Alberto Negri Archivi - OGzero https://ogzero.org/autore/negri-alberto/ geopolitica etc Fri, 02 Oct 2020 17:27:06 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Oltre il califfato https://ogzero.org/oltre-il-califfato/ Mon, 15 Jun 2020 14:40:27 +0000 http://ogzero.org/?p=241 «Gli arabi, i nostri vicini, ci hanno pugnalato alle spalle», mi aveva detto sul fronte di Makmur il generale dei pīs mergah Abdul-Wahab al-Saadi per giustificare in parte la débâcle dei suoi soldati. La realtà è che in molti erano rimasti inerti o pericolosamente attivi in questi anni a scrutare l’orizzonte di un Medio Oriente […]

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«Gli arabi, i nostri vicini, ci hanno pugnalato alle spalle», mi aveva detto sul fronte di Makmur il generale dei pīs mergah Abdul-Wahab al-Saadi per giustificare in parte la débâcle dei suoi soldati. La realtà è che in molti erano rimasti inerti o pericolosamente attivi in questi anni a scrutare l’orizzonte di un Medio Oriente che si sta inabissando. E anche un breve sguardo al passato ci può aiutare a comprendere: magari non può suggerire al presente soluzioni politiche ma racconta una storia da conoscere.

Quella dell’Iraq e della Siria appartiene a un intreccio complesso tra strategie coloniali britanniche e francesi, contesti geopolitici legati al petrolio e ai movimenti nazionalisti che hanno contribuito a disegnare la mappa del Medio Oriente conosciuto fino a oggi. Già allora comparvero sulla scena movimenti fondamentalisti islamici e rivolte di massa di cui l’ultima con effetti dirompenti si è avuta nel 2011.

Ci fu un tempo in cui l’idea del califfato diventò una soluzione politica anche per l’Occidente. Ricordarlo oggi di fronte alle atrocità dell’Isis può apparire una bestemmia. Ma fu esattamente quanto fece il ministro delle Colonie Winston Churchill: con l’espediente politico dei califfati e degli sceicchi mise a capo degli stati sotto mandato britannico i monarchi arabi del clan hashemita degli Ḥusayn, sovrani della Mecca. Fu così che nacquero l’Iraq, la Siria e la Giordania.

Emiri e sceicchi allora erano al servizio del piano coloniale per far nascere nuovi stati che adesso si stanno sgretolando. La guerriglia e il terrorismo praticato dallo Stato islamico di Abū Bakr al-Baghdādī sono adesso funzionali a un progetto completamente diverso: abbattere le frontiere tracciate un secolo fa e riunire i sunniti sotto la bandiera nera di un nuovo califfato.

È evidente che niente può giustificare i massacri e le esecuzioni dell’Isis ma bisogna riconoscere il problema: i sunniti sono una maggioranza in una Siria dominata per quarant’anni dal clan degli alauiti di al-Asad, mentre in Iraq, rispetto agli sciiti, rappresentano una minoranza che con Saddām Ḥusayn è stata fino a un decennio fa al potere nelle forze armate e nell’amministrazione. Sia la Siria che l’Iraq oggi sono degli ex stati, presenti in maniera virtuale sulla mappa geografica e nessuno né in Occidente né in Medio Oriente ha un piano politico alternativo al mantra dell’unità nazionale ripetuto in maniera stucchevole dalla diplomazia internazionale.

Siamo quindi a un bivio: o si ricostituisce questa unità nazionale, evocata a ogni pleonastica conferenza mediorientale, oppure si deve affrontare la balcanizzazione del Medio Oriente. Gli europei, che hanno assistito senza fare nulla di positivo alla disintegrazione della Jugoslavia e ora appaiono impotenti di fronte all’Ucraina, sono in materia degli esperti.

Ecco che cosa ha significato dell’intervento russo del 2015: Mosca non avrebbe permesso che la Siria, una sorta di Jugoslavia araba, facesse la fine di quella di Milošević che cominciò a disgregarsi nel fatale 1989 con il discorso di Slobodan a Kosovo Polije, la Piana dei Merli dove si era combattuta 600 anni prima la famosa battaglia con gli ottomani. Conoscevo bene quella piana perché per 10 anni ho coperto come inviato anche le guerra balcaniche e nel 1999 mi trovavo a Priština quando cominciarono i bombardamenti della Nato. Allora i russi non fecero nulla se non mandare un battaglione di parà che fu accolto con fiori e canti di vittoria dalla minoranza serba ma che finì per acquartierarsi all’aereoporto nel momento in cui entrarono le truppe dell’Alleanza Atlantica al comando del generale Jackson.

Il bilancio umanitario dell’intervento russo in Siria è terrificante ma quello militare dà ragione a Mosca: Putin ha salvato il regime di Damasco alleato storico sia della Russia che dell’Iran. Dal punto di vista strategico Putin ha ridato un lustro da grande potenza alla Russia tornata protagonista in Medio Oriente ma lo ha fatto anche a suo rischio e pericolo: la Siria può trasformarsi in una sorta di nuovo Afghanistan se non troverà un accordo politico che garantisca a Mosca i vantaggi militari raggiunti.

In Siria per mantenere in vita lo stato si deve trattare con il regime alauita: continuare a ripetere che Baššār al-Asad deve andarsene come fanno americani, europei, arabi e turchi, non serve e finora non è servito a nulla. Il crollo secco di un regime, come in Iraq e in Libia, non poteva che trascinare il paese in un’anarchia ancora più profonda.

In Iraq l’unica via è quella di riportare i sunniti al governo e dentro le stanze del potere. Rifare l’esercito con ufficiali sunniti nei posti di comando per evitare che intere divisioni si sciolgano come gelati al sole senza combattere davanti all’avanzata di alcune centinaia di miliziani. La soluzione di armare i pīs mergah è stata utile soltanto a tamponare la situazione: i curdi possono difendere il loro territorio ma non imporre l’ordine nel resto dell’Iraq sunnita. Sono una minoranza non troppo popolare e per di più non araba.

La soluzione politica, necessaria per rendere efficace anche quella militare richiede l’impegno delle potenze straniere che stanno combattendo da diversi anni una guerra per procura in Siria e in Iraq. Gli arabi hanno visto nello Stato islamico una buona carta da giocare per contrastare, con il beneplacito occidentale e della Turchia, l’influenza iraniana in Iraq, Siria, Libano. Le monarchie del Golfo e la Turchia sostengono i sunniti che combattono in Siria; l’Iran e gli Hezbollah libanesi, insieme alla Russia, sono a fianco degli alauiti siriani e del governo sciita di Bagdad. L’Iran, che ha negoziato l’accordo sul nucleare, ha già compiuto un passo significativo in Iraq scaricando il fallimentare primo ministro Nūrī al-Mālikī. La Turchia deve bloccare il passaggio degli jihādisti alle sue frontiere, dove sono schierati i curdi siriani di Kobânê a combattere contro il califfato, e le monarchie del Golfo prosciugare i fondi elargiti ai movimenti radicali: mentre il califfato oggi si autofinanzia, Qatar e Arabia Saudita si fanno concorrenza per foraggiare i loro protetti.

La nascita del califfato tra Iraq e Siria non è stata esattamente una buona notizia per queste monarchie assolute sostanzialmente antidemocratiche, che l’Occidente si ostina ad appoggiare rifornendole di armi in cambio di petrolio, commesse e investimenti. Come non era per loro una buona notizia l’ascesa dei Fratelli musulmani in Egitto: e non a caso Riad sostiene a mani piene (di dollari) il generale egiziano al-Sīsī. Se si fa un colpo di stato popolare in Egitto per far fuori Muḥammad Mursī, eletto dalle urne, si può anche combattere un califfo che non ha votato nessuno.

Ma c’è anche l’altra soluzione. Lasciare che il califfato faccia il suo corso, annientando le minoranze religiose, sfidando l’Occidente e i regimi avversari per frantumare la regione. Adesso ci appare una soluzione orribile ma siamo sicuri che questa alternativa qualche tempo fa non sia stata accarezzata in più di qualche cancelleria? 

Un articolo e una mappa pubblicati dal “New York Times” il 29 settembre 2013 – il Califfato era già in azione – prendevano in considerazione la possibilità che i conflitti e le rivolte in corso potessero provocare la frammentazione di alcuni stati arabi in unità più piccole. L’articolo di Robin Wright, ex corrispondente a Beirut ed esperta di relazioni internazionali, scatenò allora accesi dibattiti negli Stati Uniti mentre in Medio Oriente nascevano congetture su un nuovo piano dell’Occidente, di Israele e di altri soggetti malintenzionati per dividere gli stati arabi in entità più piccole e più deboli. Congetture? A pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, diceva qualcuno.

Il sospetto è che questa guerra allo Stato islamico di al-Baghdādī sia soltanto il primo tempo della vicenda: nel secondo si deciderà chi dovrà governare la nuova entità. E allora si comincerà a combattere la vera guerra.

Due anni dopo il destino traccia scenari assai curiosi per uno Stato islamico in forte arretramento territoriale che ha il suo cuore pulsante nel Siraq, alcune roccaforti in Libia ma che si estende con i gruppi affiliati dall’Afghanistan all’Africa occidentale. Ricordiamo che la guerra in Afghanistan nel 2001 non fu la fine di al-Quaeda di bin Lāden, che si ricostituì in Yemen con colonne agguerrite dal Medio Oriente all’Africa.

L’incrocio tra l’Isis e al-Quaeda, da cui in Iraq tutto è nato, propone nuovi sviluppi in una regione dove gli jihādisti sono il simbolo ma anche l’espressione del fanatismo religioso e del declino culturale di stati in disgregazione. Il Fronte al-Nuṣra, impegnato nella battaglia di Aleppo, ha appena cambiato nome staccandosi proprio da al-Quaeda e forse verrà cancellato dalla lista nera dei gruppi terroristi per entrare a far parte dell’opposizione “rispettabile” contro Assad: nelle sue file torneranno i transfughi che avevano giurato fedeltà al califfato. Ecco che cosa può accadere a una parte dell’Isis dopo un’eventuale sconfitta: i miliziani più “ragionevoli” verranno riciclati tra gli jihādisti “buoni”, quelli sostenuti dalla Turchia e finanziati da sauditi e qatarini. Può apparire scandaloso ma questa è una mossa tattica, ispirata dagli americani, per usare gli jihādisti anti-Asad anche in chiave antiraniana e tenere sotto pressione la Russia.

In Medio Oriente i mostri generano altri mostri: noi la chiamiamo realpolitik.

Ma questa è solo una parte della storia. L’Isis continuerà a operare magari in maniera diversa con il piano B del suo portavoce Abū Muḥammad al-‘Adnānī, ucciso qualche tempo fa in un raid americano. Al-‘Adnānī era una sorta di “ministro” degli attentati, supervisore del fronte esterno coordinava i combattenti in Occidente ma non si era mai preoccupato della segretezza. Anzi, all’opposto. Più era trasparente e più era facile per chi ascoltava mettere in pratica le sue direttive. Dagli attacchi in Germania, a un camion-ariete come a Nizza. Ma bisogna guardare oltre. Secondo alcune ricostruzioni al-‘Adnānī aveva iniziato a pensare a quando l’Isis sarebbe stato sconfitto, ovvero studiava come creare una quinta colonna in Europa. E gli jihādisti potrebbero usare il Nordest della Siria come area di addestramento e come ponte sul confine turco. Del resto da cinque anni è la meta agognata dei foreign fighters: è il “nostro” Afghanistan da monitorare. Per questo è importante la conquista della roccaforte di Manbij da parte della coalizione curdo-araba appoggiata dagli Stati Uniti: taglia la strada verso Raqqa, capitale del califfato, ma anche la via di fuga degli jihādisti in direzione della Turchia. è scattato così il Gran Premio per Raqqa: una corsa a due tra la coalizione capeggiata dagli Stati Uniti e quella a guida russa con al-Asad, iraniani ed Hezbollah: ma la sua caduta non sarà la fine della storia.

Nella battaglia contro l’Isis la chiave politica della vicenda è importante quanto quella militare. Anzi senza la prima non si riesce a comprendere neppure la seconda. Il califfato di al-Baghdādī potrà essere anche effimero ma la barbarie, l’ingiustizia, la violazione continua dei diritti umani, sono da queste parti moneta corrente e tollerata nel grande gioco delle alleanze e degli interessi mondiali. Anche questa è stata una delle cause che hanno portato in Medio Oriente all’ascesa del jihādismo e al successo della sua propaganda.

La storia cominciata nel 2003 con la caduta di Saddām non termina adesso. Lo Stato islamico non ha fatto tutto da solo ma si è alleato con le tribù sunnite e i gruppi baathisti di Saddām che avevano con gli jihādisti un obiettivo in comune: rimuovere dal potere gli sciiti. al-Baghdādī, militante di al-Quaeda e seguace di Abū Muṣ‘ab al-Zarqāwī, ha sfruttato il caos saldando guerra siriana e irachena. Ma le vere e profonde cause della rivolta sono state la corruzione e le politiche discriminatorie di Bagdad, una formidabile propaganda per l’Isis nelle province sunnite così come è avvenuto in Siria, paese a maggioranza sunnita dominato brutalmente dalla minoranza alauita degli al-Asad. L’irredentismo sunnita, sostenuto da potenze esterne come Arabia saudita e Turchia, non finirà con la sconfitta del califfato e forse neppure con una nuova mappa del Medio Oriente. 

Proviamo a immaginare, dopo l’uccisione ad Aleppo del portavoce del califfato al-‘Adnānī, che venga aperto un Ufficio propaganda anti-Isis. Perché sarebbe pericolosamente illusorio pensare che la morte di uno dei leader dell’organizzazione ma anche il suo arretramento territoriale e un’eventuale sconfitta possano costituire la fine di un’ideologia jihādista che si è diffusa negli ultimi decenni dall’Afghanistan all’Iraq, dal Medio Oriente all’Asia centrale, all’Africa, fino a entrare mortalmente dentro l’Europa.

Gli esempi del contrario sono diversi, a partire da al-Quaeda, casa madre in Iraq dell’Isis: l’uccisione di Osāma bin Lāden ad Ābṭābād in Pakistan nel 2011 non fu la fine del gruppo terroristico come non lo era stata la perdita dei santuari afghani dopo le Torri Gemelle e la guerra del 2001.

Al-Quaeda non solo si è ricostituita in Yemen, ha continuato a operare in Iraq, nel Maghreb e nella fascia subsaheliana e in Siria ha dato vita al fronte Jabhat al-Nuṣra, serbatoio di combattenti per lo stesso califfato, sostenuto da turchi e sauditi, che adesso si sta riciclando per uscire dalla lista nera dei gruppi terroristi ed essere utilizzato dagli Stati Uniti in chiave antiraniana e antirussa. Quando si parla di propaganda antijihādista bisogna sempre ricordare che una delle origini di questa storia è stata proprio la strumentalizzazione dei militanti islamici iniziata nel 1979 quanto l’ex Urss invase l’Afghanistan.

Gli eroi di ieri, i mujāhidīn afghani che sconfissero l’allora “Impero del male”, sono diventati i “barbari” di oggi, pronti adesso, almeno in parte, a entrare in un nuovo programma di candeggio nella lavatrice della geopolitica come qāidisti “buoni”, quelli che servono e sono alleati dei nostri partner economici e finanziari. Anche questo significa la battaglia di Aleppo, la “dottrina Erdoğan” per far fuori l’Isis ma soprattutto i curdi, le ambigue posture americane e della Russia di Putin. Non meravigliamoci troppo se il jihādismo potrà sopravvivere alla disfatta dell’Isis. Tutto dovrebbe essere materia di comunicazione per un onesto Ufficio propaganda anti-Isis.

L’Isis si è autoproclamato Stato islamico perché afferma di imitare la prima comunità musulmana che propagò la nuova religione fondata dal profeta Maometto con una serie di straordinari successi militari. I seguaci dell’Isis  dicono di volere ricostituire quella comunità originaria così come essi la immaginano: unita nella rigorosa obbedienza a un califfo, intollerante della diversità delle altre religioni, oppressiva nella repressione di cristiani ed ebrei, spietata nello sterminio di quelli che vengono ritenuti degli idolatri come gli yazīdi, nemica irriducibile delle correnti musulmane non rigorosamente sunnite, dagli sciiti a quelle eterodosse come gli alauiti siriani.

In realtà l’Isis è ignoranza. Se si risale alle origini si comprende subito che la versione di un islam unitario contraddice gli eventi. I suoi seguaci si ingannano sulla storia dell’islam che faceva molti più compromessi con le altre religioni e stili di vita differenti di quanto non si voglia ammettere. I militanti dell’Isis sottolineano che i primi musulmani diffusero l’islam con la forza della armi ma si dimenticano che questa espansione fu fondata su ben altro che la violenza. Nell’epoca d’oro i sovrani musulmani fecero largo uso del sapere e delle competenze delle varie comunità religiose sottoposte al loro dominio. I periodi di maggiore intolleranza dell’islam sono coincisi con quelli di povertà e arretratezza.

La storia si è ripetuta ai nostri giorni. Con la crisi negli ultimi tre decenni degli stati nazione usciti dalla decolonizzazione – Iraq, Siria, Egitto, Libia, scivolati verso fallimentari autocrazie – si sono fatti strada il fanatismo religioso, il declino culturale e la barbarie. Gli interventi occidentali hanno reso questo processo di disgregazione ancora più disastroso come è avvenuto in Iraq dopo il 2003: nel 1987, in era presanzioni, qui i cristiani erano l’8 per cento della popolazione ora sono meno dell’uno per cento.

L’Isis è l’apice di questa involuzione. Il califfato di al-Baghdādī ha voluto cancellare la memoria anche dei califfi più tolleranti, oltre che del passato preislamico di questi popoli, si è accanito su Palmira, sulle mura di Ninive, su qualunque monumento potesse sembrare non ortodosso, comprese le moschee sciite che quasi quotidianamente sono bersaglio di attentati kamikaze.

Allo stesso tempo si è scatenato in Europa, addestrando direttamente alcuni degli attentatori, in altri casi ispirando i lupi solitari o dei veri idioti dell’orrore che nel “format” dell’Isis inventato da al-‘Adnānī – basta agire, senza neppure rivendicare o essere militanti – ha dato un senso a vite fallimentari. Più che una versione “pura” dell’Islam gli jihādisti forniscono un franchising, che in Europa dà un’etichetta al malessere individuale e di gruppo e riempie il vuoto lasciato dalle ideologie del Novecento. Il jihādismo galleggia anche sui nostri vuoti di senso.

Il messaggio principale dell’Ufficio propaganda anti-Isis è questo: che minoranze militanti e violente non possono prevalere sulla maggioranza dei musulmani (1,5 miliardi), le vittime principali del terrore e dell’estremismo. Questa non è una sfumatura. Molti pensano che gli estremisti rappresentino la totalità dell’islam oppure che le loro tesi sono tollerate, non condannate e quindi accettate da gran parte dei musulmani. Sappiamo bene che non è così, l’Ufficio propaganda avrà molto da fare per correggere i luoghi comuni, per dare un’interpretazione corretta della storia e non strumentale dell’islam oggi percepito, inutile nasconderlo, come una minaccia globale.

 con una prefazione di Alberto Negri, una introduzione all’edizione italiana di Franco Cardini e una postfazione aggiornata di Pierre-Jean Luizard. Torino, Rosenberg & Sellier, 2016, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

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Questioni dottrinarie in Medio Oriente https://ogzero.org/questioni-dottrinarie-in-medio-oriente/ Sun, 29 Mar 2020 16:26:48 +0000 http://ogzero.org/?p=56 Ma come avevano reagito gli sceicchi alauiti all’abbraccio sciita degli ayatollah al-Sadr e al-Shirazi? Ed era cambiato qualche cosa nella loro dottrina? Rispondere a questo quesito è assai complicato: un conto era quanto veniva proclamato in pubblico, ben altro era stabilire davvero quale dottrina seguissero gli alauiti in segreto. Forse alcuni degli sceicchi più giovani […]

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Ma come avevano reagito gli sceicchi alauiti all’abbraccio sciita degli ayatollah al-Sadr e al-Shirazi? Ed era cambiato qualche cosa nella loro dottrina? Rispondere a questo quesito è assai complicato: un conto era quanto veniva proclamato in pubblico, ben altro era stabilire davvero quale dottrina seguissero gli alauiti in segreto. Forse alcuni degli sceicchi più giovani e istruiti avevano cominciato a formulare una sorta di riformismo alauita per avvicinarsi maggiormente alla teologia e alla filosofia dello sciismo duodecimano. In realtà in una fede esoterica come quella alauita le dispute dottrinarie tendevano a restare confinate a una cerchia ristretta di iniziati: le bocche erano cucite e le lingue si scioglievano soltanto per ripetere che gli alauiti appartenevano allo sciismo, una sorta di mantra recitato per respingere l’accusa di essere miscredenti.

Le questioni dottrinarie poi erano quasi inseparabili dalle dispute sull’autorità religiosa: e in questo campo non ci furono cambiamenti. Gli sceicchi alauiti siriani non riconobbero nessuna autorità e nessuno di loro seguì mai i fatwa o le indicazioni religiose che venivano da Qom e Najaf.

Questo era un punto cruciale. Fino a quando si fossero rifiutati di riconoscere l’autorità religiosa dei più importanti mullah sciiti, gli alauiti non avrebbero mai potuto ottenere un riconoscimento dei grandi ayatollah della statura di un Abol Qassem Khoi a Najaf oppure di Qassem Shariatmadari a Qom, considerati dei marja e-taqlid, fonti di imitazione, quindi dotati di un prestigio assoluto nel mondo sciita del tempo e che oggi può vantare soltanto Alì al-Sistani, il grande ayatollah iraniano, allievo di Khoi, che risiede dagli anni Settanta in Iraq.

I Naqshbandi

Tutto questo è dimostrato da una vicenda per niente secondaria. L’ayatollah Shariatmadari, protagonista della rivoluzione del 1979 contro lo shah e che aveva attirato l’interesse dei reporter occidentali, oltre che del filosofo francese Michel Foucault, intrattenne una lunga corrispondenza con Ahmed Kuftaro, gran muftì della Siria e strettamente legato al clan degli al-Asad. Fu Kuftaro, di origini curde, capo anche della confraternita Naqshabandi, ad accompagnare Giovanni Paolo II nella sua famosa visita alla grande moschea ommayade di Damasco nel 2001: era la prima volta che un papa entrava in una moschea. 

È curioso che la guida del papa fosse il capo in Siria della Naqshbandyya, una tariqa, una confraternita molto antica, che vantava la sua origine dai discendenti di Maometto e che fu in seguito associata al grande mistico del xiv secolo Muhammad Bahah al-Din al-Naqshbandi, da cui ha preso la denominazione. 

I Naqshbandi, detti anche Naksibendi in Turchia, hanno un ruolo chiave nelle sotterranee solidarietà della politica mediorientale. Durante una delle tante finte elezioni presidenziali irachene negli anni Novanta, Izzat Ibrahim al-Douri, vice di Saddam Hussein ed eminente esponente baathista, si fece accompagnare dalla stampa a Tikrit, città natale di Saddam, dove aveva forgiato i legami con il raìs. 

In quella occasione fu più facile del solito avvicinarlo e al-Douri ci rivelò di essere assai religioso: ogni venerdì andava a pregare in una delle moschee più importanti della capitale. Da un membro del suo seguito scoprimmo che apparteneva all’Ordine dei Naqshbandi, la confraternita estesa dall’Asia centrale alla Turchia alla Mesopotamia. Queste credenziali religiose dovevano averlo reso affidabile anche gli occhi del Califfato e del suo capo Abu Baqr al-Baghdadi che si vantava di essere membro di questa tariqa

Che i baathisti avessero dato una mano importante all’ascesa dello Stato Islamico di al-Baghdadi lo dimostrava anche il messaggio caloroso rivolto ai jihadisti con cui nel 2014 era riaffiorato alle cronache Izzat Ibrahim al-Douri dopo un decennio da imprendibile latitante tra Siria e Iraq. Al-Douri, che sarebbe stato ucciso nel 2015 a Suleymania, non era l’unico politico della regione affiliato all’ordine. 

In Turchia la confraternita dei Naksibendi nel dopoguerra trova il suo rinnovatore nell’imam Mehmet Zahid Kotku. Anche lui era un sufi che trasformò il sonnolento ordine della Naqshbandyya turca in una vera scuola socio-politica: sono stati seguaci di Kotku il presidente Turgut Ozal, il primo ministro islamista Necmettin Erbakan e lo stesso presidente Tayyp Erdogan, capo del partito musulmano Akp.

Quando si pensa ai protagonisti della scena mediorientale nessun legame deve essere trascurato e alcuni di questi possono apparire sorprendenti soltanto perché li ignoriamo. Per questo fui meno sorpreso quando due giorni prima della caduta di Baghdad, nella primavera 2003, feci colazione con il segretario di Saddam. Il dottor Ahmad mi venne a prendere nella hall dello Sheraton dove erano accampati alcuni islamisti che avevano sfilato qualche settimana prima per le vie della capitale con le cinture esplosive. «Ma questi prima non li impiccavate ai pali della luce?» osservai. «È vero – rispose Ahmad – ma adesso ci servono anche loro». Erano membri del gruppo islamista Ansar e facevano riferimento proprio a Izzat Ibrahim al-Douri. Qualche tempo dopo si sarebbero fatti esplodere ai check point degli americani e nelle moschee degli sciiti, i nuovi padroni dell’Iraq.

Proprio nel fatale 1979, l’anno della rivoluzione iraniana, il gran muftì siriano Kuftaro visitò Qom e si diffusero voci che fosse andato proprio dall’ayatollah Shariatmadari per ottenere un riconoscimento ufficiale degli alauiti come membri dello sciismo. Ma Shariatmadari non disse una parola al riguardo né fece alcun gesto in questa direzione: il silenzio assordante di Qom lasciò delusi diversi sceicchi alauiti e lo stesso clan degli al-Asad che avevano riposto la loro massima fiducia nella mediazione di Kuftaro, molto noto per la sua abilità nell’intrecciare il dialogo interreligioso.

La rivoluzione iraniana e gli alauiti

La rivoluzione iraniana e lo sciismo militante arrivarono a Damasco prima ancora che l’imam Khomeini facesse ritorno a Teheran il primo febbraio 1979 dopo la fuga dello shah Reza Palhevi. Nel giugno del 1977 era stato sepolto a Damasco, accanto al famoso mausoleo di Zeynab, Alì Shariati, uno dei simboli della rivoluzione.

La storia me la racconta nella sua casa di Teheran Ibrahim Yazdi, testimone di quel tempo. Alla parete della sala c’è la sua foto, quella di un uomo maturo e vigoroso, con un folta capigliatura corvina che arringa una folla oceanica a Korramshar. Un’immagine in bianco e nero, netta, senza sbavature, come poteva apparire in quel momento l’orizzonte dell’Iran: il passato, lo shah, era stato travolto e la rivoluzione prometteva un mondo nuovo. Yazdi il 1° febbraio 1979 era sbarcato a Teheran con il volo da Parigi insieme all’ayatollah Khomeini: pochi giorni dopo sarebbe diventato ministro degli Esteri del primo governo della Repubblica islamica. 

Fu lui, Yazdi, a presentare il progetto di costituzione a Khomeini. Sul frontespizio c’era scritto: «Costituzione della repubblica dell’Iran», l’imam prese una penna e aggiunse: «Costituzione della repubblica islamica dell’Iran». Dieci mesi più tardi il governo di Mehdi Bazargan, che aveva lasciato fuori dalla porta i mullah, si dimetteva e Yazdi passava, per sempre, all’opposizione: 30 anni dopo con i capelli bianchi, qualche anno di carcere alle spalle, un cancro superato, aveva ancora voglia di raccontare.

«Con la sua interpretazione marxista dell’islam Alì Shariati fu l’ideologo più influente della sua epoca e l’inventore dello “sciismo rosso”. Per lui la storia degli sciiti, con il martirio di Hussein a Kerbala nel 680, ucciso dai califfi sunniti, non era altro che la dialettica della lotta di classe, destinata a culminare nella rivoluzione». Delle idee di Shariati e degli slogan sulla rivolta degli oppressi si impossessarono la leadership religiosa e l’imam Khomeini, che però legittimarono il loro potere con il millenarismo sciita. Khomeini fu abile a trasformare la caduta dello shah, alla quale parteciparono nazionalisti, liberali, comunisti e gruppi di sinistra, nella rivoluzione dei turbanti. 

Islamologia, il volume più famoso di Shariati, in poco tempo divenne una sorta di “libretto rosso” tra le giovani generazioni iraniane. Tale fu il successo di Shariati che nel 1973 il regime dello shah lo arrestò imponendogli una durissima carcerazione. Liberato su forti pressioni internazionali andò in esilio in Europa dove aveva studiato negli anni Sessanta a Parigi, appassionandosi a Frantz Fanon e diventando amico di Sartre. 

A Londra il 18 giugno 1977 ricevette una telefonata dalla moglie in cui lo avvertiva che lei e una delle figlie erano state fermate all’aeroporto. Accompagnato da alcuni amici si recò velocemente a Southampton dove attese con grande ansia il complicato superamento dei controlli doganali da parte della moglie e della figlia. Tornato a casa, Shariati si addormentò per l’ultima volta; il mattino seguente fu ritrovato morto nel letto, c’è chi dice a causa di un arresto cardiaco e chi perché caduto vittima di un agguato notturno della polizia segreta dello shah.

«Fu 24 ore dopo la sua morte – racconta Yazdi – che ci trovammo a Londra con Sadq Gotzbadeh e Abholassam Banisadr per decidere dove seppellirlo: la sua volontà era di essere tumulato vicino al mausoleo di Zeynab a Damasco e mi incaricai dell’operazione». Gotzbadeh diventato ministro dopo la rivoluzione fu giustiziato da un plotone di esecuzione nel 1982 per aver partecipato a un complotto contro Khomeini; Banisadr, primo presidente della repubblica islamica, fu deposto nel 1981 e costretto all’esilio in Francia. L’altro fondatore insieme a Yazdi del Movimento per la libertà iraniana negli anni Sessanta, cui aveva aderito anche Shariati, era Mostafa Chamaran, ex fisico della Nasa: nominato ministro della Difesa fu ucciso nel 1981 sul fronte nella guerra Iran-Iraq. La rivoluzione e la guerra divoravano così i protagonisti della storia insieme a un milione di giovani iraniani che cadevano nelle paludi dello Shatt al-Arab.

La tomba di Shariati è una stanza accanto al mausoleo di Seyeda Zeynab, la figlia di Alì e di Fatima, quindi nipote di Maometto. È meta di lunghi pellegrinaggi da parte degli sciiti iraniani che con i pasdaran montano la guardia al complesso monumentale situato nel governatorato di Damasco. Shariati è sepolto in una stanza dove ci sono le sue foto, mazzi di fiori e una piccola biblioteca che espone alcuni dei suoi libri, compresi Islamologia e Fatima è Fatima, un libro dedicato da Shariati alla figlia del Profeta e al ruolo delle donne rivoluzionarie. Anche gli alauiti vanno a trovare Zeynab, in quanto figlia di Alì, e il mausoleo è una meta delle visite non solo degli sciiti ma anche delle correnti sufi devote al culto della nipote di Maometto.

La scelta di seppellire Shariati a Damasco non fu casuale. Dopo il 1973 e la legittimazione elargita dall’imam Musa al-Sadr, le autorità siriane avevano cominciato a dare rifugio ai fuoriusciti iraniani, soprattutto religiosi, che formavano l’opposizione allo shah Reza Palhevi ed erano perseguitati dalla Savak, la polizia segreta.

E non fu casuale che a officiare le esequie di Alì Shariati fosse proprio Musa al-Sadr, che aveva incoraggiato i rapporti tra il regime di al-Asad e gli ayatollah antishah. Da parte loro i siriani non potevano certo immaginare che il variopinto corteo dei dissidenti iraniani, dai mullah con il turbante ai giovani esponenti delle correnti marxiste, potesse un giorno rovesciare il regime di Teheran fortemente sostenuto dagli Stati Uniti che ne avevano fatto una sorta di guardiano del Golfo. Lo stesso presidente democratico Jimmy Carter, un anno prima dello scoppio della Rivoluzione, era andato a Teheran dallo shah per brindare con le mogli al Capodanno 1978: le due coppie furono fotografate che alzavano calici di champagne e sorridevano agli obiettivi.

Agli alauiti di Damasco importava soprattutto tenere buoni rapporti con gli ayatollah sciiti. Non avevano potuto ottenere l’appoggio del celebre Shariatmadari ma forse speravano in quello dell’imam Khomeini che allora si trovava ancora a Najaf. Dopo tutto Khomeini era un rivoluzionario che subordinava la tradizione religiosa all’obiettivo primario di abbattere lo shah e anche lui, come del resto Musa al-Sadr, aveva bisogno di amici influenti. Non è chiaro fino a che punto gli alauiti siriani al potere si spinsero a chiedere il sostegno religioso di Khomeini per la loro legittimazione ma è certo che corteggiavano i religiosi sciiti in esilio: quando Khomeini fu costretto a lasciare Najaf e gli fu rifiutato l’ingresso in Kuwait prese in considerazione di stabilirsi a Damasco prima di scegliere la Francia.

1979: paradossale alleanza strategica siro-iraniana

I rapporti tra siriani e iraniani diventarono strategici dopo la rivoluzione del 1979. La Siria tollerava la presenza dei pasdaran iraniani nella valle della Bekaa dove stava nascendo il movimento degli Hezbollah in un Libano sotto lo stretto controllo di Hafez al-Asad. In cambio l’Iran stese il silenzio sulla repressione da parte del regime siriano dei Fratelli musulmani che erano scesi in rivolta a Hama. E quando Saddam Hussein attaccò l’Iran il 22 settembre del 1980 i siriani si schierarono con Teheran. 

Era un paradosso: da una parte l’Iran combatteva contro l’Iraq baathista di Saddam, presentando il regime sunnita di Baghdad come l’emblema dell’empietà, dall’altra gli ayatollah iraniani erano in stretti rapporti con un altro regime baathista, quello di Damasco, in mano agli alauiti ritenuti dai sunniti degli incorreggibili miscredenti.

La posta in gioco tra i laici di Damasco e i religiosi di Teheran era altissima: senza la cooperazione della Siria l’Iran non poteva estendere la sua influenza fino alle coste del Mediterraneo e i siriani senza la collaborazione della Repubblica islamica non potevano tenere sotto controllo il Sud sciita del Libano, una pistola puntata contro Israele che aveva occupato le alture siriane del Golan nel 1967 proprio quando Hafez al-Asad era comandante dell’aviazione.

I due regimi, quello di Damasco e quello di Teheran, avevano credenze religiose diverse ma condividevano lo stesso destino geopolitico: è stato così fino ai nostri giorni con l’asse sciita tra Teheran-Baghdad-Damasco e gli Hezbollah libanesi.

L’Iran ha quindi fornito al regime di al-Asad una legittimazione religiosa derivante dai suoi interessi strategici ma lo ha fatto sempre in maniera indiretta e sottile. Quando i religiosi iraniani della Repubblica islamica, anche quelli che in passato sono stati direttamente legati all’imam Khomeini, visitano Damasco parlano sempre il linguaggio della politica. Non si soffermano mai a discutere di dottrina o a fare riferimenti di carattere religioso, non accennano minimamente ai rituali degli alauiti. Parlano di solidarietà politica tra Damasco e Teheran e si appellano genericamente all’ecumenismo tra musulmani, alla necessità di essere uniti contro la minaccia dell’imperialismo, del colonialismo e del sionismo. Sottolineano sempre i grandi sacrifici compiuti dai siriani su questi fronti ma si guardano bene dal toccare argomenti religiosi per non aprire capitoli scottanti tra loro e gli alauiti che si autoproclamano seguaci dello sciismo. Tanto più dopo che nel 2015 la Russia, potenza cristiano-ortodossa, è scesa direttamente in campo con le sue forze armate per sostenere Bashar al-Asad.

Non c’è dubbio però che la rivoluzione iraniana abbia fatto sentire i suoi effetti anche sull’esigenza di riforme all’interno della comunità alauita. Nel 1989 Hafez al-Asad incontrò più volte gli sceicchi alauiti a Qardaha chiedendo una modernizzazione della dottrina e di rafforzare i legami culturali con i maggiori centri dello sciismo duodecimano. Alcune centinaia di studenti alauiti vennero spediti a Qom ma non è chiaro fino a che punto poi ci sia stata una reale riforma interna e se gli sceicchi siriani abbiano davvero sacrificato la loro verità eterna alle esigenze effimere del potere. Il velo del silenzio e il mantello del segreto proteggono ancora il mistero alauita.

Frags tratti da Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente, di Alberto Negri, con una prefazione di Lucio Caracciolo, Torino, Rosenberg & Sellier, 2017

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Lo sciismo nella terra dei due fiumi https://ogzero.org/lo-sciismo-nella-terra-dei-due-fiumi/ Sun, 29 Mar 2020 15:45:15 +0000 http://ogzero.org/?p=51 Questo era il mondo nella Qom dell’imam Musa al-Sadr, che se non fosse scomparso in Libia nel 1978 forse avrebbe cambiato la traiettoria dello sciismo. Figlio dell’imam Sadr al-Din, dopo essersi formato nello studio delle scienze religiose, si laureò in sharia e scienze politiche presso l’Università di Teheran nel 1956 prima di insediarsi a Tiro […]

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Questo era il mondo nella Qom dell’imam Musa al-Sadr, che se non fosse scomparso in Libia nel 1978 forse avrebbe cambiato la traiettoria dello sciismo. Figlio dell’imam Sadr al-Din, dopo essersi formato nello studio delle scienze religiose, si laureò in sharia e scienze politiche presso l’Università di Teheran nel 1956 prima di insediarsi a Tiro del Libano nel 1960. Fu il fondatore del movimento Amal, particolarmente attivo e seguito nel Sud del Libano a forte maggioranza sciita. 

Alto, affascinante, con occhi verdi mobili ed espressivi, Musa al-Sadr parlava molte lingue ed era un oratore brillante, ascoltato anche dalle altre comunità libanesi. Possedeva anche grandi capacità organizzative e abilità nel raccogliere fondi che servirono a cause sociali, umanitarie e alla fondazione delle milizie di Amal, nei cui campi di addestramento passarono attivisti iracheni, iraniani e un corpo di pasdaran, le Guardie della rivoluzione khomeinista.

Musa al-Sadr fu il primo imam musulmano a pregare in una chiesa alla cerimonia di Pasqua, a entrare nel salotto buono della Beirut cristiana citando in un famoso discorso Sartre, Jaspers e Marx, a scrivere un saggio su “Le Monde”. 

Gli al-Sadr in Siria

Al-Asad e gli alauiti lo interessavano. Fu lui, capo allora dell’Alto consiglio sciita del Libano, a emettere nel 1973 un fatwa (un responso sulla legge religiosa) in cui si sanciva che gli alauiti erano membri a pieno titolo della grande comunità islamica degli sciiti come seguaci di Alì, il primo dei Dodici imam. Da allora lo sciismo diventò uno dei pilastri del regime, con la conseguente diffusione di rituali e pellegrinaggi che hanno poi legato sempre di più Damasco alla repubblica islamica iraniana, con la quale un tempo condivideva anche un nemico comune, il presidente iracheno Saddam Hussein.

Questo è il motivo originario per cui gli al-Asad, passato lo scettro dopo la morte di Hafez al figlio Bashar nel 2000, sono ancora oggi alleati di ferro di Teheran: i religiosi sciiti legittimarono il loro potere politico a Damasco di fronte ai sunniti. Ma questa fu anche la fine dell’alauitismo originario. Gli alauiti non andavano in moschea, non praticavano il ramadan e osservavano rituali completamente diversi, inoltre credevano nella metempsicosi, la trasmigrazione della anime. Con l’affiliazione allo sciismo gli al-Asad cominciarono a comportarsi come “veri” musulmani e trascinarono con loro gran parte della minoranza alauita. Il loro modello religioso era quello sciita.

L’imam Seyed Musa al-Sadr aveva avuto un ruolo fondamentale nella trasformazione della setta degli alauiti. Gli al-Sadr sono una delle dinastie più prestigiose dello sciismo e la famiglia di Musa al-Sadr attraverso le parentele con gli Sharefeddine e i Noureddine faceva risalire le sue origini al settimo dei Dodici imam Musa al-Kazim a sua volta discendente di Alì e Fatima, la figlia di Maometto. E come tutti i discendenti di Maometto i religiosi al-Sadr, ramificati con i loro alberi genealogici collaterali dall’Iran, all’Iraq, al Libano, al Golfo, indossano come segno distintivo il turbante nero e vantano l’appellativo di seyyed

Hasab e Nasab, la genealogia e la stima acquisita sono più importanti in questo mondo del luogo di nascita e la fama di un grande ayatollah e della sua famiglia trascendono ampiamente le frontiere del Medio Oriente. 

Gli al-Sadr in Iraq

Quella degli al-Sadr è una storia con un prestigio quasi senza eguali nello sciismo, non solo sotto il profilo religioso e dottrinario ma anche per l’influenza politica. Era cugino di Musa al-Sadr, per esempio, Mohammed Baqr al-Sadr, grande giurista e politologo, definito una sorta di Khomeini dell’Iraq, che insieme alla sorella fu giustiziato da Saddam nel 1980. E Mohammed Baqr era lo zio di Muqtada al-Sadr, uno dei capi degli sciiti iracheni dopo l’invasione americana del 2003, il cui padre Sadiq al-Sadr venne anche lui giustiziato dal regime sunnita iracheno nel 1999.

Cosa significasse essere un al-Sadr lo toccai con mano in Iraq dove quella famiglia rappresentava la resistenza al potere sunnita monopolizzato dal clan di Tikrit di Saddam Hussein. La sua storia coincideva con quella degli sciiti iracheni. Fu in base agli interessi della Corona britannica che Gertrude Bell, grande scrittrice e agente dei servizi di sua Maestà, disegnò l’Iraq e lo affidò a una minoranza sunnita per contrastare i religiosi sciiti che durante e dopo la Prima guerra mondiale avevano condotto la rivolta contro gli inglesi, inchiodandoli in furibonde battaglie con 90 000 morti. Sul trono salì l’hashemita Feisal, figlio dello sceicco spodestato della Mecca, al quale seguì il nipote Feisal II, rovesciato e ucciso da un colpo di stato del generale Kassem nel 1958. Ma il monopolio sunnita del potere proseguì con il golpe del 1963 dei fratelli Arif e quello baathista del 1968 che proiettò ai vertici il clan di Tikrit con Saddam, che quando si presentò l’occasione ordinò di impiccare o assassinare tutti gli ayatollah più importanti, deportò migliaia di sciiti nel 1979-1980 e con la repressione della rivolta della primavera 1991, seguita alla guerra del Golfo, ne massacrò nel Sud almeno 100 000. 

«È necessario andare oltre a queste vicende sanguinose, trovare il modo di superare le divisioni, stringerci la mano e agire per il bene dell’Iraq», ripeteva dal suo esilio di Londra Abdul Majdi al-Khoi, figlio del grande ayatollah Seyed al-Khoi, il cui fratello Taqi era stato assassinato nel 1994 dai sicari di Saddam. I suoi appelli alla pacificazione, che suonano ancora oggi d’attualità dopo la barbarie del Califfato, però non ebbero fortuna: quando tornò in Iraq fu accoltellato nella moschea di Alì a Najaf il 10 aprile 2003 mentre Saddam Hussein era in fuga, braccato dagli americani. Questi ultimi accusarono della sua morte proprio Muqtada al-Sadr ed emisero contro di lui un mandato di cattura, poi annullato per sedare una delle frequenti rivolte delle sue milizie denominate l’Esercito del Mahdi.

Con la fine del regime baathista nel 2003 gli Stati Uniti avevano di fatto consegnato il governo alla maggioranza sciita alleata dell’Iran: una rivincita storica e un risultato che Teheran aveva ottenuto senza muovere un pasdaran, come del resto era accaduto nel 2001 con la caduta dei talebani, arcinemici della repubblica islamica sciita. E non è certo un caso che quando il raìs venne impiccato, prima che il suo corpo fosse inghiottito dalla botola, gridasse tutte le sue maledizioni contro l’Iran mentre i suoi giustizieri inneggiavano a Muqtada al-Sadr e alla famiglia diventata il simbolo della resistenza al potere sunnita. 

Di quella scena fosca abbiamo soltanto le immagini labili e sfocate girate con i cellulari: riguardandole dopo qualche anno appare più chiara la parabola di al-Qaida nella Terra dei due fiumi guidata all’epoca da Abu Musab Zarqawi, ucciso dagli americani nel 2006, e diventa anche più distinta la traiettoria dell’allievo di Zarqawi, Abu Baqr al-Baghadi, il fondatore del Califfato il 29 giugno 2014 a Mosul, che per sollevare i sunniti in Iraq e in Siria si alleò con gli ex ufficiali di Saddam.

Il ritratto di Muqtada allora era ovunque, accompagnato da quello del leader libanese degli Hezbollah, Hassan Nasrallah. Le altre foto di Sadr City, uno dei più grandi quartieri di Baghdad disegnato negli anni Cinquanta sul modello urbanistico di Manhattan, ricordavano a tutti la genealogia di Muqtada: c’erano oltre al ritratto dello zio, Mohammed Baqr, anche quello del padre, Sadiq al-Sadr, ucciso dal raìs nel 1999 insieme ai due fratelli di Muqtada.

I due “martiri al-Sadr”, Musa e Sadiq, gli avevano trasmesso un’eredità molto significativa, spirituale e materiale. Il prestigio politico e quello religioso, nonostante Muqtada nei suoi studi teologici si fosse fermato prima della laurea islamica. Ma soprattutto aveva ereditato come fosse una proprietà di famiglia inalienabile una rete di decine di migliaia di seguaci a Baghdad ed estesa a tutto il Sud dell’Iran. 

Per questo quando gli americani tentarono per due volte di metterlo alle strette nel 2004 esplosero rivolte ovunque, da Baghdad a Najaf, a Nassiriya e nel 2008 anche a Bassora. 

Custode di questa rete, che comprende le consistenti elemosine dei credenti e le entrate dai pellegrinaggi, era stato per anni l’ayatollah Kazem Hussein Haeri di Qom, considerato il successore di Mohammed Baqer al-Sadr, lo zio di Muqtada. Haeri, insieme alla leadership di Teheran, aveva convinto Muqtada a trasformare il suo movimento sul modello degli Hezbollah libanesi: partito politico e milizia, organizzato con una forte presenza sociale sul territorio.

Muqtada al-Sadr

Nel dicembre 2006, in occasione di un’intervista con Muqtada, entrai ancora una volta nel tempio di Alì a Najaf sormontato dalla famosa cupola d’oro. 

Prima della caduta del raìs iracheno, all’ingresso dell’ufficio del custode era incollata una grande targa nera con caratteri in oro che riportava l’albero genealogico di Saddam: il leader baathista, sunnita e secolarista aveva trovato il modo di far risalire la sua famiglia a quella del genero e cugino di Maometto. Si trattava, ovviamente, di un falso ed era stata rimossa. Una stanza era stata invece riservata alla tomba del grande ayatollah Khoei, ritenuto una specie di santo e guaritore: accanto erano stati sepolti i suoi due figli brutalmente assassinati.

Il giornalista iracheno che mi accompagnava, Sadiq Sattar al-Husayni, mi fece notare che due delle quattro porte del tempio erano controllate da uomini di Muqtada e da lì era vietato l’ingresso a chiunque: «Il grande ayatollah Alì al-Sistani, il più importante religioso iracheno, ne ha una sola. Un’altra è per i membri anziani dell’hawza, il consiglio del clero. Non c’era dubbio alcuno che qui comanda Muqtada, un mullah di 32 anni che pure non ha nessuna qualifica di alto grado nella gerarchia religiosa». Senza l’aiuto di Sattar, che aveva studiato a Najaf e sapeva come superare le insidie del viaggio da Baghdad, andare da Muqtada sarebbe stato rischioso e anche inutile. 

Febbraio 2014

Il giovane mullah, con il turbante nero, una barba mal coltivata e una tunica larga che non riusciva a nascondere una sagoma intorno al quintale, aveva un’aria svogliata. Erede di una famiglia di ayatollah – il padre, lo zio e due fratelli furono uccisi da Saddam Hussein – Muqtada, sposato con una cugina, senza figli, era trincerato a Najaf, da dove minacciava un jihad (sforzo contro gli infedeli per la causa islamica) contro gli americani se non se ne fossero andati presto dal paese. 

«Ho fatto testamento e comprato la stola di cotone bianco che adorna i defunti – confidò nervosamente – perché americani, saddamisti e terroristi mi vogliono morto». Respirò pesantemente prendendo fiato e fece una lunga tirata: «Odio l’America perché ha importato il terrorismo in Iraq: continuerà a scorrere un fiume di sangue finché ci saranno soldati stranieri. Noi siamo pronti a parlare con i sunniti moderati. Ma ci stiamo anche preparando a una grande battaglia contro i terroristi sunniti e al-Qaida. Loro hanno voluto la guerra distruggendo la moschea di Samarra, dopo che Bin Laden aveva approvato un fatwa per ammazzare gli sciiti. Quella è stata la svolta. Il capo degli ulema sunniti, Haret al-Dhari appoggia al-Qaida e ha impedito la ricostruzione della moschea facendo uccidere tecnici e operai che avevo mandato con i soldi raccolti tra i fedeli di Najaf e Kerbala. È amico dei sauditi, sempre pronti a finanziare i terroristi sunniti. Sono stato per un giro diplomatico nei Paesi arabi: ho constatato che, tranne qualche eccezione, sono tutti nostri nemici».

Muqtada contava nel 2006 su migliaia di uomini armati, questa era la sua massa di manovra più temibile, ma aveva anche ottenuto la quota maggiore dei seggi nel blocco sciita vincitore delle elezioni del 2005. Tra rivolte e battaglie, l’ultima quella di Bassora nel 2008, Muqtada al-Sadr non è però riuscito nell’obiettivo di conquistare la leadership sciita e del paese, ed è stato convinto dall’Iran a rinfoderare le armi e a usarle soltanto per costituire le milizie anti-Califfato. Ma le roccaforti del suo potere restano ancora oggi, nel 2016, intatte.

Secondo Sattar, che conosceva bene le trame dei mullah iracheni per averli a lungo frequentati, «Muqtada voleva diventare il leader dell’Iraq mettendo in secondo piano anche l’autorità dell’Hawza, l’alto consiglio religioso di Najaf composto da quattro Grandi Ayatollah, l’iracheno Said al-Hakim, l’iraniano Alì al-Sistani, il più prestigioso, Mohamed Seyed Fayad, afghano, e Bashir al-Najafi, di origini indiane. Come vedi – sottolineava Sattar – il consiglio di Najaf è una sorta di “multinazionale” sciita: per questo Muqtada insiste sul nazionalismo iracheno come carattere distintivo del suo movimento». Un obiettivo molto ambizioso, avversato, oltre che dagli americani, dai sunniti e dagli stessi sciiti come la famiglia Hakim, eterni rivali degli al-Sadr. 

La posta in gioco è sempre il potere, il prestigio religioso e politico con la strumentalizzazione della fede settaria, il controllo delle finanze del clero e, soprattutto, del petrolio del Sud, il carburante indispensabile con i petrodollari dei grandi progetti politici di questa parte del Medio Oriente. 

Ma la «mezzaluna sciita» avrebbe potuto scrivere una storia diversa da quella già conosciuta in questa regione, non in Iraq, forse, ma in Libano, dove un giorno arrivò Musa al-Sadr. 

Come svanisce un ayatollah

Ci sono molti modi di essere un al-Sadr. Nell’estate del 2006, mentre infuriava la battaglia tra gli Hezbollah libanesi e Israele, vado a Tiro. L’ufficio di Fatima alla Fondazione dell’imam Musa al-Sadr è un accampamento. Fatima sta raccogliendo gli aiuti, fa una lista delle persone scomparse e ospita come può i bimbi senza genitori e con le famiglie divise. Non ha tempo per rispondere a domande ma invoca un sostegno, un aiuto di qualunque tipo. L’emergenza in Medio Oriente non finisce mai: ai profughi di allora in Libano si sono aggiunti quelli dalla Siria, un milione su una popolazione di 4,2 milioni di persone. 

La foto dell’imam, scomparso in Libia a 50 anni, si trova ovunque a Tiro: fu qui che il religioso iraniano cominciò la sua attività pubblica. Il partito da lui fondato, Amal, “la speranza”, qui vince ancora regolarmente le elezioni municipali battendo gli Hezbollah di Nasrallah. Colto, elegante, ammantato del fascino dei Seyed, i discendenti del sangue di Maometto, Musa al-Sadr arrivò nel Jabal Amil, il Sud del Libano dove la sua famiglia aveva vissuto fino al xviii secolo, alla fine degli anni Cinquanta: con lui iniziò il risveglio degli sciiti, il loro riscatto morale, economico.

La sorella dell’imam Musa al-Sadr, Robabeh, oggi dirige la Fondazione, istituita nel 1960, che sostiene con borse di studio 1200 studenti, assiste migliaia di orfani e ogni anno cura oltre 50 000 persone. È aiutata dal figlio, Rida Charafeddine, laureato all’Università americana e manager della Byblos Bank, esponente di una generazione di sciiti moderna, emancipata. E non in contraddizione con gli insegnamenti di Musa al-Sadr. Il turbante nero di al-Sadr, frenetico viaggiatore, non esitava a corteggiare politici arabi, intellettuali cristiani e sunniti, uomini d’affari e banchieri, per sostenere la causa sciita.

«Prima della partenza per il suo ultimo viaggio a Tripoli lo aiutai a preparare una valigia piena di libri, c’erano anche cassette di musica persiana», ricorda la sorella Robabeh al-Sadr Charafeddine. E anche una lettera, mai spedita, a Khomeini. 

Due giorni prima della partenza da Beirut per la Libia Musa al-Sadr aveva inviato un articolo a “Le Monde” sulla lotta in Iran tra lo shah e l’opposizione religiosa degli ayatollah. L’Iran era la sua patria e naturalmente si sentiva coinvolto in prima persona, come persiano ed esponente religioso di primo piano. «In Iran – scrisse anticipando i tempi – è in corso un’autentica rivoluzione che non è di destra o di sinistra ma di un intero popolo nella sua diversità, vi partecipano studenti, lavoratori, intellettuali e uomini di religione. Il leader della rivoluzione,– aggiunse – il grande imam Khomeini, esprime le dimensioni nazionali, culturali e libertarie di questa rivoluzione». Fu un giudizio influente che pesò successivamente anche in Occidente sulla prospettiva con cui vennero valutati gli eventi che travolsero dopo qualche mese l’Iran e portarono alla fuga dello shah: Khomeini tornò trionfalmente in Iran il primo febbraio 1979.

Ma forse l’imam Musa pagò soprattutto un’intervista che diede a Tripoli due giorni prima di scomparire: è l’ipotesi, piuttosto fondata, che avanzava qualche anno fa Fouad Ajami, celebre studioso della politica araba e profondo conoscitore delle vicende di al-Sadr. Musa al-Sadr sosteneva sul giornale kuwaitiano “Al Nahda” che era venuto il momento di trattare con Israele: per dare la caccia ai palestinesi dell’Olp lo stato ebraico aveva appena invaso il Libano del Sud uccidendo un migliaio di sciiti e provocando l’esodo di altri 250 000. «Gli sciiti – dichiarò Musa al-Sadr – avevano perso le loro case, la loro terra e molte vite: forse avrebbero potuto evitarlo se avessero accettato di collaborare con Israele». Parole dette allora che probabilmente ancora oggi possono suonare come una condanna a morte per un leader musulmano agli occhi dei radicali: allora dominava il “fronte del rifiuto” di ogni negoziato con gli israeliani e il Colonnello libico Gheddafi insieme alla Siria degli al-Asad ne faceva parte. 

La sorella Robabeh mi raccontò la sua versione della storia, assai interessante: «Israele aveva invaso il Libano meridionale e rifiutava di ritirarsi secondo la risoluzione 425 dell’Onu. Mio fratello riteneva fosse suo dovere informare i leader arabi della situazione di crisi politica e umanitaria. Si recò quindi in Siria, Giordania, Arabia Saudita, Algeria, per chiedere una conferenza araba sul Sud del Libano. Al termine di un colloquio durato quattro ore con Houari Boumèdiène, il presidente algerino gli consigliò di fare rotta sulla Libia da Gheddafi: «Il mio fratello libico – disse Boumèdiène – ha informazioni sbagliate sulla situazione libanese». Fu così che cominciò la trattativa per il suo viaggio a Tripoli: si accordarono per il 25 agosto ma Musa al-Sadr avvertì i libici che sarebbe dovuto partire comunque il 1° settembre per una visita alla moglie che doveva essere operata in un ospedale di Parigi. Scomparve cinque giorni dopo la partenza ma in tutto il periodo che restò a Tripoli non abbiamo mai ricevuto da lui nessuna telefonata o notizia, neppure dai suoi compagni di viaggio. Un comportamento davvero insolito per l’imam ma anche per Badreddin, il giornalista che lo accompagnava. Io credo che Gheddafi fosse ostile alle posizioni politiche di Musa al-Sadr e soprattutto al suo piano di avviare trattative con Israele».

La sparizione di Musa al-Sadr

La scomparsa di al-Sadr è una vicenda controversa che riaffiora continuamente. L’imam arrivò nella capitale libica il 25 agosto del 1978 insieme a due compagni di viaggio, un religioso, lo shaykh Muhammad Yakoub, e un giornalista Abbas Badreddin, direttore dell’agenzia di notizie libanese: fu visto per l’ultima volta il 31 agosto in un hotel di Tripoli, Al Shati, da cui uscì verso mezzogiorno. Incontrando una delegazione di libanesi nella lobby affermò che stava andando a un appuntamento con Gheddafi. Secondo i libici invece aveva lasciato la capitale proprio quel giorno con un volo Alitalia diretto a Roma. Ma in Italia arrivò soltanto la sua valigia depositata all’Holiday Inn da due agenti di Gheddafi che misero sul letto della sua camera anche il mantello scuro dell’imam. 

Dopo la caduta di Gheddafi nel 2011, venne fuori che negli anni Ottanta i servizi segreti italiani, per mantenere buoni rapporti con il raìs libico, avevano avallato la versione del regime secondo il quale Musa al-Sadr nell’estate del 1978 si era volatilizzato durante una tappa a Roma. Ma nessuna testimonianza, né del personale dell’Alitalia né di quello dell’Holiday Inn confermava questa versione dei fatti. 

Nell’autunno del 2015 si cercavano ancora le sue tracce. Uno dei figli di Gheddafi, Hannibal, si era rifugiato a Damasco ma in un viaggio a Beirut venne arrestato dagli Hezbollah che lo interrogarono con metodi brutali sulla fine di Musa al-Sadr per poi consegnarlo controvoglia alla magistratura libanese in un momento politico delicato in cui si doveva decidere il candidato cristiano alla carica di presidente. Hannibal accusò Jallud, il numero due del regime libico, di aver fatto scomparire l’imam al-Sadr. La storia e il mito dell’imam scomparso in tutti questi decenni non si sono mai offuscati e gli sciiti non smettono di cercare la verità.

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Attivismo turco nel mondo arabo: una partita energetica e strategica https://ogzero.org/attivismo-turco-nel-mondo-arabo-una-partita-energetica-e-strategica/ Sun, 29 Mar 2020 14:58:35 +0000 http://ogzero.org/?p=40 All'arabizzazione forzata del Rojava negli intenti di Erdoğan, attivo anche in Libia, si contrappongono le affermazioni di Bashar al Assad, che lo giudica un invasore, forse pensando che il padre Hafiz aveva già operato un'arabizzazione della regione ai danni dei curdi; la spartizione della Siria con la fine del decennio si è completata, mentre due fazioni simili si contendono il potere in quella che era la Libia, di nuovo internazionalizzando la guerra per procura, con precisi appoggi dagli uni o dagli altri. La presenza russa condiziona e indirizza i protagonisti di entrambi i campi libici, come già in Siria.
L’accordo intercorso tra Erdoğan e Serraj per spartirsi il petrolio del Mediterraneo e le minime reazioni internazionali a questo abuso dimostrano la dipendenza di ogni nazione dalle risorse dei territori sottoposti a rivolgimenti geopoliticamente strategici, per cui ciascuno si mantiene libero di saltare sul giacimento del vincitore; solo la Grecia ha espulso l’ambasciatore turco, evidenziando la debolezza europea. Ma cosa si può immaginare in trasparenza dietro a questa situazione? in quale contesto dei due paesi si va a inserire?
Questo bel cortocircuito che coinvolge l’intero scacchiere mediorientale vede sempre in controluce il profilo di Putin, che spedisce truppe (il famigerato contingente paramilitare Wagner) e smuove alleanze contrapposte. Allargando il campo ai molti motivi di scontro, alleanze e affinità religiose (piegate a fare da foglia di fico per gli interessi geopolitici): se da un lato ci sono i Fratelli Musulmani, che Erdoğan appoggia dovunque, dall’altro lato c’è l’Egitto di Al-Sisi che con un golpe ha cacciato proprio il governo islamista eletto che sostiene un governo di Bengasi ufficialmente laico, ma finanziato dai wahaabiti sauditi, quanto Tripoli si avvale delle milizie jihadiste di Misurata. Così l’area mesopotamica torna ad apparentarsi con quella libica: gli strumenti, le strategie, gli interessi e i meccanismi messi in atto sono riconducibili a una medesima regia globale?

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Si è conclusa l’offensiva della Turchia nel Nord della Siria: le milizie curde sono state abbandonate dagli Usa di Trump che le aveva utilizzate come una fanteria contro il Califfato e il posto dei militari americani è stato preso dalla Russia e dall’estercito siriano di Bashar al-Assad mentre gli Stati Uniti uccidevano il capo dell’Isis al-Baghdadi al confine turco-siriano. Con il successivo incontro tra il presidente turco Erdoğan e quello americano Trump veniva sanzionato questo stato di cose, assai fluido e incerto, ma anche inviato un messaggio all’Europa e alla Nato che apparivano ai margini delle decisioni prese dagli Stati Uniti e dagli altri protagonisti della regione. 

La Turchia di Erdoğan nel mondo arabo ne ha indovinate poche in questi anni e forse anche per questo si aspettava, prima o poi, una rivincita, sia pure limitata alla repressione dei curdi. 

L’attenzione turca si sta da tempo concentrando anche sul Nordafrica e la Libia dove Arabia Saudita ed Emirati, insieme all’Egitto del generale al-Sisi, sostengono il capo della Cirenaica Khalifa Haftar. Mentre Ankara, con il Qatar e in parte l’Italia, appoggia il governo di Tripoli, la città di Misurata e la Fratellanza Musulmana. 

In realtà la Turchia ha già subito nel quadrante arabo disfatte da cui non è ancora uscita. La maggiore è stata in Siria dove Erdoğan, insieme alle monarchie del Golfo e con l’approvazione occidentale, ha appoggiato i gruppi jihadisti per far fuori Bashar al-Assad e il regime baathista di Damasco. L’altra è stata la caduta dei Fratelli Musulmani del presidente Mohammed Morsi a opera del colpo di stato di al-Sisi nel 2013, una ferita lacerante. Qui Arabia Saudita ed Emirati, diventati avversari dei Fratelli Musulmani dopo averli usati per decenni, hanno sostenuto e continuano a finanziare al-Sisi in una convergenza di interessi tra l’America di Trump, Riad e Abu Dhabi, determinati a eliminare l’islam politico ritenuto una minaccia alla stabilità delle monarchie assolute del Golfo. Questo asse è stato denominato “Nato araba”, dovrebbe coinvolgere l’Egitto e soprattutto ha come “guardiano” esterno Israele. 

Gli effetti di questo quadro di alleanze ha avuto riflessi sull’atteggiamento della Turchia nel mondo arabo ma anche nell’Egeo dove si gioca la partita del gas con la pipeline East-Med che secondo l’accordo 2017 firmato da Israele, Italia, Grecia e Cipro dovrebbe attraversare l’Egeo per sfruttare le risorse di gas di questi paesi ma anche dell’Egitto. Una partita energetica e strategica cui la Turchia è ipersensibile e attiva. 

La sconfitta in Siria è stata arginata dai rapporti con la Russia, con la quale Erdoğan era stato sull’orlo della guerra dopo l’abbattimento nel novembre 2015 di un caccia Sukhoi. Ma anche dalle relazioni più intense intrattenute con la Repubblica islamica dell’Iran che ha combattuto a fianco di Assad e in Iraq insieme alle milizie sciite e agli hezbollah libanesi. 

Un paradosso: per frenare l’ascesa delle milizie curde schierate contro l’Isis, ritenute da Ankara strette alleate del Pkk, la Turchia, membro storico della Nato dal 1953, ha dovuto scendere a patti, oltre che con gli Usa, con Putin e con gli ayatollah. Non è un caso che quando si è verificata la crisi tra le monarchie del Golfo e il Qatar nel 2017, scatenata proprio dal sostegno dei qatarini ai Fratelli Musulmani, con l’assedio economico e diplomatico guidato da sauditi, siano venuti in soccorso di Doha sia i turchi (che in Qatar hanno un consistente contingente militare) sia gli iraniani.

Ma da dove vengono i rapporti dell’attuale dirigenza turca con i Fratelli Musulmani? In realtà tra turchi e arabi c’è sempre stata una certa diffidenza. Il problema è insito nella doppia identità turca, radicata contemporaneamente in due mondi diversi, quello occidentale – ovvero il continente e la civiltà europea – e quello asiatico, di cui il patrimonio culturale islamico-arabo è parte inseparabile.

È dalla sua nascita come repubblica, nel 1923, che la Turchia vive il conflitto ideologico, culturale e politico che deriva da questa doppia origine: la Turchia di Erdoğan ha tentato di trasformarla in un asset per allargare la sua influenza politica ed economica al Medio Oriente.

Vediamo come si è arrivati al legame tra Turchia e Fratelli Musulmani e quali sono state le conseguenze. La fine dell’Impero Ottomano e la dissoluzione, dopo la Prima guerra mondiale, del Califfato da parte di Mustafa Kemal Atatürk aprono una crisi nel mondo musulmano: la prima risposta islamica è la creazione del 1928 in Egitto da parte di Hassan al-Banna dei Fratelli Musulmani. 

L’islam, dice al-Banna, è un ordine superiore e totalizzante che deve regnare incontrastato sulle società musulmane perché è al tempo stesso dogma e culto, patria e nazionalità, religione e stato, spiritualità e azione, Corano e spada.

L’obiettivo di al-Banna, del quale alla vigilia della caduta di Mubarak nel 2011 incontrai al Cairo Gamal, l’anzianissimo fratello minore, è imporre la supremazia della sharia, la legge islamica, con un processo di integrazione tra gli stati islamici che deve sfociare nell’abolizione delle frontiere e nella proclamazione del Califfato. Insomma l’Isis, che proclamò con al-Baghdadi il Califfato a Mosul nel 2014, non era poi così lontano dall’ideologia dei Fratelli Musulmani.

Le origini del rapporto della Turchia con i Fratelli Musulmani risalgono ancora agli anni Trenta e Quaranta e si svilupparono negli anni Settanta quando le organizzazioni islamiste vennero usate per contrastare l’ideologia comunista.

Il primo “Fratello” turco eminente è proprio Necmettin Erbakan – come confermò pubblicamente nel 1996 uno dei leader dei Fratelli Musulmani egiziani – capo del movimento nazionalista religioso Milli Gorus che poi diventerà primo ministro, mentore di Erdoğan, e che sarà sbalzato dal potere da un “golpe bianco” dei militari.

Ma c’è una storia che quasi nessuno racconta legata alla confraternita della Naqshbandyya, una tariqa molto antica, che vantava la sua origine dai discendenti di Maometto e fu in seguito associata al grande mistico del xiv secolo Muhammad Baha al-Din al Naqshbandi, da cui ha preso la denominazione.

I Naqshbandi, detti anche Naksibendi in Turchia, hanno avuto un ruolo chiave nelle sotterranee solidarietà della politica mediorientale. In Turchia la confraternita dei Naksibendi nel dopoguerra trova il suo rinnovatore nell’imam Mehmet Zahid Kotku. è lui a trasformare il sonnolento ordine della Naqshbandyya in una vera scuola socio-politica: sono stati seguaci di Kotku il presidente Turgut Özal, che fece diverse aperture ai Paesi arabi, il premier islamista Erbakan e lo stesso presidente Erdoğan, poi capo del partito musulmano Akp.

Izzat Ibrahim al-Douri, vice di Saddam Hussein, era anche lui un membro della confraternita Naksibendi e furono queste credenziali religiose a renderlo affidabile anche gli occhi del Califfato e del suo capo Abu Baqr al-Baghdadi che si vantava di essere membro di questa tariqa. Non stupisce quindi che i baathisti iracheni abbiano dato una mano importante all’ascesa dello Stato Islamico di al-Baghdadi nel Levante, come dimostrava il messaggio caloroso rivolto agli jihadisti con cui nel 2014 era riaffiorato alle cronache Izzat Ibrahim al-Douri dopo un decennio da imprendibile latitante tra Siria e Iraq.

Fu un altro Fratello Musulmano, Khaled Meshal, capo di Hamas e allora in esilio a Damasco (e poi in Qatar), a convincere nel 2011 il ministro degli Esteri turco Davutoğlu e lo stesso Erdoğan che la rivolta contro al-Assad avrebbe avuto successo.

Fu allora che si progettò di aprire l’“autostrada del jihad” dalla Turchia alla Siria che portò migliaia di jihadisti ad affluire nel Levante arabo con gli effetti devastanti che conosciamo.

Tutto questo lo hanno scritto i giornalisti turchi, lo hanno visto i cronisti che hanno seguito sul campo le battaglie siriane e lo racconta anche in un’intervista in carcere a “Homeland Security” l’“ambasciatore” del Califfato Abu Mansour al-Maghrabi, un ingegnere marocchino che arrivò in Siria del 2013: 

Il mio lavoro era ricevere i foreign fighters in Turchia e tenere d’occhio il confine turco-siriano. C’erano degli accordi tra l’intelligence della Turchia e l’Isis. Mi incontravo direttamente con il Mit, i servizi di sicurezza turchi e anche con rappresentanti delle forze armate. La maggior parte delle riunioni si svolgevano in posti di frontiera, altre volte a Gaziantep o ad Ankara. Ma i loro agenti stavano anche con noi, dentro al Califfato.

L’Isis, racconta Mansour, era nel Nord della Siria e Ankara puntava a controllare la frontiera con Siria e Iraq, da Kessab a Mosul: era funzionale ai piani anticurdi di Erdoğan e alla sua ambizione di inglobare Aleppo.

E quando il Califfato, dopo la caduta di Mosul, ha negoziato nel 2014 con Erdoğan il rilascio dei diplomatici turchi ha ottenuto in cambio la scarcerazione di 500 jihadisti per combattere nel Siraq. 

La Turchia proteggeva la nostra retrovia per 300 chilometri: avevamo una strada sempre aperta per far curare i feriti e avere rifornimenti di ogni tipo, mentre noi vendevamo la maggior parte del nostro petrolio in Turchia e in misura minore anche ad al-Assad. 

Mansour per il suo ruolo era asceso al titolo di emiro nelle gerarchie del Califfato e riceva i finanziamenti dal Qatar. 

Adesso in gran parte i reduci dello jihadismo, di al-Qaida e dell’Isis, che hanno avuto il sostegno della Turchia e di alcune monarchie del Golfo sono asserragliati a Idlib, nel Nord siriano, a poche decine di chilometri dal confine turco. La loro via di uscita è possibile con un accordo tra la Turchia e la Russia di Putin che ha appena fornito i suoi missili S-400 ad Ankara sfidando la Nato. 

E ora gli jihadisti sconfitti tornano ancora utili al presidente turco. Una ricomparsa dell’Isis in Siria sarebbe un grave colpo anche per Trump ma una nuova carta da giocare per Mosca, Assad e l’Iran. Ecco perché la guerra mondiale a pezzi della Siria non finisce mai e la Turchia ha un ruolo decisivo sulla pace e la guerra nella regione.

Postfazione di Alberto Negri a L’oro della Turchia, di Giovanna Loccatelli, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

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