Emanuele Giordana Archivi - OGzero https://ogzero.org/autore/emanuele-giordana/ geopolitica etc Wed, 17 May 2023 22:30:13 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Una svolta culturale siamese non solo nelle urne thai: Move Forward https://ogzero.org/una-svolta-culturale-siamese-non-solo-nelle-urne-thai-move-forward/ Wed, 17 May 2023 22:21:48 +0000 https://ogzero.org/?p=11056 I due nostri riferimenti autoriali nel Sudest asiatico ci sono di aiuto per dare il corretto rilievo alla trasformazione in corso nella società thailandese, che ha visto nelle elezioni del 14 maggio l’emersione della volontà di “emancipazione” da parte della componente più giovane e che ha incarnato già nella Milk Tea Alliance preCovid la richiesta […]

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I due nostri riferimenti autoriali nel Sudest asiatico ci sono di aiuto per dare il corretto rilievo alla trasformazione in corso nella società thailandese, che ha visto nelle elezioni del 14 maggio l’emersione della volontà di “emancipazione” da parte della componente più giovane e che ha incarnato già nella Milk Tea Alliance preCovid la richiesta di modernizzazione e il rifiuto dell’Orientalismo; per cominciare ad approcciarci allo spirito che si aggira nella monarchia costituzionale controllata dai militari dal golpe del 2014 riprendiamo un articolo di Emanuele Giordana apparso su “L’Atlante delle Guerre” a cui aggiungiamo una lunga chiacchierata fatta nella mattinata di martedì 16 maggio in Radio Blackout con Massimo Morello, che  vive a Bangkok da alcuni anni e ha le antenne giuste per cogliere alcune sfumature che sfuggono alla maggioranza degli analisti privi delle competenze culturali e sociologiche, da lui acquisite soltanto con l’immersione in quel mondo in fermento.

«Il voto di domenica segna la sconfitta dei militari e l’ascesa del partito Move Forward. Ma servono delle “larghe intese”», è l’incipit del pezzo di Emanuele Giordana: questo avviene per il sistema elettorale, che però – come spiega Massimo Morello – incide solo tangenzialmente, perché in realtà l’approccio thailandese è in grado di aggirare e rendere possibile ciò che la società sente e finisce con l’imporre.


L’aria di rinnovamento che spira a Bangkok…

Il Move Forward Party e il Pheu Thai, due organizzazioni che incarnano l’opposizione tailandese a un’imperfetta democrazia gestita da militari in doppiopetto, sono i due partiti più votati della Thailandia. Hanno vinto le elezioni di domenica scorsa e hanno subito formato una coalizione promossa del Move Forward che dovrebbe assicurare 309 voti al futuro governo, ben oltre la maggioranza richiesta di 250 seggi alla Camera Bassa per poter proporre un nuovo gabinetto. Ma non è così semplice formare un governo in Thailandia.
Trecentosettantasei è il numero su cui si gioca il futuro politico della Thailandia dopo che i risultati del voto di domenica hanno dato la maggioranza ai due maggiori partiti di opposizione umiliando quelli legati ai generali, che per un decennio hanno tenuto in scacco la fragile democrazia siamese. La somma aritmetica e costituzionale che il futuro gabinetto deve ottenere dal voto a Camere riunite è infatti 376.

IL PROBLEMA è che le due Camere, il cui totale fa 750 scranni, sono assai diverse: la nuova Camera Bassa infatti si formerà sulla base del voto del 14 maggio, assicurando poco meno di 300 seggi ai due partiti di opposizione che hanno de facto vinto le elezioni: il Move Forward e il Pheu Thai. Ma la Camera Alta, il Senato dell’imperfetta monarchia costituzionale tailandese, è invece di nomina militare. I 500 voti dell’Assemblea – dove ha vinto l’opposizione – sommati ai 250 del Senato richiedono dunque una maggioranza di 376 voti perché il premier in pectore e il suo governo passino l’esame del parlamento. In buona sostanza i partiti dei militari, dei generali Prayut e Prawit – entrambi ex premier – possono farcela pur avendo raggranellato un’umiliante percentuale (meno di 80 seggi) in un’elezione che, a sorpresa, ha premiato il partito Move Forward di Pita Limjaroenrat (151 seggi) che i sondaggi non davano così in alto nei cuori dei tailandesi; è un partito che vuole riformare la legge durissima che punisce chi critica il re (articolo 112 della Costituzione) ed è un partito che vuole migliorare il welfare. Piace ai giovani ma anche agli imprenditori. Quanto ai senatori però, secondo il “Bangkok Post”, non avrebbero nessuna intenzione di approvare la candidatura di un “antimonarchico” per quanto blando, Ma, mai dire mai. C’è chi potrebbe invece farci un pensierino.
Sarà una marcia longa anche se poi tutto si giocherà a breve: nella capacità del Move Forward di tenere insieme la coalizione appena annunciata con altri 5 partiti, tra cui ovviamente Pheu Thai (in dote porta 141 seggi), di cooptare magari altri cespugli o nella possibilità che si formi alla fine un governo di “larghe intese” che faccia leva anche su parte delle minoranze. O ancora che qualcuno nel Senato, fiutando l’aria che tira, non cambi casacca. All’orizzonte dunque ci sono molte incognite e forse molte sorprese. Compresa l’ombra dell’ennesimo golpe anche se tutti lo ritengono ormai improbabile. E il re? Il monarca attuale, non molto amato nel regno, vorrà dire la sua?

QUEL CHE È CERTO è che dal 14 maggio la Thailandia respira un’aria diversa a cominciare da una partecipazione al voto di oltre il 70% degli aventi diritto. Move Forward poi, erede di un partito espulso dal parlamento e senza ombra di dubbio progressista, ha superato le aspettative: col voto giovanile, col voto di chi non vuole una Paese a democrazia limitata e una monarchia intoccabile, col voto di chi non crede nelle ricette neoliberiste del Pheu Thai (che si ispira al tycoon Thaksin Shinawatra che a capo del partito ha messo la figlia Paetongtarn), col voto di chi è stufo di dinastie, stellette e di un’asfittica libertà vigilata. Ora bisogna vedere se la neo coalizione (310 voti) terrà la strada. Ma una cosa è certa: essendo chiaro che il vincitore è Pita, e con lui l’opposizione, qualsiasi tentativo di scavalcarli non andrebbe liscio come in passato. Fuori dai palazzi c’è una piazza che ha già dimostrato – anche col voto – di voler un cambio.

… quell’aria potrebbe soffiare anche altrove in Asean?

VISTE DALL’EUROPA le elezioni thai possono forse sembrare solo un esotico balletto da cui dipende il destino di 70 milioni di sudditi. Ma visto dall’Asia il voto ha ben altro sapore. Queste elezioni sono state seguite con apprensione dall’India – dove ci troviamo – all’Indonesia, ora presidente di turno dell’Asean, l’organizzazione regionale dove siede – benché sotto schiaffo – anche il Myanmar. Al cambio di vertice a Bangkok corrisponderebbe un cambio di marcia verso la giunta birmana. Pita ha già detto – facendo felice Giacarta – che sosterrà l’Asean e la sua mediazione in 5 punti il che vorrebbe dire forse accantonare l’iniziativa (Track 1.5), caldeggiata da Delhi, che aveva il compito di ammorbidire i rapporti con la giunta. Destinati quindi a inasprirsi. Pita lo ha chiarito a poche ore dai primi risultati mostrando di avere idee molto chiare sulla democrazia. E non solo su quella tailandese. «Sarò premier», ha detto. In molti ci sperano.


A corredo di questa precisa analisi del voto di Emanuele siamo andati a Bangkok a incontrare Massimo Morello per collocare questo risultato nel contesto che lo ha reso possibile e nelle parole del reporter che vive da 15 anni nella capitale siamese si coglie l’intuizione che si tratti della scvolta che la generazione Z sia riuscita a imporre la modernizzazione del costume troppo stretto e anacronistico che la tradizione impone con le sue strutture sistemiche, travolte dallo spirito del paese.

“Move Forward è una vera rivoluzione del costume thai”.

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La rincorsa delle armi al mercato della guerra https://ogzero.org/la-rincorsa-delle-armi-al-mercato-della-guerra/ Tue, 21 Mar 2023 00:31:00 +0000 https://ogzero.org/?p=10526 “Dual”: non solo il metodo di produzione di oggetti a scopo bellico (e pure civile) lo è, ma risulta duale anche l’anello logistico delle armi, come si evince dal rapporto Sipri, descritto da Emanuele Giordana per l’Atlante dei conflitti e delle guerre del mondo: da un lato, in linea con l’intuizione del nostro Studium per […]

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“Dual”: non solo il metodo di produzione di oggetti a scopo bellico (e pure civile) lo è, ma risulta duale anche l’anello logistico delle armi, come si evince dal rapporto Sipri, descritto da Emanuele Giordana per l’Atlante dei conflitti e delle guerre del mondo: da un lato, in linea con l’intuizione del nostro Studium per cui la guerra capiterà presto laddove si stanno accumulando armi (in questo caso in prospettiva il quadrante indo-pacifico?); dall’altro in un climax classico della corsa al riarmo, addensandosi e accumulandosi dove già si erano concentrate armi per far esplodere un conflitto. Emanuele è tra gli autori del volume “2023: Orizzonti di guerra” curato da OGzero per  approfondire in questo momento particolare quel traffico d’armi che possono regolare il riequilibrio strategico delle forze in campo per una nuova disposizione dell’ordine mondiale, messo in discussione da superpotenze palestrate che mostrano i muscoli e si attrezzano ad assorbire e consumare la produzione bellica mondiale. Proprio il commercio di armi è al centro dei periodici rapporti del Sipri, citati e analizzati anche nel monitoraggio che sta a monte del volume appena pubblicato da OGzero con l’apporto del parterre di autori che l’hanno reso possibile.


La guerra si avvicina all’Asia preceduta dalle armi

L’Asia orientale è in testa alla classifica del commercio mondiale delle armi dominata dagli Stati Uniti e da una corsa al riarmo europeo.

Asia e Oceania hanno ricevuto il 41 per cento dei principali trasferimenti di armi nel 2018-22. È una quota leggermente inferiore rispetto al 2013-17 che rientra in una generale diminuzione del livello globale dei trasferimenti internazionali di armi, un decremento di oltre il 5%. Ma il calo complessivo non deve trarre in inganno, come lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) ha spiegato alcuni giorni fa in una dettagliata analisi sul mercato mondiale degli armamenti dove hanno inciso pandemia, problemi di logistica e cambio di priorità per la guerra ucraina.

Una dimensione di quanto delicato sia diventato il quadrante orientale

Sono dati che illuminano una scena – quella indo-pacifica – dove i numeri evidenziano come sei stati sono tra i dieci maggiori importatori a livello globale nel 2018-22: India, Australia, Cina, Corea del Sud, Pakistan e Giappone. Quadrante con una guerra in corso in Myanmar, mercato che è difficile sondare perché rigorosamente occultato nonostante le parate con carri, aerei e blindati di marca russa o cinese.

“Il mattatoio birmano dopo 2 anni: dati, analisi, prospettive allargate all’Asean”.
Un buco nero che rientra a fatica nei dati Sipri anche perché è un conflitto oscurato da quello in Europa. Un’Europa che ha comunque aumentato la sua quota di acquisti del 47 per cento negli otto anni che vanno dal 2013 al 2018.

Il boom del traffico si è spostato in Occidente con la guerra

Stoccolma spiega che le importazioni di armi dei soli membri europei della Nato sono aumentate del 65 per cento mentre il livello globale dei trasferimenti internazionali di armi è diminuito del 5,1 per cento. Le importazioni di armi sono diminuite complessivamente ovunque ma, come abbiamo visto, i maggiori attori in questa fetta di mondo (Cina, India, Australia e Giappone) continuano ad armarsi. Sono in buona compagnia: la quota degli Stati Uniti nelle esportazioni globali di armi è aumentata dal 33 al 40 per cento.

L’aumento del budget cinese allineato

Quanto ai cinesi, Pechino ha da poco annunciato un aumento del 7,2 percento del suo budget per la difesa, un dato i cui effetti troveremo nei dati Sipri del 2024: per l’ottavo anno consecutivo aumenta la percentuale di spesa militare del secondo budget militare del pianeta (OGzero ne ha parlato con Lorenzo Lamperti).

“Quanti fili si annodano attorno a Taiwan all’alba del terzo mandato di Xi?”.

Autarchia armiera russa…

L’export russo segna invece una diminuzione del 31 per cento tra il 2013-17 e il 2018-22 mentre la sua quota di esportazioni globali di armi si è ridotta di 6 punti percentuali.

«Anche se i trasferimenti di armi sono diminuiti a livello globale, quelli verso l’Europa sono aumentati notevolmente a causa delle tensioni tra la Russia e la maggior parte degli altri Stati europei», ha detto a Stoccolma Pieter Wezeman, ricercatore del Sipri Arms Transfers Programme: «Dopo l’invasione russa, gli Stati europei vogliono importare più armi e più velocemente. La competizione strategica continua anche altrove: le importazioni di armi verso l’Asia orientale – ha ribadito – sono aumentate e quelle verso il Medio Oriente rimangono a un livello elevato».

Secondo il Sipri è probabile che la guerra ucraina limiterà ulteriormente le esportazioni di armi di Mosca che «darà la priorità alla fornitura delle proprie forze armate» mentre «la domanda da parte di altri stati rimarrà bassa a causa delle sanzioni commerciali e per la crescente pressione da parte di Usa e alleati affinché non si acquistino armi russe».

… addiction ucraina dall’import armiero 

Quanto all’Ucraina, in seguito agli aiuti militari di Stati Uniti ed Europa dopo l’invasione, Kiev è diventata la terza maggior importatrice di armi importanti nell’anno passato (dietro a Qatar e India). E l’Italia? Tra i primi sette esportatori di armi dopo Usa, Russia e Francia, cinque Paesi hanno registrato un calo dell’export mentre due portano a casa forti incrementi: Italia (+45 per cento) e Corea del Sud (+74 per cento).

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Afghanistan: il quadro interno e le forze in campo https://ogzero.org/afghanistan-il-quadro-interno/ Thu, 22 Jul 2021 10:14:39 +0000 https://ogzero.org/?p=4356 L’arduo compito di valutare la situazione attuale tra le varie fazioni in Afghanistan non poteva che venire conferito a Emanuele Giordana, tra i più competenti analisti di quell’area. Ne risulta una lucida fotografia che fa ruotare sul palcoscenico tutti i protagonisti che possono esprimere una pressione dall’interno sugli eventi che si produrranno nel momento in […]

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L’arduo compito di valutare la situazione attuale tra le varie fazioni in Afghanistan non poteva che venire conferito a Emanuele Giordana, tra i più competenti analisti di quell’area. Ne risulta una lucida fotografia che fa ruotare sul palcoscenico tutti i protagonisti che possono esprimere una pressione dall’interno sugli eventi che si produrranno nel momento in cui ai Talebani verrà sottratto l’unico argomento forte che hanno – la presenza militare straniera nel territorio afgano. L’affresco raccoglie le biffe di personaggi poco raccomandabili, le cui armi consentono loro di spadroneggiare ormai dall’inizio della guerra, 40 anni fa; ma questo non toglie che attraverso i loro alleati, o citando mire economiche, si sviluppino prassi securitarie e predatorie strategie.

Questo contributo più interno all’anima del paese si affianca ad altri due interventi contemporanei ospitati sul sito, uno di Sabrina Moles, mosso dalla curiosità di capire gli interessi cinesi sui corridoi commerciali, e l’altro di Yurii Colombo, volto a ritessere la tela russa a 30 anni dal ripiegamento sovietico, completando la panoramica sulla situazione geopolitica afgana in seguito al ritiro delle truppe americane dal paese che abbiamo intrapreso cominciando da una tavola rotonda che li ha visti partecipi e trasmessa in diretta nella serata del 13 luglio da Radio Blackout, un’analisi che poi abbiamo cercato di approfondire nello studium “La solita musica afgana?”, chiedendoci se sarà un altro Afghanistan quello imbandito in questi due mesi di approcci internazionali.


Minacciosi fuochi sacrificali sulla festa

Martedì 20 luglio, mentre nel palazzo presidenziale di Arg si pregava per la festa del sacrificio Eid al-Adha, una salva di razzi ha colpito i distretti uno e due della capitale. Benché il presidente Ghani abbia continuato a pregare, gli scoppi degli ordigni si udivano forti ad Arg e davano il segnale preciso che, negoziati o meno, la guerra va avanti su più fronti. I Talebani hanno negato ogni responsabilità (e in seguito l’Isis ha rivendicato il lancio di sei Katyusha) ma Ghani li ha comunque tirati in ballo, accusandoli di non volere la pace. A due giorni dall’ultima tornata negoziale a Doha, in Qatar, tra governo di Kabul e guerriglia – conclusasi con un nulla di fatto – la guerra delle parole si somma alla guerra guerreggiata, la propaganda alle armi. Anche se era abbastanza evidente sin dal mattino che i razzi non fossero di marca talebana, colpire a pochi metri dal simbolo del potere che fino a ieri era difeso anche dai soldati che per oltre vent’anni hanno occupato l’Afghanistan, non è un bel segnale.

Rivela, se ancora ve ne fosse bisogno, che gli attori della guerra sono assai più numerosi che non i due contendenti – Talebani e Governo – che si fronteggiano a Doha o nei 421 distretti che compongono la galassia territoriale del paese.

Sindrome di Saigon

Di questi 421 distretti, la metà (229 secondo gli analisti dell’Afghanistan Anlysts Network) sono in mano ai Talebani. Si tratta di centri spesso minori o periferici ma alcuni di essi sono attorno ai capoluoghi provinciali dove l’esercito afgano ha schierato le sue difese lasciando in molti casi al nemico i centri più complicati da difendere. La lezione militare è comunque importante e al contempo politica: anche se difficilmente i Talebani potrebbero prendere le grandi città (e gli stessi hanno escluso di volerlo fare) l’effetto valanga delle conquiste (come rivela la mappa) ha un ovvio impatto psicologico ancor prima che bellico.

Distretti afgani contesi tra Talebani e governo di Kabul - luglio 2021

Distretti afgani contesi tra Talebani e governo di Kabul – luglio 2021

Aiuta a diffondere la “sindrome di Saigon” – la paura che cada la capitale – che certo non aiuta l’esecutivo di Kabul. E aver preso gran parte dei posti di frontiera, oltreché un colpo di teatro, priva il Governo dei cespiti derivati del commercio che vengono intascati dalla guerriglia. La lettura più ovvia è che la guerriglia voglia far pesare la pressione psicologico-militare sul negoziato per ottenere di più. E cedere finalmente su un cessate il fuoco che resta una chimera anche se la giornata di martedì, primo giorno della festa di Eid, ha segnalato una tregua di fatto tra Talebani e Governo. Vediamo dunque le forze in campo nella situazione attuale.

Andarsene ma restare: la scelta di Washington

L’abbandono della base di Bagram in gran fretta, ha dato l’idea che gli americani non solo siano determinati ad andarsene ma che vogliano farlo – e lo stanno facendo – nel minor tempo possibile. È proprio così?

Afghanistan: il quadro interno

L’amministrazione Trump aveva previsto una riduzione iniziale della presenza militare Usa da 13.000 a 8600 uomini entro luglio 2020, seguita da un ritiro completo entro il 1° maggio 2021. L’Amministrazione Biden ha poi annunciato in aprile che avrebbe continuato il ritiro, ma oltre maggio e con una data finale che coincide con l’11 settembre. Decisione poi ancora anticipata e che, secondo gli osservatori, avrebbe solo rafforzato la decisione dei Talebani di diventare più aggressivi onde arrivare a un negoziato da posizioni di forza. Intanto è diventata esecutiva anche la decisione dei paesi aderenti alla coalizione Nato che, sempre in aprile, hanno deciso di iniziare il ritiro delle forze della missione Resolute Support il 1° maggio 2021, per completarlo entro la prima metà di luglio (nel febbraio 2021, il personale Nato ammontava a 9592 uomini – di cui 2500 americani – da 36 Paesi. La mappa si può vedere qui). La Nato comunque si impegnerebbe a proseguire l’addestramento in Europa di soldati afgani e i governi della coalizione dovrebbero continuare a sostenere finanziariamente le forze armate afgane. All’inizio della settimana, il 19 luglio, 15 paesi e il rappresentante Nato a Kabul hanno lanciato un appello ai Talebani perché fermino la loro avanzata. Una mossa forse dovuta ma che lascia il tempo che trova.

Modalità di permanenza militare statunitense

Oltre al sostegno finanziario, gli americani però non intendono esattamente uscire del tutto dalla scena afgana. Dovrebbero dunque rimanere attenti su due fronti: quello dei servizi (la Cia sta preparando nei paesi confinanti basi da cui operare anche se non è impresa facile) e quello di un aumento dell’impegno della marina statunitense nel Golfo, da cui monitorare quanto avviene in Afghanistan. Sia per eventuali attività terroristiche non per forza talebane (Isis, qaedisti) ma anche nel caso in cui le cose dovessero precipitare e i Talebani dovessero tentare di far cadere Kabul. Si tratterebbe di utilizzare soprattutto l’aviazione: droni, aerei spia e caccia da impiegare nel teatro afgano in modalità che non sono ancora chiare ma con opzioni interventiste non escluse dal segretario alla Difesa Lloyd J. Austin, secondo il quale le operazioni di sorveglianza aerea sono già iniziate assai prima del ritiro completo e ancora in luglio sono tornate a essere veri e propri bombardamenti aerei partiti da basi esterne al territorio afgano in supporto dell’azione delle forze d’elite di Kabul impegnate nel tentativo di riconquistare territori occupati dai Talebani; le azioni sarebbero concentrate nei distretti di Kunduz e Kandahar e gli ufficiali preposti lamentano sotto anonimato una minore efficacia, dovuta alla diminuita capacità di concentrazione sul bersaglio della missione da parte dell’intelligence dislocata a terra.

I protagonisti autoctoni

La forza dei Talebani

Alle aperture che Hibatullah Akhundzada, il leader dei Talebani, ha fatto il 18 luglio in una nota apparsa sul sito ufficiale dell’Emirato islamico d’Afghanistan sostenendo che la guerriglia vuole la pace e il dialogo, si alterna la durezza nella tattica politica negoziale rafforzata dalla pressione sul terreno in una ventina delle 34 province afgane. Il passato sembra però raccontare di una spallata difficile se i Talebani volessero tentare una scalata militare che arrivi sin nella capitale. Non ci riuscirono i mujahedin quando i sovietici abbandonarono il paese nel 1989, anche se contavano molti più uomini di quanti non ne abbia oggi la guerriglia in turbante. I mujahedin infatti dovettero aspettare il taglio dei fondi che Mosca smise di versare a Kabul. Fu solo a quel punto, nel 1992 – ben tre anni dopo! – che, senza più stipendio, l’esercito che faceva capo al governo amico di Mosca del dottor Najibullah si dissolse aprendo la strada alla conquista della capitale. Difficile comunque valutare attualmente la forza effettiva dei guerriglieri: secondo l’ultima stima disponibile delle Nazioni Unite, i Talebani potrebbero contare su una forza militare che va da 55.000 a 85.000 uomini. Un “esercito” che arriverebbe a 100.000 unità contando anche i non combattenti, gli informatori e i fiancheggiatori. Si tratterebbe di circa la metà dei soldati dell’esercito nazionale afgano (Ansf) che a sua volta può contare su 150.000 poliziotti e personale di intelligence. Se è davvero questo il rapporto di forza, prendere le città è un’impresa pressoché impossibile.

Afghanistan: il quadro interno

Il ritorno dei Signori della guerra

I vecchi e ormai ottuagenari Signori della guerra uniti alla congerie di capi tribali dell’epoca della resistenza contro i sovietici – che appare come una riedizione della vecchia Alleanza del Nord – ritornano sulla scena per gestire quella che hanno già chiamato “seconda resistenza” (moqawamat-e do): eventualità cui si preparano da tempo. Nelle settimane successive all’annuncio del ritiro degli occupanti, diversi gruppi di potere periferico si sono impegnati in manovre armate per posizionarsi come attori “negli sforzi di guerra o di pace” e per controllare il teatro politico e militare. Questi vecchi islamisti, non molto meno radicali dei Talebani e che hanno in media un’ottantina d’anni (c’è anche qualche figlio: è il caso di Batur Dostum o di Ahmad Massud, figlio del famoso comandante del Jamiat, Ahmad Shah Massud) costituiscono uno dei rischi principali di una nuova sanguinosa guerra civile di cui già sono stati buoni attori nel passato. I nomi sono noti: Abdul Rasul Sayyaf, Abdul Rashid Dostum, Muhammad Ismail Khan, il ras di Herat che ha già schierato i suoi uomini a difesa della città occidentale che controlla da sempre (sostiene di poter contare addirittura su 500.000 uomini!). Ovviamente quello dei Signori della guerra non sarebbe un esercito unico e unito ma semmai uno spurio battaglione formato da milizie etniche con lo scopo di difendere le identità delle diverse province; ma soprattutto con la finalità di controllare le rendite di posizione personali dei vari leader nei territori e nel Governo di Kabul. Ghani sembra voler puntare su di loro come sostegno all’esercito della repubblica. La Storia si ripete (su di loro avevano puntato anche gli americani).

Afghanistan: il quadro interno

Un fragile esecutivo

Al di là dell’aspetto militare (che sembra scontare un addestramento perseguito con i canoni degli occupanti che, avendo perso la guerra coi Talebani, non sembrano essere o esser stati i consiglieri migliori), un problema è rappresentato proprio dall’esecutivo afgano o meglio dal presidente Ashraf Ghani, che non vuole mollare la poltrona e rifiuta sia un governo di transizione sia l’idea di farsi da parte. Ashraf Ghani, che non ha brillato nei tentativi negoziali coi Talebani e che all’ultimo incontro a Doha non ha neppure partecipato, è in rotta di collisione con diverse province dove la nomina dei governatori (a lui fedeli) ha sollevato malumori che si sono tramutati anche in incidenti. Né ha trovato consenso la sua ultima trovata di un Supremo Consiglio di Stato, superorganismo (ovviamente solo consultivo) per coinvolgere anche chi è fuori dal governo o si senta politicamente escluso. Ci dovevano essere l’ex presidente Hamid Karzai e il leader di Hizb-e-Islami Gulbiddin Hekmatyar così come Salahuddin Rabbani, il capo di una fazione del Jamiat-e-Islami, assieme ad altri 15 influenti personalità politiche. Ma proprio Karzai, Rabbani ed Hekmatyar hanno rifiutato l’invito, individuando nella decisione del presidente l’ennesima manovra di Ghani per far finta di condividere decisioni che in realtà vuol prendere da solo. Ghani è a capo dell’apparato militare e può contare sulle persone che ha nominato ai vertici dello stato, nell’esercito e nelle province in questi anni.

Ma questa forza apparente del presidente è di fatto una debolezza che rischia di riflettersi anche sul piano militare – dove appunto si vanno aggiungendo i vecchi mujahedin – ed è scomparso l’alleato che dava le indicazioni: Washington.

Quel che resta di Isis e al-Qaeda

Le bombe Eid al-Adha o l’attacco in maggio alla scuola nel quartiere sciita Dasht-i-Barchi di Kabul, ci ricorda la presenza attiva di quel che rimane dell’Isis o meglio della Provincia del Khorasan affiliata all’autoproclamato ed ex Stato Islamico di Raqqa. Schegge apparentemente senza padrone (circa un paio di migliaia) che continuano a colpire e ad attrarre quando possono ex talebani irriducibili o in rotta coi vertici o ex miliziani stranieri (Iraq, Siria) in cerca di un nuovo lavoro. Fenomeno in parte residuale, come la presenza di al-Qaeda, ma che crea caos ulteriore confondendo acque già torbide. Si teme che tutte queste variabili possano essere comprate dal miglior offerente, discorso che vale anche per Talebani e mujahedin.

Come in passato, la presenza di più forze in campo, che necessitano di finanziamenti esterni (i Talebani meno di altri), può alimentare nuovamente le ceneri del conflitto interno per servire l’agenda di chi vuole condizionare da fuori il futuro dell’Afghanistan.

Una lista lunga: dai russi ai pachistani, dagli indiani ai cinesi, dall’Iran alle potenze piccole e grandi del Golfo.

La popolazione civile

C’è un ultimo elemento poco considerato dagli osservatori, molto concentrati sugli aspetti e gli apparati militari (esercito, talebani, milizie): la popolazione civile. Prima di tutto rappresenta una resistenza forte nelle città a un nuovo avvento di un governo oscurantista. Meno vera nelle campagne, questa avversione verso i Talebani si salda comunque probabilmente con una stanchezza diffusa della guerra come dimostrarono le “marce della pace” che attraversarono in lungo e in largo il paese tra il 2018 e il 2019. Ma la gente delle città può anche diventare una forza militare qualora i Talebani tentassero la spallata. Se Governo e Talebani (e forze d’occupazione) avessero ascoltato questo attore solo apparentemente secondario in passato, le cose forse non sarebbero arrivate a questo punto. Resta, comunque la si voglia vedere, una risorsa nel buio tunnel del conflitto.

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Afghanistan: tolto il ciocco che attizza il fuoco, il vuoto si riempie di caos https://ogzero.org/il-vuoto-che-si-riempie-di-caos/ Tue, 15 Jun 2021 07:32:13 +0000 https://ogzero.org/?p=3819 Gli anni del Great Game afgano superano ormai la quarantina, la popolazione è stremata da scontri e Signori della guerra e non ne può più di scontri. E forse su questo si può contare affinché le forze talebane non ripetano l’esperienza di un regime oscurantista intollerabile. In un articolo per “Atlante delle Guerre” Emanuele Giordana […]

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Gli anni del Great Game afgano superano ormai la quarantina, la popolazione è stremata da scontri e Signori della guerra e non ne può più di scontri. E forse su questo si può contare affinché le forze talebane non ripetano l’esperienza di un regime oscurantista intollerabile. In un articolo per “Atlante delle Guerre” Emanuele Giordana espone queste speranze, ribadite ai nostri microfoni nel podcast estratto da Radio Blackout, mentre Giuliano Battiston si aggira per Kabul, registrando umori, scelte di campo, decisioni che gli afgani di ogni comunità, stirpe, ceto o credo religioso si ripromettono di seguire nel momento in cui lo straniero se ne sarà andato. E lo fa stilando un diario di appunti quotidiano, pubblicato su “Lettera22“, che riporta le molteplici ricostruzioni dei giochi di potere, a seconda dell’interlocutore. Intanto la violenza cresce e il vero pericolo è questo: il vuoto che si riempie di caos.


Il futuro dell’Afghanistan

Emanuele Giordana ci ricorda che in passato, in questi 40 anni di guerra continua e occupazioni, i “ritiri” non sono mai stati indolori e auspica un livello di cooperazione internazionale che permetta sostegno vero alla popolazione, a guida Onu e non della Nato che comprenda anche i paesi musulmani, per evitare che il vuoto non porti a una soluzione pacifica.

La dipartita completa delle truppe straniere dall’Afghanistan prevista a settembre solleva una serie di preoccupazioni, in parte condivisibili in parte forse sovrastimate, che sembrano a volte sottintendere che, magari… sarebbe stato meglio restare. Tensione e timori sono comprensibili, assai meno una specie di racconto del caos in cui l’Afghanistan precipiterebbe proprio perché noi ce ne andiamo. Con un ragionamento molto semplice e quasi banale, viene infatti da pensare che, se si leva dal fuoco il ciocco più grosso (la guerra contro gli stranieri), dovrebbe esser più facile governare le ceneri per quanto ancora calde. La Storia può dare una mano.

1989: Quando le donne non portavano il burqa

Quando nel 1989 dopo dieci anni di una guerra fallimentare l’Urss si ritirò dall’Afghanistan, nessuno si preoccupò del baratro su cui il paese era sospeso: con una guerra civile in corso, uno stato fallimentare ormai privo di aiuti (che l’Urss cominciò a sospendere dal ritiro) e un futuro oscuro per donne che, all’epoca del soviet afgano, erano ministre o direttrici di giornali che non portavano il burqa. Proprio quanto avvenne ai tempi dell’Urss dovrebbe servire di lezione perché col ritiro delle truppe andrebbe previsto un piano a lungo termine, una visione per ricompensare almeno in parte i danni di un conflitto durato vent’anni. Allora non era semplice farlo ma oggi si può.
Quando dopo gli accordi di Ginevra dell’aprile 1988 Urss, Usa e Pakistan si accordarono sul ritiro dell’Armata rossa, a patto che nessuno più finanziasse la resistenza, a maggio iniziò il ritiro dei soldati che si concluse in febbraio. Il governo di Najibullah però resisteva: è nota la battaglia di Jalalabad dell’aprile 1989 quando i mujahedin, che Usa e Pakistan continuavano a rifornire violando gli accordi, non riuscirono a prendere la città che sta sulla frontiera col Pakistan, retroterra dell’intera coalizione guerrigliera. Fu solo dopo il 1990 che le cose si complicarono: gli Usa smisero di sostenere i combattenti islamici (ma non cosi Islamabad e Riad) mentre Gorbachov si rifiutò di continuare a pagare Najibullah. Non potendo più erogare gli stipendi, il suo esercito si sciolse come neve al sole e i mujahedin, gente non molto più progressista dei Talebani, entrarono vittoriosi a Kabul dove iniziarono a guerreggiare tra loro.

Un gruppo di mujaheddin nella provincia di Kunar nel 1987 (foto erwinlux).

2021: il consenso dei Talebani al lumicino

Trent’anni dopo, pur con tutte le differenze, siamo a un punto simile. I Talebani controllano in parte campagne e piccoli centri ma hanno un consenso al lumicino, fiaccato da vent’anni di guerra. Non possono prendere le città e, in presenza di un piano di reclutamento nelle file dell’esercito nazionale, si troverebbero senza manodopera. Continuando a finanziare l’esercito afgano con stipendi decorosi e stimolando la creazione di un partito politico (non sarebbe il primo partito radicale dell’Afghanistan), i Talebani potrebbero essere coinvolti nel gioco parlamentare, con qualche ministero e posti nell’amministrazione pubblica e nell’esercito. Quanto alle donne afgane, esse hanno da temere dai Talebani non molto più di quanto già non debbano temere da una società maschile che non ha risparmiato loro, nemmeno in democrazia, la negazione dei diritti fondamentali.

Kabul 2004 (foto timsimages.uk).

Naturalmente è necessario continuare a sostenerle, finanziando i loro progetti e rafforzando una società civile cui i governi Karzai e Ghani hanno sempre riservato uno spazio esiguo.

Jalalabad 2021, proteste delle donne del Nangarhar.

L’Italia, per esempio, ha speso per l’apparato militare 8,4 miliardi di euro in 20 anni (cui vanno forse detratti spiccioli della cosiddetta cooperazione civile-militare). Solo 320 in cooperazione civile, nemmeno il 5 per cento…

Il quadro di accompagnamento

La comunità internazionale e l’Italia potrebbero allora lavorare a un piano che preveda un forte aumento della spesa di cooperazione, un sostegno politico alle istituzioni, riconfermando un contributo finanziario per molti anni con dei paletti, e l’appoggio alle ong – locali e internazionali – attive nel paese. Andrebbe aggiunto un quadro di “accompagnamento” guidato dall’Onu – non certo dalla Nato – con l’allargamento a partner regionali (Russia compresa) finora tenuti fuori dai negoziati. Una riformulazione dell’impegno potrebbe anche passare dall’impiego, se davvero necessario, di una forza di interposizione a guida Onu che coinvolga anche i paesi musulmani, dall’Indonesia al Marocco. Ma di tutto ciò, a parte un’iniziativa turca – che proprio perché nelle mani di Erdogan lascia perplessi – nulla si vede tranne qualche frase di rito che appare un po’ retorica. Se tornare a casa lascerà un vuoto sarà più facile che a riempirlo sia il caos.

Kabul: l’attentato del 13 giugno 2021.


Diario afgano

E a riempire il caos con voci dissonanti raccolte estemporaneamente ci pensa Giuliano Battiston con l’esordio del suo diario kabulino, pubblicato da “Lettera22”, la prima e la seconda puntata raccontano la nascita della “seconda resistenza” all’oscurantismo talebano.

«Piuttosto che finire sotto i Talebani prendo un’arma anche io». Abdul (nome di fantasia) è avvocato, lavora in un progetto per la riforma della giustizia, con fondi americani. Parla di transitional justice, ma se si mette male si dice pronto a fare quello che non ha mai fatto: “prendere un’arma”. Il giovedì pomeriggio il caffè Simple, nel quartiere di Kart-e-Char, si riempie di giovani come lui. Ventenni e trentenne istruiti, che parlano inglese e chiacchierano nei caffè del quartiere, a poche centinaia di metri dall’università di Kabul, chiusa per Covid.

È un tardo pomeriggio prefestivo. Tavolini e panchetti esterni sono pieni. Incontriamo quattro ragazzi, tre hanno avuto il Covid. Uno indossa la mascherina. Molto meno congestionata del solito, la città non si spenge. «Come potranno i Talebani controllare una città come questa, cinque milioni di abitanti, oppure Herat, la stessa Kandahar?».

Sotto i Talebani, qui non ci vogliono stare. Come altrove nel paese. «Siamo pronti alla pace ma anche alla guerra», ripetono tutti. È tempo di “moqawamat-e-do”, di una seconda resistenza. Contro l’eventuale offensiva militare dei Talebani, si sta formando un’alleanza armata simile a quella che ha resistito negli anni Novanta all’Emirato islamico.

«Retrospettivamente, con prima resistenza si intende quella condotta contro i Talebani dalla cosiddetta Alleanza del Nord, soprattutto il Jamiat-e-Islami, il Jumbesh-e-Milli e il Hezb-e-Whadat. La “seconda resistenza” è un termine diffuso da qualche mese dagli stessi protagonisti», ci spiega Ali Adili, ricercatore dell’Afghanistan Analysts Network, che sul tema ha appena pubblicato un articolo informato.

La seconda resistenza nasce dall’impasse del processo negoziale intra-afghano. «Mi pare che nessuno dei due attori, Talebani e fronte repubblicano, consideri più il processo di pace come il piano A», ci dice Ali Adili. «Entrambi hanno intensificato il conflitto. I Talebani occupando nuovi distretti, il governo concentrandosi sulle capitali provinciali». Il fronte repubblicano è più diviso che mai. «Non c’è una strategia comune, nessun consenso su cosa fare». Lo dimostra l’impasse sul Consiglio Supremo di Stato.

Kabul divisa, periferie in fermento

Il ritiro delle truppe innesca dinamiche nuove: si gonfiano i muscoli e ci si arma. Rivendicando sui social le milizie, oltre l’autorità di Kabul. «Restando attaccato al potere Ghani ostacola la soluzione. L’unico modo per uscire dall’impasse è convincerlo a farsi da parte, facendo nascere un governo a interim», ci raccontano due abituali interlocutori qui, nella capitale afghana. La sovranità centrale del governo e delle stesse forze di sicurezza viene apertamente sfidata. «Se non è in grado di proteggerci, lo faremo da noi», si dice. Sul cancello non lontano dall’ingresso della scuola Sayed al-Shohada, nel quartiere sciita di Dasht-e-Barchi, dove un mese fa un attentato ha ucciso 85 studentesse, uno striscione funebre chiede giustizia, «o ci prenderemo la nostra vendetta».

Alla scuola Sayed al-Shohada, i familiari delle studentesse ferite nell’attentato chiedono sostegno (foto Giuliano Battiston).

Ci si protegge da sé. Il processo di pace mal gestito da Washington ha rafforzato i Talebani, «che rimangono un movimento sostanzialmente pashtun», sottolinea ai tavolini del caffè Simple Abdul, la cui famiglia viene da Bamiyan. «Per noi sono come i fascisti che voi avete combattuto in Europa», sostiene Jawad, che lavora in una ong. Canteranno pure vittoria, ma non si illudano di prendere Kabul e le città, i Talebani. La seconda resistenza nazionale è pronta.

Nel suo articolo Ali Adili elenca una serie di casi. A Herat, nella sua residenza il dominus della provincia Ismail Khan, Jamiat-e-Islami, celebra i vecchi mujahedin, accoglie nuovi uomini armati e si dice pronto: «Abbiamo più di 500.000 uomini, difenderemo questa terra. Il governo centrale ci lasci fare». Ahmad Massud, figlio del comandante Massud, si dice pronto a «restaurare il vero sistema islamico che era obiettivo dei nostri martiri e mujahedin». L’ex peso massimo del Jamiat e ora fuoriuscito, Atta Mohammad Noor, dice ai Talebani che è bene «capiscano che siamo ancora vivi e che la nazione si difenderà».

L’hazara Mohammed Mohaqeq manda messaggi simili. Nell’Hazarajat spunta la milizia “Dai Chahar”. L’ex presidente Karzai dichiara a “Der Spiegel”: «stiamo serrando i ranghi e organizzando la resistenza. Dico al Pakistan: siate ragionevoli». A Maimana, capoluogo della provincia nordoccidentale di Faryab, gli uomini del generale Dostum e del suo Jombesh-e-Melli si oppongono con le armi all’insediamento del governatore provinciale, scelto dal palazzo presidenziale.

Sull’“Atlantic Council”, Tamim Asey, già viceministro della Difesa afghano, scrive che i Talebani «vanno dissuasi militarmente dall’idea di cercare la vittoria con la guerra». La “resistenza 2.0 è inevitabile” e sarà fatta anche di milizie, sostenute dagli attori regionali anti-Talebani.

«Ci aspettano tempi bui», dicono i ragazzi del caffè Simple. Sulla strada per casa, superato il passo Gardanah-ye Sakhi e scendendo verso la grande arteria Salang Wat, sventola un bandierone. Non è nero, rosso e verde. Non è la bandiera nazionale della Repubblica islamica d’Afghanistan. È verde, bianca e nera: la bandiera dello Stato islamico d’Afghanistan. Il governo di Rabbani e dei mujahedin anti-Talebani.

Le voci sul presidente Ghani

Kabul – Incontro Seema– nome di fantasia – nel suo ufficio con aria condizionata di Qala-e-Fatullah. È direttrice di una ong che ha fatto propria la liturgia liberale del periodo post-Talebano: democracy, empowerment, good governance, civil society. Progetti, progetti, progetti. Partner o donatori sono Usaid, le ambasciate britannica, danese e statunitense, tra gli altri. Ha ricoperto incarichi importanti nelle istituzioni. Lamenta il disimpegno diplomatico e finanziario della comunità internazionale, parallelo al ritiro delle truppe. Sa che i fondi verranno meno. Sul fronte interno dice che «c’è una sola soluzione: convincere Ghani a farsi da parte».

Il negoziato tra Talebani e fronte repubblicano è lento. La violenza cresce. Le posizioni negoziali sono più rigide di prima. I Talebani capitalizzano il ritiro delle truppe straniere, guadagnano distretti, fanno propaganda. Il governo riproduce il conflitto intorno a sempre nuovi corpi istituzionali che servivano a disinnescarlo. Contenitori costruiti per concedere potere a chi non lo aveva. L’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, l’organismo creato per far ingoiare ad Abdullah Abdullah il nuovo mandato di Ghani dopo le ultime contestate elezioni, ancora non è del tutto formato. Eppure ora ci si accapiglia su struttura, mandato e nomi del Consiglio supremo di stato.

(Foto Giuliano Battiston)

Previsto nell’accordo del maggio 2020 «per accomodare chi era rimasto escluso dall’accordo tra Ghani e Abdullah, soprattutto Rabbani, Karzai, Hekmatyar», ci spiega Ali Adili, dell’“Afghanistan Analysts Network”.

Una seconda resistenza

Nel paese intanto si parla apertamente di una seconda resistenza, come quella dei mujahedin contro i Talebani. Milizie sostenute da attori regionali anti-Talebani, suggerisce qualcuno. In posti come Sar-e-Pul, Samangan, che non sono mai finiti sotto il controllo degli studenti coranici, ci si attrezza.

«Una parte del quadro politico imputa al presidente una resistenza eccessiva. Ghani ritiene di poter inglobare i Talebani nelle strutture esistenti, concedendo porzioni di potere. Ed esclude invece il governo a interim», sostiene Adili. Già prima delle elezioni presidenziali, Ghani aveva resistito alle pressioni per rinunciarvi in favore di un governo di transizione. Cercava un mandato forte da giocare sul tavolo negoziale con i Talebani. Ne è uscito con elezioni contestate e un mandato debole. «Il governo non è migliore dei Talebani», dice più di uno, qui a Kabul. Ci si fida poco dei Talebani quanto del governo.

Per Seema, Ghani è il problema. Talmente attaccato al potere da essere «pronto a trasferire il palazzo presidenziale a Paghman e continuare a governare da lì, anche se i Talebani prendessero Kabul… Ma sono solo rumors», precisa. Uno dei ragazzi hazara del caffè Simple, ieri raccontava una storia diversa, su Ghani: «Pur di non lasciare il paese in mano a non-pashtun, è disposto a darlo ai Talebani e a tornarsene negli Usa».

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Rohingya: il genocidio silenzioso di una comunità musulmana nella sua città https://ogzero.org/rohingya-il-genocidio-silenzioso-di-una-comunita-musulmana-nella-sua-citta/ Tue, 08 Dec 2020 18:49:27 +0000 http://ogzero.org/?p=1991 Questo reportage è il frutto di un viaggio a Sittwe, capitale del Rakhine, nel luglio 2020. È stato pubblicato nell’ottobre 2020 sul n. 44 de “Il Reportage”, trimestrale diretto da Riccardo De Gennaro. Qui se ne riporta la versione integrale dell’Autore. Il duplice volto di Sittwe Sittwe (Stato del Rakhine). Quanto tempo ci vuole per […]

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Questo reportage è il frutto di un viaggio a Sittwe, capitale del Rakhine, nel luglio 2020. È stato pubblicato nell’ottobre 2020 sul n. 44 de “Il Reportage”, trimestrale diretto da Riccardo De Gennaro. Qui se ne riporta la versione integrale dell’Autore.

Il duplice volto di Sittwe

Sittwe (Stato del Rakhine). Quanto tempo ci vuole per dimenticare il dolore? E quanto ce ne vuole perché il dolore diventi abitudine, sistema di vita, quotidianità? Un musulmano di Sittwe lo sa anche se in questa città settentrionale del Myanmar le apparenze possono ingannare. La capitale del Rakhine, lo stato birmano da cui tra il 2012 e il 2017 almeno 850.000 musulmani rohingya sono stati obbligati a fuggire da una sistematica persecuzione, sembra una città tranquilla e invitante. Il lungomare porta a un belvedere affacciato da una parte sul Golfo del Bengala e dall’altra sul delta di un grande fiume limaccioso che confonde le sue acque con quelle del Mar delle Andamane. Lungo la passeggiata, coppiette mano nelle mano, bambini festosi e giovani che si allenano. Qualche surfista occidentale e giovani allegri che nuotano su pneumatici gonfiati come enormi salvagenti. Sulla spiaggia decine di baracchette con birra, gamberi arrostiti, piacevolezze da weekend e sorrisi. Sullo sfondo, pagode ristrutturate con lamine dorate.

Tempi dorati Rakhine

Il capo sul mar delle Andamane. Foto di Svetva Portecali

La città vecchia non dimentica

Nel cuore della città vecchia però si respira tutt’altra aria. Se l’occhio va oltre l’alto muro di cinta che circonda la grande moschea di Sittwe, l’antica costruzione ottocentesca – un piccolo gioiello dell’arte islamica con suggestioni mogul – è ora un ammasso di rovine. La struttura esterna ha resistito ma dentro tutto è devastato. Le piante si arrampicano rapide lungo i muri sbrecciati, corrosi dall’umidità e dall’incuria. E se dimenticare è difficile, alla natura bastano otto anni per cominciare a ripigliarsi ciò che era suo. Succede lo stesso per altri luoghi di culto islamici della città ed è accaduto anche a monasteri e templi buddisti, seppur in maniera minore. Non lontano dalla moschea si apre il ghetto islamico. Non ci si può entrare e non ci si può uscire. Quanti sono? Una stima dice 4000. Quanti erano? Forse 80.000. Come sopravvivono? È un altro mistero di una città divisa da una guerra per bande scoppiata nel 2012 che, nel giro di qualche mese, ha chiuso un bilancio per il solo Rakhine – dice un rapporto del 2013 di Pysichians for Human Rights – di almeno 280 morti, circa 135.000 sfollati e la distruzione di oltre 10.000 abitazioni, decine di moschee, madrase e monasteri.

Antica moschea abbandonata a Sittwe

La grande moschea devastata e chiusa. Foto di Svetva Portecali

La scintilla che scatena i pogrom

Se buddisti, cristiani e musulmani rohingya (una comunità di lingua bengalo-assamese ed etnicamente indo-ariana che vive qui da secoli) convivevano più o meno pacificamente, al netto di qualche ricorrente dissidio, nel 2012 uno stupro mortale di cui sono accusati tre musulmani scatena il caos. Un autobus viene assalito e vengono giustiziati dieci rohingya. Parte la caccia all’uomo dalle due parti ma con due grossi svantaggi per la comunità islamica: sono minoranza in un paese devoto a Budda il compassionevole e l’esercito chiude un occhio. Un occhio lo chiudono anche le autorità religiose buddiste che solo in seguito prenderanno le distanze dal movimento “969” del monaco oltranzista Ashin Wirathu, i cui infiammati sermoni istigano all’odio e alla violenza etnico-religiosa. Una violenza che si espande in decine di siti in tutto il paese – Meiktila, Yamethin, Mandalay – ma che ha il suo fulcro nel Rakhine, a Sittwe, dove i musulmani vengono “evacuati” nei campi sfollati fuori dalla capitale.
Il pogrom antimusulmano si ripete cinque anni dopo, nel 2017, quando un gruppo islamico (Arakan Rohingya Salvation Army – Arsa) attacca alcuni siti delle forze di sicurezza birmane nel Rakhine. È la loro risposta al 2012, ma per l’esercito birmano – conosciuto come Tatmadaw – è l’occasione per far piazza pulita. Nel giro di un mese quasi 700.000 rohingya scappano in Bangladesh a ingrossare le fila nei campi profughi oltre confine. Presto se ne aggiungono altri. Il Myanmar non è più casa loro: per Naypyidaw sono bengalesi immigrati, quindi clandestini, senza diritto a un documento. La parola rohingya è bandita dal vocabolario in quella che diventa la prima grande operazione di pulizia etnica del XXI secolo che si consuma, dopo 50 anni di governo militare, all’ombra del primo esecutivo civile con a capo un premio Nobel, la signora Aung San Suu Kyi. Poi, tra la fine 2018 e l’inizio del 2019, per Tatmadaw appare un’altra sfida: l’Arakan Army, autonomisti arakanesi per lo più buddisti e armati. Sono nati nel 2009 e sono attivi dal 2015 ma questa volta fanno sul serio. Non sono gli straccioni armati di machete e moschetto dell’Arsa. Una nuova guerra si riaccende tra le pianure del Rakhine e le montagne dello stato Chin, dove l’AA mantiene le sue basi operative.

Sfollati e vulnerabili

A fine 2019 il più recente aggiornamento dell’Ufficio Onu per gli affari umanitari (Ocha) diceva che circa la metà della popolazione sfollata in Myanmar a causa del conflitto vive nello stato del Rakhine: circa 241.000 sfollati – il 77% sono donne e bambini – vivono in campi o in situazioni simili a campi negli stati Kachin, Kayin, Shan e Rakhine. Ciò include – sempre secondo Ocha – circa 92.000 persone nel Kachin, 15.000 nello Shan, 5600 nel Kayin e quasi 130.000 persone nel Rakhine, in gran parte sfollate a causa delle violenze del 2012. Numeri che crescono e che il sito dell’Unhcr stimava nel 2019 a oltre 700.000 persone (prese in carico a diverso titolo, tra cui 600.000 rohingya). La condizione in cui vivono gli sfollati nei campi è di estrema vulnerabilità: persistenza dei conflitti armati, apolidia, restrizioni di movimento, malnutrizione, malattie. Le agenzie umanitarie fanno quel che possono ma «l’accesso ai campi sfollati viene impedito dall’esercito a qualunque straniero. Possiamo arrivarci – dice il funzionario di un’organizzazione internazionale che chiede l’anonimato – solo con personale locale». C’è una diffusa reticenza a parlare coi reporter da parte delle varie strutture internazionali – dalle Nazioni Unite alle Ong – presenti a Sittwe. Probabilmente è dovuta anche al fatto che nel 2014 ci fu una vera e propria sollevazione contro gli internazionali ritenuti pro-rohingya e a un episodio dell’aprile di quest’anno, quando è stato ucciso nel Rakhine un autista dell’Oms. Nessuno se la sente di parlare con un giornalista, nemmeno off the record. «Argomento troppo sensibile», è la vaga risposta quando una risposta viene data.

Una casa musulmana abbandonata. Foto di Svetva Portecali

Accesso vietato

A Yangon un funzionario Onu accetta di parlare ma anonimamente: «La situazione si è molto complicata dal 2019: in termini di flussi, stiamo parlando di 70 nuovi siti – difficile, dice, chiamarli “campi” – con 45.000 sfollati che nei primi sei mesi del 2020 sono raddoppiati: 150 siti con un totale di 90.000 sfollati. In queste aree del Rakhine il nostro lavoro è ostacolato da una burocrazia di permessi che comincia col governo ma finisce con i militari. E il Western Comand, che controlla l’area, ha sempre l’ultima parola. Per il personale non birmano l’accesso è praticamente impossibile e anche per i locali non è facile: ci sono cinque livelli da superare per avere un permesso nelle aree off limits salvo che il primo check point non ti rispedisca a casa. L’accesso è migliore nelle aree urbane ma in quelle rurali – nelle zone di Paletwa, Rathedaung e Buthidaung – non c’è niente da fare. Il mantra è “sicurezza” cui si sono aggiunte – conclude – le restrizioni del Covid». È abbastanza chiaro che non è molto piacevole dover ammettere di non aver quasi nessuna capacità di controllo sull’emergenza umanitaria degli sfollati che richiede comunque una spesa di circa 150 milioni di dollari l’anno. È possibile solo un monitoraggio a distanza che lascia libero Tatmadaw di controllare la situazione e la segregazione. Va aggiunto poi che, al di fuori di Sittwe, la regione è da oltre un anno isolata da Internet. Impossibile dunque persino comunicare, figurarsi controllare.

Impossibile comunicare: isolamento e mancanza di controllo

Anche ottenere i dati è complesso e i siti internet, cui le organizzazioni rimandano, non sono di grande aiuto. Quel che è certo e che la statistica non è di casa nel Rakhine. E difficile sapere con certezza le variazioni demografiche di Sittwe, l’unico posto che uno straniero possa raggiungere. In aereo. La città è sigillata e non si può uscire perché attorno si spara e «a volte in città scoppia qualche bomba», confida una fonte locale. L’Arakan Army è più vicino di quanto non si pensi e nel primo quadrimestre del 2020 ha messo a bilancio oltre 80 azioni armate al mese. A inizio agosto ci sono stati scontri con vittime tra Tatmadaw e l’AA nelle città di Rathedaung e Buthidaung, a Nord di Sittwe e, a fine luglio, due raid aerei dell’esercito birmano hanno bombardato l’area tra Kyauktaw e Mrauk U – a circa 150 chilometri Est da Sittwe per rispondere a un attacco dell’AA. Il giorno dopo, vediamo una colonna di camion trasporto truppe attraversare la capitale. Una cinquantina di soldati per camion usciti da una delle tante caserme di Sittwe. Molti residenti, si dice, avrebbero abbandonato l’area: la zona dista una sessantina di chilometri in linea d’aria dal territorio di Paletwa, nel Chin, dove, con la popolazione civile, sono intrappolati dai continui scontri armati anche alcuni sacerdoti cattolici. È l’altro fronte della guerra nei due “stati caldi” dove il processo di pace tra Naypyidaw e gli eserciti armati degli stati periferici birmani (l’ultimo vertice si e tenuto in agosto) non funziona. Con le fazioni che hanno firmato l’accordo di cessate il fuoco c’è tutt’al più qualche scaramuccia. Nel Chin e nel Rakhine si combatte. Quotidianamente.
Una fonte locale confida che «la guerra è purtroppo una realtà quotidiana anche nelle aree di Myay Bon e di Min Bya», sempre a Est di Sittwe, dove «si combatte tutti i giorni». A Nord della capitale è forse ancora peggio: a giugno «la situazione della sicurezza nelle aree settentrionali dello stato Rakhine rimane instabile, con continui combattimenti e una maggiore presenza di forze di sicurezza nel distretto di Rathedaung – scrive un rapporto congiunto Ocha-Unhcr – tuttavia i numeri sono difficili da verificare a causa della fluidità della crisi» ma quasi 3000 persone avrebbero lasciato la zone degli scontri. «È stata fornita assistenza agli sfollati, ma l’accesso per valutare e rispondere ai bisogni rimane una sfida, in particolare nelle zone rurali… aggravata dal Covid-19». Se il controllo sugli aiuti è difficile, quello sulle attività di Tatmadaw lo è ancora di più: «Molto semplice: bruciano tutto, passano coi bulldozer e dopo qualche settimana la foresta ricopre tutto», sostiene un’altra fonte a Yangon. Lo confermano le riprese satellitari che Amnesty o Human Right Watch fanno ciclicamente per monitorare, dal 2017, cosa succede da queste parti dove è facile sparire senza che se ne sappia più nulla.

Ambala: un lager a cielo aperto

All’ingresso di Aung Mingalar o “Ambala”, com’è conosciuto il quartiere musulmano di Sittwe, i gabbiotti azzurri della polizia presidiano mucchi di spazzatura e impediscono che ci si avvicini a un’area in cui non è permesso entrare e da cui non è permesso uscire. Un lager a cielo aperto col titolo di quartiere «in cui vivono circa 4000 persone», secondo Nay San Lwin, cofondatore della Free Rohingya Coalition: «Solo poche persone – dice – possono uscire dal quartiere per fare spesa ogni due settimane. Sorvegliati dalla polizia». Molte case musulmane sono semplicemente abbandonate, altre sono diventate caserme o aree di rispetto interdette. In una settimana a Sittwe incontriamo non più di tre quattro donne con l’hijab e quando ci imbattiamo in un gruppetto di ragazzi dai tratti somatici indiani, specificano subito di essere “indostani”, vale a dire non rohingya. Secondo le statistiche ufficiali del 2016, rielaborazione dei dati del censimento del 2014, nel Rakhine il 96,2% degli abitanti è buddista (il dato nazionale è 87,9%) mentre i musulmani sarebbero solo l’1,4% contro il 4,3% nazionale. Ma nel Nord Rakhine la percentuale cambia: 60% di buddisti contro 30% di musulmani (70% a 29 o 67% a 24 secondo altre fonti) anche se ormai la bilancia etnico-religiosa è cambiata. Con la fuga di quasi un milione di rohingya negli ultimi anni, i pochi che restano sono i prigionieri di Sittwe e dei campi sfollati.

Sittwe

Fuori dal mercato di Sittwe. Foto di Svetva Portecali

Il distretto di Sittwe conta oltre un milione di abitanti e per Sittwe città la stima è attualmente di oltre 150.000 di cui circa il 70% vive nell’area urbana. Quanti musulmani sono andati via dalla città e quanti ne sono rimasti, se gli sfollati a giugno 2017 erano – scrive il Sittwe Camp Profiling Report* – ancora quasi 100.000 distribuiti in 15 campi nell’area rurale di Sittwe e altri 20.000 dispersi in un’altra ventina di campi nel Nord Rakhine? La fotografia del 2017 non dice quanti di loro abbiano raggiunto, prima o dopo il 2017, l’ondata di profughi rohingya riversatasi in Bangladesh o abbiano scelto la via del mare verso Thailandia o Malaysia. Quel che si sa con certezza è che la piccola minoranza dei Kaman – una popolazione musulmana del Rakhine che è però riconosciuta tra le 135 nazionalità ufficiali (da cui i rohingya sono esclusi) – sarebbe sfollata a Yangon. Un provvedimento cui nel 2018 si oppone un ex ministro vicino ai militari, sostenendo che così si «esporta il cancro» nella parte sana del paese. Quanto ai musulmani nei campi attorno a Sittwe, nel 2017 l’84% proveniva dalla città che ne doveva dunque ospitare, prima del pogrom, almeno 80.000. Se contare i musulmani prigionieri a Sittwe è un’operazione incerta, qualche dato comunque illumina: per esempio il numero di trattamenti all’ospedale generale della città nel periodo settembre-dicembre 2019 che ha a bilancio 26.046 interventi per “razze nazionali” contro 814 per “musulmani”. Con una divisione razziale dei pazienti che, da sola, messa nero su bianco, mette i brividi.

Un conflitto senza soluzione?

Il Myanmar – ha scritto International Crisis Group nel suo ultimo rapporto sul Rakhine (giugno 2020) – «ha anche sviluppato una strategia legale per difendersi dalle accuse di genocidio (per il dossier rohingya [N.d.A.]) alla Corte internazionale di giustizia. Ma sembra non avere una più ampia strategia per risolvere la crisi di fondo… dovrà riconoscere che il conflitto con l’AA e la crisi dei rohingya sono collegati, ed entrambi devono essere affrontati per stabilizzare il Rakhine e migliorare significativamente le sue prospettive di sviluppo. Senza fine al conflitto con l’AA, il rimpatrio volontario dei rohingya (dal Bangladesh [N.d.A.]) è inconcepibile. Inoltre, qualsiasi progresso sostenibile nel miglioramento della vita dei rohingya richiede una consultazione con la popolazione del Rakhine per ottenere il suo via libera. Eppure nel contesto attuale, tutto ciò sembra quasi inconcepibile, dato che l’impegno a livello politico tra il governo e il popolo del Rakhine – conclude Ics – è del tutto assente».

Rohingya: il genocidio silenzioso

A Sittwe, mentre sul lungomare si gustano calamari e gamberoni, si consuma in sostanza un genocidio silenzioso dove i killer nei lager a cielo aperto sono anonimi: fame, malattie, depressione, prigionia. E tempo. Lo sterminio attraverso un lento stillicidio di quel che rimane di una comunità.

* Dati raccolti con questionario da CCCM, Danish Refugee Council, Unhcr. Il Rapporto (155 pagine più annessi) utilizza una sola volta il termine “rohingya” a testimoniare quanto l’argomento resti “sensibile”: «For the purposes of this paper, the term Muslims is used to refer to the population the Government refers to as “Bengali” and who refer to themselves as “Rohingya”. The labelling of this group in Rakhine State is a contentious issue and continues to fuel misunderstanding».

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Bangkok: la reazione alla vittoria della piazza https://ogzero.org/bangkok-la-reazione-alla-vittoria-della-piazza/ Thu, 15 Oct 2020 17:35:04 +0000 http://ogzero.org/?p=1521 Un nuovo aggiornamento proviene dal Movimento di nuovo sceso in piazza in forze il 2 dicembre 2020, in occasione della sentenza della Corte costituzionale thailandese . [OGzero] Interpellato anche stavolta Emanuele Giordana lascia trapelare ammirazione per la fresca efficacia del Movimento che da febbraio supera difficoltà da pandemia e si fa gioco della polizia di Bangkok, […]

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Un nuovo aggiornamento proviene dal Movimento di nuovo sceso in piazza in forze il 2 dicembre 2020, in occasione della sentenza della Corte costituzionale thailandese . [OGzero]

Interpellato anche stavolta Emanuele Giordana lascia trapelare ammirazione per la fresca efficacia del Movimento che da febbraio supera difficoltà da pandemia e si fa gioco della polizia di Bangkok, manifestando gioiosamente e inventando strumenti utili alla difesa ma anche validi gadget sfruttati efficacemente sui social e predisposti all’adozione da parte dei media globali, confermando una proposta innovativa di proporre movimenti di protesta innanzitutto comunicativi.
Qui si trovano i 4 podcast dell’analisi di Emanuele: il primo risale all’8 ottobre, gli altri tre sono stati registrati il 2 dicembre, anche questi provengono dalle mattinate info di radio blackout

Ascolta “10 richieste per il cambiamento” su Spreaker.

Dopo la proclamazione l’8 ottobre dello stato di emergenza, la polizia ha sciolto la manifestazione accampatasi attorno al palazzo presidenziale da ieri pomeriggio quando un vasto corteo di migliaia di thailandesi ha marciato dal monumento alla democrazia nel centro di Bangkok fino alla sede dell’esecutivo chiedendo la testa del premier e una revisione della Costituzione. La polizia, che ha schierato 2000 agenti per evitare nuovi assembramenti, ha arrestato diversi manifestanti tra cui Panusaya “Rung” Sithijirawattanakul, Arnon Numpha, Parit Chiwarak and Prasit Krutharote, i volti più noti della protesta. Il decreto, firmato dal Premier Prayut, vieta riunioni pubbliche di oltre 5 persone e vieta la pubblicazione di “messaggi illegali” sui social media. La svolta di questa mattina è la risposta alla giornata di mercoledì che si è dimostrata un successo per gli organizzatori di una protesta che va avanti ormai da mesi e che, per la prima volta nella storia recente del regno siamese, mette sotto accusa anche la casa reale che la Costituzione privilegia del diritto di punire duramente la lesa maestà.

Migliaia in corteo contro Governo e privilegi

La manifestazione, che era prevista ieri alle 2 del pomeriggio di mercoledì è in realtà iniziata in anticipo, alle 8, per protestare contro l’arresto la sera prima di alcuni attivisti che si aggiravano attorno alla piazza centrale dove campeggia il monumento alla democrazia, divenuto ormai simbolo della protesta e che ieri si è riempito nuovamente di migliaia di manifestanti con l’idea di marciare sul palazzo del Governo per chiedere conto delle richieste popolari finora non esaudite (il dibattito sulla Costituzione è stato rinviato).

Quando il corteo si è mosso si è trovato di fronte le “camicie gialle”, gruppi di lealisti fedelissimi della corona che avevano organizzato – molte bandiere ma poca gente – una contro manifestazione. La polizia è intervenuta per evitare incidenti ma qualche calcio e pugno è volato. Non è stata l’unica sorpresa. Re e consorte hanno pensato bene di attraversare l’area interessata dal corteo forse per ribadire il diritto del monarca a fare le strade che più gli aggradano. Una provocazione, non è chiaro quanto studiata, ma a cui i manifestanti hanno reagito solo salutando il corteo reale con le tre dita alzate, il simbolo della protesta. Intanto la polizia bloccava gli accessi alla strada che porta verso il palazzo del Governo dove il corteo avrebbe voluto dirigersi.

Sovrani tailandesi di passaggio a Bangkok

Una vittoria della piazza

Passato il re ed esauritosi il confronto con le camice gialle (portate dalla polizia, secondo i manifestanti, lungo il tragitto che avrebbe percorso il re), il corteo è comunque riuscito a dirigersi verso il palazzo dell’esecutivo dove ha aspettato il calar delle tenebre e dove si è deciso di rimanere a vegliare gli affari del Governo per tre giorni. La prova di forza dunque è riuscita: il corteo ha avuto luogo e i numeri sono nell’ordine delle decine di migliaia. Anzi, delle centinaia di migliaia, almeno secondo alcuni manifestanti che, riportava ieri il “Bangkok Post”, rivendicano una presenza di 300.000 persone. Una valutazione forse per eccesso. La polizia comunque è rimasta ferma e adesso la palla torna nel campo del governo che, per il momento, ha deciso una repressione leggera in una battaglia che finora vede vincere la piazza.

Intanto, mentre i manifestanti iniziavano a prepararsi per la marcia, martedì sera arrivava a Bangkok il ministro degli Esteri cinese Wang Yi. La scelta del momento ha un risvolto prevalentemente economico ma, data la protesta, anche politico visto che per la Cina Prayut resta il Premier checché ne dica un movimento che assomiglia molto a quello di Hong Kong. Una visita ufficiale adesso equivale dunque a un sostegno al primo ministro con cui Bangkok ha iniziato a uscire, seppur con cautela, dalla sola sfera di influenza americana. I cinesi vogliono rafforzare i loro investimenti al Corridoio economico orientale (Eec), agenzia pubblica nata per incoraggiare gli investimenti, aumentare l’innovazione e la tecnologia avanzata in Thailandia per trasformarla in hub tecnologico. L’anno scorso – ricorda il South China Morning Post – la Cina ha sostituito il Giappone come principale fonte di investimenti esteri con scambi bilaterali che ora valgono quasi 80 miliardi di dollari. La Thailandia spera nei cinesi per superare l’impasse Covid e vendere più prodotti agricoli mentre Pechino spera che Bangkok superi finalmente i dubbi sul collegamento ferroviario ad alta velocità che dallo Yunnan – passando per Laos, Thailandia e Malaysia – arriverà a Singapore. Va anche ricordato che la Thailandia, tradizionale mercato di Washington, ha anche già acquistato carri armati, sottomarini e tecnologia militare cinese.

Le immagini sono fotogrammi tratti da servizi trasmessi su Channel News Asia.

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Richieste di cambiamento a Bangkok https://ogzero.org/10-richieste-per-cambiare-a-bangkok/ Mon, 12 Oct 2020 12:04:02 +0000 http://ogzero.org/?p=1488 Sfida all’ultima monarchia assoluta Il 14 ottobre è una giornata importante per il movimento tailandese che da mesi attraversa le piazze di Bangkok e di altre città della Thailandia chiedendo le dimissioni del premier e una riforma costituzionale che riveda la legge elettorale e limiti i poteri della monarchia, una delle più longeve del pianeta. […]

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Sfida all’ultima monarchia assoluta

Il 14 ottobre è una giornata importante per il movimento tailandese che da mesi attraversa le piazze di Bangkok e di altre città della Thailandia chiedendo le dimissioni del premier e una riforma costituzionale che riveda la legge elettorale e limiti i poteri della monarchia, una delle più longeve del pianeta. Per quella data il movimento degli studenti, che nel tempo ha raccolto consensi anche tra la classe media e tra alcuni membri dell’opposizione in parlamento, si è nuovamente dato appuntamento nella centrale piazza di Bangkok dove campeggia un simbolico monumento alla democrazia per quella che è l’ennesima prova di forza con il governo di Prayut Chan-o.Cha, un ex generale golpista che si è assicurato un nuovo mandato nel 2019 grazie a una maggioranza blindata garantita da un senato non eletto. Ma la prova di forza è anche con il re Rama X, un monarca poco amato dal suo popolo ma protetto da una delle più dure leggi contro chi diffama la casa reale, reato per cui vengono comminate pene severissime.

Ascolta “10 richieste per il cambiamento” su Spreaker.

Milk Tea Alliance: Bangkok come HK e Taiwan

Il movimento, che ha già dei leader consacrati come Parit “Penguin” Chiwarak e la collega Panasaya “Rung” Sitthijirawattanakul (studentessa come lui dell’università Thammasat della capitale), già passati per le maglie di una repressione che per ora li ha però lasciati in libertà, ha la sua fucina proprio alla Thammasat, dove Rung il 10 agosto ha letto un Manifesto in dieci punti in cui, per la prima volta, si faceva esplicito riferimento al re e ai suoi poteri.

Autoidentificatosi come Free Youth Movement, il movimento ha come simboli le tre dita alzate – mediate dal film di fantascienza del 2012 Hunger Games –, il monumento alla democrazia nel centro di Bangkok e una sorta di alleanza regionale (Milk Tea Alliance) con altri movimenti giovanili abbastanza simili: a Taiwan e Hong Kong soprattutto. E la piazza tailandese non sembra aver nulla da invidiare ai colleghi dell’ex colonia britannica: sfidare il re che vive nel palazzo reale di Bangkok non è meno rischioso che sfidare Pechino. La nuova sigla che fa da ombrello alle varie anime del movimento è quella del “People’s Party 2020”, un riferimento al gruppo di militari e civili che rovesciarono la monarchia assoluta nel 1932 e stabilirono un governo parlamentare. Episodio divenuto un altro simbolo della protesta.

 

Trame parlamentari tangenziali al movimento

Proprio la vicenda della contestazione monarchica, speculano gli osservatori locali, farebbe però correre il rischio di un minor consenso alla piazza che mercoledì 14 dovrà dimostrare con i numeri di averne a sufficienza per non farsi schiacciare da una repressione per ora morbida ma che in Thailandia, paese dominato oltreché dalla monarchia dalla casta militare; potrebbe essere molto dura specie se il movimento dovesse sgonfiarsi.

In realtà per ora a tirarsi indietro sarebbero solo le “camice rosse” dell’United Front for Democracy Against Dictatorship, un’organizzazione che fa riferimento al partito Pheu Thai, espressione della famiglia Shinawatra (l’ex premier-tycoon Thaksin, che fu soprannominato il Berlusconi d’Asia, e sua sorella pure lei ex premier Yingluck, entrambi in esilio). I parlamentari del Pheu Thai sarebbero divisi: alcuni vorrebbero appoggiare il movimento (come già hanno fatto uscendo dal parlamento dopo il rinvio del voto sugli emendamenti costituzionali il 24 settembre scorso) ma la de facto nuova leader del partito – Khunying Potjaman (ex moglie di Thaksin Shinawatra) – sarebbe contraria: riapparsa sulla scena nei giorni scorsi mentre scadeva il mandato della leadership del partito, ha pensato bene di farsi veder a una cerimonia reale così da far subito capire da che parte deve andare il Pheu Thai.

Restano ancora i parlamentari del Move Forward Party, erede del Future Forward Party, partito progressista squalificato dopo le elezioni del 2019 dove aveva ottenuto un’ottima affermazione. Proprio i cavilli legali con cui il Ffp fu escluso dall’arena – gli stessi con cui è stato espulso dal parlamento il suo leader, il miliardario progressista e socialdemocratico Thanathorn Juangroongruangkit – erano stati la goccia che aveva fatto traboccare il vaso dando la stura alle proteste che poi sono sempre più cresciute, nonostante le misure anticovid.

10 punti verso lo sciopero generale del 14 ottobre

Da luglio, quando le misure si sono allentate, il movimento ha ripreso fiato arrivando il 10 agosto alla famosa lettura in piazza del Manifesto in dieci punti con cui, oltre a chiedere le dimissioni di Prayut e una nuova Costituzione, il movimento criticava apertamente il ruolo della monarchia, chiedendo la divisione dei suoi beni (tra quelli personali del re e quelli della corona) e un diritto di critica che equivale nel regno a lesa maestà.

C’è da aggiungere che il Pheu Thai – al netto dei calcoli della famiglia Shinawatra che spera sempre in un ritorno di Thaksin e dunque nel perdono del monarca – aveva preso subito le distanze da quell’uscita poco consona alle regole tradizionali anche se poi si era schierato con gli studenti, appoggiando il movimento e dando battaglia in parlamento. Adesso le carte sono tutte sul tavolo e il gioco si fa sempre più impegnativo. E, per il movimento, gravido di rischi. Non certo per l’assenza delle camicie rosse quanto per la presenza di oltre 3000 agenti già schierati nella capitale.

Thailandia in Movimento

Le 10 Richieste

«These demands are not a proposal to topple the monarchy. They are a good-faith proposal made for the monarchy to be able to continue to be esteemed by the people within a democracy»

  1. Revoke Article 6 of the 2017 Constitution that forbids any accusation against the King. And add an article to allow parliament to examine wrongdoing of the King, as was stipulated in the constitution promulgated by the People’s Party.
  2. Revoke Article 112 of the Criminal Code, to allow the people to exercise freedom of expression about the monarchy and amnesty all those prosecuted for criticizing the monarchy.
  3. Revoke the Crown Property Act of 2018 and make a clear division between the assets of the King under the control of the Ministry of Finance and his personal assets.
  4. Reduce the amount of the national budget allocated to the King in line with the economic conditions of the country.
  5. Abolish the Royal Offices. Units with a clear duty, such the Royal Security Command, should be transferred and placed under other agencies. Unnecessary units, such as the Privy Council, should be disbanded.
  6. Cease all giving and receiving of donations by royal charity funds in order for all assets of the monarchy to be open to audit.
  7. Cease the exercise of the royal prerogative over the expression of political opinions in public.
  8. Cease all public relations and education that excessively and one-sidedly glorifies the monarchy.
  9. Investigate the facts about the murders of those who criticized or had some kind of relation with the monarchy.
  10. The king must not endorse any further coups.

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La montagna di Doha e il topolino del dialogo intra-afgano https://ogzero.org/la-montagna-di-doha-e-il-topolino-del-dialogo-intra-afgano/ Wed, 07 Oct 2020 09:38:26 +0000 http://ogzero.org/?p=1432 A quasi un mese dallo storico incontro di settembre tra Talebani e governo di Kabul l’unico passo avanti lo fa la guerra. Mentre il presidente afgano Ashraf Ghani reiterava il 21 settembre dal podio virtuale delle Nazioni Unite la sua richiesta di un cessate il fuoco nel paese, le statistiche del Ministero dell’Interno di Kabul […]

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A quasi un mese dallo storico incontro di settembre tra Talebani e governo di Kabul l’unico passo avanti lo fa la guerra.

Mentre il presidente afgano Ashraf Ghani reiterava il 21 settembre dal podio virtuale delle Nazioni Unite la sua richiesta di un cessate il fuoco nel paese, le statistiche del Ministero dell’Interno di Kabul stimavano a un centinaio le sole vittime civili in 24 province nelle ultime due settimane seguite allo storico incontro del 12 settembre a Doha. In quella data, formalmente per la prima volta, il governo di Kabul e i Talebani si sono incontrati dando vita al tanto sospirato dialogo intra-afgano. Ma da allora le bocce sono rimaste ferme, segnate da combattimenti e incidenti il cui bilancio è di decine di morti anche tra le forze di sicurezza afgane e la guerriglia. Le due delegazioni, rappresentate da altrettanti “gruppi di contatto”, hanno da allora cercato faticosamente di stabilire l’agenda di discussione che dovrebbe impegnare l’Alto Consiglio di pace – che ha da Kabul il mandato a trattare – e gli inviati della shura di Quetta, che dovrebbero rappresentare la variegata e disomogenea galassia talebana. Ma all’inizio di ottobre le tante riunioni preliminari hanno prodotto scarsi risultati mentre il calendario continua invece a segnalare raid aerei, incursioni nei villaggi, uccisioni mirate, accuse reciproche un po’ ovunque nel paese. Se il primo obiettivo doveva essere una tregua o almeno una diminuzione delle ostilità, il risultato è ancora uguale a zero.

All’interno: una pace scomoda

I punti in discussione dell’agenda negoziale dovrebbero essere una ventina ma il primo scoglio (a parte il sospirato cessate il fuoco) sembra sia il dovuto riconoscimento dell’accordo tra Talebani e americani, siglato sempre a Doha in febbraio. Per i Talebani è la premessa, per Kabul invece un riferimento da evitare poiché assegna al governo afgano un ruolo da comprimario e non certo da protagonista. Un protagonismo che i Talebani vogliono tenere per sé. Vogliono e debbono, poiché al loro interno l’ala radicale (non si sa per ora quanto forte) incalza il gruppo dirigente che rischia, con la pace, di lasciare disoccupati decine di capibastone e di militanti cui premono più le singole rendite di posizione che non il futuro equilibrio pacifico del paese. Cosa altrettanto vera tra i sostenitori del governo che si stanno comunque armando, semmai le cose dovessero precipitare.

Dall’estero: denaro e forze militari

C’è dunque una dinamica interna (intra-afgana appunto) che si interseca con una dinamica esterna che riguarda attori primari e secondari del conflitto le cui sedi si trovano fuori dal paese. In primis gli Stati Uniti con le incombenti elezioni presidenziali. Poi tutti gli altri, alleati di questo (il governo) o di quella (la guerriglia) e a volte di entrambi. Cominciamo da Ashraf Ghani e dal suo litigioso esecutivo: molto dipenderà, a novembre, oltreché dall’esito delle elezioni americane, dall’esito della Conferenza dei donatori di Ginevra dalla quale si capirà quante risorse Europa e Stati Uniti intendono ancora impegnare nel paese. Il flusso di cassa, sia per l’economia nazionale sia per le forze di sicurezza (circa 300.000 uomini tra esercito e polizia), diventa essenziale per Ghani poiché può garantire al governo di Kabul un elemento di forza da opporre alla temerarietà dei Talebani che pure si trovano nelle stesse difficili acque. Anche la guerriglia corre infatti il rischio di una “donor fatigue” dei suoi sostenitori abituali, dal Pakistan all’Arabia saudita al Golfo, senza contare le donazioni private o il sostegno di Iran, Russia e Cina che possono aprire o chiudere i rubinetti a seconda delle convenienze. Con pochi denari anche la guerriglia potrebbe trasformarsi in una presenza militare più debole nelle campagne afgane, caposaldo militare degli studenti coranici. Nonché in un indebolimento della leadership del loro capo “ufficiale”, quel Mawlawi Hibatullah Akhundzada, criticato da quanti si sentono traditi dal negoziato o che vedono nella pace una diminuzione dei propri poteri di controllo territoriale su diverse aree del paese. È su queste basi (i soldi e la forza militare) che si giocherà probabilmente la vera partita tra Talebani e Kabul: più ancora che sulla futura forma di governo, sui diritti civili e di genere, sull’istruzione, sul voto, sul ruolo dell’islam. Temi gravati dall’incognita Covid-19 che ufficialmente – ma le riserve sul dato sono molte – conta pochi casi (39.422 al 6 ottobre) e poche vittime (1466) ma che resta una variabile con cui tocca fare i conti.

Il ritiro delle truppe condizionato

Su tutto ciò regna incontrastata la guerra anche se, questa volta, ai combattimenti partecipano solo afgani e il conflitto sembra essere tornato nell’alveo di una guerra civile, senza più l’aiuto di forze esterne – almeno ufficialmente – anche se le forze esterne (Usa, Nato) restano nel paese se non altro per “osservare”. Senza utilizzare le armi ma anche senza smettere di addestrare l’esercito afgano e continuando a pagare gli stipendi, un elemento fondamentale per tenerlo insieme. Al momento dunque nessuno abbandona gli afgani al loro destino e se, sulla base dell’accordo Usa-Talebani firmato il 29 febbraio 2019 a Doha, gli Stati Uniti hanno deciso di lasciare l’Afghanistan entro 18 mesi e hanno iniziato a far tornare a casa parte della truppa, il segretario di stato Mike Pompeo ha messo le mani avanti. Ha sottolineato che Washington cercherà di ritirare i soldati entro la primavera del 2021 ma anche che il ritiro è condizionato dalla completa cessazione delle ostilità dei gruppi terroristici come al-Qaeda e Stato Islamico nel Khorasan (Isis), per ora ancora attivi in Afghanistan. Una carta di riserva, insomma.

La Nato rimane sul terreno

Quanto alla Nato, per ora si resta con quasi 16.000 uomini (8000 statunitensi, 1300 dalla Germania, 950 dalla Gran Bretagna, 895 dall’Italia, 860 dalla Georgia, 600 dalla Turchia e così a scalare tra i 38 membri Nato della missione Resolute Support. Missione no-combat anche se in questi anni l’Alleanza ha operato anche militarmente, pur senza fanfare, al fianco dell’esercito afgano. Ora dovrebbe limitarsi ai consigli in attesa che gli americani decidano quel che succede o deve succedere. Le incognite restano tante in attesa che si sblocchi (ovvero inizi) il negoziato tra le due delegazioni. Mentre il paese continua a pagare il suo tributo al conflitto più lungo della Storia recente a cavallo di due secoli.

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Il piatto mare-monti tra Cina e Usa https://ogzero.org/il-piatto-mare-monti-tra-cina-e-usa/ Tue, 14 Jul 2020 13:25:48 +0000 http://ogzero.org/?p=462 Anche il recente scontro tra Delhi e Pechino va ricondotto a una battaglia più grande nella regione indo-pacifica. Un gioco globale su più tavoli soprattutto tra Usa e Rpc che passa persino per gli abiti talari Il faccia a faccia sino-indiano iniziato a maggio sulle vette himalayane, da sempre teatro di tensione per la questione […]

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Anche il recente scontro tra Delhi e Pechino va ricondotto a una battaglia più grande nella regione indo-pacifica. Un gioco globale su più tavoli soprattutto tra Usa e Rpc che passa persino per gli abiti talari

Il faccia a faccia sino-indiano iniziato a maggio sulle vette himalayane, da sempre teatro di tensione per la questione del Kashmir e per le mai sopite rivendicazioni di confine tra India e Cina, ha registrato la notte del 15 giugno il primo scontro violento tra i due eserciti da quasi 50 anni a questa parte seppur senza l’uso di armi da fuoco. Il bilancio dei morti resta incerto ma, nonostante le dichiarazioni che da ambo le parti, sostengono di voler riportare la questione nell’ambito di una pacifica e diplomatica risoluzione del contenzioso, la tensione resta elevata. E rischia di farla aumentare anche nelle relazioni sempre tese tra Delhi e Islamabad, alleata di Pechino.

Lo scontro economico tra Cina e India

Dietro allo scontro ci sono molti fattori che non riguardano solo i confini ma il confronto tra due grandi potenze mondiali – India e Cina – e, più in generale, la guerra dell’egemonia globale dove si affacciano ovviamente altri attori, soprattutto gli Stati Uniti (la Russia appare in Asia su posizioni arretrate). Con il premier Narendra Modi, l’India ha avuto una sterzata fortemente anticinese di cui si è avuta prova quando Delhi ha fatto fallire, nel novembre 2019, l’accordo di libero scambio Rcep: è l’acronimo del Partenariato economico globale regionale proposto nella regione indo-pacifica da dieci stati del Sudest asiatico riuniti nell’Asean e Australia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud e appunto India. Fu la paura dei beni a basso prezzo cinesi sul mercato indiano a preoccupare Delhi. Uno spettro riassunto dalla giornalista indiana Barkha Dutt, autrice di This Unquiet Land: Stories from India’s Fault Lines (non a caso sul “Washington Post”) a commento degli scontri al confine sull’Himalaya, a oltre 4000 metri di altezza e lungo la Linea di controllo (Line of Actual Control: Lac) che fa da confine tra India e Cina. «Il deficit commerciale dell’India con la Cina è di 53 miliardi di dollari», scrive, aggiungendo che sarebbe «un suicidio consentire alla Cina di avere libero accesso ai mercati e ai consumatori indiani mentre costruisce strade e infrastrutture attraverso le parti del Kashmir occupate dal Pakistan».

Dall’altro lato del confine, in Pakistan, prevale la prudenza ma un editoriale di “The Dawn” del 18 giugno chiarisce come la vedono a Islamabad: «Sfortunatamente, l’India ha una storia di bullismo nei confronti dei suoi vicini e cerca di giocare a egemone regionale. Il Pakistan ha da tempo sottolineato la necessità di affrontare la questione del Kashmir al tavolo negoziale, una posizione che l’India ha arrogantemente respinto». Un fatto che purtroppo, al di là delle responsabilità anche pachistane nel conflitto, ha un fondo di verità.

Non solo riflessi regionali

Ovviamente, un conflitto tra Cina e India non ha solo riflessi regionali. Se tocca i vicini come il Pakistan, rientra nel grande gioco internazionale e non è difficile capire dunque come gli Stati Uniti possano servirsene nella neoguerra fredda, soprattutto commerciale, con Pechino. Una guerra fredda commerciale e a parole ma che, come vedremo, è anche armata. È un elemento che desta preoccupazione in tutta l’Asia come ha scritto ai primi di giugno su “Foreign Affairs” Lee Hsien Loong, primo ministro di Singapore: «L’Asia ha prosperato – scrive – perché la Pax Americana dalla fine della Seconda guerra mondiale ha fornito un contesto strategico favorevole. Ma ora, la travagliata relazione tra Stati Uniti e Cina solleva profonde domande sul futuro dell’Asia e sulla forma dell’ordine internazionale emergente».

Ma oltre alle montagne ci sono soprattutto i mari. La regione del Pacifico, o meglio dell’Indo-Pacifico (come ora viene chiamata), comprende la Cina, il Mar cinese orientale e il Mar Cinese meridionale, tutti i paesi che vi si affacciano (dal Giappone all’Indonesia) e il Golfo del Bengala, territorio marino presidiato dall’India che lo ritiene il suo cortile di casa acquatico. I mari sono vie di collegamento commerciali fondamentali, luoghi di caccia, presidi militari e infine riserve energetiche, come rivela la querelle sulle isolette Paracel e Spratly. Su tutta una serie di atolli cinesi a tutti gli effetti, Pechino ha allestito piste di atterraggio, magazzini, baracche militari e il contenzioso su Paracel e Spratly, rivendicati da più nazioni, ha fatto salire il livello di allarme ormai da anni. La storia è antica perché Pechino rivendica un’area estesa per circa mille miglia dalle sue coste e la controlla con navi militari, aerei e pescherecci. Una forza di pressione che nel 2018 obbligò Hanoi – che ha rivendicazioni territoriali in quello specchio di mare assieme a Malaysia, Brunei, Filippine e Taiwan – a sospendere i progetti di trivellazione petrolifera della spagnola Repsol. A fine aprile 2020 tra l’altro, il Vietnam ha protestato con Pechino contro l’istituzione di due distretti sull’isola cinese di Hainan col compito di governare Paracel e Spratly.

Piccole isole grandi problemi

Il contenzioso, come dicevamo, preoccupa un po’ tutti: i più teneri con Pechino sono i filippini, i più agguerriti sono i vietnamiti. E non è un caso se Hanoi stringe relazioni sempre più forti con Washington che sono invece ai minimi storici con Manila. Ma la partita è molto più ampia: la Nuova Via della Seta (Belt Road Initiative) si basa anche su un “filo di perle” marittime che sono i porti di Chittagong in Bangladesh, Sihanoukville in Cambogia, Hambantota in Sri Lanka e Gwadar in Pakistan più altri progetti (in Myanmar, Thailandia…) per la costruzione di nuove infrastrutture portuali e in alcuni casi anche militari. Una recente analisi di “Al Jazeera” ha fatto i conti in tasca alla potenza militare marittima cinese: fregate, portaerei, sottomarini, pattugliatori (acquistati ma sempre più costruiti in loco) con una forza militare navale di circa 100000 uomini, la seconda al mondo dopo gli Stati Uniti (quasi il doppio) e subito prima della Corea del Sud.

Gli americani non sono rimasti a guardare. Nell’area è dislocata la Settima flotta, la più grande di quelle dispiegate dalla marina statunitense con oltre 50-70 navi e sottomarini, 140 aerei e circa 20000 marinai in grado di reagire rapidamente. Il Comando generale dell’area (Usindopacom) conta infine oltre 370000 uomini tra personale di terra, aria, mare. Proprio recentemente sono state rafforzate una serie di manovre di pattugliamento, sorveglianza, osservazione che hanno innervosito i cinesi. Un esercizio muscolare mentre si scaldava il dossier Covid-19, il caso Hong Kong e quello mai chiuso su Taiwan.

Washington scalda i muscoli

L’idea di potenziare la difesa americana nel Pacifico ha cominciato per altro a circolare ai primi di aprile di quest’anno quando le conclusioni di un rapporto dell’ammiraglio Phil Davidson, a capo del Comando Usindopacom, hanno chiesto al Congresso 20 miliardi di dollari per rafforzare operazioni navali, aeree e terrestri nella regione (sistemi d’arma, logistica, training, intelligence…). Nel giro di 15 giorni la richiesta è diventata una proposta di legge, presentata al Congresso il 23 aprile dal repubblicano Mac Thornberry a capo dell’Armed Services Committee della Camera, comitato con compiti di sorveglianza su Pentagono, servizi militari e agenzie del Dipartimento della Difesa, compresi budget e politiche. Falco texano, Thornberry presenta la “Indo-Pacific Deterrence Initiative” come il corollario orientale necessario della “European Deterrence Initiative” che, per controbilanciare l’espansionismo russo a occidente, ha già messo sul tavolo fino al 2021 oltre 26 miliardi di dollari. Nel progetto di legge se ne chiedono più di sei per la sola regione indo-pacifica e per il solo 2021 con un piano che probabilmente arriverà ai 20 miliardi chiesti dall’ammiraglio Davidson nel giro dei prossimi esercizi finanziari.

Naturalmente, come nel “dialogo” tra Cina e India, anche in quello tra Usa e Cina le manifestazioni pubbliche sono sempre “costruttive”. Ma gli incontri faccia faccia danno più la sensazione che gli avversari vogliano soprattutto studiarsi più che mettersi realmente d’accordo. Ne sembra la prova il summit di metà giugno (la battaglia indo-cinese era appena avvenuta) tra il diplomatico cinese Yang Jiechi e il segretario di stato americano Mike Pompeo che si sono incontrati il 17 giugno per un colloquio alle Hawaii preparato in gran segreto, sembra soprattutto per volontà americana. Ma la montagna ha partorito un topolino. Al di là di dichiarazioni assai vaghe, le indiscrezioni emerse a seguito dell’incontro dicono chiaramente che l’unico fatto positivo è semmai che l’incontro c’è stato. Un incontro durato sette ore con cena. Taiwan, Hong Kong e la repressione nello Xinjiang avrebbero dominato il summit – definito appunto “costruttivo” – tra Mike Pompeo e Yang Jiechi. Pechino si sarebbe impegnata a migliorare il suo rapporto con Washington – ha scritto il ben informato “South China Morning Post” – ma avrebbe anche avvertito gli Stati Uniti che la Rpc difenderà risolutamente i suoi interessi. Alla fine l’incontro sembra aver solo offerto la prova di un desiderio condiviso di impedire che i rapporti si inaspriscano ulteriormente. Un modo forse per poter continuare a studiare l’avversario. Gli americani del resto hanno ottenuto che l’incontro si tenesse in un luogo non proprio neutro: le Hawaii dove è dislocato il Comando di Usindopacom in un momento in cui gli americani hanno rafforzato un esercizio muscolare navale davvero bizzarro se si vuole raffreddare il rapporto con la Cina. Un esercizio rafforzato da atteggiamenti sempre più anticinesi dell’alleato australiano e della Nuova Zelanda.

 

La guerra con la tonaca

Ma il virus della guerra Cina/Usa non passa solo dalle accuse di aver strumentalizzato l’Oms, dal quadrante marittimo del Pacifico o dalle battaglie sul commercio e, seppur indirettamente, dalle schermaglie sulle vette himalayane. Ci sono risvolti più o meno aperti e manovre più o meno sotterranee come rivela un caso recente che riguarda Hong Kong, tallone d’Achille della Rpc. “UcaNews”, la più diffusa e potente agenzia cattolica in Asia ha scritto recentemente che il cardinale Zen e il vescovo Ha Chi-shing, due leader religiosi cattolici di Hong Kong che non hanno mai nascosto il loro sostegno ai movimenti nell’ex colonia: «potrebbero essere inviati nella Cina continentale per essere processati» dopo che la nuova proposta legislativa sulla sicurezza a Hong Kong voluta da Pechino è diventata legge. Si tratta in realtà più di un’ipotesi che di una probabilità reale, ma quel che è certo è che i due prelati sono invisi alla Rpc per aver sempre remato contro. Zen, in particolare, che cercò di boicottare persino lo storico accordo tra Pechino e Santa Sede (Accordo Provvisorio sulla nomina dei Vescovi) firmato il 22 settembre 2018 sotto il pontificato di papa Francesco. Fu l’atto che segnava l’inizio della fine della guerra tra Roma e Pechino sulla cosiddetta Chiesa parallela (per cui la Cina sceglieva i vescovi e Roma non li riconosceva) e l’avvio di future relazioni diplomatiche tra i due paesi. Ora che anche l’ultimo vescovo è stato riconosciuto, la deportazione di Zen e Ha Chi-shing manderebbe all’aria la faticosa ma ben avviata riconciliazione tra i due stati.

La bozza ufficiale della legge sulla sicurezza nell’occhio del ciclone non è ancora ufficiale e il suo corpus dovrebbe essere approvato dal Comitato Centrale del Partito entro luglio ma, scrive l’agenzia cattolica: «Il dettaglio più recente – cioè che la Cina ha la possibilità di decidere di processare gli accusati in continente – è emerso in una conferenza a Shenzhen il 15 giugno», quando Deng Zhonghua, vicedirettore del gabinetto di Hong Kong e dell’ufficio affari di Macao, ha spiegato che «in circostanze molto speciali, il governo centrale manterrà la giurisdizione su alcuni casi che coinvolgono atti criminali che mettono gravemente a repentaglio la sicurezza nazionale». Da questo agli arresti di Zen ce ne corre: la mossa – che farebbe del cardinale un martire – inasprirebbe inutilmente i rapporti in via di sempre maggior distensione tra Rpc e Vaticano e non farebbe comodo a nessuno dei due: «probabilmente – dice una fonte vaticana – piacerebbe agli americani che hanno sempre ostacolato il processo e hanno sempre sostenuto Zen. C’è una partita geopolitica più ampia intorno ai rapporti tra Rpc e Santa Sede e che fa anche parte della guerra tra Washington e Pechino».

I piccoli tasselli del grande gioco

Joseph Zen Ze-kiun (classe 1932) è stato il sesto vescovo di Hong Kong ed è cardinale dal 2006. Molto duro con la Cina si è sempre esposto anche dopo che nel 2009 si è ritirato per limiti di età, senza per altro perdere influenza. Joseph Ha Chi-shing è uno dei quattro vescovi ausiliari di Hong Kong che assistono il cardinale John Tong Hon nella gestione della diocesi, al cui posto Zen avrebbe invece voluto il suo pupillo. Non sono gli unici ferventi anticinesi nel mondo cattolico asiatico. Recentemente, suscitando stupore e imbarazzo, si è schierato anche il cardinale Charles Bo, arcivescovo di Yangon e presidente della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche. In una lettera a proposito del Covid-19 apparsa il 2 aprile proprio su “UcaNews” ha accusato la Cina di «atteggiamento negligente, in particolare il suo dispotico partito… Attraverso la sua gestione disumana e irresponsabile, il Pcc ha dimostrato ciò che molti pensavano in precedenza: che è una minaccia per il mondo». Musica per le orecchie di Zen e per quelle di Washington. Probabilmente anche per quelle di Narendra Modi.

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