Lorenzo Forlani Archivi - OGzero https://ogzero.org/autore/lorenzo-forlani/ geopolitica etc Tue, 13 Sep 2022 17:32:40 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 All’Ovest Sahara qualcosa di nuovo… ma poco rassicurante https://ogzero.org/allovest-sahara-qualcosa-di-nuovo-ma-poco-rassicurante/ Tue, 26 Apr 2022 14:15:51 +0000 https://ogzero.org/?p=7141 Nello scacchiere internazionale si stanno delineando le aree delle future crisi e i vari protagonisti stanno disponendosi nelle alleanze contrapposte, spinti anche da necessità energetiche e da iniziative di grandi potenze che influenzano le scelte di schieramento. Uno dei focolai del prossimo confronto tra potenze mondiali è il Maghreb, in particolare la questione del Sahara […]

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Nello scacchiere internazionale si stanno delineando le aree delle future crisi e i vari protagonisti stanno disponendosi nelle alleanze contrapposte, spinti anche da necessità energetiche e da iniziative di grandi potenze che influenzano le scelte di schieramento. Uno dei focolai del prossimo confronto tra potenze mondiali è il Maghreb, in particolare la questione del Sahara occidentale, e le forze in campo si rimescolano: la mossa spagnola di distensione con il Marocco, dopo forti tensioni tra le due coste limitrofe e contrapposte. Questa scelta ha prodotto forti cambiamenti nei rapporti tra soggetti che insistono sul Mediterraneo occidentale: se l’Italia, interessata al gas, si avvicina all’Algeria, abbandonata nella difesa del popolo saharawi dalla Spagna, quest’ultima abbraccia il Marocco, potenza africana di riferimento in ascesa, con investimenti in infrastrutture, ottimi rapporti con Israele da cui riceve anche armi sofisticate inserite nell’enorme sforzo di riarmo in una competizione strenua con la vicina Algeria, che si approvvigiona con armi russe.
In questo panorama è prevedibile che riesploda un conflitto sulla condizione saharawi, di cui si riconoscono i primi inneschi nei mesi scorsi, perciò abbiamo chiesto a Lorenzo Forlani di fare il punto per evitare di essere colti di sorpresa da una prevedibile evoluzione critica della situazione.


«Serio, credibile, realistico». Con queste inattese parole il governo spagnolo di Pedro Sanchez meno di un mese fa ha definito il piano marocchino di concessione dell’autonomia amministrativa al Sahara occidentale. Un riconoscimento de facto, quindi, della sovranità di Rabat sulla regione al confine con l’Algeria e la Mauritania, che nel giro di un mese ha generato la reazione del Fronte Polisario (FP): lo scorso 10 aprile, infatti, il movimento che dal 1976 – cioè dopo il ritiro delle truppe coloniali spagnole dall’area – persegue l’autodeterminazione del Western Sahara (WS), ha annunciato l’interruzione dei contatti ufficiali con il governo iberico, suo storico “garante” europeo (pur nel quadro di una neutralità strategica). Solo un anno fa Madrid  ne aveva accolto e curato il leader, Brahim Ghali, malato di Covid-19, innescando con la stessa Rabat una crisi diplomatica che può dirsi estinta proprio in queste settimane, col ritorno a Madrid dell’ambasciatrice marocchina, richiamata all’indomani dell’affare Ghali.

Popolo saharawi: vittima sacrificale di nuove proxy war

Una mossa, quella del FP, che secondo molti osservatori è stata in realtà decisa da Algeri, “sponsor” dei Sahrawi, che all’indomani dell’inversione di rotta da parte di Madrid, aveva richiamato a sua volta il proprio ambasciatore dalla Spagna, aprendo contestualmente il varco a migliaia di migranti verso Ceuta e Melilla. Mentre il pianeta rivolge la sua attenzione al conflitto in Ucraina, il riposizionamento quasi improvviso di questi attori regionali racconta essenzialmente di una tensione latente tra due potenze come Marocco e Algeria, e di riflesso fa luce sulla scarsa coesione dell’Unione Europea, la cui mancanza di un approccio integrato in politica estera produce posture massimaliste, proprio come quella che sembra aver improvvisamente assunto la Spagna.

Quella nel Western Sahara è la linea del fronte più lunga al mondo: un terrapieno che si estende per 2700 km nei pressi del quale si sono susseguiti scontri armati nel corso degli ultimi 50 anni, cioè da quando Rabat ha annesso la regione contesa dopo il ritiro degli spagnoli. Nel 1991 si raggiunge un cessate il fuoco tra il Fronte Polisario e Rabat, dopo il quale le Nazioni Unite avviano un processo di pace che finirà per arenarsi: il voto per l’indipendenza che era stato previsto non ha mai avuto luogo e oggi il WS è controllato all’80% dallo stesso Marocco, mentre nella città algerina di Tindouf si sono rifugiati più di 150.000 profughi Sahrawi, coinvolgendo ancor più direttamente Algeri nella disputa, specie se si considera il rischio di radicalizzazione di alcuni segmenti dello stesso popolo Saharawi, nel quale le nuove generazioni spingono per una ripresa del conflitto.

Secondo l’Onu il WS è un “territorio non autonomo”, una definizione che riassume una situazione di grande ambiguità se associata all’annunciato piano marocchino e all’autoproclamazione d’indipendenza da parte dello stesso Fronte Polisario, che invoca stabilmente il referendum per l’indipendenza programmato più di 30 anni fa. Lo scorso dicembre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha prolungato la missione MINURSO, chiedendo la ripresa dei negoziati e inviando nuovamente il diplomatico Staffan de Mistura, il cui lavoro negli ultimi due anni era stato sostanzialmente impedito dai veti incrociati di Marocco e Algeria.

La posizione massimalista che ha improvvisamente assunto Madrid ha generato spaccature nella maggioranza di governo – con la sinistra molto critica rispetto all’”abbandono” dei sahrawi – ma rispecchia inevitabilmente la mancanza di una strategia occidentale ed europea: già nel 2020 l’ex presidente americano Donald Trump – in cambio della “normalizzazione tra Marocco e Israele – aveva riconosciuto la sovranità marocchina sul WS, contraddicendo la posizione dell’Onu, e nelle ultime settimane l’amministrazione Biden ha aggiunto confusione al quadro, dichiarando di essere favorevoli alla “autodeterminazione del popolo del Western Sahara”, pur non modificando il proprio posizionamento generale, che ribadisce la sovranità marocchina.

Potenze energivore e l’indipendentismo strabico algerino

In questo contesto è interessante seguire le mosse del governo italiano. La recente visita di Mario Draghi ad Algeri è avvenuta appena dopo la svolta spagnola sul WS ed è stata “salutata” dai media algerini come la formalizzazione di un “rimpiazzo” – anche dal punto di vista della collaborazione militare –: «Algeri ha preferito consolidare la partnership con l’Italia a danno della Spagna, che non godrà più della stessa considerazione di prima da parte dell’Algeria», si legge su Dernieres Info d’Algerie (DiaTEbb).

Il gasdotto Enrico Mattei attraversa il Mediterraneo tra Mellilah (in Libia) e Gela (in Sicilia), portando il gas algerino in Europa.

Le tensioni tra Marocco e Algeria sono anche più antiche, profonde; riflesso di assetto e orizzonti diversi, che rendono la situazione in questo quadrante regionale altamente esplosiva, soprattutto dall’ultima rottura dei rapporti diplomatici nell’agosto del 2021, con conseguente stop all’export di gas algerino verso Rabat (e poi verso Madrid), che copriva circa un decimo del suo fabbisogno. La disputa sul confine va avanti dal 1962 e storicamente, laddove Rabat – investito del ruolo di “gendarme” regionale da parte dell’UE, specie sui flussi migratori e sui fenomeni di radicalizzazione jihadista – ha volentieri sostenuto movimenti islamisti che minacciavano il potere dei militari algerini, oltre a offrire incentivi ai cittadini marocchini che vogliano trasferirsi in WS, Algeri da par suo è da decenni un esplicito sostenitore dei movimenti separatisti e rivoluzionari (ha sostenuto Che Guevara, Arafat, Mandela), pur vivendo con apprensione le ambizioni autonomiste di una sua regione, la Cabilia.

Il confine tra Algeria e Marocco è chiuso, e nei mesi scorsi la tensione si è ulteriormente alzata dopo i rumor secondo cui Rabat, servendosi di un software di spionaggio fornitole da Tel Aviv, avrebbe a lungo spiato decine di funzionari algerini. Algeri sostiene i saharawi anche per ragioni squisitamente strategiche: il WS è una regione ricca di petrolio, fosfati e diritti di pesca, un aspetto, quest’ultimo, che rende appetibile l’idea di avere un accesso all’Oceano Atlantico.

Ascesa marocchina, difficoltà algerine

Nel 2017 il Marocco è rientrato nell’Unione Africana (UA), boicottata per 32 anni proprio a causa del diffuso riconoscimento del WS. Oggi meno della metà dei membri dell’UA riconosce l’autonomia del Western Sahara: un aspetto che evidenzia anzitutto l’aumento dell’influenza marocchina, accanto alla diminuzione di quella algerina. Rabat sembra proiettata al futuro: ha le più grandi fabbriche d’auto del continente nonché i treni più veloci; ha vaccinato con due dosi oltre il 60% della popolazione e, nell’ambito della corsa al riarmo con l’Algeria, sta cercando di completare un profondo upgrading delle proprie Forze Armate, all’interno del quale ricade il recente accordo – dello scorso febbraio – con la Israel Aerospace Industries (IAI) per la fornitura dei sistemi di difesa missilistica Barak MX, per un valore di 500 milioni di dollari. Tel Aviv e Rabat a novembre 2021 avevano firmato un accordo nel campo della difesa, che impegna i due paesi a a cooperare nella condivisione di intelligence, nella realizzazione di progetti e nella vendita di armamenti.

L’Algeria, al contrario, è in una fase molto delicata: il piano per rendere l’economia meno vincolata alle entrate petrolifere è miseramente fallito; le proteste antiestablishment (Hirak, in arabo “movimento”) sono state represse; il presidente Abdelmajid  Tebboune è considerato un fantoccio nelle mani degli alti quadri militari. Di riflesso, Algeri è un gigante bellico: secondo i dati del SIPRI, nel 2020 il suo budget militare è stato il più corposo del continente, quasi 10 miliardi di dollari, il doppio di quello marocchino (che è comunque aumentato del 54% dal 2011 al 2020, e che dovrebbe arrivare a 5,5 miliardi di dollari nel 2022), e il suo esercito è numericamente secondo solo a quello egiziano; il 70% degli armamenti algerini provengono dalla Russia, e proprio quest’anno sono state calendarizzate delle forniture di armamenti da Mosca, che includono 14 jet Su-34 e gli stealth Su-57.

Ambiguità del ruolo dei governi maghrebini nel Mediterraneo occidentale

Qualunque confronto militare diretto tra i due eserciti nordafricani rischierebbe di aprire un fronte esplosivo nella regione, mettendo l’uno di fronte all’altro due paesi fondamentali nel mediterraneo, in assenza di adeguati contrappesi garantiti da un’Unione europea sempre più vittima delle strategie particolari dei suoi membri più importanti. Sarebbe forse opportuno elaborare una strategia di lungo termine che da una parte tenga conto del contributo marocchino alla sicurezza del mediterraneo ma che allo stesso tempo non consideri questo contributo come un lasciapassare per l’assertività di Rabat in WS e nei confronti di Algeri, e tantomeno come la merce di scambio per un endorsement europeo (e non più solo spagnolo) al piano marocchino sulla regione.

Il mantenimento di una posizione equilibrata nei confronti dell’Algeria è forse più complicato: questo perché i rapporti – culturali, commerciali, politici – con Algeri sono molto meno profondi che con Rabat, ma la contingenza del conflitto in Ucraina, e le conseguenti sanzioni alla Russia, hanno reso le forniture di gas algerine ancor più importanti in vista di una possibile transizione energetica. Secondo Anthony Dworkin dell’Ecfr, è nell’interesse europeo sviluppare rapporti con l’Algeria tali da allontanarla da Mosca, e ciò può essere realizzato soltanto non allineandosi con Rabat sul WS. E la delicatezza della posizione algerina si può evincere dal suo cambio di postura nel giro dell’ultimo mese: il 2 marzo si era astenuta all’Assemblea generale dell’Onu, sulla mozione di condanna dell’invasione russa in Ucraina; il 7 aprile, invece, ha votato contro l’estromissione di Mosca dal Consiglio dei diritti umani. Al tempo stesso, l’UE dovrebbe dissuadere Algeri dal rafforzare l’assistenza militare al Fronte Polisario, spingendola verso una partecipazione a un nuovo negoziato. Il 20 aprile il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha tenuto una sessione dedicata al dossier Western Sahara, nella quale Staffan De Mistura ha presentato un report sull’evoluzione della crisi.

 

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Appunti per una tragedia yemenita: i droni di Sana′a https://ogzero.org/appunti-per-una-tragedia-yemenita/ Thu, 10 Mar 2022 17:24:49 +0000 https://ogzero.org/?p=6643 Lo scacchiere internazionale vede molteplici guerre sanguinose in corso da anni fuori dall’Europa; lo Yemen viene usato come scenario dove affondano le dispute tribali storiche e locali, che risalgono al tempo in cui il territorio era suddiviso in entità statali del Nord e del Sud; rinfocolate da guerre per procura che contrappongono potenze locali, a […]

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Lo scacchiere internazionale vede molteplici guerre sanguinose in corso da anni fuori dall’Europa; lo Yemen viene usato come scenario dove affondano le dispute tribali storiche e locali, che risalgono al tempo in cui il territorio era suddiviso in entità statali del Nord e del Sud; rinfocolate da guerre per procura che contrappongono potenze locali, a loro volta sostenute militarmente e propagandisticamente da potenze globali. Scatole cinesi belliche aperte in questo studio di Lorenzo Forlani che dischiude un percorso storico a dipanare il filo dei contrasti dal punto di vista del confronto armato e degli addentellati geopolitici insiti negli intrecci soffocati da un abbraccio mortale di quei riferimenti culturali in contrasto per ragioni storiche e costretti a convivere nelle pieghe di dissidi tribali documentati nella parallela analisi di Carlotta Caldonazzo, che non rinuncia a collocarli nello schema geopolitico dell’area compresa tra lo Stretto di Hormuz e Bab el-Mandeb.

Fu la mattina seguente, a venti chilometri da Taïz, nella dolcezza di una luce che il verde dei campi e dei boschetti privava della sua crudezza, in un palazzo che sembrava uscito da una miniatura persiana, che la mia ricerca delle fonti dell’Islam finì negli occhi di un bambino…
Il guardiano del luogo, un bin Maaruf, proveniente dalla regione più selvaggia dell’antico Hedjaz, ha dei lineamenti affilati e canini la cui espressione astuta è, mi dicono, comune a tutti gli uomini della sua tribù, che fu per molto tempo la più odiata in Arabia. Disprezza qualcuno per generazioni e hai buone possibilità di renderlo spregevole, fino al giorno in cui, con le armi in mano, riacquisterà la sua dignità…

Roman Gary, Les Trésors de la mer Rouge, Gallimard, 1971

 

Il Castello di Taïz com'era (e com'è)

Il Castello di Taïz com’era (e com’è)

fin qui il sommario di OGzero…
La penna ora passa a Lorenzo Forlani


Nuovi scenari scaturiscono dai droni houthi

La crisi umanitaria in Yemen, generata da un grave conflitto militare che non accenna a estinguersi, viene raccontata a fasi e intensità alterne dai media internazionali. Letto unicamente attraverso il prisma della rivalità regionale tra Arabia saudita e Iran, ciò che accade nel paese raccontato da Pasolini tende a guadagnare i titoli delle prime pagine quando i suoi spillover – cioè gli “sconfinamenti” di un conflitto in un contesto diverso da quello in cui ha luogo – sono particolarmente visibili, cioè quando coinvolgono paesi più presenti nel (selettivo) immaginario collettivo occidentale.

È successo alla fine del mese di gennaio, quando i ribelli yemeniti di Ansarullah – anche conosciuti come Houthi – nel giro di due settimane hanno sferrato tre distinti attacchi con droni e missili balistici negli Emirati Arabi Uniti (uno dei quali durante la prima visita ufficiale negli Emirati del presidente israeliano Isaac Herzog) con l’obiettivo di colpire la base militare di Al Dhafra – che ospita truppe britanniche e americane –, un aeroporto e un deposito di carburante. Dopo aver intercettato i missili sui cieli di Abu Dhabi, le forze della coalizione filosaudita, di cui gli emiratini sono parte, hanno bombardato alcune aree sotto il controllo degli Houthi, tra cui la capitale Sana′a e la provincia di Saada, cioè l’area dove il movimento si è strutturato negli anni Novanta.

Attacco di uno stormo di droni Houthi sulla base di al-Dhafra

Lo “Yemen utile”, dimezzato e marginalizzato

Dal punto di vista formale, la situazione in Yemen appare quasi speculare a quella determinatasi in Siria: se nel paese levantino l’esercito di Bashar al Assad, coadiuvato da milizie regionali alleate e soprattutto dall’aviazione russa, dopo quasi dieci anni di conflitto ha ripreso il controllo della gran parte del territorio, e anzitutto di quella che gli osservatori definiscono “Siria utile” (cioè l’area del paese più densamente abitata, lungo la direttrice Damasco-Aleppo), in Yemen sono oggi i ribelli – quelli emersi nel tempo come i più organizzati, cioè gli Houthi – a controllare le regioni più abitate, nonché la capitale Sana′a.

 

La guerra in Yemen ha finora prodotto quasi mezzo milione di morti, dei quali il 70 per cento erano bambini. Secondo la Banca mondiale, su una popolazione iniziale di 30 milioni, oggi in Yemen sono non meno di 20 milioni le persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria permanente, e almeno 14 milioni a soffrire la fame. Quattro milioni sono gli sfollati, e un bambino su due soffre di malnutrizione. Lo Yemen era già lo stato arabo più povero – il quartultimo per Indice di sviluppo umano, dopo Sudan, Mauritania e Gibuti – prima dell’inizio delle primavere arabe del 2011, e oggi sembra affogare nella più grave crisi umanitaria del pianeta, trovandosi ai margini della narrazione tanto quanto, geograficamente, si trova ai margini della regione.

Lo scenario precedente: le “primavere” del 2011

Come si è arrivati sin qui? Sette anni di feroce conflitto hanno forse contribuito a rendere sfocato il ricordo del 2011: anche a Sana′a, la capitale del paese, nel mese di gennaio esplodono proteste popolari estremamente partecipate, proprio nei giorni successivi alla “cacciata” di Ben Ali in Tunisia. Le proteste – che prendono di mira anzitutto il presidente Ali Abdullah Saleh – si espandono a macchia d’olio in brevissimo tempo, e in diverse aree si trasformano in piccole rivolte, represse duramente. Già ad aprile, un terzo dei diciotto governatorati dello Yemen sfuggono al controllo del governo.

 

Come in tutte le rivolte che aspirano a diventare rivoluzioni, partecipate in modo più o meno orizzontale dalla società civile, c’è sempre un gruppo più organizzato, più radicato, più predisposto a prevalere sugli altri nella conquista e nella successiva gestione del potere, nel sovvertimento delle istituzioni esistenti. Gli Houthi – perlopiù riconducibili al ramo zaydita dell’Islam sciita, cioè quello che prende il nome dal pronipote di Ali Ibn Abi Talib, figura fondante dello sciismo – iniziano a avanzare le loro rivendicazioni e la loro soggettività politica nella prima metà degli anni Novanta, insistendo sulla lotta alla corruzione sul piano interno e sull’ostilità verso gli Stati Uniti, avversando Israele come posizionamento geopolitico. Sin dal principio si oppongono al presidente dello Yemen, Ali Abdullah Saleh (al potere dal 1990), riconducendolo all’interno di una narrazione che lo descrive come vassallo dell’Arabia Saudita, e di riflesso degli Stati Uniti.

Appunti per una tragedia yemenita

Yemen in piazza.

Il punto di svolta, cioè il momento in cui l’opposizione degli Houthi si trasforma in sistematica insorgenza anche armata – a intensità diverse, nel corso del tempo – arriva nel 2004: dopo aver rigettato un mandato d’arresto, il leader del movimento sciita Hussein Badreddine al Houthi viene ucciso dall’esercito durante un’offensiva a Saada. Da quel momento, sarà il fratello Abdelmalik al Houthi a guidare il movimento, ed è proprio lui che nel febbraio 2011 dichiara il suo appoggio alle proteste antigovernative, invitando i suoi a parteciparvi, soprattutto nella “roccaforte” di Saada.

Intrecci settari: regionalismo imposto al radicamento territoriale

 

Non è quindi un caso che il primo dei sei governatorati a scivolare via dalla giurisdizione del governo yemenita sarà proprio quello di Saada, che a fine marzo viene dichiarato indipendente dagli stessi membri di Ansarullah. In questo periodo inizia anche una fase di polarizzazione settaria con altre formazioni antigovernative di orientamento sunnita come Al Islah (vaga espressione della Fratellanza musulmana), accusati dagli Houthi di avere legami con al-Qaeda, laddove invece gli Houthi, anche alla luce di una effettiva identità di posizionamenti internazionali, nonché della affiliazione religiosa, vengono sempre più ricondotti a movimento organico alle strategie internazionali dell’Iran, rivale regionale dell’Arabia saudita.

Un importante sviluppo si ha nel novembre 2011, quando gli Houthi, già detenendo il controllo di una porzione rilevante di territorio, rifiutano un piano mediato dai paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, che intendeva dividere lo Yemen in sei regioni federali: secondo i ribelli zayditi, il piano non avrebbe cambiato nulla nella distribuzione del potere e nella governance, e anzi avrebbe rafforzato la netta divisione dello Yemen tra regioni ricche e povere. In più avrebbe frazionato aree già sotto il controllo degli Houthi, che in questo vedevano un tentativo di indebolirne la posizione negoziale. È la prima vera rottura di portata regionale, il momento in cui il piano inizia a inclinarsi verso una feroce guerra civile, alimentata anche da istanze esterne, figlie della proxy war tra Iran e Arabia Saudita.

Milizie. Coperture, forniture, alleanze

È in questo periodo che Ansarullah entra stabilmente in contatto con l’Iran e la sua orbita di milizie regionali, che forniscono addestratori e in seguito armi di vario genere. Dopo aver catturato Sana′a nel 2014, gli Houthi resistono ad alcune offensive saudite nella capitale e si scontrano a Est con formazioni qaediste sotto l’ombrello di Aqap (al Qaeda in the Arabic peninsula). L’offensiva saudita viene declinata soprattutto dal cielo: secondo lo Yemen Data Project, sono circa 25.000 i raid aerei sauditi dal 2015 a oggi, con i picchi più severi nel 2015, 2016 e 2020.

Appunti per una tragedia yemenita

Soldati emiratini rientrano dopo un anno di battaglie in Yemen.

D’altro canto dal 2016 gli Houthi smettono in qualche modo di essere solo una formazione dedita alla guerriglia interna – dal 2018 le battaglie più feroci sono quelle contro gli Amaliqah [i Giganti], un esercito di circa 20.000 uomini, sostenuto da Dubai – e portano a termine diversi attacchi oltre confine, prendendo di mira aeroporti, giacimenti petroliferi e di gas, sia in Arabia Saudita che negli Emirati arabi uniti. Lo fanno servendosi di armamenti via via più sofisticati – e sempre più diffusi in movimenti armati che non possono contare su una copertura aerea – come droni e missili a corto raggio. A partire dai dati del Center for Strategic and International studies, Riad avrebbe intercettato circa 4000 tra missili e droni provenienti dalle zone controllate dagli Houthi negli ultimi 5 anni.

Ed è interessante notare come Ansarullah sia entrato in possesso o abbia direttamente assemblato questo tipo di armamenti, se ancora lo scorso gennaio un report delle Nazioni Unite rilevava la violazione dell’embargo sulle armi, continuando «ad ottenere componenti fondamentali per i loro sistemi d’arma da società europee (soprattutto tedesche, i cui componenti arrivano a Sana′a dopo esser transitate per Atene e Teheran, N.d.R.) e asiatiche, utilizzando una complessa rete di intermediari per occultare la catena di custodia».

Droni in dotazione

In modo simile a quanto fatto da altre milizie sciite, più o meno organiche all’impalcatura di politica di sicurezza regionale dell’Iran, anche gli Houthi dal 2019 hanno persino presentato in via semiufficiale una piccola flotta di droni presumibilmente assemblati in Yemen: si tratta dei velivoli da ricognizione Hudhed 1, Raqib, Rased, Sammad 1 e di quelli da combattimento, Sammad 2, Sammad 3, Qasef 1 e Qasef 2k, questi ultimi praticamente identici ai droni Ababil di fabbricazione iraniana. Se fino al 2019 i droni utilizzati erano soprattutto quelli non armati, che però venivano fatti schiantare contro i radar dei sistemi di difesa della coalizione, da almeno due anni i droni utilizzati sono caricati con esplosivo e hanno un raggio più lungo. In sostanza: da qualche anno gli Houthi hanno accresciuto di molto le loro capacità militari, e questo costituisce uno dei motivi della loro resilienza a fronte della campagna di bombardamenti sauditi ed emiratini.

Qasef 2k, il drone in dotazione ai ribelli Houthi utilizzato per colpire obiettivi sauditi ed emiratini

Dopo sette anni dall’inizio dell’offensiva filosaudita, gli Houthi controllano ancora buona parte dell’area occidentale del paese, che a nord incontra un confine di 1300 km con l’Arabia saudita, mentre a ovest termina sulla costa di fronte allo stretto di Bab el Mandeb, una cruciale zona di transito commerciale. L’unica zona occidentale del paese non controllata dai ribelli di Ansarullah è il lembo di terra costiero a sud, dove sorge la città portuale di Aden, che dal 2019 è sotto il controllo del Southern Transitional Council a guida saudita-emiratina, cioè il governo temporaneo dello Yemen, alternativo a quello guidato dagli Houthi e riconosciuto dalla comunità internazionale.

La guerra finisce con lo Yemen

La guerra in Yemen racconta anzitutto di una incomunicabilità strategico-militare: da una parte una coalizione che, a fronte della quota più alta di import di armi in tutta la regione e di un dispiegamento di forze senza precedenti, non riesce a riportare sotto al proprio controllo gran parte di un paese considerato importante per la propria sicurezza regionale; dall’altra un movimento di resistenza yemenita, endogeno, ma la cui crescente integrazione con gli obiettivi regionali iraniani (a loro volta connessi alla propria idea di sicurezza regionale) ne ha aumentato l’isolamento sia interno – a causa di una gestione draconiana del potere e delle amministrazioni locali – che internazionale (il cui ultimo capitolo è l’inserimento nella lista delle organizzazioni terroristiche).

Il dramma dello Yemen sta soprattutto in questa incomunicabilità, in grado di protrarre un conflitto che non sembra poter avere vincitori, né soluzioni politiche che non passino da un accordo tra Iran e Arabia Saudita, a oggi molto lontano. Gli Houthi controllano una parte di paese sofferente e isolato, senza poter disporre dei suoi confini, e dovendo fare i conti con le campagne di bombardamenti che mirano ad annientarli: un movimento di guerriglia che sembra sempre più propenso a difendere le proprie posizioni e sempre meno destinato ad aver un ruolo politico concreto, in un eventuale futuro Yemen pacificato. I sauditi e gli emiratini, dal canto loro, accanto a una impossibilità di trovare una soluzione politica, mostrano alla regione una rischiosa inefficacia militare: non sufficiente a farli desistere, anzi in grado di suggerire pericolosamente che la guerra in Yemen possa finire soltanto quando sarà finito lo stesso Yemen.

 

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Usa e Iran: “Missiles will be on the table” https://ogzero.org/strategie-per-accordi-epocali-sugli-armamenti-in-iran/ Mon, 01 Mar 2021 10:25:23 +0000 https://ogzero.org/?p=2521 Pubblichiamo un articolo che Lorenzo Forlani ha scritto per OGzero a breve distanza dal primo bombardamento ordinato da Biden su postazioni missilistiche sciite in Siria come segnale nei confronti dell’Iran, all’interno di un cambio di strategie Usa per raggiungere accordi epocali sul programma nucleare iraniano che coinvolgono anche gli armamenti missilistici di Teheran. Nel ridimensionamento […]

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Pubblichiamo un articolo che Lorenzo Forlani ha scritto per OGzero a breve distanza dal primo bombardamento ordinato da Biden su postazioni missilistiche sciite in Siria come segnale nei confronti dell’Iran, all’interno di un cambio di strategie Usa per raggiungere accordi epocali sul programma nucleare iraniano che coinvolgono anche gli armamenti missilistici di Teheran. Nel ridimensionamento delle potenze regionali (il contenimento di Bin Salman e la spregiudicatezza di Erdoğan non più tollerabile), collegabile al cambio di strategia dell’amministrazione americana, il negoziato sul nucleare – in cui è anche incluso il programma missilistico iraniano – si trova a un punto delicatissimo e nel panorama mediorientale (e con gli ultimi eventi di Erevan) torna alla ribalta il fallimento dei nuovi equilibri che si erano insinuati negli spazi lasciati vuoti da Trump durante gli Accordi di Astana, al punto che la Turchia rientra nell’alveo della Nato con un regalo “balistico”, condividendo con gli Usa la tecnologia del missile russo Pantsir, catturato sull’ambiguo fronte libico, emblematico della svolta nel dopo Trump.


Quanto può essere alzata la posta?

Esiste una porzione della società e dell’arena politica americana convinta che l’amministrazione guidata da Donald Trump, con la sua strategia della “massima pressione” sull’Iran, abbia lasciato a Joe Biden una preziosa eredità, mettendolo in condizione di “alzare la posta” in un nuovo possibile negoziato sul nucleare. E nelle stanze del potere statunitense, quando si parla di “alzare la posta” sul dossier iraniano, si fa riferimento a due dimensioni: quella delle milizie filoiraniane in Medio Oriente, e soprattutto quella del programma missilistico iraniano. Non solo una parte dei repubblicani ma anche un segmento dei democratici – oltre agli alleati americani nella regione, cioè Israele, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita – spinge per inserire soprattutto quest’ultimo nei nuovi colloqui sul nucleare. «Missiles will be on the table», ha detto recentemente Jack Sullivan, National Security Advisor di Joe Biden.

Si tratta di un aspetto molto delicato, potenzialmente anche in grado di far fallire un accordo di massima sul nucleare, perché il programma missilistico costituisce per l’Iran una linea rossa, un pilastro della sua capacità di difesa asimmetrica. I missili, è noto, sono armamenti facili da occultare e relativamente difficili da intercettare: per Teheran, che rispetto ai suoi rivali regionali ha una tecnologia meno avanzata e una minore capacità militare complessiva – riflesso di spese militari annuali in rapporto al Pil che mediamente, dal 1990 al 2012, ammontano a un terzo di quelle saudite e alla metà di quelle israeliane –, i missili sono un vitale strumento di deterrenza, in una regione nella quale il fronte antiraniano – ulteriormente rafforzato dalla firma degli “Accordi di Abramo” tra Israele e una serie di Paesi arabi, soprattutto nel Golfo – è sempre più compatto.

Potenza e potenzialità degli arsenali

Non sorprende, quindi, che quella iraniana sia la flotta missilistica più eterogenea e ricca in termini numerici nella regione. Nel marzo 2020 si stimava attorno ai 2500-3000 la somma di missili balistici iraniani, ai quali va aggiunto un numero imprecisato di missili Cruise. I missili balistici si dividono in quattro classi: a raggio corto (fino a 1000 km di gittata), medio (da 1000 a 3000), intermedio (da 3000 a 5500) e intercontinentale (da 5500 in su).

Missili iraniani nel Museo della Difesa di Teheran (Foto di Elena Odareeva)

L’arsenale iraniano è composto da missili a corta gittata (Tondar, Fateh, Shabab 1 e 2) e soprattutto da missili a gittata media (Shabab 3, Zolfaghar, Qiam 1, Burkhan 2h, , Sejil, Emad e Ghadr), mentre a oggi la Repubblica islamica non sembra avere le capacità – ma forse neanche l’interesse, considerando la natura regionale delle sue preoccupazioni in politica estera e di sicurezza – di sviluppare missili intercontinentali (Icbm), in grado di raggiungere l’Europa, sebbene al dipartimento della Difesa americana si registri una certa inquietudine rispetto ai progressi fatti da Teheran nella realizzazione di veicoli di lancio spaziale (Slv), con cui sono stati mandati dei satelliti in orbita (il primo fu il Sina-1, satellite iraniano mandato in orbita nell’ottobre 2005 dalla Russia). Secondo il Worldwide Threat Assessment realizzato dall’intelligence americana nel 2019: «I progressi dell’Iran con gli Slv diminuiscono i tempi per arrivare agli Icbm, poiché Icbm e Slv usano tecnologie simili».

40 anni di Repubblica islamica fondata sui sistemi di difesa

L’Iran ha maturato la decisione di sviluppare un programma missilistico autonomo durante la Guerra con l’Iraq (1980-1988). Il programma missilistico precedente, nato con lo shah, era stato interrotto da Khomeini, per via della avviata collaborazione con Israele e dei sospetti che pendevano sugli ufficiali delle Forze armate, specie dopo il tentato golpe del 1980 (il golpe di Nojeh).

L’indisponibilità di gran parte della comunità internazionale a fornire a Teheran i missili con cui rispondere agli attacchi di Saddam Hussein sulle città iraniane convinse in realtà già nel 1985 l’allora presidente del Parlamento e membro del Consiglio di guerra, Ali Akbar Rafsanjani, a ottenere i missili Scud da Corea del Nord e Libia, per poi produrre localmente, nel 1990, il primo missile a corto raggio (il Mushak, probabilmente con l’assistenza cinese).

Reazioni difensive meccaniche introiettate e…

Ciò è utile a ricordare una postura non più molto familiare in Occidente: a torto o a ragione, sin dalla fine della guerra con l’Iraq, Teheran attribuisce una natura esistenziale alle minacce che affronta, fronteggiamenti che rendono il mantenimento di un programma missilistico fuori discussione. Ciò si spiega anche con quella che i politologi chiamano la path dependance (dipendenza dal percorso): una concezione interiorizzata, per cui piccoli o grandi eventi del passato, anche se non più rilevanti (l’Iraq oggi non è più un paese ostile come con Saddam), possono avere conseguenze significative in tempi successivi, che l’azione economica può modificare in maniera limitata, anche perché i costi di una regressione da un cammino intrapreso sono alti.

Nel caso iraniano, il motivo contingente alla base della decisione di dotarsi di missili fu l’aggressione di Saddam Hussein: una motivazione che non sussiste più ma che è stata “riempita” con le minacce di strike da parte di Israele. Spesso nel Parlamento iraniano è stato citato il caso di Libia e Iraq per mettere in guardia da qualunque concessione sul programma missilistico: sia la Libia che l’Iraq, infatti, furono invasi dopo aver accettato alcune limitazioni al proprio programma missilistico. Diverse componenti politiche in Iran, in sostanza, si chiedono: a che prezzo porre limitazioni al principale deterrente contro un regime change? Chi garantisce che non sia la premessa per ulteriori restrizioni militari?

… quali priorità nelle riduzioni degli arsenali?

Se in molti, sia in Occidente che nei paesi del Medio Oriente riconducibili al blocco antiraniano, spingono in diverse sedi e modalità per porre un freno al programma missilistico dell’Iran, in pochi sembrano in grado di entrare nel dettaglio, rispondendo anzitutto alla domanda: cosa limitare? La capacità iraniana di trasporto delle testate nucleari? Il numero di missili (a prescindere dalla capacità di trasporto nucleare) prodotti e impiegati dall’Iran? Il dispiegamento di nuovi e più avanzati sistemi? È difficile trovare delle risposte elaborate a questi punti.

Vista la diffidenza diffusa nella regione, qualunque accordo sul dossier missilistico – con limitazioni anche per gli altri paesi regionali – dovrebbe essere sostenuto da adeguati meccanismi di verifica, che a oggi sono impossibili da implementare, non esistendo peraltro alcun framework internazionale per il controllo dei programmi missilistici (per cui l’Iran percepirebbe l’eccezionalità del controllo esclusivo sul suo programma, in una riedizione del dossier nucleare). Privare l’Iran degli strumenti e dei sistemi per trasportare armi nucleari è inverosimile, poiché i missili Shabab 3 e Ghadr – utilizzabili anche a questo scopo – costituiscono soprattutto il cuore della capacità iraniana di rispondere a eventuali attacchi israeliani; limitare il numero dei missili prodotti e impiegati richiederebbe ispezioni intrusive e approfondite alle basi militari e ai centri di produzione militare iraniani, difficili da accettare per l’Iran, specie in assenza del framework menzionato.

Il fatto che a oggi Teheran non sia interessata agli Icbm è in parte dimostrato dal fatto che, a fronte di enormi progressi in campo missilistico negli ultimi 20 anni, Teheran non abbia mai effettuato nemmeno dei test con missili a lungo raggio, in grado di raggiungere gli Stati Uniti, e che abbia ristretto volontariamente la gittata massima dei suoi missili a 2000 km. Se da una parte l’unico aspetto “controllabile”, senza essere eccessivamente intrusivi, è la capacità iraniana di trasporto di testate nucleari, per la quale potrebbero essere introdotte restrizioni ai test di volo, è bene anche ricordare che eventuali pressioni o ricatti sui missili da parte dell’Occidente potrebbero spingere le autorità iraniane a inaugurare per rappresaglia proprio i test sui missili a lungo raggio.

Strategie per accordi epocali

In conclusione, anche a prescindere dal raggiungimento in tempi brevi di un nuovo accordo sul nucleare, appare chiaro come le richieste unilaterali all’Iran di cessazione o limitazione al proprio programma missilistico siano destinate a non funzionare. Ne consegue che l’eventuale tentativo americano di inserire modifiche al programma missilistico iraniano come precondizione a un rientro degli Stati Uniti nel nuclear deal sarebbe rovinoso: nel più roseo dei casi ne uscirebbe un accordo “vuoto”, e delle limitazioni che non soddisferebbero nessuno. Sarebbe forse più utile aprire discussioni di lungo termine – e allargate alla regione – sui missili intercontinentali, come ricordano gli studiosi Fabian Hinz e Sahil Shah.

Ex ambasciata degli Stati Uniti a Teheran (Foto di Fotokon)

Con i presupposti attuali, una ipotesi – comunque complessa da percorrere – potrebbe essere quella di accordare all’Iran il rafforzamento della flotta di missili a medio raggio (con la attuale soglia massima di 2000 chilometri) in cambio di limitazioni all’uso di tecnologie militari nel programma spaziale di Teheran e/o al trasferimento di missili Cruise e balistici ad attori non statali sostenuti da Teheran (come gli houthi in Yemen). A ogni modo, così come sul dossier nucleare, anche sul programma missilistico sarebbe profondamente sbagliato guardare all’Iran con il “prisma” libico, nella convinzione quindi che Teheran ceda se messa sotto pressione. Se non altro, perché Teheran è sotto pressione dal 1979.

Lo sforzo empatico non sarebbe tanto una concessione ma anzitutto una operazione funzionale all’inquadramento del problema: tenere conto della percezione delle minacce – le strategie israeliane, i paesi del Golfo, le formazioni jihadiste perlopiù antisciite e antipersiane, le basi militari americane in tutti i paesi confinanti… – da parte dell’Iran, e in particolare della convinzione che la sua sicurezza, in una regione polarizzata e instabile, dipenda dalla sofisticazione del suo arsenale missilistico. Le lezioni della Guerra fredda possono essere d’aiuto, ma fino a un certo punto: se è infatti vero che la limitazione delle capacità militari sovietiche non avvenne grazie alle sanzioni, ma mediante l’istituzione dei meccanismi di controllo e concessioni accompagnate da leveraging militare, è anche bene ricordare che in Medio Oriente la citata scarsa fiducia diffusa sussista non tra due ma tra un numero consistente di attori regionali, mossi da agende quasi inconciliabili.

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La mezzaluna sciita si dissemina per raccogliere la svolta di Biden https://ogzero.org/il-proliferare-di-milizie-nella-mezzaluna-sciita/ Thu, 28 Jan 2021 11:55:02 +0000 http://ogzero.org/?p=2320 Il nastro si riavvolge riproponendo attentati Venerdì 22 gennaio, nel centro di Baghdad, 32 persone sono morte in un attentato suicida rivendicato dall’Isis. Suona come una notizia tristemente familiare, eppure erano quasi tre anni – 2018 sempre a gennaio, 27 vittime – che in Iraq non si verificava un attacco suicida di queste proporzioni. Attribuirlo […]

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Il nastro si riavvolge riproponendo attentati

Venerdì 22 gennaio, nel centro di Baghdad, 32 persone sono morte in un attentato suicida rivendicato dall’Isis. Suona come una notizia tristemente familiare, eppure erano quasi tre anni – 2018 sempre a gennaio, 27 vittime – che in Iraq non si verificava un attacco suicida di queste proporzioni. Attribuirlo in modo esclusivo alla graduale compromissione delle condizioni e dei dispositivi di sicurezza in Iraq nel corso dell’ultimo anno è forse un’operazione prematura e parziale ma è significativo che l’attentato sia avvenuto in questo momento storico, in una città i cui quartieri e ingressi sono presidiati dall’Esercito iracheno e da una miriade di milizie governative e non, molte delle quali protagoniste della stessa sconfitta dell’Isis nel 2014, e finanziate dall’Iran.

Nelle settimane precedenti all’attentato le sensazioni di un cittadino iracheno potevano risultare contrastanti: da un lato l’idea che attorno al 2 gennaio, primo anniversario dell’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani e del suo luogotenente iracheno, il comandante Abu Mahdi Al Muhandis, molte delle citate milizie potessero organizzare una qualche forma di rappresaglia su obiettivi americani, insieme ai rischi di sicurezza storicamente connessi ai grandi assembramenti, proprio come quello organizzato per l’anniversario; dall’altro la consapevolezza, diffusa forse più sui media internazionali che nella società civile ma comunque fondata, che fino al 20 gennaio – giorno dell’insediamento di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti – Teheran avesse diffidato le milizie dal compiere qualunque azione in grado di fornire all’uscente presidente Trump un pretesto per un’operazione militare last-minute contro l’Iran. Ha prevalso la seconda, se si escludono dei lanci dimostrativi di alcuni razzi da parte di formazioni sempre più fuori controllo.

L’eredità di Soleimani

Quel che però è successo lo scorso 22 gennaio può stimolare alcune riflessioni sulle conseguenze di lungo termine dell’assassinio di Soleimani: all’apparenza, e nella percezione americana, un duro colpo alla capacità di mobilitazione paramilitare in Iraq contro gli interessi statunitensi, per via della paternità e dell’ascendente di quest’ultimo su gran parte di quelle milizie. In realtà, e al di là degli aspetti di illegalità – Soleimani era in visita con passaporto diplomatico in un paese, l’Iraq, che lo aveva invitato –, l’assassinio di Soleimani e Al Muhandis ha contribuito a rendere ancor più imprevedibile una situazione già instabile. E che potrebbe sfuggire di mano anche all’Iran stesso.

Perché i due militari avevano sì il potere di coordinare gran parte delle milizie e le loro azioni contro le truppe americane ma di riflesso anche quello, sostanzialmente esclusivo, di contenerle o farle cessare. Di “razionalizzare”, e non solo “alimentare”, la diffusa ostilità alla presenza militare americana. Una capacità perlomeno utile, nella prospettiva di una possibile riapertura del negoziato sul nucleare da cui Donald Trump era uscito unilateralmente, inaugurando una nuova e per certi versi improvvisa stagione di crociera in nuove tensioni, a ridosso dell’escalation.

Le milizie, formazioni di difesa locale o di offesa globale?

L'eredità di Soleimani

Sebbene l’abbandono del Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa) sul nucleare iraniano abbia costituito un fatto senza precedenti nella storia delle relazioni tra Stati Uniti e Repubblica islamica dell’Iran, anche per via della sua natura ufficiale e multilaterale, non è la prima volta che gli Stati Uniti fanno un passo indietro o recedono da una qualche forma di intesa formale con Teheran. La motivazione addotta è più o meno sempre la stessa: le attività di “destabilizzazione regionale” degli iraniani, la cui cessazione per gli Stati Uniti costituisce sin dagli anni Ottanta una sorta di presupposto implicito – quindi non formalizzato – di qualunque compromesso con Teheran. E quando le diverse amministrazioni americane – a cominciare da quella di Trump, soprattutto per bocca del suo segretario di Stato, Mike Pompeo – parlano di “espansionismo” e “attività terroristiche e destabilizzanti” dell’Iran in Asia occidentale, fanno riferimento proprio a quelle milizie che la Repubblica islamica ha finanziato, addestrato e mobilitato negli anni in diversi paesi della regione: dal Libano, passando per la Siria, fino allo Iraq, cioè l’arena in cui l’influenza di Teheran è forse più rilevante e visibile.

Esiste, a monte, una fondamentale questione di percezioni. Gli Stati Uniti considerano nella forma e nella sostanza le milizie filoiraniane e gli stessi Guardiani della Rivoluzione (Irgc) delle entità equiparabili all’Isis e ad Al Qaeda: soggetti con un’agenda prettamente offensiva, operatività potenzialmente globale e utilizzo sistematico del terrorismo, in una visione che non distingue nemmeno formalmente le vittime civili da quelle militari. Tutte caratteristiche che non appartengono alle milizie, che sono invece formazioni locali, nate per combattere l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, alla stregua della nascita di Hezbollah in Libano agli inizi degli anni Ottanta contro l’invasione israeliana.

Il potere dal territorio, frammentato in sfere d’influenza…

Non si tratta solo di errate valutazioni circa la loro natura: il sostegno iraniano a queste milizie viene letto dagli Usa in ottica offensiva, come espressione di un cieco fanatismo espansionista e antioccidentale. L’Iran – esercitando un soft e hard power composito, e che in parte ha inglobato l’eredità reputazionale dello stato antagonista, di principale recipiente dell’“antiamericanismo” (prima riconducibile all’Urss) – ha invece usato le milizie come strumento difensivo avanzato. Lo ha fatto e lo fa in una regione frammentata dal punto di vista amministrativo e altamente militarizzata, nella quale Teheran coltiva alleati locali – o, nel caso del conflitto siriano, il regime contro le formazioni a esso ostili – per erodere il suo storico isolamento e costruire una sua sfera d’influenza, che rafforzi la sua “cintura” di sicurezza e le riconosca un ruolo di potenza regionale.

Quella delle milizie è un’arma asimmetrica e imprevedibile, funzionale a forme di deterrenza rispetto a paesi rivali – Arabia Saudita e Israele in particolare – che hanno spese militari molto più ingenti e armamenti più avanzati, rispetto alla presenza militare americana in diversi paesi confinanti con l’Iran e rispetto alle diverse formazioni dell’internazionale jihadista di matrice soprattutto wahhabita, notoriamente animate da radicale avversione per gli sciiti.

Centralità dell’Iraq nella strategia iraniana

È abbastanza facile capire perché sia l’Iraq il paese col più alto numero di milizie filoiraniane e non, tutte accomunate da gradi diversi di ostilità alla presenza militare americana: un confine di 1500 km con un paese che dal 2003 è in frantumi, privo di un vero stato, e nove basi militari americane al suo interno, alcune molto vicine al confine iraniano. Implicito è l’aspetto demografico, visto che l’Iraq del post-Saddam è tornato a essere un paese a maggioranza sciita come l’Iran, e che le milizie in gran parte – ma non tutte – sono animate da immaginario e simbolismo sciita.

Composizione delle milizie filoiraniane nella mezzaluna sciita

Le Forze di Mobilitazione popolare (Pmf, in arabo Hashd al Sha’abi) si presentano ufficialmente, in forma embrionale, tra il 2012 e il 2014, quando l’allora primo ministro Nuri Al Maliki inizia a reclutare piccoli gruppi di volontari nelle Brigate di Difesa Popolare (Saraya al Dif’a al sha’abi). Il “bollo di autenticità” arriva il 13 giugno 2014 – l’Isis quasi alle porte di Baghdad –, quando la principale autorità religiosa irachena, l’Ayatollah Ali Al Sistani, emette una fatwa che invita i cittadini iracheni (non solo sciiti) a combattere contro l’Isis: le Pmf assumono una forma ufficiale, che in seguito alle fondamentali vittorie militari nei confronti dell’Isis le porterà a essere inquadrate nell’Esercito iracheno. Come ricorda Michael Knights, se in un sondaggio del 2011 solo il 15% degli iracheni nutriva fiducia nelle Pmf per la gestione della sicurezza in Iraq, nel 2017 questa percentuale è schizzata al 91% per gli iracheni sciiti e al 65% per i sunniti.

Lo zoccolo duro delle milizie irachene direttamente collegate all’Irgc iraniana è composto dalla Kata’ib Hezbollah, “cugina” di Hezbollah in Libano e guidata fino a un anno fa proprio da Al Muhandis, che può contare almeno su 10.000 uomini, e la Kata’ib al Imam Ali, con circa 8000 effettivi. Entrambe molto attive contro l’Isis ma anche accusate di violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione sunnita evacuata nelle aree controllate dall’Isis. Le altre milizie con rapporti di diverso grado con Teheran sono la Brigata Badr di Hadi Al Amiri – rilevante anche per i rapporti con le milizie sunnite nelle aree tribali – e Asa’ib Hal al-Haq (Aah, che è anche un partito con 15 seggi in Parlamento), con 10.000 effettivi e guidata da Qais Al Khazali, sul quale si tornerà più avanti. Alla fine del 2014 il numero stimato di miliziani delle Pmf era di circa 60.000, a cui sommare almeno 20.000 uomini non inquadrati ufficialmente nelle Pmf.

Ghaani, grigio funzionario e il sotterraneo lavoro di intelligence

Anche all’indomani dell’uccisione di Al Muhandis e Soleimani, i diffusi timori che innescasse una escalation erano stati in parte sopiti dalla reazione contenuta e in qualche modo “calcolata” di Teheran, che l’8 gennaio seguente aveva colpito con alcuni missili a lunga gittata la base americana in Iraq di Al Asad, ferendo un centinaio di soldati. Nel frattempo, il Parlamento iracheno aveva votato il ritiro delle truppe americane dall’Iraq, che chiaramente non è avvenuto. In tempi relativamente brevi, quindi, l’Iran ha nominato come successore di Soleimani a capo dei reparti Al Quds dell’Irgc. Ghaani però, a differenza di Soleimani, non parla arabo, conosce poco l’Iraq e non ha nessuna relazione personale con i capi delle milizie. Come ricorda Suadad Al Salhy, viene considerato un semplice messaggero, senza particolari prerogative o qualità diplomatiche e strategico-militari.

La sua nomina, che alla luce di queste informazioni è stata letta da alcuni come il segnale di un indebolimento delle milizie e soprattutto dell’influenza iraniana, è stata in effetti accolta dai comandanti delle principali milizie con sorpresa. Ma in realtà segnala qualcosa di più profondo, cioè il ritorno del ruolo dell’intelligence iraniana in Iraq. Durante gli anni Ottanta, quelli del conflitto tra Iran e Iraq, i servizi iraniani erano molto attivi a Baghdad e dintorni. Dal 2005, dopo la caduta di Saddam Hussein, il loro ruolo inizia invece a declinare. Vengono gradualmente sostituite dalle Forze Al Quds, guidate da Soleimani dal 1998, che organizzano alcune delle nascenti milizie popolari per combattere gli americani e scongiurare la possibilità che un paese in preda all’anarchia non si trasformasse né in una “base” statunitense per eventuali regime change a Teheran né in avamposto per gruppi jihadisti antisciiti. L’apice del potere delle Forze Al Quds dell’Irgc è nel 2014, quando Teheran per prima assiste militarmente Baghdad e il governo autonomo del Kurdistan, alle prese con l’invasione di Mosul e di larghe parti del paese da parte dell’Isis, e contestualmente attiva le sue milizie.

La barriera di giovani corpi del Movimento sulla strada delle milizie

L'eredità di Soleimani

In seguito alla sconfitta dell’Isis le milizie rafforzano progressivamente sia i loro rapporti con l’Iran che la loro preminenza politico-militare in Iraq: figlia dei loro successi bellici ma madre di diversi malumori generati negli iracheni, culminati con le proteste di fine 2019. Proprio le proteste, insieme all’assassinio di Soleimani e Al Muhandis, secondo una fonte irachena vicina all’Iran e citata da Al Salhy, avrebbero avuto l’effetto collaterale di arrestare un processo di ristrutturazione delle milizie innescato nel 2017, dopo che lo stesso Al Sistani aveva chiesto un ridimensionamento dell’influenza iraniana.

In particolare, Teheran stava avviando lo smantellamento di alcune formazioni (come la Brigata Khorasani) e una strategia basata sulla fiducia al premier iracheno Mustafa Al Khadimi, sulla diversificazione delle fonti di finanziamento dei suoi alleati politici iracheni e sul loro leverage nella politica economica locale; sul ricollocamento di migliaia di miliziani, non inquadrati nelle Pmf, in ruoli civili, sul rafforzamento delle fondazioni e imprese legate alla ricostruzione, sul modello della Jihad-e-Sazandegi dopo la guerra contro l’Iraq o Jihad al Bina in Libano dopo i bombardamenti israeliani. In generale, una maggiore enfasi sulla politica e la diplomazia (anche quella parallela delle Hawza, le scuole religiose sciite irachene e iraniane) rispetto al militarismo

La diversa “fedeltà” a Tehran delle milizie

Senza Qassem Soleimani, hanno preso forma due opposte tendenze centrifughe: una serie di milizie – come Liwa Ali Al Akbar, Firqat al Imam Ali Al Qitaliyah, Liwa Ansar al Marjaiya – si sono progressivamente sfilate dall’ombrello iraniano, alcune in aperta protesta contro la corruzione diffusa in alcune formazioni delle Pmf. Le cosiddette “fazioni del Mausoleo”, cioè particolarmente vicine all’Ayatollah Al Sistani, in una conferenza dello scorso 2 dicembre a Najaf hanno ribadito la propria richiesta di separarsi dalle Pmf, e di poter riportare esclusivamente al ministero della Difesa e al primo ministro.

Altre sono invece andate fuori controllo in senso opposto: è il caso della Aah di Qais al Khazali. Forte del suo peso politico – l’obiettivo è andare oltre gli attuali 15 seggi e guidare l’intera coalizione di Al Fatah – e militare, Aah negli ultimi tempi è stata protagonista di crescenti scaramucce sul controllo di alcuni checkpoint intorno a Baghdad con Kata’ib Hezbollah e con Harakat Hezbollah al Nujaba, anche per via della rivalità tra Al Khazali e Akram Al Kaabi, il capo della seconda, che peraltro è nata da una scissione da Aah nel 2013. In modo ancor più significativo, poi, ha più d’una volta contravvenuto all’ordine di non lanciare razzi verso obiettivi americani nelle ultime settimane del mandato di Trump: l’ultima volta lo scorso dicembre, dopo l’assassinio dello scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh, spingendo lo stesso Ghaani a incontrare Al Khadimi proprio per recapitare agli Stati Uniti un messaggio sulla propria estraneità ai fatti. Nello stesso giorno a Baghdad sono stati arrestati Hossam Al Zerjawi di Aah (ritenuto responsabile dei lanci) e Hamed Al Jezairy e Ali Al Yasiri, comandanti della dismessa Brigata Khorasani (di cui una settimana prima erano stati arrestati altri 30 membri).

Sembra che Al Khazali fosse contrariato dalla nomina di Abu Fadak Al Muhammadawi (Kata’ib Hezbollah) a capo delle Pmf, e che pensi tuttora di meritare la leadership della muqawama (“resistenza”). Teheran, invece, lo considera poco gestibile militarmente e lo vedrebbe più come uno di quei politici da coltivare e con cui sviluppare la strategia accennata, puntando su un blocco parlamentare solido, specie se si considera il parziale raffreddamento delle relazioni politiche con il blocco di Muqtada Al Sadr, anch’egli orientato al contenimento del ruolo iraniano, oltre che di quello americano.

Il vento nucleare sospeso in attesa di Biden

Questa strategia, però, è vincolata all’idea che Joe Biden rientri quanto prima nell’accordo sul nucleare, e che lo faccia alle stesse condizioni del precedente, senza tentare di inserire il programma di missili balistici – che sono una linea rossa per Teheran – e le stesse milizie in un nuovo negoziato. È infatti assai possibile che alle elezioni presidenziali iraniane del prossimo giugno vinca un candidato principalista, più vicino alle prerogative dell’Irgc e meno incline a fidarsi nuovamente della diplomazia statunitense, motivo per cui il tempo per quest’ultima potrebbe essere più favorevole nei primissimi mesi della presidenza Biden.

Una presidenza che potrebbe ricalibrare all’insegna del realismo le sue percezioni sulle Pmf, abbandonando l’idea che esse costituiscano delle organizzazioni terroristiche globali e funzionali a supposti progetti di dominio dell’Iran. Provando magari a negoziare separatamente un loro ridimensionamento, in cambio del ritiro americano o perlomeno di uno speculare contenimento delle proprie attività in Iraq. Sarebbe in ogni caso opportuno operare nella consapevolezza che una politica non esplicitamente volta a sconfessare quella di Trump, o che decida di trattare egualmente le milizie come formazioni terroristiche, sortirebbe effetti prevedibili: perché si può anche “potare” qualunque legame con l’Iran, eliminare Soleimani o dichiarare guerra senza quartiere alle milizie irachene sue “orfane”, ma è molto difficile che l’hard power e le risorse belliche americane siano in grado di estinguere le ragioni della nascita e dell’esistenza di quelle stesse milizie, cioè proprio la presenza militare americana. Decisamente più probabile è che questa ragione ne esca rinvigorita. E che sullo sfondo, in un Iraq da troppo tempo non in condizione di controllare il proprio destino, attentati come quello di venerdì 22 gennaio tornino a essere routine.

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È cambiato qualcosa sotto i Cedri? https://ogzero.org/e-cambiato-qualcosa-sotto-i-cedri/ Tue, 10 Nov 2020 16:36:14 +0000 http://ogzero.org/?p=1713 Rappresentanze variabili solo all’università? Lo scorso 8 ottobre dal Libano una notizia è passata in sordina sui media internazionali, forse troppo in fretta considerata propria di una dimensione prettamente locale. Alle elezioni del Consiglio studentesco della Lebanese American University (Lau), per la prima volta nella storia dell’istituto, i candidati indipendenti hanno vinto tutti i seggi […]

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Rappresentanze variabili solo all’università?

Lo scorso 8 ottobre dal Libano una notizia è passata in sordina sui media internazionali, forse troppo in fretta considerata propria di una dimensione prettamente locale. Alle elezioni del Consiglio studentesco della Lebanese American University (Lau), per la prima volta nella storia dell’istituto, i candidati indipendenti hanno vinto tutti i seggi per cui gareggiavano, contro i ben più quotati e ben meglio “posizionati” candidati delle Forze libanesi (partito della destra cristiana nazionalista) e di Amal (partito sciita del presidente del parlamento, Nabih Berri, e alleato di Hezbollah).

Nel campus di Beirut, i candidati indipendenti – espressione nemmeno troppo indiretta dei moti di protesta anti-establishment esplosi in Libano il 17 ottobre 2019 – hanno ottenuto la maggioranza con 9 seggi su 15, concedendo ai candidati di Amal e delle Forze libanesi rispettivamente 4 e 2 seggi. Alle precedenti elezioni del 2019, avvenute poco prima dell’inizio delle proteste, gli indipendenti avevano ottenuto 2 seggi, contro gli 8 della coalizione composta da Forze libanesi, Futuro e Partito socialista progressista e i 5 di Amal e dei suoi alleati minori. Nel campus di Byblos, a nord della capitale, gli indipendenti hanno comunque ottenuto 5 seggi, i primi della storia dell’ateneo, contro i 9 delle Forze libanesi e solo uno per Amal.

I giovani non cedono più

«È cambiato qualcosa», dice a dire il vero senza troppa convinzione Mayssa, ex studentessa della Lau e sorella di Asma, che ha accompagnato all’Università il giorno della pubblicazione dei risultati. «Questo forse significa che i giovani non cedono più, e sono convinti che ci voglia un cambiamento. Cinque anni fa, quando ho votato io, mi ricordo i responsabili della campagna delle Forze libanesi, che arrivavano a offrire 200 dollari per un voto. Anche io una volta li ho accettati, sono sincera, non mi interessava la politica ed erano tanti soldi», aggiunge, mentre la sorella la prende bonariamente in giro.

Duecento dollari, in Libano, erano già una cifra considerevole prima della crisi economica che ha raggiunto il suo apice nel corso di quest’anno, e che ha fatto perdere alla lira libanese l’80 per cento del suo valore. Quando il tasso di cambio – mantenuto artificialmente stabile dalla Banca centrale, prima di schizzare fuori controllo da novembre 2019 – tra lira e dollaro era di 1,5, il salario minimo nel Paese dei Cedri ammontava a 450 dollari, anche se è alta la quota di popolazione che in Libano svolge lavori informali. Ora che il cambio si aggira sui 7 nel mercato nero, dopo essere arrivato anche a 10, quei duecento dollari non solo varrebbero oro ma sarebbero impossibili da reperire, perché le banche libanesi da 10 mesi hanno imposto severi limiti ai prelievi e il blocco dei conti in dollari. Se fino a due anni fa dollari e lire venivano usati indifferentemente sul mercato – al tasso di 1,5 –, oggi è del tutto impossibile, per un libanese, trovare della valuta forte sul mercato interno, a meno di non volerla cambiare a un tasso che gli prosciugherebbe il conto in banca.

Potere d’acquisto dissolto: la crisi è inarrestabile

Il paese è in una situazione di inarrestabile crisi economica, sociale, bancaria, procedurale e fiduciaria, che vede i libanesi in condizioni molto peggiori anche solo rispetto a un anno fa. Ha dichiarato il fallimento tecnico a marzo, dopo il mancato rimborso di 700 milioni in eurobond, fa i conti con uno dei debiti pubblici più alti al mondo, cresciuto del 2120 per cento dal 1990 a oggi), la scomparsa della classe media, una disoccupazione vicina al 40 per cento, un tasso di povertà del 50 per cento (contro il 28 di meno di due anni fa) e, secondo gli studi di Steve Hanke, professore di Economia applicata della Johns Hopkins University, è il primo stato del Medioriente ad aver sperimentato l’iperinflazione (413 per cento nell’ultimo anno).

Tutto ciò si è aggiunto a una preesistente mancanza o profonda carenza infrastrutturale – l’assenza di una rete elettrica nazionale che garantisca elettricità 24 ore su 24, l’assenza del trasporto pubblico e una tragica gestione dei rifiuti –, legata in parte alla corruzione endemica, in modo non dissimile da come quest’ultima alimenta le enormi sperequazioni economiche, e le differenze abissali tra il 5 per cento più ricco e il 20 per cento più povero in termini di sviluppo umano: il Libano è un paese dove, secondo le Nazioni Unite, l’1 per cento della popolazione detiene circa il 25 per cento del reddito nazionale. Un paese in cui, forse non a caso, i principali istituti di credito fino a due anni fa realizzavano profitti in alcuni casi superiori a quelli dei maggiori istituti britannici, come Standard Chartered, e nel quale almeno un quinto della popolazione vive in campi profughi, in condizioni di enormi difficoltà.

17 ottobre 2019: esplode il Movimento anti-establishment

Più che la pluricitata “tassa su whatsapp”, a provocare la rabbia dei libanesi, innescando il 17 ottobre 2019 una protesta anti-establishment improvvisa, trasversale, altamente partecipata, era stata proprio l’ennesima dimostrazione di carenze infrastrutturali e di negligenza, con la disastrosa gestione da parte delle autorità degli incendi scoppiati nelle foreste dello Chouf in quei giorni. Accortesi con colpevole ritardo della inagibilità dei velivoli antincendio Sikorski, che avrebbero necessitato di manutenzione, hanno dovuto chiedere aiuto a Cipro e Giordania.

Quel 17 ottobre, e almeno per altre due settimane senza mai veder intaccato il livello di partecipazione massiva (per poi comunque stabilizzarsi per mesi su cifre inferiori ma non trascurabili), migliaia di libanesi erano sembrati destarsi all’improvviso dalla loro condizione di “prigionieri di una garanzia”. La (percezione di una) “garanzia”, in particolare per le vecchie generazioni, sta nel confessionalismo, il particolare framework che regola la repubblica parlamentare libanese.

A ognuna delle diverse comunità libanesi – quelle cristiane e musulmane, divise nei vari riti, quella drusa e quella armena – viene garantita la rappresentanza in parlamento e nelle istituzioni pubbliche, con un sistema elettorale che permette a ogni libanese di votare unicamente per il candidato della propria confessione, che corre per il seggio a essa assegnato in una data area, sia nel voto municipale che in quello nazionale. Questo ordine delle cose, soprattutto agli occhi di chi ha vissuto il periodo della guerra civile (1975-1990), costituisce una sorta di assicurazione di rilevanza e rappresentatività, oltre che una tutela contro le eventuali dittature di maggioranze confessionali ai danni delle altre, in un paese in cui tanti over 50 hanno delle remore a metter piede in aree del paese popolate da appartenenti a confessioni che non sono le loro.

Questa garanzia, tuttavia, è anche l’alimento ideale del settarismo, e nutre una realtà in cui le appartenenze confessionali sembrano essere prioritarie rispetto a quella nazionale. Ognuno ha un’idea diversa di cosa sia e di chi sia il Libano, un aspetto ben esemplificato dal fatto che i manuali di storia dei licei arrivano al 1943, anno dell’indipendenza, e si guardano bene dall’affrontare i decenni successivi: men che mai la guerra civile, sulla quale ogni comunità ha la sua ricostruzione, i suoi colpevoli e i suoi innocenti, e dopo la quale non è mai avvenuto un vero processo di riconciliazione nazionale.

Il settarismo, a sua volta, si è dimostrato un ottimo recipiente di corruzione, o di un sistema che può essere definito neopatrimoniale, in base al quale i leader politici si assicurano la fedeltà degli elettori della loro comunità in cambio della concessione di agevolazioni, di un lavoro, dell’iscrizione scolastica dei figli, e della fornitura di servizi che dovrebbero essere forniti dallo stato. In molti, in Libano, sono allo stesso tempo prigionieri e beneficiari di questa logica, e molte delle persone scese in piazza hanno rivendicato proprio questa condizione: essere in sostanza costretti a votare gli stessi leader settari e corrotti, che in cambio del voto – e in virtù del controllo che esercitano sull’economia libanese – sono gli unici in grado di promettergli benefici, che talvolta risultano vitali. È quello che in Libano definirebbero wasta, e in Italia “raccomandazione”, anche se il significato è più esteso e la sua applicazione più pervasiva e sistematica, poiché in Libano è quasi impossibile trovare un lavoro senza la connessione diretta o indiretta col leader politico settario che ha interessi o potere in quell’azienda privata o in quell’istituzione pubblica. La corruzione, in Libano, mette tutti d’accordo: ormai nessuno, nemmeno i politici locali sotto l’occhio del ciclone proprio per esserne gli alfieri, rinuncia a menzionarla come il principale problema, testimoniato dal 127esimo posto nella classifica di Transparency international.

5 agosto 2020: esplode il porto di Beirut… ma qualcosa è cambiato?

L’inasprirsi della crisi economica, contestuale all’avvento della pandemia, a cui si è aggiunta l’esplosione al porto di Beirut, ha via via eroso il volume di partecipazione alle proteste, che ora sembrano attraversare una fase di stanca sia per il venir meno nelle piazze di chi un anno fa aveva da mangiare e oggi fa molta più fatica, sia per via di divisioni legate al timore di strumentalizzazioni della protesta da parte dei partiti settari che oggi sono all’opposizione, e che possono “giocare” sul malinteso tra moti anti-establishment e moti antigovernativi. Si è in certa misura insinuata – soprattutto tra i meno giovani che hanno partecipato – l’idea che la protesta, rimasta sempre “acefala” e non confessionale, potesse in realtà essere manipolata da alcune comunità sulle altre, che poi è lo stesso timore legato alla fine repentina del confessionalismo che i giovani più attivi hanno chiesto a gran voce, forse senza chiedersi fino in fondo quali garanzie possano saltare nel breve termine.

Tuttavia la strada in quella che rimane, a differenza dei regimi della regione incalzati dalla Primavera araba, una democrazia perlomeno sulla carta, è quella perseguita nelle elezioni alla Lau, anche se alle ultime elezioni parlamentari di due anni fa la piattaforma “Kilna Watani” ha ottenuto due soli seggi, nonostante il movimento di anti-establishment si fosse strutturato già dal 2015, l’anno della protesta contro la gestione dei rifiuti. Jad, che quando sono iniziate le proteste ha lasciato il suo lavoro ben pagato negli Emirati arabi uniti per ritrasferirsi nel suo Libano, dove è ancora disoccupato, non ha dubbi: «I partiti sono macchine di propaganda e di corruzione, lo sappiamo che alle prossime elezioni l’80 per cento di quelli che sono in parlamento ci ritorneranno. Ma dobbiamo provarci anche se la strada è lunga, perché qualcosa è cambiato».

La foto di copertina è di Layal Jebran.

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Galassia jihadista in Sahel https://ogzero.org/galassia-jihadista-in-sahel/ Mon, 06 Jul 2020 07:30:44 +0000 http://ogzero.org/?p=383 La guerra contro la diversità intraislamica: spettacolarizzazione della violenza tra brand dall’outbidding fino all’uccisione di Droukdel La pandemia di Covid 19 ha colpito il continente africano in modo più contenuto rispetto a gran parte del mondo, anche se non si può certo dire che lo abbia risparmiato. Nel quadrante del Sahel, una fascia di territorio […]

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La guerra contro la diversità intraislamica: spettacolarizzazione della violenza tra brand dall’outbidding fino all’uccisione di Droukdel

La pandemia di Covid 19 ha colpito il continente africano in modo più contenuto rispetto a gran parte del mondo, anche se non si può certo dire che lo abbia risparmiato. Nel quadrante del Sahel, una fascia di territorio dell’Africa subsahariana che comprende o lambisce una decina di paesi – Senegal, Mauritania, Ciad, Mali, Algeria, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Eritrea e Sudan – sono stati finora (a metà giugno) registrati in aggregato circa 60mila casi di Coronavirus, con un numero di decessi superiore ai 2mila. I picchi sono stati registrati prevedibilmente nei paesi più densamente abitati, come la Nigeria (16mila casi) e il Camerun (quasi 10mila).

L’emergenza sanitaria globale ha avuto sul pubblico europeo l’effetto di cristallizzare la percezione degli avvenimenti non correlati al coronavirus, come se sul mondo ci fosse un’unica finestra, affacciata sull’epidemia. È però bene tener presente che la pandemia non ha arrestato alcuni processi in corso, anzi, in alcuni casi li ha rafforzati. È anzi possibile sostenere che se essa non si fosse verificata probabilmente oggi si parlerebbe proprio del Sahel come l’area più calda e instabile del pianeta. È in questa porzione di mondo che la galassia jihadista mostra le evoluzioni e prefigura le prospettive più preoccupanti.

Nel solo mese di marzo, in corrispondenza dell’innalzamento del picco dei contagi in gran parte dei paesi del Sahel, i gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda e all’Isis hanno compiuto attentati sanguinari in Camerun, Nigeria, Burkina Faso (dove alla fine di aprile si contano quasi 900mila sfollati interni, aumentati di quasi 300mila da febbraio), Mali e Ciad, uccidendo centinaia di persone. D’altronde proprio in quei giorni l’Isis aveva diffuso un comunicato in cui invitava i suoi affiliati a «non avere pietà e lanciare attacchi contro gli infedeli durante la pandemia», considerata di per sé dall’organizzazione terroristica come una «punizione divina per i non musulmani».

Il 24 marzo, la fazione di Boko Haram guidata da Abubakar Shekau ha ucciso 94 soldati ciadiani in un’imboscata nei pressi del Lago Ciad, mentre nelle stesse ore perdevano la vita 47 soldati nigeriani in un’altra azione condotta dall’Islamic State in West Africa Province (Iswap), ossia l’organismo affiliato a Daesh in cui è confluita una parte dell’organizzazione Boko Haram. Pochi giorni prima, il 19 marzo, in Mali altri 29 soldati venivano uccisi in un attacco condotto dai miliziani qaedisti di Jama’a Nusrat al Islam wa al Muslimin (Gsim).

Nel mese di febbraio sono stati almeno tre gli attentati terroristici coordinati tra i due gruppi, che nel Levante arabo si fanno la guerra l’uno contro l’altro mentre in Africa occidentale, da qualche mese, sembravano aver iniziato a unire gli sforzi per prendere il controllo del territorio di stati politicamente e militarmente deboli. «I combattenti dei due gruppi sembrano coordinarsi negli attacchi e sembrano dividersi aree di influenza nel Sahel, concludendo accordi», aveva detto a fine febbraio alla Associated Press il generale delle Forze speciali americane, Dagvin Anderson. L’evoluzione del protagonismo operativo e dei rapporti tra al-Qaeda e Isis in questo quadrante sono aspetti che richiedono alcune riflessioni, perché il pesante deterioramento delle condizioni di sicurezza nel Sahel occidentale è in corso almeno da cinque anni, e anche perché potrebbero generare alcuni paradossi. Secondo le stime dell’International Centre for Counter-terrorism, con base in Olanda, solo nel 2019 sono state 4mila le persone che in quest’area hanno perso la vita in attentati condotti da organizzazioni terroristiche locali e transnazionali, riconducibili a Isis o al-Qaeda.

Questo scenario ha incontrato un punto di possibile svolta lo scorso 3 giugno, quando le Forze speciali francesi coinvolte nell’operazione Barkhane (cominciata nel luglio 2014) hanno individuato e ucciso in Mali l’algerino Abdelmalek Droukdel, capo di al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi).

3 giugno 2020: annuncio dell’uccisione di Abdelmalek Droukdel, capo e fondatore di al-Qaeda nel Maghreb islamico, in Mali ad opera della missione Barkhane

Abdelmalek Droukdel, laureato in chimica, ex veterano del Gis algerino, esperto in particolare di esplosivi, non era solo il responsabile della “internazionalizzazione” del jihad nella stessa Algeria e nel Sahel, della saldatura di movimenti di guerriglia locali al più ampio e transnazionale jihadismo globalista di al-Qaeda; era anche l’ultimo leader di etnia araba di al-Qaeda nel Maghreb (Aqmi). La sua morte suggerisce innanzitutto che il jihadismo locale rappresentato ora soprattutto dal Gsim è ben avviato in un processo di “africanizzazione” che passerà per il contestuale sfaldamento di Aqmi, più riconducibile a una leadership militare e a ideologi arabi, spesso legati alle prime generazioni di qaedisti (quelli che hanno combattuto contro i sovietici in Afghanistan).

Come spiega in un report del 2018 Djallil Lounnas, il Gsim è oggi il più potente gruppo jihadista attivo nel Sahel. È stato creato nel marzo 2017, risultato della fusione di quattro formazioni: il ramo saheliano di Aqmi guidato da Yahya Abu Al-Hammam (all’anagrafe Djamel Okacha, anch’esso poi ucciso dai francesi nel febbraio 2019); Al-Mourabitoun, formazione qaedista capeggiata da Mokhtar Belmokhtar; Ansareddine, milizia di ispirazione salafita con a capo Iyad Ag Ghali (sul quale si tornerà più avanti); e la katiba (battaglione) Macina, già precedentemente legata alla stessa Ansareddine, alla cui testa c’è il jihadista maliano di etnia peul-fulani, Amadou Koufa.

La guida del Gsim è stata assunta proprio da Iyad Ag Ghali: di etnia tuareg, Ghali ha lunghi trascorsi tra le fila delle legioni internazionali di Gheddafi. Poi è diventato un contrabbandiere, nemico del governo di Bamako, con cui all’inizio del nuovo millennio si riappacifica fino a ottenere l’incarico di consigliere culturale a Jedda, in Arabia Saudita, da cui sarà però espulso nel 2010 proprio per aver provato ad allacciare contatti con al-Qaeda. Nel 2011 prova a intestarsi la guida del Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (Mnla), una formazione di ribelli laici di etnia tuareg che vorrebbero l’indipendenza della regione, tenendosi ben a distanza da al-Qaeda. Fallisce nel progetto di farsi eleggere alla guida del gruppo e decide di fondare Ansareddine, col sostegno finanziario di al-Qaeda. Nel 2012 una guerra civile si esaurirà con il sostanziale inglobamento dello stesso Mnla nel Consiglio di Transizione dello Stato islamico Azawad.

È proprio ad Abdelmalek Droukdel e al capo di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, che Iyad Ag Ghali, il giorno della dichiarazione ufficiale di istituzione del Gsim, giura fedeltà. Ma non solo. La saldatura del Gsim al network jihadista globale è evidente quando ai nomi dei due terroristi si aggiunge quello di Hibatullah Akhunzada, leader dei Talebani afghani, riconosciuto qualche tempo prima “comandante dei credenti” dai vertici del gruppo fondato da Osama Bin Laden. La decisione di includerlo, inoltre, conferma un altro aspetto importante: il Gsim rigetta l’idea della fedeltà allo Stato Islamico proclamato a Mosul (Iraq) nell’estate 2014 da Abu Bakr al-Baghdadi. Da un punto di vista geopolitico, invece, si tratta di una risposta alla creazione – avvenuta ufficialmente nel 2014 – del G5 Sahel, una piattaforma di coordinamento soprattutto sui temi di sicurezza da parte di Mauritania, Burkina Faso, Ciad, Mali e Niger, sotto la leadership francese.

Parallelamente, nell’Est e nel Sud del Mali, nei pressi dei confini con Burkina Faso e Niger, è nato nel maggio 2015 il meno numeroso (circa 450 combattenti) tra gli “Stati islamici” dichiarati in giro per il mondo dalla comparsa sulla scena di Abu Bakr al-Baghdadi. Lo Stato islamico del Sahara maggiore (Isgs) è il risultato di una scissione all’interno del citato movimento qaedista di al-Murabitoun, che a sua volta è nato nel 2013 come “joint venture” tra il Mujao (Movimento per l’unicità del Jihad in Africa occidentale) e la katiba Mulaththamin (“battaglione degli inturbantati”) di Belmokhtar, separatosi dall’Aqmi. La nascita formale dell’Isgs viene riconosciuta dall’Isis, che ne proclama l’affiliazione ufficiale, oltre un anno dopo, nell’ottobre 2016.

Il motivo risiede nella sua scarsa popolarità locale rapportata a quella del Gsim, ben più radicato, e nel maggiore riguardo che i vertici dello Stato islamico hanno verso un altro Stato islamico, quello delle province dell’Africa occidentale (Iswap), in particolare la Nigeria. Si tratta di Boko Haram, il gruppo attivo dal 2009 e balzato agli orrori delle cronache occidentali soprattutto dopo il rapimento delle 276 ragazze chibok. Nel 2015 si affilia all’Isis, assumendo la denominazione di Iswap e diventando la più numerosa formazione jihadista riconducibile all’Isis di tutta l’Africa (quasi 4mila uomini). La guida nell’estate 2016 è affidata direttamente da al-Baghdadi ad Abu Musab al-Barnawi, figlio del fondatore di Boko Haram, Mohammad Yusuf, mentre una costola dell’Iswap continuerà a operare come Boko Haram, sotto il comando dell’irrequieto Abubakar Shekau (per certi versi marginalizzato dai vertici dell’Isis, anche se formalmente ancora affiliato).

I rapporti tra al-Qaeda e l’Isis sono sempre stati difficili. Se però in Siria e Iraq le battaglie tra i due gruppi (soprattutto nelle espressioni dello Stato islamico del Levante e di Jabhat al Nusra, ramo siriano di al-Qaeda) sono state frequenti e diffuse, nel Sahel c’è stata un’unica battaglia nel giugno 2015 all’interno della regione Gao (Mali), tra Aqmi e Isgs, nella quale il capo di questi ultimi, Adnan Abu Walid al-Sahrawi, venne gravemente ferito. Per il resto, i due gruppi hanno sempre evitato scontri diretti.

Al-Qaeda e Isis differiscono soprattutto negli obiettivi strategici: se per al-Qaeda la creazione di un “Califfato mondiale” è un obiettivo ultimo, quasi filosofico, lontano, sviluppo naturale di una strategia con cui si intende “sfinire” l’Occidente attraverso la realizzazione di attentati, scatenando reazioni militari che poi dovrebbero indurre le popolazioni arabe a insorgere contro quest’ultimo, creando alla fine uno Stato islamico, per l’Isis la fondazione di uno Stato islamico in un dato territorio è un fine concreto, immediato.

Se per al-Qaeda i musulmani dovrebbero colpire gli infedeli ovunque per perseguire una strategia che porti all’istituzione futura di uno Stato islamico, per l’Isis le azioni militari vanno realizzate anche col fine di difendere il territorio già amministrato. Dal punto di vista operativo e strettamente militare, poi, l’Isis rispetto ad al-Qaeda rivendica anche l’uccisione di altri musulmani nelle sue azioni terroristiche, e soprattutto non si limita a esse: gli uomini fedeli al Califfato sono infatti addestrati al combattimento regolare, e partecipano a battaglie convenzionali proprio per conquistare via via porzioni di territorio.

L’Isis ha ancora un suo quartier generale e si finanzia in modo sistematico, anche con la vendita del petrolio, mentre al-Qaeda è ormai frammentata in una miriade di formazioni locali e reperisce risorse soprattutto attraverso i rapimenti. Il fatto che l’Isis abbia creato uno stato, che emetteva addirittura dei passaporti e per un certo periodo è arrivato a battere moneta, spiega anche la sua maggiore capacità di attrazione di “lupi solitari”, di radicalizzati che vengono facilmente coinvolti in una impresa in qualche modo “patriottica”, a difesa di uno stato vero e proprio, anziché di una semplice idea, o promessa.

Nel Sahel, nonostante l’inimicizia ideologica tra Gsim e Isgs, alla fine del 2019 le due formazioni sembravano alle prese con una fase di convergenza tattica, sancita anche dai comunicati stampa diffusi da alcuni loro teologi. Poi, però, è successo qualcosa: i miliziani dell’Isgs, in pieno “stile Isis”, hanno condotto alcune operazioni militari contro soldati nigeriani, ciadiani, maliani e burkinabé, rilasciando i soliti filmati spettacolari a uso propagandistico. Ciò, nell’immediato, ha provocato un’ondata di defezioni dal Gsim allo stesso Isgs. Così, la prospettiva che l’Isgs si saldasse con l’Iswap (che negli ultimi mesi ha marginalizzato i qaedisti di Ansaru), arrivando a controllare potenzialmente un territorio più grande di quello controllato dall’Isis tra Siria e Iraq, ha spinto il Gsim – che rimane il gruppo più potente nell’area – a prendere delle contromisure, sotto forma di un rinnovato protagonismo militare.

L’uccisione di Droukdel arriva in un momento che gli osservatori hanno ragione di ritenere delicatissimo: sembra infatti che l’algerino sia stato eliminato pochi giorni prima di prendere parte a un summit convocato proprio in Mali da Iyad Ag Ghali, capo del Gsim, forse per riorganizzare una strategia contro l’Isis in chiave marcatamente transnazionale, facendola discendere da un coordinamento con i leader arabi di al-Qaeda e cercando di indebolire i leader locali come Amadou Koufa (e come lo stesso Ghali, che ha però rapporti di lungo corso con jihadisti afghani, pakistani e arabi). Secondo altri, invece, Droukdel stava svolgendo un compito speculare: mediare una pace tra l’Isgs di al- Sahrawi (e Iswap) e il Gsim, anche per scongiurare l’ipotesi di un negoziato tra questi ultimi e il governo maliano di Ibrahim Boubakar Keita, alle prese con forti proteste popolari. Come hanno più volte ricordato alcuni report di Amnesty International, solo tra febbraio e aprile del 2020 tra Mali, Burkina Faso e Niger ci sono state circa 200 uccisioni extragiudiziali commesse sui civili dai diversi eserciti locali, con tutto quel che ne consegue in termini di possibilità di reclutamento per i gruppi jihadisti.

Secondo l’analista Colin Clarke sul “Washington post” il motivo principale per cui al-Qaeda e Isis – pur non scontrandosi apertamente e con eguale frequenza nel Sahel, rispetto a quanto fanno in Iraq e in Siria – evitano di sancire forme ufficiali di cooperazione risiede nel timore che rendere pubblico un tale sviluppo possa stimolare un rafforzamento dei dispositivi antiterrorismo e delle risposte militari dei paesi interessati e dell’Occidente.

Seguendo il ragionamento, è possibile sostenere che in Occidente la notizia di una tensione o di un conflitto tra al-Qaeda e l’Isis (nelle loro espressioni locali saheliane) venga accolta positivamente, poiché suggerisce l’idea che combattendosi tra loro i due gruppi finiscano per indebolirsi a vicenda, fino a distruggersi. C’è però un paradosso, spesso sottovalutato, che poggia anche su alcune basi empiriche: per molti versi la competizione locale tra due organizzazioni terroristiche è benefica per queste ultime, al di là degli effettivi sacrificati e delle risorse impiegate, perché rafforza e rende più diffuse le dinamiche di reclutamento, oltre a stimolare l’innovazione e la creatività, attraverso un processo che l’esperta di terrorismo Miriam Bloom ha definito di “outbidding”, teso ad attirare simpatizzanti e affiliati.

In sostanza, se due gruppi terroristici sono nemici tra loro, il protagonismo dell’uno sarà di volta in volta imitato o superato in sofisticazione e letalità dal protagonismo dell’altro, in un circolo vizioso di spettacolarizzazione della violenza finalizzata all’affermazione, del quale ovviamente fanno le spese i civili coinvolti in attentati. Un esempio lo si è avuto lo scorso marzo, quando gli uomini di Abubakar Shekau (Boko Haram) hanno realizzato il più sanguinoso attentato della storia del Ciad, “solo” per rispondere a una analoga azione dell’Iswap. Come ricorda Brian Phillips su “Foreign Policy”, la rivalità tra organizzazioni terroristiche può rafforzare la loro capacità di sopravvivenza, poiché può spingere i civili a prender parte per l’una o per l’altra, stimola l’innovazione (come un’azienda in crisi), fornisce nuovi incentivi e motivazioni agli affiliati, e non ultimo può far deragliare dei processi di pace (come quello che il governo del Mali vorrebbe portare avanti con il Gsim). Questo vale a maggior ragione per gruppi che hanno obiettivi politici diversi, anziché convergenti.

Per questo il caso del Sahel è particolarmente delicato: senza un negoziato di pace è inverosimile la sconfitta delle centinaia di gruppi jihadisti diffusi in un territorio perlopiù ostile, impervio, in cui è difficile condurre operazioni vincenti in modo convenzionale e in cui le rivendicazioni economiche, sociali e umanitarie rendono sempre fertile il terreno del reclutamento. Se la guerra tra Isis e al-Qaeda dovesse esplodere anche nel Sahel, come accaduto in Siria e Iraq, ciò potrebbe indurre l’Isis a giocare la carta del deragliamento programmatico delle prospettive di pace, arrivando a giocare un ruolo via via sempre più centrale, fino a replicare lo scenario del 2012, in cui in Mali venne imposto un regime simil-talebano, dal quale venivano lanciati altri attacchi nella regione. La morte di Droukdel paradossalmente può avere due effetti speculari: finire per rafforzare la prospettiva di un accordo di pace tra governo maliano e Gsim oppure scongiurarlo, favorendo una integrazione tra un Gsim oggi più “africanizzato” e l’universo jihadista dell’Isis.

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