Murat Cinar | Gli autori che collaborano con OGzero https://ogzero.org/autore/murat-cinar/ geopolitica etc Fri, 26 Apr 2024 17:49:35 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 L’equilibrista di Ankara sul filo del conflitto mediorientale https://ogzero.org/lequilibrista-di-ankara-sul-filo-del-conflitto-mediorientale/ Thu, 25 Apr 2024 20:18:45 +0000 https://ogzero.org/?p=12587 Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati […]

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Le mosse strategiche nella regione Mena sono diventate più frenetiche dagli Accordi di Abramo in poi, fino alla reazione di Hamas del 7 ottobre, apparentemente avventata ma mirata a legittimarsi come movimento e contrastare l’accelerazione del governo Netanyahu volta a cancellare la presenza palestinese nella regione. I sei mesi di pantano genocida non sono stati risolutivi per lo Stato ebraico e così si assiste al particolare dinamismo da parte di molti attori locali, in particolare di Erdoğan.
La diplomazia turca e il presidente stesso hanno intrapreso un tourbillon di incontri presso i vertici degli stati che compongono la regione mediorientale, proponendosi come mediatore, cercando di raccogliere il testimone lasciato cadere dal Qatar, logorato dal boicottaggio israeliano. Ma soprattutto Erdoğan ha individuato nel conflitto che si vuole estendere dal confronto tra Stato ebraico e Repubblica islamica la nuova centralità dell’Iraq, controllato da Teheran attraverso una ragnatela di accordi con la complessità delle formazioni e delle comunità che abitano il territorio iracheno; insinuandosi nei contrasti interni, il presidente turco mira al petrolio di Erbil e a cacciare il Pkk dai monti del Kurdistan iracheno… Murat Cinar dispiega la sottile tela che si va tessendo, in particolare ricostruendo il ruolo turco e l’avvicinamento di Hamas (evidentemente più rassicurato dall’abbraccio di Ankara – contemporaneamente paese Nato e rivale di Israele – che non dalle petrocrazie arabe) sia nella complessa carneficina della guerra ormai esportata nel resto dei paesi all’interno dei quali le presenze filoiraniane dettano la politica, sia nella strategia per inserirsi nel controllo del territorio e dell’energia irachena, comprandosi Baghdad ed Erbil. E di nuovo, come spesso ci ha raccontato Cinar, spuntano gli oleodotti di Barzani [a proposito: l’immagine in copertina è la fortezza di Erbil pavesata a festa per l’arrivo del presidente turco]  e le dighe su Tigri ed Eufrate, le acque del Medioriente…


Erdoğan è vicino a tutti

 

“Da oltre cento anni, le acque nel Medioriente non trovano pace”, questo è un dato certo. Tuttavia, proprio nelle ultime settimane, siamo testimoni di un fenomeno straordinario. Un fenomeno che coinvolge diversi attori, ma tra essi uno spicca particolarmente: la Turchia.

Dal 7 ottobre fino a oggi, le relazioni tra il partito al governo in Turchia, l’Akp, e l’organizzazione armata Hamas, sono diventate una questione internazionale, chiara e trasparente. L’esponente più autorevole dello stato turco e del partito al potere da oltre vent’anni, ovvero il presidente della Repubblica, dopo alcune settimane di silenzio dal 7 ottobre, ha deciso di comunicare la sua posizione: «Hamas è un’organizzazione di patrioti, non un’organizzazione terroristica». Così, dopo l’Iran, la Turchia è diventata il secondo paese al mondo a esprimere un avvicinamento così netto a Hamas.


Una posizione che entra in contraddizione con i partner europei, con gli alleati Nato, nonché con la Lega Araba e l’Organizzazione della Cooperazione Islamica. In fondo, non si tratta di una novità assoluta. La linea politica ed economica rappresentata dall’Akp è sempre stata vicina ai movimenti fondamentalisti come i Fratelli Musulmani e a una serie di formazioni armate religiose nel Medio Oriente. Inoltre Hamas ha sempre trovato accoglienza, sostegno e riconoscimento presso l’Akp e sotto l’ala protettiva del presidente della Repubblica di Turchia. Tuttavia, questa esposizione così netta, in pieno conflitto, non ha provocato reazioni, sanzioni o embarghi da parte dell’UE e/o della Nato. Poche settimane dopo, nel mese di dicembre, il mondo ha appreso, grazie alle inchieste giornalistiche di Metin Cihan, che persino per Israele non costituiva un grande problema, poiché Tel Aviv continuava a fare acquisti presso aziende turche, incluse quelle statali.

Affannosamente al centro di ogni possibile accordo

Nel mentre Ankara ha tentato diverse volte di assumere il ruolo di “mediatore”, anche se finora senza successo; tuttavia, oggi sembra che questi sforzi stiano finalmente portando dei risultati. Il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha incontrato in Qatar il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, proprio quando Doha stava per abbandonare il suo ruolo di mediatore. Infatti il primo ministro del Qatar, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, il 16 aprile aveva comunicato a Fidan che il suo governo stava per rinunciare. Tuttavia il tentativo del Ministro turco sembra poter ottenere dei risultati positivi. Le dichiarazioni di Fidan ci offrono spunti di riflessione su una serie di scenari:

«Come ho costantemente riferito ai nostri alleati occidentali, Hamas è a favore di uno stato palestinese basato sui confini del 1967 e, una volta creato, è disposto a rinunciare alle armi e a intraprendere la via della politica parlamentare», ha affermato Fidan. Tale dichiarazione prevede anche il riconoscimento di Israele da parte di Hamas, la possibilità di porre fine al conflitto armato, il rilascio degli ostaggi e lo scambio di detenuti politici. Si tratterebbe dell’inizio di una nuova era: «Questo segna il cammino verso la creazione di uno stato palestinese», ha concluso Fidan.

Quando e perché viene fuori una dichiarazione del genere?

Potrà una comunità fondarsi su un altro genocidio come quello di Gaza senza essere una caserma come lo Stato ebraico… o la Repubblica turca?

Senza dubbio il massacro a Gaza ha esaurito innanzitutto i principali protagonisti. Ci troviamo di fronte a un governo sionista, rappresentato da Benjamin Netanyahu, che sta perdendo sempre più il sostegno interno. Da mesi ormai, le strade di Israele sono attraversate da manifestazioni che chiedono le dimissioni di Bibi. In realtà, non è una novità, considerando che nel 2023 Israele aveva già vissuto un lungo periodo di proteste contro il governo per le sue proposte di cambiamento radicale del sistema giudiziario. Oggi Netanyahu è impegnato in una guerra che non sta producendo risultati. Gli ostaggi sono ancora in mano a Hamas, molti sono morti (anche a causa dell’esercito israeliano), e il governo israeliano continua a perdere sostegno a livello internazionale. Le critiche severe che giungono da Washington non sono sporadiche, soprattutto attraverso il più importante esponente politico degli Stati Uniti, ovvero Biden, che tra pochi mesi dovrà affrontare delle elezioni cruciali, dove la situazione israeliana avrà sicuramente un ruolo di rilievo.

Sintonie politico-militari tra leader nazionalisti-identitari

Quindi l’avvicinamento di Ankara a Hamas e il tentativo di portarla eventualmente al tavolo dei negoziati, ottenendo il riconoscimento dello Stato di Israele, la creazione di uno stato palestinese indipendente e il rilascio degli ostaggi, sicuramente portano all’Akp un notevole vantaggio politico. Biden si libera dalla pressione politica e mediatica avvicinandosi alle elezioni, mentre Ankara appare come un mediatore con un canale privilegiato verso un gruppo armato che ha legami diretti solo con l’Iran, attualmente molto isolato.
Infatti, proprio in questi giorni il presidente della Repubblica di Turchia ha paragonato Hamas alla formazione armata che ha fondato la Turchia, la Kuva-i Milliye (anche se con profili ideologici decisamente diversi). Lo stesso parallelo era stato tracciato dallo stesso presidente per l’Esercito Libero Siriano nel 2018, un gruppo di jihadisti che aveva supportato le forze armate turche nelle loro operazioni in Siria. Oggi Erdoğan sembra cercare di presentarsi nuovamente come l’unico intermediario per le organizzazioni terroristiche, a servizio della Nato, dell’Europa e persino di Israele. Non va dimenticato il tentativo di costruire un rapporto diretto con i Talebani nel 2021, quando Erdoğan disse:

«Abbiamo un pensiero ideologico molto simile».

Questo avvenne proprio mentre il mondo era sconvolto dalla fuga degli americani dall’Afghanistan e il ritorno dei Talebani al potere.

Tattiche e affari turchi; accoglienza senza schierarsi

Quindi Hamas rappresenta una nuova opportunità per Ankara, forse anche per garantire un certo sostegno a Bibi. Nonostante gli attriti e le dichiarazioni aspre, Erdoğan e Netanyahu hanno sempre mantenuto un rapporto commerciale molto proficuo, in costante crescita. Anche durante il conflitto, secondo il report dell’Istituto di Statistica turco, Tuik, il volume degli scambi commerciali tra Ankara e Tel Aviv è aumentato del 20%. Tra i prodotti venduti troviamo tutto il necessario per sostenere l’occupazione e l’invasione. Chi altro potrebbe offrire un aiuto così significativo a Netanyahu, in difficoltà al punto da tentare di coinvolgere persino l’Iran in una guerra?

Sì, l’accoglienza diretta e il sostegno a Hamas da parte di Ankara avvengono proprio mentre nel mondo crescono le preoccupazioni riguardo a una possibile guerra tra Iran e Israele.

Tattiche e affari iraniani, intrecci speculari con quelli israeliani

In questo momento di difficoltà interna e internazionale il governo israeliano decide di colpire le postazioni diplomatiche iraniane presenti in Siria, il 1° aprile. Ovviamente sarebbe stato assurdo pensare che l’Iran non avrebbe reagito. Ma in che modo e con quali tempi?

Teheran ha atteso ben due settimane prima di reagire. In Israele l’ansia era palpabile: si sono verificate lunghe code nei supermercati, la popolazione era pronta per la guerra e le critiche nei confronti di Netanyahu si erano intensificate. Tuttavia Teheran, considerando la propria situazione economica e l’instabilità politica interna da anni, non poteva permettersi una vera guerra. Alla fine sono stati lanciati più di 300 razzi/droni verso Israele, ma nessun bersaglio civile è stato colpito e solo una persona è rimasta ferita. Era prevedibile che Tel Aviv avrebbe neutralizzato questo attacco con il suo avanzato sistema di sicurezza? Forse sì. Allora, a cosa è servito tutto ciò?
Innanzitutto Teheran non è rimasto in silenzio dopo l’attacco subito, ha dimostrato al mondo che in qualche modo avrebbe potuto tentare di colpire Israele. Dopo il 7 ottobre, e per la prima volta dopo anni, uno stato ha cercato di colpire Israele mentre tutti i paesi del Golfo osservavano ciò che accadeva a Gaza. Israele ha fermato l’attacco grazie ai suoi alleati, non da solo. In primo luogo la Giordania, poi le forze americane e inglesi hanno dato una mano a Tel Aviv. Quindi, per il governo israeliano, questa non è una vittoria ottenuta da solo.

Inoltre per Israele potrebbe essere stato un tentativo, forse, di spostare l’attenzione da Gaza a Teheran. Forse cercava di coinvolgere gli Stati Uniti in questa guerra, o di ottenere nuovi alleati in un eventuale conflitto futuro. Alla fine della giornata, chi non ha qualche problema con l’Iran? Tuttavia, secondo fonti dell’agenzia di stampa Axios, Bibi non ha ottenuto il sostegno che si aspettava da Biden. «You got a win. Take the win» sarebbe stato il riassunto della posizione del presidente statunitense. In altre parole: “mo’ basta, non ti sostengo più”. Ora Israele molto probabilmente si sta preparando a colpire l’Iran. Non sappiamo ancora in che modo, ma Tel Aviv non è l’unico a cercare di mettere in discussione la presenza dell’Iran in quella zona in questi giorni. Anche Ankara sta cercando di eliminare Teheran dall’Iraq.

Affari e opportunità, rimestando nel caos iracheno

Lorenzo Forlani ci aiuta a inquadrare la mezzaluna sciita: “No “Mena” Land: lo strame di 30 anni di proxy war in MO”.

Erdoğan e l’ossessione anticurda

Pochi giorni prima delle elezioni amministrative tenutesi in Turchia il 31 marzo, una significativa delegazione turca si era recata a Baghdad, ottenendo un risultato di rilievo grazie alla firma di un accordo storico. Con questo accordo, il governo iracheno esprimeva la sua solidarietà ad Ankara nella “lotta contro il Pkk” e prometteva di impegnarsi anche militarmente in questa missione. Oggi è giunto il momento di valutarne i risultati.

Dodici anni dopo il presidente della Repubblica di Turchia si è recato in Iraq il 22 aprile per incontrare il governo centrale a Baghdad e successivamente gli esponenti dell’Amministrazione autonoma del Kurdistan a Erbil. Quali sono gli elementi in gioco e qual è il coinvolgimento dell’Iran?
Uno dei principali problemi che Baghdad fatica ad affrontare è quello economico. Infatti, nel mese di marzo di quest’anno, l’Iraq ha avviato il progetto della “Strada dello Sviluppo”, che prevede il coinvolgimento diretto della Turchia per una serie di prodotti, sfruttando anche la sua posizione geografica strategica. La “Development Road” sarebbe importante anche per diventare un’alternativa per una serie di paesi e aziende occidentali che negli ultimi tempi hanno incontrato difficoltà nel Mar Rosso, una zona controllata da Ansar Allah (Houthi), cioè dall’Iran. Quella formazione armata che spesso impedisce alle navi commerciali di attraversare la zona. Quindi si tratta di un progetto che avrebbe l’ambizione, almeno in parte, di minare il potere politico ed economico di Teheran. Naturalmente l’attuazione del progetto renderà la Turchia un attore importante, che sembra voler approfittare di questa occasione per introdurre ulteriori elementi nel gioco.

E l’ambigua ossessione antiraniana per conto dell’energivoro Occidente

Infatti tra i temi discussi da Erdoğan durante la visita in Iraq c’è anche il consolidamento dell’alleanza diretta per combattere il Pkk, una formazione armata definita “terroristica” dalla Turchia, con alcune sue basi e numerosi vertici situati proprio in Iraq. In questo contesto è importante ricordare che da circa tre anni, durante gli incontri tra Ankara e Baghdad, si discute anche di una possibile collaborazione per eliminare la formazione armata Hashdi Shabi dal territorio iracheno. Questo rappresenterebbe un nuovo gesto contro l’Iran, dato che l’organizzazione in questione è stata costantemente sostenuta e armata da Teheran ed è stata sempre considerata una “minaccia per la sicurezza nazionale” da parte di Baghdad. Pertanto unire la lotta contro il Pkk a quella contro l’Hashdi Shabi potrebbe diventare una missione comune per questi due paesi confinanti.

Quindi, per Ankara, l’attuazione del progetto “Development Road” rappresenta anche un’opportunità per trasformare Baghdad in un vero alleato nella sua missione di contrastare e forse distruggere il Pkk. Dopo che Baghdad ha definito il Pkk “un’organizzazione terroristica” nel mese di marzo, ora non ci sarebbero più ostacoli per avviare le operazioni militari. È importante considerare che un Iraq sicuro, non soggetto a bombardamenti da parte di nessuno, libero dal conflitto armato tra Pkk e Ankara e infine libero dalla presenza iraniana, consentirebbe a tutte le aziende europee e statunitensi di operare “in pace”. Pertanto l’operazione economica e militare proposta da Ankara non gioverebbe solo ai suoi interessi. Infatti, proprio il giorno dell’arrivo di Erdoğan in Iraq, il portavoce dell’Association of the Petroleum Industry of Kurdistan, Myles Caggins, ha dichiarato ai microfoni del canale televisivo iracheno Rûdaw TV:

«Mi aspetto che Erdoğan convinca i dirigenti iracheni a far giungere il petrolio del Kurdistan al mondo attraverso la Turchia».

Dalla padella della mezzaluna sciita filoiraniana alla brace della fratellanza filoturca?

È indubbiamente importante considerare una serie di dinamiche. In Iraq nel 2025 si terranno le elezioni e nel paese non c’è un consenso politico e/o popolare sulla posizione nei confronti del Pkk e sull’avvicinamento con la Turchia. Per esempio, Bafel Jalal Talabani, leader dell’importante partito politico curdo Puk, spesso dichiara che il Pkk non è il suo nemico. Inoltre, è ancora fresca la condanna subita da Ankara per il commercio petrolifero, definito “scorretto”, con l’amministrazione curda. Nel 2023, Ankara è stata multata di 1,4 miliardi di dollari dalla Icc, la Corte Internazionale di Arbitrato.

Ma evidentemente il presidente turco è stato convincente (forniture militari, sicurezza, risorse idriche, promesse varie…), tanto che il portavoce del governo iracheno, Basim el-Avvadi ha rilasciato una dichiarazione il 25 aprile: «Ai membri del Pkk sarà riconosciuto il titolo da rifugiato politico. L’organizzazione invece sarà definita illegale», un’altra diaspora attende i resistenti curdi; contemporaneamente Hamas può trovare ricovero proprio presso il persecutore del Pkk.

Dighe contro le popolazioni mesopotamiche: preludio a un nuovo focolaio di guerra

Oltre a questa questione ancora aperta c’è anche il problema dell’acqua, che rappresenta un tema cruciale. Secondo l’accordo del 1980 la Turchia è tenuta a gestire correttamente il regime dei fiumi che attraversano i suoi confini e scorrono verso l’Iraq. A causa del riscaldamento globale Baghdad cerca da anni di rinegoziare questo accordo, ma Ankara continua a rimandare la questione. Tuttavia, soprattutto durante l’estate, ciò causa un enorme disagio per l’intera nazione, e l’opinione pubblica è convinta che la Turchia stia usando l’acqua come un’arma contro l’Iraq.

La portata del Tigri e dell’Eufrate nel progressivo inaridimento fino alla foce, grafico tratto da Curdi, di Antonella De Biasi, Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

Dopo l’incontro del 22 aprile è molto probabile che Erdoğan abbia ottenuto risultati significativi non solo dal punto di vista economico, ma anche in vista di un’operazione militare imminente. La sua prossima visita, fissata per il 9 maggio a Washington direttamente con Biden, probabilmente includerà anche l’ottenimento di una sorta di “lasciapassare” in Iraq. Non sarebbe fuori luogo aspettarsi un inizio di guerra entro fine maggio.

Perpetuazione del mondo caoticamente multipolare

Il governo turco è apparentemente molto determinato nel lavoro volto a portare Hamas al tavolo dei negoziati, per ottenere una serie di risultati a breve e lungo termine, sia politici che economici, diretti e indiretti. La fine della guerra probabilmente porterà benefici anche a Benjamin Netanyahu, permettendogli di restare al potere senza doversi dimettere. Quindi in Israele potrebbe rimanere un uomo che, tutto sommato, non ha creato grossi problemi a Erdoğan. Anzi, durante la sua carriera politica, il presidente turco ha beneficiato di un notevole benessere economico, sia per le aziende vicine al suo governo che per quelle della sua famiglia.

In quest’ottica, uno Stato ebraico stabile e una repubblica islamica che non esce dai suoi “confini” e rimane al di fuori del gioco in Iraq permetteranno ad Ankara e ai suoi alleati di continuare a giocare la stessa partita anche nei prossimi anni.

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L’utile curdo per il regime turco https://ogzero.org/lutile-curdo-per-il-regime-turco/ Fri, 05 May 2023 22:52:29 +0000 https://ogzero.org/?p=10941 «Apparato operativo dei poteri globali», così la asservita stampa turca del 6 maggio 2023 accoglie e fa suo l’attacco scomposto del presidente a “The Economist”, perché la testata nella sua copertina definiva le elezioni del 14 maggio “le più importanti del 2023”, con un esplicito endorsement per Kılıçdaroğlu, mettendo in bella evidenza adesivi con su […]

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«Apparato operativo dei poteri globali», così la asservita stampa turca del 6 maggio 2023 accoglie e fa suo l’attacco scomposto del presidente a “The Economist”, perché la testata nella sua copertina definiva le elezioni del 14 maggio “le più importanti del 2023”, con un esplicito endorsement per Kılıçdaroğlu, mettendo in bella evidenza adesivi con su scritto «Erdoğan se ne deve andare».

 

Dopo 20 anni di morsa sul potere in ogni suo aspetto, dapprima graduale (da sindaco di Istanbul fino al terremoto di Izmit) e poi assoluta (dopo Taksim e soprattutto il tentato golpe del 2016), s’indovinano le crepe nel sistema di Erdoğan. Si colgono anche dall’affanno con cui reagisce ai titoli come quelli di “The Economist”, o con cui cerca alleanze in vista dell’appuntamento elettorale, anticipato dal presidente stesso prima che il terremoto producesse uno sconquasso nel suo progetto di perpetuare il suo controllo sul paese e sugli affari che hanno prosciugato le casse del paese, stremato l’economia, prodotto inflazione, arricchendo una sparuta oligarchia fondata sul consenso della provincia confessionale, sulla repressione della stampa ormai monopolizzata, come il settore delle infrastrutture, che per una beffa del destino potrebbe essere travolta dalle macerie del terremoto.


Con un piccolo aiuto dai nostri amici curdi

Le elezioni presidenziali e politiche che si svolgeranno in Turchia il 14 maggio hanno un’importanza storica per una serie di ragioni. Tra queste senz’altro il fatto che la maggior parte dei partiti d’opposizione, per la prima volta, abbiano deciso di indicare un candidato unico. Anche per questo, ma non solo, i sondaggi parlano del secondo turno per le presidenziali e di un’avanzata significativa dei partiti di opposizione in quelle politiche. Chiaramente queste dinamiche fanno sì che la coalizione al governo si metta alla ricerca di nuovi alleati a casa e rafforzi quelli all’estero. In questa ricerca è importante il voto della popolazione curdofona presente in Turchia e fuori dai confini.

Il reclutamento di HüdaPar: i devoti curdi ultraconservatori

Il 13 marzo, Numan Kurtulmuş, il vicepresidente generale del Partito dello sviluppo e della giustizia (Akp) si è presentato davanti alle telecamere con Zekeriya Yapıcıoğlu, il presidente generale del partito HüdaPar. In questa apparizione storica Yapıcıoğlu ha comunicato l’appoggio ufficiale del suo partito alla candidatura di Recep Tayyip Erdoğan, per le elezioni presidenziali. Dopo questo avvicinamento ufficiale e plateale, il 9 aprile il partito al governo Akp ha dichiarato ufficialmente che 4 membri del HüdaPar saranno candidati nelle liste del principale partito della Turchia. Con questa notizia HüdaPar entra nella casa dell’Alleanza della Repubblica. Ma chi è HüdaPar e perché oggi entra in questa coalizione già esistente dal 2017?


HüdaPar nasce come partito politico parlamentare nel 2012. Nello sfondo del suo logo è dominante il verde, poi al centro c’è un libro bianco da cui sorge un sole giallo. L’estensione del suo nome sarebbe Hur Dava Partisi, il partito della Causa Libera. Ovviamente va prestata l’attenzione sul significato della parola “Hüda” che trova spazio in diversi versi nel Corano e vuol dire “colui che indica la strada” ma è anche uno dei nomi attribuito ad “Allah” quindi in qualche maniera vuol dire “Dio”. Questa chiave semantica ci aiuta a capire che definirlo un partito conservatore è un eufemismo.
Infatti se andiamo a spulciare molto velocemente lo statuto del partito e anche il programma troviamo una serie di obiettivi, ideali e promesse molto conservatrici.

«Ricostruire il sistema governativo basandosi sui valori di fede della società. Ravviare i valori islamici. Definire l’omosessualità come una devianza, vietarla e punirla. Rafforzare i rapporti commerciali e politici con i paesi musulmani. Riformare il sistema scolastico secondo i valori dell’Islam. Iniziare con le lezioni di Arabo e del Corano già nel primo anno delle elementari. Parificare le scuole religiose con quelle statali. Concedere la possibilità di differenziare le classi nelle scuole pubbliche in base al sesso degli studenti. Definire la composizione della famiglia: uomo e donna».

È abbastanza, chiaro, no?

HüdaPar: dio turco e misogino, ma patria e lingua curde

Insieme a queste promesse e obiettivi vediamo una serie di punti che ci fanno capire il secondo “colore” del partito. Sempre nel programma elettorale e nello statuto leggiamo le seguenti affermazioni:

«Il diritto all’istruzione in lingua madre va riconosciuto e garantito. La Costituzione va privata da qualsiasi riferimento etnico. Il servizio militare deve essere abolito. L’obiezione di coscienza va riconosciuto come un diritto. Va ammesso che la nascita della Repubblica ha danneggiato la storica fraternità tra il popolo turco e quello curdo. La laicità dello stato ha reso difficile la vita ai curdi musulmani. I curdi sono le vittime delle politiche di assimilazione e turchizzazione. Lo stato deve ammettere i suoi crimini commessi nel Sudest del paese, chiedere scusa e risarcire i danni. I curdi devono essere riconosciuti nella Costituzione e la lingua curda deve essere riconosciuta come seconda lingua della Turchia. La forza del governo centrale deve essere alleggerita e il potere delle amministrazioni locali deve essere rafforzato».

Dunque è chiaro che siamo di fronte a una formazione che promette una serie di vittorie e riconoscimenti per le persone curdofone. Ma lo fa con un obiettivo e programma decisamente omofobico, fondamentalista e di certo non laico. Per questo l’HüdaPar rappresenta quella fetta della società curdofona che si identifica con un percorso politico decisamente conservatore e per cui “questi curdi” vanno bene per il partito al governo.
Infatti già nel 2020, l’ex presidente generale del partito, ossia Ishak Sağlam invitò il presidente della repubblica a uscire dalla Convenzione d’Istanbul. Quella convenzione forte e importante che fu creata proprio a Istanbul in Turchia nel 2011 con l’obiettivo di lottare contro i femminicidi e tutelare tutte le identità di genere e gli orientamenti sessuali delle persone. Oggi lo stesso partito, con un altro presidente, parla dell’eliminazione della legge 6284 che riguarda la famiglia e la violenza sulle donne.

Il terrorista curdo buono deve essere fondamentalista…

Purtroppo nel capitolo che riguarda HüdaPar ci sarebbe un altro piccolo approfondimento da fare. Ossia il passato di questo movimento e il suo presunto legame con l’Hezbollah turco.
Si tratta di una formazione paramilitare e armata che appare in Turchia negli anni Ottanta. Per chiarire tutto per una volta, l’Hezbollah turco non avrebbe alcun legame con l’omonimo Partito sciita libanese. Infatti Hezbollah turco sarebbe una formazione armata fondamentalista e sunnita. Il suo profilo terroristico è stato confermato dal Dipartimento di Stato degli Usa, nel 2011, e dalla Presidenza generale della Lotta contro il terrorismo in Turchia nel 2012. Questa formazione paramilitare è stata sempre accusata di avere dei legami con i servizi segreti di Ankara e di prendere di mira quasi esclusivamente quella parte marxista del movimento curdo in Turchia. Di questo parla in modo articolato il famoso giornalista Ruşen Çakır nel suo libro Derin Hizbullah pubblicato nel 2016.
La Turchia è venuta a sapere dell’esistenza di questa organizzazione terrorista nel 2000 quando il suo ex leader, Hüseyin Velioğlu, in uno scontro armato con la polizia è stato ucciso e presso la sua abitazione sono stati trovati numerosi documenti che hanno spalancato nuove porte. Le stesse che hanno portato i poliziotti e i procuratori a scoprire i piani per assassinare le persone e purtroppo anche le fosse comuni dove sono state sepolte numerose persone dopo lunghe e crudeli torture. Secondo il giornalista Çakır si tratta di una formazione politica e armata tra i giovani curdi fondamentalisti negli anni Settanta come una sorta di antitesi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan ossia Pkk.

… all’origine di HüdaPar: l’Hezbollah turco

Mentre dopo l’uccisione di Velioglu, Hezbollah turco pian piano scompariva, dall’altra parte nasceva un’associazione con il nome Muztazaf-Der. Anche se questa nuova realtà rigettava ogni accusa di legame con l’Hezbollah turco la Corte di Cassazione nel 2012 ha deciso di chiuderla proprio per questo presunto legame. Il suo presidente, Mehmet Hüseyin Yılmaz, pochi mesi dopo fonda HüdaPar. Un anno dopo, nel 2013, il timone del partito passa nelle mani di Zekeriya Yapıcıoğlu che oggi risulta candidato alle elezioni politiche presso l’Akp.
Oltre a Yapıcıoğlu, nelle liste dell’Akp salta all’occhio anche il nome di Faruk Dinç, accusato di appartenere al Hezbollah turco e trattenuto in carcere per due mesi in relazione con le indagini sul legame tra quest’organizzazione e l’associazione Ihya-Der. Secondo i procuratori l’associazione in questione era stata fondata dalle persone condannate, poi scarcerate, in un altro processo su Hezbollah turco.
Sempre secondo il giornalista Ruşen Çakır non ci sono troppi giri di parole da fare: HüdaPar è l’espressione partitica dell’Hezbollah turco. Infatti la notizia arrivata il 10 aprile, che informa della scarcerazione di 58 persone accusate di essere assassini di 183 persone uccise dall’Hezbollah turco, è una sorta di conferma della tesi di Çakır. Come se l’inserimento del HüdaPar nelle liste dell’Akp avesse trovato un riconoscimento. Addirittura secondo il giornalista Özgür Cebe, del quotidiano “Sözcü”, si potrebbe trattare di una notizia figlia di un accordo elettorale.

Già esisteva un alleato curdo oltreconfine

Molto probabilmente l’Alleanza della Repubblica, inserendo HüdaPar nelle sue liste, cerca di puntare sui voti di quella fetta della popolazione curdofona molto conservatrice e chiede il riconoscimento dei suoi diritti. Inoltre si tratterebbe di un gesto importante che rafforza il profilo conservatore della stessa alleanza, vista una parte del programma elettorale del partito in questione. Infine, questa new entry, oltre che nella politica interna, potrebbe avere un ruolo anche in quella estera. Quest’ultima ipotesi trova corpo grazie a un incontro avvenuto nel mese di aprile.


Sarebbe l’incontro tra Zekeriya Yapıcıoğlu e Masoud Barzani, l’ex presidente della Regione del Kurdistan (iracheno) e il leader storico del Partito democratico del Kurdistan (Pdk). È un incontro molto interessante, prima di tutto, perché si è svolto tra un “semplice” candidato per le elezioni e il personaggio più illustre del “movimento curdo” in Iraq. Quindi per il lato della Turchia non c’era un ministro oppure un sottosegretario ma una new entry dell’alleanza del governo. In secondo luogo il messaggio che è stato diffuso presso l’agenzia di stampa “Ilke” (semiufficialmente l’organo di stampa di HüdaPar) rende particolare quest’incontro «È stato deciso di rafforzare in futuro il rapporto tra HüdaPar e Pdk». Quindi per Barzani è chiaro che l’interlocutore da prendere in considerazione è quella formazione “curda” e fondamentalista che rappresenta Yapıcıoğlu e si trova accanto all’attuale presidente della repubblica di Turchia.

Le visitazioni islamiste

La visita di Yapıcıoğlu il 26 aprile è stata abbastanza proficua. Ha incontrato anche Aydin Maruf, membro del Fronte turcomanno iracheno, nonché il ministro degli Affari Religiosi e Etnici. Maruf è spesso presente in Turchia, si trova in ottimi rapporti con l’attuale governo e si è espresso varie volte a favore delle collaborazioni tra Ankara, Erbil e Bagdad per «lottare contro il terrorismo del Pkk».
Tra le persone visitate da Yapıcıoğlu vediamo anche il nome di Ali Bapir, membro del Movimento Islamico del Kurdistan e del Gruppo della Giustizia in Kurdistan. Si tratta di uno scrittore e studioso concentrato sulla fondazione di un Kudistan islamico. Bapir fu anche, nel 2021, uno degli sporadici personaggi politici al mondo a congratularsi con i Talebani dopo la loro salita al potere attraverso una lettera pubblica tuttora presente sul suo sito web personale.
Yapıcıoğlu in Kurdistan (iracheno) ha incontrato altri politici di formazione fondamentalista come Şeyh İrfan Abdulaziz, il leader attuale del Partito del Movimento islamista, e Rashid al-Azzawi che dirige il Partito islamico dell’Iraq.

Gli oleodotti dei curdi amici

Questi incontri ovviamente sono dei segni importanti se teniamo in considerazione soprattutto la crisi del petrolio nata verso la fine del mese di marzo di quest’anno. Una procedura arbitrale aperta nel 2014 si è conclusa questa primavera. Un percorso giuridico lungo che ha portato 1,4 miliardi di dollari di condanna per Ankara. Si tratta di un’azione portata avanti dal governo di Baghdad perché secondo il governo iracheno, Ankara non rispetta da tempo l’accordo del 1973. Secondo questo accordo sarebbe Baghdad l’unico interlocutore della Turchia per l’acquisto del gas e petrolio mentre invece Ankara da tempo tratta direttamente con Erbil quindi Nechirvan Barzani e Masoud Barzani. Inoltre, in questo processo, la Turchia sarebbe condannata a pagare 500 milioni di dollari perché diverse volte non ha aggiustato in tempo i danni avvenuti nelle “tubature Iraq-Turchia” a causa degli attentati di sabotaggio.

Oil vs Pkk

In questa procedura portata avanti per nove anni presso la Camera di Commercio internazionale di Parigi si notano alcuni appunti che parlano anche dell’avanzata dell’Isis in Iraq nel 2014 verso le città strategiche per il commercio petrolifero e la reazione degli Usa e della Turchia in quel momento. Appunto Ankara sarebbe accusata di approfittare delle dinamiche geopolitiche perché proprio in quel periodo avrebbe iniziato a non rispettare l’accordo del 1973 e avrebbe firmato nuovi contratti per la fornitura del petrolio direttamente con Erbil. Secondo il giornalista turco, Murat Yetkin, in questa fase storica ci sono varie dinamiche importanti come la volontà di ottenere ulteriore sostegno di Erbil nella sua storica lotta contro il Pkk: incassare più velocemente e più soldi scavalcando Baghdad e ottenere più credibilità e sostenitori in zona visto che proprio in quel periodo tra Erdoğan e Obama nascono le prime divergenze in merito a chi sostenere nella guerra in Siria.

In questa procedura arbitrale si cita anche l’illegale commercio del petrolio attraverso i camion cisterna. Un tema che fu sollevato dalla giornalista Bethan McKernan nel 2016 in un articolo pubblicato su “The Independent” che si basa sullo scandalo “Wikileaks”. Secondo questa fuga di e-mail, scatenata dal gruppo hacker turco “Redhack”, sarebbe l’azienda PowerTrans a gestire dal 2014 al 2015 il traffico illegale di petrolio dalle zone occupate dall’Isis in Siria e dal Kurdistan (iracheno) verso la Turchia. Secondo McKernan l’azienda in questione sarebbe legata in qualche maniera al genero del presidente della Repubblica di Turchia, ossia Beraty Albayrak che in quegli anni lavorava come il ministro dell’Energia al governo. Uno scandalo del genere era stato sollevato anche da Mosca nel 2015 durante quei nove mesi di conflitto che ci fu con Ankara. In quel caso fu il figlio del presidente della Repubblica ossia Bilal Erdoğan a finire nel mirino russo più o meno per le stesse accuse rivolte al genero.

I curdi utili fuori e dentro i confini

Oggi le trattative sono in corso. Secondo alcune fonti Ankara si rifiuta di risarcire Baghdad e secondo alcune fonti invece si tratta di trovare una cifra adatta per tutte le parti. In questo periodo di incertezza però c’è una cosa chiara: Ankara ha bisogno del petrolio e del sostegno politico di Erbil. L’amministrazione curda che si trova nel Nord dell’Iraq risulta tuttora il “curdo utile”, fuori dai confini nazionali, per l’attuale governo al potere in Turchia che deve fare i conti con le elezioni del 14 maggio. Il suo nuovo alleato, ossia HüdaPar, invece, sembra che abbia già deciso di muoversi come “mediatore” tra queste due parti indossando il costume del “curdo utile” in casa.

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Caro fratello Assad, ti va un panino insieme?! https://ogzero.org/caro-fratello-assad-ti-va-un-panino-insieme/ Mon, 02 Jan 2023 00:29:02 +0000 https://ogzero.org/?p=9934 Il 28 dicembre si è svolto a Mosca un vertice a tre con la partecipazione del ministro della Difesa turco Hulusi Akar e il generale Ali Mahmoud Abbas, alla presenza del ministro della Difesa russo Sergey Shoigu nell’ottica della svolta turca per cambiamenti politici e trasformazioni globali – in riavvicinamento e riconciliazione con Damasco per […]

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Il 28 dicembre si è svolto a Mosca un vertice a tre con la partecipazione del ministro della Difesa turco Hulusi Akar e il generale Ali Mahmoud Abbas, alla presenza del ministro della Difesa russo Sergey Shoigu nell’ottica della svolta turca per cambiamenti politici e trasformazioni globali – in riavvicinamento e riconciliazione con Damasco per «la necessità di porre fine alle differenze e raggiungere soluzioni che servano gli interessi della regione». Secondo al-Watan si tratta del risultato finale di diversi incontri avvenuti in precedenza tra i servizi di intelligence e la Turchia avrebbe contestualmente accettato un completo ritiro dal conflitto siriano; oltre al riconoscimento da parte di Ankara del rispetto per la sovranità e l’integrità territoriale della Siria; sarebbe stata discussa anche l’attuazione dell’accordo concluso nel 2020 per l’apertura della strada M4.
È stato pianificato dal Cremlino a breve un incontro tra i ministri degli esteri e infine, sempre nella capitale russa, il vertice Erdoğan-Assad. Evidente che per l’ennesima volta il presidente turco intende sfruttare a proprio favore la situazione siriana, sabotando l’autonomia curda e nello stesso tempo rimandando in patria i profughi siriani residenti attualmente in Turchia. Due carte da giocare nelle prossime elezioni presidenziali. Intanto si continua a vellicare l’istinto militarista, vera continuità tra potere ottomano, kemalista e neo-ottomano di Erdoğan, con un costante riarmo e investimenti in produzioni belliche

In questo processo, che è evidentemente il proseguimento dello spirito di Astana nell’ambito più precipuamente della Guerra siriana per cui si è manifestato inizialmente, le parti riunite hanno confermato che il Pkk, con le sue emanazioni siriane Ypg-Ypj, è una milizia per procura di America e Israele e rappresenta il pericolo maggiore per la Siria e la Turchia. L’articolo che proponiamo è stato completato da Murat Cinar il giorno prima di questo incontro, ma già da quasi un mese ci stava lavorando,  avendo avuto sentore della direzione in cui si stavano evolvendo gli eventi geopolitici in Mesopotamia.

Fin qui l’introduzione di OGzero, la parola a Murat…


Retaggio ottomano

Tra Turchia e Siria c’è un confine di 911 chilometri. I due paesi hanno iniziato a avere un rapporto complicato sin dal crollo dell’Impero Ottomano; confini, acqua, formazioni armate, rapporti commerciali, energia, rifugiati, traffico di droghe e persone e infine spese militari. Oggi sembra che sia giunto il momento di aprire l’ennesimo “nuovo capitolo”.

Un passato importante lungo l’Eufrate

L’Eufrate è uno dei due fiumi che danno il nome alla Mesopotamia. Nasce nel territorio della Repubblica di Turchia ma cresce e prosegue il suo percorso verso lo Shatt-al Arab attraversando la Siria. Innegabile l’importanza di questa fonte d’acqua, ma anche che ne scaturiscano conflitti e manovre politiche. Sia Ankara che Damasco, tranne alcuni momenti nella storia, hanno sempre voluto sfruttare questa risorsa comune come elemento di ricatto e non di cooperazione. In Turchia, sia il governo di Süleyman Demirel sia quello di Turgut Özal sono stati sempre sostenitori, negli anni Settanta e Ottanta, dell’idea che Ankara avesse il diritto di controllare totalmente il regime delle acque. Infatti la costruzione del megaprogetto delle dighe (Progetto del Sudest Anatolia) aveva l’obiettivo di risultare una opportunità di ricatto ai danni del regime di Damasco.
Ovviamente il fatto che la Turchia fosse sempre stata un fedele membro della famiglia Nato e la Siria fosse l’alleato numero uno dell’Unione Sovietica in zona ha fatto sì che la rivalità tra questi due vicini risultasse come una sorta di “guerra fredda” di riflesso per procura.

Il ruolo in commedia del Pkk

Senz’altro la nascita e la crescita negli anni Settanta e Ottanta dell’organizzazione armata Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ha un po’ scombussolato la situazione. Soprattutto dopo la decisione da parte dell’organizzazione di lasciare, quasi totalmente, il territorio della Repubblica di Turchia e creare le proprie “basi” e “accademie” in Siria, le relazioni tra questi due vicini sono diventate molto complicate. Dalle lezioni di “sicurezza nazionale” presso le scuole pubbliche alle dichiarazioni dei governatori, dal linguaggio dei media fino alle scelte politiche dei governi che risiedevano ad Ankara ormai la presenza del Pkk per la maggior parte della società turca risultava essere un enorme problema e una notevole minaccia. Ormai la vicina Siria ufficialmente “sosteneva i terroristi”.

La svolta di Adana

Infatti proprio su questo tema nel 1998 fu firmato l’Accordo di Adana tra questi due vicini. Un accordo che impegnava Damasco a collaborare con Ankara nella sua “lotta contro il terrorismo”, perché ormai per la Turchia la presenza del Pkk sul territorio del vicino era un “casus belli”. Proprio in quel periodo, ottobre 1998, mentre si consolidava per la prima volta una collaborazione del genere, Abdullah Öcalan (“Apo”), il leader storico del Pkk che viveva da anni in Siria, dovette lasciare il paese e nel giro di pochi mesi a Nairobi in Kenya fu arrestato dai servizi segreti turchi. Öcalan, condannato all’ergastolo, vive tuttora in isolamento in un carcere speciale sull’isola di Imrali in Turchia.

Il progetto del Grande Medioriente

Pochi anni dopo l’arrivo al potere dell’Akp (Partito dello Sviluppo e della Giustizia) i rapporti tra Ankara e Damasco si consolidano ancora di più. La Turchia lavorava come intermediario nei tentativi di dialogo tra Israele e Siria che si svolgevano a Istanbul e il presidente siriano, Bashar al-Assad, insieme a sua moglie decideva di fare le vacanze a Bodrum in Turchia, incontrando l’attuale presidente della repubblica, Recep Tayyip Erdoğan che all’epoca era il primo ministro. Proprio in quel periodo Erdoğan si intestava, in diretta tv, la copresidenza del Greater Middle East Project, ideato e promosso dall’allora presidente statunitense George W. Bush con l’obiettivo di creare una zona di collaborazione e alleanza tra i paesi di maggioranza musulmana, dai Balcani fino all’Asia orientale.

Una nuova fase

In alcuni incontri del 2004 tra i paesi della Nato e del G8 erano persino state organizzate delle presentazioni per annunciare alcuni dettagli di questo progetto, che secondo alcuni analisti rappresentava un tentativo di allargamento non ufficiale della Nato con l’intento di limitare lo spazio di manovra dei paesi ancora comunisti e socialisti. A dirigere questo progetto c’era anche Erdoğan, quindi il rapporto intercorrente tra Ankara e Damasco diventava fondamentale.
A quest’ondata di cambiamenti in positivo per una collaborazione amichevole tra i due paesi si può aggiungere l’abolizione del visto tra i due paesi nel 2009 e una serie di accordi commerciali straordinari firmati tra Erdoğan e Assad soprattutto nell’ottica delle privatizzazioni che il governo di Damasco aveva avviato.

La guerra per procura

Senz’altro la guerra per procura ancora in corso in Siria ha cambiato radicalmente le carte in tavola. L’instabilità generalizzata che domina tuttora in Siria è partita nel 2011 con le prime rivolte popolari. In poco tempo l’infiltrazione dei servizi segreti delle terze parti, la nascita e la crescita delle formazioni armate terroristiche sostenute da numerosi paesi vicini e la presenza dei soldati di vari paesi hanno fatto sì che ormai la guerra in Siria potesse essere definita come una proxy war.

Le prime reazioni e scelte

«Assad è come Mussolini, lasci il suo potere. Prima che scorra ulteriore sangue lasci la sua poltrona».

Subito dopo le prime manifestazioni che hanno ricevuto la risposta dura di Damasco, erano queste le parole pronunciate da Recep Tayyip Erdoğan. Una posizione netta e chiara, assunta nel lontano 2011, dichiarata durante il suo intervento nel gruppo parlamentare dell’Akp.
All’inizio della guerra in Siria il piano di Ankara era quello di fare il possibile perché Assad lasciasse il suo potere. In quest’ottica nel 2014 aveva anche partecipato agli incontri di Ginevra con l’intento di creare un nuovo percorso per la ricostruzione politica e amministrativa della Siria. Nel mentre non mancavano le dichiarazioni forti e convinte di Erdogan:

«Il Presidente siriano ha ucciso circa un milione di cittadini suoi. In realtà stiamo parlando di un terrorista che sparge il terrorismo di stato. Non possiamo dialogare con una persona del genere, non sarebbe corretto nei confronti di un milione di siriani assassinati».

Le prime milizie antisiriane e il ruolo dell’Isis

Sempre nello stesso periodo, in collaborazione con l’amministrazione statunitense dell’epoca, Ankara aveva avviato i lavori per l’addestramento delle prime brigate dell’Esercito libero siriano (Fsa) con l’intento di creare un corpo militare che potesse lottare contro il regime di Damasco. Successivamente questa forza in parte è scomparsa, in parte ha aderito alle formazioni terroristiche e in parte ha collaborato con Ankara.


Quel periodo fu molto importante per la Turchia e per il resto del Medioriente. La nascita e crescita dell’Isis ha rimescolato i piani: soprattutto i lavori di reclutamento dei nuovi adepti, l’utilizzo di territori senza rispetto del confine e la creazione di nuove fonti di guadagno in Turchia, da parte dell’organizzazione terroristica, hanno fatto sì che Ankara ormai fosse direttamente coinvolta nella guerra in Siria. Alcune intercettazioni relative alle riunioni dei servizi segreti turchi, varie dichiarazioni rilasciate da parte di numerosi esponenti del governo e la posizione dei mezzi di propaganda rivelarono quanto poco Ankara fosse dispiaciuta della presenza dell’Isis in Siria. Alla fine della partita avrebbe potuto anche rendere più “facile” la caduta di Assad.

Tuttavia sono successe tre cose che hanno ribaltato ancora un’altra volta i piani.

L’alba degli Accordi di Astana

Mosca in Siria

Innanzitutto la Russia, insieme all’Iran, decise d’intervenire militarmente in Siria per salvare Damasco che stava subendo dei gravi colpi in questa guerra. Ormai chiunque avesse avuto l’intenzione d’immischiarsi con gli affari interni della Siria era obbligato a dialogare con Mosca e Teheran.

Confederalismo democratico in Rojava

Poi la nascita del Confederalismo democratico con il protagonismo delle sue forze armate nella lotta contro l’Isis fece sì che a livello mondiale la nuova esperienza politica ed economica guadagnasse credibilità e rispetto. Questo punto ovviamente era un problema per Ankara dato che dietro il progetto del Confederalismo democratico che sorgeva, come zona autonoma nel Nord della Siria (il Rojava), c’erano una serie di attori molto “problematici” come Öcalan e Pkk. Nel 2012 il Partito dell’unione democratica (Pyd) dichiarava la nascita delle unità di difesa popolari (Ypg-Ypj) impegnate nella lotta contro il terrorismo fondamentalista nella regione.

Isis in Turchia

Infine gli attentati dell’Isis sul territorio della Repubblica di Turchia che causarono la morte di centinaia di persone in meno di due anni coinvolgevano ancora di più Ankara in questa guerra che era in corso ormai da quasi cinque anni. Alla lista di priorità nuove si aggiungeva la lotta contro l’Isis che ormai era una netta minaccia contro la sicurezza nazionale per la Turchia.

Forzata alleanza

Per risolvere i suoi problemi Ankara si trovava ormai obbligata a consolidare i rapporti con la Russia per poter agire in Siria. Oltre a ciò le Ypg-Ypj non potevano essere degli interlocutori dato che erano i cugini degli storici “terroristi” per Ankara. Anche se per poco un tentativo di dialogo con Salih Muslim era stato fatto. Muslim è il leader politico del partito politico siriano Pyd – la forza non armata dominante in Rojava. Tuttavia in poco tempo questo tentativo si è concluso senza successo. Secondo alcuni analisti perché Ankara aveva proposto al Pyd di lottare contro Assad in collaborazione con l’Esercito libero siriano, invece il Pyd ha rifiutato la proposta decidendo di non prendere parte nella guerra in Siria e proseguire per la sua strada. Questa “terza scelta” non prevedeva né di collaborare con la Turchia né di sostenere Damasco.
Relativamente a quest’ultimo punto non si può ovviamente tralasciare il fatto che il tentativo di dialogo tra lo stato e il Pkk, in Turchia, sia fallito proprio nel periodo in cui le Ypg-Ypj acquisivano più credibilità a livello internazionale nella loro lotta contro l’Isis.


Dunque si tratta di un momento che ha creato una notevole preoccupazione strategica per Ankara.

Le “operazioni speciali” turche in Siria

Dunque nel 2016, poche settimane dopo il fallito golpe in Turchia e in pieno stato d’emergenza, Ankara decise di avviare la sua prima operazione militare. Gli obiettivi erano 3: lottare contro l’Isis, contro le Ypg-Ypj e contro il governo centrale. Da quel momento a oggi sono passati circa 7 anni e la Turchia, ufficialmente, ha lanciato 4 altre operazioni aumentando nel Nord della Siria la sua presenza militare, politica e economica. Ankara è stata accusata in questo periodo di avviare anche una campagna di cambiamento culturale e demografico della zona provando a cancellare l’identità curda e distruggendo i segni del Confederalismo democratico.

Equilibrismi tra Nato e Russia

In questo gioco molto delicato e pericoloso Ankara ha dovuto gestire i rapporti con la Russia e con i suoi alleati della Nato presenti sul territorio. Non è stata una partita facile perché quanto più il tempo passava, tanto Ankara diventava sempre più dipendente dalla Russia anche al di fuori dalla guerra in Siria: turismo, accordi energetici, agricoltura, investimenti militari, presenza dei servizi segreti, centrali nucleari…

Quest’avvicinamento ovviamente presupponeva una sorta di allontanamento parziale e graduale dalla famiglia della Nato anche se la Turchia restava sempre un membro del patto transatlantico e l’unico membro fortemente presente sul territorio siriano.

Freddezza tra Turchia e UE

Il rapporto consolidato, delicato ma anche fragile tra Ankara e Mosca con la nascita del conflitto armato in Ucraina è entrato in una nuova fase. Il rapporto con la Nato e con l’UE invece è diventato sempre più debole e oggi lo possiamo considerare come una “collaborazione strategica” più che alleanza. Tra Ankara e Nato in tutto questo tempo ci sono state delle divergenze: dai processi per evasione fiscale e frode, all’embargo non rispettato contro l’Iran, fino ad arrivare agli accordi militari con Mosca e l’acquisto degli S-400. Oggi l’Isis sembra essere morto oppure in coma e l’esperienza del Confederalismo Democratico molto indebolito, accerchiato e in parte anche distrutto.
Invece a Damasco è ancora al potere Assad.

Nuova fase dopo l’“operazione speciale” in Ucraina

Oggi Ankara ha deciso di riprendere, gradualmente, il dialogo con il presidente siriano. Il 27 novembre 2022 l’attuale presidente della Repubblica di Turchia ha rilasciato queste dichiarazioni dopo aver inaugurato il ripristino delle relazioni con l’Egitto:

«Ci sono diversi paesi che vogliono approfittare delle relazioni precarie del nostro paese con i paesi del Golfo. Non glielo possiamo permettere. Come abbiamo ripristinato le relazioni con l’Egitto in futuro possiamo fare la stessa cosa anche con la Siria».

Proprio in quei giorni l’agenzia di notizia internazionale Associated Press pubblicava un articolo in cui sosteneva che Erdogan avesse mandato una lettera ad Assad invitando l’esercito siriano di riprendere in mano le zone liberate delle Ypg-Ypj e chiedeva a Damasco di collaborare per il rimpatrio dei siriani presenti in Turchia, ormai circa 4 milioni.
Pochi giorni dopo, il 15 dicembre, sempre lo stesso Erdoğan, sull’aereo, al rientro dal Turkmenistan ha deciso di concretizzare la sua proposta, parlando con i giornalisti a bordo:

«Vorremmo fare un incontro a tre con la Russia e la Siria. Prima si impegneranno i servizi segreti e poi i Ministri di Sicurezza Nazionale. Dopo questi potrebbero incontrare anche i leader. Ne ho parlato con il Presidente Putin anche lui è d’accordo. Così possiamo iniziare a una serie di incontri».

Mentre Mosca accoglieva con piacere questa proposta, dalla Siria arrivavano le prime dichiarazioni scettiche: Pierre Marjane, parlamentare siriano responsabile delle Relazioni esteri del parlamento, il 29 novembre rilasciava queste dichiarazioni a un giornale in Turchia, “Kisa Dalga”:

«Potremmo dialogare con la Turchia tuttavia deve ammettere che ha finanziato e addestrato le forze armate terroriste e le ha fatte entrare in Siria. Poi deve dichiarare che è pronta a ritirarsi dalla Siria».

Ovvero: lo stato dell’arte

Infatti – secondo una serie di osservatori internazionali, alcuni governi stranieri e una serie di giornalisti che lavorano in Turchia – l’attuale governo ha sostenuto direttamente oppure indirettamente alcune organizzazioni terroristiche fondamentaliste che hanno agito in questi anni in Siria. Questo punto ovviamente ha causato sempre le reazioni dure di Damasco: a oggi la Turchia risulta presente militarmente sul territorio siriano in modo massiccio, tanto che solo nel 2021 il numero di truppe impegnate contava più di 10.000 soldati.

Tra le parole pronunciate da Marjane si vede anche un riferimento all’Accordo di Adana firmato nel 1998. Secondo il parlamentare siriano sarebbe necessario prenderlo in mano e applicarlo. In realtà si tratta di una premessa ch’era stata fatta negli incontri di Astana nel 2019 tra Mosca e Ankara. Dunque oggi la situazione in cui ci troviamo ci fa capire che, a grandi linee, l’intenzione sia di tornare alle condizioni del 2010: prima delle rivolte arabe.

“Erdoğan esagerato: un dittatore rilancia sempre nuove pretese”.

Come mai?

Le risposte sono tante. Potremmo studiare questa sezione concentrandoci sulle motivazioni legate alla politica interna ma anche estera.

Elezioni del 2023

Se guardiamo la politica interna senz’altro la profonda crisi economica che strozza la Turchia rappresenta un problema per Ankara soprattutto alla luce delle elezioni del 2023. L’inflazione alle stelle, la fuga dei giovani, le opposizioni sempre più compatte e il caro vita ogni giorno fa perdere punti a Erdogan nei sondaggi.
Le spese militari in Siria forse per Ankara risultano ormai difficilmente sostenibili e un rapporto commerciale (soprattutto petrolio) regolare con il vicino confinante per più di 900 km potrebbero essere una soluzione.

I rifugiati in ostaggio

Ovviamente la presenza di circa 4 milioni di siriani in Turchia rappresenta un problema per Ankara. Una popolazione in parte proveniente dalle zone, come Afrin, colpite dalla Turchia in questi ultimi anni e “ripulite” delle sue popolazioni curdofone. Un esercito privo di diritti, di persone ricattabili e sfruttate rappresenta il nuovo proletariato a basso salario messo in concorrenza con la mano d’opera locale. Mentre questa contrapposizione può far piacere agli industriali, ma non è gradita ai cittadini che devono fare i conti con la profonda crisi economica. Quindi l’eventuale rimpatrio graduale di queste persone è necessario per Ankara in particolare per riprendere quell’emorragia di voti che defluisce verso quei partiti che da tempo sostengono che “i siriani se ne devono andare”.


Si tratta di un progetto che in prima persona Erdoğan promuove ormai da circa 4 anni:

«Una zona cuscinetto nel nord della Siria, lunga 480 chilometri e profonda 30,  dove sarebbero collocati circa 2 milioni di siriani».

In diversi interventi pubblici e televisivi Erdoğan raccontava il suo progetto di costruire nuove cittadelle in questa zona e collocarci principalmente le persone arabofone. Per fare tutto questo è ormai necessario accettare che a Damasco c’è un interlocutore e parlare con questo anche perché il progetto di Erdogan in questi anni non ha ricevuto riconoscimento né dalla Russia né dalla Nato.

Al posto di Ypg-Ypj: dialogo tra autocrati

Invece nella politica estera molto conta la presenza della Russia in Siria che potrebbe diventare debole, se la guerra in Ucraina non si concludesse a breve. Dunque per Ankara iniziare a costruire ponti con Damasco attraverso un canale di dialogo diretto senza l’ausilio di Mosca potrebbe essere un investimento per quel giorno in futuro quanto Putin deciderà di lasciare definitivamente la Siria. Nel fare questo ovviamente Ankara avrebbe un piatto pronto per Damasco ossia le zone che controlla in Rojava, “bonificate” dalle Ypg-Ypj, che potrebbero essere consegnate a Damasco [come sancirebbero le indiscrezioni di “al-Watan”]. Inoltre ovviamente Ankara vuole mettere le mani avanti per evitare ciò che è successo in Iraq quando si è “conclusa” l’invasione statunitense ossia la nascita di un Kurdistan. Il regime al potere in Turchia senz’altro non ha voglia di avere una zona federale curda che si comporti in modo diverso rispetto a quella irachena che collabora senza problemi con Ankara. Quindi per Ankara ovviamente è meglio avere il governo centrale siriano al di là del confine al posto dei “terroristi”. In quest’ottica spolverare l’Accordo di Adana, che promette una reciproca collaborazione nella lotta contro il “terrorismo” ha molto senso.

Dalla parte della Nato

Sempre bazzicando affari geopolitici il ripristino dei rapporti con Damasco potrebbe fornire ad Ankara come una mossa apprezzata da parte della famiglia della Nato, dato che sarebbe l’unico paese del “club” a dialogare direttamente con Assad. Dunque Erdoğan risulterebbe ancora un importante e irrinunciabile interlocutore. Alla luce delle elezioni generali del 2023 per Erdoğan questo potrebbe dire portare a casa una vittoria importante in termini di credibilità internazionale.

Ma contemporaneamente sarebbe anche una mossa che renderebbe “indipendente” e “privilegiata” la Turchia. Erdoğan potrebbe usare questa novità come un elemento di forza o un ricatto contro i suoi alleati (come ha fatto per contrastare le reazioni ogni volta che ha invaso il Rojava), visto che il suo rapporto con gli alleati è sempre più precario. Le relazioni tra Ankara e Nato sono diventate deboli in questi anni anche perché la scelta di sostenere politicamente e militarmente le Ypg-Ypj è stata definita come un “tradimento” per Ankara dato che queste sigle per il regime in Turchia sarebbero le cugine dei “terroristi”.
Inoltre anche la nascita dell’Esercito Democratico Siriano (Sdf) con il sostegno degli Usa ha creato preoccupazione ad Ankara che temeva la nascita di un esercito curdo in zona. Dunque le scelte radicalmente diverse per quel che concerne la Siria si fondano tuttora sulla grande amarezza derivante dalla tensione che esiste tra Ankara e il resto della Nato. Quindi la manovra di Ankara (per consolidare i rapporti con Damasco) potrebbe fare sì che Erdoğan continui ad agire in Siria con l’intento di creare nuove strategie indipendentemente dalla Nato.

Stuccare vicendevolmente le crepe, perpetuando i relativi poteri

Il 28 dicembre Hulusi Akar, il ministro della Difesa Nazionale, e il capo dei Servizi segreti Hakan Fidan, sono partiti da Ankara per Mosca per incontrare i loro colleghi siriani. L’incontro avvenuto dopo 11 anni di gelo nelle relazioni è stato produttivo secondo Akar: avrebbero parlato della questione dei rifugiati, della lotta contro il “terrorismo”, della difesa dell’integrità territoriale della Siria e dell’espulsione delle forze straniere dal territorio.

Ripristinare i rapporti con la Siria per Ankara ha questi valori. Invece per Damasco ha qualche importanza in più. Nel caso in cui si potesse avviare il progetto congiunto di eliminare il Confederalismo democratico in Rojava e le sue forze (Sdf, Ypg-Ypj) per Damasco significherebbe riprendersi quel quarto del suo territorio occupato e controllare una grande fonte di petrolio e gas che attualmente si trova sotto il controllo di queste forze armate e degli Usa.

Inoltre, per Assad, ripristinare i rapporti con Ankara vuol dire far accettare la sua presenza al potere e archiviare le possibili proposte legate all’abbandono del potere. In quest’ottica per Damasco accettare la proposta di Erdoğan potrebbe sembrare il conferimento di una sorta di vittoria che potrebbe usare nella campagna elettorale del 2023; ma contemporaneamente Assad avrebbe immediatamente un interlocutore già al potere con il quale interloquire senza discutere di tutti i crimini contro il suo popolo da lui commessi durante questa guerra lunga 11 anni. In realtà la situazione rientrerebbe all’interno delle scelte che sta facendo Ankara ultimamente, ossia: il consolidamento dei rapporti direttamente con i leader dei paesi controllati dai regimi o dalle famiglie come l’Arabia Saudita, il Qatar, l’Egitto e gli Emirati Arabi.

Sostanzialmente: due regimi potrebbero trovare un accordo su una serie di temi senza avere “il peso” della giustizia e della democrazia.

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La guerra in Ucraina cambierà le scelte di Ankara? https://ogzero.org/la-posizione-di-ankara-nel-conflitto-russo-ucraino/ Fri, 18 Mar 2022 14:40:19 +0000 https://ogzero.org/?p=6806 Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di […]

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Mar Nero settentrionale con la tatara Crimea; Mar Nero meridionale con gli Stretti strategici per la navigazione. Gli accordi di Astana, che già adombravano un ridimensionamento della Russia al rango delle altre due potenze regionali che li animano, facevano pensare che la Turchia fosse destinata a trarne maggiori vantaggi, mentre Mosca appariva alla ricerca di accordi per spartire senza problemi le aree lasciate “libere” dal disimpegno dell’America trumpiana, dimostrando forse un inizio di affanno a svolgere il ruolo di grande potenza. Forse si può inquadrare la “spezial operazy” come una delle tappe delle spartizioni di Astana, che hanno visto diversamente impegnati gli eserciti e le milizie di Ankara e Mosca e quindi l’equidistanza  tra i contendenti da parte di Erdoğan fa il paio con l’interposizione di Putin in finale di conflitto in Nagorno Karabakh concluso a favore dell’Azerbaijan dai droni Bayraktar, protagonisti anche nel confronto bellico in Ucraina. L’equilibrio di Ankara, apparentemente sbilanciato a favore di Kiev (in chiave atlantista), ma attento a lasciare ampi spiragli di apertura a Mosca per proporsi come mediatore – forse per esperienza diretta nell’occupazione imperiale di territori limitrofi al proprio come il Rojava –, può ottenere riconoscimento internazionale, premiando l’ambiguità e la politica dei due forni di Erdoğan? Ed è vera competizione tra Israele e Turchia per ottenere il ruolo di paciere («proprio loro!?!», diranno curdi e palestinesi), o non è il gioco delle parti, per cui ognuno appare come campione valido per ciascuno dei due contendenti, perché tutti legati a filo doppio dallo scambio delle armi?

Vera rivalità tra Israele e Turchia per il ruolo di mediatore?

L’ossessione di OGzero per Astana arriva fin qui, lasciando spazio alle intuizioni di Murat Cinar…


Due paesi importanti per la Turchia sono in piena guerra; Ucraina e Russia. Dai droni ai pomodori, dalla centrale nucleare agli S-400, dal turismo al grano… e dal gas al riciclaggio di denaro. Per il governo centrale della Turchia, Mosca e Kiev sono due partner strategici con i quali ha consolidato dei rapporti economici, politici e militari in questi ultimi anni.
Ora invece questi due vicini stanno attraversando un forte conflitto armato tra loro. Dunque qual è stata, finora, la posizione di Ankara?

Le prime scelte

La politica della Turchia, dal 24 febbraio, quando la Russia ha iniziato a invadere l’Ucraina, mostra che rimarrà in armonia e coordinamento con l’occidente e la Nato, ma senza mettere in pericolo il suo legame con questi due paesi.

Atlantismo

La Turchia, che ha attuato la Convenzione di Montreux e ha impedito a più navi da guerra russe di accedere al Mar Nero, attraverso il mar di Marmara e gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo, afferma che non intende imporre sanzioni alla Russia e che farà del suo meglio per mantenere aperti i canali di dialogo con Mosca per la soluzione del problema, accolto con favore anche dall’Occidente.
Con le dichiarazioni rese il giorno dell’inizio dell’operazione, che la Russia definisce “operazione militare speciale”, la Turchia ha chiesto il rispetto dell’integrità territoriale e dell’unità politica dell’Ucraina e ha dichiarato di rifiutare l’attacco russo. La Turchia, che non ha riconosciuto l’invasione e l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014, ha rivelato che continuerà ad agire insieme all’opinione pubblica internazionale con questa posizione che ha assunto. La Turchia ha anche appoggiato il testo della risoluzione di condanna della Russia all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (Onu).

Oltre a condannare la Russia, la Turchia ha anche fornito all’Ucraina il massimo livello di sostegno. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky e i ministri degli Esteri e della Difesa turchi si sono incontrati spesso con le loro controparti ucraine e hanno discusso degli sviluppi riguardanti l’occupazione russa esprimendo il sostegno della Turchia alla sovranità dell’Ucraina.
L’uso efficace dei droni armati “made in Turkey”, Bayraktar venduti dalla Turchia, che negli ultimi anni ha approfondito la cooperazione con l’Ucraina nel campo dell’industria della difesa, ha reso ancora più importante il dialogo tra i ministri della Difesa dei due paesi. Le dichiarazioni delle autorità ucraine di voler acquistare più droni dalla Turchia si sono riflesse anche sulla stampa durante questo processo.

Droni autarchici turchi: l'esercito di Ankara si fornisce di ogni dettaglio tecnologico dall'industria nazionale per equipaggiare il proprio gioiello bellico: i sistemi aerei senza pilota

Bayraktar-TB2 Sịha, che fanno strame dei carri armati russi incolonnati.

Sin dall’inizio della guerra, la Turchia ha annunciato di aver iniziato a inviare aiuti umanitari in Ucraina. Con tutti questi passi, la Turchia ha dimostrato di sostenere l’Ucraina.

Caro amico Putin

Il presidente della Repubblica di Turchia, prima e dopo l’inizio dell’operazione, ha dichiarato: «Non rinunceremo alle nostre relazioni speciali né con l’Ucraina né con la Russia» e ha lanciato il messaggio che cercherà di mantenere una politica equilibrata anche se la crisi approfondisse.

Tuttavia, ciò non ha impedito ad Ankara di «invitare Mosca a interrompere l’operazione il prima possibile». Nelle loro dichiarazioni, il presidente Erdoğan e il ministro degli Esteri Mevlüt Çavuşoğlu hanno sottolineato che l’operazione militare ha messo in pericolo la sicurezza sia regionale che mondiale e che la Russia dovrebbe rinunciarvi il prima possibile. Nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa è stato anche affermato che Çavuşoğlu ha trasmesso direttamente questo richiamo al ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, con il quale aveva parlato al telefono.
La Turchia è stata anche tra i paesi che hanno criticato le minacce sventolate da Putin sull’eventuale utilizzo delle armi nucleari. İbrahim Kalın, il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, ha definito “sconcertante” il fatto che Mosca abbia messo sul tavolo la carta nucleare.

Con la Nato ma…

La dedizione della Turchia al patto transatlantico è molto discutibile da parecchi anni. Sia Trump sia Biden, diverse volte hanno criticato Ankara per le sue scelte militari e politiche in Siria e per le sue relazioni con la Russia. Mentre gli Usa sono arrivati anche alle sanzioni economiche e militari, con la Grecia e la Francia ci sono stati dei momenti di grande tensione e reciproche minacce in questi ultimi 2 anni.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Settembre 2020, dispute tra appartenenti alla Nato nel Mediterraneo orientale: Grecia e Francia contro Turchia.

Tuttavia dalla guerra in Libia fino al caso degli uiguri, dall’Afghanistan alla produzione militare joint venture con gli alleati, dall’occupazione russa in Crimea e ora con l’appoggio a Kiev, possiamo dire che la Turchia ha seguito molto fedelmente la linea politica, economica e militare della Nato.

… It’s the economy…

La guerra in Ucraina arriva in un momento molto importante per la Turchia; sia per le sue relazioni forti con Mosca sia per la devastante situazione economica e politica che Erdoğan deve affrontare a casa. Un governo ai minimi storici nei sondaggi (meno di 35%) un anno prima delle elezioni presidenziali e parlamentari, sia per il lavoro di grande successo che portano avanti i sindaci delle opposizioni eletti nelle grandi città nel 2019 sia per l’enorme corruzione sempre più conosciuta e evidente che rappresenta il governo e la famiglia del presidente della Repubblica. Ovviamente a questa situazione catastrofica politica bisognerà aggiungere anche la crisi economica senza precedenti. Un’inflazione che supera la soglia del 130%, una Lira che perde il suo valore ogni giorno davanti alle monete straniere, una povertà diffusa e terribile e un vuoto nel fisco che spinge Ankara a svendere qualsiasi cosa al capitale russo, cinese e mediorientale.

… l’intermediario

Insomma: le scelte discutibili, radicali e pericolose di Erdoğan, operate in questi ultimi anni per consolidare un rapporto forte con Putin, fanno paradossalmente sì che la Nato trovi in Ankara un alleato a cui attribuire un ruolo chiave in questo conflitto. Quello del mediatore. Dall’altro lato Erdoğan non vorrebbe assolutamente perdere l’occasione per fare una forte propaganda elettorale nella politica interna portando a casa prestigio, rispetto e forse anche un po’ di soldi, vista la situazione economica e elettorale devastante.

Mediazione

Infatti l’incontro importante ma non fruttifero, avvenuto ad Antalya in Turchia, tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e quello ucraino Kubela il 10 marzo è una delle dimostrazioni del fatto che il governo centrale vorrebbe lavorare come mediatore in questo conflitto, molto probabilmente per portare a casa un paio di carte vincenti. L’impegno apprezzato sia da Zelensky sia da Putin ha ricevuto anche gli applausi dal segretario generale della Nato, Stoltenberg che ha espresso la sua gratitudine direttamente al presidente della repubblica di Turchia quando l’ha incontrato durante la sua visita ad Ankara l’11 marzo.
Inoltre, la Turchia si era astenuta, il 26 febbraio, dal votare contro la sospensione della Russia nel Consiglio d’Europa, sulla base del fatto che «una completa interruzione del dialogo e la demolizione dei ponti non sarebbe vantaggiosa». Il ministro Çavuşoğlu ha dichiarato: «Non dovremmo concordare sull’interruzione del dialogo. C’è qualche vantaggio per il Consiglio d’Europa nel rompere i legami con la Russia qui? No. Ecco perché ci siamo astenuti nella votazione. Perché questo comporterebbe la chiusura del dialogo». Tuttavia il 17 marzo, durante una riunione straordinaria: «Il Comitato dei Ministri ha deciso, nel quadro della procedura avviata in virtù dell’articolo 8 dello Statuto del Consiglio d’Europa, che la Federazione russa cessa di essere membro del Consiglio d’Europa a partire da oggi, 26 anni dopo la sua adesione».

La diplomazia di Twitter e le telefonate private

Ankara, sin dall’inizio della guerra, ha mantenuto l’opinione secondo la quale tenere aperti i canali di dialogo con Mosca avrà un impatto positivo sul processo negoziale avviato tra funzionari russi e ucraini. Il consulente per la politica estera del presidente Erdoğan, İbrahim Kalın, in una dichiarazione alla stampa turca, ha affermato che la Turchia segue da vicino il processo negoziale tra le parti in guerra e trasmette i suoi suggerimenti alla Russia, soprattutto grazie al dialogo in corso.
A tutti questi passi e dichiarazioni ovviamente dovremmo aggiungere il continuo traffico di telefonate tra Ankara, Mosca e Kiev e i ringraziamenti di Zelensky direttamente verso Erdoğan comunicati ripetutamente su Twitter, per il suo sostegno

Importanti relazioni sia con Kiev sia con Mosca

In un’intervista rilasciata alla Cnn International, İbrahim Kalın ha dichiarato di non volere che i loro forti legami economici con Mosca, inclusi settori come l’energia, il turismo e l’agricoltura, siano danneggiati, e ha sottolineato che credono nei vantaggio provenienti da una condizione di dialogo alternativa all’imposizione di sanzioni.

La Turchia, che l’anno scorso ha ospitato circa 5 milioni di turisti russi (e 2 milioni di ucraini), ha preferito non assecondare i paesi occidentali che hanno chiuso il loro spazio aereo.

La Russia è il più grande fornitore di gas naturale della Turchia e sta anche costruendo la prima centrale nucleare del paese. I primi reattori dovrebbero essere messi in servizio nel 2023. Il volume degli scambi tra Turchia e Russia supera i 20 miliardi di dollari. I due paesi puntano ad aumentare questa cifra a 100 miliardi di dollari.

Questo rapporto commerciale in crescita vale anche per l’Ucraina. Secondo la Camera di Commercio di Istanbul (Ito) nel 2021 il volume commerciale superava i 7,4 miliardi di dollari Usa e nel 2022 l’obiettivo è raggiungere i 10. Solo nell’ultimo incontro avvenuto il 3 febbraio sono stati firmati ben 8 accordi commerciali tra Erdoğan e Zelensky. La collaborazione tra questi due paesi è in forte crescita anche nel campo militare.

Mediatori sì ma non da soli

La crisi energetica, l’interruzione dei rapporti commerciali, degli investimenti finanziari e del gigantesco riciclaggio di soldi nelle banche europee e in collaborazione con le mafie europee e la minaccia sulla sicurezza cibernetica sono solo alcuni punti che necessitano un piano B nel caso in cui le cose si mettessero molto male a lungo termine con Mosca. Dunque a questo punto insieme ad Ankara subentrano nel gioco due altri attori insospettabili: Grecia e Israele.
La Turchia, ultimamente, sembra che stia ricucendo i suoi rapporti con questi due “alleati”/vicini.

Israele, una volta “razzista” e ”terrorista” per Erdoğan

Infatti non è un caso che il presidente della Repubblica d’Israele, Isaac Herzog, abbia visitato la Turchia, incontrando il suo omologo turco il 9 di marzo. Una visita che era stata già organizzata ma ovviamente ha assunto un’importanza particolare in questo periodo esattamente come il contenuto delle dichiarazioni finali.

«Sia l’inizio di una nuova fase nelle relazioni tra questi due paesi. Dobbiamo rafforzare i nostri obiettivi commerciali soprattutto nel campo dell’energia»: erano alcune parole pronunciate da Erdoğan alla fine dell’incontro. Herzog invece ha voluto parlare anche della convivenza dei popoli, la pace tra le religioni e ha pure citato una poesia di Hikmet.

Secondo il conduttore televisivo israeliano, Mohammad Micedle, questi due paesi hanno obiettivi in comune in Siria e in Ucraina. Quindi devono lavorare insieme. Invece secondo, Jonathan Freeman, uno dei professori dell’Università di Gerusalemme il ruolo di questi due paesi acquisisce un valore aggiunto derivante dalla guerra in Ucraina soprattutto nell’ambito della sicurezza, dell’energia e dal punto di vista economico.

«Grecia e Cipro avranno le risposte che meritano» (Erdoğan, 14 ottobre 2020)

Lo stesso tipo di visita a Istanbul è stato effettuato il 13 di marzo anche dal primo ministro greco Kyriakos Mītsotakīs con Erdoğan.

L’incontro si è concluso con una serie di buoni intenti e progetti legati al «nuovo piano di sicurezza in Europa alla luce della guerra in Ucraina, lotta contro l’immigrazione irregolare e rafforzamento dei rapporti commerciali».

Una nuova fase, una nuova era positiva e felice meno di 2 anni dopo quel famoso momento di crisi registrato nelle acque dell’Egeo che portava quasi alla guerra questi due vicini storici; come l’incontro tra Erdoğan e Herzog mette la parola fine ai dissapori sorti nel maggio 2010 con la vicenda della Freedom Flotilla e l’assalto alla Mavi Marmara, nave turca assaltata dai servizi israeliani che causarono la morte di 9 marinai turchi.

La posizione di Ankara nel conflitto russo-ucraino

Assalto del Mossad alla nave turca Mavi Marmara in rotta verso Gaza nel maggio 2010: causarono 9 morti tra l’equipaggio e il pretesto al presidente turco per ergersi a paladino della causa palestinese.

Oligarchi e oppositori già in Turchia

Approfittare della fuga dei capitali dai paesi in conflitto e isolati è una scelta ormai molto diffusa in diversi angoli del mondo. Esattamente come quello di aprire le porte agli oppositori che a lungo andare potrebbero rappresentare una “carta” politica importante nei confronti dell’alleato di oggi. La Turchia ha fatto queste mosse ospitando quell’enorme quantità di denaro dello stato libico e di quello venezuelano nei momenti di grande crisi economica, politica e militare. Questa scelta fatta da Tripoli e Caracas comporta fedeltà e collaborazione e per Ankara la parziale disponibilità di questi due paesi rappresenta anche un elemento di forza nei confronti dei suoi alleati. In merito alla presenza degli oppositori invece possiamo citare il caso degli uiguri in fuga dallo Xinjiang e dei tatari scappati dalla Crimea in due tempi diversi in questi ultimi anni, rendendo così la Turchia rifugio degli oppositori e degli oppressi per quegli attivisti che rappresentano “minaccia e problema” per gli alleati Cina e Russia.

La storica attrazione per Istanbul

Secondo il professore universitario, Aydin Sezer, la vicinanza geografica della Turchia fa sì che per chi volesse portare via il suo capitale dalla Russia la rende più accessibile e attraente rispetto alla Cina e ai paesi del Golfo. Nel suo intervento fatto in diretta il 7 marzo, organizzato dal portale di notizie “Gazete Duvar, Sezer sostiene che numerose aziende russe stanno già avviando operazioni di acquisto dei beni di lusso, immobili costosi e vari investimenti finanziari a Istanbul. La stessa notizia è stata approfondita il 15 marzo in un articolo di Nuran Erkul Kaya ed Emre Gurkan Abay anche sul sito dell’agenzia di stato “Anadolou Ajansi” e un’esaustiva carrellata di patrimoni investiti in Turchia da parte di oligarchi russi molto vicini a Putin è stata redatta da su “medyascope”.
In una notizia firmata da “Euronews”, il 15 marzo, invece si parlava di quelle migliaia di “benestanti” russi che hanno deciso di lasciare la Russia per via della loro opposizione contro la guerra ma anche perché pensano che una catastrofe economica sia in arrivo. Lo stesso argomento era stato reso pubblico il giorno prima anche da “The New York Times”. In questo articolo, firmato da Anton Troianovski e Patrick Kingsley, si citavano i principali paesi di destinazione come Armenia, Georgia, Uzbekistan, Kirghizistan e Kazakistan ma anche la Turchia. Perché?

Profughi russi a Istanbul

Un turco trasporta nella neve stambulina materassi comprati da organizzazioni umanitarie per aiutare profughi russi contrari alla guerra e timorosi della catastrofe economica russa.

I motivi sono parecchi. Per esempio, nonostante il fatto che i paesi europei abbiano chiuso i loro spazi aerei agli aerei russi, la Turchia non l’ha fatto e questa scelta rende Istanbul una delle alternative per i russi che vogliono lasciare il paese. Solo la Turkish Airlines continua a organizzare 5 voli al giorno per Mosca e, insieme ad altre compagnie, questo numero supera i 30 in alcuni giorni. Kirill Nabutov, un commentatore sportivo di 64 anni fuggito a Istanbul, nell’intervista rilasciata al quotidiano statunitense afferma che la storia si ripete. Anche la cugina della madre di Nabutov fuggì a Istanbul nel 1920 e da lì andò in Tunisia. Anche se non grande come gli ucraini, questa fuga ricorda quelle 100.000 persone in fuga dalla guerra civile negli anni Venti, dopo la rivoluzione bolscevica, rifugiate a Istanbul.

Politica interna appesa ai colpacci internazionali

Il ruolo della Turchia, da diversi punti di vista, possiede un peso importante in questa fase storica che sta attraversando prima di tutti l’Ucraina poi il resto del mondo. Questo ruolo senz’altro è dovuto alle relazioni che Ankara ha costruito in questi ultimi anni, quelle relazioni basate sul reciproco sfruttamento, esattamente come diversi leader mondiali fanno da tempo. A questo fattore sarebbe opportuno aggiungere anche la crisi diplomatica, economica, energetica e politica in cui si trovano alcuni alleati della Turchia. Come abbiamo visto nell’esperienza della “gestione dei migranti” e nei conflitti armati in Libia e Azerbaigian/Armenia, dove l’incapacità oppure l’indifferenza dell’Unione europea e della Nato subalterna, Ankara approfitta dell’occasione. Infine la situazione economica e politica, devastante, in cui si trova il governo di Erdoğan deve fare qualcosa. Un leader che ha sempre fatto alimentare la politica interna con quella estera non può perdere quest’occasione sperando di perdere a casa qualche vittoria. Ce la farà? Questo dipende anche dagli alleati e dai partner della Turchia.

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Che ci fa la Turchia in Ucraina? https://ogzero.org/che-ci-fa-la-turchia-in-ucraina/ Wed, 09 Feb 2022 17:16:54 +0000 https://ogzero.org/?p=6229 Il presidente della repubblica di Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ha incontrato il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, il 3 febbraio, ufficialmente con l’intento di svolgere il ruolo di mediatore nella crisi in corso tra Kiev, Mosca e Nato. L’apparente confusione frenetica dei movimenti strategici di ogni protagonista – le 5 ore di incontro tra Putin e […]

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Il presidente della repubblica di Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ha incontrato il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, il 3 febbraio, ufficialmente con l’intento di svolgere il ruolo di mediatore nella crisi in corso tra Kiev, Mosca e Nato.

L’apparente confusione frenetica dei movimenti strategici di ogni protagonista – le 5 ore di incontro tra Putin e Macron, il contemporaneo volo di Scholz da Biden; le agenzie e gli allarmi che fanno gioco alla pressione della Nato sui confini russi, che spingono Putin a partecipare alle cerimonie olimpiche di Xi Jinping; la Nato è la pietra dello scandalo, e un suo membro scandalosamente energivoro, che ormai da alcuni anni gioca da fuori, s’insinua in ogni conflitto per vendere i suoi micidiali ordigni senza pilota, o per appropriarsi di energia – di cui è ghiotto. La Turchia, in crisi economica e con inflazione a due cifre abbondanti, è protagonista a tutto campo e quindi anche nello scacchiere più esplorato dall’inizio del 2022 troviamo l’attivismo di Erdoğan e dei suoi droni. Perché? Murat Cinar s’ingegna a spiegarcelo e per farlo ha bisogno di mantenere l’aspetto economico scevro dalla fuffa di pseudolegami tra Ucraina e Turchia: crisi, bilancia commerciale, traffici di armi, droga e gas… la capacità di trasformare le crisi in opportunità.


Perché Ankara?

Il governo turco ha preso posizione schierandosi dalla parte di quello ucraino quasi sin dall’inizio del conflitto, 2004, soprattutto sostenendo i tentativi di autonomia della popolazione tatara che si trova in Crimea e dopo dieci anni di scontri è passata sotto il controllo di Mosca.

Ankara sostiene la tesi della sistematica discriminazione che la popolazione tatara subisce dagli abitanti russi presenti in zona. Ormai è risaputo come Ankara si propone come “portavoce del mondo musulmano” su molte piattaforme e in differenti zone. Anche se questo ruolo ha registrato svariati problemi di coerenza (e anche di opportunità politica che ha dettato le scelte in momenti diversi) in Egitto, Cina, Siria e Palestina. Considerando che la maggior parte dei tatari sono musulmani, le strategie di Ankara assumono una forma vicina al governo centrale ucraino e rientrano quasi automaticamente nell’ottica “antirussa”.

Non è solo una questione romantica

Ovviamente la posizione, a livello geopolitico, molto interessante dell’Ucraina ha fatto sì che questi due paesi condividessero una serie di punti in comune. Il processo per l’integrazione nell’Unione europea, l’Onu, l’Osce, la Blackseafor e l’Operazione Black Sea Harmony sono alcune realtà molto importanti in cui Kiev e Ankara si trovano alleate.

Senz’altro un’eventuale guerra tra Russia e Ucraina danneggerebbe fortemente la Turchia prima di tutto in termini economici poi a livello politico: il paese è soffocato da una profonda crisi economica in corso dal 2018 e il rapporto commerciale che ha costruito il governo centrale con Mosca in questi ultimi dieci anni è enorme. Come era stato comunicato nell’ultimo incontro pubblico del Consiglio di Lavoro Turchia-Russia, l’obiettivo è raggiungere per il 2022 la soglia dei 100 miliardi di dollari statunitensi come volume commerciale.

Dipendenze asimmetriche

Ankara dipende fortemente dalla Russia prima di tutto nel campo energetico ma anche in altri settori. All’inizio di questa crisi economica la svalutazione della Lira nel 2018 aveva colpito il prezzo della carta dei giornali perché la Turchia paga circa 53 milioni di dollari all’anno per acquistarla dalla Russia, questo volume costituisce circa il 65% del fabbisogno nazionale. Il discorso si espande senz’altro su altri campi come il turismo, il nucleare e le spese militari soprattutto tenendo in considerazione che Ankara in questi ultimi anni si è allontanato sempre di più, a livello politico e commerciale, dai suoi storici partner economici: Unione europea e Washington.

Questo rapporto commerciale in crescita vale anche per l’Ucraina. Secondo la Camera di Commercio di Istanbul (Ito) nel 2021 il volume commerciale superava i 7,4 miliardi di dollari Usa e nel 2022 l’obiettivo è raggiungere i 10. Solo nell’ultimo incontro avvenuto il 3 febbraio sono stati firmati ben 8 accordi commerciali tra Erdoğan e Zelensky. La collaborazione tra questi due paesi è in forte crescita anche nel campo militare.

Droni Bayraktar Siha turchi venduti all'Ukraina

Bayraktar SİHAs, che Ankara ha venduto all’Ucraina lo scorso anno, ha suscitato la reazione della Russia. Mosca aveva avvertito che questi UAV non dovrebbero essere usati contro i filorussi nell’Ucraina orientale.

Come ha specificato qualche giorno fa il primo ministro ucraino, Denys Šmihal’, tra i progetti c’è anche quello di costruire una fabbrica sul territorio ucraino per produrre i droni armati Made in Turkey. Quei famosi droni infami che in diverse parti del mondo stanno cambiando l’andamento dei conflitti armati. In particolare quelli che vende Ankara sono prodotti della famiglia Bayraktar, quella del genero di Erdoğan. Questi droni armati, i Bayraktar SİHA, che Kiev aveva già acquistato e usato contro i separatisti filorussi nell’Est, saranno utilizzati durante l’esercitazione militare del 10 febbraio.

Il tema dei droni è un tema molto caldo. Infatti nel mese di aprile del 2021, Mosca in un video in cui presentava il suo nuovo drone kamikaze simulava un attacco fatto contro un drone armato, prodotto dalla Turchia. Diverse volte i vertici del governo russo si sono espressi per comunicare la loro amarezza in merito alla vendita dei droni turchi a Kiev. La questione è diventata ultimamente molto interessante perché John Kirby, il portavoce del Ministero della Difesa nazionale statunitense, ha sostenuto, il 4 febbraio, durante l’ordinaria conferenza stampa, che Mosca si stava preparando per divulgare un finto video in cui avrebbe sostenuto che i droni turchi comandati da Kiev avrebbero colpito le postazioni russe così la Russia avrebbe legittimato un eventuale intervento militare in Ucraina. Un po’ come le foto taroccate che l’ex segretario di stato statunitense, Colin Powell, mostrò il 5 febbraio del 2003 dinanzi al Consiglio di sicurezza dell’Onu per legittimare l’invasione dell’Iraq da parte degli Usa.

Un conflitto, un problema e un guadagno per Ankara?

Ovviamente un’eventuale guerra in Ucraina metterebbe Ankara in una posizione molto difficile dato che in questi ultimi anni ha provato a fare tutto il possibile per curare rapporti sia con Kiev sia con Mosca. Per via della sua posizione all’interno della Nato, Ankara potrebbe trovarsi con la necessità di attuare un embargo commerciale nei confronti di Mosca e questo sarebbe il colpo di grazia per mandare in bancarotta l’economia turca e molto probabilmente confermerebbe la fine della carriera politica di Erdoğan che è già molto vicina al capolinea, visto il malessere collettivo e gli ultimi sondaggi elettorali (elezioni presidenziali si svolgeranno nel 2023).

In particolare questo scenario per la famiglia Erdoğan sarebbe una disgrazia poiché è fortemente coinvolta nel commercio di droga, lo spaccio di petrolio illegale e la forte corruzione.

L’incontro avvenuto tra Erdoğan e Zelensky è stato il decimo incontro sotto l’ombrello del Consiglio Strategico di Alto Livello. Si tratta di un incontro che era stato anticipato da numerosi inviti inoltrati dal presidente della repubblica di Turchia, rivolti a tutte le parti interessate da questa crisi. A prima vista sembra che Erdoğan abbia una forte intenzione di svolgere quel ruolo di “mediatore”. Tuttavia non va ignorata anche l’esistenza di quella posizione complicata e difficile in cui si trovano le relazioni internazionali di Ankara. Dunque oltre la crisi economica, che è un punto fondamentale da tenere in considerazione, molto probabilmente anche il gioco di “mantenere gli equilibri sensibili” è stato uno degli obiettivi perseguiti da Erdoğan.

Bombardamenti nella regione di Idlib.

Gli azzardi bellici nell’ultimo lustro

Infatti le scelte politiche, militari ed economiche che Ankara ha fatto in questi ultimi 5 anni, prima di tutto in Siria poi in Libia, sono state molto pericolose e fragili. Ankara, pur in conflitto politico ed economico con il regime di Assad, sostenuto da Mosca, è riuscita a ottenere l’autorizzazione da Putin di entrare sul territorio siriano almeno 5 volte con un gruppo di mercenari jihadisti. Una scelta e un’alleanza molto critiche che hanno causato addirittura la morte di 33 soldati turchi nel mese di febbraio del 2020 a causa di un bombardamento russo.

La presenza della Turchia anche in Libia è una scelta molto delicata dato che Ankara ufficialmente, economicamente, politicamente ma soprattutto militarmente ha sempre sostenuto il governo di Tripoli ossia al-Sarraj che è stato in guerra aperta con il generale Haftar sostenuto in tutti i modi da Mosca.

Oltre questo “equilibrio” molto delicato anche in Libia il ruolo dei droni turchi è stato determinante perché al-Sarraj potesse vincere il conflitto armato.

L’ultima mossa pragmatica e molto delicata di Ankara è stata quella di sostenere Baku nel conflitto armato tra Azerbaijan e Armenia. Un’altra guerra in cui, in teoria, Ankara e Mosca si sarebbero trovate in conflitto dato che Erevan riceveva il sostegno politico di Putin. Tuttavia anche in questo conflitto l’appoggio militare ed economico della Turchia è stato determinante, almeno a livello mediatico, e la guerra si è conclusa con una serie di “vittorie” per Baku. L’accordo per la “pace” è stato firmato a Mosca e in  seguito e per il futuro il territorio sarà controllato da Mosca collegando l’Azerbaijan tramite un corridoio con la Turchia.

Il ruolo assunto da Ankara non si è concluso ancora, il rischio per un conflitto armato che potrebbe coinvolgere altri attori anche al di fuori del territorio ucraino esiste tuttora. Ma per Ankara è assolutamente necessario che la situazione si calmi dato che ha bisogno sia di Kiev sia di Mosca per motivi politici, economici e militari. Inoltre Ankara resta ancora un membro importante della Nato e risulta un partner strategico per Washington.

Infatti il primo messaggio di congratulazioni è già arrivato da Jens Stoltenberg, il segretario generale della Nato: «Ho sentito il presidente Erdoğan e l’ho ringraziato per il suo personale e attivo sostegno volto a trovare una soluzione politica e per il suo sostegno pratico all’Ucraina».

Se non funziona?

Ovviamente gli scenari sono tanti ma se la mediazione di Ankara non funzionasse e la crisi diventasse più profonda senz’altro Mosca potrebbe decidere di usare la carta del “gas” contro l’Unione europea. Esattamente come ha fatto in tutti questi anni, Erdoğan, insieme al suo partito e ai suoi imprenditori, potrebbe decidere di attivare nuovi piani per trasformare la crisi in un’opportunità. Si è visto con che velocità, lo scorso autunno, sono stati ripristinati i rapporti politici, economici e militari con gli Emirati, quel paese ch’era stato accusato da Ankara di essere uno dei progettisti del fallito golpe del 2016.

Alternative

Infatti sono giorni che Ankara dedica spazio e tempo alla diplomazia per capire se il gas azero, qatariota o addirittura quello israeliano può essere portato in Turchia e rivenduto ai paesi europei. Nel mese di gennaio, Kadri Simson, Commissaria europea per l’Energia, aveva annunciato che la Commissione stava sondando anche Baku per valutare l’opzione del gas azero. Si tratta del famoso Corridoio meridionale del gas (conosciuto come Tap Tanap) che attraversa tutto il territorio della Turchia per concludere il suo flusso in Salento.

Il progetto del gasdotto Tap Tanap.

Una seconda opzione sarebbe il gas israeliano. Infatti nella sua visita in Albania il presidente della repubblica di Turchia aveva parlato di quest’opzione, rilasciando quest’affermazione apodittica: «Non si può portare il gas israeliano senza coinvolgere la Turchia». Lo stesso tema è stato riproposto dallo stesso presidente anche al rientro in Turchia dopo la visita in Ucraina:

«Nel mese di marzo il presidente israeliano Herzog sarà in Turchia, parleremo dell’idea di portare il gas israeliano in Turchia. Dopo averne usato per la nostra necessità nazionale siamo disposti a rivenderlo all’Europa».

Quindi anche in questo caso il disegno economico e politico che strozza la Turchia da più di 20 anni è un attore importante e potrebbe acquisire maggior ruolo soprattutto grazie a una cultura politica, economica e militare perversa e distruttiva che diventa sempre più dominante nel Medio Oriente e in Europa.

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La geopolitica di Sedat Peker. 2: il convitato di pietra al vertice Nato https://ogzero.org/la-geopolitica-di-peker-il-convitato-di-pietra-al-vertice-nato/ Tue, 15 Jun 2021 11:25:51 +0000 https://ogzero.org/?p=3859 Prosegue la serie di interventi a cura di Murat Cinar sulle videorivelazioni di Sedat Peker: in questo secondo articolo veniamo trasportati dal racconto a spot nelle più disparate aree sullo scacchiere internazionale, scoperchiando affari di ogni tipo che scaturiscono dai dossier in possesso di questo mafioso fino a qualche mese fa al servizio dell’Akp. Questa […]

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Prosegue la serie di interventi a cura di Murat Cinar sulle videorivelazioni di Sedat Peker: in questo secondo articolo veniamo trasportati dal racconto a spot nelle più disparate aree sullo scacchiere internazionale, scoperchiando affari di ogni tipo che scaturiscono dai dossier in possesso di questo mafioso fino a qualche mese fa al servizio dell’Akp. Questa puntata cerca di dare un’interpretazione della politica estera di Erdogan nel momento del suo primo incontro con Biden e capita in un momento di incertezza sulla sorte di Sedat Peker negli Emirati, perché ha mancato un appuntamento e non si è più palesato con quei tweet – che invece cadenzavano le sue esternazioni con annunci quotidiani; voci lo davano come catturato o dai servizi emiratini, o addirittura vittima di un blitz di quelli turchi. Nella mattinata del 15 giugno il suo addetto stampa ha diramato un comunicato in cui si annuncia che è stato convocato dalle autorità emiratine e anche privato del cellulare, probabilmente si tratta di una sorta di detenzione provvisoria per accertamenti. Dopodiché è rientrato e ha prontamente ripreso a utilizzare Twitter e a preannunciare ai suoi fan rivelazioni da fascicoli e cartelle che sta ricevendo e studiando.  

Nel primo articolo avevamo inquadrato il funambolico autore e interprete di questi appuntamenti su YouTube, il contesto in cui è cresciuto il suo potere, la palude che ha permesso si creasse una rete di collusioni tra organizzazioni mafiose, traffici d’armi e droghe e il sistema di potere, i partiti della destra nazionalista, il clan del presidente della repubblica turca. Il prossimo articolo di questa serie affronterà la maniera in cui il governo centrale ha approfittato dell’occasione per colpire la stampa indipendente e i partiti dell’opposizione. E infine, l’ultima puntata prevista si occuperà della vicenda dei tre giornalisti la cui uccisione avvenne agli inizi della carriera del mafioso al servizio del regime e che trovano spazio nelle videorivelazioni; i video di Peker hanno influenzato l’andamento dei processi per la loro morte.


Politica estera panturchista

La telenovela mafiosa sta facendo discutere ancora la Turchia, anche se Sedat Peker aveva smesso di pubblicare video. Secondo i tweet di Peker, dopo il nono video, sembra che sia stata identificata la location in cui si trovava. Dunque pareva che Peker dovesse mettersi alla ricerca di un nuovo rifugio, dopo l’odissea che lo aveva visto abbandonare il Mediterraneo. Vedremo in occasione delle prossime puntate in che modo riuscirà a sottrarsi alla caccia dei servizi di Ankara.

Intanto ci occupiamo delle componenti internazionali presenti nei videomessaggi registrati e trasmessi dal personaggio di spicco del movimento panturchista: infatti riguardano anche una serie di elementi importanti legati alla politica estera dell’attuale governo in Turchia.

I paesi della fuga di Peker

Balcani

Tra i paesi citati nei video di Peker troviamo prima di tutto alcuni paesi balcanici. Si tratta di una zona in cui Peker si sarebbe recato per trovare rifugio circa due anni fa, dopo aver lasciato la Turchia: Albania, Macedonia, Kosovo, Montenegro, Serbia e Bosnia Erzegovina. Peker quando parla di questi paesi si riferisce a delle zone in cui trova una risposta politica e una collaborazione diretta. Addirittura nel caso macedone e nel caso kosovaro parla dei rapporti diretti che ha avuto con gli alti esponenti dei governi e dei servizi segreti. È ormai palese, evidente e conosciuta la presenza economica, politica, religiosa e anche criminale di Ankara nei Balcani.

Il 24 aprile 2020 veniva ratificato l’accordo militare tra il ministro della Difesa turco Hulusi Akar e quella albanese Olta Xhachka, che si andava ad aggiungere all’impegno nelle infrastrutture del paese delle aquile e nel sostegno della cultura islamica nei Balcani

Maghreb

Sempre seguendo la via di fuga di Peker scopriamo alcuni dettagli legati al Marocco. In questo paese pare che il boss mafioso abbia potuto fermarsi solo per due giorni. Secondo le dichiarazioni di Peker, avrebbe dovuto lasciare il paese nordafricano nell’arco di due giorni perché la pressione da parte di Ankara è stata molto forte. In un suo video Peker parla della vendita di droni armati da parte della Turchia verso il Marocco a prezzo dimezzato. Infatti nel mese di aprile del 2021 Ankara ha venduto 13 droni al Marocco per 70 milioni di dollari statunitensi. Soltanto un anno fa aveva venduto per lo stesso prezzo solamente sette droni al Marocco. Molto probabilmente il paese maghrebino sta utilizzando questi droni, e non solo, nelle sue operazioni militari nel deserto contro il Polisario. Non sappiamo se è stato questo rapporto commerciale a essere un elemento chiave per la fuga di Peker dal Marocco, o meno. Tuttavia una certezza l’abbiamo: il fatto che uno dei generi del presidente della repubblica di Turchia detiene l’esclusiva per la produzione dei droni armati per l’esercito turco, perciò la Turchia è diventata in pochi anni una produttrice massiccia di questi mezzi militari vendendoli in svariati paesi nel mondo. Sottolineiamo che la Turchia sta producendo questi droni con l’ausilio tecnologico di Inghilterra, Germania e Canada.

13 droni Bayraktar TB2 svenduti a Mohammed VI del Marocco

Caucaso

Se si dovesse passare a un altro paese in cui i droni di Ankara hanno fatto vincere una guerra, ovviamente dovremmo parlare dell’Azerbaijan. Nei suoi video Peker si riferisce diverse volte a questo paese confinante con la Turchia. Peker in generale specifica come in Azerbaijan sia molto presente l’imprenditoria turca e stia giocando sporco con l’intento di diventare un vero monopolio economico sul territorio. Mubariz Mansimov, è un nome che Peker cita spesso nei suoi video. L’imprenditore azero presente in Turchia, secondo diversi leaks svelati in questi anni, sembra che sia stato un vero aiuto per la realizzazione dei progetti economici di Erdogan e la sua famiglia. I conti nel paradiso fiscale dell’isola di Man, oppure le diverse aziende petrolifere sono soltanto due elementi di cui si parla da tempo quando si cita il cognome Mansimov. L’imprenditore azero è stato arrestato con l’accusa di appartenere alla comunità di Gülen, accusa avanzata da due suoi ex soci nell’ambito del processo in cui lo stesso imprenditore si lamentava per una truffa pianificata contro di lui con l’intento di sottrargli tutti i suoi beni. In questo contesto subentrano i video del boss mafioso. Secondo Peker, l’ex ministro degli interni, Mehemet Ağar, personaggio molto discutibile degli anni Novanta, si sarebbe appropriato dei beni di Mansimov in modo mafioso e forse anche illegale. Nei suoi video Peker quando parla dell’Azerbaijan rileva una grande ipocrisia nel sostegno di Ankara e secondo lui il racconto dei rapporti tra Ankara e Baku è improntato a una grande bugia di fondo.

Mübariz Mansimov, l’imprenditore azero implicato in affari non del tutto chiari con il clan di Erdoğan

Cipro

Un altro paese citato dal personaggio di spicco della criminalità organizzata è Cipro. L’isola da anni in grande difficoltà politica, divisa in due parti, è anche una scatola nera. Dal traffico delle armi fino al riciclaggio di denaro, dalla tratta di persone fino al traffico di droga le trame riconducono a Cipro da quando la guerra tra Atene e Ankara si è conclusa. Infatti in uno dei suoi video Peker parla dell’uccisione del giornalista turco-cipriota Kutlu Adali, giornalista assassinato nel 1996, e la parte turca della capitale dell’isola Nicosia è diventa uno degli sfondi preferiti dal nostro personaggio. Per quanto riporta nei suoi video Peker, l’assassinio del giornalista sarebbe il risultato di una collaborazione tra l’ex ministro degli interni Ağar e un ex membro dei servizi segreti turchi, Korkut Eken. Peker specifica che in quel periodo è stato contattato da questi due personaggi che gli diedero l’incarico di assassinare il giornalista, e questo compito venne affidato da lui a suo fratello Attila Peker. Infatti in seguito al video in cui si parlava dell’assassinio del giornalista suo fratello è andato a depositare la sua testimonianza presso la procura di Fethiye. Secondo le dichiarazioni del fratello è stato proprio l’ex membro dei servizi segreti Eken a portare Peker sull’isola con l’intento di assassinare il giornalista. Pochi giorni dopo Korkut Eken, chiamato in causa, non ha smentito di conoscere Attila Peker e nemmeno il fatto che siano andati sull’isola. Tuttavia secondo Eken, erano andati sull’isola con l’intento di effettuare indagini sui feriti del Pkk portati nell’isola e successivamente trasferiti in Grecia. Pochi giorni dopo le dichiarazioni del fratello uno dei procuratori di Anadolu ha aperto un’inchiesta per approfondire le informazioni sull’assassinio del giornalista. Tuttavia va sottolineato il fatto che la Turchia sia stata condannata a 95.000 euro di risarcimenti nel 2005 dalla Cedu per non aver aperto un’inchiesta approfondita volta a chiarire l’assassinio del giornalista.

Venezuela

Oltre a queste nazioni, la telenovela mafiosa si occupa anche di un paese sudamericano esportatore di petrolio molto importante. Secondo Peker proprio il figlio dell’ex primo ministro Binali Yıldırım sarebbe arrivato a controllare un traffico di droga che coinvolge una serie di paesi tra cui anche il Venezuela dove, secondo Peker, proprio durante la pandemia il figlio di Yıldırım si è recato andato con l’intento di disegnare e coordinare la nuova rotta. Il viaggio della droga prevede il passaggio dalla Colombia, poi passando in Italia proseguirebbe successivamente in Turchia con l’obiettivo di finire in Siria. Secondo Peker in questo giro sono coinvolti in qualche maniera l’attuale ministro degli interni Süleyman Soylu e l’ex ministro dell’interni Mehemet Ağar. Pochi giorni dopo Yıldırım senior si è presentato davanti alle telecamere e ha smentito tutto dicendo che suo figlio era andato in Venezuela sì, ma per portare degli aiuti necessari nell’ambito della lotta contro la pandemia. Tuttavia finora non è stata dimostrato nessun registro doganale che documenta questa transazione. Anche se successivamente alcuni giornalisti allineati con il governo hanno riferito che gli aiuti in questione erano trasportabili in una valigia, ma le spiegazioni finora rilasciate non hanno soddisfatto l’opinione pubblica.

Il ministro degi Esteri Cavusoglu saluta Maduro a Caracas il 18 agosto 2020

Dal punto di vista geopolitico i video di Peker riaprono un capitolo molto particolare e poco chiaro che riguarda il rapporto tra Venezuela e Turchia. Negli anni precedenti il presidente Nicolás Maduro aveva visitato diverse volte la Turchia e durante le sue visite alcuni giornalisti turchi vociferavano di un eventuale trasferimento di lingotti d’oro dalla banca centrale venezuelana verso la banca centrale turca. Magari non sotto forma di lingotti d’oro ma il commercio dell’oro tra questi due paesi è diventata una notizia importante anche per l’agenzia di notizie internazionali Reuters. In conclusione va ricordato che il primo leader mondiale a congratularsi con Erdoğan per il successo nell’ultima tornata elettorale è stato Maduro.

Siria

Ovviamente il paese citato di più da Peker nei suoi video è quello che costituisce il problema maggiore nel rapporto tra Washington e Ankara. Ovviamente stiamo parlando della Siria. In uno dei suoi video Peker racconta che nel 2014 aveva deciso di trasportare aiuti umanitari con propri tir dalla Turchia verso la Siria; l’iniziativa era diventata un fatto mediatico poiché quel trasferimento è stato spettacolarizzato dal capo mafioso.

Traffici d’armi e aiuti agli jihadisti

Peker è un esponente importante del movimento panturchista e dunque ovviamente aveva deciso di aiutare le brigate armate turcomanne presenti in Siria; le brigate di cui si parla avevano imbracciato le armi per difendere in teoria la loro autonomia e – sempre in teoria – per lottare contro il regime centrale, tuttavia sta di fatto che diverse organizzazioni non governative hanno testimoniato che alcune brigate turcomanne avevano collaborato con le organizzazioni jihadiste e perciò sono state definite terroristiche. Nel suo video Peker specifica che due tir mandati da lui sono stati caricati di armi a sua insaputa dalla compagnia militare di sicurezza privata Sadat. Peker dice che queste erano armi non registrate messe a sua insaputa dentro i suoi tir da questa ditta di contractor. Il capo dell’azienda Sadat, Adnan Tanriverdi, attualmente è il capo consulente del presidente della repubblica turca. Secondo alcuni giornalisti l’azienda Sadat è stata protagonista durante il fallito golpe del 15 luglio 2016. La Sadat dichiara ufficialmente sul proprio sito che addestra diverse forze militari in svariati paesi musulmani con l’intento di creare una forza militare unita e forte. Secondo la leader del terzo partito di opposizione, Meral Aksener, la Sadat ha diversi centri di addestramento illegali sulle coste turche del Mar Nero. Ovviamente in questo va ricordato il fatto che due giornalisti del quotidiano nazionale “Cumhuriyet” abbiano raccontato in modo approfondito di questo traffico di armi dalla Turchia verso la Siria. Proprio nel 2014 questi due tir erano stati fermati dalla gendarmeria turca a due passi dal confine siriano e alla guida dei tir c’erano alcuni agenti dei servizi segreti. La notizia in realtà è stata svelata e trasmessa anche da altri giornali tuttavia a pagare i conti sono stati Can Dündar e il suo collega Erdem Gül. Dopo la diffusione della notizia dapprima il governo con tutti i suoi componenti ha smentito i fatti e successivamente proprio il presidente della repubblica ha ammesso il traffico d’armi, dicendo però che questo era un segreto di stato e non poteva essere assolutamente messo in discussione. In seguito Dündar finì nel mirino del governo e ora è esiliato a Berlino. Dopo tre mesi di carcere e un attentato evitato davanti al palazzo di giustizia a Istanbul, i giornalisti citati sono stati definiti come dei traditori della patria e collaboratori di terroristi.

In merito ai rapporti tra l’Isis anche un parlamentare dell’opposizione Eren Erdem aveva fatto un lungo intervento in aula documentando la sua tesi relativa all’esistenza di una forte negligenza da parte dei servizi segreti e della magistratura in merito alle attività dell’Isis in Turchia. Questo fatto era stato smentito sistematicamente da tutti i componenti del governo. Oltre i video classici di ogni domenica, il nostro personaggio panturchista ha anche diffuso sul suo account Twitter una breve videochiamata realizzata col marito della cugina di Erdoğan il 3 giugno di quest’anno. In questo video Serdar Ekşioğlu ammetteva che nei tir di Peker erano state caricate delle armi a sua insaputa dall’azienda Sadat.

Dissapori tra Washington e Ankara sulla Guerra siriana

Le scelte del governo turco nella guerra siriana sono state questioni di discussione tra Washington e Ankara. L’amministrazione Obama e successivamente quella di Trump non hanno mai accettato le scelte di Ankara in Siria. La stessa cosa vale ovviamente anche per Ankara. In cima alla lista delle cose che hanno creato il conflitto vediamo senz’altro le parti che sostengono questi due paesi sul territorio siriano. Mentre per l’amministrazione statunitense gli alleati erano inquadrati nelle unità di difesa popolari (Sdf); per Ankara invece l’unico alleato sul territorio è stato la formazione armata composta dagli oppositori moderati ossia l’esercito libero siriano (Esl), definito da diverse organizzazioni non governative come un esercito armato jihadista. Questa diversità di posizione e di alleati ha fatto sì che Washington e Ankara si allontanassero di più tra di loro nella Guerra siriana, e dopo un breve periodo di conflitto con Mosca, Ankara si è avvicinata sempre di più al polo composto da Russia, Iran e indirettamente Siria.

In pieno conflitto con la Russia il vice del ministro della Difesa, Anatoly Antonov, aveva dimostrato in diretta a tutto il mondo, nel dicembre 2015, che alcuni tir pieni di petrolio controllati dall’Isis entravano in Turchia e secondo Antonov era la famiglia di Erdoğan a comprare questo petrolio clandestino. Dopo la rappacificazione con Mosca a questo discorso è stata messa la sordina. Ma è rimasto sempre presente come punto dolente tra gli alleati in ambito Nato. Nei suoi video anche Peker parla del traffico dil petrolio clandestino tra Isis e Turchia.

Il conflitto politico in atto tra questi due alleati in merito alla guerra civile in Siria ha fatto sì che soprattutto Ankara si sbottonasse tramite le dichiarazioni del presidente della repubblica, diverse volte in vari comizi pubblici. Ankara non ha esitato a descrivere sia l’amministrazione Obama che quella Trump come due amministrazioni traditrici e sostenitrici di formazioni terroristiche sul territorio siriano. In questa fase di grande allontanamento tra i due alleati l’amministrazione statunitense ha deciso di prendere posizioni come sanzioni economiche oppure militari contro Ankara. A questo punto nasce lo scandalo legato al sistema di protezione aerea S-400 che Ankara decise di comprare da Mosca. La scelta molto radicale e non comune tra gli alleati della Nato giustificata da Ankara dicendo che gli Stati Uniti non vendevano quello che la Turchia desiderava acquistare come protezione aerea. Le diversità politiche e di scelta tra questi due paesi si concentrano anche sulle richieste storiche di Ankara. Mentre la Turchia chiedeva una no-fly zone e una zona cuscinetto nel Nord della Siria l’amministrazione statunitense non è mai stata a favore di questa richiesta. Dunque Ankara col passare del tempo ha giustificato le sue operazioni militari sul territorio siriano senza il suo alleato basandosi su questo conflitto in cui si sente lasciata sola.

Insomma la patata bollente siriana continua essere il punto di maggior contrasto nella relazione tra Washington e Ankara. Le scelte radicali, solitarie e spesso complici con Mosca sono la linea rossa di Ankara. Dunque coloro che criticano le scelte del governo centrale nella guerra siriana, all’interno della Turchia, hanno sempre ricevuto minacce, linciaggio mediatico e politico e anche conseguenze legali.

L’incontro al vertice Nato tra Biden e Erdoğan

Il 14 giugno a Bruxelles nell’ambito dell’incontro G7, Biden e Erdoğan si sono visti e hanno parlato per la prima volta di persona dopo la vittoria elettorale del presidente statunitense. Si sarà discusso di Siria e Azerbaijan e poi anche di Libia. La Casa Bianca sottolinea che la discussione ha compreso anche i comportamenti degli alleati della Nato.

Mentre negli ultimi giorni arrivano nuove dichiarazioni da diversi esponenti del governo, come il ministro degli affari esteri, da tempo la posizione di Washington sul sistema S-400 è rigida. Ovvero Ankara sembra che sia sempre più disposta ad accettare nuove proposte per ricucire il suo rapporto con Washington invece l’amministrazione statunitense non ha nessun intenzione di fare un passo indietro.

Preparazione all’incontro al vertice: due schiaffoni a Erdoğan

In quest’ottica è molto importante la visita effettuata da Wendy Sherman il 29 maggio di quest’anno. La viceministro degli esteri dell’amministrazione statunitense ha incontrato diverse organizzazioni non governative delle donne, ha parlato dei diritti umani limitati e negati in Turchia e all’interno del consolato statunitense a Istanbul si è fatta fotografare con la mascherina sulla quale c’era scritto “Convenzione di Istanbul”. Ha poi incontrato il mondo dell’imprenditoria e dopo questo incontro ha sottolineato che anche quel mondo è preoccupato del fatto che siano limitati e negati i diritti umani in Turchia, e infine ha incontrato il patriarca Bartolomeo della Chiesa ortodossa orientale.

Un’altra visita importante di questi ultimi giorni è stata quella di Linda Thomas Greenfield avvenuta il 4 giugno di quest’anno in Turchia. Anche l’ambasciatrice permanente degli Usa all’Onu nella sua visita ha esternato la preoccupazione dell’amministrazione statunitense in merito ai diritti umani negati in Turchia. Inoltre Greenfield ha sottolineato che la gestione dei rifugiati è un tema molto importante dunque è essenziale riaprire le dogane con la Siria con l’intento di portare in questo paese gli aiuti umanitari necessari.

“La geopolitica di Sedat Peker: camion pieni di… traffici, droni, appalti”.

In un intervento su Radio Blackout Murat riassume le rivelazioni di politica internazionale di Sedat Peker

Già queste anticipazioni lasciavano intendere che Biden intendeva incentrare l’incontro con Erdogan sui diritti umani, sulla posizione di Ankara in Siria e sul futuro del sistema di protezione aerea S-400. Ovviamente molto probabilmente Erdogan avrà chiesto a Biden di sospendere il processo Halkbank. Un processo in cui è coinvolta quella banca statale all’interno di un grande progetto di riciclaggio di denaro, evasione fiscale e di aver ignorato l’embargo emesso nei confronti dell’Iran. Il processo in atto da quasi tre anni ha fatto sì che alcuni imputati dichiarassero apertamente con prove quanto il presidente della repubblica di Turchia fosse coinvolto in questo enorme scandalo. Si è scoperto successivamente come l’amministrazione Trump a seguito della richiesta di Erdoğan abbia fatto tutto il possibile perché questo processo procedesse a rilento.

Tutti e due gli alleati si sentono offesi e traditi, tutti e due posseggono delle carte importanti per ricattare l’altro e non sembra abbiano una determinata intenzione e volontà di fare un passo indietro. Però chi è uscito da una vittoria elettorale è Biden e chi risulta essere storicamente in una posizione molto debole è Erdoğan, dunque il 14 potrebbe essere stato un momento veramente importante e, all’interno di questo quadro molto particolare, le rivelazioni di Peker potrebbe avere inciso notevolmente per una posizione di difesa attendista da parte di Erdoğan. In conclusione va ricordato che sia Ankara che Washington tuttora si trovano come due alleati all’interno della Nato e Peker da un momento all’altro potrebbe essere arrestato.

L'articolo La geopolitica di Sedat Peker. 2: il convitato di pietra al vertice Nato proviene da OGzero.

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La geopolitica di Sedat Peker. 1: la vendetta corre sul video https://ogzero.org/le-videorivelazioni-di-sedat-peker-la-vendetta-corre-sul-video/ Wed, 02 Jun 2021 15:20:00 +0000 https://ogzero.org/?p=3737 Inauguriamo la serie di interventi a cura di Murat Cinar sulle videorivelazioni di Sedat Peker: in questo primo articolo si è cercato di inquadrare il personaggio, il contesto in cui è cresciuto il suo potere, fondato soprattutto sui tanti dossier che ha potuto crearsi nel tempo di aderenza con tutti i gangli del potere dell’Akp. […]

L'articolo La geopolitica di Sedat Peker. 1: la vendetta corre sul video proviene da OGzero.

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Inauguriamo la serie di interventi a cura di Murat Cinar sulle videorivelazioni di Sedat Peker: in questo primo articolo si è cercato di inquadrare il personaggio, il contesto in cui è cresciuto il suo potere, fondato soprattutto sui tanti dossier che ha potuto crearsi nel tempo di aderenza con tutti i gangli del potere dell’Akp. La palude che ha permesso si creasse una rete di collusioni tra organizzazioni mafiose, traffici d’armi e droghe e il sistema di potere, i partiti della destra nazionalista, il clan del presidente della repubblica turca sono fotografati attraverso le inquadrature dei video scaricati in rete dagli Emirates: un terremoto per la comunità turca in attesa come noi del prossimo video che può gettare luce sulla Storia della Turchia (e dell’area mediterranea) – o spargere bocconi avvelenati.

Il prossimo articolo di questa serie racconterà la svolta improvvisamente geopolitica del nono appuntamento con il mafioso, il cui canovaccio improvvisamente è stato stravolto per accuse di complotti internazionali da smentire e quindi… Peker da consumata volpe del palcoscenico, anziché rivolgersi al presidente come previsto, annuncia rivelazioni riguardanti intrecci con l’India di Modi, il bancomat qatariota, ma soprattutto la tragedia siriana completerà le conclusioni più squisitamente geopolitiche che emergono dalla serie di Peker; e sullo sfondo la relazione tra la Turchia di Erdoğan e la Russia di Putin nell’ultimo decennio, ma anche le altre vicende mediorientali, mediterranee e globali scoperchiate dal mafioso che sapeva troppo. Nel terzo articolo invece si affronterà la maniera in cui il governo centrale ha approfittato dell’occasione per colpire la stampa indipendente e i partiti dell’opposizione. E infine, nel quarto intervento troverà spazio la vicenda di tre giornalisti la cui uccisione avvenne agli inizi della carriera del mafioso al servizio del regime e che trovano spazio nelle videorivelazioni; i video di Peker hanno influenzato l’andamento dei processi per la loro morte.

 


Sedat Peker, personaggio di spicco del movimento panturchista, accusato di appartenere al mondo della criminalità organizzata e attualmente in esilio negli Emirati Arabi Uniti, da più di un mese pubblica dei lunghi videomonologhi svelando una serie di informazioni su diversi personaggi appartenenti all’attuale governo e al mondo della burocrazia e imprenditoria.

A oggi sono otto i video pubblicati da Peker. Girati con il cellulare, durano poco più di un’ora e la loro realizzazione avviene nella sala di un appartamento lussuoso. Il linguaggio di Peker è diretto e chiaro, parla facendo nomi e cognomi, date e luoghi; illustra una serie di relazioni complicate e importanti. In questi video anche se spesso risulta pacato, calmo e composto è evidente che Peker sia arrabbiato e abbia deciso d’intraprendere questa strada per vendetta.

Chi è Sedat Peker?

Nato a Sakarya nel 1971, Peker ha cominciato a farsi notare già durante il suo primo processo negli anni Novanta in cui veniva accusato di aver fondato un’organizzazione criminale illegale perseguita per «estorsione, sequestro di persona e istigazione all’omicidio».

Nel 1997 Peker è stato assolto dall’omicidio di Abdullah Topçu, accusato di essere un contrabbandiere nella città di Rize; tuttavia le due persone che sono state processate con Peker sono state condannate all’ergastolo per l’omicidio di Topçu.

In quel periodo era fuggito in Romania, ma fu riportato in Turchia nel mese di agosto del 1998; nuovamente processato e assolto nel maggio successivo, contro di lui erano ascritti molteplici reati. In quel frangente rimase in carcere per otto mesi.

Verso la fine del 1999, in un’intervista rilasciata al quotidiano nazionale “Milliyet”, Sedat Peker, si descriveva come un «panturchista e turanista» e si difendeva dalle accuse a lui rivolte dicendo che stava «cercando di ottenere i soldi che gli spettavano, ma andando oltre i limiti delle relazioni civili».

Pochi anni dopo, nel 2005, Peker è stato arrestato di nuovo, nell’ambito dell’operazione Kelebek (Farfalla) a Istanbul, a seguito delle operazioni ad ampio raggio contro le organizzazioni della criminalità organizzata. È stato condannato a 14 anni di galera e in un altro processo, in cui era stato accusato di «fondare un’organizzazione armataı, era stato condannato a 1 anno di reclusione.

Ergenekon: il “tentato colpo di stato non armato”

Il nome di Sedat Peker è apparso anche nel maxiprocesso Ergenekon. Un processo che segnò un periodo particolare della storia della repubblica di Turchia. Era l’inizio della carriera del partito al governo, Partito dello Sviluppo e della Giustizia (Akp). L’attuale presidente della repubblica, Recep Tayyip Erdoğan, allora primo ministro, si definì come il “procuratore simbolico di questo processo”. In questo caso fu coinvolto anche Peker e fu condannato a 10 anni di reclusione.

L’Ergenekon, mentre identificava una serie di personaggi dell’esercito, dei servizi segreti e del mondo della criminalità organizzata con le mani piene di sangue, pian piano diventava anche una scusa per arrestare e zittire tutte le voci dell’opposizione; giornalisti, avvocati, politici, sindacalisti, insegnanti e studenti. Il maxiprocesso Ergenekon, dopo il fallito golpe del 2016 è stato definito come un «tentativo di colpo di stato non armato» dal governo attuale, tutti gli imputati sono stati assolti e quei giudici, procuratori e poliziotti che si erano impegnati in questo maxiprocesso sono stati arrestati, processati, sospesi oppure obbligati a lasciare la Turchia. Peker, condannato in questo processo, fu scarcerato nel 2014 grazie a una riforma legislativa, senza condizioni.

Peker, sostegno incondizionato a Erdoğan

Negli anni successivi alla sua scarcerazione i legami tra Peker e Akp, ma particolarmente con il presidente della repubblica, sono diventati sempre più stretti. In svariate occasioni Peker, pubblicamente, ha espresso la sua ammirazione per il presidente e il suo sostegno incondizionato per l’Akp e per il suo alleato, Partito del Movimento nazionalista.

Pochi giorni prima delle storiche e discutibili elezioni generali del 1° novembre 2015, Sedat Peker svolse un comizio pubblico nella città natale del presidente della repubblica, ossia a Rize, lungo la costa del Mar Nero. In quest’occasione espresse il suo pieno appoggio a Recep Tayyip Erdoğan. Si trattava di una manifestazione organizzata per “condannare il terrorismo”, in quest’occasione Peker promise al pubblico convenuto, circa 2000 persone, che per far pagare il conto amaro ai “terroristi” era disposto a “far spargere sangue loro”.

In pieno conflitto tra le forze dello stato e le guerriglie del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), nel 2016, più di mille accademici firmarono un “appello per la pace” invitando tutte le due parti a cessare il fuoco e aprire il dialogo e per questo i firmatari furono denunciati, processati, arrestati, linciati mediaticamente e politicamente e – alcuni – obbligati a lasciare il paese. In quei giorni salì sul palco di nuovo Peker e attraverso un comunicato stampa minacciò gli accademici firmatari con queste parole:

«Verseremo il vostro sangue e in questo lago faremo il bagno».

Minacce e repressione = libertà di espressione

Dopo queste dichiarazioni, Peker fu oggetto di dure proteste dai partiti dell’opposizione e di diverse associazioni non governative e presso il 20° tribunale penale di primo grado di Istanbul si aprì un’inchiesta. Tuttavia le parole di Peker vennero valutate nell’ambito della “libertà di espressione” e fu dunque assolto.

Sedat Peker è apparso nel primo anniversario del fallito golpe del 2016. Nel quartiere di Üsküdar a Istanbul, in un comizio pubblico, nel 2017, prese la parola e, riferendosi ai presunti golpisti arrestati, parlò così: «Li impiccheremo anche dentro le prigioni». Peker denunciato e indagato è stato assolto un anno dopo.

La fuga, senza ritorno

La vita da latitante di questo soggetto inizia nel 2020. Un anno fa lascia la Turchia e decide di stabilirsi nei “Balcani”. A sua detta la decisione nasce da motivi di lavoro e studio. Tuttavia da quel momento in poi per Peker inizia un viaggio senza ritorno.

Pochi mesi dopo, grazie all’indulto introdotto dal governo in piena pandemia, viene  scarcerato un altro personaggio del movimento ultranazionalista e del mondo della criminalità organizzata, Alaattin Çakici. Da quel momento in poi nasce un battibecco via internet tra Çakici e Peker e questo fatto si trasforma in un vero conflitto pubblico. Tutto ciò, facilmente, viene definito come l’inizio di una guerra tra due forze contrapposte sia nel movimento ultranazionalista turco sia nel mondo della criminalità organizzata.

Mentre Peker viveva all’estero da latitante, Çakici era libero in Turchia, scriveva lettere di elogio al presidente della repubblica e incontrava il leader del Partito del Movimento nazionalista.

Era evidente che quel disegno politico e economico che strangola il paese da circa 20 anni aveva deciso ormai di scartare un suo “sicario” e tenere buono l’altro.

La vendetta di Peker

Il primo video di Sedat Peker in realtà è stato lanciato a maggio 2020, quando risiedeva in Montenegro. In questo video Peker prendeva di mira il genero del presidente della repubblica, Berat Albayrak ovvero l’ex ministro dell’Energia e poi del Tesoro.

Secondo Peker, era proprio Albayrak ad avere in testa l’obiettivo di “farlo fuori”. Peker accusava Albayrak di lavorare con la magistratura e con i media per preparare un fascicolo pieno di “prove false”, nonché di adottare i “metodi dei gulenisti”, ossia quella realtà politica, economica e religiosa accusata di essere l’ideatrice ed esecutrice del fallito golpe del 2016.

Nella puntata iniziale, Peker sottolineava che il motivo principale del suo viaggio era proprio quello di non cadere in una “trappola”. Secondo Peker questo “complotto” organizzato ai suoi danni è stato confermato da numerosi suoi conoscenti. Peker assunse un atteggiamento aggressivo dichiarando guerra a coloro che lo volevano far fuori.

Anche se in questo primo video annunciava che ne avrebbe trasmessi altri, in realtà questo fatto non avviene e, anzi, pochi giorni dopo ne pubblica uno per chiedere scusa ad Albayrak, allora ancora potente e ministro del Tesoro.

Novembre 2020: Berat Albayrak si dimette dal suo ruolo di ministro del Tesoro con un post sul suo account ufficiale Instagram; da quel momento in poi il genero del presidente della repubblica non è più stato visto da nessuna parte.

L’inizio di una vera telenovela

La serie di videomessaggi che ormai da più di un mese occupa la quotidianità della Turchia hanno avuto inizio il 2 maggio del 2021.

A oggi, 2 giugno 2021, sono stati 8 in totale e molto probabilmente ne seguiranno molti altri. Il canale YouTube di Sedat Peker ormai ha circa 1 milione di iscritti e continua la sua crescita esponenziale. I suoi video sono seguitissimi, infatti ogni singolo video riceve almeno 6 milioni di visualizzazioni, alcuni addirittura 20 milioni.

Ogni giorno diversi canali televisivi e web trasmettono in diretta o meno, varie analisi sui messaggi lanciati da Peker. I social media, utilizzati molto bene e frequentemente da Peker, sono pieni di hashtag e messaggi su di lui e sui suoi video. La nuova app di discussione audio, ClubHouse, tutti i giorni ospita diverse stanze dedicate a questo tema (la Turchia, come per altri social media, risulta il quarto paese al mondo per utilizzo di questa nuova chat audio).

Dunque è palese che Peker in poco tempo si è collocato al centro dell’attenzione nel paese, arrivando anche a scatenare forme di fanatismo come quello che emerge in questo video di rapper francesi di seconda generazione algerina.

 

Inoltre le persone chiamate in causa e accusate da Peker, dopo ogni suo video e tweet prendono la parola e si sentono in obbligo di rilasciare una dichiarazione o si profondono in smentite, o lanciano nuove dichiarazioni che rimandano al passato più oscuro e controverso del paese.

Se le dichiarazioni di Peker fossero state fatte da giornalisti, senza ombra di dubbio la magistratura avrebbe preso immediate contromisure per denunciarli. Molto probabilmente questi sarebbero stati presi di mira dai media succubi del governo centrale e da diversi ministri dell’attuale governo. Tuttavia, è evidente che le accuse forti, nette e chiare di Peker in qualche maniera coinvolgono gli interessati e questi le prendono sul serio.

Chi finisce nel mirino di Peker?

Se c’è qualcuno a cui Peker ha deciso di dichiarare guerra è senz’altro prima di tutti l’attuale ministro degli Interni, Suleyman Soylu. Nei suoi video Peker lo accusa di tradimento. Nel racconto di Peker in aprile Soylu gli avrebbe garantito un rientro sicuro in Turchia. Infatti proprio in quel mese la polizia ha effettuato un’operazione capillare presso 121 diverse abitazioni in 5 città della Turchia. Tra le case a cui ha “bussato” la polizia c’era anche quella di Peker. Questo episodio è stato quello che ha fatto saltare il tappo (e i nervi al nostro eroe mafioso). Infatti nei suoi primi video Peker aggredisce verbalmente Soylu soprattutto per via del comportamento che i poliziotti hanno assunto nei confronti delle sue figlie e di sua moglie durante l’irruzione nella sua abitazione.

Ovviamente anche in Turchia la polizia è direttamente collegata al ministero degli Interni.

Nei video vengono esposte anche le altre eventuali motivazioni che hanno provocato la rabbia del boss mafioso contro Soylu. Secondo Peker, l’attuale ministro degli Interni deve a lui la sua carriera politica. Molto probabilmente è questo il motivo per cui si sente ancora un’altra volta “tradito”.

Secondo i dettagli-bomba sganciati da Peker sembra che durante la sua latitanza all’estero sia stato proprio Soylu a fornirgli protezione armata e varie soluzioni.

Nei confronti di Suleyman Soylu, Peker lancia numerose accuse, ma tra queste c’è un elemento che lo collega ad altri personaggi: i narcotrafficanti. Secondo Peker ormai la Turchia è diventata uno degli snodi più importanti al mondo del traffico di stupefacenti provenienti dalla Colombia e dal Venezuela.

Il giro della droga effettuerebbe secondo lui una tappa importante in Italia, per poi passare dalla Turchia con l’intento di arrivare alla destinazione finale che sarebbe la Siria.

Dal racconto di Peker in questa logistica sarebbe coinvolto in modo attivo l’ex ministro degli Interni Mehmet Ağar. Un altro sulfureo personaggio della storia della repubblica di Turchia. Il nome di Ağar è diventato famoso per due motivi principali negli anni Novanta. Prima di tutto con lo scandalo di Susurluk. Si tratta di un incidente stradale che ha scoperchiato la stretta relazione tra alcuni membri del governo dell’epoca, le forze dell’ordine, i lupi grigi e la criminalità organizzata. Dopo lo scandalo del 1996, Ağar si dimise. Successivamente fu condannato nel 2011 a 5 anni di reclusione per via dei suoi legami con la criminalità organizzata.

Il secondo punto che rende Ağar famoso è il maxiprocesso in cui è accusato di avere partecipato all’organizzazione della scomparsa e uccisione di 19 persone negli anni Novanta. Anche se in primo grado Ağar era stato assolto, nel maggio del 2021 uno dei tribunali penali di Ankara ha deciso di riaprire i fascicoli.

Un’altra persona che finisce nel mirino di Peker è Erkam Yıldırım ossia il figlio dell’ex primo ministro, Binali Yıldırım. Secondo Peker, il giovane Yıldırım sarebbe il tramite che teneva i contatti con i narcotrafficanti venezuelani per disegnare la nuova rotta per il trasporto della droga verso la Turchia. Anche se risulta che Yıldırım sia stato – in piena pandemia! – in Venezuela, proprio nelle date che Peker specifica nei suoi video, suo padre ha smentito l’accusa dicendo che suo figlio era lì per portare degli aiuti medici alla popolazione locale. Tuttavia, finora non risulta che sia avvenuto un trasporto di prodotti sanitari in quel periodo dalla Turchia verso la Venezuela.

Nei suoi video Peker parla anche di due giornalisti assassinati: Uğur Mumcu, ucciso nel 1993, e Kutlu Adalı, ammazzato nel 1996.

Due voci di opposizione e due giornalisti che hanno indagato sul rapporto tra i narcotrafficanti, lo stato turco e le guerriglie. Inoltre, particolarmente Mumcu lavorò anche sul traffico delle armi e sulla presenza massiccia dei paramilitari religiosi presenti in Turchia. Due casi ancora non chiariti definitivamente e per entrambi, secondo l’opinione pubblica, molto probabilmente c’è, in parte, anche lo zampino dello stato.

Come tutti, anche il ministro degli Interni Suleyman Soylu ha deciso di rispondere alle accuse di Peker, prendendo due volte la parola per diverse ore in diretta tv.

Tra le sue parole, anche Soylu ha pronunciato il nome di un giornalista assassinato, Hrant Dink, nel 2007. Secondo Soylu, stavolta sarebbe Peker coinvolto – direttamente o meno – nell’assassinio del giornalista.

Ascolta “La sulfurea serie di videorivelazioni di Sedat Peker” su Spreaker.

Cosa ci aspetta?

Ovviamente sorge spontanea una domanda: “Perché parla ora Peker?”. Anche se in parte si è cercato di rispondere in questo articolo che avete appena finito di leggere, si tratta di una domanda che merita una risposta ancora più dettagliata. Però sarà probabilmente Peker stesso a darci una risposta adeguata, dato che, questa domenica, 6 giugno, uscirà il suo nono video e in questo si rivolgerà soltanto e direttamente a Recep Tayyip Erdoğan, che finora ha fatto delle dichiarazioni con toni pacati e ha difeso (dopo aver atteso a lungo), i suoi alleati e i suoi ministri.

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Biden Aggiustatutto: “Can you fix it?” https://ogzero.org/gatte-da-pelare-per-biden/ Thu, 28 Jan 2021 11:53:53 +0000 http://ogzero.org/?p=2325 Joseph Robinette Biden Jr., meglio noto come Joe Biden, è il 46º presidente degli Stati Uniti d’America dal 20 gennaio 2021. Si chiude o si interrompe l’epoca dell’amministrazione bizzarra guidata dall’imprenditore Donald John Trump. La vittoria elettorale, anche se non schiacciante, di Biden, soprattutto con la maggioranza in entrambe le Camere, sembra che porterà il […]

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Joseph Robinette Biden Jr., meglio noto come Joe Biden, è il 46º presidente degli Stati Uniti d’America dal 20 gennaio 2021. Si chiude o si interrompe l’epoca dell’amministrazione bizzarra guidata dall’imprenditore Donald John Trump.

La vittoria elettorale, anche se non schiacciante, di Biden, soprattutto con la maggioranza in entrambe le Camere, sembra che porterà il vento del Partito democratico 2.0 in terra americana.

A questo punto le relazioni tra i due storici alleati della Nato, Ankara e Washington, molto probabilmente subiranno dei cambiamenti.

Trump loved Erdoǧan

In questi ultimi quattro anni, la sempre più diffusa politica del post truth mescolata a una notevole crescente cultura razzista e militarista ha scombussolato radicalmente la politica interna degli Usa. Contemporaneamente la figura del “one man” o “ghe pensi mi” di Trump ha fatto sì che la sua personalità schiacciasse anche la consolidata e forte cultura istituzionale statunitense in politica estera.

Sicuramente, sia per via dell’età di Biden sia per la sua posizione e cultura politica, in questa nuova fase gli Usa assumeranno un atteggiamento ben diverso rispetto all’amministrazione uscente e questo cambiamento avrà effetto anche nei confronti di quegli alleati che, da tempo, governano i loro paesi un po’ come faceva Trump negli Usa.

In un suo articolo di approfondimento, Carl Bernstein, giornalista statunitense di Cnn, il 30 giugno del 2020, specificava che il presidente della Repubblica di Turchia, in certi periodi chiamava Trump al telefono anche due volte a settimana e qualche volta anche mentre giocava a golf. Secondo Bernstein questo è un esempio significativo di come Trump abbia calpestato spesso varie prassi diplomatiche.

Da questo punto di vista questi due leader, molto carismatici e altrettanto pragmatici, si assomigliano molto. Erdoǧan, anche grazie al sistema presidenziale introdotto con il referendum del 2017, ama (è obbligato) a concentrare un po’ tutto sulla sua figura. Erdoǧan “si intende” di istruzione, sanità, tatuaggi, religione, politica estera, parto, abbigliamento, edilizia, calcio, giornalismo, giustizia e persino demografia. Due maschi, bianchi e over 70, su certi argomenti molto lontani tra loro, si sono invece trovati molto bene nel coordinare una serie di affari e nascondere sotto il tappeto diversi temi fonti di conflitti importanti.

Quindi, molto probabilmente, Erdoǧan con l’arrivo di Biden non avrà più a Washington un presidente che gli sarà vicino con una telefonata in qualsiasi momento. Saranno gli assistenti del presidente o i ministri a occuparsi della Turchia, non sempre e direttamente il nuovo leader democratico.

La giustizia è un’opinione

Uno dei punti di cui la nuova amministrazione Usa deve occuparsi è il famoso e lungo processo anticorruzione che vede coinvolta la banca statale turca Halkbank e l’imprenditore turco-iraniano Reza Zarrab. Questi due soggetti sono accusati di far parte di un progetto di riciclaggio di denaro ed evasione fiscale che è stato utilizzato dalle istituzioni, banche e aziende turche, e non solo, per aggirare l’embargo statunitense imposto all’Iran.

Zarrab si trova negli Usa, sotto protezione, dal 2016 ed è ormai un collaboratore di giustizia. È difficile dimenticare la sua storica dichiarazione rilasciata nell’aula del tribunale, dopo aver disegnato e raccontato perfettamente questo progetto diabolico: «Di tutto questo era al corrente anche l’attuale presidente della Repubblica». Grazie alle dichiarazioni di Zarrab è stato arrestato e trattenuto in carcere l’ex direttore generale della Halkbank, Mehmet Hakan Atilla, nel 2017, per trentadue mesi.

Tra le accuse importanti attribuite a Zarrab, ad Atilla e al governo turco c’è anche quella di frode ai danni del sistema bancario statunitense.

Questo processo, apparentemente un valido motivo di conflitto tra gli alleati, invece era uno dei punti che accomunavano Trump ed Erdoǧan. Entrambi i leader hanno sempre provato palesemente a esercitare una notevole influenza sulla magistratura quindi mettendo in discussione la separazione dei poteri. Infatti Trump aveva provato a far dimettere Geoffrey Berman, il procuratore capo di New York che si occupava del maxiprocesso, e secondo alcuni giornalisti ed ex collaboratori del presidente tutto questo era per accontentare Erdoǧan, proprio come anche quest’ultimo spesso fa rifiutandosi, verbalmente e pubblicamente, di riconoscere non solo le decisioni della Cedu ma anche quelle della Corte Costituzionale della Repubblica di cui lui risulta tuttora il presidente.

Ci si attende, con l’insediamento di Biden, più spazio di manovra e libertà per la magistratura su questo maxiprocesso. Nel caso in cui venissero fuori dei dettagli più imbarazzanti ed evidenti non sarebbe fuori luogo pensare a una nuova ondata di sanzioni nei confronti della Turchia oppure di alcuni membri del governo.

Gli S-400, pomo della discordia

Uno dei punti dolenti tra gli storici alleati del Patto atlantico è stato l’acquisto nel 2017 da parte di Ankara del sistema antiaereo S-400, di nuova generazione e produzione moscovita.

Questa mossa ovviamente non era stata digerita da Washington: il secondo esercito più importante della Nato aveva deciso di investire in una tecnologia militare molto avanzata, comprandola proprio da uno dei suoi più importanti antagonisti. Mentre invece Ankara giustificava la scelta sostenendo che il sistema analogo, ma di produzione statunitense, le era stato negato dall’amministrazione Obama e quindi non aveva altra scelta, dovendo difendersi dalla minaccia costituita dalla guerra in Siria.

Dopo una serie di ultimatum e lievi minacce la Turchia è stata infine espulsa dal progetto di produzione degli F35 e nei confronti di Ankara sono state attivate, parzialmente, la sanzioni Caatsa. Tuttavia possiamo dire che le posizioni dell’ex presidente americano Trump non sono mai state abbastanza critiche in relazione alla questione.

Oggi, con l’amministrazione Biden, troviamo Tony Blinken sulla poltrona di ministro degli Affari esteri: quasi braccio destro di Obama per il Medio Oriente, uno degli esperti, in seno al Partito democratico, di politica estera.

Oltre questi dettagli biografici spicca senz’altro la dichiarazione last minute del nuovo ministro: «La Turchia è un nostro presunto alleato strategico ma non si comporta da vero alleato. Un alleato vicino a Mosca, che è il nostro più grande avversario strategico, non serve. Valuteremo le nuove sanzioni contro Ankara».

Pochi giorni dopo questa netta dichiarazione è risuonata una comunicazione del presidente della Repubblica di Turchia: «Siamo decisi a firmare un secondo accordo per il sistema S-400 con Mosca. Non so come accoglierà questa decisione l’amministrazione Biden ma non chiederemo il permesso a nessuno».

In poche parole, sembra che il metodo del bastone e della carota, utilizzato spesso da Trump per sopire i conflitti con Ankara e che non ha dato i suoi frutti nel caso degli S-400, non sarà quello scelto dalla nuova amministrazione Usa.

Guerra in Siria: il filo sottile con Mosca

Quello siriano è decisamente uno dei motivi di allontanamento politico sorto tra Ankara e Washington in questi ultimi tempi.

Nell’arco di tre anni il governo centrale turco ha deciso di inviare le sue truppe sul territorio siriano e ha avviato quattro operazioni in collaborazione e coordinazione con l’Iran, la Russia e indirettamente con la Siria, trascurando gli Stati Uniti.

La lettera amara di Trump a Erdoǧan, in cui chiedeva di non fare “sciocchezze” non era quella reazione forte che le forze armate e politiche siriane si aspettavano. Pochi giorni dopo quella missiva i soldati statunitensi pian piano hanno lasciato il terreno all’esercito della Repubblica di Turchia per avviare l’operazione Sorgente di Pace nel mese di ottobre del 2019.

Ormai era chiaro e ufficiale che sul territorio siriano fosse Mosca a decidere e coordinare le manovre in collaborazione con Damasco e Tehran. La presenza della Turchia è solo il frutto di quel rapporto politico ed economico perverso, legato a un filo sottilissimo, tra Ankara e Mosca.

Le operazioni militari della Turchia sono state realizzate anche con il sostegno dell’Esercito libero siriano composto da combattenti mercenari, ex soldati dell’esercito siriano e numerose brigate jihadiste.

L’esperimento fallito: milizie e tradimenti

Questa forza paramilitare è anche il frutto di un progetto fallito e guidato da Lloyd Austin. Nel 2013 Ankara e Washington dopo un breve periodo di addestramento avevano preparato un gruppo armato sul territorio turco, per combattere l’Isis. Tuttavia, una volta entrati in Siria, questi hanno deciso di aderire a diversi gruppi jihadisti come al-Nusra. Forse questo fu il momento in cui l’amministrazione Obama decise di cambiare alleanze sul territorio siriano. Oggi Austin è il primo segretario alla Difesa afroamericano della storia degli Stati Uniti, una novità che potrebbe avere impatto sulle scelte di Washington in Siria.

Un altro nome interessante è Brett McGurk, rappresentante speciale della Casa Bianca per il Medio Oriente e il Nord Africa. Figura non amata dai media mainstream della Turchia per via dei suoi stretti rapporti con le forze armate “curde”. Nel 2017, il ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu aveva chiesto all’amministrazione statunitense di sospendere l’incarico a McGurk dopo la sua visita di persona alle Unità di Difesa Popolari, Ypg, in Rojava. Dovutoglu, senza troppi giri di parole, in diretta tv sul canale Ntv aveva accusato McGurk di “sostenere” le forze armate del Pkk, organizzazione definita “terroristica” da Ankara e Washington. Un anno dopo, nel 2018, Trump decise di togliere l’incarico a McGurk. Oggi, questa figura “problematica” molto probabilmente avrà un ruolo determinante nella nuova amministrazione statunitense.

Con la Cina accordi commerciali e sanitari…

Cina e Iran sono in cima alle priorità della politica estera di Biden e in tutti e due i casi Ankara svolge un ruolo abbastanza importante.

La collaborazione economica tra Ankara e Pechino è in continua crescita. Il volume commerciale tra questi due paesi, nel 2019, superava la soglia dei 20 miliardi di dollari americani, registrando un notevole aumento rispetto agli anni precedenti.

Nei primi giorni del 2021 è stato firmato un nuovo accordo commerciale che prevede un notevole rafforzamento da parte di Ankara della rete ferroviaria, operazione che porterebbe a un aumento del volume commerciale sulla Via della Seta: 11.438 chilometri che collegherebbero Xi’an con Praga, ovviamente la Turchia – che si trova in mezzo – avrebbe un ruolo importante. Grazie a questa novità le tonnellate di merci trasportabili salirebbero da 400.000 a 1 milione. Inoltre nel progetto è prevista la costruzione di una nuova linea di 230 km che porterebbe fino alla Repubblica autonoma di Naxçıvan, accessibile ormai grazie all’accordo firmato da Armenia, Russia e Azerbaigian alla fine del conflitto armato del Nagorno.

Sempre nei primi giorni del 2021 arrivano due notizie importanti dalla Cina. I famosi produttori dei cellulari “intelligenti” – Tecno, TCL, Xiaomi e Vivo – hanno deciso di aprire nuove fabbriche in Turchia. Grazie a una nuova legge, introdotta nel 2020, i cellulari importati dall’estero subiscono un’ulteriore tassazione in Turchia; dunque la strategia di Pechino è quella di produrre in Turchia e prendere in mano il mercato.

La pandemia causata dal virus SarsCov2 ha aperto una storica fase di collaborazione economica e sanitaria tra questi due paesi. Uno dei primi acquirenti del vaccino SinoVac, produzione cinese, è la Turchia. Verso la fine del mese di gennaio saranno acquistati circa 20 milioni di dosi. La campagna di vaccinazione già avviata era stata anticipata in realtà con la sperimentazione di massa della terza fase del vaccino, sempre in Turchia.

… e una mano lava l’altra

A una tale armonia ovviamente bisognerebbe associare anche un allineamento politico. Sempre nei primi giorni del 2021 Ankara ha deciso di avviare operazioni di polizia presso le abitazioni dei cittadini cinesi di origini uigure residenti in Turchia. Secondo l’Osservatorio dei Diritti umani nel Turkistan orientale (Ethr) si tratterebbe dell’attuazione dell’accordo sul rimpatrio dei criminali firmato con Pechino nel 2017 e durante queste operazioni sarebbero stati arrestati diversi cittadini uiguri. Pochi anni fa, nel 2009, l’attuale presidente della Repubblica, presso il canale televisivo Ntv, aveva definito le politiche di Pechino contro i cittadini uiguri come un “genocidio”.

Questo graduale avvicinamento di Pechino e Ankara senza precedenti sarà molto probabilmente per Biden tra le questioni da tenere in considerazione.

Iran: il tavolo di Astana

Forse l’elemento più importante che lega Teheran e Ankara è il fatto che si siano seduti allo stesso tavolo per una ventina di volte nella città di Astana per disegnare il futuro della Siria. In quest’ottica (tenendo in considerazione anche il maxiprocesso Halkbank) per Biden Ankara potrebbe avere un ruolo chiave nel “dialogo” con Teheran. Ovviamente tenendo conto che questi due alleati all’interno della Nato hanno poi in mano diverse carte per ricattarsi a vicenda: sembra quindi che la partita sarà molto delicata.

Quando è minacciata la libertà, e non solo quella di espressione

Una delle cose che accomunava Trump e Erdoǧan era avere nel cuore la continua crociata contro il mondo del giornalismo. Sono ormai molto conosciute le invettive aggressive e arroganti di Trump nei confronti di alcuni giornali e canali televisivi statunitensi accusati di divulgare “notizie false”.

Oltre a un numero sempre alto di giornalisti in carcere o obbligati a vivere in esilio, in questi ultimi venti anni la Turchia è diventata anche un vero cimitero di emittenti televisive, radiofoniche e giornali che hanno dovuto chiudere i battenti oppure che sono stati chiusi con i decreti di legge durante lo stato d’emergenza dal 2016 al 2018. A tutto questo ovviamente aggiungiamo anche le posizioni personali di Erdoǧan nei confronti dei giornali dell’opposizione, espresse, per esempio, in quella dichiarazione rilasciata in diretta Tv, proprio il primo gennaio del 2021, contro uno dei più importanti giornali di opposizione, “Sozcu” (tra i primi tre per numero di copie vendute): «Io non leggo quel giornale e consiglio a tutti di non comprarlo, è inutile». “Sozcu” aveva fatto infuriare Erdoǧan quando aveva pubblicato il bilancio governativo del 2020 in prima pagina: “lacrime e sofferenza”.

La libertà di stampa è uno dei punti cardine del programma di Biden. Non solo per via di quanto è stata minacciata da Trump ma anche per come viene sistematicamente oltraggiata in diversi paesi del mondo.

Proprio nel 2016, in pieno stato d’emergenza, Biden aveva pronunciato queste parole sulla situazione in Turchia: «È importante, in tutto il mondo, avere il diritto alla critica libera. Le libertà di espressione e di stampa in Turchia sono garantite con la Costituzione e vanno protette». Infine nel mese di gennaio del 2020, in un’intervista rilasciata al “New York Times” aveva definito chiaramente la sua posizione dicendo: «Erdoǧan è un leader autocratico, dobbiamo sostenere le opposizioni in Turchia per allontanarlo dal potere utilizzando modalità democratiche».

Un (non)conclusione

Ci sono numerosi elementi che hanno distanziato questi due alleati negli ultimi anni: dalla richiesta di estradizione sempre rifiutata di Fethullah Gülen (leader della comunità di Hizmet residente in Pennsylvania, accusato di essere ideatore del fallito golpe del 2016) fino al rapporto di Ankara con gli altri alleati della Nato come Parigi e Berlino e numerosi sono i capitoli della Storia che possono essere riaperti e reinterpretati dall’amministrazione Biden.

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Lo sceicco e il sultano: amici e isolati https://ogzero.org/lo-sceicco-e-il-sultano-amici-e-isolati/ Thu, 10 Dec 2020 11:21:51 +0000 http://ogzero.org/?p=2013 Il 26 novembre, nella capitale della Turchia, i due presidenti hanno firmato un nuovo accordo commerciale composto da 10 intese importanti. Ankara e Doha, dal 2015 hanno iniziato a intensificare il loro rapporto economico e politico. Per quale motivo? Due amici vicini e isolati Turchia e Qatar sono sempre più isolati dai loro vicini e […]

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Il 26 novembre, nella capitale della Turchia, i due presidenti hanno firmato un nuovo accordo commerciale composto da 10 intese importanti. Ankara e Doha, dal 2015 hanno iniziato a intensificare il loro rapporto economico e politico. Per quale motivo?

Due amici vicini e isolati

Turchia e Qatar sono sempre più isolati dai loro vicini e alleati storici. Il conflitto dentro la Nato ormai non è una novità per Ankara. Certamente anche i suoi continui problemi con i vicini come Grecia, Siria, Cipro e Armenia oppure alleati europei fanno sì che questo paese composto da 85 milioni di abitanti sia sempre nel mirino di proteste e sanzioni.

A questa lista, per Ankara si aggiungono ovviamente alcuni vicini-lontani mediorientali come l’Arabia Saudita che ha avviato un boicottaggio capillare nel mese di novembre contro i prodotti turchi. Si tratta dello stesso partner che ha preso delle misure severe contro Doha insieme all’Egitto, Bahrein e Emirati Arabi.

Turchia e Qatar sono accusati entrambi di promuovere direttamente oppure indirettamente l’ideologia dei Fratelli Musulmani. Infatti entrambi hanno un pessimo rapporto con l’attuale presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, che arrivò al potere facendo un colpo di stato contro Mohamed Morsi, il numero uno dei Fratelli Musulmani in Egitto. I rapporti di reciproca ammirazione personale e politica erano alla luce del sole tra il presidente rovesciato (e stroncato da un infarto in tribunale) e quello che guida Ankara.

Studiando anche il caso libico vediamo che Doha e Ankara si muovono insieme per sostenere il presidente Fayez al-Sarraj, riconosciuto dalle Nazioni Unite e sospettato, a livello internazionale, di essere l’esponente libico dei Fratelli Musulmani. Nell’agosto del 2020, Turchia e Qatar hanno firmato un accordo con il governo centrale per iniziare ad addestrare l’esercito libico.

Nel fronte mediorientale vediamo che entrambi i paesi attirano l’antipatia degli stessi governi. Ryad accusa Doha di sostenere le milizie iraniane nella guerra civile in Yemen e di armare diverse organizzazioni terroristiche in Siria. Quindi applica un forte embargo contro il Qatar. Queste accuse toccano anche Ankara per via delle sue scelte economiche, militari e politiche in Siria dove affianca realtà come l’Esercito Libero Siriano oppure le brigate dell’El-Faruk. Diverse fonti sostengono che quest’ultima riceva un massiccio e diretto sostegno anche da Doha.

Ovviamente anche l’avvicinamento militare, politico ed economico tra Ankara e Tehran per via degli incontri di Astana, e il riciclaggio di denaro denunciato nei tribunali statunitensi, fan sì che i vicini mediorientali guardino con sospetto la Turchia.

Questo isolamento ha prodotto, negli ultimi anni, una notevole connessione tra queste due amministrazioni molto discutibili. Una prima si registra nel 2015 e un’altra nel 2019: Ankara ha costruito due basi militari importanti sul territorio qatariota. Secondo le dichiarazioni ufficiali dell’emiro al potere a Doha, la presenza dei militari turchi l’ha salvato nel fallito golpe del 2017. Tamim al-Thani sostiene che quest’azione contro di lui sia stata pianificata e messa in atto dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi.

Mentre diventano evidenti i punti di questo cortocircuito collaborativo, a livello politico, sarebbe il caso di studiare anche le nozze economiche tra Ankara e Doha.

Il bancomat qatariota della Turchia

Il primo passo è stato fatto nel 2015. Si tratta del primo incontro in cui entrambe le parti hanno firmato una lettera d’intenti. Successivamente, il 30 luglio del 2016, proprio 15 giorni dopo il fallito golpe, l’emiro qatariota è giunto in Turchia per una visita. Questo gesto è stato ricambiato a Doha con un secondo incontro il 24 agosto dello stesso anno. In ciascuno degli incontri le parti hanno firmato i primi accordi commerciali.

Amici isolati

Il Qatar risulta essere il terzo paese al mondo in possesso delle maggiori riserve del gas e il quattordicesimo paese per quelle petrolifere. Ovviamente gli accordi sulle fonti energetiche non rinnovabili sono prevedibili ma Doha e Ankara si sono trovate d’accordo anche su altri campi; sanità, banche, infrastrutture, ferro, acciaio, tessile, alimentari e produzione militare.

Ascolta “Gli accordi Qatar-Turchia” su Spreaker.

Nel 2010 una delle più importanti catene ospedaliere della Turchia, Memorial, è stata venduta per il 40% a un consorzio qatariota e inglese. Nel 2012, il 40% della grande catena di negozi specializzati in arredamento, English Home, è stato venduto alla Banca di Investimenti del Qatar.

Due banche private, ABank e Finansbak, in 3 diverse tranche sono state vendute alla Commercial Bank of Qatar e alla Qatar National Bank. Nel primo caso al 100% e nel secondo per il 99,81%.

La storica fabbrica statale che produce carri armati e mezzi blindati per l’esercito della Repubblica di Turchia nella città di Sakarya è stata data in concessione, per 25 anni, all’azienda turca Bmc che è controllata al 49% dal Comitato industriale delle Forze Armate del Qatar.

L’unica emittente televisiva che aveva la concessione per la trasmissione delle partite di calcio del campionato di serie A, Digiturk è stata consegnata nel 2013 nelle mani del Fondo di Assicurazione sui Depositi di Risparmio della Turchia. Tre anni dopo, nel 2016, viene venduta al gruppo televisivo qatariota, BeinSport. A causa della crisi economica e della scarsa quantità di abbonati, i conti fatti inizialmente non tornavano e BeinSport ha accumulato un buco di bilancio per compensare la quale si è impegnato il ministro dello Sport e così Ankara ha sganciato nel mese di novembre circa 32 milioni di euro.

Ascolta “Erdoğan vende i suoi gioielli al Qatar” su Spreaker.

Questa storia d’amore procede anche con la vendita dei terreni per un progetto inesistente. Si tratta del Kanal Istanbul che prevede la creazione di un canale parallelo a quello del Bosforo. Questo nuovo progetto è materia di grandi discussioni perché distruggerà una vasta area verde, inquinerà le fonti di acqua potabile, creerà nuovi intasamenti nel traffico già caotico di Istanbul e in seguito alla costruzione di nuove aree abitative farà sì che la popolazione della città sul Bosforo cresca velocemente. Inoltre secondo numerosi scienziati potrebbe creare delle conseguenze disastrose nel caso di un terremoto nella città più sismica della Turchia.

Kanal Istanbul

Dunque nelle aree dove è prevista la realizzazione di Kanal Istanbul, un’azienda turca, Triple ha comprato nel 2019, pochi mesi dopo la sua fondazione, 44 ettari di territorio. Indagando un po’ si scopre che l’azienda appartiene al 100% alla famiglia dell’emiro qatariota.

La collaborazione per gli armamenti: il triangolo Turchia-Siria-Qatar

Secondo le dichiarazioni rilasciate in aula con tanto di materiale audiovisivo dall’ex colonnello Nuri Gokhan Bozkir, questi due paesi sembra che abbiano collaborato anche nel trasporto illegale delle armi. Bozkir si trova in Ucraina come rifugiato. Dopo aver lavorato per l’esercito della Repubblica di Turchia per vari anni con la missione di spostare armi dall’Europa dell’Est in Siria si è dimesso e ha deciso di chiedere asilo in Ucraina. Nelle sue dichiarazioni rilasciate in aula e al quotidiano ucraino “Strana”, Bozkir sostiene che l’intera operazione è stata possibile grazie a 7 container di soldi mandati da Doha nel 2012 e nel 2015 in Turchia. Nella sua visita personale, nel 2019, il presidente della Repubblica di Turchia aveva chiesto al suo collega ucraino l’immediata estradizione dell’ex colonnello Bozkir.

Ascolta “Erdoğan vende i suoi gioielli al Qatar” su Spreaker.

Una vendita segreta

Nell’ultimo incontro avvenuto a Ankara, il 26 novembre, il presidente della Repubblica ha annunciato che il 10% della borsa valori di Istanbul è stato venduto all’Autorità di Investimenti del Qatar. Finora non è stata fatta nessuna dichiarazione in merito al valore incassato in questa vendita. Sarebbe un sogno assurdo sperare una trasparenza del genere dato che quel 10% venduto faceva parte del 90% delle azioni del Fondo del Benessere della Turchia. Si tratta di un organo statale fondato nel 2016 e controlla Turkish Airlines, Turk Telecom, due banche statali e Turkish Petrol. A dirigere questa realtà si trova lo stesso presidente della Repubblica e secondo la legge non avrebbe nessun obbligo di rendere pubblici i conti.

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Segnali di fumo dal Bosforo a Washington https://ogzero.org/segnali-di-fumo-dal-bosforo-a-washington/ Fri, 13 Nov 2020 12:59:02 +0000 http://ogzero.org/?p=1757 Annusate le possibilità di nuove concessioni con il cambio della guardia alla Casa Bianca si fanno notare i movimenti del presidente turco per sondare e preparare una nuova faccia rispetto a quella adottata con l’abbandono da parte di Trump degli interessi americani in Medio Oriente, delegati a sauditi e israeliani, tollerando le scorrerie turche; mentre […]

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Annusate le possibilità di nuove concessioni con il cambio della guardia alla Casa Bianca si fanno notare i movimenti del presidente turco per sondare e preparare una nuova faccia rispetto a quella adottata con l’abbandono da parte di Trump degli interessi americani in Medio Oriente, delegati a sauditi e israeliani, tollerando le scorrerie turche; mentre nei quattro anni di amministrazione evanescente i motivi di attrito erano soprattutto in materia di embarghi, sanzioni non rispettati, minacce di dazi e collisione tra i traffici di armi, gli affari con Cina, Russia e Iran… Le elezioni statunitensi con il cambio in Pennsylvania avenue impongono il riposizionamento.

Cina e Iran convitati di pietra   

Per Biden due sono i problemi centrali della politica estera statunitense: la Cina e l’Iran. Nel primo caso la Turchia è ben posizionata, perché ha continuato a fare affari e perché è uno degli hub della Belt Road Iniziative, da tantissimo tempo la Cina vende armi alla Turchia, i due paesi collaborano da tempo in materia di antipirateria e nel contrasto dell’irredentismo uyguro, la cui diaspora è in parte tollerata da Ankara ma in forma di controllo per conto di Pechino, soprattutto sui rifugiati privati dei contatti con la famiglia e tenuti in un limbo senza speranze.

Ma anche per quel che riguarda l’Iran, con cui Erdoğan partecipa delle decisioni prese nei tanti accordi intestati ad Astana triangolando con Putin, la Turchia si trova a intersecare il punto di incontro tra il bisogno degli ayatollah di trovare un intermediario e le necessità di ricostruire un lavoro diplomatico statunitense. La soluzione siriana è stata trovata insieme, come avvenuto in Nagorno in un modo ancora più smaccato a favore della Turchia; senza considerare che il problema delle rivendicazioni curde si ritrovano identiche per i territori a maggioranza curda al confine turkmeno con l’Iran, come quelli da sempre occupati dai curdi in Anatolia. La Turchia ha sempre aggirato anche l’embargo contro Tehran, allo stesso modo in cui si è accordata sulle merci cinesi.

Ascolta “La Turchia nei dossier “Iran” e “Cina” della Casa Bianca” su Spreaker.

Dunque in qualche modo la Turchia si trova ben posizionata con entrambi gli schieramenti.

Perciò la diplomazia di lungo corso che la figura di Biden rappresenta non potrà che venire a patti, cercando di far rientrare a pieno Erdoğan nella Nato, aprendo questi due dossier e considerando quanto la Turchia sarà disponibile a offrire, ma soprattutto anticipando gli aspetti su cui è in grado di tornare indietro sulle forzature e sugli strappi creati finora. I rumors sui nomi che entreranno a far parte dell’amministrazione Biden lasciano immaginare un orizzonte di questo tipo.

Rapporti con la Nato, questione di schieramenti

Ankara può ribaltare tutti i rapporti perseguiti con gli altri potenti che in questi 4 anni di vacanza strategica internazionale degli Stati Uniti sono stati gli interlocutori principali di Erdoğan per spartirsi le spoglie abbandonate da Washington in Medio Oriente: è il modo di adattarsi a Biden e alla sua politica, tornando magari ad altre forme di difesa targate Usa, stracciando per esempio i contratti di fornitura degli S-400.

Ascolta “Rapporti con Nato, questione di schieramenti” su Spreaker.

Caatsa disatteso: sanzioni applicabili da Biden

L’interazione commerciale con Mosca, da cui Ankara dipende per l’enorme fame di energia che contraddistingue la Turchia. Anche qui Erdoğan si è inserito nel solco delle sanzioni del 2017 (Countering America’s Adversaries through Sanctions Act) contro chi collabora con Corea del Nord, Iran e Russia, finora disattese. Erdoğan dovrà immaginare una contromossa nel caso Biden decida di applicarle.

Ascolta “Caatsa disatteso: sanzioni applicabili da Biden?” su Spreaker.

Albayrak vittima sacrificale in dono a Biden?

Potentissimo fino al 9 novembre 2020, con cariche ministeriali e il controllo di affari strategici in Africa, ma inviso all’elettorato di Erdoğan e quindi, pur essendo erede di una delle famiglie oligarchiche e genero dello stesso presidente, compromesso con l’amministrazione Trump, è il capro espiatorio ideale per avviare un nuovo corso di relazioni con la Casa Bianca di Biden e stornare l’attenzione dal sultano riguardo alla miseria che si allarga nel paese. Si è dimesso con un messaggio su Instagram, Twitter gli è stato sottratto… palesando le forme di censura e solo dopo la nota ufficiale di Erdoğan si è potuta diffondere la notizia. La stampa rimane strettamente sotto il controllo del governo di Ankara.

Ascolta “Albayrak offerto sull’altare di rapporti nuovi con la nuova Casa Bianca” su Spreaker.

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La spartizione delle risorse nel Mediterraneo https://ogzero.org/accordo-tra-erdogan-e-serraj-e-la-spartizione-delle-risorse-nel-mediterrano/ Fri, 24 Jul 2020 00:24:15 +0000 http://ogzero.org/?p=99 24 luglio 2020 Con le esplicite intenzioni espresse ad alto livello dai due responsabili degli Affari esteri turco e russo in relazione alla soluzione libica, che da opposte fazioni sarebbe individuata nella diplomazia da trovare in un prossimo incontro a Mosca, appare sempre più evidente un più ampio piano comune globale giocato nel centinaio di […]

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24 luglio 2020

Con le esplicite intenzioni espresse ad alto livello dai due responsabili degli Affari esteri turco e russo in relazione alla soluzione libica, che da opposte fazioni sarebbe individuata nella diplomazia da trovare in un prossimo incontro a Mosca, appare sempre più evidente un più ampio piano comune globale giocato nel centinaio di incontri tra Putin e Erdoğan nei quattro anni intercorsi dal fallito golpe del 15 luglio 2016 e sancito dagli Astana Papers. Dovunque nello scacchiere mediorientale le due potenze locali occupano campi avversi e in ciascuno di questi teatri di guerra, dopo scaramucce per procura, giocano il ruolo dei pacificatori, spartendosi risorse e territori, economie e infrastrutture, governance e vie di comunicazioni… Hanno cominciato il gioco in Siria, dove la Turchia, appartenente ancora alla Nato, ha coperto il maggiore interesse russo – procurandosi la striscia antikurda che richiedeva e congelando Idlib, bacino di milizie jihadiste da svuotare per utilizzarle in Libia,  dove risulterà il vincitore accaparrandosi il petrolio dell’Eni (come nel quadrante del Mediterraneo orientale), pur beneficiando l’“alleato” russo del controllo di parte del territorio sottraendolo all’influenza occidentale tanto paventata da Putin all’indomani dell’abbattimento di Gheddafi; e ora il connubio tra zar e sultano si va a occupare del Nagorno Karabakh, resuscitando una disputa trentennale nei piani di Putin utile a bloccare il South Caucasus Pipeline, impossibile da far passare in mezzo a una nuova guerra tra armeni (fieri nemici dei turchi per il genocidio e alleati dei russi per affinità religiosa) – che infatti hanno iniziato le provocazioni belliche nel giugno 2020 – e azeri, appoggiati dai turchi.

Il prossimo palcoscenico della pantomima che apparentemente divide Russia e Turchia, ma non i loro interessi finali si gioca attorno al reale interesse dei due tiranni: le pipeline, quelle da boicottare per l’interesse di Gazprom, a cominciare da quella che passerebbe attraverso la Grecia a partire da Israele per giungere in Salento, che si configura come concorrente del South Stream turco, ma anche delle pipeline russe, da cui dipendono gli approvvigionamenti energetici occidentali.  

Le prime reazioni internazionali al sempre maggiore dinamismo turco nell’area si ebbero con l’accordo intercorso tra Erdoğan e Sarraj per spartirsi il petrolio del Mediterraneo, un vero e proprio abuso, sono state minime: una fregata italiana a difendere i giacimenti che l’Eni si era aggiudicata nel mare prospiciente Cipro – dimenticata in questa operazione, forse perché comunque la Turchia la considera integralmente di sua proprietà – e infatti  la Grecia ha espulso l’ambasciatore turco. Ma cosa si può immaginare in trasparenza dietro a questa sorprendente iniziativa? In quale contesto nei due paesi si va a inserire?

 

Il maresciallo libico Khalifa Haftar e il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov a Mosca, il 13 gennaio 2020 (Ufficio stampa del ministero degli Esteri russo via AP)

Murat Cinar analizza i meccanismi che il 12 dicembre 2019 regolavano gli interessi nell’area

Da quell’episodio si è potuto allargare il campo, ai molti motivi di scontro e guerra aperta, di repressione e strategie, alleanze e affinità religiose (piegate a fare da foglia di fico per gli interessi geopolitici): il parlamentare Demirtaş malato non curato nel carcere di Edirne dove è ostaggio del regime, banche nazionalizzate per svuotarne i forzieri e sovvenzionare le infrastrutture che fanno da bacino di voti per l’Akp, e poi l’arabizzazione forzata del Rojava negli intenti di Erdoğan – e in questo ambito si registrano le affermazioni di Assad, disponibile a incontrare il presidente turco ma solo per ricordargli che è un invasore (ma in fondo anche Assad padre aveva operato un’arabizzazione della regione ai danni dei curdi); le due fazioni che si contendono il potere in quella che era la Libia sono sempre più internazionalizzate, con precisi appoggi agli uni o agli altri, con la presenza russa che condiziona protagonisti di entrambi i campi di questa guerra per procura, che è un risvolto di quanto è successo e sta accadendo in Siria, un paese che sta diventando modello anche per una nazione che non esiste più dalla fine di Gheddafi; l’attenzione turca si sta da tempo concentrando anche sul Nordafrica e la Libia dove Arabia Saudita ed Emirati, insieme all’Egitto del generale al-Sisi, sostengono il capo della Cirenaica Khalifa Haftar. Mentre Ankara, con il Qatar e in parte l’Italia, appoggia il governo di Tripoli, la città di Misurata e la Fratellanza Musulmana.

La guerra in Libia non è più guerra civile, è diventata regionale. A sostegno di Haftar si prodigano militarmente Egitto, Emirati Arabi e Russia. A oggi l’unico attore forte regionale è la Turchia che non ha mai cambiato posizione e non ha problemi a dichiarare il suo approccio interventista, riaffermando il suo ruolo nella regione anche in relazione a quanto accade in Siria (lì si riproduce lo stesso meccanismo insito nel rapporto di Ankara con la Russia).
La Francia auspica una risoluzione politica-diplomatica ma è, insieme alla Nato, sul campo a combattere a fianco di Haftar. L’Italia – che politicamente appoggia Tripoli (e ha interessi economici in Tripolitania) – è in realtà statica, non ha “amici” in Libia, ma in realtà non è ostile a Haftar. Al-Sarraj aveva bisogno di sostegno militare, ma a parte la missione in difesa dell’ospedale di Misurata sicuramente una certa attività di intelligence, l’Italia non si è poi attivata più di tanto. La Turchia invece è disposta a farlo e al-Sarraj è stato obbligato ad accettare l’aiuto della Turchia. Le reazioni a catena dimostrano che ormai in quel territorio si sta svolgendo una proxy war, una guerra per procura.

Nancy Porsia spiegava il carattere regionale della guerra in Libia nel dicembre 2019

Il governo di Tripoli, ha reso noto di temere la “minaccia” di intervento egiziano in Libia dopo che il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, in una dichiarazione pubblicata, ha definito il Governo di accordo nazionale libico (Gna) “ostaggio di formazioni armate e terroriste”. Il Consiglio del Gna afferma di comprendere “il diritto dello Stato egiziano” alla “sicurezza nazionale ma non accetta alcuna minaccia alla propria sovranità” e “invita le autorità egiziane a rivedere le proprie posizioni circa la crisi libica e a giocare un ruolo positivo che rifletta la profondità delle relazioni storiche fra i due Paesi fratelli”.

E mentre a Tripoli si combatteva e le milizie misuratine lanciavano lo stato di mobilitazione contro l’ennesima fase dell’offensiva del generale cirenaico Haftar sulla capitale, il presidente turco Erdogan incassava l’approvazione da parte della commissione parlamentare Esteri dell’accordo di cooperazione militare con il Gna (il governo tripolino, inventato dall’Onu) siglato il 27 novembre a Istanbul con il premier Serraj.

Quanto la guerra libica sia sempre legata alla profonda crisi in atto nel Mediterraneo Orientale sui confini marittimi delle Zone Economiche Esclusive lo si evince anche dal rischieramento di un drone turco armato BayraktarTB2 all’aeroporto di Gecitakle nella regione di Famagosta, nella Cipro del Nord.

Come affermava Chiara Cruciati su “il manifesto” del 17 dicembre 2019:

Se con il memorandum Ankara si impegna a inviare materiale e consulenze (cosa che con i droni già fa da tempo, violando l’embargo libico), ora Erdogan promette anche truppe, in cambio del controllo sullo specchio di mare tra Creta e Cipro.

Il cosiddetto “accordo di demarcazione” regalerebbe ad Ankara la giurisdizione in acque che ospitano giacimenti di gas naturale tra i più ricchi al mondo, da quelli ciprioti (su cui minaccia anche Israele: è di domenica la notizia dell’allontanamento di una nave dell’Istituto di Oceanografia israeliano da parte della marina turca nelle acque di Cipro) e su quelli nordafricani.

Lo fa sfidando apertamente l’altro attore regionale della crisi libica, l’Egitto, che sta sulla barricata opposta, con Haftar. E sfida anche l’Italia, convinta da aspirazioni neocoloniali, più che dalla vicinanza geografica, che la Libia sia doverosamente affar suo: oggi il ministro degli Esteri Di Maio dovrebbe volare a Bengasi per vedere il generale renegade perché, come dicono in tanti, è tempo di mediare tra le due parti (fossero solo due…) e uscire dal guado. Il probabile incontro è stato preparato nei giorni scorsi dall’Aise, i servizi segreti italiani, già a Bengasi.

Insomma, ormai Haftar va rivalutato (questa sembra la visione dell’Italia che teme di perdere il malloppo a favore della Francia) sebbene da mesi stia stringendo d’assedio il governo voluto dall’Onu e riconosciuto come il solo legittimo dalla comunità internazionale, a partire da Roma.

Identica narrazione, indirettamente, la dà il governo egiziano: «Il governo a Tripoli – ha detto da Sharm el Sheik il presidente al-Sisi – è ostaggio di milizie armate e terroriste». Non li nomina, ma nel mirino di al-Sisi ci sono i Fratelli musulmani, considerati i veri reggenti tripolini e riferimento politico dell’Akp di Erdogan e del Qatar, l’altra potenza regionale alleata di Sarraj che nei giorni scorsi, per bocca dell’emiro Al Thani, ha detto di voler/poter intervenire «sul piano economico e della sicurezza» al fianco di Tripoli.

Dall’interventismo turco in mezzo Vicino Oriente non poteva mancare la stoccata al nemico-amico statunitense. Brucia ancora il riconoscimento da parte della Camera Usa, il 31 ottobre, del genocidio armeno. Ma bruciano di più la sospensione della vendita degli F35 e le sanzioni che Washington ha paventato se Ankara proseguirà nell’acquisto del sistema di difesa missilistico russo S-400.

E così Erdogan ha pensato bene di minacciare gli Usa di «chiudere la base aerea di Incirlik e la stazione radar di Kurecik, che ospitano i militari americani». Nella seconda c’è la Nato, nella prima bombe atomiche Usa. Erdogan non vede l’ora di metterci le mani: da Incirlik è partito un pezzo del tentato golpe del 2016.

L’aeroporto di al-Watiya a sudovest di Tripoli diventerà una base militare turca

Intanto, in seguito all’accordo bilaterale di cooperazione militare sottoscritto lo scorso novembre tra Ankara e il Gna, la Turchia occuperà due basi militari in Libia: il grande aeroporto di al-Watiya (nella foto), vicino al confine tunisino, 125 chilometri a sudovest di Tripoli, da dove sono state cacciate da poco le forze dell’Lna che la controllava dal 2014) e nel porto di Misurata. Forse la base verrà occupata anche dalle forze statunitensi dell’Africa Command (Africom) dopo le intese tra Ankara e Washington dei giorni scorsi e il colloquio tra Donald Trump ed Erdoğan. Mentre a Misurata verrebbe invece creata una base navale: la presenza di navi turche è considerata essenziale per la sicurezza delle attività di perforazione (petrolio e gas) nella regione.

Il porto di Misurata dove la Turchia installerà la sua base navale

 

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L’attivismo di Erdoğan concepito al Cremlino https://ogzero.org/lattivismo-di-erdogan-concepito-al-cremlino-2/ Tue, 07 Jul 2020 16:04:29 +0000 http://ogzero.org/?p=781 Le strategie parallele russo-turche per l'indipendenza ottomana dagli Usa porta alle intese di Astana per spartirsi energia e controllo sullo scacchiere mediterraneo

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Dieci anni di strategie parallele per il distacco ottomano dagli Usa

L’attuale tavolo da gioco

Sin dall’inizio della guerra in Siria, la posizione di Ankara è stata sempre a favore della caduta del regime Ba’th. Nel frattempo le relazioni tra Turchia e Russia, nonostante alcuni periodi difficili, si sono allacciate sempre più. Questo fatto ovviamente crea stupore dato che in Siria, dal 2014, Putin è apertamente schierato in forze accanto al presidente Assad per salvarlo e sembra che l’appoggio di Mosca abbia cambiato le sorti della guerra a favore di Damasco.

Le cose sono diventate ancora più complicate con l’intervento della Turchia nella guerra libica. Nel 2019, Ankara ha deciso di sostenere economicamente, militarmente e politicamente Fayez al-Sarraj, presidente riconosciuto dall’Onu, contro il generale Haftar, uomo appoggiato da Mosca che vorrebbe ottenere il controllo assoluto del paese. Dunque anche in Libia queste due forze si trovano a portare avanti due strategie diverse con un forte rischio di scontrarsi.

Tuttavia, fuori dai territori libici e siriani la collaborazione turco-russa vive una fase senza precedenti. La domanda che sorge è semplice: “Com’è possibile un quadro del genere?”. Le risposte sono molteplici e non del tutto definitive. Scelte economiche, strategie di alleanza per mantenere il potere e nascondere la corruzione. Cerchiamo di mettere sul tavolo tutto questo per provare a capirci qualcosa.

Il germe del flirt

Senz’altro la caduta del comunismo e l’introduzione del libero mercato ha fatto sì che la Turchia s’introducesse sempre di più nell’economia della Russia. Negli anni Novanta i rapporti commerciali crescevano notevolmente, tuttavia la svolta storica è avvenuta nel 2010 quando questi due paesi hanno costituito il Consiglio di Collaborazione ad Alto Livello (Udik).

La Centrale nucleare di Akkuyu, ancora in fase di costruzione, è stata finanziata dall’investitore russo Rosatom; l’ex banca statale Denizbank è stata venduta alla russa Sberbank; più del 50 per cento del fabbisogno nazionale della carta per i giornali è di fabbricazione russa e la Russia risulta tuttora il principale fornitore del fabbisogno energetico della Turchia. Questi sono soltanto alcuni punti eclatanti di un rapporto commerciale che oggi supera 25 miliardi di dollari statunitensi. Nella lista ovviamente non mancano vari prodotti agricoli, investimenti militari e un enorme mercato turistico.

Un breve attimo di crisi

Senz’altro questa spettacolare storia d’amore ha subito una momentanea rottura nel 2015; ossia cinque anni dopo l’inizio della crescita sproporzionata dei rapporti commerciali e un anno dopo che la Russia aveva deciso d’intervenire in Siria accanto a Damasco.

Il 24 novembre 2015 un Su-24M russo è stato abbattuto alle 9,24, da due F-16 delle Forze Armate Turche, mentre stava ritornando alla base aerea di Khmeimim, vicino Laodicea. Secondo la versione turca, l’aereo russo stava per compiere un bombardamento contro i ribelli Siriano-Turkmeni. Al momento dell’abbattimento, i due membri dell’equipaggio dell’aereo sono riusciti a eiettarsi con successo, ma il pilota è stato catturato dai gruppi armati in Siria e il suo corpo è stato mostrato in un video diffuso su internet. Il vicecomandante della Brigata Turcomanna, identificato come Alparslan Çelik (figlio dell’ex sindaco di Keban, del Partito del movimento nazionalista), ha dichiarato di aver ucciso i due membri dell’equipaggio del Su-24 mentre scendevano col paracadute.

I rapporti sono rimasti congelati per quasi nove mesi, fino a quando Ankara non ha presentato le scuse ufficiali. Oltre allo scambio commerciale interrotto, si sono registrati alcuni episodi anche significativi che hanno aumentato il livello dello stress. Il trattenimento di una decina d’imprenditori turchi in diversi centri d’identificazione ed espulsione e la confisca dei beni di diversi imprenditori legalmente residenti in Russia da più di 20 anni sono state le inevitabilmente decise ritorsioni.

Mosca ha chiamato in causa anche il coinvolgimento della Turchia in Siria per pareggiare i conti con la ricostruzione turca dell’abbattimento dell’aereo. Anatoly Antonov, il viceministro della Difesa nazionale, il 5 dicembre, a Mosca, in una conferenza stampa, utilizzando diverse immagini satellitari, ha comunicato al mondo che la famiglia del presidente della Repubblica di Turchia comprava petrolio direttamente dall’Isis in Siria.

Circa nove mesi dopo, giugno 2016, Ankara, tramite una lettera scritta dal presidente, ha chiesto ufficialmente scusa alla famiglia del pilota russo ucciso. Anche se questa versione non è stata riportata esattamente in questa maniera dai media turchi, in un comunicato ufficiale il Cremlino ha confermato le scuse di Erdoğan.

Un golpe spifferato dai russi?

Un mese dopo l’inizio della normalizzazione dei rapporti con la Russia, il 15 luglio del 2016, la Turchia ha vissuto un tentativo di colpo di stato. Questo gesto folle e violento è stato respinto con la determinazione delle forze armate e della popolazione civile. Restano tuttora numerosi punti oscuri dietro questo strano colpo di stato. Tuttavia ci sono due punti che collegano il golpe al nostro filo.

  1. Innanzitutto secondo Ankara, il tentativo è l’opera dell’ex alleato di Erdoğan, in esilio negli Stati Uniti da più di 20 anni: Fethullah Gülen. Accusato di essere uno dei membri di Gladio è stato definito il principale responsabile del fallito golpe. Il fatto che sia un grande e storico ammiratore della Nato, sia in esilio negli Usa e le amministrazioni statunitensi non abbiano deciso di rimpatriarlo e consegnarlo ad Ankara (nonostante le numerose richieste) fa sì che Erdoğan possa accusare gli Usa di essere «il mentore principale del golpe». Non solo Erdoğan ma la maggiora parte del suo partito e una buona parte del paese pensa tuttora così. Questo è ovviamente un elemento che raffredda i rapporti tra Washington e Ankara, due alleati storici nella Nato.
  2. Il secondo punto legato al golpe è il fatto che siano stati i servizi segreti russi presenti in Turchia a informare Ankara dell’avvento del golpe. Secondo Aleksandr Dugin, consulente di Sergey Naryshkin, capo dei servizi d’intelligence internazionale russi, il 14 luglio del 2016, Ankara è stata informata della preparazione del golpe proprio da lui stesso. Nell’intervista rilasciata all’“Independent” redazione in lingua turca, Dugin sostiene che sia stata la Cia a organizzare il fallito golpe con l’obiettivo di distruggere i rapporti tra Mosca e Ankara, «esattamente come fu fatto nel caso dell’abbattimento dell’aereo».

La versione è stata successivamente sposata in parte anche da Erdoğan. In un’intervista rilasciata ad Al Jazeera, il presidente della Repubblica sosteneva che i piloti turchi che hanno colpito l’aereo russo, erano uomini di Gülen, l’ex predicatore e, secondo Ankara, il responsabile del fallito golpe.

Questo momento storico ha dato slancio al cambiamento delle relazioni tra Ankara-Washington e Mosca.

L’ultima goccia

Mentre le scelte politiche e militari dell’amministrazione statunitense in Siria non venivano apprezzate da Ankara i rapporti con Mosca si complicavano ancora di più. Una Turchia che aveva appena respinto un tentativo di colpo di stato e viveva sotto lo stato d’emergenza assistette in diretta tv all’assassinio dell’ambasciatore russo. Andrej Karlov è stato ucciso il 19 dicembre 2016 mentre presenziava a una mostra d’arte in Turchia, a seguito di colpi d’arma da fuoco sparatigli a breve distanza da Mevlüt Mert Altıntaş, un giovane poliziotto locale.

Altinas ha gridato per circa un minuto dopo aver ucciso l’ambasciatore, elogiando la guerra santa e sottolineando che «coloro che creano sofferenze in Siria saranno sempre puniti». Le sue parole, pronunciate anche in arabo, sono state associate ad alcuni comunicati dell’organizzazione terroristica Al Nusra. Il fatto successivamente è stato smentito ma era chiaro che Altintas avesse deciso di uccidere un diplomatico russo per la difesa della guerra religiosa portata avanti da diversi gruppi armati in Siria, anche contro il governo di Damasco. Dall’inizio della guerra sul territorio siriano operano numerosi gruppi jihadisti che come obiettivo hanno la destituzione di Assad. Ricordiamoci che Mosca si trova, dal 2014, in Siria per salvare Damasco.

Successivamente, nel 2018, il procuratore Adem Akinci ha deciso di emettere il mandato di cattura contro 8 persone ipoteticamente coinvolte nell’assassinio dell’ambasciatore russo. La cosa curiosa è il fatto che secondo Akinci l’attentato sia stato realizzato con il mandato di Gülen, l’ex alleato del governo, accusato di aver messo in atto il fallito golpe del 2016. Per quanto le accuse siano state smentite dallo stesso Gülen, la politica, i media e la magistratura hanno operato in modo che in Turchia la versione di Akinci sia quella accreditata.

La tensione con gli Usa spinge Ankara verso Mosca

Operazioni anticorruzione

Il 2013 si conclude in Turchia con una grande operazione anticorruzione. Fotografie, video, registrazioni audio e numerosi schemi riempiono le pagine dei giornali e le inquadrature dei canali televisivi. In poche parole il governo, numerosi imprenditori e vari governatori locali sono stati accusati di aver ideato e creato un sistema per aggirare l’embargo statunitense in atto contro l’Iran e nel fare questo sembra che le persone coinvolte abbiano riciclato un notevole volume di denaro di provenienza sconosciuta.

Tra le persone coinvolte si vede anche il nome del figlio del presidente della Repubblica e nelle registrazioni audio diffuse su internet si sente la voce di Erdoğan che ordina a suo figlio Bilal di far scomparire i contanti presenti a casa. Bilal Erdoğan è nella lista dei ricercati ma non sarà mai catturato. Ankara reagisce a tutto questo con le dimissioni di 4 ministri e con un’ondata di arresti contro i giudici, procuratori e poliziotti che hanno fatto parte dell’operazione. In pochi giorni Erdoğan definirà tutto questo come un «tentativo di colpo di stato ideato da Gülen».

Il 19 marzo 2016, negli Usa, il numero uno di questo scandalo, l’imprenditore turco-iraniano Reza Sarraf viene arrestato. Durante i lunghi interrogatori, il 30 novembre 2017 Sarraf pronuncia queste parole in aula: «A dare l’ordine è stato Recep Tayyip Erdoğan» e illustra perfettamente tutto il giro di riciclaggio di denaro. Quindi Ankara diventa decisamente ricattabile da Washington. Il 23 marzo del 2017 viene arrestato e condannato anche Hakan Atilla, l’ex vicepresidente della banca statale Halkbank, con l’accusa di aver messo a disposizione la sua banca per questi lavori di riciclaggio denaro e corruzione.

Posizioni diverse in Siria

Il gelo tra i vecchi alleati avviene su diversi fronti. Tra questi ovviamente c’è anche l’enorme differenza nella presa di posizione in Siria.

La scelta dell’ex presidente statunitense, Barack Obama, di armare le unità di difesa popolare Ypg/Ypj nella lotta contro l’Isis, è uno dei punti più importanti. Le Ypg/Ypj sono state sempre definite come un’organizzazione terroristica da Ankara per via della loro vicinanza politica al Partito dei lavoratori del Kurdistan( Pkk), l’organizzazione armata definita “terroristica” dalla Turchia. Senz’altro non possiamo escludere il fatto che il profilo economico e politico del Confederalismo Democratico, progetto rivoluzionario lanciato in Rojava, sia in contraddizione con il disegno politico ed economico fondamentalista, saccheggiatore e nazionalista che governa la Turchia. Inoltre, in numerosi incontri, Washington ha sempre respinto le richieste di Ankara per creare una No fly zone nel Nord della Siria.

Di fronte a queste differenze Erdoğan continua a rifiutarsi di interloquire: né con le Ypg/Ypj né con le Forze Democratiche Siriane (Sf). Secondo Ankara la lotta contro l’Isis è uguale con la lotta contro le Ypg/Ypj. Quindi la sua preferenza è quella di entrare di persona sul territorio siriano e ripristinare la situazione a modo suo.

Non possiamo nascondere anche le dinamiche legate alla politica interna. La questione Pkk-Ypg/Ypj è storicamente irrisolta in Turchia. Il problema della negazione dei diritti delle persone curde negli anni Settanta ha portato una parte del movimento curdo ad abbracciare le armi e nessun governo in Turchia ha voluto veramente dialogare con il Pkk e aprire una strada per la pace. Nonostante due anni di cessate il fuoco, Erdoğan ha notato, nel 2015, a causa dell’esito delle elezioni politiche, che la pace non portava voti. Dopo 15 anni di governo a partito unico, aveva perso la possibilità di comporre il governo da solo e aveva visto entrare in parlamento 80 deputati appartenenti al Partito democratico dei popoli, progetto politico proposto da Abdullah Öcalan, leader storico del Pkk. Erdoğan ora vedeva vacillare il suo potere come l’esito di «un passo avanti fatto per la pace». Quindi quel breve dialogo con il Pkk è stato archiviato e il conflitto è ripreso. In pochi giorni la Turchia è diventata di nuovo, come negli anni Novanta, il campo di battaglia.

Ora Ankara non si trovava assolutamente sulla stessa lunghezza d’onda con gli Usa in Siria. Quindi se voleva mantenere voce in capitolo in Siria e mandare avanti i suoi piani ultranazionalisti con l’obiettivo di mantenere il suo potere, doveva assolutamente trattare con Mosca.

Rapporti stretti con la Russia per motivi economici

Turkish Stream e centrale nucleare Akkuyu

Ovviamente l’ombelico di Ankara si lega alla mamma Russia anche per motivi economici. Mosca non è solo un rifugio politico, oppure un elemento di ricatto contro gli Usa, ma è anche una copiosa fonte di denaro.

Il piano di un gasdotto gigantesco è stato proposto nel 2014 dal presidente russo, Vladimir Putin, durante una sua visita in Turchia. Nel 2016 è stato firmato l’accordo e nel mese di gennaio del 2020 sono state aperte le valvole per pompare il gas. Ankara si aspetta di ottenere, all’anno, 15,75 miliardi di metri cubi di gas, con il diritto alla rivendita. È un progetto simile a quello inaugurato nel 2003 con la presenza di Silvio Berlusconi in Turchia: Blue Stream, il grande progetto di gasdotto in cui è coinvolto non solo il russo Gazprom ma anche l’italiana Eni. La Turchia, grazie all’accordo firmato, è obbligata a comprare il gas da Mosca fino al 2023.

Un altro progetto massiccio russo sul territorio della Turchia è quello della centrale nucleare Akkuyu. I lavori di costruzione sono partiti nel 2018 e la conclusione è prevista per il 2023 per un costo di 20 miliardi di dollari.

Queste due, e non solo, grandi opere ovviamente legano anche dal punto di vista economico Ankara a Mosca.

Inizia Astana Process

La Siria derivante dagli accordi

Questi numerosi cambiamenti storici, spesso sviluppati attorno alla guerra siriana, hanno fatto sì che la Turchia si allontanasse dal suo storico alleato e si avvicinasse a Mosca.

Il 23 gennaio del 2017 nella città di Astana avviene il primo incontro per la pace in Siria tra Ankara, Mosca e Tehran. Con questo primo passo è ormai chiaro che per Erdoğan gli interlocutori sono queste due forze importanti, presenti sul territorio siriano con forze ingenti e l’obiettivo di salvare il governo di Assad. Tuttavia era sempre lo stesso Erdoğan che ormai risultava essere l’unico leader nel mondo che voleva la fine del regime Ba’th.

Mentre negli incontri nella capitale kazaka si parlava dei modi per stabilire la pace in Siria, le Forze Armate della Repubblica di Turchia intervenivano sul territorio settentrionale del paese. Pochi giorni dopo il fallito golpe del 2016 Ankara avviò la sua prima operazione. Fino al 2020 la Turchia è entrata, in modo massiccio, nel Nord della Siria per ben tre volte. L’obiettivo ufficiale era quello di proseguire la lotta contro l’Isis ma anche quello di «mantenere sicuro il confine contro la minaccia delle Ypg/Ypj». In numerose occasioni Erdoğan ha specificato che non avrebbe permesso assolutamente la nascita di una zona autonoma in queste zone controllata dalle forze di unità popolari.

Ovviamente non possiamo ignorare anche le ripetute dichiarazioni di Ankara volte a chiedere in modo insistente la fine del regime di Assad.

Gli incontri di Astana sono un percorso molto complicato composto finora (10 luglio 2020) da 13 incontri. Ankara al tavolo si trova in accordo con queste due forze che sostengono Damasco, mentre sul campo persegue il suo piano quasi in totale tranquillità, molto probabilmente con il permesso di Tehran e Mosca. Infatti nel Nord della Siria, i lavori di monitoraggio e sorveglianza vengono svolti con l’assistenza dell’esercito russo.

Tenendo in considerazione tutto l’andamento storico è evidente che Mosca e Ankara abbiano un rapporto di reciproco sfruttamento e dipendenza. Soprattutto con l’acquisto del sistema d’arma antiaereo russo S400 da parte di Ankara ha fatto sì che la sua dipendenza militare, economica e politica dalla Russia diventasse molto palese. Dunque anche in Siria questi due paesi mettono in atto una collaborazione perversa e strana ma in qualche maniera “funzionante”.

Spostiamoci in Libia, passando da Sochi

(podcast di un intervento di Murat Cinar del 20 febbraio 2020 nella mattinata informativa di Radio Blackout)

Il 22 ottobre del 2019 Erdogan e Putin si incontravano nella città di Sochi, sul Mar Nero, per firmare un accordo di pace in Siria. Quest’incontro avveniva 13 giorni dopo l’inizio dell’intervento militare “Sorgente di Pace” avviato da Ankara in Siria. Dunque in quest’accordo Ankara otteneva una piccola zona “sicura e libera” e lo spostamento di circa 33000 militanti delle Sdf dalle zone sotto il suo controllo. L’area più interessante per Erdogan era la città d’Idlib, famosa per la sua alta concentrazione dei gruppi armati oppositori a Damasco.

Un mese dopo l’accordo di Sochi, il 27 novembre del 2019, Ankara decide di firmare un patto con il governo di Tripoli che le permetta d’intervenire nella guerra libica; militarmente, economicamente e politicamente. Ankara ovviamente appoggia il governo di Tripoli guidato da Al Sarraj e riconosciuto dall’ONU. Di fronte a questo politico accusato di essere l’espressione dei Fratelli Musulmani troviamo il generale Haftar sostenuto dalla Russia e non solo.

Dunque anche in questo caso Ankara, pur continuando a conservare il suo rapporto eccellente con Mosca, si trova a sostenere una linea contro il campione appoggiato dalla Russia. A questo punto, per trovare una soluzione ai punti interrogativi, sottolineiamo un’informazione fornita dall’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr). Nella relazione pubblicata dall’organizzazione, nel mese di giugno del 2020, si specifica che da Idlib in Libia sono arrivati più di 13000 miliziani jihadisti per combattere accanto al governo di Tripoli. Secondo alcune fonti i voli sarebbero partiti dalla città di Antep, in Turchia. Secondo il presidente del Forum Curdo Tedesco, Yunis Behram, il costo economico di questi combattenti viene sostenuto dalla Turchia grazie ai soldi ricevuti dall’Unione europea per creare un sistema di accoglienza dignitoso per i rifugiati siriani presenti nel paese. Secondo Behram un’altra fonte economica proviene dalla vendita del petrolio da parte del governo Al-Sarraj.

Dunque in Libia a prendere decisioni sul campo, dietro le quinte, e fare conti di ogni tipo tra di loro sono due paesi; Turchia e Russia. Apparentemente sembra che siano contrapposti in un quadro di conflitto, tuttavia tra la Siria e la Libia sono loro due a cambiare gli scenari e l’andamento della guerra soddisfacendo reciprocamente i propri bisogni e rispettando le precedenze.

Obiettivi economici

Oltre all’idea di sostenere un leader espressione dei Fratelli Musulmani e disfarsi dei miliziani jihadisti d’Idlib, essere presente in Libia per Ankara concerne ovviamente anche il fabbisogno nazionale di petrolio e di altre necessità economiche.

Stiamo parlando di un paese che compra più del 90 per cento del petrolio che consuma dall’estero. Dunque le fonti energetiche a basso costo sono estremamente importanti. Infatti Ankara cerca nuovi giacimenti petroliferi in Libia dal 2000 tramite le aziende Tpao e Noc. Queste ricerche hanno fatto scoprire sette nuovi giacimenti e per questi lavori la Turchia ha dovuto spendere circa 150 milioni di dollari statunitensi. Ovviamente in questa nuova fase Ankara ha la volontà di usufruire del petrolio con condizioni economiche agevolate grazie al suo sostegno per Tripoli che sta vincendo la guerra sul campo. Quest’obiettivo oltre a non essere smentito da Ankara è stato sempre messo in alto nella lista delle motivazioni che l’hanno spinta a entrare in guerra.

Ovviamente anche in altri ambiti commerciali si prospettano novità. Il 17 giugno 2020 una delegazione di alto livello è partita dalla Turchia per Tripoli portandosi dietro una serie d’imprenditori pronti a firmare nuovi accordi in Libia. Secondo Mithat Yenigun, presidente dell’Associazione degli imprenditori edili, presto le aziende turche inizieranno a costruire delle grandi opere in Libia per la ricostruzione del paese.

Un’altra novità interessante in termini economici invece arriva dalla Banca centrale della Libia che decide di depositare nelle casse della Banca centrale della Turchia, 8 miliardi di dollari in quattro anni.

Tutto questo ha ovviamente un senso molto importante tenendo in considerazione la forte crisi economica in cui si trova la Turchia da circa quattro anni. La disoccupazione cresce, l’inflazione è sempre in aumento, la Lira turca perde costantemente il suo valore e la crescita economica non è più così aggressiva come prima.

Conclusione

La guerra è un momento di caos e nebbia, spesso è difficile comprendere ciò che sta succedendo. Le guerre per procura senz’altro sono ancora più complesse. In Libia e Siria assistiamo a questo tipo di guerre. Due paesi devastati e saccheggiati da diverse forze straniere per diverse ma simili motivazioni. Dunque comprendere le basi e le caratteristiche delle alleanze, come anche le ostilità, non è semplice. In quest’ottica, senz’altro non è molto d’aiuto anche una cultura politica ed economica opportunista e basata sul reciproco sfruttamento.

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La decurdizzazione del Nordest siriano https://ogzero.org/la-decurdizzazione-del-nordest-siriano/ Sun, 29 Mar 2020 15:48:54 +0000 http://ogzero.org/?p=48 La deportazione dalla Turchia dei rifugiati siriani curdi in Rojava con quella che al-Assad considera una vera e propria invasione. Una ricollocazione radicale che ufficialmente è definita dal governo turco come un ripristino della situazione demografica della Siria, per creare una “zona di sicurezza”. La pretesa iniziale è di quasi 2 milioni di siriani deportati […]

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La deportazione dalla Turchia dei rifugiati siriani curdi in Rojava con quella che al-Assad considera una vera e propria invasione. Una ricollocazione radicale che ufficialmente è definita dal governo turco come un ripristino della situazione demografica della Siria, per creare una “zona di sicurezza”. La pretesa iniziale è di quasi 2 milioni di siriani deportati in una zona di 500 km, che probabilmente si limiterà a un solo milione, e che implicherà l’enorme interesse turco nella cementificazione, nell’edilizia in quelle zone, un coinvolgimento quindi non solo politico ma anche economico in futuro.

Murat Cinar il 12 dicembre 2019 su Radio Blackout:

 

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Kobane calling https://ogzero.org/kobane-calling/ Sun, 29 Mar 2020 15:24:11 +0000 http://ogzero.org/?p=46 Mentre il conflitto tra le forze politiche, economiche e sociali della Turchia proseguiva nel suo modo sempre più aggressivo e distruttivo, la Siria diventava di nuovo il centro dell’attenzione. Forse questo è uno degli elementi più importanti per comprendere meglio le motivazioni e le caratteristiche degli accadimenti avvenuti in Turchia nell’ultimo periodo. La Siria, oltre […]

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Mentre il conflitto tra le forze politiche, economiche e sociali della Turchia proseguiva nel suo modo sempre più aggressivo e distruttivo, la Siria diventava di nuovo il centro dell’attenzione. Forse questo è uno degli elementi più importanti per comprendere meglio le motivazioni e le caratteristiche degli accadimenti avvenuti in Turchia nell’ultimo periodo. La Siria, oltre a essere un campo di battaglia limitrofo alla Turchia con i suoi 900 chilometri di confine, diventava anche un problema sociale per via dell’aumento di rifugiati in fuga dal paese. In quest’ottica e tenendo in considerazione i due fattori molto importanti era impossibile che la Siria non esercitasse un’influenza sulla politica interna della Turchia. 

In primis con la definizione dei confini: durante la nascita di queste due repubbliche, intere famiglie, centinaia di villaggi, numerosi gruppi religiosi oppure semplicemente migliaia di persone sono state obbligate a fare una scelta; restare in Siria oppure in Turchia. In alcuni casi la scelta era anche obbligata dato che, come fosse stata tracciata una riga, parecchie zone abitative erano state bruscamente divise in due. Questo fatto ha colpito sia le popolazioni siriane che si definiscono arabe, sia le comunità curde, armene, turcomanne e siriache. Per cui per centinaia e migliaia di persone da più di ottant’anni Turchia vuol dire Siria e viceversa.

In secondo luogo la discriminazione messa in atto dai governi siriani partendo dagli anni Sessanta nei confronti dei curdi di Siria ha fatto sì che nascessero dei movimenti reazionari partitici oppure combattenti. Proprio in quel momento nascevano e crescevano dei movimenti analoghi in Iran ma anche in Turchia. In poche parole i movimenti reazionari partitici oppure armati tra questi due paesi sono stati sempre dei cugini e in collegamento, collaborazione e comunicazione.

Quando l’Isis ha deciso di attaccare la città di Kobane in Rojava, nel Nord della Siria, le unità di difesa popolare locali hanno provato a respingerlo. A portare sostegno e aiuto per queste unità sono stati i combattenti stranieri provenienti dall’Europa e dall’America ma anche dall’Iraq e dalla Turchia. Particolarmente nel caso della Turchia ci sono stati alcuni tentativi di massa di sfondare il confine per aderire alle forze locali nella lotta contro l’Isis. Nel mese di ottobre del 2014, quando Kobane era sotto il forte attacco di Daesh, il governo Akp non ha concesso, all’inizio, il permesso di trasportare le armi e gli uomini dall’Iraq a Kobane passando per il territorio nazionale per sostenere la resistenza. 

In quel frangente storico molto importante il neopresidente della repubblica in un suo intervento pubblico nella città di Antep, al confine con la Siria, pronunciava queste parole: «Non basta il bombardamento aereo, bisogna dare un sostegno con un intervento a terra, altrimenti non si può lottare contro questo terrore. Ecco dopo mesi, senza esiti, anche Kobane sta per cadere. La Turchia è pronta a rispondere a ogni tipo di minaccia. In particolare nessuno deve avere dubbi sul fatto che la minaccia contro la nostra caserma Suleyman Sah, un nostro territorio storico in Siria, riceverà la risposta adeguata. Osserviamo con attenzione e preoccupazione tutto ciò che accade a Kobane. Coloro che si oppongono a un intervento militare in Siria cercano di utilizzare quello che vi accade come un elemento per la politica interna». 

Mentre per Demirtaş la visione sarebbe dovuta essere diversa: infatti chiedeva al governo di aprire il confine perché i giovani dalla Turchia potessero andare a Kobane per aderire alla resistenza. Un’altra richiesta di Demirtaş era quella di permettere il passaggio dei mezzi da altri cantoni del Rojava verso Kobane. Entrambe sono state respinte dal governo. 

La violenza dell’Isis aumentava e solo nel mese di settembre circa  100 000 persone hanno forzato il confine e si sono rifugiate in Turchia. A Kobane gli scontri diventavano sempre più duri e in Turchia crescevano le manifestazioni violente in solidarietà con Kobane.

A Cizre, Diyarbakır, Ceylanpinar, Sirnak e Urfa i manifestanti si scontravano con la polizia. I manifestanti richiedevano il permesso per il trasporto delle armi e degli uomini dalla zona federale curda dell’Iraq del Nord verso Kobane e accusavano il governo nazionale della Repubblica di Turchia di sostenere l’Isis. Inoltre disapprovavano un eventuale intervento militare delle forze armate repubblicane, a differenza di quello che aveva proposto il presidente nel suo intervento pubblico a Urfa.

Così partendo dal 6 ottobre per circa una settimana scendevano in piazza migliaia di persone nelle città di Erzurum, İstanbul, Mardin, Van, Ankara, Bingol, Bursa, Diyarbakır, Gaziantep, Igdir, Smirne, Mersin, Mus, Siirt, Urfa, Batman e Sirnak. I manifestanti pro Kobane oppure i militanti dell’Hdp si scontravano con le forze armate dello stato e in alcuni casi anche con i militanti di alcuni partiti ultranazionalisti e fondamentalisti. In pochi giorni sono morte 46 persone e 682 sono rimaste ferite. La polizia ha operato 323 arresti. Per calmare le acque Demirtaş ha invitato diverse volte i manifestanti a rientrare nelle loro abitazioni e ha comunicato anche i messaggi analoghi di Abdullah Öcalan, leader del Pkk. Inoltre Demirtaş criticava la mancata collaborazione del governo e del presidente della repubblica esprimendosi così durante la conferenza stampa del 13 ottobre: «Questa indifferenza crea una rottura emotiva tra le persone. Migliaia di cittadini sono al confine da venticinque giorni a protestare contro l’Isis che massacra a Kobane e la gendarmeria non fa altro che lanciare dei lacrimogeni».

A proposito del coinvolgimento delle persone e dei movimenti in Turchia nella resistenza di Kobane, Erdoğan la pensava diversamente. Durante l’inaugurazione di una scuola coranica nella città di Rize disse: «Cosa c’entra Kobane con la Turchia? Circa 200 000 fratelli curdi sono scappati da Kobane e si sono rifugiati in Turchia. Li abbiamo soccorsi, accolti e gli diamo da mangiare. Cosa volete di più? E voi non sostenete il governo che vorrebbe entrare in Siria e in Iraq». 

Dopo quei giorni di caos il procuratore di Ankara ha denunciato alcuni vertici dell’Hdp con l’accusa di organizzare una rivolta popolare contro il governo. Successivamente anche le parole pronunciate in questo periodo da Demirtaş sarebbero state utilizzate per la rimozione della sua immunità parlamentare. 

Frags tratti da Ogni luogo è Taksim. Da Gezi Park al controgolpe di Erdoğan, di Deniz Yücel, con una prefazione di Alberto Negri e un’analisi di Murat Cinar, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

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