Gianni Sartori Archivi - OGzero https://ogzero.org/autore/gianni-sartori/ geopolitica etc Tue, 05 Dec 2023 16:01:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 L’epilogo comune del conflitto armato filippino? https://ogzero.org/conflitto-armato-filippino-l-epilogo-comune-del/ Sat, 02 Dec 2023 01:57:49 +0000 https://ogzero.org/?p=11994 Molto interessante la segnalazione di Gianni Sartori a proposito di un processo misconosciuto dai media mainstream – e anche i portali europei più attenti alle lotte di emancipazione non registrano gli “annientamenti” mirati contro i militanti più storici di una lotta che dura da 50 anni nell’arcipelago filippino. Ci sembra particolarmente significativo descrivere il processo […]

L'articolo L’epilogo comune del conflitto armato filippino? proviene da OGzero.

]]>
Molto interessante la segnalazione di Gianni Sartori a proposito di un processo misconosciuto dai media mainstream – e anche i portali europei più attenti alle lotte di emancipazione non registrano gli “annientamenti” mirati contro i militanti più storici di una lotta che dura da 50 anni nell’arcipelago filippino. Ci sembra particolarmente significativo descrivere il processo di “pacificazione” del conflitto armato filippino con la guerriglia maoista intrapreso dal potere a Manila assimilabile alle modalità in cui si stanno consumando le soluzioni dei conflitti “epocali” in tutto il mondo: il caso più macroscopico anche per quantità riguarda i palestinesi, ma l’esempio più avvicinabile è il lento stillicidio colombiano delle Farc e probabilmente un futuro curdo che si prospetta per le importanti esperienze del confederalismo democratico, così tristemente simile a un passato Tamil; parzialmente diverso è il caso birmano, dove le comunità temporaneamente alleate contro Tatmadaw sono unite da ragioni meno nobili degli altri “eserciti” di liberazione citati.
Una notazione che ci viene dalla proposta grafica che abbiamo trovato come illustrazione dell’intervento: il tratto o l’inquadratura esibiscono tutti una retorica che sembra provenire da un lontano passato che non è riuscito ad aggiornarsi e anche per questo ha perso il suo appeal sui giovani e perciò l’apparato iconografico dei trattati di pace si compiace di ritrarre vecchi esausti che riconoscono che la contrapposizione armata al potere non è una prassi in grado di portare a risultati in questa fase storica.


L’arcipelago in fiamme da mezzo secolo

Distrazione, correlazioni saltate, oppure… repressione globale?

Tra le tante guerre a (relativamente) “bassa intensità” quella che si svolge nelle Filippine non è certo tra le più conosciute o documentate. Fermo restando che sia le lotte per l’autodeterminazione (indipendentiste o meno) che le eventuali “soluzioni politiche” (dal Sudafrica all’Irlanda, dalla Colombia ai Paesi Baschi…), per quanto frutto di ragioni intrinseche (almeno quelle autentiche, non create ad hoc) dipendono anche – o soprattutto – da ben altro. In particolare dal contesto geopolitico. Per chi preferisce: il “campo” in cui schierarsi, volenti o nolenti.
Dalle Filippine, anche nell’anno in corso, sono arrivate notizie soprattutto di scontri tra militari e guerriglieri (in genere comunisti). Scontri che solitamente – stando almeno a quanto si conosce – si concludono a sfavore dei secondi.
Da segnalare poi come sempre più spesso vengano uccisi elementi di spicco (comandanti…). Un segnale di perfezionamento delle operazioni di intelligence?

Intensificazione di esecuzioni mirate

Tra gli episodi più recenti (inizio novembre 2023), la cattura a Barangay Buhisan (San Agustin) di Cristitoto Tejero, comandante in capo del Fronte di guerriglia 19 della New People’s Army – Comitato regionale del Nordest di Mindanao. Il militante maoista (57 anni) era da tempo ricercato per la sua attività guerrigliera e in particolare per l’uccisione di un militare.
Pochi giorni prima, il 26 di ottobre, un altro esponente della Bagong Hukbong Bayan (Npa) da tempo ricercato, Michael Cabayag (Ka Teddy, comandante del Fronte di guerriglia Sendong) era stato ucciso dai soldati del 10° battaglione di fanteria nel villaggio di Carmen (Misamis Occidentale). Nella stessa circostanza veniva catturato un altro militante, Armida Nabicis (Ka Yumi). Tra le armi trovate in loro possesso: un fucile M-16 Armalite, un CZ (AK-47), una carabina M653 e un lanciagranate M-203.

La mattanza di combattenti irriducibili… e “storici”
Un altro esponente di spicco della guerriglia maoista, Ray Masot Zambrano, era stato precedentemente abbattuto a Barangay Obial (Kalamansig) il 10 ottobre.
L’operazione veniva condotta dai militari della 603° brigata di fanteria. Quasi contemporaneamente un altro membro della Npa (di cui al momento non si era potuto accertare l’identità) soccombeva sulle montagne di Buneg (Lacub, Abra).

Ancora più tragico il bilancio del 29 settembre quando almeno cinque esponenti della Npa perdevano la vita nella città di Leon, provincia di Lloilo.
Tra loro la comandante Azucena Churesca Rivera (Rebecca Alifaro, conosciuta anche come Jing).
Nella guerriglia dal 1980, svolgeva funzioni di Segretaria del Fronte sud della Npa -Komiteng Rehiyon-Panay.
Altri due guerriglieri venivano uccisi da una pattuglia di polizia nei pressi dell’aeroporto di Bicol (tra i villaggi di Bascaran e Alobo).
L’ennesimo guerrigliero era deceduto qualche giorno prima a Esperanza (Agusan del Sur) e almeno sei il 21 settembre nel villaggio di Taburgon (Negros occidentale)
Rispettivamente dal 26° battaglione di fanteria e dal 47° battaglione.
I sei maoisti facevano parte del Fronte sud-ovest della NPA. Tra di loro, Alejo “Peter/Bravo” de los Reyes; Mélissa “Diana” de la Peña ; Marjon “Kenneth” Alvio ; Bobby “Recoy” Pedro e il medico Mario “Reco/Goring” Fajardo Mullon.
Quanto al sesto guerrigliero, all’epoca non era stato ancora identificato.
Oltre ad alcune armi i militari avevano recuperato molto materiale propagandistico e politico.

Ancora sei maoisti (altri sei) erano caduti in combattimento il 7 settembre nel corso di una serie di scontri a fuoco con i militari nella zona di Sitio Ilaya (provincia di Bohol) mentre, intercettati a un posto di blocco, tentavano di sganciarsi.

Invece il 20 marzo era stato un sottufficiale dell’esercito filippino a venir ucciso in un conflitto con una decina di guerriglieri della Npa nell’isola di Masbate.

Comunque un doloroso stillicidio, oltretutto senza apparente via d’uscita e che – stando ai dati ufficiali – avrebbe causato oltre 40.000 morti (in maggioranza civili) in circa mezzo secolo.
Ma recentemente, dopo che precedenti trattative si erano insabbiate, è apparso qualche segnale di possibile soluzione del conflitto. Innanzitutto l’amnistia per i ribelli in carcere e poi una dichiarazione congiunta tra il governo filippino e il National Democratic Front of the Philippines (Pambansang Demokratikong Hanay ng Pilipinas), con cui entrambi intendevano ricucire il dialogo bruscamente interrotto sei anni fa dall’allora presidente Rodrigo Duterte (ex guerrigliero maoista).
Buona parte del merito dell’iniziativa andrebbe al presidente Ferdinand Romuáldez Marcos Jr (eletto nel 2022 e che presumibilmente vuole riscattarsi dalle colpe del padre) il cui Assistente speciale Antonio Ernesto Lagdameo è stato nominato Negoziatore governativo.

Il Fronte, coalizione di una ventina di organizzazioni (tra cui, oltre alla Npa, il Communist Party of the Philippines), ne costituisce la “vetrina politica” e attualmente è guidato da Luis Jalandoni, un ex sacerdote (tra i membri anche la Christians for National Liberation da lui fondata).

Altre organizzazioni che ne fanno parte:
Moro Resistance and Liberation Organization (Mrlo), Katipunan ng Gurong Makabayan (Kaguma), Liga ng Agham para sa Bayan (Lab), Lupon ng Manananggol para sa Bayan (Lumaban), Malayang Kilusan ng Bagong Kababaihan (femministe), Revolutionary Council of Trade Unions (Rctu),Pambansang Katipunan ng Mambubukid (Pkm), Katipunan ng mga Samahang Manggagawa (Kasama), Cordillera People’s Democratic Front (Cpdf)
Un eterogeneo raggruppamento tattico di partiti, associazioni della società civile, sindacati e gruppi armati di sinistra, milizie etniche, tribali e altro che per certi aspetti può ricordare l’attuale coalizione antigovernativa del Myanmar.Se non addirittura –almeno in prospettiva, potenzialmente – la situazione del Rojava.

Le pacifiche soluzioni di Oslo

Il 23 novembre 2023 Jalandoni, rappresentante del Partito comunista, e Lagdameo, assistente di Marcos jr., hanno firmato a Oslo una dichiarazione con cui si impegnano «per una soluzione pacifica ed equa del conflitto armato» e per una “pace giusta e duratura”.

Sottolineando «la necessità di unità come nazione per fare fronte alle minacce esterne alla sicurezza», auspicando indispensabili riforme socio-economiche atte a superare l’attuale situazione alquanto disastrata (anche sotto il profilo ambientale).

Scomparse significative: residuali baluardi dissolti nel nuovo ordine globale

Forse ha indirettamente contribuito all’accelerazione del nuovo corso la recente scomparsa in esilio (nel dicembre 2022) del dirigente comunista maoista Jose Maria Sison.
E proprio per il Communist Party of the Philippines e per il suo “braccio armato” (Npa) è prevista una trasformazione in organizzazione politica (analogamente al processo che ha interessato le Farc colombiane).

 

 

L'articolo L’epilogo comune del conflitto armato filippino? proviene da OGzero.

]]>
Sri Lanka 2006-2009 https://ogzero.org/sri-lanka-2006-2009/ Tue, 31 Oct 2023 00:39:11 +0000 https://ogzero.org/?p=11784 Se pensate di riconoscere “fasi” di annientamento di popoli in corso nella stretta attualità, avete colto esattamente il motivo per cui pubblichiamo ora questo saggio inviatoci da Gianni Sartori, un teleobiettivo su una “questione” indipendentista attraverso le cui lenti ripulite dalla distanza del tempo è più facile ricostruire i molti diversi canali che hanno condotto […]

L'articolo Sri Lanka 2006-2009 proviene da OGzero.

]]>
Se pensate di riconoscere “fasi” di annientamento di popoli in corso nella stretta attualità, avete colto esattamente il motivo per cui pubblichiamo ora questo saggio inviatoci da Gianni Sartori, un teleobiettivo su una “questione” indipendentista attraverso le cui lenti ripulite dalla distanza del tempo è più facile ricostruire i molti diversi canali che hanno condotto a quell’epilogo di annientamento, ghettizzazione… pulizia etnica.. 


“Questione tamil”: dalla ribellione alla pulizia etnica governativa

Risaliva alla fine del settembre 2006 un ripristino di interesse, di attualità per la spesso trascurata “questione Tamil” in Sri Lanka.

Tra il 24 e il 25 settembre in una “battaglia navale” che sarebbe eufemistico definire impari, la marina militare governativa uccideva oltre una settantina di tamil che stavano trasportando armi con una decina di imbarcazioni. Armi molto probabilmente destinate ai guerriglieri delle Ltte (Liberation Tigers of Tamil) assediati da oltre un mese nella penisola settentrionale di Jaffna.
All’epoca si calcolava che in venti anni di conflitto fossero già morte circa 65.000 persone e gli sfollati superassero ormai il milione. In seguito tali numeri erano destinati ad aumentare sensibilmente.

In una “guerra tra poveri” da manuale con entrambi i contendenti vittime di vecchie e nuove colonizzazioni mentre il solco delle reciproche incomprensioni andava a ulteriormente approfondirsi. Proprio nei giorni successivi anche in Italia venivano organizzate da Castis (Campaign agaist separatist terrorism in Sri Lanka) numerose manifestazioni di sostegno al governo di Sri Lanka e contro le “Tigri”. Con il senno di poi, forse una mossa propagandistica propedeutica all’attacco finale contro la ribellione tamil. Un’operazione militare che per certi aspetti era destinata ad assumere il carattere e lo stile di una vera e propria pulizia etnica.

Oltre che a Napoli, Palermo, Brescia, Firenze…una manifestazione venne organizzata anche a Vicenza (24 settembre 2006). E qui avevo potuto incontrare e intervistare alcune dei partecipanti. Tra questi un ex insegnante “singalese e cristiano” che mi chiese di riportare solo le iniziali del suo nome «perché i miei familiari vivono ancora in Sri Lanka».

J.P. raccontava: «Per anni ho trascorso il mattino a scuola con i miei allievi e il resto della giornata nascosto nella foresta per paura degli assalti delle Ltte che rapiscono i bambini per poi addestrarli alla guerriglia». Alla fine J.P. aveva lasciato il suo lavoro, la sua terra ed era fuggito in Europa. Aveva preso tale decisione dopo un episodio drammatico:«Io scrivevo su alcuni giornali, soprattutto poesie contro la guerra. Una notte sono stato aggredito e picchiato». Gli assalitori gli avevano chiesto:“Quale braccio usi per scrivere?”. Mentendo disse di essere mancino e gli spezzarono il braccio sinistro. A questo punto aveva sorriso confessando che «Ho ancora qualche difficoltà a usarlo, ma posso sempre scrivere».

Uccise per il colore dei pantaloni

Nell’agosto del 2006 si era anche parlato del massacro di una cinquantina di studenti, soprattutto ragazze, in una scuola chiamata “Sencholei” nel Nord dello Sri Lanka. Inizialmente l’atto barbarico era stato attribuito alle Ltte, ma in seguito erano emerse le responsabilità dell’esercito governativo.

Mostrando scarsa sensibilità, il nostro interlocutore aveva giustificato l’eccidio in quanto «stando alle nostre informazioni “Sencholei” in realtà era un campo di addestramento delle Ltte, non una scuola». 
A suo avviso quindi “le vittime non erano studentesse, ma miliziane tamil”.

Una prova che di trattava di “Tigri” – per quanto giovanissime – e non di scolare verrebbe dal fatto che «indossavano abiti come quelli usati dai guerriglieri (in particolare pantaloni neri N.d.A.e non le divise bianche che usano normalmente tutti gli studenti».

Sempre secondo il nostro interlocutore all’epoca esisteva anche un’altra base militare tamil chiamata “Ruben” dove venivano addestrati i giovanissimi. Frequentata regolarmente da Velupillei Prabakaran, il capo delle Ltte.

Aggiungeva poi che assolutamente «non si trattava di una questione religiosa; la maggioranza dei singalesi è buddista, ma ci sono anche cristiani (come tra i tamil, in maggioranza induisti N.d.A.)». Diversa è la lingua, ma anche questo «non rappresenta un problema». Per concludere che tra i suoi amici c’erano «sia singalesi che tamil, sia buddisti che induisti e musulmani… Io sono un uomo e basta».

Avevo poi chiesto a Roshan Fernando, presumibilmente legato all’organizzazione di sinistra Jvp (il giorno prima era intervenuto a Radio Blackout di Brescia accusando le Ltte di essere “fasciste”) perché lo Stato dello Sri Lanka si ostinasse a negare ai tamil una loro patria indipendente.

Rispondeva che «le Ltte conducono questa guerra da almeno ventitre anni, ma non hanno ancora convinto la maggioranza dei tamilPer raggiungere il loro obiettivo devono puntare sulla propaganda e sugli aiuti esterni». Si diceva convinto che «dall’interno del paese non avrebbero alcuna possibilità di vincere perché l’attuale livello democratico raggiunto dallo Sri Lanka non lo permetterebbe». Con il senno di poi, visto il massacro compiuto dai governativi ai danni anche dei civili tamil, un’affermazione quanto meno affrettata.

Roshan Fernando ricordava comunque che le “Tigri” non permettevano agli altri partiti, anche quelli Tamil, di fare politica nei territori da loro controllati. Mi spiegava inoltre che tra i partiti presenti nell’isola i più consistenti erano Sri Lanka freedom (Srf), il Partito di unità nazionale (Unp che aveva appena perso le elezioni) e Jvp (Janatha Vimukthi Peramuna – Fronte di liberazione del popolo), partito che si definiva “rivoluzionario e anticolonialista” anche se partecipava alle elezioni e, al momento almeno, sosteneva il governo.

E continuava sostenendo che «le Tigri sopravvivono tenendo in ostaggio la popolazione tamil, arruolando a forza i bambini, obbligando la popolazione a versare mensilmente quote di denaro».

Polemiche con l’Europa

Questo, stando alle sue dichiarazioni, avveniva anche in Europa con gli immigrati. E si chiedeva come potessero «disporre di basi militari, uffici politici (anche all’estero), collegamenti satellitari, canali televisivi, radio». Ribadendo che le loro risorse economiche «provenivano da fuori», ossia dall’estero (con un’accusa sottintesa all’India, presumo). Per questo «noi chiediamo all’Europa di verificare e controllare».

Proprio in quel periodo era esploso un contenzioso tra Sri Lanka e Norvegia che nel giugno 2006 aveva proposto di riprendere a Oslo i colloqui di pace dopo la sospensione decretata dall’Unione europea. Ma quando il rappresentante del governo di Sri Lanka si era presentato, le “Tigri” avevano nuovamente rifiutato le trattative.

Per Roshan Fernando si sarebbe trattato di un espediente per «approfittare dell’occasione per riunire tutti i loro rappresentanti» (“come non riuscivano più a fare da molto tempo”). Inoltre la Norvegia sarebbe stata «a conoscenza delle loro intenzioni e si sarebbe prestata a tale operazione». Qualcosa del genere era già accaduto in Svizzera in quanto «le Ltte usano il pretesto delle trattative per riunirsi tra loro».

Ricordava come nell’aprile del 2006 le Ltte si fossero già ritirate unilateralmente dai colloqui di pace e in seguito, a luglio, fosse ricominciata la lotta armata. Del resto episodi di violenza si erano registrati anche nel 2005 (in dicembre) provocando decine di vittime tra ribelli, soldati e soprattutto civili inermi. Proprio nel 2006, in maggio, le Ltte erano state inserite nella “lista nera” dell’Ue come “gruppo terroristico”. Come avevano fatto da tempo Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada.

Ne aveva immediatamente approfittato il presidente dello Sri Lanka reclamando contro Svizzera, Germaniae, Francia in quanto questi stati avrebbero dato ospitalità a esponenti delle Ltte che svolgevano attività politica «nonostante la stessa Ue avesse richiesto esplicitamente di sospendere tale attività». E non mancava qualche osservazione critica anche per l’Italia dove le Ltte avrebbero raccolto fondi sotto la copertura della sigla Tra (Tamils rehabilitation organisation).

Un interesse titanico

Perché tanto interesse, se non addirittura una certa benevolenza, per la causa tamil da parte dei paesi europei? Dipendeva forse, oltre che dalla posizione strategica dell’isola, dal ritrovamento di giacimenti petroliferi (e dalla presenza di un minerale strategico, il titanio)?
Con gli accordi del 2002 per una soluzione politica del conflitto, la Norvegia era stata scelta per monitorare il processo di pace, ma – sosteneva sempre il mio polemico interlocutore «questo paese si era mostrato favorevole ad accordi vantaggiosi per le Ltte». Con tali accordi lo Sri Lanka sarebbe stato “diviso in due”.
Formalmente si parlava di autonomia, ma «alla fine ci sarebbe stato un’altra nazione indipendente». Era infatti prevista la creazione di un parlamento, una polizia autonoma e anche una moneta.

Per Roshan Fernando «una situazione simile a quella che si è creata a Cipro, ma questo modello non è valido per lo Sri Lanka». Inoltre da qualche anno [eravamo nel 2006] «anche tra i tamil va crescendo l’ostilità nei confronti delle Ltte. Perfino un loro ex comandante, il colonnello Karuna Amman, aveva lasciato le Tigri e si stava organizzando nell’Est del paese per contrastarle».

Ricordo che questa sorta di Comandante Zero (quello che si allontanò dai sandinisti negli anni Ottanta) era ritenuto responsabile proprio di alcuni dei più gravi reati che il nostro interlocutore attribuiva alle Ltte come il sequestro di bambini per arruolarli. Il suo contributo all’annientamento dei suoi ex compagni di lotta risulterà comunque decisivo già nel 2007.

Tra i problemi interni delle Ltte uno dei più seri sarebbe stato legato alla questione delle caste. Infatti la maggior parte dei guerriglieri caduti in combattimento appartenevano alle caste inferiori. Il maggior potere sarebbe stato nelle mani degli appartenenti alla casta Vellavar, depositaria dell’ortodossia tamil fondata su un sistema gerarchico. Gli “intoccabili” tra i tamil sarebbero circa il 23%.

La posizione della Lega per i diritti e la lberazione dei popoli

Molto diversa la posizione espressa da Verena Graf, all’epoca segretario generale della Lega per i diritti e la liberazione dei popoli e rappresentante permanente di tale ong presso la sede Onu di Ginevra.

Per questa allieva di Lelio Basso «il conflitto era iniziato con l’indipendenza del 1948 a causa di una serie di politiche governative che, progressivamente e sistematicamente, privarono la popolazione tamil dei diritti fondamentali». Nel 1983 la resistenza, fino a quel momento non violenta, si trasformò in una lotta armata condotta dalle Tigri della liberazione di Tamil Eelam.

Per Verena Graf tre erano gli obiettivi principali dei tamil:

“Uguaglianza di diritti e di opportunità, diritto all’autodeterminazione e allontanamento delle forze governative dalla regione del Nord-est”. 

Di fronte al rifiuto dei governi di prendere in considerazione le loro richieste, una parte dei tamil si era convinta “di poter raggiungere questi obiettivi soltanto con la lotta armata per la creazione di un proprio Stato indipendente”.

Per la Graf l’indipendenza del popolo, della nazione tamil sarebbe stata giustificata in quanto forma di autodeterminazione «per diverse valide ragioni. In primo luogo perché il governo dello Sri Lanka ha privato un’intera collettività dei suoi fondamentali diritti. Basti pensare che si era stabilito per decreto che la sola lingua ammessa era il singalese. Inoltre ai tamil erano stati negati l’accesso all’educazione e l’effettiva partecipazione politica».
In sintesi “«a politica poliziesca del governo, nel suo insieme, poteva essere definita una forma di genocidio economico, sociale e culturale per distruggere la società tamil, minando le basi della sua identità».

Invece di operare per una società multietnica nel quadro dello stato dello Sri Lanka, i governi avrebbero «attuato una politica di esclusione nei confronti dei tamil», relegandoli nella condizione di “indesiderabili”. 

Come ci ricordava Verena Graf, l’anno determinante per il passaggio alle armi dei tamil era stato il 1983. Dopo che ancora nel 1977 al partito Tulf (Tamil United Liberation Front), moderato e autonomista, era stata praticamente interdetta ogni attività politica e quando scoppiarono diversi pogrom antitamil. Tuttavia anche in tempi successivi non erano mancati tentativi di sotterrare l’ascia di guerra e riprendere la lotta in maniera non violenta.

Per esempio nel settembre del 1987, nonostante avesse rifiutato di sottoscrivere un recente accordo di pace (in quanto co-firmato da Sri Lanka e India senza consultare i tamil) il loro leader, Thiruvenkadam Velupillai Prabhakaran, rilanciò la protesta in maniera pacifica. Un altro noto esponente delle Ltte, Amirthalingam Theelepan, iniziò allora uno sciopero della fame fino alla morte per richiamare l’attenzione del primo ministro indiano Rajiv Gandhi (il figlio di Indira, poi assassinato dalle Tigri nel 1991), firmatario del discusso accordo indo-singalese.
La sua fine risultò alquanto spettacolare, per certi aspetti inquietante. Deposto su un giaciglio all’aperto, nel cortile di un santuario indù a Jaffna, durante l’agonia venne visitato e onorato da centinaia di seguaci e la sua morte suscitò rabbia e risentimento. Venne così meno anche la fragile tregua e la parola tornò ai combattenti. Invece alcuni gruppi minori della resistenza tamil si arresero alle Ipkf (Indian Peace Keeping Force) incaricate di far rispettare il cessate il fuoco.

Ricolonizzazione e reinsurrezione

Oltre alle discriminazioni, i tamil subirono – dal 1948 in poi, almeno fino al 1987 – anche la dura questione dei resettlements. Con arbitrari stanziamenti di coloni singalesi nel Nord e nell’Est dell’isola (le aree a maggioranza tamil).
A complicare ulteriormente il quadro in quel lontano, ma determinante, 1987 interveniva un’altra formazione politica, il Jvp (Janatha Vimukthi Peramuna – Fronte di liberazione del popolo “rivoluzionario e anticolonialista”, già citato in quanto nel 2006 di fatto sosteneva il governo). Ugualmente contrario all’accordo indo-singalese (lo consideravano un’ingerenza indiana), ma per ragioni diametralmente opposte a quelle dei “separatisti” tamil.
Il Jvp si rese responsabile, oltre che di un tentativo insurrezionale nel sud del Paese, dell’uccisione di alcuni esponenti filogovernativi. In particolare con un attentato a Colombo rivolto contro lo stesso presidente Jayewardene. Nell’attacco al palazzo del parlamento perse la vita un ministro e rimase gravemente ferito Lalith Athulatmudali, ministro della difesa. negli anni Ottanta – oltre a un migliaio di militanti in prigione – il Jvp disponeva di circa 2000 militanti in servizio attivo e di circa 10.000 fiancheggiatori. Inutile dire che pur protestando vigorosamente per le condizioni di vita delle classi subalterne e per le violazioni dei diritti umani, nei confronti della situazione in cui versavano i tamil mostrava una sostanziale indifferenza.

Soluzione definitiva

Come è noto la “questione tamil” venne bruscamente risolta (eufemismo) tra il 2007 e il 2009 quando l’esercito riuscì ad annichilire le Tigri approfittando della circostanza per massacrare, deportare e internare centinaia di migliaia di civili tamil. I quali si ritrovarono sottoposti a una ulteriore colonizzazione da parte della maggioranza singalese buddista (circa 74% della popolazione).

Difficile anche quantificare il numero delle persone uccise e la portata della repressione. Si ipotizzava un numero tra le diecimila e le ventimila vittime oltre a circa 300.000 civili tamil internati nei campi sotto controllo militare.
Nel maggio 2009, mentre fuggiva, era stato ucciso anche Velupillai Prabhakaran insieme al figlioletto di dodici anni.

Nel giugno 2010 il governo sri-lankese (guidato allora da Mahinda Rajapakse) arrivò a bloccare una delegazione di esperti dell’Onu incaricati di svolgere indagini sulle violazioni dei diritti umani commessi l’anno precedente.

L'articolo Sri Lanka 2006-2009 proviene da OGzero.

]]>
Il crogiolo caucasico tra i confini fittizi dei vincitori https://ogzero.org/il-crogiolo-caucasico-tra-i-confini-fittizi-dei-vincitori/ Mon, 09 Oct 2023 23:43:29 +0000 https://ogzero.org/?p=11677 Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – […]

L'articolo Il crogiolo caucasico tra i confini fittizi dei vincitori proviene da OGzero.

]]>
Dopo il corridoio di Lachin, ora c’è quello di Meghri nel mirino e l’Iran non potrà limitarsi a non gradire l’aggressione turco-azera. L’Artsakh avrebbe dovuto essere un caso di indipendente convivenza di comunità cristiane e musulmane, altaici azeri turcofoni e indoeuropei armeni di ceppo greco-germanico; non è mai stata una esperienza realmente paritaria, perché – soprattutto dall’esterno – si sono fatti prevalere contrasti etnici a condivisione di territorio tradizionalmente abitato da famiglie eterogenee, condizionate da invasioni e dominazioni variabili e costanti. E quando soffiano i venti nazionalisti si scompaginano le comunità per creare stati usati per soffocarle, ognuno secondo la propria tradizione verso il vicino; in questo caso è sintomatico come i paesi islamici più lontani come l’Algeria definiscano gli armeni cristiani colonizzatori, mentre l’Iran sciita come il popolo azero appoggi Erevan per mere questioni di metri di confine da salvaguardare, mentre il miglior alleato dei “fratelli altaici” azeri è il vicino sunnita Erdoğan, interessato alla creazione di un unico territorio ottomano senza interruzioni di confini.
Ciò che rende ancora più impellente l’abbandono della terra avita da parte della ex maggioranza armena fuggita dall’Artsakh è la ferocia autoritaria del regime dinastico ex sovietico… mentre perdurano i bombardamenti turchi sui curdi e i sionisti passano per vittime, pur essendo Nethanyauh dalla parte dei carnefici, come gli Aliyev o il despota Erdoğan; tutti in qualche modo collegati e con interessi intrecciati, tra le vittime dei contenziosi decennali mancano solo i saharawi. 


La secolare replica del genocidio armeno

L’attuale violenza (massacri, deportazioni…) subita dagli armeni rievoca fatalmente il genocidio del 1915.
C’ è ancora spazio per una qualsivoglia “soluzione politica” che garantisca minimamente i diritti della popolazione armena del Nagorno-Karabach?
Meglio non raccontarsi balle. Ormai – a meno di imprevedibili eventi di portata planetaria – la questione è chiusa definitivamente. Anzi, potrebbe anche andare peggio.
Non si può infatti escludere che dopo l’Artsakh venga invasa anche la stessa Armenia, in particolare il corridoio per congiungere l’esclave azera di Karki al confine con l’Iran (e la Turchia).

Vediamo intanto di riepilogare la tragica catena degli ultimi tre anni.
I bombardamenti azeri del 19 settembre avevano riportato nella cronaca un conflitto forzatamente dimenticato, tuttavia l’attacco di Baku contro il Nagorno-Karabach e quanto poi avvenuto ai danni del popolo armeno non calava inspiegabilmente dal cielo. Come già si era ipotizzato in agosto.
Era perlomeno probabile.
Il Nagorno Karabakh era una repubblica autoproclamata (ribattezzata con l’antico nome di Artsaj) abitata in prevalenza da armeni, ma posta forzatamente all’interno dei confini dell’Azerbaijan. E che già prima del 1991 si batteva per la propria indipendenza.

Pulizia etnica alternata

Nel conflitto del 1988-1994 la vittoria era andata agli armeni con la conseguente espulsione di migliaia di azeri.

Nella Seconda guerra del Nagorno-Karabach (autunno 2020) le parti si invertirono e per oltre 40 giorni l’esercito azero si scatenò sulla popolazione civile compiendo ogni genere di efferatezze. Qualificabili come una brutale pulizia etnica.
Al punto che molti armeni in fuga riesumarono i loro cari dalle tombe e fuggirono con le bare fissate al portapacchi delle auto dopo aver incendiato la propria casa.

L’evanescente interposizione russa

In realtà solo un terzo della provincia indipendentista era passato sotto il controllo di Baku, ma erano chiare le intenzioni di completare l’opera quanto prima. Nonostante la poco convinta opera di interposizione dei soldati di Mosca, soprattutto dopo che l’Armenia aveva accettato di partecipare a esercitazioni congiunte con truppe Nato (direi un autogol di Erevan).
Ovviamente anche all’odierna (definitiva?) sconfitta degli Armeni (anche per essere stati isolati e privati di mezzi di sussistenza da circa nove mesi) di fronte alle preponderanti forze azere, date le premesse, era fatalmente scontata.

Neottomanesimo via Baku

Smantellata l’amministrazione armena della enclave ribelle, Baku ha dichiarato di volere «integrarla totalmente nella società e nello Stato azeri».

Quanto alle voci di una possibile concessione di “autonomia”, la cosa appare piuttosto fantasiosa. Se nell’Azerbaigian non gode di alcun riconoscimento la consistente “minoranza” Talish (una popolazione di lingua iraniana che supera il milione di persone) cosa potrebbe toccare ai circa 120.000 armeni del Nagorno-Karabach? Peraltro ormai fuggiti nella quasi totalità e poco propensi a rientrare nonostante le rassicurazioni del governo di Baku.

La coltre di gas

Dal canto suo l’Unione Europea si guarda bene dall’intervenire pensando ai consistenti accordi con l’Azerbaijan in materia di gas.

Solidarietà al popolo armeno è stata espressa vigorosamente dal Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (Knk).

Nel comunicato ha denunciato «la tragedia umana che avviene sotto gli occhi del mondo nell’Artsakh (Alto Karabach) dove un centinaio di migliaia di Armeni sono costretti all’esilio». E il Knk ricordava anche le immagini terribili del 2020 con «i soldati azeri che tagliavano nasi e orecchie ai civili e vandalizzavano i monasteri».

Ovvio il parallelismo con quanto avviene “nelle zone curde occupate dalla Turchia” (il principale alleato dell’Azerbaigian).
Ma esiste anche un altro timore, ossia che “se cade l’Artsaj, cade anche l’Armenia”.

Una lingua di terra turca a unire Caspio e Mediterraneo

Già nel 2020 l’Azerbaijan aveva occupato territori ufficialmente dell’Armenia nella regione di Syunik. Una lingua di terra che si frappone alla dichiarata intenzione di Turchia e Azerbaijan di unire il Mediterraneo con il Caspio via terra. Ricordo che Turchia e Azerbaigian sono già confinanti grazie all’enclave azera di Najicheván che – toh, coincidenza! – Erdogan ha appena visitato per la prima volta.

Forse paradossalmente (visto che gli azeri sono in maggioranza sciiti come gli iraniani) l’unico paese con cui l’Armenia mantiene stabili e diretti rapporti commerciali (nel 2020 forse s’aspettava anche sostegno militare, ma invano) è l’Iran. La perdita della regione di Syunik le sarebbe quindi fatale.

L’analogo trattamento turco destinato ai curdi

Per il Knk comunque non ci sono dubbi «Si tratta di pulizia etnica orchestrata dall’Azerbaigian e dalla Turchia., motivata dall’ambizione geopolitica pan-turca che intende riunire queste due nazioni (…). Dopo 108 anni il popolo armeno si ritrova di nuovo vittima di massacri e deportazioni orchestrati dalle forze statali animate da odio razzista verso la cultura e il popolo armeno. Di conseguenza la pulizia etnica attualmente in corso nell’Artsakh deve essere considerata come la continuazione del genocidio armeno del 1915 perpetrato dai Giovani Turchi».
E conclude paragonando le attuali sofferenze degli armeni a quelle analogamente patite dai curdi a Shengal, Afrin e Serêkaniyê: «Nomi e vittime di questi massacri possono cambiare, ma le motivazioni rimangono identiche».

Diretto interventismo turco nell’area curdo-armena

Risalendo all’ottobre 2020 già allora appariva evidente come il conflitto tra Armenia e Azerbaijan fosse propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia.
Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si andava sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti (sunniti) provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri (sciiti) contro gli armeni cristiani.
Un destino, quello della cittadina al confine turco-armeno di Kars, analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanli nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste.

Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe stato quindi di che stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars».

D’altra parte era quasi scontato che Erdogan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto, mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

Niente di nuovo

2009

Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.
Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale “Hurriyet” ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993. Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdoğan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.
Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Anche per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista, quasi un progressista, comunque non un seguace di Erdoğan) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan, chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

1988

Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica Repubblica d’Armenia.
E il 20 febbraio 1988 – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno/azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Agdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armeni. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. È il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.
Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno-Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

1991

In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno stato indipendente sarà approvata con il 99% dei voti.
A questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).
Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.
A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.
Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – discretamente e solo a livello logistico – la Grecia.
Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex Urss (russi e ucraini).

Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.
Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti. Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14% del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (cessate il fuoco del 12 maggio) prendevano il via sotto la supervisione di Mosca.

Il fallimento del Gruppo di Minsk

1994

Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato Osce) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.
Tuttavia – almeno col senno di poi – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

Qualche considerazione in merito alle efficaci operazioni propagandistiche (soprattutto da parte di Baku e Ankara) rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato. Forse perché – tutto sommato – già allora conveniva schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale, Armenia.
Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il Nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974. Per non parlare della continua evocazione di una – non documentata – partecipazione di militanti del Pkk ai combattimenti (a fianco degli armeni ovviamente).

Nel frattempo (gli affari sono affari) la Francia non smetteva di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non era e non è l’unico paese a farlo naturalmente (vedi l’Italia che dovrebbe fornire anche minisommergibili). Ma la cosa appariva stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Per esempio, all’epoca, nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.
Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku colpivano direttamente la popolazione di Stepanakert.

E già allora in qualche modo il conflitto tra Armenia e Azerbaijan appariva propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne era addirittura la “vetrina”). Intravedendo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

Due parole poi sul ruolo assunto da Teheran

Anche se poteva apparire incongrua, da più parti si formulava l’ipotesi di un Iran deciso a schierarsi con l’Armenia nel conflitto con l’Azerbaijan.
Incongrua soprattutto pensando che in entrambi i paesi, Iran e Azerbaijan, è prevalente la fede sciita.

Ma poi (come forse era lecito aspettarsi) alcuni autorevoli esponenti politici iraniani erano intervenuti dichiarando che «l’Iran non sceglie l’Armenia a sfavore dell’Azerbaijan».

Il giornalista Raman Ghavami si diceva convinto che «sia probabile che dovremo assistere a una significativa collaborazione tra l’Iran, la Turchia, l’Azerbaijan (e presumibilmente anche la Russia a questo punto, N.d.A.) sia sull’Armenia, sia su altre questioni che interessano la regione».

Si sarebbe andato infatti configurando un nuovo livello di sostanziale collaborazione nelle relazioni tra Azerbaijan e Iran. Addirittura Teheran avrebbe (notizia non confermata) richiesto all’Armenia di “restituire” (nientemeno ?!?) il Nagorno-Karabakh a Baku.

Per Raman Ghavami in realtà l’Iran «da sempre preferisce rapportarsi con gli azeri sciiti piuttosto che con gli Armeni». Come avveniva già molto prima dell’insediarsi del regime degli ayatollah.

Nuovo intreccio dei destini armeni e curdi

A tale riguardo riporta l’esempio della provincia dell’Azerbaijan occidentale (posta entro i confini iraniani) che in passato era abitata prevalentemente da curdi e armeni.
Ma tale demografia venne scientificamente modificata, nel corso del Ventesimo secolo, dai vari governi persiani che vi trasferirono popolazioni azere. Sia per allontanarvi i curdi, sia per arginare gli effetti collaterali del contenzioso turco-armeno entro i confini persiani.
Molti armeni e curdi vennero – di fatto – costretti a lasciare le loro case.
Inoltre, in tale maniera, si creava una artificiosa separazione tra le popolazioni curde di Iraq, Turchia e Siria e quelle in Iran. Cambiando anche la denominazione geografica. Da Aturpatakan a quella di Azerbaijan occidentale.

Altro elemento di tensione tra Erevan e Teheran – sempre secondo Raman Ghavami – deriverebbe dal ruolo della chiesa armena nell’incremento di conversioni al cristianesimo da parte di una fetta di popolazione iraniana.

Legami finanziari Teheran-Baku

Da sottolineare poi l’importanza vitale, per un paese come l’Iran sottoposto a sanzioni, dei legami finanziari con l’Azerbaijan. Ricordava sempre Raman Ghavami come, non a caso, la succursale della Melli Bank a Baku è seconda per dimensioni soltanto a quella della sede centrale di Teheran.
Un altro elemento rivelatore sarebbe il modo in cui, rispettivamente, Baku ed Erevan hanno reagito alla cosiddetta “Campagna di massima pressione” sull’Iran in materia di sanzioni: mentre gli scambi commerciali tra Armenia e Iran si riducevano del 30%, quelli con l’Azerbaijan si intensificavano.
Ad alimentare la tensione poi, il riconoscimento da parte dell’Armenia di Gerusalemme come capitale di Israele. Una avventata presa di posizione di cui Erevan potrebbe in seguito essersi pentita. Vedi il successivo contenzioso (e ritiro dell’ambasciatore) a causa della vendita da parte di Israele di droni kamikaze IAI HAROP all’Azerbaijan.

Ulteriore complicazione (ma anche questa era forse prevedibile) la notizia che erano già in atto scontri armati tra i mercenari di Ankara inviati in Azerbaijan (presumibilmente jihadisti, sicuramente sunniti) e gli azeri sciiti.

Insomma, il solito groviglio mediorientale.

La spartizione di Astana: Russia e Turchia e gli oleodotti dell’Artzakh

Nel novembre 2020 si concretizzava poi un vero capolavoro di cinico realismo: gli accordi con cui Russia e Turchia si spartivano il Nagorno-Karabakh garantendosi il controllo della vasta rete di oleodotti che attraversano (o attraverseranno) il territorio storicamente conteso tra Armenia e Azerbaijan. Paese, quest’ultimo che fornisce alla Turchia un quinto delle sue importazioni di gas naturale (oltre a ingenti quantità di barili di petrolio dal Mar Caspio) direttamente all’hub di Ceyhan.
E qualche briciola non di poco conto andava anche al Belpaese (se abbiamo interpretato correttamente le dichiarazioni di Di Maio).
Ricapitoliamo. Il 10 novembre 2020 l’Armenia (il paese sconfitto) e l’Azerbaijan (il vincitore) firmavano un “accordo di pace” sotto la tutela ufficiale di Mosca e ufficiosa di Ankara.

Mentre le colonne dei profughi dal Nagorno-Karabakh) si allungavano per abbandonare il paese invaso dagli “alleati” (ascari?) di Ankara (l’esercito azero e le milizie mercenarie jihadiste qui inviate dai territori già invasi della Siria), iniziava il dispiegamento lungo la linea di contatto dei duemila – inizialmente – soldati russi (presumibilmente integrati con truppe turche, sul modello delle “pattuglie-miste” nel Nord della Siria). Durata prevista della loro presenza, cinque anni rinnovabili.

Un risultato niente male per Erdogan che vedeva ratificata la sua alleanza strategica con Baku. Così come venivano confermate le conquiste azere (almeno trecento insediamenti tra cui Susi, strategicamente rilevante). Non meno rilevante, l’acquisizione da parte dell’Azerbaijan di un collegamento diretto con Nachichevan (la sua enclave) e quindi con la Turchia.

Ovviamente gli armeni non l’avevano presa bene. A farne le spese il primo ministro Nikol Pashinyan (un leader “di plastica” secondo alcuni commentatori, messo su dall’Occidente un paio di anni prima per allontanare l’Armenia dal suo alleato tradizionale russo) di cui la piazza ha richiesto le immediate dimissioni.
Gli eventi sono noti: il palazzo del governo letteralmente preso d’assalto, il parlamento occupato e il presidente Ararat Mirzanyan che quasi rischiava di essere linciato dalla folla inferocita. I manifestanti erano anche andati a cercare direttamente a casa sua il primo ministro (presumibilmente non per una pacata conversazione), ma senza trovarlo (buon per lui, naturalmente).

L’interesse italico

a sei zampe…

Si diceva delle vaghe (o svagate?) dichiarazioni di Di Maio («Monitoreremo con attenzione gli sviluppi nelle aree dove si registra un particolare attivismo turco, vigilando affinché siano tutelati il rispetto del diritto internazionale, gli interessi italiani anche economici e con l’obiettivo di scongiurare qualsiasi escalation»). E chi vuol intendere...intenda.

Del resto, con buona pace della piccola Armenia, la cooperazione con l’Azerbaijan è da tempo consolidata. L’Italia – oltre che il maggior destinatario delle esportazioni petrolifere – risulta essere uno dei principali partner commerciali di Baku con un interscambio annuale – si calcola – di sei miliardi di euro. Sarebbero almeno tremila le imprese italiane che hanno investito nella repubblica caucasica. Risaltano in particolare Eni e Unicredit con interessi stimati in seicento milioni di dollari.

… e Leonardo-Finmeccanica

Cooperazione quindi ben consolidata, si diceva. Ma non solo in campo energetico. Magari indirettamente, anche militare. Risale, per dirne una, al 2012 la vendita di una decina di elicotteri Augusta Westland (società controllata da Leonardo-Finmeccanica), ufficialmente per uso civile (ma vengono in mente gli elicotteri venduti alla Turchia negli anni Novanta, su cui poi venivano applicate le mitragliere vendute separatamente). Nel 2017 l’amministratore delegato di Leonardo firmava a Baku – sotto lo sguardo del ministro Calenda – un accordo con la Socar (società statale petrolifera azera) per incrementare la sicurezza e l’efficienza delle infrastrutture energetiche grazie appunto alle tecnologie italiche.

Con un diretto riferimento al gasdotto di 4000 chilometri che la Socar stava realizzando per far giungere in Puglia e quindi in Europa (vedi la questione del Tap), dopo aver attraversato la Georgia, la Turchia, la Grecia e l’Albania, i previsti 20 miliardi di metri cubi (annuali) di gas di provenienza dall’Azerbaijan. Particolarmente rilevante e significativo il ruolo assunto da alcune aziende italiane (Snam S.p.A. di San Donato Milanese, Saipem, Eni, Maire Tecnimont…). Appare evidente come in tale contesto l’Armenia sia ormai fuori gioco, estromessa, marginalizzata (nonostante – a titolo di parziale consolazione – qualche ipocrita piagnisteo sul genocidio subito da parte della Turchia).

L’onnipresente invasività israeliana

Tornando alla breve, ma comunque devastante, guerra intercorsa nel 2020 tra Erevan e Baku, andrebbe poi approfondito il ruolo assuntovi da Israele.
Se la Turchia sembra aver fornito a Baku – oltre ai mercenari jihadisti – aerei e droni, cosa avrà fornito Israele? In qualche modo deve aver comunque contribuito visto che durante i festeggiamenti per la schiacciante vittoria, i manifestanti azeri inalberavano e sventolavano, oltre al vessillo nazionale e alle bandiere turche, numerosi drappi con la Stella di David.

Risalgono invece ai primi di ottobre (2023) le rivelazioni dell’intelligence francese sul fatto che i comandi militari azeri avrebbero ringraziato sentitamente Israele per il sostegno nel recente attacco al Nagorno-Karabach. Sia a livello espressamente militare (armamenti vari, soprattutto droni della Israel Aerospace Industries, della Rafael Advanced Defense Systems e della Israel Militari Industries), sia di intelligence (Mossad e Aman’s Unit 8200).
Sempre da fonti dell’Esagono risulta che nel corso del conflitto di settembre una quindicina di aerei cargo azeri sono atterrati nell’area militare di Ouda (Negev). Circa un centinaio di altri aerei cargo azeri erano ugualmente qui atterrati nel corso degli ultimi sei-sette anni. Presumibilmente non per rifornirsi di pompelmi. Inoltre Israele avrebbe fornito anche sostegno nel campo della Cyber Warfare (tramite l’Nso Group).
A ulteriore conferma dello stretto rapporto con Baku, il ministro israeliano della difesa si è recato recentemente nella capitale azera per verificare di persona l’efficacia del sostegno israeliano all’Azerbaijan.

Un bel caos geopolitico comunque

Proxy war disequilibrata

E arriviamo al febbraio di quest’anno, quando mentre a Erevan si ricordavano le vittime del pogrom del 1988, in Iran gli armeni manifestavano a sostegno della repubblica dell’Artsakh. Niente di strano.
Anche all’epoca dell’attacco dell’Azerbaijan ai territori armeni della Repubblica dell’Artsakh (con il sostegno di Ankara) nel 2020, c’era chi si aspettava un maggiore sostegno all’Armenia da parte dell’Iran, in linea con una certa tradizione. Dal canto suo Israele non mancava di mostrare sostegno (fornendo droni presumibilmente) alle richieste azere, ovviamente in chiave antiraniana. Misteri della geopolitica. Anche se poi sappiamo che le cose andarono diversamente, resta il fatto che comunque in Iran gli armeni costituiscono una minoranza tutto sommato tutelata, garantita (sicuramente più di altre, vedi curdi obeluci) e anche la causa dell’Artsakh gode ancora di qualche simpatia.

Commemorazioni dei massacri passati, in preparazione di quelli presenti

O almeno così sembrava leggendo la notizia del raduno di solidarietà con la popolazione armena della Repubblica dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) che si era tenuto presso il monastero di Sourp Amenaprguitch (Santo Salvatore) di Ispahan nella mattinata del 24 febbraio 2023 (nonostante, ci dicono, le condizioni atmosferiche inclementi). Oltre alle comunità armene di Nor Jugha (Nuova Djulfa, un quartiere di Ispahan fondato dagli armeni di Djulfa nel Diciassettesimo secolo) e di Shahinshahr, erano presenti molti armeni provenienti da ogni parte dell’Iran.
Numerosi gli interventi e i messaggi arrivati a sostegno alla causa della popolazione armena della Repubblica (de facto, anche se non riconosciuta in ambito onusiano) dell’Artsakh.

Quasi contemporaneamente, due giorni dopo, in Armenia venivano commemorate le vittime del massacro di Sumgaït (quartiere industriale a nord di Baku). Il presidente armeno Vahagn Khatchatourian con il primo ministro Nikol Pašinyan, il presidente del parlamento Alen Simonyan e altre figure istituzionali si sono recati al memoriale di Tsitsernakaberd a Erevan deponendo una corona e mazzi di fiori.
Il memoriale ricorda le persone uccise nei pogrom avvenuti (con la probabile complicità delle autorità azere) nel febbraio 1988 a Sumgaït, Kirovabad e Baku. Il massacro (in qualche modo un preludio alla guerra del 1992 in quanto legato alla questione del Nagorno Karabakh) sarebbe stato innescato da rifugiati azeri provenienti dalle città armene. Almeno ufficialmente. In realtà i responsabili andrebbero identificati tra i circa duemila limitčiki (operai immigrati delle fabbriche chimiche) a cui le autorità avevano distribuito alcolici in sovrabbondanza.
Se le fonti ufficiali azere parlarono soltanto di trentadue vittime, per gli armeni queste furono centinaia. Addirittura millecinquecento secondo il partito armeno Dashnak (oltre a centinaia di stupri).
Inoltre i militari inviati per fermare i disordini impiegarono ben due giorni per percorrere i circa trenta chilometri che separano Baku da Sumgaït. Vennero arrestate centinaia di persone, ma i processi si conclusero senza sostanziali condanne.

Guerra annunciata, forza di pace distratta

Tutti defilati… tranne i curdi

Nel marzo 2023, pressata da più parti affinché intervenisse, finalmente Mosca aveva parlato tramite il ministero della Difesa, accusando Baku di aver violato gli accordi sul Nagorno-Karabakh del 2020. Meglio tardi che mai, anche se la Federazione Russa appariva sempre più incerta (o disinteressata?) al destino dell’Armenia, praticamente abbandonata a se stessa (quasi da tutti sia chiaro, non solo dalla Russia; con la nobile eccezione dei curdi).
Eppure i segnali della possibilità di un ennesimo conflitto (guerra a relativamente “bassa intensità”) non erano mancati. Il 5 marzo si era registrato un altro scontro armato nel corridoio di Lachin (per gli azeri, di Zangezur) tra Stepanakert e Goris, bloccato ormai da tre mesi da presunti “manifestanti ecologisti” azeri. La sparatoria era avvenuta tra la polizia armena e i militari azeri che avevano arbitrariamente fermato un veicolo e – nonostante fosse costata la vita di cinque persone – era passata quasi inosservata.
Invano Nikol Pašinyan, primo ministro di Erevan, aveva richiesto, rivolto anche al tribunale internazionale dell’Onu, l’istituzione di una missione internazionale di indagine sulla situazione in cui veniva a trovarsi l’unica via di collegamento tra l’Armenia e la repubblica del Nagorno-Karabakh, ormai ridotta alla condizione di enclave sotto assedio, con oltre 120.000 persone di etnia armena sprovviste di cibo e medicinali. In base all’accordo trilaterale del 9 novembre 2020 (e riconfermato per ben due volte nel 2021 e ancora nell’ottobre 2022), alla Russia spettava il compito di controllare e assicurare i trasporti nel “corridoio” con una sua forza di pace.

Estrattivismo abusivo e pretestuoso ecologismo

Il pretesto avanzato dai sedicenti “ecologisti” azeri che da mesi bloccavano il passaggio sarebbe quello di poter controllare le miniere (private, non statali) di Gyzylbulag (oro) e di Demirl (rame e molibdeno) dove gli armeni avrebbero compiuto “estrazioni illegali”.
Dopo le ripetute accuse di “mancata osservanza dell’impegno di controllo”, fino a quel momento da parte di Mosca erano giunte soltanto rassicurazioni verbali (dicembre 2022). Ma anche la dichiarazione che «le forze di pace possono agire soltanto quando entrambe le parti sono d’accordo».

«Gli azeri continuano ad avanzare pretese massimaliste, senza concedere alcuna forma di compromesso», aveva denunciato Vagram Balayan, presidente della commissione affari esteri dell’assemblea nazionale del Nagorno-Karabakh. Sostanzialmente in quanto Baku “non intende riconoscere l’esistenza del Nagorno-Karabakh e del popolo dell’Artsakh”. Ossia, detta fuori dai denti, “vogliono soltanto farci scomparire dalla storia” (come sembra confermato dagli ultimi eventi). Costringendo gli armeni a scegliere tra un’evacuazione “volontaria” e la deportazione.

Fine annunciata

E intanto con il mese di agosto il tragico epilogo si profilava all’orizzonte.
Con gli Armeni del Nagorno-Karabakh ormai presi per fame, in un articolo di quei giorni mi ero chiesto se «si può già parlare di genocidio o dobbiamo aspettare qualche migliaio di morti per inedia?».
Domanda retorica ovviamente.

A un certo punto l’evidente, colpevole, latitanza della Russia (storicamente “protettrice “ della piccola Armenia) sulla questione del Nagorno-Karabakh sembrava aver lasciato campo aperto all’intervento pacificatore – o perlomeno a un tentativo di mediazione – di Unione Europea e Stati Uniti.
Ma l’irrisolta questione del Corridoio di Lachin (unico corridoio tra Armenia e Nagorno-Karabakh) conduceva fatalmente al nulla di fatto. E intanto per gli armeni del Nagorno-Karabakh la situazione continuava a peggiorare.
Chi in quei giorni aveva avuto la possibilità di percorrere le strade di Stepanakert parlava di lunghe file di persone che – dopo ore di attesa – ottenevano letteralmente un tozzo di pane. Per non parlare di quanti crollavano – sempre letteralmente – a terra a causa della fame. Almeno 120.000 persone colpite dall’isolamento totale e dalla conseguente crisi umanitaria (sia a livello sanitario che alimentare).
Senza dimenticare che – ovviamente – l’Azerbaigian da tempo aveva provveduto a interrompere il rifornimento di gas. Difficoltoso, in netto calo, anche quelli di energia elettrica e di acqua. A rischio le riserve idriche con tutte le prevedibili conseguenze.
Quanto all’alimentazione ormai si era ridotti alle ultime scorte di pane e angurie. Il peggioramento si era andato accentuando da quando veniva impedito (con posti di blocco installati illegalmente dall’Azerbaigian) l’accesso anche alla Croce Rossa e alle truppe russe di interposizione che comunque finora avevano rifornito di cibo – oltre che di medicinali – la popolazione armena.

Silenzio tombale e pennivendoli distratti

Bloccato da mesi alla frontiera anche un convoglio di aiuti umanitari (oltre una ventina di camion) inviato da Erevan.
In pratica, un grande campo di concentramento.
Al punto che un cittadino armeno gravemente ammalato, mentre veniva trasportato dalla Croce Rossa in un ospedale dell’Armenia (e quindi sotto protezione umanitaria internazionale), veniva sequestrato, privato del passaporto, sottoposto a interrogatorio e spedito a Baku dove – pare – sarebbe stato anche processato per eventi risalenti al primo conflitto scoppiato in Nagorno-Karabakh negli anni Novanta.

E ogni appello rivolto alle autorità e organizzazioni internazionali (Unione Europea, Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Russia, Gruppo di Minsk…) era destinato a restare inascoltato.
Con un preciso riferimento al blocco del Corridoio di Lachin operato dall’Azerbaijan, un ex esponente della Corte Penale Internazionale, l’avvocato argentino Luis Moreno Ocampo, aveva espressamente evocato un possibile genocidio.
Ma la sua appariva la classica “voce che grida nel deserto”. Quello dell’informazione almeno.

Poi la conferma dei peggiori timori con il tragico epilogo avviato il 19 di settembre.


Il giorno dopo la Guerra lampo dei fratelli turcofoni avevamo sentito Simone Zoppellaro, la cui analisi consentiva di comprendere nei dettagli cause e conseguenze delal dissoluzione dell’indipendenza dell’Artzakh

“Cala un sipario plumbeo sull’Artsakh”.

L'articolo Il crogiolo caucasico tra i confini fittizi dei vincitori proviene da OGzero.

]]>
Uno spettro si aggira per le banlieues https://ogzero.org/uno-spettro-si-aggira-per-le-banlieues/ Sun, 02 Jul 2023 16:33:02 +0000 https://ogzero.org/?p=11235 Les Invisibles si sono palesati. L’attuale clima incandescente (da pre-insurrezione ?) che attraversa l’esagono riporta fatalmente alla memoria analoghe situazioni del 2005 e 2017… ma anche la “mort indigne” di  malik oussekine A questo aspetto, più strettamente legato all’approccio che collega la rabbia al razzismo subito da banlieues e cités, si aggiunge la gioiosa creatività […]

L'articolo Uno spettro si aggira per le banlieues proviene da OGzero.

]]>
Les Invisibles si sono palesati.

L’attuale clima incandescente (da pre-insurrezione ?) che attraversa l’esagono riporta fatalmente alla memoria analoghe situazioni del 2005 e 2017… ma anche la “mort indigne” di  malik oussekine

A questo aspetto, più strettamente legato all’approccio che collega la rabbia al razzismo subito da banlieues e cités, si aggiunge la gioiosa creatività ribelle dei giovanissimi partecipanti agli émeutes, teen-agers come la vittima che li ha scatenati con la sua morte che ha scoperchiato l’impunità feroce e l’improntitudine menzognera del sistema di potere fondato sullo stato di polizia. Questi ragazzini sono oltre le rivendicazioni antirazziste proprio perché di seconda e più spesso terza generazione e dunque si sentono francesi e quindi odiano tutte quelle istituzioni prese a bersaglio negli innumerevoli video sui social: i centri commerciali – i cui prodotti sono sempre più fuori portata con la spirale inflazionistica in corso; commissariati – dove li conducono arbitrariamente gendarmi senza guinzaglio e con la licenza di uccidere; scuole – sempre meno rappresentative di riscatto o strumento di ascensore sociale e invece luoghi di imposizione di cultura e nozioni avulse; distributori di tabacchi – carissimi in Francia per le accise imposte ufficialmente, come per l’alcol, per ridurre la dipendenza; bancomat e dispositivi di controllo con telecamere – i veri luoghi di culto… questi teen-agers hanno ben chiara l’appartenenza innanzitutto a una classe a un territorio, di cui riconoscono con precisione gli spazi occupati dal potere… e li distruggono. I loro espropri – pillages è l’orripilata reazione dei buoni borghesi – sono momenti di riscatto inconsapevolmente situazionista, ma in piena coscienza di diversità esibita.

Una rabbia che si può collegare a quella delle rivolte dei gilet jaune (commistione di destra populista e sinistra insoumise, unite da tariffe) come a quelle di ancora diversa connotazione delle proteste contro la riforma delle retraites (di nuovo disagi nati da mancate risposte economiche); e pure con gli ecologisti del Soulevements de la Terre, sciolti per legge (perché si contrappongono agli interessi delle coltivazioni intensive dell’agroindustria)… è un blocco sociale che rappresenta una larga maggioranza della società francese, che ha riconosciuto nella finanziarizzazione del macronismo il vero nemico. E forse il sano collante proviene dallo spirito libertario mai del tutto sopito oltralpe.
Speriamo che non riesca il potere oligarchico finanziario a tirare la volata all’estrema destra anche in Francia: certo che Zemour ha buon gioco a straparlare di sostituzione etnica e di moschee come luoghi di riferimento per questi ragazzi (che invece sbeffeggiano gli himam), diventando così nuovi motivi di sospetto per i buoni borghesi, imbevuti di razzismo coloniale (ormai senza più colonie) che voteranno impauriti Le Pen, se prosegue la narrazione mediatica della Haine contro una delel più brutali e violente polizie al mondo e la sovrapposizione tra cultura musulmana e banlieues.

Ma affidiamoci a Gianni Sartori che colloca tutto questo groviglio in un contesto che storicamente vede episodi di intolleranza nei confronti dell’invisibile “diversamente francese”, una lunga storia che coinvolge gli immigrati di ogni latitudine dai piemontesi nell’Ottocento, ai maghrebini della Renault nel dopoguerra, fino alle banlieues da Sarkozy a Macron… e soprattutto spiega con esempi da dove provenga il fatto che “tout le monde  déteste la police”


 OGGI BOUNA TRAORÉ E ZYED BENNA AVREBBERO 33 E 35 ANNI…

Ne avevano solo 15 e 17 nell’ottobre 2005.
Due ragazzini morti prematuramente e tragicamente – o forse uccisi in modo “preterintenzionale”, come Nahel nel giugno 2023.

I grandi media molto parlarono o sparlarono della successiva rivolta ma spesero poche righe per dire che, 10 anni dopo, il tribunale di Rennes assolse i due poliziotti, un gendarme maschio e uno femmina, accusati di «mancata assistenza a persona in pericolo» per la morte dei due ragazzi, rimasti folgorati in una cabina elettrica mentre fuggivano dagli agenti a Clichy-sous-Bois, nella banlieue parigina. I due poliziotti, Stephanie Klein e Sebastien Gaillemin, sostennero di non essersi resi conto del pericolo che correvano i due ragazzi. Invece sulla radio della polizia esiste una registrazione con la voce di Gaillemin, che dice di aver visto alcune figure dirigersi verso la centrale elettrica, aggiungendo “se vi entreranno, la loro vita non varrà molto”… ma Klein e Gaillemin non mossero un dito: la vita dei due ragazzi non valeva comunque?

Dodici anni dopo (2017, cinque anni fa) soltanto chi era in malafede (o fin troppo ingenuo) poteva illudersi che le “notti dei fuochi” nelle banlieue di Parigi e di altre grandi città francesi fossero ormai un problema, se non definitivamente risolto, perlomeno sotto controllo, provvisoriamente in letargo o almeno accantonato.

Invece le gravissime violenze della polizia su un ragazzo, Théo, avevano innescato proteste di grande portata, analoghe alla grande rivolta del 2005.

Il volto “anonimo e terribile” dell’insurrezione era riapparso (come una nemesi) per le strade di Aulnay-sous-Bois, Seine-Saint-Denis, Tremblay-en-France.

Così all’inizio del 2017 la protesta violenta dei banlieusard  innalzava nuovamente il suo vessillo, nero di rabbia se non di lutto.

Talvolta definito un “conflitto a bassa intensità” o anche “una rivolta afasica”, le periodiche sollevazioni dei giovani beurs lasciano comunque intravedere un movimento forse “in sé”, ma che sicuramente non ha ancora un “per sé”.

Fattori economici e fattori di cittadinanza

Sarebbe sbrigativo riportare il tutto soltanto alla “ristrutturazione del lavoro e allo smantellamento dello stato sociale”. O anche alla “globalizzazione combinata alla flessibilità che provoca inesorabilmente eccedenze ed esuberi non funzionali allo sviluppo”, come sostenevano alcune voci di sinistra. Sia chiaro: sono fattori questi che sicuramente hanno alimentato l’aumento di povertà e nuove povertà (e non solo tra gli immigrati). Non dimentichiamo che se fino agli anni Settanta l’operaio poteva ancora agire sui meccanismi economici, oggi i “nuovi poveri” (precari, “superflui”…) possono ben poco di fronte a un lavoro automatizzato e alle delocalizzazioni. E il banlieusard in particolare si scopre ogni volta cittadino di serie B, impotente, oltre che umiliato e offeso.

Nel caso dei figli di immigrati non sarebbe (o non soltanto) la “mancanza di integrazione” a determinare disagi e ribellioni. Addirittura, per lo studioso Filippo Del Lucchese, la causa potrebbe essere proprio «l’avvenuta integrazione, l’aver interiorizzato i valori di Libertà e Uguaglianza (per la Fraternità meglio rinviare a tempi migliori, evidentemente – N.d.A.) scoprendo a proprie spese di esserne esclusi».

Nel 2005 per “sedare i tumulti” il governo francese era ricorso addirittura a una legge coloniale sul “coprifuoco”. È partendo da questo fatto che alcuni ricercatori d’oltralpe (ma alle stesse conclusioni giungevano alcuni studiosi italiani come appunto Del Lucchese, Giuseppe Mosconi e Guido Caldiron) hanno cominciato ad analizzare la questione delle banlieues come una forma di “post-colonialismo”.

Importare l’atteggiamento coloniale in patria

Naturalmente, ça va sans dire, le banlieues non vengono sfruttate per le inesistenti materie prime. Rimangono tuttavia, come appunto le colonie, territori in cui “la produzione dell’identità culturale avviene all’interno di un sistema di potere coloniale”. A tale proposito Del Lucchese aveva rievocato nei suoi lavori un fenomeno ancora poco studiato dell’Ottocento, quello degli “zoo umani”. In questi luoghi gruppi di “indigeni” prelevati dalle colonie venivano esposti in vere e proprie gabbie e dovevano rappresentare la loro vita quotidiana, le danze, i riti; oppure gli “effetti benefici della civiltà”, imitando lo stile di vita dei colonizzatori. A questi spettacoli assistevano migliaia di persone. È stato, secondo lo studioso «un modo molto efficace di propagandare il razzismo, facendo toccare con mano la presunta superiorità dell’uomo bianco».

Di queste involontarie esibizioni esiste una vasta rappresentazione fotografica. Sono immagini molto statiche, in posa (per ragioni tecniche dei tempi del fotogramma), di “corpi immobilizzati, domati” . Vien da dire “addomesticati”, una vera e propria imposizione di identità.

Parlando di “immagini senza storia, decontestualizzate, corpi congelati…”

Del Lucchese si chiedeva: «Siamo sicuri che questi metodi siano veramente alle nostre spalle? Siamo certi che lo sguardo che posiamo sulle banlieue non sia sostanzialmente ancora il medesimo?».
In un suo articolo del 2005 dal titolo evocativo (La banlieue come teatro coloniale) metteva in evidenza quali fossero i meccanismi che producono la ghettizzazione, il vivere come colonizzati.

Come aveva spiegato Frantz Fanon (I dannati della terra), parlando delle popolazioni colonizzate di Asia e Africa, «la loro identità è data da uno sguardo diverso dal loro». L’abitante della banlieue viene considerato “arabo” non in senso etnico, ma quasi come “un marchio di infamia” imposto dall’esterno. Ma contemporaneamente gli verrebbe “imposto di scrollarsi di dosso questo stigma”. E questo avviene non solo per i figli, ma anche per i nipoti di immigrati.

Confermare lo stereotipo

Risultato? Alla fine, azzarda Del Lucchese «recitano un ruolo, come se ancora si trovassero nelle gabbie di un nuovo, postmoderno “zoo umano”».
Dalle numerose interviste raccolte in occasione di rivolte e ribellioni emergerebbe proprio questa tendenza a «diventare quella immagine di “arabo” che altri gli hanno cucito addosso». Sorge, ovviamente, un dubbio (non puramente “accademico”). È possibile che meccanismi analoghi di identificazione con uno stereotipo negativo, ma in grado di fornire comunque un’identità, siano entrati in azione anche nei tragici eventi che periodicamente hanno insanguinato la Francia (stragisti suicidi – e non; “lupi solitari”…)?

Per un altro studioso, Giuseppe Mosconi (docente alla Facoltà di scienze politiche di Padova), «sugli incendiari si dicono e si scrivono troppe banalità». Per esempio: «si sentono esclusi, si esprimono simbolicamente…».
Certo, è più facile dire «che cosa non sono, definirli negativamente (e quindi in pratica screditarli – N.d.A.), negare loro ogni dignità politica».

Mosconi sottolineava che a suo avviso «queste persone non si identificano a livello etnico- religioso, non si rifanno a improbabili “guerre sante” che oltretutto sarebbero facilmente recuperabili a livello mediatico». E, nonostante le analogie con le metropoli statunitensi, in particolare Los Angeles, non esprimerebbero nemmeno un generico “spirito di banda”. Probabilmente non aspirano nemmeno a diventare “giovani occidentali dediti al consumismo” ma forse cercano di «essere qualcosa che stanno ancora elaborando, una identità in crescita, in formazione».

Ossia chiedono “una forma di riconoscimento che consenta loro un movimento possibile”. Intrappolati in uno “spazio ancora indistinto”, non riconducibile ad alcuna catalogazione. È vero, nelle banlieue mancano le strutture e il welfare quasi non viene applicato, ma la soluzione non può venire soltanto dallo stato sociale. Tantomeno , ovviamente, dalla repressione.

Drone autorizzato nella repressione delle rivolte del giugno-luglio 2023

 IN DICEMBRE A PARIGI ERA CALDO…

Ma la tragica fine di Nahel riporta alla mente, oltre a quelle di Zyed Benna e Bouma Traoré, anche un’altra “mort indigne”, ancora più lontana nel tempo.
Quella di Malik Oussekine, nel caldo dicembre 1986.

Sabato 6 dicembre 1986. La mezzanotte è passata da 20 minuti

Nel garage della Prèfecture de Paris 43 poliziotti del Peloton de voltigeurs motoportés (cagoule – passamontagna – nero e casco bianco, muniti di matraque – manganello – di legno lungo un metro) ricevono l’ordine atteso per oltre dieci ore: “PMV, en place!”.
Un’ora e mezza più tardi Malik Oussekine incrocerà la strada di questi vigilantes motorizzati. Non ne uscirà vivo.

Un passo indietro

Nell’estate 1986 il sindacato studentesco UNEF-ID aveva lanciato una grande mobilitazione contro il progetto di riforma della scuola superiore proposto dal secrétaire d’Etat aux Universités, Alain Devaquet.

Il 22 novembre venivano convocati gli états généraux étudiants alla Sorbonne. Da qui parte l’indicazione di uno sciopero generale e di una grande manifestazione per il 27 novembre.

Intanto, rispondendo all’appello della Féderation de l’Education nationale, il 23 novembre duecentomila persone scendono in piazza contro la politica educativa del governo. Non è che l’inizio: due giorni dopo, il 25 novembre, sono già una cinquantina (su 78) le università in sciopero. Migliaia di studenti medi organizzano manifestazioni spontanee a Parigi. Il 27 sono oltre 500.000 in tutte le grandi città francesi.

Il 28 novembre il governo rinvia alla commissione il progetto che stava per essere sottoposto all’Assemblea nazionale. Ma non basta: gli studenti esigono che il progetto venga ritirato, non solamente ridiscusso.

Il 29 novembre il coordinamento degli studenti conferma la manifestazione indetta a Parigi per il 4 dicembre.
È ormai notte sull’esplanade des Invalides. Circa 300.000 studenti rimangono ancora in attesa del ritorno delle delegazioni inviate all’Assemblée e al ministére de l’Education nationale. La risposta genera rabbia e sconforto: il progetto viene confermato.
Dopo qualche improvvisato sit-in e sporadici scontri (sul quai d’Orsay) la polizia fa uso di cannoni ad acqua e lanci di granate (causando molti feriti, alcuni gravi) per disperdere la folla.

Il giorno successivo, 5 dicembre, migliaia di studenti si riuniscono spontaneamente, anche se in maniera alquanto disorganizzata, nel quartiere Latino. Si aspetta, senza farsi illusioni, la dichiarazione di René Monory, ministro dell’Education nationale, prevista per le 20. Per il momento non si registrano disordini. Stando ai ricordi dei presenti, la serata, rispetto ai parametri stagionali, è particolarmente douce; le persone passeggiano, si formano capannelli informali di discussione, circola molta cordialità.
Alcuni ragazzi hanno acceso un falò, ma non si vedono barricate, tanto meno saccheggi. Soltanto alcuni sacchi di sabbia vengono prelevati da un cantiere e messi di traverso, alla buona, in rue Racine. Onde evitare “provocazioni”, altri studenti sono prontamente intervenuti per togliere la simbolica barricata (alta non più di 30 centimetri).
Man mano che le ore trascorrono la piazza si va spopolando. Rimangono soltanto 300 manifestanti, in attesa di conoscere i risultati di una assemblea generale “sauvage” in corso alla Sorbonne dove il rettore ha già richiesto alla polizia di intervenire. Lo sgombero viene pianificato con cura dal prefetto Jean Paolini, dal direttore della Sécuritè publique George Le Corre e dai commissari Jean-Paul Copie e Robert Bonnet.

In campo, 8 compagnie di CRS, 3 squadroni di gendarmes mobiles e la compagnie de maintien de l’ordre della Prefettura. Una volta sgomberata la Sorbonne, si dovrà “ripulire” rapidamente il quartiere per evitare che gli studenti si riuniscano nuovamente all’esterno.
L’ordine di evacuazione arriva alle ore 1,08. In pratica, circa tre quarti d’ora dopo che è stato ordinato per radio al PVM di intervenire nel quartiere Latino. Questi motociclisti, definiti “unité de choc” e già noti per la loro brutalità, sono addestrati militarmente per intervenire in contesti ben più gravi. Forse le autorità sopravvalutano il numero e la combattività dei manifestanti? Si teme una riedizione del Maggio Sessantotto a quasi venti anni di distanza? In ogni caso, la decisione di far intervenire il PVM è quantomeno aberrante.

Intanto dalla Sorbonne gli occupanti escono con le braccia alzate e tutto sembra procedere pacificamente. Sembra soltanto. Sarebbe, secondo i testimoni, verso l’1,30 del mattino che il comportamento della polizia comincia a inasprirsi. Un atteggiamento dovuto forse alla fretta di concludere l’operazione. Il PVM piomba su alcuni manifestanti intenti a rovesciare un bidone della spazzatura in rue Gay-Lussac. L’orda di moto semina il panico, sale anche sui marciapiedi, vengono colpite persone che semplicemente rientravano a casa dal bar o dal ristorante. A quell’ora, l’ala destra del plotone (7 equipaggi), guidata dal brigadier-chef Jean Schmitt, risale il boulevard Saint-Michel e imbocca a tutta velocità rue Racine inseguendo una ventina di presunti manifestanti.

Tavole dal racconto disegnato Contrecoups di Puchol e Bollée

È a questo punto che la moto di Schmitt si ribalta, probabilmente per una brusca frenata. Un ragazzo, terrorizzato dalle sirene, dal rombo dei motori, dall’evidente aggressività dei poliziotti sta fuggendo a gambe levate. Non meno spaventato, a pochi metri sta correndo anche Paul Bayzelon, un alto funzionario del ministero delle Finanze, rientrato da una cena nel momento sbagliato. Bayzelon ricorderà poi di aver pensato, sentendo i motori: «non mi picchieranno, sono ben vestito…» ma poi saggiamente comincia a correre. Dalle moto, i poliziotti colpiscono chiunque capiti a tiro. Il ventitreenne Garcia, alla sua prima missione di PVN, scende dal mezzo guidato dal collega Giorgi e comincia a inseguire a piedi i fuggitivi (contravvenendo al regolamento). Il caso, o il destino, metterà Malik a portata della sua matraque.
Arrivato al numero 20 di rue Monsieur-le-Prince, Paul Bayzelon riesce a entrare nel palazzo dove abita. Dietro di lui, terrorizzato, si getta Malik in cerca di rifugio. Bayzelon, ancora nella hall del palazzo, ne intravede il volto incollato all’esterno della porta a vetri. Dirà di essere rimasto colpito dagli occhi pieni di terrore. Gli apre e anche Malik si rifugia nella hall.

Al momento di richiudere la porta, due (o forse tre) poliziotti, tra cui Garcia e Schmitt (e forse anche Christian Giorgi, la dinamica non è mai stata completamente chiarita) entrano di forza e si precipitano su Malik massacrandolo a colpi di manganello. Lo colpiscono soprattutto alla testa e contemporaneamente lo prendono a calci nel ventre e sulla schiena. Bayzelon testimonierà che all’entrata dei poliziotti Malik aveva gridato: «Je n’ai rien fait… Je n’ai rien fait». Poi più niente, solo i grugniti dei picchiatori e i colpi sordi delle manganellate. I poliziotti escono, ma rientreranno subito, pestando anche Bayzelon, in quanto Schmitt aveva perso la sua pistola. Malik è in un mare di sangue. Verrà soccorso, comunque troppo tardi, solo casualmente. Un’ambulanza del SAMU passa per rue Racine e viene fermata da alcuni passanti. Dopo alcuni tentativi di rianimarlo, il medico si rende conto che per il giovane ormai non c’è più speranza. Finge ugualmente un ricovero d’urgenza, forse per evitare disordini data che una piccola folla si va ammassando davanti al civico 20 di rue Monsieur-le-Prince. Il resto è la triste cronaca di una famiglia sconvolta dalla notizia: Malik è morto. Ammazzato di botte dalla polizia.

Chi era Malik Oussekine?

Nato il 18 ottobre 1964, era figlio di un camionista (in precedenza minatore e muratore) di origine algerina morto nel 1978. La famiglia abitava in un HLM (casa popolare) a Meudon-la Foret. Colpito fin dalla nascita da una malattia dei reni, aveva trascorso buona parte della infanzia tra ricoveri ospedalieri, cure, controlli e trattamenti.

«il est confiant dans son avvenir»

Stando alle testimonianza raccolte da Nathalie Prévost, all’epoca studentessa dell’école de journalisme e amica della sorella, Malik era un ragazzo educato e gentile che non parlava mai dei suoi problemi di salute. Così lo ricordava il preside della sua scuola dove si distinse per discrezione e impegno. Sempre “ansioso di vivere” incoraggiato in questo dai fratelli maggiori. Gioca a tennis, nuota, si iscrive a un corso di karaté, si allena a basket in un club. Sogna di diventare musicista, ama soul e funk. Con l’adolescenza i suoi problemi di salute si aggravano. Nel 1986 deve sottoporsi a dialisi e un fratello inizia le pratiche per donargli un rene. Malik rimane comunque un ragazzo intraprendente che ripone molte speranze nel futuro. Per un anno rimane in cura presso un centro di Avon dove può continuare i suoi studi fra un trattamento e l’altro. Quando il fratello Ben Ammar lo porta a vivere vicino a lui, nel XVII, Malik si iscrive all’ESPI, una scuola di economia.

«Assiduo, puntuale, attento alle lezioni»

Forse un po’ solo, geloso della sua indipendenza e sempre molto reticente sulla malattia. Grazie all’aiuto dei familiari (i fratelli sono piccoli imprenditori) ha la possibilità di compiere qualche breve viaggio in Italia, Spagna e Gran Bretagna. Poi, nel settembre 1986, negli Stati Uniti presso la famiglia di un medico dove può essere seguito.
Ritorna a Parigi colmo di entusiasmo. Sicuramente molto idéaliste, non è però impegnato politicamente. Si sente francese e solo per pochi mesi frequenta l’Amicale des Algèriens en Europe e più tardi la Fusion (più che altro per curiosità secondo il fratello). Da sempre interessato alle questioni religiose, avrebbe preso in seria considerazione l’ipotesi di diventare cattolico e forse anche di farsi prete. In tasca, quando viene massacrato, aveva una copia del Nuovo Testamento. Pochi giorni prima aveva voluto incontrare due sacerdoti, P. Baudin e P. Desjobert che lo ricordano come

«molto determinato, anche se forse un po’ impaziente». Sicuramente, – dicono – «Malik è stato colto dalla morte in un momento in cui stava compiendo scelte profonde».

Scelte che due o tre poliziotti hanno stroncato sul nascere, à coups de matraque, quel 6 dicembre 1986.

… OGGI MALIK OUSSEKINE AVREBBE 59 ANNI

L'articolo Uno spettro si aggira per le banlieues proviene da OGzero.

]]>
Il Pakistan brucia… la neve distrae, ovattando l’eco dei conflitti https://ogzero.org/il-pakistan-brucia-la-neve-distrae-ovattando-leco-dei-conflitti/ Sun, 21 May 2023 09:51:28 +0000 https://ogzero.org/?p=11093 Il Pakistan, già in sofferenza per gli attacchi dell’estremismo islamico e per i disastri ambientali, rischia forse di precipitare nella guerra civile. Niente di nuovo naturalmente. Almeno per le minoranze etniche e religiose e – soprattutto – per le donne, i bambini, i diseredati. Vittime designate di una costante “guerra a bassa intensità”. Ma l’importante […]

L'articolo Il Pakistan brucia… la neve distrae, ovattando l’eco dei conflitti proviene da OGzero.

]]>
Il Pakistan, già in sofferenza per gli attacchi dell’estremismo islamico e per i disastri ambientali, rischia forse di precipitare nella guerra civile. Niente di nuovo naturalmente. Almeno per le minoranze etniche e religiose e – soprattutto – per le donne, i bambini, i diseredati. Vittime designate di una costante “guerra a bassa intensità”.
Ma l’importante è continuare a sciare sulle “cime inviolate” del “Terzo Polo”. Come non mancano di segnalarci amabilmente su Instagram gli stessi vacanzieri d’alta quota nostrani… che non boicottano e così immemori non si accorgono di affiancare i militari di uno stato oppressore, in mano a un’oligarchia che spadroneggia su cittadini discriminati. Sintomatico del modo di fare affari, senza badare alla natura delle oligarchie genocidiarie che controllano i paesi con cui si intrecciano.
In questi giorni in cui il Pakistan è tornato alla ribalta per gli scontri con decine di morti dopo l’arresto di Imran Khan ci sembra interessante il modo in cui Gianni Sartori inforca il grandangolo perlustrando l’area pakistana, allargando lo sguardo sia nel tempo che ai temi.  


Il balletto criminale delle elezioni imminenti

Ma cosa sta succedendo in Pakistan? Davvero siamo alle soglie di una guerra civile? O stiamo assistendo al preludio (“con altri mezzi”) della campagna elettorale in vista delle elezioni di ottobre (salvo modifiche, rinvii)?

Il risvolto etnico

In realtà per alcune minoranze etniche o religiose: hazara, beluci, cristiani, sciiti… così come per le donne, i bambini e un gran numero di diseredati, la situazione era già difficile. Tra attentati, aggressioni, (guerra a bassa intensità ?), discriminazioni…che si vengono a sovrapporre (con effetti sinergici) alla grave crisi economica e alla disastrosa situazione sanitaria. Per non parlare di alluvioni e altre emergenze ambientali.

Il risvolto talebano

Un recente avvenimento è sintomo emblematico di una situazione in via di ulteriore degrado (e qui non mi riferisco a quello ambientale).
Qualche giorno fa Muhammad Alam Khan, un poliziotto assegnato alla protezione della Catholic Public High School (una scuola cattolica femminile) nel Nordovest del Pakistan (a Sangota, nella valle dello Swat, provincia del Khyber Pakhtunkhwa), ha aperto il fuoco contro il pulmino che trasportava le allieve uccidendone una di 8 anni e ferendone altre sei e un’insegnante.
Il tragico episodio è avvenuto nella stessa regione da cui proviene Malala Yousafzai, l’attivista premio Nobel per la pace per aver condotto una campagna contro il divieto all’istruzione femminile imposto dal Tehreek-e Taliban Pakistan (Ttp, i talebani pakistani). Nel 2012 anche lei era stata colpita alla testa da un proiettile sull’autobus per tornare a casa da scuola, mentre anni fa la Catholic Public High School aveva dovuto chiudere per le minacce e per gli attentati.

Nel 2022 in questa provincia si sono registrati almeno 225 attentati (“solo” 168 nel 2021). O almeno secondo le cifre ufficiali. Da parte loro i miliziani legati al Ttp ne avevano rivendicato oltre 360. Senza dimenticare gli attacchi di un’altra organizzazione jihadista-terrorista operativa anche in Pakistan: lo Stato islamico che solo nel marzo 2022 aveva ucciso oltre 60 persone.
E anche il 2023 non sembra promettere bene. Solo nei primi quattro mesi sono già 180 quelli ufficiali.

Nel gennaio di quest’anno i talebani pakistani avevano rivendicato anche il sanguinoso attacco suicida (con oltre una trentina di morti e centinaia di feriti) ad una moschea di Peshawar, situata in un complesso dove si trova il quartiere generale della provincia del Khyber Pakhtunkhwa.

Il risvolto separatista

Per completezza va anche ricordato che gli attentati non sono monopolio esclusivo degli estremisti islamici. Un attacco suicida dell’agosto 20121 nella città di Gwadar (contro un veicolo cinese) era stato rivendicato dai separatisti beluci.

Una situazione drammatica, convulsa e foriera di ulteriori lutti.

Le malefatte di Imran Khan

Non per niente tra le questioni sollevate dall’attuale conflitto interno tra governo e opposizione (ma anche tra militari e una parte della società civile) appare rilevante l’accusa di ambiguità rivolta all’ex primo ministro Imran Khan. Per aver consentito, favorito il rientro in patria dei talebani pakistani purché garantissero di deporre le armi (cosa auspicabile ma difficile da realizzare). Come era prevedibile, nonostante le trattative per il loro reinserimento e per una “soluzione politica” del conflitto, dopo poco tempo gli attentati erano ripresi. Alimentando il sospetto che i colloqui, le trattative avessero in realtà consentito al Ttp di riorganizzarsi.

Le persecuzioni contro Imran Khan

Quanto alle numerose azioni giudiziarie lanciate contro lo stesso leader del Pakistan Tehreek-e-Insaf (Pti) per corruzione e reati finanziari (e anche un probabile tentativo di eliminarlo fisicamente, stroncato dalla mobilitazione dei militanti del Pti), presumibilmente in parte strumentali, per ora sembrano aver portato più che altro all’incarcerazione di tanti suoi seguaci. Pare anche dietro sua indicazione: farsi arrestare per “saturare le carceri e screditare il governo”… quanto meno un rischioso azzardo.

Tra le accuse principali, quella relativa all’Al-Qadir Trust, proprietà di Khan e della moglie, a cui l’impresa immobiliare Bahria Town avrebbe fornito un terreno del valore di 530 milioni di rupie (1,71 milioni di euro)
Ma forse Imran Khan sta anche pagando il prezzo di un suo avvicinamento alla Russia (malvisto dagli Usa, oltre che dall’India per ragioni inverse). Questo potrebbe aver innescato la rottura con l’esercito e favorito la sua defenestrazione.

Come è noto l’ex primo ministro è stato arrestato (a quanto sembra da un gruppo paramilitare legato ai servizi segreti) mentre si trovava all’Alta corte di Islamabad per testimoniare in un processo.

Ambiguità pakistane nel posizionamento geopolitico

Naturalmente non mancano (anche a sinistra, tra quella più “campista”) gli estimatori del regime pakistano.
Pensando di intravedervi una componente di possibili “blocchi egemonici alternativi musulmani” per un mondo multipolare contro l’imperialismo statunitense. Blocchi di cui potrebbero far parte sia la Turchia che l’Iran e in buoni rapporti con Russia e Cina. Sarà, ma non mi convince. In realtà è più probabile che il Pakistan (come da tradizione) continuerà a giocare su due tavoli. Se con gli Stati Uniti prevale la collaborazione sul piano militare (e i finanziamenti), con la Cina va sviluppando l’aspetto commerciale (vedi la Via della Seta).

Lasciando per ora da parte l’altro rischio, quello di un possibile conflitto nucleare con l’India. Magari a causa di un “malfunzionamento tecnico”, di un errore. Come quando nel marzo scorso l’India ha lanciato accidentalmente un missile supersonico in Pakistan. Caduto senza danni particolari nel Punjab (distretto di Khanewal).

Indifferenza occidentale

In alta quota si trovano i retaggi degli scambi d’interessi tra imprese occidentali (molto spesso italiane, anche affondando nelle nevi storicamente del passato) e intrecci tra potere canaglia di uno stato dai molteplici scambi interessanti. Sempre intenti a individuare qualche residua “cima inviolata” (lapsus rivelatore?) da cui scendere con gli sci (anche qualche giorno fa nella regione del Gilgit-Baltistan).
Mentre – che so – negli anni Ottanta del secolo scorso era quasi normale (almeno per persone con un minimo di coscienza sociale, politica…) boicottare almeno turisticamente un paese come il Sudafrica dell’apartheid e in epoca più recente la Turchia che reprime il popolo curdo, oggi come oggi andare a trascorrere le “settimane bianche” in Pakistan per alpinisti, escursionisti e sciatori nostrani non sembra assolutamente fuori luogo. Anche a persone che magari poi se la tirano con le questioni umanitarie e ambientali. O quelli che mentre denunciano lo scioglimento dei ghiacciai del “Terzo Polo” vi contribuiscono con i loro mezzi (nel senso di veicoli).

L'articolo Il Pakistan brucia… la neve distrae, ovattando l’eco dei conflitti proviene da OGzero.

]]>
Etiopia Saudita. Fornire migranti usa-e-getta https://ogzero.org/etiopia-saudita-fornire-migranti-usa-e-getta/ Sun, 30 Apr 2023 11:33:24 +0000 https://ogzero.org/?p=10858 Qui Gianni Sartori offre un bello spaccato sui diritti a geometria variabile insiti nell’approccio alla filosofia ed economia politica dell’Arabia Saudita. Un mondo antropologicamente diverso retto da norme differenti, di cui  l’estensore del pezzo evidenzia le storture umanitarie, lo schiavismo e lo sfruttamento in particolare di genti etiopi. Motivo per cui l’articolo che proponiamo  è […]

L'articolo Etiopia Saudita. Fornire migranti usa-e-getta proviene da OGzero.

]]>
Qui Gianni Sartori offre un bello spaccato sui diritti a geometria variabile insiti nell’approccio alla filosofia ed economia politica dell’Arabia Saudita. Un mondo antropologicamente diverso retto da norme differenti, di cui  l’estensore del pezzo evidenzia le storture umanitarie, lo schiavismo e lo sfruttamento in particolare di genti etiopi. Motivo per cui l’articolo che proponiamo  è tutto sul filo del rapporto tra le due sponde del Mar Rosso. Il podcast dell’intervento di Laura Silvia Battaglia su Radio Blackout del 20aprile 2023, inserito a corredo del testo, inquadra la posizione nello scacchiere internazionale della Arabia Saudita in uno snodo epocale che con la rivoluzione di partnership operata da Mbs con il sua Vision2030 produrrà conseguenze per l’intero Medio Oriente e zone limitrofe… e al di là del Mar Rosso sono già evidenti con lo scardinamento della diarchia in Sudan, che di nuovo coinvolge l’Etiopia e il gioco di alleanze… e il cambio in ambito di diritti delle popolazioni locali non sta cambiando in meglio.

Il ruolo dell’Etiopia?

Serbatoio di mano d’opera docile e a buon mercato, disciplinata e addomesticata, per la borghesia saudita

Curioso. Solo un anno fa veniva siglato un accordo tra governo di Addis Abeba e Arabia Saudita per cui oltre centomila migranti etiopi dovevano venir espulsi dall’Arabia Saudita per essere riportati in patria (come poi sostanzialmente era avvenuto in questi ultimi mesi).
La notizia coincideva con l’arrivo (30 marzo 2022) nell’aeroporto di Addis-Abeba del primo migliaio (900 per la precisione, tra cui molte donne con figli), accolti e rifocillati dagli operatori dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim).

Per l’occasione un accorato appello veniva rivolto dal governo di Addis-Abeba alle Nazioni Unite e alle varie agenzie umanitarie affinché intervenissero per far fronte alle impellenti necessità.
Negli ultimi quattro anni l’Arabia Saudita ne aveva già rimandati in Etiopia oltre 350.000. Soprattutto persone con problemi di salute o comunque vulnerabili, in difficoltà: donne incinte, anziani, malati sia a livello fisico che mentale (applicando quindi una sorta di selezione poco “naturale”, ma funzionale al mercato del lavoro-sfruttamento).

Durante l’ultimo anno i programmi di rimpatrio si sono mantenuti, se non addirittura rinforzati per «garantire un rientro ordinato dei cittadini etiopi emigrati» (leggi: “non più funzionali alle esigenze delle classi dominanti saudite”).

Dal 12 novembre 2022 al 30 dicembre 2022 più di 20.000 etiopi sono rientrati in patria dall’Arabia Saudita

Per la cronaca, si calcola (presumibilmente per difetto) che attualmente siano almeno 750.000 i migranti etiopi presenti nel Reame (di cui circa 450.000 vi sarebbero giunti in maniera irregolare).
Così come previsto dal Piano regionale di sostegno ai migranti in situazioni di vulnerabilità e alle comunità di accoglienza nei Paesi del Corno d’Africa sulle rotte migratorie verso l’est (in genere con destinazione Arabia Saudita attraverso Gibuti e Yemen), erano intervenuti finanziariamente l’Ufficio dei rifugiati e delle migrazioni del Dipartimento di Stato americano (leggi: statunitense), l’Agenzia svedese  di cooperazione internazionale allo sviluppo e per le operazioni europee di protezione civile e di aiuto umanitario.

In controtendenza (ma solo apparente, se pensiamo che in realtà lo scopo è il medesimo: controllare i flussi migratori,  “addomesticarli” per renderli funzionali al sistema economico imperante) in questi giorni il governo regionale dell’Amhara ha annunciato un programma di reclutamento e formazione professionale (come donne di servizio nelle magioni dei benestanti sauditi) per migliaia di cittadine della regione. Garantendo che i loro salari in moneta straniera verranno depositato come moneta nazionale (birr) al tasso attuale del “mercato nero” e non a quello, sfavorevole, ufficiale.

Anche se questo sembra non turbare più di tanto le autorità etiopi (sia a livello regionale che nazionale), non si contano i casi di abusi sessuali subiti dalle donne di servizio di origine africana nei paesi del Golfo (ben sapendo che quelli denunciati o di cui comunque si viene a conoscenza, costituiscono solo la punta dell’iceberg). Per non parlare delle ricorrenti accuse di “trattamenti disumani” (torture, uccisioni…) nei centri di detenzione per migranti.

Come aveva denunciato Human Rights Watch «per anni l’Arabia Saudita ha arrestato e detenuto arbitrariamente migliaia di migranti etiopici in condizioni spaventose, incluse torture, pestaggi a morte e condizioni degradanti, deportandone a migliaia».

Stando a quanto riportava “Al Jazeera”, sarebbero almeno mezzo milione le donne (età compresa tra i 18 e i 40 anni) di cui si va pianificando il reclutamento per inviarle in Arabia Saudita come lavoratrici domestiche. Con una vera e propria campagna promozionale anche con cartelloni pubblicitari nelle maggiori città che invitano a registrarsi presso gli uffici governativi. Le donne verranno poi trasportate in aereo nel Golfo a spese del governo di Addis-Abeba.

Tutto questo, ripeto, mentre le organizzazioni umanitarie denunciavano il ritorno forzato in Etiopia di migliaia di donne e uomini vittime di abusi fisici e sessuali da parte dei loro datori di lavoro sauditi.

Questo il comunicato ufficiale dell’amministrazione dell’Amhara:
«In ragione dei forti legami diplomatici del nostro paese con l’Arabia Saudita, sono state rese disponibili opportunità di lavoro per 500.000 etiopiche, tra cui 150.000 dalla regione Amhara»

Il ruolo dell’Arabia Saudita?

Serbatoio di sfruttamento schiavista

Niente di nuovo sotto il sole naturalmente. Ricorda per certi aspetti quanto avveniva in Namibia quando era occupata dal Sudafrica (e sottoposta all’apartheid) con i lavoratori delle miniere di uranio rispediti a casa loro, nei villaggi, quando manifestavano i sintomi della malattia. O i migranti dai bantustan reclusi nei dormitori-prigioni (“ostelli” eufemisticamente), lontano dalle famiglie, forza lavoro a basso costo in condizioni di semischiavitù.

“L’epocale repentino cambiamento dei riferimenti sauditi”.
Volendo anche i nostri minatori in Belgio (previo accordo tra i governi dell’epoca) all’epoca di Marcinelle.

Coincidenza. Mentre avviava queste operazioni di ferreo controllo dei flussi migratori, il governo etiope procedeva allo smantellamento delle milizie regionali.

Stando a un comunicato del 6 aprile, si ripromette di «integrare le forze speciali regionali all’interno delle forze dell’esercito federale (Endf) e delle forze di polizia federale».

Allo scopo evidente di centralizzare il controllo sui gruppi armati e sminuire la relativa autonomia delle singole regioni.
La cosa non è risultata gradita proprio nello stato-regione dell’Amhara dove sono già scoppiate proteste e rivolte.

Quindi, per il governo centrale: Sì alla fornitura di forza-lavoro subalterna, ma No all’autodeterminazione regionale.

L'articolo Etiopia Saudita. Fornire migranti usa-e-getta proviene da OGzero.

]]>
Dopo le strade “gli” vogliamo fare anche le dighe https://ogzero.org/dopo-le-strade-gli-vogliamo-fare-anche-le-dighe/ Fri, 17 Mar 2023 23:47:46 +0000 https://ogzero.org/?p=10496 Il secondo habitat più grande per i coccodrilli in Africa si è quasi completamente prosciugato in seguito al fallimento, negli ultimi anni, delle stagioni delle piogge. Si tratta del lago Kamnarok, nella Rift Valley del Kenya, che un tempo ospitava 10.000 coccodrilli, secondo per capacità di contenimento al lago Ciad. Un residente della zona ha […]

L'articolo Dopo le strade “gli” vogliamo fare anche le dighe proviene da OGzero.

]]>
Il secondo habitat più grande per i coccodrilli in Africa si è quasi completamente prosciugato in seguito al fallimento, negli ultimi anni, delle stagioni delle piogge. Si tratta del lago Kamnarok, nella Rift Valley del Kenya, che un tempo ospitava 10.000 coccodrilli, secondo per capacità di contenimento al lago Ciad. Un residente della zona ha dichiarato alla stazione televisiva Ntv che numerose sono le carcasse di coccodrillo visibili nel bacino del lago. Il lago si è ridotto nel corso degli anni a causa dei cambiamenti climatici. Inoltre, secondo i rapporti locali, ha scaricato le sue acque in un fiume vicino attraverso una fessura naturale (“AfricaRivista”).
Poco prima delle elezioni di agosto l’allora candidato William Ruto lamentava che le dighe di Kimwarer e di Arror fossero state cancellate per «punire i miei sostenitori». Il blocco della costruzione era stato adottato per reati di frode, violazioni delle procedure amministrative sugli appalti, corruzione dalla procura generale del Kenya; Ruto era stato coinvolto in diversi scandali keniani per corruzione, furto di terra e persino un omicidio. A commettere i reati sarebbero stati pubblici ufficiali del Kenya e il consorzio di aziende italiane a cui sono stati assegnati i lavori di costruzione: una joint venture tra la Cooperativa Muratori e Cementisti (CMC) di Ravenna e Itinera, società del Gruppo Gavio. Colonialmente gli stessi protagonisti della costruzione della linea ferroviaria per il Tav in Val di Susa.

«A cinque anni dall’inizio dei lavori di Kimwarer e Arror, i misteri intorno a quanto sia davvero successo ai circa 500 milioni di euro destinati alle dighe invece che diradarsi si sono sempre più infittiti». (Irpimedia)

Ora Ruto è presidente e quindi le dighe possono tornare a ergersi sulla valle del Kerio (lungo la faglia della Rift Valley anche questa), percorsa da bande armate che hanno provocato 150 morti solo nel 2022 per il controllo della zona molto ricca di acqua pascoli e terreni fertili. Ma priva di infrastrutture. Ruto, da delfino di Kenyatta, era caduto in disgrazia proprio in seguito all’inchiesta sulle dighe.

Sergio Mattarella è arrivato a Nairobi il 13 marzo in pompa magna con staff quirinalizio, consiglieri e il viceministro degli Esteri con delega all’Africa, Sua Eccellenza il vicerè Edmondo Cirielli (fratello d’Italia), rimanendo in Kenya per 3 giorni (Africarivista). Tra le altre cose è stato firmato un nuovo accordo di cooperazione da 100 milioni di euro, tra crediti e doni, in un piano di programmazione triennale… ecco: con Gianni Sartori vediamo qualche “dono” di questi Re Magi.


Estinguiamoli a casa loro, ma in nome dello Sviluppo

Sinceramente non ho compreso l’entusiasmo con cui alcune riviste e associazioni che si occupano dell’Africa con – diciamo così – “benevolenza” (se poi sia “carità pelosa” o neocolonialismo ricoperto da buonismo non spetta a me stabilirlo) hanno celebrato la recente visita di Mattarella in Kenya. Dove ha confermato e sottoscritto la ripresa dei lavori per la costruzione di alcune grandi dighe nella Kerio Valley (provincia del Rift): Arror, Itare e Kimwarer. La realizzazione di quest’ultima era stata interrotta da un’indagine che l’aveva ritenuta «tecnicamente e finanziariamente irrealizzabile».

Almeno ufficialmente, ma si era parlato anche di mancanza di trasparenza e altre irregolarità. Tanto che erano stati avviati alcuni procedimenti giudiziari per «frode, violazioni delle procedure amministrative sugli appalti, corruzione» nei confronti di pubblici ufficiali del Kenya. Coinvolgendo più o meno indirettamente il consorzio di aziende italiane interessate alla costruzione, una joint venture tra la Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna (ops! Sarà mica quella del Dal Molin?) e Itinera, società del Gruppo Gavio (sempre quelli del Tav in Valsusa).
E in seguito anche la Sace (prendo nota: società assicurativo-finanziaria italiana specializzata nel sostegno alle imprese e al tessuto economico nazionale a sostegno supporto della competitività in Italia e nel mondo) e Banca Intesa Sanpaolo (intervenute per la copertura finanziaria).

La visita di Mattarella è stata l’occasione per il presidente del Kenya William Ruto di annunciare il superamento del contenzioso con Roma, lo sblocco e la ripresa della costruzione delle tre dighe sopracitate. Riconfermando (o forse rinegoziando) la partecipazione di aziende italiane con l’impegno finanziario della Sace e di banche italiane.


Nel comunicato di Ruto e Mattarella si afferma che «il governo keniano e italiano hanno concordato un nuovo processo per appianare le problematiche (…). Sospenderemo la questione giuridica e il governo italiano da parte sua ritirerà i casi di arbitrato, siamo d’accordo che ci sarà un nuovo inizio di questo progetto, urgente e prioritario, necessario, che darà acqua a molti paesi oltre al Kenya, oltre a Baringo e zone circostanti». Aggiungendo che «andremo poi avanti con l’avvio della costruzione nel giro di una manciata di mesi».

Eppure sui danni sociali e ambientali provocati dalle dighe in Africa in generale (e in Kenya e in Etiopia in particolare) non mancavano certo denunce ben documentate.
Anche recentemente (febbraio 2023) un rapporto (Dam and sugar plantations yield starvation and death in Ethiopia’s Lower Amo Valley) diffuso dall’Oakland Institute (attivo nella difesa delle popolazioni indigene), affrontava l’annosa questione dell’impatto negativo delle grandi opere (dighe in primis) sulle popolazioni indigene. Interventi come quello nella valle del fiume Omo in Etiopia. Con la diga Gilgel Gibe III (alta quasi 250 metri, costruita dalla Salini Impregilo – di nuovo protagonista nella impresa trentennale del Tav in Valsusa – e inaugurata nel 2016) ci si riprometteva di aumentare in maniera significativa sia la produzione di energia elettrica che di canna da zucchero. A spese soprattutto di Kwegu, Modi, Mursi e altre minoranze (o meglio: popolazioni minorizzate).
Ancora nel 2015 Survival International denunciava una possibile scomparsa dei Kwegu (ridotti alla fame e nella condizione di profughi interni), vuoi per il disastro socio-ambientale, vuoi per il prevedibile accaparramento di terre (“land grabbing”) nel bacino del fiume Omo. L’anno successivo era stata la sezione locale di SI (“Kenya Survival International) a rivolgersi direttamente all’Ocse per denunciare la Salini Impregilo S.p.a.

Tornando al Kenya, risale al 2017 l’allarme lanciato da Human Rights Watch (Hrw) per l’evidente abbassamento riscontrato nelle acque del lago Turkana. Con gli altrettanto evidenti pericoli sia per l’ecosistema che per la sopravvivenza della popolazione locale.
Una conseguenza (effetto collaterale?) appunto del contestato sistema di dighe Gilgel Gibe (Gibe I, Gibe II, Gibe III, già previste una Gibe IV e Gibe V).
Sgorgando a circa 2500 metri sull’altopiano etiopico, il fiume Omo percorre ben 760 chilometri (con un dislivello di 2000 metri) per poi sfociare nel lago Turkana in Kenya.
È notorio che il bacino dell’Omo con il Turkana rappresentano la principale fonte di vita per almeno 17 gruppi indigeni (oltre 260.000 persone) qui insediati da sempre. Ora con il faraonico sistema di dighe gran parte dell’acqua viene deviata altrove, sia per la produzione di energia elettrica che per irrigare le estese piantagioni a monocoltura (circa 450.000 ettari per ora).

Appare quantomeno contraddittorio, paradossale che le dighe di Arror, Itare e Kimwarer vengano realizzate da imprese italiane quando la carenza d’acqua in Kenya è anche una conseguenza della realizzazione di altre dighe, sempre per mano italica, in Etiopia.

Come sottolineava il compianto André Gorz (alias Gerhart Hirsch, alias Gerhart Horst…): «Il capitalismo cerca il rimedio ai problemi che ha creato, creandone di nuovi e peggiori» (cito a memoria).


A dimostrazione di questa chiosa di Gianni Sartori capita l’articolo con cui “Pagine esteri dà notizia di un rapporto (Northern Kenya Grassland Carbon Project) che di nuovo denuncia l’approccio coloniale di un progetto improntato al greenwashing a detrimento della popolazione del Nord del Kenya. Infatti il progetto gestito dall’organizzazione Northern Rangelands Trust (NRT) insiste su un territorio abitato da oltre 100.000 indigeni tra cui i Samburu, i Borana e i Rendille e prevede un riscontro di 300-500 milioni di dollari. Si tratta di un programma di crediti di carbonio, ottenuti anche da Meta e Netflix, basato sullo smantellamento dei sistemi di pascolo dei popoli indigeni, sostituiti da una sorta di allevamento su larga scala che, eliminando la pratica della migrazione durante la siccità, rischia di estinguere la pastorizia locale tradizionale.

Inoltre «la vendita di crediti di carbonio dalle Aree Protette potrebbe aumentare enormemente il finanziamento delle violazioni dei diritti umani dei popoli indigeni, senza per altro fare nulla per combattere i cambiamenti climatici»: già si hanno notizie di pastori uccisi dai guardaparco mentre portavano al pascolo i loro armenti.

 

L'articolo Dopo le strade “gli” vogliamo fare anche le dighe proviene da OGzero.

]]>
Western, merchandising e resistenza indiana https://ogzero.org/western-merchandising-e-resistenza-indiana/ Tue, 07 Mar 2023 15:23:50 +0000 https://ogzero.org/?p=10442 Da vecchi cinefili, un’attenzione quella per la pellicola imprescindibile per la nostra generazione, ci siamo appassionati innanzitutto alla ribellione inoculata dai film del regista indoamericano per eccellenza: Sam Peckimpah. Perciò non abbiamo saputo resistere alla proposta di Gianni Sartori. Fu efficace il contributo del cinema per liberare l’immaginario degli spettatori, soprattutto i boomer allora giovani, […]

L'articolo Western, merchandising e resistenza indiana proviene da OGzero.

]]>
Da vecchi cinefili, un’attenzione quella per la pellicola imprescindibile per la nostra generazione, ci siamo appassionati innanzitutto alla ribellione inoculata dai film del regista indoamericano per eccellenza: Sam Peckimpah. Perciò non abbiamo saputo resistere alla proposta di Gianni Sartori. Fu efficace il contributo del cinema per liberare l’immaginario degli spettatori, soprattutto i boomer allora giovani, che cominciarono a occuparsi di emancipazioni di comunità represse, violate, estinte dall’Uomo bianco proprio con Leonard Peltier in carcere dal 6 febbraio 1976, accusato in modo palesemente falso di delitti attribuitigli dalla Fbi per il suo impegno nella liberazione del mondo dei nativi americani.


Preambolo cine-autobiografico

Risalenti a fine dei Sessanta e ai primi Settanta si sostanziano succulenti ricordi cinematografici, specchio della liberazione irripetuta di quegli anni. Oltre a qualche pellicola precedente, degli anni Cinquanta, vista da bambino nel cinema parrocchiale di Debba (tra cui Il massacro di Fort Apache – per Domenico Buffarini forse il primo esempio di una pellicola non apertamente razzista con i “pellerossa”). Successivamente, sempre in cinema parrocchiali – ma di Vicenza (Santa Chiara soprattutto) –, ci sono state altre visioni; al momento ne ricordo uno in particolare: E venne il giorno della vendetta che molti anni dopo avrei saputo ispirato dalla vicenda del “Chico” Sabaté. A cui fece seguito il corredo di cinema impegnato di tempi gravidi di speranze destinate a rimanere tali.
Insomma tutta quella roba lì con cui almeno un paio di generazioni si son fatte intortare pregustando improbabili “domani che cantano”. Di passaggio, quasi “de sforo”, le scarsamente filologiche rivoluzioni messicane evocate in ¡Vamos a matar, compañeros!, Tepepa, Faccia a faccia e il pretenzioso Giù la testa (In origine C’era una volta la rivoluzione) che ispirò – forse a sproposito – i giovani proletari milanesi della Banda Bellini.
Perfino, confesso, robaccia come Easy Rider o Woodstock. Con il senno di poi “armi di distrazione di massa”. Fine del preambolo.

PRIMO TEMPO:
SAND CREEK (Soldato blu)

Ma se c’è qualche film dell’epoca che merita di essere ricordato e conservato ritengo siano fondamentalmente due: Soldato blu e Piccolo grande uomo (anche se all’epoca apprezzai il primo, molto meno il secondo), entrambi del 1970.
Per altri aspetti (culturali, etnici..) aggiungerei Un uomo chiamato cavallo… forse.


L’idea di ritornarci su mi è venuta scoprendo che spesso vengono sottovalutati. Ritengo a sproposito in quanto all’epoca rappresentarono un rovesciamento non da poco delle ideologie dominanti, direi quasi un “cambio di paradigma”. O quantomeno risentirono pesantemente, subirono il contagio, dello spirito di rivolta che agitava le masse planetarie.
Anche se le vicende storiche si confondevano (forse troppo ?) rischiando di sfumare, con quelle personali, con gli amori e le scontate vicissitudini – tragiche o comiche – dei protagonisti. Per quanto impegnata, rimaneva pur sempre “Società dello spettacolo”, della merce, dell’intrattenimento, del consumo… Con un malcelato filo di ammirazione-invidia per un sistema tanto esperto (e privo di scrupoli) da saper trarre profitti anche condannando i massacri del passato, comunque imputabili a quel sistema (da ragionarci sopra effettivamente). D’altra parte – soprattutto se li confrontiamo con l’andazzo attuale – rimangono testimonianza preziosa di come anche “un altro cinema era possibile”. Detto questo, ho potuto verificare che tra chi conosceva Soldato blu, la maggior parte era convinta che il massacro, orrendo ma veritiero, descritto nel film corrispondesse a quello che ha goduto di maggior notorietà, ossia al Wounded Knee.
In realtà in Soldato blu si narra – con dettagli truculenti, ma corrispondenti a quanto era realmente accaduto (anche la scena terribile della fucilazione di donne e bambini rifugiati in una grotta) – della strage di stato subita dai Cheyenne (e da alcuni Arapaho qui accampati) il 29 novembre 1864 al Sand Creek).

Dove Pentola Nera aveva effettivamente innalzato la bandiera a stelle e strisce (nel film la sorregge andando incontro ai soldati per poi scagliarla a terra quando questi sparano e verrà simbolicamente calpestata dai cavalli al galoppo) insieme a quella bianca sul suo tepee. E qui si erano radunati donne e bambini pensando di sfuggire alle fucilate delle Giacche Blu. In realtà una sorta di milizia (seicento uomini del reggimento del Colorado) guidata dal colonnello Chivington, un predicatore fallito che intendeva riciclarsi in politica («Maledetto sia chiunque simpatizza con gli indiani! Io sono venuto a uccidere gli indiani e credo sia giusto e onorevole usare qualsiasi mezzo Dio ci abbia messo a disposizione per uccidere gli indiani» – così si era espresso Chivington contro il capitano Silas Soule, che durante il massacro aveva proibito ai suoi uomini di aprire il fuoco, e i tenenti Joseph Cramer e James Connor che protestavano contro l’ordine del colonnello di attaccare il villaggio di Pentola Nera. Ritenendolo un “assassinio nel senso pieno della parola”). Tra l’altro, la maggior parte dei “volontari” si erano arruolati per combattere gli indiani solo per sfuggire alla leva obbligatoria che li avrebbe inviati contro i sudisti (il che era molto più pericoloso ovviamente). Per cui inventarsi “battaglie sanguinose” con gli Indiani “ostili” garantiva di restarsene sostanzialmente al sicuro dai terribili combattimenti della Guerra Civile.
Gli indiani uccisi, in maggioranza donne e bambini, vennero scalpati e mutilati, per essere poi abbandonati in pasto gli animali della prateria.
Emblematico il caso di una donna – Kohiss – fuggita con tre bambini, uno per mano, uno sul petto (l’unico che si salvò) e un altro sul dorso. Purtroppo nella fuga due vennero colpiti e uccisi dagli spari dei bianchi. La donna conservò per tutta la vita il ricordo e le cicatrici di quel giorno, una testimonianza vivente delle ingiustizie subite dai nativi.

A titolo personale, di Soldato blu ricordo soprattutto un momento esemplare, indicativo di quale sia stato lo “spirito del tempo”: il film era terminato e nella sala le persone si stavano alzando per uscire quando apparve la didascalia, il commento finale con la voce fuori campo:

«Il 29 novembre del 1864, un reparto di 700 cavalleggeri del Colorado Cavalleria, attaccò un pacifico villaggio Cheyenne a Sand Creek, nel Colorado. Gli indiani sventolarono la bandiera americana e la bandiera bianca in segno di resa. Nonostante questo il reparto attaccò, massacrando 500 indiani; più della metà erano donne e bambini. Oltre 100 furono scotennati, molti corpi furono squartati, molte donne vennero violentate. Il generale Nelson Miles, capo di stato maggiore dell’esercito, così definì questo tremendo episodio: “È forse l’atto più vile ed ingiusto di tutta la storia americana”».

Tutti rimasero semplicemente bloccati, immobili, annichiliti. In un silenzio assoluto che però pareva un urlo. Nessuno fiatava, nessuno faceva il minimo movimento – letteralmente. Ricordo davanti a me due persone già in procinto di alzarsi rimanere quasi ripiegate. Chissà, forse pensavamo tutti al Vietnam, al relativamente recente massacro di Mỹ Lai (16 marzo 1968)…  Certo, per chi fino a poco tempo prima (riguardatevi i western, orrendi per quanto riguarda gli indiani, degli anni cinquanta e sessanta) era abituato a film dove i valorosi pionieri si dedicavano al tiro a segno sui nativi, lo scarto era notevole. E soprattutto era chiaro che si parlava anche del presente.

SECONDO TEMPO:
WASHITA E LITTLE BIGHORN (Piccolo grande uomo)

Nella realtà il capo Pentola Nera (sostanzialmente un pacifista, disposto non solo al dialogo, ma anche a compromessi con l’invasore) sfuggì al massacro (insieme a Piccolo Mantello, poi “ascaro” di Custer). Così come alcuni Arapaho (Mano Sinistra, No-ta-neee…). Era però scritto nel suo destino di dover soccombere insieme ad altri superstiti nel massacro del Washita di quattro anni dopo (27 novembre 1868). Operazione questa condotta dal “generale” Custer. Questa seconda strage subita dai Cheyenne (e nuovamente anche dagli Arapaho, intervenuti per salvare un gruppo di bambini Cheyenne inseguiti dai cavalleggeri statunitensi) ) viene raccontata in “Piccolo grande uomo”. Nel film il “mulattiere” Dustin Hoffman lo rinfaccerà a Custer a Little Bighorn prima della battaglia finale. Ma come quella del Sand Creek in Soldato blu, anche la strage del Washita in Piccolo, grande uomo viene talvolta confusa con Wounded Knee.


L’apoteosi nel film viene raggiunta con la grande vittoria dei nativi (Lakota,Cheyenne, Araphao…) guidati da Cavallo Pazzo (Oglala), Fiele e Toro Seduto (Hunkpapa) e Due Lune (Cheyenne) contro il militarismo colonialista delle giacche blu a Little Bighorn (25 giugno 1876). Dove il criminale di guerra colonnello George A. Custer, comandante del 7° Cavalleria, pagò infine per i suoi peccati.
Se vogliamo, la rivincita dei guerrieri usciti direttamente dal neolitico sui cadetti di West Point. Per una volta almeno.
Niente riferimenti a Wounded Knee quindi in questi due classici. Verrà invece citato (con una evidente forzatura, strumentalmente), oltre che in qualche serie televisiva, in Hidalgo. Un film discutibile, ma che si in parte si salva per l’epica scena finale quando i mustang destinati a essere ammazzati vengono liberati (soprattutto perché a un certo punto essi stessi abbattono gli steccati). Mi piace pensare che avrebbe commosso anche Bill Rodgers.

Come è noto dopo la vittoria del Little Bighorn le cose per gli Indiani precipitarono. Costretto, per non veder morire di fame e di freddo il suo popolo braccato, Tashunka Witko (Cavallo Pazzo) si consegnò ai soldati e venne assassinato (5 settembre 1877). Colpito con una baionetta dal soldato William Gentles, mentre era trattenuto dall’indiano collaborazionista Piccolo Grande Uomo (quello storico naturalmente, non quello del film che si ispira – forse – a un Piccolo Uomo Bianco vissuto a lungo tra gli indiani). Il suo cadavere, prelevato dai familiari, venne portato in un luogo nascosto nella valle del Wounded Knee.

Tatanka Yotanka (Toro Seduto), dopo essersi rifugiato nel 1877 in Canada, nel 1881 fu costretto a rientrare negli Stati Uniti dove venne arrestato. In seguito per un breve periodo si prestò a lavorare, interpretando se stesso, nello spettacolo viaggiante dello sterminatore di bisonti Buffalo Bill, ma ogni dollaro guadagnato lo donava ai poveri e ai senzatetto della sua tribù. Coincidenza? Uno dei maggiori esponenti dell’American Indian Movement, Russel Means (1939-2012, le sue ceneri vennero sparse nelle Black Hills), già tra gli organizzatori dell’occupazione dell’isola di Alcatraz e di Wounded Knee, divenne un attore tra i più richiesti nei film sugli indiani. Basti pensare al ruolo di Chingachgook nel film L’ultimo dei Mohicani di Michael Mann.
Toro Seduto, nel dicembre 1890, forse perché ritenuto troppo vicino al culto della “Danza degli Spiriti” del profeta Wovoka (un Paiute), venne assassinato nel corso di un arbitrario arresto. La banda dei Lakota Minneconjou di Heȟáka Glešká (Alce Chiazzato, più conosciuto come Piede Grosso, fratellastro di Tatanka Yotanka e cugino di Tashunka Witko), temendo le rappresaglie dei militari e dei collaborazionisti indiani, tentò di fuggire a Pine Ridge (da Nuvola Rossa), ma venne appunto massacrata a Wounded Knee.

Nel frattempo (settembre 1886) anche Goyaałé (Geronimo), l’irriducibile apache Bedonkohe (ma in genere assimilato ai Chiricahua) aveva consegnato le armi. Così come Hinmaton Yalaktit (Capo Giuseppe) intercettato e bloccato con i suoi Nasi Forati al confine canadese dopo un’incredibile marcia di 2740 chilometri (settembre 1877).

Fine della storia quindi. Anche se nella seconda metà del Novecento l’American Indian Movement (Aim) rilancerà la questione indiana dissotterrando l’ascia di guerra.

Epilogo

La canzone Soldier Blue (Soldato blu) del film omonimo era scritta e interpretata dall’indiana Piapot Buffy Saint-Marie che in anni successivi scrisse anche Bury My Heart at Wounded Knee (in riferimento al noto libro di Dee Brown). Frase che venne tracciata sui muri nel 1973, durante l’occupazione. Nella canzone viene ricordata anche la militante Anna Mae Aquash, violentata e assassinata, le mani mozzate. Una vicenda impregnata di ombre e sospetti di “guerra sporca” (nei confronti sia del Fbi che delle milizie native filogovernative e anche dell’Aim), presumibilmente legata a quella di Leonard Peltier. Dopo gli oltre settanta giorni di occupazione, negli anni successivi, numerosi partecipanti e membri o simpatizzanti dell’Aim morirono in maniera non chiara, “accidentale” (si parla di circa 300 vittime). Si ritiene che le milizie native filogovernative abbiano così voluto “regolare i loro conti” nelle riserve.

E così il discorso si chiude, ma non il Cerchio irreparabilmente spezzato, frantumato della Nazione indiana. Purtroppo.

 

RECENSIONE DI LEONARD PELTIER (6 febbraio 2023)

Il mio saluto ai miei amici, sostenitori, alle persone che mi sono vicine. So di aver già detto queste parole mille volte, o cose simili. E ogni volta che le dico, è come se fosse la prima volta. Dal profondo della mia anima, vi ringrazio per il vostro sostegno.
Vivere qua dentro, anno dopo anno, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, cambia la tua concezione del tempo e persino il modo di pensare, più di quanto possiate immaginare.
Ogni giorno, al mattino, devo dire una preghiera per tenere alto il mio spirito e quello del nostro popolo.
Le lotte dell’American Indian Movement sono le lotte di tutti noi, e per me non sono mai finite. Continuano, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno.
A volte penso di poter sembrare un po’ troppo sensibile quando parlo, ma l’amore per il mio popolo e l’amore che voi sostenitori mi avete dimostrato nel corso degli anni è ciò che mi mantiene in vita.
Non leggo le vostre lettere con la testa. Le leggo con il cuore.
La mia detenzione è solo un altro esempio del trattamento e delle politiche che il nostro popolo ha dovuto subire fin dall’arrivo dei primi europei.

Sono un uomo comune e vengo da una società che vive e lascia vivere, come tutta la nostra gente. Ma dall’arrivo di Cristoforo Colombo, ci siamo trovati costretti a vivere in uno stato di sopravvivenza.
Non c’è nulla nel mio caso, nulla in quel trattato tra il popolo americano e il governo che è la Costituzione, che possa giustificare la mia prolungata incarcerazione.
La storia ci insegna che hanno imprigionato o annientato il nostro popolo, si sono appropriati della nostra terra e delle nostre risorse. Ogni volta che la legge era a nostro favore, hanno ignorato la legge. O l’hanno cambiata secondo i loro piani. Dopo aver ottenuto ciò che volevano, magari una generazione dopo, qualche politico si è scusato.
Non hanno mai sinceramente negoziato con noi, a meno che non avessimo qualcosa che volevano a tutti i costi e non potevano ottenere altrimenti; o nel caso che potessimo creare imbarazzo per il mondo; o che fossimo una sorta di opposizione. L’opposizione è sempre stata la ragione principale che li ha spinti a trattare con noi.

Potrei continuare a parlare dei maltrattamenti subiti dal nostro popolo, come del mio caso, ma l’hanno già detto le Nazioni Unite: il motivo per cui gli Stati Uniti mi hanno tenuto rinchiuso, è perché sono un Indiano d’America. [come nel film di Montaldo, Vanzetti dice alla corte: «E mì son anarchìc»]
L’unica cosa che mi rende fondamentalmente diverso dagli altri Indiani d’America che sono stati maltrattati, che sono stati derubati delle loro terre, o che sono stati imprigionati dal nostro governo, è che il mio caso è stato almeno messo agli atti del tribunale. La violazione dei miei diritti costituzionali è stata dimostrata in tribunale. La falsificazione di ogni prova usata per condannarmi è stata dimostrata in tribunale. Lo stesso Consiglio delle Nazioni Unite, composto da 193 nazioni, ha chiesto la mia liberazione, constatando che sono un prigioniero politico.

Nel mio caso di prigioniero politico non è necessario uno scambio di prigionieri. Lo scambio che devono fare è passare dalla loro politica di ingiustizia a una politica di giustizia.
Non importa quale sia il vostro colore e la vostra etnia. Nero, rosso, bianco, giallo, marrone: se possono farlo a me, possono farlo a te.
La Costituzione degli Stati Uniti è appesa a un filo.
Di nuovo voglio dire, dal mio cuore al vostro cuore, in tutta sincerità: fate del vostro meglio per educare i vostri figli. Insegnate loro a difendersi: fisicamente, mentalmente, spiritualmente. Rendeteli consapevoli della nostra storia.
Insegnate loro a piantare una foresta che possa dare frutti, o qualsiasi altra pianta che possa provvedere a loro, in futuro.

Ancora una volta, dal mio cuore al vostro cuore, piantate un albero per me.

Nello spirito di Cavallo Pazzo.

Doksha («ci vediamo», nella lingua Navajo)

Leonard Peltier

L'articolo Western, merchandising e resistenza indiana proviene da OGzero.

]]>
Mosaico etiope: a Nord guerra, a Sud referendum autonomista https://ogzero.org/mosaico-etiope-a-nord-guerra-a-sud-referendum-autonomista/ Mon, 19 Dec 2022 00:48:32 +0000 https://ogzero.org/?p=9822 Decenni di lotte postcoloniali hanno portato il Corno d’Africa e in particolare l’Etiopia alla condizione attuale di frammentazione di etnie, divergenze di interessi, rivendicazioni di territori e… autonomia. Appunto: a questo snodo si finisce con l’arrivare laddove si innescano guerre sanguinosissime, cambi al vertice di Addis Abeba con il ridimensionamento tigrino all’avvento di Abiy Ahmed […]

L'articolo Mosaico etiope: a Nord guerra, a Sud referendum autonomista proviene da OGzero.

]]>
Decenni di lotte postcoloniali hanno portato il Corno d’Africa e in particolare l’Etiopia alla condizione attuale di frammentazione di etnie, divergenze di interessi, rivendicazioni di territori e… autonomia. Appunto: a questo snodo si finisce con l’arrivare laddove si innescano guerre sanguinosissime, cambi al vertice di Addis Abeba con il ridimensionamento tigrino all’avvento di Abiy Ahmed che ha condotto alla guerra scatenata dal premio Nobel per la Pace appoggiato dal despota eritreo Afewerki, da sempre avversario del confinante Tigray; il risultato è stato un conflitto feroce di tutti contro tutti. Le alleanze e le divisioni tra comunità di ceppi diversi od omologhi hanno esacerbato ulteriormente una condizione che era negativamente fluida già quando cercammo di farne il punto all’inizio del conflitto. Per arrivare ai preoccupati interventi su Radio Blackout di Palamidessa.
Ora Gianni Sartori allarga un po’ il grandangolo e dunque vengono comprese anche le comunità del Sud dell’Etiopia, scoperchiando il vaso delle rivendicazioni di autonomia che cominceranno a sfociare in referendum nei primi mesi del 2023, quando il governo centrale vedrà di rafforzare il federalismo; peccato che le spinte centrifughe si moltiplicano anche a Ovest del paese…


A quanto pare in Etiopia va rinforzandosi il federalismo e si opera per il superamento di antichi conflitti etnici attraverso una maggiore autonomia di ciascun gruppo. Soluzione forse inevitabile in un paese costituito da un mosaico di etnie conviventi con quelle dei tre gruppi principali (amhara, oromo e sidama).

Abyi Ahmed

Un primo segnale era giunto nel 2018 con la nomina a primo ministro di Abiy Ahmed di origini miste oromo-amhara e per questo inizialmente ben accetto da entrambi i gruppi etnici (anche se poi gli Oromo lo hanno accusato di “tradimento”).
Abiy Ahmed aveva intrapreso alcune riforme a favore delle storiche rivendicazioni identitarie e territoriali della frammentazione di etnie (in parte conseguenza di non opportune precedenti divisioni amministrative) rimaste irrisolte.

Eterna stagione referendaria

Gli ultimi referendum di questo genere erano stati quelli del 20 novembre 2019 e del 23 novembre 2021 (“Nigrizia”). Avevano rispettivamente sancito la nascita di due nuovi stati federali, Sidama (dove il 99,7% per cento degli aventi diritto si era recato alle urne e il 98,5% aveva votato per l’autonomia) e South West. Separandosi entrambi dal Snnrr (Stato regionale delle nazioni, nazionalità e popoli del sud) già teatro di scontri e conflitti etnici.

Ultima tappa della frammentazione di etnie

Previsto per il 6 febbraio 2023, il nuovo referendum si terrà nella prospettiva della creazione di un dodicesimo stato regionale. Dovrebbe svolgersi in sei zone amministrative (Wolayita, Gamo, Gofa, South Omo, Gedeo e Konso) e cinque distretti speciali (Amaro, Burji, Basketo, Derashe e Alle). Attualmente integrati nel Snnpr.

Federalismo etnico

Risale al 1995 la Costituzione basata sul “federalismo etnico” che formalmente garantiva una relativa autonomia agli oltre 80 ceppi della frammentazione di etnie che comporrebbe il  paese (uno dei più popolati dell’Africa con quasi 120 milioni di abitanti). Possibilità non sempre adeguatamente accolta dagli interessati o rispettata dai governi.
Si consideri a titolo di esempio il conflitto armato nel Nord del paese tra il governo centrale e l’Eprdf, la coalizione guidata dal Fronte di liberazione popolare del Tigray (Tplf).
Anche recentemente, in settembre, si era nuovamente interrotta la tregua durata alcuni mesi nella prospettiva di una adeguata soluzione politica.

“Il genocidio atroce e diffuso nel Corno d’Africa” è un’intervento di Matteo Palamidessa trasmesso su Radio Blackout il 1° ottobre 2022.

Altri conflitti ricorrenti sono quello con l’Esercito di liberazione Oromo e la ribellione del Benishangul (Ovest dell’Etiopia).

Ribellismo e milizie

Ma i problemi dell’Etiopia non riguardano soltanto le questioni etniche. Altre emergenze coinvolgono trasversalmente ogni regione del paese, in particolare le ultime generazioni. Con il 70 per cento della popolazione sotto ai 35 anni (in buona parte disoccupata, emarginata nonostante il notevole incremento della scolarizzazione), manifestazioni, scioperi, rivolte e disordini sono fenomeni ricorrenti (e in genere repressi duramente).

Ma contemporaneamente al contenimento del ribellismo, i governi hanno sviluppato un altro modo per controllare, incanalare le istanze della gioventù etiope: quello di integrarli in formazioni giovanili strutturate su base regionale. Come i Fano per gli Amhara (una delle più consistenti numericamente e ben armata, talora qualificati come “vigilantes”) e i Qerro (sinonimo di “scapoli”, molti legati al sistema tradizionale di autogoverno, democratico e inclusivo) per gli Oromo. In passato alleati dei Fano, erano poi sorti contrasti a causa dell’ideologia panetiopica, egemonica e antifederale, caratteristica degli Amhara.
Consistenti numericamente anche altre organizzazioni giovanili come gli Yelega in Wolayta, gli Ejeetto Sidamo…a cui si sono aggiunti Nebro, Zarma, Aeigo, Dhhaaldiim.

L'articolo Mosaico etiope: a Nord guerra, a Sud referendum autonomista proviene da OGzero.

]]>
Chi specula sulla questione Saharawi? https://ogzero.org/progressiva-annessione-del-sahara-occidentale/ Sat, 17 Dec 2022 22:08:28 +0000 https://ogzero.org/?p=9799 La diplomazia di Rabat nell’ultimo anno ha ottenuto risultati importanti in vista della progressiva annessione del Sahara Occidentale, anche grazie ai ritorni derivanti dalla guerra in Ukraina: il ricatto nei confronti della Spagna sulla concessione riguardo al passaggio di oleodotti ha drasticamente azzerato la simpatia tra la Spagna e il Saharawi, vista la fame di […]

L'articolo Chi specula sulla questione Saharawi? proviene da OGzero.

]]>
La diplomazia di Rabat nell’ultimo anno ha ottenuto risultati importanti in vista della progressiva annessione del Sahara Occidentale, anche grazie ai ritorni derivanti dalla guerra in Ukraina: il ricatto nei confronti della Spagna sulla concessione riguardo al passaggio di oleodotti ha drasticamente azzerato la simpatia tra la Spagna e il Saharawi, vista la fame di gas di Madrid; ma aveva cominciato a ottenere risultati già con la presidenza Trump che ne aveva riconosciuto le pretese di controllo sull’ex Sahara spagnolo, in cambio degli Accordi di Abraham con Israele, che sancivano solamente una collaborazione ormai annosa soprattutto sul piano militare (infatti si sono viste sventolare bandiere palestinesi e algerine dopo la sconfitta dei “Leoni” in semifinale dei mondiali di football a Doha – nonostante l’eliminazione provenisse per mano dell’odiata potenza francese).

Il risultato ai mondiali qatarini è comunque spendibile dal regime per una nuova autorevolezza nel mondo arabo, spostando a ovest gli equilibri disputati con i sauditi; il fatto che sia stato relegato nei giochi della Fifa al quarto posto allargando a orologeria anche al Marocco lo scandalo della corruzione riuscita con il lobbismo dei commissari socialisti europei non può che giocare a favore di Rabat, perché colloca il Marocco tra le nazioni che si accreditano per un lavoro di “convincimento” credibile (e può anche richiamarsi a una sorta di discriminazione dell’ultimo paese africano in lizza).
Per questo ci sembra opportuno rendere pubblico l’articolo di Gianni Sartori che vi proponiamo a poche ore dalla sconfitta della nazionale marocchina nella disputa per il terzo posto con una Croazia, che contemporaneamente rifiuta l’accoglienza a soldati ucraini da addestrare in ambito Nato (“Le Parisien”), temendo di farsi coinvolgere nel conflitto.

OGzero


Corruttori ed eurocorrotti

Stando alle notizie riportate da“Le Soir”, da “Knack” e da “il manifesto”, l’ex deputato europeo Panzeri a Strasburgo si sarebbe occupato soprattutto di “diritti umani e del Maghreb”. Oltre ad aver fondato nel 2019 una ong (Fight Impunity), avrebbe intrattenuto rapporti amichevoli con l’esponente marocchino Abderrahim Atmoun (dal 2019 ambasciatore in Polonia).

Sempre nel 2019, Panzeri figurava tra gli oltre 400 deputati europei che avevano votato a favore di un accordo di pesca che interessava anche le coste del Sahara Occidentale. A tutto vantaggio di Rabat, ma naturalmente senza il consenso del popolo saharawi e del Fronte Polisario. Va sottolineato che questo mare molto pescoso è una delle due principali risorse (l’altra è rappresentata dai fosfati) in grado di garantire la futura sopravvivenza della popolazione saharawi e della Rasd.
Fortunatamente tale accordo iniquo venne poi annullato (ma solo nel 2021) dalla Corte di Giustizia europea in quanto

«sancirebbe il diritto di sfruttamento di uno stato occupante in un territorio riconosciuto internazionalmente come “non autonomo”».

Congiurati socialisti in combutta con Mohammed VI contro il Polisario

Annessione del Sahara Occidentale camuffata

Pressanti le ricorrenti richieste di Rabat all’Unione europea di allinearsi con le posizioni di Washington (nel 2020 con Trump) che di fatto sottoscrivevano quelle marocchine in merito a una non meglio definita (ma comunque limitata) “autonomia del Sahara Occidentale all’interno dei confini del regno del Marocco” – in pratica l’ufficializzazione dell’annessione del Sahara Occidentale.
La proposta risaliva all’aprile 2007: presentata dal Marocco come una

«risposta alle richieste del Consiglio di Sicurezza alle parti per porre fine alla situazione di stallo politico» e rivolta direttamente al Segretario Generale, venne descritta come «l’iniziativa marocchina di negoziazione di uno status d’autonomia per la regione del Sahara».

Scontato che ai saharawi apparisse come una mossa propedeutica alla completa assimilazione.

Recentemente tale prospettiva sembra aver raccolto il favore sia del governo madrileno, sia di alcuni ex esponenti del Polisario, dissidenti nei confronti del Fronte (ma non per questo collaborazionisti del Marocco).

Il dovere della memoria come garanzia della non ripetizione

Sul ruolo sempre più “conciliante” (eufemismo) assunto da Madrid nei confronti di Rabat, era intervenuto Luis Portillo Pasqual del Riquelme (“Etnie”).

Per il docente di scienze economiche alla madrilena Università Complutense, il leader socialista Pedro Sánchez avrebbe «ceduto vergognosamente alle richieste di Mohamed VI perpetrando un secondo tradimento del popolo saharawi». Anzi, aggiungeva, «stando ai miei calcoli addirittura il terzo» (il secondo sarebbe quello operato da Felipe Gonzalez, precedente leader socialista, che già nel 2008 Luis Portillo stigmatizzava su “Rebellion”, sottolineando il lobbismo spinto di Rabat).
L’illustre accademico ricordava come Félix Bolaños, ministro della Presidenza, Relazioni con le Cortes e Memoria Democratica, aveva affermato nel suo intervento che

«la memoria è un diritto, un diritto della cittadinanza e soprattutto un diritto delle vittime».

In sintesi: “Il dovere della memoria come garanzia della non ripetizione”. In riferimento soprattutto alle violazioni dei diritti umani e del diritto dei popoli perpetrate dal franchismo, una questione con cui la Spagna non aveva fatto i conti a momento debito.

Ma questa legge, continuava Bolaños, per quanto riguardava la questione del Sahara Occidentale e del popolo saharawi risultava quantomeno “insoddisfacente”. Nonostante costituisse l’estrema colpa dell’ultimo governo della dittatura fascista.

 

L'articolo Chi specula sulla questione Saharawi? proviene da OGzero.

]]>
Da qui il coltan… https://ogzero.org/da-qui-il-coltan/ Fri, 09 Dec 2022 23:45:12 +0000 https://ogzero.org/?p=9746 Bagatelle contrastanti per un massacro Soltanto venti giorni fa, in occasione del 18° vertice della francofonia (Oif, in rappresentanza di una novantina di stati) nell’isola tunisina di Djerba, Louise Mushikiwabo (ministro degli Esteri ruandese dal 2009 al 2018 e segretaria generale dell’Oif, appena rieletta per i prossimi quattro anni) lanciava accuse – se non proprio […]

L'articolo Da qui il coltan… proviene da OGzero.

]]>
Bagatelle contrastanti per un massacro

Soltanto venti giorni fa, in occasione del 18° vertice della francofonia (Oif, in rappresentanza di una novantina di stati) nell’isola tunisina di Djerba, Louise Mushikiwabo (ministro degli Esteri ruandese dal 2009 al 2018 e segretaria generale dell’Oif, appena rieletta per i prossimi quattro anni) lanciava accuse – se non proprio del tutto infondate, perlomeno non documentate – secondo cui ci sarebbero «elementi nella Repubblica democratica del Congo, proprio alla frontiera con il Ruanda, che sono una minaccia per la sicurezza del mio paese».
Quando in realtà – stando ai rapporti onusiani – quello che sta avvenendo sarebbe esattamente il contrario. Basti pensare al sostegno anche di natura militare dato dal governo di Kigali (e dal presidente Kagame di etnia tutsi, quella che subì il genocidio del 1994) al movimento M23 che imperversa nel Nord Kivu, una regione nell’Est della Repubblica democratica del Congo da dove sono fuggiti centinaia di migliaia di sfollati (e dove, ricordo, sono stati assassinati l’ambasciatore Luca Attanasio, l’autista Mustapha Milambo e il carabiniere Vito Iacovacci).

Erano passati soltanto alcuni giorni quando, il 29 novembre, veniva attaccata la città di Kishishe (circa 70 chilometri da Goma, la capitale del Nord Kivu). Se inizialmente si parlava di una cinquantina di vittime, via via che le indagini proseguivano si arrivava alla cifra terribile di oltre 270 civili uccisi (tra cui diversi bambini).
Stando alle fonti ufficiali, il governo e le forze armate congolesi, la responsabilità dell’attacco cruento sarebbe del Movimento 23 marzo (l’M23 però, da parte sua, smentisce). Nella generale costernazione del paese, il presidente della Rdc, Félix Tshisekedi, aveva indetto tre giorni di lutto nazionale.
Significativo che tale strage sia avvenuta (come una provocazione per sabotare gli accordi se non di pace, almeno di non belligeranza attiva) a soli cinque giorni dall’ultima dichiarazione di cessate il fuoco. Anche se, forse inopportunamente, M23 (inattivo dal 2013 al 2021) era rimasto escluso dalle trattative del vertice dei Grandi Laghi (fine di novembre) che si erano svolte a Luanda.
Invitato invece Paul Kagame, pur facendosi sostituire da Biruta, suo ministro degli Esteri.

Milioni al Ruanda… per pagare cosa?

Lotta al terrorismo?

Intanto, dando prova di scarso tempismo, l’Unione Europea approvava il 1° dicembre un ulteriore stanziamento (circa 20 milioni di dollari) per l’esercito ruandese. Ufficialmente per rafforzare la lotta al terrorismo in Mozambico (regione di Cabo Delgado), ma alcuni osservatori non escludono che in parte tali finanziamenti vengano dirottati ad alimentare il conflitto nel Nord Kivu.
Recentemente la politica di Kagame nei confronti del Congo Kinshasa è stata messa in discussione proprio da uno dei principali sostenitori del governo di Kigali. Il segretario di stato statunitense Antony Blinken ha chiesto infatti a Kagame di non sostenere più M23 e di promuovere concretamente “pace e stabilità”.
Critiche che non sarebbero state ben accolte dal presidente del Ruanda.

Soldo per milizie predatrici?

Quanto a M23, sarebbe costituito soprattutto da miliziani ed ex insorti di etnia tutsi (ma spesso di nazionalità congolese) che in parte erano stati integrati nell’esercito congolese. Il tentativo di smantellare le unità formate appunto da tali ex ribelli (o di trasferirli in altre regioni della Rdc) aveva provocato la loro ribellione.
Attualmente chiedono l’amnistia e la possibilità di rientrare dai campi profughi del Ruanda e dell’Uganda per i rifugiati tutsi di nazionalità congolese. Senza escludere la possibilità di essere reintegrati nell’esercito congolese in modo da poter esercitare un maggiore controllo su traffici e commerci nel Nord Kivu. Per esempio quello del cobalto, nella cui estrazione, su un totale di 300.000 minatori, sono coinvolti almeno 35.000 bambini ridotti in schiavitù. Oppure dell’altrettanto famigerato coltan che ugualmente si estrae a mani nude con danni irreparabili per la salute dei giovanissimi minatori. Per non parlare degli abusi sessuali di cui sono vittime.

Subappalti?

Da qui il coltan, attraverso una catena commerciale gestita da bande, milizie e mercenari di varia etnia ed estrazione (a cui le compagnie subappaltano il lavoro sporco), arriva in Ruanda e Uganda. Per essere acquistato dalle compagnie che si occuperanno dell’export, eventualmente della raffinazione. Destinazione finale: le multinazionali in Germania, Usa, Cina…

Di questa crisi avevamo parlato con Massimo Zaurrini a metà novembre, immaginando già scenari apocalittici verso cui ci stiamo avviando, visti gli interessi di tutte le comparse coinvolte: il gigante congolese incapace di controllo, gli esportatori di terre rare ruandesi e ugandesi (senza estrarne, ma controllando), militari di frapposizione (kenioti); le potenze occidentali, interessate a calmierare i prezzi con la schiavitù giovanile…:

“Rischio di Terza guerra mondiale africana dei Grandi Laghi?”.

to be continued

L'articolo Da qui il coltan… proviene da OGzero.

]]>
Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi https://ogzero.org/guerre-di-religione-continuazione-del-colonialismo-con-altri-mezzi/ Sat, 12 Nov 2022 08:48:30 +0000 https://ogzero.org/?p=9436 Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che […]

L'articolo Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi proviene da OGzero.

]]>
Gianni Sartori si propone come autodidatta che propone analisi “a naso”: avercene di nasi così raffinati! E soprattutto con una memoria storica e uno sguardo libertario come il suo. Peraltro l’analisi dei guasti del neocolonialismo è uno dei motivi per cui OGzero è nato e questo scritto ci sembra perfetto per avviare la discussione che si fonde e intreccia con le altre che muovono masse di disperati, distruggono il clima, depredano territori, spacciano armi, innescano conflitti per controllare risorse. Si può interpretare questo uso della divisione religiosa come un nodo delle diverse emergenze del Finanzkapitalismus nella sua fase iperliberista, un nodo a cui arrivare dagli altri orrori geopolitici, o da cui partire per inserirlo nella rete che mette insieme l’uso politico-aggressivo della religione, il pastone mediatico, la scorciatoia militarista, l’espansionismo imperialista… ma partiamo dallo storico conflitto irlandese tra cattolici separatisti e unionisti protestanti e poi ci espandiamo nelle più complesse – ma riconducibili agli stessi modelli di potere – contrapposizioni mediorientali.


Solo un’ipotesi, la mia. Da “proletario autoalfabetizzato” senza pretese accademiche. A naso diciamo.
Se in passato le “guerre di religione” potevano, forse, esprimere (“fotografare”) in qualche modo i conflitti etnici e/o sociali del tempo (vedi alcune “eresie” e certe “riforme” diretta conseguenza dei conflitti di classe), direi che in seguito, perlomeno dal secolo scorso, il più delle volte sono state la copertura, la “vetrina” di interessate strumentalizzazioni.

Partiamo dall’Irlanda…

A titolo di esempio, il conflitto irlandese, soprattutto dopo la divisione dell’Isola di smeraldo. Se già nel Settecento cattolici e protestanti (discendenti i primi dagli indigeni irlandesi colonizzati, gli altri dai coloni scozzesi presbiteriani) avevano fatto fronte comune per l’indipendenza dell’Irlanda, anche in seguito (vedi gli scioperi di lavoratori salariati cattolici e protestanti a Belfast) non mancarono lotte comuni. A porvi fine intervennero le ricche borghesie filobritanniche (si veda La Casa d’Orange) elargendo piccoli privilegi e organizzando milizie settarie “lealiste” (v. Uvf). Non potendo utilizzare – che so – un diverso colore della pelle o diversità etniche rilevanti (in quanto entrambe le comunità erano di origine celtica, diversamente dagli inglesi anglosassoni – di origine germanica – e anglicani) si accontentarono di ampliare il modesto solco di natura religiosa.


Poi è andata come sappiamo. Esperimento sostanzialmente riuscito, un modello per future strumentalizzazioni a “geometria variabile”.

… e giungiamo tra le comunità beluci, curde e hazara

Quindi ritengo che anche le sanguinose faide mediorientali tra sunniti e sciiti (con ricadute particolarmente gravi per le minoranze qui presenti: yazidi, alaviti, assiro-cristiani, zoroastriani…) siano state perlomeno “pompate”, gonfiate, esasperate ad arte.
Quanto è avvenuto nelle aree curde, occupate militarmente dalla Turchia, di Afrin e di Sere Kaniyê (Nord della Siria) appare emblematico. Non essendo in grado di controllare adeguatamente le proprie milizie mercenarie (vedi l’Esercito Nazionale Siriano, Sna), Ankara si starebbe affidando direttamente al gruppo terrorista Hayat Tahrir al-Sham (Hts, successore di al-Nusra), con tutta probabilità l’emanazione locale di al-Qaeda.

Il ruolo della Turchia

Anche perché tra le fila di alcune formazioni sul libro paga di Ankara ultimamente serpeggiava, oltre al malcontento, anche una certa preoccupazione.

Le voci su un possibile riavvicinamento tra Ankara e Damasco (patrocinato da Mosca) lasciava intravedere la possibilità di venir scaricati, se non addirittura consegnati, per diversi membri delle milizie mercenarie. In quanto ricercati da Damasco potrebbero venire estradati e questo suggerisce una possibile spiegazione su alcuni episodi di insubordinazione. Come per gli scontri a mano armata intercorsi tra membri di Jabhat al-Shamiya e di Jaish al-Islam.
Tali dispute ricorrenti (oltre al rischio concreto di insubordinazione e defezione) tra le diverse fazioni di Sna (forse non adeguatamente attrezzate, oltre che sul piano politico, anche in quello religioso?) avrebbero suggerito a Erdoğan di far leva sul maggiore entusiasmo, fervore religioso (eufemismo per fanatismo) di Hts. Un fanatismo indispensabile per annichilire le minoranze “eretiche” e non omologate (tutti apostati, dissidenti, “pagani”… addirittura comunisti o anarchici talvolta) del nord della Siria. Nella prospettiva di ulteriori invasioni.
Già all’epoca delle prime manifestazioni contro il regime siriano si assisteva a una proliferazione di gruppi armati, in genere appoggiati, oltre che dalla Turchia, da alcuni stati del Golfo come il Qatar.

Negli Usa è ancora in corso il processo contro “Qatar Charity” e contro Qatar Bank per aver finanziato con 800.000 dollari il leader dell’Esercito Islamico Fadhel al-Salim.

Pulizie etnico-religiose nella Mezzaluna sciita

Per inciso, è probabile che questo stia oggi avvenendo in Iran, nel tentativo di strumentalizzare, “dirottare” altrove, le legittime proteste popolari. Con un occhio di riguardo per i beluci, già manovrati in passato anche da qualche potenza imperialista di Oltreoceano. Come da manuale, ça va sans dire, anche i beluci ci mettono “del loro”: per esempio in Pakistan alcuni gruppi indipendentisti beluci sono ritenuti responsabili di vere e proprie stragi ai danni degli hazara, un’altra minoranza, ma di fede sciita.
Va anche detto che da parte sua la Repubblica islamica sembra far di tutto per fornire pretesti in tal senso. In una recente manifestazione (4 novembre 2022) a Khach, provincia di Zahedan, le forze di sicurezza hanno ucciso una ventina di civili beluci (16 le vittime identificate, tra cui alcuni bambini) ferendone oltre sessanta. Da segnalare – stando a quanto dichiarato da alcuni attivisti – che altri feriti erano poi deceduti non essendo stati traspostati all’ospedale dove rischiavano seriamente di essere arrestati.


Un’altra strage di 90 civili beluci era già avvenuta, sempre nella provincia di Zahedana, il 30 settembre.

Appare evidente che – analogamente a quella curda – anche la popolazione minorizzata dei beluci (“minorizzata” e non minoritaria, in quanto divisa da frontiere statali) in Sistan e Baluchistan subisce quotidiane discriminazioni ed è sottoposta a una dura repressione (come del resto altre comunità delle aree periferiche del paese) da parte di Teheran.
Sia per la loro appartenenza etnica, sia per ragioni religiose in quanto sunniti.
Il comandante di al-Nusra, Al-Hana (Abu Mansour al-Maghrebi) arrestato nel 2020 in Iraq aveva rivelato che lo sceicco Khalid Sueliman (della potente famiglia al-Thani), a capo del Jabhat al-Nusra (e pare anche delle organizzazioni derivate), veniva finanziato con qualcosa come un milione di dollari al mese. Turchia e Qatar sosterrebbero, sia finanziariamente, sia con la fornitura di armamenti, i vari gruppi combattenti emanazione dei Fratelli musulmani salafiti in quanto utile strumento per la loro politica estera. Anche in chiave panislamica.

Guerra turca ai curdi in Siria

Alcune organizzazioni hanno stabilito un’analogia, per vastità e inasprimento, tra l’attuale repressione in Iran e i massacri subiti dai beluci a Deraa (in Siria) nel 2011, denunciati dall’Onu come crimini di guerra.
Storicamente accertato che potenze regionali ostili a Damasco avevano favorito la militarizzazione (vedi appunto la formazione di Sna) e l’escalation del conflitto.
Oltre che a Sna, la Turchia non avrebbe lesinato nel fornire sostegno al fronte al-Nusra (dal 2012 nella lista del terrorismo internazionale in quanto ritenuto emanazione di al-Qaeda) e addirittura a Daesh. Formazioni entrambe notoriamente jihadiste.

Quanto al fronte al-Nusra, va ricordato che nell’ottobre 2012 attaccava i distretti autonomi di Şêxmeqsûd e Eşrefiye (regione di Aleppo) uccidendo decine di curdi. Subito dopo gli ascari jihadisti si scagliavano contro Afrin, incontrando però la ferrea resistenza delle Ypg/Ypj. Nel voler annichilire in primis le zone curde del Rojava (dove si sperimentava la rivoluzione del Confederalismo democratico) il Jabhat al -Nusra si smascherava da solo, mostrando apertamente di agire su indicazione della Turchia.

Sempre nel 2012, in novembre, veniva attaccata, partendo direttamente dalla Turchia, anche Serêkaniyê. Un’operazione congiunta tra al-Nusra e alcune milizie curde collaborazioniste legate al Pdk. Entrando in alcuni dei quartieri a maggioranza araba di Serêkaniyê, queste milizie si spacciavano per ribelli antiAssad cercando di stabilire alleanze. Solo successivamente (il 19 novembre) partiva il brutale attacco contro i quartieri a maggioranza curda. Veniva assassinato il sindaco della città e la chiesa diventava un bivacco per il loro quartiere generale.

Nel frattempo la loro già consistente presenza veniva rinforzata dall’apporto della cosiddetta Coalizione nazionale (Etilaf), che – secondo i curdi – sarebbe al Etilaf di Sna o comunque della sua derivazione, il “governo di transizione siriano”. Oltre al seggio di Istanbul, Etilaf ne controlla uno anche a Berlino (oltretutto finanziato dal governo tedesco).
Avrebbe anche una certa influenza in alcuni progetti (ugualmente finanziati dal governo tedesco) che sembrano funzionare come “specchietti per allodole”, allo scopo di creare cortine fumogene sulla realtà della situazione curda. Tra questi, il Centro europeo di studi curdi (Ezks) e il sito Kurdwatch, divulgatore di notizie farlocche intese a giustificare le operazioni militari di Erdoğan nel Nord della Siria e nel Nord dell’Iraq. Ma nonostante questo ulteriore apporto di milizie, successivamente venivano scacciati dalla popolazione insorta dei quartieri curdi, grazie anche all’intervento dei combattenti di Ypg e Ypj.

Gli scontri ripresero, durissimi, nel gennaio 2013. Praticamente una vera e propria ammucchiata di gruppi mercenari guidata da al-Nusra quella che contese per circa due settimane il controllo dei quartieri alle milizie curde. Sconfitte nuovamente, le truppe jihadiste si misero in salvo direttamente oltre il confine turco (immediatamente blindato dai soldati turchi per maggior sicurezza), ma lasciando in mano ai curdi un’ampia documentazione della loro intensa collaborazione con Ankara.
Purtroppo durante la ritirata sia al-Nusra che Daesh non mancarono di vendicarsi sulla popolazione curda con una vile rappresaglia.

Come a Til Eran (luglio 2013) e a Tal Hasil. Dichiarando pubblicamente, attraverso le moschee, che sia il bagno di sangue nei confronti della popolazione curda (circa un’ottantina le vittime accertate) che il sequestro-rapimento delle donne curde (prelevate a centinaia) era giustificato dal punto di vista religioso. Rastrellando poi casa per casa le due località sopracitate alla ricerca di “Apoisti”, ossia di seguaci di Apo Öcalan. Oltre a quelli crudelmente assassinati (alcuni bruciati vivi, con le immagini poi diffuse nei social), vanno considerati anche i desaparecidos (qualche decina) e i cadaveri (una ventina) di cui non è stata possibile l’identificazione.

Til Hasil

Da sottolineare che – per quanto entrambe aspirassero alla supremazia – Al-Nusra e Daesh (o Stato Islamico che dir si voglia) non smisero mai di collaborare proficuamente. Sia garantendo una certa “osmosi” di combattenti –praticamente intercambiabili – da una formazione all’altra (in base alle necessità del momento), sia dandosi il cambio, alternandosi nel controllo delle aree occupate. E soprattutto instaurando congiuntamente durante l’occupazione delle città, dei villaggi e dei quartieri curdi un aspro regime di ispirazione salafita. Anche a livello di tribunali islamici dove operavano in coppia.

Sempre sotto la supervisione di Ankara ovviamente. L’assalto al carcere di Sina à Hesekê (gennaio 2022) era stato pianificato dai territori occupati dalla Turchia.

Come già detto negli ultimi tempi al-Nusra aveva cercato di “riciclarsi” prendendo (almeno ufficialmente) le distanze da al-Qaeda e cambiando pelle e nome. Diventando prima, nel 2016, Liwa Fatah al-Sham e successivamente, nel 2017, appunto Hayat Tahrir al-Sham (Hts, in realtà una finta coalizione di vari gruppi, sostanzialmente sotto il controllo della vecchia al-Nusra, comunque denominata). Attualmente la casa madre sarebbe localizzata in quel di Idlib, in felice coabitazione con l’alleato turco. Allo scopo dichiarato di soffocare il risorgere e la diffusione del Confederalismo democratico in questa parte del Rojava. Esperienza pericolosa perché esemplare e contagiosa, soprattutto così in prossimità del confine turco.

Dal maggio di quest’anno (a seguito dell’incontro di Idlib-Sarmada con esponenti del regime turco) le milizie di Hts hanno ripreso a riposizionarsi e raggrupparsi su Idlib puntando quindi su Afrin. Inoltre si sarebbero acquartierati anche nelle zone di Girê Spî, Azaz, al-Bab, Cerablus e intorno alla città di Minbić (ancora gestita dall’amministrazione autonoma).
Sempre in vista di ulteriori attacchi in Rojava.

Per concludere, pur essendo presto rientrato nella lista nera dei gruppi terroristi, Hts continua a godere dei finanziamenti di Turchia, Qatar, Arabia Saudita…
Pare anche di qualche non meglio identificato “paese occidentale”…

Vai a sapere.

L'articolo Guerre di religione: continuazione del colonialismo con altri mezzi proviene da OGzero.

]]>
Vecchie corone e turbanti consunti, curdi e beluci sudditi dell’impero persiano https://ogzero.org/vecchie-corone-e-turbanti-consunti-curdi-e-beluci-sudditi-dellimpero-persiano/ Tue, 18 Oct 2022 20:20:44 +0000 https://ogzero.org/?p=9151 Ospitando queste considerazioni di Gianni Sartori comparse su “Osservatorio repressione” proseguiamo l’interesse per un movimento che non accenna ad arrendersi al brutale massacro di forze di una brutale polizia che fin dai tempi della Savak della famiglia Pahlevi è famigerata per le sue efferatezze; ma la storia fa ben sperare, perché quando il popolo iraniano […]

L'articolo Vecchie corone e turbanti consunti, curdi e beluci sudditi dell’impero persiano proviene da OGzero.

]]>
Ospitando queste considerazioni di Gianni Sartori comparse su “Osservatorio repressione” proseguiamo l’interesse per un movimento che non accenna ad arrendersi al brutale massacro di forze di una brutale polizia che fin dai tempi della Savak della famiglia Pahlevi è famigerata per le sue efferatezze; ma la storia fa ben sperare, perché quando il popolo iraniano è esausto non recede fino al rovesciamento del potere. Non sappiamo quale sarà l’epilogo ma la determinazione meriterebbe migliori analisi da parte dell’Occidente. Sartori ha il merito di usare occhiali che pescano nell’immaginario ipocrita che attraverso gli organi di stampa mainstream evidenziano episodi, a tratti beatificano, ma poi non considerano il patriarcato e si focalizzano esclusivamente sulla questione del velo senza considerare le istanze sociali e politiche che alimentano il movimento e senza accorgersi del tentativo di organizzazioni nostalgiche dello sha’ intente a scippare le lotte, cercando di replicare la manovra degli ayatollah che sterminarono i rivoltosi progressisti che avevano cacciato i Pahlevi. 


L’antifascismo nelle piazze iraniane

Affrontando i nostalgici del passato e gli oscurantisti del presente

Qualche considerazione, mi auguro non “allineata”, su quanto sta avvenendo in Iran. Già in precedenza avevo sottolineato come l’autodeterminazione dei popoli in generale e l’indipendentismo in particolare, siano divenuti una variabile “USA e getta” a seconda degli interessi geostrategici in gioco. Quella che uno studioso catalano aveva definito “indipendenza a geometria variabile”, di cui si è esaustivamente parlato in un articolo precedente. Gli esempi dei “due pesi e due misure” si sprecano, come avevo segnalato qualche anno fa (in epoca non sospetta) nella “postfazione” a un mio libro sui curdi.
E i curdi, da questo punto di vista, non fanno certo eccezione, se pur loro malgrado.
Beatificati qualche anno fa quando si facevano massacrare per sconfiggere l’Isis, erano stati poi – di fatto – dimenticati. Abbandonati in balia delle milizie islamiste filoturche in Rojava, sotto i bombardamenti turchi (anche con armi proibite dalla convenzione di Ginevra) in Bashur e sepolti vivi nelle carceri di sterminio in Turchia.
Quanto al Rojhilat (il Kurdistan sotto amministrazione iraniana), se si esclude in passato qualche tentativo di strumentalizzazione da parte del Mossad, parevano completamente scomparsi dal radar. Nuovamente alla ribalta in quanto tra i principali protagonisti della rivolta in corso (innescata dall’assassinio di una donna curda, Jina Amini) tornano a godere di qualche attenzione – interessata – da parte dei media occidentali.
Women Life Freedom
Talvolta in maniera paradossale. In un recente articolo apparso su un noto quotidiano italico si celebra “l’arte di resistere” di questo popolo indomito, ma – a mio avviso – in modo alquanto parziale. Ben due paginoni per ricordare, oltre alla lotta contro l’Isis e Daesh, perfino il “rapporto turbolento” dei curdi dell’Iraq con Bagdad e dilungarsi – addirittura – sulle antiche battaglie dei Carduchi (probabili progenitori dei curdi) celebrate da Senofonte in Anabasi.
Ma nessun accenno al Bakur (il Kurdistan sotto occupazione turca) o al “Mandela curdo” Ocalan.

L’analisi deve considerare molti aspetti

Riproponendo comunque una visione riduttiva – sempre a mio modesto avviso – dell’attuale crisi iraniana interpretata come legata essenzialmente alla questione dell’hejjab. In realtà ritengo che il problema, in particolare per le donne curde, sia leggermente più complesso. Andarsi a rivedere le percentuali di donne impiccate per essersi ribellate al patriarcato (con le minorenni – in genere vittime di matrimoni combinati – che se accusate di aver ammazzato il marito o un cognato, rimangono in cella in attesa della maggiore età e dell’esecuzione).

La rivolta in carcere dei fomentatori curdi

Del resto anche la rivolta nel famigerato carcere di Evin (a Teheran) sembrerebbe essere stata innescata (nella serata del 15 ottobre) dai prigionieri politici curdi.
Non i soli qui rinchiusi, ovviamente (ci sarebbero anche personaggi noti, in quanto stranieri, come la franco-iraniana Fariba Adelkhah e almeno fino alla fine di settembre lo statunitense di origine iraniana Siamak Namazi).
Per completezza va riportata anche un’altra inquietante ipotesi. Ossia che potrebbero essere state le stesse autorità carcerarie ad appiccare l’incendio come pretesto per eliminare dei pericolosi dissidenti.
Evin Prison

L’egemonia imperiale persiana

I seguaci dello sha’ cercano di scippare le lotte

In ogni caso, oltre a strumentalizzare le lotte dei curdi, stavolta si è fatto avanti anche chi vorrebbe ora emarginarli, ridimensionare il ruolo fondamentale che questa “minoranza” ha avuto, insieme ai beluci, nella rivolta in atto ormai da oltre un mese.
Il 15 ottobre a Londra, a una manifestazione di sostegno ai manifestanti e rivoltosi iraniani, i nostalgici dell’artificiosa monarchia decaduta nel 1979 hanno cercato di allontanare coloro che inalberavano bandiere del Kurdistan e del Belucistan, in quanto, secondo i seguaci della buonanima di Mohammad Reza Pahlavī, “non graditi”.
E rivendicando il fatto che nel 1936 Reżā Shāh Pahlavī (il padre di Mohammad Reza) aveva proibito per decreto l’uso di hijab e chador. Ma sorvolando, al solito, sulle concessioni fatte tre anni prima alla Anglo-Persian Oil Company, operazione a cui tenterà di porre termine nel 1951 Mossadeq (poi destituito con un colpo di stato imbastito da Usa e G.B.) riuscendo anche per un breve periodo ad allontanare lo sha’ dal Paese.
E così i tardi epigoni di quel regime crudele (ricordate le brutalità, le torture commesse tra il 1957 e il 1979 dalla polizia segreta, la Savak?), mentre con grande faccia tosta pubblicamente invocano l’unità del popolo iraniano contro l’attuale regime, negano a priori i diritti dei popoli minoritari (ma sarebbe più corretto definirli “minorizzati” in quanto sia i curdi che i beluci vivono separati in vari stati, divisi dalle artificiose frontiere).
Popoli sottoposti all’egemonia persiana e a cui viene tuttora negato il diritto alla propria lingua e cultura. Per non parlare di quello all’autodeterminazione.
Oggi con gli ayatollah così come ieri con lo sha’.
Fatti del genere, oltre che a Londra, erano già avvenuti a Parigi davanti all’Hôtel de Ville il 6 ottobre.
Durante – si badi bene – l’omaggio reso dalla sindaca di Parigi Anne Hidalgo a Jina Amini, la giovane curda uccisa dalla polizia.
Appare evidente come questi reazionari monarchici (potremmo, credo, definirli tranquillamente dei “fascisti”) vorrebbero impadronirsi della rivolta popolare, strumentalizzarla ai loro fini. Quanto al fatto che possano riuscirci è tutto un altro paio di maniche. Anche se …

La Realpolitik del diritto all’autodeterminazione

… coltivo qualche perplessità sugli sbocchi assunti da alcune lotte di liberazione in tempi recenti (talvolta strumentalizzate dal sistema industriale-militare – l’imperialismo – o da qualche potenza regionale), ma non per questo rinuncio a schierarmi a fianco degli oppressi e contro l’oppressione.

Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e al-Da’wa, notoriamente filoiraniani e responsabili di violazioni dei diritti umani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente Washington starebbe utilizzando in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad al-Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?

Indipendenze a geometria variabile

Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale, come di quelli autonomistici o identitari, non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Manuel Castells ha parlato di “indipendenze a geometria variabile”, denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese «a seconda di chi, del come e del quando».

«Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione –, sostiene il sociologo catalano, – sono frutto di un cinismo tattico e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente»

Pensiamo al trattamento riservato ai curdi in Iraq, praticamente autonomi e quasi alleati degli Usa, mentre quelli in territorio turco continuavano a essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, storicamente alleato strategico degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. E intanto i curdi dell’Iran (“Partito per una vita libera in Kurdistan”, Pjak, considerato il ramo iraniano del Pkk attivo in Turchia), dopo una serie di impiccagioni che l’opinione pubblica mondiale ha ignorato, nel 2010 si sarebbero rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva documentato “Le Monde”, ma poi le cose sarebbero cambiate).

 

L'articolo Vecchie corone e turbanti consunti, curdi e beluci sudditi dell’impero persiano proviene da OGzero.

]]>
«Kurdistan, Kurdistan: occhi e luce dell’Iran!» https://ogzero.org/kurdistan-kurdistan-occhi-e-luce-delliran/ Sat, 24 Sep 2022 11:58:16 +0000 https://ogzero.org/?p=9006 Un punto di vista attento alle origini curde di Jîna Mahsa Amini per raccontare ulteriori aspetti (rispetto a quelli rilevati da Marina Forti) della vicenda che ha scatenato un movimento determinato a ottenere almeno un allentamento dell’oppressione religiosa… e che forse può avviare un più ampio processo di emancipazione dal sistema oscurantista legato ai turbanti […]

L'articolo «Kurdistan, Kurdistan: occhi e luce dell’Iran!» proviene da OGzero.

]]>
Un punto di vista attento alle origini curde di Jîna Mahsa Amini per raccontare ulteriori aspetti (rispetto a quelli rilevati da Marina Forti) della vicenda che ha scatenato un movimento determinato a ottenere almeno un allentamento dell’oppressione religiosa… e che forse può avviare un più ampio processo di emancipazione dal sistema oscurantista legato ai turbanti di Tehran, estendendo le proteste al desiderio di liberazione dal manto plumbeo degli ayatollah, con un gesto come i tanti dal hejjab. Gianni Sartori in questo pezzo comparso su “Osservatorio repressione” ricostruisce gli eventi di questi giorni con lo sguardo dei curdi del Khorasan, in particolare del Rojhilat (le province del Nordovest), esteso al resto delle speranze soprattutto dei giovani in piazza in questi giorni, rischiando anche di venire giustiziati, come da richieste degli oscurantisti chiamati in una contromanifestazione dal governo conservatore di Raisi, che si rende conto del pericolo di insurrezione.  


In Iran non si placano le proteste per l’assassinio di Jîna Mahsa Amini

Sappiamo che la popolazione curda del Rojhilat (il Kurdistan orientale, sotto amministrazione iraniana) detiene il record non invidiabile del maggior numero (in percentuale) di giustiziati e giustiziate del pianeta. Altri – e altre – invece sono vittime della tortura.
L’ultimo caso, quello della ventiduenne curda Jîna Mahsa Amini, ha scatenato la rivolta prima nella regione, poi nell’intero paese.
Nei primi cinque giorni (e cinque notti, come a Parma nel 1922) manifestazioni e scontri erano avvenuti a Sine, Dehgulan, Diwandara, Mahabad, Urmia, Piranshahr, Saqqez…
Mentre ancora il 22 settembre i telegiornali parlavano “soltanto” di una decina di manifestanti uccisi dalla polizia iraniana nel Rojhilat, alcune agenzie ne calcolavano già una trentina.

È probabile che ormai le vittime siano più di cinquanta e destinate, purtroppo, ad aumentare. Per non parlare della sorte di centinaia di feriti e di migliaia di persone arrestate.

Immediatamente veniva indetto dal Pjak (Partito per una vita libera nel Kurdistan) e da Kodar (Società democratica e libera del Kurdistan orientale) lo sciopero generale. Sciopero a cui avevano aderito i partiti affiliati al Centro di cooperazione dei partiti del Kurdistan iraniano, il Partito comunista iraniano-Kurdistan, altri partiti del Kurdistan orientale, numerose organizzazioni della società civile e vari esponenti politici. E così il 19 settembre scuole e negozi sono rimasti chiusi in gran parte della regione.
Il giorno dopo, 20 settembre, nel corso di una manifestazione, a Kermanshah moriva un’altra donna curda, Minoo Majidi, madre di tre bambini. Colpita dalle pallottole (dal “fuego real”) delle unità speciali antisommossa, prontamente mobilitate dal regime.

Nel frattempo le proteste per l’uccisione di Jîna Mahsa Amini (22 anni, deceduta per emorragia cerebrale a seguito delle torture subite) si estendevano all’intero paese.

In almeno una quindicina di città uomini e donne (la gran parte delle quali aveva gettato via il velo) sono scesi in strada. Non solo aTeheran, ma anche a Mashhad (nel nord-est), Tabriz (nord-ovest), Rasht (nord), Ispahan (centro) e Kish (sud). Bloccando la circolazione, incendiando i veicoli della polizia, lanciando pietre sulle forze di sicurezza e distruggendo i ritratti degli ayatollah (così come era accaduto a Saqqez, città natale della giovane curda). Oltre naturalmente a scandire slogan contro il regime. Sia quello diffuso tra le donne curde del Bakur e del Rojava: “Jin jiyan azadi“ (La Donna, la Vita, la Libertà), sia uno di nuovo conio:

“Kurdistan, Kurdistan: occhi e luce dell’Iran”.

Identificata dai media come Mahsa Amini, in realtà si chiamava Jîna (o anche Zhina) che significa “donna” (Jin) in curdo. Ma al momento di registrarla all’anagrafe, il funzionario del regime, come in tanti altri casi, si era rifiutato e aveva imposto la sostituzione del nome curdo con quello di Masha. Un evidente caso di colonialismo culturale che costringe milioni di curdi, espropriati del loro stesso nome, a portarne altri turchizzati (in Bakur), arabizzati o persianizzati (in Rojhilat).

Arrestata dalla polizia per un velo portato in maniera “scorretta”, o qualcosa del genere, mentre si trovava nell’auto del fratello da cui si era recata in visita, è morta all’ospedale di Kasra a Teheran, dove era giunta già in stato di morte cerebrale.

Mentre le autorità iraniane si giustificavano evocando improbabili “preesistenti problemi di salute” –  parlando prima di una presunta epilessia, poi di problemi cardiovascolari – dalle lastre e altri esami al cranio della giovane curda emergeva la conferma di quanto già si sospettava: Jina è morta a causa delle torture, delle percosse subite appena dopo l’arresto. In particolare quella che sembra una tomografia assiale computerizzata, ha evidenziato fratture ossee, un’emorragia e un edema cerebrale.
Una fonte ospedaliera ha parlato di “tessuto cerebrale schiacciato, danneggiato da numerosi colpi”. Inoltre i polmoni erano “pieni di sangue e non poteva più essere rianimata”. In alcune delle foto di lei sul letto dell’ospedale si vede chiaramente che le orecchie sanguinano, e ciò sarebbe un segno inequivocabile che il coma era la conseguenza di un trauma cranico.

Indignate manifestazioni di protesta si sono immediatamente svolte soprattutto nel Rojhilat dove scuole e negozi sono rimasti chiusi per lo sciopero generale.

Secondo il giornalista Ammar Goli (Erdelan) le forze di sicurezza del regime iraniano utilizzerebbero anche le ambulanze per reprimere i manifestanti, in violazione del diritto internazionale. Infatti «molte delle persone arrestate vengono portate nei centri di detenzione a bordo delle ambulanze in quanto le forze di sicurezza sanno che non verranno assalite dai manifestanti. E ovviamente molti manifestanti feriti si rifiutano di recarsi negli ospedali per paura di essere arrestati».

Dalla giornalista Behrouz Boochani un appello alla comunità internazionale per intendere la voce delle donne iraniane insorte contro la dittatura islamista: «Le donne dell’Iran sono fonte di ispirazione: stanno costruendo la Storia nelle strade ribellandosi alla dittatura. Non ignoratele; se siete femministe, siate la loro voce, amplificate il loro appello! Questa è una rivoluzione femminista storica».

 

L'articolo «Kurdistan, Kurdistan: occhi e luce dell’Iran!» proviene da OGzero.

]]>
Inclusività o assimilazione nell’India tribale in rivolta? https://ogzero.org/inclusivita-o-assimilazione-nellindia-tribale-in-rivolta/ Tue, 26 Jul 2022 06:54:22 +0000 https://ogzero.org/?p=8278 Lo schiaffo del partito induista nazionalista al potere a tutto ciò che è alieno, diverso, “intollerabile” diventa scherno con l’elezione di una donna di origine tribale a presidente dell’India. Sicuramente non risolve i problemi di discriminazione e le pulizie etniche su cui Narendra Modi ha costruito il suo potere, ma con altrettanta certezza gli conferisce […]

L'articolo Inclusività o assimilazione nell’India tribale in rivolta? proviene da OGzero.

]]>
Lo schiaffo del partito induista nazionalista al potere a tutto ciò che è alieno, diverso, “intollerabile” diventa scherno con l’elezione di una donna di origine tribale a presidente dell’India. Sicuramente non risolve i problemi di discriminazione e le pulizie etniche su cui Narendra Modi ha costruito il suo potere, ma con altrettanta certezza gli conferisce una patente di tolleranza. Laddove invece registriamo solo militarizzazione e repressione dell’India tribale in rivolta, sia nel Centronord indiano sia nel profondo Sud del Tamil Nadu.
Qui con Gianni Sartori intendiamo dare voce, o almeno testimonianza, del saccheggio e delle modalità di soffocazione di istanze di emancipazione delle comunità tribali a Kallakurichi come a Sukma.
.

Diritti e oppressione dei popoli indigeni

Non si può certo affermare che quanto avviene in India ai danni delle popolazioni tribali sia sotto la lente e l’interesse dei media internazionali. Difficilmente si viene adeguatamente informati riguardo a massacri, deportazioni (per consentire alle multinazionali, in particolare quelle dedite all’estrazione mineraria, di appropriarsi dei territori ancestrali delle popolazioni indigene), esecuzioni extragiudiziali, stupri di donne tribali e arresti arbitrari operati dal regime di Narendra Modi.
Si è invece parlato della elezione a presidente dell’India (una carica più che altro formale, cerimoniale…) di Droupadi Murmu, donna di origine tribale (i santhal), in precedenza governatrice del Jharkhand. Originaria dell’Odisha, milita da anni nel Bharatiya Janata Party, il partito dei fondamentalisti indù.
Per carità. Tutto può tornare utile e se questo evento dovesse portare qualche beneficio alle popolazioni tribali (gli adivasi) e alle caste diseredate (i dalit) ben venga.
Anche se l’augurio è che non avvenga nella logica sviluppista (e di devastazione umana e ambientale) che auspica Modi.

Addomesticamento e rivolta delle comunità tribali

È lecito infatti avere qualche riserva su questo coinvolgimento, più che altro spettacolare ed elettorale, dei tribali nel progetto del Bjp. Allargare la propria base di sostenitori farà sicuramente gli interessi del Bjp. Ma è lecito chiedersi quali vantaggi porterà alla conservazione delle lingue e della cultura tradizionale (oltre che alla loro sopravvivenza fisica) degli adivasi. Più che di “inclusività” si dovrebbe forse parlare di assimilazione.
Nel frattempo – ovvio – si mantiene la stretta repressiva, l’addomesticamento forzato delle popolazioni indocili e refrattarie al “progresso” neoliberista.

Landgrabbing e resistenza nel Chhattisgarh

Di questi giorni è la notizia (ignorata dai media internazionali in quanto scoperchiava le passate malefatte governative) dell’avvenuta liberazione (il 15 luglio 2022) nel Chhattisgarh di 121 tribali (tra cui alcuni minorenni) arrestati nel 2017 con una serie di rastrellamenti nei villaggi della zona. Nel frattempo uno degli arrestati (o almeno quello finora accertato) era deceduto dietro le sbarre.
Tutte queste persone, come del resto era evidente fin dall’inizio, sono risultate del tutto estranee all’imboscata, opera di almeno trecento guerriglieri naxaliti (maoisti del People’s Liberation Guerrilla Army), di Sukma (Burkapal, 24 aprile 2017)) in cui avevano perso la vita 26 paramilitari della Crpf.
Sono completamente cadute sia le accuse di possesso di armi, sia di appartenenza al Pci (maoista). Per cui la loro lunga, ingiusta detenzione acquista il senso di una rappresaglia a scopo “educativo” per tutta l’India tribale in rivolta.
A Sukma militari e paramilitari sorvegliavano in armi i lavori per la costruzione di una strada che doveva attraversare i territori tribali per conto di un gruppo industriale. Il gruppo maoista Dkszc (Dand Karanya Special Zone Committee) aveva rivendicato l’attacco.

Villaggio di Silger resistente, dove sono ormai trascorsi 400 giorni dall’inizio della resistenza del movimento del villaggio di Silger al confine tra Bijapur e Sukma nel Bastar meridionale del Chhattisgarh

L’attacco di Sukma

Nel comunicato si sottolineava come l’attacco fosse una risposta di autodifesa non solo nei confronti delle politiche antipopolari del governo, ma soprattutto per le «atrocità sessuali commesse dalle forze di sicurezza contro le donne e le ragazze tribali». Ossia gli innumerevoli stupri opera soprattutto dalle milizie paramilitari filogovernative. In sostanza «per la dignità e il rispetto delle donne tribali».

Il comunicato inoltre smentisce decisamente (come poi è stato riconosciuto anche ministero dell’Interno) che sui corpi dei soldati uccisi si fosse infierito con mutilazioni e castrazioni: «Noi – aveva dichiarato Vikalp, portavoce della guerriglia – non manchiamo di rispetto ai corpi dei soldati uccisi. Sono i media borghesi che diffondono tali false notizie e invece spesso sono i militari che operano brutali trattamenti sui corpi dei guerriglieri maoisti». Così come, aveva continuato «vengono riprese e diffuse nei social immagini riprovevoli delle guerrigliere uccise» (un inciso estraneo all’India tribale in rivolta: questa è una pratica abituale anche da parte dei soldati turchi nei confronti delle combattenti curde).
Per concludere: «I soldati non sono nostri nemici. Tantomeno nemici di classe. Tuttavia si pongono al servizio dell’apparato antipopolare e dello sfruttamento operato dal governo. Rivolgiamo a loro un appello affinché cessino di combattere schierati al fianco dei politici sfruttatori, dei grandi imprenditori, delle compagnie nazionali e internazionali, delle mafie, dei fascisti indù… che sono, per loro stessa natura, nemici dei dalit, dei tribali, delle minoranze religiose e delle donne. Soldati, non sprecate la vostra vita per difendere tali personaggi e le loro ricchezze. Lasciate l’esercito e prendete parte alla lotta popolare».

E adesso la resistenza ricomincia nel Tamil Nadu

Tornando ai nostri giorni, va ricordato che il 17 luglio 2022 nel Sud dell’India si sono verificati duri scontro tra giovani e polizia (con decine di feriti) dopo il suicidio di una studentessa.
I manifestanti penetrarono nel campus (distretto di Kallakurichi nello stato di Tamil Nadu), incendiando veicoli della polizia e bus scolastici.
La ragazza prima di togliersi la vita aveva scritto una lettera in cui denunciava alcuni insegnanti per averla sottoposta a sistematici maltrattamenti (aveva usato il termine “torture”). La stessa cosa sarebbe toccata ad altre studentesse.
All’inizio del mese invece le proteste – con scontri, numerosi feriti e una dozzina di arresti – erano scoppiate a Nepali Nagar. Il 3 luglio una quindicina di bulldozer arrivarono per distruggere un centinaio di abitazioni costruite su terreni pubblici: le autorità locali le avevano definite “abusive” (nonostante da anni fossero stati realizzati gli allacciamenti e venissero raccolte le tasse municipali).
E solo uno stretto braccio di mare divide il Tamil Nadu da quello Sri Lanka in subbuglio.
Una nota di Francesco Valacchi per contestualizzare le rivolte e la figura presidenziale di Droupadi Murmu si trova in “China Files”. Abbiamo registrato un suo breve intervento su Radio Blackout:

“Lavacro tribale del nazionalismo Bjp”.

L'articolo Inclusività o assimilazione nell’India tribale in rivolta? proviene da OGzero.

]]>
L’assalto al carcere di Sina “forse” orchestrato da Ankara e Damasco https://ogzero.org/assalto-al-carcere-forse-orchestrato-da-ankara-e-damasco/ Thu, 03 Feb 2022 17:10:52 +0000 https://ogzero.org/?p=6122 Quattro giorni di ininterrotti scontri tra i combattenti dello Stato Islamico (Isis) e le forze curdo-siriane (Fds), che presidiavano il carcere assalito da miliziani ben equipaggiati. Il bilancio finale è stato di più di 330 morti, molti jihadisti fuggiti (un migliaio i catturati dalla pronta reazione curda); un preoccupante segnale di quanto la rete jihadista […]

L'articolo L’assalto al carcere di Sina “forse” orchestrato da Ankara e Damasco proviene da OGzero.

]]>
Quattro giorni di ininterrotti scontri tra i combattenti dello Stato Islamico (Isis) e le forze curdo-siriane (Fds), che presidiavano il carcere assalito da miliziani ben equipaggiati. Il bilancio finale è stato di più di 330 morti, molti jihadisti fuggiti (un migliaio i catturati dalla pronta reazione curda); un preoccupante segnale di quanto la rete jihadista si sia ricostruita, ancora più allarmante se si riconduce a una precisa orchestrazione occulta da cercare ad Ankara – e non solo – questo improvviso assalto dei tagliagole del Daesh al carcere curdo in cui erano reclusi i foreign fighters che gli occidentali non rivogliono indietro. Un ritorno dell’interesse occidentale per la questione dei jihadisti stranieri detenuti deve aver sollecitato il presidente turco a intervenire; e il risultato è stato l’annientamento di Abu Ibrahim al Hashimi Al Qurayshi, leader dell’Isis, dopo l’insuccesso del piano ordito dai satrapi turco-siriani.

A questo proposito abbiamo ricevuto alcune rilevanti osservazioni di Gianni Sartori, confermate dai bombardamenti avvenuti una settimana dopo per mano dell’aviazione di Erdoğan, come racconta l’articolo di Chiara Cruciati per “il manifesto” del 3 febbraio 2022, che proponiamo qui sotto. Riprendiamo dunque il pezzo di Sartori comparso sulla rivista “Etnie”, corredandolo tra le altre con un’immagine di Matthias Canapini, con il quale inauguriamo una collaborazione che immaginiamo proficua.


Lo davamo per scontato. Intravedere dietro l’attacco di Daesh al carcere di Sina (nel quartiere di Xiwêran/Gweiran della città di Hesîçe/Hassaké) la complicità di Ankara era tutto meno che un esercizio di fantasia. Ma a quanto sembra la manina inopportuna non era l’unica. In base ai primi accertamenti, le fonti curde hanno denunciato un ruolo, oltre che dell’intelligence turca, anche di quella siriana.

Bombardamenti turchi sui curdi siriani dopo l'assalto jihadista

3 febbraio 2022. Bombardamenti turchi sul Confederalismo democratico dei curdi siriani dopo l’assalto jihadista del 20 gennaio: evidente l’impronta di Ankara.

Premesse dell’assalto e mandanti

Iniziato il 20 gennaio, l’assalto operato dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Daesh) veniva se non stroncato sul nascere, perlomeno ridotto ai minimi termini. Purtroppo aveva avuto il tempo di provocare “danni collaterali” non irrilevanti. Sono almeno una cinquantina (ma il bilancio potrebbe accrescersi) i caduti tra membri di Fds, Asayish e civili curdi accorsi volontariamente per contrastare l’operazione jihadista. Dopo mesi di sostanziale menefreghismo per la sorte delle popolazioni (curde, ma non solo) del Nord e dell’Est della Siria sottoposte all’occupazione o comunque agli attacchi dell’esercito e dell’aviazione turca, l’Occidente è parso ridestarsi e prendere coscienza che la minaccia dell’Isis/Daesh non era stata definitivamente cancellata.
Per cui, non detto ma pensato, anche la presenza curda recuperava spessore e spazio sui media. Perlomeno come argine al fanatismo degli estremisti islamici.
Se pur lentamente, emergono le prime connessioni – interne ed estere – che hanno reso operativo il progetto per liberare i circa 5000 detenuti (membri o sostenitori di Daesh) rinchiusi a Sina. E tutte invariabilmente conducono ad Ankara o a Damasco. O magari a entrambe. Si tratta di elementi, indizi riguardanti le riunioni preliminari, le varie fasi di pianificazione, gli obiettivi individuati dalla banda degli assalitori. Non si sarebbe trattato quindi di un’azione pianificata esclusivamente dall’Isis, ma di una complessa operazione con il sostegno – come dire: bilaterale – proveniente dall’esterno del gruppo jihadista (per quanto questo sia presumibilmente infiltrato come un colabrodo da servizi vari).
A quanto sembra, condizionale sempre d’obbligo, l’operazione potrebbe essere stata decisa e pianificata in Turchia. I membri di Daesh catturati dalle Fds avrebbero confessato che era stata preceduta da una lunga preparazione (almeno 7-8 mesi) e che le riunioni di pianificazione si sarebbero tenute a Serêkaniyê (Ras al-Ain) ossia in un’area attualmente sotto occupazione turca. Vi avrebbero partecipato membri di varie “cellule dormienti” sia locali che provenienti dalla Turchia. E tutte indistintamente sarebbero state rifornite di adeguati armamenti.
Dato che tra i prigionieri si trovavano diversi esponenti di alto livello dell’organizzazione terrorista, è evidente che l’operazione rivestiva una certa importanza.
Per prima cosa, con qualche mese di anticipo, vari esponenti dell’organizzazione terrorista, sia individualmente che in piccoli gruppi, erano venuti ad abitare nel quartiere di Gweiran/Xiwêran, dove sorge la prigione (una ex scuola provvisoriamente adibita a carcere) e in quello di Heyî Zihur.
Nel comunicato delle Fds del 25 gennaio si legge che «almeno 200 esponenti dello stato islamico si erano installati a Serêkaniyê, Girê Spî e Ramadî, in particolare nel quartiere di Gweiran e nei dintorni del carcere».
Contemporaneamente anche i detenuti si organizzavano per la rivolta.
Va ribadito che in maggioranza si tratta di persone addestrate alla guerra e di origine straniera (muhajir ossia “migranti”, termine utilizzato per indicare i miliziani stranieri che combattono per Daesh). Persone che – in genere – i rispettivi paesi di provenienza si rifiutano di riportare in patria.

Dinamica dell’assalto e indizi sui mandanti

Orchestrazione Isis
Il primo veicolo imbottito di esplosivo era stato posto in prossimità dello svincolo di una condotta petrolifera (moltiplicando quindi la potenza dell’attentato) mentre venivano bloccate le strade d’accesso al carcere. Altri veicoli, ugualmente riempiti con materiale esplodente, colpivano la porta della prigione e l’edificio delle Forze di autodifesa (Erka Xweparastinê). Entravano allora in azione anche le “cellule dormienti” precedentemente installate nel quartiere. Catturando alcuni civili (da usare come ostaggi o scudi umani) e abbattendo un muro della prigione con una ruspa.
Assalto al carcere di Sina

Famiglia yazida a Dohuk (© Matthias Canapini)

Una volta entrati, distribuivano le armi ai detenuti islamisti e prendevano altri ostaggi tra il personale del carcere.

Risposta Fds

La priorità per le Fds e per le forze della sicurezza interna (Asayish) è stata quella di proteggere i civili. Nel contempo circondavano (bloccandone a loro volta le vie d’accesso) e mettevano in sicurezza (procedendo all’evacuazione degli abitanti) i quartieri di Gweiran e di Heyî Zihur. Al momento sarebbero circa 200 (per almeno tre quarti facenti parte delle “cellule dormienti” esterne al carcere) gli esponenti di Daesh uccisi in cinque giorni di combattimenti. Alcune centinaia degli evasi poi sono già stati ripresi.

Quello che sta emergendo, sia dalle prove raccolte che dalle testimonianze e dagli interrogatori, è un probabile ruolo di Ankara e Damasco nell’orchestrare il grave episodio.
Equipaggiamento turco, attività siriana

Tra gli “indizi” (ma messi tutti in fila acquistano le sembianze di prove) a sostegno della tesi di un diretto coinvolgimento di Turchia e Siria: le armi – della Nato – con numeri di serie turchi trovate in mano ai terroristi dell’Isis; la registrazione di telefonate dei membri di Daesh in prigione con la Turchia; le confessioni di quelli catturati mentre cercavano di rientrare a Serêkaniyê (sotto l’ombrello turco); le carte d’identità siriane di recente emissione in mano ai miliziani jihadisti; l’incremento di attività del regime siriano nella regione…

Assalto al carcere di Sina

Jihadisti evasi dalla prigione secondo l’agenzia russa “Sputnik”.

Altri elementi, altre prove, assicurano le Fds saranno presto messi a disposizione dell’opinione pubblica. Nel giro di qualche giorno.

Pianificazione a lunga scadenza:

contrattempi…
Stando ai piani preliminari, l’attacco avrebbe dovuto svolgersi ancora in ottobre o novembre, in coincidenza con un ennesimo attacco turco nel nord e nell’est della Siria e con il previsto rafforzamento dei suoi presidi e avamposti militari nelle zone già occupate. Proprio in ottobre Erdoğan si era consultato sia con Biden che con Putin ed è plausibile pensare che non ne abbia ottenuto il tacito assenso per l’ulteriore invasione.
Un contrattempo (per Ankara e Daesh beninteso) a cui se ne aggiunse presto un altro. Quando le Fds avevano individuato e arrestato alcune “cellule dormienti” a Hesekê e Raqqa ricevendo da uno dei caporioni arrestati la confessione che il loro obiettivo era il carcere di Hesekê. Un progetto quindi apparentemente disinnescato dall’operazione delle Fds, ma in realtà solo rinviato.
… e coincidenze d’intelligence
Altra coincidenza. Con un tempismo perfetto, al momento dell’attacco jihadista al carcere, l’esercito e l’aviazione turchi attaccavano simultaneamente Zirgan, Tel Tamer (da dove avrebbero potuto intervenire agevolmente in sostegno a Daesh) e Ain Issa causando vittime tra i civili.
Questo per quanto riguarda Ankara. E Damasco?
Rimane sempre a guardare mentre il territorio della Siria viene occupato da forze straniere? In realtà prima dell’attacco jihadista si era registrata un’intensa attività militare dell’esercito siriano proprio a Hesekê. Ma soprattutto era andata intensificandosi una violenta campagna diffamatoria nel confronti dell’amministrazione autonoma (Aanes) delle Fds sui media siriani filogovernativi. Inevitabile collegare tutto ciò ai recenti incontri tra il Mit (intelligence turca) e il Mukhabarat (intelligence siriana).
Un riavvicinamento tra i rispettivi servizi (ostili e su fronti opposti per molte questioni, ma sostanzialmente concordi nei confronti del “pericolo curdo”) che li aveva visti confrontarsi alla fine di dicembre (stando almeno a quanto riportava la stampa turca) in Giordania, ad Aqaba.
Sempre basandoci su quanto scrivevano i giornali turchi, nel corso della riunione si sarebbe discusso anche di «operazioni congiunte nel Nordest della Siria» e in particolare di «un’operazione militare turca per la profondità di 35 chilometri in revisione agli accordi di Adana; la sollevazione delle tribù (in chiave anticurda, ça va sans dire, come ci aggiornano regolarmente alcuni siti rosso-bruni italici N.d.A) a Deir ez-Zor, Hesekê  e Raqqa; la liberazione dei detenuti nelle prigioni e la ricostruzione di Aleppo».
Sempre sulla stampa turca – e quindi la cosa va presa con beneficio d’inventario – si suggeriva che Mosca e Damasco apparivano interessati, favorevolmente, alle richieste turche.

Un complotto annunciato contro l’amministrazione autonoma

Minacce velate

Qualche giorno prima, il 22 dicembre 2021, c’era stata la dichiarazione congiunta dell’ultima (per ora, siamo già alla diciassettesima) riunione di Astana tra Russia, Turchia e Iran, dove si stabiliva che le parti interessate erano concordi nell’«opporsi alle attività separatiste che minacciano la sicurezza nazionale dei paesi vicini all’est dell’Eufrate». Inoltre venivano definite “illegali” (anzi, un vero e proprio “sequestro”) i redditi provenienti dal petrolio siriano. Con un evidente riferimento al fatto che i curdi, dovendo comunque sopravvivere e tenere in piedi l’amministrazione autonoma, le milizie di autodifesa e soprattutto garantire prezzi calmierati (sia del pane che del combustibile) alla popolazione, si rivendono il petrolio. Del resto perché non dovrebbero farne uso visto che sgorga su quei territori dove convivono con arabi, turcomanni, armeni e altre popolazioni? Territori, ricordo, liberati dalla presenza di Daesh soprattutto grazie al sacrificio di migliaia di curdi delle Ypg.
Per chi vuole intendere, se pur dietro un linguaggio formalmente corretto, il messaggio era chiaro.

Il complotto dei Servizi

Ora, secondo i curdi, in questa dichiarazione si intravedono i presupposti per un autentico complotto contro l’amministrazione autonoma (Aanes) e il Rojava. In caso di vittoria dell’operazione al carcere di Hesekê è probabile che la Turchia sarebbe intervenuta da Tell Tamer (da nord) mentre Damasco avrebbe attaccato da Tabqa, Raqqa e Deir ez- Zor (da sud). Così come si era probabilmente stabilito nell’incontro tra il Mit e il Mukhabarat.
Magari con la scusa di porre fine al massacro (facilmente prevedibile se Daesh non fosse stata fermata in tempo) da loro stessi promosso, previsto e forse pianificato.
Se la pronta, coraggiosa risposta delle Fds ha impedito comunque un disastro ben peggiore, rimane il dubbio che a conti fatti quanto è accaduto possa ugualmente portare acqua al mulino dei due regimi. Potrebbe infatti fornire il pretesto (non solo a Damasco e Ankara, ma anche a Mosca e Teheran) per accusare l’amministrazione autonoma di incapacità e inadeguatezza. Di essere esposta ai rigurgiti di Daesh. Prima alimentati e innescati, poi strumentalizzati come alibi per “riportare l’ordine” in Rojava.
A consolazione, va ricordato che i curdi hanno dimostrato ancora una volta di essere un osso duro. Oltre che per i cani rabbiosi di Daesh, anche per i mastini di Ankara e Damasco.
Assalto al carcere di Sina

A completamento della ingarbugliata serie di eventi intrecciati nella zona denominata Mena giunge notizia (la riporta “Mediapart”) dell’eliminazione del capo dello Stato Islamico in seguito a un raid dell’esercito americano: un’esplosione ha raso al suolo la casa di tre piani che ospitava il turkmeno Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi (alias Abdullah Kardaş, ufficiale di Saddam Hussein, ovvero Amir Mohammed Abdul Rahman al Mawli al Salbi) e parte della sua famiglia che si è fatto saltare in aria al momento dell’attacco ordinato da Biden. Abitava ad Atamah, un villaggio nei pressi di un campo profughi al confine tra Siria e Turchia, in quella provincia di Idlib, che fa da zona cuscinetto pretesa da Erdoğan al momento della sconfitta dell’Isis di al-Baghdadi e da lui controllata… un’altra coincidenza?

L'articolo L’assalto al carcere di Sina “forse” orchestrato da Ankara e Damasco proviene da OGzero.

]]>
Popoli oppressi vs cinismo tattico: quale soluzione? https://ogzero.org/il-diritto-dei-popoli-all-autodeterminazione-le-lotte-comuni/ Fri, 26 Feb 2021 12:26:50 +0000 https://ogzero.org/?p=2482 Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano […]

L'articolo Popoli oppressi vs cinismo tattico: quale soluzione? proviene da OGzero.

]]>
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Sartori pubblicato il 31 agosto 2014 dalla rivista “Etnie” (dove trovate, l’articolo in versione integrale) con il titolo “Indipendentismo e anarchismo: relazione impossibile?”. Ne riportiamo qui alcuni brani che danno un senso compiuto al concetto di autodeterminazione che ci interessa particolarmente quando riferito a popoli che lottano – al di là delle istanze religiose o nazionaliste – per la propria identità, con la volontà di liberare dal controllo dall’esterno di un territorio e delle genti che lo abitano.


Una premessa. Personalmente considero l’indipendentismo come uno degli aspetti assunti dalle lotte per i diritti e per l’autodeterminazione dei popoli. E l’indipendenza uno sbocco possibile, non un destino necessario.

Alla richiesta di analizzare la possibilità di un rapporto organico, stabile e strutturale tra anarchismo e indipendentismo di sinistra, ho sempre risposto con una buona dose di scetticismo.
Tuttavia, dato che le circostanze e le scelte mi avevano portato a solidarizzare con irlandesi, baschi, corsi, curdi e altri (in quanto vittime di una forma di oppressione, una delle tante che devastano questa “valle di lacrime”), senza mai rinnegare i miei trascorsi giovanili inequivocabilmente libertari, ho cercato di vivere dentro questa contraddizione. Per quanto mi è stato possibile, in base al principio della makhnovsina: «Con gli oppressi contro gli oppressori, sempre».
Che poi ci sia anche riuscito, questo è un altro paio di maniche.

L’apparato statale è indispensabile?

In una fase precedente, evidentemente in preda all’ecumenismo, mi ero spinto oltre, scrivendo che «lottare per il superamento della forma-stato a favore dell’autorganizzazione totale delle classi subalterne deriva da una concezione del mondo non dissimile da quella di chi teorizza il superamento dello stato-nazione per l’autorganizzazione della comunità popolare» 1). E mi salvavo l’anima aggiungendo un indispensabile “Forse”. Del resto le “nazioni senza stato” che hanno saputo sopravvivere, conservare tradizioni e linguaggi, combattere l’oppressione e lo sfruttamento e talvolta anche difendere la propria terra dal degrado, non dimostrano, magari senza volerlo, che l’apparato statale non è poi così indispensabile?
Penso quindi che tra libertari e indipendentisti di sinistra (“nazionalisti”? “nazionalitari”? “abertzale”?) ci si possa comunque sopportare, si possa convivere. E talvolta, di fronte al comune nemico del momento, solidarizzare, lottare insieme 2).

Lotte comuni e condivisione

La Storia infatti ha registrato lotte comuni contro capitalismo, fascismo e imperialismo, contro il nucleare e in difesa dell’ambiente, dei diritti umani e dei prigionieri…. Oltre naturalmente alla condivisione di repressione, galera, esilio. Non sono poi mancate reciproche contaminazioni, biografie familiari e personali che si sovrappongono, osmosi tra gruppi libertari e indipendentisti di sinistra.

[…]

Popoli manovrati

Ma negli ultimi anni lo scenario sembra essersi ulteriormente complicato. Non tanto per la possibilità, comunque scarse, di coniugare in maniera duratura le istanze libertarie con quelle indipendentiste. E nemmeno perché questi “nazionalisti” siano cambiati in peggio. Da parte mia mantengo un profondo rispetto per tutti quei militanti baschi, catalani, irlandesi o curdi (da Bobby Sands al Txiki) che hanno perso la vita cercando di coniugare liberazione nazionale e sociale.

Quello che è cambiato, sicuramente in peggio, è l’accresciuta capacità del sistema tecno-industriale-militare dominante (il “caro”, vecchio imperialismo, fase suprema eccetera eccetera) di strumentalizzare i movimenti di liberazione. Anche questo un “effetto collaterale” della globalizzazione? L’autodeterminazione rischia davvero di ridursi, come avvertiva il sociologo catalano Manuel Castells, a una variabile che si usa o si getta a seconda del caso?
Una questione che ovviamente non riguarda soltanto gli anarchici, ma tutta quella sinistra antagonista, non omologata e non addomesticata che ancora si confronta con il diritto dei popoli all’autodeterminazione.
Certo, per i colonizzatori il divide et impera non è una novità. Viene praticato con successo almeno dai tempi di Giulio Cesare.
Le milizie curde alleate della Turchia che (come ha riconosciuto il Parlamento curdo in esilio) parteciparono al massacro degli armeni durante il genocidio del 1915 possono aver fornito un protocollo per l’utilizzo da parte della Francia, e in seguito degli Usa, di alcune minoranze indocinesi contro la resistenza vietnamita. In Irlanda del Nord era il proletariato protestante, maggiormente garantito, a condurre la “guerra sporca” (omicidi settari, spesso indiscriminati) contro gli abitanti dei ghetti cattolici. Da sottolineare che entrambi, indigeni irlandesi e coloni scozzesi, erano di origine celtica (non germanica, come gli inglesi, angli e sassoni). Un elemento in più per sottolineare l’artificiosità e la strumentalità, a tutto vantaggio dell’imperialismo di Londra, della divisione in due comunità reciprocamente ostili.
Putin ha potuto “pacificare” la Cecenia con il ferro e con il fuoco, utilizzando anche bande di ex guerriglieri indipendentisti divenuti collaborazionisti. Sul piano religioso, sciiti e sunniti, a fasi alterne, vengono strumentalizzati in Medio Oriente. Lo stesso avviene con le popolazioni minorizzate – curdi, beluci, turcomanni – alimentando e armando le loro aspirazioni a una maggiore autonomia o all’indipendenza.

Contraddizioni e guerre tra poveri

Per conto di chi agivano i miliziani sciiti di Amal (“Speranza”) che nel 1986 assediavano i campi palestinesi, ormai indifesi e ridotti alla fame dopo l’allontanamento dell’Olp dal Libano? E in base a quali calcoli gli Stati Uniti hanno integrato nell’esercito e nella polizia irachena formazioni come il gruppo Sciri e al-Da’wa, notoriamente filoiraniani? Contraddizione nella contraddizione: contemporaneamente gli Usa avrebbero utilizzato in funzione anti-Teheran gruppi di indipendentisti beluci (sunniti) legati ad al-Qaeda. Chi, se non i servizi segreti turchi, può aver organizzato nel 2007 gli assalti – ufficialmente opera di rom – contro le baracche dei profughi curdi a Istanbul?
Anche le “guerre tra poveri” che hanno insanguinato il subcontinente indiano danno l’impressione di essere state in parte manovrate. Nel 2007 alcuni gravi attentati compiuti in occasione di feste nazionali e anniversari dell’India, vennero inizialmente attribuiti ai gruppi islamici. Successivamente emerse la pista dei separatisti del nord-est (bodo, naga…). Nel secolo scorso lo scontro era stato particolarmente duro nell’Assam, dove la maggioranza della popolazione è induista. Dal 1989 al 1996 la guerriglia dei bodo (in maggioranza cristiani) avrebbe causato la morte di migliaia di persone. Nel dicembre 1996 un attentato al Brahamaputra Express, mentre attraversava l’Assam, provocò più di trecento morti. Ancora prima delle rivendicazioni, l’atto terroristico venne attribuito ai bodo che due giorni prima avevano fatto saltare un ponte ferroviario.

Strategia della tensione mascherata da lotta per l’autodeterminazione?

Molto probabilmente in alto loco qualcuno pensa che è “sempre meglio che si ammazzino tra di loro”, purché il controllo del territorio e delle risorse rimanga saldamente nelle mani di chi detiene il potere. Si tratti di un esercito di occupazione, di una multinazionale o di criminalità organizzata come nei pogrom di Ponticelli. E naturalmente anche l’oppresso, il diseredato di turno ci metterà “del suo”.
Un caso limite, a mio avviso, quello dei karen, in perenne fuga tra Birmania e Thailandia e che da qualche tempo verrebbero sostenuti da gruppi neofascisti europei.
Ormai la strumentalizzazione dei movimenti di liberazione nazionale e di quelli autonomistici non è più appannaggio esclusivo dei servizi segreti. Le varie potenze planetarie operano alla luce del sole decretando la legittimità o meno delle rivendicazioni. Non a caso Manuel Castells ha parlato di «indipendenze a geometria variabile», denunciando come la comunità internazionale si dichiari favorevole all’autodeterminazione di un popolo o difenda l’integrità di un paese «a seconda di chi, del come e del quando». Ricordava che osseti e abkhazi si erano ribellati contro la Georgia nello stesso periodo in cui i ceceni si sollevavano contro la Russia. Inizialmente gli Usa appoggiarono l’insurrezione cecena, ma tollerarono facilmente la repressione da parte della Georgia. Analogamente nel caso del Kosovo (dove è stata poi costruita un’immensa base statunitense) si è invocato il diritto all’autodeterminazione, mentre per il Tibet non si va oltre qualche protesta simbolica. Quanto agli uiguri, sembra quasi che non esistano come popolo.

Il cinismo tattico caso per caso

«Le posizioni sul diritto all’autodeterminazione – ha scritto il sociologo catalano – sono frutto di un cinismo tattico» e l’indipendentismo sarebbe divenuto uno «strumento geopolitico fondamentale in un mondo globalizzato e interdipendente». Gli esempi si sprecano. Pensiamo al diverso trattamento riservato ai curdi in Iraq, già praticamente autonomi (e alleati degli Usa a cui hanno consentito di installare alcune basi militari), mentre quelli della Turchia continuavano a essere bombardati, imprigionati e torturati da Ankara, grande alleato degli Stati Uniti. Cui prodest? Non certo alla nazione curda nel suo insieme. Nel 2010, dopo una serie di impiccagioni di militanti curdi che l’opinione pubblica mondiale aveva completamente ignorato, i curdi dell’Iran (Partito per una vita libera in Kurdistan, Pjak, considerato il ramo iraniano del Pkk attivo in Turchia) sembravano essersi rassegnati a collaborare anche con il Mossad (lo aveva rivelato “Le Monde”, ma poi la situazione sembra essere cambiata).
Nel caso di Timor Est, la popolazione subì per anni un vero e proprio genocidio nell’indifferenza dell’opinione pubblica. Tra le poche eccezioni, negli anni Settanta, Noam Chomski e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip). Solo di fronte al rischio concreto di una dissoluzione dell’Indonesia intervennero le forze internazionali, ripescando l’ex guerrigliero Gusmão, leader del Frente revolucionària de Timor-Leste independente (Fretilin) per farne il presidente. Pare che inizialmente non ne fosse particolarmente entusiasta, dato che aspirava a ritirarsi dalla vita politica e darsi all’agricoltura. Paradossale che per garantire l’indipendenza di Timor Est venissero impiegati anche soldati inglesi provenienti dalle caserme di Belfast.
E a proposito di Belfast, due situazioni molto simili come l’Irlanda del Nord e il Paese basco negli ultimi anni sembravano aver imboccato strade antitetiche. Soluzione politica, abbandono della lotta armata da parte di Ira, Inla e delle principali milizie lealiste, liberazione dei prigionieri politici e cogestione del governo locale a Belfast e Derry.

Repressione, ancora casi di tortura, tregue effimere, illegalizzazione di partiti (Herri Batasuna, Batasuna, Bildu, Sortu…), associazioni ( Jarrai, Haika, Segi, Gestoras pro Amnistia, Askatasuna…) e giornali (“Egin”, “Egunkaria”) a Bilbo, Donosti e Gasteiz. Solo nel 2012, con la definitiva rinuncia alle armi di Eta e la possibilità per la “sinistra abertzale” di partecipare alle elezioni (con Sortu), si è riaperta la possibilità di una soluzione politica del conflitto. Ma al momento Arnaldo Otegi e altri esponenti indipendentisti rimangono ancora in galera (come se durante le trattative Blair avesse fatto arrestare Gerry Adams) e per i prigionieri politici baschi, in particolare per gli etarras, la situazione rimane molto difficile 3).
La mia ipotesi è che negli anni Novanta il «grande laboratorio a cielo aperto per la controinsurrezione» dell’Irlanda del Nord dovesse chiudere in vista della partecipazione britannica alle guerre in Afghanistan-Iraq e del ruolo fondamentale assunto da Londra. Meno convincente la tesi della conversione di Blair al cattolicesimo, anche se non si può mai dire. Quanto agli Usa, Clinton avrebbe agito per conservare il voto dei cittadini statunitensi di origine irlandese che solitamente votano per i Democratici.

L’ombra dei poteri globali

È ipotizzabile che in Irlanda del Nord la stessa Cia abbia dato una mano per togliere di mezzo qualche capo delle milizie lealiste (filobritanniche) che non aveva compreso la nuova situazione. Ipotesi formulata anche dal compianto Stefano Chiarini. Al contrario, già negli anni Novanta Washington inviava agenti della Cia nel Paese basco per coadiuvare l’apparato repressivo.
Il problema di “quale autodeterminazione” si pone soprattutto nel caso di stati nati dalla colonizzazione, dato che le loro frontiere sono state stabilite in base a trattati europei con cui si decideva arbitrariamente il destino delle popolazioni. I poteri globali reali (economici, militari, tecnologici) stabiliscono caso per caso, di volta in volta, se appoggiare una lotta di liberazione, legittimarne la repressione o anche inventarne una di sana pianta. Al limite della farsa l’episodio che ha visto un gruppo di aspiranti golpisti (quasi tutti membri di una loggia massonica) arruolare mercenari per sobillare la rivolta secessionista nel Cabinda, regione angolana ricca di petrolio. Episodio da segnalare per l’uso spregiudicato di due onlus (Freedom for Cabinda e Freedom for Cabinda Confederation) create appositamente per ricevere donazioni.

Alcuni casi esemplari, storici, di separatismo a puro uso e consumo di qualche potenza coloniale (come il Katanga di Tshombe nell’ex Congo belga) potrebbero tornare di attualità. Per esempio in Bolivia con Santa Cruz, capoluogo di una regione ricca, abitata prevalentemente da discendenti dei colonizzatori, che ha spinto per l’indipendenza. Chissà? Forse Evo Morales (il presidente boliviano esponente del Ma, Movimento al socialismo) ha rischiato davvero di finire come Lumumba, il presidente progressista del Congo, assassinato nel 1961 dagli sgherri di Tshombe al servizio dell’imperialismo belga.
E forse non è un caso che nel 2008, dopo anni di impegno a fianco dei popoli oppressi, la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli (Lidlip), riconosciuta dall’Onu e dall’Unesco, abbia definitivamente sospeso le sue attività. Fondata da Lelio Basso, la Lidlip è stata per trent’anni portavoce delle minoranze, delle popolazioni perseguitate, dei movimenti di liberazione dal colonialismo.

 

NOTE

1) Gianni Sartori, Catalogna – Storia di una nazione senza stato, ed. Scantabauchi, 2007.
2) Ovviamente mi riferisco all’indipendenza come sbocco di una lotta di liberazione, dall’oppressione coloniale classica, “da manuale”. Come nel caso di Algeria, Guinea Bissau, Mozambico, Angola, Irlanda… o dal “colonialismo interno” come potrebbe essere per i Paesi baschi, il Tibet e la Cecenia. A mio avviso si può legittimamente parlare di movimenti di liberazione quando la lotta è anche contro il sistema economico responsabile dell’oppressione (capitalismo, neoliberismo, capitalismo di stato…). Escludendo, per quanto mi riguarda, dall’interessante dibattito partiti come l’Adsav bretone, la Lega Nord o alcuni indipendentisti fiamminghi nostalgici del nazismo.
3) Ma l’auspicata soluzione politica del conflitto è tornata nuovamente al palo dopo la retata del 1° ottobre 2013 contro 18 esponenti di Herrira (tra cui il portavoce Benat Zarrabeitia). Il giudice Eloy Velasco ha accusato l’associazione basca per i diritti umani dei prigionieri politici di essere “un tentacolo di Eta” in quanto avrebbe organizzato manifestazioni di “esaltazione” dei prigionieri baschi.

L'articolo Popoli oppressi vs cinismo tattico: quale soluzione? proviene da OGzero.

]]>
Il dramma dimenticato degli hazara in Pakistan https://ogzero.org/gli-hazara-di-quetta/ Thu, 11 Feb 2021 17:27:11 +0000 http://ogzero.org/?p=2405 Emozioni elitarie ad alta quota Vuoi per “provocazione amichevole”, vuoi per sapere cosa ne penso (in riferimento al polverone sollevato l’anno scorso dal mio articolo sulla relazione tra alpinismo e colonialismo), qualche compagno ha voluto scomodarsi per aggiornarmi su alcune recenti “imprese” alpinistiche extraeuropee. Vedi sul K2 destinato – azzardo – a diventare la nuova, […]

L'articolo Il dramma dimenticato degli hazara in Pakistan proviene da OGzero.

]]>
Emozioni elitarie ad alta quota

Vuoi per “provocazione amichevole”, vuoi per sapere cosa ne penso (in riferimento al polverone sollevato l’anno scorso dal mio articolo sulla relazione tra alpinismo e colonialismo), qualche compagno ha voluto scomodarsi per aggiornarmi su alcune recenti “imprese” alpinistiche extraeuropee. Vedi sul K2 destinato – azzardo – a diventare la nuova, costosa meta di prestigio per ricchi turisti in cerca di emozioni elitarie (e presumibilmente a trasformarsi nella seconda grande discarica d’alta quota, dopo l’ormai inflazionato Everest).

Cos’altro posso dire che non abbia già detto?  Forse soltanto: “A volte ritornano” (crisi d’astinenza o coazione a ripetere?).

Peccato comunque per i leopardi delle nevi che nel corso del 2020 – come sostenevano alcuni naturalisti – si stavano  riappropriando dei legittimi spazi e territori. Grazie alla consistente rarefazione di turisti-alpinisti (effetto collaterale – benigno – del Covid-19).

Peccato, ripeto. Resta sempre il problema di come si possa fare serenamente del turismo – se pure d’alta quota – in un paese che opprime e reprime donne, diseredati e minoranze.

In precedenza mi ero occupato dei beluci. Non sono gli unici naturalmente.

Una premessa di carattere generale: tutto il mondo è paese

Inoltrandosi nel complicato “groviglio” orientale può capitare, per quanto in buonafede, di trascurare alcune “minoranze” (termine riduttivo, in realtà si dovrebbe parlare di “popoli minorizzati”, in genere forzatamente).

Popolazioni che talvolta emergono dall’anonimato in cui le vorrebbe segregate qualche potenza regionale (magari cambiando denominazione: vedi l’epiteto di “turchi di montagna” usato per i curdi del Bakur) soltanto per qualche rivolta disperata a cui segue – fatalmente – un’impietosa repressione. Oppure quando qualche potenza concorrenziale cerca di utilizzarli per scopi non certo disinteressati.

O ancora, sempre pensando ai curdi (ma stavolta del Bashur), ripercorrendo quanto avvenne 30 anni fa con la prima guerra del Golfo, quando le rivolte curda (a nord) e sciita (a sud) stavano per abbattere autonomamente – sia pure come effetto collaterale dell’attacco statunitense – il regime (e non solo l’ormai impresentabile Saddam, alleato storico dell’Occidente). Temendo che la situazione sfuggisse loro di mano, gli Usa preferirono liberare e riarmare – con elicotteri e carri armati in parte di produzione italica – i soldati iracheni già sconfitti e catturati. Consentendo loro di scatenare l’ennesima, sanguinosa repressione. Fatte le debite proporzioni, ricordava quanto avvenne in Francia all’epoca della Commune. Quando i prussiani – temendo il “contagio” della grandiosa sollevazione popolare – ugualmente liberarono e riarmarono i soldati francesi. Per consentirgli di “ristabilire l’ordine a Parigi” massacrando i comunardi.

Gli hazara del Pakistan, minoranza nativa sciita

Messi da parte contrasti e inimicizie, alla fine – quasi sempre – i potenti trovano un accordo. Perlomeno quando si tratta di conservare il controllo, la sottomissione di classi subalterne, minoranze indocili e popoli ribelli.

Ma non tutti i popoli, purtroppo, approdano in maniera significativa alle pagine dei giornali o del web.

È questo – mi pare – il caso degli hazara insediati nella regione pachistana del Belucistan (la maggior parte, circa 500.000, a Quetta). Da considerare ormai alla stregua di “minoranza nativa” in quanto discendono da coloro che qui emigrarono dall’Afghanistan più di un secolo fa.

Di religione sciita, periodicamente sono sottoposti a uccisioni mirate, rapimenti e massacri.

Una mappa dei gruppi etnolinguistici dell’area, tratta da “La Grande Illusione”, a cura di Emanuele Giordana, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019

E non da ora. Risalendo indietro nel tempo, vediamo che tra il 2001 e il 2011 almeno 600 hazara avevano perso la vita in attacchi settari. Solo nei primi tre mesi del 2012 altri 30.

All’epoca la maggior parte degli attentati vennero rivendicati dai fondamentalisti sunniti di Lashkar-e-Jhangvi Al-Alami, braccio armato del Sipah Sahaba Pakistan (Ssp), entrambi – presumibilmente – manipolati dai servizi segreti pachistani.

Dopo essere state dichiarate illegali, le due organizzazioni si ricostituirono come Millat Islamia Pakistan e Ahl-e-Sunnat Wal Jamat.

Quetta, attivisti di Ahle Sunnat Wal Jamat (ASWJ, fondamentalisti sunniti) cantano slogan contro la dissacrazione del Corano durante una protesta nel dicembre 2013 (foto Arsalan Naseer/PPI Images).

La ribellione senza velleità separatiste

Da parte loro, gli hazara rispondevano solo politicamente, con scioperi e proteste. E, particolare non irrilevante, senza particolari velleità separatiste (anche per non fornire alibi alla repressione governativa).

La manifestazione del 21 settembre 2011 – indetta per protestare contro una strage di pellegrini sciiti che viaggiavano in autobus – era entrata nella storia per la grande partecipazione popolare.

Ma solo dopo pochi giorni, il 4 ottobre 2011, la violenza settaria colpiva un altro autobus e diversi hazara – operai che andavano al lavoro – perdevano la vita.

Con le stesse modalità il 29 marzo 2012 venivano ammazzati otto hazara, mentre il 6 aprile altri sei venivano trucidati in una bottega artigianale. Nei primi mesi del 2013 si parlava addirittura di quasi 200 hazara morti in attentati settari.

In precedenza, nel 2010, era stato assassinato Hussein Ali Youssafi, presidente del Partito democratico hazara (fondato nel 2003). A lui subentrava Abdul Khaliq Hazara che – quando si recò a Islamabad per denunciare la situazione in cui versava il suo popolo – si sentì chiedere di sospendere le manifestazioni di protesta.

L’ingerenza saudita

Per la cronaca, circa nello stesso periodo i fondamentalisti sunniti tornavano a colpire anche gli hazara dell’Afghanistan (oltre due milioni), accusandoli – ovviamente – di essere “infedeli”. Venne poi accertato che alcuni degli attentati più devastanti erano opera non dei talebani afgani, ma di miliziani provenienti dal Pakistan legati a Lashkar-e-Jhangvi Al-Alami.

Intanto continuava lo stillicidio di omicidi settari e vere e proprie stragi nelle strade di Quetta (e alcuni osservatori vi intravedono ingerenze, infiltrazioni e finanziamenti sauditi).

A Quetta (2,3 milioni di abitanti) vivono sia pasthun che beluci e aimak, ma è fuori discussione che – almeno in percentuale – il maggior numero di vittime sono hazara.

Non solo. Per anni questa “comunità sotto controllo” è vissuta praticamente confinata, segregata in enclave circondate da posti di blocco (tipo Irlanda del Nord). In teoria potrebbero circolare liberamente per la città, ma a proprio rischio e pericolo.

Gli hazara di Quetta

E la comunità internazionale?

Quanto alla comunità internazionale – Usa e Unione europea in particolare – non sembra aver mai mostrato particolare interesse per le vicende di tale minoranza che in quanto sciiti venivano – e vengono – considerati potenziali alleati di Teheran. Così come, coincidenza o analogia, all’epoca nessuno mostrò particolare interesse per la “primavera” sciita nel Barhein (repressa con l’intervento di Arabia Saudita e Qatar e il tacito assenso dell’Occidente).

E invece l’Iran «non ci aiuta, cerca piuttosto di infiltrarci e controllarci tramite la religione».

O almeno così sosteneva, ritengo a ragion veduta, in una conferenza stampa Khaliq Hazara.

Comunque, proseguiva «grazie ai finanziamenti di Teheran, gruppi filoiraniani come Tehreik-e-NifazFiqa-e-Jafria avevano aperto a Quetta dozzine di scuole coraniche, ma noi siamo laici e lottiamo per la giustizia sociale, la democrazia, il rispetto della vita umana e la tolleranza».

Ricordando che «i due milioni di hazara (in gran parte rifugiati dall’Afghanistan N. d. A.) che vivono in Iran sono trattati come cittadini di serie C». In qualche modo ostaggi dei conflitti di influenza tra l’Iran sciita e l’Arabia saudita sunnita (e non si può escludere che talvolta i responsabili vadano individuati tra i beluci sunniti).

Le violenze continuano anche in Afghanistan

Ai nostri giorni le violenze ai danni degli sciiti hazara, delle loro scuole e luoghi di culto proseguono inesorabili.

Per esempio, nel settembre dell’anno scorso, un attentato suicida (rivendicato da Wahhabi Daesh e da Lashkar-e- Jhangvi) ha causato più di venti morti e oltre cinquanta feriti in un mercato.

Quest’anno, il 3 gennaio, 11 membri della comunità hazara sono stati prima sequestrati e poi assassinati dall’Isis nella città di Machh. Si trattava di minatori qui emigrati – spinti dalla miseria – da Daikondi (Afghanistan).

Le famiglie delle vittime avevano espresso la loro rabbia manifestando nelle strade contro il governo (definito “complice”). Addirittura si rifiutavano di seppellire i morti come forma di protesta per la mancata protezione.

Anche se poi, come hanno dichiarato alcuni familiari: «alla fine dovremo seppellirli e non avremo altra scelta che chiedere ai nostri parenti in Afghanistan e all’estero di aiutarci a pagare». Una ulteriore umiliazione per chi versa in condizioni di estrema povertà. Peraltro da entrambe le parti della Durand Line.

E non sono certo bastate a placare gli animi le pubbliche dichiarazioni – di circostanza – venute da vari esponenti dell’apparato politico-militare al potere. Comprese quelle del primo ministro Imran Khan che in varie occasioni ha espresso solidarietà alle vittime.

Nessuna risposta, nessuna protesta

Amnesty International ha condannato con forza le molteplici violazioni dei diritti umani subite dagli hazara. In particolare ha chiesto che «il capo di Stato maggiore dell’esercito venga a Quetta per vedere di persona la miseria e le difficoltà del popolo hazara».

Senza – almeno per ora – ricevere risposta.Tutto questo, ripeto, nel paese che un sempre maggior numero di scanzonati turisti benestanti d’alta quota (il cui livello di consapevolezza sociale e ambientale lascia quantomeno a desiderare) ha individuato come “parco giochi spettacolare”. Invece di boicottarlo come ai vecchi tempi si faceva con il Sudafrica dell’apartheid.

L'articolo Il dramma dimenticato degli hazara in Pakistan proviene da OGzero.

]]>
La sfida dei curdi è una sfida per l’umanità https://ogzero.org/la-sfida-anarchica-del-rojava/ Mon, 14 Dec 2020 22:17:21 +0000 http://ogzero.org/?p=2071 Prendiamola larga. Riguardo all’annoso dilemma se sia nato prima l’uovo o la gallina, dopo accurate ricerche storico-paleontologiche, propendo decisamente per l’uovo. L’uovo, naturalmente, di qualche piccolo dinosauro ricoperto di piume e penne che – gradualmente o con un improvviso “salto evolutivo” – produsse quello da cui nacque l’antenato ancestrale della gallina. Ovviamente si può dissentire. […]

L'articolo La sfida dei curdi è una sfida per l’umanità proviene da OGzero.

]]>
Prendiamola larga. Riguardo all’annoso dilemma se sia nato prima l’uovo o la gallina, dopo accurate ricerche storico-paleontologiche, propendo decisamente per l’uovo. L’uovo, naturalmente, di qualche piccolo dinosauro ricoperto di piume e penne che – gradualmente o con un improvviso “salto evolutivo” – produsse quello da cui nacque l’antenato ancestrale della gallina. Ovviamente si può dissentire.

Parimenti, sull’altra sofferta questione se sia nato prima il capitalismo o lo sfruttamento, le gerarchie sociali… propendo – come mi pare sostenga anche Öcalan – per assegnare la primogenitura alla gerarchia, al potere.

Ma – così come le galline disseminano di uova il pollaio e le immediate vicinanze – così il capitalismo ha diffuso a pioggia l’oppressione nelle sue svariate e molteplici forme.

Esiste tuttavia qualche differenza sostanziale. Personalmente (in quanto vegetariano, ma non solo) non appenderei mai una gallina al lampione.

10-100-1000… Rojava?

Il Rojava, un enigma sospeso tra mille buone ragioni e qualche “effetto collaterale” magari indesiderato.

Tra la guerra e l’autogestione, la resistenza e l’ecologia, il rifiuto delle gerarchie e la necessità dell’autodifesa, la rivoluzione delle donne e le milizie in armi…

Un “groviglio” non indifferente.

Per capirci qualcosa di più, abbiamo consultato la mappa realizzata da Norma Santi e Salvo Vaccaro. Un paziente lavoro di documentazione dell’avventuroso, audace esperimento sociale intrapreso dai curdi e dagli altri popoli presenti nella regione considerata, il Rojava. Un testo che analizza – criticamente – soprattutto il versante libertario, la componente “anarchica” (in senso lato).

In La sfida anarchica nel Rojava (pubblicato da “La Biblioteca Franco Serantini”), risulta particolarmente stimolante e chiarificatore  – oltre a quelli di Salvo Vaccaro, Norma Santi e Debbie Bookchin – l’intervento di Raul Zibechi. Essenziale, direi.

Acutamente, risolve una – solo apparente – contraddizione. Ossia, il fatto che tali accadimenti («…il popolo in armi, il ruolo di spicco delle donne, l’autogoverno…») sembrano attendere, per manifestarsi adeguatamente, i tempi duri, le condizioni difficili, se non addirittura disperate («…durante una guerra, in una situazione estremamente critica per la sopravvivenza»). Come avvenne del resto in Ucraina nel 1921 e in Catalunya nel 1936.

Dopo una breve ricostruzione storica delle essenziali vicende (accordi segreti Sykes-Picot del 1916, Dichiarazione Balfour, Trattato di Sèvres del 1920, Trattato di Losanna del 1923, Trattato di Residenza Forzata imposto dalla Turchia nel 1930, le numerose – una trentina – rivolte tra il 1920 e il 1940, l’insurrezione di Dersim nel 1938, la repressione turca degli anni Ottanta e Novanta…), lo scrittore uruguayano spiega come proprio dalla sostanziale evaporazione delle strutture  statali nel Nord della Siria (2011) sgorgasse sia la necessità che la possibilità di formare le Unità di Protezione del Popolo (Ypg) e le Unità di Difesa delle Donne (Ypj), le milizie che l’anno dopo avrebbero liberato Kobane e altre città consentendo al Pyd (Partito dell’Unione Democratica) e al Knc (Consiglio Nazionale Curdo) di amministrare in base ai principi del Confederalismo democratico (ossia del municipalismo libertario). E in seguito – nel gennaio 2013 – ai cantoni di Jazira, Efrin e Kobane di proclamare la loro autonomia. Tra le macerie della guerra civile, i curdi avevano cercato e individuato la «loro strada attraverso l’autogoverno». Un esempio di possibile convivenza pacifica tra curdi, arabi, aramaici, armeni, turcomanni, ceceni…

Zibechi sembra poi voler polemizzare – se pur garbatamente – con l’inveterata abitudine di attribuire sempre e comunque «l’adozione del Confederalismo democratico alla prigionia di Abdullah Öcalan e all’influenza del pensatore  e militante statunitense Murray Bookchin». In fin dei conti, sostiene, «si tratta di una visione colonialista». Invece «la popolazione curda, come gli indigeni latinoamericani, si costituisce attorno a comunità contadine che determinano la loro  identità e la loro cultura». E la proposta del Confederalismo democratico sarebbe quindi «ancorata al recupero delle tradizioni della Mesopotamia». Quelle che altrove definisce «tradizioni libertarie del popolo curdo».

E proprio il nuovo orientamento del Pkk, precedente alla carcerazione di Apo, costituì un elemento che doveva scatenare la «reazione furibonda  degli Stati Uniti e dei loro alleati che decisero di definirlo terrorista e di perseguire il suo dirigente Abdullah Öcalan». I fatti successivi sono tristemente noti. Espulso dalla Siria, poi anche dalla Russia, dopo un breve soggiorno in Italia (pare che in un primo momento D’Alema avesse garantito a Bertinotti l’asilo politico per il leader curdo perseguitato), Öcalan venne catturato – in un’operazione attribuita alla Cia e al Mossad – mentre dall’ambasciata greca in Kenya si recava in Sudafrica (su invito di Nelson Mandela).

Per Zibechi il Pkk costituirebbe un serio problema per l’imperialismo in quanto «ora possiede una proposta  per tutti i popoli del Medio Oriente». Esprimendo le note “quattro critiche”  allo stato-nazione (in sintesi: qualsiasi stato si fonda sul dominio di una classe, presuppone il dominio di un gruppo etnico o religioso sopra gli altri, tutti gli stati si appoggiano sul patriarcato, lo stato ha necessità di una economia produttivistica che porta alla distruzione della madre Terra).

Per cui «non si può farla finita con il capitalismo senza eliminare lo stato e non possiamo liberarci dello stato senza liberarci del patriarcato».

Di passaggio l’autore rimprovera ai partiti della sinistra turca, anche a quelli della sinistra rivoluzionaria, l’evidente inadeguatezza di fronte alla questione curda. A tale riguardo andrebbe evidenziato come invece, proprio le esperienze di resistenza e autogoverno dei curdi sia in Rojava che – per quanto umanamente possibile – in Bakur, abbiano risvegliato – “ringiovanito” – la sinistra turca, rimasta parzialmente “tetanizzata” dopo il golpe del 1980*.

Contributi statunitensi

Tra i vari contributi, numerosi  – prevalenti direi – quelli di autori statunitensi (Debbie Bookchin, Paul Z. Simons, Janeth Biehl, Marcel Cartier*, David Graeber, il sito itsgoingdown).

Non è detto (pensando alla storia della sinistra d’oltreoceano) che siano sempre i più indicati per comprendere tali dinamiche.

È possibile infatti che La Commune, Kronstadt, la Maknovicina, le collettivizzazioni in Catalunya e Aragona del 1936-1937… (fonte di ispirazione, se non addirittura propedeutiche, per quella analoga del Rojava) siano esperienze riconducibili alla tormentata, secolare storia delle classi subalterne europee**. Per qualche autore, niente di più e niente di meno che la «prosecuzione con altri mezzi» delle jacqueries del 1300, delle guerre contadine e delle insorgenze ereticali. Non certo al «turbinio di cattivo acido, al mandarino, di amore libero e della famiglia Manson» che – come doveva ammettere il compianto Paul Z. Simon – contraddistinse le “comuni” nordamericane.

Murray Bookchin: ripensare l’etica, la natura e la società 

Senza fare però di ogni erba un fascio e sottolineando che comunque ci sono nordamericani e nordamericani.

Significativo e importante conoscere – attraverso la testimonianza della figlia – l’origine del rapporto tra il pensatore anarchico – statunitense, ma di origine russa – Murray Bookchin (che molti di noi ricordano, basco in testa, a Venezia nel 1984) e Öcalan.

Racconta la giornalista Debbie Bookchin, esponente dell’Institute for Social Ecology, di quando Murray le rivelò – in modo casuale e disinvolto – che «apparentemente i curdi hanno letto il mio lavoro e stanno cercando di mettere in pratica le mie idee». Un corpo di idee che il filosofo e storico aveva denominato «ecologia sociale». In quei giorni (aprile 2004) Bookchin padre aveva ricevuto una lettera da un intermediario (un traduttore tedesco, Reimar Heider) che scriveva a nome del militante curdo imprigionato a Imrali.

Comprensibile un certo iniziale stupore, visto e considerato che fino ad allora nulla dell’ideologia del fondatore del Pkk «sembrava in alcun modo assomigliare a quella di mio padre». Invece, come spiegò Heider, «Öcalan stava leggendo le traduzioni turche dei libri di mio padre in carcere e si considerava un suo bravo studente»***. Libri che Öcalan aveva potuto ottenere in carcere in quanto necessari alla preparazione di una strategia legale per la propria difesa durante il processo per tradimento. Individuando nella formazione e sviluppo dello stato-nazione (a partire dalle prime espressioni conosciute in Mesopotamia, in contemporanea con la nascita dell’agricoltura, dell’allevamento, della schiavitù, dell’oppressione delle donne…) le origini storiche del conflitto turco-curdo ed elaborando una soluzione democratica per ristabilire un rapporto di reciproco rispetto e di convivenza. Non solo tra curdi e turchi, ma fra tutti i popoli del Medio Oriente.

Il cammino intrapreso dal Pkk (fino ad approdare – nel 1998 – al Confederalismo democratico) era iniziato nei primi anni Novanta (quindi prima della cattura di Öcalan) in coincidenza con la caduta del socialismo reale. Una nuova strategia che rifletteva – tra l’altro – i cambiamenti demografici avvenuti nella società curda. Dei tredici milioni di abitanti di Istanbul, ricorda la giornalista «sei milioni sono curdi» e altri quattro milioni sarebbero i curdi emigrati in Europa. Al punto che ormai, secondo Debbie Bookchin «la maggior parte dei curdi non vive in Kurdistan». Ne consegue pertanto che «la lotta principale non  è più nazionale, ma sociale».

In qualche modo “più attraente” anche per tutti quei soggetti oppressi e sfruttati, umiliati e offesi che – senza esser curdi – subiscono comunque il tallone di ferro dell’imperialismo e dei vari regimi.

Purtroppo le circostanze sfavorevoli non consentirono un incontro di persona tra i due. Bookchin era già anziano e con problemi di salute, Öcalan in carcere, spesso sottoposto a lunghi periodi di isolamento. Per cui i loro contatti si limitarono a uno scambio epistolare. Nell’ultima lettera aveva scritto: «La mia speranza è che il popolo curdo possa un giorno essere in grado di creare una società libera e razionale che permetta al loro splendore ancora una volta di prosperare. Hanno la fortuna di avere un leader del talento di Öcalan per guidarli».

Alla morte di Bookchin (30 luglio 2006), il Pkk lo volle ricordare con una dichiarazione – presumibilmente dettata dallo stesso Öcalan – di due pagine in cui lo definiva «uno dei più grandi scienziati sociali del ventesimo secolo».

E aggiungeva: «Ci ha introdotti al pensiero dell’ecologia sociale, e per questo verrà ricordato con gratitudine dall’umanità. […]  Ci impegniamo a far vivere Bookchin nella nostra lotta. Metteremo questa promessa in pratica come la prima società che stabilisce un tangibile Confederalismo democratico».

Altrettanto meritevoli di attenzione altri contributi internazionali e internazionalisti: latino-americani (l’uruguayano Raul Zibechi, già nominato), turchi (l’intervista a Devrimci Anarsiste Faaliyet) italiani (Norma Santi, Salvo Vaccaro, Eleonora Corace), curdi (Dilar Dirik, Hawzhin Azeer – citata in “Rivoluzionari o pedine dell’Impero?”), tedeschi e – presumibilmente – francesi (G.D. & T.L.).

Per la rivoluzione, non per il martirio e nemmeno per farsi pubblicità

Esaurienti e significative le interviste a chi materialmente “si è sporcato le mani”, i militanti integrati nelle Ypg, Ypj e Irpgf.

In Non per il martirio (a cura di CrimethInc), oltre a spiegare le diverse motivazioni che possono aver spinto giovani turchi, europei, statunitensi a combattere con i curdi, non si lesina qualche critica a certi atteggiamenti e comportamenti. Per esempio di quelli che «provano un enorme piacere a mostrare i loro volti, posano con le armi in pugno e gongolano dei loro successi». Spiegando che – purtroppo – non sono mancati i casi di volontari che «hanno usato il conflitto nel Rojava come veicolo per farsi pubblicità, che fa un po’ parte della logica dell’età del selfie e dei social media». Questo ha permesso ad alcuni di loro (comunque una «piccola percentuale dei combattenti internazionali, in nessun modo rappresentativi delle motivazioni e delle azioni della maggior parte») di «guadagnare piccole fortune scrivendo libri e usando la rivoluzione per i loro guadagni personali». E questa, lo dicono fuori dai denti «è la peggior forma di avventurismo e di opportunismo».

Anche per rispetto a tutti gli internazionalisti morti combattendo contro il califfato (Daesh) o contro l’esercito turco. Tra cui molte compagne: Barbara Kistler, Andrea Wolf, Ivana Hoffman, Ayse Deniz Karacagil, Anna Campbell, Alina Sanchez…

E nel  suo “Poscritto” Norma Santi ricorda in particolare i compagni anarchici caduti: Michael Israel, Robert Grodt, Haukur Hilarsson, Anna Montgomery Campbell (già ricordata), Sehid Sevger Ara Makhno, Lorenzo Orsetti.

Senza dimenticare altri cinque anarchici (Alper Sapan, Evrim Deniz Erol, Caner Delissu, Serat Devrim, Medali Barutcu) uccisi nella strage jihadista di Suruc (20 luglio 2015) costato la vita a 33 giovani turchi e curdi (membri della Federazione delle Associazioni dei Giovani Socialisti) che intendevano portare aiuti ai civili evacuati da Kobane.

Un libro da consultare – si diceva – da studiare. Non solamente, pare ovvio, dagli anarchici o aspiranti tali. Uno spaccato a 360 gradi (o quasi) della complessa situazione (il famoso “groviglio”) del Rojava (ma nel libro si parla anche del Bakur – i territori curdi sotto amministrazione-occupazione turca – e dei monti Qandil).

Qualche ulteriore osservazione senza intenti polemici

Tra le righe de La sfida anarchica nel Rojava si coglie una preoccupazione ricorrente (e comunque legittima per chi se la vuol porre). Ossia quanto siano veramente “rivoluzionari” i compagni curdi. Quanto realmente “anticapitalisti”. E anche quanto realmente “libertari”, se non proprio anarchici.

Preoccupazione legittima – si diceva – ma forse talvolta eccessiva. Dato che non abbiamo a che fare soltanto con una o più organizzazioni (Ypg, Jpg, Pkk…), ma anche – soprattutto – con un popolo. Un popolo che – come altre comunità minoritarie o minorizzate (in quanto separate da artificiosi confini statali) presenti in quei territori – rischia periodicamente, se non il vero e proprio genocidio, quantomeno l’etnocidio o l’assimilazione (forzata e non).

Quindi direi che – forse – non è il caso di cercare, sempre e comunque, il pelino nell’uovo (ancora!).

Ritengo che per i curdi rimanga prioritario il fatto di resistere, sopravvivere. Sia agli eserciti statali che alle milizie parastatali, così come alle squadre della morte… talvolta anche ad altri curdi, più o meno collaborazionisti (vedi, talvolta, il Pdk).

Viceversa, andrebbe apprezzato – e molto – il fatto che in un contesto come quello mediorientale – e di questi tempi poi – qualcuno (se non un intero popolo, almeno una sua componente significativa)  si autorganizzi mettendo radicalmente in discussione le gerarchie consolidate (di stato, di classe, di genere… perfino l’antropocentrismo talvolta).

 

  • * a parziale conferma di quanto sostenuto – la minor adeguatezza degli statunitensi nel comprendere i processi rivoluzionari – e non solo quelli –  riporto quanto scrive Cartier. Senza nemmeno – almeno apparentemente – un filo di ironia: «Sembra il paradosso dei paradossi. Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali sono impegnati in una guerra spietata e implacabile contro il governo siriano di Damasco, proprio questi cosiddetti difensori della democrazia e della libertà che sostengono una delle più spregevoli organizzazioni terroristiche e reazionarie mai viste nella storia recente…». Dove appare alquanto disdicevole (e lo è ovviamente) la copertura data – almeno in una certa fase – a Daesh dagli Usa. Mentre appare – o almeno così sembra, potrebbe sembrare – assai meno disdicevole l’attacco imperialista alla Siria (fermo restando il giudizio negativo su Assad). Messa giù così – senza contestualizzare – si potrebbe anche pensare (è una domanda la mia) che in fondo gli Usa non sbagliano nel sentirsi autorizzati, legittimati a intervenire militarmente contro chi non corrisponde ai loro parametri o si frappone ai loro intenti predatori… o no?
  • ** Per quanto siano state esperienze finora sostanzialmente fallimentari,  rimangono – a mio avviso – non solo valide, ma generalizzabili e applicabili ovunque in futuro dovessero crearsene le condizioni. Con maggior fortuna ci si augura.
  • *** Oltre che da Bookchin, Öcalan sarebbe stato influenzato dal pensiero di Braudel, Wallerstein, Mies, Foucault. Presumibilmente anche dal Comandante Marcos, a sua volta influenzato dal situazionismo di Guy Debord che – lo ricordava la figlia – fu tra coloro (cita anche Herbert Marcuse, Daniel Cohn-Bendit, Huey Newton…) che ebbero con Bookchin uno scambio proficuo di idee e di reciproche contaminazioni.

Abbiamo proposto qui un articolo dal taglio insolito per OGzero: solitamente non pubblichiamo recensioni di libri ma Gianni Sartori in questo caso ha intessuto un legame tra i saggi citati e i temi che ci sono più cari (resistenza, autogoverno, rifiuto delle gerarchie e del patriarcato…) rendendo il “groviglio” mediorientale un paradigma rintracciabile in molte delle vicende che su questo sito cerchiamo di narrare. Inoltre si tratta di portare l’attenzione su un dibattito che riguarda l’atteggiamento rivoluzionario di esperimenti sociali alternativi al modello capitalistico a livello globale – quindi geopolitico – tanto nell’attuale situazione, quanto a livello diacronico.

La foto in copertina è di Kamal Chomani e raffigura un gruppo di curdi che tentano di passare il confine sui monti tra Iraq e Iran.

L'articolo La sfida dei curdi è una sfida per l’umanità proviene da OGzero.

]]>
Turchia: cosa bolle in pentola con i missili S-400? https://ogzero.org/turchia-cosa-bolle-in-pentola-con-i-missili-s-400/ Fri, 23 Oct 2020 23:14:38 +0000 http://ogzero.org/?p=1592 Russia e Turchia sono potenze grandi o regionali? A voler trovare sempre e comunque un piano preordinato, collocare ogni singolo evento all’interno di un progetto coerente si rischia – talvolta – di affondare nel complottismo. Resta comunque il dubbio. Nel caso della Turchia alcune recenti iniziative potrebbero costituire la prova provata che Ankara ormai si […]

L'articolo Turchia: cosa bolle in pentola con i missili S-400? proviene da OGzero.

]]>
Russia e Turchia sono potenze grandi o regionali?

A voler trovare sempre e comunque un piano preordinato, collocare ogni singolo evento all’interno di un progetto coerente si rischia – talvolta – di affondare nel complottismo.

Resta comunque il dubbio. Nel caso della Turchia alcune recenti iniziative potrebbero costituire la prova provata che Ankara ormai si muove (o almeno si rappresenta) come una superpotenza in grado di trattare da pari a pari con i due colossi (Usa e Russia) oltre che con le altre entità rilevanti (Iran, Arabia Saudita…). Sarebbe quindi fuori luogo cercare di ridimensionarla specificando “potenza a livello regionale”, visto che qui si parla sia di Medio Oriente che di Mediterraneo e Caucaso. Un rilancio – la prosecuzione – dell’Impero ottomano con altri mezzi?

Potrebbe anche essere. Ma procediamo con ordine.

Prove di sistemi di difesa russi a Sinop, Nato

Risaliva ai primi di ottobre il gentile preavviso (per garantire la sicurezza dei voli nella zona) del lancio di un missile (senza specificarne la gittata) nell’area del Mar Nero. Più precisamente in prossimità di Sinop da dove il 16 ottobre veniva girato un video rivelatore (con l’evidente colonna di fumo prodotta dall’esplosione dell’ordigno).

Gli esperti che lo hanno analizzato ritengono di avervi identificato un missile S-400 di tipo 40N6E (con una gittata presunta di circa 400 chilometri).

E allora? Quale sarebbe il problema?

Il problema consiste nel fatto che tali missili sono una componente del sistema di difesa venduto alla Turchia da Mosca. Più che una ostentazione di forza – o di indipendenza dall’Occidente – il gesto di Ankara assumeva quasi l’aspetto di uno sgarro. Soprattutto nei confronti di Washington, in lampante contraddizione con il ruolo della Turchia. Per il momento ancora alleata degli Usa e membro della Nato.

Messaggi alla Casa Bianca

Ankara aveva operato il test missilistico incurante della minaccia di ulteriori sanzioni. Formulata esplicitamente da Mike Pompeo quando l’anno scorso aveva definito “semplicemente inaccettabile” la sola ipotesi di una attivazione del sistema degli S-400.

Sanzioni che tuttavia – va precisato – Trump non sembrava molto propenso a imporre.

Non mancavano i precedenti. Ancora l’anno scorso in una base nei pressi di Ankara (dove si trovano alcune batterie di S-400) venivano messi in attività aerei da combattimento F-16 e F-4. Allo scopo – si presume – di testare altre componenti (probabilmente i radar).

Un passetto alla volta, la Turchia sembrerebbe intenzionata a integrare – anche ufficialmente – il sistema di difesa S-400 nella sua struttura di difesa contraerea e di combattimento.

Dislocazioni strategiche

Quanto a dove tali batterie di missili verrebbero collocate definitivamente, il mistero è ancora fitto.

Una – molto probabilmente – dovrebbe rimanere nei pressi di Ankara. Le altre a sorvegliare mar Egeo e Mediterraneo orientale. Oppure alle frontiere con la Siria e con l’Armenia.

Una maggior cautela nel procedere mostrata da Erdoğan successivamente al test potrebbe dipendere dall’attesa per i risultati delle elezioni negli Usa.

Pur non dando ufficialmente conferma dell’avvenuto test missilistico del 16 ottobre, il Dipartimento di Stato aveva ribadito la possibilità di “gravi conseguenze” qualora il sistema fosse divenuto operativo a tutti gli effetti.

Se fin dall’inizio il Pentagono si era dichiarato totalmente contrario all’acquisto da parte di Ankara del sistema S-400, l’esponente repubblicano Jim Risch si spingeva oltre affermando fuori dai denti che «la Turchia ha superato il limite» e invitando l’amministrazione statunitense a dare un “forte segnale” per indurre Ankara a liberarsi del recente acquisto.

Minacce che – come è noto – erano destinate a rimanere lettera morta.

Esiste anche un’altra ipotesi. Ossia che Erdoğan abbia semplicemente alzato la posta per ottenere da Washington (anche in caso di vittoria da parte di Joe Biden) concessioni di altro genere. Per esempio la sostanziale, definitiva accettazione degli interventi nel Nordest della Siria contro i curdi e ora contro l’Armenia. In questo caso, agitare la minaccia dell’impiego operativo dei missili S-400 funzionerebbe come merce di scambio (o, se preferite, ricatto).

Messaggi interni

Ma comunque l’esercitazione del 16 ottobre era stata rivendicata pubblicamente dai dirigenti di Akp (il partito di Erdoğan).

Bulent Turan in particolare si era complimentato per l’avvenuto test cogliendo l’occasione per dichiarare che «il problema principale di questo nostro bellissimo paese sono quei miserabili che si fan passare per intellettuali, ma non sono in grado di riconciliarsi con i valori della nazione e non hanno fiducia nello stato; così come gli insignificanti esponenti politici dell’opposizione incapaci di comprendere quali siano gli interessi nazionali». Affermazioni piuttosto nebulose, ma che potrebbero risultare chiare e precise per chi, in Turchia, deve sentirsi nella condizione di “uomo avvisato”.

Da parte di quella che ormai, almeno nella testa di Erdoğan, è destinata a diventare definitivamente una potenza autoreferenziale e indipendente.

Per non parlare dell’effetto galvanizzante riversato sugli strati sociali turchi (soprattutto il ceto medio, ma non solo) che pur appoggiando Erdoğan si sentono colpiti, travolti dalla crisi economica.

E quindi necessitano di compensazioni (almeno a livello immaginario, di falsa coscienza).

Messaggi al Cremlino

Torniamo ora un attimo al discorso introduttivo, ossia al voler trovare qualche motivo recondito in ogni gesto compiuto da Erdoğan. Per alcuni osservatori non sarebbe per niente casuale che l’esperimento missilistico sia avvenuto quasi in contemporanea con l’incontro (e la firma di accordi anche di cooperazione militare) tra Erdoğan e Volodymyr Zelensky, il suo omologo ucraino. Anche in questo caso potrebbe essersi trattato di una ostentazione di indipendenza, ma stavolta da Mosca.

L'articolo Turchia: cosa bolle in pentola con i missili S-400? proviene da OGzero.

]]>
Strategie turche in preparazione del conflitto caucasico… https://ogzero.org/strategie-turche-in-preparazione-del-conflitto-caucasico/ Wed, 07 Oct 2020 15:31:57 +0000 http://ogzero.org/?p=1439 … e considerazioni sull’esasperazione dei nazionalismi in Azerbaijan, Armenia, Artsakhi Abbiamo ricevuto un articolo da Gianni Sartori a proposito del coinvolgimento turco nelle nuove operazioni militari in Nagorno Karabach, e poi Murat Cinar ha animato una puntata del suo Caffè turco su Radio Blackout e prima avevamo sentito anche Teresa Di Mauro, corrispondente per l’“Atlante […]

L'articolo Strategie turche in preparazione del conflitto caucasico… proviene da OGzero.

]]>
… e considerazioni sull’esasperazione dei nazionalismi in Azerbaijan, Armenia, Artsakhi

Abbiamo ricevuto un articolo da Gianni Sartori a proposito del coinvolgimento turco nelle nuove operazioni militari in Nagorno Karabach, e poi Murat Cinar ha animato una puntata del suo Caffè turco su Radio Blackout e prima avevamo sentito anche Teresa Di Mauro, corrispondente per l’“Atlante delle Guerre” e conoscitrice della realtà armena e di alcune zone di Artsakhi: alterniamo i loro contributi in questo spazio embrionale – destinato ad arricchirsi con altri interventi, utili a raccontare tutti i variegati punti di vista e gli intrecci di interessi.

Nessun confine separa le persecuzioni di armeni e curdi

 

Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si va sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri contro gli armeni.

Ascolta “2020-10-15_Murat-Cinar_zampa turca sulla spalla azera” su Spreaker.

Snodi curdi al margine della logica militare turco-azera

Kars subisce un destino analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanlı nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste. Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe quindi da stupirsi se «da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars».

D’altra parte era quasi scontato che Erdoğan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto, mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

Non certo impropriamente era stato definito “un autentico genocidio politico” in Bakur (territori curdi sotto amministrazione-occupazione turca). In riferimento alla destituzione – dopo le elezioni del 2019 – dei legittimi rappresentanti politici eletti nelle liste dell’Hdp (Partito Democratico dei Popoli) e l’arresto di centinaia di militanti dell’opposizione ed esponenti di associazioni curde.

Ma oggi la faccenda si va caricando di ulteriori e peggiori implicazioni.

La città di Kars (in Bakur) è destinata a diventare un centro di smistamento per jihadisti e mercenari di Ankara? Tutt’altro che casuale – per esempio – la repentina imposizione da parte del Ministero dell’Interno del governo Akp-Mhp di Turker Öksüz come fiduciario (governatore, prefetto, podestà…?) alla città curda di Kars. Dopo che i sindaci regolarmente eletti (Ayhan Bilgen e Şevîn Alaca, esponenti dell’Hdp) erano stati preventivamente arrestati insieme a una quindicina di altri esponenti politici nell’ambito delle “indagini di Kobane” (ossia per le proteste del 2014). Cinque membri del consiglio comunale e due membri dell’assemblea generale provinciale venivano sospesi dal servizio o costretti alle dimissioni.

L’arresto del co-sindaco Ayhan Bilgen e di altri esponenti dell’Hdp risaliva al 25 settembre. Le sue dimissioni da sindaco (praticamente un’autosospensione proprio per evitare l’imposizione di un governatore turco) a cinque giorni dopo. Ma – in contrasto con la stessa legislazione turca – questo suo gesto non era stato tenuto in considerazione e la nomina – illegittima – del governatore seguiva il suo corso.

Giustamente si era parlato di una “confisca dei diritti democratici”. Allo scopo, molto presumibilmente, di controllare totalmente questa cittadina ai confini con l’Armenia.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_episodio di luglio” su Spreaker.

Niente di strano e niente di nuovo

Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoğlu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione.

Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale “Hurriyet” ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993.

Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdoğan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.

Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista) si trattava nientemeno che di una «abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne» esprimendo «inquietudine per l’avvenire del paese» (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_narrativa del conflitto” su Spreaker.

L’esplosione al declino dell’Urss

Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica repubblica d’Armenia.

E il 20 febbraio – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno-azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Ağdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armene. Nei disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. È il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.

Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno-Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 lo statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 – boicottato dalla minoranza azera – la proposta di uno stato indipendente sarà approvata con il 99 per cento dei voti.

E a questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).

Guerra dichiarata (1991-1994)

Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” – il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.

A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.

Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e – ma discretamente e solo a livello logistico – dalla Grecia.

Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex Urss (russi e ucraini).

Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.

Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti.

Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14 per cento del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (il cessate il fuoco è del 12 maggio) prendono il via sotto la supervisione di Mosca.

Con la creazione nel maggio 1994 del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato Osce) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.

Tuttavia – vien da dire – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_situazione incancrenita” su Spreaker.

Per i media occidentali rimane impigliata la definizione “separatisti”

Qualche considerazione in merito alle operazioni propagandistiche in atto (soprattutto da parte di Baku e Ankara) e rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato, pare. Forse perché – tutto sommato – conviene schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola Armenia, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale.

Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il Nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974 (e direi illegalmente, così a naso). Per non parlare della continua evocazione di una – al momento inesistente – partecipazione di militanti del Pkk ai combattimenti (a fianco degli armeni, ovviamente).

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_Nazionalismo dal basso o usato dal potere per compattare” su Spreaker.
Magari! verrebbe da dire. Ma temo che con tutti i problemi che al momento li affliggono (aggrediti come sono da ogni parte, soprattutto dalla Turchia e dai suoi ascari) molto difficilmente i partigiani curdi avranno la possibilità di prendere parte alla resistenza dei loro fratelli armeni. Anche se – presumo – ne sarebbero lieti e fieri.

In fondo di fronte avrebbero l’ennesima versione dei massacratori ottomani, dei responsabili del genocidio degli armeni (poi reiterato) e dei tentativi di genocidio nei confronti di greci, curdi (yazidi in particolare), alaviti, assiro-caldei.

Ascolta “2020-10-01_Teresa-Di-Mauro_Nagorno-Karabach_Dalla rivoluzione di Velluto ai proclami bellicisti di Pashinyan” su Spreaker.

Il business delle armi oltrepassa ogni schieramento: corsi e ricorsi storici

Nel frattempo (gli affari sono affari) pare che la Francia – come Israele (droni Elbit) e l’Italia (M-346 di Leonardo) – non abbia smesso di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non è l’unico paese a farlo naturalmente. Ma la cosa appare stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Anche recentemente nella querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.

Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku stanno colpendo direttamente la popolazione di Stepanakert.

Una cosa comunque va detta. In qualche modo l’attuale conflitto tra Armenia e Azerbaijan appare propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne è addirittura la “vetrina”). Mi auguro di sbagliarmi, ma intravedo una prosecuzione (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

L'articolo Strategie turche in preparazione del conflitto caucasico… proviene da OGzero.

]]>
Tuareg, i curdi dell’Africa? https://ogzero.org/il-deserto-diventa-pantano-in-libia/ Fri, 02 Oct 2020 11:28:43 +0000 http://ogzero.org/?p=1333 L'indipendenza e autodeterminazione dei popoli del Fezzan e della Nigeria passa attraverso la collaborazione tra tuareg e tebu, ma anche contro il neocolonialismo occidentale, soprattutto francese, che mira a controllare oro, uranio, petrolio, acqua e vuole imporre la sua presenza militare attraverso missioni Onu con il pretesto di combattere il jihadismo, con cui brevemente e riconoscendo l'errore il popolo azawad si era alleato nel 2013

L'articolo Tuareg, i curdi dell’Africa? proviene da OGzero.

]]>
Se non proprio malevola, almeno superficiale.

Così almeno mi era apparsa la semplificazione mediatica con cui si proiettava lo spettro jihadista sull’ultima – per ora – ribellione tuareg. Arrivando a sostenere che certe etnie del Mali non potevano essere altro che “vittime o complici dell’islamismo più feroce”.

Tertium non datur.

In realtà – credo – la questione è più complessa. Si doveva, almeno, precisare quale fosse – e quale sostanzialmente sia – la condizione in cui versano i tuareg. Quella di una “nazione senza stato” che vive, si sposta e – se del caso – combatte ben oltre i ristretti confini del Mali. Per inciso. Appare evidente l’analogia con la nazione curda, ugualmente frantumata da vari confini statali, più o meno artificiosi, a seguito dei ben noti processi di “decolonizzazione controllata” del secolo scorso.

Invece si è cercato di interpretare la diffusione, il dilagare dell’islamismo radicale come effetto collaterale del “rientro” (in realtà una dispersione) delle “milizie nomadi” (in parte costituite da combattenti tuareg) già “alleate del beduino Gheddafi”. Senza interrogarsi in merito alle ragioni che avevano spinto molti tuareg, legati o meno al Mnla (Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad) in Libia.

Indipendenza e autodeterminazione azawad

Alla fine del Novecento le lotte per l’indipendenza (o almeno per l’autonomia, il decentramento) e gli scontri armati tra le milizie tuareg e gli eserciti di Mali e Niger risultarono deleteri soprattutto per le popolazioni civili, oggetto di repressione e brutali massacri.

Come per esempio nel 1990 a Tchin Tabaraden in Niger.

E forse non è un caso che anche attualmente nel Niger permangano gruppi armati che lottano per l’autodeterminazione. Tra questi il Mnj (Mouvement des Nigériens pour la justice).

Oltre alla liberazione dei prigionieri politici tuareg e alla possibilità di svolgere liberamente attività politica, il Mnj esige dal governo di Niamey la fine dello sfruttamento coloniale dei territori abitati dai tuareg (vedi le miniere di uranio, devastanti per la salute della gente, in mano alle multinazionali straniere come la francese Areva).

Altra organizzazione armata in parte ancora operativa (o almeno nel primo decennio del XXI secolo) il Front des forces de redressement. Avrebbe (meglio il condizionale in attesa di conferme) invece deposto definitivamente le armi il Front patriotique nigérien.

La svolta islamista: faida interna e non conversione religiosa

Comunque, tornando alla caduta di Gheddafi, all’epoca buona parte dei tuareg prese la via del ritorno. Talvolta portandosi appresso una discreta quantità di armamenti sofisticati. Salvo poi – magari incautamente – venderle a gruppi jihadisti ben riforniti di petrodollari. Peggio ancora. Qualche ex esponente del Mnla (vedi Iyad Ag Ghali) si era avvicinato da tempo alle milizie jihadiste, anche in contrapposizione con gli ex compagni di lotta.

Più che una conversione religiosa, la vedrei come il risultato di personalismi, concorrenze e faide interne.

Risaliva al 6 aprile 2012 la dichiarazione unilaterale di indipendenza dell’Azawad che di fatto aveva temporaneamente spaccato il Mali in due. Ma dopo nemmeno venti giorni – forse per inesperienza, stupidità o sotto minaccia come nei matrimoni forzati – alcuni referenti del Mnla presenti sul campo firmavano un accordo-capestro con Ansar al-Din, gruppo islamista finanziato da al-Qaeda nel Maghreb islamico. Con la velleitaria creazione di un Consiglio transitorio dello Stato Islamico dell’Azawad formato da 40 membri, 20 del Mnla e 20 di Ansar al-Din.

Risvolto grave, l’applicazione della sharia e la costituzione della polizia islamica (hisba).

A sua parziale giustificazione Bilal Ag Sherif, segretario del Mnla e firmatario dell’accordo, sosteneva di aver agito per evitare una guerra interna tra tuareg e convincere i fratelli integrati in Ansar al-Din ad abbandonarne i ranghi.

Un accordo che era lecito definire una “mostruosità” e appunto come tale veniva sconfessato dal coordinamento dei responsabili del Mnla.

Il portavoce del Mnla Habaye Ag Mohamed riteneva «inconciliabile con la linea politica del Mnla l’atteggiamento fondamentalista e in particolare il jihadismo salafita portato avanti da Ansar al-Din».

Bilal Ag Sherif, firmatario del documento, veniva richiamato all’ordine e costretto a rompere tale accordo.

Per Nina Valet Intalou, esponente dell’Ufficio esecutivo del Mnla, bisognava «rigettare categoricamente questo accordo, perché cercare di evitare una guerra fratricida non significa accettare il diktat imposto da gruppi oscurantisti».

Il documento, spiegava: «era stato firmato pensando che i nostri fratelli tuareg schierati con Ansar al-Din avrebbero lasciato questa organizzazione terroristica. Avremmo potuto accettare uno Stato islamico democratico, pensando che noi siamo già musulmani. Ma il documento proposto da Iyad Ag Ghali è veramente contrario agli obiettivi del Mnla e alla nostra cultura. Quello che lui vorrebbe è uno stato talebano».

Ovviamente nel 2012 il confronto veniva spontaneo con i talebani. Oggi probabilmente si evocherebbe lo spettro dell’Isis.

Donne e giovani protestano contro i fondamentalisti

A conferma dell’estraneità tra il movimento per l’autodeterminazione tuareg e l’integralismo islamista, già il 5 e il 6 giugno 2012 centinaia di donne e di giovani della città di Kidal scendevano in strada per protestare contro i fondamentalisti. Successivamente, nella notte tra il 7 e l’8 giugno, si registravano scontri armati tra i militanti di Mnla e quelli di Ansar al-Din.

Purtroppo la storia della lotta tuareg per l’autodeterminazione (sia indipendentista che autonomista) è da sempre attraversata da scissioni e conflitti interni.

Lo stesso leader di Ansar al-Din, Iyad Ag Ghali, in precedenza si era distinto come promotore delle rivolte degli anni Novanta del secolo scorso.

Ma, almeno fino al 2012, le istanze dell’islamismo radicale non avevano – pare – trovato spazio significativo all’interno del movimento tuareg, da sempre sostanzialmente laico.

Successivamente, nel giro di qualche mese, il Nord del Mali finiva quasi completamente in mani jihadiste (oltre ad Ansar al-Din, erano entrati in azione anche il Mujao (Movimento unicità e jihad nell’Africa dell’Ovest) e direttamente Aqmi, Al-Qaïda au Maghreb islamique). Ma con la riunione internazionale di Bamako del 19 ottobre 2012 si avviava quel «progetto di intervento militare credibile» richiesto nella settimana precedente alla Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest (Cedao) e all’Unione Africana. La Francia riusciva a coinvolgere i 15 paesi membri del Consiglio di Sicurezza e porre la questione sotto il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite (in quanto la situazione del paese africano costituiva «una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale»). Il resto è cosa nota. Prima l’intervento diretto dell’esercito francese (aviazione, forze speciali…) per riprendere il controllo di Gao, Timbuctù, Kidal, Tessalit… con l’Operazione Serval (dal nome di un felino africano) dal gennaio 2013 alla metà del 2014.

Operativi da gennaio anche alcune centinaia di soldati africani (provenienti da Niger, Benin, Nigeria e Togo) della Missione internazionale di sostegno al Mali (Misma).

Barkhane e Takouba ma la guerra non si ferma

Poi – dopo la costituzione della missione onusiana Minisma (Mission Multidimensionelle Intégrée des Nations Unies pour la Stabilisation au Mali) e una serie di operazioni dai nomi più o meno pittoreschi (Dragon, Constrictor, Centaure, Epervier…) dall’agosto 2014 l’intervento contro le bande salafite assumeva la veste di un dispositivo regionale: l’operazione Barkhane (dal nome di una duna “migrante” nel deserto) a cui partecipavano Mauritania, Burkina Faso, Ciad, Mali e Niger (comunque sottoposti alla direzione dell’Esagono).

Ma la guerra non si è fermata. Nemmeno dopo migliaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati. Un tragico bilancio a cui si deve aggiungere la denuncia di sistematiche violazioni dei diritti umani. Opera soprattutto di soldati africani nei confronti di civili arabi e tuareg (sbrigativamente – e comodamente – identificati come salafiti). Nel frattempo ha visto la luce anche Takouba (“spada di legno” – quella dell’Onore – in tamashek, la lingua dei tuareg), denominazione per le forze speciali europee che dovrebbero sostenere le truppe maliane nella lotta contro il terrorismo jihadista.

Stando alle dichiarazioni della ministra della Difesa francese Florence Parly, Takouba era già stata preannunciata da Macron in occasione dell’incontro di Pau, quello indetto proprio per tacitare le voci sul dissenso africano all’intervento francese.

Quanto al governo di Bamako, va riconosciuto che fin dal 2012 – in prossimità dei territori occupati dalle milizie jihadiste – venivano allestiti alcuni campi di addestramento.

Tuttavia – vuoi per mancanza di mezzi, vuoi per imperizia – risultavano alquanto scadenti. Con i volontari alloggiati in strutture provvisorie, senza armi e addirittura scarsamente riforniti di generi alimentari (letteralmente “alla fame” secondo alcuni visitatori, nemmeno in grado di compiere l’addestramento). Com’era prevedibile, molti disertarono per raggiungere Ansar al-Din e il Mujao, Organizzazioni ben finanziate, in grado di garantire «assistenza economica alle famiglie di ogni combattente vivo o morto e un’abitazione fino al momento in cui i figli saranno in grado di sposarsi».

Un copione che si va ripetendo su larga scala anche in questi giorni.

Contraddizioni in seno ai popoli

Un bel casino, certamente. Senza dimenticare che oltre ai durevoli, tenaci contenziosi tra popolazioni indigene e governi statali ne permangono altri – non meno devastanti – tra le popolazioni stesse.

Troppo spesso strumentalizzati dai governi (e anche in questo Gheddafi aveva fatto scuola) in nome del sempre attuale “divide et impera”.

Come quello tra tuareg e tebu (il “Popolo delle Rocce”) chiamati ikaraden dai tuareg.

Un breve riepilogo

Nei suoi 40 anni di permanenza al potere Gheddafi aveva abilmente alimentato le reciproche ostilità tra le tribù arabe e alcune “minoranze” (in realtà popolazioni minorizzate in quanto separate dai confini statali, come i curdi o anche i baschi) presenti nel Sud della Libia: tebu e tuareg. Utilizzando gli scontri interetnici per controllare, discriminare, emarginare e reprimere. E i tuareg – in particolare nelle zone di frontiera – per far pressione su Algeria, Niger e Mali.

Dopo il 2011, con la caduta del regime, esplodevano le istanze di maggior autonomia politica da parte dei tebu per il controllo delle zone petrolifere e aurifere e delle vie di comunicazione. In particolare dei check-point utilizzati per sfruttare proficuamente i vari traffici legali e illegali (armi, medicinali, derrate alimentari, droga, alcolici e anche esseri umani).

Mentre la Libia sprofondava nel conflitto, in questo decennio i Tebu si sono imposti – talvolta anche violentemente – alle altre tribù (sia arabe che tuareg, se pur in diversa misura e in maniera differenziata) per trarre benefico dalla nuova situazione generatasi con la caduta ingloriosa del Colonnello. Nei territori meridionali della Libia – lì dove coabitano le varie etnie – sono presenti in grande quantità non solo l’ambita risorsa petrolifera, ma anche minerali rari e perfino l’acqua (per la presenza di vaste falde freatiche). Acqua di cui usufruiscono le popolazioni (il 90 per cento dei libici) che vivono nel Nord del paese.

Tuareg e tebu: scontri etnici tra apolidi

Non si deve comunque generalizzare. Occorre valutare la complessità delle relazioni che si vanno instaurando di volta in volta, di luogo in luogo. Relazioni, si diceva, varie e variabili (differenziate, variegate…), sia politicamente che economicamente.

Per esempio nel contenzioso per il controllo delle risorse tra tebu e tuareg nel Fezzan (nel Sudovest del paese) per un certo periodo sembrava prevalere l’aspetto militare, lo scontro armato.

In passato, in quanto minoranze non arabe, sia tebu che tuareg avevano subito evidenti discriminazioni (entrambi manipolati in funzione della politica “panafricana” di Gheddafi), ma in diversa misura.

Così, mentre migliaia sia di tuareg sia di tebu si ritrovavano sostanzialmente nella medesima condizione di apolidi, per i primi esisteva la possibilità di integrarsi vantaggiosamente nel sistema della sicurezza interna. Godendo quindi della possibilità di armarsi adeguatamente e di facilitazioni in campo economico (permessi di lavoro, accesso all’amministrazione…).

Gheddafi il garante dei tuareg

Del resto Gheddafi si presentava talvolta come un “garante”, un “sostegno”, un protettore anche dei tuareg del Mali e del Niger. Perfino nei confronti dei loro governi dai quali effettivamente subivano discriminazioni e repressione.

Questo può spiegare la posizione assunta nel 2011 dai tuareg libici (a cui si aggregarono molti altri provenienti da Mali e Niger) che si schierarono con il regime.

Una scelta che in seguito avrebbero pagato duramente.

Ad aggravare ulteriormente il conflitto tra le due etnie, la chiusura nel 2014 della frontiera tra Libia e Algeria fino ad allora vantaggiosamente controllata dai tuareg. Di colpo questi si scoprivano privati di una preziosa fonte di reddito in quanto flussi commerciali, traffici e contrabbando venivano dirottati sulla frontiera con il Niger, tradizionalmente controllata dai Tebu. L’altra frontiera del Sud della Libia, quella con il Ciad, dal 2013 è interessata da un imponente traffico di oro estratto, spesso artigianalmente, dalle miniere del Fezzan. Anche questo un traffico gestito principalmente dai tebu.

La scelta infelice di una parte dei tuareg (ormai in difficoltà anche sul piano sanitario) di allearsi militarmente con elementi integralisti forniva ai tebu l’occasione per tacciarli di “terrorismo” (assimilandoli ai salafiti) e di presentarsi all’opinione pubblica internazionale come garanti della lotta al medesimo nel Sud della Libia. Così per esempio vennero interpretati gli scontri sanguinosi – con decine di vittime – del settembre 2014 a Ubari (storicamente feudo tuareg del Fezzan, ma con una forte presenza tebu) tra milizie tebu e tuareg. Scontri scoppiati inizialmente non certo per questioni ideologiche o religiose, ma semplicemente per il controllo dei check-point e di una stazione di servizio (oltre che, beninteso, dei cospicui giacimenti petroliferi della zona).

Il paradosso della riconciliazione

Per la cronaca. In un primo momento i tuareg ebbero la meglio, ma successivamente, nel 2019, persero nuovamente il controllo dei giacimenti, stavolta per mano dell’Esercito nazionale libico (Anl).

In questa circostanza le milizie tuareg e tebu si “riconciliarono” e costituirono un fronte comune per combattere contro l’esercito del generale Haftar.

Ennesimo paradosso del conflitto libico (talvolta, benevolmente, definito un ginepraio, ma più spesso un “autentico pantano”)?

Forse non proprio se pensiamo all’accordo di pace faticosamente conseguito e sottoscritto dalle due comunità nel 2015 a Doha.

L'articolo Tuareg, i curdi dell’Africa? proviene da OGzero.

]]>