fatto insieme all’Africa che dovrà essere in grado di limitare, sempre di più, la bulimia di denaro e potere della stragrande maggioranza di presidenti e governanti […]

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Risvolti economici del disastro epidemico sommato alla piaga delle locuste e al tracollo dei prezzi dei minerali preziosi

Per l’Africa è necessario un piano di sviluppo globale. Un piano fatto insieme all’Africa che dovrà essere in grado di limitare, sempre di più, la bulimia di denaro e potere della stragrande maggioranza di presidenti e governanti africani, che assomigliano sempre di più a dinosauri ancorati al trono, noncuranti del popolo. Se non si ha il coraggio di studiare un piano Marshall per l’Africa e con l’Africa, a pagarne le conseguenze saranno milioni di giovani africani che si accalcheranno alle frontiere del mondo ricco per trovare vie di uscita e dignità dove ora non la trovano. 

L’Africa, tuttavia, rimane un continente molto fragile e soggetta agli shock esterni e si appresta a vivere un grave periodo di recessione. Molti fattori, che si intrecciano fra loro, contribuiranno a un calo della crescita. Alle problematiche endemiche, come la povertà, la corruzione, si aggiungono fattori esterni di notevole impatto sui mercati: shock del prezzo del petrolio, coronavirus che porta con sé un calo della domanda turistica e, non ultimo, l’invasione delle locuste nel Corno d’Africa che sta mettendo in ginocchio intere popolazioni già provate dall’insicurezza alimentare. 

Frag tratto da Mal d’Africa, di Raffaele Masto e Angelo Ferrari, postfazione di Marco Trovato, Torino, Rosenberg & Sellier, aprile 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

Angelo Ferrari, 26 marzo 2020, intervento su Radio Blackout: le piaghe africane tra locuste, eredità economica dell’epidemia covid19 e crisi dei prezzi di minerali: strutture sanitarie, crisi sociale e umana, ma anche economica che si innesta sulla crisi alimentare preesistente alle locuste.

La piaga delle locuste ha falcidiato l’intera Rift Valley. L’invasione si presenta così recrudescente a seguito delle piogge della primavera 2020 nel Corno d’Africa, che hanno permesso una ulteriore schiusa delle uova deposte dallo sciame già imperversante da mesi nei paesi dell’Africa orientale: curve matematiche, come quelle dell’epidemia consentono di relazionare questi con altri fenomeni che sono avvenuti, come la riduzione di suoli coltivabili nel nord del Kenya, a seguito del riscaldamento globale. E la difficoltà di seguire gli effetti del riscaldamento climatico impedisce di prevedere come può evolvere, al punto che paradossalmente si auspica da parte di alcuni un periodo di siccità che blocchi la fertilità degli insetti; inoltre è difficile monitorare lo spostamento degli insetti al di fuori del Kenya e dell’Etiopia.

Intervento di Andrea Spinelli Barrile su Radio Blackout del 9 aprile 2020

Oltre al disastro immediato della devastazione dei campi nel momento in cui le coltivazioni stavano giungendo a maturazione, gli effetti si proietteranno sia sulla carestia che porterà a morte milioni di persone, sia sui prezzi dell’esportazione di prodotti in tutto il mondo, ma soprattutto nel commercio interno al continente, in particolare per quel che concerne Kenya ed Etiopia, per i quali questo export rappresenta una bella fetta del pil. Inoltre con l’imperversare dell’epidemia da covid19, che ha imposto il blocco delle importazioni – in particolare in Uganda – non consente l’accesso ai pesticidi di produzione straniera e quindi sottrae un’arma contro le locuste. 

Il sostegno della Banca nazionale africana è ridotto e si limita a concertare l’azione delle banche nazionali con la volontà di investimento: si può contare sui fondi della Cooperazione, che provengono dall’Europa (Francia, Germania, Italia), dall’Arabia Saudita… dalla Cina

Mentre almeno gli aiuti alimentari provenienti dalla Fao sono già potuti entrare in Kenya e in Etiopia, perché le locuste si possono anche mangiare, ma – per quanto proteica – non può essere una dieta sostitutiva e comunque possono fornire cibo per poche settimane poi la devastazione da loro prodotta permane; senza considerare gli effetti su terreni sottoposti all’uso intensivo di pesticidi e l’assenza di fondi per acquistare sementi, andate perdute con il transito di questi voraci ortotteri. E infatti un’opzione considerata è l’uso di ogm, soprattutto in Kenya, che ha timore si estenda la desertificazione avanzante da nord-est. Invece le locuste si sono spostate anche verso sud-ovest in Tanzania (e hanno devastato il Pakistan, raggiungendo anche l’Afghanistan e l’India).

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La decurdizzazione del Nordest siriano https://ogzero.org/la-decurdizzazione-del-nordest-siriano/ Sun, 29 Mar 2020 15:48:54 +0000 http://ogzero.org/?p=48 La deportazione dalla Turchia dei rifugiati siriani curdi in Rojava con quella che al-Assad considera una vera e propria invasione. Una ricollocazione radicale che ufficialmente è definita dal governo turco come un ripristino della situazione demografica della Siria, per creare una “zona di sicurezza”. La pretesa iniziale è di quasi 2 milioni di siriani deportati […]

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La deportazione dalla Turchia dei rifugiati siriani curdi in Rojava con quella che al-Assad considera una vera e propria invasione. Una ricollocazione radicale che ufficialmente è definita dal governo turco come un ripristino della situazione demografica della Siria, per creare una “zona di sicurezza”. La pretesa iniziale è di quasi 2 milioni di siriani deportati in una zona di 500 km, che probabilmente si limiterà a un solo milione, e che implicherà l’enorme interesse turco nella cementificazione, nell’edilizia in quelle zone, un coinvolgimento quindi non solo politico ma anche economico in futuro.

Murat Cinar il 12 dicembre 2019 su Radio Blackout:

 

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