Marina Forti Archivi - OGzero https://ogzero.org/autore/marina-forti/ geopolitica etc Sun, 02 Oct 2022 08:25:01 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Sollevato il velo di Mahsa. La società iraniana sfida la “morale” repressiva https://ogzero.org/mahsa-amini-la-societa-iraniana-sfida-la-morale-repressiva/ Fri, 23 Sep 2022 23:57:45 +0000 https://ogzero.org/?p=8988 La sensibilità della vivace società iraniana è avvezza alla protesta di piazza senza paura della feroce repressione del sistema ispirato da una dottrina morale ormai scollata dal comune sentire. Abbiamo dato conto in altre occasioni al malcontento sfociato in rivolta: individualmente, quando donne ai semafori platealmente liberavano le chiome, sfidando le basi del paternalismo; oppure […]

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La sensibilità della vivace società iraniana è avvezza alla protesta di piazza senza paura della feroce repressione del sistema ispirato da una dottrina morale ormai scollata dal comune sentire. Abbiamo dato conto in altre occasioni al malcontento sfociato in rivolta: individualmente, quando donne ai semafori platealmente liberavano le chiome, sfidando le basi del paternalismo; oppure nei momenti in cui la siccità minava i precari equilibri della sopravvivenza nelle aree rurali; oppure quando l’autarchia imposta dalle sanzioni erodeva l’economia popolare. Questa volta però in piazza, in occasione della morte di Mahsa Amini, scendono uomini e donne per un’enormità intollerabile, che però mina le fondamenta del sistema… e questo sentire comune si va espandendo incontenibile in tutto il paese a difesa dei diritti delle donne. Dopo il rientro di Raisi dall’intervento all’Onu la repressione si è moltiplicata con il conteggio dei morti, ma sembra non riuscire ancora a soffocare le proteste che in una settimana sempre più hanno posto nel mirino i vertici di un sistema che si sta esprimendo con esagerati giri di vite conservatori che hanno esacerbato il rapporto con la società civile. E stavolta la rivolta è fuori controllo. Ne abbiamo parlato con Marina Forti – e potete trovare nel podcast inserito nel suo articolo la sua voce che approfondisce alcuni aspetti accennati nell’articolo, dove vengono illustrati tutti i singoli elementi che compongono questo snodo epocale – per collocare nella storia dell’Iran e nella comunità che attualmente abita il paese questa incontenibile indignazione che può fare paura al sistema che da 43 anni governa e impone la morale con una polizia anacronistica.
Si è poi aggiunto un nuovo contributo propostoci da Gianni Sartori sulle lotte che in questi giorni fanno scricchiolare il consenso degli ayatollah nelle strade iraniane.


La spontanea protesta contro morali anacronistiche

Una folla di giovani circonda un falò, in una piazza: gridano “azadi”, libertà. Una ragazza si avvicina volteggiando, si toglie dalla testa il foulard e lo agita prima di gettarlo tra le fiamme, poi si si riunisce alla folla danzando. Altre la seguono, altre sciarpe finiscono bruciate tra gli applausi. È una delle numerose scene di protesta venute dall’Iran negli ultimi giorni, catturate da miriadi di telefonini e circolate sui social media in tutto il mondo.

Sono proteste spontanee, proseguono da una settimana nonostante la repressione. E se è già avvenuto in anni recenti che proteste spontanee infiammino il paese, è la prima volta che questo avviene in nome della libertà delle donne.
Ad accendere le proteste infatti è la morte di una giovane donna, Mahsa Amini, 22 anni. Era stata fermata il 13 settembre a Tehran dalla “polizia morale”, quella incaricata di far rispettare le norme di abbigliamento islamico: a quanto pare portava pantaloni attillati e il foulard lasciava scoperti i capelli. Qualche ora dopo il fermo Mahsa era in coma; trasferita all’ospedale Kasra di Tehran, è morta il 16 settembre.

La sorte di questa giovane donna di Saqqez, nella provincia del Kurdistan iraniano, in visita a Tehran insieme al fratello, ha suscitato grande emozione: fin da quando è circolata la foto di lei incosciente sul lettino, con flebo e respiratore e segni di ematomi sul volto. Davanti all’ospedale si sono riunite molte persone in attesa di notizie, e l’annuncio della morte ha suscitato profonda indignazione. Al funerale, avvenuto il giorno dopo nella cittadina del Kurdistan dove vive la famiglia Amini, la tensione era palpabile; le foto circolate mostrano una famiglia distrutta dal dolore.

Le proteste sono cominciate all’indomani: le prime e più intense proprio in Kurdistan, poi a Tehran e altrove. Al 23 settembre c’era notizia di dimostrazioni in almeno 18 città, da Rasht sul mar Caspio a Isfahan e Shiraz; da Kermanshah a ovest a Mashhad a est, fino a Kerman nel sud.

Le sfide

Migliaia di brevi video caricati sui social media mostrano folle di donne e uomini, per lo più giovani ma non solo, che esprimono grande rabbia. Molti video mostrano ragazze che bruciano il foulard; una si taglia pubblicamente i capelli in segno di lutto e protesta (a Kerman, 20 settembre). A Mashhad, sede di un famoso mausoleo shiita e luogo di pellegrinaggio, una ragazza senza foulard arringa la folla dal tetto di un’automobile: le nipoti della rivoluzione si rivoltano contro i nonni, commenta chi ha messo in rete il video.

 


A morte il dittatore

Le forze di sicurezza reagiscono. Altre immagini mostrano agenti in motocicletta che salgono sul marciapiede per intimidire i cittadini mentre un agente in borghese manganella alcune donne. La polizia che spara lacrimogeni contro i manifestanti in una nota piazza di Tehran. Agenti con manganelli che inseguono dimostranti; un agente circondato da giovani infuriati che lo gettano a terra e prendono a calci (a Rasht, 20 settembre). Si sentono ragazze urlare “vergogna, vergogna” agli agenti dei Basij (la milizia civile inquadrata nelle Guardie della Rivoluzione spesso usata per reprimere le proteste).

Manifestazioni particolarmente numerose sono avvenute nelle università di Tehran, sia nel campus centrale che al Politecnico. All’Università Azad è stato udito lo slogan “Uccideremo chi ha ucciso nostra sorella”. Anche negli atenei di altre città si segnalano proteste. Ovunque si sente gridare “la nostra pazienza è finita”, “libertà”, e spesso anche “a morte il dittatore”: lo slogan urlato a suo tempo contro lo shah Reza Pahlavi. A Tehran si sentiva “giustizia, libertà, hejjab facoltativo”, e “Mahsa è il nostro simbolo”.

La vicenda di Mahsa Amini: riformare la polizia morale?

La sorte di Mahsa Amini ha suscitato reazioni anche oltre le proteste di piazza. Il giorno del suo funerale, la foto della giovane sorridente e gli interrogativi sulla sua morte erano sulle prime pagine di numerosi quotidiani in Iran, di ispirazione riformista e non solo. Dure critiche alla “polizia morale” sono venute da esponenti riformisti e perfino vicine alla maggioranza conservatrice al governo. La morte di una donna in custodia di polizia non è giustificabile con nessun codice, e ha messo in imbarazzo il governo, a pochi giorni dall’intervento del presidente Ebrahim Raisì all’Assemblea generale dell’Onu.

Così il presidente Raisi in persona ha telefonato al signor Amini, per esprimere il suo cordoglio: «Come fosse mia figlia», gli ha detto, promettendo una indagine per chiarire fatti e responsabilità.

In effetti il ministero dell’interno ha ordinato un’inchiesta; così la magistratura e pure il Majles (il parlamento). Il capo della polizia morale, colonnello Mirzai, è stato sospeso in attesa di accertare i fatti, si leggeva il 19 settembre sul quotidiano “Hamshari (“Il cittadino”, di proprietà della municipalità di Tehran e considerato vicino a correnti riformiste). Perfino l’ayatollah Ali Khamenei, Leader supremo della Repubblica islamica, ha mandato un suo stretto collaboratore dalla famiglia Amini per esprimere “il suo grande dolore”: secondo l’agenzia stampa Tasnim (affiliata alle Guardie della Rivoluzione), l’inviato del leader ha detto che «tutte le istituzioni prenderanno misure per difendere i diritti che sono stati violati».

Per il momento però la polizia si attiene alla sua prima versione: Mahsa Amini avrebbe avuto un infarto mentre si trovava nella sala del commissariato, una morte dovuta a condizioni pregresse. Ha anche distribuito un video in cui si vede la ragazza che discute con una poliziotta, nella sala del commissariato, poi si accascia su sé stessa. Ma il video è chiaramente manipolato.

 

Sentito al telefono giovedì 22 settembre dalla Bbc, il signor Amini ha smentito che sua figlia avesse problemi di cuore. «Sono tutte bugie», ha detto, i referti medici sono pieni di menzogne, non ha potuto vedere il corpo della figlia né i filmati integrali di quelle ore; si è sentito rispondere che le body-cam degli agenti erano fuori uso perché scariche.

Le giovani donne fermate con Mahsa Amini – o Jina, il nome curdo noto agli amici – hanno raccontato invece che la giovane è stata colpita da violente manganellate nel cellulare che le trasferiva nello speciale commissariato dove alle donne fermate per “abbigliamento improprio” viene di solito impartita una lezione sulla moralità dei costumi islamici. Chi è passato attraverso quell’esperienza parla di umiliazioni verbali e spesso fisiche. Questa volta è andata molto peggio.

Prima di ripartire da New York, a margine del suo intervento ufficiale (in cui non ha fatto parola delle proteste in corso), il presidente iraniano Raisì ha tenuto una conferenza stampa per esprimere cordoglio e confermare di aver ordinato una indagine sulla morte della giovane Mahsa Amini.

Le promesse di indagini, le telefonate e le visite altolocate alla famiglia Amini non hanno certo calmato le proteste. Né hanno impedito che fossero represse con violenza.

Il bilancio è pesante. In diverse occasioni la polizia ha usato proiettili di metallo ad altezza d’uomo, secondo notizie raccolte da Amnesty International. Al 24 settembre la polizia ammette 35 morti ma circolano stime molto più alte, forse più di cinquanta, tra cui alcuni poliziotti. Dirigenti di polizia e magistrati ora parlano di “provocatori esterni”, nemici infiltrati. Martedì il capo della polizia del Kurdistan, brigadiere-generale Ali Azadi, ha attribuito la morte di tre dimostranti a imprecisati “gruppi ostili” perché, ha detto all’agenzia di stampa Tasnim, le armi usate non sono quelle di ordinanza delle forze di sicurezza. A Kermanshah, il procuratore capo ha dichiarato che due manifestanti morti il 21 settembre sono stati uccisi da “controrivoluzionari”.

Il governatore della provincia di Tehran, Mohsen Mansouri, ha detto che secondo notizie di intelligence, circa 1800 tra i dimostranti visti nella capitale «hanno preso parte a disordini in passato» e molti hanno «pesanti precedenti giudiziari». In un post su Twitter se la prende con l’attivo intervento di «servizi di intelligence e ambasciate stranieri».

Elementi ostili, infiltrati, facinorosi: ogni volta che l’Iran ha visto proteste di massa, la narrativa ufficiale ha additato “nemici esterni”. Al sesto giorno di proteste, i media ufficiali hanno cominciato a usare il termine “disordini”. Da mercoledì 21 settembre il servizio internet è soggetto a interruzioni; i social media sono stati bloccati “per motivi di sicurezza”. Da giovedì 22 è bloccato Instagram, ultimo social media ancora disponibile, e così anche WhatsApp. Nelle strade ormai si respira tensione: provocazioni da un lato, rabbia dall’altro.

Tutto questo sembra preludere a un intervento d’ordine più violento per mettere fine davvero alla protesta, ora che il presidente Raisi non è più sotto i riflettori a New York.

Mahsa Amini: una insofferenza collettiva

“La protesta avvolta nel velo di morte di Mahsa Amini”.

Restano però i veli bruciati nelle strade: come un gesto di insofferenza collettiva verso una delle prescrizioni simboliche fondamentali della Repubblica Islamica.

L’insofferenza in effetti è profonda. Nei cortei si vedevano giovani donne in chador e altre con i semplici soprabiti e foulard ormai più comuni, accomunate dalla protesta. Molti ormai in Iran considerano assurde e datate le prescrizioni sull’abbigliamento femminile, e ancor di più la “polizia morale”. Assurde le proibizioni sulla musica, sui colori, sui comportamenti personali. Solo pochi oltranzisti considerano normale che lo stato si permetta di dire alle famiglie come devono coprire le proprie figlie. Alcuni autorevoli ayatollah ripetono da tempo che l’obbligo del velo è insostenibile e datato.

Hassan Rohani, pragmatico e fautore di aperture politiche ma pur sempre un clerico ed esponente della nomenklatura rivoluzionaria, quando era presidente ironizzava sulla polizia morale che «vuole mandare tutti per forza in paradiso».

Il fatto è che l’abbigliamento femminile, come del resto ogni ambito della vita pubblica e della cultura, sono un terreno di battaglia politica in Iran. E l’avvento dell’ultraconservatore Raisi ha segnato un giro di vite. È stato il suo governo a proclamare il 12 luglio “giorno del hejjab e della castità”. Il presidente si è detto addolorato dalla morte di Mahsa Amini: ma è stato proprio lui a firmare, il 15 agosto, un decreto per ripristinare le corrette norme di abbigliamento islamico e prescrivere punizioni severe per chi viola il codice, sia in pubblico che online (è diventato comune mettere sui social media proprie foto a testa scoperta, video di persone che ballano, in aperta sfida alle prescrizioni ufficiali).

Sarà costretto a fare qualche marcia indietro? Ora diverse voci tornano a chiedere di abolire la cosiddetta “polizia morale”, che dipende dal ministero della “cultura e della guida islamica”, noto come Ershad.

Tanto che il ministro della cultura Mohammad Mehdi Esmaili, sulla difensiva, ha dichiarato che stava considerando di riformare la polizia morale già prima della morte di Amini: «Siamo consapevoli di molte critiche e problemi», ha detto.

Il vertice della repubblica islamica però dovrebbe ormai sapere che nella società iraniana la rabbia e la frustrazione sono profonde. Ed è già successo che proteste nate da un preciso episodio poi si allargano. L’Iran sta attraversando una crisi economica che ha impoverito anche le classi medie. Ogni rincaro dei generi alimentari o della benzina colpisce gli strati più modesti della società, e quindi il sistema di consenso che regge da quattro decenni le basi della Repubblica islamica. Soprattutto, i giovani iraniani non vedono un futuro. Si sentono soffocare. La rabbia è pronta a esplodere a ogni occasione. Non che sia una minaccia immediata, per il vertice politico: sono proteste spontanee, non ci sono forze organizzate che possano abbattere il sistema. Ma lo scollamento sociale cresce. Un sistema che tiene alla sua sopravvivenza dovrà tenerne conto.

 

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Gli iraniani cercano casa, in Turchia https://ogzero.org/gli-iraniani-cercano-casa-in-turchia/ Thu, 10 Feb 2022 20:00:43 +0000 https://ogzero.org/?p=6255 Il governo Raisi fronteggia una forte emigrazione di cittadini iraniani (soprattutto in Turchia, dove la lira si è indebolita) e la crisi interna ha bisogno dell’eliminazione delle sanzioni. Molto dipende dall’esito dei colloqui in corso a Vienna per salvare l’accordo sul nucleare, intanto la Cina aggira i blocchi Usa e acquista il petrolio iraniano. In […]

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Il governo Raisi fronteggia una forte emigrazione di cittadini iraniani (soprattutto in Turchia, dove la lira si è indebolita) e la crisi interna ha bisogno dell’eliminazione delle sanzioni. Molto dipende dall’esito dei colloqui in corso a Vienna per salvare l’accordo sul nucleare, intanto la Cina aggira i blocchi Usa e acquista il petrolio iraniano. In questo articolo Marina Forti fornisce un quadro economico e sociale della realtà iraniana.


Sono sempre di più gli iraniani che cercano di comprare casa. Non stupisce: l’immobiliare sembra tra i pochi investimenti sicuri in tempi incerti. Gli iraniani però comprano casa all’estero, e soprattutto in Turchia. Non solo gli iraniani più abbienti, e non solo ville o proprietà di alto standard: gli acquirenti di case sono spesso professionisti, universitari, insegnanti, piccoli negozianti, infermieri. Media o piccola borghesia, persone che cercano di mettere in salvo i risparmi. Magari puntano a comprare casa per prendere la cittadinanza e poi spostarsi ancora più lontano – Regno Unito, Canada, Australia, Usa.

A Tehran, si sente spesso di persone che vendono la seconda casa, o magari l’appartamento dei nonni defunti, o perfino quello in cui vivono, per raggranellare il possibile e tentare il grande passo. Non ci sono dati precisi sull’emigrazione degli iraniani, ma alcuni indizi sono chiari.

In parte vengono proprio dalla Turchia, uno dei pochi paesi dove gli iraniani possano andare senza visto, e dove sono un po’ meno penalizzati in termini di potere d’acquisto. Infatti la moneta iraniana, il rial, ha dimezzato il suo valore negli ultimi tre anni. Ma anche la lira turca ha perso almeno il 20 per cento del suo valore nel corso dell’anno passato, cosa che ha contribuito a impoverire milioni di cittadini turchi ma ha favorito l’arrivo di acquirenti stranieri sul mercato immobiliare, a Istanbul e altrove. Ebbene, nel 2021 al primo posto tra gli stranieri c’erano gli iraniani, seguiti da iracheni e russi; nel periodo tra gennaio e novembre gli iraniani hanno comprato 8594 case (ma il trend era già visibile negli anni precedenti; nello stesso periodo del 2020 ne avevano comprate 6425).

Secondo dati raccolti dal “Financial Times”, inoltre, più di 42.000 iraniani sono emigrati (hanno preso la residenza) in Turchia nel 2019; nello stesso anno circa 18.000 iraniani hanno lasciato la Turchia, ma non è chiaro se per tornare in Iran o emigrare altrove.

Altri segnali si possono raccogliere dalla stampa iraniana, o dai dibattiti parlamentari. L’ex ministro della Scienza, Mansour Gholami, ha dichiarato mesi fa in parlamento che 900 professori universitari hanno lasciato l’Iran nel solo 2019. Il Consiglio medico (l’organismo che rilascia la licenza all’esercizio della professione medica) fa sapere che ogni anno se ne vanno circa 3000 dottori. L’emigrazione, in particolare di persone istruite e con buone qualifiche professionali, non è una novità nella storia della Repubblica islamica dell’Iran: ora però sembra accelerare. In parlamento, sui giornali, si parla di “fuga dei cervelli”. Il leader supremo, ayatollah Ali Khamenei, di recente ha accusato chi semina “illusioni” nell’animo di tanti giovani spinti a cercare chissà cosa all’estero.

E poi non solo giovani. Si racconta di persone che vendono tutto e si affidano a intermediari per trovare la casa da acquistare e poi trasferire il denaro per vie traverse, dato che i normali trasferimenti bancari sono bloccati e portare grosse somme in contanti è rischioso e illegale. L’intermediazione è un mercato a sé, ovviamente sommerso; si racconta di speculatori e di truffe.

Ma cosa spinge tante persone a mettere i propri risparmi in mano a intermediari e speculatori nella speranza di comprare un appartamento in una periferia turca? Le risposte sono verosimilmente molte, ma si possono riassumere nelle parole “incertezza” e “sfiducia”.

Incertezza economica, in primo luogo, dopo due anni di recessione profonda. Riassumiamo. Sull’Iran gravano le sanzioni, le più drastiche mai viste nei 42 anni di vita della Repubblica islamica, quelle decretate dall’amministrazione di Donald Trump dopo che nel maggio 2018 ha stracciato l’accordo sul nucleare (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa, firmato dall’Iran e da cinque potenze mondiali). Sono centinaia di sanzioni mirate ai principali settori dell’industria, a cominciare da quella petrolifera; colpiscono enti, imprese, banche, individui, perfino aerei, navi e petroliere. Gli Usa sono riusciti a imporle a tutto il mondo grazie alle sanzioni secondarie (contro le imprese di paesi terzi che commerciano con l’Iran). Non solo: nel 2020 le banche iraniane sono state espulse dalla Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication (Swift), che garantisce le comunicazioni interbancarie (è un meccanismo internazionale, ma ha sede a Washington ed è sotto il controllo Usa). Senza un codice Swift nessuna transazione internazionale è possibile. Poi la Financial Action Task Force (Fatf), che ha sede a Parigi e veglia su norme antiriciclaggio, ha messo l’Iran sulla lista dei paesi sospetti.

Così l’isolamento è pressoché totale, nessun settore dell’economia è risparmiato. E queste sanzioni restano in vigore con il presidente Joe Biden, in attesa dell’esito dei colloqui in corso a Vienna per rilanciare l’accordo sul nucleare.

Questo dovrebbe far riflettere sul potere ma anche i limiti delle sanzioni. Non c’è dubbio, la “massima pressione” imposta da Trump ha fatto precipitare l’Iran nella recessione. L’inflazione, che il governo dell’ex presidente Hassan Rohani era riuscito a tenere sotto controllo, è riesplosa – oggi è ufficialmente del 42%, aveva raggiunto il 48% nel febbraio 2021, e nell’esperienza reale è molto più alta. Le imprese pubbliche e private stentano; a volte pagano in ritardo i salari o non li pagano affatto. La disoccupazione cresce: ufficialmente al 9% della forza lavoro, ma molto più alta per i giovani. Il crollo del rial rende tutto più costoso, anche mandare un figlio a studiare all’estero. È quasi impossibile importare farmaci e attrezzature mediche, benché non siano sotto sanzioni, per il semplice motivo che non si riesce a trasferire i pagamenti – perfino in tempi di pandemia sono state fatte solo rare eccezioni.

Il paese, e ogni singolo cittadino, pagano tutto questo in modo pesante. E però l’economia iraniana non è collassata. La “economia di resistenza”, ovvero la strategia di sviluppare capacità industriali interne, promuovere l’export di prodotti diversi dal petrolio, rafforzare legami commerciali con i paesi della regione oltre che con la Cina e la Russia, ha permesso all’Iran di sopravvivere.

Il lavoro minorile in Iran, una delle conseguenze della crisi economica (fonte Asianews).

Anzi, i dati parlano di ripresa. Nell’anno 2020-2021 (l’anno fiscale comincia il 21 marzo, secondo il calendario persiano) il Prodotto interno lordo è cresciuto del 3,4 per cento, stima la Banca mondiale, grazie al settore manifatturiero e a una timida ripresa dell’industria petrolifera. Nell’anno che sta per concludersi la crescita è stimata tra il due e il tre per cento. Quanto al petrolio, nel novembre 2021 la produzione si aggirava su 2,4 milioni di barili al giorno (barrel-per-day, bpd): ancora lontano dai 3,8 milioni bpd del 2017 prima delle sanzioni Trump, ma in lenta ripresa. Quanto all’export di prodotti petroliferi, nei primi mesi del 2018 l’Iran esportava 2,5 milioni bpd, nel 2020 era crollato a circa 400.000; oggi si parla di un milione di barili al giorno (sono stime: è un’attività sotto embargo e non ci sono dati ufficiali).

Dunque l’economia cresce: ma non bisogna ingannarsi, cresce da una base molto bassa dopo il crollo precedente.

La Banca Mondiale osserva che in termini reali, il Pil iraniano si trova più o meno al livello di un decennio fa: nel frattempo però una generazione di giovani per lo più istruiti si è affacciata sul mercato del lavoro e non ha trovato occupazione. Per loro è stato un decennio perso.

E poi, i segnali di ripresa contrastano con l’esperienza quotidiana di prezzi sempre più alti, disoccupazione, ristrettezze. Tutto aggravato dalla lunga pandemia di Covid-19 e dalla siccità. L’Iran resta un paese impoverito e disilluso. Si capisce che molti sognino di emigrare.

In questo quadro vanno visti i conflitti sociali che han segnato gli ultimi mesi. E anche le prime mosse del presidente Ebrahim Raisi, insediato lo scorso agosto.

Le piazze si riempiono

Il 13 gennaio centinaia di migliaia di insegnanti hanno riempito strade e piazze nelle maggiori città dell’Iran. Era la quarta giornata di mobilitazione da settembre, proclamata dal Consiglio nazionale dei sindacati degli insegnanti. A Tehran una folla massiccia ha manifestato davanti al parlamento, con slogan come “la penna è più forte del fucile”, “gli insegnanti contro la discriminazione”. Chiedono aumenti salariali e miglioramenti normativi. Chiedono anche il rilascio dei sindacalisti e insegnanti arrestati dopo i primi scioperi: in effetti ogni giornata di protesta è stata seguita da arresti, che però non hanno impedito alla mobilitazione di crescere.

Il caso degli insegnanti è indicativo. Come tutti i dipendenti pubblici, e come i pensionati, hanno visto crollare i salari reali almeno del 40 per cento tra il marzo 2018 e il marzo 2021, causa l’inflazione. Il governo Rohani aveva aumentato gli stanziamenti per l’istruzione e la previdenza sociale, nella finanziaria del 2020-2021 (portati al 55 per cento della spesa pubblica, contro il 45% dell’anno precedente), nel tentativo di proteggere dalla crisi la piccolissima borghesia per lo più urbana. Ma la perdita di potere d’acquisto reale è stata comunque più forte. Ora, quando gli insegnanti hanno visto che i promessi aumenti erano stati cancellati nella finanziaria di quest’anno, sono scesi in piazza.

Proteste in piazza per la crisi economica (foto CC – Fars Media Corporation).

Gli insegnanti non sono soli. Nei primi mesi dell’anno numerose proteste hanno coinvolto i pensionati. Tra giugno e agosto ci sono stati scioperi a singhiozzo e mobilitazioni dei lavoratori petroliferi, in particolare quelli precari (anche a loro l’amministrazione uscente ha concesso aumenti di salario). Le agitazioni si sono intensificate in settembre, il primo mese di effettivo lavoro della nuova amministrazione: decine di proteste, alcune locali, altre di portata più ampia. Tra novembre e dicembre sono riesplose anche le proteste per l’acqua a Isfahan, che rimandano a un complicato scontro di interessi tra regioni rurali e urbane per la suddivisione delle scarse risorse idriche.

Come ha risposto l’amministrazione di Ebrahim Raisi, il presidente eletto con il voto meno partecipato della storia dell’Iran repubblicano?

Favorito dall’establishment (al punto che ogni serio concorrente era stato escluso dalla competizione elettorale), Raisì è arrivato con la promessa di portare benessere “sulla tavola di tutti gli iraniani”. Nei primi cento giorni del suo mandato ha girato il paese in lungo e in largo, con visite nelle province che ricordano un po’ quelle del presidente Mahmoud Ahmadi Nejad. Anche Raisi è andato in ospedali, farmacie, quartieri popolari. Ma andare “vicino al popolo” e promettere giustizia non basta. Servivano segnali concreti: e il primo è stato ordinare massicce importazioni di vaccini contro il Covid-19.

Nel solo mese di settembre in Iran sono arrivate 30 milioni di dosi di vaccino, contro 19 milioni in tutti i 7 mesi precedenti. D’improvviso, pratiche di importazione che prima richiedevano settimane si sono sbloccate. I vaccini sono importati dalla Mezzaluna Rossa Iraniana, per lo più attraverso accordi bilaterali e tramite la Croce Rossa Cinese; vaccini cinesi, russi, o il Covishield di Astra Zeneca (fabbricato in India) grazie al programma delle Nazioni unite Covax. Anche vaccini di produzione nazionale sono ora disponibili. Fatto sta che alla vigilia dell’insediamento di Raisì erano state somministrate circa 10 milioni di dosi a una popolazione di 80 milioni di iraniani; oggi 60 milioni di persone hanno ricevuto la prima dose e 53 milioni la seconda, secondo l’Organizzazione mondiale per la sanità.

Questo però è l’unico successo concreto da esibire, per ora. Il fatto è che importare vaccini in fondo è più semplice che rilanciare l’economia.

Per questo bisogna guardare al parlamento, che in queste settimane sta discutendo la legge finanziaria: presentata in dicembre, va approvata in tempo per entrare in vigore con l’anno nuovo, il 21 marzo. La prima finanziaria del presidente Raisi afferma obiettivi ambiziosi, parla di crescita dell’8 per cento. Afferma che le linee guida saranno “aumentare la produzione e l’occupazione” nel quadro della “economia di resistenza”. Il governo prevede di aumentare del 10% le entrate nel bilancio generale dello stato, e del 25% il bilancio delle imprese statali (attraverso cui è gestita una buona parte dell’economia). Spera di contenere l’inflazione sotto il 40 per cento, e di aumentare le entrate fiscali del sessanta per cento anche con la lotta all’evasione. L’amministrazione Raisi basa le sue previsioni sull’ipotesi di esportare 1,2 milioni di barili al giorno di prodotti petroliferi, messi in bilancio al prezzo medio di 60 dollari a barile.

Se questo basterà a contenere la perdita di potere d’acquisto degli iraniani, resta da vedere. Il parlamento ha ripristinato gli aumenti per gli insegnanti e sta discutendo di aumentare il salario degli impiegati pubblici tra il 5 e il 28 per cento: considerata l’inflazione però resta una diminuzione di reddito netta. Moshen Rezai, ex comandante delle Guardie della Rivoluzione e oggi uno dei massimi consiglieri economici del presidente Raisi, ha annunciato che il governo raddoppierà i sussidi in contanti distribuiti agli iraniani sotto una certa soglia di povertà. Istituito da Ahmadi Nejad, si tratta di un assegno di 455.000 rials: solo che nel 2010 equivaleva a 40 dollari, oggi al cambio libero equivale a meno di 2 dollari.

Già, il cambio. Il parlamento sta discutendo anche la proposta di abolire il cambio ufficiale imposto nel 2018, che aveva “congelato” la parità a 42.000 rial per un dollaro – mentre sul mercato libero oggi per un dollaro servono 275.000 rial. Il cambio di stato serve a finanziare le importazioni di beni essenziali e strategici e calmierare i costi, ma ha dato luogo ad arbitri e corruzione; lasciare tutto al mercato libero però potrebbe aumentare ancor più l’inflazione.

Il presidente Raisi riuscirà a mantenere la sua promessa di benessere? Secondo un osservatore informato come Bijan Khajehpour, molto dipenderà dalle sanzioni. L’Iran ha dimostrato di avere una economia diversificata (non solo petrolio: esporta automobili, prodotti meccanici, agroalimentare e altro), e di riuscire a vivere nonostante l’isolamento internazionale. Un effetto delle sanzioni è stato ridirigere le relazioni commerciali iraniane verso i paesi vicini, l’Asia centrale, la Cina e la Russia.

Tehran ha firmato accordi di cooperazione economica con Pechino e ne sta negoziando con Mosca – anche se non è ancora chiaro quale sarà l’impatto concreto.

Ma finché restano le sanzioni sul sistema bancario il costo di ogni transazione renderà molto più costose sia le importazioni che le esportazioni. Per sostenere la crescita inoltre servono investimenti in infrastrutture, e anche questi sono frenati dalle sanzioni.

Certo, il probabile aumento dei prezzi petroliferi potrebbe aiutare l’Iran. Anche qui però pesano le sanzioni: la Cina è divenuta il principale acquirente di petrolio iraniano, ma finora è stato tutto in via ufficiosa; solo a metà gennaio, per la prima volta dal dicembre 2020, Pechino ha annunciato una importazione di greggio iraniano sfidando le sanzioni Usa.

In definitiva il governo Raisi ha bisogno di veder togliere le sanzioni, se vuole davvero riportare “il benessere a tutti gli iraniani”. Così molto dipende dall’esito dei colloqui in corso a Vienna per salvare l’accordo sul nucleare: anche i salari e le pensioni degli iraniani, e le prospettive di una generazione che sogna di emigrare.

 

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Raisi, il Giudice senza grazia https://ogzero.org/l-iran-e-in-ebollizione-raisi-le-sanzioni-e-le-sfide-internazionali/ Wed, 25 Aug 2021 11:03:15 +0000 https://ogzero.org/?p=4708 Non c’è luna di miele per Ebrahim Raisi, insediato il 5 agosto nella carica di presidente della repubblica iraniana. Nessun “periodo di grazia”, né all’interno di un paese attraversato da proteste sociali e stremata da una nuova ondata di Covid-19, e neppure sul piano internazionale. Durante il suo discorso inaugurale il presidente Raisi si è […]

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Non c’è luna di miele per Ebrahim Raisi, insediato il 5 agosto nella carica di presidente della repubblica iraniana. Nessun “periodo di grazia”, né all’interno di un paese attraversato da proteste sociali e stremata da una nuova ondata di Covid-19, e neppure sul piano internazionale.

Durante il suo discorso inaugurale il presidente Raisi si è dichiarato un «servitore del popolo», e ha detto che la sua priorità sarà risollevare l’economia e portare il benessere «sul tavolo da pranzo di tutti gli iraniani». Ha anche detto che perseguirà una «diplomazia intelligente» per veder togliere le «crudeli sanzioni che opprimono» l’Iran, riferimento ai negoziati in corso a Vienna per riesumare l’accordo sul nucleare iraniano (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa) firmato nel 2015, e vanificato nel maggio 2018 quando l’allora presidente degli Stati uniti Donald Trump ha deciso di uscirne, decretando nuove sanzioni all’Iran.

Il sessantenne Raisi, un religioso di medio rango, è molto vicino al leader supremo Ali Khamenei, di cui era stato allievo. Ha svolto tutta la sua carriera nella magistratura, roccaforte delle correnti più ortodosse della Repubblica Islamica. Negli anni Ottanta è stato nel comitato di giudici incaricati di epurare le carceri iraniane mettendo a morte migliaia di detenuti politici, una delle pagine più inquietanti dell’Iran rivoluzionario. Negli ultimi due anni, come Procuratore capo della repubblica si è fatto paladino della lotta alla corruzione, suo tema di battaglia elettorale. È stato alla testa di una delle più potenti fondazioni islamiche, la Astan Qods Razavi di Mashhad, che controlla un impero commerciale e una rete di beneficenza e opere sociali: un pilastro del consenso al sistema.

Oggi ripete che la sua sarà un’amministrazione «popolare».

Eppure Ebrahim Raisi è stato eletto con il voto meno partecipato nella storia dell’Iran repubblicano: meno di metà degli aventi diritto è andata alle urne. È stato un voto senza concorrenti, poiché gli avversari di qualche peso erano stati esclusi: quella del 18 giugno scorso è stata l’elezione presidenziale meno libera da sempre perfino per gli standard della Repubblica Islamica dell’Iran, dove un organismo che risponde solo al leader supremo ha potere di veto sulle candidature. Insomma, la legittimità popolare del nuovo presidente è molto debole. Lo stesso Raisi riconosce che bisogna «ripristinare la fiducia» degli elettori.

Sta di fatto che, con Raisi alla presidenza, gli oltranzisti del sistema (quelli che alcuni chiamano il deep state, lo stato profondo) controllano tutti i centri di potere della Repubblica Islamica: eletti (il parlamento, la presidenza) e non. La lista dei suoi ministri, sottoposta al parlamento il 12 agosto è significativa: comprende uomini delle Guardie della rivoluzione, ex militari, ex dirigenti dei servizi di intelligence e della Tv di stato (altra roccaforte del sistema). Ci sono anche i dirigenti di due potenti fondazioni islamiche, la Astan Qods Razavi, già citata, e quella intitolata all’Imam Khomeini (rispettivamente ministri dell’istruzione e del lavoro e welfare).

Dunque legge, ordine, forze armate, e welfare. Eppure il neopresidente non avrà periodo di grazia.

La sfida di Vienna

Sul piano internazionale, la prima sfida è proprio quella che si gioca a Vienna. L’amministrazione di Joe Biden ha dichiarato di voler rientrare nell’accordo sul nucleare stracciato da Trump, ma sei round di colloqui tra i partner residui (Iran, Francia, Germania, Regno Unito, Cina e Russia), e indirettamente con gli Usa, non hanno ancora dato esito positivo.

Fare previsioni è inutile; meglio ricapitolare ciò che sappiamo. Il nuovo presidente iraniano ha dichiarato di volere il negoziato, «nei termini indicati dal Leader Supremo» (in effetti è stato Khamenei sei mesi fa ad avallare i colloqui di Vienna). Ebrahim Raisi non ha competenze specifiche in politica internazionale. Come ministro degli Esteri ha scelto un diplomatico di carriera: Hossein Amir-Abdollahian, già viceministro degli Esteri nel primo governo Rohani, poi consigliere di politica internazionale dell’ex presidente del parlamento Ali Larijani. Un uomo di regime con solidi legami con le Guardie della rivoluzione, ma non uno degli oltranzisti che avevano avversato l’accordo sul nucleare (di cui pure erano circolati i nomi). Amir-Abdollahian conosce il dossier nucleare e ha esperienza di colloqui con le controparti occidentali, inclusi gli Usa. Presenterà un volto più duro dei predecessori. Però si può aspettare che nel futuro negoziato l’amministrazione Raisi avrà meno opposizioni interne del suo predecessore Hassan Rohani, il quale è stato boicottato in tutti i modi (interessante il suo ultimo discorso al governo uscente: l’accordo era quasi fatto e le principali sanzioni statunitensi sarebbero cadute già da tempo, ha detto, non fosse stato per l’attivo boicottaggio del parlamento dominato dagli oltranzisti).

Non sarà un negoziato facile neppure per la nuova amministrazione. Non sono di buon auspicio gli “incidenti” navali di fine luglio, che riaccendono i riflettori sulla guerra-ombra in corso tra Israele e Iran (e forse su un nuovo “consenso” anglo-americano contro l’Iran). Ma ci sono anche segnali positivi per la diplomazia: l’inviato dell’Unione Europea ai negoziati sul nucleare, Enrique Mora, era a Tehran per l’inaugurazione del presidente Raisi, con cui si è intrattenuto (anche se il suo gesto è stato criticato da molti difensori per i diritti umani, tra cui l’avvocata Narges Mohammadi).

Un paese impoverito e disilluso

Ma lasciamo per un istante lo scenario internazionale. L’altra sfida per il neopresidente Raisi è all’interno del paese, ed è perfino più urgente. È la crisi dell’economia, appesantita dalle sanzioni internazionali: l’inflazione supera il 44 per cento, le imprese sono in difficoltà, la disoccupazione galoppa, mentre le grandi ricchezze sono sempre più grandi: pochi miliardari e una classe media impoverita. Tutto aggravato dalla lunga pandemia di Covid-19, dalla siccità, i conflitti per l’acqua, la penuria di energia elettrica. Un paese impoverito, disilluso, e senza fiducia nel futuro.

«La tensione nel paese è molto forte e Raisi deve prendere decisioni molto in fretta», dice l’economista e analista politico Saeed Leylaz (riprendo questo commento dal “Financial Times”). Per esempio il contrasto all’inflazione o la conduzione della campagna di vaccinazioni, spiega il presidente:

«ha bisogno di presentare qualche carta vincente, che gli permetta di prendere tempo fino a quando ci saranno decisioni definitive sull’accordo nucleare e sulle sanzioni».

L’urgenza è evidente. L’insediamento di Ebrahim Raisi è stato preceduto da settimane di proteste per la mancanza d’acqua che attanaglia le province occidentali, e per i blackout di corrente elettrica divenuti frequenti in tutto il paese nella stagione estiva.

La rivolta dell’acqua

La rivolta dell’acqua è scoppiata la sera del 15 luglio ad Ahwaz, capoluogo del Khuzestan, provincia occidentale affacciata sul golfo Persico e confinante con l’Iraq.

 

I quattro fiumi della provincia sono ridotti ai minimi storici, l’acqua è razionata, esce dai rubinetti solo un’ora al giorno. La folla gridava «il fiume ha sete», «noi abbiamo sete».  E poi

«abbiamo dato il sangue e la vita per il Karun»,

il fiume che attraversa Ahwaz. I manifestanti chiedevano forniture urgenti d’acqua. Molti chiedevano le dimissioni delle autorità locali accusate di incompetenza, o di corruzione, o entrambe le cose.

La crisi è tutt’altro che inaspettata. In maggio il ministero dell’Energia aveva avvertito che l’Iran andava verso l’estate più secca da 50 anni, con temperature che potevano sfiorare i 50 gradi, e l’allarme era stato ripreso da tutti i giornali. Poi è successo, e le conseguenze sono devastanti: per chi deve sopportare un’estate torrida e umida senza acqua, ma anche per l’agricoltura e l’intera economia.

Il paradosso è che il Khuzestan è tra le province più povere dell’Iran, in termini di sviluppo sociale: la disoccupazione e il tasso di povertà assoluta sono i più alti del paese (secondo Iran Open Data, che analizza statistiche ufficiali), ma è tra le più ricche in termini di risorse: racchiude circa l’80 percento delle riserve di petrolio e il 60 per cento di quelle di gas naturale per paese, e produce una parte importante del prodotto interno lordo iraniano (il 15 per cento nel 2019). Inoltre il Khuzestan era una terra fertile e ricca d’acqua, anche se oggi pare incredibile: ha quattro fiumi tra cui il Karun; due importanti zone umide (incluse le paludi condivise con l’Iraq), e aveva un’importante economia agro-industriale – ora in crisi.

Il sito storico del sistema idrico di Shushtar, patrimonio Unesco.

Il giorno dopo le prime manifestazioni, il governatore provinciale ha mandato camion cisterna a portare acqua in oltre 700 villaggi e cittadine del Khuzestan, cosa che non ha placato gli animi. La penuria d’acqua è da attribuire in parte al cambiamento globale del clima: dall’inizio del secolo il regime delle piogge è sempre più scarso, le temperature sempre più alte, e la siccità è ormai cronica nell’Iran occidentale insieme a ampie zone dei vicini Iraq e Siria.

Le tempeste di sabbia che avvolgono periodicamente città come Ahvaz ne sono una conseguenza tangibile.

È in causa però anche la gestione dell’acqua disponibile. Negli ultimi decenni sono state costruite numerose dighe sui fiumi dell’Iran occidentale, sia per produrre elettricità, sia per sostenere ambiziosi progetti di espansione agricola, o per trasferire acqua verso la provincia centrale di Isfahan.

Il ponte di Allahverdi Khan sul fiume ormai secco, Isfahan (foto Wanchana Phuangwan).

Negli ultimi anni inoltre le autorità hanno autorizzato lo scavo di migliaia di pozzi. Dunque sempre più acqua è estratta dal sottosuolo, ma le piogge non bastano a “ricaricare” le riserve. Il livello delle falde idriche così è crollato; l’acqua salmastra del Golfo penetra sempre più all’interno. La salinità dei terreni causa ulteriori problemi per l’agricoltura; a nord di Ahwaz le famose palme da datteri cominciano a morire. Nelle zone petrolifere inoltre l’acqua disponibile è spesso inquinata da sversamenti di greggio.

Ad aumentare la rabbia poi ci sono ragioni storiche. Le proteste per l’acqua hanno coinvolto città come Abadan, Khorramshahr, e altre: sono nomi che richiamano la Guerra Iran-Iraq. Su Abadan e le sue raffinerie puntava l’esercito di Saddam Hussein quando invase l’Iran nel settembre 1980; nella “città martire” di Khorramshahr si combatté casa per casa. Tutto l’ovest dell’Iran fu il fronte di quella guerra sanguinosa, durata otto anni. In Khuzestan però la ricostruzione è stata solo parziale, le attività economiche non sono mai tornate al benessere precedente. Perché? I dirigenti iraniani adducono la mancanza di mezzi e risorse da investire, o la cronica instabilità nel vicino Iraq. La provincia è abitata da una forte minoranza arabo-iraniana (c’è anche un movimento indipendentista, minuscolo ma foraggiato dai potenti vicini arabi del Golfo). A precedere le proteste generali, il 6 luglio una delegazione di agricoltori e anziani delle tribù arabe era andata a Ahwaz per fare rimostranze alle autorità locali per la penuria d’acqua.

La rivolta “legittima” e la polizia che spara

Insomma: la provincia si sente negletta. L’agricoltura e le fabbriche che ne dipendono sono sempre più in crisi. I giovani non trovano lavoro. Aumenta l’emigrazione verso le grandi città; a Tehran o Isfahan sorgono nuove borgate di migranti arrivati dalle zone rurali del Sudovest.

Cambiamento climatico, dighe, inquinamento, cattiva gestione delle risorse, disoccupazione, discriminazione delle minoranze: tutto spiega la rabbia esplosa in luglio.

«Per otto anni [durante la guerra con l’Iraq] questa provincia è stata devastata, e ora i nostri soldati sparano contro di noi», diceva un manifestante di 24 anni di Dezful al corrispondente di “Middle East Eye”.

Di fronte alla protesta infatti lo stato ha risposto come al solito: con la forza. Anche perché le proteste si sono estese; c’è notizia di manifestazioni a Kermanshah, capoluogo della provincia omonima nell’Iran occidentale, nel Lorestan, a Isfahan, fino a Tehran. Organizzazioni di avvocati, attivisti sociali, l’associazione degli scrittori, hanno manifestato solidarietà. Sui social media sono circolate foto di blindati e veicoli antisommossa scaricati dagli aerei cargo nell’aeroporto di Ahwaz. Le proteste si sono prolungate per giorni. Le autorità hanno sospeso internet in gran parte del Khuzestan, senza riuscire a bloccare del tutto le informazioni.

È cominciata la guerra di notizie: il 20 luglio, dopo la quinta notte consecutiva di proteste, il governatore del Khuzestan ha parlato di un morto, una persona che accompagnava le forze di polizia e sarebbe stato ucciso dai dimostranti (i media di stato hanno addirittura accusato “terroristi armati”). Pochi giorni dopo Amnesty International ha parlato di almeno otto morti, tutti manifestanti.

Le proteste bloccano la strada tra Ahvaz e Andimeshk.

Eppure perfino il Leader supremo l’ayatollah Ali Khamenei ha ammesso che la protesta è legittima. È intervenuto tardi, ben una settimana dopo l’inizio delle manifestazioni e degli scontri, ma infine lo ha riconosciuto:

«Se i problemi dell’acqua e delle fogne in Khuzestan fossero stati risolti, non vedremmo oggi questi problemi». E poi: «Le persone esprimono il loro malcontento perché sono esasperate. (…) Le autorità devono risolvere al più presto i problemi della leale popolazione di questa provincia».

Il fatto è che mentre il leader parlava così, la polizia sparava sui manifestanti. Risolvere il problema dell’acqua è di sicuro una sfida per la nuova amministrazione, come lo è stato per le precedenti: ma richiede strategie a lungo termine, rivedere le scelte di sviluppo, combattere sprechi e malversazioni, rilanciare il dialogo con le minoranze e con gli enti locali. Nell’immediato, reprimere le proteste è più facile.

Le proteste per l’acqua, o quelle segnalate a Tehran alla fine di luglio per i continui blackout di corrente, non alludono a un’opposizione politica organizzata – anche se in alcuni casi sono stati sentiti slogan come «abbasso la Repubblica islamica», o «a morte il dittatore», «a morte Khamenei». Proprio come era successo nel dicembre del 2019 nelle proteste suscitate dall’aumento del prezzo dei carburanti, e due anni prima per il carovita.

Proteste senza una direzione politica riconoscibile, “solo” manifestazioni spontanee di esasperazione.

Ma questo non dovrebbe preoccupare di meno i dirigenti iraniani: al contrario.

Si aggiungano croniche proteste di lavoratori in tutto il paese, e un’ondata di scioperi tra gli addetti dell’industria petrolifera. Mentre la “variante delta” del virus fa strage, i medici lanciano appelli disperati, e solo il 3 per cento degli iraniani è completamente vaccinato: anche nelle code alle farmacie si sente imprecare contro il leader supremo, che mesi fa ha vietato di importare vaccini prodotti in Usa e Regno Unito.

L’Iran dunque è in ebollizione. Il neopresidente Raisi dovrà mostrare qualcosa di concreto, in fretta, che non siano solo i blindati antisommossa. Ma per questo ha anche bisogno di veder togliere le sanzioni che soffocano l’economia del paese: come al solito, le sfide internazionali e quelle interne sono strettamente legate.

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Elezioni iraniane: l’astensionismo è social https://ogzero.org/astensionismo-e-social-prospettive-iraniane/ Thu, 17 Jun 2021 10:55:32 +0000 https://ogzero.org/?p=3899 Il 18 giugno in Iran eleggeranno il successore di Hasan Rohani, il dibattito politico ferve tra affollate assemblee e serate pubbliche, ma il boicottaggio al voto viaggia sui social, su quelli che resistono alla censura, nelle stanze virtuali in cui cresce il “partito” dell’astensionismo derivante dalla disillusione degli iraniani: un paradosso per un regime che […]

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Il 18 giugno in Iran eleggeranno il successore di Hasan Rohani, il dibattito politico ferve tra affollate assemblee e serate pubbliche, ma il boicottaggio al voto viaggia sui social, su quelli che resistono alla censura, nelle stanze virtuali in cui cresce il “partito” dell’astensionismo derivante dalla disillusione degli iraniani: un paradosso per un regime che ha sempre indicato la partecipazione popolare come la prova della sua legittimità.


Figure molto in vista del governo iraniano hanno partecipato ad affollate assemblee per rispondere alle domande di cittadini e giornalisti. I candidati alle prossime elezioni presidenziali si sono presentati in serate pubbliche di dialogo, mentre una nota esponente riformista ha lanciato dure critiche alla selezione dei candidati. Un’attivista per i diritti umani ha spiegato perché lei non voterà. Si moltiplicano gli appelli a boicottare il voto. Anche le correnti conservatrici hanno organizzato eventi soprattutto per criticare il governo sulla gestione dell’economia, tema sempre molto popolare. E tutto questo avviene in eventi in diretta sui social media.

Il 18 giugno gli iraniani eleggeranno un successore al presidente Hasan Rohani, giunto al termine del suo secondo mandato, e il dibattito politico ferve.

Ma non sono stati i confronti in diretta Tv tra i sette candidati a mobilitare gli ascolti, quanto i social media: e tra questi soprattutto Clubhouse, ultimo grido in fatto di spazi virtuali.

Perché? Nel recente passato i dibattiti televisivi tra i candidati, inaugurati dalla Tv di stato nel primo decennio del Duemila, avevano avuto risonanza. Davano un’idea di apertura. Per la prima volta i candidati erano messi a confronto in diretta in ore di grande ascolto, con un contraddittorio che metteva alla prova la capacità di comunicare e rispondere a domande scomode.

Senza concorrenti

Non questa volta. Ma non è solo questione di format televisivi. Il fatto è che mai come questa volta il processo di selezione dei candidati è stato restrittivo: il Consiglio dei Guardiani, consesso di giuristi islamici che ha il compito di vagliare le credenziali di ogni candidato alle cariche pubbliche, ha squalificato molti nomi noti. In particolare, ha escluso l’attuale vicepresidente Eshaq Jehangiri, rappresentante di spicco dello schieramento riformista, e perfino l’ex presidente del parlamento Ali Larijani, e questo è stato davvero inatteso: in fondo Larijani è un esponente della nomenklatura della Repubblica Islamica, un conservatore, già caponegoziatore sul nucleare; non è mai stato neppure lontanamente vicino ai riformisti, anche se è un moderato e nelle ultime due legislature si è avvicinato al presidente uscente Rohani. Eppure è fuori. Escluso anche l’ex vicepresidente Mahmoud Ahmadi Nejad.

In altre parole, l’organismo di controllo ha escluso dalla competizione elettorale ogni reale concorrente all’unico candidato favorito dal sistema, e cioè Ebrahim Raisi, attuale capo della potentissima magistratura (che nel sistema istituzionale iraniano risponde solo al Leader supremo), esponente della corrente più oltranzista del sistema politico iraniano.

Il favorito del Leader

Il nome di Ebrahim Raisi emerge in alcune delle pagine più inquietanti della Repubblica islamica dell’Iran. Originario di un villaggio vicino a Mashhad, seconda città iraniana e sede di uno dei più importanti mausolei sciiti, Raisi ha studiato teologia a Qom, dove è stato discepolo di Ali Khamenei (oggi Leader supremo del paese). La sua carriera giudiziaria è cominciata nel 1981, subito dopo la Rivoluzione. Nel 1985 era viceprocuratore di Tehran e nel 1988, sul finire della sanguinosa guerra Iran-Iraq, fece parte di uno speciale gruppo di quattro magistrati che per incarico speciale dell’ayatollah Khomeini (l’allora Leader supremo) doveva epurare i detenuti politici di cui straboccavano le carceri: fu un massacro, l’esecuzione sommaria di migliaia di persone (circa cinquemila, secondo Amnesty International).

Durante la campagna per le presidenziali del 2017, quando Raisi si era candidato contro il presidente Rohani, questi ha rinfacciato a Raisi il suo ruolo nel “comitato della morte”: lui si è difeso minimizzando,  distinguendo tra gli accusatori e chi emette la sentenza.

L’astensionismo è social

Sta di fatto che da allora Raisi ha fatto una carriera sfolgorante, ricoprendo numerose alte cariche nella magistratura. Nel 2009 ha confermato la condanna a morte di numerose persone per aver partecipato alle proteste dopo la rielezione di Ahmadi Nejad. Nel 2016 Khamenei lo ha nominato “custode” della danarosa fondazione Astan Quds Razavi, che gestisce il mausoleo dell’Imam Reza a Mashad e soprattutto gestisce un cospicuo patrimonio e controlla una fitta rete di industrie e aziende commerciali. Nel 2019 Khamenei lo ha nominato Procuratore generale della Repubblica islamica.

È da allora che Raisi sta lavorando alla sua rivincita elettorale. Da capo della magistratura ha lanciato una “guerra alla corruzione”. In un paese dove alcuni sono riusciti ad ammassare grandi fortune in modo poco chiaro mentre le classi medie sono impoverite da crisi e sanzioni, il tema è di sicuro appeal popolare. Qualcuno sostiene che nella sua crociata anticorruzione il Procuratore generale Raisi si sia rivolto solo ai circoli più vicini alla famiglia Rafsanjani e alla sua corrente politica (che include parte del governo uscente), sorvolando sulle malefatte di altre parti politiche.

Certo è che da un paio d’anni Ebrahim Raisi gira per il paese tuonando contro i figli dell’élite “occidentalizzata” e corrotta, tiene incontri pubblici, visita moschee e fondazioni caritatevoli, arringa fedeli, accusa i riformisti di essere elitari e il governo di aver perso contatto con “i poveri”: come una lunga campagna elettorale, di cui ora spera di raccogliere i frutti. Raisi dispone con ogni evidenza dell’appoggio del deep state, i poteri forti della Repubblica islamica, con tutti gli apparati di consenso popolare (tra cui le fondazioni caritatevoli rivoluzionarie come quella di Mashhad che lui presiede).

Ciò che invece manca a Ebrahim Raisi è un carisma personale.

Nei dibattiti elettorali (in Tv: non sono noti suoi interventi su Clubhouse o altri social media) Raisi ha promesso di combattere «la povertà e la corruzione, l’umiliazione e la discriminazione», ed è tutto ciò che ha ripetuto durante uno dei rari comizi “in presenza” di questa campagna elettorale, pochi giorni fa in uno stadio della città sudoccidentale di Ahwaz (nonostante il paese stia ancora facendo i conti con la pandemia di Covid-19).

“Non è un’elezione, è una nomina”

«Questa non è più un’elezione, è una nomina», ha commentato Faezeh Hashemi, ex deputata ed esponente riformista, durante un incontro pubblico la cui registrazione è circolata online. Figlia dell’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, un grande vecchio della politica iraniana, Faezeh Hashemi è nota per prese di posizione molto schiette. «Non capisco perché abbiano pensato che Larijani fosse un pericolo per Raissi», osserva, visto che il capo della magistratura è di fatto in campagna da due anni. «È molto più grave che in passato», sostiene: lasciare in lizza Larijani almeno «avrebbe dato il senso di un confronto, anche se in effetti era offrire una scelta tra il male e il peggio». Ora non c’è davvero più nessun motivo per votare, conclude Hashemi.

Il veto sui candidati non è una novità in Iran. Nonostante tutto però in passato abbiamo visto una certa competizione politica, e il risultato delle urne non era scontato. Nel 1997 fu una sorpresa l’elezione di Mohammad Khatami, il primo fautore di aperture e riforme interne al sistema, che sconfisse il favorito dall’establishment. Nel 2013, quando i Guardiani hanno messo il veto sulla candidatura dell’ex presidente Rafsanjani, i voti di riformisti, moderati, e di tutti coloro che volevano mettere fine ai tempi bui di Ahmadi Nejad si sono riversati sul pragmatico e moderato Hasan Rohani – che in effetti ha riportato qualche apertura nella politica iraniana sia interna, sia internazionale.

Questa volta però non resta alternativa. Nell’ultima settimana di maggio il portavoce del Fronte riformista ha dichiarato che i riformisti non hanno alcun candidato in campo, ovvero che non ritengono di poter riversare i propri voti su nessuno.

Al contrario, si moltiplicano gli appelli a boicottare il voto.

Così, non sorprende che i dibattiti televisivi tra i sette candidati superstiti, andati in onda il 4, l’8 e il 12 di giugno, abbiano suscitato scarso interesse (anche se bisogna riconoscere che non ha aiutato la coincidenza con importanti partite della nazionale di calcio iraniana). I resoconti sono unanimi: dibattiti farciti di veementi accuse e sarcasmi reciproci, ma pochi discorsi concreti sui programmi, solo vaghe promesse.

L’astensionismo è social

L’unico candidato che mostra di crescere in popolarità, almeno secondo i sondaggi, è Abdolnaser Hemmati, già governatore della banca centrale iraniana da cui ha dovuto dimettersi quando ha registrato la sua candidatura in aprile. Hemmati per esempio ha criticato la decisione del governo Rohani di aumentare il prezzo della benzina nel novembre 2019. Si ricorderà che quell’aumento di prezzi aveva scatenato proteste popolari in molte città iraniane, poi represse con violenza dalla polizia e dalle Guardie della Rivoluzione, lasciando un trauma ancora aperto nella società iraniana. Ora Hemmati dice che lui era contrario al rincaro; che se sarà eletto chiederà che sia fatta luce sugli eventi di quei giorni e su quante persone sono state uccise dalle forze di sicurezza, e si accerterà che le famiglie delle vittime ricevano i risarcimenti a cui hanno diritto.

La “stanze” virtuali

Non è chiaro se simili dichiarazioni di simpatia per le vittime del novembre 2019 bastino a ridare qualche entusiasmo agli elettori. La cosa interessante però è che Hemmati ha fatto le dichiarazioni più veementi su Clubhouse.

Nata poco più di un anno fa negli Stati Uniti, Clubhouse è una video-chat che permette agli utilizzatori di aprire una “stanza” virtuale dove invitare fino a ottomila partecipanti per ogni sessione. In Iran ha avuto un immediato successo perché offre uno spazio pubblico, sebbene virtuale, dove si parla di un po’ tutto – cinema, eventi culturali, la pandemia, o anche se boicottare le elezioni.

Bisogna considerare che la diffusione di internet è molto alta in Iran fin dai primi anni Duemila, e ha avuto un’accelerazione nell’ultimo decennio. Un paese di 85 milioni di persone oggi ha quasi 95 milioni di allacciamenti alla banda larga. Negli otto anni di amministrazione Rohani, le sim card in uso sono passate da quasi 60 milioni a 131 milioni. L’uso di internet è pervasivo ormai anche nelle piccole città di provincia, e sono diffusissimi i social media: nel 2018 il ministero della Cultura annunciava che circa 40 milioni di iraniani avevano installato Instagram sui loro smartphone. Telegram è un altro social molto usato: permette di aprire “canali” dedicati che sono diventati veri e propri organi di informazione. Con Clubhouse si aggiunge la possibilità di incontri in diretta.

Come già Telegram e Instagram, molto popolari in Iran, o altri social media, anche Clubhouse è ampiamente usato sia da riformisti che conservatori, voci esterne al sistema politico e insider del regime. In una serata su Clubhouse ad esempio il comandante delle Guardia della Rivoluzione Rostam Qasemi, ha risposto alle domande del pubblico. Il ministro delle telecomunicazioni Mohammad Javad Azari Jahromi ha già animato diverse serate. È qui che opinionisti dei diversi schieramenti politici presentano candidati e lanciano discussioni – erodendo ancora un po’ il monopolio televisivo di stato (già minacciato dalle Tv satellitari straniere che il regime cerca invano di oscurare, o dalle piattaforme di cinema e serie Tv on demand).

È in una “stanza” di Clubhouse che, il 31 marzo, il ministro degli Esteri Zarif aveva discusso dell’accordo di cooperazione tra l’Iran e la Cina e di vari altri temi, in una affollatissima serata in cui ha accettato anche domande da giornalisti iraniani all’estero, come la reporter del “New York Times” Farnaz Fassihi o la free lance Negar Mortazavi che vive negli Usa, e perfino Masoud Behnoud, notissimo commentatore che collabora con Bbc Persian (oscurata in Iran): cosa che non sarebbe mai potuta accadere in un incontro più formale.

Sempre su Clubhouse l’avvocata e attivista Narges Mohammadi ha discusso della difesa dei diritti fondamentali nel paese in un evento pubblico che sarebbe impensabile in presenza. Mohammadi è la vicepresidente e portavoce del Centro dei Difensori dei Diritti umani, organizzazione che ha vita molto difficile in Iran: nel 2013 era stata condannata per “attentato alla sicurezza dello stato” e “propaganda contro il sistema”; scarcerata in via condizionale qualche anno dopo, di recente è stata confermata la sua condanna a 30 anni di reclusione.

In un evento del 31 maggio scorso, Mohammadi ha spiegato che boicotterà le elezioni del 18 giugno e farà propaganda attiva per l’astensione: «Se non sono garantiti i diritti politici dei cittadini, tra cui la libertà d’espressione e di riunione, il voto  non avrà un significato reale. […] Nel 2009 i cittadini hanno votato contro il governo; in altre occasioni hanno votato per candidati che si distinguevano almeno un po’ dal sistema.  Insomma, hanno usato quei minimi spazi politici. Ma nell’atmosfera politica attuale, non vedo uno spazio. Le elezioni hanno perso la loro funzione» (qui un resoconto più esteso dell’avvocata Mohammadi).

Cresce il partito dell’astensione

Mentre gli appelli all’astensione si moltiplicano, l’apatia degli elettori cresce. Secondo l’ultimo sondaggio  della Iran Students Polling Agency (Ispa), affiliata al ministero della Scienza e Tecnologia, solo il 34 per cento dei votanti si dichiara deciso ad andare alle urne; contando gli indecisi si arriva intorno al 38 per cento. Sono percentuali addirittura più basse di quelle registrate in maggio: come se la campagna elettorale oltre a non richiamare più elettori li avesse addirittura allontanati.

I sondaggi vanno presi con cautela, ma molti prevedono una partecipazione bassa.

Nelle ultime tre presidenziali la percentuale dei votanti ha oscillato tra il 72 e l’85 per cento.

Controcorrente, giorni fa l’anziano Mehdi Karroubi, autorevolissimo leader riformista, ha rivolto agli iraniani un appello a votare nonostante tutto, e ha chiesto ai riformisti di unirsi dietro a un nome, magari quello di Hemmati, per non lasciare ai conservatori una vittoria troppo facile. Un anno fa, l’apatia degli elettori e il veto su buona parte dei candidati riformisti hanno permesso alle correnti conservatrici di conquistare la maggioranza assoluta del parlamento iraniano; oggi si preparano a conquistare la presidenza.

La disillusione degli iraniani però è forte. «Ancora nel 2013 c’era uno spirito positivo negli elettori, c’era speranza», fa notare Faezeh Hashemi. Poi però le promesse di sviluppo e benessere aperte dalla presidenza Rohani e dall’accordo sul nucleare non si sono materializzate. L’avvento dell’amministrazione Trump ha riportato sanzioni e difficoltà per le classi medie iraniane, e accentuato la tensione internazionale. La repressione delle proteste popolari, la tragedia dell’aereo ucraino abbattuto per errore, l’incertezza economica – tutto concorre a erodere la fiducia pubblica. La scarsa affluenza al voto ne è un segno.

Bel paradosso per un regime che ha sempre indicato la partecipazione popolare come la prova della sua legittimità.

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La telenovela e la fuga di notizie, lotta politica a Tehran https://ogzero.org/realta-e-finzione-si-sovrappongono-la-telenovela-e-la-fuga-di-notizie-lotta-politica-a-tehran/ Sun, 09 May 2021 10:19:38 +0000 https://ogzero.org/?p=3421 Quando la politica e la fiction si intrecciano, in un uso strumentale dei mezzi di comunicazione, per uscire vincitori in una lotta di potere tra le diverse correnti del sistema politico iraniano. Marina Forti ci racconta come realtà e finzione si sovrappongono a Teheran, tra arresti, condanne a morte, fughe di notizie pilotate, messaggi lanciati […]

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Quando la politica e la fiction si intrecciano, in un uso strumentale dei mezzi di comunicazione, per uscire vincitori in una lotta di potere tra le diverse correnti del sistema politico iraniano. Marina Forti ci racconta come realtà e finzione si sovrappongono a Teheran, tra arresti, condanne a morte, fughe di notizie pilotate, messaggi lanciati via social e vere e proprie azioni di intelligence.


Pragmatici e riformisti, ortodossi e oltranzisti

Una serie tv e una strana “fuga di notizie” illustrano la furibonda lotta di potere in corso a Tehran, in un momento particolarmente delicato per l’Iran. Infatti, da un lato sono in corso a Vienna difficili negoziati tra l’Iran e le sei potenze mondiali per resuscitare l’accordo sul programma nucleare iraniano firmato nel 2015 – da cui l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump si era ritirato nel 2018 benché l’Iran avesse osservato tutti i suoi obblighi. D’altro lato, il 18 giugno l’Iran eleggerà un successore al presidente Hassan Rohani, che conclude il suo secondo mandato. Le candidature non sono ancora definite, e la competizione tra le diverse correnti del sistema politico iraniano è serrata: i pragmatici al governo con il presidente Rohani, i riformisti, o all’opposto le correnti più ortodosse e oltranziste, le Guardie della rivoluzione, la magistratura (sottotraccia c’è anche la corsa a “posizionarsi” per influenzare la futura successione al leader supremo, l’ottantunenne Ali Khamenei).

I negoziati in corso a Vienna e la battaglia elettorale sono molto intrecciati. E questo ci porta alla serie tv intitolata Gando, dal nome di un coccodrillo delle zone palustri del Sistan Baluchistan, provincia sudorientale dell’Iran.

Gando: il coccodrillo e la spy story

Gando è una spy story in cui eroici agenti del controspionaggio delle Guardie della Rivoluzione combattono agenti stranieri infiltrati fino ai vertici della diplomazia iraniana. Messa in onda dalla tv di stato, la prima stagione è andata in onda nel 2019: sullo sfondo dei negoziati sul nucleare, coraggiosi agenti iraniani smascherano il corrispondente di una famosa testata degli Stati Uniti, in realtà una spia americana. I titoli di testa avvertivano che la fiction era “ispirata a fatti reali”. In effetti il giornalista-spia assomigliava molto a Jason Rezaian, l’ex corrispondente del “Washington Post” a Tehran arrestato nel 2014 e accusato appunto di spionaggio (accuse mai spiegate in modo convincente), condannato dopo un processo a porte chiuse e infine liberato nel 2016 grazie a uno scambio di prigionieri con gli Usa, proprio mentre l’accordo sul nucleare entrava in vigore. Ovviamente la fiction sposa le tesi dell’accusa.

Jason Rezaian, dopo la liberazione

La prima puntata della seconda stagione è andata in onda lo scorso 21 marzo, un giorno dopo Nowruz (il capodanno persiano). Questa volta “i nostri eroi” sventano l’infiltrazione di spie occidentali nei ranghi della delegazione iraniana ai negoziati avvenuti tra il 2013 e il 2015, conclusi con la firma dell’accordo sul nucleare. Una puntata dopo l’altra, gli spettatori scoprono con orrore che tra i massimi negoziatori ci sono agenti stranieri.

Anche nella nuova stagione troviamo “citazioni” esplicite. C’è per esempio un giornalista che ricorda un noto oppositore iraniano residente in Europa, Ruhollah Zam, invitato a Baghdad e là rapito da agenti di sicurezza iraniani, portato in Iran, processato e condannato a morte per spionaggio (fatto reale: la condanna di Zam è stata eseguita lo scorso dicembre).

Ruhollah Zam di fronte ai giudici che lo condanneranno. L’esecuzione è avvenuta il 12 dicembre 2020.

Non solo. I due negoziatori che (nella fiction) fanno il doppio gioco a favore di potenze straniere assomigliano molto a due assistenti del ministro degli Esteri Javad Zarif, che guida la delegazione (reale) ai negoziati. La fiction sembra suggerire che lo stesso capo delegazione sia una spia.

La censura e le accuse

La serie ha suscitato grandi polemiche, poi si è interrotta bruscamente. Pare che il presidente Rohani abbia fatto grandi rimostranze presso il leader supremo. Ora giornali e media legati a settori oltranzisti accusano il governo di aver censurato Gando.

Accusa paradossale, perché Irib, la radiotelevisione statale, costituisce un potere a sé tra le istituzioni della Repubblica islamica. Il suo direttore è nominato direttamente dal leader e non risponde al governo. È un monopolio (non esistono radio e tv private), ed è sempre stata una roccaforte delle correnti più oltranziste. Le voci vicine ai riformisti non vi trovano spazio, che si tratti di artisti, cineasti o intellettuali non allineati. Al governo del moderato Rohani la tv di stato riserva una copertura ridotta e spesso malevola.

Il monopolio della radio e tv di stato però è sempre più insidiato. In primo luogo dalle tv che arrivano via satellite, tra cui diversi canali occidentali in lingua farsi (“Bbc Persian” o “Voice of America” in lingua farsi) che lo stato vieta ma non riesce del tutto a oscurare. Ma non solo dei canali di news, anche la fiction e l’intrattenimento sono terreni di battaglia per imporre una “narrativa”. Le serie tv più guardate per esempio vengono dalla Turchia: più spigliate e professionali, doppiate in farsi in modo molto professionale, sono diffuse da canali satellitari o su piattaforme come Namava, un equivalente di Netflix.

Lo stile aiuta

Dunque una buona fiction è un investimento politico. Gando è più brillante delle solite serie della tv di stato. Ha attori famosi, uno stile tra James Bond e l’ironia di Ncis, è stata girata tra l’Iran e la Turchia, prodotta con grande dispendio di denaro. Sceneggiatore e produttore sono nomi noti. Nel 2019 il giornale (governativo) “Jam-e Jam” aveva scritto che la casa produttrice era finanziata da società delle Guardie della Rivoluzione (nulla di strano: hanno interessi in ampi settori dell’economia iraniana e anche nell’industria culturale). Nel gennaio scorso il ministro Zarif è stato esplicito: «L’intelligence delle Guardie della Rivoluzione ha fatto Gando». La cosa non è stata smentita.

Giornalisti e commentatori vicini ai riformisti o al governo Rohani accusano Gando di travisare la realtà, screditare il governo con false illazioni, gettare fango sui negoziatori che invece hanno lavorato nell’interesse dell’Iran. È ben noto che le correnti più oltranziste della Repubblica islamica, in particolare legate ai militari, hanno osteggiato il negoziato: non potevano impedirlo, perché aveva il beneplacito del leader supremo, ma non l’hanno mai digerito.

Parlare a nuora perché suocera intenda

Sembra che quando Gando è tornato sugli schermi, in marzo, il presidente Rohani si sia lamentato presso il leader per questo attacco subdolo. Così, quando la serie si è interrotta in modo un po’ brusco, giornali e social media vicini ai conservatori hanno accusato il governo. Il produttore, Mojtaba Amini, ha parlato di censura. Un noto commentatore (Pooyan Hosseinpour, su Twitter, 24 marzo) ha ammonito il governo: «Non dimentichiamo il disastro di Dorri-Esfahani, che spiava i negoziatori sul nucleare». Abdolrasoul Dorri-Esfahani era il rappresentante della Banca centrale iraniana nel team negoziale guidato da Zarif tra il 2013 e il 2015; in seguito è stato accusato di passare informazioni riservate a governi stranieri e per questo è stato condannato nel 2017: a molti è sembrata una ritorsione degli oltranzisti furiosi per l’avvenuto accordo. Un avvertimento obliquo? Qualcuno l’ha inteso così: Zarif è avvertito, potrebbe fare la fine di Dorri-Esfahani.

Fatto sta che nei primi giorni di aprile il quotidiano “Vatan-e Emrooz”, allineato su posizioni oltranziste, ha criticato aspramente la diplomazia iraniana per aver accettato di tenere colloqui con gli Stati Uniti in vista del rilancio dell’accordo sul nucleare, in un editoriale di prima pagina dall’eloquente titolo: La terza stagione di “Gando” verrà scritta a Vienna?.

Zarif, il bersaglio

Insomma: Gando è un’operazione politica e il suo target, ancor più che il presidente Rohani, è proprio il ministro degli esteri Javad Zarif.

I motivi sono almeno due. Primo, screditare i colloqui di Vienna – che però di nuovo hanno il beneplacito del Leader (se arriveranno a un esito è ancora incerto, anche se alcuni segnali sono positivi; è chiaro che molti lavorano contro, non solo a Tehran ma anche a Washington e in alcune capitali del Medio Oriente).

Ma il discredito buttato su Zarif ha soprattutto lo scopo di mobilitare la base dei conservatori a fini interni, e premere perché l’organismo di controllo (il Consiglio dei Guardiani) sbarri la strada alla sua possibile candidatura alle elezioni presidenziali del 18 giugno.

Infatti Javad Zarif resta una figura popolare in Iran, proprio perché è stato il volto pubblico di un Iran che si riapre al dialogo, e la sua popolarità sarebbe di sicuro rafforzata se i colloqui di Vienna portassero a far cadere le sanzioni che soffocano l’economia del paese. Anche se Zarif ha sempre escluso di volersi candidare, molti sono convinti che sarebbe la carta migliore per moderati e riformisti, l’unica in grado di sfidare i pronostici che danno vincente lo schieramento opposto. Di più: l’unica capace di mobilitare l’elettorato, di fronte a diffusi propositi di astensione.

È qui che entra in gioco la “strana” fuga di notizie. Una intervista, o meglio: tre ore di conversazione tra il ministro Zarif e un noto giornalista ed economista, Saeed Leylaz, diffusi il 25 aprile da “Iran International”, tv satellitare con sede in Arabia Saudita e a Londra. Il capo della diplomazia parla in modo schietto e critica l’eccessivo ruolo delle Guardie della Rivoluzione nel determinare la politica estera iraniana, scavalcando la diplomazia. Hanno fatto scalpore i passaggi in cui cita le brigate Al Qods, il corpo speciale delle Guardie della Rivoluzione, e il defunto comandante Qassem Soleimani (ucciso da un attacco mirato degli Stati Uniti a Baghdad nel gennaio 2020).

La fuga di notizie

Chi ha diffuso quella registrazione, per di più facendola arrivare a un canale tv “avversario”? Tre giorni dopo la devastante fuga di notizie, un infuriato presidente Hassan Rohani ha dichiarato durante una riunione di gabinetto (trasmessa dalla tv) che quella conversazione era confidenziale, fa parte di un progetto di storia orale a cui sta lavorando il Centro di ricerche strategiche affiliato alla presidenza della repubblica. Ha aggiunto che diffondere quei brani è stato un gesto irresponsabile che mira a far deragliare i colloqui in corso a Vienna per rilanciare l’accordo sul nucleare e rimuovere le sanzioni contro l’Iran. E ha annunciato un’indagine: «il ministero dell’Intelligence dovrà usare tutte le sue abilità per scoprire come sia successo». (A quanto pare anche l’intelligence delle Guardie della rivoluzione, separata e spesso concorrente a quella del governo, ha aperto la sua indagine.)

Intanto tutto lo schieramento conservatore ha lanciato attacchi feroci contro il ministro degli Esteri, chiedendo che si scusi per le affermazioni “sacrileghe” su Soleimani, o meglio ancora si dimetta.

Ovviamente diversi media hanno citato solo questa o quella frase. Chi ha ascoltato per intero quelle tre ore di audio (tratte da una conversazione di sette ore) riferisce che Zarif non fa affermazioni del tutto nuove. Riferisce precisi episodi in cui le Guardie della Rivoluzione hanno preso iniziative non coordinate. Dice che la Russia avrebbe preferito far fallire i negoziati sul nucleare (per mantenere l’Iran nella sua sfera d’influenza), e le Guardie della Rivoluzione hanno cercato l’aiuto russo per lo stesso scopo.

Zarif racconta che sei mesi dopo l’entrata in vigore dell’accordo sul nucleare è venuto a sapere dal suo omologo John Kerry (allora segretario di stato Usa) che l’Iran aveva intensificato l’invio di aiuti a Damasco usando i voli di Iran Air, con evidente danno per la posizione negoziale iraniana, al punto di scoprire dalla tv che il presidente siriano Bashar al-Assad era in visita a Tehran (era il febbraio 2019, e in effetti quella volta Zarif diede le sue dimissioni – rifiutate da Rohani: «quel giorno compresi che se non mi dimettevo… nessuno più mi avrebbe preso sul serio», dice in quella conversazione confidenziale).

La politica delle cannoniere

Il ministro degli Esteri rivendica però i suoi buoni rapporti con Soleimani, che incontrava spesso, e proclama la sua fedeltà al sistema della Repubblica islamica. Ricorda che le linee di politica estera vengono definite dal Consiglio di sicurezza nazionale, in cui sono rappresentate diverse istituzioni tra cui i militari, e sanzionate dal leader supremo: però poi i militari prendono iniziative proprie. Secondo Zarif, vedono le relazioni internazionali “con lenti da guerra fredda”: «pensano che chi è forte sul piano militare sia anche forte sulla scena internazionale… perseguono la politica delle cannoniere. Non credono che anche l’economia, e la diplomazia, e la solidarietà nazionale possano renderci più forti». (Secondo la corrispondente del “Financial Times”, dalle parole di Zarif emerge chiaro che chi detiene davvero il potere a Tehran sono i militari).

Il 2 maggio il leader in persona è intervenuto a criticare i giudizi dati da Zarif in quella registrazione, pur senza nominarlo: «non dobbiamo fare commenti che evocano quelli del nemico»; questo è “un grave errore” che «un alto funzionario dello stato non dovrebbe commettere». Poche dopo il ministro degli Esteri, in un post su Instagram, ha precisato che le sue parole volevano offrire in modo “onesto” il suo punto di vista, si scusa se hanno “contrariato” la massima autorità e ringrazia il leader per aver “messo fine al dibattito”.

Un noto esponente riformista, Abbas Abdi, ha scritto che le rivelazioni «avranno il sicuro effetto di impedire la candidatura di Zarif». Aggiunge però che danno un ritratto degli oltranzisti come degli irresponsabili, e dei riformisti come deboli, quindi in ultima istanza non beneficiano proprio nessuno. Certo descrivono una lotta di potere senza esclusione di colpi.

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L’Iran guarda a Est https://ogzero.org/attacco-cibernetico-a-natanz/ Tue, 13 Apr 2021 09:02:44 +0000 https://ogzero.org/?p=3058 Il più importante impianto nucleare iraniano è di nuovo al centro dell’attenzione internazionale: il 10 aprile Rohani aveva inaugurato lì, a Natanz, in pompa magna una nuova serie di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Il giorno dopo però l’impianto è stato colpito da un attacco cibernetico che le autorità iraniane hanno definito “terrorismo nucleare”. Già il […]

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Il più importante impianto nucleare iraniano è di nuovo al centro dell’attenzione internazionale: il 10 aprile Rohani aveva inaugurato lì, a Natanz, in pompa magna una nuova serie di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Il giorno dopo però l’impianto è stato colpito da un attacco cibernetico che le autorità iraniane hanno definito “terrorismo nucleare”. Già il 2 luglio 2020 l’impianto di Natanz era stato oggetto di un attacco, presumibilmente israeliano. Questa volta la responsabilità di Israele è asserita da fonti dell’intelligence statunitense citate dal New York Times. Il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif ha dichiarato, lunedì 12 aprile, che l’Iran “risponderà” all’attacco, e ha accusato: Israele «ha voluto vendicarsi per i nostri progressi sulla via la revoca delle sanzioni». Insomma:  il nuovo attacco a Natanz  accentua i rischi di escalation tra Iran e Israele, e minaccia di ipotecare i colloqui appena avviati a Vienna per rilanciare l’accordo del 2015 sul programma nucleare iraniano.

L’articolo di Marina Forti che proponiamo colloca il contenzioso sul nucleare iraniano nel contesto, allargando lo sguardo ad altri protagonisti, ponendo le basi per interpretare la collocazione geopolitica dell’Iran nei prossimi anni.


Uno spostamento, verso Est?

La firma di un accordo venticinquennale di partenariato tra l’Iran e la Cina è stata accolta da commenti contrastanti. Firmato il 27 marzo a Tehran dai ministri degli Esteri iraniano e cinese, Javad Zarif e Wang Yi, l’accordo riguarda commercio, investimenti e difesa. È uno sviluppo importante, per il merito, e forse prima ancora per il momento in cui viene annunciato.

Presupposti per la ripresa del Jcpoa

Infatti, una delle partite più difficili affrontate oggi dalla diplomazia internazionale riguarda il possibile rilancio dell’accordo sul nucleare iraniano – il Joint Comprehensive Plan of Action, o Jcpoa, firmato da sei potenze mondiali con l’Iran nel 2015, da cui gli Stati Uniti si sono ritirati unilateralmente nel maggio 2018 per volere dell’allora presidente Donald Trump.

Il suo successore Joe Biden, appena insediato alla Casa Bianca, ha affermato l’intenzione di riportare gli Stati Uniti in quell’accordo: a condizione però che l’Iran torni a osservare le limitazioni alle sue attività nucleari previste dal Jcpoa, in parte abbandonate negli ultimi mesi. Tehran ha risposto che è stata Washington a rompere gli accordi: dunque prima gli Usa revocano le sanzioni draconiane e unilaterali che da due anni e mezzo soffocano l’economia iraniana, poi anche l’Iran torna a osservare i patti. La questione di chi debba compiere il primo passo ne nasconde altre, non ultimo il fatto che sia a Washington, sia a Tehran lavorano gruppi di interesse contrari alla ripresa di quegli accordi.

L’impasse si è prolungata per oltre due mesi. Finché gli Stati Uniti hanno accettato di partecipare a un vertice dei firmatari dell’accordo nucleare (Francia, Regno Unito, Germania, Russia, Cina, Unione europea e Iran), che si è tenuto a Vienna nella settimana dopo Pasqua, con i rappresentanti europei nel ruolo di mediatori. Iran e Stati Uniti hanno dunque accettato di definire un meccanismo di rientro simultaneo: gli Usa revocano le sanzioni del periodo Trump mentre l’Iran torna a limitare l’arricchimento dell’uranio secondo il vecchio accordo. Definire le modalità non sarà semplice, ma il percorso è aperto.

C’entra qualcosa tutto questo con l’accordo di cooperazione sino-iraniano, annunciato solo pochi giorni prima? Direttamente no, certo. E però, è chiaro che un partenariato economico tra l’Iran e la Cina limita l’efficacia del principale strumento di pressione usato da Washington verso Tehran, cioè le sanzioni commerciali. «L’Iran sta cercando di dire che ha dei partner, anche in un momento di tensione e difficoltà», commenta Esfandiar Batmangheligj, direttore della newsletter Bourse and Bazar specializzata in Iran e Asia centrale (citato da “The Independent”).

L’importanza di questo accordo però va oltre il dossier nucleare, e si inquadra nella più ampia strategia di sviluppo dell’Iran tra Europa e Asia.

Cosa sappiamo degli accordi tra Cina e Iran?

Per la verità non conosciamo molti dettagli sul “patto di cooperazione strategica” firmato a Tehran. Sappiamo che è stato in gestazione per cinque anni: ne parlò per la prima volta il presidente cinese Xi Jinping nel gennaio 2016 durante la sua visita a Tehran, dove aveva incontrato il Leader supremo, ayatollah Ali Khamenei. Sul momento la cosa sembrava caduta; si tornò a parlarne solo nel febbraio del 2019, quando l’allora presidente del parlamento iraniano Ali Larijani, in visita a Pechino, ne riparlò con il presidente Xi. Nel luglio di quell’anno lo stesso Larijani dichiarò che l’Iran aveva elaborato una bozza di accordo da discutere con le controparti cinesi. I negoziati sono proseguiti nel più assoluto riserbo; nel settembre 2019, quando il giornale “Petroleum News” ha dato notizia di un accordo negoziato “in segreto”, è sembrata una sorpresa.

Nel luglio del 2020 un’agenzia di stampa iraniana ha affermato di avere la bozza dell’accordo appena approvata dal governo di Hassan Rohani; poco dopo la stessa bozza è stata diffusa da “IranWire”, sito di oppositori iraniani all’estero.

Tanta segretezza ha suscitato molte polemiche in Iran. Le correnti più oltranziste hanno accusato il governo Rohani di “svendere” il paese; si diceva che avesse dato in concessione alla Cina alcune isolette iraniane nel Golfo Persico, forse addirittura l’isola di Kish, nota destinazione turistica. Il governo ha smentito. Il parlamento (dominato da deputati ultraconservatori) ha convocato il ministro degli Esteri per rispondere a interrogazioni molto ostili. L’ex presidente Mahmoud Ahmadi Nejad ha accusato Rohani di trasformare l’Iran in un protettorato cinese. Polemiche basate su illazioni e anche vane, poiché è noto che un tale accordo non si potrebbe negoziare senza il coinvolgimento del Consiglio di sicurezza nazionale e il consenso del Leader supremo. (Interessante però che le stesse accuse al governo Rohani siano state mosse dagli ultraconservatori interni e dagli exilés di “IranWire”).

Anche il “New York Times” nel luglio 2020 ha affermato di aver ricevuto il documento in 18 pagine che delinea la cooperazione tra Iran e Cina: secondo il giornale newyorkese, gli è stata data «da qualcuno al corrente dei negoziati con l’intenzione di mostrare l’ampiezza dei progetti considerati». In altre parole, fonti della Repubblica Islamica intenzionate a far sapere agli Stati Uniti (c’era ancora Trump) quanto la strategia di “massima pressione” fosse vana.

Dettagli del Patto di cooperazione sino-iraniana

In ogni caso, tutto ciò che sappiamo di quell’accordo si basa su quella bozza (secondo fonti citate sempre dal “New York Times” non sarebbe cambiata in modo sostanziale). Se dobbiamo prenderla per buona dunque sappiamo che la “cooperazione strategica” permetterà alla Cina di espandere la propria presenza in Iran nei settori delle telecomunicazioni, porti, ferrovie, nel sistema bancario, industria energetica, sanità, turismo e molti altri.

Città petrolifere alla foce dello Shatt-el Arab (foto di Wollwerth).

L’accordo elenca un centinaio di progetti, dai treni ad alta velocità alla creazione di “zone economiche speciali”: a Maku, nel Nordovest dell’Iran; a Abadan, città di installazioni petrolifere dove il fiume che separa Iran e Iraq (Shatt-el Arab per gli iracheni, Arvand per gli iraniani) si butta nel Golfo Persico; e sull’isola di Qeshm, nel Golfo. Si parla poi di infrastrutture per la rete di telecomunicazioni 5G, del sistema di posizionamento globale Beidou (il “Gps cinese”), di sistemi di monitoraggio del cyberspazio (controllare ciò che circola sulla rete).

Il sistema di posizionamento cinese Beidou

I progetti elencati non hanno nulla di stupefacente: sono quelli che la Cina ha proposto ovunque nell’ambito della sua “Belt Road Initiative”, il progetto globale di infrastrutture con cui sta espandendo commercio e investimenti cinesi nel mondo. Però denotano che Pechino non ha avuto troppe remore, anche ai tempi dell’amministrazione Trump, a pianificare investimenti in Iran nonostante il rischio di incorrere nelle “sanzioni secondarie” degli Stati Uniti – quelle che gli Usa applicano a paesi e aziende di paesi terzi che intrattengono relazioni economiche con l’Iran. (Si ricordi che la compagnia di telecom cinese Huawei è stata punita negli Usa proprio per non aver rispettato l’embargo all’Iran.)

Investimenti e accordi militari del Patto di cooperazione sino-iraniana

Le fonti citate dal “New York Times” dicono che la Cina investirà un totale di 400 miliardi di dollari nel periodo coperto dagli accordi (25 anni), in gran parte nei primi anni. E che riceverà in cambio regolari forniture di petrolio iraniano, a quanto pare a prezzi molto scontati: l’interesse sarebbe reciproco, perché Pechino importa tre quarti del suo fabbisogno di greggio, mentre l’Iran è tra i maggiori produttori mondiali ma ha visto il suo export assottigliarsi proprio a causa delle sanzioni statunitensi.

Quanto alla cifra di 400 miliardi di dollari non ci sono conferme, e secondo alcuni esperti è molto esagerata. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijan, ha dichiarato che l’accordo non prevede “target definiti” sul volume degli scambi e degli investimenti; c’è solo la volontà di sviluppare «il potenziale di cooperazione dei due paesi nel campo economico, umano e altro».

L’accordo ha anche un capitolo sulla difesa, e qui i dettagli sono ancora più scarsi: si parla di addestramenti ed esercitazioni congiunte, ricerca, scambio di intelligence. Non è una novità assoluta. La cooperazione militare tra Cina e Iran ha già portato a tenere esercitazioni congiunte almeno tre volte dal 2014 a oggi; l’ultima nel dicembre scorso quando una nave da guerra cinese ha raggiunto quelle di Iran e Russia in una esercitazione nel golfo di Oman. Dire che sia un’alleanza in chiave antiamericana è esagerato (la Cina ha ottimi rapporti e acquista petrolio anche da paesi che invece sono nel campo americano, a cominciare dall’Arabia saudita). Però il segnale resta, e l’Iran tiene a sottolinearlo. In occasione delle manovre navali sino-russo-iraniane l’agenzia ufficiale cinese, Xinhua, aveva citato il comandante della Marina militare iraniana, Ammiraglio Hossein Khanzadi, secondo cui «l’era delle invasioni americane nella regione è finita».

Ricaduta infrastrutturale del Patto di cooperazione sino-iraniana

Quale sarà la traduzione pratica di questi accordi è presto per dire. Lo sviluppo più significativo per la Cina sarà rafforzare la sua presenza in un paese al crocevia geografico dell’Eurasia – e consolidare una presenza strategica sulle coste iraniane del mare d’Oman: si parla di un porto a Jask, appena fuori dallo stretto di Hormuz, quindi all’imboccatura del Golfo Persico tanto importante per il trasporto di petrolio mondiale (non a caso sul lato opposto di quel mare, in Bahrein, ha base la Quinta flotta degli Stati Uniti). Non pare che l’Iran si prepari a concedere una base militare alla Cina sulle sue coste (la sola base navale cinese all’estero oggi è a Gibuti, costruita nel 2015 a poche miglia da una base statunitense). Ma è chiaro che anche i porti commerciali hanno una valenza strategica, e negli ultimi decenni la Cina ne ha costruita una serie in tutto l’oceano Indiano, da Hambantota nello Sri Lanka meridionale a Gwadar in Pakistan, sulla rotta per Suez.

Per l’Iran invece lo sviluppo più concreto sono proprio i potenziali investimenti in infrastrutture e altri progetti economici. E secondo diversi osservatori questo si inserisce nel quadro di un riorientamento strategico delle priorità iraniane, che va ben oltre la necessità di resistere alle sanzioni statunitensi.

La Cina soppianta l’Unione europea

Le relazioni economiche tra Tehran e Pechino in effetti non sono nuove. Già nel 2011 la Cina aveva preso il posto dell’Unione europea come primo partner commerciale dell’Iran. Il motivo è semplice: tra il 2010 e il 2014, durante il secondo mandato del presidente Ahmadi Nejad, l’Iran si era trovato circondato da un muro di sanzioni (allora erano multilaterali, decretate dell’Onu oltre che da Unione europea e Stati Uniti), che aveva reso molto difficile importare qualunque cosa.

Allora però la Cina era solo un ripiego; per l’Iran il partner economico prioritario restava l’Europa. Così nel 2015, quando il moderato presidente Rohani ha firmato l’accordo sul nucleare, l’Iran ha puntato a rafforzare gli scambi e attirare gli investimenti europei. In effetti, per qualche tempo delegazioni commerciali da tutta Europa sono arrivate a Tehran in cerca di affari, e decine di memorandum d’intesa sono state firmate. Le aspettative però hanno tardato a realizzarsi (anche perché l’Iran restava escluso dal sistema bancario internazionale, controllato dagli Usa attraverso il dollaro). Poi l’avvento del presidente Trump ha decretato per l’Iran un isolamento economico ancora più forte delle precedenti sanzioni multilaterali. Gli investimenti europei, che in ogni caso erano rimasti sulla carta, si sono dileguati. E Tehran ha cominciato a riconsiderare la sua strategia.

Scelte di partnership alternative forzate dal protrarsi di sanzioni

Per resistere all’accerchiamento economico l’Iran doveva assicurarsi fonti alternative per le sue importazioni, soluzioni alternative per le transazioni finanziarie, vie alternative per esportare il proprio petrolio, e soprattutto modi per espandere le esportazioni di manufatti e prodotti non petroliferi. Ed è ciò che ha fatto.

Oggi due elementi vanno sottolineati. Il primo è «una crescente importanza dei paesi vicini come partner commerciali e lo spostamento delle fonti di importazione dai paesi occidentali a quelli della regione e orientali», osserva l’analista e imprenditore iraniano Bijan Khajehpour, che si basa sui dati diffusi dal ministero degli esteri iraniano per i primi dieci mesi dell’ultimo anno fiscale (dal 20 marzo 2020 al 20 gennaio 2021).

Il volume totale degli scambi, esclusi petrolio e prodotti petroliferi, ammontava in quei dieci mesi a 58,7 miliardi di dollari (è il 18 per cento meno del periodo corrispondente l’anno prima, ma pesa la pandemia di Covid-19). Le esportazioni non-petrolifere ammontavano a circa 28 miliardi di dollari, di cui oltre il 76 per cento è andato a cinque paesi: per il 26 per cento alla Cina (primo mercato per i prodotti iraniani), poi all’Iraq, gli Emirati Arabi Uniti, la Turchia e l’Afghanistan.

Nello stesso periodo l’Iran ha importato poco più di 30 miliardi di dollari di beni e servizi (il 20 per cento meno dell’anno prima), e i primi cinque paesi d’origine sono Cina (24,8 per cento), Emirati, Turchia, India e Germania (poco meno del 5 per cento).

Quanto all’export di petrolio bisogna fare delle ipotesi, perché i dati restano confidenziali (ovvio: sfugge ai monitoraggi ufficiali, perché chiunque ammetta di importare petrolio iraniano rischia ritorsioni da parte statunitense). Khajehpour ipotizza che l’export di greggio nei dieci mesi considerati ammonti a 7,2 miliardi di dollari, calcolando circa 600.000 barili al giorno al prezzo medio di 40 dollari a barile. (Per avere un’idea di quanto le sanzioni Usa costino all’economia iraniana si pensi che nel giugno 2018, quando gli Stati uniti si sono ritirati dall’accordo nucleare, l’Iran esportava 2,7 milioni di barili di greggio al giorno.)

Riconversione economica e sviluppo di medio-piccola manifattura locale

Il secondo elemento da sottolineare è che nelle esportazioni iraniane l’industria manifatturiera ha superato gli idrocarburi, e non solo nell’ultimo anno di pandemia. Già nel 2019 l’export non-petrolifero aveva totalizzato 41 miliardi di dollari, superando quello del petrolio. Non solo: mentre il settore petrolifero si era contratto del 35 per cento a causa delle sanzioni, il manifatturiero si era contratto appena dell’1,8 per cento.

Questo conferma che l’economia iraniana è molto più diversificata di quelle di altri paesi grandi produttori di idrocarburi: e sebbene fosse una tendenza già visibile nei primi anni del secolo, sono state proprio le sanzioni ad accelerarla. L’industria manifatturiera iraniana – automobili, meccanica, agroalimentare, farmaceutica e altro – rappresenta ormai l’ossatura dell’economia nazionale, con una struttura di piccole e medie imprese che producono sia per un mercato interno di 84 milioni di persone, sia per esportare nella regione circostante.

Strategia di resistenza

È questo che negli ultimi tre anni ha permesso all’economia iraniana di resistere alla “massima pressione” esercitata dagli Usa. La cosiddetta “economia di resistenza”, cioè la strategia di consolidare la produzione industriale interna, non è servita solo a sostituire le importazioni (sempre più costose a causa delle sanzioni), ma anche a consolidare «una strategia mista, promuovere le esportazioni e diversificare le fonti delle importazioni», osserva Khajehpour (così anche nelle importazioni pesano meno di una volta i beni di consumo finiti; nell’ultimo anno il 70 per cento delle importazioni erano beni intermedi, destinati all’industria interna).

La strategia di resistenza è stata questa: espandere la produzione nazionale anche per rafforzare l’export; rafforzare gli scambi con i paesi vicini, inclusa la Russia e l’Asia centrale; ridurre la dipendenza tecnologica dall’Occidente diversificando le importazioni. E guardare all’Eurasia, stabilire accordi di cooperazione a lungo termine con la Cina e nel prossimo futuro la Russia.

Si può immaginare che tutto questo andrà ben oltre l’esito dei colloqui cominciati a Vienna, la (auspicabile) revoca di almeno parte delle sanzioni statunitensi e il possibile rilancio dell’accordo sul nucleare. L’Iran ha cominciato a guardare all’Eurasia.

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L’armata rurale assedia la Grande Delhi https://ogzero.org/assedio-a-delhi/ Sat, 23 Jan 2021 15:27:12 +0000 http://ogzero.org/?p=2281 Chi avrebbe mai detto che una protesta di agricoltori avrebbe creato un problema politico capace di mettere in imbarazzo il governo di Narendra Modi, in India. Eppure è proprio così. Da due mesi la capitale indiana Delhi è assediata da una moltitudine di coltivatori e lavoratori agricoli. Sono centinaia di migliaia di persone venute soprattutto […]

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Chi avrebbe mai detto che una protesta di agricoltori avrebbe creato un problema politico capace di mettere in imbarazzo il governo di Narendra Modi, in India. Eppure è proprio così. Da due mesi la capitale indiana Delhi è assediata da una moltitudine di coltivatori e lavoratori agricoli. Sono centinaia di migliaia di persone venute soprattutto dai grandi stati della pianura indogangetica ma in parte anche dal resto dell’India. Dalla fine di novembre sono accampati intorno alla Grande Delhi; chiedono l’abrogazione di tre nuove leggi che liberalizzano il mercato agricolo, approvate lo scorso settembre dal parlamento nazionale in gran fretta e senza dibattito. Sono determinati: hanno resistito prima alle cariche di polizia e poi al freddo invernale.

Una prova di forza

Ora, dopo undici round di incontri inconclusivi con rappresentanti del governo, le trattative sono rotte. Il governo offre di sospendere l’applicazione delle leggi contestate per 12 o 18 mesi, ma non tratterà altro. I coltivatori ripetono che non se ne andranno finché quelle leggi non saranno abrogate.

Si prepara una prova di forza. I rappresentanti degli agricoltori confermano una “marcia dei trattori” il 26 gennaio, giorno della festa delle Repubblica, quando a Delhi si svolge un’imponente parata militare. Il governo sperava di evitarlo: ma la Corte Suprema, interpellata, ha rifiutato di emettere un divieto. La dimostrazione di potenza dell’India “emergente” oscurata da un’armata rurale.

Vivere della terra

Un movimento popolare così ampio ha spiazzato il governo. La protesta dei coltivatori è stata descritta dai grandi media indiani come la rivolta di un gruppo sociale che vive di sovvenzioni di stato e teme di perdere i propri privilegi: rappresentanti di un vecchio mondo assistito che frenano le riforme necessarie a modernizzare un settore agricolo inefficiente e insostenibile. Come ha ripetuto il primo ministro Modi, le nuove leggi «liberano gli agricoltori indiani», che potranno finalmente competere sul mercato. Molti hanno sottolineato che in fondo l’agricoltura fa solo il 16 per cento del Prodotto interno lordo indiano, una fetta marginale rispetto all’industria e soprattutto i servizi cresciuti negli ultimi vent’anni. Dimenticano però di aggiungere che il 55 per cento della forza lavoro è occupata in agricoltura, e anche neppure questo dato riflette la realtà: 800 milioni di persone, su un miliardo e 300 milioni di indiani, vivono direttamente o indirettamente della terra. La protesta dell’India rurale mette in imbarazzo il governo perché ogni dirigente indiano sa che la terra e i coltivatori restano la base della società e della legittimità politica della nazione.

Sette campi di protesta, sette città temporaneee

Chi ha visitato i sette campi di protesta che circondano la Grande Delhi infatti ha raccolto una storia ben diversa da quella raccontata dai media mainstream.
La scena. Le prime colonne di trattori e camion sono arrivate dagli stati del Punjab e dell’Haryana a nord-ovest della capitale federale. Bloccati dalla polizia al confine del territorio di Delhi (è un Territorio dell’Unione, come un ministato), si sono accampati là, in località Singhu. Altre colonne di protesta sono arrivate dall’Uttar Pradesh e dal Bihar a est, e in parte dal Rajasthan a ovest; delegazioni sono giunte dal Maharashtra (lo stato con capitale Mumbai) e dal Kerala a sud. Poco a poco sono sorti ben sette siti di protesta: il più grande, a Singhu, si estende per oltre dieci chilometri. Come città temporanee popolate da uomini e donne, vecchi e giovani. Ci sono caste rurali e anche Dalit (i fuoricasta, lo scalino più basso della gerarchia sociale indiana).

L'assedio di Delhi

Gli accampamenti nella Grande Delhi (foto da Kisan Ekta Morcha)

La solidarietà palpabile

Secondo un’inviata di “The Wire”, «l’ossatura della protesta sono contadini senza terra e coltivatori marginali», parola che indica una misura precisa: le proprietà agricole “marginali” sono quelle sotto un ettaro, “piccole” quelle sotto i due ettari. Secondo il censimento agricolo, in India l’86 per cento degli agricoltori sono appunto marginali e piccoli, vivono su meno di due ettari di terra; nel Punjab, da cui vengono molti dei manifestanti, un terzo delle proprietà sono sotto due ettari e un altro terzo sotto 4 ettari. l’India rurale è fatta di una miriade di piccolissimi produttori. Gli accampamenti sono organizzati per resistere. I rimorchi dei camion sono diventati alloggi di fortuna. Altri hanno montato tende. Centinaia di cucine da campo servono cibo a tutti, di ogni religione o casta. «In ogni sito di protesta il livello di organizzazione e il senso di solidarietà, è palpabile», riferisce un inviato del magazine “Frontline”. Intorno agli agricoltori si è costituita una rete di solidarietà; attivisti sociali hanno organizzato dispensari medici e dormitori in edifici pubblici; sono state allestite lavanderie, perfino biblioteche.

L'assedio di Delhi

Un agricoltore manifestante in preghiera durante la protesta a Dehli (foto Im_rohitbhakar)

L’atmosfera oscilla tra la resistenza e la festa popolare, con decine di assemblee pubbliche, eventi culturali, lezioni, musica. Le notti d’inverno però sono gelide nell’India settentrionale. C’è notizia di numerose persone morte di ipotermia, o infarto o altro.

Protesta diffusa: le comunità sono unite

Ma nonostante tutto la protesta continua, e questo è possibile perché ha un retroterra. In Punjab, secondo numerose testimonianze, da ciascuno dei 13.000 villaggi sono partite delegazioni di decine di persone, coltivatori e anche maestri di scuola, camionisti, rappresentanti dei municipi rurali.
«In Punjab c’è un’insurrezione», scrive un’inviata del giornale online “The Wire”, che in una sola provincia di questo grande stato ha contato 68 sit-in permanenti, grandi e piccoli. Descrive comizi e raduni pubblici, e raccolte di viveri, coperte, tende da mandare a quelli che sono andati a Delhi. I manifestanti si alternano; c’è chi torna a casa per occuparsi del raccolto mentre altri danno il cambio. «Tutte le comunità sono unite», spiegano alcuni manifestanti.
Al movimento partecipano circa 500 organizzazioni di agricoltori e sindacati rurali, raggruppati n 40 organizzazioni ora raggruppate in un coordinamento. «Il governo pensa che i coltivatori oggi siano la massa impotente e ingenua descritta dalla letteratura preindipendenza. Ma i coltivatori oggi hanno assorbito l’eredità del movimento per la libertà [il movimento anticoloniale nella prima metà del Novecento], i giovani hanno ereditato quello spirito», spiega a “Frontline” un agricoltore ed ex soldato nel sito di Ghazipur, a est di Delhi. Non per nulla tra cartelli e volantini riemerge il volto di Bhagat Singh, leggendario leader socialista rivoluzionario novecentesco.

Assedio a Delhi

L’arrivo in città dei manifestanti da ogni parte del paese (foto da Kisan Ekta Morcha)

Il contrasto alla propaganda governativa

«Abbiamo capito che bisognava contrastare la propaganda che rimbalza sulla tv e sui social media», spiega (sempre a “Frontline”) un giovane ingegnere informatico impegnato nella protesta: con un piccolo gruppo di volontari ha creato una piattaforma elettronica che mette online conferenze stampa quotidiane, interviste, testimonianze: si chiama Kisan Ekta Morcha, è divenuta la grancassa del movimento.
Ai primi di dicembre il governo aveva offerto qualche emendamento alle leggi contestate, se i manifestanti avessero sgomberato le strade. Ma quando questi hanno rifiutato di tornare a casa prima di ottenere la revoca di quelle leggi, il governo li ha accusati di essere facinorosi, estremisti, “khalistani” – riferimento al movimento separatista armato che negli anni Ottanta si batteva per uno stato indipendente in Punjab, il Khalistan. Per questo tra i cartelli comparsi nei siti di protesta molti dicono «siamo coltivatori, non terroristi».
Il movimento dunque continua. È rimasto unito, e pacifico. La prima vittoria l’ha avuta quando, il 20 dicembre, la Corte Suprema ha chiesto al governo di sospendere l’applicazione delle leggi contestate e aprire il dialogo. Le foto dei primi incontri ritraggono i rappresentanti delle 40 organizzazioni rurali intorno a un lunghissimo tavolo, con i rappresentanti di tre ministeri del governo centrale (agricoltura, commercio, ferrovie). Da parte governativa però si sono presentati solo junior ministers, l’equivalente di sottosegretari, figure senza potere decisionale: non i ministri titolari e tantomeno il primo ministro. Benché incalzato da un nuovo intervento della Corte Suprema nella prima settimana di gennaio, il governo Modi continua a prendere tempo.

I “mercati regolamentati”: la posta in gioco

Cosa è in gioco? In estrema sintesi, il sistema di regolamentazioni statali che dagli anni Sessanta del secolo scorso offre qualche protezione ai coltivatori indiani.
La prima delle tre leggi contestate infatti permetterà di commercializzare la produzione agricola al di fuori dei mercati all’ingrosso statali (mandi), attualmente regolamentati dagli Agricultural Produce Market Committees, Apcm. Secondo il governo è una riforma che «aprirà nuove opportunità per tutti i coltivatori», perché moltiplica i possibili compratori per i loro raccolti e li “libera” dalla burocrazia e dagli intermediari. Ma non ha convinto gli agricoltori: i quali temono che sul “libero mercato” non saranno loro a fissare i prezzi, bensì i grandi acquirenti. Temono anche di perdere altri servizi essenziali oggi offerti dai mercati di stato, tra cui i silos e gli anticipi per le sementi.
Le altre leggi contestate aboliscono i limiti allo stoccaggio di derrate agricole, salvo casi di emergenza (era una norma antiaccaparramento): ma così, secondo i critici, i grandi traders potranno comprare derrate quando la produzione è abbondante e immagazzinarle per metterle sul mercato quando più conviene. La terza legge infine promuove la “coltivazione a contratto”, cioè la possibilità di stipulare contratti tra l’agricoltore e il futuro compratore. Il governo sostiene che questo darà sicurezza ai coltivatori, perché sapranno che il futuro raccolto è piazzato a un prezzo pattuito in anticipo. Molti agricoltori conoscono già questo sistema, e sono scettici.
Il punto è che i “mercati regolamentati” fanno parte del sistema che include il prezzo minimo di supporto (Msp), a sua volta funzionale al Sistema pubblico di distribuzione (Pds), con cui lo stato fornisce alimenti di base a prezzi calmierati a tutti gli indiani, in particolare ai più poveri. È un intero sistema creato negli anni Sessanta per garantire un prezzo equo ai produttori e allo stesso tempo assicurare l’accesso al cibo a tutti i cittadini. È questo che oggi è in gioco.

La crisi ecologica

La Rivoluzione verde è finita. Il Prezzo minimo è sorto con la rivoluzione agraria basata sulle varietà ibride “ad alto rendimento” di grano e poi di riso arrivate negli anni Sessanta e Settanta. In India la “rivoluzione verde” ha avuto successo grazie alla fertilità della pianura indogangetica e alle sue abbondanti riserve idriche sotterranee. Convinti dalle rese abbondanti, e dalla garanzia che lo stato avrebbe comprato i raccolti a un prezzo stabilito, gli agricoltori sono passati alle nuove sementi. In Punjab e Haryana grano e riso hanno rapidamente sostituito ogni altra coltura: da poco meno di metà della superficie coltivata nel 1970, a oltre l’80 per cento nel 2010. Già negli anni Novanta l’India era passata da importare cibo a esportarne.
Ormai però il suolo fertile e l’acqua abbondante sono esauriti. In Punjab la falda freatica cala in media di 33 centimetri l’anno, tanto che va cercata con pozzi sempre più profondi, ed è spesso inquinata da residui di fitofarmaci e concimi azotati. I suoli sono sempre meno produttivi. Eppure Punjab e Haryana restano il “granaio” dell’India, grazie alle pompe che estraggono l’acqua rimasta e un grande uso di concimi: nei quarant’anni trascorsi tra il 1978 e il 2019 la produzione di grano e riso in Punjab è aumentata del 134 per cento (da 126 a 285 milioni di tonnellate), ma il consumo di fertilizzanti è aumentato oltre il 600 per cento (da 4,2 a 27,2 milioni di tonnellate: riprendo i dati dall’economista Prem Shankar Jha).
La conseguenza è duplice. Da un lato, l’India produce grandi surplus alimentari che ha cominciato a esportare. Dall’altro però la monocoltura intensiva ha innescato una spaventosa crisi ecologica. E questo ha anche fatto calare la produttività e salire le spese di produzione.

Liberalizzazione vs insostenibilità?

I sostenitori della liberalizzazione argomentano che il prezzo minimo e i numerosi sussidi di stato ormai perpetuano un’agricoltura insostenibile, ha creato una classe di coltivatori dipendenti dalle sovvenzioni, disincentiva a diversificare le colture. Altri, tra cui Jha, fanno notare che molti coltivatori hanno già diversificato, anche in quelle regioni “granaio”, e coltivano ortaggi per il mercato urbano, o altre derrate: ma proprio per questo sanno già cosa significa essere in balia del “libero mercato”. Mentre nessun governo ha mai tenuto la promessa di investire in infrastrutture, magazzini refrigerati o altro a sostegno del mercato agricolo, e devono affidarsi a intermediari che hanno un potere spropositato.
Il sistema è insostenibile? Molti in India, anche tra gli oppositori alle leggi oggi contestate, concordano che il meccanismo dei mercati regolamentati va rivisto. Che quei Comitati di gestione (i succitati Agricoltural Produce Market Committees) in cui sono rappresentati enti locali e organizzazioni di agricoltori riflettono molti dei vizi della società più generale, dalle divisioni di casta e di classe, alle azioni di lobby di vari interessi, alla burocrazia. E però «non c’è dubbio che continuano a mitigare l’arbitrarietà dei prezzi e limitare le malversazioni ai danni dei coltivatori», osserva un editoriale di “Frontline”.

Il surplus di produzione tra esportazione e interessi privati

È anche vero che i silos della Food Corporation of India (ente di stato) straboccano di derrate: quasi 28 milioni di tonnellate di riso e 55 milioni di tonnellate di grano alla fine di giugno 2020, ben 42 milioni di tonnellate più di quelle che sono considerate riserve strategiche. Così l’India ha cominciato a esportare riso (12 milioni di tonnellate l’anno scorso) e grano (circa 6 milioni di tonnellate destinate a mangimi animali). Prem Shankar Jha osserva che, dai dati ufficiali, quel riso è stato venduto sul mercato internazionale a poco più di 7 miliardi di dollari, con un profitto di 4,18 miliardi di dollari rispetto al “prezzo mimino di supporto” che lo stato aveva pagato ai coltivatori. Fin troppo facile la conclusione: «Gli immediati beneficiari [della liberalizzazione] saranno i grandi esportatori a cui la Food Corporation venderà i suoi surplus» a poco più del prezzo minimo, conclude Jha. Tra i manifestanti è convinzione diffusa che tra questi i beneficiari abbiano un nome: le imprese di Mukesh Ambani e di Gautam Adani, due multimiliardari molto legati al primo ministro Modi (i quali smentiscono di avere interessi nel mercato agricolo). Non a caso in tutto il Punjab le proteste hanno preso di mira stazioni di benzina e ripetitori dei telefonini del gruppo Reliance (di Ambani), o i silos refrigerati del gruppo Adani.

La protesta attuale è solo una parte del problema

Forse è vero, la protesta di queste settimane rappresenta solo una parte del complesso mondo rurale indiano. Il sistema dei mercati regolamentati e del prezzo minimo in effetti riguarda solo riso e grano (il progetto di estenderlo ad altre derrate non è mai decollato), e non copre le zone più periferiche. Mentre la gran parte dei coltivatori – di cereali, cotone, ortaggi o altro – è già in balia del libero mercato: di intermediari che stabiliscono le regole; di grossisti che fissano prezzi e standard. Degli usurai a cui devono chiedere anticipi per comprare sementi e concimi. Delle oscillazioni dei mercati e del clima.
Senza contare che gran parte dell’India rurale, quella più marginale, coltiva per la sussistenza, non rientra nel computo economico, e dipende dall’uso delle terre comuni. È la parte più penalizzata dall’inarrestabile accaparramento di terre avvenuto negli ultimi trent’anni per permettere l’espansione di miniere, fabbriche e grandi imprese agro-industriali.
Gli agricoltori che assediano Delhi non hanno l’aspetto di “privilegiati”. Sono convinti che le tre leggi contestate siano il preludio ad abolire anche il Prezzo minimo e smantellare quel che resta del sistema di redistribuzione costruito negli anni postindipendenza: e allora sarà peggio non solo per loro ma per tutta l’India rurale. La posta in gioco è proprio questa.

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Geopolitica della siccità: chi ha ucciso il Mekong? https://ogzero.org/la-minaccia-della-siccita-chi-ha-ucciso-il-mekong/ Sun, 29 Nov 2020 19:04:58 +0000 http://ogzero.org/?p=1889 La “madre delle acque” Per il secondo anno consecutivo, la siccità sta divorando il bacino del Mekong. Le piogge monsoniche, che investono il Sudest asiatico tra maggio e agosto, sono state esigue. In ottobre, quando il fiume dovrebbe essere in piena, il livello dell’acqua era invece appena un terzo del normale. Lo stesso era successo […]

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La “madre delle acque”

Per il secondo anno consecutivo, la siccità sta divorando il bacino del Mekong. Le piogge monsoniche, che investono il Sudest asiatico tra maggio e agosto, sono state esigue. In ottobre, quando il fiume dovrebbe essere in piena, il livello dell’acqua era invece appena un terzo del normale. Lo stesso era successo nel 2019. La Mekong River Commission, organismo intergovernativo che rappresenta i quattro paesi del basso bacino fluviale (Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam), parla di “siccità estrema”. La pesca e l’agricoltura da cui dipendono milioni di persone sono in crisi. E mentre la regione indocinese comincia a contare i danni, economici quanto ecologici, un istituto statunitense che usa immagini satellitari per monitorare i cambiamenti climatici accusa la Cina: avrebbe trattenuto preziosa acqua nei reservoir formati dalle sue undici dighe sull’alto corso del fiume, provocando il disastro a valle. Pechino respinge l’accusa. Ancora una volta, il Mekong si rivela un caso paradigmatico delle tensioni politico-diplomatiche, ambientali e sociali della convivenza lungo un grande fiume dall’ecosistema fragile e dalla storia tormentata.

dighe sul Mekong

Dighe già operative, in costruzione o in fase di progetto sul corso del Mekong

Le parti in causa sono sei paesi. Il Mekong infatti nasce sull’altopiano tibetano, oltre i 4500 metri d’altezza, e scorre per 4900 chilometri fino al Mar Cinese meridionale. La prima metà del suo percorso è in Cina, attraversa la provincia dello Yunnan tra gole spettacolari dove perde circa il 90 per cento del suo dislivello totale: questo è il “bacino dell’Alto Mekong”. Poi entra in Laos nella regione detta “triangolo d’oro”, segna il confine tra Laos e Myanmar e più a valle tra Laos e Thailandia; attraversa la Cambogia e infine forma un grande delta nel Vietnam meridionale: e questo è il “bacino del Basso Mekong”. La distinzione riflette la geografia, ma ancora di più la storia e la geopolitica della regione. A cominciare dal nome: in Cina è il Lancang Jang (“fiume turbolento”), nel resto del mondo è noto con il nome derivato dalla lingua thai, Mae Nam Khong, “madre delle acque”.

Il fiume che “respira”

La Mekong River Commission (Mrc) annuncia quest’anno una situazione ancora più grave che nel 2019.

I segni del disastro sono visibili nel delta, dove la portata d’acqua è così scarsa che i dodici bracci del fiume sono ridotti a rigagnoli e l’acqua salina del Mar Cinese meridionale sta penetrando sempre più all’interno. Più a monte, in Laos, dove il corso del Mekong è disseminato di scogli e rapide, l’inverno scorso il fiume era ridotto a pozze isolate tra ampi tratti in secca: questo inverno ci si aspetta la stessa scena.

Il segno più tangibile del disastro è che quest’anno il Tonle Sap (“grande lago”) non si è riempito. La particolarità del Mekong infatti è che la sua corrente cambia secondo le stagioni. Tra maggio e l’estate, alimentato dallo scioglimento dei ghiacci himalayani e dalle piogge monsoniche, il fiume si gonfia, la corrente è turbolenta e la piena allaga le zone pianeggianti ricoprendole di limo. Poco prima di raggiungere la capitale cambogiana Phnom Penh però la corrente cambia direzione e l’acqua risale un affluente laterale, il Tonle Sap, fino all’omonimo lago. Tra agosto e novembre questo cresce fino a cinque volte per superficie e volume d’acqua; poi si stabilizza e nell’inverno l’acqua riprende a scorrere verso il Mekong e il suo delta. Come se il fiume respirasse, e il Tonle Sap fosse il suo cuore.

Tonle Sap

Villaggio galleggiante sul lago Tonle Sap, sempre più secco, in Cambogia

Da questo “respiro” dipende il ciclo della vita fluviale, e in primo luogo la pesca. Gran parte dei pesci del Mekong sono specie migratorie, che risalgono la corrente nella stagione secca per riprodursi tra gli scogli a monte, per poi scendere con la piena a ingrassare nel Tonle Sap.  Secondo la Fao il basso bacino del Mekong è la più produttiva regione di pesca d’acqua dolce al mondo, con circa il 15 per cento del pescato mondiale (secondo altre fonti arriva al 20 o al 25 per cento del totale); tra pesca e acquacoltura, si stima una produzione annua di circa 4,5 milioni di tonnellate di pesce e altri organismi acquatici. Questo non include del tutto la pesca artigianale, a cui è legata la sussistenza di milioni di persone. Pesce e organismi acquatici sono la principale fonte di proteine animali per gli abitanti della regione (tra 40 e 60 per cento in media, fino all’80 per cento per la popolazione rurale e più povera). Nel Tonle Sap, le circa 500.000 tonnellate di pesce pescate nelle annate normali sono una parte consistente dell’economia locale. In queste settimane però le cronache raccontano di reti vuote, pescatori disperati, interi villaggi rurali sul lastrico. Anche l’agricoltura stagionale è in crisi: di solito, quando la piena si ritira, milioni di abitanti rivieraschi  coltivano orti e risaie sulle terre concimate dal limo, che quest’anno non è arrivato. E il livello del fiume è così basso che le pompe per l’irrigazione dei campi non arrivano a pescare acqua.

Bisogna pensare che circa 60 milioni di persone abitano il basso bacino del Mekong, di cui circa la metà vive entro 15 chilometri dal fiume e ne dipende direttamente. In altre parole, la siccità  minaccia l’economia e la sicurezza alimentare di milioni di persone, e in particolare della popolazione rurale.

Il clima e le dighe

La causa di tutto questo, afferma la Mekong River Commission, sono piogge monsoniche arrivate tardi e troppo scarse, conseguenza del fenomeno meteorologico detto “El Niño”.

Ma se le condizioni climatiche non fossero l’unica causa della crisi? Se il Mekong fosse in secca perché l’acqua viene trattenuta dalle dighe costruite nell’alto corso fluviale, cioè in Cina?

È proprio questa l’accusa lanciata da un istituto di ricerca statunitense, Eyes on Earth, in uno studio pubblicato nell’aprile di quest’anno e condotto insieme a un altro centro specializzato, il Global Environmental Satellite Applications. Sulla base di accurate osservazioni satellitari, lo studio conclude che nei sei mesi centrali del 2019, mentre il basso bacino del Mekong era a corto di piogge, nella parte alta del fiume le precipitazioni erano abbondanti e nel Lancang è affluita una quantità d’acqua superiore alla norma: ma è rimasta quasi tutta a monte, nei reservoir costituiti dalle dighe, e non è defluita a valle. L’accusa è precisa: «Le dighe sul tratto cinese hanno  trattenuto una quantità d’acqua senza precedenti», ha scritto Brian Eyler, direttore del Programma per il Sudest asiatico del Stimson Center (un’altra istituzione di ricerca statunitense), che ha ripreso quello studio in un articolo su “Foreign Policy”. Lo studio americano afferma inoltre che già da alcuni anni la Cina trattiene quantità crescenti d’acqua, cosa che già in passato ha creato condizioni di siccità a valle. Sostiene poi che la gestione delle dighe a monte, con improvvisi rilasci d’acqua, spiega anche le strane ondate di piena viste in passato nella stagione secca, che hanno provocato inondazioni lungo la frontiera laotiano-thailandese.

Toni da guerra fredda tra Cina e Usa

Lo studio qui citato ha monitorato la situazione nel decennio dal 2010 al 2019, con una metodologia che ha passato il vaglio di una peer-review (cioè la revisione di idrologi e climatologi, che hanno trovato convincenti le conclusioni). Eye on Earth è un’istituzione privata, ma lo studio è stato sostenuto dalla Lower Mekong Initiative, una “partnership multinazionale” avviata dagli Stati uniti con Cambogia, Laos, Myanmar, Thailandia e Vietnam, come si legge sul sito Mekongwater.org (fondato dal Dipartimento di stato Usa).

Così non stupisce che Pechino abbia risposto, più o meno con gli stessi strumenti. In luglio un gruppo di istituzioni accademiche coordinate dalla Tsinghua University, la più prestigiosa università statale cinese, ha pubblicato uno studio secondo cui le dighe sul Lancang hanno un effetto positivo nell’alleviare la siccità. «L’ultimo studio di ricercatori cinesi confuta i nessi causali e le sprezzanti accuse di alcuni media statunitensi», osserva il “Global Times”, media cinese in lingua inglese (Gli autori dello studio americano hanno poi ribattuto con un commento sul “Bangkok Post”, principale quotidiano thailandese in inglese).

I toni da guerra fredda sono evidenti. Ciò non toglie che i dati raccolti da Eye on Earth sembrano dare conferma a sospetti annosi.

Infatti è da quando la Cina ha cominciato a pianificare una serie di sbarramenti tra le gole del Lancang-Mekong, fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, che il malumore dei paesi a valle è andato crescendo. Anche perché Pechino non ha condiviso molto dei suoi progetti. La diga di Man Wan, la prima, costruita senza consultare i vicini, è entrata in attività nel 1996 (fornisce energia elettrica alla regione industriale di Kunming, capitale dello Yunnan). Poi la costruzione si è intensificata; oggi le dighe sono undici, e altre sono in progetto. Il governo della Repubblica popolare cinese le chiama la “cascata di dighe”. La più imponente oggi è quella di Nouzhadu, entrata in attività tra il 2012 e il 2014. (Secondo l’analisi di Eye on Earth è proprio da allora che il volume d’acqua trattenuto in territorio cinese è aumentato drasticamente).

Si capisce il nervosismo dei paesi a valle: con le sue dighe, la Cina può controllare il flusso d’acqua che raggiunge il basso Mekong. Senza contare che le dighe trattengono una buona parte dei sedimenti indispensabili all’agricoltura, come sottolinea un’organizzazione non governativa come International Rivers, che lavora per la difesa degli ecosistemi fluviali.

Mekong River Commission, ma senza la Cina

Del resto la Cina (insieme a Myanmar) non ha mai voluto aderire alla Mekong River Commission, nata nel 1995, prima e tuttora unica organizzazione stabile di cooperazione regionale nella regione indocinese (il peso dei conflitti indocinesi nell’ultima metà del Novecento è evidente). La Cina è riluttante perfino a condividere le osservazioni delle sue centrali di monitoraggio fluviale, cosa che fa solo in parte. Nel 2016 ha invece fondato il “suo” organismo parallelo, chiamato Lancang-Mekong Cooperation Framework, con Laos, Thailandia, Myanmar, Cambogia e Vietnam, per promuovere la cooperazione tecnica – in un organismo però in cui è dominante, accusano i critici.

La Cina è un vicino ingombrante, ma anche i paesi del basso Mekong si sono lanciati a costruire dighe. In particolare il Laos, povero e stretto tra vicini più potenti, ha fatto della produzione idroelettrica l’elemento portante della sua strategia di sviluppo, e dalla metà degli anni Novanta ha costruito una decina di impianti sugli affluenti del Mekong per esportare energia.

In questa strategia ci sono due momenti chiave. Uno è nei primi anni Duemila quando la Banca Asiatica di Sviluppo ha lanciato un programma regionale di infrastrutture per la “Greater Mekong Subregion”, che include tutti i sei paesi rivieraschi. Al centro del progetto ci sono corridoi stradali e una rete di trasmissione di energia elettrica, oltre a progetti di sviluppo del commercio e del turismo. Tutto alimentato da investimenti propiziati dalla Banca Asiatica di Sviluppo e in parte la Banca Mondiale. In altre parole, la prima sede di “integrazione regionale” non è stato un organismo di cooperazione intergovernativo, ma un programma di investimenti gestito da organismi finanziari internazionali. Inutile dire che una parte considerevole degli investimenti diretti in Laos e Cambogia (le due economie più deboli della regione) sono di fonte cinese, oltre che thailandese e vietnamita.

L’altro momento chiave, per motivi diversi, è stato il 2006, quando i governi di Laos, Cambogia e Thailandia hanno autorizzato i primi studi di fattibilità per costruire dighe sul basso Mekong: non più gli affluenti, ma il fiume principale. La cosa ha suscitato grandi controversie; non solo organizzazioni ambientaliste ma perfino l’intergovernativa e prudente Mekong River Commission ha pubblicato studi estremamente allarmati: sbarrare il fiume avrebbe creato danni irreversibili all’intera vita fluviale, interrotto le vie di migrazione dei pesci e il ciclo delle inondazioni. Un impatto mortale per il fiume, come argomenta la più recente analisi di International Rivers che riprende studi della Mekong Rivers Commission.

Nonostante tutto, il Laos ha costruito la prima diga sul Mekong nella parte centro-settentrionale  del paese (diga di Xayaburi) e un’altra al confine con la Cambogia presso le Siphandone – un punto dove il Mekong forma diversi canali per aggirare una miriade di piccole isole, formando salti e rapide spettacolari (da cui il nome: si-phan-don significa “mille isole” in lingua lao). Altre dighe sul Mekong sono in progetto; almeno tre progetti sono nella fase delle “consultazioni” presso la Mrc. Inutile dire che in queste imprese si sono riscontrati forti investimenti cinesi, oltre che di aziende thailandesi, sudcoreane, e altre.

La diga di Xayaburi in Laos

Nel frattempo il governo laotiano ha messo a tacere le conseguenze del disastro avvenuto due anni fa con il crollo di una diga nel sud del paese (la diga Xe-Pian Xe-Namnoy, di costruzione sudcoreana): 70 persone sono morte o disperse e 7000 sono sfollate, ma le richieste di giustizia sono rimaste vane. Del resto, la sorte degli sfollati di tante dighe non è mai stata all’ordine del giorno, per i governi della regione. Uniche buone notizie, per il fiume: la Cambogia ha annunciato di aver sospeso fino al 2030 ogni progetto di nuove dighe sul suo tratto del Mekong, perché il fabbisogno energetico è ampiamente coperto. Mentre la Thailandia ha sospeso il progetto di dinamitare le rapide del fiume a nord per renderlo navigabile.

È una piccola tregua per la “madre delle acque”. Perché a lavorare per ucciderla sono in molti.

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Onda d’urto nucleare sull’Iran https://ogzero.org/dalla-esplosione-di-natanz-alla-bocciatura-allonu-di-nuove-sanzioni-a-tehran-sabotaggio-e-pressione-rohani/ Fri, 04 Sep 2020 12:17:22 +0000 http://ogzero.org/?p=1141 L'amministrazione Trump ha stracciato l’Accordo sul nucleare che l'Occidente con Obama aveva stipulato con il regime degli ayatollah; e Israele non perde occasione per sabotare gli impianti iraniani, da ultimo l'esplosione di Natanz il 2 luglio. Si crea così un duplice fronte, interno ed esterno all'Iran, insufficiente a mettere in crisi la Repubblica Islamica

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Sabotaggio: massima pressione su Rohani

L’ammissione è arrivata con quasi due mesi di ritardo. L’esplosione avvenuta il 2 luglio negli impianti nucleari di Natanz, in Iran, è il risultato di un atto di “sabotaggio”, ha dichiarato il 23 agosto un portavoce dell’Agenzia per l’energia atomica della repubblica islamica iraniana, citato dall’agenzia di stampa ufficiale Irna. Non ha precisato che tipo di esplosione e che materiali siano stati usati: questo «verrà annunciato a momento debito».

L’esplosione, che ha distrutto un intero edificio nell’impianto di Natanz, era stata preceduta da una serie di “misteriosi” incendi e esplosioni nei giorni e settimane precedenti in diverse altre installazioni di carattere militare in Iran, e aveva già suscitato un turbine di ipotesi: bombe, attacchi missilistici, attacco elettronico, sabotaggio? Da parte di dissidenti iraniani, degli Stati uniti, di Israele? Di sicuro l’ipotesi di incidenti fortuiti non ha mai convinto nessuno. In particolare, nel caso di Natanz già pochi giorni dopo l’esplosione il governo annunciava di aver determinato la causa, anche se non poteva per il momento rivelarla per “considerazioni di sicurezza”.

Chi tocca il reattore muore

La parola sabotaggio dunque non sorprende. Del resto non sarebbe la prima volta: sia gli Stati uniti che Israele hanno in passato condotto azioni coperte in Iran, come gli attentati in cui sono stati uccisi diversi scienziati nucleari iraniani (che molti attribuiscono a Israele), o le azioni di sabotaggio elettronico ai danni di impianti atomici attribuite agli Usa (ben prima dell’avvento di Donald Trump). Solo pochi giorni dopo l’esplosione del 2 luglio, il New York Times citava anonimi «agenti di intelligence mediorientali» (tra cui uno delle Guardie della Rivoluzione iraniane) secondo cui l’attacco a Natanz è stato compiuto da Israele con una bomba ad alto potenziale. Cosa in sé plausibile, ma difficilmente vedremo prove o ammissioni ufficiali. Da parte israeliana certo non verranno conferme, e di prassi neppure smentite (interrogato in proposito, il ministro della difesa israeliano Benny Gantz ha semplicemente detto alla radio di stato: «Non tutto quello che accade in Iran ha necessariamente a che fare con noi»: risposta che non è una smentita).

Natanz, regione di Esfahan

Il capoluogo dello sharestan omonimo ospita l’impianto nucleare più imponente dell’Iran

L’uranio di Natanz

Altri interrogativi riguardano l’entità del danno provocato. L’impianto di Natanz, costruito in parte nel sottosuolo non lontano dalla città di Isfahan nell’Iran centrale, è tra quelli soggetti a regolari ispezioni da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’ente delle Nazioni unite per la sicurezza nucleare. È a Natanz che a partire dal 2012 l’Iran ha cominciato a costruire le sofisticate centrifughe necessarie ad arricchire l’uranio. In luglio l’Agenzia atomica iraniana ha ammesso che l’esplosione ha ritardato il programma di arricchimento dell’uranio di alcuni mesi. Alcuni esperti occidentali sostengono invece che i danni all’impianto potrebbero aver ritardato il programma di un paio d’anni.

Che si voglia credere all’agenzia iraniana o agli esperti occidentali, pare chiaro che il sabotaggio potrà al massimo rallentare il programma atomico di Tehran – difficilmente riuscirà a fermarlo. Non ci sono riusciti i sabotaggi del passato. L’Agenzia atomica iraniana ha già annunciato che ricostruirà l’impianto distrutto, «con equipaggiamenti ancora più moderni».

Conviene ricordare che quando nel 2015 l’Iran e sei potenze mondiali hanno firmato il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), più semplicemente chiamato l’“Accordo sul nucleare iraniano”, Tehran aveva accettato di rinunciare a buona parte della sua riserva di uranio già arricchito appunto a Natanz (intorno al 20 per cento, livello necessario alla ricerca medica ma lontano da quello che serve per confezionare armi atomiche); aveva inoltre accettato di non costruire nuove centrifughe per i successivi otto anni. In effetti l’uranio arricchito era stato spedito fuori dal paese, e la costruzione di centrifughe a Natanz era stata fermata, come hanno certificato le regolari ispezioni dell’Aiea. L’Iran ha sempre negato di voler costruire armi nucleari, mentre ha sempre puntato in modo abbastanza esplicito ad avere la “capacità atomica”, cioè la capacità di maneggiare il ciclo nucleare: considerando che dava migliori garanzie di “deterrenza” avere la capacità di costruire un ordigno in caso di necessità, piuttosto che costruirlo effettivamente. Ma anche a voler diffidare delle intenzioni di Tehran, bisogna osservare che dal punto di vista della non proliferazione, il Jcpoa aveva effettivamente messo un freno alle attività iraniane.

L’indipendenza europea sotto tutela

Finché nel maggio 2018 il presidente Trump ha annunciato il ritiro degli Stati uniti dal Jcpoa, ed è allora che a Natanz l’officina di fabbricazione delle centrifughe ha ripreso l’attività. Non subito, bisogna dire: per un anno e mezzo l’Iran ha continuato a osservare la sua parte dell’accordo, chiedendo piuttosto ai partner europei (Francia, Germania e Gran Bretagna sono i firmatari insieme all’Unione europea) di compensare l’Iran per i benefici persi. Sappiamo però che questo è il punto dolente: i paesi europei continuano ad affermare l’importanza del Jcpoa, della diplomazia multilaterale, e del dialogo con l’Iran, ma sul lato pratico non hanno saputo davvero contrastare le sanzioni economiche statunitensi: vivida illustrazione di quanto sia limitata l’autonomia europea in una economia mondiale dominata dal dollaro (ogni transazione rilevante che avviene in dollari, ovunque, è soggetta allo scrutinio delle autorità finanziarie statunitensi). Il meccanismo finanziario chiamato Instex, annunciato dall’Unione europea nel settembre 2018 (ma diventato operativo solo nel gennaio 2020) per offrire un canale per gli scambi commerciali con l’Iran, incluso il settore petrolifero, avrebbe dovuto permettere alle imprese europee di aggirare le sanzioni Usa: ma finora non è andato oltre una singola transazione dimostrativa. Lo stesso vale per un meccanismo che dovrebbe facilitare forniture “umanitarie”, farmaci e attrezzature mediche.

Insomma: di fronte agli indugi europei, nell’ultimo anno gradualmente Tehran ha ripreso ad arricchire uranio oltre il limite previsto dal Jcpoa (anche se resta ben al di sotto delle quantità di cui disponeva prima di firmare l’accordo). Passi molto graduali, definiti da parte iraniana una “riduzione degli impegni”; per il resto l’Aiea nota che Tehran continua ad attenersi agli accordi. Il presidente Hassan Rohani ha più volte ripetuto che le attività riprese sono facilmente reversibili, e che l’Iran è pronto a tornare indietro se gli Stati uniti rientreranno nel Jcpoa o se gli altri firmatari troveranno il modo di compensare il ritiro americano. Il presidente Rohani, e il ministro degli esteri Javad Zarif, sono convinti che restare nei termini dell’accordo sia nell’interesse dell’Iran.

Fronte nucleare interno

Ma è chiaro che la posizione di Rohani è sempre più difficile da tenere, in Iran. Quelli che hanno accusato Rohani di “svendere” gli interessi nazionali, ora possono dire “non bisognava fidarsi degli Stati uniti che firmano un accordo e non lo rispettano”. E dopo il sabotaggio a Natanz le voci contrarie all’accordo nucleare hanno alzato il volume. In parlamento è stato detto che il sabotaggio è frutto delle “infiltrazioni” di “spie” sotto la copertura dell’Aiea. Un gruppo di deputati sta raccogliendo firme su un progetto di legge per il ritiro “automatico” dell’Iran dall’Accordo nucleare nel caso che l’Onu torni a imporre le sue sanzioni come chiesto da Washington. Altri vorrebbero che l’Iran si ritirasse anche dal Trattato di Non Proliferazione, il Tnp, quello da cui discende l’Aiea con tutta la sua architettura di ispezioni e controlli (a cui l’Iran si è sempre sottoposto, si fa notare, al contrario di molti paesi della regione, Pakistan e India a est, Israele a ovest). C’è chi ha detto che l’Iran dovrebbe fare come la Corea del Nord, non subisce attacchi un paese che ha fatto davvero un test nucleare.

Posizioni simili ben poco realistiche, neanche ora che le correnti oltranziste dominano il parlamento: i processi decisionali su questioni di sicurezza nazionale non passano per il Majlis ma per un complicato equilibrio di poteri rappresentati nel Consiglio supremo di sicurezza nazionale, e in ultima istanza sono sanzionati dal Leader, prima autorità dello stato. Ma la crescente retorica antiaccordo è un segno del clima politico. E dopo il sabotaggio a Natanz, appare anche più giustificata.

Falchi americani e falchi iraniani

Il punto è proprio questo. Come in uno specchio, la guerra scatenata dall’amministrazione di Donald Trump ha fatto un enorme favore alle correnti più oltranziste della Repubblica Islamica. Attentati e sabotaggi infatti fanno parte di una vera e propria guerra: non dichiarata, non l’invasione spesso evocata dai falchi e sostenitori del “regime change” che albergano nella Casa Bianca (rappresentati ora dal segretario di stato Mike Pompeo). Ma pur sempre una guerra: in forma militare, come con l’attacco mirato che ha ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad lo scorso gennaio, o la guerra economica condotta con le sanzioni. O ancora con le provocazioni, come i jet statunitensi che volano pericolosamente vicino a un aereo civile iraniano. Le provocazioni si moltiplicano: come quando Mike Pompeo è intervenuto alla Convention Repubblicana in videoconferenza da Gerusalemme rivendicando l’uccisione di Soleimani. L’ultima nomina della Casa Bianca alla carica di “inviato per l’Iran” è l’ennesimo segnale di ostilità: Elliott Abrams, è un autentico falco, già coinvolto nell’affare Iran-Contras durante l’amministrazione Reagan.

Ciò non farà crollare il regime. Il muro di sanzioni pesa sull’economia, certo, e sulla vita quotidiana degli iraniani; i sabotaggi e le provocazioni infliggono danni e alzano la tensione in modo pericoloso: ma tutto ciò non spingerà l’Iran a tornare al tavolo dei negoziati con gli Stati uniti (che sarebbe l’obiettivo teorico dichiarato dall’amministrazione Trump).

Invece, ha contribuito a cambiare l’equilibrio dei poteri a Tehran: a screditare i fautori del dialogo, l’amministrazione di Hassan Rohani, i “pragmatici” che avevano riaperto l’Iran al mondo (e allentato il clima di controllo interno: in un paese sotto attacco, anche le libertà civili sono schiacciate). Ha contribuito anche a rafforzare il potere e l’influenza della casta militare, che va ben oltre la difesa: le Guardie della rivoluzione hanno un ruolo essenziale nell’economia sotterranea che si espande proprio a causa delle sanzioni; gruppi industriali legati alle Guardie rilevano i contratti per grandi infrastrutture, petrolifere e non, abbandonate dalle imprese occidentali timorose di incorrere nelle ritorsioni americane.

Qualche scacco allo strapotere americano

In questo quadro però sorgono degli intoppi. Gli Stati uniti hanno subito una rara sconfitta al Consiglio di sicurezza dell’Onu, quando in agosto non sono riusciti a far passare una risoluzione per reimporre sanzioni delle Nazioni unite all’Iran, tra cui un embargo sulle vendite di armi (quello attualmente in vigore scade in ottobre, ai sensi del Jcpoa): la risoluzione Usa ha raccolto solo il voto della Repubblica Dominicana, mentre gli altri 13 membri del Consiglio di sicurezza hanno votato contro o si sono astenuti, inclusi i tradizionali alleati europei. [Sulla minaccia rappresentata dall’Iran, è utile ricordare che Tehran spende per la difesa una frazione rispetto ai paesi vicini, secondo il Stockholm International Peace Research Institute: il budget della difesa iraniano era stimato a quasi 13 miliardi di dollari nel 2019, contro i 62 miliardi dell’Arabia Saudita, i 20,4 miliardi per Israele (e lo stanziamento di 732 miliardi nel budget statunitense)].

Gli Stati uniti hanno allora tentato la carta di avviare il “meccanismo di arbitrato” (dispute mechanism) previsto dal Jcpoa, cioè il meccanismo legale che i firmatari dell’accordo possono avviare se uno dei partecipanti viola gli accordi, e che dovrebbe portare a sanzioni entro 30 giorni. Gli altri firmatari degli accordi però hanno osservato che Washington non è più un membro del Jcpoa, da cui si è ritirato nel 2018, quindi non ha il potere di avviare il meccanismo legale di sanzioni. Commentatori americani hanno osservato con disappunto che invece di isolare l’Iran, l’amministrazione Trump ha messo gli Usa in una posizione imbarazzante.

Mentre l’Iran ha avuto l’occasione di mostrare che in fondo sa prendere decisioni pragmatiche. Il 26 agosto infatti ha annunciato un accordo con l’Aiea, che chiedeva accesso a due siti atomici per ispezioni. L’accordo è stato annunciato insieme dal direttore dell’Agenzia iraniana per l’energia atomica, ali Akbar Salehi, e dal direttore generale dell’Aiea Rafael Grossi al termine di una missione di quest’ultimo a Tehran. L’Iran “dà volontariamente accesso” ai due siti interessati, è stato detto. Una data per la visita degli ispettori è stata concordata (“molto presto”, ha aggiunto Grossi). La questione non riguarda direttamente il Jcpoa (su questo, le ispezioni dell’Aiea non sono mai state interrotte). L’Iran applica un “Protocollo addizionale” che permette all’Aiea ispezioni ulteriori: ma in gennaio si era vista negare l’accesso per verifiche in due siti dove sarebbero state condotte nei primi anni Duemila attività di conversione dell’uranio e test su esplosivi che potrebbero alludere a attività belliche: dubbi che l’Aiea chiede di chiarire dopo aver ricevuto informazioni da Israele (sulla base, pare, di documenti che i servizi israeliani erano riusciti a trafugare dall’Iran). Il fatto che le illazioni siano arrivate da Israele aveva provocato le rimostranze iraniane. Durante la sua visita, Grossi ha precisato che l’Aiea non vuole “politicizzare” la questione. Il comunicato congiunto afferma che «sulla base delle sue informazioni, l’Aiea non ha ulteriori richieste di accesso» con l’Iran: la questione sembra chiusa.

La linea del dialogo dunque tiene – per ora. Ma è precaria: in attesa che gli europei facciano funzionare i canali commerciali con l’Iran, che la cooperazione prevalga sulle provocazioni. In attesa, soprattutto, delle elezioni presidenziali statunitensi: di sapere se alla Casa Bianca siederà il democratico Joe Biden, che promette di riportare gli Stati uniti nell’accordo nucleare con l’Iran, o il presidente Trump che continuerà a perseguire la sua “massima pressione”.

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Flint, Michigan: il piombo nell’acqua e i tagli in bilancio https://ogzero.org/flint-michigan-il-piombo-nellacqua-e-i-tagli-in-bilancio/ Fri, 21 Aug 2020 07:40:21 +0000 http://ogzero.org/?p=1095 Lo stato del Michigan dovrà pagare 600 milioni di dollari come risarcimento alle vittime dell’inquinamento dell’acqua pubblica nella città di Flint; migliaia di residenti hanno intentato una causa contro lo stato e dopo 18 mesi di trattative il giudice federale Judith E. Levy (di nomina obamiana nel 2014) ha sancito che chiunque abbia abitato nella […]

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Lo stato del Michigan dovrà pagare 600 milioni di dollari come risarcimento alle vittime dell’inquinamento dell’acqua pubblica nella città di Flint; migliaia di residenti hanno intentato una causa contro lo stato e dopo 18 mesi di trattative il giudice federale Judith E. Levy (di nomina obamiana nel 2014) ha sancito che chiunque abbia abitato nella città tra il 2014 e il 2016 riceverà una somma di denaro proporzionata al danno subito entro la primavera del 2021. I lavori di ripristino dell’acquedotto si sarebbero dovuti completare entro gennaio 2020, ma sono stati interrotti a causa della pandemia e sono ripresi solo nel mese di giugno. Nel frattempo la popolazione, per anni, ha dovuto consumare solo acqua in bottiglia per cucinare, lavarsi, bere…

In questo articolo i particolari di quanto accaduto raccontati da Marina Forti e i dettagli della ricaduta sociale di una simile crisi in una città tra le più povere del paese e abitata per la maggior parte da neri, situazione che evidentemente non può non avere avuto un peso nelle decisioni prese dalle istituzioni riguardo i tagli di bilancio. Tema quanto mai attuale, quello del trattamento riservato ai cittadini di serie B afroamericani, se si pensa al movimento di rivendicazione “Black lives matter” attivo in tutto il mondo, che qui a Flint ha trovato particolare sviluppo. [OGzero]


Per oltre un anno i residenti di Flint, nello stato del Michigan, Usa, hanno visto uscire dai loro rubinetti acqua giallastra e maleodorante. Le loro proteste però sono state ignorate dalle autorità, perfino quando le prime analisi hanno rivelato che quell’acqua era piena di piombo, e i medici hanno cominciato a trovare piombo nel sangue dei bambini sotto i 5 anni. Solo parecchi mesi dopo l’allarmante scoperta, il governatore del Michigan, Rick Snyder, ha dichiarato lo stato d’emergenza; poi però è emerso che il governatore e il suo staff erano informati del problema, e anche i dirigenti dell’Ente federale di protezione ambientale ne erano al corrente, e ppure nessuno aveva fatto nulla, fino a quando gruppi di cittadini, ricercatori e giornalisti hanno fatto scoppiare lo scandalo.

Il caso di Flint, centomila abitanti al censimento del 2010, città una volta nota come quartier generale della General Motors, è molto più che un episodio di gestione irresponsabile da parte di alcuni funzionari pubblici. Chiama in causa la logica che porta a sacrificare la salute dei cittadini in nome dei tagli di bilancio, e probabilmente anche una discreta dose di quello che molti chiamano “razzismo istituzionale”, ovvero il disprezzo per una popolazione in gran parte nera e povera in una ex città operaia. Un meccanismo di profonda ingiustizia che ha negato a un’intera cittadinanza l’accesso all’acqua potabile. Vediamo perché.

Tutto è cominciato alla fine nel 2013, quando un commissario speciale nominato dal governatore Snyder per risanare i conti dell’amministrazione di Flint ha deciso di chiudere il contratto di fornitura con l’ente idrico della vicina città di Detroit (che attinge dal lago Huron) e di costruire un proprio sistema di approvvigionamento. Questo però richiedeva alcuni anni di lavori e nel frattempo l’acquedotto cittadino avrebbe attinto dal fiume Flint. In tempi di tagli di bilancio, con enti locali indebitati, l’amministrazione avrebbe risparmiato 5 milioni di dollari nel primo anno e 19 milioni nell’arco di 8 anni – così fu detto alla cittadinanza.

Dunque il 25 aprile del 2014, in nome del risanamento finanziario, l’acquedotto di Flint è stato collegato al fiume omonimo, la stampa locale ha cominciato molto presto a raccogliere lamentele dei residenti, che parlavano di acqua giallastra, maleodorante: «Gli abitanti hanno capito subito che l’acqua era cattiva: aveva un colore orribile, il sapore era cattivo, l’odore cattivo», ha poi testimoniato Curt Guyette, giornalista investigativo che lavora con la American Civil Liberties Union (Aclu) del Michigan e ha contribuito a far emergere lo scandalo.

Per mesi però i cittadini si sono sentiti dire che l’acqua era perfettamente sicura, finché, ormai nei primi mesi del 2015, una residente, LeeAnn Walters, è riuscita a far analizzare la sua acqua dalle autorità, ed è risultato che conteneva oltre 100 parti per miliardo di piombo. Il piombo è un elemento tossico, non esiste una soglia definibile «sicura». Le norme federali Usa considerano che 15 parti per miliardo sia il livello di guardia, e che superato questo limite c’è un rischio per la salute che impone di intervenire. A Flint però nessuno è intervenuto.

Nel frattempo alcuni ricercatori di Virginia Tech, il Politecnico dell’Università della Virginia, a cui si erano rivolti alcuni cittadini, hanno cominciato a raccogliere campioni e analizzare l’acqua che esce dai rubinetti delle case di Flint, sotto la direzione del professor Marc Edward. È stato un vero e proprio lavoro di mobilitazione popolare, con squadre di dottorandi che hanno distribuito ai residenti oltre 300 kit per raccogliere i campioni d’acqua. I ricercatori hanno poi creato un sito web, FlintWaterStudy.org, dove pubblicavano man mano i risultati delle analisi, strada per strada. Il 2 settembre 2015 hanno diffuso le prime conclusioni della loro ricerca: dicevano che l’acqua dell’acquedotto di Flint conteneva livelli preoccupanti di sostanze corrosive, e «questo provoca una minaccia alla salute pubblica nelle case che hanno tubature di piombo», spiegavano.

Allarmata da quanto stavano scoprendo i ricercatori di Virginia Tech, una pediatra del Hurley Medical Center, l’ospedale di Flint, ha pensato di esaminare il sangue dei bambini. La dottoressa Mona Hanna-Attisha ha osservato il livello di piombo nel sangue dei bambini sotto i 5 anni e l’ha confrontato con i dati delle analisi degli anni precedenti: è risultato che il numero di bambini con altissimi livelli di piombo nel sangue era schizzato in alto da quando la città beve dal fiume Flint.

L’attenzione ormai era alta. Il primo rapporto di Virginia Tech è stato diffuso quando ormai un ampio fronte di comitati civici aveva raccolto 26 000 firme su una petizione rivolta al sindaco di Flint, Dayne Walling, per chiedere di tornare alla fornitura del sistema idrico di Detroit. Le autorità però continuavano a negare che esistesse un pericolo per la salute pubblica. Attivisti sociali e giornalisti indipendenti hanno cominciato a loro volta ad analizzare campioni d’acqua. Le proteste sono aumentate. Infine le autorità pubbliche hanno riconosciuto ciò che ormai tutti sospettavano (e alcuno avevano cercato di provare): l’acqua dei rubinetti di Flint non era da bere: il 1° ottobre 2015 il governatore Snyder ha stanziato 12 milioni di dollari perché l’acquedotto di Flint tornasse ad allacciarsi al sistema di Detroit, cosa che è avvenuta il 15 ottobre. I cittadini della città del Michigan avevano bevuto acqua contaminata per un anno e mezzo.

Il danno però era fatto, e per molti bambini rischia di essere irreversibile, perché il piombo agisce sullo sviluppo del cervello e del sistema nervoso, con effetti profondi e permanenti. In seguito un’indagine del Center for Desease Control and Prevention (Cdcp) di Atlanta, il maggiore centro pubblico Usa per la ricerca epidemiologica e sulla prevenzione delle malattie, ha confermato che i bambini sotto i sei anni che hanno bevuto quell’acqua hanno il 50 per cento di probabilità di avere un livello allarmante di piombo nel sangue.

Le indagini hanno ormai chiarito che l’acqua del fiume Flint contiene sostanze corrosive in misura tale che in breve hanno cominciato a corrodere le vecchie tubature di ghisa della città (oltre metà dell’acquedotto di Flint ha più di 75 anni): ora è chiaro che gli amministratori non avevano fatto tutte le necessarie analisi sulla qualità dell’acqua di quel fiume prima di immetterla nell’acquedotto. Paradossale: nell’ottobre 2014 General Motors aveva smesso di usare l’acqua prelevata dal fiume Flint perché faceva arrugginire i suoi motori. I motori hanno ricevuto più attenzione degli esseri umani.

Eppure l’allora sindaco Dayne Walling, aveva segnalato il problema al governatore del Michigan già all’inizio dell’anno, parecchi mesi prima che scoppiasse lo scandalo: lo si deduce da un promemoria datato 1° febbraio 2015, inviato al governatore Snyder dal suo staff, in esso si diceva che «il sindaco [di Flint] cavalca il panico pubblico… per chiedere allo stato di condonargli il debito e ottenere soldi per migliorie delle infrastrutture». Lo stesso promemoria liquidava le lamentele dei cittadini per quell’acqua giallastra e di cattivo sapore, dicendo che la Safe Drinking Water Act (la legge federale sull’acqua potabile) «non regolamenta l’aspetto estetico dell’acqua».

Quel documento non parlava di piombo, ma citava la corrosione delle tubature e i trialometani (gruppo di sostanze usate nella disinfezione), che in concentrazioni alte possono causare tumori. Insomma, fin dal febbraio 2015 l’ufficio del governatore del Michigan aveva abbastanza elementi da suggerire quantomeno una indagine accurata sulla situazione. Invece nulla, la nota al governatore Snyder tagliava corto: «Sarebbe un problema di salute pubblica solo in caso di esposizione cronica, a lungo termine». Un anno dopo, quel memorandum al governatore è diventato parte dello scandalo.

L’emergenza a Flint non è finita. Certo, la città è tornata ad attingere l’acqua dal lago Huron (via l’acquedotto di Detroit), ma gli effetti della contaminazione perdurano. Tanto che il 5 gennaio 2016 il governatore Snyder ha dichiarato lo stato d’emergenza, stanziando 28 milioni di dollari per interventi sanitari e infrastrutturali immediati, mentre infuriavano le polemiche sulle responsabilità di un tale caso di avvelenamento pubblico.

Il 16 gennaio 2016 è intervenuta la Casa Bianca: il presidente Usa, Barack Obama, ha emesso una dichiarazione d’emergenza per lo stato del Michigan e ordinato aiuti federali in aggiunta a quelli ormai disposti dal governo locale (l’intervento presidenziale è stato visto come una implicita critica al governatore, ormai accusato da più parti di aver sottovalutato la situazione). La Fema, l’agenzia federale per le emergenze, è arrivata a Flint a distribuire ai cittadini acqua, filtri, kit per le analisi (l’emergenza è stata poi estesa fino all’agosto 2016).

Bombardato di accuse, il 19 gennaio del 2016, durante il suo discorso annuale su «lo stato dello stato», il governatore Snyder si è scusato con i cittadini per lo “spiacevole” disservizio. Qualche giorno dopo, nel tentativo di parare lo scandalo, ha anche diffuso quasi 300 pagine di e-mail (tra cui la citata nota del suo staff) come chiesto dalle associazioni di cittadini. Il suo portavoce intanto continuava a ripetere che il governatore non ha saputo della gravità del problema fino al 1° ottobre, quando ha preso le misure necessarie. Ma sembra una tesi difficile da sostenere.

Anche perché ormai piovevano le rivelazioni. È emerso per esempio che le autorità federali avevano cominciato a indagare sul caso di Flint già nel febbraio 2015, e che almeno da aprile l’ente di protezione ambientale, Epa, era consapevole che mancava un sistema di controllo sulla corrosione delle tubature: lo ha confermato la responsabile dell’Epa nel Michigan, Susan Headman (poi criticata per aver lasciato quell’informazione nel cassetto).

Insomma: le autorità sanitarie sapevano, il governatore anche, ma hanno lasciato che i cittadini bevessero acqua avvelenata. I ricercatori di Virginia Tech dicono che tutto si poteva evitare filtrando l’acqua, con una spesa di appena 100 dollari al giorno.

Nell’estate 2016 c’erano ancora allarmi sanitari a Flint; i ricercatori di Virginia Tech stavano analizzando una possibile contaminazione da legionellosi, malattia respiratoria causata da un batterio che si diffonde tramite aerosol o acqua contaminata.

Alla fine, la crisi dell’acqua a Flint sarà costata allo stato del Michigan molto più di quanto pretendeva di risparmiare somministrando ai cittadini l’acqua di un fiume contaminato: dopo il primo stanziamento d’emergenza di 28 milioni del gennaio 2016, il governatore Snyder ha stanziato altri 30 milioni per crediti sulle bollette dell’acqua per il 65 per cento dei residenti. Il 29 giugno infine ha approvato la spesa di 165 milioni di dollari per sostituire le vecchie tubature soggette a corrosione.

Molti si sono chiesti se tutto questo sarebbe successo anche in una città di bianchi. Perché Flint è abitata al 56 per cento da neri; è anche una delle città più povere del paese, in piena rust belt («cintura della ruggine», allusione alla deindustrializzazione). Non è più la città operaia raccontata da Ben Hamper in Revithead, entrata in profonda crisi quando la General Motor ha chiuso quasi tutte le sue attività produttive, ormai in città la disoccupazione è altissima, la povertà è la regola, 41 per cento degli abitanti sono considerati sotto la soglia di povertà, mentre i residenti più benestanti se ne sono andati. Proprio come è successo nella vicina Detroit. Ovvio che le amministrazioni municipali vanno in bancarotta: chi poteva pagare tasse è andato via. Alla radice di questa crisi c’è una profonda ingiustizia.

Per aggiungere beffa al danno, nella primavera 2016 il dipartimento alle finanze del comune di Flint ha annunciato un’ondata di distacchi dell’acqua a cittadini che non pagano la bolletta. L’annuncio ha suscitato un coro di indignazione.

La crisi dell’acqua a Flint rimanda ovviamente anche a responsabilità penali: nell’aprile 2016 il procuratore generale dello stato del Michigan, Bill Schuette, ha formalmente incriminato tre persone: due dirigenti del Dipartimento statale responsabile dei controlli ambientali (Mdeq), accusati di «condotta criminale» in violazione alla legge federale sul’acqua potabile (Clean Water Act) e di aver deliberatamente falsificato prove della contaminazione; e l’ex responsabile della gestione dell’acqueotto per aver falsificato le informazioni sulla qualità dell’acqua.

Al di là delle responsabilità penali però, molti a Flint continuano a chiedere le dimissioni del governatore dello stato, Rick Snyder, per il deliberato avvelenamento di una intera popolazione.

 

Cfr. per il testo di Marina Forti Guerra all’acqua. La riduzione delle risorse idriche per mano dell’uomo, a cura di Alessandro C. Mauceri con la collaborazione di Marina Forti, Torino, Rosenberg & Sellier, 2016

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L’Iran da Astana all’Eurasia https://ogzero.org/liran-da-astana-alleurasia/ Sun, 02 Aug 2020 22:20:34 +0000 http://ogzero.org/?p=990 Massima pressione americana e scenario multilaterale regionale È passato inosservato l’ultimo vertice dei presidenti di Russia, Turchia e Iran, riuniti il 1° luglio scorso (in videoconferenza) per discutere gli ultimi sviluppi della situazione in Siria. Il virtuale incontro però aveva la sua importanza. Per cominciare, ha riaffermato che il cosiddetto “processo di Astana” non è […]

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Massima pressione americana e scenario multilaterale regionale

È passato inosservato l’ultimo vertice dei presidenti di Russia, Turchia e Iran, riuniti il 1° luglio scorso (in videoconferenza) per discutere gli ultimi sviluppi della situazione in Siria. Il virtuale incontro però aveva la sua importanza. Per cominciare, ha riaffermato che il cosiddetto “processo di Astana” non è defunto, come molti andavano annunciando.

Con questo nome si indica la serie di colloqui cominciata del dicembre 2016 nella città di Astana (Kazakhstan) per iniziativa di Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdoğan e Hassan Rohani con l’inviato del segretario generale dell’Onu per la Siria: una iniziativa diplomatica per la pace in Siria, parallela agli (inconcludenti) colloqui sponsorizzati dall’Onu a Ginevra. Il format di Astana ha portato nel settembre 2017 a un accordo per istituire quattro “zone di de-escalation” nel territorio siriano, di cui le tre potenze si sono fatte “garanti”.

Non entreremo qui nei dettagli di come questi accordi si sono tradotti sul terreno: che la Siria sia ancora lontana da una effettiva stabilizzazione è sotto gli occhi di tutti. Il punto che qui interessa è che sotto lo stravagante format intitolato a una citta kazakha abbiamo tre potenze regionali che discutono compromessi e accordi in uno scenario, la Siria e il Vicino Oriente, dove però le rispettive agende politiche sono diverse e spesso in aperto conflitto. A cominciare dal fatto che la Turchia appoggia le formazioni ribelli sunnite che cercano di rovesciare il governo di Bashar al Assad, mentre la Russia e l’Iran si sono adoperati anche militarmente per tenerlo in piedi.

Più in particolare, il vertice di luglio è stato il primo da quando Turchia da un lato, Russia e Iran dall’altro si sono scontrati nella provincia di Idlib, la più ampia delle zone di “de-escalation” (la tensione era salita in febbraio con 33 militari turchi uccisi da un raid attribuito a jet russi, a cui la Turchia ha risposto attaccando forze del regime siriano e milizie sciite filoiraniane). Una relativa calma è tornata dopo che Erdoğan in marzo è volato a Mosca e ha concordato con Putin un cessate il fuoco, con un meccanismo di “corridoi di sicurezza” per garantire le vie di comunicazione, e di pattugliamenti comuni che però dovrebbe preludere alla ripresa di controllo delle forze di Damasco sulla provincia di Idlib (ovvero, sembrerebbe che Ankara abbia dovuto accettare le condizioni russe). In realtà molti segnali dal terreno fanno temere una ripresa di ostilità.

 

Integrazione attraverso scambi, favori e relazioni complicate

Eppure il comunicato congiunto del vertice tripartito lascia intendere che la Russia lascerà alla Turchia più tempo per concludere ciò che si è impegnata a fare nel quadro degli accordi di Astana, e cioè mettere sotto controllo i ribelli jihadisti siriani che operano nella provincia di Idlib. Le variabili sono numerose e complicate: dalla dinamica tra le formazioni ribelli più dipendenti dal sostegno turco (come Hayat Tahrir Shams) e quelle più radicali – al controllo delle province nordorientali a maggioranza kurda, che la Turchia considera una propria zona di pertinenza (tanto che occupa un’ampia “zona cuscinetto” con l’accordo di fatto degli Usa e anche della Russia). Concedere alla Turchia di occupare altro territorio siriano-kurdo potrebbe diventare moneta di scambio per recuperare zone strategiche controllate dai ribelli sunniti più a sud. Altre variabili poi ci porterebbero in Libia, un altro teatro di guerra internazionalizzata dove Mosca e Ankara sono su fronti contrapposti: le due crisi sono molto intrecciate.

Tutto questo dice quanto sia ancora lontano un assetto stabile che sia preludio alla pace in Siria. Intanto però il format di Astana afferma la sua esistenza sulla scena mediorientale come un fronte politico-diplomatico contrapposto a quello a conduzione statunitense.

La dichiarazione dei tre presidenti per esempio se la prende con «l’appropriazione e trasferimento illegale di risorse petrolifere che appartengono alla Repubblica Araba di Siria», allusione alle forze degli Stati Uniti che presidiano due campi petroliferi nella provincia nord-orientale siriana, la cui amministrazione autonoma curda (controllata dalle Forze democratiche siriane, filo Usa) ha di recente concesso a compagnie Usa il diritto di commercializzare il petrolio estratto. I tre presidenti ribadiscono inoltre l’impegno a difendere «sovranità, indipendenza e integrità territoriale» della Siria, quindi a «respingere iniziative illegali di autogoverno» – riferimento alla tentazione di affermare un’autonomia territoriale curda nel Nordest difesa dagli Usa. Condannano le sanzioni statunitensi contro la Siria.

La dichiarazione congiunta poi condanna «gli attacchi militari di Israele in Siria», e questa è una concessione al presidente Rohani: si riferisce alla serie di raid condotti nelle ultime settimane da forze israeliane contro obiettivi iraniani e delle milizie filoiraniane intorno a Damasco (l’ultimo episodio è del 20 luglio). Ma proprio questo è anche un esempio di come il format tripartito copra agende molto diverse. Infatti è dubbio che la Russia abbia davvero intenzione di reagire agli attacchi di Israele contro obiettivi iraniani in Siria. C’è perfino chi parla di un vero e proprio accordo dietro le quinte tra Mosca e Tel Aviv (che peraltro hanno intensi contatti diplomatici) per ridimensionare le milizie filoiraniane, e in generale la presenza dell’Iran in Siria.

Lo scenario è complicato, e anche le relazioni tra Tehran e Mosca lo sono. Nel 2015 l’Iran ha concesso ai jet russi in partenza dalle basi nella regione del Caucaso di sorvolare il proprio spazio aereo per andare a bombardare le postazioni dello Stato islamico in Siria, e a Tehran la cosa era presentata come il primo passo di una nuova alleanza strategica con Mosca. L’occasione era la comune “guerra alla Stato islamico”, o Daesh secondo l’acronimo in arabo (pare che ai russi interessasse in particolare colpire le milizie cecene all’interno delle formazioni jihadiste). L’Iran aveva già mandato forze speciali sul terreno a sostenere l’esercito governativo e organizzare milizie; l’entrata in gioco della Russia ha contribuito in modo decisivo a cambiare le sorti militari del conflitto siriano e salvato il regime di Assad.

Dal punto di vista dell’Iran, l’interesse strategico in Siria è evidente. Si tratta di un raro “paese amico” tra i vicini arabi (e da lunga data: negli anni Ottanta Damasco con Hafez al Assad, è stata l’unica capitale araba a non appoggiare l’invasione dell’Iran da parte dell’Iraq di Saddam Hussein), e di un’area di influenza strategica importante, via di comunicazione verso il Mediterraneo, accesso verso l’alleato movimento di Hezbollah in Libano: dunque quella che Tehran considera la sua “profondità strategica” nei confronti di Israele. Vedere a Damasco un governo sunnita di stampo saudita sarebbe per Tehran un disastro da evitare a tutti i costi. Per questo ha sostenuto l’esercito governativo siriano e varie milizie filogovernative, spesso addestrate e organizzate dalle Guardie della rivoluzione iraniana (anche se nessuno ne darà mai conferma ufficiale): cosa che continuerà finché le varie reincarnazioni di Daesh e di al-Qaeda avranno i loro sponsor. L’obiettivo iraniano è assicurarsi in futuro che a Damasco sieda un governo non ostile. Anche la Russia, che ha in Siria la sua unica base militare nel Mediterraneo, ha tutto l’interesse a garantirsi in Siria un governo amico.

Le convergenze di interessi però non sono eterne, e comunque non esclusive. Le milizie organizzate dalle Guardie della Rivoluzione iraniane in Siria (e in Iraq) sono state fondamentali per respingere l’offensiva dello Stato islamico (e il principale artefice di questo successo sul terreno è stato il comandante delle forze speciali al Qods, Qassem Soleimani, poi ucciso da un raid statunitense nei primi giorni di gennaio 2020 a Baghdad). Ma quelle milizie sono diventate ingombranti per molti, sia in Iraq che in Siria: che esista o meno un accordo dietro le quinte tra Israele e Russia, entrambe le parti hanno interesse a ridimensionare l’influenza iraniana sul terreno.

Questo non significa che l’alleanza strategica sia finita. E in ogni caso non impedirà a Russia, Turchia e Iran di tenere “al più presto” il prossimo vertice del “processo tripartito”, questa volta in presenza a Tehran su invito del governo iraniano (ma non c’è ancora una data).

 

Astana per uscire dall’isolamento: cooperazione e infrastrutture

Come valutare il “processo di Astana”, visto da Tehran? Per rispondere bisogna allargare lo sguardo. L’Iran ha un evidente interesse a far parte di una sede di diplomazia multilaterale. In primo luogo per restare nel gioco regionale: riaffermare che una soluzione per la Siria non può prescindere da tutte le parti in causa nella regione, e l’Iran è una di queste (si ricordi che i primi, vani tentativi di dialogo sulla Siria promossi in sede Onu avevano escluso l’Iran a causa del veto Usa: solo dopo l’accordo sul nucleare del 2015, su insistenza russa, i rappresentanti di Tehran sono stati ammessi ai “colloqui sulla Siria” – benché finora inconcludenti).

L’interesse però va oltre la Siria, per quanto importante. Il punto è che la Repubblica Islamica dell’Iran fa i conti con uno storico accerchiamento nella regione: politico, diplomatico, a volte militare (come quando le truppe Usa si trovavano in Iraq, in Afghanistan, oltre a pattugliare il Golfo Persico). L’accordo sul nucleare del 2015 (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa, firmato da sei potenze mondiali e dall’Iran) aveva rotto l’isolamento. Ma da quando nel maggio 2018 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha deciso di buttare alle ortiche l’accordo, intorno all’Iran si è costruito un nuovo blocco: un muro di sanzioni senza precedenti. Benché unilaterali, il sistema di sanzioni Usa riesce a isolare l’Iran grazie al ricatto delle sanzioni secondarie (che colpiscono aziende e paesi terzi che abbiano contatti commerciali con Tehran). È la strategia della “massima pressione”. Non che sia riuscita a far crollare l’Iran, e difficilmente ci riuscirà: ma certo sta pesando molto. Dal crollo delle esportazioni di greggio alla difficoltà di acquistare pezzi di ricambio industriali, derrate alimentari o materiale medico, gli iraniani stanno pagando un prezzo molto alto.

L’Iran ha un disperato bisogno di rompere questo isolamento. Per questo, con il “programma tripartito” di Astana e ben oltre, l’Iran ha un interesse fondamentale ad approfondire la cooperazione strategica con la Russia, come del resto con la Cina. E con i paesi vicini. Con la Turchia in particolare l’Iran ha legami di vecchia data, sia politici che commerciali, culturali, umani (la Turchia è tra i pochissimi paesi dove i cittadini con passaporto iraniano non abbiano bisogno di un visto d’ingresso). Benché spesso in concorrenza sulla scena regionale, Tehran e Ankara mantengono una “cooperazione strategica” nell’interesse reciproco.

Tanto più importante è la sponda russa. Il 22 luglio scorso il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif ha concluso una missione a Mosca, dove ha portato un “messaggio speciale” del presidente Hassan Rohani a Vladimir Putin (il contenuto del messaggio non è stato diffuso), e dove ha discusso con il suo omologo, il ministro degli esteri Sergey Lavrov, una serie di questioni bilaterali e di coordinamento regionale. Non sapremo cosa si sono detti circa lo scacchiere siriano. Sappiamo però che Iran e Russia hanno concordato di definire un nuovo accordo ventennale di cooperazione strategica, che vada oltre quello attualmente in vigore (che scade in marzo).

Analogo accordo è quello che l’Iran ha in ballo con la Cina: un accordo venticinquennale di cooperazione economica e di sicurezza, che secondo alcune fonti sarebbe addirittura già stato firmato anche se finora è circolata solo una bozza ufficiosa e numerose illazioni (cosa che ha suscitato grandi critiche in Iran, e attacchi dell’opposizione conservatrice che accusa il governo di Rohani di “svendere” il paese). L’accordo è in discussione da quando il presidente Xi Jinping in visita a Tehran nel 2016 ne ha parlato con l’ayatollah Ali Khamenei, e tratterà di energia, telecomunicazioni, infrastrutture come porti e ferrovie – e del petrolio che la Cina comprerà dall’Iran.

Gli accordi di cooperazione con Russia e Cina sono di sicuro il tentativo, per l’Iran, di allentare la “massima pressione” statunitense cercando la partnership di due potenze altre (entrambe membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu). Ma in entrambi i casi la cooperazione è cominciata ben prima dell’avvento di Trump a Washington. La realtà è che la “massima pressione” avrà solo accelerato una dinamica che sarebbe emersa comunque, la tendenza a una maggiore integrazione in quello spazio di scambi e relazioni politiche ed economiche spesso chiamato “Eurasia” e di cui l’Iran è un tassello centrale, in senso geografico e politico: in cui si incrociano corridoi di trasporti e progetti industriali, la Belt Road Initiative cinese, i gasdotti russi, ferrovie, porti (come quello Chabahar sulla costa iraniana, possibile sbocco nell’oceano Indiano per molte repubbliche centroasiatiche). Uno spazio multilaterale in cui Tehran sta a pieno titolo.

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La crisi iraniana ai tempi del coronavirus https://ogzero.org/la-crisi-iraniana-ai-tempi-del-coronavirus/ Tue, 28 Jul 2020 17:50:16 +0000 http://ogzero.org/?p=417 I dispacci del ministero della sanità iraniano non lasciano dubbi: in Iran il coronavirus ha ripreso a correre. I contagi sono in costante aumento e il numero totale dei decessi ufficialmente attribuiti al Covid-19 ha superato ormai le 17000 persone. L’allarme era scattato alla fine di giugno, con una media di oltre cento morti al […]

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I dispacci del ministero della sanità iraniano non lasciano dubbi: in Iran il coronavirus ha ripreso a correre. I contagi sono in costante aumento e il numero totale dei decessi ufficialmente attribuiti al Covid-19 ha superato ormai le 17000 persone. L’allarme era scattato alla fine di giugno, con una media di oltre cento morti al giorno; un mese dopo, il 27 luglio il portavoce del ministero della sanità ha avvertito che la media ormai supera i 200 decessi quotidiani. L’epidemia di Covid-19 così è tornata di prepotenza sulle prime pagine della stampa iraniana, da cui era pressoché scomparsa, con titoli allarmati: Il coronavirus uccide un iraniano ogni 12 minuti. Alcuni parlano di «seconda ondata», altri di «una nuova, pericolosa fase del coronavirus in Iran», e invitano a «prendere il coronavirus sul serio».

I messaggi di allarme sono alternati però a tentativi di rassicurare. Il 25 giugno il presidente Hassan Rohani aveva annunciato che l’uso della mascherina in pubblico sarebbe stato reso obbligatorio, ma aveva aggiunto che non sarebbe stato necessario chiudere gli esercizi commerciali – se tutti avessero mostrato senso di responsabilità e rispettato le norme del “distanziamento”. Alla fine di luglio, di fronte al contagio che continua ad aumentare, il viceministro della Sanità Iraj Harirchi ha osservato che è Tehran la «fonte di diffusione» del coronavirus nel resto del paese, visto che ogni giorno centinaia di migliaia di persone raggiungono l’area metropolitana per lavoro o altro. Un moltiplicatore di contagi sono «usanze e tradizioni locali» come feste e celebrazioni religiose: Harischi cita il caso di 120 persone infettate dopo aver partecipato alla stessa festa di matrimonio. Ha però aggiunto che il 95 per cento dei contagiati guarisce senza bisogno di particolari cure.

Sta di fatto che a metà giugno il ministero della sanità ha dichiarato “zona rossa” cinque province (Bushehr, Khuzestan, Est Azarbaijan, Kermanshah e Hormozgan, nel sud-ovest, ovest e nord del paese) e poi via via altre: ora sono 12, sul totale di 31.

Se basteranno le mascherine e gli appelli al distanziamento, resta da vedere. Intanto, la ripresa dell’epidemia pone un dilemma ai dirigenti della Repubblica Islamica dell’Iran, restìi ad ammettere che le restrizioni imposte in marzo sono state probabilmente tolte troppo presto.

All’inizio di marzo l’Iran era emerso tra i maggiori punti caldi della pandemia del coronavirus Sars-CoV-2 fuori dalla Cina (prima di essere superato dall’Italia). Colta di sorpresa, Tehran aveva dapprima cercato di minimizzare: il primo decesso ufficialmente attribuito al Covid-19 risale al 19 febbraio, ma solo il 5 marzo il governo iraniano ha dichiarato la “mobilitazione nazionale” per contenere l’epidemia. I media internazionali ne hanno riferito soprattutto per accusare le autorità iraniane di lentezza e avanzare dubbi sul conteggio ufficiale dei decessi, che molti in Iran e fuori considerano sottostimati. In effetti una analisi del Centro studi del Parlamento iraniano in aprile suggerisce che il numero reale dei decessi dovuti a Covid-19 sarebbe quasi il doppio di quello dichiarato dal ministero della sanità.

In ogni caso alla vigilia di Nowrooz, il capodanno persiano che quest’anno cadeva il 20 marzo, il governo ha imposto una chiusura generalizzata, benché non totale: chiuse scuole e università, sospese le preghiere del venerdì, annullate tutte le manifestazioni culturali e festival di ogni tipo, limitate le attività commerciali, scoraggiati (benché non vietati) gli spostamenti interni.

Poi però, a partire dall’11 di aprile il blocco è stato gradualmente revocato, nonostante il parere contrario di molti esperti di sanità pubblica: prima le attività “a basso rischio” poi via via tutto il resto (solo eventi culturali, cinema e moschee hanno prolungato la chiusura per tutto maggio).

Il punto è che l’epidemia ha colpito l’Iran in un momento difficile, tra crescenti tensioni internazionali e con un’economia già colpita dalla recessione e dalle sanzioni imposte dagli americani. E con un quadro politico interno decisamente spostato a favore delle fazioni conservatrici, opposte al presidente Rohani e alla sua linea di dialogo internazionale e moderazione interna: sono queste che dominano la nuova legislatura insediata formalmente il 27 maggio.

Per ironia, le elezioni parlamentari tenute il 21 febbraio sarebbero proprio uno dei motivi per cui il governo non aveva voluto dichiarare l’emergenza per il coronavirus né isolare il primo focolaio, registrato allora nella città di Qom, sede delle scuole teologiche molto presenti nella politica interna: temeva di scoraggiare la partecipazione al voto. Infatti era previsione unanime che l’affluenza alle urne sarebbe stata bassa, dopo mesi di crisi: la repressione delle proteste di novembre, l’escalation della tensione con gli Stati Uniti e l’uccisione del generale Soleimani, lo sconcertante episodio dell’aereo ucraino abbattuto per errore. Per non parlare dell’esclusione di gran parte dei candidati “riformisti”. E infatti la nuova legislatura, dominata dagli ultraconservatori, è stata eletta con il voto meno partecipato nella storia della Repubblica Islamica: appena il 42 per cento di affluenza, e solo il 25 per cento a Tehran (le precedenti elezioni parlamentari avevano visto votare il 61 per cento degli elettori, e per le presidenziali del 2017 alle urne si era recato il 73 per cento degli aventi diritto).

Perché l’Iran è uscito dal “lockdown”

Rimettere in moto l’economia era “una necessità” per il paese,  ha argomentato il presidente Rohani in un discorso del 22 aprile: l’Iran non poteva permettersi di prolungare il blocco.

Per capire perché il presidente Rohani abbia preso una decisione così rischiosa sul piano sanitario bisogna ricordare che già prima dell’epidemia, l’Iran era in recessione profonda. Il Prodotto interno lordo aveva registrato una crescita negativa del 7 per cento nell’anno fiscale concluso il 20 marzo (secondo il Fondo monetario internazionale la decrescita sarebbe più profonda, meno 9,5). L’inflazione aveva raggiunto il 41 per cento secondo la stima della Banca centrale iraniana, un livello che non si vedeva dalla fine della disastrosa presidenza di Ahmadi Nejad.

Tutto questo è in buona parte conseguenza della nuova ondata di sanzioni decretata dagli Stati uniti a partire dal maggio 2018, quando il presidente Donald Trump ha deciso di ritirarsi dall’accordo sul nucleare (il Joint Comprehensive Plan of Action, o Jcpoa) firmato nel 2015 dall’Iran e da sei potenze mondiali (Usa, Russia, Cina, e da Francia, Regno unito e Germania in rappresentanza dell’Unione europea). Tre anni dopo le grandi speranze aperte da quell’accordo, per l’Iran è cominciata una nuova stagione di isolamento economico.

Le sanzioni decretate da Washington infatti sono particolarmente pesanti, benché unilaterali, sia perché gli Usa bloccano l’accesso dell’Iran al circuito bancario internazionale, sia perché con il meccanismo delle sanzioni secondarie colpiscono anche i soggetti di paesi terzi che mantengono relazioni economiche con Tehran. I paesi europei firmatari del Jcpoa hanno più volte proclamato la volontà di mantenere aperti canali commerciali con l’Iran; a questo dovrebbe servire uno strumento finanziario chiamato Instex, lungamente discusso e varato infine nel gennaio del 2019: ma senza grandi conseguenze pratiche;  la prima e per ora unica transazione di merci con questo meccanismo è avvenuta nel marzo del 2020.

La prima conseguenza che le esportazioni iraniane sono crollate e le importazioni sono diventate più care. In particolare è crollato l’export di petrolio, specialmente preso di mira da quella che la Casa Bianca  definisce “strategia della massima pressione”.

L’effetto è stato drastico. Nel giugno 2018, quando gli Stati uniti si sono ritirati dall’accordo nucleare, l’Iran esportava 2,7 milioni di barili di greggio al giorno (bpd, barrel-per-day); nel settembre di quell’anno (ancora prima che le nuove sanzioni entrassero in vigore) era già sceso a 1,9 milioni. Da allora ha continuato a scendere: un milione di bpd nell’aprile del 2019, una media di 260000 bpd nell’ottobre 2019. Il ricavato netto è sceso di conseguenza, da un picco di 67 miliardi di dollari nel 2018 a circa 20 miliardi di dollari nei primi sei mesi del 2019 (secondo la Aie, Agenzia internazionale per l’energia). In altre parole, le sanzioni costano all’Iran miliardi di dollari di mancato reddito. Ed è a questo punto che arriva il coronavirus.

La pandemia sotto sanzioni

L’Iran è l’unico paese al mondo che stia combattendo una pandemia sotto sanzioni. Il paese ha un servizio sanitario tra i migliori della regione mediorientale, con una rete di strutture decentrata e personale medico e paramedico di ottimo livello, tra cui molti specializzati all’estero (anche se ha un numero di posti letto per abitante appena sufficiente in tempi normali). Ma sconta una cronica carenza di attrezzature e farmaci, proprio a causa delle sanzioni applicate dagli Stati Uniti. Il materiale sanitario in teoria non è coperto da embargo, ma di fatto anche importare attrezzature mediche o ospedaliere è quasi impossibile perché l’esclusione delle banche iraniane dal sistema bancario globale blocca i normali canali di pagamento. Il 27 febbraio il governo svizzero ha ufficialmente varato un meccanismo finanziario per permettere l’acquisto da parte iraniana di medicinali, cibo e forniture “umanitarie”. Ma due mesi dopo la prima transazione “pilota”, una vendita di materiale medico per 2,5 milioni di dollari, non si è visto più nulla: segno che la “massima pressione” esercitata da Washington continua a dissuadere molte aziende dal vendere all’Iran materiale medico peraltro perfettamente legale.

Il confinamento intanto ha aggravato la recessione, com’era inevitabile. Ha colpito in primo luogo il commercio, perché gli acquisti che precedono il Nowrooz contano per circa metà del fatturato annuo dei negozianti e di molte imprese di beni di consumo. Poi l’industria turistica: ristoranti, agenzie viaggi e hotel sono rimasti semivuoti durante le vacanze più importanti dell’anno; il giro d’affari del settore è crollato di oltre il 90 per cento, secondo le prime stime.

Un bilancio più approfondito resta da fare. L’economia iraniana è molto più diversificata di molti altri paesi grandi produttori di idrocarburi, e le sanzioni hanno accelerato l’emancipazione dell’Iran dal petrolio. Il settore manifatturiero rappresenta già da tempo l’ossatura dell’economia nazionale, con una struttura di piccole e medie imprese che producono sia per un mercato interno di 80 milioni di persone, sia per l’esportazione – in particolare nella regione circostante (dall’Iraq alla Turchia, agli Emirati arabi, alle repubbliche dell’Asia centrale). Anzi: è proprio questo settore – dalle automobili alla meccanica all’agroalimentare – che ha permesso all’economia iraniana di resistere alla “massima pressione” esercitata dalle sanzioni Usa. L’anno scorso l’export di prodotti non-oil ha fatto 41 miliardi di dollari superando per la prima volta il reddito petrolifero. E mentre il settore petrolifero si è contratto del 35 per cento nell’anno appena trascorso a causa delle sanzioni, il manifatturiero si è contratto appena dell’1,8 per cento.

Se questo lascia sperare per una futura ripresa, il punto è che l’epidemia di Covid-19 ha effetti disastrosi nell’immediato.

Secondo alcune stime il prodotto interno iraniano sarà diminuito del 15 per cento a causa del blocco delle attività durante il confinamento. Il valore della valuta iraniana, il Rial, è crollato negli ultimi due anni e ha avuto un ulteriore crollo alla fine di giugno: sotto la duplice spinta delle aspettative nere e di manovre speculative.  Di sicuro sono andati in fumo molti posti di lavoro. Anche qui sono stime preliminari: la  stampa iraniana cita la Mezzaluna rossa iraniana secondo cui due milioni di lavoratori alla giornata hanno perso ogni reddito. Prima del coronavirus circa 3 milioni di iraniani figuravano disoccupati (ma secondo alcune stime erano di più); l’11 aprile un portavoce del governo aveva detto che un lockdown prolungato avrebbe aggiunto altri 4 milioni di disoccupati. In termini di impoverimento e aumento delle diseguaglianze, il futuro è fosco.

L’allarme degli economisti

In una lettera indirizzata al presidente Hassan Rohani il 3 aprile, una cinquantina di economisti iraniani avvertivano che l’impatto dell’epidemia aggraverà in modo insostenibile la recessione e il declino della produzione interna, con la conseguenza di accrescere la povertà e il disagio sociale, approfondire il deficit di bilancio dello stato, far lievitare l’inflazione. Dicevano che l’Iran rischia nuove proteste e disordini nelle periferie urbane a basso reddito – magari alla fine di quest’anno o nei primi mesi del prossimo.

Una prospettiva tutt’altro che remota, per chi ricordi l’ondata di rabbia innescata dall’aumento del prezzo della benzina nel novembre scorso. Allora la repressione fu così brutale da suscitare sconcerto nel paese e spingere il Majlis (il parlamento) a istituire una commissione d’inchiesta. Alla fine di maggio proprio il deputato che presiede quella commissione ha dichiarato che 230 manifestanti sono stati uccisi durante i disordini: la prima ammissione, benché semiufficiale.

Nella loro lettera, gli economisti propongono diverse misure per attutire il crollo dell’economia, a cominciare da una serie di sussidi ai cittadini e alle imprese.

In parte, è proprio ciò che il presidente Rohani ha fatto. Il 16 marzo il suo governo ha annunciato misure come un “bonus” una tantum per i cittadini già percipienti dei programmi di welfare statale; piccoli prestiti senza interesse ripagabili in trent’anni a piccoli negozianti e venditori ambulanti; sussidi e inserimento al lavoro per le madri sole. È stato annunciato anche un aumento del 50 per cento del salario degli impiegati pubblici di basso livello, che rientrano senza dubbio tra le fasce più povere della società.

Questi però sono piccoli interventi. Il governo ha anche sospeso per tre mesi l’esazione delle imposte per le aziende in difficoltà. E ha promesso di stanziare l’equivalente di 6,25 milioni di dollari per garantire prestiti a tasso agevolato (ripagabili in tre anni al tasso del 12 per cento, mentre le banche praticano normalmente tassi del 20 per cento): molti hanno obiettato che doveva offrire almeno prestiti a interesse zero.

In termini di “stimolo” per rilanciare l’economia è ben poco, se si pensa alle migliaia di miliardi mobilitati in Europa. Il fatto è che il governo ha serie difficoltà a offrire assistenza finanziaria  agli imprenditori iraniani, per il semplice motivo che le entrate dello stato si sono ridotte in modo drammatico proprio in questi mesi di crisi sanitaria. La domanda mondiale di petrolio è crollata in seguito alla pandemia, facendo scendere il prezzo, e questo ha colpito le già declinanti esportazioni iraniane. Anche le entrate fiscali sono crollate, con tante aziende costrette a chiudere o in crisi.

Questo ha spinto il governo Rohani prima a chiedere (e ottenere) il permesso del parlamento a prelevare un miliardo di euro dal Fondo nazionale per lo sviluppo, una riserva speciale dello stato. Poi a chiedere di attingere al fondo speciale del Fondo monetario internazionale (Fmi) per la lotta al Covid-19, con un prestito di 5 miliardi di dollari: la prima volta che l’Iran chiede un prestito al  Fmi dalla Rivoluzione del 1979. Un gesto “politico” dunque, con cui Rohani si è guadagnato forti critiche interne dall’opposizione conservatrice. Ma comunque vano: è assai improbabile che il prestito sia concesso, tanto più che Washington ha una posizione preminente nel Consiglio d’Amministrazione del Fmi e blocca la domanda iraniana.

Il governo si è poi rivolto all’interno, proponendo dei titoli di stato (una sorta di “coronavirus bond”) per attingere al risparmio degli iraniani – e magari alle grandi fortune che un certo numero di super-ricchi nazionali tiene ben al sicuro all’estero: con quanta fortuna si vedrà.

C’è però da considerare un altro aspetto della risposta pubblica alla crisi sanitaria. Anche in Iran l’epidemia ha mobilitato a vari livelli la società civile, suscitando un diffuso movimento di solidarietà esemplificata da casi di “crowdfunding” per finanziare servizi medici, o la Campagna chiamata Nafas, “respiro”: una coalizione di organizzazioni umanitarie non governative, imprese e camere di commercio, che ha cercato di facilitare l’importazione di beni necessari (protezioni mediche, per esempio), arrivando ad allestire una clinica specializzata in pazienti Covid (ne accenna qui l’analista Bijan Khajehpour).

Notizie come questa fanno pensare alla capacità di resistenza degli iraniani: abituati a vivere tra crisi e sanzioni, faranno fronte anche all’epidemia.

Il 27 luglio il portavoce del ministero della Sanità iraniano ha annunciato che in media 200 persone al giorno sono morte di Covid-19 nelle ultime due settimane; il numero totale dei decessi attribuiti ufficialmente alla pandemia ora supera i 16000. Le provincie sottoposte a restrizioni per motivi sanitari sono salite a 12 (su 31). Secondo il viceministro della Sanità Iraj Harirchi però è Tehran la “fonte di diffusione” del coronavirus nel resto del paese, visto che centinaia di migliaia di persone vi si recano ogni giorno per lavoro o altro. Il dato positivo e che il 95 per cento delle persone infettate guarisce senza bisogno di particolari cure.

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Siria, Iraq: la “terra tra i due fiumi” ha sete https://ogzero.org/siria-iraq-la-terra-tra-i-due-fiumi-ha-sete/ Sun, 29 Mar 2020 21:24:33 +0000 http://ogzero.org/?p=61   Dal primo decennio di questo secolo una siccità devastante affligge il Vicino Oriente, la regione che va dalle coste orientali del Mediterraneo fino all’altopiano iranico: dalla Siria all’Iran, passando per Iraq e Giordania. È probabilmente la più grave ondata di siccità registrata dei tempi moderni, da quando esistono strumenti scientifici per misurare le condizioni […]

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Dal primo decennio di questo secolo una siccità devastante affligge il Vicino Oriente, la regione che va dalle coste orientali del Mediterraneo fino all’altopiano iranico: dalla Siria all’Iran, passando per Iraq e Giordania. È probabilmente la più grave ondata di siccità registrata dei tempi moderni, da quando esistono strumenti scientifici per misurare le condizioni climatiche. Ha cause diverse, in parte naturali ma in gran parte attribuibili alle attività umane. E ha conseguenze drammatiche.

Qui cerchiamo di mettere a fuoco i due paesi dove le implicazioni sia ambientali, sia soprattutto sociali e umane della crisi idrica sono più profonde: la Siria e l’Iraq, cioè le terre tra i fiumi Tigri ed Eufrate che costituiscono la storica «mezzaluna fertile». 

Siria, il granaio va in polvere

Oggi non è azzardato dire che la siccità, con la profonda crisi sociale che ha innescato in Siria, è una delle cause soggiacenti alle proteste scoppiate nel 2011 e sfociate molto presto in una guerra civile che nell’autunno 2016 sembra ancora lontana da una soluzione. 

Tra il 2006 e il 2010 oltre il 60 per cento del territorio siriano è stato colpito da una siccità acuta. Sono state particolarmente colpite le province nordorientali del paese solcate dall’Eufrate, considerate il tradizionale «granaio» del paese: in particolare i governatorati di Aleppo e Hassakeh, che da soli fanno più di metà della produzione di grano nazionale, e quelli di Idlib, Homs, Dara. 

Nei due anni peggiori, il 2007 e il 2008, le piogge sono state appena il 66 per cento della media calcolata sul lungo termine. Un anno dopo l’altro, gli agricoltori hanno perso gran parte dei raccolti e nel settembre del 2009 nel sistema delle Nazioni unite circolavano notizie allarmanti: quell’anno la produzione di grano era stata appena il 55 per cento del normale; tre quarti delle famiglie avevano perso i raccolti a ripetizione, gli allevatori avevano perso fino all’85 per cento del bestiame, e si calcolava che 800 000 persone avessero perso i mezzi di sostentamento. Un’annata cattiva si può superare, ma nel 2009, dopo la terza annata consecutiva di disastro, il ministero siriano dell’agricoltura stimava che 60 000 famiglie, o circa 250 000 persone, avessero abbandonato la terra per trasferirsi in città. E la crisi si prolungava: nel 2010 fonti delle Nazioni Unite stimavano che solo in quell’anno altre 50 000 famiglie fossero migrate in città. 

Insomma: in pochi anni almeno un milione e mezzo di siriani sono emigrati dalle campagne alle aree urbane. La Siria contava allora 22 milioni di abitanti, e circa la metà viveva di agricoltura. In pochi anni la mancanza d’acqua aveva devastato una grande regione  e messo in crisi la sua economia agricola, innescando un esodo di massa. Una migrazione così massiccia non sarebbe indolore in nessun paese al mondo.

La siccità, un disastro creato dagli umani 

Per capire la portata del disastro dobbiamo fare un passo indietro. A cavallo del secolo la Siria era uno dei grandi produttori agricoli della regione. Fin dagli anni Ottanta, durante il regime di Hafez al Assad, padre dell’attuale presidente siriano, Damasco aveva investito molto nello sviluppo dell’agricoltura con l’obiettivo di dare al paese l’autosufficienza alimentare. Con l’incoraggiamento del governo, nuove terre sono state arate. Tra la metà degli anni Ottanta e il Duemila la superficie coltivata è raddoppiata: da circa 600 000 a oltre 1,2 milioni di ettari. L’espansione è continuata; ancora nel 2006, alla vigilia della grande siccità, il governo ormai guidato da Bachar al Assad pianificava di aumentare ancora la produzione agricola.

Il risultato visibile è che la Siria ha non solo raggiunto l’autosufficienza (mentre gran parte dei paesi del Vicino Oriente spendono milioni di dollari per importare cereali e altri prodotti alimentari), ma fino al 2007 ha anche esportato grano verso la Giordania e l’Egitto. 

A ben guardare però uno sfruttamento agricolo così intenso ha avuto altri risultati, meno visibili nell’immediato ma dalle conseguenze nefaste. Il primo è stato di prosciugare le falde idriche. Nella grande espansione agricola sono state arate anche terre semiaride, dove fino ad allora l’agricoltura era bandita a favore della pastorizia. Per sostenere una tale espansione il governo aveva fatto scavare nuovi pozzi, che sono raddoppiati di numero tra gli anni Ottanta e il Duemila. Ma questo ha contribuito a far crollare il livello dell’acqua di falda. Quando le piogge hanno cominciato a mancare gli agricoltori hanno cercato di supplire pompando acqua dai pozzi, come avevano sempre fatto nei momenti di siccità: ma stavolta hanno trovato che l’acqua non c’era più o era diventata troppo salina. Come vedremo più avanti, nel frattempo anche l’Eufrate era sotto stress.

Insomma, se la siccità è un evento naturale, qui uno sviluppo agricolo insostenibile ha contribuito a trasformarla in catastrofe. Senza contare che neppure le cause della siccità sono del tutto naturali. Il Vicino Oriente ha sempre visto alternarsi periodi più o meno secchi, ma alcuni studiosi ormai sostengono che una crisi così acuta e prolungata sia ben oltre la naturale variabilità. Uno studio pubblicato nel marzo 2015 dall’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti conclude che la siccità registrata nell’ultimo decennio nel Vicino Oriente è legata alle «influenze umane sul clima». Gli studiosi qui osservano la tendenza delle precipitazioni, delle temperature e della pressione atmosferica al livello del mare nel corso dell’ultimo secolo. Il calo delle precipitazioni in Siria, spiegano, è legato all’aumento della pressione media sul Mediterraneo orientale; venti più deboli portano meno aria carica di umidità dal mare sulla terraferma, mentre l’aumento della temperatura media ha accelerato l’evaporazione dai terreni. Questo combacia con le simulazioni computerizzate su come la regione risponde all’aumento della concentrazione di gas «di serra» nell’atmosfera. 

Il catalizzatore della crisi

Chiara Cruciati intervenne su Radio Blackout il 16 novembre 2018 sulla desertificazione dello Shatt-al-Arab, con la moria dei pesci a valle del Tigri e dell’Eufrate per la moltiplicazione delle dighe a monte, in territorio turco, siriano e del Kurdistan iracheno

La siccità ha avuto un effetto catalizzatore sulla crisi sociale e politica in Siria. Nel 2011 la produzione nazionale di grano era dimezzata. Buona parte del bestiame era morto o era stato venduto sottocosto e macellato nell’impossibilità di nutrirlo; i silos erano esauriti. Due o tre milioni di persone erano ridotte in povertà, e almeno un milione e mezzo aveva abbandonato la terra.

Gran parte dei migranti dalle zone rurali è andato verso le città di Damasco, Aleppo e Hamah. Le città siriane però erano già in situazione di stress per il grande afflusso di rifugiati venuti dal vicino Iraq dopo l’invasione guidata dagli Stati Uniti nel 2003. Dunque un numero crescente di persone senza grandi mezzi per vivere si è trovato a competere per il poco lavoro disponibile e per servizi e infrastrutture urbane già carenti. Intorno a città come Aleppo o la stessa Damasco sono cresciuti grandi slum, con una popolazione per lo più giovane, con poche chances di trovare un’occupazione, e con addosso una grande frustrazione. 

La gestione della crisi da parte del governo non ha aiutato. Nel maggio 2008, dopo la prima annata di raccolti falliti, il governo del presidente Bachar al Assad ha tagliato drasticamente le sovvenzioni sul prezzo del diesel (usato per azionare le pompe e i macchinari agricoli). Sarà una coincidenza ma le zone roccaforte dei ribelli, in particolare Aleppo, Deir al Zour e Raqqa (divenuta poi la «capitale» dello Stato islamico), sono proprio quelle più devastate dalla siccità.

«Il ruolo di comunità urbane destituite e sotto stress nei movimenti di opposizione è stato significativo», osservavano due studiosi in una analisi sull’impatto del cambiamento del clima nella regione (pubblicato nel febbraio del 2012, il loro è stato il primo di una serie di analisi sul nesso tra siccità, crisi sociale e conflitto). «Negli ultimi anni una serie di cambiamenti sociali, economici, ambientali e climatici in Siria hanno eroso il contratto tra cittadini e governo», contribuendo alla perdita di legittimità del regime.

Una devastazione immane

Nel sesto anno di conflitto, in Siria alla crisi idrica si somma ormai la devastazione della guerra. A partire dal 2012 la superficie coltivata si è ridotta. Le zone una volta più fertili sono teatro della competizione tra gruppi armati, e andare nei campi è un rischio costante. E poi i sistemi di irrigazione, acquedotti e altre infrastrutture sono danneggiati, colpiti dai bombardamenti o semplicemente negletti, in abbandono.

Un monitoraggio congiunto di due agenzie dell’Onu (la Fao, Organizzazione per l’agricoltura e l’alimentazione, e il Pam, Programma alimentare mondiale) nel 2015 ha constatato che la Siria ha prodotto 2445 milioni di tonnellate di grano: è il 40 per cento in meno rispetto alla produzione prima del conflitto, eppure è un terzo di più del raccolto 2014, e meglio anche del 2013. Infatti nel 2012-2013 la siccità aveva di nuovo colpito gran parte del paese, mentre l’inverno 2014-2015 è stato relativamente piovoso: e questo ha in parte aiutato a mitigare l’impatto devastante della guerra. Nel settembre 2016 non abbiamo ancora consuntivi sull’ultimo raccolto: sappiamo però che nell’inverno 2015-2016 poco più di un milione di ettari è stato coltivato a grano (contro 1,5 milioni di ettari nel 2011). La principale zona coltivata è stata quella di Hassakeh, che ha registrato un buon livello di precipitazioni invernali; non così le zone di Aleppo, Idlib e Homs, che restano nella morsa della siccità oltre che del conflitto. 

Anche un raccolto relativamente incoraggiante come quello del 2015 però rappresenta ancora un buco di 800 000 tonnellate rispetto al fabbisogno. Per chi vive oggi in Siria la situazione è insostenibile; il prezzo del pane è triplicato rispetto al 2011 ed è aumentato in particolare proprio nel corso del 2015. Il sistema di distribuzione è crollato, coloro che coltivavano sono fuggiti, il commercio è nel caos. La combinazione di siccità e guerra sta letteralmente cancellando parte del paese. Ormai interi villaggi sono abbandonati, città spopolate dalla violenza, infrastrutture distrutte – senza contare la desolazione e l’odio accumulati in anni di violenza. Anche quando la guerra sarà finita, la ricostruzione non sarà facile.

La portata d'acqua dei due fiumi mesopotamici a confronto nel tempo: evidente desertificazione dello Shatt al Arab
La portata del Tigri e dell’Eufrate nel progressivo inaridimento fino alla foce, grafico tratto da Curdi, di Antonella De Biasi, Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

Nella “terra dei due fiumi” l’acqua è un obiettivo strategico

Uno dei primi obiettivi presi di mira dai miliziani dello Stato Islamico (noto anche come Isis, o Daesh nell’acronimo arabo), quando hanno cominciato la loro fulminea avanzata tra la Siria settentrionale e l’Iraq nell’estate del 2014, sono state alcune dighe sui fiumi Tigri e Eufrate. Non deve stupire: in Mesopotamia, la “terra dei due fiumi”, il controllo dell’acqua può diventare perfino più importante di quello del petrolio. Un’occhiata alla carta geografica può chiarire perché. 

L’Iraq dipende per intero dal Tigri e dall’Eufrate, i fiumi che hanno plasmato la storia umana in questa regione. Acqua potabile per gli abitanti, per alimentare i sistemi di irrigazione e quindi per coltivare, per rifornire le industrie, per produrre energia idroelettrica: in Iraq il 98 per cento dell’acqua dolce superficiale viene da quei due fiumi.

Sia l’Eufrate che il Tigri nascono dai monti dell’Anatolia sudorientale, in Turchia, e scendono tra valli e gole montane. L’Eufrate, 2700 chilometri, compie un lungo giro e attraversa la Siria nordorientale, prima di entrare in Iraq nella provincia di Anbar; nel suo corso verso sudest bagna poi le città di Ramadi, Falluja, Nassiriya. Il Tigri, 1850 chilometri, entra in Iraq nella provincia di Ninive e procede quasi parallelo all’Eufrate, bagnando Mosul, Tikrit, Samarra, la capitale Baghdad. I due fiumi si uniscono nell’ultimo tratto, formando un unico corso d’acqua chiamato Shatt al-Arab, prima di sfociare nel Golfo Persico nel governatorato di Bassora (negli ultimissimi chilometri lo Shatt al-Arab segna il confine tra l’Iraq e l’Iran; in persiano è chiamato Arvand). Sommati, e con i loro affluenti, il Tigri e l’Eufrate formano un bacino di oltre 850 000 chilometri quadrati nei tre paesi. 

Oggi però il bacino mesopotamico è in crisi, e lo era ben prima che la Siria precipitasse nel conflitto o che entrassero in scena i ribelli dello Stato islamico. La portata del Tigri e dell’Eufrate è in declino in parte a causa della siccità e del cambiamento del clima, ma soprattutto per l’effetto di decenni di sovrasfruttamento, della crescita della popolazione umana, dell’inquinamento, dello sviluppo disordinato e non coordinato tra i tre paesi rivieraschi. Già: parte del problema è che il 90 per cento della portata annua dell’Eufrate e quasi metà di quella del Tigri hanno origine in Turchia. E questo significa che la «sicurezza idrica» e alimentare di una popolazione stimabile sui 60 milioni di persone in Siria e in Iraq dipende in larga parte dal vicino locato più a monte. 

Turchia, Siria e Iraq in competizione per l’acqua

Nella seconda metà del Novecento diverse dighe sono state costruite sul Tigri e sull’Eufrate, sia in Iraq che in Siria e in Turchia. Ma è la Turchia che negli ultimi decenni ha avviato i progetti più ambiziosi, pianificando una serie di impianti idroelettrici e di irrigazione nelle sue province sudorientali (come vedremo infra §3.4.4). La prima diga sull’Eufrate in territorio turco risale agli anni Sessanta; cinquant’anni dopo le dighe sui due fiumi sono oltre 140, e altre sono in costruzione o in progetto. Questo ha suscitato non poche controversie con i vicini a valle. 

In particolare le dighe Karakaya (completata nel 1988) e Atatürk (completata nel 1992), entrambe sull’Eufrate, hanno ridotto di circa un terzo il flusso d’acqua che arriva in Siria e poi Iraq. Queste due dighe, tra le maggiori al mondo, fanno parte del Progetto dell’Anatolia sudorientale (in turco Güney Doğu Anadolu Projesi, Gap), promosso del governo turco con lo scopo dichiarato di promuovere l’economia della regione, produrre energia, sviluppare l’agricoltura, creare lavoro. Il progetto Gap include 22 sbarramenti e 19 impianti idroelettrici, tra cui le dighe di Ilisu e di Cizre, sul Tigri. Di fronte a un progetto così grandioso però è chiaro che non si tratta solo di gestione delle risorse idriche; è in gioco anche il potere e il controllo sulla regione, che coincide quasi perfettamente con quella storicamente abitata da popolazione kurda. 

La diga di Ilisu ne è la prova. La costruzione è cominciata nel 2006, tra grandi contestazioni, ed è quasi terminata. Quando sarà completata, la diga sarà alta 135 metri e avrà creato un invaso capace di contenere 10,4 chilometri cubi d’acqua; il nuovo lago sommergerà quasi completamente l’antica città di  Hasankeyf, con numerosi siti storici, e costringerà ottantamila residenti a spostarsi. In pieno Kurdistan, il progetto di Ilisu è stato accompagnato da controversie e pressioni internazionali tali da convincere i finanziatori europei del progetto (Austria, Germania e Svizzera) a ritirare le garanzie di stato al credito. Ma questo ha solo ritardato i lavori; il governo turco ha trovato finanziamenti alternativi. Se non entro il 2016 come inizialmente previsto, l’inaugurazione della nuova diga sembra comunque imminente. Facile prevedere che la diga di Ilisu e quella di Cizre, poco più a monte, saranno un ulteriore elemento di opposizione e di conflitto nella regione kurda.

Quando il progetto Gap sarà completato permetterà di irrigare in territorio turco 1,2 milioni di ettari supplementari, e grazie a questo la Turchia spera di triplicare l’esportazione di prodotti agricoli. Ma ridurrà ulteriormente la quantità d’acqua disponibile a valle. Si stima potrebbe ridurre fino all’80 per cento il flusso d’acqua dell’Eufrate che arriva in Iraq, e di un ulteriore 50 per cento la portata del Tigri.  

Ma anche se il progetto anatolico non fosse completato, già gli impianti fin qui costruiti hanno alterato in modo profondo la natura dei due fiumi. Basti pensare che negli anni Settanta, prima della costruzione delle citate grandi dighe, la portata media dell’Eufrate quando entrava in Iraq era di 720 metri cubi al secondo; oggi è circa 260 metri cubi al secondo. Naturalmente in questo conta anche la situazione generale di siccità, di cui pure l’Anatolia sudorientale ha sofferto (benché in modo meno acuto della Siria). Sta di fatto che le dighe attualmente operanti in territorio turco hanno una capacità di immagazzinare acqua di gran lunga superiore a tutte quelle esistenti a valle.

Così l’acqua è un costante elemento di tensione tra la Turchia e i paesi a valle. Anche perché i meccanismi di negoziazione tra i tre paesi rivieraschi sono sempre stati fragili, e sono tanto più fragili in un periodo di conflitto. Solo in rare occasioni, negli anni Ottanta e Novanta, si sono riuniti comitati tripartiti per discutere la suddivisione delle risorse idriche, per lo più con la mediazione di potenze esterne. Il principale accordo oggi in vigore è quello firmato nel 1998 tra Siria e Turchia, il Trattato di Adana, secondo cui l’Eufrate dovrebbe portare in territorio siriano in media 500 metri cubi al secondo, di cui il 46 per cento dovrebbe poi arrivare in Iraq. Un accordo tra tutti i paesi rivieraschi non esiste. È difficile immaginare negoziati e cooperazione in pieno conflitto; eppure è chiaro che trovare un accordo sulla condivisione dei due fiumi è urgente, e sarà un elemento essenziale di qualunque sforzo per pacificare e ricostruire la regione.

La guerra delle dighe e del grano

Certo è che in Iraq la crisi idrica è potenzialmente esplosiva. Rivolte e guerre hanno aggravato la situazione, mettendo a repentaglio infrastrutture essenziali alla gestione della risorsa idrica – e proprio mentre a causa del conflitto la regione deve far fronte a grandi movimenti di sfollati.

Non stupisce dunque che le dighe sui due fiumi siano diventate obiettivi strategici. L’Eufrate entra in Iraq nella provincia di Anbar; il Tigri nella provincia di Ninive: queste due regioni sono state tra le prime conquistate dallo Stato islamico nella sua avanzata. Da allora lunghi tratti dei due fiumi (ma in particolare dell’Eufrate), e delle regioni agricole circostanti, sono passate e ripassate sotto il controllo di diverse forze, in particolare dello Stato islamico, e restano teatro di guerra anche quando, nell’estate 2016, le fortune militari dell’organizzazione ribelle sembrano diminuire.

In questo contesto le dighe sono allo stesso tempo obiettivo di conquista e arma di guerra. La diga di Nuaimiyah, sull’Eufrate, 5 chilometri a sud di Falluja, provincia di Anbar, ne è un esempio. Quando i ribelli l’hanno conquistata, all’inizio di aprile 2014, hanno sbarrato le chiuse: così a valle, nelle città di Kerbala, Najaf e giù fino a Nassiriya, milioni di persone sono rimaste a secco mentre a monte la città di Abu Ghraib è stata allagata. In seguito lo Stato islamico ha preso la diga di Samarra, sul Tigri (ma non è riuscito a prendere quella di Haditha, sull’Eufrate, che produce circa un terzo dell’energia elettrica del paese e soprattutto rifornisce la capitale Baghdad). Ma il colpo più clamoroso dei miliziani ribelli è stato prendere la città di Mosul e soprattutto l’omonima diga, il 7 agosto 2014. 

La diga di Mosul è la più grande del paese e il suo impianto idroelettrico, con una potenza installata di 1052 megawatt, ha garantito al Kurdistan iracheno rifornimenti costanti di energia elettrica anche quando il resto dell’Iraq viveva con continui blackout. Per questo è stata difesa fino all’ultimo dai peshmerga, i combattenti curdi (di fatto l’esercito della regione autonoma del Kurdistan). E per questo le forze governative si sono lanciate quanto prima a riconquistarla (il 17 agosto 2014 le forze peshmerga e dell’esercito iracheno, con il decisivo appoggio aereo dell’aviazione statunitense, hanno ripreso la diga di Mosul).

Dall’estate del 2014 dunque i ribelli dello Stato islamico hanno tenuto il controllo, sia pure a “macchie”, di gran parte del bacino di Tigri ed Eufrate tra Iraq e Siria. Acqua significa grano: i ribelli hanno preso numerosi depositi governativi di grano nelle zone di Ninive, Kirkuk e Salaheddin, ovvero la regione più fertile del paese, che produce circa il 40 per cento del grano dell’Iraq. Nell’estate 2014 in quei silos si trovavano circa 1,1 milioni di tonnellate di grano che il governo aveva comprato dagli agricoltori della regione, pari a circa un quinto del fabbisogno annuale dell’Iraq: grazie a quelle riserve l’Isis è stato in grado di distribuire farina agli abitanti delle zone che ha conquistato, ormai tagliate fuori dal Sistema di distribuzione pubblica governativo (da cui più di metà della popolazione irachena dipende per sopravvivere). Tra l’altro le ostilità hanno creato una gran massa di sfollati: al dicembre 2015 le Nazioni unite ne contavano circa 3,2 milioni all’interno del paese, di cui quasi due milioni costretti a partire dal gennaio 2014 (cioè da quando lo Stato islamico ha cominciato la sua avanzata).

Dunque anche la produzione di cereali è rimasta ostaggio del conflitto. Nel 2015 l’ente statale che compra i cereali dai produttori (Iraqi Grain Board) aveva comprato dagli agricoltori 3,2 milioni di tonnellate di grano al prezzo sovvenzionato di 600 dollari la tonnellata. È un raccolto inferiore a quello del 2014 (3,4 milioni di tonnellate), ma migliore della media dei cinque anni precedenti: e questo grazie a una buona stagione di piogge. Questo è però ancora molto al di sotto del fabbisogno nazionale. Inoltre, nell’inverno 2015-2016 alcune zone agricole sono state devastate da piogge torrenziali, che hanno messo in pericolo le coltivazioni. Sta di fatto che l’Iraq ha importato 4,4 milioni di tonnellate di grano nel 2014-15 e prevede di importarne 4,5 nel 2015-16. Una larga parte della regione produttrice di cereali resta sotto il controllo diretto del Isis, o è in zone contese, teatro di ostilità, cosa che rende difficile procurarsi sementi e fertilizzanti, e in molti casi perfino rischioso coltivare. Le fonti governative non dichiarano dati sulle zone fuori dal suo controllo; secondo alcune stime, 1,6 milioni di tonnellate di grano sono state raccolte nelle zone sotto il controllo dello Stato islamico nel 2015. 

La diga che riporta l’Italia in Iraq

La diga di Mosul intanto continua a preoccupare le autorità irachene, e non solo per le mire dei ribelli. Il problema è che la diga stessa ha debolezze strutturali che la rendono un potenziale pericolo. 

Alta 113 metri e lunga 3,4 chilometri, la diga è stata costruita tra il 1981 e il 1986 da un consorzio italo-tedesco guidato da Hochtief Aktiengesellschaft. Ha un impianto idroelettrico da 1052 megawatt;  fornisce acqua ed elettricità alla città di Mosul (1,7 milioni di abitanti) e a gran parte della regione. È la diga più grande in Iraq e la quarta del Vicino Oriente, misurata per la capacità del suo invaso artificiale (11,1 chilometri cubi) che immagazzina acqua proveniente dalle montagne della Turchia, appena 110 chilometri a nord. È costruita però su fondamenta carsiche, e questo è il suo difetto originario.

Il problema strutturale è emerso già pochi anni dopo che la diga era entrata in funzione. Grandi crepe, come «buchi», hanno cominciato ad aprirsi sulla roccia permeabile alla base della diga; per questo è necessaria una manutenzione continua, che consiste nel riempire i “buchi” con cemento liquido. Crepe sono state notate negli anni Novanta, poi ancora nel 2003 e nel 2005. Tra il 1986 e il 2014 oltre 350 000 tonnellate di cemento sono state iniettate nelle crepe che si sono via via aperte. Nel settembre 2006 un rapporto del Genio militare degli Stati Uniti (Us Corps of Engineers) avvertiva che «in termini di erosione interna delle fondamenta, la diga di Mosul è la più pericolosa al mondo» e che un improvviso crollo, anche solo parziale, travolgerebbe in poco più di un’ora la città di Mosul con un muro d’acqua alto fino a 20 metri, e in seguito Baghdad con una piena di oltre 4 metri. Sarebbe una catastrofe assicurata. Anzi, l’ultimo studio è ancora più pessimista. Condotto dal Joint research centre (Jrc) dell’Unione Europea, e pubblicato a metà aprile 2016, afferma che se cedesse anche solo un quarto del fronte della diga la città di Mosul sarebbe investita nel giro di un’ora e mezza da un muro d’acqua di un’altezza media di 12 metri che potrebbe arrivare fino a 25; l’ondata travolgerebbe poi Tikrit e Samarra a raggiungerebbe Baghdad dopo tre giorni e mezzo, con una piena alta tra i due e gli otto metri. Lo studio del 2006 parlava di almeno mezzo milione di morti, ma altri hanno parlato anche di un milione o un milione e mezzo.

Il problema strutturale è innegabile (c’è da chiedersi chi e perché scelse il luogo dove costruire lo sbarramento, e perché da allora non siano state individuate delle responsabilità, visto che il problema è noto da circa trent’anni). È vero però che nel corso del tempo sono stati messi accenti più o meno drammatici sul rischio di un crollo. Di recente l’ex ingegnere capo della diga, Nasrat Adamo, ha fatto notare al quotidiano britannico “The Guardian” che a causa del difetto di concezione, l’impianto richiede un continuo lavoro a riempire le crepe alla sua base. Il punto è che la manutenzione era stata interrotta durante l’occupazione dello Stato islamico e anche quando le forze governative hanno ripreso il controllo non tutto il personale è tornato: su trecento addetti ne restano una trentina, diceva Adamo, e i macchinari sono stati rubati o danneggiati. Ripresa la diga, i genieri statunitensi hanno messo 1200 sensori sull’impianto, attivando un monitoraggio continuo; ne hanno concluso che l’impianto resta ad altissimo rischio. 

Nell’ottobre 2015 dunque il governo iracheno ha lanciato una gara d’appalto internazionale per lavori di manutenzione e consolidamento della diga di Mosul. E qui entra in scena l’Italia. Poco tempo dopo, il 15 dicembre, il primo ministro italiano Matteo Renzi ha dichiarato che l’Italia era  pronta a mandare circa 450 soldati in Iraq, oltre ai 700 che vi si trovavano, per garantire la sicurezza della diga; con l’occasione ha annunciato che una ditta italiana, la Trevi s.p.a., aveva vinto la commessa per i lavori. La notizia di un accordo per la difesa non ha avuto immediato riscontro a Baghdad; anzi, è stata decisamente smentita da un portavoce del governo iracheno il 21 dicembre.

Il 22 dicembre la ministra della difesa Roberta Pinotti, nel corso di un’audizione presso il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) ha dichiarato che il lavoro sarebbe stato affidato a una società italiana, dando la notizia come cosa fatta, ma ha precisato che «prima ci dovrà essere l’assegnazione formale della commessa», e solo allora «ci sarà la pianificazione per l’invio di 450-500 militari italiani chiamati a presidiare il cantiere», ovviamente in accordo con il governo iracheno. A Baghdad però sembra che non tutte le componenti del governo fossero favorevoli alla rafforzata presenza militare italiana. 

Intanto sono circolati nuovi allarmi. Nel febbraio del 2016 l’ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad ha diffuso una nota dai toni drastici: paventava il grave rischio di un collasso “improvviso” della diga, e suggeriva di preparare piani d’evacuazione per le città a valle. L’ambasciata ha anche diffuso una scheda in cui si diceva che in caso di crollo della diga una popolazione tra 500 000 e un milione e mezzo di iracheni non sarebbero sopravvissuti, a meno di evacuare le immediate vicinanze del fiume a valle lungo 480 chilometri. La nota sulla diga che sta per crollare è stata ampiamente ripresa dalla stampa internazionale. Si potrebbe pensare che ciò sia servito a indurre un senso di urgenza e “convincere” il governo iracheno ad accelerare l’appalto: ma naturalmente è solo una illazione.

Sta di fatto che il 2 marzo 2016 il governo iracheno ha infine firmato il contratto con la Trevi s.p.a., parte del Gruppo Trevi, azienda specializzata nell’ingegneria del sottosuolo per fondazioni speciali. Un comunicato emesso dall’azienda precisa che il contratto, per 273 milioni di euro, non è stato assegnato per gara ma per «procedura d’urgenza per via della situazione critica della diga». In effetti non è chiaro se la gara sia mai avvenuta, o se Trevi fosse l’unico concorrente. 

Fondato nel 1957 a Cesena da Davide Trevisani, tutt’ora controllato dalla famiglia fondatrice (attraverso Trevi Holding), il Gruppo Trevi è quotato in borsa ed è diventato un nome importante nel settore. Nel 2015 ha fatturato 1,3 miliardi di euro, con una tendenza in crescita da parecchi anni. Il gruppo ha una filiale negli Stati Uniti, Treviicos, e ha lavorato per il Genio militare americano fin dal 2001. 

Nonostante la struttura di gruppo privato, addirittura a conduzione familiare, il Gruppo Trevi è anche in parte un’impresa controllata dallo stato attraverso la Cassa Depositi e Prestiti (Cdp). Infatti nel luglio 2014 la società Fondo Strategico Italiano (Fsi) con la sua controllata Fsi Investimenti, compagnie di investimento di capitale di rischio appartenenti a Cdp, sono entrate nel capitale sociale di Trevi finanziaria con circa 101 milioni di euro, pari a circa il 16 per cento del capitale. Insomma, il secondo azionista del Gruppo Trevi è lo Stato italiano. 

Questo mette in tutt’altra luce il contratto per la diga di Mosul: lo stato ha attivamente promosso una commessa internazionale per un’azienda di cui è azionista, allo stesso tempo impegnando truppe italiane e quindi denaro del contribuente per la sua difesa (molte imprese private lavorano in scenari di rischio, ma certo non tutte hanno il privilegio di una scorta militare).

L’epilogo di questa storia è ancora aperto. Dopo un primo sopralluogo nell’aprile 2016, in giugno sono arrivati presso la diga di Mosul i primi tecnici dell’azienda per preparare l’insediamento(tra le opere preparatorie c’è una caserma per ospitare i bersaglieri italiani). I lavori veri e propri era previsto cominciassero nell’autunno 2016.

In settembre intanto le forze governative e gli alleati occidentali preparavano un’offensiva per riprendere il controllo della città di Mosul e togliere allo Stato islamico la sua seconda roccaforte in territorio iracheno. Il fronte di guerra è dunque molto vicino alla diga. Nei primi giorni di settembre alla stampa italiana sono arrivate indiscrezioni, da fonti di intelligence, secondo cui lo Stato islamico preparerebbe un attacco su vasta scala contro l’impianto. La notizia, considerata dai più come un «allarme di routine» e in qualche modo ovvio e forse perfino esagerato, ha però fatto riemergere diversi interrogativi sulla missione: è il preludio a un maggiore coinvolgimento dell’Italia nell’offensiva contro lo Stato islamico? Per ora è stato precisato che le truppe italiane non partecipano all’offensiva per la città di Mosul e non hanno altro compito che la difesa del cantiere per salvare la diga. Ma la ministra Pinotti aveva pur detto, in quell’audizione parlamentare, che l’Italia si candida a diventare il secondo contingente militare straniero in Iraq, dietro quello degli Stati Uniti. Sembra proprio che la diga di Mosul ne abbia fornito l’occasione.

L’immagine è di Kamal Chomani.

L'articolo Siria, Iraq: la “terra tra i due fiumi” ha sete proviene da OGzero.

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