Angelo Ferrari | Gli autori che collaborano con OGzero https://ogzero.org/autore/angelo-ferrari/ geopolitica etc Sat, 16 Sep 2023 16:50:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Sudan: cinque mesi di inutile sofferenza https://ogzero.org/sudan-cinque-mesi-di-inutile-sofferenza/ Sat, 16 Sep 2023 16:47:40 +0000 https://ogzero.org/?p=11593 Quando il Fmi diventa “modello di solidarietà” significa che la situazione è ormai oltre ogni accettabilità e a nessuno importa di una condizione infernale. Distratti da altre guerre, da altre bombe su mercati, i 46 morti del mercato di May a Khartoum non meritano un trafiletto, laddove invece Angelo Ferrari va oltre l’orrore per uno […]

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Quando il Fmi diventa “modello di solidarietà” significa che la situazione è ormai oltre ogni accettabilità e a nessuno importa di una condizione infernale. Distratti da altre guerre, da altre bombe su mercati, i 46 morti del mercato di May a Khartoum non meritano un trafiletto, laddove invece Angelo Ferrari va oltre l’orrore per uno scontro tra Signori della Guerra che produce cadaveri civili ancora una volta trasportati dal Nilo a valle con il poco limo residuo dalle barriere a monte della Gerd il cui riempimento dell’invaso è stato terminato in questi giorni: infatti metà dell’intervento dell’africanista è dedicato al vicino Ciad, già in “cattive acque”, che si sobbarca la fuga dei profughi di guerra.


La tradizionale arroganza di entrambi i militari…

La guerra in Sudan non si ferma. Le sofferenze, numero di morti e sfollati, si moltiplicano in un insensato scontro tra due generali che hanno solo a cuore la conquista del potere. Ma non si vedono, nemmeno, spiragli per una soluzione negoziata. Il generale Abdelfattah al-Burhan, a capo dell’esercito regolare, e le Forze di supporto rapido di Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, non hanno nessuna intenzione di sedersi a un tavolo negoziale per risolvere la crisi. Anzi, negli ultimi giorni i combattimenti si sono intensificati, si sono fatti, se è possibile, ancora più cruenti estendendosi a molte regioni del paese. Entrambi vogliono arrivare alla vittoria “assoluta” in Sudan. Per che cosa? Difendere interessi economici da sempre nelle mani dei militari. Ogni attività, infatti, è governata dall’esercito e dalle milizie armate: dalle banche alle materie prime, in una suddivisione, tra i due uomini forti che, evidentemente, non bastava più a entrambi. I due generali vogliono mettere mano su tutto e non importa se la gente soffre.

… diventa massacro

Il 13 settembre sono trascorsi cinque mesi di guerra e di inutile sofferenza, morte, perdita e distruzione.

L’Alto commissario delle Nazioni Unite, Volker Turk, ha spiegato che non c’è alcuna tregua in vista: «Il mio staff si è recato in Ciad e Etiopia tra giugno e luglio per raccogliere informazioni di prima mano dalle persone fuggite dalle violenze in Sudan. Le loro testimonianze evidenziano le informazioni che il mio ufficio ha ottenuto sulla portata e sulla brutalità di questo conflitto. Abbiamo ascoltato storie di familiari uccisi o violentati. Storie di parenti arrestati senza motivo. Di pile di corpi abbandonati nelle strade. Di una fame disperata e persistente».

Il conflitto, come prevedibile, ha paralizzato l’economia, spingendo milioni di persone sull’orlo della povertà, i servizi essenziali sono sull’orlo del collasso, quasi bloccati, come istruzione e assistenza sanitaria. Più di 7,4 milioni di bambini sono privi di acqua potabile e almeno in 700.000 sono a rischio malnutrizione grave.

Il Ciad nella morsa

Sul fronte dei profughi a subire pesanti conseguenze è soprattutto il Ciad, un paese che è preso a tenaglia a suoi confini, oltre alla crisi sudanese, il colpo di stato in Niger è la chiusura dei corridoi commerciali, sta provocando notevoli problemi di approvvigionamento di materie prime. E la situazione dei profughi che arrivano dal Sudan sta aggravando ulteriormente la situazione. Stando ai dati riportati delle Nazioni Unite, in Ciad sono arrivate 418.000 persone tra rifugiati e ciadiani che hanno deciso di ritornare a case. Circa l’85% dei profughi sudanesi e il 93% delle persone ritornate in patria sono donne e bambine. In questo contesto, la Banca mondiale ha annunciato una tranche di aiuti da 340 milioni di dollari per sostenere N’Djamena nella gestione dell’accoglienza, nonostante le Ong denuncino che solo il 34% degli aiuti richiesti è arrivato per sostenere gli aiuti umanitari.
Anna Bjerde, direttrice generale per le operazioni della Banca mondiale, ha annunciato il pacchetto di sostegni economici da un campo profughi nel Ciad orientale durante una due giorni di visita congiunta con l’Alto commissario per i rifugiati delle Nazioni Unite, Filippo Grandi.

Secondo Bjerde, «la crisi dei rifugiati nell’Est del paese sta aggiungendo ulteriore pressione alla fornitura di servizi sociali e alle risorse naturali. Collaborando con l’Unhcr e altri partner, restiamo impegnati ad aiutare le persone più bisognose e a sostenere la ripresa economica a lungo termine e la resilienza della regione».

Grandi, che a N’Djamena è stato ricevuto da diversi ministri del governo di transizione militare retto dal presidente Mahamat Idriss Déby Itno, si è augurato che «l’esempio della Banca Mondiale ispiri altri attori dello sviluppo a intensificare i loro interventi, poiché il Ciad non può essere lasciato solo ad affrontare questa grave crisi».

Aiutare il Ciad, per la comunità internazionale, dovrebbe essere prioritario. In una regione martoriata da guerre, colpi di stato e cambio di regimi. L’opinione pubblica ciadiana sta già soffrendo ed è in subbuglio. Difficoltà a reperire le materie prime, crisi dei profughi sudanesi, inoltre, potrebbe avere ripercussioni sull’inflazione del paese, già elevata. L’ultimo dato disponibile – riferito ad aprile 2023 – parla di un +12,5%, e di quella alimentare che è arrivata al 18,8% in aumento rispetto al dato precedente, +16%. Le difficolta di approvvigionamento delle merci, dunque, potrebbe pesare ulteriormente sulle entrate dello Stato, ma soprattutto già provata per via di un potere di acquisto che sta progressivamente diminuendo e, quindi, esacerbare ulteriormente gli animi di una società civile che non vede di buon occhio l’attuale regime “ereditato” dopo la morte di Deby padre, dal figlio.

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G20: l’Africa non è più nel menu ma ‘partecipa’ al banchetto https://ogzero.org/g20/ Mon, 11 Sep 2023 20:57:23 +0000 https://ogzero.org/?p=11571 Nella foto del G20 di copertina in primo piano ci sono 3 membri fondatori dei Brics… ma da membro dei Brics impegnato su più tavoli Modi agisce da battitore “libero” o da gregario per tirare la volata ad altre potenze per proporsi ancora una volta al continente africano come soci “interessati”? Tutti appaiono concordi sull’estensione […]

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Nella foto del G20 di copertina in primo piano ci sono 3 membri fondatori dei Brics… ma da membro dei Brics impegnato su più tavoli Modi agisce da battitore “libero” o da gregario per tirare la volata ad altre potenze per proporsi ancora una volta al continente africano come soci “interessati”?
Tutti appaiono concordi sull’estensione alla Unione africana della partecipazione a partire dal prossimo G21
brasiliano. Ma come sempre Angelo Ferrari correttamente si chiede cui prodest? e la risposta può non andare questa volta verso una nuova spinta verso gli interessi dei Brics, di cui l’India è un socio tra i più potenti, che hanno già aperto dal canto loro ai mercati africani e, se i russi sono protagonisti in Sahel, centrafrica e gli affari cinesi sono ovunque nell’Africa orientale, è più facile che la porta del G21 possa venire usata più dagli Usa che non dalle potenze asiatiche.
Forse proprio quella Via antiBri in nuce e che vede gli indiani impegnati a riavvicinarsi all’Occidente può trovare nel coinvolgimento del Sud del Mondo un nuovo grimaldello per essere concorrenziale nei vari snodi della Via della seta cinese… ma queste elucubrazioni, ci suggerisce l’africanista Angelo, non considerano il particolare che questa opportunità – nel momento in cui si registrano sommovimenti bollati sbrigativamente come anticoloniali – sarebbe davvero a disposizione di una potenza come l’Unione africana che è un organismo con lo stesso peso dell’Unione europea. Perciò lasciamo spazio ai dati e alle ipotesi di Angelo Ferrari (Agi.it, 11 settembre 2023).  


La proposta indiana

L’Africa si siede al tavolo dei potenti e non è più solo nel menu. L’entrata come membro permanente dell’Unione africana (Ua) nel G20, tra i grandi del mondo, è un segnale molto forte per il continente e una vittoria diplomatica dell’India ma, anche un modo per provare a disinnescare la “mina” dei Brics. Ma non solo: i 55 stati africani hanno un Pil complessivo di 3000 miliardi di dollari e, già dal 2021, hanno dato vita a un’area di libero scambio continentale, con lo scopo di sviluppare gli scambi interafricani tra oltre 1,2 miliardi di persone. Un potenziale enorme. Tuttavia ora, e sarà tutto nelle mani della Unione africana, deve mettere a frutto questo patrimonio che, fino a ora, era solo menzionato nel menu dei vertici internazionali.

Una delle aspirazioni dell’Unione africana, presente nella sua agenda per il 2063, era quella di avere un posto di rilievo nelle relazioni internazionali. La presenza nel G21 va proprio in questa direzione. Ma c’è dell’altro. E cioè che l’Africa ora può lavorare concretamente affinché il continente non sia più considerato un rischio per gli investimenti, ma un’opportunità, in una logica tra pari e non relegato alla subalternità. Ciò permetterà, inoltre, di sviluppare, in un mondo multipolare, strategie usando il dialogo Sud-Sud in maniera tale che le questioni che riguardano lo sviluppo del continente siano considerate prioritarie per e nell’economia globale.

Tutto ciò, inoltre, ha una rilevanza non solo negoziale, ma anche squisitamente economica legata proprio all’Area di libero scambio continentale, dove dovrebbe prevalere la negoziazione multilaterale, cioè tra grandi aree economiche, rispetto a quella bilaterale, ma per fare ciò è necessario che vi sia un interlocutore globale come può essere solo l’Unione africana. Ciò permetterebbe, solo per fare un esempio, all’Unione europea su diversi temi e criticità, di avere un interlocutore unico e, allora, quando vengono evocati piani Marshall per l’Africa, questi non sarebbero più calati dall’alto, ma verrebbero negoziati alla pari con il continente africano.

Hai voluto la bici? adesso vai in fuga, sfuggi alla trappola!

L’istituzione dell’Area di libero scambio africana (Afcfta) potrebbe consentire un aumento di oltre il 50% degli scambi tra i paesi del continente e avrà, anche un effetto significativo sugli scambi tra l’Africa e il resto del mondo con un aumento delle esportazioni del 29% e delle importazioni del 7%, secondo i dati del Fondo monetario internazionale; e ciò può produrre un aumento di “oltre il 10%” del Pil reale medio pro capite.
Il Fondo monetario, tuttavia, sostiene che, perché l’area di libero scambio possa avere un impatto significativo sulle economie, i paesi africani dovranno, necessariamente, mettere in campo una serie di riforme economiche e politiche per sostenere il mercato unico. Non è sufficiente la riduzione delle barriere tariffarie e non tariffarie se questa non si accompagna a un miglioramento del clima imprenditoriale. Senza riforme, secondo il Fondo monetario, l’impatto dell’area di libero scambio africano sarà minore: la semplice riduzione delle barriere, tariffarie o meno, consentirà agli scambi tra i paesi africani di crescere solo del 15%, portando a un aumento dell’1,25% del Pil reale medio pro capite.

Per cogliere tutte le opportunità «sarà necessario investire in capitale fisico e umano, creare un solido quadro macroeconomico e modernizzare il sistema di protezione sociale per sostenere i più vulnerabili durante la fase di transizione».

Una Unione africana protagonista nei consessi internazionali e non più osservatore, può determinare un cambio di passo proprio sullo sviluppo reale del continente.

Non ha caso la decisione presa in India ha avuto il plauso di tutte per le parti coinvolte. Ovviamente, in particolare, dei leader africani: se il Sudafrica era già rappresentato al G20, come Stato unico africano, ciò non ha impedito al suo presidente di accogliere con favore l’ingresso dell’Unione africana.

Cyril Ramaphosa ha sottolineato la necessità di «una cooperazione multilaterale per combattere l’insicurezza alimentare ed energetica». Presente in India anche il comoriano Azali Assoumani, attuale presidente dell’Ua, ha parlato di «culmine di una lotta a lungo termine. È un grande giorno per tutta l’Africa». Il peso massimo del continente, il presidente della Nigeria, Bola Tinubu, ha espresso la sua impazienza di «portare avanti le nostre aspirazioni sulla scena globale utilizzando la piattaforma del G20». Quello del Kenya, William Ruto, dal canto suo, ha parlato di «una sede che permetterà di orientare le decisioni del G20 per garantire la promozione degli interessi del continente». Il senegalese Macky Sall ha enfatizzato “la decisione storica”. Infine, il presidente della Commissione dell’Unione africana, il ciadiano Moussa Faki Mahamat, ritiene che l’integrazione dell’Ua offra ora «un quadro favorevole per amplificare l’advocacy a favore del continente».

I temi sul tavolo sono molti e vanno dai cambiamenti climatici, alla crescita demografica, alla riduzione del debito e della povertà endemica del continente, in una parola: solo “sviluppo”, sia economico, sia politico e sociale – senza dimenticare che si dovrà mettere mano al tema endemico della corruzione – e tutto ciò discutendone da pari con i grandi del mondo. Un cambio di paradigma che l’Unione Africana dovrà gestire al meglio perché questa decisone rappresenti una svolta epocale.

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Niger: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace https://ogzero.org/niger-la-diplomazia-al-lavoro-mentre-niamey-tace/ Sat, 02 Sep 2023 22:17:57 +0000 https://ogzero.org/?p=11535 Niger, un aggiornamento: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace. Nelle ultime ore si sono accavallate numerose proposte di transizione rivolte al regime di Tchiani,. Un’azione diplomatica che, inoltre, ha il significato di scongiurare un intervento armato nel paese che infiammerebbe tutta l’Africa Occidentale. Di questo ne sono consapevoli sia i leader africani sia i […]

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Niger, un aggiornamento: la diplomazia al lavoro, mentre Niamey tace. Nelle ultime ore si sono accavallate numerose proposte di transizione rivolte al regime di Tchiani,. Un’azione diplomatica che, inoltre, ha il significato di scongiurare un intervento armato nel paese che infiammerebbe tutta l’Africa Occidentale. Di questo ne sono consapevoli sia i leader africani sia i ministri degli Esteri dell’Unione europea che, infatti, invocano prudenza. Ma le proposte di transizione, formulate da Algeria e Nigeria, per ora rimangono lettera morta e quella nigeriana viene bollata dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) come una fake news. Ecowas, infatti, ribadisce, che la soluzione è il ripristino dell’ordine costituzionale e la reintegrazione del deposto presidente Mohamed Bazoum, che diventa una figura simbolica, insieme all’ambasciatore francese: due paradigmi del sistema coloniale utili per aizzare contro la percezione di ogni grandeur (e saccheggio) francese. Poi è facile su questa ondata antifrancese trovare le corde giuste per rovesciare  gli amici dei francesi, ma una volta giunti al potere – a parte resistere alla stigmatizzazione internazionale – non ci sono piani per gestirlo al meglio. Si direbbe non sia chiaro in che direzione andare una volta rimossi i fantocci di poteri altri e le mosse per fare gli interessi della popolazione civile non siano state insegnate nelle scuole militari frequentate dai golpisti.


La proposta nigeriana

Il presidente nigeriano Bola Tinubu, che è anche l’attuale presidente dell’Ecowas, giovedì ha citato come esempio la transizione di nove mesi avvenuta nel suo paese nel 1999. «Il presidente non vede alcun motivo per cui ciò non possa accadere di nuovo in Niger, se le autorità militari sono sincere», si legge in un comunicato della presidenza nigeriana. Più che una proposta è un suggerimento e Tinubu l’avrebbe espresso ricevendo presso la State House di Abuja (capitale della Nigeria) una delegazione guidata dal sultano di Sokoto, Muhammad Sa’ad Abubakar III, personalità molto influente anche in Niger. «Il presidente Tinubu ha osservato che la Nigeria, sotto il generale Abdulsalami Abubakar, ha istituito un programma di transizione di nove mesi nel 1998, che si è rivelato un grande successo, portando il paese in una nuova era di governo democratico», si legge nella nota emessa dalla presidenza nigeriana al termine dell’incontro. Un suggerimento, quindi, non una proposta ufficiale da parte dell’Ecowas che comunque ha tenuto a chiarire la sua posizione, definendola una fake news e comunque non una posizione dell’organizzazione sovranazionale africana anche se Tinubu ne è il presidente di turno.

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La proposta algerina

All’inizio della settimana, l’Algeria, un altro influente vicino del Niger, è stata ancora più specifica nell’offrire al regime militare un “piano di transizione di sei mesi” sotto la supervisione di una “autorità civile”. Per il momento, i generali al potere a Niamey non hanno reagito a queste proposte e il loro unico intervento sull’argomento risale al 19 agosto, quando il nuovo uomo forte del paese, il generale Abdourahamane Tchiani, aveva indicato di volere una transizione da tre anni al massimo. Molti giudicano poco credibile, o troppo lungo, questo periodo di transizione e, dopo i colpi di stato in Mali e Burkina Faso, ma anche in Guinea, le transizioni annunciate, per arrivare a nuove elezioni e il ripristino di un governo democraticamente eletto si sono allungate nel tempo, allontanando il ritorno dell’ordine democratico.

Ultimatum e tensioni diplomatiche

Resta, poi, alta la tensione anche tra il regime di Nimaey e la Francia, ex potenza coloniale e partner del Niger soprattutto nella lotta antijihadista e con numerosi interessi economici nel paese. Le autorità hanno revocato l’immunità e il visto diplomatico all’ambasciatore francese e hanno annunciato l’intenzione di espellerlo in una lettera inviata martedì a Parigi. Venerdì scorso avevano inizialmente concesso 48 ore a Sylvain Itté per lasciare il territorio, ultimatum respinto da Parigi che ritiene questo governo illegittimo e quindi non ha l’autorità per fondare una simile richiesta. E la giunta militare sta facendo molta pressione sull’ambasciata, tanto che, secondo testimonianze raccolte sul luogo, le auto in uscita dall’ambasciata francese sono state perquisite sistematicamente dalla polizia. Un altro ultimatum potrebbe scadere nel finesettimana. Le autorità militari hanno minacciato di accompagnare l’ambasciatore in maniera coatta fuori dal paese.

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La piazza si muove

La tensione cresce anche nelle piazze. L’M62, una coalizione della società civile contraria alla presenza militare francese, ha lanciato un appello per un “sit-in popolare” nel centro di Niamey, già a partire da ieri e per tutto il finesettimana, per chiedere la “partenza delle forze francesi”. Un’altra organizzazione della società civile, il Fronte patriottico per la Sovranità del Niger (Fpsn), dal canto suo ha chiesto un “sit in permanente” da oggi “fino alla partenza di tutti i soldati francesi”. La presenza militare francese in Niger, infatti, è massiccia: 1500 militari, oltre a mezzi e intelligence. Senza contare la presenza americana e italiana, che vanno ad aggiungersi al contingente militare che ha come missione il contrasto al jihadismo e alla tratta di essere umani, per fermare le migrazioni verso il Mediterraneo. Da diversi anni il Niger si trova ad affrontare una violenza jihadista mortale che colpisce la parte sudoccidentale del paese, ai confini del Burkina Faso e del Mali – la cosiddetta area dei Tre Confini – e la sua parte sudorientale vicino al bacino del Lago Ciad e al confine con la Nigeria.

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Attività sospese e diplomazia al lavoro

Infine, le autorità hanno annunciato la sospensione delle attività delle Ong, delle organizzazioni internazionali e delle agenzie delle Nazioni Unite nelle aree delle operazioni militari «a causa dell’attuale situazione di sicurezza». Le zone interessate non sono state specificate, ma secondo l’ufficio locale dell’agenzia umanitaria dell’Onu (Ocha), sarebbero prese di mira le località attorno a Banibangou, Sanam, Anzourou e Bankilaré, tutte situate nella regione di Tillabéri (Sud-ovest), a causa la «recrudescenza della presenza e delle attività» dei gruppi jihadisti. Le Nazioni Unite hanno annunciato di voler contattare i militari dopo questa decisione per «comprendere meglio cosa significa e quali sono le conseguenze per l’attività umanitaria».

Insomma permane una situazione di stallo. Ma le diplomazie sono continuamente al lavoro per scongiurare ogni possibile innalzamento della tensione che potrebbe portare a un intervento armato che infiammerebbe tutta l’Africa occidentale, e non solo, e in prima linea su questo fronte diplomatico c’è la nuova ambasciatrice americana a Niamey che, pur non presentando le sue credenziali alla giunta perché Washington non la riconosce, ha presso possesso della rappresentanza diplomatica.

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Il Sahelistan dall’Atlantico al Mar Rosso https://ogzero.org/il-sahelistan-dallatlantico-al-mar-rosso/ Mon, 21 Aug 2023 20:51:37 +0000 https://ogzero.org/?p=11453 La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da […]

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La rapida fuga dei francesi cacciati dalla Françafrique, con i doverosi distinguo, richiama alla mente – soprattutto per la rapidità del dissolvimento di un potere coloniale – la precipitosa fuga americana da Kabul. La regione immediatamente subsahariana – che molto è intrecciata con i movimenti irredentisti del Maghreb, esplosi con la crisi libica (scatenata da Sarkozy) che furono alleati del jihad che imperversa nel territorio su cui sono segnati i confini tra Mali, Burkina e Niger – ha assistito alla penetrazione di nuove potenze (in particolare Russia con la presenza di Wagner e Cina che ha aperto una sede per manutenzione di veicoli della Norinco a Dakar – pronta a difendere i vasti interessi di Pechino nei tre paesi dei golpe, ma operativa anche in Senegal, Costa d’Avorio –, ma anche Turchia e paesi della penisola araba), che hanno sfruttato dispute interne, sentimenti antifrancesi, insorgere del jihad per piegare a loro favore lo sfruttamento delle risorse del territorio e la collocazione strategica di cerniera tra Africa centrale (e Corno d’Africa) e Mediterraneo da sud a nord; tra l’Oceano e l’importantissimo corridoio del Mar Rosso sul classico asse ovest/est. L’incendio si va estendendo ormai da quel Triangolo di paesi attualmente retti da giunte militari golpiste fino a legarsi al sanguinoso conflitto sudanese ormai impossibile da comporre (che sta causando nuovi esodi di massa, coinvolgendo in questo modo altri paesi in sofferenza, perché non più in grado di accogliere profughi, creando così nuovi motivi di tensione nell’area dopo quelli che hanno scosso l’Etiopia negli ultimi due anni).
A chi serve creare un’area a forte instabilità sul modello afgano di dimensioni così enormi? è tutto parte di un disegno globale di ridimensionamento del predominio dell’Occidente, oppure è un percorso senza alternative di decolonizzazione, che fa della Realpolitik l’accettazione di potenze alternative, pur di disfarsi del giogo classicamente coloniale? le reazioni interventiste dei paesi limitrofi sono ispirate dalla paura dell’epidemia; oppure dagli sponsor europei, come il solito Eliseo (Adamu Garba, esponente dell’Apc ha accusato Usa e Francia di aver voluto mandare avanti l’Ecowas per innescare una guerra regionale e recuperare posizioni “coloniali”, sfruttando l’instabilità e l’ennesima guerra per procura che finirebbe con il distruggere l’Africa occidentale)
?  Oppure nascono dalla consapevolezza che la regione è stata integralmente posta in un caos per cui nulla sarà più come prima? Sicuramente si sta spostando in campo africano lo scontro anche militare che contrappone gli interessi dei Brics allargati all’egemonia occidentale.
Angelo Ferrari ha cercato di fare il punto mettendo in relazione tutti gli elementi in campo per dipanare l’ingarbugliata matassa.


Il golpe nigerino sblocca definitivamente il modello afgano per l’intero Sahel?

A ovest del lago Ciad

Rulli di tamburi…

Tutti i riflettori della diplomazia internazionale sono puntati sul Niger, dopo il colpo di stato del 26 luglio. Mentre ciò accade il Sahel rischia di piombare in un caos senza precedenti che potrebbe coinvolgere tutta l’Africa occidentale e non solo: l’intera  striscia saheliana è attraversata da tensioni che vanno dal sentimento antifrancese e antioccidentale, che sta montando un po’ ovunque, a una crisi politica, umanitaria e di sicurezza senza precedenti. La decisione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) di intervenire militarmente in Niger sta esacerbando ulteriormente le opinioni pubbliche di diversi stati della regione; non più, dunque, una minaccia, ma un piano militare messo a punto dopo due giorni di vertice ad Accra, capitale del Ghana. Non si conoscono i dettagli dell’operazione, si sa solo che dovrebbe essere “lampo” perché nel Sahel c’è stato “un colpo di stato militare di troppo”, a detta dei generali riuniti ad Accra. Intervento armato, tuttavia, che non avrebbe alcuna legittimità internazionale: l’Unione africana infatti ha già detto il suo no e le Nazioni Unite non hanno nessuna intenzione di autorizzarlo.

… timide mosse diplomatiche…

Mentre si parla di piani militari, la diplomazia è ancora al lavoro. Una delegazione dell’Ecowas è arrivata a Niamey dove ha potuto incontrare il presidente destituito, Mohamed Bazoum; non solo, a Niamey è arrivata anche la nuova ambasciatrice degli Stati Uniti, Kathleen FitzGibbon, anche se non presenterà le credenziali alla giunta militare – perché Washington non la riconosce – esprimendo tuttavia l’intenzione americana di perseguire la via diplomatica e «per sostenere gli sforzi che aiutino a risolvere la crisi politica in questo momento». Un segno, dunque, che la giunta militare non respinge del tutto il dialogo.
tanto che in un discorso alla televisione pubblica nigerina, Télé Sahel, il generale Abdourahamane Tchiani, a capo della giunta militare, ha annunciato l’istituzione di un «dialogo nazionale inclusivo» entro 30 giorni e ha annunciato una transizione che «non può durare oltre i tre anni». L’obiettivo è formulare «proposte concrete per porre le basi di una nuova vita costituzionale».
Un mantra, quest’ultimo, che ha precedenti in Mali, Burkina Faso e Guinea, paesi che sono stati teatro di colpi di stato negli ultimi due anni e dove le transizioni si prolungano senza che vengano convocate elezioni per un ritorno dei civili al governo di questi paesi. Il generale Tchiani, tuttavia, non accetta la minaccia dell’Ecowas di un intervento militare e rilancia: «L’Ecowas si prepara ad attaccare il Niger allestendo un esercito di occupazione in collaborazione con un esercito straniero», ha detto Tchiani senza citare il paese “straniero”, ma in molti pensano alla Francia.

… esibizione di muscoli

«Né il Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria né il popolo del Niger vogliono la guerra, ma se dovesse essere intrapresa un’aggressione, non sarà la svolta in cui alcuni credono» e ha ammonito: «Le forze di difesa del Niger non si tireranno indietro», sostenute da Burkina Faso, Mali e Guinea, ha detto. «La nostra ambizione non è quella di confiscare il potere», ha anche promesso.

A est del lago Ciad

Il conflitto tra al-Burhan e Hemedti si estende a tutti i Signori della guerra

Mentre ciò accade nell’estremo ovest della striscia saheliana, il Sudan è entrato nel quinto mese di guerra senza che si intraveda all’orizzonte una soluzione. Anzi, sembra proprio che i contendenti vogliano arrivare alle estreme conseguenze. Intanto il conflitto si è esteso, impantanato, aggravato provocando un dramma umanitario che nemmeno l’Onu è in grado di affrontare. La guerra contrappone l’esercito regolare del generale al-Burhan alle Forze di supporto rapido (Fsr) dei paramilitari guidati dal generale Hemedti. Il conflitto ha causato più di quattromila morti, anche se la cifra delle vittime è sottostimata, e milioni tra profughi e sfollati interni. Quando la guerra è scoppiata, il 15 aprile 2023, il generale al-Burhan ha detto che sarebbe finita in due settimane, mentre Hemedti prometteva la vittoria. Oggi nessuna delle due parti sembra prendere un vantaggio decisivo. I militari dominano ancora lo spazio aereo, mentre soffrono la debolezza della loro fanteria, un compito, ironia della sorte, che avevano affidato proprio alle Fsr. L’esercito ha subito battute d’arresto nel Sud Kordofan, nel Nilo Azzurro e nel Darfur, le Forze di supporto rapido sembrano avere nelle mani la maggior parte del territorio di Khartoum, la capitale.
Il conflitto dunque, anziché attenuarsi, si intensifica è sta coinvolgendo altri movimenti armati che partecipano ai combattimenti. Insomma, questo conflitto, iniziato tra due generali, rischia di trasformarsi in una vera e propria guerra civile, secondo l’Onu, volgendo verso una situazione di anarchia totale. I negoziati, inoltre, non sono mai decollati e sono in una fase di stallo e i cessate il fuoco non sono mai durati.

S’intrecciano le crisi umanitarie regionali

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Nilo

Sul versante umanitario le cifre sono da capogiro con oltre 3 milioni di sfollati e quasi 1 milione di rifugiati. Inoltre, entro settembre si prevede che il 40% della popolazione soffrirà di insicurezza alimentare. Le organizzazioni umanitarie stanno affrontando una situazione a dir poco scoraggiante con una mancanza allarmante di fondi, all’appello mancano due miliardi di dollari per far fronte alla crisi. Le donne sono particolarmente colpite, sono vittime di violenze e stupri perpetrati dai combattenti e private di un’adeguata assistenza psicologica e medica, hanno spiegato i portavoce delle agenzie umanitarie durante una riunione a Ginevra. Le agenzie possono aiutare circa 19 milioni di persone in Sudan e nei paesi limitrofi, tuttavia gli interventi sono finanziati solo al 27%. Le Nazioni Unite hanno lanciato due appelli, uno per finanziare gli aiuti all’interno del paese per un totale di 2,57 miliardi di dollari e l’altro per i rifugiati fuggiti dal Sudan per un importo di 566,4 milioni di dollari. Ma dopo la crisi innescata dal colpo di stato in Niger, del Sudan sembra si siano dimenticati tutti e ciò rischia di aggiungere catastrofe a catastrofe.

Profughi e sfollati, di nuovo sulle sponde del Niger

Le conseguenze di un intervento militare dell’Ecowas a Niamey sarebbero devastanti sia sul piano umanitario sia sul piano della sicurezza dell’intera regione. Già si vedono spostamenti di persone sul fiume Niger nella parte che confina con il Benin, considerato, ancora, uno stato sicuro. Nel paese la crisi umanitaria si sta già manifestando. Le frontiere chiuse impediscono il passaggio di merci necessarie alla sopravvivenza della popolazione, così come l’elettricità scarseggia in più parti del paese per via delle interruzioni delle forniture che arrivano dall’estero. Una guerra, per quanto lampo sia, aggraverebbe ulteriormente la situazione umanitaria.

A Ovest (speriamo) niente di nuovo

Una guerra, che potrebbe estendersi a buona parte del Sahel – Mali e Burkina Faso hanno già assicurato il loro appoggio al Niger – avrebbe ripercussioni preoccupanti sul fronte della lotta al terrorismo e ai gruppi jihadisti che imperversano nell’area, in particolare nella regione dei tre confini – Niger (Tilaberi), Mali (Tessit) e Burkina Faso (Tamba), dove storicamente la pastorizia nomade si scontra con coltivatori stanziali – ma anche sulla capacità dei paesi del Golfo di Guinea, già colpiti dal terrorismo a nord dei loro confini – Costa d’Avorio, Benin e Togo – di farvi fronte. Una situazione, dunque, esplosiva.

Recrudescenza jihadista dopo Barkhane

Dal colpo di stato in Niger di fine luglio, infatti, sono stati registrati nove attacchi jihadisti. Una tendenza che preoccupa gli osservatori. Con la recrudescenza degli attacchi islamisti, il timore è di “un rapido deterioramento della situazione”, in primo luogo perché Parigi ha sospeso la sua cooperazione militare con il Niger. L’esercito nazionale quindi non beneficia più dell’appoggio dell’esercito francese. Non ci sono più operazioni congiunte, aerei e droni non danno più supporto e i terroristi approfittano del vuoto. Poi, le minacce di intervento armato dell’Ecowas hanno portato a una riduzione del sistema militare occidentale, che hanno sospeso le loro attività ai confini. Ciò potrebbe portare un calo della reattività dell’esercito nigerino e i gruppi jihadisti potrebbero approfittarne riconquistando la loro libertà di manovra con un radicamento dello Stato Islamico proprio nell’area dei tre confini. Le preoccupazioni vanno ancora oltre, con la possibile creazione di zone grigie, in parte controllate da gruppi armati, in Mali, Burkina, Niger, persino Sudan, che potrebbero destabilizzare il vicino Ciad. Il Ciad, pur non essendo membro dell’Ecowas, condivide con il Niger 1200 chilometri di confine e dispone, oltre ad avere solidi rapporti con la Francia, di un esercito tra i più potenti dell’area. Quindi il Niger ha necessità di assicurarsi rapporti di buon vicinato – il primo ministro nigerino, nominato dalla giunta militare, ha fatto visita al presidente ciadiano Mahamat Idriss Deby – anche se N’Djamena è alle prese con una crisi interna di legittimità del potere e con l’emergenza profughi che arrivano a decine di migliaia dal Sudan.

A rischio sconfinamenti i paesi del Golfo

Si teme, inoltre, che i gruppi jihadisti possano contagiare anche i paesi del Golfo di Guinea. Questa è la maggior preoccupazione della Costa d’Avorio che è già alle prese con sconfinamenti dal Burkina Faso e con centinaia di profughi burkinabé che cercano rifugio nel nord del Paese. Ciò, inoltre, potrebbe spiegare la ferma posizione del presidente ivoriano, Alassane Ouattara, che si è schierato con decisione per un intervento militare in Niger, dicendosi disponibile a fornire un battaglione del suo esercito al contingente dell’Ecowas. Occorre ricordare che Ouattara è uno dei pochi “fedeli” alla Francia rimasti nella regione. E il presidente ivoriano è preoccupato che anche nel suo paese possa montare un sentimento antifrancese alimentato, soprattutto, dal suo rivale di sempre l’ex presidente Laurent Gbagbo, 78 anni, che non nasconde le sue velleità di tornare alla presidenza della Costa d’Avorio, nel 2025, con il suo nuovo Partito dei popoli africani-Costa d’Avorio (Ppa-Ci), di ispirazione e orientamento socialista e panafricanista, nemmeno troppo velatamente antifrancese.

Scosso anche il gigante Senegal da sommovimenti interni

Non meno turbolenta appare la situazione nell’estremo ovest della striscia saheliana, in un Senegal che vive un periodo di forte crisi politica e di legittimità democratica, soprattutto dopo l’arresto dell’oppositore Ousmane Sonko, uno dei leader politici più amati dai giovani senegalesi. Arresto che ha provocato manifestazioni di piazza violente, che hanno lasciato sulle strade numerosi feriti ma anche morti. In conseguenza di queste proteste il ministro dell’interno senegalese, Antoine Diome, ha annunciato lo scioglimento proprio del partito di Sonko, il Pastef – Les patriotes. Il leader dei “giovani senegalesi” è stato condannato per diffamazione e per corruzione giovanile. Secondo le opposizioni queste condanne non hanno altro significato che escludere Sonko, che gode di un buon seguito, dalle elezioni presidenziali del 2024. Il Senegal è un altro paese in forte ebollizione e non è bastata la decisone di Macky Sall, attuale presidente, di non candidarsi per un terzo mandato alle presidenziali a inizio luglio per stemperare la tensione nel paese. In punta di diritto potrebbe farlo, anche se la Costituzione prevede solo due mandati, ma è stata riformata, con una rimodulazione della lunghezza del mandato, proprio sotto la presidenza Sall. Le opposizioni, infatti, si rammaricano del fatto che il presidente Sall e il suo governo rimangano sordi alle richieste di allentamento, pacificazione e fine delle restrizioni agli spazi di libertà. I mesi, dunque, che separano il Senegal alle presidenziali del febbraio 2024 saranno particolarmente difficili. Non è un caso, inoltre, che le opposizioni senegalesi si siano schierate contro l’intervento militare dell’Ecowas in Niger.
Sono molte le ragioni che dovrebbero dissuadere dal mettere in atto lo scenario peggiore per il Sahel e per l’intera Africa occidentale. Un conflitto armato su vasta scala potrebbe scatenare reazioni non proprio prevedibili e trasformare il Sahel in un “Sahelistan” di afgana memoria.

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L’ancora irrisolto colpo di stato in Niger https://ogzero.org/lancora-irrisolto-colpo-di-stato-in-niger/ Sun, 30 Jul 2023 22:51:19 +0000 https://ogzero.org/?p=11387 Intanto i differenti militari hanno sollevato il presidente, il potere però sembra sia gestito da svariati uomini forti a cominciare dal capo della Guardia presidenziale Tchiani e ora sembrano essere in attesa di capire in che modo schierarsi nelle relazioni internazionali; come se fossero sulla piazza, al miglior offerente… ma probabilmente divisi tra diverse forze […]

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Intanto i differenti militari hanno sollevato il presidente, il potere però sembra sia gestito da svariati uomini forti a cominciare dal capo della Guardia presidenziale Tchiani e ora sembrano essere in attesa di capire in che modo schierarsi nelle relazioni internazionali; come se fossero sulla piazza, al miglior offerente… ma probabilmente divisi tra diverse forze armate e le differenti “scuole d’armi” frequentate. Forse Bazoum aveva dato l’impressione di non voler mettere in discussione minimamente lo schieramento con la parte dell’Occidente e quindi il rischio per chi intendeva omogeneizzare le scelte antiatlantiste del resto del Sahel era quello di essere esautorati dagli incarichi autorevoli che ricoprivano. Forse ha prevalso l’idea che nel gran rivolgimento dell’intero continente risultasse perdente per la nazione non operare alcun cambiamento. Forse il timore che si mancasse anche stavolta la partecipazione all’ondata di rigetto antifrancese (molto popolare presso i giovani potrebbe aver spinto alla rimozione dell’ostacolo presidenziale… di certo l’incertezza sulla affidabilità e collocazione di uno stato chiave, l’ultimo nel Sahel ancora sotto l’egida di una Francia affamata di uranio, produce fibrillazioni in seno all’intera comunità internazionale, motivo per cui – al contrario del solito – abbiamo pensato fosse il caso di occuparsene quando ancora non si è depositato il polverone di ipotesi suscitate dal golpe. … Intanto Parigi ha dichiarato che – rispetto agli altri paesi sahelini (che non sono cassaforte di uranio) – da Niamey sarà più difficile cacciarli, però il governo golpista ha sospeso le forniture di oro e uranio alla Francia. E comunque sul territorio c’è il più grosso contingente americano in Africa e gli addestratori italiani (più di 300 giovani e forti, 13 mezzi terrestri e 5 aerei, inquadrati nella Misin che opera agli ordini del Comando operativo di vertice interforze (Covi), guidato dal generale di Corpo d’armata Francesco Paolo Figliuolo, sempre lui). Il blocco dell’Africa occidentale riunito a Abuja (Cedeao), ha dichiarato la sospensione delle relazioni con il Niger autorizzando l’uso della forza se il presidente non verrà reintegrato entro una settimana: l’emissario del messaggio è il non-allineato Déby (in carica dinasticamente per volontà dell’Eliseo), un pessimo segnale in una fase di rivolgimento totale, che la paura dell’epidemia si diffonda in tutta l’Africa occidentale, mettendo le premesse perché divampi una guerra estesa, concede pericolosi spazi per una nuova guerra per procura in terra africana.
Angelo Ferrari affronta l’evento cercando di districarsi tra le notizie ancora contraddittorie, analizzandole per capire almeno le intenzioni di ciascun protagonista, in primis i generali nigerini, ma poi anche le diplomazie mondiali e la manipolazione mediatica delle piazze locali, lasciando solo trapelare il malcontento giovanile
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Sbalorditivi risultati dopo il vertice di San Pietroburgo?

Una vicenda ancora dai contorni pochi chiari – non potevano mancare le affermazioni del capo dei mercenari della Wagner che ha applaudito alla presa di potere dei militari. Parole piene di retorica anticoloniale:

«Quello che è successo in Niger non è altro che la lotta del popolo nigerino contro i colonizzatori che stanno cercando di imporre loro le loro regole di vita”, ha detto Evgenij Prigožin in un messaggio a lui attribuito.

Parole che fanno intendere che la Wagner, qualora i golpisti lo volessero, è pronta a entrare nello scenario nigerino con un ruolo di primo piano. Non ci sono, per ora, segnali che dietro il golpe ci siano gli uomini della Wagner. Se fosse così sarebbe un doppio schiaffo per l’occidente che, è bene dirlo, si è fatto sorprendere proprio nell’ultima roccaforte della lotta antijihadista dopo l’uscita di scena dal Mali e dal Burkina Faso. Le domande sono molte.

 

La prima: come è stato possibile che nessuna cancelleria occidentale avesse avuto un sentore di ciò che sarebbe potuto accadere?

Non c’è una risposta e se c’è nessuno la vuole dare, forse perché sarebbe troppo imbarazzante. Sta di fatto che in Niger sono presenti migliaia di militari stranieri: 1500 francesi, più di mille americani e oltre trecento italiani, oltre ai mezzi militari, molti di questi di stanza a Niamey, la capitale. Di certo, nei prossimi giorni si chiariranno molte cose. Secondo i francesi il colpo di stato “non è definitivo”. Il presidente Emmanuel Macron ha parlato in più occasioni con il suo omologo destituito, Mohamed Bazoum. Forse da queste telefonate deduce che ci sia ancora uno spiraglio di trattativa tra il capo di stato democraticamente eletto e i golpisti che, intanto, hanno messo a guida del paese il capo della guardia presidenziale, il generale Abdourahamane Tchiani, in qualità di “presidente del Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria”, la giunta che ha rovesciato il presidente eletto. Il capo della guardia presidenziale, il generale Tchiani, nuovo uomo forte del Niger, ha giustificato il golpe con “il deterioramento della situazione della sicurezza” nel paese minato dalla violenza dei gruppi jihadisti. Il presidente Bazoum, a detta sua, voleva far credere che “va tutto bene”, mentre c’è

«la dura realtà con la sua quota di morti, sfollati, umiliazioni e frustrazioni». Secondo Tchiani «l’attuale approccio di sicurezza non ha permesso di mettere in sicurezza il paese nonostante i pesanti sacrifici compiuti dai nigerini e l’apprezzabile e apprezzato supporto dei nostri partner esterni».

Rassicurazioni da militare

A ogni insorgenza si sentono sempre queste parole. Sono una consuetudine vissuta anche in altri scenari del Sahel: il Mali e il Burkina Faso, paesi governati da giunte militari frutto di 4 colpi di stato. Tutte le giunte militari, inoltre, si affrettano a sostenere che gli impegni presi dal paese non cambieranno e verranno rispettati. Un tentativo di rassicurare gli alleati, ed è capitato anche in Niger, per poi fare retromarce clamorose. In Mali – la nuova Costituzione stabilisce che il francese non è più la lingua ufficiale – come in Burkina Faso, hanno “cacciato” la Francia per mettersi totalmente nelle mani della Russia, affidandosi alla Compagnia Wagner per la lotta ai gruppi jihadisti che imperversano nel Sahel. Hanno preoccupato le manifestazioni, a Niamey, a sostegno dei golpisti, con la gente che sventolava le bandiere russe, per altro subito disperse dalla giunta miliare. I timori, dunque, delle cancellerie occidentali sono più che fondati. E la “guerra economica e diplomatica” tra Ovest ed Est del mondo sembra proprio essersi trasferita in Africa. I segnali ci sono tutti.

Il Sahel ha sancito la fine di un’epoca?

Dopo il Mali e il Burkina Faso, dunque, anche il Niger è caduto sotto il controllo di un regime militare che potrebbe sconvolgere la lotta contro i gruppi armati jihadisti nel Sahel. Di fronte all’avanzata dei terroristi, le giunte militari hanno preso il sopravvento su democrazie ritenute inefficienti e corrotte da parte delle popolazioni saheliane. I militari che hanno, infatti, preso il potere in Niger hanno già annunciato un nuovo orientamento strategico.

«L’attuale approccio non ha permesso di mettere in sicurezza il Paese nonostante i pesanti sacrifici compiuti dai nigerini», ha detto il generale Tchiani.

Il Niger e il suo presidente, eletto democraticamente, erano i principali alleati dei paesi occidentali nel Sahel travolto dalla violenza jihadista e da un’ondata di autoritarismo venato di sovranità russofila. Bamako si è rivolto ai mercenari della Wagner per far fronte ai gruppi jihadisti, provocando la partenza delle truppe francesi nel 2022. Le autorità di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, hanno optato per la mobilitazione di cittadini armati e hanno chiesto il ritiro delle forze speciali francesi nel paese, non senza l’appoggio della Wagner. Il presidente nigerino, invece, aveva scelto di mantenere sul suo territorio la presenza di soldati francesi, americani e italiani, temendo di essere coinvolto nel divorzio tra l’occidente e le giunte saheliane.
Queste giunte «tendono naturalmente ad addossare la responsabilità del deterioramento della sicurezza agli alleati dei regimi che hanno rovesciato. Questi colpi di stato sono sostenuti da una parte della popolazione che ha già mostrato un atteggiamento ostile nei confronti dei francesi o degli occidentali presenti nel Sahel», spiega Ibrahim Yahaya Ibrahim, ricercatore dell’International Crisis Group.
Fin dal suo primo intervento, il generale Tchiani ha preferito rivolgersi ai suoi omologhi saheliani, interrogandosi «sul senso e sulla portata di un approccio securitario alla lotta al terrorismo che escluda ogni reale collaborazione con Burkina Faso e Mali» nell’area nota come i tre confini.

L’auspicata cooperazione tra sahelini… ma antifrancese

A causa delle tensioni diplomatiche, i militari nigerini e francesi non hanno potuto operare liberamente contro le basi dello Stato Islamico dall’altra parte del confine con il Mali, dove l’organizzazione compie attacchi sul territorio nigerino. Questa crisi non potrebbe essere risolta senza la cooperazione con il Mali, secondo il generale Tchiani. Insomma, è facile prevedere che vi sia un “miglioramento” delle relazioni e una maggiore cooperazione tra i paesi vicini.
Dal lato dei partner occidentali le prospettive sono più fosche: l’Unione europea ha annunciato la sospensione di tutti gli aiuti di bilancio e le azioni di cooperazione nel campo della sicurezza. Le sanzioni internazionali potrebbero colpire il regime come nel vicino Mali. Una possibile partenza delle forze francesi, americane e italiane lascerebbe un vuoto in una regione particolarmente travagliata, secondo gli analisti.
Il Niger confina con il caos libico, la Nigeria con Boko Haram e Iswap, il nord del Benin molto colpito dal jihadismo e ovviamente Mali e Burkina Faso.

Niamey era un polo di stabilità nonostante i problemi di sicurezza sul territorio.

Il Niger sta vivendo un afflusso di rifugiati dal Mali e dalla Nigeria in preda alla violenza, stimato in 255.000 nel 2022 dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unchr). Bazoum incarnava un modello di cooperazione in materia di sicurezza per le democrazie occidentali e i loro donatori. Il mantra del presidente nigerino era la “stabilizzazione” delle comunità prese di mira dal reclutamento jihadista e la reintegrazione dei loro combattenti, soprattutto i giovani. Il governo di Niamey stava attuando programmi in gran parte finanziati da partner internazionali, il cui futuro è ora sospeso. Contrariamente al potere civile che ha accettato di dialogare con alcuni leader di gruppi armati, il generale Tchiani ha denunciato nel suo discorso di “insediamento” la “liberazione extragiudiziale” di “capi terroristi” da parte del regime di Mohamed Bazoum. In Mali e Burkina Faso i militari al potere hanno optato per una strategia ultraoffensiva contro i gruppi jihadisti, viziata da accuse di abusi ricorrenti contro la popolazione. E a pagarne il maggior peso sono i civili.

Recrudescenza jihadista

Una strategia che contribuisce alla destabilizzazione e può alimentare tensioni intercomunitarie e intracomunitarie. Un approccio, inoltre, che non ha avuto l’esito sperato. Gli attacchi jihadisti in questa regione, ma anche nell’Africa occidentale, si sono moltiplicati. Solo nei primi sei mesi del 2023 si sono registrati più di 1800 attacchi di matrice terroristica, nei quali hanno perso la vita quasi 4600 persone e che hanno avuto conseguenze umanitarie disastrose. A riferirlo è Omar Touray, presidente della Commissione della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) intervenendo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Delle circa 4600 persone uccise in questi attacchi terroristici tra gennaio e la fine di giugno, 2725 morti sono avvenute in Burkina Faso, 844 in Mali, 77 in Niger e 70 in Nigeria. Touray ha citato anche il Benin e il Togo, due paesi della subregione storicamente risparmiati dagli attacchi terroristici ma che oggi vivono, invece, grandi preoccupazioni per la sicurezza. Questi paesi sono stati presi di mira, di recente, da una serie di attacchi, che Touray ha descritto come

«un’indicazione lampante della diffusione del terrorismo negli stati» del Golfo di Guinea, «una situazione che rappresenta un’ulteriore minaccia per la regione».

Touray ha detto anche che l’insicurezza continua a infliggere dolore e sofferenza a milioni di persone, con conseguenze di vasta portata: questi attacchi terroristici hanno provocato lo sfollamento di mezzo milione di rifugiati e quasi 6,2 milioni di sfollati interni. La Costa d’Avorio, solo per fare un esempio, ha già predisposto campi per l’accoglienza dei profughi provenienti dal Burkina Faso. Il numero di persone con necessità di sicurezza e assistenza, poi, salirà a 42 milioni «se non ci sarà un’adeguata risposta internazionale ai 30 milioni di persone attualmente bisognose di cibo».


I francesi e l’Occidente non si possono permettere di perdere il Niger: passa dalla soluzione di questa crisi il definitivo declino dell’Occidente, oppure la contrapposizione allo scacco del blocco antiatlantico… l’incrocio tra Sahel e l’area centrafricana è uno snodo essenziale, ben più critico del corridoio polacco verso Kaliningrad. E forse per evitare il contagio può essere un’interpretazione valida quella avanzata da Angelo Ferrari e Marco Trovato in un visdeo di “AfricaRivista”riguardo al successivo “golpe” con caratteristiche del tutto differenti che ha colpito il Gabon, stato quasi monarchico che la repubblica francese ha dato in affido alla famiglia Bongo da 57 anni e che avrebbe rischiato maggiormente se le sommosse per il malcontento nei confronti della cleptocrazia non fossero venute dalla guardia presidenziale, ma dai cittadini ridotti in miseria dal sistema neocoloniale – e c’erano tutti i prodromi di una reazione violenta ai brogli delle elezioni tenutesi senza internet funzionante e in stato di emergenza, senza osservatori. Invece Brice Clotaire Oligui Nguema, nuovo uomo forte – senza bandiere russe o stemmi con il teschio della fantasmatica Wagner – ha assegnato ad Ali Bongo Ondimba quella retraite per la difesa della quale i cittadini francesi sono scesi nelle piazze per mesi. Ma qui non siamo in Sahel, non si è ancora affacciato il pericolo jihadista, la Francia non si può permettere di perdere un alleato così fedele.

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Il sovranismo è l’altro colonialismo. Raisi l’Africano https://ogzero.org/il-sovranismo-e-laltro-colonialismo-raisi-lafricano/ Fri, 21 Jul 2023 09:49:29 +0000 https://ogzero.org/?p=11316 Razzisti e colonialisti di radice fascista e reazionaria di ogni latitudine stanno annusando l’aria di affari in un continente in bilico, dove i riferimenti coloniali classici (coperti finora dalla foglia di fico dell’appartenenza ideologica alle democrazie liberali) sono messi in crisi e quindi si propongono con i loro modelli ipocriti di cooperazione stracciona, senza orpelli […]

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Razzisti e colonialisti di radice fascista e reazionaria di ogni latitudine stanno annusando l’aria di affari in un continente in bilico, dove i riferimenti coloniali classici (coperti finora dalla foglia di fico dell’appartenenza ideologica alle democrazie liberali) sono messi in crisi e quindi si propongono con i loro modelli ipocriti di cooperazione stracciona, senza orpelli di richiamo retorica a un presunto riguardo all’umanitarismo. Meloni con Saied, due razzisti a pianificare lo sterminio di africani, Raisi con Museveni, due omofobi in sintonia… tutti, al di là degli accordi sbandierati, trovano terreni comuni in transazioni economiche, inventando fittizie posizioni di cooperazione alla pari.
Proprio quello è il vero interesse: concentrarsi sul continente terreno di scontro e spartizione globale. Ora persino il regime persiano dei turbanti, quasi mai interessato  all’Africa, organizza un viaggio ufficiale in tre stati non casualmente scelti, cercando di piazzare prodotti che non sono petroliferi – in primis i droni… ma per l’agricoltura, ovviamente –, ma soprattutto esportando un modello dittatoriale, come spiega con precisione Angelo Ferrari.


Visite all’Africa bazaar: offerte speciali di aree di influenza

ll presidente iraniano, Ebrahim Raisi, è sbarcato in Africa per un tour storico di tre giorni dove ha visitato il Kenya, poi l’Uganda e, infine, lo Zimbabwe. Il continente africano – e anche questa visita lo dimostra – è diventato il terreno “ideale” per le diplomazie dell’Est del Mondo per contrastare l’Occidente e ridisegnare la geopolitica mondiale. Dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia si è avuta un’accelerazione diplomatica sul continente senza precedenti. Lo scontro tra Occidente e Oriente si è trasferito, anche ma non solo, in Africa e tutti cercano di portare i paesi africani dalla propria parte. Condendo il tutto con la retorica anticoloniale: «Alcuni paesi hanno una visione colonialista dell’Africa, ma la nostra visione verso questo continente si basa sulla dignità umana e sulla sinergia», ha detto Raisi prima di lasciare Teheran.
L’obiettivo che vuole raggiungere Raisi è quello di aprire nuovi canali commerciali, da un lato, e dall’altro aprire vie diplomatiche che gli consentano di sviluppare le esportazioni non petrolifere verso il continente africano. Questo tour riflette il desiderio dichiarato di Teheran di moltiplicare i partner politici ed economici, anche per cercare di aggirare le sanzioni occidentali che le sono state imposte a causa del suo programma nucleare.

Lo spirito di Astana trasferito in Africa: le nuove “guerre siriane” da regolare

Dopo undici anni, dunque, torna sul suolo africano un presidente iraniano così da avviare “un nuovo inizio”, ha spiegato il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Nasser Kanani, con paesi che sono “molto ansiosi” – a detta sua – «di sviluppare le loro relazioni con l’Iran». Ma non solo. Secondo Teheran questo riavvicinamento – che si concretizza dopo il rafforzamento delle relazioni con Cina e Russia nell’ambito di una strategia rivolta a Est – sta avvenendo anche sulla base di “una visione comune”. Non è un caso, inoltre, che l’Iran sia entrato a fare parte della Shanghai Cooperation Organization (Sco), una struttura regionale creata nel 2001 di cui Cina e Russia sono membri fondatori.

Relazioni iraniane globalmente “antimperialiste”

Per cercare di capire questa nuova e quasi inedita offensiva diplomatica non si può non considerare la grave crisi economica che sta attraversando l’Iran e quindi, quel viaggio, si inserisce nella ricerca di nuove vie d’uscita alle numerose sfide che Teheran deve affrontare. La visita, poi, incornicia un quadro che il presidente iraniano Raisi ha spiegato ricevendo il ministro degli Esteri algerino, Ahmed Attaf: sviluppare relazioni politiche ed economiche con Algeri come con le tre capitali africane che ha visitato. E il tour africano si inserisce, inoltre, nel quadro delle visite che Raisi ha effettuato in Indonesia e con i tre “paesi amici” in America Latina, cioè Venezuela, Nicaragua e Cuba. Viaggi che gli hanno dato l’occasione di ribadire l’avversione di Teheran alle “potenze imperialiste”, avendo nel mirino, in particolare, gli Stati Uniti. Ma, durante questi viaggi, ha colto l’occasione per ribadire il suo appello a spezzare l’egemonia del dollaro sull’economia mondiale. Fattore che sta molto a cuore anche ai paesi africani e a quelli del Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – che nel vertice che si svolgerà il prossimo agosto in Sudafrica discuteranno anche di questo e delle richieste di numerosi paesi africani, che vogliono entrare a far parte di questo consesso internazionale.

La prima tappa: il Kenya di Ruto

Raisi, in Kenya ha incontrato, a Nairobi, il suo omologo William Ruto. Dopo un colloquio “cordiale” ha incontrato i giornalisti spiegando la sua visita in Kenya come «un punto di svolta nelle relazioni tra i due paesi», aggiungendo che queste discussioni hanno rispecchiato “la determinazione” dei due paesi a «estendere la loro cooperazione economica, commerciale, politica e culturale». Dal canto suo, Ruto ha descritto l’Iran come «un partner strategico essenziale per il Kenya» e ha annunciato la firma bilaterale di cinque memorandum d’intesa in vari settori tra cui quello tecnologico, la promozione degli investimenti e la pesca. «Questi protocolli», ha spiegato il presidente keniano, «svilupperanno e approfondiranno ulteriormente le nostre relazioni per consentire una crescita e uno sviluppo più sostenuti tra i nostri due paesi». L’Iran, inoltre, ha annunciato la volontà di creare una fabbrica nella città portuale di Mombasa per «produrre un veicolo di fabbricazione iraniana chiamato Kifaru, che in lingua kiswalili significa rinoceronte». I simboli hanno sempre un loro valore e fanno, a volte, più della diplomazia.

Il cuore del viaggio: 21 accordi commerciali

Il tour africano ha consentito di annunciare che la compagnia di navigazione Islamic repubblic of Iran Shipping Lines intende aprire un ufficio regionale nel continente per garantire la continuità delle proprie linee marittime dirette in Africa. Attualmente sono già operative linee di navigazione dirette tra l’Iran e l’Africa settentrionale e orientale, ma la compagnia iraniana prevede di espandere i propri servizi anche in altre regioni del continente.
Gli accordi commerciali sono fondamentali per l’Iran – ne sono stati firmati 21 con i tre paesi che ha visitato – ma Raisi si trova molto a suo agio con omologhi del suo stesso rango. A parte il Kenya, paese che sta cercando, non senza fatica, di far crescere la propria democrazia, consolidandola e riaffermandosi in un ruolo centrale per l’Africa orientale, gli altri paesi visitati – Uganda e Zimbabwe – assomigliano di più a vere e proprie dittature. Raisi, proprio in questi paesi, ha dato il meglio di sé in termini di propaganda e di sostegno ai due dittatori.

Museveni folgorato dal modello iraniano alternativo all’Occidente

Ma il vero affondo nella retorica antioccidentale, Raisi lo ha lanciato in Uganda. «L’imperialismo e l’occidente preferiscono che i paesi esportino petrolio e materie prime, consentendo loro di convertire queste risorse in prodotti a valore aggiunto, i nostri sforzi in Iran si concentrano sulla prevenzione delle esportazione delle materie prime», e ha sottolineato l’importanza di evitare le esportazioni verso l’occidente, «come auspicato dai paesi imperialisti». Museveni, dal canto suo, ha espresso la necessità di imparare dalle preziose «esperienze dell’Iran nel contrastare l’egemonia occidentale».

La seconda tappa: l’Uganda di Museveni

Cominciamo dall’Uganda. Senza troppo girarci intorno, Raisi, incontrando il suo omologo Yoweri Museveni – in quanto a longevità al potere non ha eguali – ha elogiato la legge “antiomosessualità” dell’Uganda, una delle più repressive al mondo che prevede sanzioni che possono arrivare fino alla pena di morte e vieta la “promozione dell’omosessualità”. «L’occidente, – ha detto Raisi, – sta cercando oggi di promuovere l’idea dell’omosessualità e, promuovendola, sta cercando di porre fine alla specie umana». Diversi paesi, tra cui gli Stati Uniti, hanno promesso sanzioni economiche contro l’Uganda. Ma l’Uganda tira dritto: «L’occidente non verrà a governare il nostro paese», parole del presidente del parlamento ugandese. Museveni, accogliendo le parole di Raisi ha spiegato che «i paesi occidentali stanno agendo contro il patrimonio delle culture e delle nazioni». Si può capire quale sia la “visione politica comune” che il presidente iraniano ha evocato prima di lasciare Teheran per recarsi in Africa. E di sicuro Museveni ringrazia.

Mnangagwa, il patriota senza critiche per legge

Poi c’è lo Zimbabwe, che non è secondo a nessuno in termini di repressione di tutto ciò che non è allineato al potere. Rober Mugabe, padre della patria e dittatore insegna. Non solo, prima di lasciare questo mondo aveva giurato che il suo fantasma avrebbe perseguito per sempre il paese.

La terza tappa: lo Zimbabwe di Mnangagwa

Fantasma che si è reincarnato perfettamente nell’attuale dittatore, Emmerson Mnangagwa, salito al potere con un golpe nel 2017 rovesciando proprio Mugabe. Nel paese ogni voce dissenziente è messa a tacere. Ma il presidente iraniano Raisi è arrivato ad Harare in un momento cruciale per il paese: cioè le elezioni per la presidenza che si dovrebbero tenere il 23 agosto e Mnangagwa è candidato. Tra dittatori ci si spalleggia. Ma arrivano in un momento ben preciso: il presidente ha appena firmato una legge “patriottica” che vieta ogni critica al paese. Raisi, c’è da crederci, avrà dato qualche suggerimento, sul tema, al suo amico zimbabwano. Ora, in Zimbabwe, è considerato un crimine “danneggiare deliberatamente la sovranità e l’interesse nazionale” del paese e sarà punito chiunque partecipi a riunioni o incontri con persone che promuovono sanzioni contro lo Zimbabwe. Una legge molto “vaga” che lascia una grande libertà di manovra a chi governa e che può decidere a suo piacimento cosa è male e cosa è bene per il paese. Insomma, una legge “patriottica” che consentirebbe di condannare a morte persone percepite – solo percepite – come critiche nei confronti del governo. Il ministro dell’Informazione, Monica Mutsvangwa, ha spiegato che il «ruolo di questa legge è garantire che i cittadini amino il proprio paese. Bisogna essere patriottici». Più che amare il paese, i sudditi devono amare incondizionatamente il dittatore. Un bel capolavoro.
Questo testo conferma che lo Zimbabwe è una dittatura a tutti gli effetti con un regime peggiore di quello di Robert Mugabe, ha assicurato l’avvocato Fadzayi Mahere, portavoce della Citizens Coalition for Change, un partito fondato nel 2022 e guidato da Nelson Chamisa, avversario numero uno di Mnangagwa nella corsa alle presidenziali. I sodali di questo partito di opposizione hanno già subito ondate di arresti e numerosi procedimenti giudiziari.

Davvero un “nuovo inizio” nelle relazioni tra Iran e continente africano.

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A chi è utile la Wagner? https://ogzero.org/a-chi-e-utile-la-wagner/ Tue, 27 Jun 2023 16:00:14 +0000 https://ogzero.org/?p=11209 Che fine farà la Wagner? A chi è utile? Il continente africano è utile alla Russia come fonte di approvvigionamenti e di nuovi mercati alternativi a quello europeo, e la milizia capeggiata da Prigozhin era la testa di ponte russa che serviva allo scopo per militarizzare le risorse ottenute e controllare i territori che le […]

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Che fine farà la Wagner? A chi è utile? Il continente africano è utile alla Russia come fonte di approvvigionamenti e di nuovi mercati alternativi a quello europeo, e la milizia capeggiata da Prigozhin era la testa di ponte russa che serviva allo scopo per militarizzare le risorse ottenute e controllare i territori che le ospitano (senza contare l’utilizzo anti-jihad fattone da parte dei numerosi dittatori o golpisti africani). In Occidente non se ne è parlato molto in questi giorni in cui si è assistito ai fatti avvenuti in Casa Russia, ma è bene che se ne tenga conto, per capire gli sviluppi negli equilibri futuri del continente e degli investimenti che lì sono in corso. Angelo Ferrari ne parla qui e nel podcast dedicato al neocolonialismo africano, un’intervista per la trasmissione “I bastioni di Orione” di Radio Blackout.


La Wagner si sfalderà in Africa o verrà riassorbita nei ranghi ufficiali russi? È quello che si stanno chiedendo molti dittatori o golpisti africani che fanno ricorso ai mercenari della Compagnia Wagner per “sistemare” le questioni interne dei loro paesi, in particolare la lotta al jihadismo come nel Sahel. Di sicuro, fino a ora, la Wagner è la testa di ponte di Mosca per riaffermare la sua influenza su parte del continente africano. La Russia ha bisogno dell’Africa per due motivi: il primo perché deve trovare nuovi partner, nuove fonti di approvvigionamento, e nuovi mercati alternativi a quello europeo; il secondo luogo perché il sogno della Russia è quello di rafforzare il suo ruolo di gigante minerario per poi cercare di militarizzare le risorse, sviluppando tecnologia bellica. Per queste ragioni Vladimir Putin ha utilizzato la Wagner come forza di sfondamento nel continente africano. Questo, inoltre, ha fatto sì che la base operativa economica della Wagner sia diventata l’Africa. Un aspetto che l’Occidente non deve sottovalutare come gli avvenimenti dei giorni scorsi in Russia.

Dove opera la Wagner

L’attività del gruppo Wagner si svolge in tredici paesi diversi: Libia, Eritrea, Sudan, Algeria, Mali, Burkina Faso, Camerun, Sud Sudan, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Madagascar, Mozambico e Zimbabwe. Tutti paesi ricchi di risorse naturali di cui Mosca ha bisogno e sulle quali si è sviluppata la forza della Wagner, non solo militare, ma economica. La Repubblica Centrafricana, per esempio, è diventata per la Wagner un partner privilegiato – ha 13 basi militari – ha prestato i suoi servigi militari a difesa del governo del presidente Faustin-Archange Touderà, minacciato dai ribelli e da una guerra civile, avendo in cambio un accesso privilegiato alle miniere d’oro e di diamanti, oltre ad avere il controllo di alcuni ministeri. Significativo, da questo punto di vista, Il divieto di sorvolo dei droni, deciso a febbraio dal governo centrafricano, proprio per tutelare le attività di Wagner nella miniera d’oro di Ndassima, recentemente ampliata e messa in sicurezza.

Una situazione simile si sta verificando in Mali e in Burkina Faso. Con il fallimento dell’operazione antiterrorismo Barkhane e il conseguente ritiro dei francesi, il campo si è aperto ai russi e alla Compagnia Wagner – nonostante i governi di questi paesi neghino – che è passata all’incasso. Secondo un recente rapporto dell’Africa Command degli Stati Uniti, il Mali paga Wagner il corrispettivo di 10 milioni di dollari al mese, sotto forma di risorse naturali come oro e pietre preziose.

Il forziere economico della Wagner: contratti, armi e potere

E poi c’è il Sudan. La guerra tra l’esercito regolare del generale Abdel Fattah al Burhan e il capo delle Forze di supporto rapido (Fsr), Mohammed Hamdane Dagalo, detto Hemedti, continua senza tregua. E la Wagner, pur sostenendo le milizie Fsr, è rimasta defilata, si è occupata solo del trasferimento di armi dalla sua base in Cirenaica, in Libia, è ha privilegiato i suoi interessi economici che sono indipendenti da chi prevarrà sul campo. I rapporti tra Mosca e Kharthoum sono di lunga data. Il Sudan è ricco di metalli preziosi, la stragrande maggioranza dei quali viene esportata illegalmente. Molte miniere sono nelle mani di Hemedti. In questo settore la Wagner agisce attraverso la società M Invest di Yevgeny Prigozhin e la sua controllata Meroe Gold, che si è trasferita in Sudan nel 2017 e lavora con Aswar, una società controllata dall’intelligence militare sudanese. Il gruppo di giornalisti del Progetto di segnalazione di criminalità organizzata e corruzione (Occrp) è riuscita a raccogliere prove di un contratto tra Meroe Gold e Aswar. La società russa, inoltre, è esentata dal 2018 dalla tassa del 30% imposta dalla legge sudanese alle società aurifere. Anche per queste ragioni Wagner in Sudan ha assunto un profilo opportunista piuttosto che fedele a una particolare fazione. Questo ha permesso a Prigozhin di proseguire le sue attività economiche anche dopo la caduta del dittatore Omar al-Bashir e anche dopo il golpe del 2021, messo in atto proprio da chi ora si combatte per il potere. Dunque, il vero forziere economico della Wagner è in Africa. E tutto ciò fa gola anche a Putin.

Ascolta “Neocolonialismo africano: la trappola dietro allo sforzo di affrancamento” su Spreaker.

Le “fattorie di troll”

Dopo la “tentata marcia” su Mosca da parte della Wagner, nel continente africano non si segnalano particolari movimenti del gruppo. I mercenari, abituati a lavorare in autonomia, continuano le loro attività: sicurezza, sfruttamento delle risorse naturali e manovre di disinformazione con lo scopo di avvicinare le opinioni pubbliche alle ragioni della Russia. La compagnia Wagner, già dal 2017, ha utilizzato campagne per destabilizzare e manipolare le opinioni pubbliche attraverso le sue “fattorie di troll” sia in Sudan così come nel Sahel.

I due possibili sbocchi

Molti analisti concordano che Wagner non può fare a meno del supporto logistico dell’esercito russo nelle sue operazioni in Africa. Mosca fornisce armi e istruttori a molti paesi. Ma, anche in caso di smantellamento del gruppo Wagner, la Russia non lascerà il terreno non “occupato”. Le conquiste politiche, economiche e diplomatiche dell’ultimo decennio sono vitali per Mosca. I leader africani, che si avvalgono dei servizi dei mercenari russi, devono necessariamente interrogarsi anche sui rapporti di forza in Russia, soprattutto se i contrasti dovessero durare, potrebbero trovarsi di fronte a un conflitto di lealtà. I leader africani, così come molte cancellerie occidentali e asiatiche, stanno aspettando che la “polvere si depositi”. Di certo se la Wagner viene riassorbita nei ranghi dell’esercito di Mosca, il problema non si pone. I leader africani potranno continuare a trattare con questa compagnia senza il timore di scatenare conflitti di fedeltà con la Russia. Altro se Prigozhin rimarrà a capo della Wagner “africana”. Allora si entrerebbe in una zona grigia, senza dimenticare che la gran parte del personale russo schierato in Africa appartiene alla Wagner.

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Paradossi petroliferi africani https://ogzero.org/paradossi-petroliferi-africani/ Mon, 05 Jun 2023 17:17:05 +0000 https://ogzero.org/?p=11181 Il primo provvedimento che Tinubu, subentrato il 29 maggio a Buhari nella guida della Nigeria, ha notificato ai cittadini è stata la cancellazione dei sussidi pubblici sui carburanti, che costano alla Nnpc 810 milioni di euro al mese, ed ecco uno dei paradossi petroliferi africani: i nigeriani dovranno quindi aspettarsi un rincaro dei prezzi dei […]

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Il primo provvedimento che Tinubu, subentrato il 29 maggio a Buhari nella guida della Nigeria, ha notificato ai cittadini è stata la cancellazione dei sussidi pubblici sui carburanti, che costano alla Nnpc 810 milioni di euro al mese, ed ecco uno dei paradossi petroliferi africani: i nigeriani dovranno quindi aspettarsi un rincaro dei prezzi dei trasporti privati e collettivi, e dell’elettricità, spesso ottenuta dai generatori, viste le carenze della rete elettrica: infatti il prezzo calmierato della benzina era uno dei pochi benefici concessi dallo stato. Un precedente tentativo di cancellarli, fatto nel 2012 dal presidente Goodluck Jonathan, aveva scatenato rivolte sanguinose. Angelo Ferrari assimila la situazione innescata ad Abuja alla concomitante, seppur graduale, decisione presa a Luanda di ridurre progressivamente i sussidi sui prodotti petroliferi, proprio a un paio di settimane dal rilancio degli investimenti mondiali (in primis cinesi) sulla produzione e il trasporto del greggio angolano in previsione di una nuova era dello sviluppo energetico.
Lo strapotere dei più grossi produttori di greggio, a elezioni archiviate, mette tra parentesi il bisogno di consenso dei vertici, che si dimostrano espressione delle lobbies degli idrocarburi. Un sistema che innesca il paradosso secondo il quale la Nigeria – e anche l’Angola – reimportano i derivati del petrolio spendendo 10 milioni di dollari al giorno per sostenere Nncp e questo aveva spinto il regime militare di Obasanjo a introdurre il sussidio nel 1977… vedremo come andrà a finire il taglio del paracadute.  


Tempo di far pagare agli africani il rilancio petrolifero

Angola e Nigeria, grandi produttori di petrolio dell’Africa subsahariana, hanno deciso di togliere i sussidi ai carburanti con gravi ripercussioni sull’inflazione e sullo stato generale dell’economia. In Nigeria la decisione ha provocato il caos. Dunque il mandato del nuovo presidente nigeriano, Bola Tinubu, non è iniziato sotto i migliori auspici. Nel discorso di insediamento di lunedì scorso il neopresidente ha annunciato la fine dei sussidi sul carburante e subito è scoppiato il caos. La gente si è accalcata ai distributori di benzina per fare scorte con scene di panico e la conseguenza è stata una sorta di speculazione in piccolo: molti distributori hanno aumentato i prezzi, vista la domanda impazzita, anche del 200% alla pompa. Tinubu, vista la situazione, ha dovuto in qualche modo tornare sui suoi passi: pur non smentendo la fine dei sussidi si è affrettato a dire.

«il panico che si è scatenato in seguito alla comunicazione è inutile, non avrà effetto immediato»,

perché i sussidi non termineranno prima della fine di giugno.

Ma ormai è il caos, anche perché la compagnia petrolifera statale nigeriana, subito dopo, ha reso noto un prossimo aumento del prezzo della benzina. La Nigerian national Petroleum corporation (Nnpc), attraverso una nota ufficiale, spiega che la mossa è in linea con la realtà di mercato:

«I prezzi continueranno a fluttuare per riflettere le dinamiche del mercato».

Il prezzo attuale della benzina è di circa 40 centesimi di euro al litro, e la Nnpc non ha specificato quale sarà il nuovo prezzo né a decorrere da quando, ma secondo i media nigeriani la nuova fascia di prezzo è compresa tra 0,97 euro e 1,19 euro al litro. Un aumento enorme che avrà ripercussioni importanti sull’economia e sull’inflazione – già elevata – nigeriana.
Come era prevedibile, negli ultimi giorni il carburante ha cominciato a scarseggiare e i prezzi sono schizzati con un impatto sul settore della logistica e dei trasporti, costretto a trasferire i costi più elevati sui prezzi di consegna, con un aumento tra il 20% e il 50%. Allo stesso modo i servizi di mobilità come Bolt e Uber sono stati costretti ad adeguare le loro tariffe. I prossimi mesi saranno cruciali per valutare la portata dell’impatto economico a lungo termine.

I paradossi petroliferi

Ma non poteva mancare la ciliegina sulla torta: il parlamento nigeriano ha richiesto un audit forense dopo che in un suo rapporto è stato rilevato che negli ultimi dieci anni sono stati spesi 25 miliardi di dollari per cercare di riparare e ammodernare le fatiscenti raffinerie di petrolio del paese. Nonostante gli enormi costi, il rapporto ha rilevato che queste lavorano a una capacità del 30% inferiore rispetto alle loro potenzialità. La buona notizia, ma solo in parte, è che nel mese di luglio dovrebbe entrare in funzione una raffineria costruita dal noto uomo d’affari nigeriano, Aliko Dangote, l’uomo più ricco della Nigeria.

Ma rimane il paradosso. La Nigeria, uno dei più grandi produttori di petrolio dell’Africa subsahariana, importa l’80% del suo fabbisogno di carburante.

Angola

L’altro grande produttore di petrolio, l’Angola non è da meno. Secondo un rapporto pubblicato l’11 maggio dall’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, l’Angola è il primo produttore di greggio dell’Africa, con 1,06 milioni di barili al giorno ad aprile e, tuttavia, è un grande importatore di carburante. In Angola, come in Nigeria, solo la raffineria di Luanda è attualmente operativa, mentre quelle di Lobito, Cabinda e Soyo sono ancora in costruzione.
Ecco dunque che anche il governo angolano ha deciso la graduale rimozione dei sussidi al carburante. Il prezzo della benzina passerà dagli attuali 0,27 dollari a 0,51 dollari al litro, con un aumento dell’87,5%, a partire dal 2 giugno. Mentre i prezzi degli altri derivati dal petrolio, come diesel, l’olio illuminante, rimarranno invariati. Il ministro angolano per il Coordinamento Economico, Manuel Nunes Junior, ha spiegato che la rimozione dei sussidi per il carburante è

«una misura necessaria per promuovere una solida crescita economica in grado di affrontare i gravi problemi del paese».

Secondo il ministro, le spese per i sussidi al carburante ammontavano, nel 2022, a 3,8 miliardi di dollari.
In un documento del ministero delle Finanze si legge che con la completa rimozione dei sussidi – dovrebbe concludersi entro il 2025 – per il gasolio e la benzina, l’Angola manterrà comunque un prezzo del petrolio competitivo all’interno della regione. Il rapporto specifica, inoltre, che i sussidi hanno un impatto negativo sulle finanze pubbliche, generando costi fiscali crescenti e insostenibili nel medio e lungo termine, ostacolando la capacità finanziaria del paese di investire nei servizi di base e nei progetti di sviluppo sociale. Nell’immediato ha l’effetto di far crescere i prezzi dei generi di prima necessità, diminuire il potere di acquisto e impoverire ulteriormente la popolazione. Ma all’Angola, evidentemente, sta molto a cuore l’industria petrolifera che, a detta del ministero delle Finanze, è minacciata proprio dai sussidi che incoraggerebbero il contrabbando di petrolio verso i paesi vicini, con prezzi di oltre il 70% superiori rispetto a quelli dell’Angola.

paradossi petroliferi

Il 2022 si è chiuso con i prezzi di mercato della benzina e del gasolio superiori ai prezzi sovvenzionati in Angola rispettivamente del 202% e del 279%. I sussidi per i carburanti nel 2022 rappresentavano circa il 92% delle spese per la sanità e l’istruzione del paese nello stesso anno. In quel rapporto si legge che potrebbero raggiungere circa il 3,5% del prodotto interno lordo del 2022 e circa il 20% del bilancio generale previsto per il 2023 in Angola.

A causa del «significativo impatto della rimozione dei sussidi per il carburante sull’inflazione e sulla solvibilità delle famiglie» il rapporto propone misure di mitigazione per riassegnare tali sussidi all’energia, ai trasporti pubblici e ai programmi sociali. Staremo a vedere.
Stando ai dati aggiornati alla fine di maggio del sito web Global Petrol Prices, dopo l’aumento del prezzo della benzina in Angola, il paese passerà dal quarto più economico al mondo al decimo in termini di prezzo della benzina.

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Africa Day: le sfide anticoloniali sono sempre attuali https://ogzero.org/africa-day-le-sfide-anticoloniali-sono-sempre-attuali/ Thu, 25 May 2023 21:40:42 +0000 https://ogzero.org/?p=11124 Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale. Eppure l’Africa è […]

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Se il buongiorno dell’Africa Day si vede dal mattino, lo schianto del Freetown Cotton Tree, albero simbolo della libertà dallo schiavismo, proprio quando sta per sorgere l’alba del sessantesimo anno dell’Unione Africana non è di buon auspicio… e si va ad aggiungere ai molti conflitti sparsi un po’ in ogni area continentale.
Eppure l’Africa è al centro di ogni affare (Descalzi incontra Nguesso per inaugurare il “Congo Lng”), interesse (Kuleba incontra i leader dell’UA in vista di mediazione sulla guerra), ricchezza (Tshisekedi – nato nel 1963, come l’UA – si accorda sul cobalto con Xi)… queste solo alcune delle notizie odierne. In Ghana Gold Fields e AngloGold Ashanti si uniscono per creare la più grande miniera d’oro africana e contemporaneamente un tornado sradica l’albero della libertà… ci sarà una qualche correlazione?


Dopo il colonialismo… 60 anni di neocolonialismo

Le celebrazioni, in Africa, hanno sempre un valore simbolico. Ricche di retorica ma anche di auspici. Appartengono alla vita delle comunità e degli stati. Anche in questo giorno, in cui si celebra l’Africa Day, il continente si è mobilitato.
Oggi si ricordava la fondazione dell’Organizzazione dell’Unità africana (Oua), che avvenne il 25 maggio del 1963, sessant’anni fa. In alcuni paesi prende il sopravvento la retorica condita di anticolonialismo. In altri, invece, si guarda al futuro e alle sfide, che retoriche non sono, che attendono un continente provato dalla pandemia di Covid, dall’inflazione dei prezzi dei generi energetici e, soprattutto, alimentari dovuto alla situazione economica globale aggravata dalla guerra in Ucraina.

Le sfide del continente

Ma sono anche altre le sfide. Il terrorismo, per esempio, e tutt’altro che sconfitto anzi, dilaga in molti paesi come il Mali, Il Burkina Faso, che sembrano essere incapaci di farvi fronte nonostante i paesi siano stati squassati da colpi di stato. Dall’arrivo dei militari al potere la situazione, se possibile, si è ancora aggravata e nulla ha potuto la retorica anticoloniale, in particolare il sentimento antifrancese che pervade le popolazioni di questi due paesi, ma anche la simpatia, che è diventata rapporto strutturale con la Russia, che fornisce armi e mercenari della Compagnia Wagner. Tutto il Sahel è pervaso da una ondata jihadista senza precedenti, con le cancellerie internazionali preoccupate per la possibile saldatura con le organizzazioni criminali internazionali.  Cancellerie che, tuttavia, non sono state in grado di risolvere il problema perché hanno privilegiato l’intervento securitario – necessario – alla cooperazione allo sviluppo. Il terrorismo nel Sahel, così come in Somalia, si alimenta della povertà dilagante, dell’incapacità degli stati di far fronte ai bisogni della popolazione. Verrebbe da dire che l’arma più efficace per combattere i terroristi sarebbe mettere in campo riforme economiche e un welfare state degno di questo nome, così da togliere da sotto i piedi dei terroristi il loro terreno privilegiato, cioè la povertà. Lavoro non da poco.
Ma sono molte altre le sfide che attendono il continente, soprattutto economiche. L’intera Africa deve avere come faro la diversificazione economica, non può affidarsi, solo, alle materie prime, pur preziose per avere le risorse per creare un tessuto industriale manifatturiero. Significativo da questo punto di vista lo sbilanciamento delle relazioni con la Cina, il primo partner commerciale del continente. Nei primi quattro mesi del 2023 le esportazioni cinesi verso i paesi africani sono cresciute del 26,9%, mentre quelle dell’Africa verso la Cina sono diminuite dell’11,8%. Uno squilibrio evidente, aggravato dal fatto che Pechino esporta in Africa prodotti finiti – tessile, abbigliamento, macchinari, elettronica – mentre le esportazioni africane verso la Cina sono dominate da materie prime come petrolio greggio, rame, cobalto e minerale di ferro, di cui il Dragone ha estremamente bisogno. Proprio per queste ragioni il continente deve lavorare con più determinazione per la costruzione di un tessuto produttivo manifatturiero.
Questa, inoltre, è la grande sfida che attende l’Area di libero scambio continentale africana (Afcta) – entrata in vigore nel gennaio del 2021 – un mercato di 1,2 miliardi di persone e di un Pil combinato di circa 3,4 trilioni di dollari. Un’area commerciale che stenta a decollare per la mancanza di infrastrutture sicure, capaci di collegare gli stati ma soprattutto per la risibilità della manifattura africana. Tra i paesi del continente non possono circolare, solo, le materie prime, queste se le accaparrano le multinazionali e portano beneficio a pochi. L’Africa vive un paradosso: è ricca di risorse, ma, per fare un esempio, i due colossi nella produzione di petrolio in Africa subsahariana – Angola e Nigeria – importano circa l’80% del loro fabbisogno in carburante. Da non trascurare che le materie prime sono soggette alle oscillazioni dei mercati internazionali.
Altra sfida è quella dell’energia elettrica. Ancora nel 2023 milioni di africani rimangono al buio, e anche questo è un paradosso viste le potenzialità del continente: solare, idroelettrico, geotermico, eolico, energie pulite come l’idrogeno verde. Mettere a sistema tutto ciò darebbe un impulso al mercato unico e quindi a uno sviluppo sostenibile ma, soprattutto durabile.  Questione che solo un’organizzazione sovranazionale, come l’Unione Africana, può affrontare.

Oligarchie dinastiche senza fine…

Poi ci sono questioni puramente politiche. Lasciamo da parte i presidenti africani che durano in eterno senza produrre benefici per le popolazioni ma solo animati da bulimia di potere e, spesso, sostenuti dallo stesso occidente così attento allo stato di diritto. Il punto, per rimanere alle celebrazioni di oggi, sarebbe l’attribuzione di un ruolo da pari nei consessi internazionali all’Unione africana.

vs un seggio permanente all’Onu

Un’ipotesi che si sta materializzando e potrebbe diventare concreta: un seggio, per così dire, permanente, non solo da osservatore, come spesso è capitato nei vari G20 o G7 che siano, dove di volta in volta, veniva invitato qualche presidente africano o gli stessi esponenti dell’Unione africana. Così come soddisfare la richiesta dell’Unione africana di occupare un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Formalizzare e concretizzare una presenza “permanente” avrebbe il significato di trasformare il continente africano in potenza che decide, non più, dunque, con un ruolo subalterno che ogni volta negozia con questo o quello stato occidentale, ma protagonista del proprio futuro di fronte alle potenze internazionali. Tutto ciò sarebbe un cambio di paradigma perché porterebbe l’Africa a discutere, da pari, del proprio sviluppo sia economico sia politico e sociale, con l’occidente sviluppato.

Non è una cosa qualunque, sarebbe epocale.


Come epocale è l’espianto del Freetown Cotton Tree in questa data simbolica

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Pax africana in Ucraina https://ogzero.org/pax-africana-in-ucraina/ Tue, 23 May 2023 22:27:47 +0000 https://ogzero.org/?p=11105 La reazione all’esplosione del conflitto ai confini europei da parte degli stati africani è stata differenziata, ma spesso attenta a mantenere una neutralità interessata e spesso legata al forte intreccio di interessi e presenze russe sul territorio. Questo pone alcuni paesi nella condizione di proporsi come potenziali mediatori credibili. Al punto che la diplomazia americana […]

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La reazione all’esplosione del conflitto ai confini europei da parte degli stati africani è stata differenziata, ma spesso attenta a mantenere una neutralità interessata e spesso legata al forte intreccio di interessi e presenze russe sul territorio. Questo pone alcuni paesi nella condizione di proporsi come potenziali mediatori credibili. Al punto che la diplomazia americana ha subito cercato di delegittimare il governo più rappresentativo dei sei: non appena si è avuto sentore dell’iniziativa dei Sei Paesi in procinto di recarsi dai due contendenti la Casa Bianca ha scatenato i suoi giornali, accusando Pretoria di vendere armi ai russi e di non essere neutrale. Nonostante queste polpette avvelenate procede il piano elaborato a gennaio in gran segreto, proprio perché è ovvio che gli interessi di chi non vuole si raggiunga una tregua in vista di trattati di pace rimuoveranno chiunque si frapponga all’escalation.
Dall’altro lato è sintomatico che il ministro degli esteri ucraino Kuleba  incontri i leader dell’Unione africana in Etiopia: evidentemente la mediazione dell’Africa è presa sul serio da entrambe le parti in conflitto… e come spiega Angelo Ferrari nel suo articolo, l’Unione africana sarebbe l’interlocutore istituzionalmente più adatto, ma le pastoie burocratiche e diplomatiche che la contraddistinguono richiedono strutture più snelle ed efficaci. Ma il suo coinvolgimento dalla mossa di Kuleba avvia anche al livello più alto istituzionalmente il ruolo che potrebbe diventare – se non viene boicottato dagli americani e dai loro alleati – centrale nella composizione del conflitto.
L’estensore ci racconta i retroscena e i risvolti di questa “missione africana”, che non foss’altro per le forniture di cibo ha senz’altro bisogno  che ritorni una condizione di non belligeranza in Ucraina.


Il piano africano ha delle possibilità?

Il presidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, ha annunciato che Kyiv e Mosca hanno concordato di ospitare una delegazione guidata dai presidenti di Zambia, Senegal, Congo-Brazzaville, Uganda, Egitto e Sudafrica per discutere un piano di pace, preparato in gran segreto dai sei capi di stato. Un piano elaborato già a gennaio e che, ora, dovrebbe concretizzarsi con un incontro con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, e quello russo, Vladimir Putin. Quale sarà il primo incontro non è stato ancora stabilito, e non sarà facile. Sulla missione, tuttavia, rimangono ancora dei dubbi sulla sua fattibilità e, in particolare, sui tempi. Di certo c’è che domenica 21 maggio è iniziata una visita interlocutoria del presidente della Fondazione Brazzaville, che sovrintende il progetto, Jean-Yves Olliver, accompagnato da due emissari, uno del Senegal e uno del Sudafrica, che li a portati in Russia e Ucraina, per “chiarire le posizioni” e soprattutto per parlare di logistica.
Muovere sei capi di Stato non è cosa da poco.

Attivismo americano di contrasto

Vi sono anche frizioni internazionali che rischiano di compromettere la missione. Su tutte i rapporti tesi tra il Sudafrica e gli Stati Uniti, dopo le dichiarazioni americane volte ad accusare Pretoria di aver fornito armi alla Russia, ma anche per il fatto che il comandante delle forze di terra del Sudafrica ha visitato ufficialmente Mosca.


Dopo queste accuse, mosse dall’ambasciatore americano a Pretoria, il governo sudafricano ha promesso di svolgere un’indagine su queste presunte consegne. L’esercito sudafricano non ha risposto immediatamente. Il presidente sudafricano Ramaphosa, dal canto suo, ha assicurato che il suo paese non sarebbe stato coinvolto in «una competizione tra potenze mondiali» sull’Ucraina e che è stato soggetto a «straordinarie pressioni» per scegliere da che parte stare.

«Non accettiamo che la nostra posizione di non allineamento favorisca la Russia rispetto ad altri paesi. Non accettiamo nemmeno che metta a repentaglio le nostre relazioni con altri paesi» – in particolare la Russia – si legge in una nota al bollettino presidenziale settimanale.

Abboccamenti con i russi e gli ucraini

Ramaphosa ha parlato al telefono la scorsa settimana con il presidente russo Putin, e i due leader hanno mostrato il desiderio di far crescere ulteriormente la loro cooperazione. È noto, inoltre, che gli Stati Uniti stiano facendo pressioni su numerosi paesi africani affinché scelgano da che parte stare, cioè abbandonino Mosca, e quindi sono siano più soggetti “neutrali” rispetto alla guerra ucraina.
Tornando al progetto di pace africano, in discussione ormai da settimane, questo ha avuto un impulso nell’ultimo fine settimana. Secondo Ramaphosa i due “campi”, Mosca e Kyiv, hanno accettato di ricevere la visita di questa missione di pace. Il presidente sudafricano, inoltre, si augura che questo viaggio possa avvenire “il prima possibile”, anche se le modalità sono ancora tutte da discutere, in particolare quale presidente, Zelensky o Putin, riceverà per primo la missione.

Criteri di scelta della delegazione

Secondo la Fondazione Brazzaville, questi sei paesi sono stati scelti per rappresentare le diverse visioni del continente africano sul conflitto, con paesi come il Sudafrica e l’Uganda che difendono i loro legami con la Russia, e altri come lo Zambia e l’Egitto, che hanno votato per il ritiro delle truppe russe dall’Ucraina nell’ultima risoluzione delle Nazioni Unite.
La Fondazione Brazzaville, creata nel 2015 è presieduta dal francese Jean-Yves Ollivier, uomo d’affari che ha fatto fortuna commerciando materie prime in tutto il mondo, in particolare in Africa, dove ha stretto forti legami con numerosi presidenti africani: dall’ex presidente ivoriano, Félix Houphouët-Boigny, al presidente del Congo-Brazzaville, Denis Sassou-Nguesso, passando per l’antico uomo forte angolano, José dos Santos.

Jean-Yves Ollivier è un habitué dei palazzi presidenziali. «Mi sono dedicato agli affari e la politica mi ha raggiunto».

Dietro questa missione c’è anche un po’ di Francia.

La disposizione sudafricana al dialogo

Da parte sudafricana, non sorprende che in questo progetto, tanto ambizioso quanto difficile da concretizzare, sia stato coinvolto Cyril Ramaphosa. Il presidente sudafricano è sempre stato, fin dall’inizio del conflitto, colui che ha sempre invitato al dialogo per trovare una soluzione negoziata al conflitto e, quindi, cominciare a parlare di pace, piuttosto che schierarsi da una parte o dall’altra. Un atteggiamento di neutralità che, tuttavia, ha anche nascosto contraddizioni. La recente visita del comandante di terra dell’esercito sudafricano a Mosca, Lawerence Mbatha, è lì a dimostrarlo. Secondo Pretoria, tuttavia, il segretario generale delle Nazioni Unite e dell’Unione africana avrebbero accolto con favore questa iniziativa.

Il calendario “africano”?

Molte questioni organizzative, tuttavia, rimangono in sospeso. L’Africa non ha voluto rimanere inattiva su un tema che la riguarda direttamente, non fosse per le conseguenze economiche di questo conflitto su tutto il continente. È con questa volontà che questa missione di pace si è concretizzata a gennaio nella massima segretezza con discussioni solo tra capi di stato. Ora, la parte più complessa è il calendario dell’iniziativa di pace, tutto da discutere. Putin avrebbe proposto che si svolgesse a margine del vertice Russia-Africa di fine luglio, i sei presidenti vogliono che si tenga prima, in particolare entro la fine di giugno. La Fondazione Brazzaville, che è all’origine di questo progetto, sostiene che la composizione della delegazione ha senso con sei Stati che hanno posizioni politiche diverse sul tema della guerra in Ucraina: appoggio a uno dei due campi o neutralità. Non è un nodo da poco da sciogliere. Da questo punto di vista, nonostante l’Unione Africana abbia fatto sapere di sostenere questa missione, l’istituzione e il suo attuale presidente, il capo di stato delle Comore, Azali Assoumani, hanno preferito fare un passo indietro per non rallentare il processo diplomatico. Coinvolgere l’istituzione Unione africana avrebbe portato con sé un lavoro diplomatico di non poco conto per convincere gli stati membri della necessità di una missione di pace, un’opera di convincimento complessa che, tuttavia, poteva sfociare in un nulla di fatto.

La fase di preparazione di questa missione diplomatica a Sei è ormai cominciata, anche se gli ostacoli affinché l’iniziativa africana abbia successo sono numerosi.

 

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La guerra fratricida in Sudan e le sue cause economiche https://ogzero.org/la-guerra-fratricida-in-sudan-e-le-sue-cause-economiche/ Fri, 28 Apr 2023 21:20:20 +0000 https://ogzero.org/?p=10842 La guerra fratricida che sta insanguinando il Sudan non si ferma. Ma le cause di questo conflitto vanno cercate non solo nei meccanismi politici e di potere ma anche negli aspetti di carattere economico della geopolitica e nello sfruttamento delle risorse da parte delle potenze internazionali per le quali il Sudan può diventare un vero […]

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La guerra fratricida che sta insanguinando il Sudan non si ferma. Ma le cause di questo conflitto vanno cercate non solo nei meccanismi politici e di potere ma anche negli aspetti di carattere economico della geopolitica e nello sfruttamento delle risorse da parte delle potenze internazionali per le quali il Sudan può diventare un vero e proprio “affare” regionale.


Esercito significa potere

La guerra fratricida che sta insanguinando il Sudan non sembra destinata a placarsi. I due contendenti, il generale Abdel Fattah al-Burhan a capo dell’esercito, e Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, a capo delle Forze di supporto rapido, sembrano essere intenzionati a portare alle estreme conseguenze il conflitto allontanando, in maniera irreversibile, il ritorno dei civili al potere. Processo politico che si era arenato alla vigilia dell’inizio del conflitto proprio per disaccordi tra i due signori della guerra. Il nodo non risolto e che ha portato allo scontro era proprio l’integrazione delle Forze di supporto rapido nell’esercito regolare, ma con dei “però”. Burhan, capo anche del Consiglio sovrano, voleva dettarne i tempi e il numero di paramilitari da integrare, Hemedti non era d’accordo, ma soprattutto, pretendeva un ruolo di primo piano nello stato maggiore del nuovo esercito che, però, non gli è stato garantito. Essere alla pari di Burhan, in termini di potere, nel nuovo assetto del Sudan, per Hemedti significava e significa mantenere il controllo di molte attività economiche, in particolare le miniere d’oro di cui il paese abbonda. Dunque, più che l’integrazione dei suoi paramilitari nell’esercito, l’oggetto del contendere è economico.

Lo stato parallelo

Da sempre, in Sudan, l’economia è controllata dai militari ed è ciò che ha frenato la transizione democratica e ha portato alla alleanza tra Burhan e Hemedti nel colpo di stato del 2021 che ha scalzato i civili dal governo di transizione. Già all’epoca del regime di Omar al-Bashir, deposto dopo la rivoluzione nel 2019, l’organizzazione economica faceva capo a uno stato parallelo, fatto di funzionari dell’apparato di sicurezza e delle istituzioni governative, che aveva lo scopo di consolidare il controllo sulle risorse economiche. Il colpo di stato del 2021 non ha fatto altro che impedire alle forze civili protagoniste della rivoluzione contro la dittatura, di smantellare la rete di controllo militare e, quindi, ritornare allo status quo.

Tutto ciò era già contenuto in un rapporto, Breaking the Bank, pubblicato nel 2022, dal Centro per gli Studi avanzati di Difesa, un’organizzazione statunitense senza scopo di lucro specializzata nell’analisi sui conflitti globali e problemi di sicurezza transazionale. Nel rapporto i ricercatori hanno mappato – come scriveva Nigrizia.it nel luglio dell’anno scorso – il sistema economico sudanese, dimostrando la capillarità del controllo militare, anche se definire il reticolo di cui è composta la rete delle attività economiche controllate dall’esercito è difficile perché opaco e impenetrabile.

Armamenti su licenza e import-export di risorse

Di sicuro il documento dei ricercatori americani prova che il governo, dunque i militari, sono titolari di numerose imprese, prima tra tutte è la Military Industry Corporation’s (Mic) che produce armamenti anche su licenza, in particolare russa, iraniana e di recente anche cinese. Questa azienda fa del Sudan uno dei più importanti produttori di armamenti africani, il terzo dopo Egitto e Sudafrica.

Ma ci sono anche aziende di assemblaggio di autovetture. Nelle mani dell’esercito c’è l’import-export del paese e una risorsa strategia, la gomma arabica, di cui il Sudan detiene il 50% della produzione mondiale.

L’oro e le banche

Poi c’è l’oro. Nelle mani del capo delle Forze di supporto rapido ci sono la maggior parte delle miniere. Il Sudan è il terzo produttore africano d’oro dopo il Ghana e il Sudafrica. A tutto ciò, e sempre nelle mani di Hemedti, si aggiungono diverse imprese finanziarie e banche. Mentre la Banca di Omdurman, la più importante del paese è di proprietà dell’esercito per l’86%.

Tutto ciò va a beneficio dei militari e non del paese, il Sudan rimane uno dei paesi più poveri al mondo dove oltre 18 milioni di persone soffrono di fame acuta. Ma tutto ciò spiega anche la ritrosia delle forze di sicurezza a passare le redini del potere ai civili, perché perderebbero enormi privilegi, e forse spiega questa guerra fratricida e insensata per i sudanesi, non certo per i militari.

Armi, basi militari e infrastrutture

Infine c’è la questione delle armi. Non è un mistero che dopo la visita del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, nel febbraio scorso, Mosca e Khartoum hanno finalizzato un accordo per la creazione di un centro logistico per la Marina russa in Sudan, a Port Sudan, sul Mar rosso. Lavrov ha incontrato Burhan e Hemedti promettendo loro di sostenere gli sforzi del Sudan per la revoca dell’embargo sulle armi da parte delle Nazioni Unite, che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, l’8 marzo 2023, ha deciso di estendere per un altro anno. Tredici dei quindici membri del Consiglio hanno votato a favore della risoluzione, mentre Russia e Cina si sono astenute. Non è mistero che la Russia sia uno dei maggiori fornitori di armi anche grazie all’impresa militare sudanese che le produce su licenza. La base navale russa sul Mar Rosso rappresenta, nel contesto geopolitico internazionale di oggi, una minaccia per l’Occidente e un grattacapo per la Cina che, invece, ha una base militare nel vicino Gibuti. Paese, tanto piccolo, quando ricco di insediamenti militari di tutto il mondo: francesi, americani, italiani, ma anche dei paesi del Golfo Persico.

Hemedti, poi, per ironia della sorte, ha visitato la Russia il giorno prima dell’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio 2022 e ha espresso la sua disponibilità o ospitare una base russa. Una garanzia per Mosca, ma gli analisti non escludono che anche una vittoria di Burhan, garantirebbe che l’accordo con il Cremlino diventi realtà.

L’embargo violato

L’embargo sulle armi, come si sta vedendo in questi giorni di drammatici combattimenti, è stato ampiamente violato. L’Egitto avrebbe mandato aerei da combattimento e piloti a sostegno dell’esercito sudanese guidato da Burhan e il generale libico Kalifa Haftar rifornimenti militari alle Forze si supporto rapido di Hemedti (che ottengono appoggio anche dalla compagnia di mercenari russi Wagner). Si ritiene, inoltre, che dietro il capo dell’esercito ci sia l’Egitto. Il generale Burhan proviene dai ranghi dell’esercito e dell’accademia militare egiziana, come il presidente dell’Egitto Abdel Fattah al-Sisi. Ma è anche vicino agli Usa e agli israeliani. Burhan ha giocato un ruolo fondamentale nel progetto di normalizzazione dei rapporti con Israele, poi sfociati con l’adesione del Sudan agli Accordi di Abramo. È accolto con favore nei paesi del Golfo, ma molti analisti ritengono che sia Hemedti a godere delle simpatie e dell’appoggio degli Emirati Arabi Uniti. Ma anche il governo italiano non disdegna di prestarsi all’addestramento dei “Diavoli a cavallo”, i tagliagole di Dagalo.

Tutti smentiscono, ma il rischio che il Sudan diventi un “affare” regionale è sempre più reale, come suggerisce Matteo Palamidesse in queste analisi registrate il 20 aprile 2023.

“Guerra civile in Sudan… con partecipazione esterna”.

 

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Sudan: scontro totale, si allontana la transizione democratica https://ogzero.org/sudan-scontro-totale-si-allontana-la-transizione-democratica/ Sun, 23 Apr 2023 17:35:07 +0000 https://ogzero.org/?p=10788 Lo scontro totale tra i due generali al comando in Sudan, alleati nel colpo di stato del 2021, è ormai guerra aperta. Oltre 100 civili hanno perso la vita. Le cancellerie occidentali, l’Onu e l’Unione africana lanciano continui appelli al cessate il fuoco che, allo stato attuale, sembra lontano dall’essere applicato. Anche la tregua per […]

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Lo scontro totale tra i due generali al comando in Sudan, alleati nel colpo di stato del 2021, è ormai guerra aperta. Oltre 100 civili hanno perso la vita. Le cancellerie occidentali, l’Onu e l’Unione africana lanciano continui appelli al cessate il fuoco che, allo stato attuale, sembra lontano dall’essere applicato. Anche la tregua per consentire l’evacuazione dei feriti, annunciata giorni fa, è durata pochissimo. Pubblichiamo qui un resoconto di Angelo Ferrari pubblicato in parte in Africa Rivista.


Come si è arrivati a questo punto?

Il divario tra il comandante dell’esercito, Abdel Fattah Barhan – a capo del Consiglio sovrano – e il suo numero due, Mohamed Hamdane Daglo, detto Hemedti – capo delle Forze di supporto rapido (Rsf) – si sta allargando sempre di più e una ricomposizione sembra essere difficile. Quello che appare abbastanza chiaro e che difficilmente potranno ripartire le trattative prima che uno dei due possa prevalere sull’altro o che entrambi subiscano perdite pesanti, tanto da indurli a trattare. Molti analisti convergono nel sostenere che anche in caso di vittoria di una delle due parti, in particolare nella capitale Khartoum, la guerra potrebbe continuare in altre parti del paese.

Il Sudan, a pochi giorni dall’inizio della contesa tra i due generali, sembra già essere piombato nello scenario peggiore e le prospettive non sono migliori. I due contendenti si accusano a vicenda dello scoppio delle ostilità e continuano ad annunciare nuove vittorie senza che nessuna fonte possa confermalo o smentirlo.

Come mai si è arrivati a questo punto? Nell’ottobre 2021 i due generali hanno unito le loro forze per cacciare i civili con cui avevano condiviso il potere dalla caduta del dittatore Omar al-Bashir nel 2019. Una alleanza di convenienza, legata più agli interessi economici che a una prospettiva politica di governo del paese. L’esercito di Burhan, ma anche le milizie paramilitari di Hemdti, hanno enormi interessi economici. L’esercito controlla molta parte dell’attività economiche del paese, le Forze di supporto rapido hanno nelle mani diverse miniere d’oro, una la condividerebbero anche con i mercenari russi della Compagnia Wagner. Hemedti, infatti, a stretti legami con Mosca, mentre il maggior partner commerciale del Sudan rimane la Cina. I due non hanno mai avuto una sincera collaborazione, ma solo l’interesse contingente di estromettere i civili dal potere, e se ne capiscono anche le ragioni visti gli interessi economici.

Dissapori e dissenso

I dissapori, infatti, sono presto venuti a galla. Hemedti ha più volte denunciato il “fallimento” di un golpe che secondo lui, avrebbe restaurato il vecchio regime di al-Bashir. Il dissenso vero, tuttavia, è nato quando si è trattato di firmare l’accordo per l’avvio del processo politico che avrebbe riportato nelle mani dei civili il potere in Sudan. Il nodo è stato il capitolo sull’integrazione delle milizie paramilitari nei ranghi dell’esercito. In gioco c’era il futuro dei paramilitari. L’esercito non ha rifiutato questo compromesso, ma ha voluto comunque imporre le sue condizioni di ammissione e limitarne l’integrazione. Hemedti, invece, rivendicava un’ampia inclusione e, soprattutto un ruolo centrale nello stato maggiore. Non solo, Hemedti ha denunciato il fatto che le raccomandazioni finali avrebbero ignorato le loro proposte relative alla tempistica dell’integrazione nell’arco di due anni. Hemedti si è sentito più autonomo e, proprio in virtù delle trattative, alla pari con Burhan e in grado così di realizzare le sue enormi ambizioni politiche. La trattativa si è interrotta e le conseguenze si vedono nello scontro fratricida che sta mettendo in ginocchio, ulteriormente, il Sudan, uno dei paesi più poveri al mondo.

Sudan:scontro totale

Hemedti e le Fsr

Le Forze di supporto rapido, create nel 2013 e guidate da Hemedti, riuniscono migliaia – si parla di 100.000 – ex janjawid, miliziani arabi reclutati da Omar al-Bashir per portare avanti la politica di terra bruciata nei confronti delle popolazioni di origine africana del Darfur. Questo conflitto, scoppiato nel 2003 tra Khartoum e membri delle minoranze etniche non arabe, ha causato 300.000 morti e 2,5 milioni di sfollati, secondo le stime delle Nazioni Unite, e fatto “guadagnare” all’ex dittatore sudanese due mandati di arresto della Corte penale internazionale per “crimini di guerra”, “crimini contro l’umanità” e “genocidio”. E al fianco di al-Bashir c’era proprio Hemedti. Nel 2004, Hemedti ha comandato direttamente uno dei massacri più feroci del conflitto del Darfur, quando ha ordinato l’assassinio a sangue freddo di circa 130 abitanti del villaggio di Adwa, che i janjawid hanno bruciato prima di stuprare centinaia di donne e seppellire gli uomini in fosse comuni.

Nel corso della sua vita, Hemedti si è dimostrato un soldato senza scrupoli, ma anche senza lealtà. Nel 2019 ha partecipato al rovesciamento del suo “padrino”, Omar al-Bashir, durante la cosiddetta rivoluzione sudanese, una mobilitazione popolare che finirà per reprimere brutalmente. Hemedti viene accusato del massacrato di più cento manifestanti in un solo giorno durante un sit-in nel giugno di quell’anno.

La rivoluzione tradita

La rivoluzione ha avviato un processo di transizione in Sudan e ha istituito un governo civile al quale Hemedti ha giurato fedeltà. Tuttavia, due anni dopo, nel 2021, i paramilitari al suo comando hanno ordito un colpo di stato insieme al capo dell’esercito, Abdelfatah al Burhan, diventando così vicepresidente del Consiglio sovrano, l’organo esecutivo del paese.

Sotto la pressione internazionale il Sudan ha avviato un processo politico per il ripristino delle istituzioni democratiche con la firma di un accordo quadro il 5 dicembre 2022 teso, anche, a rimuovere i militari dal potere. Il nodo non sciolto, che ha portato agli scontri di queste ore, è proprio l’integrazione delle Forze di supporto rapido nell’esercito. Hemedti non ci sta perché si ridurrebbe di molto il suo potere e lo spazio di manovra per i suoi affari. E a farne le spese è ancora la popolazione sudanese.

Le Forze di supporto rapido si sono unite nel 2015 alla coalizione saudita in Yemen – come mercenari – e alcuni di loro stanno combattendo anche in Libia. Una delle attività economiche di Hemedti è proprio quella di inviare mercenari in vari scenari di guerra. Nel 2019, poi, le Rsf sono state accusate di aver ucciso 100 manifestanti pro-democrazia a Khartoum durante un sit-in pacifico.

Resta dunque difficile che ci possa essere un riavvicinamento tra i due uomini forti del Sudan e quindi la riapertura del tavolo per l’accordo politico che porti il paese verso un governo formato da civili e che “allontani” i militari dal potere. Ad oggi, questa ipotesi sembra essere irrealizzabile.

E in tutto ciò ad andarci di mezzo è la popolazione civile. Più di un terzo dei 45 milioni di abitanti sudanesi già necessitavano di aiuti umanitari prima dello scoppio di questa insensata guerra fratricida. Il Programma alimentare mondiale, infatti, ha sospeso gli aiuti dopo la morte di tre membri del suo personale in Darfur, nell’Ovest del paese. Mentre accade tutto ciò le cancellerie internazionali vanno ripetendo i loro appelli al cessate il fuco che, però, sembrano cadere nel vuoto. Gli aiuti internazionali, poi, sono stati interrotti dopo il colpo di stato del 2021, e la condizione per la loro ripresa era proprio l’avvio della transizione democratica che è stata seppellita sotto le bombe.

Sudan:scontro totale

Gli unici attori internazionali in grado di far ragionare i due generali potrebbero essere la Cina, per i suoi legami commerciali con il paese, e la Russia per la sua amicizia con i paramilitari.

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Kamala Harris in Africa: investimenti e basi contro il pericolo Cina https://ogzero.org/kamala-harris-in-africa-investimenti-contro-il-pericolo-cina/ Fri, 31 Mar 2023 11:19:41 +0000 https://ogzero.org/?p=10651 Gli Stati Uniti si sono impegnati a fornire aiuti per 100 milioni di dollari agli stati dell’Africa occidentale che si affacciano sul Golfo di Guinea per combattere l’estremismo e l’instabilità. E stanno pensando all’apertura di una base Africa Command proprio sulla costa occidentale del continente. Anche gli Usa – come già stanno facendo altri paesi […]

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Gli Stati Uniti si sono impegnati a fornire aiuti per 100 milioni di dollari agli stati dell’Africa occidentale che si affacciano sul Golfo di Guinea per combattere l’estremismo e l’instabilità. E stanno pensando all’apertura di una base Africa Command proprio sulla costa occidentale del continente. Anche gli Usa – come già stanno facendo altri paesi occidentali – girano lo sguardo verso questi paesi minacciati dal dilagare del terrorismo negli Stati del Sahel, in particolare Mali e Burkina Faso, che sta sempre di più spostando la sua attenzione verso il Golfo di Guinea.

Investimenti, accordi pubblico-privato e sicurezza

L’annuncio è stato fatto dalla vicepresidente degli Stati Uniti, Kamala Harris, in visita in questi giorni in tre paesi africani: Ghana, Tanzania e Zambia. «Accogliamo con favore l’importante posizione del Ghana nella regione del Sahel e vi ringrazio per la vostra leadership in questa», ha detto Kamala Harris in un discorso nella capitale ghanese, Accra. «Oggi sono lieta di annunciare 100 milioni di dollari a Benin, Ghana, Guinea, Costa d’Avorio e Togo per aiutarli ad affrontare la minaccia dell’estremismo e dell’instabilità», ha aggiunto. La vicepresidente degli Stati Uniti ha anche sottolineato il piano strategico del presidente americano Joe Biden per prevenire i conflitti e promuovere la stabilità nella regione africana del Sahel. Il piano degli Usa, sviluppato durante il vertice Usa-Africa del dicembre scorso a Washington, poggia le sue basi su un approccio più legato agli investimenti per piani di sviluppo concertati con i paesi africani, che si possono sintetizzare in un cambio di passo:

non più “cosa possiamo fare per l’Africa, ma cosa possiamo fare con l’Africa”. Un cambio di paradigma che la vicepresidente americana ha più volte sottolineato durante questo suo viaggio – termina sabato 1° aprile – e cioè non più un approccio dove prevale l’aspetto securitario, ma dove a prevalere sono gli investimenti mirati pubblico-privato.

Gli Stati Uniti, dunque, vogliono tornare a esercitare un’influenza che si è un po’ annacquata negli ultimi anni soprattutto sul piano economico e dello sviluppo, visto che nell’ultimo decennio ha prevalso la politica securitaria che ha lasciato ampio spazio di manovra, sul piano commerciale, alla Cina e ora anche alla Russia che sta tornando a essere protagonista nel continente africano. Gli Usa, tuttavia, tengono sotto traccia la “disputa” con Pechino, non “chiedono di scegliere”, ma continuano a ritenere di offrire un modello “migliore”.

Kamala Harris in Africa

I numeri di Usa e Cina in Africa

Gli Usa hanno esportato 26,7 miliardi di dollari di beni e prodotti in Africa nel 2021 e, nello stesso anno, hanno importato 37,6 miliardi di dollari di beni dall’Africa, con il privilegio di importare prodotti senza dazi doganali in decine di paesi del continente. Nel 2011, le esportazioni statunitensi nel continente ammontavano a circa 32,8 miliardi di dollari e le importazioni a circa 93 miliardi di dollari. Se guardiamo alla Cina i numeri sono di tutt’altra entità: il commercio bilaterale totale tra il continente africano e la Cina nel 2021 ha raggiunto i 254,3 miliardi di dollari, in crescita del 35,3% su base annua. L’Africa ha esportato 105,9 miliardi di dollari di merci in Cina, un valore in crescita del 43,7% anno su anno. La Cina, dunque, è rimasta il principale partner commerciale dell’Africa per 12 anni consecutivi. A ciò si aggiungono gli investimenti infrastrutturali.

Come scalzare la Cina?

La visita del vicepresidente degli Stati Uniti è una delle visite di più alto livello nel continente dai tempi dell’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Dall’inizio dell’anno l’attività politico-diplomatica americana in Africa è stata intensa, con i viaggi del segretario di stato americano Antony Blinken, della moglie del presidente Joe Biden, Jill Biden, e della rappresentante permanente presso le Nazioni unite, Linda Thomas-Greenfield che, hanno visitato diversi paesi del continente. La crescente influenza della Cina sul continente africano è la ragione alla base di queste visite: gli Stati Uniti sono preoccupati per la crescente presenza economica della Cina in Africa e vogliono promuovere maggiori investimenti privati nel continente per far progredire le relazioni commerciali.

Gli Stati Uniti d’America, dunque, vogliono intensificare gli investimenti in Africa, recuperando posizioni sulla Cina, che rimane il maggior investitore nel continente africano.

Intensificare i rapporti pubblico-privato per dare più slancio all’economia africana e per rispondere alle esigenze di finanziamenti dei progetti infrastrutturali, stimate tra i 68 e i 108 miliardi di dollari.

La nuova strategia americana pone le sue basi su alcuni pilastri fondamentali: prosperità economica, la promozione della democrazia, i cambiamenti climatici, l’avanzamento tecnologico, l’emancipazione economica e la sicurezza alimentare. L’azione statunitense è, dunque, a tutto tondo: diplomatica, commerciale e securitaria. Il tema degli investimenti è l’aspetto cruciale dell’attivismo Usa dopo il vertice di Washington, tanto che il presidente della Banca africana di sviluppo, Akinwumi Adesina, ha sollecitato gli Stati Uniti a investire di più: «Questo è il momento per gli investitori statunitensi di spostarsi rapidamente e investire in Africa. Le opportunità non aspettano nessuno. Gli investimenti diretti esteri (Fdi) statunitensi verso l’Africa nel 2020 sono stati pari a 47,5 miliardi di dollari, ossia il 5,2% degli investimenti esteri globali degli Stati Uniti. Il Build Back Better World del presidente Biden può portare più investimenti del settore privato statunitense in Africa».

L’Africa Command piazza una nuova base in Liberia

Mentre in Africa la Harris spiega questo cambio di paradigma a Washington, invece, si sta pensando di aprire una base militare di Africa Command, proprio in Africa occidentale e uno dei paesi candidati sembra essere la Liberia. Il comandante dell’Africa Command degli Stati Uniti, il generale Michael Langley, è comparso davanti al Comitato per i servizi armati del Senato degli Stati Uniti e ha rivelato che l’Africa Command sta esplorando aree dell’Africa occidentale dove stabilire un nuovo centro di comando, ma non ha potuto rivelare i possibili paesi durante l’udienza pubblica.

 

E la Cina punta alla Guinea Equatoriale

Secondo i media liberiani questo nuovo centro potrebbe essere stabilito a Monrovia, capitale della Liberia. Gli Stati Uniti infatti sono preoccupati per le incursioni che Cina e Russia stanno facendo in Africa e sono ancora più preoccupati per la possibilità che la Cina stabilisca una base militare in Africa occidentale (in Guinea Equatoriale): «In questo momento, non possiamo lasciare che abbiano una base sulla costa occidentale perché stanno cambiando le dinamiche» ha detto Langley al Senato americano, dicendo che la necessità di un nuovo comando «è urgente».

Dopo l’audizione di Langley, il presidente liberiano, George Weah, ha visitato il quartier generale della Cia in Virginia, una visita che ha suscitato molte speculazioni in Liberia e non solo. Secondo il quotidiano liberiano “Front page Africa” «l’America ha bisogno di stabilità in Liberia» e necessita di una più ampia ed efficace collaborazione con il paese africano nella sua lotta contro la Russia e contro l’influenza cinese.

La Liberia, fondata da schiavi americani liberati, ha legami forti e storici con gli Stati Uniti ed è stata nell’orbita americana sin dalla sua esistenza. I liberiani residenti negli Stati Uniti inviano annualmente oltre 400 milioni di dollari in rimesse estere, il che rappresenta un importante impulso per l’economia liberiana.

L’America, dunque, non rinuncia del tutto all’opzione militare e securitaria e soprattutto rende ancora più evidente che il suo impegno in Africa – tornata a essere centrale nelle strategie geopolitiche mondiali – è anche di contrasto alla presenza cinese che non limita più la sua presenza all’aspetto economico e commerciale. Con una nuova base in Guinea Equatoriale – già ne ha una sulla costa orientale a Gibuti – rafforza anche la sua presenza militare nel continente. E questo dimostra come l’Africa sia ancora terreno di scontro tra potenze e i cambi di paradigma, per ora, rimangono solo sulla carta. Non solo.

I leader africani ne sono consapevoli e, spesso, non si fanno più incantare. Per ora il loro sguardo è rivolto a Est.

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Etiopia: crimini di guerra, un inciampo per una pace compiuta https://ogzero.org/etiopia-crimini-di-guerra-un-inciampo-per-una-pace-compiuta/ Thu, 30 Mar 2023 16:00:33 +0000 https://ogzero.org/?p=10637 Il Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf) non è più una “formazione” terroristica e il governo di Addis Abeba ha nominato un anziano capo ribelle alla guida della regione del Nord dell’Etiopia, il Tigray. Una svolta conseguenza degli accordi di pace che hanno messo fine a una guerra fratricida. Ma rimangono sul tavolo […]

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Il Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf) non è più una “formazione” terroristica e il governo di Addis Abeba ha nominato un anziano capo ribelle alla guida della regione del Nord dell’Etiopia, il Tigray. Una svolta conseguenza degli accordi di pace che hanno messo fine a una guerra fratricida. Ma rimangono sul tavolo questioni molto importanti come la violazione dei diritti umani e le responsabilità per i crimini di guerra.

In una recente visita nella capitale etiope del segretario di stato americano Antony Blinken, il nodo è stato messo sul tavolo con il disappunto sia dell’Etiopia sia dell’Eritrea, che ha combattuto a fianco di Addis Abeba in questa guerra.

Tplf, non più terroristi

Le decisioni del governo di Addis Abeba, comunque, segnano passi importanti verso l’attuazione dell’accordo di pace che il movimento ribelle ha firmato con il governo etiope lo scorso novembre a Pretoria in Sudafrica. «Il primo ministro Abiy Ahmed ha nominato Getachew Reda presidente ad interim dell’amministrazione regionale del Tigray», ha fatto sapere l’ufficio del primo ministro attraverso Twitter. Gatechew Reda, consigliere del leader del Tplf, Debretsion Gebremichael, era in precedenza il portavoce del movimento. Il dato importante, tuttavia, è la cancellazione del Tplf dalla lista delle formazioni terroristiche, decisione che ha aperto la strada all’istituzione di un’amministrazione ad interim nel Tigray a guida Tplf, come previsto dall’accordo di pace. I tigrini, pur essendo un’etnia minoritaria in Etiopia, hanno governato il paese per tre decenni prima di essere gradualmente emarginati proprio dall’arrivo alla guida del paese dal primo ministro Abiy Ahmed nel 2018. Un fatto mal digerito dal Tplf che è stato inserito nella lista delle formazioni terroristiche dalle autorità etiopi il 6 maggio 2021 a seguito del conflitto armato, iniziato nel novembre del 2020 e terminato oggi con un accordo di pace scaturito dai colloqui di Pretoria. La rimozione dalla “lista nera” del Tplf era la precondizione per l’attuazione degli accordi di pace.
La firma dell’accordo, inoltre, ha consentito di ripristinare i servizi di base – elettricità, telecomunicazioni, banche – ed è stato riaperto l’accesso alla regione, fondamentale per far arrivare gli aiuti a una regione devastata dalla guerra e che ha bisogno di tutto.

 

Sul tavolo rimane da risolvere la violazione dei diritti umani e dei crimini di guerra

Un nodo non da poco per il governo di Addis Abeba. Il segretario di stato americano, Blinken, di ritorno dal suo viaggio in Etiopia, ha accusato tutti i belligeranti – forze filogovernative e ribelli – di aver commesso crimini di guerra, considerando che questi atti non sono stati né «casuali» né «una conseguenza indiretta della guerra» ma «erano calcolati e deliberati». Blinken ha accusato, in particolare, l’esercito federale etiope e i suoi alleati – esercito eritreo e forze e milizie della regione Amhara – di crimini contro l’umanità, tra cui «assassini, stupri e altre forme di violenza sessuale e persecuzione». Accuse molto pesanti – Blinken non ha mai nominato il Tplf – che hanno provocato l’immediata reazione del ministero degli Esteri etiope: «Il governo dell’Etiopia non accetta le condanne generali contenute in questa dichiarazione americana e denuncia un approccio unilaterale e antagonista». La dichiarazione Usa, prosegue il ministero, «è selettiva perché distribuisce le responsabilità in modo iniquo tra le parti. Senza motivo apparente», gli Stati Uniti «sembrano esonerare una delle parti da alcune accuse di violazione dei diritti umani, come lo stupro o la violenza sessuale nonostante le chiare e schiaccianti prove della sua colpevolezza», ha proseguito il ministero, riferendosi alle forze delle autorità ribelli nel Tigray.

EtiopiaIl Tplf e Asmara

Il governo dell’Eritrea, un paese isolato a livello internazionale e governato con il pugno di ferro sin dalla sua indipendenza de facto nel 1991 da Issaias Afeworki, ha ritenuto che queste accuse «non nuove», non siano basate «su alcuna prova fattuale e incontrovertibile» e riflette la continua «ostilità e demonizzazione ingiustificate» di Washington nei confronti di Asmara. Il Tplf è stato il nemico giurato di Asmara sin dalla guerra tra Etiopia ed Eritrea tra il 1998 e il 2000, quando il Tplf governava ad Addis Abeba. Il primo ministro Abiy Ahmed ha ricevuto il premio Nobel per la pace nel 2019 per aver posto fine a 20 anni di guerra aperta o nascosta con l’Eritrea. Ma dopo il conflitto nel Tigray, è passato agli occhi di Washington dallo status di simbolo di una nuova generazione di leader africani moderni a quello di un quasi paria.

Washington influenza l’accordo di pace

L’accordo di pace, firmato il 2 novembre 2022 a Pretoria, ha posto fine al brutale conflitto nel Tigray, ma Asmara non ha partecipato alle discussioni e non è firmataria. La pace è stata negoziata e firmata sotto l’egida dell’Unione Africana, ma nelle trattative, rilevano gli analisti, vi è stata una significativa e cruciale influenza di Washington.
Secondo Addis Abeba le accuse di Washington rivelano una «ingiustificata distribuzione delle responsabilità» che «mina il sostegno degli Stati Uniti a un processo di pace inclusivo in Etiopia» e una «dichiarazione incendiaria» suscettibile di «sollevare le comunità le une contro le altre» in Etiopia. Visitando l’Etiopia il 15 marzo sorso, Blinken ha collegato la ripresa della collaborazione economica con Addis Abeba – interrotta dall’inizio del conflitto nel Tigray – alla «riconciliazione e alla presa di responsabilità» nelle atrocità che vi sono state commesse.

Le relazioni tra Washington e Addis Abeba sono state sempre “privilegiate” in funzione anche della stabilità della regione del Corno d’Africa e quindi arrivare a definire le responsabilità dei crimini di guerra è un passaggio cruciale per la ripresa, a pieno regime, dei rapporti tra le due capitali. Ma non solo, per impedire che anche in Etiopia, così come avvenuto in Eritrea, attecchisca l’influenza russa.

L’Etiopia, dopo aver espresso lo sdegno per le accuse americane, ha assicurato che «continuerà a mettere in atto tutte le misure volte a tenere conto dei responsabili e garantire che sia fatta giustizia per tutte le vittime». Il bilancio esatto delle vittime della guerra è difficile da fare – negli anni è stato impedito a istituzioni terze e indipendenti di entrare nella regione del Tigray – ma gli Stati Uniti stimano che circa 500.000 persone siano morte durante il conflitto.

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Una moneta unica per l’Africa… naturalmente parla cinese https://ogzero.org/una-moneta-unica-per-lafrica-naturalmente-parla-cinese/ Thu, 23 Mar 2023 00:55:28 +0000 https://ogzero.org/?p=10557 Proponiamo una Analisi dell’agenzia Agi, un po’ perché il chiacchiericcio sull’incontro di Xi a Mosca con Putin si è fermato alla scenografia che serviva ad amplificare il messaggio senza cogliere i dettagli – e la sostanza si trova nei particolari – e quelli meno evidenti ma più esibiti, come la lettera rubata di Poe, si […]

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Proponiamo una Analisi dell’agenzia Agi, un po’ perché il chiacchiericcio sull’incontro di Xi a Mosca con Putin si è fermato alla scenografia che serviva ad amplificare il messaggio senza cogliere i dettagli – e la sostanza si trova nei particolari – e quelli meno evidenti ma più esibiti, come la lettera rubata di Poe, si racchiudevano nell’intenzione di adottare lo yuan come moneta corrente per i paesi più contesi tra i contendenti. Un po’ perché quell’area dello scacchiere mondiale dopo questo vertice tra le due potenze che rivendicano il riconoscimento del multilateralismo diventa il fulcro dello scontro e ogni centimetro o infrastruttura africani, ciascun scambio commerciale difeso da un apparato militare, qualunque sistema economico diventa tassello strategico della competizione globale.
Il territorio in cui una scelta di questo tipo può spostare gli equilibri precari tra i sistemi politico-economici è l’Africa. Lo ha compreso persino “MilanoFinanza”, potente testata che si è appropriata del pezzo proposto da Agi, imponendo la “riproduzione riservata” e attribuendo a Marcello Bussi l’intuizione scritta invece da Angelo Ferrari, che ha ricondotto la proposta dell’incontro moscovita a conseguenza dei molti episodi che negli ultimi anni si sono riproposti di sostituire lo status quo attraverso il grimaldello monetarista per legare stati e territori a nuove valute; situazioni già da Ferrari analizzate in molti suoi scritti.


Lo yuan va a sud dopo gli accordi al Cremlino

Cina e Russia si accordano per un partenariato fino al 2030 che ha l’obiettivo di ridisegnare l’ordine mondiale. Tra i piani della Russia c’è, anche, quello di «utilizzare lo yuan cinese nei pagamenti con paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina».

Il presidente russo, Vladimir Putin, si dice sicuro che queste «forme di pagamento saranno sviluppate tra la Russia e i partner e colleghi di paesi terzi».

Tutto ciò fa tornare alla memoria un progetto, sponsorizzato dal Ghana, paese anglofono dell’Africa occidentale, per arrivare alla creazione di una moneta unica, chiamata eco, con lo scopo di superare la moneta cosiddetta coloniale, il franco Cfa, adottata da molte ex colonie francesi, e allargarla ad altri, come appunto il Ghana e Nigeria, e legare la sua stabilità proprio allo yuan cinese. Un progetto ambizioso.
A oggi il franco Cfa è legato all’euro. Dunque una partita che potrebbe riaprirsi.

Un bacino enorme da cui l’Occidente è vieppiù estromesso

La nuova moneta dovrebbe essere adottata da 15 paesi e da circa 350 milioni di persone e nelle intenzioni della Cina dovrebbe decretare la fine del predominio francese in quell’area. Non è chiaro se la Nigeria, prima economia del continente, aderirà al progetto. Di certo il cambio della moneta è stato voluto – in maniera insistente – dal Ghana, paese anglofono che ha una sua moneta (il cedi ghanese) e da alcuni stati che gradualmente stanno cercando di affrancarsi da Parigi o che sono, anche se non in maniera dichiarata, “ostili” alla Francia. Ma ciò che colpisce di più – ogni paese e ogni comunità economica ha il pieno diritto di decidere le proprie politiche monetarie – è che la nuova moneta, l’eco, potrebbe essere ancorato allo yuan cinese, per evitare oscillazioni pericolose per i mercati. Ciò che accade ancora oggi con il franco Cfa ancorato all’euro. Il progetto di moneta unica della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Cedeao) è fortemente voluto dal Ghana, paese con una moneta instabile. Se si guarda ai dati sull’inflazione e si paragonano economie simili dell’area, cioè Costa d’Avorio e Ghana, quest’ultimo paese ha visto l’inflazione raggiungere livelli insostenibili, mentre in Costa d’Avorio, che adotta il franco Cfa, è rimasta abbastanza stabile, pur in una fase di congiuntura negativa.

«Se per la sicurezza e le armi il riferimento preferito sono gli Usa, l’economia e lo scambio sono ancora privilegi della Francia, che tenta di mantenere almeno nel Golfo gli scampoli di un colonialismo in rovina nel resto della Françafrique; lo fa mantenendo in piedi le strutture ormai minate come il Franc Cfa, pur promettendo di agevolare il passaggio all’Eco, un progetto perseguito da Ouattara, che doveva vedere la luce nel giugno 2020; il leader ivoriano aveva individuato alcuni criteri base perché i paesi africani potessero aderirvi (bassa inflazione e rapporto deficit/pil sotto al 70% – metà di quello italiano) e Macron aveva appoggiato l’iniziativa per sfilarla ai cinesi, che si erano dichiarati disponibili a sostenerla, ma l’Eliseo aveva il preciso intento di procrastinarne il varo. Infatti il 2020 è passato e l’Eco non c’è. Troppe le incognite, tanto che il lancio della nuova moneta è slittato ulteriormente ma, questa volta, a data da destinarsi, in un futuro non ben precisato. La ragione: non sono pronti gli aspetti tecnici necessari al lancio della nuova moneta, dalla fabbricazione delle banconote, agli aggiornamenti informatici e amministrativi, alla banca federale regionale. Ma la questione è più complicata di quel che vogliono far credere. Prosegue, infatti, il braccio di ferro tra paesi francofoni e anglofoni. Questi ultimi vorrebbero una moneta ancorata a quella cinese. Dall’altra parte non ci stanno ma, soprattutto, non ci sentono. Un dialogo tra sordi. In ogni caso, il cambio della moneta – se mai avverrà – sarà accompagnato da due importanti riforme tecniche: l’estinzione del conto operativo (il 50% delle riserve in valuta estera) depositato presso la Banca di Francia e il ritiro dei rappresentanti francesi presenti negli organi della Banca centrale degli stati dell’Africa occidentale»
(Angelo Ferrari, Raffaele Masto, Africa Bazaar, Rosenberg & Sellier, maggio 2022, p 164).

Da Parigi a Pechino

Se tutto ciò dovesse avvenire, l’Africa occidentale potrebbe passare dalla tutela francese a quella cinese. Ciò dimostra, inoltre, che per questi paesi non è pensabile garantire la stabilità monetaria senza un ancoraggio a una moneta forte. Il franco Cfa, negli anni, ha garantito proprio questo: stabilità e bassa inflazione. Ma c’è stato un però che ha interrotto il processo.

Per scongiurare questo progetto è intervenuto, a sorpresa, il presidente francese Emmanuel Macron, durante una visita in Costa d’Avorio a fine 2019, durante la quale è stata annunciata la fine del dominio del franco Cfa, aprendo la strada alla nuova moneta, ma ancora collegata all’euro.

Questa ipotesi è stata abbracciata dalla Costa d’Avorio e la nuova moneta, nelle intenzioni di Abidjan, verrebbe adottata da Benin, Burkina Faso, Mali, Guinea-Bissau, Niger, Senegal, Togo e Costa d’Avorio. Moneta, tuttavia, che non verrebbe adottata dai paesi dell’Africa centrale legati al franco Cfa, cioè: Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana e Repubblica del Congo.

Un annuncio, come era prevedibile, che ha gettato lo scompiglio tra i paesi anglofoni dell’Africa occidentale: Nigeria, Sierra Leone, Ghana, Liberia e Gambia oltre che la Guinea (paese francofono ma fuori dal circuito del franco Cfa). Una mossa, quella di Macron, che letta alla luce della mossa moscovita, aveva più il sapore di interrompere il progetto del Ghana e quindi della Cina. Come era prevedibile l’ipotesi della moneta unica è naufragato nelle acque del Golfo di Guinea.

Presenza militare russa in moneta cinese: il cerchio si stringe

Ecco allora, che il progetto e l’intesa tra Russia – che ha acquisito nuovi partner scelti tra i vecchi alleati della Francia proprio in Africa occidentale – e la Cina che ha una presenza commerciale consolidata in Africa e che non teme rivali, potrebbe riportare in auge il progetto della moneta unica, tuttavia legata allo yuan. Così sarebbe più “facile”, almeno nelle intenzioni di Pechino e Mosca, per questa regione dell’Africa, utilizzare la moneta cinese nei pagamenti. Ma ciò avrebbe un altissimo impatto sull’intero continente: la Cina, così, potrebbe consolidare la sua influenza e aggiungerebbe un pilastro fondamentale nella sua politica espansionistica nel continente.

Ma rimane un però: i paesi africani saranno così convinti di mettersi totalmente nelle braccia di Pechino? La risposta non può che venire da Stati uniti e Unione europea.


Da ascoltare anche la puntata di radio3mondo del 22 marzo 2023 condotta da Luigi Spinola con l’intervento di Alessandra Colarizi, autrice di “Africa rossa. Il modello cinese e il continente del futuro”, e Alberto Zanconato: dalla mediazione di Xi nella guerra ucraina alle sanzioni condivise si finisce comunque a sottolineare la centralità del continente africano, dove la competizione corrisponde agli interessi di tutti contro tutti, sotto forme diverse, come ben descritto dalla caporedatrice di “China Files”.

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Fondato disincanto e probabile implosione nigeriana https://ogzero.org/fondato-disincanto-e-probabile-implosione-nigeriana/ Tue, 14 Mar 2023 00:25:11 +0000 https://ogzero.org/?p=10480 Il precedente articolo dedicato alla Nigeria riguardava ancora le elezioni, le stesse. Non c’era tanto entusiasmo, ma comunque qualche speranza per u minimo cambiamento, in primis lo scardinamento dell’alternanza Sud/Nord, cattolici/musulmani; Obi era il laico “giovane” – o comunque quello meno inviso ai giovani – ma forse i nigeriani erano già consapevoli di come funziona […]

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Il precedente articolo dedicato alla Nigeria riguardava ancora le elezioni, le stesse. Non c’era tanto entusiasmo, ma comunque qualche speranza per u minimo cambiamento, in primis lo scardinamento dell’alternanza Sud/Nord, cattolici/musulmani; Obi era il laico “giovane” – o comunque quello meno inviso ai giovani – ma forse i nigeriani erano già consapevoli di come funziona il loro paese: infatti la maggioranza dei potenziali influencer si guardava bene dal prendere posizione… come il 73% dei potenziali votanti, che non sono andati alle urne, probabilmente consapevoli che il presidente era già decretato. I brogli sono tanti e la divisione di un paese in crisi non consente di indovinare a cosa andrà incontro la nuova presidenza dell’ultrasettantenne Tinubu, a capo di una nazione giovane che in genere ha un terzo dei suoi anni, lasciatagli in eredità da Buhari con una povertà sempre più estesa, come la violenza, scorciatoia in risposta dell’indifferenza del potere.


Inutile votare, ma anche soltanto sperare

Mai nella storia democratica della Nigeria un presidente è stato eletto con una percentuale così bassa di voti. Nonostante ciò, Bola Ahmed Tinubu, nuovo capo di Stato – elezione contestata dall’opposizione – dovrà affrontare sfide senza precedenti e risolvere problemi immensi. Noti per la loro resilienza, i 216 milioni di abitanti del paese più popoloso dell’Africa vivono nella morsa di una diffusa insicurezza e di una grave crisi economica, e tutti gli indicatori sono allarmanti. Sullo sfondo di una gigantesca penuria di banconote e benzina, Bola Tinubu ha vinto le elezioni presidenziali di fine febbraio dopo una tornata elettorale segnata da numerosi guasti tecnici e da accuse di “massicce frodi”. Dopo la vittoria, Tinubu ha invitato l’opposizione a “lavorare insieme” per “raccogliere i pezzi” della Nigeria. Ma i suoi due principali oppositori, candidati alla presidenza senza successo, hanno contestato i risultati e sono in corso procedimenti legali.

«Tinubu dovrà prima lavorare sodo per costruire la sua legittimità, visto come le elezioni si sono svolte con una Commissione elettorale (Inec) incompetente o complice», ha affermato Nnamdi Obasi, esperto dell’International Crisis Group (Icg).

Un quadriennio ibernato dal letargico vecchio

A 70 anni (o più probabilmente 77), il candidato del partito al governo (Apc) ha vinto le elezioni raccogliendo solo 8,8 milioni di voti, ovvero il 36% di coloro che si sono recati alle urne, un risultato mai così basso se si conta che gli aventi diritti erano circa 87 milioni. L’astensione è stata da record, 73%, dovuta sia all’insicurezza in cui versa il paese, ma anche al disincanto della maggioranza della popolazione nei confronti della politica. Ma anche per colpa degli otto anni di potere del presidente uscente, Muhammadu Buhari. Durante i suoi due mandati, Buhari non è stato capace di arginare la povertà che, anzi, è esplosa, e la violenza, anch’essa cresciuta. Il presidente uscente non è stato in grado di mantenere le promesse e di raggiungere gli obiettivi che si era dato: riduzione della povertà e sconfitta del terrorismo di Boko Haram e dello Stato Islamico. A ciò si è aggiunta una crescente violenza dovuta al proliferare di bande armate e a lotte intercomunitarie per l’accaparramento della terra.

Per legittimarsi, Tinubu – considerato uno degli uomini più ricchi e influenti del paese e accusato di corruzione senza mai essere stato condannato – dovrà mandare “segnali forti e molto velocemente” e soprattutto non seguire l’esempio del suo predecessore che aveva aspettato sei mesi per formare un governo, sostiene Obasi dell’International Crisis Group. A ciò si aggiunge, a complicare ulteriormente la situazione, la sua età e problemi di salute che non è riuscito a nascondere durante la campagna elettorale. Fattore che aggrava “il suo problema di legittimità”, spiega Tunde Ajileye, esperto della società di consulenza nigeriana SBM Intelligenze. Tinubu, inoltre, dovrà cercare di fare presa sui giovani, in Nigeria il 60% della popolazione ha meno di 25 anni. Il nuovo presidente, secondo molti analisti sul campo, dovrà “molto probabilmente” affrontare la rabbia popolare, lui che ha annunciato una serie di decisioni “necessarie” ma con “conseguenze economiche molto negative nel breve termine”. Con la presidenza Buhari, l’economia è solo peggiorata, soprattutto dopo la pandemia e in conseguenza della guerra in Ucraina.

La disoccupazione supera il 33%, l’inflazione sfiora il 22%, il debito pubblico cresce e la povertà è colossale, con 133 milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà, cioè il 63% circa della popolazione. D’accordo con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, Tinubu, per esempio, ha assicurato che avrebbe abolito immediatamente i sussidi per il carburante. Ma sarebbe alienare un popolo già in ginocchio, lui che già non gode di grande popolarità.

Perché una tale decisione «raddoppierebbe il prezzo di un litro di benzina e provocherebbe un’inflazione su larga scala», avverte Obasi, «la gente sarà davvero arrabbiata».

Ma la rimozione dei sussidi consentirà alla Nigeria grande produttore di petrolio, di «gestire la crisi di bilancio e investire in programmi di istruzione, infrastrutture e protezione sociale», sottolinea Mucahid Durmaz, analista di Verisk Maplecroft.

Urne vuote in Nigeria

L’economia bruciata nel petrolio e negli abusi di polizia

Anche porre fine al furto di petrolio su larga scala che costa alla Nigeria 2 miliardi di dollari all’anno è una priorità, sostengono gli esperti. Occorre, tuttavia, ricordare che la Nigeria è il più grande produttore di petrolio dell’Africa Subsahariana, con circa 2 milioni di barili giorno, ma è anche il paese che importa l’80% del suo fabbisogno di carburante.

L’economia in crisi e sotto costante stress ha prodotto una maggiore insicurezza. La violenza rimane diffusa, tra gruppi jihadisti, separatisti e criminali. Da parte loro, le forze armate e la polizia sono a corto di personale, sono mal equipaggiate e regolarmente accusate di gravi violazioni dei diritti umani. Anche questo settore ha bisogno di «riforme strutturali di vasta portata e programmi di formazione completi», insiste Durmaz. Pure questa dovrà essere una priorità, anche perché nel Nordest, roccaforte dei gruppi jihadisti, l’esercito non riesce a porre fine a 13 anni di conflitto che ha provocato 40.000 morti e 2 milioni di sfollati.

«Non vi è alcuna indicazione che la strategia cambierà con l’arrivo di un nuovo presidente», ha affermato Jacob Zenn, ricercatore presso la Jamestown Foundation. «Questo stallo può semplicemente continuare».

Ma Tinubu dovrà anche scongiurare la “profezia” del premio Nobel per la letteratura Wole Soyinka che, solo due anni fa, sosteneva che la Nigeria sembra proprio essere un paese a rischio implosione.

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Come uscire dalla Françafrique e rimanere buoni amici, però? https://ogzero.org/come-uscire-dalla-francafrique-e-rimanere-buoni-amici-pero/ Fri, 03 Mar 2023 13:57:56 +0000 https://ogzero.org/?p=10429 Una scommessa impossibile, dopo l’arroganza plurisecolare della potenza coloniale francese. Macron, presidente dimezzato in patria, si sottrae all’ira sulla riforma delle pensioni proseguendo il tentativo di recuperare un rapporto postcoloniale con il continente africano. Dall’inizio del suo primo mandato – va riconosciuto – ha tentato di mutare l’atteggiamento gaullista, ma non ha un paradigma scevro […]

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Una scommessa impossibile, dopo l’arroganza plurisecolare della potenza coloniale francese. Macron, presidente dimezzato in patria, si sottrae all’ira sulla riforma delle pensioni proseguendo il tentativo di recuperare un rapporto postcoloniale con il continente africano. Dall’inizio del suo primo mandato – va riconosciuto – ha tentato di mutare l’atteggiamento gaullista, ma non ha un paradigma scevro da ogni possibile idea coloniale: non è nei cromosomi francesi, tanto che non sono riusciti a cogliere il momento giusto per tagliare i cordoni con le colonie, riuscendo a renderle autonome e un embrione di politica macroniana per il continente vede gli africani francesi fare da ponte. Il presidente francese ha dovuto registrare la sostituzione da parte dei russi sul piano militare (rimangono truppe francesi in Gabon, Niger, Senegal, Ciad… ma è proprio la loro figura a restituire quel feedback che procura un rigurgito antifrancese) e dei cinesi in economia, che hanno acquisito larghe fette del mercato della Françafrique (ma il ritorno per l’economia francese è ormai ridotto all’osso), prima di avventurarsi nel viaggio tra le foreste gabonesi, i Congo e l’Angola.

Un passato che sembra non passare mai. Infatti il tour di Macron comincia dal vicino Gabon della dinastia Bongo (emblematico del sistema “francese” di rapportarsi all’Africa attraverso famiglie fedeli che gestiscono il paese con corruzione e centri di potere), e poi si concentrerà su quelli più a rischio di sfuggire al controllo (Congo Kinshasa – dove sventola già la bandiera russa come “bienvenue” e l’ex luso-cinese Angola). Angelo Ferrari si lascia ispirare dal viaggio disperato dell’inquilino dell’Eliseo, cacciato dal Sahel occidentale e contestato per la mancata difesa del Congo dall’aggressione ruandese, per augurarsi che gli africani trovino la forza di liberarsi dei coloni di qualsiasi colore (ma con scarse speranze che cambi qualcosa); Macron si trova vituperato in patria dai nostalgici della grandeur d’outre-mer e destinato a risultare il presidente che “perderà” il controllo delle colonie, forse proprio in virtù dell’approccio iniziale di riconoscimento della brutalità dell’occupazione coloniale; ed è svillaneggiato in Françafrique, dove prova il grimaldello spuntato dell’approccio green per organizzare il tour elettorale a sostegno di regimi autocratici… e degli interessi petroliferi di Total (il green-paradox).


Macron l’Africano… ingombrante

Proteste a Kinshasa

La missione africana del presidente francese Emmanuel Macron non è iniziata nel migliore dei modi. Mentre il suo aereo arrivava in Gabon, prima tappa della sua visita in Africa, nella capitale della Repubblica democratica del Congo, Kinshasa – ultima fermata del suo viaggio – decine di giovani congolesi manifestavano contro di lui davanti all’Ambasciata di Francia. Brandendo bandiere russe, questi giovani lo accusavano di sostenere il Ruanda a spese del loro paese. “Macron assassino, Putin in soccorso”, questi gli slogan scanditi in piazza e su alcuni cartelli e striscioni si leggevano accuse ancore peggiori: “Macron padrino della balcanizzazione della Rdc”, “I congolesi dicono no alla politica della Francia” o anche “Macron indesiderabile in Rdc”. La Repubblica Democratica del Congo (Rdc), dove nel fine settimana è atteso il presidente francese, accusa il vicino Ruanda di sostenere una ribellione attiva nell’est – confermata dagli esperti Onu nonostante le smentite di Kigali – e si aspetta una chiara condanna di questa “aggressione” da parte della comunità internazionale.

«Siamo qui per dire no all’arrivo di Emmanuel Macron perché la Francia è complice della nostra disgrazia», ha dichiarato davanti ai giornalisti Josue Bung, del movimento cittadino Sang-Lumumba, sfoggiando la tipica acconciatura dell’eroe dell’indipendenza congolese Patrice Lumumba (1925-1961).

Lunedì scorso Emmanuel Macron ha presentato a Parigi la sua strategia africana per i prossimi anni e, rispondendo a una domanda sulla Rdc, ha sostenuto che la sovranità e l’integrità territoriale del paese «non possono essere discusse». Ma “non ha menzionato il Ruanda, che è il nostro aggressore”, gli hanno rimproverato i manifestanti.

Le bandiere russe significano «che non abbiamo più bisogno della Francia, vogliamo collaborare con partner affidabili, come la Russia o la Cina», ha sostenuto Bruno Mimbenga, altro organizzatore delle proteste davanti all’ambasciata francese, in un momento in cui la Russia è sempre più in competizione con la Francia nella sua storica sfera di influenza in Africa.

I giovani congolesi hanno ribadito quello che è un sentimento diffuso sia in Africa centrale sia nel Sahel e cioè che “la comunità internazionale non ci serve”. La Rdc sarà questa settimana l’ultima tappa di un viaggio di Emmanuel Macron in Centrafrica, che lo porterà anche in Gabon per un vertice sulle foreste, in Angola e in Congo-Brazzaville.

La dinastia Bongo e la foglia di fico delle foreste

Il diciottesimo viaggio nel continente è iniziato, quindi, a Libreville, dove Emmanuel Macron vuole dare nuovo impulso al rapporto tra i due paesi. Sono passati 13 anni da quando un presidente francese ha fatto un viaggio in Gabon. L’ultimo è stato Nicolas Sarkozy, nel febbraio 2010. Nel frattempo, la contestata rielezione del presidente Ali Bongo e la crisi elettorale del 2016 sono passate attraverso aspre tensioni tra i due paesi. Poi c’è stata la crisi sanitaria, e la lite è continuata fino a un inizio di riavvicinamento dal 2021. Questo viaggio per Macron era, secondo una fonte vicina all’Eliseo, diventato essenziale. Era già in lavorazione da diversi mesi, ed è stato nell’estate del 2022 che è stata presa in considerazione l’idea di usare il One Forest Summit e di focalizzare il viaggio sulla protezione delle foreste, per fugare ogni dubbio sulla natura della visita che arriva nell’anno elettorale del Gabon, con le elezioni presidenziali previste per la prossima estate. Una tempistica che ha fato sobbalzare la società civile e l’opposizione gabonese:

«È venuto per lanciare la campagna elettorale del suo amico», ha detto l’ambientalista Marc Ona.

Perplessità espresse anche dall’opposizione a Macron a Parigi. Un gruppo di parlamentari del gruppo Lfi-Nupes della Commissione Affari Esteri ha infatti scritto alla ministra degli Esteri, Catherine Colonna, facendo notare che due dei paesi visitati terranno fra pochi mesi le elezioni presidenziali, il Gabon e la Repubblica democratica del Congo. «In un tale contesto, questa visita potrebbe essere interpretata come un sostegno politico da parte dell’esecutivo francese a governi o regimi le cui derive autoritarie, persino autocratiche» sono evidenti, si legge nella nota.

La lettera ricorda che in Gabon, dove nessun presidente francese si recava da 13 anni, le elezioni si terranno fra cinque mesi. La visita, secondo i deputati d’opposizione, “offre una legittimità internazionale” a un regime, quello della famiglia Bongo, al potere dal 1967. Sottolinea inoltre che è stato negato un visto a una giornalista di “Liberation” per seguire il One Forest Summit – co-organizzato dalla Francia – lasciando intendere che si vuole coprire l’evento in un’ottica solo positiva per il regime, mentre molti osservatori temono che si tratterà di un’operazione di greenwashing.

I deputati di La France insoumise et Nouvelle union populaire écologique et sociale evidenziano anche dubbi sulla sincerità che circonda le prossime elezioni in Congo-Kinshasa, nonché la repressione di manifestazioni dell’opposizione in Angola nei mesi scorsi.

«Il carattere a volte selettivo e contraddittorio delle posizioni del governo francese sulla natura e le pratiche dei regimi e dei governi, in particolare in Africa, lascia spazio alle critiche, sincere o pilotate da altre potenze, che indeboliscono le nostre relazioni strategiche con i paesi del continente» africano, stigmatizzano gli autori della lettera.

Arginare il legittimo sentimento antifrancese: safari impossibile

Un viaggio, inoltre, che arriva a pochi giorni da una lunghissima conferenza stampa nella quale Macron ha voluto ridisegnare la politica francese nei confronti del continente africano. Un tentativo legittimo, visto il dilagare del sentimento antifrancese in buona parte dell’Africa centrale e del Sahel. Per Macron è necessario un nuovo rapporto “equilibrato, reciproco e responsabile”. Questo il mantra presidenziale. Ma ancora:

«L’Africa non è terra di competizione», ha detto Macron durante la conferenza stampa all’Eliseo, invitando a «passare da una logica degli aiuti a quella degli investimenti».

Ha, inoltre, affermato di aver mostrato «profonda umiltà di fronte a quanto si sta svolgendo nel continente africano, una situazione senza precedenti nella storia», con «una somma di sfide vertiginose. Dalla sfida della sicurezza climatica alla sfida demografica con i giovani ai quali dobbiamo offrire un futuro in ognuno degli stati africani», invitando a «consolidare stati e amministrazioni, investendo in modo massiccio in istruzione, salute, lavoro, formazione, transizione energetica».

L’inquilino dell’Eliseo ha voluto anche sottolineare che la Francia «sta chiudendo un ciclo segnato dalla centralità della questione militare e della sicurezza», annunciando una “riduzione visibile” del personale militare francese in Africa e un “nuovo modello di partenariato” che prevede un “aumento del potere degli africani”. Tutto ciò segna un cambio di paradigma nella politica dell’Eliseo? Per ora sono solo parole a cui devono seguire dei fatti concreti, anche perché la riduzione del personale militare più che una scelta è stata una via obbligata visto il ritiro dal Mali, dal Burkina Faso e dalla Repubblica Centrafricana, tre roccaforti dell’influenza parigina in Africa. Paesi che, dopo la “cacciata” dei francesi si sono affidati in maniera decisa proprio alla Russia, dimostrando che l’Africa è, ancora, una terra dove la competizione tra potenze internazionali è viva più che mai, a differenza di ciò che sostiene Macron e lui stesso ne è complice.

Da ultimo occorre ricordare che nei paesi visitati dal presidente francese – Gabon, Angola, Repubblica del Congo e Repubblica democratica del Congo – la Francia ha enormi interessi economici soprattutto nel settore petrolifero.

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La “Grande sostituzione” si estende al Maghreb https://ogzero.org/saied-la-grande-sostituzione-si-estende-al-maghreb/ Mon, 27 Feb 2023 11:43:33 +0000 https://ogzero.org/?p=10397 Il contagio del razzismo a supporto della governance di despoti e democrature è l’unico pensiero che può attraversare frontiere. L’Unione africana, dopo la conferma delle sanzioni ai danni del Mali, Burkina e Guinea equatoriale per i golpe filorussi, si è trovata a dover difendere le genti provenienti proprio dal Sahel e dal resto del continente […]

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Il contagio del razzismo a supporto della governance di despoti e democrature è l’unico pensiero che può attraversare frontiere. L’Unione africana, dopo la conferma delle sanzioni ai danni del Mali, Burkina e Guinea equatoriale per i golpe filorussi, si è trovata a dover difendere le genti provenienti proprio dal Sahel e dal resto del continente subsahariano da attacchi che provengono dall’interno dello stesso continente ai massimi livelli delle istituzioni di un paese africano. Lo ha fatto condannando le parole “scioccanti” del “pallido” presidente della Tunisia sui migranti più “scuri” provenienti dall’Africa subsahariana e ha richiamato i suoi stati membri ad «astenersi da qualsiasi discorso di odio e di natura razzista, che danneggiano le persone». In trasparenza si possono riconoscere i contorni delle richieste italiane, sicuramente avanzate – perseguendo l’intento di esternalizzare le frontiere – proprio con gli stessi argomenti razzisti, che facilmente non si sbaglia ad attribuire al viaggio di Meloni in Maghreb, andata a procurarsi gas e soprattutto a perorare il blocco della rotta dei migranti; peraltro un perfetto argomento – in tutto uguale al disgustoso tentativo di Erdogan di scaricare sui migranti la colpa della corruzione del suo sistema di potere in buona parte responsabile del disastro del terremoto per le sue dimensioni – che offre il destro a Saïed per trovare un capro espiatorio su cui far convergere l’odio per il disastro economico e sociale tunisino.

Una grande manifestazione contro il razzismo e la xenofobia si è svolta a Tunisi il 26 febbraio 2023, per dire no alle parole di Saïed e per cambiare rotta al governo sul trattamento riservato ai migranti dai paesi africani subsahariani. Le organizzazioni della società civile hanno assunto una posizione di principio netta e determinata contro l’idea nazista del complotto per la sostituzione etnica mediata dal presidente autocrate prendendo a prestito gli slogan delle destre europee. Il corteo è partito dalla sede del sindacato dei giornalisti, uno dei promotori, per raggiungere il centro città coinvolgendo nel percorso l’aggregazione di migliaia di altri cittadini. Il portavoce del “Forum per i Diritti Sociali ed Economici” ha affermato che il discorso dell’odio non sarà mai accettato in una società come quella tunisina, perché è contro natura: «Quando quel discorso proviene dal capo dello Stato, rischia di sdoganare atti violenti contro i nostri fratelli migranti, che vivono condizioni di emarginazione economica tra di noi». Angelo Ferrari aveva già rilevato l’enormità di un leader africano che esplicitamente prende a prestito il razzismo europeo, adattando “Le Grand Remplacement” di Renaud Camus alle fobie arabe verso le culture subsahariane, in un intervento che proponiamo qui.


Saïed sdogana il razzismo serpeggiante concordato con Roma

Montano le polemiche in Tunisia dopo le parole del presidente Kaïs Saïed che ha invocato “misure urgenti” contro l’immigrazione clandestina di africani subsahariani nel suo paese, sostenendo che la loro presenza è fonte di «violenze, crimini e atti inaccettabili». Ma Saïed si è spinto anche oltre, sostenendo che l’immigrazione dall’Africa subsahariana fa parte di una «impresa criminale ordita all’alba di questo secolo per modificare la composizione demografica della Tunisia», in modo che potesse essere considerata un paese “solo africano” e offuscarne il suo carattere “arabo-musulmano”. Date queste premesse, per Saïed è necessario «porre fine in fretta» a questa immigrazione invocando misure urgenti.

Reazioni dell’Unione africana

Con una nota, il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki Mahamat, ha condannato «fermamente le dichiarazioni scioccanti fatte dalle autorità tunisine contro i connazionali africani, che vanno contro la lettera e lo spirito della nostra organizzazione e i nostri principi fondatori». Faki Mahamat ha ricordato a «tutti i paesi, in particolare agli stati membri dell’Unione Africana, che devono onorare gli obblighi ai sensi del diritto internazionale, vale a dire trattare tutti i migranti con dignità, da qualsiasi parte provengano, astenersi da qualsiasi discorso di odio con natura razzista, che probabilmente danneggerà le persone e dà la priorità alla loro sicurezza e ai loro diritti fondamentali».

Moussa Faki Mahamat ribadisce «l’impegno del comitato a sostenere le autorità tunisine al fine di risolvere i problemi di migrazione e rendere la migrazione sicura, degna e regolare».

Proprio il Mali – paese che al suo interno vive da anni profondi travagli sfociati nell’apertura ai “servizi” dei contractors della Wagner – in una nota dell’ambasciata tunisina ha dichiarato di aver seguito «con la massima preoccupazione la situazione dei maliani» nel paese. Riferendosi a “momenti molto inquietanti”, e ha invitato i suoi cittadini “a essere vigili” e ha chiesto a «coloro che desiderano di registrarsi per un ritorno volontario».

La crisi tunisina e il facile capro espiatorio “nero”

Il discorso di Saïed, che ha concentrato su di sé tutti i poteri dopo aver sospeso nel luglio 2021 il parlamento e licenziato il governo, si è verificato mentre il paese sta attraversando una grave crisi economica contrassegnata da carenze ricorrenti di prodotti di base, in un contesto di forti tensioni politiche.
Secondo i dati ufficiali citati dal Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes) la Tunisia, un paese di circa 12 milioni di abitanti, conta più di 21.000 africani subsahariani, la maggior parte dei quali è irregolarmente nel paese. Molti di loro, la maggioranza, arriva in Tunisia per poi tentare di immigrare illegalmente in Europa via mare. Alcuni tratti della costa tunisina sono a meno di 150 chilometri dall’isola italiana di Lampedusa. Secondo i dati ufficiali italiani, nel 2022 sono arrivati in Italia clandestinamente dalla Tunisia oltre 32.000 migranti, di cui 18.000 tunisini.
La Tunisia sta attraversando una grave crisi economica caratterizzata da ricorrenti carenze di beni di prima necessità, in un contesto di tensioni politiche, e molti analisti e attivisti ritengono che il presidente stia strumentalizzando la crisi dei migranti per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle questioni economiche e sociali “inventando un nuovo pericolo”. Altri ritengono che Saïed stia cedendo alle pressioni dell’Italia per ottenere lo stop dei flussi migratori.

Reazioni della società civile tunisina

Le sue parole dunque hanno gettato benzina sul fuoco delle incarcerazioni degli oppositori, dei giornalisti e delle proteste di piazza per il referendum andato deserto nelle urne, indignando buona parte delle organizzazioni non governative, parte della classe politica ma anche gli intellettuali. Su Twitter, hanno reagito alcuni analisti politici. Amine Snoussi (@amin_snoussi), autore di libri sulla politica tunisina e giornalista, scrive:

«Il presidente della Repubblica tunisina ha appena convalidato la tesi del grande ricambio. Abbiamo un dittatore razzista che arresta i suoi oppositori e incolpa gli immigrati subsahariani per i nostri problemi. È il peggior regime nella storia di questo paese».

Mohamed Dhia Hammam (@MedDhiaH), ricercatore in scienze politiche alla Maxwell School, definisce le parole di Saïed disgustose, e parla di una “campagna fascista contro i neri”:

«L’oltraggiosa dichiarazione della presidenza sulla riunione del Consiglio di sicurezza nazionale, durante la quale Saïed ha deciso di usare tutte le forze, compresi i militari, per prendere di mira gli immigrati neri, arriva nel bel mezzo di una odiosa campagna mediatica. La logica del complotto messa in atto dal governo fa eco alle teorie del complotto diffuse sia nei media mainstream che nei social media pro- Saïed», twitta l’analista.

«Questo discorso non ha alcuna somiglianza con la Tunisia. La posizione internazionale della Tunisia e la sua storia umanitaria sono molto più grandi di questo discorso», ha reagito su Facebook il presidente dell’Osservatorio tunisino per i diritti umani, Mostafa Abdelkebir. Anche Mnemty, associazione che si batte contro la discriminazione, ha condannato il comunicato stampa della presidenza tunisina, definendolo un «discorso di razzismo e odio e incitamento alla violenza contro i migranti subsahariani».

Le dichiarazioni di Saïed sull’esistenza di una “impresa criminale” volta a cambiare la composizione demografica della Tunisia assomigliano alla teoria del complotto della “grande sostituzione” sostenuta in Francia dal polemista di estrema destra Eric Zemmour che, infatti, reagisce immediatamente alle parole di Saïed: «Gli stessi paesi del Maghreb iniziano a lanciare l’allarme di fronte all’impennata migratoria. Qui, è la Tunisia che vuole adottare misure urgenti per proteggere la sua gente. Cosa aspettiamo a lottare contro la Grande Sostituzione?», ha commentato Zemmour su Twitter condividendo un articolo di stampa sulle osservazioni fatte da Saïed.


A completamento proponiamo questa bella discussione tra Arianna Poletti da Tunisi e Karim Metref, algerino-torinese di origine berbera, entrambi raffinati analisti della situazione e società nordafricana; troverete preoccupazioni inusitate e interpretazioni  di situazioni che danno il quadro di una trasformazione repressiva epocale:


“Tutto il Maghreb sta filando cattivo cotone”.
 

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Incertezza e violenza al centro delle elezioni presidenziali nigeriane https://ogzero.org/incertezza-e-violenza-al-centro-delle-elezioni-presidenziali-nigeriane/ Fri, 24 Feb 2023 15:06:17 +0000 https://ogzero.org/?p=10346 Una delle elezioni più combattute, dove il risultato è in forse e potrebbe anche venire meno la tradizionale alternanza tra presidenti provenienti dal Nord musulmano con quelli cristiani del Sud a causa della forte candidatura di Peter Obi, laico laburista che trova il suo consenso tra i giovani; e in Nigeria, il paese più popoloso […]

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Una delle elezioni più combattute, dove il risultato è in forse e potrebbe anche venire meno la tradizionale alternanza tra presidenti provenienti dal Nord musulmano con quelli cristiani del Sud a causa della forte candidatura di Peter Obi, laico laburista che trova il suo consenso tra i giovani; e in Nigeria, il paese più popoloso dell’Africa, il 40 per cento dei votanti ha meno di 35 anni. Obi potrebbe essere percepito come il più accreditato a raccogliere quello che rimane della protesta #EndSars contro le violenze della polizia; un movimento che si è ridimensionato, ma che potrebbe essere paradigma e focolaio di un pacifico rivolgimento del sistema. Angelo Ferrari ha scritto un articolo per inquadrare la situazione e ci ha segnalato anche un contributo comparso su “AfricaRivista” dedicato all’inaspettata “astensione” delle star dell’afrobeats, la musica onnipresente e in grado di trascinare nugoli di fan; i candidati attingono alla loro musica senza pagarne i diritti, proprio perché i cantanti hanno preferito non schierarsi, dando così un segnale di timore rispetto al mondo politico: ci si può schierare contro la potente e feroce polizia delel Sars, ma è meglio non sbilanciarsi sulle elezioni


Ballot or Bullet

Eleggere un presidente capace di arginare la violenza in Nigeria, durante un’elezione minacciata dalla stessa violenza è la difficile sfida che deve affrontare il paese più popoloso dell’Africa, che andrà alle urne il 25 febbraio per scegliere il suo prossimo capo dello stato. Non passa settimana – non passa giorno! – senza che vi siano attacchi, azioni da parte di gruppi criminali, jihadisti o separatisti che siano e che tentano di piegare e gettare nel caos il gigante dell’Africa occidentale, uno dei paesi più dinamici del continente. L’ex generale golpista Muhammadu Buhari, eletto democraticamente nel 2015 e nel 2019 per porre fine all’insicurezza, non si ripresenta alle presidenziali dopo due mandati segnati da un aumento della violenza, in particolare nella sua regione natale, il Nordovest.

«I politici ci hanno abbandonato al nostro destino», accusa Dahiru Yusuf, che vive a Birnin Gwari, un distretto dello Stato di Kaduna, dove gruppi criminali, chiamati “banditi”, stanno aumentando gli attacchi ai villaggi e praticando rapimenti di massa a scopo di riscatto. «Non sono riusciti a proteggerci dai criminali che ci terrorizzano, quindi non hanno motivo di venire a chiederci voti», lamenta Yusuf.

Nel Nord del paese la situazione è terribile: se il presidente Muhammadu Buhari e il suo esercito sono riusciti a riconquistare alcuni territori in mano ai jihadisti di Boko Haram e dello Stato islamico (Iswap), questo conflitto – dura da 13 anni e ha provocato più di 40.000 morti e 2 milioni di sfollati – è tutt’altro che finito. La situazione si è ulteriormente aggravata e negli ultimi anni si è aperto un nuovo fronte: nel Nordovest e nel Centro bande criminali, che usano ad arte un conflitto mai sopito tra pastori e contadini, operano impunemente nelle zone rurali, attaccando villaggi, ma anche cittadini che transitano sulle strade di queste regioni. Gruppi “criminali”, inoltre, pesantemente armati, hanno effettuato attacchi su larga scala contro le scuole nel 2021, sequestrando più di mille studenti. Molti dei rapiti sono stati rilasciati dietro pagamento di un riscatto – ma alcuni di loro rimangono ancora nelle mani dei criminali nelle foreste, i luoghi dove si nascondono i banditi.

La sicurezza è uno dei temi principali della campagna elettorale di queste elezioni, che si preannunciano molto serrate tra i tre candidati: Bola Tinubu del partito al governo (Apc), Atiku Abubakar del principale partito di opposizione (Pdp) e Peter Obi, l’outsider visto come il candidato dei giovani, laburista (Lp), accreditato dagli ultimi sondaggi di un 40%. I tre promettono di farla finita con la violenza e il terrorismo, lo stesso mantra del presidente uscente Buhari, obiettivo, però, che non è riuscito a raggiungere. Ma la minaccia di violenze diffuse pesa anche sullo svolgimento dello scrutinio del 25 febbraio, durante il quale sono chiamati alle urne circa 94 milioni di elettori, per eleggere il presidente, i deputati e i senatori. Gli analisti, inoltre, pongono molta attenzione sul dopo voto:

«i gruppi criminali fanno crescere il rischio di proteste postelettorali che potrebbero anche intensificarsi», secondo il think tank International Crisis Group (Icg).

Dimensioni della scheda elettorale

Alcuni seggi sono inagibili

Il presidente della Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni), Mahmood Yakubu, ha recentemente rassicurato che le elezioni si svolgeranno senza problemi. Le autorità affermano di avere in programma lo schieramento di più di 400.000 uomini delle forze di sicurezza sul territorio. Nonostante ciò, secondo il gruppo di osservazione elettorale Yiaga Africa, lo svolgimento delle urne è compromesso in sei stati e 14 distretti locali, a causa dell’insicurezza o della presenza di gruppi armati. Nel Sudest, afflitto dai disordini separatisti ereditati dalla guerra del Biafra, negli ultimi anni sono stati presi di mira più di 50 uffici delle commissioni elettorali e centinaia di agenti di polizia. Questa violenza è spesso attribuita al Movimento per l’indipendenza dei popoli indigeni del Biafra (Ipob). Ma Ipob, che chiede la rinascita di uno stato separato per l’etnia Igbo, ha più volte negato ogni responsabilità.

Da quando il paese è tornato alla democrazia nel 1999, dopo anni di dittature militari, le elezioni sono state spesso segnate da violenze politiche, scontri etnici, voti “comprati”, frodi elettorali e problemi logistici.

Incontro degli ex presidenti della Nigeria

La maggior parte degli analisti ritiene che la commissione elettorale sia meglio preparata di prima, in particolare grazie all’introduzione di software biometrici destinati a prevenire le frodi e al trasferimento elettronico dei risultati. Ma i suoi funzionari hanno avvertito che le recenti gravi carenze di carburante e banconote in tutto il paese potrebbero avere un impatto sulla logistica e sul trasporto del materiale elettorale. I nigeriani – la maggior parte dei quali vive in condizioni di povertà – a queste carenze strutturali di uno stato che non riesce a far fronte ai bisogni della popolazione, non sono indifferenti. Anzi, da due settimane sono scoppiate sporadiche rivolte in diverse città del Nord e del Sud, con manifestanti che hanno bloccato strade o attaccato banche. Molti analisti temono una deflagrazione alla vigilia delle elezioni presidenziali.

Per il think tank Icg, «le prospettive postelettorali sono ancora più fosche».

In Nigeria i risultati sono quasi sempre stati contestati, e il rischio di violenze, in questa occasione, è ancora più grande perché il paese potrebbe essere chiamato, per la prima volta nella sua storia, a un secondo turno per il ballottaggio se nessuno dei candidati dovesse essere eletto al primo turno, allungando, così, il periodo elettorale e con esso il rischio di violenze e disordini.

“Qual è l’affare migliore per gli africani?”.


Come accennato nel podcast dell’intervento di Angelo Ferrari su Radio Blackout, sono mancate nella campagna elettorale le intenzioni di voto, gli endorsement… i concerti a sostegno di un qualunque candidato da parte dei divi dell’Afrobeat, che invece si erano mobilitati nel movimento EndSars, che è sopito o rimane sotto traccia, probabilmente perché quel mondo è avulso dalle beghe politiche lontane dai problemi di lavoro, sicurezza, di interessi giovanili e di persecuzione poliziesca. Perciò riprendiamo l’articolo comparso su “Africa Rivista” a completamento delle considerazioni sull’elezione più controversa, ma anche forse considerata distante dal sentimento dei giovani elettori; magari invece scopriremo che – a prescindere dal passaggio elettorale – questa congiunzione astrale avrà permesso a chi rappresenterà la Nigeria di incarnare la trasformazione del paese in una comunità enorme affrancata dalla protezione straniera… a sessant’anni dall spinta indipendentista di liberazione dal controllo coloniale.


Nigeria: la patria dell’afrobeats va alle presidenziali senza le star della musica

La Nigeria è la patria dell’afrobeats e i suoi ritmi risuonano ovunque in Africa e ora anche in Occidente, dove i giovani ondeggiano al ritmo orecchiabile di Burna Boy, Wizkid e Tems.

 

Ma con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali nigeriane, le pop star sono “tranquille”, non “cantano”, stanno defilate, quasi a dire che è meglio non inimicarsi il potere. La nazione più popolosa dell’Africa, che il 25 febbraio eleggerà un nuovo presidente, è spesso teatro delle rappresaglie dei terroristi di Boko Haram e dei gruppi jihadisti che imperversano nel Nordest, ma la Nigeria è anche la più grande economia del continente e la culla di un genere musicale che, senza esagerare, ha incendiando il pianeta intero. Le star dell’afrobeats vincono Grammy (Burna Boy, Tems), riempiono le più grandi sale da concerto del mondo (Wizkid, Davido), fanno milioni di visualizzazioni su Tik Tok (Rema, CKay) e collaborano con celebrità nordamericane, come Chris Brown, Justin Bieber o Drake. Queste celebrità sono adorate tanto quanto l’anziana élite politica nigeriana è odiata. I politici, la cui corruzione è quasi endemica, sono visti come responsabili delle disfunzioni del paese: mancanza di scuole, elettricità, medici, adesso anche carta moneta. Per queste elezioni presidenziali, dove il 40% degli elettori registrati ha meno di 35 anni, i candidati dei due principali partiti sono espressione della vecchia guardia: Bola Tinubu, del partito al governo (Apc) ha 70 anni, e Atiku Abubakar, del principale partito di opposizione (Pdp), ne ha 76 anni.

«I cantanti hanno un potere enorme sui giovani, che i candidati non hanno», sottolinea Oris Aigbokhaevbolo, giornalista musicale. Ma «fanno di tutto per evitare ogni legame con la politica, soprattutto durante le elezioni presidenziali».

L’afrobeats nasce negli anni 2000, da una commistione, tra gli altri stili, dell’afrobeat (senza s) del leggendario Fela Kuti, musicista che ha lottato per tutta la vita contro la corruzione, e l’influenza hip-hop proveniente dagli Stati Uniti. I primi artisti producevano anche testi politici, ma quando il genere ha iniziato ad avere successo, a dare i suoi frutti anche in termine di denaro, i testi sono diventati più “fluidi”, meno impegnati. Fino a poco tempo fa le canzoni erano per lo più odi al capitalismo in versione Naija, celebravano successi, macchine di lusso e conquiste femminili, o dichiarazioni d’amore un po’ mielose. Ma uno storico movimento di protesta giovanile, scoppiato nell’ottobre 2020, ha dato una nuova dimensione al genere, come se ci fosse stato un risveglio politico.

Mentre migliaia di giovani scendevano in piazza per protestare contro la brutalità della polizia e il malgoverno, le star dell’afrobeats sono improvvisamente uscite dal loro silenzio, mostrando il loro sostegno sui social media. Burna Boy aveva acquistato giganteschi spazi pubblicitari per mostrare gli slogan di questo movimento (“EndSARS”). Davido ha guidato una protesta nella capitale Abuja, dove si è inginocchiato davanti alla polizia, e Wizkid ha arringato una folla di nigeriani della diaspora a Londra. Dopo la sanguinosa repressione del movimento, molti artisti avevano reso omaggio alle vittime, come Burna Boy con la sua canzone 20.10.2020, data in cui l’esercito ha sparato sui manifestanti a Lagos. Ma da allora il silenzio è tornato ad essere la regola.

«Non li sentiamo», aggiunge Osikhena Dirisu, direttore della radio The Beat. Né quando si tratta di sostenere le campagne di registrazione degli elettori o di sostenere un particolare candidato.

«Mi delude, ci hanno mobilitato durante EndSARS e oggi nessuno chiede ai giovani di votare o di sostenere Peter Obi, il candidato dei giovani», dice Ifiy, 30 anni, che sostiene l’outsider di queste elezioni presidenziali.

A 61 anni, questo ex governatore, sostenuto da parte dei giovani e dal movimento EndSARS, si è affermato come uno sfidante credibile contro Tinubu e Atiku. Ma a parte P-Square, gli autori gemelli di successi del 2020 come Alingo, le superstar che mostrano il loro sostegno a Obi sono rari, secondo Dirisu. Le celebrità investono poco in politica, «perché in Nigeria è meglio non essere nemici del potere».

Al contrario, i politici hanno bisogno dell’afrobeats: una campagna elettorale senza musica è semplicemente inimmaginabile.

Così, nelle adunate elettorali, gli altoparlanti rimbombano dei successi del momento, il più delle volte usati senza pagare alcun diritto. I cori orecchiabili possono scaldare i militanti di questo o quel partito o le folle di poveri pagati per riempire gli stadi prima dell’arrivo dei candidati. La musica permette anche di umanizzare, persino ringiovanire, i candidati, come Tinubu che ha fatto scalpore durante la sua campagna elettorale abbozzando passi di danza del successo Buga di Kizz Daniel.


Infine, artisti sconosciuti a livello internazionale e che faticano a monetizzare la propria musica vengono spesso pagati dai partiti per cantare durante questi incontri, come Portable per il partito al governo o Timi Dakolo per l’opposizione. Cantanti, tuttavia, criticati sui social media, ma i due artisti si giustificano sostenendo che il denaro non ha alcun odore, insomma si vendono al miglior offerente.

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Litio, legno e… tamponare l’emorragia africana https://ogzero.org/litio-legno-e-tamponare-lemorragia-africana/ Mon, 16 Jan 2023 12:46:24 +0000 https://ogzero.org/?p=10094 La Svezia ha scoperto l’11 gennaio a Kiruna quello che sembra uno dei più significativi giacimenti di terre rare, valutato in circa un milione di tonnellate di ossidi; sicuramente la più grande miniera europea di metalli strategici per la transizione ecologica e digitale. Ma ci vorranno almeno una dozzina di anni prima che si possa […]

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La Svezia ha scoperto l’11 gennaio a Kiruna quello che sembra uno dei più significativi giacimenti di terre rare, valutato in circa un milione di tonnellate di ossidi; sicuramente la più grande miniera europea di metalli strategici per la transizione ecologica e digitale. Ma ci vorranno almeno una dozzina di anni prima che si possa procedere all’estrazione. Quindi è necessario nel frattempo approvvigionarsi altrove, magari continuando a saccheggiare l’Africa.
Il 21 dicembre 2022 il governo di Harare ha adottato il decreto “Base Minerals Export Control” forse con l’obiettivo di imporre restrizioni all’esportazione del litio grezzo; apparentemente è una disposizione volta a imporre alle potenze straniere – in un momento di estremo bisogno di materia prima – di impiantare stabilimenti di lavorazione in territorio africano, prima di portarlo in Occidente. Specifichiamo i porti di destinazione, perché una nota di Reuters, ripresa da “GreenReport” ha segnalato la deroga nei confronti di tre importanti compagnie minerarie cinesi che hanno investito 678 milioni di dollari nel 2022.

E poi c’è l’emorragia del contrabbando da cui ha preso le mosse questo informatissimo articolo di Angelo Ferrari, che in un unico flusso di minerali con numero atomico compreso tra 51 e 71 lega nel discorso l’intera Africa australe, ma poi assumendo come criterio i meccanismi di saccheggio del continente raggiunge il mercato dell’ammoniaca autoctona del Maghreb, attraverso il legno grezzo rapinato dai cinesi al Congo. In questo Angelo è affiancato da Massimo Zaurrini nel breve podcast inserito dove, partendo dalla travagliata regione in cui il 15 gennaio le bombe hanno risvegliato per un giorno le coscienze mondiali, si legano facilmente scontri, tensioni e milizie agli interessi minerari.

OGzero


Le arterie pulsanti dell’Africa

Lo Zimbabwe ha vietato l’esportazione del litio grezzo. Un materiale preziosissimo utilizzato per la fabbricazione delle batterie. Senza il litio è impossibile pensare a un futuro di energie rinnovabili e per l’auto elettrica su vasta scala. La decisione dello Zimbabwe può essere storica e diventare punto di riferimento anche per altri paesi africani ricchi di materie prime e terre rare. Il paese dell’Africa australe intende avviare con questa decisione una propria industria di trasformazione.
Le materie prime vengono esportate grezze per poi essere trasformate altrove. Inoltre la decisione dello Zimbabwe vuole mettere un freno ai minatori “artigianali” che lo estraggono più o meno illegalmente e poi lo esportano all’estero. Secondo le stime fatte dal governo tutto ciò costa 1,7 miliardi di mancati guadagni a causa del contrabbando in Sudafrica e negli Emirati Arabi Uniti. A trarne maggiore beneficio, dunque, sono le multinazionali del settore e in particolare quelle cinesi che ne hanno praticamente il monopolio. Se questa scommessa avrà successo, molti consigli di amministrazione delle multinazionali non dormono sonni tranquilli, ma soprattutto i governi africani potranno cominciare a pensare a uno sviluppo dell’industria mineraria non più sbilanciata verso l’esterno, tesa piuttosto ad avviare processi di trasformazione nei paesi di estrazione.

I preziosi dello Zimbabwe: oro, diamanti e… litio

Per Harare il litio è una risorsa enorme: lo Zimbabwe è il terzo produttore africano e detiene le più grandi riserve di minerale del continente che, nei calcoli del governo, dovrebbero essere sufficienti per soddisfare un quinto del fabbisogno mondiale. Il paese poi si spinge ancora più in là: gli operatori minerari che operano nel paese dovranno pagare alcune delle royalties in metallo raffinato anziché in denaro contante. È lo stesso presidente dello Zimbabwe, Emmerson Mnangagwa, ad annunciarlo attraverso un articolo pubblicato del “Sunday Mail”; il paese, infatti, ha abbondanti riserve di minerali come l’oro e i metalli del gruppo del platino (Pgm), ma i problemi di approvvigionamento energetico, la mancanza di industrie ausiliarie per supportare l’estrazione mineraria e le fluttuazioni valutarie rendono complicato tranne profitto dal boom del mercato. L’iniziativa, dunque, riguarda quattro principali minerali estratti nel paese: oro, diamanti, Pgm e litio.
L’obiettivo è quello di costruire una riserva nazionale di metalli preziosi e “riserve critiche” a beneficio della popolazione attuale e delle generazioni future. Il presidente scrive così sul “Sunday Mail”:

«Non possiamo, come governo attuale e come generazione attuale, gestire risorse limitate in modo dissoluto, senza alcun riguardo per le generazioni a venire».

Se tutto ciò diventerà realtà, potrà rappresentare un cambio di paradigma per l’intero continente. Quindi le compagnie che operano nel settore, come le sudafricane Impala Platinum e Anglo American Platinum, dovranno adeguarsi così come quelle cinesi che hanno il monopolio del litio.
Le restrizioni imposte dallo Zimbabwe non riguarderanno, con molta probabilità, le miniere a livello industriale perché dovrebbero esportare solo materiale trattato, un “concentrato di litio”. Miniere, però, che sono ancora in fase di realizzazione, dato che l’unica importante produttrice di litio è quella di Bikita.

E la Namibia apre all’UE: uranio, diamanti e… litio

Sono anche altri i paesi, sempre rimanendo nell’Africa australe, che stanno lanciando timidi segnali di volersi svincolare dallo sfruttamento selvaggio delle risorse. La Namibia ha infatti interrotto le operazioni di esplorazione dell’uranio affidate dal 2019 a One Uranium, sussidiaria dell’agenzia statale russa per l’energia atomica Rosatom, dicendosi preoccupata per la potenziale contaminazione delle acque sotterranee. La One Uranium, infatti, non è riuscita a dimostrare che il suo metodo estrattivo non causa inquinamento.

La Namibia poi ha ambizioni anche in altri settori minerari; l’Europa sta cercando partner per lo sfruttamento delle terre rare in Africa, finora detenuto dalla Cina. In questo quadro si inserisce l’accordo concluso tra la Namibia e l’Unione europea per la vendita delle terre rare, minerali essenziali per lo sviluppo del settore delle energie rinnovabili come le turbine eoliche e le batterie delle auto elettriche. Windhoek, capitale della Namibia, sta sviluppando con la canadese NCM un progetto per lo sfruttamento e la trasformazione del disprosio e del terbio. Più in generale, il paese dell’Africa meridionale intende posizionarsi come attore globale nella transizione verso le energie verdi.
Mentre la Cina detiene il monopolio virtuale della produzione di terre rare nel mondo, molti paesi sono alla ricerca di alternative (e la Svezia ha annunciato l’11 gennaio la scoperta di imponenti giacimenti di terre rare, ma non in tempi brevi). Per gli europei il progetto Lofdal, attualmente in fase di sviluppo da parte di un’azienda canadese, rappresenta un serio vantaggio. La miniera potrebbe produrre negli anni a venire più di cento tonnellate di disprosio e 17 tonnellate di terbio, due metalli usati nei magneti per le turbine eoliche e le batterie delle auto. La concorrenza in questo settore è molto forte: infatti anche il Giappone è in corsa per acquisire parte della produzione.
Windhoek desidera che la lavorazione industriale avvenga in loco e vede nello sviluppo di questa miniera un’opportunità per diversificare un settore minerario che sta guadagnando slancio.
Oltre ai diamanti e all’uranio, già operativi, il paese si sta posizionando anche come attore nel mercato del litio. Più in generale, la Namibia spera di diventare un hub per fornire idrogeno verde privo di emissioni di carbonio all’Europa. Un grande progetto misto, eolico e solare, mira a produrre idrogeno verde che verrebbe poi esportato in Europa. La Germania ha collaborato con diversi paesi africani per sviluppare un atlante del potenziale idrogeno e stanziato 45,7 milioni di dollari per la Strategia nazionale di sviluppo dell’idrogeno verde proprio in Namibia. L’idrogeno verde, secondo gli esperti giocherà un ruolo cruciale nella futura economia europea decarbonizzata.

Infrastrutture, il problema di fondo

Ma tutto dipenderà dalle infrastrutture che verranno realizzate per il trasporto. Questo è uno dei nodi. Anche per questo l’Europa sta cercando di sviluppare partenariati con i paesi della costa sud del Mediterraneo, in particolare il Marocco e in seconda battuta la Tunisia. Inoltre qualsiasi strategia per sviluppare le esportazioni di idrogeno – come scrive Massimo Zaurrini su “Africa e Affari” – dovrà tenere conto dell’uso interno africano e delle ambizioni di politica industriale di importanti attori del continente.

“Terre rare nella polveriera Africa”.

Fertilizzanti, ammoniaca e tecnologie dell’idrogeno

Il Marocco, uno dei principali esportatori di fertilizzanti, prevede di sostituire le importazioni di ammoniaca convenzionale (utilizzata per la preparazione di questi prodotti) con ammoniaca verde nazionale, grazie a un progetto che dovrebbe vedere la luce a breve che immagina, appunto, l’impiego di idrogeno pulito anziché a base di idrocarburi. Analogamente, l’Egitto sta investendo in un impianto per la produzione di un milione di tonnellate di ammoniaca verde all’anno. Il Sudafrica ha lanciato una strategia finalizzata non solo alla produzione di idrogeno, ma anche alla produzione nazionale di tecnologie e prodotti legati all’idrogeno.

L’inutile sacrificio di ettari di legno congolese

Sull’Africa, dunque, aleggia una nuova aria? Forse, ma le regole si possono aggirare con facilità. In Congo Brazzaville, per esempio, è vietata l’esportazione dei tronchi interi, ma solo di prodotti semilavorati, proprio per favorire l’industria locale. Un’iniziativa che, però, non ha avuto grande successo, o l’ha avuto solo in parte, perché le aziende cinesi del settore che operano nel paese, sono riuscite ad aggirare il divieto attraverso “oculate strategie di convincimento” delle autorità. In una parola: corruzione. Dal porto di Pointe Noire, sull’oceano Atlantico, continuano a partire i tronchi interi e non i semilavorati. La Cina sia nella Repubblica del Congo sia in Gabon – insieme rappresentano circa il 60% dell’area del Bacino del Congo – taglia in maniera indiscriminata e, soprattutto, importa legno grezzo, non i semilavorati come vorrebbero le regole. Tutto ciò oltre a distruggere milioni di ettari di foreste, non porta alcun beneficio alla popolazione, perché viene saltato un passaggio fondamentale, quello che crea lavoro, perché i semilavorati vanno elaborati nei paesi produttori. Dopo quattro anni di investigazioni sotto copertura, terminate nel 2019, la ong britannica, Environmental Investigation Agency (Eia), ha evidenziato come il legname africano tagliato illegalmente sia stato poi trasformato in prodotti che venivano venduti come “eco-frendly” negli Stati Uniti.

Fatta la legge, trovato l’inganno

Tutto ciò è imputabile a un gruppo cinese, il Djia Group che controlla oltre 1,5 milioni di ettari di foresta del Gabon e della Repubblica del Congo. Ettari di foresta ottenuti attraverso pratiche corruttive. Il gruppo cinese, attraverso queste elargizioni di denaro, ha potuto sovrasfruttare le concessioni, esportando tronchi interi, per un valore di 80 milioni di dollari in violazione della legge nazionale in un periodo di quattro anni e avrebbe eluso le tasse per diversi milioni di dollari in ogni anno di attività. Quei tronchi “illegali”, poi, potrebbero essere finiti anche in Europa, attraverso i semilavorati, visto che la Cina è il maggior fornitore di legno dell’Europa. Insomma, la morale è: una volta fatta la legge si può comodamente aggirarla proprio grazie agli stessi legislatori a cui sono state “regalate” valigette stracolme di denaro.

Il solito serbatoio che non diventa mercato

Per tornare allo Zimbabwe, il governo di Harare, con le restrizioni che ha imposto, intende favorire aziende locali per la trasformazione in loco del minerale così che possa essere utilizzato direttamente dall’industria dei veicoli elettrici. Per decenni, infatti, così come altri stati africani ricchi di minerali e risorse naturali, lo Zimbabwe ha permesso che le sue risorse fossero estratte dalle multinazionali, senza sviluppare industrie locali che potessero lavorarle e creare posti di lavoro dignitosi. Vedremo se questa iniziativa avrà il successo sperato o non si troverà il modo, anche qui, di aggirare i divieti e le restrizioni.

L’Africa, più in generale, risulta essere un grande serbatoio di risorse energetiche ma non ancora un mercato “interessante” per chi vende energia. Gli investimenti in infrastrutture non sono ancora adeguati e molta parte del continente rimane al buio. Ecco perché occorre trovare un bilanciamento: il continente è caratterizzato da un’ampia disponibilità di risorse minerarie, ma anche di potenziali risorse verdi, idroelettrico per i grandi fiumi, fotovoltaico nelle ampie zone desertiche, eolico e anche geotermico. Se ben valorizzata politicamente, la grande disponibilità di risorse rinnovabili può mitigare la competizione tra l’esigenza di vendere energia e quella di usarla per il proprio sviluppo. È una strada da percorrere; il divario di competenze tecniche tra occidente e paesi africani sta diventando progressivamente meno esclusivo. Per queste ragioni i paesi africani, come sta cercando di fare la Namibia, cercheranno dei partner con cui stabilire un rapporto più equo.

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Il dazio dell’inondazione pakistana sulle tavole africane https://ogzero.org/il-dazio-dellinondazione-pakistana-sulle-tavole-africane/ Thu, 29 Sep 2022 13:56:07 +0000 https://ogzero.org/?p=9038 Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo […]

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Cotone e riso sono stati spazzati via con conseguenze globali, Rispetto alle alluvioni del 2010, i danni di quest’anno sono 4 volte superiori. Con 50 milioni di persone colpite e più di 1100 uccise, circa il 90% dei terreni agricoli è stato spazzato via, colpendo le principali produzioni agricole del Pakistan: cotone e riso. Essendo il paese il quinto produttore di cotone e il quarto di riso, l’impatto di questa perdita sarà sicuramente globale.
Di qui prendeva spunto l’articolo che abbiamo pubblicato di Masha Hassan sull’inondazione pakistana; l’autrice del pezzo ha poi approfondito gli addentellati collegati alla filiera del cotone, più che quella del riso, seguita invece dall’attenzione di Angelo Ferrari (già in luglio un suo intervento lanciava l’allarme alimentare, prima della guerra in Ucraina e dei disastri climatici) per le ripercussioni sull’alimentazione dell’Africa, riproponiamo qui il pezzo ripreso da “AfricaRivista” per completare l’analisi del cataclisma poco seguito dai media occidentali miopi di fronte alle conseguenze del cambiamento climatico subito nei disastri dal Sud del Mondo, ma prodotto soprattutto dal mondo industrializzato.


Secondo gli analisti molti governi dovranno far fronte all’aumento dei prezzi di mercato del riso, un alimento base per gli africani, dovuto alle catastrofi naturali che stanno colpendo l’Asia e alle nuove strette sulle esportazioni imposte da India, Vietnam e Thailandia.

L’Africa non ha pace. La sicurezza è messa a rischio dall’aumento dei prezzi delle materie prime e ora potrebbe aggravarsi ulteriormente per le inondazioni che hanno investito il Pakistan. Il continente africano deve far fronte all’aumento dei prezzi del grano e del mais a causa della guerra in Ucraina, ma, secondo molti analisti economici, dovrà far fronte anche all’aumento dei prezzi di mercato del riso, un alimento base per gli africani, a causa delle inondazioni che hanno investito il Pakistan e alla decisione dell’India di limitare le sue esportazioni.

L’accaparramento asiatico

L’India ha vietato le esportazioni di riso spezzato (frammenti di chicchi rotti) dopo l’inondazione e ha imposto un dazio del 20% sulle esportazioni di riso di qualità superiore. Con questa misura, il più grande esportatore mondiale cerca di abbassare i prezzi a livello locale, dopo che le piogge monsoniche sono state inferiori alla media. Le esportazioni potrebbero, grazie a questa misura, crollare del 25% nei prossimi mesi.

«Tutti i cereali sono aumentati, tranne il riso, ma ora si unirà a questa tendenza», ha spiegato Himanshu Agarwal, direttore di Satyam Balajee – il principale esportatore di riso indiano – sentito dalla Reuters.

Contemporaneamente Thailandia e Vietnam hanno deciso di aumentare i prezzi per remunerare meglio i loro agricoltori. Secondo Phin Zinell, economista alimentare presso la National Australia Bank, ci «saranno tensioni significative sulla sicurezza alimentare in molti paesi». E a farne maggiormente le spese, sarà l’Africa, tanto più che la situazione in Pakistan di fronte alle alluvioni che lo hanno investito potrebbe pesare sui prezzi mondiali.

«Il Pakistan è un grande esportatore di riso, ma un terzo del paese è sott’acqua e quindi il rischio, a lungo termine, è un aumento del prezzo del riso sul mercato internazionale», ha spiegato Nicolas Bricas, titolare della Cattedra mondiale dell’alimentazione dell’Unesco, sentito da France24.

Un altro fattore rischia di aggravare ulteriormente la situazione: la forte domanda cinese di rotture di riso per sostituire il mais, diventato troppo costoso per nutrire il bestiame, ha provocato un innalzamento dei prezzi.

Il fabbisogno africano

Tutto ciò, evidentemente, rappresenta una brutta notizia sul fronte della sicurezza alimentare nell’Africa subsahariana, che dipende in larga misura dalle importazioni di cereali bianchi dall’Asia. L’Africa, quest’anno, potrebbe assorbire il 40% del commercio mondiale di riso, ovvero 20 milioni di tonnellate, un vero e proprio record.

La dipendenza dalle importazioni di riso è cronica e durerà nel tempo, anche perché la produzione locale non è in grado di seguire la curva dei bisogni che cresce con la crescita demografica urbana. In Africa il riso è l’alimento preferito dagli abitanti delle città perché è un prodotto pronto all’uso a differenza dei tradizionali cereali, come il miglio e il sorgo, che hanno bisogni di una preparazione.

Se la sicurezza alimentare in Africa subsahariana non si base esclusivamente sul riso, come in altri continenti, questo rimane il secondo cereale più consumato dopo il mais. Un’impennata dei prezzi rappresenterebbe un nuovo colpo per le popolazioni africane, già indebolite dai prezzi dei generi di prima necessità, soprattutto quelli agricoli. La situazione è particolarmente critica nel Corno d’Africa, che sta attraversando una siccità mai vista negli ultimi quarant’anni. Secondo le Nazioni Unite, dall’Etiopia meridionale al Kenya settentrionale fino alla Somalia, 36 milioni di persone sono a rischio fame.

«Con l’aggravarsi della situazione della sicurezza alimentare in Etiopia, siamo particolarmente preoccupati per l’impatto che sta avendo su donne e ragazze. Anche se CARE è intervenuta tempestivamente con distribuzioni di cibo per alcune comunità colpite, oltre che con interventi nel settore agricolo, trasferimenti di denaro, salute e nutrizione e WASH, il bisogno insoddisfatto rimane sconcertante».

L’aumento del prezzo del riso è, dunque, atteso, ma secondo molti analisti dovrebbe rimanere contenuto e di breve durata. Di sicuro è un azzardo, anche se il raccolto dei principali paesi produttori ed esportatori – India, Thailandia e Vietnam – inizierà tra poche settimane. Questo riso dovrà andare ad aggiungersi alle scorte, già al massimo, e quindi dovrebbe spingere questi paesi a vendere il vecchio raccolto, allentando la pressione sul mercato. Ma bisognerà capire se i maggiori esportatori di riso applicheranno misure di protezionismo del proprio mercato interno.

Di sicuro gli effetti maggiori si vedranno nei primi mesi dell’anno prossimo. Occorre ricordare, infine, che il Pakistan esporta 4 milioni di tonnellate di riso all’anno, contro i 21 milioni dell’India. La domanda è: il mercato sarà in grado di resistere allo shock anche se il Pakistan, come è prevedibile, limiterà le sue esportazioni e l’India manterrà i dazi e il tetto alle esportazioni di riso?

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Dalla Perestrojka al Commonwealth in Africa https://ogzero.org/dalla-perestrojka-al-commonwealth-in-africa/ Sat, 17 Sep 2022 23:23:21 +0000 https://ogzero.org/?p=8921 Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche […]

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Archiviando epoche: gli imperialismi seppelliscano gli imperi

Parlando con Angelo Ferrari dei due suoi articoli scritti ultimamente per Agi che qui riproponiamo ci siamo convinti che seguendo queste tracce si possono avanzare ipotesi: se non tutte saranno verificabili, aiutano comunque nell’individuazione e valutazione di possibili strategie globali in ambito africano. Senz’altro queste comparazioni tra caratteristiche di periodi storici rendono conto di un passaggio epocale, scandito simbolicamente dalla morte di due ultranovantenni protagonisti della politica degli anni Ottanta: Michail Sergeevič Gorbačëv ha incarnato la fine della Guerra Fredda – con tutto ciò che la sua archiviazione ha significato per la spartizione di tasselli sullo scacchiere internazionale che facevano rigidamente riferimento all’una o all’altra grande potenza. La contrapposizione per blocchi è apparentemente un modello di rapporti tra grandi potenze che torna a riconfigurarsi, e di cui dovremmo analizzare cosa può riproporsi e in quali modalità, considerando anche il progresso delle comunità da depredare a trent’anni dalla caduta del muro e dalla trasformazione dei regimi marxisti-leninisti sostenuti dall’Urss in Africa.
Elisabeth Windsor-Mountbatten è stata la più rigida conservatrice dell’impero britannico così come le era stato consegnato, opprimendo con brutalità (fin dall’inizio soffocando le richieste di emancipazione dei Mau-Mau in Kenya); la spasmodica attenzione dei media francesi per le sue esequie è una buona cartina al tornasole, perché evidenzia la sensazione dei regicidi francesi che i destini delle due ex potenze coloniali siano strettamente correlati, angosciando gli ancora tanti nostalgici della grandeur, ma anche galvanizzando gli anticolonialisti come “Mediapart”, che preconizzano che, dopo il bagno di folla ebete dei funerali «Con la morte della regina Elisabetta II, il velo di oblio o di cecità intenzionale che ha coperto la mente pubblica britannica sul suo passato imperiale e coloniale scomparirà. I dannati della memoria si alzeranno in piedi e parleranno». E dopo il processo indipendentista a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta – che ha richiesto la trasformazione dell’approccio e dei processi di occupazione di territori, il loro saccheggio e il condizionamento economico –, ora non è l’emancipazione delle comunità autoctone ma la ripresa dell’espansione di quel colonialismo russo nel Continente nero (che i processi di apertura di Nikita Sergeevič Chruščëv prima e poi di Gorbačëv avevano trasformato, ridimensionandolo) a premere sulle acciaccate potenze coloniali europee.
E di nuovo l’impegno di Mosca sorge nel momento in cui la tensione ha il sopravvento sul multilateralismo. Queste pulsioni, assimilabili alle esigenze che spingono la Realpolitik turca a espandere la propria sfera di influenza su alcuni angoli africani, aggiungono un elemento che configura il neoimperialismo, echeggiando altri momenti epocali in cui si è assistito a conflitti di blocchi contrapposti: neo-ottomanesimo e neozarismo possono sperare che la divisione europea ridimensioni l’egemonia occidentale, approfittando di una nuova Guerra Fredda da cui trae linfa l’espansionismo autocratico nella realtà africana.
Fin qui OGzero, ma questo sproloquio attinge alle suggestioni e ai dati esibiti da Angelo Ferrari nei suoi due originali obituary. E non a caso iniziamo dallo studio sul rilancio del Commonwealth (l’espressione imperiale britannica rivale di quella zarista e dei sultani) che paradossalmente ottiene nuovo slancio dalla morte della simbolica depositaria per 70 anni della potenza inglese, dacché era già sovrana – ingombrante figura difficile da adeguare alle istanze indipendentiste dell’impero senza modificarne l’icona (interessante come nell’articolo di Angelo non venga citata, ma aleggi il venir meno di una prassi pluridecennale caratteristica del suo lungo regno) – quando gli stati decolonizzati entrarono nell’organizzazione grazie alla Dichiarazione di Londra che riformava il vecchio Commonwealth con un compromesso costituzionale, proprio in quegli stessi primi anni Sessanta che costrinsero alla apertura con la prima parziale sospensione della Guerra Fredda.

Ora il Commonwealth rappresenta una valida alternativa per la cooperazione economica tendente a 2 trilioni di scambi. Per gli altri c’è l’“amicizia” predona della Wagner, che non chiede conto alle leadership cresciute militarmente a Rostov (o disposte a scommettere di restituire i prestiti ai cravattari cinesi), di certo non è l’epilogo immaginato dalla perestrojka africana.


Il Commonwealth sempre più africano

Londra sta intensificando la sua presenza nel continente africano attraverso rapporti bilaterali, vuole – è stata la promessa fatta da BoJo nell’ultimo vertice afro-britannico a Londra il 20 gennaio 2020 – incrementare i suoi investimenti ed espandere il suo mercato. Vuole diventare il maggior investitore sul continente africano e superare gli altri membri del G7 e stiamo parlando di Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Giappone e mettiamoci anche l’Italia.

Carta d’identità dell’organizzazione

Il Commonwealth è il più grande gruppo di nazioni che non coinvolge la Russia o la Cina e gli conferisce, sono parole della Truss, «un peso crescente sulla scena mondiale». Quanto può valere entrare nell’ormai grande famiglia? Secondo Patricia Scotland, segretario generale dell’organizzazione nata sulle ceneri dell’impero britannico e andata ormai oltre le ex colonie di Londra, già oggi il commercio tra i paesi membri vale 700 miliardi di dollari. Ma l’obiettivo, anche guardando gli ultimi ingressi, Togo e Gabon, è di superare i 2 trilioni di dollari entro il 2030.
Il Commonwealth è un’organizzazione che conta 56 nazioni per un totale di 2,5 miliardi di abitanti, con un Prodotto interno lordo che si prevede salirà a 19,5 trilioni di dollari nei prossimi cinque anni.


Il Gabon, che si affaccia sul Golfo di Guinea, ultimo arrivato nell’organizzazione è un paese con una superficie boscosa molto rilevante ed è destinato a svolgere un ruolo importante nel commercio dei crediti di carbonio per combattere il cambiamento climatico. E questo, per Londra, è un vantaggio non da poco.

Strategia in chiave anticinese

Londra vuole aprire le sue porte all’Africa e il Commonwealth (oggi conta 21 paesi africani: Sudafrica, Ghana, Nigeria, Sierra Leone, Uganda, Kenya, Malawi, Tanzania, Zambia, Gambia, Botswana, Lesotho, eSwatini, Seychelles, Namibia, Camerun, Mozambico, Nauru, Ruanda, Gabon, Togo) potrebbe diventare la chiave di volta. Ma non solo. Nelle strategie di Londra rientra anche il contrasto alla Cina e in Africa la sfida sembra quasi improba. Ciò era negli intenti dell’ex premier Boris Johnson, ma ribaditi dall’attuale prima ministra, Liz Truss, che è stata molto chiara.

Il Regno Unito deve aumentare l’interscambio commerciale con i paesi del Commonwealth per contrastare la «grave minaccia della Cina ai nostri valori e al nostro modo di vivere, e firmare accordi commerciali con procedure accelerate con gli stati così da aiutare il Regno Unito e altre democrazie a vincere la lotta contro gli stati autoritari».

Truss ritiene che legami economici più stretti aiuteranno ad annullare lo schema della Belt Road Initiative della Cina in base alla quale Pechino ha finanziato progetti in dozzine di paesi in via di sviluppo che si sono rivelati come una “coercizione economica”.

Per allargare il mercato cade la pregiudiziale democratica

Tutti vogliono entrare nel Commonwealth e Londra apre le porte a chiunque, rinunciando anche ai principi fondativi dell’organizzazione delle ex colonie britanniche. Non guarda se è un paese è democratico, se rispetta i diritti fondamentali delle persone. Tutto questo, dopo la Brexit, non conta. Londra sembra avere mani libere, tanto da accettare nell’organizzazione membri che non hanno legami storici con il Regno Unito. Contano gli investimenti e le potenzialità di mercato che offre chi entra nell’organizzazione.

«In passato alcuni paesi africani non avevano relazioni con i paesi del Pacifico o con i paesi anglofoni», ha spiegato il ministro degli Esteri del Gabon – ex colonia francese – Michael Moussa-Adamo, ma ora «ci stiamo allargando e stiamo ottenendo nuovi partner internazionali, rafforzando la nostra economia».

Dinastie africane nell’organizzazione della dinastia britannica

Dati gli obiettivi che si prefigge è evidente che qualsiasi stato è ben accetto. «Il Commonwealth – ha spiegato Scotland – ha iniziato con otto nazioni nel 1949, è cresciuta fino a raggiungere 56 nazioni. La nostra continua crescita, al di là della nostra storia, riflette i vantaggi dell’appartenenza al Commonwealth e la forza della nostra nazione. Sono entusiasta di vedere questi vivaci paesi unirsi alla famiglia e dedicarsi ai valori e alle aspirazioni della nostra Carta» (“360Mozambique”).

È del tutto evidente che la “Carta”, oggi, conta ben poco. Se l’organizzazione dovesse tenere fede ai suoi principi non potrebbe accettare nelle sue file paesi come il Gabon e il Togo che non hanno nulla a che fare con una democrazia moderna.
Il Gabon più che uno stato è una monarchia governata da sempre dalla dinastia dei Bongo Ondimba, padre e figlio, stiamo parlando di oltre cinquant’anni di regno (però i Windsor sono avvezzi a questo tipo di regime, ma proprio il Gabon può rappresentare un ponte tra gli imperi, visto che era in quota sovietica fino al crollo del Pcus). E anche il Togo non è da meno: l’attuale presidente, Faure Gnassingbé detiene il potere dal 2005, ma lo ha ereditato dal padre che lo gestiva in maniera dittatoriale dal colpo di stato del 1967.
Ma anche il Ruanda, che ha ospitato l’ultimo vertice del Commonwealth a fine giugno 2022, non sarebbe un paese “idoneo”, perché nelle sue carceri sono ancora detenuti oppositori, giornalisti indipendenti e youtuber critici con le autorità ruandesi.

Centro congressi di Kigali, sede della convention del Commonwealth 2022

Paul Kagame è presidente del Ruanda dal 1994 quando entrò a Kigali da trionfatore e liberatore, ha modificato la Costituzione così da permettergli di governare il paese fino al 2034. Per non parlare di un altro membro del Commonwealth, il Camerun. Il paese è “guidato” dal 1982 da Paul Biya, ma se aggiungiamo i sette anni da primo ministro, 1975-1982, è al potere da 47 anni.


Le aree di interesse evidenziate dalle citazioni di paesi aderenti alla sfera britannica, poste a confronto con quelle evocate dal mondo sovietico africano, mostrano una vera e propria spartizione tra i due imperialismi che non sovrapponevano i domini. Le incursioni russe e turche in Sahel, Centrafrica e Corno d’Africa entrano in diretta concorrenza soprattutto con l’imperialismo francese, quello più debole e impreparato, perché ancora troppo fondato sull’occupazione militare, ambito in cui i contractor russi e i miliziani turchi sono più efficaci su quel terreno.


Con la fine dell’Urss cambiarono i giochi di potere in Africa… erano solo sospesi?

Cosa ha comportato la scomparsa dell’Urss e quali le conseguenze per chi deteneva il potere? I regimi alleati del blocco orientale, per esempio, furono costretti a riformarsi o cadere.
L’opera intrapresa da Michail Gorbačëv di riforma del sistema sovietico negli anni Ottanta e di disgelo delle relazioni internazionali, cambiando radicalmente la situazione internazionale, ha avuto ripercussioni ed effetti importanti anche per il continente africano. La scomparsa dell’Urss dallo scacchiere africano ha costretto i regimi alleati del blocco orientale a riformarsi o cadere. Nella prima categoria, Angola e Mozambico sono stati costretti a entrare in processi di democratizzazione che hanno posto fine alle guerre civili, prima Maputo e poi Luanda.

Superamento del colonialismo lusitano

Frelimo/Renamo

In Mozambico il sostegno dell’Unione Sovietica si è rivelato fondamentale per la sopravvivenza del paese negli anni Ottanta del secolo scorso. Le spinte anticoloniali portarono i movimenti indipendentisti a coalizzarsi nel movimento armato Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico) e dopo dieci anni di guerriglia contro i coloni portoghesi, il paese ottiene l’indipendenza nel 1975. Iniziò una campagna di nazionalizzazione delle piantagioni e furono costruite scuole e ospedali per i contadini. Una rivoluzione di stampo sovietico. Il Frelimo sostenne le forze rivoluzionarie in Rhodesia e Sudafrica. I governi di questi paesi, appartenenti al blocco occidentale, risposero sostenendo i ribelli mozambicani della Renamo. Ne scaturì un’atroce guerra civile che terminò con gli accordi di pace di Roma del 1992 da cui nacque una nuova costituzione di stampo multipartitico. Il Frelimo, nelle elezioni libere tenute negli anni successivi si confermò sempre il primo partito del Mozambico.

Mpla/Unita

In Angola la situazione era abbastanza simile. Il Movimento per la liberazione dell’Angola, che lottò con determinazione contro i colonizzatori portoghesi, ottenendo l’indipendenza nel 1975, portò il paese nell’orbita sovietica e instaurò un regime totalitario. Di contro il blocco occidentale, per far valere i suoi interessi, sosteneva un gruppo di ribelli sotto il nome di Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola.
Da questo scontro iniziò una guerra civile durata oltre un ventennio al termine della quale vennero firmati gli accordi di pace che portarono alle prime elezioni nel 1992. Le ostilità, tuttavia, continuarono e terminarono solo dopo l’uccisione del leader dell’Unita, Jonas Savimbi, nel 2002. Il paese, dall’indipendenza è sempre stato governato dall’Mpla e l’Unita ha sempre svolto un ruolo di opposizione. Ma il padre della patria, Eduardo dos Santos, si è trasformato presto in un cleptocrate, governando il paese con pugno di ferro fino al 2017.

Il passaggio dalla geopolitica alla geoeconomia

In Mozambico e Angola i regimi, riformati, sono sopravvissuti, mentre in Etiopia, nel 1991, Menghistu, soprannominato il “Negus rosso”, viene estromesso dal potere.

Mandela/Mobutu

Proprio in quegli anni anche il Sudafrica è costretto a riformarsi ed è nel contesto della fine della Guerra Fredda che cade l’apartheid, che porta alle prime elezioni multirazziali del 1994 e la Namibia trova l’indipendenza. Anche gli interessi degli Stati Uniti per l’Africa cambiano di conseguenza, meno legati alla geopolitica e più all’economia. Il loro grande alleato nell’Africa centrale, Mobuto Sese Seko, dittatore dello Zaire, è costretto ad aprire il sistema politico e cedere, su pressione degli Stati Uniti, al multipartitismo. Soluzione che non porta alcun beneficio al paese, perché è sempre il dittatore che muove i fili, ma il paese crolla nel giro di pochi anni e si apre una fase di guerra permanente.

La perestroika africana

Benin, Congo, Mali, Niger…

Nel mondo francofono, sempre in quegli anni, soffia un vento di libertà. Era l’epoca delle Conferenze nazionali che avevano lo scopo di creare un clima democratico con la partecipazione di tutti. Il Benin fu il precursore nel 1990, il marxista Mathieu Keredoku fu sconfitto alle elezioni e si ritirò. Ma non andò così nella Repubblica del Congo, dove il presidente di allora, Denis Sassou Nguesso, continua a governare il paese. Fasi alterne vivono i paesi come il Mali, il Niger. Ma hanno una caratteristica comune: sono regimi poco democratici e accentratori del potere. La “perestrojka africana” che si poteva leggere tra le righe delle Conferenze nazionali non ha mai attecchito, anche se aveva suscitato molte speranze nelle popolazioni di questi paesi.

Rimane, tuttavia, il fatto che Gorbačëv si era adoperato per porre fine al mondo bipolare in cui l’Africa era alla mercè del gioco strategico di Washington e Mosca.

Secondo lo scrittore Vladimir Fedorovski, molto vicino all’ultimo leader sovietico, ai paesi africani mancherà il suo messaggio a favore di un mondo equilibrato: «Aveva un grande rispetto per il continente africano, che considerava il continente del futuro. Gorbačëv diceva che bisognava tener conto degli interessi delle diverse nazioni e trovare equilibri, e anche e forse essere prima di tutto africani. Sprecheremo somme da capogiro per la guerra, dimenticando che l’Africa è minacciata dalla carestia».

I primi a dimenticarsi delle parole di Gorbačëv sono stati proprio quei presidenti africani che si ispiravano all’Unione Sovietica. La Guerra Fredda non c’era più, ma le contrapposizioni rimangono e diventano sempre più complesse. Da una parte il mondo occidentale che cerca di frenare le aspirazioni di Mosca che, piano piano, sta rosicchiando pezzi di influenza occidentale. Il messaggio di Gorbačëv vale ancora oggi.

Dal 24 al 27 luglio, il ministro degli Esteri della Federazione russa, Sergej Lavrov, ha visitato quattro stati africani: Egitto, Repubblica del Congo, Uganda ed Etiopia. Non ha parlato di progetti o interventi. La sua missione era chiedere agli africani di schierarsi con la Russia contro l’Occidente, con un unico argomento: l’Occidente ha un passato coloniale e ha tuttora delle mire coloniali e imperiali.

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La crisi dissolve il voto tribale e la stabilità del Kenya? https://ogzero.org/la-crisi-dissolve-il-voto-tribale-e-la-stabilita-del-kenya/ Fri, 05 Aug 2022 14:46:33 +0000 https://ogzero.org/?p=8425 Il passaggio elettorale che il 9 agosto attende il Kenya è ancora un voto tribale che capita in uno snodo epocale manifestatosi come tempesta perfetta. Dopo una pandemia, che in Africa ha moltiplicato i suoi effetti per la carenza dei servizi; seguita da una guerra lontana, che ha ripercussioni peggiori di quelle nel medesimo Corno […]

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Il passaggio elettorale che il 9 agosto attende il Kenya è ancora un voto tribale che capita in uno snodo epocale manifestatosi come tempesta perfetta. Dopo una pandemia, che in Africa ha moltiplicato i suoi effetti per la carenza dei servizi; seguita da una guerra lontana, che ha ripercussioni peggiori di quelle nel medesimo Corno d’Africa per la carestia che provoca – con il corredo di shabab che destabilizzano l’intera area; una siccità devastante che sta prostrando il paese. Forse tutto questo può provocare un cambiamento nel sistema del voto tribale che da sempre regola gli equilibri di potere nel paese africano tra i più sviluppati di quelli che si affacciano sull’Oceano Indiano. Riprendiamo per questo il bell’articolo pubblicato sull’Agi da Angelo Ferrari, che è il responsabile della parte africana della nostra collana sulle città e che ha voluto fortemente che Freddie Del Curatolo scrivesse il volume dedicato a Nairobi.    


Gli schieramenti del voto tribale

Mancano pochi giorni alle elezioni presidenziali del 9 agosto in Kenya. La campagna elettorale, tuttavia, si è svolta in un clima di apatia, di disillusione politica e, soprattutto, è stata segnata dalla crisi economica e dall’elevato costo della vita con un’impennata dei prezzi dei generi di prima necessità; mettendo da parte il fattore etnico da sempre determinante nelle elezioni.
Quattro sono i candidati in corsa per la presidenza – in Kenya si voterà anche per le legislative – tra cui il vicepresidente William Ruto e Raila Odinga, ex leader dell’opposizione e ora sostenuto dal presidente uscente Uhuru Kenyatta. A contendersi la poltrona più alta del paese anche gli avvocati David Mwaure e George Wajackoyah – una eccentrica ex spia che vuole legalizzare la cannabis – con pochissime chance di vittoria. Le elezioni si prospettano come un serrato duello tra Ruto e Odinga. Chi vincerà? È difficile dirlo, sembra quasi demandato a un lancio di monetina: tutto si giocherà all’ultimo voto.

Oligarchie e loro interrelazioni malate alle urne

I due favoriti, i cui ritratti campeggiano su enormi cartelloni pubblicitari in tutto il paese, sono volti noti ai keniani. Odinga, 77 anni, è un veterano della lotta democratica, che ha vissuto il carcere prima di diventare primo ministro (2008-2013); si candida alla presidenza per la quinta volta. Ruto, 55 anni, ha ricoperto la carica di vicepresidente per quasi un decennio come delfino del presidente in carica Kenyatta, che lo aveva designato come suo successore. Ma le cose sono poi andate diversamente: un’alleanza inaspettata tra Kenyatta e Odinga lo ha messo da parte già nel 2018. Con un capovolgimento della politica keniana, del resto molto versatile, Odinga è diventato il candidato del presidente uscente; Ruto, da membro del potere, si è trovato a sfidarlo.

«“Evitate di eleggere un ladro”, ha affermato Kenyatta riferendosi chiaramente, pur senza nominarlo, a Ruto. “Non voglio sentirvi piangere e avere rimorsi di coscienza. Ci sono persone che raccontano storie simpatiche, sono dolci come il miele e sanno essere convincenti, ma sono veleno”» (“AfricaRivista”).

Comunque vadano le elezioni si aprirà una nuova pagina dopo oltre vent’anni di presidenze Kikuyu, la prima e molto influente etnia del paese. Infatti Odinga è un Luo e Ruto un Kalenjin, come sentiamo da Freddie Del Curatolo in questo duetto radiofonico con Angelo Ferrar, avvenuto sulle frequenze di Radio Blackout.

Percentuali di tribalità e affarismo sulla bilancia elettorale keniota

Un sistema corrotto, populista ed elitario

La politica keniana degli ultimi anni è stata segnata da manovre di palazzo che non hanno fatto altro che accrescere la disaffezione della popolazione nei confronti della politica. È aumentata l’apatia soprattutto tra i giovani che hanno risposto con meno entusiasmo all’iscrizione nelle liste elettorali. I 22,1 milioni di elettori iscritti dovranno votare per il presidente, ma anche per i parlamentari, i governatori e per circa 1500 funzionari locali elettivi.
C’è disillusione e sono in molti coloro che pensano che la politica non risolverà i problemi della gente, chiunque verrà eletto farà le stesse scelte del suo predecessore. E poi c’è un paese afflitto dalla corruzione che è diventata endemica. Odinga nella sua campagna elettorale ha proprio dato la priorità alla lotta a questo flagello, nominando come vicepresidente l’ex ministro Martha Karu, ritenuta una donna inflessibile proprio sul tema della corruzione, e denunciando i procedimenti legali contro il compagno di corsa di Ruto, Rigathi Gachagua.
Lo sfidante di Odinga ha impostato tutta la campagna elettorale ergendosi a paladino del popolo, promettendo aiuti e lavoro quando tre keniani su dieci vivono con meno di 2 dollari al giorno, secondo la Banca Mondiale…

… e il Fmi “supporta” la crisi

A tenere banco, però, in questa campagna elettorale, è stato il tema del potere di acquisto e la crescita drammatica dei prezzi dei generi di prima necessità.

Eastleigh, Nairobi

Nairobi, Eastleigh in uno scatto di Leni Frau

Un fattore destabilizzante per il Kenya, locomotiva economica dell’Africa orientale, scossa prima dalle conseguenze della pandemia da Covid, poi dalla guerra in Ucraina e infine da una grave siccità che non si vedeva da 40 anni. E a pagarne le conseguenze sono tutti: la gente che acquista sempre meno e i commercianti frustrati dall’innalzamento dei prezzi dei generi alimentari. In questo contesto la questione economica potrebbe soppiantare il voto tribale, da sempre fattore chiave presente nelle cabine elettorali.

Tè, caffè; parchi, spiagge… golf e slum

Nonostante ciò il Kenya è da sempre una delle economie più dinamiche dell’Africa orientale e si è sempre preso cura della sua immagine di hub regionale. Il suo profilo è atipico in Africa: relativamente poche risorse naturali ma un notevole dinamismo economico, in particolare nel settore dei servizi. L’agricoltura è anche uno dei suoi pilastri (22% del Pil) e la principale fonte di esportazione (tè, caffè, fiori). Dopo un calo dello 0,3% correlato alla pandemia del 2020, l’economia del Kenya ha iniziato a riprendersi nel 2021.
Un altro fattore determinante è il turismo, grazie alla cinquantina tra parchi e riserve naturali e alle coste dalle acque cristalline dell’oceano Indiano, che hanno attratto, nel 2021, circa 1,5 milioni di visitatori e che sta crescendo nell’anno in corso. Ma i prezzi del carburante e del cibo sono aumentati vertiginosamente negli ultimi mesi, in particolare quello della farina di mais – cibo base – alimentando così la frustrazione in un paese afflitto dalla corruzione endemica.

Grafico della corruzione percepita nel periodo 2012-2021 in Kenya

Nel 2021 il Kenya è stato classificato al 128esimo posto su 180 paesi da Trasparency International. Le diseguaglianze, inoltre, sono evidenti in Kenya, dove i campi da golf e gli slum possono essere adiacenti e dove il salario minimo mensile è di 15.120 scellini (124 euro). Secondo la ong Oxfam, il patrimonio dei due keniani più ricchi è maggiore del reddito combinato del 30% della popolazione, ovvero 16,5 milioni di persone.

L’impianto tribale di una nazione giovane

La popolazione di circa 50 milioni di persone è per lo più giovane e cristiana. Degli oltre 40 gruppi etnici, i Kikuyu sono il gruppo più numeroso, davanti ai Luhya, ai Kalenjin e ai Luo. Il fattore etnico da sempre gioca un ruolo fondamentale nello stampo elettorale del voto tribale, ma è anche stato un fattore destabilizzante. Sono trascorsi, infatti, quindici anni dalle violenze postelettorali del 2007-2008 che hanno provocato più di 1100 morti, principalmente negli scontri da Kikuyu e Kalenjin. Una ferita mai rimarginata che pesa ancora oggi.

Fotografia del voto tribale: ogni centimetro è coperto dai cartelloni elettorali nel 2017 nella Contea di Nanok, zona Masai

Nel 2017, la contestazione dei risultati elettorali da parte di Odinga ha provocato una severa repressione delle manifestazioni da parte della polizia che ha provocato decine di morti. I risultati elettorali, negli ultimi vent’anni, sono sempre stati contestati, anche davanti alla Corte Suprema nel 2013 e nel 2017, queste ultime presidenziali sono state annullate per “irregolarità” – una prima volta in Africa – e Kenyatta è stato eletto con un nuovo scrutinio.

Lo spettro di possibili violenze incombe anche su queste elezioni presidenziali. La Commissione nazionale per la coesione e l’integrità, un organismo di promozione della pace creato dopo le violenze del 2007-2008, ha stimato in un recente rapporto che la probabilità di violenze nel periodo elettorale è del 53%. L’augurio è che dentro le urne non prevalga il fattore etnico, ma la volontà di rendere stabile la democrazia in Kenya.

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Nord Kivu: la tregua tra Ruanda e Congo resuscita l’M23 https://ogzero.org/nord-kivu-la-tregua-tra-ruanda-e-congo-resuscita-lm23/ Thu, 14 Jul 2022 10:52:21 +0000 https://ogzero.org/?p=8201 La distrazione globale derivata dalla guerra in Europa nasconde ancora di più tensioni, conflitti esplosi o quasi, guerre prolungate e seriali. Lo scontro in Nord Kivu è tra i più annosi e coinvolge diversi interessi, in particolare quelli tra comunità che si contendono interessi e sfruttamento delle risorse della regione. I due protagonisti di questa […]

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La distrazione globale derivata dalla guerra in Europa nasconde ancora di più tensioni, conflitti esplosi o quasi, guerre prolungate e seriali. Lo scontro in Nord Kivu è tra i più annosi e coinvolge diversi interessi, in particolare quelli tra comunità che si contendono interessi e sfruttamento delle risorse della regione. I due protagonisti di questa disputa abitano a Kigali e Kinshasa; si sono scatenate guerre, massacri, sfruttamenti e il controllo di miniere maledette di metalli preziosi legittima il perdurare delle tensioni, che richiedono la presenza di antagonisti, conosciuti e riconoscibili. Il movimento M23 nelle province nordorientali della Repubblica democratica del Congo serve per evitare che sui Grandi Laghi scenda il livello di scontro; un Movimento che si muove sempre più come un esercito regolare con la stessa potenza di fuoco, come sottolinea “Nigrizia”. Angelo Ferrari, contestualizzando gli eventi e segnalando il ruolo autonomo di M23 come attore in commedia, ha scritto per l’agenzia Agi questa breve nota che riprendiamo, lasciando immaginare l’incertezza come sistema per perpetuare lo scontro… e gli affari. 


Cosa sta succedendo nel Nordest della Repubblica democratica del Congo?

Ma, soprattutto, a cosa è servito l’incontro del 6 luglio a Luanda tra il presidente congolese, Felix Tshisekedi e quello ruandese, Paul Kagame, mediato dal loro omologo angolano, João Lourenço? Probabilmente a nulla.
I tre dovevano trovare una soluzione alle crescenti tensioni tra Congo e Ruanda che si sono acuite con l’intensificarsi delle attività nel Nord Kivu del gruppo ribelle M23, che si riteneva sconfitto dal 2013, ma che ha ripreso le sue attività provocando decine di vittime e migliaia di sfollati. Kinshasa sostiene che i ribelli siano sostenuti dal Ruanda, quasi una longa manus di Kigali che, invece, nega in maniera decisa.
Smentite che non hanno fatto calare la tensione che, anzi, si è riaccesa dopo l’annuncio del 13 giugno scorso da parte delle Forze armate della Repubblica del Congo (Fardc) che hanno parlato di «un’occupazione della città di confine di Bunagana» da parte delle Forze di difesa del Ruanda (Rdf). A dimostrazione che non si tratta solo di una disputa tra diplomazie ci sono le manifestazioni della popolazione a Goma: una vera e propria rivolta, una marcia verso il confine con il Ruanda al grido “dateci le armi che sconfiggeremo il nemico”, cioè Kigali. Manifestazioni che sono state sedate dalle forze di polizia del Congo.

Nord Kivu

Cessate il fuoco in Nord Kivu: fare la tregua senza l’oste

I tre presidenti, il 6 luglio, si erano accordati per un “cessate il fuoco”, annunciato in pompa magna dal capo di stato angolano e mediatore tra le parti.

«Sono felice di annunciare che abbiamo compiuto progressi, dal momento che abbiamo concordato un cessate il fuoco», ha detto pomposamente Lourenço.

Il presidente del Congo e quello del Ruanda, dal canto loro, avrebbero anche deciso di «creare un meccanismo di monitoraggio ad hoc», che sarà guidato da un ufficiale dell’esercito angolano. La tensione tra i due paesi è “inutile”, ha spiegato Tshisekedi, perché «costituisce un fattore destabilizzante e non contribuisce allo sviluppo e al benessere dei rispettivi popoli». Kagame, dal canto suo ha ritenuto “soddisfacenti” i risultati del vertice di Luanda che prevede, tra l’altro, l’immediata cessazione delle ostilità e il ritiro immediato e incondizionato dell’M23 dalle sue posizioni.

Il giorno dopo il vertice arrivano le dichiarazioni dell’M23, una doccia fredda sugli accordi. Il portavoce del movimento ribelle, Willy Ngoma, spiega che «l’accordo non coinvolge l’M23. Siamo congolesi, non ruandesi. Se c’è un cessate il fuoco, può essere solo tra noi e il governo congolese, non abbiamo niente a che fare con il Ruanda. Ci viene chiesto di partire da qui, ma per andare dove? È impossibile».

Probabilmente a Luanda si sono dimenticati di invitare il terzo attore delle tensioni in Nord Kivu, oppure credono davvero che i ribelli in questione siano realmente sostenuti da Kagame. Non è una questione da poco. L’M23 è un gruppo ribelle a maggioranza tutsi – la stessa etnia che ha le redini del potere a Kigali – che ha ripreso le ostilità alla fine dell’anno scorso, accusando Kinshasa di non aver rispettato gli accordi sulla smobilitazione e il reinserimento dei suoi combattenti.

Ascolta “Nord Kivu: la consuetudine alla guerra” su Spreaker.

Ma la trama si infittisce

Nessun accordo, nessun cessate il fuoco ma solo una tabella di marcia comune “con obiettivi e attività chiari”, in vista del prossimo vertice a Luanda. Così il 12 luglio il governo di Kigali ha ufficialmente smentito la firma o un qualsiasi accordo di cessate il fuoco nell’Est della Repubblica democratica del Congo, come invece annunciato il 6 luglio. La smentita è stata diffusa dal ministro ruandese degli Esteri e della Cooperazione, Vincent Biruta, che ha poi aggiunto che la «disinformazione e il populismo stanno minando l’obiettivo generale di raggiungere la pace» nella Repubblica democratica del Congo.

Nord Kivu: tutto da rifare?

Pare proprio di sì.
Le schermaglie diplomatiche si aggiungono a quelle sul campo e non fanno altro che surriscaldare gli animi. La contesa armata tra Fardc e M23 continua e a farne le spese, come sempre, la popolazione che si trova tra due fuochi, senza comprenderne bene la ragione, sa solo che deve fuggire dalle proprie case; e sono già 170.000 i profughi di questo ritorno di fiamma del conflitto. Il Nord Kivu continua a essere teatro di scontri e delle scorribande di gruppi armati, ribelli o no che siano, da ormai 25 anni e il governo congolese non riesce a governare il territorio dove ha decretato, l’anno scorso, lo stato di emergenza che consente all’esercito pieni poteri e libertà di azione, con risultati, tuttavia, molto scarsi ed è comprensibile visto che neanche i tre presidenti, quello congolese, quello ruandese e quello angolano, riescono a concordare una dichiarazione comune.

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Mediterranean Shield: espansione Nato a sud https://ogzero.org/mediterranean-shield-espansione-nato-a-sud/ Fri, 08 Jul 2022 08:05:03 +0000 https://ogzero.org/?p=8103 Riprendiamo due articoli scritti da Angelo Ferrari per l’agenzia Agi correlati alla corsa al controllo del territorio saheliano, a partire dall’esigenza di contrastare l’avanzata di potenze coloniali alternative a quelle occidentali con la perentoria reazione di un’espansione Nato in epoca globalizzata: la sua estensione oltre le sponde meridionali del Mediterraneo attraverso accordi con potenze locali […]

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Riprendiamo due articoli scritti da Angelo Ferrari per l’agenzia Agi correlati alla corsa al controllo del territorio saheliano, a partire dall’esigenza di contrastare l’avanzata di potenze coloniali alternative a quelle occidentali con la perentoria reazione di un’espansione Nato in epoca globalizzata: la sua estensione oltre le sponde meridionali del Mediterraneo attraverso accordi con potenze locali a fungere da satrapi ma sotto l’egida di un’alleanza che si estende sull’intero pianeta. Il vecchio approccio francese che fino a pochi mesi fa non poteva immaginare qualunque forma di autonomia locale va cestinato e ripensato completamente. Ma da nuovi protagonisti. 


Lo Scudo Nato a Sud

La Nato volge il suo sguardo anche a sud del Mediterraneo, in particolare verso il Sahel. E questa sembrerebbe una novità se non fosse che già nel passato la Nato è intervenuta nella gestione delle crisi su richiesta dell’Unione Africana (Ua). L’esordio è del 2005 quando, con l’acuirsi della crisi del Darfur, la Nato ha accolto la richiesta della Ua di supportare la sua missione di peacekeeping in Sudan. Poi nel 2009 la richiesta, sempre da parte della Ua di sostenere la missione in Somalia. Poi nel 2009 con l’operazione “Ocean Shield” per la lotta contro la pirateria nel Corno d’Africa. Per non dimenticare ciò che è successo in Libia a partire dal 2011. Sono solo alcuni esempi.

Con l’ultimo vertice della Nato a Madrid, che ha ridisegnato la postura dell’Allenza a livello globale puntando con più forza alla deterrenza e alla difesa collettiva, resta l’impegno verso la prevenzione e la gestione delle crisi con un focus significativo sul Nordafrica e il Sahel. Di sicuro l’Italia può dirsi soddisfatta del linguaggio usato nel nuovo Concetto strategico – come scrive su “Affarinternazionali.it”, Elio Calcagno – rispetto a una regione di primario interesse per il paese. Tuttavia il capitale politico, militare ed economico dell’Allenza verrà inevitabilmente incanalato verso est e verso la minaccia russa. L’Italia, dunque, dovrà giocare un ruolo più propositivo e concreto sul fianco sud in ambito Nato di quanto abbia fatto fino a oggi. Roma non può permettersi di stare a guardare e non può essere uno spettatore passivo come in Libia.

Necessari nuovi approcci alle crisi nelle marcoaree

La gestione e la prevenzione delle crisi, in particolare nel Sahel, dovranno necessariamente passare attraverso una “richiesta” dell’Unione africana e il consenso dei paesi coinvolti. E visto il clima antioccidentale che regna in questa regione dell’Africa è abbastanza complesso che i governi saheliani si affidino all’Alleanza per risolvere le crisi interne, senza dimenticare, poi, la forte presenza della Russia in quell’area.

Detta in parole povere la lotta al terrorismo nel Sahel non può essere camuffata come deterrenza nei confronti della minaccia russa. Insomma, i paesi dell’area saheliana hanno dimostrato, finora, di privilegiare il rapporto con Mosca. Un esempio eclatante è il ritiro dal Mali dei francesi con l’operazione Barkhane e di quella europea Takuba. Un bel rompicapo.

Soldati dell’operazione Barkhane in Mali (foto Fred Marie / Shutterstock)

Fino ad ora tutto è sulla carta ma alcune fughe in avanti di qualche ministro degli Esteri europeo, fanno già discutere nel Sahel. In particolare in Mali dove l’ambasciatore spagnolo a Bamako, Romero Gomez, è stato convocato dal ministro degli Esteri maliano, Abdoulaye Diop, dopo le parole del suo omologo spagnolo, Manuel Alvares che in una dichiarazione non escludeva un possibile intervento della Nato in Mali.

Diop non le ha mandate a dire e in un’intervista ha spiegato: «Oggi abbiamo convocato l’ambasciatore spagnolo per sollevare una forte protesta contro queste affermazioni. L’espansione del terrorismo nel Sahel è principalmente legata all’intervento della Nato in Libia, le cui conseguenze stiamo ancora pagando».

Parole dure, ma Diop non si ferma qui, ha infatti definito le affermazioni del suo omologo spagnolo “ostili, gravi e inaccettabili”, perché «tendono a incoraggiare l’aggressione contro un paese indipendente e sovrano». L’ambasciata spagnola, in un tweet, ha cercato di smorzare i toni spiegando che la «Spagna non ha richiesto, durante il vertice della Nato o in un qualsiasi altro momento, un intervento, una missione o qualsiasi azione dell’Alleanza in Mali». L’occidente dovrà abituarsi a questa ostilità che, in parte, è persino giustificata dalle missioni militari francesi ed europee nell’area.

Secondo il direttore del Centro studi sulla sicurezza dell’Istituto francese di relazioni internazionali (Ifri), Elie Tenenbaum, la Francia, ma anche l’Occidente nel suo insieme, deve “pensare” una nuova strategia, perché attualmente la «dinamica strategica produce l’opposto di ciò che si è prefissa». L’analista sostiene che i tentativi di entrare in partenariato con gli attori locali ha prodotto attriti – il Mali ne è un esempio –: i francesi hanno cercato di arginare il deterioramento della sicurezza in Sahel ma non ci sono riusciti. Nel difendere i propri interessi la Francia non ha fatto altro che alimentare un sentimento antifrancese.

Ma il problema su tutti è quello di avere trascurato le ambizioni russe, turche e cinesi

Attori nello scacchiere africano molto più spregiudicati e soprattutto meno interessati alle politiche interne dei paesi con cui diventano partner. La Francia, invece, non ha fatto altro che continuare, anche “sottobanco”, a determinare le politiche interne delle ex colonie, a “scegliere” chi di volta in volta avrebbe governato. Insomma, un’ingerenza inizialmente mal sopportata e ora totalmente avversata da buona parte delle popolazioni saheliane, certo con gradazioni diverse, ma pur sempre penetrante.

È chiaro che l’occidente dovrà ripensare completamente la sua strategia globale nel Sahel e nell’Africa occidentale se non vuole essere “sfrattato”. Ciò lo chiedono anche le opinioni pubbliche, in particolare quella francese, che cominciano a non capire più le politiche postcoloniali della Francia e quelle dell’Europa che sembra avere come unico obiettivo quello di spostare sempre più a sud il confine del Mediterraneo per arginare i flussi migratori.

Parigi vs Mosca in Françafrique

In Niger per rendere meno urticante la presenza francese in Sahel

La Francia cambia strategia nel Sahel, almeno ci prova. Dopo il ritiro dal Mali, che dovrebbe completarsi entro l’estate, Parigi trasferisce la sua presenza in Niger, paese diventato strategico per tutta la comunità occidentale. La sfida di Parigi è quella di mantenere una presenza nell’area per non vanificare la sua influenza storica, anche se è ormai messa a repentaglio da un sentimento antifrancese diffuso e alimentato ad arte dalla Russia, che esprime nella regione una politica molto aggressiva.

Dunque, un cambio di passo. L’esercito francese intende intervenire a “sostegno” e non più in sostituzione degli eserciti locali. Ma questo dipenderà, soprattutto, dalla volontà degli stati africani. Sono frenetiche le consultazioni e gli scambi tra capitali saheliane, Parigi e le capitali europee. Francesi ed europei si stanno muovendo in direzione di una maggiore cooperazione a seconda delle richieste dei paesi africani.

Dopo lo schiaffo maliano, Parigi intende operare non più da “protagonista” ma in seconda linea. Un modo per ridurre la visibilità della sua azione che finora ha dimostrato di essere un “irritante” per le opinioni pubbliche africane, ma di certo manterrà una presenza nella regione di influenza storica. L’attenzione si concentrerà in Niger, nuovo partner privilegiato, dove i francesi manterranno una presenza con circa mille uomini e capacità aeree. Quindi verrà avviato un partenariato strategico spiegato dal comandante del quartier generale, Hervé Pierre:

«Oggi invertiamo completamente il rapporto di partnership: è il partner che decide cosa vuole fare, le capacità di cui ha bisogno e controlla lui stesso le operazioni svolte con il nostro supporto. È il modo migliore per continuare ad agire efficacemente al loro fianco».

L’obiettivo di Parigi sarebbe quello di non irritare i partner e operare con discrezione, ma occorre anche sottolineare una mancanza di direttive chiare dell’esecutivo francese sulla prosecuzione delle operazioni. Si attendono “ordini” dalla politica in un quadro interno, dopo le legislative, molto complicato. L’opinione pubblica d’oltralpe non comprende più la politica postcoloniale della Francia.

Ciad, Burkina e sospettosamente il Golfo

Il quartier generale francese dell’operazione che succederà all’estinta Barkhane sarà mantenuto, per il momento, a N’Djamena, in Ciad, con cui la Francia ha un accordo di difesa. Ma la sua forza lavoro sarà ridotta. Per quando riguarda il Burkina Faso, dove altri civili sono stati uccisi per mano dei jihadisti nel fine settimana, sta ricevendo l’aiuto francese ma rimane perplesso sul fatto di una intensificazione della presenza sul terreno. Anche qui la propaganda antifrancese, ma soprattutto il sentimento che ne deriva, hanno attecchito molto bene.
Oltre a contribuire a contenere la violenza jihadista che minaccia di diffondersi nel Golfo di Guinea, la sfida per Parigi nel mantenere una sua presenza militare è quella di evitare un declassamento strategico, in un momento di accresciuta competizione sulla scena internazionale. In Africa occidentale i russi stanno perseguendo una strategia di influenza aggressiva, anche attraverso massicce campagne di disinformazione antifrancesi.

Le mosse Wagner

L’intelligence, infatti, sta monitorando gli attacchi compiuti da Wagner sui i social network che hanno superato i confini del Mali, e si stanno diffondendo in Africa. Un’ossessione francese? Non proprio, perché Mosca è riuscita a strappare all’impero d’oltralpe il Mali, si appresta a fare altrettanto in Burkina Faso, la Repubblica Centrafricana è saldamente nelle mani dei russi, e si stanno moltiplicando gli accordi militari con molti stati dell’area. Una penetrazione, tuttavia, che non è dell’ultima ora. È tempo che i russi stanno cercando di tornare ad avere un ruolo decisivo e strategico in Africa, dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, consapevoli che non hanno molto da offrire sul piano commerciale ed economico, ma su quello militare e degli armamenti sì.

L’irritazione di Parigi è evidente. I nervi sono scoperti e lo chiarisce bene, in un’intervista a Radio France International, l’attuale comandante dell’operazione Barkhane, il generale Laurent Michon:

«La manipolazione della popolazione esiste, si diffondono enormi bugie sul fatto che armiamo gruppi terroristici, rapiamo bambini, lasciamo fosse comuni. È facile fare da capro espiatorio a persone che stanno attraversando situazioni umanitarie e di sicurezza estremamente difficili. C’è stata una manovra di disinformazione sulle reti, con mercenari Wagner che seppellivano cadaveri a Gossi, per accusare i francesi. Per la prima volta l’esercito francese ha deciso di spiegare come si fanno le cose nella vita reale, declassificando e mostrando le immagini dei droni. Vivono nel paese (i Wagner, N. d. A.), depredano, commettono abusi, hanno le mani sull’apparato di comando dell’esercito maliano e fanno le cose alle spalle dei leader. La reazione migliore è rispettare i nostri valori, essere chiari su ciò che stiamo facendo e lasciare che i giornalisti africani ed europei vengano a vedere, fare qualche verifica sui fatti. L’arma migliore è l’informazione verificata e sottoposta a controlli incrociati».

Approccio militare o cooperazione: il dilemma dell’Eliseo

La confusione regna sovrana e Parigi, anche senza ammetterlo, si rende conto che un declassamento strategico è in atto, ciò che si chiede è se è un fatto inesorabile oppure si possono, ancora, recuperare posizioni e, soprattutto mantenere una presenza che salvaguardi i propri interessi. L’operazione Barkhane, per essere gentili, è stata un fallimento. La Francia, invece, dovrebbe chiedersi se la strategia militare, che prevale su quella della cooperazione allo sviluppo, sia vincente.

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La strategia del grano https://ogzero.org/la-strategia-del-grano/ Fri, 10 Jun 2022 16:01:50 +0000 https://ogzero.org/?p=7867 Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento […]

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Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento prima del 24 febbraio e che sono periodiche le rivolte del pane (anche dopo il 2011 delle Primavere arabe).
La guerra è stata solo il la ciliegina su una torta immangiabile per i 20 milioni di potenziali morti per fame che la contingenza può creare e i due autocrati di Astana si stanno mettendo d’accordo anche in questo caso per spartirsi guadagni e prestigio nei paesi africani sbloccando la situazione del Mar Nero con il blocco delle tonnellate di grano ammassato nei silos ucraini che rappresentano comunque soltanto l’8 per cento del prodotto annuale mondiale. Un’arma ibrida come le bombe di migranti gettate ai confini, che si produrranno anche attraverso questa nuova fame indotta dalla guerra sarmatica. Ma non solo: esistono infinite esponenziali conseguenze al conflitto (e allo scellerato agribusiness, all’intollerabile landgrabbing, allo sfruttamento coloniale, che hanno preparato il terreno alla fame globale) che portano alle scelte strategiche dei singoli stati vincolati in qualche modo ai prodotti russi (per esempio il Brasile) e il ritorno d’immagine per i popoli affamati d’Africa che si troveranno a ringraziare i garanti russo-turchi delle forniture alimentari di cui sono responsabili per l’improvvisa carenza; senza contare la stagflazione ormai globale e l’indebitamento generalizzato.
Per questo riprendiamo, con l’accordo dell’autore – che ringraziamo –, un pezzo di Angelo Ferrari scritto per l’Agi sul ritorno delle mosse russo-turche nei paesi africani a rischio di carestia per la carenza di approvvigionamenti di cereali, a cui alleghiamo il podcast di un intervento di Alfredo Somoza su Radio Blackout a proposito delle cause globali della carestia.


La guerra del grano deve essere risolta nel più breve tempo possibile e vincerla non è solo una questione di “buon cuore”, ma anche strategica. I numeri dimostrano che la carestia potrebbe colpire oltre 400 milioni di persone. A questi si debbono aggiungere tutti coloro che vivono con gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite. Il Corno d’Africa e gran parte del Sahel si apprestano ad affrontare una carestia senza precedenti (Human rights watch) che, indubbiamente, sarà aggravata dalla guerra in Ucraina. Sbloccare centinaia di milioni di tonnellate di grano nei silos nei porti ucraini è dunque una priorità per scongiurare una catastrofe umanitaria che avrà ripercussioni globali che potrebbero durare anni. Molto attivi su questo fronte sono i turchi e i russi, anche se un accordo chiaro che garantisca tutti, in primo luogo gli ucraini, sembra lontano dall’essere siglato.

La penetrazione russa

La Russia, come stiamo vedendo in questi giorni, ha tutto l’interesse a scaricare sull’Occidente la responsabilità di una possibile crisi alimentare globale. Un interesse che non deve stupire. Di sicuro, come è già avvenuto, farà partire le sue navi cariche di grano dai porti ucraini conquistati sul mar d’Azov. Grano rubato, secondo gli ucraini. Grano di loro proprietà secondo Mosca. Al di là di chi abbia ragione questa è la realtà. Le navi hanno fatto rotta verso l’Africa dove la presenza russa si fa sempre più penetrante.
Il caso del Mali, nel Sahel, è l’aspetto più eclatante. È riuscita a “cacciare” la Francia da un’ex colonia. Poi c’è la Repubblica Centrafricana, anch’essa ex colonia francese. Qui la presenza russa è ancora più evidente. Senza dimenticare il Burkina Faso e ancora i recenti accordi militari e di sicurezza tra il Camerun e Mosca. Nel mirino di Putin c’è anche il Ciad, dove nella capitale N’Djamena ci sono state manifestazioni antifrancesi molto violente. Il sentimento antifrancese e antioccidentale sta dilagando in gran parte del Sahel e Mosca lo cavalca e incoraggia abilmente.

L’attivismo turco

Dall’altra parte del tavolo negoziale c’è la Turchia, il sultano Recep Erdoğan, che non fa nulla senza che ne abbia un tornaconto significativo. Anche Ankara ha interessi diffusi in Africa. Oramai è un po’ ovunque, ha stretto accordi commerciali, di fornitura di armi, ma anche si sta impegnando molto sul fronte dell’aiuto alimentare, come in Somalia. La forza della Turchia in Africa è assai maggiore di quella russa. Dal 2004 Erdoğan ha fatto più di 50 viaggi nel continente africano e visitato oltre 30 nazioni. Solo nell’ottobre del 2021 il capo di stato turco ha visitato Angola, Nigeria e Togo e nello stesso mese, Istanbul ha ospitato leader aziendali e dozzine di ministri degli stati africani per un vertice volto specificatamente ad aumentare il commercio. Nei primi mesi del 2021 il commercio bilaterale Turchia-Africa ha raggiunto i 30 miliardi di dollari e l’obiettivo della Turchia è di aumentarlo ad almeno 50-75 miliardi di dollari nei prossimi anni. Inoltre circa 25.000 lavoratori africani sono attualmente impiegati nel continente da aziende turche in progetti del valore di 78 miliardi di dollari e più di 14.000 studenti africani hanno studiato in Turchia. Il numero degli ambasciatori turchi distaccati nel continente è passato dai 12 del 2005 ai 43 nel 2021, mentre il numero degli ambasciatori africani ad Ankara è passato da 10 a 37. «Miriamo ad aumentare il numero dei nostri ambasciatori fino a 49», ha detto Erdoğan, affermando che il vertice di Istanbul ha dato luogo a sessioni congiunte a livello ministeriale nei settori della sanità, dell’istruzione, dell’agricoltura e della difesa. Turkish Airlines vola verso 61 destinazioni in Africa, l’Agenzia turca di cooperazione e coordinamento (Tika) ha 22 uffici locali, la Fondazione Maarif gestisce 175 scuole in 16 paesi e la presidenza dei turchi all’estero e delle comunità correlate offre borse di studio a oltre 5000 studenti africani. Una potenza di fuoco enorme che ha anche lo scopo di ottenere il sostegno africano per un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.Per Ankara, dunque, arrivare a una soluzione negoziata sul grano ucraino sarebbe un grande successo e rafforzerebbe i legami già molto stretti con l’intero continente. Obiettivo che ha anche lo zar di Mosca. Putin e Erdoğan, su questa partita si intendono benissimo. Tutto ciò avrebbe, inoltre, anche lo scopo di allontanare sempre di più il continente africano dall’influenza occidentale, sostituendola con quella turca e russa. La Cina, vera padrona del continente, sta a guardare anche perché non ha competitor. Vincere la guerra del grano non è solo una questione di buon cuore, ma ha una valenza strategica tale da spostare gli equilibri anche in Africa, dove quasi la metà degli stati non ha votato o si è astenuta per la risoluzione delle Nazioni Unite di condanna all’invasione russa dell’Ucraina. Di sicuro, se Erdoğan avrà ragione in questa partita, sarebbe la sconfitta dell’occidente – oltre che quella dell’Onu – la cui diplomazia non fa altro che accusare Mosca della catastrofe alimentare. Non basta. Agli africani di certo non basta.

Ascolta “Dormi sepolto in un campo di grano” su Spreaker.

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Cambi della guardia in Africa, e la Russia suona Wagner https://ogzero.org/cambi-della-guardia-in-africa-e-la-russia-suona-wagner/ Thu, 24 Feb 2022 08:45:35 +0000 https://ogzero.org/?p=6471 In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari […]

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In un quadro che vede il ritiro dell’“Impero francese” dall’Africa, il continente diventa una tavola imbandita per chi intravede possibilità di sfruttamento, per chi cerca di farne una piazza del mercato delle armi, per chi porta avanti traffici illeciti con la connivenza di dittatori fantocci. La lotta al terrorismo nasconde l’esigenza di poter condurre affari in un paese stabile, l’indigenza delle popolazioni è funzionale all’assoggettamento del tessuto sociale, basta frenare le partenze per oltremare… con le buone (accordi capestro e che calpestano i diritti umani) o con le cattive (presenza militare mercenaria ben pagata).

[fin qui… OGzero]

Qui una rielaborazione di due articoli di Angelo Ferrari pubblicati su Africa Rivista e Agi, ampliati per OGzero. Aggiungiamo un podcast realizzato con Edoardo Baldaro (ricercatore alla Scuola Sant’Anna di Pisa, esperto di Sahel) e Stefano Ruzza (professore associato in Scienze politiche all’Università di Torino, responsabile di T.wai – Torino, esperto di agenzie di sicurezza).


Spostare il confine del Mediterraneo

Il Niger è e diventerà sempre di più il bastione italiano nel Sahel. L’Italia, nel suo piccolo – sia geografico sia diplomatico – ha deciso di rilanciare la sua presenza nel continente africano proprio privilegiando il rafforzamento di quella militare in parte a scapito della cooperazione allo sviluppo, soprattutto in chiave anti-immigrazione. L’obiettivo è fermare i flussi proprio alle porte della Libia, cioè in Niger, con la presunzione e l’illusione che blindando i confini i problemi possano restare dall’altra parte. Spostare, dunque, più a Sud il confine del Mediterraneo. Ci riuscirà? Non è del tutto scontato.

In Niger la presenza militare è rilevante. Si tratta di 290 militari, 160 mezzi terrestri e 5 aerei. Mentre il rapporto tra spese militari e cooperazione allo sviluppo è di 10 a 1. Un po’ quello che è successo in Afghanistan, con le conseguenze, dopo il ritiro occidentale, che sono sotto gli occhi di tutti dal punto di vista umanitario. Tutto ciò, evidentemente, confligge con un principio che dovrebbe accompagnare le missioni militari all’estero in generale, e in particolare in Africa, è cioè quello per cui creare le condizioni di sicurezza nelle aree di crisi è indispensabile per poter realizzare anche le missioni civili e di sostegno socio-economico che aiutino i paesi interessati a costruire o ricostruire i loro apparati pubblici e a sviluppare le loro economie, a loro volta premessa indispensabile per migliorare le condizioni di vita della popolazione e stabilizzare il contesto locale e regionale.

Il Mali lasciato dagli occidentali

Il sentimento antifrancese che è montato in buona parte del Sahel deriva proprio da questo. Cioè le popolazioni hanno visto un gran numero di militari occidentali, ma nessun cambiamento sostanziale, non solo nella sicurezza, ma soprattutto nelle condizioni di vita reale. La precarietà “umanitaria” si è aggravata. La lezione del Mali dovrebbe insegnare qualcosa anche a noi italiani. Non a caso il presidente del Niger, Mohamed Bazoum, si è detto molto “preoccupato” per il ritiro dei francesi e degli occidentali in generale dal Mali.

A questo punto può risultare utile ascoltare le considerazioni sulla situazione dopo la chiusura di Barkhane e il subentro conseguente dei contractor russi, oltre al confronto tra le diverse reazioni nei paesi subsahariani, con Stefano Ruzza ed @EdoardoBaldaro

 “Il senso di Wagner per le crepe: le interconnessioni con le giunte del Sahel?”.

La “fortuna” del Niger, il paese più povero al mondo

Il Niger, tuttavia, interessa moltissimo all’Italia e non si tira indietro, lo ha dimostrato nel recente passato aprendo un’ambasciata nel 2017 e dal 2018 con la “Missione bilaterale di supporto” – militare. Il Niger, dunque, è un partner strategico e, nelle intenzioni del governo italiano, può rappresentare un’opportunità di business per l’Italia. L’Italia è tra quei paesi che guardano con interesse al crescere di questo mercato e in generale a quello di tutta l’area saheliana e la presenza dell’ambasciata italiana a Niamey ha anche il significato di voler accompagnare quanto più possibile le imprese italiane che vorranno avviare affari in questo contesto relativamente ancora incontaminato. Queste le intenzioni del governo italiano. Ma, diciamo noi, occorre arrivare per tempo. Per l’Italia, dunque, il Niger è un paese stabile – e questo aiuta – ma non si può dimenticare il passato recente. Il paese è sempre stato il crocevia di traffici illeciti, dalla droga alle armi, dal riciclaggio dei soldi sporchi alla tratta degli esseri umani.

Le fortune del Niger – se così si può dire – e dei suoi governanti, sono derivate proprio da questo. Un paese che ha fatto dell’illecito la ragione dei propri guadagni.

È il paese più povero al mondo, ma, Mohammad Issoufou, ex presidente nigerino – ha governato il paese per dieci anni fino al 2021 – ha speso milioni e milioni di dollari per acquistare armi, elicotteri e aerei da combattimento russi e francesi, tradendo la sua piattaforma elettorale di stampo socialista-progressista, che lo ha portato al vertice dello stato, impoverendo ancora di più la sua gente. Il suo successore, Bazoum, va nella stessa direzione, non a caso sul finire del 2021 ha acquistato dalla Turchia nuovi droni. L’impegno e le spese militari prevalgono su tutte, pur di mantenere i privilegi ereditati dal suo predecessore. Le cancellerie di tutto il mondo conoscono a perfezione i due burattinai nigerini, sanno perfettamente con chi hanno a che fare, ma hanno deciso che del Niger si possono fidare. Ma alcune domande, tra le tante, vengono spontanee: per quale ragione le varie milizie e fazioni che controllano il territorio dovrebbero abbandonare i lauti profitti che arrivano dai traffici illeciti che siano di esseri umani, droga, armi o denaro? Quali garanzie sono state fornite? Quali accordi stipulati?

Il governo italiano dovrebbe rispondere a queste domande con il linguaggio schietto della politica e non con quello della diplomazia. Occorre, dunque, fare attenzione. Ma le parole chiave sono “arrivare in tempo”. Non possiamo dimenticare che il paese saheliano è strategico anche per la Francia che è ormai una presenza organica, ma sul quale Parigi rivolge lo sguardo, soprattutto ora che si è ritirata dal Mali. L’intenzione francese è proprio quella di rafforzare la sua presenza in Niger e sul fronte Sud del Sahel, paesi come Costa d’Avorio, Togo e Benin. Gli interessi strategici di Parigi sono noti: l’estrazione dell’uranio è fondamentale per un paese che vive di centrali nucleari. Il Niger è il quarto produttore di uranio al mondo e il sesto per riserve.

L’Italia, dunque, deve adottare una via pragmatica e diplomatica per non andare a cozzare con gli interessi di altri paesi che hanno radici solide in quel pezzetto di deserto.

Wagner: gli strumenti “non convenzionali ” della Russia

In Africa, per esempio, la Russia suona la musica di Wagner. La presenza dei mercenari di Mosca rappresenta per Vladimir Putin la guarnigione di “sfondamento” nella sua politica di espansione in Africa. Non è un mistero che la Russia stia cercando di tornare agli antichi fasti dell’Unione Sovietica e non lo fa impegnandosi direttamente sul campo militare, quello dove si combatte, ma inviando la Wagner che per Mosca fa il lavoro sporco. Lo si vede in maniera evidente, per esempio, nella Repubblica Centrafricana, che è diventata la base operativa russa in Africa centrale. Lì i mercenari combattono a fianco delle truppe regolari e sostengono il regime. La guardia presidenziale è tutta nelle mani del Cremlino, così come i consiglieri del ministero della Difesa. Il Centrafrica è diventata una sorta di portaerei nel mezzo dell’Africa che funziona come trampolino di lancio per l’espansionismo russo. Già nel passato questo paese ha avuto questa funzione, con la presenza di numerose basi della Francia, ex potenza coloniale, almeno fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso. Ora la storia è molto diversa e, come è normale che sia, Putin nega tutto. Si limita a spiegare che l’intervento russo in Africa riguarda la fornitura di armi e l’addestramento militare. Ma ogni evidenza porta da un’altra parte. Lo si sta vedendo in maniera plastica in Mali, dove il sentimento prevalente è quello filorusso. Così come in Burkina Faso dove si sono viste manifestazioni a sostegno dei golpisti, con la gente in piazza che sventolava le bandiere di Mosca.

L’Africa, per Putin, è diventato uno degli scenari privilegiati della sua competizione con il mondo occidentale.

Lo fa, appunto, attraverso la fornitura di armi e con il sostegno dell’industria bellica, come in Sudan terzo produttore di armi nel continente africano dopo Egitto e Sudafrica. Per raggiungere i suoi obiettivi, il Cremlino utilizza non solo i normali canali diplomatici ma anche strumenti non “convenzionali”: i famigerati mercenari della Wagner e la propaganda attraverso i social network, come accade in altre parti del mondo. E funziona.

L’impegno italiano: ridurre le partenze

Il governo italiano sta mettendo in atto un cambio di paradigma nel guardare a questo paese e alla regione del Sahel nel suo insieme, cercando di colmare la sua lacuna di presenza, intercettando in maniera tempestiva il crescere dell’attenzione internazionale. Il Niger guarda ormai all’Italia come un “partner di riferimento”, soprattutto nella gestione delle migrazioni, nella lotta all’avanzamento del terrorismo jihadista, nel contenimento delle sfide ambientali e nello sviluppo. Se sul piano militare l’Italia è ben posizionata e il rinnovo delle missioni all’estero voluto dal governo Draghi va proprio in questa direzione. L’Africa si conferma il continente in cui l’Italia è maggiormente coinvolta, con 17 missioni in corso. Tra quelle più rilevanti in termini di unità impiegate e risorse economiche c’è la Task Force Takouba, per il contrasto della minaccia terroristica nel Sahel, e l’impiego di un dispositivo aeronavale nazionale nel Golfo di Guinea in funzione antipirateria.

Le forze della missione Takouba si preparano a lasciare il paese (fonte Africa Rivista).

Sul piano, invece, della cooperazione allo sviluppo fa segnare il passo. Non si può dimenticare che oltre il 40 per cento della popolazione nigerina vive sotto la soglia di povertà e il paese si colloca in fondo alla ben poco onorevole classifica dell’indice di sviluppo umano. C’è da augurarsi, dunque, che il rinnovato impegno in Niger e in tutta la regione sia teso, anche, al rafforzamento di un impegno umanitario. L’impegno italiano è concentrato – almeno così sembra – alla riduzione delle partenze dei migranti (come racconta qui Fabiana Triburgo). Rimane, tuttavia, la domanda: “È sufficiente la cooperazione militare per impedire le partenze?”. È lecito chiedersi se controllo del territorio di questi paesi e lotta al terrorismo non passino anche e soprattutto attraverso politiche di sviluppo: cioè alla creazione di un welfare state che manca totalmente in questi paesi. Non si considera infatti che la maggior parte delle persone che fuggono da quelle situazioni lo fanno perché manca totalmente la percezione della possibilità di costruirsi un futuro solido per sé e la propria famiglia. Non è solo mancanza di cibo, spesso è la mancanza di welfare state, cioè di una rete sanitaria adeguata e di una rete scolastica capace di formare.

In quei paesi dove la cooperazione militare è importante, gli apparati di governo sacrificano, già di loro, gli investimenti per il welfare a scapito di una crescente spesa militare. Tutto ciò dovrebbe far riflettere.

L’impegno russo: fornire armi e sfruttare le risorse

L’arrivo in Centrafrica, tuttavia, rappresenta, uno spartiacque per Mosca. Le armi russe fanno gola un po’ a tutti: Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania hanno lanciato appelli a Mosca perché aiuti le loro forze di sicurezza a combattere il terrorismo, appelli che hanno avuto risposte positive. Tutto ciò piace molto al Cremlino e preoccupa enormemente l’occidente che sta perdendo posizioni strategiche. L’opzione di Mosca è quella di rafforzare la presenza militare per poi passare all’incasso, anche in termini di risorse naturali. L’interesse militare si giustifica, inoltre, con il fatto che il Cremlino è consapevole della sua marginalità nei mercati africani e di non poter competere con l’espansionismo cinese. Le armi, quelle vere, per Mosca, tuttavia, funzionano ancora. Ma è del tutto evidente che l’aiuto militare è subordinato, nel futuro, ad avere un ruolo anche nello sfruttamento delle materie prime.

Non a caso il paradigma di collaborazione con l’Unione africana – emerso nel forum Russia-Africa – che Putin vuole, mira a migliorare i rapporti esistenti, rafforzare i legami diplomatici e aumentare la sua presenza economica nel continente, per avvicinarsi agli elevati livelli di scambi commerciali che già caratterizzano Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Turchia, Europa e Stati Uniti.

La presenza russa in Africa (fonte Ispi).

La retorica di Putin definisce la sua agenda per l’Africa “positiva” e si contrappone, a detta sua, ai “giochi geopolitici” degli altri, spiegando che la Russia non è interessata a depredare la ricchezza dell’Africa, ma a lavorare a favore di una cooperazione “civilizzata”. Parola, questa, già usata da coloro che hanno colonizzato il continente.

Dal punto di vista economico, non è da trascurare la presenza in Namibia dove la Russia è impegnata nell’estrazione dell’uranio e in Angola nel settore diamantifero. Da qui, dall’Africa, Putin vuole ripartire per lanciare la sua sfida e tornare a vantare il ruolo di potenza mondiale. Ma la “prudenza” sta caratterizzando la presenza russa. Putin non arriverà a schierare l’esercito regolare e per questo si avvale di mercenari della Wagner, che fa il bello e cattivo tempo un po’ ovunque, in particolare nella Repubblica Centrafricana che, di fatto, è governata proprio dai russi. Il Mali, dopo il ritiro delle truppe occidentali, rappresenta una vittoria significativa per Putin che è riuscito a ridimensionare l’impero francese.

Attività russe in Africa nel 2019 (Fonte ISW).


Gruppo Wagner: un po’ di storia

Sul Gruppo Wagner, ovviamente, sono più le supposizioni che le certezze. Ciò che si sa è che nasce intorno al 2013 con il nome di Corpi Slavi. Il loro fondatore è l’ex colonnello dei servizi segreti militari Dmitry Utkin. Insieme a un piccolo contingente di ex appartenenti alle forze speciali russe, Utkin si schiera in Siria a protezione delle infrastrutture strategiche per la Russia e per il governo siriano di Bashar al-Assad. I mercenari non ottengono grandi risultati e ben presto rientrano in patria. Qui Utkin rifonda l’organizzazione ribattezzandola Gruppo Wagner in onore del compositore tedesco (Utkin ha forti simpatie naziste). È l’incontro con Yevgeny Prigozhin, oligarca con interessi nei comparti dell’alimentazione, dell’estrazione mineraria e nel mondo della gestione dei dati informatici, che fa compiere al Gruppo Wagner il salto di qualità. Prigozhin è legato a doppio filo a Putin che lo utilizza per portare a termine “operazioni delicate”. I mercenari di Utkin vengono quindi impiegati in Ucraina e a sostegno dei separatisti della Repubblica separatista di Lugansk. Poi di nuovo in Siria, dove si affiancano alle forze di Bashar al-Assad. Il momento più tragico avviene nel febbraio 2018 a Deir ez-Zor, quando un centinaio di uomini viene ucciso in un raid americano nei pressi del villaggio di al-Isba durante gli scontri con le forze curde dell’Sdf. Le imprese compiute in tre anni di guerra, permettono a Prigozhin di passare all’incasso. Un incasso chiamato Africa, dove, nel frattempo, la Russia sta conducendo una delicata partita per recuperare spazi di influenza. Mosca cerca di stringere rapporti con numerosi paesi offrendo assistenza militare in cambio di risorse minerarie. Ma in modo informale. Un gruppo di uomini viene quindi inviato in Sudan. Vengono schierati a protezione del presidente Omar al-Bashir e come presidio sul confine con il Sud Sudan. In cambio, i mercenari russi ricevono la gestione di alcuni impianti minerari. Un’operazione molto simile avviene anche nella Repubblica Centrafricana, dove nel luglio 2018 vengono uccisi tre giornalisti russi che indagavano proprio sulle operazioni di Prigozhin. Il magnate russo farebbe affari con almeno dieci paesi, tra i quali Repubblica democratica del Congo, Madagascar, Angola, Guinea, Guinea-Bissau, Mozambico e Zimbabwe. Uomini del Gruppo Wagner sono stati incorporati nelle milizie di Khalifa Haftar in Libia. Il resto è storia recente.


Per rinfrescarvi la memoria su come operano i contractors o le milizie mercenarie e su come funzionano le regole di ingaggio e quali sono i rapporti di forza con gli stati che li “assumono” guardate questa intervista di OGzero a Stefano Ruzza, regia di Murat Cinar.


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Убирайся est le mot pour: “dégage!“ https://ogzero.org/%d1%83%d0%b1%d0%b8%d1%80%d0%b0%d0%b9%d1%81%d1%8f-est-le-mot-pour-degage/ Fri, 18 Feb 2022 09:20:30 +0000 https://ogzero.org/?p=6378 Rimuginando in quell’angolo estremo del lungo tavolo moscovita dove lo ha relegato Putin, Macron è forse riuscito a cogliere le sfumature della traduzione dalla lingua che il leader maliano Goïta ha indicato come insegnamento scolastico a Bamako: in russo ubirájsja suona persino meno apodittica e definitiva, ma è l’espressione che i golpisti filorussi maliani hanno […]

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Rimuginando in quell’angolo estremo del lungo tavolo moscovita dove lo ha relegato Putin, Macron è forse riuscito a cogliere le sfumature della traduzione dalla lingua che il leader maliano Goïta ha indicato come insegnamento scolastico a Bamako: in russo ubirájsja suona persino meno apodittica e definitiva, ma è l’espressione che i golpisti filorussi maliani hanno rivolto all’ambasciatore francese senza mezze misure: “Vattene, indesiderato!”.

Il capitolo neocoloniale iniziato da Hollande si chiude repentinamente alle porte delle elezioni francesi ritirando la presenza europea dal Sahel il più repentinamente possibile, mantenendo degli avamposti in Ciad (dove il golpista Déby risulta buono, perché non ha abbracciato Mosca o Pechino) e in Niger con truppe internazionali troppo interessate a bloccare i flussi migratori, sovranisti italiani in testa. L’avventura coloniale di Parigi ha subito un vero tracollo (peraltro annunciato, benché repentino), solo parzialmente schermato dall’intento di evitare che il moto antifrancese si estenda all’area atlantica; nel momento in cui il jihad comincia a infiltrare Benin e Togo. Non a caso si parla di Afghanistan francese. E non solo, perché il fallimento di Barkhane con l’insurrezione dei saheliani coinvolge ogni aspetto: dalla missione Onu Minusma che viene almeno ridimensionata, agli interessi economici dell’intero fronte occidentale, che come ben documentato da Alessandra Colarizi trovano nell’offerta russo-cinese le risposte alle richieste del territorio, sostituendo una forma di colonizzazione, vetusta perché interessata a predare in modo classico e secondo prassi novecentesche, con un’altra, più innovativa (si pensi a Wagner), ma altrettanto rapace.

Mentre “Libération” esplicita bene la pretestuosità ipocrita della scelta elettorale di Macron di pretendere dalla giunta golpista maliana elezioni mai richieste ai fantocci installati al potere proprio dalla grandeur parigina, proponiamo un’istantanea scattata da un conoscitore della realtà continentale come Angelo Ferrari


Il ritiro, minacciato, è diventato realtà. La Francia e l’occidente hanno deciso di lasciare il Mali. Dopo nove anni di intervento militare contro il terrorismo jihadista, Parigi ha deciso di “abbandonare” il paese. Una resa inevitabile per il progressivo esacerbarsi dei rapporti con la giunta golpista di Bamako, il cui culmine è stata la cacciata dell’ambasciatore francese dalla capitale maliana.

Effetto domino

La decisione arriva, inoltre, in un momento delicato per il presidente francese Emmanuel Macron, che dovrebbe annunciare la sua candidatura per un secondo mandato. Arriva in un momento di crescenti tensioni antifrancesi in tutta l’area del Sahel che sono state la spinta – anche se non quella decisiva – per un cambio di regime in Mali e anche nel vicino Burkina Faso. Bamako, da tempo, ha chiamato i mercenari russi della Wagner, che già operano sul terreno, per proseguire la lotta al terrorismo. Una decisione che ha irritato i francesi e tutto l’occidente impegnato nel paese anche se sempre negata dal Cremlino. Sono circa 25.000 gli uomini dispiegati nel Sahel, di cui circa 4300 francesi – 2400 in Mali nell’ambito dell’operazione antijihadista Barkhane. Un ritiro, si sono affrettati a sottolineare l’Eliseo e i partner europei, che non significa abbandonare il Sahel, ma sicuramente Parigi e l’Unione Europea dovranno reinventare il partenariato con i paesi saheliani. Ciò non significherà spostare altrove ciò che fino ad ora è stato fatto in Mali, ma rafforzare la presenza in Niger e sul versante meridionale. E tutto ciò dovrà essere coordinato con la missione delle Nazioni Unite. Un ritiro, inoltre, che solleva molti dubbi sul futuro proprio della missione Onu che conta 15.000 uomini, creata nel 2013 per sostenere il processo politico maliano. La fine dell’operazione Berkhane (francese) e Takuba (forze speciali dell’Unione europea) potrebbe portare al ritiro anche dei contingenti di Germania e Inghilterra impegnati nella forza Onu.

Barkhane, Takuba, Minusma... effetto domino che crea il vuoto

Meglio che una struttura fallimentare in piedi per perpetuare se stessa mantenendo vivo il jihadismo contro cui è nata si sciolga; la piazza sceglie il cavallo dello zar

Il disastroso bilancio di un’occupazione old fashioned

Il Sahel, tuttavia, rimane una priorità e una regione strategica per l’intera Unione europea, proprio per gli enormi investimenti sul piano militare e su quelli della cooperazione – anche se meno – più squisitamente economica. Intervento militare che, in nove anni, non ha portato a significativi successi nella lotta al terrorismo, per certi versi è stata disastrosa.

La realtà dei fatti: la debolezza dei governi, l’insicurezza e il disastro umanitario sono peggiorati nell’ultimo anno e le prospettive di pace duratura rimangono deboli. La regione ha subito colpi di stato militari – Mali e Burkina Faso – e “costituzionali” – Ciad – oltre all’avanzare, sempre più insidioso, del terrorismo jihadista. Se si guarda alle morti violente, queste sono cresciute del 20% nel 2021 rispetto all’anno precedente, nonostante le imponenti missioni militari, francese e europea – che operano sul campo. Le Nazioni Unite, inoltre, hanno stimato che almeno 36 milioni di saheliani sono sull’orlo dell’insicurezza alimentare.

Il teatro saheliano è estremamente complesso anche sul piano geopolitico internazionale. Il ritiro della missione francese Barkhane e la “sindrome Afghanistan”, stanno lasciando spazio, dal punto di vista militare, ad altre potenze internazionali. La Francia, in un primo momento ha ridimensionato il suo contingente, e ora lo ha ritirato dal Mali, facendo affidamento sulla forza europea tentando, in questo modo, di rassicurare che ciò non corrisponde alla fine dell’impegno francese nel Sahel. Nella regione, tuttavia, sta montando un forte sentimento antifrancese e, pure, antioccidentale. Parigi ha faticato, negli ultimi mesi, a giustificare il mantenimento della missione di fronte alla sua opinione pubblica.

Il dito nella piaga: Wagner è più professionale

Hervé Morin, l’ex ministro della Difesa del governo dell’ex presidente Nicolas Sarkozy, non ha usato mezze parole, anzi è stato netto: «Abbiamo uno scenario che si avvicina ogni giorno di più a quello che abbiamo visto in Afghanistan. Siamo arrivati per combattere il terrorismo e ricostruire uno stato (si riferisce al Mali, N.d.R.) su un accordo politico e sembriamo sempre più una forza di occupazione».

Truppe d’occupazione più o meno legittimate; Macron ammette al G5 Sahel che è venuta a mancare la giustificazione per la presenza di un esercito inadeguato al compito

E l’ex ministro ha aggiunto che la Francia non è riuscita nel suo obiettivo bellico e quindi «non può rimanere in Mali contro il parere delle autorità locali». Stessa sorte è capitata all’operazione Takuba. Con il ritiro dal Mali l’attenzione si concentrerà sul Niger, dove l’Italia ha una presenza significativa.

Le autorità di Bamako subito dopo il colpo di stato, non sapendo bene cosa fare e per scongiurare l’effetto Afghanistan, sono “volate” a Mosca, invitandola, quasi supplicandola, ad aiutare il paese a garantire sicurezza e a difenderne l’unità, l’integrità e la sovranità.

La risposta del Cremlino non si è fatta attendere ed è arrivata per bocca del ministro degli Esteri, Sergey Lavrov: «Il mio paese farà tutto il possibile per evitare che la minaccia terroristica gravi sulla struttura dello Stato del Mali».

E sul terreno maliano sono già arrivati i mercenari della famigerata Wagner, che per conto della Russia fanno il lavoro sporco sul campo, anche se tutti negano.

Anche il Ciad, che possiede l’esercito più armato ed efficiente dell’area, ha deciso di dimezzare il suo contingente nell’ambito dell’operazione G5 Sahel, in particolare nella zona delle tre frontiere – Mali, Niger, Burkina Faso – passando da 1200 a 600 effettivi.

Il portavoce del governo ciadiano ha spiegato così la decisione: «La scelta di alleggerire il dispositivo è stata concertata con il comando del G5. In rapporto alla situazione che c’è sul campo è necessario avere una forza mobile più capace di adattarsi alle modalità di azione attuate dai terroristi. Rimane intatta la nostra volontà di far fronte ai jihadisti».

Strategia vincente di Putin in Mali…

Un incubo per molti paesi, in particolare per il Burkina Faso e il Mali che non riescono a far fronte e nemmeno ad arginare la minaccia terroristica che ha paralizzato la vita di intere comunità minacciate e tenute in ostaggio dai jihadisti. Un fattore degno di nota, inoltre, è il fatto che i golpisti dei due paesi saheliani, appena preso il potere hanno subito rivolto il loro sguardo al Cremlino, innescando una crisi diplomatica proprio con il principale interlocutore occidentale dell’area, Parigi.

Insomma l’occidente lascia il Mali e apre, anzi “spalanca” le porte alla Russia. È innegabile che la decisione di Macron e dei leader occidentali di “abbandonare” Bamako, è una vittoria per Putin. In poco meno di un anno si è preso – o la Francia ha perso – mezzo impero francofono: Mali, Burkina Faso e Repubblica Centrafricana.

… e in Burkina di Xi Jinping

E poi c’è la Cina che è stata invocata a gran voce dal Burkina Faso, chiedendo il sostegno di Pechino nella lotta contro il terrorismo, accogliendo l’impegno e le assicurazioni della sua controparte cinese per accelerare la spedizione di attrezzature militari promesse al Paese. Richiesta rafforzata anche dal capo della diplomazia senegalese, la ministra Aissata Tall Sall, durante l’ultimo vertice Africa-Cina – che si è svolto a Dakar nel novembre dello scorso anno. Nel documento finale del summit si è messa nero su bianco la Cooperazione nell’ambito della sicurezza, vista come un “punto focale” delle relazioni sino-africane. Sono state annunciate, e questa è una novità, esercitazioni congiunte per operazioni di mantenimento della pace, nella lotta al terrorismo, al traffico di stupefacenti e alla pirateria. Pechino mette gli scarponi sul terreno.

E il 16 febbraio 2022 il direttore generale della polizia del Mali, Soulimane Traoré, ha ricevuto l’ambasciatore cinese, Chen Zhihong. Il diplomatico ha ribadito che la Cina si impegnerà «nel rafforzare gli equipaggiamenti delle forze di sicurezza del Mali nel quadro di una cooperazione dinamica e reciprocamente vantaggiosa».

Souleyman traoré_Bamako

L’asse che si è creato tra Cina e Russia sul fronte della crisi ucraina, si potrebbe ripresentare anche in Africa, in particolare in quella parte di Sahel abbandonato dall’Occidente. Entrambi i paesi potrebbero avere vantaggi da questo legame. La Russia ha poco da offrire sul piano economico, ma molto su quello militare, la Cina è una presenza consolidata, ma sempre attenta a non interferire negli affari interni dei paesi dove fa affari. La sinergia Pechino-Mosca potrebbe avere vantaggi per entrambi. Di sicuro, nonostante il ritiro occidentale, l’incubo Afghanistan è stato spazzato via e nel Sahel si parla sempre di più russo e mandarino.

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Un Sahel di spine per Macron. Mali e Françafrique https://ogzero.org/un-sahel-di-spine-per-macron-mali-e-francafrique/ Fri, 21 Jan 2022 01:11:24 +0000 https://ogzero.org/?p=5902 Il Sahel in generale e il Mali in particolare è un’espressione della Françafrique da cui trarre indizi utili sulla reale influenza neocoloniale francese. L’impegno di Macron, all’inizio come alla fine del suo settennato, ha usato ogni arma nell’area pur di mantenere il proprio suggello: contingenti di occupazione militare con un tributo di sangue e denaro […]

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Il Sahel in generale e il Mali in particolare è un’espressione della Françafrique da cui trarre indizi utili sulla reale influenza neocoloniale francese. L’impegno di Macron, all’inizio come alla fine del suo settennato, ha usato ogni arma nell’area pur di mantenere il proprio suggello: contingenti di occupazione militare con un tributo di sangue e denaro non indifferente; elargizioni per blandire le oligarchie locali, sistematicamente eliminate fisicamente o esautorate; investimenti attraverso multinazionali, sostituite da potenze emergenti come Turchia – sulla cui penetrazione del mercato africano riprendiamo un articolo di Emanuele Giordana per “Atlante delle Guerre” e Cina, oppure scalzate dalla presenza politico-militare dei filoputiniani…

Uno degli spunti a cui teniamo dall’inizio della avventura di OGzero è quello relativo al neocolonialismo e stiamo cercando di accumulare materiali per avviare uno Studium relativo che possa sfociare in una produzione dedicata. L’articolo pubblicato il 16 gennaio dagli amici di “AfricaRivista”, che ringraziamo per averci consentito di riprenderlo, fa parte  di questo novero di analisi, interpretazioni, testi… che ritroverete assemblati in un dossier ora in embrione.


Lenta dissoluzione degli asset francesi in Mali

Con le elezioni presidenziali alle porte in Francia, il Mali rimane una spina nel fianco per il presidente Macron. L’operazione militare Barkhane non ha sortito gli effetti sperati. Se si vuole fare un bilancio, questo è del tutto negativo. Sulla Francia incombe lo spettro Afghanistan. Che fare? è la domanda già di Černyševskij attorno alla quale Angelo Ferrari gira per inserire alcuni degli elementi in gioco.

L’occupazione militare: il Mali apre alla Russia

Il Mali è una spina nel fianco del presidente francese, Emmanuel Macron, e lo sarà anche per chi verrà dopo di lui all’Eliseo, ammesso che perda le elezioni. Rimane, tuttavia, una patata bollente da gestire, anche in prospettiva delle presidenziali francesi. Se il Mali, e in pratica in tutti i paesi francofoni del Sahel, è uno degli stati più “ostili” alla Francia, l’opinione transalpina non è certo morbida nel giudicare la presenza francese in quell’area. Il ritiro di parte degli effettivi francesi impegnati nell’operazione Barkhane è dovuto all’impasse in cui si è ficcata Parigi proprio con quell’operazione. Il bilancio di 9 anni di presenza nell’area – prima con l’operazione Serval voluta dall’ex presidente François Hollande all’inizio del 2013, diventata Barkhane l’anno successivo, con l’estensione al G5 Sahel (Ciad, Niger Burkina Faso e Mauritania) – sembra essere fallimentare o, quantomeno, poco convincente. Intervento militare, per altro, lasciato in eredità a Macron. Risultati reali e concreti sono poco visibili, soprattutto per la popolazione locale che negli anni ha visto un peggioramento della sicurezza interna ma anche di quella economica e sociale.

L’obiettivo dell’operazione militare francese in Mali – richiesta dall’allora governo di Ibrahim Boubacar Keita – era quello di impedire ai gruppi jihadisti di prendere il potere ed evitare il crollo dello stato. I gruppi terroristici non hanno preso il potere, ma hanno allargato le loro aree di influenza rendendo lo stato – così come altri nell’area del Sahel – oltre che instabile, ostaggio delle loro scorribande. Se si vuole fare un bilancio, questo è del tutto negativo.

Il presidente francese, dovendo gestire un’opinione pubblica interna ostile, è riuscito a ridimensionare l’operazione militare, coinvolgendo gli stati della regione ma, soprattutto, ha convinto l’Europa della necessità di un intervento diretto perché la questione terrorismo, e quella dei flussi migratori, riguarda tutti. Nasce così la task force Takuba. Ma rimane l’imbarazzo e l’impasse. A maggior ragione oggi visto che il potere in Mali è nelle mani dei militari che hanno sovvertito il governo civile con ben due colpi di stato. Il paese è ancora più debole e il presidente francese non può prendere decisioni nette, vista la campagna elettorale in corso per le presidenziali. A Macron è stato facile annullare la visita ufficiale a Bamako del 20 e 21 dicembre scorso. La scusa, la nuova ondata di Covid. Sarebbe stato particolarmente imbarazzante per l’inquilino dell’Eliseo dover giustificare un viaggio nella capitale maliana dove avrebbe dovuto incontrare un capo di stato golpista e non eletto, il colonnello Assimi Goita. Non solo. La transizione voluta dai golpisti è ancora lontana dal terminare e la promessa di elezioni per un ritorno dei civili alla guida del paese, a oggi, pare un miraggio. Non ci sono date precise, si sa solo che la transizione, e quindi il potere di Goita, durerà ancora a lungo.

L’impasse rimane mentre gli affari parlano ormai russo

I francesi, tuttavia, sono ancora presenti nel centro del paese, nonostante le basi di Kidal, Tessalit e Timbuctu siano state riconsegnate all’esercito maliano. L’impasse rimane e potrebbe durare a lungo. Sulla Francia incombe lo spettro Afghanistan. Cosa fare? Seguire l’esempio americano, cioè un ritiro rapido e completo delle truppe? Gli scenari che si potrebbero verificare sono identici, se non peggiori, di quelli che si sono avuti in Afghanistan, con l’aggravante che il contraccolpo si sentirebbe in tutto il Sahel. Le “postazioni” non rimarrebbero sguarnite, ma verrebbero riempite da forze ostili a Parigi. Una su tutte: la Russia. Il Cremlino, a differenza dell’Eliseo, non sta a guardare. Interviene, non certo direttamente, ma attraverso la milizia di mercenari Wagner che, nonostante quello che possa affermare il governo di Bamako, sono già presenti nel paese. I maliani passerebbero dalla padella alla brace? Forse. Di sicuro hanno più “stima” dei russi che dei francesi. Il passato coloniale di Parigi è un macigno non rimosso. I russi, invece, hanno gioco facile visto che si presentano come un paese che non è stato una potenza coloniale e non ha nessuna intenzione di interferire nelle questioni politiche interne della nazione e vuole solo fare affari. I russi, poi, usano ad arte la propaganda sui social, estremamente efficace per manipolare le opinioni pubbliche a loro favore e non mettono gli scarponi direttamente sul terreno, ma facendo fare il lavoro sporco, appunto, ai mercenari della Wagner. L’espansione della propria presenza in Africa è uno degli intenti evidenti, usando l’arma che gli è più congeniale: armi, addestramento militare, lasciando l’intervento diretto ai mercenari; l’altro obiettivo è rappresentato dalla crescita della presenza russa nelle aziende minerarie, così da garantirsi l’approvvigionamento di materie prime strategiche. Quest’ultima è la vera moneta di scambio. Quindi, poco importa se devono trattare con governi legittimi o meno, purché si facciano affari.

Macron, dunque, sembra essere sotto scacco. Non può fare nulla, nuocerebbe alla sua campagna elettorale per le presidenziali, ma non può nemmeno permettersi di lasciare le cose così come stanno, il danno economico sarebbe maggiore rispetto ai benefici che potrebbe avere sulla sua opinione pubblica. Dunque, il Mali rimane una spina nel fianco e lo rimarrà anche dopo le presidenziali francesi, chiunque vinca. Poi c’è il Mali, inteso come golpisti, non certo la popolazione. Quest’ultima vorrebbe arrivare, e molto presto, a elezioni libere che restituiscano il potere ai civili. La giunta militare alla guida del paese no, nonostante le parole di circostanza. Anzi. Il governo fa affidamento sulla presenza dei paramilitari russi della Wagner per mantenersi al potere a qualunque costo, qualsiasi cosa accada, e alimentando la retorica antifrancese.

Ma tutta questa vicenda dimostra anche un’altra cosa: l’opzione militare non è l’unica via, anzi non è la strada da percorrere per la costruzione di uno stato solido capace di rispondere ai bisogni reali della popolazione: salute, educazione, lavoro. Un minimo di benessere oltre che di sicurezza.

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Non ci si salva da soli nella Guerra dei vaccini https://ogzero.org/la-guerra-dei-vaccini-nessuno-si-salva-da-solo/ Sat, 29 May 2021 08:17:40 +0000 https://ogzero.org/?p=3676 La Guerra dei vaccini è iniziata. Sotto il benevolo ombrello “non ci si salva da soli”, le potenze occidentali hanno cominciato a capire che uno strumento diplomatico fondamentale per riconquistare mercati, prestigio e influenza in Africa passa, appunto, dai vaccini. Russia e Cina hanno cominciato la loro sfida da molti mesi. L’Occidente l’ha lanciata prima, […]

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La Guerra dei vaccini è iniziata. Sotto il benevolo ombrello “non ci si salva da soli”, le potenze occidentali hanno cominciato a capire che uno strumento diplomatico fondamentale per riconquistare mercati, prestigio e influenza in Africa passa, appunto, dai vaccini. Russia e Cina hanno cominciato la loro sfida da molti mesi. L’Occidente l’ha lanciata prima, durante il minivertice africano di Parigi e poi con il Global Health Summit di Roma.

La sfida dietro ai brevetti

Washington

Pregevole, e per nulla scontata, l’iniziativa del presidente americano Joe Biden di “sospendere i brevetti” e trasferire tecnologie per la produzione dei vaccini nel continente africano.

 

La Direttrice Generale della World Trade Organization (WTO), Ngozi Okonjo-Iweala, ha dichiarato che sospendere i brevetti sui vaccini garantirebbe ai paesi in via di sviluppo un accesso equo alla vaccinazione il più rapidamente possibile.

Immediatamente gli ha fatto eco il suo omologo francese, Emmanuel Macron, e poi la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. Parole importanti, piene di significato politico, forse anche umanitario, ma non può sfuggire che la mossa occidentale ha più il sapore della sfida a Russia e Cina che un vero e pregevole impegno per aiutare l’Africa a vaccinarsi. Ma andiamo per ordine.

Parigi

Oltre alle questioni legate al finanziamento delle economie africane, i partecipanti al vertice di Parigi, che si è tenuto sul tema il 18 e il 19 maggio, hanno affrontato le problematiche relative alla distribuzione dei vaccini anti-Covid-19 in Africa.

La richiesta, arrivata da un po’ tutte le parti in causa, è, appunto, l’eliminazione dei brevetti “per consentirne la produzione in Africa”.

Di questo si è fatto portavoce il presidente francese Emmanuel Macron che nella conferenza stampa finale ha aggiunto: «Chiediamo all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) e al Medicines patent pool di rimuovere tutti i vincoli in termini di proprietà intellettuale che bloccano la produzione di alcuni tipi di vaccini».

La paura delle potenziali varianti

Macron, dopo aver citato la lentezza della vaccinazione come uno dei principali problemi del continente, ha quindi fissato l’obiettivo di vaccinare il 40 per cento delle persone in Africa entro la fine del 2021, sottolineando che «la situazione attuale non è sostenibile, è ingiusta e inefficiente». Secondo il presidente francese infatti «non riuscendo a vaccinare gli africani si rischia di far emergere nel continente varianti di Covid-19 potenzialmente pericolose che poi potrebbero diffondersi in tutto il mondo». La direttrice del Fondo monetario internazionale (Fmi) Kristalina Georgieva ha avvertito che la mancata accelerazione del lancio del vaccino in Africa avrebbe anche conseguenze economiche: «È chiaro che non c’è un’uscita duratura dalla crisi economica se non si esce dalla crisi sanitaria». «Dobbiamo sostenere l’Africa nella costruzione delle proprie industrie e infrastrutture sanitarie.

«Il Team Europe lancerà un’iniziativa per aiutare a potenziare la produzione di vaccini in Africa, trasferendo le tecnologie necessarie», questo l’impegno preso dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen.

Roma

Durante il vertice di Roma l’Unione europea, infatti, ha promesso di impegnarsi per creare capacità produttiva nei paesi africani. Il continente, oggi, importa il 99 per cento dei vaccini.

L’iniziativa è a tutto tondo: investimenti in infrastrutture e impianti di produzione, sostegno alla gestione e la definizione del quadro normativo.

L’idea di fondo è quella di creare degli hub regionali così da dare impulso al trasferimento di tecnologie per la produzione di vaccini, ma anche di altro materiale sanitario.

Covax delay

Oltre alle difficoltà nella produzione locale, ad avere un impatto negativo nella copertura vaccinale dell’Africa sono i ritardi nelle consegne dei lotti. Dall’arrivo delle prime dosi di vaccino previste dal programma Covax dell’Oms, molti paesi africani hanno segnalato, nelle ultime settimane, ritardi nella consegna dei secondi lotti. A confermarlo a metà aprile è stato John Nkengasong, direttore dell’agenzia Africa Centres for disease control and prevention (Africa Cdc). E il Ruanda ha dovuto interrompere la vaccinazione contro il coronavirus a causa dei ritardi nelle consegne. A Roma, poi, si sono registrate promesse di nuovi finanziamenti per il programma Covax sia da parte di governi sia di case farmaceutiche.

In ogni caso, allo stato attuale, il programma è ampiamente sottofinanziato.

L’obiettivo dichiarato al termine del Glogal health summit è quello di arrivare a un accordo entro il vertice del G20 che si terrà alla fine di ottobre. Insomma, i negoziati, se mai inizieranno, saranno lunghi.

Ankara

All’appuntamento con la storia, poi, non poteva mancare il sultano di Ankara, che di affari in Africa ne ha molti ed è tutto teso ad ampliare la sua sfera di influenza sul continente. Anche lui ha chiesto un accesso equo per tutti i paesi. «Ci sono gravi ingiustizie nell’acquisizione dei vaccini», ha detto Recep Tayyip Erdoğan, e l’80 per cento di essi sono stati acquistati dai paesi ad alto o medio reddito. «Sebbene la maggior parte della popolazione nei paesi sviluppati sia stata vaccinata almeno con una dose, questo tasso non ha nemmeno raggiunto l’1 per cento nell’Africa subsahariana».

Iniziative sanitarie e finanziarie

Dosi gratis subito

Non vi è dubbio che tutte queste iniziative siano lodevoli. Macron chiede che venga vaccinato il 40 per cento della popolazione africana, ciò significa, grosso modo, 600 milioni di persone entro il 2021. Per raggiungere l’obiettivo, oltre a un’imponente macchina logistica, occorre fornire al continente più di un miliardo di dosi. Sospendere i brevetti e trasferire tecnologie servirà per il futuro, non certo per il presente. Sicuramente porterà sviluppo. Ma per raggiungere l’obiettivo fissato dal presidente Macron si deve fare uno sforzo in più e subito:

donare le dosi in eccesso prodotte dai paesi occidentali. Non si può aspettare che l’Africa sia in grado da sola di produrre vaccini. Donare dosi o, come intende fare Big Pharma, venderle a un prezzo calmierato, senza guadagno.

Vedremo se sarà in grado di farlo.

Finanziamenti gratis subito

G20

Al vertice di Parigi, poi, si è discusso di finanziamenti per sostenere le economie africane. Una decisione è stata presa. È stata confermata l’emissione di Diritti speciali di prelievo (Dsp) per un importo di 33 miliardi di dollari per l’intero continente, di cui 24 per l’Africa subsahariana. Il Dsp non è altro che una sorta di assegno convertibile in dollari, distribuito in proporzione al peso specifico dei paesi e al loro contributo alle risorse. In molti considerano il Dsp come una moneta del Fondo monetario internazionale. Denari concessi a prestito e a tasso zero. Comunque, da restituire. Il G20, tuttavia, si era detto favorevole all’emissione di diritti speciali fino a 650 miliardi di dollari.

La società civile, invece, proponeva di emettere diritti per almeno 3000 miliardi di dollari, così da creare una massa di liquidità considerevole per rilanciare le economie africane.

Nella dichiarazione finale i partecipanti al minivertice di Parigi hanno detto di fare affidamento sul sistema finanziario internazionale. È necessaria «una decisione rapida su un’assegnazione generale di Dsp per un importo senza precedenti, che dovrebbe raggiungere 650 miliardi di dollari, di cui quasi 33 miliardi destinati ad aumentare le attività di riserva dei paesi africani e a implementarlo appena possibile, e chiediamo ai paesi di utilizzare queste nuove risorse in modo trasparente ed efficiente», si legge nella nota finale.

Abidjan

Uno sforzo multilaterale che coinvolgerà la rete di Banche pubbliche di sviluppo africane, che coinvolgono la Banca africana per lo sviluppo (Afdb) – con sede ad Abidjan – e istituzioni finanziarie pubbliche nazionali e regionali. «Per alleviare le economie africane che soffrono di vulnerabilità legate al loro debito pubblico estero, i creditori del G20 e del Club di Parigi agiscono come concordato nel comunicato stampa dei ministri delle Finanze e dei governatori delle banche Centrali del G20 ad aprile e il quadro comune per i trattamenti del debito oltre la Debt service suspension initiative (Issd) adottata nel novembre 2020», hanno approvato i firmatari. Tradotto in soldoni significa moratoria del debito per il 2020 e il 2021. Per promuovere la crescita e la creazione di posti di lavoro, i partecipanti hanno espresso sostegno alle strategie nazionali africane accogliendo con favore l’ambizione di sviluppare un’alleanza per l’imprenditorialità in Africa, che avrà un’ampia portata panafricana e garantirà un posto preponderante per le aziende.

Questa alleanza, nelle intenzioni, renderà possibile mobilitare tutti i partner che desiderano mettere risorse finanziarie e tecniche al servizio dello sviluppo del settore privato in Africa.

Pieno appoggio all’iniziativa del G20 sul sostegno all’industrializzazione in Africa e nei paesi meno sviluppati, del partenariato del G20 con l’Africa, Compact with Africa.

Parole importanti e belle. Anche qui i tempi non sono propriamente brevi. Nelle prossime settimane verranno avviati i lavori tecnici, che dovrebbero sfociare in un accordo politico tra giugno e ottobre. Buon per loro. Insomma, un New Deal per l’Africa attraverso la creazione di nuove linee di credito. Anche qui staremo a vedere come e quando questi pronunciamenti si tradurranno in fatti concreti.

ReleaseG20: riconvertire il pagamento del debito in investimento

Roma

Insomma, timidi passi in avanti. Anche la rete di ong Link2007 giudica positivamente, almeno vede nelle affermazioni finali un passo in avanti per l’Africa. Il presidente della rete di ong, Roberto Ridolfi, spiega a “InfoAfrica”, che ci sono diversi punti da evidenziare: «Il primo è che al vertice non hanno partecipato tutti i paesi africani e non hanno partecipato tutti i paesi del G20, una partecipazione significativa, ma non massiccia». Per Ridolfi ci sono stati alcuni messaggi importanti, come quello sui diritti speciali di prelievo, che, tuttavia, «non bastano. Parliamo di 33 miliardi per tutta l’Africa su un totale sollecitato di 650». E poi c’è la questione che riguarda la vulnerabilità dei paesi africani. «Questa richiede un’attitudine diversa delle banche di sviluppo, più propensa al rischio. Le banche di sviluppo devono essere capaci di prenderlo questo rischio». C’è poi la sospensione dei pagamenti dei debiti: «Non è sufficiente, noi di Link2007 lo abbiamo detto più volte ed è ciò che portiamo avanti con la nostra proposta ReleaseG20, che il gruppo di lavoro e sviluppo del G20 mi sembra stia prendendo in considerazione: cancellare laddove possibile ma in larga parte riconvertire il pagamento del debito in un’azione di investimento verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile», una sorta di recovery fund per i paesi fragili. «Si menziona poi un’alleanza con il settore privato, che va alimentata e per questo torno sul fondo di riconversione del debito – conclude Ridolfi – che può essere costituito a livello nazionale e diventare un fondo Sdgs (Sustainable development goals founds, un meccanismo di cooperazione internazionale a favore dello sviluppo sostenibile) per alimentare e proteggere gli investimenti privati».

Durante il vertice francese la parola sostenibilità non è stata mai menzionata.

Parigi, Africa

Al vertice di Parigi non hanno partecipato tutti i paesi africani e nemmeno tutti quelli del G20, ma quelli che contano sì: dalla Cina all’Arabia Saudita, dagli Stati Uniti agli Emirati, dal Giappone al Portogallo, dalla Germania all’Italia e altre ex potenze coloniali. Per quando riguarda l’Africa i paesi strategici c’erano tutti: dal Sudafrica all’Angola, dal Congo alla Costa d’Avorio, dall’Egitto al Kenya, dalla Nigeria al Ruanda.

Situazioni ufficiali, parate e discorsi…

… In coda per ricevere il vaccino…

 

 

 

 

 

 

 

 

… o per ricevere aiuti alimentari…

Un minivertice, dunque, con il quale Parigi intende riaffermare e sviluppare la sua presenza nel Continente, nonché la sua influenza.

All’Africa, tuttavia, non servono parole. E non ha bisogno nemmeno che diventi terreno fertile per un’altra guerra diplomatica tra potenze occidentali. Servono fatti e subito. In cinque parole: l’Africa-ha-bisogno-di-giustizia.

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I francesi non se ne sono mai andati dal Sahel. Parte 2 – Il Ciad dopo Déby https://ogzero.org/l-immediato-futuro-del-ciad-i-francesi-non-se-ne-sono-mai-andati-dal-sahel-parte-2-il-ciad-dopo-deby/ Mon, 03 May 2021 08:55:10 +0000 https://ogzero.org/?p=3334 Proseguiamo dopo l’articolo di Eric Salerno con cui abbiamo inaugurato questa particolare attenzione sul passato, il presente e l’immediato futuro del Ciad, con questo punto sui dilemmi legati alla regione del Sahel redatto da Angelo Ferrari, con un podcast finale che raccoglie un’analisi di Luca Raineri.  Il Primo Maggio a Sarah, a 550 km dalla […]

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Proseguiamo dopo l’articolo di Eric Salerno con cui abbiamo inaugurato questa particolare attenzione sul passato, il presente e l’immediato futuro del Ciad, con questo punto sui dilemmi legati alla regione del Sahel redatto da Angelo Ferrari, con un podcast finale che raccoglie un’analisi di Luca Raineri. 

Il Primo Maggio a Sarah, a 550 km dalla capitale, le forze di sicurezza hanno sparato contro una folla di manifestanti che stava protestando contro il Consiglio militare di transizione (Cmt) al potere in Ciad dalla morte del presidente Idriss Deby, uccidendo almeno 4 persone. La repressione violenta delle manifestazioni è stata criticata da alcuni tra i maggiori sostenitori del Ciad: la Francia, gli Stati Uniti e l’Unione africana (AU). Come già era successo in Sudan dopo la fine di al-Bashir, i ciadiani, stufi dell’arroganza dinastica dei militari filofrancesi, si sono ribellati  e le loro parole sono state raccolte da “AfricaNews”: «Non vogliamo che il nostro Paese diventi una monarchia», ha dichiarato un manifestante di 34 anni, Mbaidiguim Marabel. «I militari devono tornare in caserma per far posto a una transizione civile», ha aggiunto. «La polizia è arrivata, ha sparato gas lacrimogeni, ma noi non abbiamo paura», ha affermato Timothy Betouge, 70 anni. Ma il ruolo dell’unica nazione stabilizzata dall’autocrazia di Déby, fondata sull’esercito, è quello di gendarme per conto della Francia; mentre il suo destino è da sempre legato a quello della Libia e un accordo nel paese maghrebino può provocare squilibrio in Ciad, travasando ribelli e milizie.


Le Carte costituzionali della Françafrique

La democrazia in Africa balbetta. Non è certo una novità e molte repubbliche assomigliano sempre di più a delle monarchie dove il potere lo si assume per successione dinastica. L’ultimo caso è quello del Ciad. Nel giorno della proclamazione dell’ennesima vittoria – la sesta – alle presidenziali del padre padrone del paese, Idriss Déby, segue immediatamente l’annuncio della sua morte sul campo di battaglia. Il presidente-guerriero era al fronte per combattere i ribelli provenienti dalla Libia, il Front pour l’alternance et la concorde au Tchad (Fact). Una versione poco credibile, ma è quella ufficiale. Immediatamente viene formato il Consiglio militare di transizione (Cmt) al cui vertice sale, guarda caso, il figlio di Déby, Mahamat Idriss Déby. Già militare di carriera a capo della guardia presidenziale con esperienza di guerra in Mali, dove ha svolto l’incarico di secondo in comando delle forze speciali impegnate nel conflitto in Azawad. La presa di potere del figlio di Déby – perché di questo si tratta – viene giustificata per «assicurare la difesa del paese in situazioni di guerra contro il terrorismo e le forze del male, e garantire la continuità dello stato». La Costituzione del Ciad, così, diventa carta straccia. La Carta fondamentale prevede, infatti, che sia il presidente dell’Assemblea nazionale a dover subentrare al capo dello stato defunto e non il figlio. Le costituzioni in Africa hanno un valore relativo: si cambiano, si modificano o si stracciano a seconda delle esigenze del momento di chi governa. L’alternanza al potere, come si vede in maniera plastica in Ciad, risponde più al mantenimento di delicati equilibri politici e, a volte, etnici, ma anche internazionali. Il Ciad è considerato un alleato fondamentale della Francia – e dell’intero occidente – nella lotta al terrorismo che sta infestando l’intero Sahel. Quello ciadiano è l’unico esercito dell’area degno di questo nome. Déby padre – dopo la scoperta del petrolio – ha investito tutto sulla sicurezza costruendo un esercito efficiente con lui comandante in capo. Per la Francia perdere un alleato così prezioso nell’ambito dei paesi del G5 Sahel, sarebbe una catastrofe.

L’esercito più addestrato del Sahel sotto scacco di un gruppo ribelle del Tibesti

La morte di Déby, tuttavia, avrà delle conseguenze concrete su tutta l’area. Un Ciad instabile non giova a nessuno. E quindi si spiega un’alternanza al potere così forzata da scatenare le proteste della popolazione, che vive in condizioni molto precarie, e il silenzio della Francia. Non a caso il Ciad è da sempre considerato il braccio armato dell’occidente in un contesto tremendamente instabile come quello saheliano. Secondo Giovanni Carbone, responsabile del Programma Africa dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), ancora una volta, «così come era avvenuto per lo stesso Déby quando arrivò al potere nel 1990, è stato un movimento ribelle proveniente dal nord a cambiare le carte del potere a N’Djamena. Il Ciad è attorniato da contesti di instabilità e benché non fosse il fulcro della regione era un partner ricercato in virtù di una tradizione di impegno militare e di efficienza del proprio esercito. Il paradosso è che mentre N’Djamena è stata chiamata come elemento capace di contrastare Boko Haram e di sostenere il G5 Sahel, non è stata in grado di fermare questo gruppo ribelle», il Fact.

L'immediato futuro del Ciad

L’11 aprile, infatti – giorno delle elezioni presidenziali – il gruppo armato Fact ha attraversato il confine libico, entrando nel Nord del paese con un obiettivo chiaro: liberare il paese dalla dittatura di Déby. Il governo di N’Djamena ha riferito di «un’incursione di diverse colonne di veicoli pesantemente armati», respinta dall’aviazione ciadiana. Governo che ha condannato l’ennesimo tentativo «di destabilizzare il Ciad dalla Libia». Cosa analoga era accaduta all’inizio del 2019, quando i ribelli dell’Unione delle forze della resistenza (Ufr) lasciarono il Fezzan e, avanzando da nord, hanno cercato di arrivare alle porte della capitale del Ciad. A circa mille chilometri di distanza da N’Djamena, vennero fermati dai caccia dell’aviazione francese nell’ambito dell’operazione Barkhane. Oggi, tuttavia, occorre constatare che la Francia non ha intenzione di intervenire direttamente, almeno per ora.

Dirette conseguenze della smobilitazione annunciata delle milizie libiche?

Rimane l’incognita libica. La tregua raggiunta in Libia e il previsto ritiro dal paese di tutti i combattenti stranieri, solleva interrogativi sul futuro dei mercenari africani impegnati da anni nel conflitto libico. Secondo Claudia Gazzini, analista dell’International Crisis Group, sentita da “InfoAfrica”, sono «quattro i gruppi armati dell’opposizione ciadiana in Libia», complessivamente duemila uomini, «di cui più della metà ha combattuto per il generale Khalifa Haftar». Il Fact è in Libia da tanti anni, spiega Gazzini, e «tra fine 2018 e inizio 2019, quando Haftar è entrato nel sud della Libia, è passato dalla sua parte. La sua base era nella zona di Jufra, nel Sudovest libico». L’analista del Crisis Group, spiega che il Fact «ha attraversato il confine libico, è entrato nel Nord del Ciad, è arrivato a Zouarké e li si è fermato. I miliziani non sono entrati nelle cittadine dove ci sono le basi militari, non sono entrati a Wour, e quindi la forza militare ciadiana non è intervenuta».

L'immediato futuro del Ciad

Haftar, Emirates, Wagner: la smobilitazione spinge il Fact in Ciad

Ci sono stati due raid aerei e i ribelli hanno detto di non aver subito perdite, ma qui è difficile distinguere tra realtà e propaganda. Di sicuro, secondo Gazzini, «nessuno sembra particolarmente allarmato da questa avanzata, a differenza del 2019, quando ci fu l’incursione francese». Quale sia lo scopo del Fact, non è ancora chiaro. Rimane un’incognita. Di certo i combattenti di questo gruppo sono ben armati e con molta probabilità le armi sono di provenienza russa ed emiratina, non è un mistero, infatti, che a fianco di Haftar si sono schierati gli Emirati e il gruppo di mercenari russi della Wagner.

Il tema del rimpatrio dei mercenari africani, che hanno combattuto in Libia, nei paesi di origine non è da trascurare. L’incursione del Fact potrebbe avere il significato di contare, in futuro, nel riassetto del Ciad così da poter comprendere anche le milizie ribelli. Ma è solo un’ipotesi. Il non intervento occidentale, poi, potrebbe far pensare che si voglia aprire un negoziato, appunto, per includere i gruppi armati nel futuro Ciad, favorendo la smobilitazione degli stessi dalla Libia. Quindi un’incursione, in un qualche modo, se non incoraggiata, ma tollerata dall’occidente. La morte di Déby apre scenari, per ora, ancora sconosciuti. In questo quadro la smobilitazione dei mercenari sudanesi, presenti in Libia, sembra essere più concreto, e già sta avvenendo, ma in Sudan è stato avviato un processo “democratico” che il Ciad non sta vivendo e, soprattutto, Déby ha sempre considerato i gruppi ciadiani in Libia e gli oppositori come dei veri e propri terroristi. Infatti, il Consiglio militare si è rifiutato di negoziare con il Fact. Insomma, un bel rompicapo.

L'immediato futuro del Ciad

In questa fase transitoria non potevano mancare le proteste per quello che in molti definiscono un colpo di stato, nonostante il figlio di Déby si affanni a parlare al paese e a nominare un primo ministro “laico”. Le proteste si sono concentrate, soprattutto, sul fatto che la Costituzione del paese sia stata completamente aggirata e poi, ovviamente, contro l’ingerenza della Francia negli affari del Ciad e contro la transizione. Mahamat Idriss Déby, intanto, ha nominato un primo ministro “civile”, Albert Pahimi Padacké, che è stato l’ultimo primo ministro del maresciallo Déby tra il 2016 e il 2018, poi si è dissociato dalla maggioranza e si è candidato come rivale, indipendente, del capo dello stato alle presidenziali dell’11 aprile. A Radio France International ha spiegato così questo cambio di rotta e l’accettazione dell’incarico: «Ci ho pensato – ha detto – ho esaminato le questioni che il nostro paese deve affrontare oggi. E mi sono detto che ci sono momenti della vita in cui devi accettare le sfide per il bene della tua gente». Di sicuro la nomina di Padacké, da parte del Cmt, dovrebbe servire a placare le proteste. Ma non è così. C’è da chiedersi se le manifestazioni – che hanno già provocato diversi morti, feriti e arresti arbitrari – si estenderanno anche in zone remote del paese e non solo nelle aree urbane.

A gettare scompiglio, poi, è arrivata la nomina, sempre da parte del Cmt, di un segretario personale di Mahamat. Si tratta di Idriss Youssouf Boy, un membro della stretta cerchia familiare. Militare, vicedirettore dell’Agenzia nazionale per la sicurezza e da poco nominato console in Camerun. Insomma, gli affari del Ciad si giocano tutti in famiglia.

Il giovane Déby, durante un messaggio rivolto alla nazione, ha giustificato la creazione dello stesso Cmt adducendo come principale motivazione le dimissioni del presidente dell’Assemblea nazionale che in base alla Costituzione avrebbe dovuto assumere le funzioni di capo dello stato.

Al di là della retorica contro i ribelli, definiti “forze del male”, Déby ha sostenuto che la preoccupazione principale del Cmt sarà quella di garantire la sicurezza e la coesione nazionale nella fase di transizione perché «la guerra non è finita e permane la minaccia di attacchi da parte di altri gruppi armati all’estero». Secondo Déby, il Consiglio militare di transizione non ha altro obiettivo «che garantire la continuità dello Stato, la sopravvivenza della nazione e impedire che sprofondi nel nulla, nella violenza e nell’anarchia». I membri della Cmt sono soldati «che non hanno altra ambizione che servire la loro patria lealmente e con onore».

Mahamat Deby ha poi ricordato la scelta di affidare il governo a una personalità civile, che guiderà un esecutivo di transizione che porterà avanti un’agenda imperniata su riconciliazione nazionale, pace, unità e solidarietà. «Questi valori così cari al nostro defunto presidente saranno testati e sanciti in un dialogo nazionale inclusivo che sarà organizzato durante questo periodo di transizione». Deby ha poi detto di aver assunto il ruolo di “garante” di questo dialogo, secondo «un preciso calendario che il governo sarà chiamato a elaborare». Nel suo discorso il nuovo leader del paese ha annunciato la creazione di un Consiglio nazionale di transizione, rappresentativo di tutte le province e di tutte le forze vive della nazione «per consentire il supporto legislativo dell’azione governativa e dare al paese le basi per una nuova Costituzione». L’obiettivo del processo «è consentire di organizzare quanto prima elezioni democratiche, libere e trasparenti. La democrazia e la libertà introdotte in Ciad nel 1990 sono e rimarranno valori irreversibili». Insomma, tutta retorica, per ora, e di certo la Costituzione non è più un riferimento per il rampollo di Déby padre.

Poi c’è il paese vero

L'immediato futuro del Ciad

Tessalit, 1969. Scatto di Eric Salerno

Poi c’è il paese vero. Quello che dagli equilibrismi internazionali non guadagna nulla, anzi. Il popolo, come spesso accade, è solo sullo sfondo. I dati non sono certo confortanti: l’indice di sviluppo umano è pari a 0,328, molto basso, e colloca il paese al 183esimo posto al mondo, il Pil pro capite è 709 dollari, il tasso di analfabetismo è del 65 per cento. La maggioranza di quasi 16 milioni di abitanti vive in condizione di povertà. Tutto ciò nonostante il paese viva, di fatto, sull’estrazione petrolifera. Un consorzio guidato dalla statunitense ExxonMobil ha investito 3,7 miliardi di dollari per sviluppare le riserve di petrolio a 1 miliardo di barili. Ma poi c’è Idjélé, una donna “robot”, con lo sguardo perso nel vuoto che per dodici ore al giorno, per miseri guadagni, colpisce con un pesante martello un pezzo di cemento per sminuzzarlo e poi rivenderlo. Questo avviene sotto il solo cocente con temperature che superano i 40 gradi.

Nel cuore di N’Djamena, lungo una strada senza ombra ai piedi dei moderni edifici della Cité internationale des affaires, decine di donne spaccano per 12 ore al giorno blocchi di cemento. Idjélé, 38 anni, ma ne dimostra 20-30 in più, ha il viso ricoperto da una polvere biancastra che arrossisce gli occhi, le labbra gonfie e screpolate per l’estrema stanchezza, le dita deformate e graffiate dalla sabbia che raschiano e setacciano per recuperare ogni sassolino ricavato dal blocco di cemento. Queste donne sono al centro di un circolo vizioso, se non tragico, dell’economia sommersa di questo Ciad classificato dall’Onu come il terzo paese meno sviluppato al mondo. Gli uomini comprano macerie nei cantieri demoliti e le rivendono a queste donne che si preoccupano di sbriciolarli per poi rivendere i sassolini ricavati a chi non può permettersi cemento puro o cemento armato, costoro li trasformano in mattoni e con un po’ di fango o cemento vi costruiscono i muri di una nuova casa. Idjélé, guadagna pochi centesimi di euro per ogni sacco di sassolini. Dare dignità a queste donne, tuttavia, non sembra essere nei piani del giovane Déby. Alla comunità internazionale interessa di più che il Ciad continui a svolgere il suo ruolo di stato forte nella regione del Sahel, il resto sono affari interni, compresa Idjélé.

L'immediato futuro del Ciad

N’Djamena, 2015

Proponiamo infine un intervento di Luca Raineri a Bastioni di Orione, trasmissione di Radio Blackout , del 24 aprile 2021, che analizza a sua volta la situazione geopolitica del Sahel, sottolineando le derivazioni economiche dei conflitti etnici e l’incremento della presenza militare europea nella regione – e italiana con il coinvolgimento in forze nella missione Takuba.

“Idriss Déby, un fils de pute, mais notre fils de pute”.

 

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Kivu, un non-luogo: l’habitat autosostenibile di traffici e milizie https://ogzero.org/il-kivu-un-non-luogo-habitat-autosostenibile-di-traffici-e-milizie/ Sun, 14 Mar 2021 15:48:23 +0000 https://ogzero.org/?p=2599 «In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso […]

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«In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso percorso. La rete viaria completamente distrutta. E oggi non è cambiato nulla. Ma alle aziende minerarie non servono le strade, si muovono con aerei ed elicotteri». Riprendiamo da qui il viaggio nella zona dei Grandi Laghi africani, nel Kivu, un non-luogo le cui risorse arricchiscono un mondo già ricco e predatorio, e dove milizie e rivalità si spartiscono il territorio ai danni di una popolazione sempre più povera la cui identità è smarrita e spesso dimenticata.

Il quadro storico e quello dei traffici: guerre mondiali e per procura

La Repubblica democratica del Congo (RdC) è un non-lieux. Un non-luogo che non trova pace, attraversato da conflitti aspri o a bassa intensità, snaturato dalle pressioni da oltreconfine di una nazione devastata e irriconoscibile per gli smarriti autoctoni; nella definizione di Marc Augé “non-luogo” è quello che non riesce a essere identitario (non contrassegna univocamente l’identità di chi lo abita), relazionale (non c’è comune appartenenza nei rapporti tra tutti i soggetti della regione), storico (le singole comunità non si riconducono a comuni radici). Nessuno, fino a ora, è riuscito a dare in sessant’anni una speranza a oltre 84 milioni di abitanti di un paese ridotto a supermercato di risorse da taccheggiare. Anche se le elezioni del 2019, con la vittoria di Felix Tshisekedi, figlio dell’oppositore storico di Mobutu Sese Seko e di Kabila padre, hanno portato il Congo Kinshasa verso una parvenza di stabilità, l’oggetto del contendere rimane, ovvero il paese stesso. Ciò che il suo sottosuolo contiene: tutto quello che il mondo libero desidera.

Non a caso quelle aree sono ricche di risorse minerarie, cambiano nome, affiliazione, ma l’obiettivo è sempre quello: coltan, diamanti, oro, legname, petrolio… e per impossessarsene si è combattuta una guerra che l’ex segretario di stato americano Madeleine Albright definì la “Guerra mondiale africana” (1996-2004). Sul terreno si sono dispiegati gli eserciti di Angola, Burundi, Namibia, Ruanda, Uganda e Zimbabwe; si sono contesi pezzi di territorio e le aeree di più intenso conflitto corrispondevano a quelle più ricche di risorse naturali.

Da quella guerra che vide combattersi 8 eserciti nazionali e 21 milizie sono nate decine di formazioni di guerriglieri al soldo di quelle stesse nazioni o di altre più lontane; nell’area ora si confrontano oltre venti gruppi etnici con propri miliziani che operano tuttora in tutto il paese e in particolare nel Kivu e nel Nordest del paese, continuando a contendersi quella spartizione bellica. Guerre di mercenari per procura, che proseguono (ciascuno cambiando nazioni di riferimento in base al prezzo) quel conflitto panafricano che ha provocato più di 4 milioni di morti, la maggior parte per fame e non per armi da fuoco. Il paese è arretrato di 100 anni: alla fine della guerra la popolazione non aveva nulla e così le ong hanno cominciato a ripristinare, innanzitutto, dispensari e ospedali, ma nessuno vi accedeva: la gente si vergognava ad andare in ospedale perché non aveva di che coprirsi, i vestiti erano un lusso.

Invece paesi come l’Uganda sono diventati improvvisamente esportatori di oro. Il Ruanda del preziosissimo coltan, che si trova solo in Congo nella regione del Kivu dove si muovono milizie e faccendieri spregiudicati che lo trasportano oltre confine e il Pil di Kigali cresce a dismisura.

Per riportare la “pace” è stata istituita una missione dell’Onu composta da oltre 17.000 uomini, Monusco è il tentativo di stabilizzazione di una regione più grande e impegnativo mai messo in campo dalle Nazioni Unite. Oggi la missione è ancora al suo posto (i suoi budget stratosferici di più di un miliardo all’anno fanno parte del sistema economico del Kivu), la guerra non è finita e la pace lontana: spariti gli eserciti stranieri, sono rimasti i guerriglieri che infestano il territorio, lo rendono insicuro e si battono per lobby economiche e politiche, persino di potenze regionali interessate alle risorse.

Contrabbando e saccheggio

Questo paese è un non-lieux. Come per la corsa all’oro, le aree dei ritrovamenti diventano la meta di disperati in cerca di fortuna. Ma non solo. Sono la meta delle multinazionali, degli stati di mezzo mondo che vogliono approfittare delle risorse del Congo.

«Il requisito principale di un non-luogo non è attribuibile a un generico elenco di luoghi progettati, ma dipende dalla percezione collettiva, che gli utenti hanno di quel determinato contesto spaziale» (Paolo Campanella, 2006), perciò riconduciamo quella definizione se non a tutta la repubblica congolese, almeno alla regione del Kivu, una zona di razzia; il luogo delle guerre fratricide, vendute come tribali, ma combattute proprio per le risorse minerarie.

In Rdc si trova di tutto: legno, rame, cobalto, coltan, diamanti, oro, zinco, uranio, stagno, argento, carbone, manganese, tungsteno, cadmio e petrolio. Materie prime che fanno gola a mezzo mondo.

La Repubblica democratica del Congo è lo stato più ricco di risorse naturali dell’Africa, gli oltre 84 milioni di abitanti potrebbero vivere nel benessere, solo se i suoi governanti investissero le royalties ricavate dalle estrazioni minerarie nel paese. Invece no: l’economia del paese è tradizionalmente orientata alle esportazioni, fortemente dipendente dalle commodities primarie. I diamanti hanno sostituito rame e cobalto come principale voce delle esportazioni (un terzo del contrabbando della zona dei Grandi Laghi): il cobalto finisce tutto nelle mani dei cinesi; i diamanti, oltre 22 milioni di carati, sono nelle mani delle multinazionali; il coltan – estratto praticamente solo in Congo – prezioso per l’industria della telefonia mobile e per quella aerospaziale, è gestito dal Ruanda. Il Congo possiede la seconda foresta pluviale al mondo, da cui si ricava legname pregiato. L’autosufficienza alimentare in molte aree del paese è un miraggio. Le terre coltivate rappresentano solo il 4 per cento del totale, nonostante il 75 per cento della popolazione attiva si occupi di agricoltura, per lo più di sussistenza; il Pil pro-capite è di circa 450 dollari, uno tra i più bassi al mondo, e l’indice di sviluppo umano è 0,433 che colloca la Repubblica democratica del Congo al 176° posto al mondo.  E la stragrande maggioranza della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno.

La “fluidità” delle milizie abita territori porosi

Secondo il Gec (Gruppo di studio sul Congo), almeno 125 gruppi armati sono censiti nelle regioni orientali del Nord Kivu e del Sud Kivu, teatro da oltre 20 anni di quello che è stato definito da più fonti un “lento genocidio”, la metà dei quali è tutt’ora in attività.

Nella regione orientale della Repubblica democratica del Congo si muovono decine di milizie. Difficile tracciarne una mappa. La loro ragion d’essere è la fluidità, cambiare “padrone”, seguire gli affari economici e, dunque, concentrarsi sulle risorse minerarie e lì mettere in atto la loro azione di controllo e gestione del territorio. Storicamente nell’area agiscono i miliziani Mayi Mayi – storica formazione nata tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila come sorta di autodifesa dalle truppe ruandesi che per alcuni anni hanno occupato quell’area – sono tornati a essere molto attivi nella regione.

La distribuzione delle milizie nella Regione dei Grandi Laghi (fonte dati Agi rimaneggiata da OGzero)

I Mayi Mayi, tuttavia, sono semplicemente un nome, infatti comprendono milizie guidate dai signori della guerra, dagli anziani delle tribù, dai capi villaggio, da faccendieri economici. I gruppi hanno perso anche la loro aura mistica: un tempo combattevano solo con il machete forti del potere che gli derivava dall’acqua che li proteggeva dalle pallottole. Quell’epoca è finita. E agli inizi degli anni Duemila dalla loro lotta di “autodifesa” dei villaggi sono passati alla difesa del territorio contro l’occupazione ruandese. Occupazione che Kigali ha sempre negato, evidente nei primi anni Duemila proprio nell’area di Goma. L’esempio più eclatante della presenza ruandese e del controllo del territorio era che il prefisso telefonico internazionale per chiamare quelle zone era quello del Ruanda. Un abitante di Kinshasa, la capitale della Repubblica democratica del Congo, per parlare con un parente di Goma doveva comporre il prefisso internazionale del confinante Ruanda e viceversa. Quell’occupazione, giustificata da Kigali con il pretesto della lotta contro le milizie hutu responsabili del genocidio fuggite nel Kivu, si è presto trasformata in un’azione predatoria nei confronti delle risorse della regione, in particolare il coltan di cui Kigali è diventato esportatore. La milizia dei Mayi Mayi si è presto trasformata, data la sua fluidità, in una lobby d’affari armata, partecipando alla cosiddetta “guerra del coltan”. Da mesi il gruppo ha ripreso vigore nella regione. Ai Mayi Mayi è stata attribuita la responsabilità di 82 attacchi, che hanno provocato 81 morti.

Nel Nordest della Repubblica democratica del Congo è stato attivo anche il famigerato movimento, il Lord’s Resistence Army (Lra), esercito di resistenza del Signore, guidato dal famigerato Joseph Koni, che ha fatto della religione la motivazione della sua lotta. Il movimento nato in Uganda si è presto trasformato in gruppo terroristico e ha allargato il suo raggio di azione sconfinando, tra gli altri paesi, nel vicino Congo e le motivazioni religiose sono scomparse. L’Lra ha rapito e costretto più di 60.000 bambini a combattere nelle sue fila. La ferocia di Koni ha trasceso ogni ragione politica e religiosa della sua lotta. Questo movimento, tuttavia, ha ridotto le sue attività, ma non è scomparso. L’Lra è rimasto acefalo per l’incriminazione all’Aia del suo capo e si è diviso in cellule al soldo del miglior offerente.

Gli eredi del genocidio: l’influenza ruandese

In tutto questo disordine e povertà non poteva mancare la penetrazione del terrorismo islamista. I jihadisti vivono di disordine e povertà (forse meno di religione): il loro brodo di coltura. È nato, infatti, l’Islam State Central Africa Province, una sorta di emanazione del Califfato del defunto al-Baghdadi. Ed è proprio nel Nordest della Repubblica democratica del Congo che avvengono la maggior parte degli attentati; svariati gruppi volta per volta li rivendicano, ma la maggior parte di queste azioni criminali sono attribuite al gruppo nato in Uganda e di ispirazione salafita, Allied democratic Forces (Afd). Guidata da Jamil Mukulu, un ex cattolico convertito all’islam, è considerata vicina al movimento sunnita Tablighi Jamat e secondo molte fonti ufficiali è legata all’Isis e alle reti del terrorismo internazionale. Gli attacchi messi in atto da questo gruppo dall’ottobre scorso sono più di una decina e hanno provocato 10 morti, evidenziando l’espansione del terrorismo islamico nella regione dei Grandi Laghi. Azioni che hanno come obiettivo le ricchezze minerarie. Queste milizie, che hanno ripreso vigore proprio grazie alla sua affiliazione all’Isis, sono diventate una sorta di attore “parastatale” creando scuole, ospedali e riscuotendo le tasse. Ma gli introiti maggiori arrivano dal commercio illegale dell’oro e del legno. L’Adf, tuttavia, è molto attento a non entrare in conflitto con i Mayi Mayi e con il Fronte democratico di liberazione del Ruanda.

Ma da dove nasce l’Adf?

Prima guerra africana

Il Fronte democratico di liberazione del Ruanda è nato nel 2000, dopo aver assorbito l’Esercito di liberazione del Ruanda (ALiR), gruppo armato costituito per lo più da ex militari delle Forze armate ruandesi (Far), che difendevano l’ideologia dell’Hutu Power, sconfitte durante il genocidio del 1994 contro i tutsi e gli hutu moderati, che portò al potere il tutsi Kagame. A luglio 1994, dopo l’ascesa al potere di Kagame, l’Esercito patriottico del Ruanda ha sostituito le Far, un gran numero di esponenti del quale ha attraversato il confine, scappando in Congo dove si erano rifugiati decine di migliaia di cittadini hutu. Dal 1995 al 1996 le ex Far si sono riorganizzate per formare l’Esercito di liberazione del Ruanda, il cui obiettivo era quello di riprendere il potere a Kigali, lanciando incursioni in territorio ruandese dalle sue basi congolesi. Per arginare questi ribelli hutu, il presidente Kagame ha fornito armi e fatto addestrare delle milizie tutsi banyamulenge che gravitano nella provincia del Sud Kivu.

In modo concertato con l’Uganda queste milizie si sono amalgamate con militari dell’esercito ruandese e ugandese, formando un movimento ribelle al soldo di Kagame, l’Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo (Afdl), diretta da un gruppo di oppositori all’allora presidente congolese, il dittatore Mobutu.

In un gioco complesso di alleanze incrociate, i due movimenti ribelli ruandesi – quello hutu e quello tutsi – seminarono terrore nel confinante Congo a partire dal 1997, con l’Afdl impegnato in una guerra di invasione delle province orientali dell’ex Zaire, scatenando la Prima guerra del Congo e portando al potere nel mese di luglio 1997 il suo portavoce Laurent Désiré Kabila, autoproclamatosi presidente e ribattezzando il paese in Repubblica democratica del Congo.

Seconda guerra africana

I tutsi ruandesi, alleati con il nuovo presidente, si trovarono in una posizione di forza, spingendo 300.000 rifugiati ruandesi a fuggire in altre regioni del Congo e altre migliaia a fare ritorno in Ruanda. Fu allora che l’Esercito di liberazione del Ruanda (hutu) si rese responsabile del massacro di altre migliaia di civili in una controffensiva nell’Est della Rdc, anche nel Parco nazionale del Virunga, e nel Nord del Ruanda.

Nel 1998 in Rdc scoppiò la Seconda guerra africana, dopo che il presidente Kabila aveva chiesto ai soldati ruandesi e ugandesi, suoi alleati, di uscire dal territorio nazionale, ma questi ultimi crearono un nuovo movimento ribelle, il Raggruppamento congolese per la Democrazia (Rcd) per ribaltare il potere di Kinshasa. Per difendersi Kabila strinse un accordo militare con gli hutu ruandesi dell’ALiR, rifornendoli di armi e munizioni, che alla stregua di altri gruppi armati rivali si resero protagonisti di gravi crimini contro l’umanità sia nell’Est della Rdc che in Ruanda e persino in Uganda.

Dopo l’assassinio del presidente Kabila, il 18 gennaio 2001, e la successione del figlio Joseph, l’ALiR ha consolidato la sua alleanza con l’organizzazione hutu ruandese delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda – basata a Kinshasa, la capitale –, che lo ha progressivamente assorbito. Le Fdlr sono l’emanazione del Comitato di coordinamento della resistenza, un gruppo di esiliati ruandesi hutu, dissidenti dell’Esercito di liberazione del Ruanda, che hanno dato vita al nuovo gruppo nel maggio 2000.

Le guerre, anche a bassa intensità, che si combattono nella regione del Kivu, servono alle varie milizie presenti sul territorio proprio per impadronirsi dei giacimenti di coltan e quindi poter esercitare il monopolio dell’estrazione, (utilizzando manodopera minorile, veri e propri schiavi che muoiono di fatica e malattie portate dal contatto con questo minerale) contrabbandare il minerale nei paesi vicini – come il Ruanda che è diventato uno dei maggiori esportatori, pur non avendone dei giacimenti, per poi venderlo alle industrie produttrici di componenti elettronici. Lo sfruttamento incontrollato di questa risorsa congolese ha costretto l’Onu ad accusare, in un rapporto del 2002, le compagnie impegnate nello sfruttamento delle risorse naturali del Congo – quindi anche il coltan – di favorire indirettamente i conflitti civili nell’area.

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Non spegnete subito i riflettori sul Congo https://ogzero.org/riflettori-sul-congo/ Sat, 06 Mar 2021 09:14:03 +0000 https://ogzero.org/?p=2564 Il 22 febbraio 2021 si accendono i riflettori sul Congo: nel parco del Virunga, in un agguato sulla via che porta a Rutshuru, vengono uccisi l’ambasciatore italiano a Kinshasa Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista del Pam Mustapha Milambo. Angelo Ferrari ricorda il percorso compiuto nella regione nota per la presenza (e la […]

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Il 22 febbraio 2021 si accendono i riflettori sul Congo: nel parco del Virunga, in un agguato sulla via che porta a Rutshuru, vengono uccisi l’ambasciatore italiano a Kinshasa Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista del Pam Mustapha Milambo. Angelo Ferrari ricorda il percorso compiuto nella regione nota per la presenza (e la tutela) dei gorilla quando ancora era in corso la Seconda guerra africana. Ve lo proponiamo prima che i riflettori si spengano nuovamente sulla zona dei Grandi Laghi su cui torneremo presto con una analisi approfondita su milizie, saccheggi di risorse e spartizioni di territori…


Mobutu se ne è andato

In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso percorso. La rete viaria completamente distrutta. E oggi non è cambiato nulla. Ma alle aziende minerarie non servono le strade, si muovono con aerei ed elicotteri.

Una normalità che si accompagna alla rassegnazione. Mobutu se ne è andato, ha terminato la sua marcia alla faccia del nome che si era dato dopo il suo editto di eliminazione dei nomi occidentali per sostituirli con quelli tribali. Lui prese il nome di Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Za Banga, che significa “il guerriero onnipotente che, grazie alla sua resistenza e all’inflessibile volontà di vittoria, passerà di conquista in conquista lasciando una scia di fuoco dietro di sé”. Lui ha lasciato un paese distrutto e depredato.

Una brutta piega: invasioni e fazioni ribelli

Mobutu non c’è più, ma la storia non ha preso la piega che avrebbe dovuto. Quella che il popolo congolese si aspettava, che i padri si auguravano, in cui i figli hanno creduto. Invece nulla di tutto ciò. Nel 1996 il Ruanda ha invaso la Repubblica democratica del Congo e organizzato l’estromissione di Mobutu l’anno seguente, con l’entrata trionfale a Kinshasa di Laurent-Désiré Kabila. Il 1998 gli stessi ruandesi se la prendono con il loro uomo, innescando una guerra che ha causato oltre 4 milioni di morti. Kabila se ne va ucciso dalla sua stessa guardia del corpo. Gli succede il figlio Joseph Kabila, 29 anni, in tutta fretta, nel gennaio del 2001 e i maligni vedono in lui la mente che ha ordito il complotto di cui è rimasto vittima il padre. Dopo intensi negoziati Kabila riesce ad arrivare agli accordi di pace nel 2003 e il nuovo governo riesce a mettere fine alla “grande guerra” che porta al ritiro degli eserciti stranieri alleati con il governo, Angola, Namibia e Zimbabwe, e di quelli che sostenevano i ribelli, Ruanda e Uganda. Finita la grande guerra gli scontri tra le fazioni ribelli, che crescono come funghi, non si placano. Proseguono incessantemente anche oggi, senza sosta per il Congo e la sua gente che vive, ormai, nella rassegnazione, avendo perduto la capacità di progettare un futuro compatibile con la dignità umana. I sogni e le speranze, che maturano oggi, si infrangono, domani, contro la ripresa di azioni violente da parte di un neonato gruppo ribelle. Sembra che gli unici capaci di progettare un futuro siano gli uomini in armi. I congolesi, invece, rassegnati a una comunità internazionale che considera il Congo una causa persa.

2003: un paese distrutto e depredato

E nel 2003, dieci anni dopo il primo viaggio in Zaire, mi si presenta un paese distrutto fino nell’intimo. Una lingua nera attraversa Goma. Il Nyiragongo, colui che vomita, ha riversato migliaia di tonnellate di lava sulla città, spaccandola in due. È passato più di un anno ma i segni della distruzione sono ancora evidenti.

Il cratere del Nyiragongo nel parco del Virunga (foto Marian Galovic)

Destino amaro per questa città del Nord Kivu in Congo. Nel 1994 “l’invasione” dei profughi ruandesi, più di due milioni, nel 1996 l’inizio della guerra di Desiré Kabila, nel 1998 una nuova guerra ha trovato il suo risvolto più cruento proprio in questa città e lungo la dorsale del parco del Virunga al confine con il Ruanda. La lava ha trascinato con sé case, abitanti, una parte dell’aeroporto – dopo sette anni la ferita è ancora aperta e l’ho potuto constatare di persona durante un viaggio a Goma nel 2010 – la cattedrale, la casa dei saveriani, fino a spegnersi nel lago Kivu che ha ribollito per giorni. Ironia della sorte non ha colpito la casa del vecchio e defunto dittatore, Mobutu. Ironia della sorte per una città che non si rassegna al suo destino, che in meno di cinque anni ha visto triplicata la sua popolazione. Una città segnata, fin nel profondo, dai profughi ruandesi, che poi ha visto l’invasione delle truppe del confinante Ruanda.

A Goma l’inizio del viaggio

Goma non si rassegna. Sulla lava i suoi abitanti hanno già ricominciato a costruire case di legno, hanno ridisegnato le strade, le rotonde, un lento ritorno alla normalità di una vita di un paese, il Congo, diviso dalla guerra e dall’odio. Ed è proprio a Goma che inizia il mio viaggio in questo paese ricchissimo e dimenticato dal mondo. Un viaggio per ricordare al mondo che quei 54 milioni di abitanti (nel 2021 hanno superato gli 84 milioni) vivono nella miseria e nel terrore. Un viaggio per rendere memoria a quasi quattro milioni di morti in cinque anni di guerra. Un viaggio per cercare nelle pieghe della disperazione, quei pochi rivoli di speranza e di pace che fanno dire a Bisidi Yalolo, responsabile del Wwf di Goma: «vedete quei fiori che piantiamo… Belli no?». Sì, quei fiori, quelle donne curve sulla lava a piantarli, sono uno dei segni più evidenti di una rinascita di una città che ha deciso di tornare a vivere e di dare un senso anche alla lava che ha bruciato tutto. Bisidi Yalolo la ricorda bene la guerra, ne ha subito le conseguenze, è dovuto scappare nella foresta, è tornato per proseguire un lavoro iniziato nel 1987. Una bomba ha centrato il suo ufficio e allora la fuga disperata. Lo hanno dato per morto finché non l’hanno visto ricomparire a Goma.

«L’epoca era quella della prima guerra di Kabila», mi racconta Bisidi. «Da Goma chiediamo a Nairobi il da farsi. È scoppiata la guerra, dicevo, loro mi hanno risposto, aspettate. Ma una bomba è piovuta diritta sulla nostra sede. Allora sono scappato e ho camminato per giorni percorrendo più di mille chilometri e sono arrivato a Kisangani. A Goma mi davano per morto. Poi sono tornato quando la bufera si è conclusa». È tornato e ha ripreso il suo lavoro di conservazione ambientale, di salvaguardia dei gorilla di montagna. Ma a che serve, quando c’è un intero popolo che muore? «Il problema – continua Bisidi – non è certo quello di interessarsi solo della natura o dei gorilla. Il problema è capire che la natura deve essere protetta ed è una risposta per la gente». I progetti, infatti, del Wwf, sono rivolti alla riduzione dell’impatto dell’uomo sul parco del Virunga. Come? Mettendo in campo progetti di sviluppo sostenibile per la gente del parco.

Rubare: i bambini che cantano

Nel villaggio di Rubare, sulla pista che porta a Rushuru – la stessa maledetta strada dove ha trovato la morte l’ambasciatore italiano Luca Attanasio il 22 febbraio del 2021 – è una festa quando ci vedono arrivare. Per la prima volta negli ultimi cinque anni, dei bianchi si avventurano nella zona. Soldataglia, banditi, retroguardie degli eserciti occupati, quello del Ruanda, imperversano ancora nella zona. Non è più una guerra sistematica, ma saccheggio. Ciò che è accaduto pochi giorni prima del mio arrivo, una ventina di morti, rende ragione di una situazione ancora di tensione. Così come la nutrita scorta armata di militari che mi accompagna e che aumenta di numero man mano che ci addentriamo nella foresta. Io ne ho contati più di una trentina, ma potrebbero essere di più. Ogni tanto vedo facce mai viste che spuntano da dietro le colline. Tutti militari adolescenti. Ma a Rubare, il nostro arrivo, sembra una festa, quasi di liberazione. I bambini ci accolgono con una canzone che, pressappoco, dice così: «Siete venuti in pace, vi accogliamo in pace, tornate a casa e dite a tutti che siamo gente pacifica». Qui a Rubare è in atto un progetto sostenibile a vasto raggio. L’obiettivo è quello di creare una demarcazione tra il parco e la zona agricola, attraverso una serie di attività: produzione di legno per uso energetico alternativo al prelievo del parco, sviluppo di attività agricole per l’arricchimento del suolo e approvvigionamento di generi alimentari, l’allevamento. Ma non solo. Sono stati creati laboratori di sartoria e una scuola di alfabetizzazione frequentata soprattutto da donne. Un modello sperimentale che si sta applicando in molti villaggi.

Sopravvivenza negli insediamenti intorno a Goma (foto Ispencer)

«Abbiamo prodotto e piantato sei milioni di piante», racconta orgoglioso Bisidi. Percorrendo la strada, sinonimo di disperazione e morte, si trovano villaggi che tornano a vivere. Ed è questo che ti capita di vedere mentre ti avvicini al limitare del parco. Vedi le donne, nei campi, chine a zappare una terra fertile che potrebbe dare tanti frutti. Girano appena il capo, non raddrizzano la schiena perché devono continuare a zappare, ma gli occhi raccontano tutto. Tutto il dolore vissuto, tutta la speranza che può dare quel semplice incontro. Mi hanno raccontato che veder dei bianchi, dopo lunghi anni di guerra, gli ha portato un po’ di speranza, anche se è solo un passaggio, un saluto con la mano e un sorriso.

Se hai visto l’Africa, | questo continente gigantesco | che un tempo partorì la stirpe umana, | hai visto anche le donne | con la schiena curva | e le zappe alzate | che cadono e si sollevano | cadono e si sollevano. | La terra turbina | attorno a queste zappe. | Il canto della terra è il canto della zappa. | Il canto della donna. | Il canto della zappa è il canto della vita.      (Henning Mankell, Racconto dalla spiaggia del tempo)

 

“Incontrare” i gorilla nel parco del Virunga:

L’obiettivo del viaggio è, anche, vedere i gorilla di montagna. Farlo da questa parte del parco, nel Congo, ha solo il senso di dimostrare che qualcosa sta cambiando. Che qualche segnale di speranza c’è anche qui, come quei bambini di Rubare che cantano. Ma la stessa speranza rappresentata dalla maestosità della natura, della foresta. Più che “vedere”, la parola giusta è “incontrare” i gorilla di montagna. Entriamo nella foresta vergine, facendoci largo con il machete, aspettiamo un segnale, un richiamo. I militari che ci “accompagnano” restano al limitare della foresta vergine, anche questo per dimostrare che quello spazio deve essere libero e in pace. I gorilla li devi cercare. Ti trovano loro. L’incontro fa tremare le gambe. Una famiglia intera di 14 componenti e i guardiani del parco hanno dato a tutte un nome, quella che incontriamo si chiama Kwitonda. Loro davanti a te, a pochi metri, ti guardano, i piccoli vorrebbero giocare, il dominante, il silverback, invece, non si cura nemmeno di te. Lui è quello che comanda. Ti tremano le gambe quando un gorilla si appoggia al tronco di un albero, incrocia le braccia, e ti guarda, come se volesse entrare in relazione con te, per chiederti «che ci fai tu qui». La paura monta quando uno dei piccoli di tocca un braccio e, come ci hanno spiegato i ranger, abbassi lo sguardo, mai guardarli diritto negli occhi, sarebbe un segno di sfida. La paura passa quando ti prende il berretto e lo porta via.

Gorilla silverback nel parco del Virunga in Congo (foto Photocech)

Sono istanti indimenticabili. Il fremito del corpo, questa volta, non è il sintomo della paura, è piuttosto meraviglia e stupore per essere entrato in relazione con un altro essere vivente e a casa sua. Ecco, la natura ha deciso di renderti partecipe della sua bellezza, come insegna il Wwf di Bisidi nelle scuole di Goma.

In volo: solo un taccuino e la macchina fotografica

Ed è durante una rappresentazione tenutati in onore degli ospiti bianchi, che arriva la telefonata. Dall’altro capo del telefono il generale Roberto Martinelli vicecomandante della Monuc, che ci invita ad andare all’aeroporto di Goma per registrarci su un aereo delle Nazioni Unite diretto a Bunia. I voli commerciali per quella località sono tutti sospesi, troppo pericolo, e allora per poter vedere e documentare ciò che accade in quell’angolo d’Africa non rimaneva altro che chiedere all’Onu. Le probabilità erano poche, ma ora pare che si stia per partire. Di corsa all’aeroporto, ci registriamo su un volo che parte da lì a 15 minuti. Con me non ho nulla, se non la macchina fotografica e il taccuino, ma l’occasione potrebbe non ripetersi e allora si sale sul volo che sta trasportando mezzi blindati e alcuni uomini del contingente uruguaiano dei caschi blu, non c’è tempo per prendere nemmeno lo spazzolino da denti. Dopo uno scalo tecnico per riempire i serbatoi del C-130 a Kigali, si arriva a Bunia.

Bunia: “era una città bellissima”

Disperazione ovunque. Le strade di Bunia, capoluogo dell’Ituri, regione del Nordest del Congo, sono deserte. Si sente solo il rumore sordo delle armi. I colpi dei mortai fanno capire che qui la guerra non è finita. La popolazione si è rassegnata a piangere i morti, a cercare di che sfamarsi. La vita è paralizzata. E nulla possono fare le organizzazioni non governative presenti in città. Riesco a incontrare i volontari di Coopi, Cooperazione Internazionale, che da giorni sono asserragliati in casa. «Nei periodi di calma – dice Silvia Giardino – la gente viene nei nostri centri dove aiutiamo i malnutriti e distribuiamo cibo. Poi cresce la tensione e tutti scappano. Così il nostro lavoro viene vanificato». Coopi si occupa di due centri terapeutici e di otto punti sanitari per combattere la malnutrizione. La popolazione percorre, per raggiungere i centri, anche 60 chilometri a piedi, arriva sfinita. Sono tutti sfollati che non hanno respiro, sono costretti a fuggire di villaggio in villaggio, inseguendo la vita, lasciandosi alle spalle la morte. «La guerra non si è mai interrotta – continua Silvia – si sposta continuamente. Il 70 per cento delle persone vengono nei centri sono sfollati e per questo lavoriamo anche nella distribuzione dei kit cucina. Soffriamo nel vedere la popolazione ridotta in queste condizioni». Dai centri, in momenti di relativa calma, passano tra le 100 e le 150 persone al giorno. Gianni di Mauro, un altro volontario, però ricorda un’altra Bunia, quella di vent’anni fa. «Era una città bellissima – dice – l’ospedale era forse il migliore del Congo. Le strade asfaltate, fiori ovunque. L’economia era fiorente, c’erano addirittura negozi di Armani. In certi alberghi si poteva entrare solo con la cravatta.

Tornare indietro di sessant’anni

La strada Mambasa-Kisangani, lunga 700 chilometri, si percorreva in una giornata, oggi ci vogliono settimane». Bunia è tornata indietro di sessant’anni. Tanta tristezza negli occhi di Gianni. Ma è così, la guerra schiaccia tutto, distrugge. Fuga, disperazione e morte. La città si svuota. Come in ogni guerra. Materassi di gommapiuma sulla testa. Il sole a picco. E rigorosamente in fila indiana lungo la strada che porta all’aeroporto. Bambini per mano con il volto rigato dalla paura. Una processione verso una speranza improbabile. Alle spalle le armi che crepitano. Migliaia cercano rifugio all’aeroporto, chiuso da giorni e diventati ora base militare ugandese, in cerca di una via di fuga dai massacri. La gente di Bunia scappa dai colpi di mortaio che li rincorrono. Sono tutti hema, l’etnia minoritaria della regione, gente orgogliosa, allevatori, nipoti o cugini dei tutsi ruandesi. Dietro di loro i lendu, bantu, figli o cugini degli hutu ruandesi. Sembra un film già visto: quello del genocidio ruandese. Ma questa è realtà. Dura e cruda realtà fatta di morti, massacri, fughe, stupri, rifugiati, contrasti etnici usati ad arte dai ribelli, appoggiati da questo o quest’altro paese in una guerra infinita, quella del Congo, che dura da cinque anni. Gli appetiti dei paesi confinanti, dei ribelli con sigle altisonanti, non si sono arrestati di fronte alle tregue, agli accordi politici che tentano di mettere la parola fine al massacro sistematico.

Ricordare questo viaggio, a distanza di quasi vent’anni, è utile per capire quello che accade oggi. Se allora era guerra piena, ora è a bassa intensità, ma altrettanto feroce. La gente non ha il tempo di riorganizzarsi in un luogo, se deve, nuovamente, più volte all’anno, fare fagotto e scappare altrove. Chi ce la fa. E le milizie, con altri nomi, sono sempre lì a dettare legge. Lo stato lontano e impercettibile.

La speranza (vana) si chiama Uganda

In aeroporto i fuggiaschi si mettono in fila. Dall’altra parte della pista gli ugandesi stanno caricando un aereo: carri armati, blindati e soldati dai volti gentili. Ma anche bambini soldato arruolati per combattere una guerra non loro. Gli hema, in fila, attendono il loro turno. Sperano di salire su quell’aereo che ha come meta Entebbe. Uganda: la salvezza e la certezza di vivere da rifugiati in un paese non loro, in campi fatiscenti, ma lontano dalla sicura morte. I “soldatini” adolescenti scattano all’ordine dei loro comandanti. I rifugiati attendono da giorni di partire. Ecco, vengono chiamati, avanzano. No, tutti indietro. Dietrofront, non è ancora arrivato il momento. E la speranza di sgretola, affonda nell’asfalto bollente della pista.

Gli ugandesi devono lasciare l’aeroporto. La tensione è alta. La Monuc, la missione di osservatori dell’Onu, non ha la forza militare per mantenere il controllo della città, figuriamoci dunque della regione dell’Ituri. Eppure, i compound dell’Onu si riempiono di persone che, qui, si sentono più protette.

È una mattina qualsiasi. La vigilia della partenza delle truppe dell’Uganda, paese occupante, e la tensione si alza. Le strade di Bunia sono deserte, I magazzini chiusi. E non è notte. Tutti aspettano l’offensiva dei lendu. Intanto un plotone di militari congolesi, travestiti da poliziotti, fanno la loro parata, cantando e correndo, mostrando i muscoli per le vie centrali della città. Fanno sapere che ci sono. Sembrerebbero voler rassicurare la popolazione. Ma la gente non sorride. Da lì a poco il plotone cerca rifugio negli uffici della Monuc dove ha trovato riparo anche il capo della polizia locale e dove sono asserragliati i caschi blu uruguaiani. Il plotone si squaglia al primo colpo di mortaio.

Nei palazzi si parla, per strada si muore

Il giorno è arrivato: 6 maggio. Riprendono i combattimenti. È un massacro. Lo scontro è feroce. Si fronteggiano le due fazioni: hema e lendu. È una storia infinita di potere. Tutto questo mentre a Kinshasa sono in corso le trattative per formare il governo di transizione, per definire quanti e quali vicepresidenti affiancheranno il capo dello stato. Nei palazzi del potere, compresi quelli della missione Onu, si discute e intanto per le strade di Bunia si muore. Il gioco politico è chiaro. Il Consiglio di sicurezza ha imposto agli ugandesi di lasciare la regione. L’Uganda ha risposto deciso: lasciamo il Congo in tempo zero. Panico e sconcerto. La Monuc non ha la forza per rimpiazzare militarmente gli ugandesi. E allora si tratta. Il gioco è chiaro. L’Uganda vorrebbe rimanere. La regione è ricca di risorse, il petrolio vorrebbe trovare la luce, e gli ugandesi lo sanno. Per questo lavorano dietro le quinte, sostenendo questa o quest’altra fazione ribelle. All’inizio è l’Unione dei patrioti congolesi (Upc), guidata da Thomas Lubanga di etnia hema, a prendere il potere, ma subito fa l’occhiolino ai ruandesi. Scontenta gli ugandesi e, allora, si va nuovamente alle armi. L’aiuto di Kampala si rivolge ai lendu, nemici giurati dell’Uganda. Insomma, il giochino delle tre carte. In mezzo un contingente di caschi blu uruguaiani che non possono nulla, se non fare da deterrente. Però il mandato è debole. E poi a Bunia non esiste nessuna logistica militare dell’Onu. I primi militari arrivano con due bottiglie d’acqua e due razioni da combattimento. Troppo poco. L’Uganda lo sa. Nei palazzi della Monuc di Kinshasa le trattative di affiancano alla preparazione del contingente militare che dovrebbe sostituire l’esercito di Kampala. Settecento uomini che dovrebbero diventare 2300 entro l’estate. Lo sforzo è enorme. Ma gli ugandesi se ne vanno. È guerra. Sei giorni di battaglia feroce e l’ex amico dell’Uganda, tornato all’ovile, Lubanga torna a controllare Bunia. Viene firmata la tregua. Ma le preoccupazioni rimangono. Gli osservatori sono scettici, se non pessimisti. La parola fine non è stata ancora scritta. All’Uganda, a questo punto, conviene di più il giochino delle tre carte che un intervento diretto.

E l’inferno si scatena

Un giorno carico di tensione. L’obiettivo, tra gli altri, è ancora capire, facendocelo raccontare dai funzionari Onu, cosa sta davvero succedendo nella regione. Ma le riunioni si moltiplicano. L’appuntamento con la funzionaria italiana viene spostato in continuazione, mentre nella stanza, sbattendo porte, si succedono ufficiali di diversi paesi occidentali. Nel compound delle Nazioni Unite gli sfollati crescono, ne arrivano in continuazione, lo pensano un luogo protetto, ma sono anche il segnale che la guerra è alle porte. Decido, insieme a un collega, di mangiare qualcosa. C’è un ristorante, l’unico aperto, proprio lì, ed è lì che attendiamo udienza e la nostra funzionaria. Di cibo poco, qualche spiedino di carne di capra e dell’insalata. Ai tavoli altri bianchi, tutti funzionari di qualche agenzia dell’Onu. Chiediamo la birra, la capra è dura da mandare giù. Non c’è. Solo una bottiglia. Un segno inequivocabile che la guerra è alle porte. Poi cade l’occhio, che esprime tutta la voglia di birra, sotto le sedie dei tavoli occupati: casse di birra portate dagli stessi avventori. Merce preziosa, in tempi di guerra. Chiedo ancora la birra, la stessa risposta: non ce n’è. Suggerisco alla gestrice del ristorante di andare a comprarne almeno una cassa. Gli occhi diventano grandi per la paura: tutti i magazzini sono chiusi. Insisto, con anche un po’ di superbia: impossibile che non si trovi della birra, e alla fine spuntano le bottiglie della preziosa Primus. Con la birra arriva anche la funzionaria che aspettavamo, sono le 23. Ci racconta delle riunioni che devono rimanere segrete, poi ci racconta la realtà. Io e il collega ci guardiamo stupefatti: ma queste cose le sappiamo anche noi. Non c’è bisogno di essere nelle stanze segrete dell’Onu. Lei, la giovane funzionaria, sorride ed è evidente che di segreto non c’è nulla. Ci capiscono poco anche loro. Dal sorriso al saluto e ci lascia il suo pomposo biglietto da visita e sotto il nome – lo tralascio per la privacy e nella speranza, soprattutto, che ora sia un po’ più avveduta e competente di allora – c’è tutta la sua vita: “Master of International Affairs Human Rights and Conflict Resolution”. Un master conseguito alla Columbia University di New York. Ma prima di congedarci le diciamo dei rumors che circolano tra i poveracci assiepati nella sede dell’Onu e cioè, per farla breve, che l’indomani ci sarebbero stati scontri violenti. Lei sorride e liquida le voci così: «Non abbiamo segnali in questo senso». Il giorno dopo si è scatenato l’inferno.

Il ritorno a Goma

Il nostro tempo a Bunia è finito. Le condizioni di sicurezza sono pessime e dunque bisogna partire. All’aeroporto dovrebbe esserci l’areo dell’Onu che ci riporterà a Goma, dopo un passaggio a Kisangani. Arriviamo all’aerostazione e un uomo della sicurezza dell’Onu ci dice che l’areo non c’è. Un guasto o non so che. Dunque, chiediamo all’uomo che dobbiamo fare. «State qui e ammirate il panorama». Sarcasmo, stupidità. Il panorama: la gente che scappa dagli scontri cercando rifugio in Uganda. Una bella prospettiva. Ma, detto questo, l’uomo sale sulla sua jeep e tanti saluti. Da lì a poco scopriamo che sta arrivando un aereo dell’Unione europea, EcoFly, che dà lì tornerà direttamente a Goa, e che fa servizio umanitario nelle zone di guerra trasportando i cooperanti. I giornalisti, però, non sono ammessi. Beh, provarci non guasta. Appena arriva, mostro al funzionario un tesserino che mi identifica come cooperante. Avevo dimenticato di averlo, ma potrebbe essere la mia salvezza. Lui, forse la fretta, controlla appena e mi indica il portellone del velivolo.

Torna il silenzio sulla guerra dimenticata dal mondo

Riesco a salire sull’aereo – sono più fortunato dei congolesi – che mi porta lontano dall’inferno. Un abbraccio frettoloso con le persone conosciute, non c’è tempo per soffermarsi, ma l’abbraccio è caloroso e avvolgente. Indimenticabile. Corre il bimotore sulla pista. Decolla, i rumori della guerra svaniscono. E torna il silenzio su una guerra dimenticata dal mondo. Solo per onore di cronaca: dopo la nostra partenza da Bunia l’areo dell’Onu è arrivato e ripartito per Kisangani. Il generale Martinelli, non avendo nostre notizie, stava lanciando l’allarme: due giornalisti dispersi in Congo. Solo una nostra telefonata al quartier generale delle Nazioni Unite a Kinshasa fa rientrare l’allarme.

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Spirali destabilizzanti avvolgono Cabo Delgado https://ogzero.org/cabo-delgado-periferie-insorgenti-creano-zone-franche-per-ogni-traffico/ Sun, 06 Dec 2020 09:16:27 +0000 http://ogzero.org/?p=1979 L’opportunismo jihadista sfrutta la pandemia Il terrorismo ha da sempre trovato nei periodi di crisi nuove opportunità per promuovere i propri obiettivi, e il coronavirus, per molti gruppi jihadisti è diventato un alleato fondamentale, quasi essenziale. La crisi economica innescata dalla pandemia, l’immobilismo di molti stati davanti al virus, hanno creato l’ambiente “ideale” nel quale i […]

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L’opportunismo jihadista sfrutta la pandemia

Il terrorismo ha da sempre trovato nei periodi di crisi nuove opportunità per promuovere i propri obiettivi, e il coronavirus, per molti gruppi jihadisti è diventato un alleato fondamentale, quasi essenziale. La crisi economica innescata dalla pandemia, l’immobilismo di molti stati davanti al virus, hanno creato l’ambiente “ideale” nel quale i miliziani di Allah hanno trovato nuovi spazi di movimento. L’Africa non è esente da tutto ciò. Anche se i numeri della pandemia non sono nemmeno paragonabili – per numero di morti e contagi – con quelli occidentali, il virus ha aggravato crisi economiche e sociali già di per sé precarie sulle quali, spesso, il jihadismo costruisce la sua fortuna. Se alcuni analisti si aspettavano un rallentamento della violenza terroristica, sono stati smentiti dai fatti. Anzi c’è stata un’accelerazione e i dati sono lì a dimostrarlo. Ma non solo.

Gli esperti, infatti, sottolineano che questi gruppi legati al terrorismo islamico sanno bene di non essere immuni al pericolo sanitario. Infatti, nell’incitare i propri membri a mettere in atto nuovi attacchi, il leader non mancano di diffondere documenti su come prevenire la diffusione del virus, in alcuni casi utilizzano anche le linee guida ufficiali dell’Organizzazione mondiale della sanità. Insomma, si ergono a difensori delle popolazioni più diseredate e dimenticate dai governi del continente africano. Il coronavirus, dunque, come arma per creare consenso.

Si allarga la spirale del Califfato nero sulle regioni subsahariane

In tutta l’Africa i gruppi che si ispirano all’Isis e ad al-Qaeda sono attivi più che mai, e non solo nella regione del Sahel piombata nel caos con il ripetersi di attentati terroristici per mano di gruppi jihadisti che stanno mettendo fuori controllo paesi come il Mali e il Burkina Faso. Con il rischio concreto che a sud della Libia nasca un Califfato nero. L’attenzione è dunque massima in Sahel, soprattutto da parte delle potenze mondiali che seguono quanto sta succedendo. Il contesto è andato deteriorandosi di mese in mese. Le operazioni militari, in particolare quelle della Francia, sembrano non avere il successo sperato. Di certo, oggi possiamo chiamare questa fascia di territorio che va dalla Somalia alla Mauritania fino al Senegal… Il Sahelistan, per paragonarlo ai grandi spazi dell’Afghanistan e del Pakistan e per il ruolo che gioca il terrorismo internazionale. Un nome non casuale: in questa regione regna il caos.

Il Sahelistan

I jihadisti hanno alzato il livello dello scontro un po’ ovunque, seminano terrore, anche se non controllano concretamente territori – per ora – come hanno fatto in Medio Oriente. Ma molta parte del continente è teatro di scontri e attentati feroci. Nell’Africa Occidentale, nelle regioni a maggioranza musulmana. In Somalia dove al Shabaab terrorizza la popolazione da anni, nell’Est della Repubblica democratica del Congo dove la guerra fa parte della quotidianità e dove le risorse naturali sono enormi. In Nigeria dove Boko Haram ha moltiplicato i suoi attacchi. Nel Nord del Mozambico dove l’islam è radicato da secoli e dove da tre anni imperversa un gruppo affiliato all’Isis. I terroristi sanno approfittare delle debolezze dei governi, che si tratti di stati “falliti” come la Somalia o impotenti come la Nigeria. La pericolosità di questi gruppi, e le conseguenti difficoltà da parte dei governi nazionali e delle coalizioni internazionali nel combatterli, sta proprio nel fatto che non vi è una struttura gerarchica e, dunque, un centro di controllo unico. Piuttosto operano in “franchising” come capita in molti paesi dove, per altro, cambiano persino nome o si appropriano di altre sigle, pur non avendo la stessa matrice di affiliazione. E il caso del jihadismo in Mozambico è emblematico, relativamente giovane, e che già sta varcando i confini lanciando i propri attacchi in Tanzania. Il “caso” Mozambico merita un approfondimento.

Di qua e di là del fiume Ruvuma

La spirale esplosiva della povertà intrecciata a quella jihadista

L’orrore non ha limiti in un Mozambico squassato dal terrorismo jihadista, in particolare nella regione del Nord di Cabo Delgado. Una regione dimenticata dallo stato, dove si fatica a vivere e ad arrivare a fine giornata. La povertà è dilagante. Ma Cabo Delgado è anche una regione ricca di risorse. Qui agisce e opera un gruppo jihadista che inizialmente si faceva chiamare al-Shabaab “i giovani”, come il gruppo jihadista somalo. Non è chiaro, tuttavia, se e quali legami esistano tra i due gruppi. Di certo la versione mozambicana fa riferimento all’Isis, mentre quella somala ad al-Qaeda. Tanto che nel rendere note le sue azioni fa sfoggio di passamontagna e drappi neri tipici dello Stato Islamico. La ferocia, poi, è tipica di questi gruppi. L’affiliazione all’Isis, tuttavia, non è verificabile, potrebbe essere semplicemente emulazione e una sorta di “libero franchising”. L’inizio, anche un po’ sgangherato, delle azioni terroristiche di questo gruppo viene fatto risalire al 5 ottobre del 2017 quando vengono attaccate tre stazioni di polizia nella città di Mocimboa da Praia. Da lì inizia una spirale di violenza in un’area periferica, tradizionalmente tranquilla ed economicamente depressa, tra le più povere del paese.

Cabo Delgado

Zona di attività insurgentes, Nord del Mozambico

La spirale implosiva dell’impotenza mercenaria di fronte al caos assoluto

Il governo, in più riprese, ha sferrato dure offensive contro i gruppi terroristici, ma con successi alterni, riprendendosi territori occupati dai jihadisti, per poi riperderli.  In molte occasioni ha fatto affidamento su mercenari provenienti dall’estero: i Wagner, russi, e mercenari provenienti dal Sudafrica. Operazioni che non hanno avuto grande successo. I mercenari russi, già attivi in Siria, Libano e Repubblica Centrafricana non sono riusciti a venire a capo della ribellione. Non si sa molto, per ovvie ragioni, delle loro attività nel paese, ma di certo hanno subito diverse perdite tra le loro fila. Così come i mercenari sudafricani che avrebbero perso, oltre che uomini anche mezzi. Questi gruppi, ben addestrati e armati, sembrano essere impotenti di fronte al dilagare dell’offensiva jihadista. Questi fatti, inoltre, definiscono un salto di qualità del gruppo terroristico che nel Nord del paese si fa chiamare Ahlus Sunna wal Jamaa, puntando a sconfinare in Tanzania, attraversando e seguendo il corso del fiume Ruvuma.

La spirale di violenza attinge forza da periferie insorgenti e… dal mare

Se i primi attacchi sono stati infatti portati con mezzi di fortuna (coltelli, machete…), quelli organizzati di recente hanno fatto registrare un balzo di qualità. I miliziani sono dotati di armi automatiche nuove ed efficienti. Non solo. Anche il livello di addestramento è cresciuto. Questi gruppi sanno impiegare in modo professionale ed efficace gli armamenti di cui dispongono. Il vescovo cattolico di Pemba, Luiz Fernando Lisboa ha spiegato, recentemente, che questi uomini, che inizialmente si spostavano con vecchie motociclette, «ora hanno armi e veicoli e possono eseguire attacchi su vaste aree».

Gli attacchi non si placano. Dopo aver occupato numerose cittadine e aver terrorizzato migliaia di persone, i miliziani che si rifanno all’Isis, hanno lanciato raid contro alcune isole al largo di Palma e sono rientrati in alcuni centri abitati nel distretto di Muidumbe dove di recente le forze governative erano riuscite a stabilire propri presidi. Non solo i ribelli sono riusciti ad annullare i progressi parziali che erano stati compiuti dalle forze governative ma, ed è un particolare nuovo, hanno dimostrato la capacità di condurre attacchi di un certo rilievo anche via mare. Un fatto che ha messo a rischio collegamenti, fino a poco tempo fa sicuri, e che hanno convinto il governo a sospendere almeno per ora i rifornimenti via mare per la città di Palma.

La spirale speculativa: una zona franca di traffici di persone ed eroina, gas ed estrazionismo, fauna e legname

Lo scopo dichiarato di questi gruppi è voler imporre l’islam radicale. Formalmente, appunto, perché dietro questa dichiarazione di intenti si nasconde il traffico di stupefacenti e lo sfruttamento illegale delle miniere, di cui il Nord del Mozambico è ricco. E si fanno forti della povertà che regna in quel territorio mozambicano. Come se ci fosse una sorta di “islamizzazione della rivolta”. Una reazione alla marginalità e alla povertà profonda in un’area ricca di risorse minerarie e di giacimenti di petrolio.

spirale speculativa

Piattaforme nell’Oceano Indiano

Il fatto che i gruppi islamisti del Mozambico ricevano probabilmente armi, munizioni e attrezzature dall’esterno non è l’unico segnale che li avvicina ad altri gruppi che operano nel continente africano. Eric Morier-Genoud, un accademico di Belfast esperto di Mozambico, sottolinea che esistono forti somiglianze tra l’evoluzione dell’insurrezione in Mozambico e l’emergere di Boko Haram nel Nord della Nigeria.

La spirale di terrore degli sfollati

A farne le spese è, come sempre, la popolazione inerme, che fugge dai villaggi, si nasconde nella boscaglia per non essere sgozzata. Secondo la Displacement Tracking Matrix dell’Oim, almeno 424.000 persone sono sfollate alla fine di settembre, un aumento del 17 per cento rispetto al mese precedente. Sul totale degli sfollati, oltre 144.000 si trovano in aree difficili da raggiungere a causa di problemi di sicurezza. «Abbiamo dovuto lasciare la nostra zona a causa di molteplici attacchi e trasferirci nella città di Pemba – ha detto Nlabite Chafim, una delle otto persone della stessa famiglia che sono fuggite a piedi attraverso le foreste a luglio prima di trovare un mezzo di trasporto per la capitale provinciale –. Mia nipote ha assistito all’uccisione dei suoi genitori, e lei non è più la stessa».

«Sembra stiano cercando di rimuovere l’intera popolazione della parte settentrionale della provincia di Cabo Delgado, cacciando la gente comune senza alcuna pietà», spiega suor Blanca Nubia Zapata, religiosa delle Carmelitane Teresiane di San Giuseppe, in un colloquio con la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS). La religiosa risiede a Pemba, il capoluogo della provincia nel mirino dei terroristi. «Nelle ultime settimane sono arrivate qui oltre 12.000 persone. Alcuni sono morti lungo la strada. Sono 180 chilometri, ma non potete immaginare cosa siano le nostre “strade”, tre o quattro giorni di seguito senza cibo, senza acqua, con bambini sulle spalle. Ci sono donne che hanno partorito per strada. Sono semplicemente terrorizzati. Molte famiglie – prosegue Sister Blanca – ci hanno chiesto aiuto e le abbiamo messe in salvo nella scuola».

Il vescovo di Pemba, Luiz Fernando Lisboa, in un video di Caritas Mozambico inviato ad ACS, descrive la situazione di Paquitequete, un sobborgo della capitale che si affaccia sulla costa: «Sono arrivati già 10000 rifugiati e altri sono in arrivo. Non hanno un luogo in cui dormire, solo coperte e rifugi improvvisati. Alcune persone sono morte durante il tragitto. Si tratta di una situazione umanitaria disperata – prosegue il prelato – per la quale stiamo chiedendo, anzi implorando l’aiuto e la solidarietà della comunità internazionale».

Le testimonianze si moltiplicano e descrivono l’orrore che le popolazioni stanno vivendo. Testimonianze che, in particolare, arrivano da svariate realtà missionarie che operano nell’area e che hanno la possibilità di poterle raccontare perché in contatto costante con le case madri in occidente.

Sfollati Mozambicani

La spirale di un conflitto asimmetrico su base continentale

Il villaggio di Muambula è diventato quasi un luogo fantasma: gli abitanti sono fuggiti tutti, tranne qualche persona molto anziana. Il distretto di Muidumbe, nella provincia di Cabo Delgado, conta circa 80000 abitanti ed è composto da 26 comunità, per la maggior parte di etnia maconde. Si tratta perlopiù di gente dedita all’agricoltura. Qui vive e lavora padre padre Edegard da Silva, missionario brasiliano della congregazione Nostra Signora de La Salette. La sua testimonianza è stata raccolta dalla rivista “Nigrizia”: «Molti ci chiedono il perché di questa guerra che dura ormai da tre anni. Per noi missionari che viviamo con la gente di questi villaggi, l’unica risposta è che questa guerra ha ucciso molte persone innocenti. Sono i poveri che muoiono. E non hanno nulla a che fare con le motivazioni che portano i jihadisti per prendere il controllo della regione. Più di 500000 persone sono state costrette ad abbandonare le loro terre e comunità. Una parte di questi profughi, spesso intere famiglie, sono accolti da amici e parenti nelle altre cittadine della regione; altri vivono, in condizioni precarie, nei campi profughi costruiti dal governo. È una guerra crudele, folle, diabolica, che separa le persone». Il missionario, tuttavia, tiene a specificare che i jihadisti non compiono attacchi mirati contro le missioni cattoliche. Le incursioni hanno lo scopo di destabilizzare l’intera comunità, colpendo i servizi essenziali come gli ospedali, le scuole o le banche. E conclude «Al momento non possiamo contare sulle forze di sicurezza. Non si vede, da parte loro la capacità o la volontà di proteggere questo territorio».

Per affermarsi, questi gruppi sfruttano i risentimenti locali, la miseria, l’abbandono delle popolazioni locali da parte del governo centrale e l’arretratezza economica osservata nello sviluppo della regione. Una volta affermata la loro presenza, i gruppi terrorizzano le comunità per creare un clima di paura ma offrono anche un’alternativa ai giovani disoccupati che accettano di essere arruolati.  Il Nord del Mozambico, infatti, è una regione complessa. Ha sofferto molto durante la guerra di indipendenza (1964-1974) e durante quella civile (1977-1992) ed è una delle aree più trascurate del paese. A livello nazionale, ha i più elevati tassi di analfabetismo, disuguaglianza e malnutrizione infantile. È una delle poche province a maggioranza musulmana – mentre il resto del paese è cristiano – ma è un islam moderato che, da sempre, segue una tradizione sufi moderata. Il Mozambico, dopo aver cercato di minimizzare la minaccia, ha iniziato a schierare un numero maggiore di poliziotti e militari per controllare meglio la regione.  Un’operazione per rassicurare anche gli investitori stranieri che hanno investito milioni di dollari per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nel Nord.

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Non di soli contrasti tribali vive lo scontro etiope… https://ogzero.org/dispute-etniche-e-svolte-liberiste-dietro-la-guerra-in-corno-dafrica/ Wed, 18 Nov 2020 01:55:38 +0000 http://ogzero.org/?p=1775 … anzi, il sottile velo delle dispute etniche non riesce a nascondere gli interessi internazionali, il neocolonialismo che muove i protagonisti locali, la spartizione di risorse, territori, infrastrutture. I ribaltamenti dei sistemi politico-economici non possono che passare attraverso crisi apertamente belliche e quindi dal 4 novembre è scoppiata una guerra civile che può estendersi all’intera […]

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… anzi, il sottile velo delle dispute etniche non riesce a nascondere gli interessi internazionali, il neocolonialismo che muove i protagonisti locali, la spartizione di risorse, territori, infrastrutture. I ribaltamenti dei sistemi politico-economici non possono che passare attraverso crisi apertamente belliche e quindi dal 4 novembre è scoppiata una guerra civile che può estendersi all’intera area della Rift Valley.

Redde rationem trentennale nel superamento dell’etnofederalismo

Abiy Ahmed, oromo giunto rocambolescamente al potere etiope in sostituzione del “controllo” trentennale tigrino e al nobel in premio per un accordo storico con l’Eritrea, utile al primo ministro etiope per contare su naturali alleati storicamente interessati a contenere i vicini tigrini di Macallè (fin dai tempi coloniali, agevolando il compito di quelle potenze occidentali), ma indispensabile anche ad Isaias Afewerki, dittatore eritreo, per mantenere il potere concentrato nelle sue mani – ma forse la guerra può aver creato un’alleanza tra tigrini e oppositori eritrei, tanto che pare che alcuni guerriglieri siano penetrati nel territorio eritreo e dal Tigray è stato bombardato l’aeroporto di Asmara. Già due anni fa, al momento dell’accordo fortemente ricercato dai sauditi di Bin Salman, si scaricarono transfughi eritrei al confine tigrino (minato e costellato da campi profughi), folle corrispondenti a quelle che ora premono sulla frontiera che divide Etiopia e Sudan (forse 100.000).

A completare il quadro del rinnovato sciovinismo del Corno d’Africa (una scena che ha come sfondo il controllo del Mar Rosso) c’è il rischio che venga coinvolta la variegata galassia delle Somalie e il Sudan, ancora in procinto di uscire dalla transizione dopo la cacciata di al-Bashir, teatro nella provincia orientale di Cassala al confine con Eritrea ed Etiopia di scontri proprio per rivendicazioni di maggiore rappresentanza tra tribù Juba.

L’economia detta l’agenda nazional-federale

L’etnia oromo è maggioritaria nel paese ma è rimasta marginalizzata per lo strapotere del Nord, che possedendo la maggioranza delle risorse e infrastrutture del paese ed essendo al centro di vie di comunicazione, controllando l’esercito fino all’epurazione del 2018 effettuata da Abiy Ahmed, aveva potuto mantenere un sistema etnofederalista che salvaguardava non solo le componenti minoritarie, ma impediva svolte neoliberiste che invece si sono imposte nel momento in cui Abiy Ahmed ha preso il potere, cominciando a configurarsi come un regime e il timore ha preso a serpeggiare tra i cittadini etiopi.

Il premio Nobel ha ammantato l’archiviazione del sistema economico con la spinta alla riconciliazione nazionale, che vede solo la resistenza del Tigray, un’etnia con una forte percezione di sé (e della sua storia di contrapposizione al saccheggio delle proprie risorse e all’occupazione militare del proprio territorio, fin dai tempi coloniali) che individua nel cambiamento il conseguente ridimensionamento dell’autonomia regionale. Ovviamente le altre etnie, che rappresentano il 94 per cento della popolazione, mal tollerano la resistenza tigrina, perciò le milizie ahmara hanno appoggiato l’esercito di Addis Abeba intervenuto in risposta a una reazione alla provocazione dello stato centrale che ha inviato ingenti truppe in Tigray.

La percezione del momento nella società etiope

Perciò il 10 novembre 2020 durante la trasmissione “I Bastioni di Orione” sulle frequenze di Radio Blackout si è potuta sentire questa ricostruzione degli eventi fatta da un giovane emigrato etiope, evidentemente non tigrino, che sostanzialmente attribuisce alla minoranza la responsabilità della deriva violenta di queste settimane:

Ascolta “Rivolta tigrina contro il superamento dell’etno-nazionalismo di Ahmed” su Spreaker.

La testimonianza, per quanto pacata, palesa la posizione fortemente critica della maggioranza degli etiopi, probabilmente non tanto per lo strappo attuale, ma per i 30 anni di oppressione tigrina, una reazione che ha fatto parlare di rwandizzazione per descrivere la reazione antitigrina. Difficile valutare se si tratta di esagerazioni, perché Abiy Ahmed ha fatto tesoro della esperienza da ministro delle comunicazioni, quando ha imparato a gestire e controllare i flussi di informazioni telematici: infatti trapelano pochissime notizie.

Il primo tassello da cui partire per descrivere la situazione è dunque l’ancora forte determinazione della minoranza tigrina a contrastare il nazionalismo identitario di Abiy – che dapprima ha dovuto fronteggiare per lo stesso motivo le rimostranze della sua stessa etnia oromo, portato a interpretare la propensione a diluire le differenze tribali nella comune “identità” etiope come un tradimento della propria gente; in realtà la scelta è essenzialmente un cambio di orientamento del modello di sviluppo su istanza cinese, che vede nel Corno d’Africa e nel presidio dello stretto di Bab al Mandab (ovvero di Gibuti) uno snodo essenziale per la Belt Road Inititive. Per fare ciò Abiy ha bisogno di poter gestire centralmente le ingenti risorse del Tigray, di abbracciare il neoliberismo e di indicare simboli che possano rappresentare la nazione etiope, stretta attorno a lui e al suo nuovo corso: a questo scopo si presta perfettamente la Diga della Rinascita sul Nilo azzurro.

Neocolonialismo Corno d'Africa 2020

Infrastrutture, basi militari, territori contesi, vie di comunicazione nella Rift Valley

Qualche snodo storico, ma i fattori divisivi sono infiniti

La crisi del Tigray nasce dallo scontro politico con il Tpfl, che è stato a lungo il partito egemone in seno all’Ersdf: i tigrini avevano sconfitto trent’anni fa il regime comunista e deposto Menghistu (l’ultimo a lanciare un escalation militare in Tigray), gestendo il potere da allora in avanti, senza abbracciare pienamente il neoliberismo. Il Fronte tigrino si è sentito più volte preso di mira dalle riforme del nuovo premier, che intanto ha creato una propria formazione politica, il Partito della prosperità.  Nel Tigray le autorità locali hanno deciso di tenere elezioni indipendenti a settembre, quelle che erano state rinviate ad agosto con la scusa della epidemia di SarsCov2 e il Tpfl è stato riconfermato al governo regionale. Ora lo scontro è diventato militare, con il rischio che la rivalità politica si trasformi in conflitto interetnico. Mulu Nega è stato nominato da Ahmed nuovo governatore ad interim per la regione settentrionale del Tigray. Poco prima il parlamento aveva preso la risoluzione di stabilire un’amministrazione provvisoria.

Per dipanare questo groviglio ne abbiamo discusso con Angelo Ferrari all’interno della stessa trasmissione diffusa da Radio Blackout in cui avevamo proposto la ricostruzione del giovane etiope.

Ascolta “Chi sta sabotando la convivenza e l’integrazione etnica?” su Spreaker.

L’apertura liberista al capitale privato crea attriti nell’intera società; nel Tigray ancora di più; la penetrazione di militari nazionali nella regione settentrionale è quindi vista come intrusione e ha fatto esplodere gli attacchi di Macallè. Si rischia l’esatto opposto del tentativo di unificare: la frammentazione perché ciascuno non si sente rappresentato a sufficienza e la repressione di Addis Abeba può incendiare l’intera area. Intanto sono già 25.000 gli sfollati e innumerevoli i morti (si parla di 500 solo nel massacro del 10 novembre a Mai-Kadra, in Tigray).

Ancora uno scambio di opinioni tra i redattori dei “Bastioni di Orione” di Radio Blackout e l’analista di eventi africani Angelo Ferrari

Ascolta “Nazionalismo e svolta liberista di Ahmed” su Spreaker.

Traffici d’armi e colonialismo

Nel 2019 il governo giallo-verde aveva stipulato attraverso la ministra Trenta accordi militari con il presidente-nobel_per_la_pace_Ahmed: «Difesa e sicurezza, formazione e addestramento, assistenza tecnica, operazioni di supporto alla pace… trasferimento di struttura d’arma e apparecchiatura bellica… è auspicata la promozione di iniziative finalizzate a razionalizzare il controllo sui prodotti a uso militare»; lo smercio di armamenti è comune ai precedenti governi italiani, soprattutto di centrosinistra, che avevano appoggiato la parte eritrea, ora già coinvolta con esplosioni all’Asmara perché Macallè accusa il regime di Afewerki di appoggiare Ahmed, inoltre le milizie ahmara si sono schierate subito con Addis Abeba. Duecento ufficiali tigrini inquadrati nell’African Union Mission in Somalia sono stati disarmati; l’isolamento è totale, probabilmente perché tutte le forze che agiscono in quello scacchiere temono si estenda l’incendio e scommettono sul ridimensionamento del peso del Tigray sull’area.

Colonialismo novecentesco in Corno d'Africa

Etnie e date fondamentali nella corsa novecentesca al Posto al sole

Il mai realmente sopito colonialismo italiano sta cercando di tornare a essere protagonista nel Corno d’Africa, perché gli interessi energetici e di appalti per infrastrutture (la Diga della Rinascita vede allignare ditte italiane nella costruzione progetta a Pechino) fanno gola come il Posto al sole di memoria mussoliniana… e quindi soffierà sul fuoco della guerra in un’area popolata dagli apparati militari di tutte le potenze mondiali (a Gibuti sono presenti compound militari di tutte le potenze globali), che si stanno accaparrando fette di un territorio che controlla traffici, merci, risorse. Una vera operazione neocoloniale nascosta sotto la cooperazione allo sviluppo.

Ascolta “Etiopia meta del complesso militar-industriale italiano” su Spreaker.

Le nazioni sono al soldo di potenze straniere per ridisegnare la geopolitica internazionale come avvenne nel periodo coloniale classico: tutte le potenze sono intente a controllare il passaggio del Mar Rosso da Aden a Suez (infatti a Gibuti, snodo essenziale del Belt Road Initiative, sono presenti tutti i contingenti militari) e ogni mossa è un riposizionamento strategico

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Costa d’Avorio: partita a scacchi con quarto incomodo https://ogzero.org/costa_davorio_partita_a_scacchi_con_quarto_incomodo/ Fri, 09 Oct 2020 15:33:58 +0000 http://ogzero.org/?p=1451 Manca poco meno di un mese al primo turno delle presidenziali in Costa d’Avorio e i giochi rimangono più che mai aperti. Non solo e non tanto perché un favorito c’è e non c’è. Le candidature sono state depositate. Alassane Ouattara, presidente uscente, si ricandida per un terzo mandato, con non poche polemiche e contestazioni […]

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Manca poco meno di un mese al primo turno delle presidenziali in Costa d’Avorio e i giochi rimangono più che mai aperti. Non solo e non tanto perché un favorito c’è e non c’è. Le candidature sono state depositate. Alassane Ouattara, presidente uscente, si ricandida per un terzo mandato, con non poche polemiche e contestazioni che sono sfociate in violenza con morti, feriti e arresti. Non proprio il clima ideale per affrontare la campagna elettorale.

A sfidare il 78enne Ouattara ci saranno i suoi rivali storici Henri Konan Bédié, 86 anni, e Laurent Gbagbo, 75 anni, candidato dai suoi supporter senza una sua dichiarazione in tal senso. Tutte e tre ex presidenti che rappresentano la gerontocrazia del paese.

E il cambio generazionale?

Lo sperato e inizialmente voluto cambio generazionale non c’è stato. Sullo sfondo, tuttavia, rimane la candidatura di Guillaume Soro – 48 anni – anch’essa, come quella di Gbagbo, presentata in contumacia, visto che vive in Francia per sfuggire a una condanna a 20 anni di carcere comminata da un tribunale ivoriano. Ma le cose potrebbero cambiare. L’ex potenza coloniale, la Francia, è molto preoccupata per il clima di tensione nel paese, che non accenna a diminuire, anzi sta crescendo facendo aleggiare i fantasmi del 2010, quando la crisi postpresidenziali, sfociò in una guerra civile con oltre 3000 morti e una nazione allo stremo. La Costa d’Avorio, negli ultimi dieci anni, è stata relativamente stabile ed è cresciuta costantemente negli anni, salvo la frenata di quest’anno dovuta al coronavirus. Abidjan, inoltre, ha rappresentato un punto stabile al confine di una regione estremamente turbolenta, il Sahel, che non trova pace per l’imperversare delle forze jihadiste dove la Francia, appunto, è impegnata nel contrasto al terrorismo con 5000 uomini, ma che, nonostante la potenza di fuoco, non riesce a venirne a capo.

La Francia occupata su più fronti non vuol perdere la Costa d’Avorio

Il colpo di stato in Mali, ha aggravato ulteriormente lo scenario regionale. Tuttavia, proprio durante le cerimonie per il sessantesimo anniversario dell’indipendenza del paese, il colonnello Assimi Goita, capo della giunta al potere in Mali, ha chiesto ai suoi concittadini di sostenere le forze alleate straniere presenti in Mali, citando in particolare la forza francese Barkhane, le forze di pace Minusma (Onu) e quella europea Tabouka. La presenza in Mali, da sette anni, dei soldati francesi e della missione Onu è stata però oggetto di contestazioni da parte dell’opinione pubblica. È del tutto evidente che per la Francia perdere una base solida e stabile come la Costa d’Avorio sarebbe una sciagura. Paese oltretutto già toccato dal terrorismo e i cui confini con Mali e Burkina Faso sono permeabili al jihadismo.

L’incontro privato parigino

Molti osservatori, proprio per questo, attendevano i risultati della visita di Ouattara a Parigi, visita privata, compreso un incontro con Emmanuelle Macron, che si è rivelato una bomba. Secondo le indiscrezioni riportate da “Jeune Afrique”, il presidente francese – preoccupato per le tensioni socio-politiche provocate dal terzo mandato del presidente ivoriano – durante una colazione di lavoro, il 4 settembre, avrebbe chiesto a Ouattara di “rimandare le elezioni”, ritirare la sua candidatura, così da permettere anche il ritiro di quelle di Bédié e di Gbagbo. Secondo Macron questo scenario potrebbe facilitare l’apertura di un dialogo con i principali oppositori del presidente ivoriano e trovare un successore condiviso per arrivare a “un cambiamento generazionale”, inizialmente promesso. Ouattara, sempre secondo le indiscrezioni di “Jeune Afrique”, avrebbe rifiutato.

Di certo l’intervento di Macron è un’esplicita e diretta – non gradita da molti – interferenza negli affari interni di un paese sovrano. Se la notizia fosse vera – e non c’è da dubitarne vista l’autorevolezza di “Jeune Afrique” – rivoluzionerebbe lo scenario politico ivoriano. Il rifiuto di Ouattara alla proposta di Macron potrebbe essere letto come un volere “prendere tempo” e verificare le intenzioni di Bédié e di Gbagbo, proprio perché non vuole rimanere con il cerino in mano. Oppure in una risposta di facciata più funzionale alla sua immagine interna. E, poi, c’è l’attivismo di Soro, molto popolare sui social in patria e anche in Francia, dove concentra la sua campagna contro la condanna in contumacia in patria, senza la presenza dei suoi avvocati. Da lui ritenuta una condanna politica.

Il pericolo della deriva etnica

E, poi, a distanza di poco più di un mese, arrivano le dichiarazioni del presidente del Fronte popolare ivoriano (Fpi, all’opposizione), Pascal Affi N’Guessan, che ha chiesto il rinvio di tre mesi delle elezioni presidenziali o l’avvio di una fase di transizione di almeno 12 mesi. La richiesta sarebbe stata avanzata in occasione di un incontro con una missione congiunta della Communauté économique des états de l’Afrique de l’Ouest (Cedeao), dell’Union africaine e delle Nazioni Unite. Insomma qualcosa, su questo fronte si muove. Bédié, invece, a tal proposito, non ha detto nulla. L’iniziativa della diplomazia francese, evidentemente, è stata a tutto campo e ha coinvolto, con molta probabilità, tutte le parti coinvolte nell’intricato puzzle ivoriano. La notizia, inoltre, rivela la forte preoccupazione del presidente francese su una possibile degenerazione del clima socio-politico del paese. In particolare la deriva etnica che potrebbe diventare predominante nella campagna elettorale.

Un dibattito in punta di diritto

L’opposizione punta il dito contro il presidente uscente invocando la Costituzione del paese che prevede solo due mandati presidenziali. L’opposizione si aggrappa a questo, ed è comprensibile. Dal canto suo Ouattara e la maggioranza di governo, sostengono che un terzo mandato sia possibile proprio perché la nuova Costituzione del 2016 ha rinnovato l’intera architettura istituzionale del paese e non può quindi essere considerata in continuità con la precedente. La candidatura di Ouattara, sostengono, è legittima; addirittura potrebbe candidarsi per un quarto mandato. Tutti si augurano che la vicenda si risolva in punta di diritto, anche se sembra molto difficile che accada. La confusione politica nel paese è alta, non solo nel partito di maggioranza, ma anche tra i ranghi dell’opposizione. Fragilità istituzionale e politica che si evidenziano guardando, semplicemente, all’età dei candidati forti alla presidenza: Ouattara, 78 anni; Henri Konan Bédié, 86 anni, anch’egli ex presidente e Gbagbo, 75 anni.

Alleanze e strategie incrociate

Il presidente uscente, nel marzo scorso, aveva annunciato la volontà di non ricandidarsi per lasciare «spazio alle nuove generazioni» e successivamente aveva designato il suo primo ministro, Amadou Gon Coulibaly (61 anni), come successore e candidato alle presidenziali. La malattia e la morte del premier, l’8 luglio, hanno rimescolato le carte, gettando nel caos il Rassemblement des Houphouëtistes pour la democratie et la paix (Rhdp), partito di governo. L’unica scelta possibile, a quel punto, era riproporre la candidatura di Ouattara, l’unico in grado di ricompattare il partito, anche dopo la defezione dell’ex ministro degli Esteri, Marcel Amon-Tanoh, ex braccio destro del presidente, che ha deciso di candidarsi e di fondare un suo partito.

La sfida elettorale si giocherà, comunque, tra Ouattara e il suo rivale Henri Konan Bédié, presidente del Parti Démocratique de la Côte d’Ivoire (Pdci), all’opposizione, che ha promesso di istituire “un governo di salute pubblica, aperto a tutte le principali sensibilità politiche” del paese, se verrà eletto alle presidenziali del 31 ottobre. Bédié ha anche definito “illegale” una candidatura di Ouattara per un terzo mandato. Bédié chiede, inoltre, il ritorno nel paese dell’ex presidente Laurent Gbagbo, con il quale ha annunciato di aver raggiunto un accordo per una possibile alleanza elettorale al secondo turno: un’alleanza tra ex presidenti, a cui si unirebbe anche Guillaume Soro – nonostante la condanna a 20 anni non ha rinunciato alla candidatura alle presidenziali, anche se è costretto a vivere all’estero per evitare il carcere – che si è detto d’accordo a fare fronte comune in un eventuale ballottaggio contro Ouattara, per scongiurarne la vittoria.

Cherchez la femme: Simone Gbagbo

Ad accendere la miccia delle proteste, tuttavia, è stata l’ex first lady ivoriana, Simone Gbagbo, rompendo il suo tradizionale silenzio e definendo la candidatura di Ouattara “irricevibile”, sostenendo che un capo di stato «non può dire una cosa e smentirsi immediatamente dopo. Soprattutto di fronte alla nazione. Il rispetto per la propria parola deve essere più che mai osservato in politica». Le proteste, infatti, sono scoppiate proprio a Bonoua, cittadina d’origine dell’ex first lady. Una manifestazione di protesta, che si è tenuta nonostante il divieto imposto dalle autorità, è sfociata in violenze dopo l’intervento delle forze dell’ordine e l’uccisione di un giovane, sembra morto in seguito agli spari della polizia. Il commissariato è stato incendiato, mentre alcuni dimostranti si sono rivoltati contro gli agenti e contro lo stesso commissario. Anche nella capitale economica Abidjan alcuni sostenitori dell’opposizione hanno sfidato il divieto di manifestare. La tensione è cresciuta pure a Daoukro, caposaldo di Bédié. Anche ad Abidjan hanno cominciato a circolare giovani armati di mazze e machete che parrebbero in combutta con la polizia, in particolare nel quartiere di Yopougon.

Simone Gbagbo, inoltre, ha chiesto al presidente Ouattara di riconsiderare la condanna a 20 anni di carcere del marito come gesto di “riappacificazione nazionale”, chiedendo «al capo dello stato di approvare una legge sull’amnistia per rendere nuovamente eleggibile il signor Laurent Gbagbo. Lo invito a rilasciargli un passaporto diplomatico. È una questione di diritto. E lo invito a liberare tutti i prigionieri della crisi postelettorale e a facilitare il ritorno di migliaia di esiliati». Tuttavia, non è ancora chiaro se Gbagbo, che risiede in Belgio, accetterà la richiesta del proprio partito, il Front populaire ivoirien, di tornare in patria dopo essere stato assolto dall’accusa di crimini di guerra dalla Corte penale internazionale lo scorso anno.

Bonoua, inoltre, è sempre stato teatro di proteste. C’è solo da sperare che sia un episodio sporadico e non l’inizio di proteste più diffuse.

Niente colpi di mano…

I fantasmi del passato, infatti, continuano ad aleggiare sulla Costa d’Avorio. Il paese ricorda ancora la crisi del 2010 quando si scatenò una vera e propria guerra civile, ci furono più di 3000 morti. Sono molti gli analisti che non credono che si possa ripresentare uno scenario come quello del 2010, di sicuro ci sarà un inasprimento del clima politico – come già sta avvenendo.

Non ci sono avversari che possano approfittare della fragilità istituzionale e politica per mettere in atto un colpo di mano. Il Front populaire non ha la forza e la capacità di mettere in atto uno scenario di questo tipo. Il partito di Bédié, il Pdci, non ha nel dna questo tipo di soluzione. Nel paese non ci sono soggetti che possano dare una spallata a un’architettura istituzionale seppur fragilizzata. Non si intravedono, inoltre, le condizioni né regionali né internazionali perché uno scenario simile a quello del 2010 si possa ripetere. Una Costa d’Avorio fragile e instabile non è nei piani di nessuno. Basti pensare che – nei mesi precoronavirus – il porto di Abidjan movimentava il 40 per cento delle merci della regione, oltre che la metà della massa monetaria.

Non è un caso, infatti, che la decisione di mettere fine al franco Cfa, la cosiddetta moneta coloniale, sia stata annunciata dal presidente francese, Emmanuel Macron, proprio durante la sua ultima visita ad Abidjan, durante una conferenza stampa congiunta con il capo di stato ivoriano, Ouattara, anche se l’entrata in vigore della moneta unica, Eco, è stata rinviata di almeno cinque anni.

… ma non esiste un mediatore politico

Rimane, e forte, l’incognita etnica. Il rischio è che i falchi, di tutte le parti politiche, facciano leva sullo scontro/confronto etnico e comunitario e questo non sarebbe un bene per il paese. E i segnali che ciò possa accadere ci sono tutti. E le vicende etniche non si risolvono in punta di diritto – come la questione del terzo mandato –, ma attraverso la mediazione politica.

Non c’è, per ora, un soggetto autorevole e sopra le parti che possa condurre questa mediazione. Molto dipenderà dal partito al potere, ma anche dall’opposizione. Non è ancora chiaro se questa riuscirà a trovare una composizione, uscendo anch’essa dalla confusione. L’iniziativa di Macron si inserisce proprio in questo contesto. Una Costa d’Avorio fragile e instabile non è nei piani della Francia.

 

 

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Tutti i nodi irrisolti tra Etiopia, Egitto e Sudan riaffiorano sulle acque del Nilo https://ogzero.org/tutti-i-nodi-irrisolti-tra-etiopia-egitto-e-sudan-riaffiorano-sulle-acque-del-nilo/ Fri, 24 Jul 2020 11:35:20 +0000 http://ogzero.org/?p=803 Il premio più ambito per un leader, il premio dei premi, il Nobel per la pace nel 2019 lo ha ricevuto il primo ministro etiope Abiy Ahmed. Un Nobel che premia un processo politico, non solo l’uomo che lo ha avviato. Un processo di riforme che sembrava impossibile e che invece, in appena due anni […]

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Il premio più ambito per un leader, il premio dei premi, il Nobel per la pace nel 2019 lo ha ricevuto il primo ministro etiope Abiy Ahmed. Un Nobel che premia un processo politico, non solo l’uomo che lo ha avviato. Un processo di riforme che sembrava impossibile e che invece, in appena due anni – dal 2 aprile 2018 – ha praticamente rivoltato l’Etiopia, trasformandola dal profondo. Un premio, tuttavia, che non nasconde le difficoltà e le contraddizioni che vive il paese. I nodi da sciogliere, ancora, sono enormi. Scontri etnici, problemi economici, la Grande Diga della Rinascita Etiope. Tutte questioni che rimangono ancora sul tavolo. Ma vi sono questioni politiche che devono essere affrontate, e a breve, per evitare un vuoto di potere, a ottobre, quando il parlamento scadrà. Le elezioni, previste per il 29 agosto, sono state cancellate causa coronavirus. Un appuntamento che, nelle intenzioni del premier, avrebbe dovuto rafforzare e consolidare la sua leadership e dare nuovo impulso alle riforme di cui l’Etiopia ha estremamente bisogno. Ma andiamo per ordine.

Sembrava impossibile che in Etiopia l’etnia minoritaria, ma egemone da sempre sul piano politico – i tigrini –, potesse cedere alcuni cruciali posti di potere, eppure è avvenuto. Sembrava impossibile che il mal sopportato cessate il fuoco con l’Eritrea si potesse trasformare in una vera pace, eppure è avvenuto. Sembrava impossibile che l’economia chiusa dell’Etiopia potesse aprire le porte a veri investitori esterni, eppure è avvenuto. Sembrava impossibile che migliaia di prigionieri potessero essere liberati, eppure è avvenuto. Tutto ciò è merito del premier Ahmed, del suo coraggio e della sua determinazione. Che sia stata un’impresa, che ci siano stati tentativi di resistenza lo testimoniano tre falliti colpi di stato con relativi attentati alla sua persona. Il Nobel è un modo per rafforzarlo, un modo per rendere più difficili e ardui i tentativi di fermarlo. Rimane, però, il fatto che negli ultimi due anni in Etiopia ci sono stati durissimi scontri tra tigrini, oromo, ahmara per la gestione della terra. Abiy Ahmed – un oromo – dovrà trovare un equilibrio e delle leggi democratiche che lo sanciscano. Il Nobel, inoltre, parla a tutta l’Africa, dice che si può cambiare, che ciò che appare impossibile può essere realizzato.

La strada, tuttavia, è ancora in salita. All’indomani dell’assegnazione del premio, si sono verificate rivolte degli oromo, con decine di morti e feriti, frutto dei combattimenti tra membri di vari gruppi etnici nella regione di Oromia. Le rivolte sono scoppiate dopo che l’oppositore Jawar Mohammed ha accusato le forze di sicurezza di aver pianificato un attentato ai suoi danni. Nonostante Abiy e Jawar appartengano alla stessa etnia e siano anche stati alleati prima dell’ascesa al potere dell’attuale premier, tra i due si è aperta una “guerra” molto virulenta. Jawar accusa Abiy di aver sviluppato tendenze autoritarie. Il premier, a detta di Jawar, sta cercando di intimidire i suoi detrattori, compresi gli alleati molto stretti che lo hanno portato al potere. Jawar, tuttavia, non ha mai nascosto l’aspirazione a candidarsi alle elezioni proprio contro il premier. Progetto svanito visto il rinvio delle elezioni a data da “destinarsi” e del tutto sepolto dopo il suo arresto per le rivolte dopo l’uccisione del musicista oromo.

Non si comprende, tuttavia, questa guerra etnica interna al gruppo degli oromo. Una scintilla banale o un omicidio eccellente scatenano una violenza inaudita, come l’uccisione del cantante oromo Hachalu Hundessa. Una rivolta che ha provocato più di 200 morti e oltre 5000 arresti. Il cantante molto popolare tra la popolazione oromo – l’etnia maggioritaria in Etiopia – e che, grazie alle sue canzoni di denuncia contro la presunta emarginazione del gruppo etnico dalla vita politica ed economica del paese, è diventato negli anni uno dei leader delle rivendicazioni. Rivendicazioni che, paradossalmente, si sono intensificate dopo l’entrata in carica del premier Abiy Ahmed: molti nazionalisti lo accusano infatti di non aver fatto abbastanza per difendere gli interessi della sua comunità. Il primo ministro, del resto, ha più volte promesso maggiori libertà politiche e che le prossime elezioni dovranno essere “libere ed eque”, tuttavia il suo nuovo Partito della prosperità (Pp) – nato nel novembre scorso dalla fusione dei partiti che formavano il Fronte democratico rivoluzionario dei popoli etiopi (Eprdf), la coalizione al potere in Etiopia dal 1991, con il preciso obiettivo di superare le divisioni in nome di uno sviluppo condiviso – si basa su una visione “panetiope” che si trova a dover fare i conti con una forte concorrenza da parte di nuovi partiti regionali determinati a sostenere le rivendicazioni delle rispettive etnie di appartenenza dopo decenni di repressione e a inasprire lo scontro interetnico. È proprio alle tensioni settarie e ai ripetuti tentativi di far “deragliare” il percorso di riforme avviato dal suo governo che lo stesso Ahmed ha fatto riferimento nel suo discorso trasmesso in diretta televisiva subito dopo la morte di Hundessa. Ahmed ha infatti sottolineato come la storia recente del paese sia stata minacciata per tre anni consecutivi da tre “inquietanti” episodi avvenuti sempre nel mese di giugno: l’esplosione di una bomba durante un suo comizio ad Addis Abeba il 24 giugno 2018; il tentato golpe del 22 giugno 2019 che causò l’uccisione del capo dell’esercito Seare Mekonnen e del governatore dello stato di Amhara, Ambachew Mekonnen; e ora l’assassinio di Hundessa. In un vago riferimento a un “tentativo organizzato” di ostacolare la sua agenda di riforme, il primo ministro ha quindi puntato il dito contro «agenti interni e stranieri» responsabili di «un atto malvagio» al fine di «destabilizzare la nostra pace e impedirci di conseguire le riforme che abbiamo intrapreso». Ahmed ha quindi accusato non meglio precisati “gruppi” di aver preso di mira non solo Hundessa, ma anche altre personalità di spicco di etnia oromo con l’obiettivo di «istigare ulteriori violenze per far deragliare ciò che abbiamo costruito per il paese», e ha inoltre assicurato che il governo intensificherà le misure per garantire la prevalenza dello stato di diritto in tutto il paese, invitando i cittadini a stare dalla parte del governo. Il premier ha spiegato che questo omicidio verrà “utilizzato” per unificare il paese, «coloro che hanno pianificato il crimine sono gli stessi che non sono contenti dell’attuale cambiamento in atto nel paese. Il loro obiettivo non è uccidere il nostro fratello – ha spiegato Ahmed – ma uccidere l’Etiopia uccidendo Hachalu. Tuttavia, ciò non accadrà e il loro piano non avrà successo». Il rinvio delle elezioni, tuttavia, può logorare il governo e la sua tenuta democratica.

Tutto ciò accade in un paese che, nonostante una rapida crescita economica, rimane una delle nazioni più povere al mondo. Negli anni la violenza etnica in Etiopia, oltre a centinaia di morti, ha costretto oltre due milioni di persone a lasciare le loro case e trovare rifugio altrove.

E poi c’è la Diga della Rinascita a inquietare la scena politica sia interna che esterna dell’Etiopia. E più che una diga della rinascita rischia di diventare, non solo della discordia – quella è un dato di fatto – ma il detonatore di una crisi regionale dagli effetti imprevedibili. I negoziati, fino a ora, tra Etiopia, Egitto e Sudan, non hanno ancora sciolto i nodi. Tutt’e tre i paesi rimangono sulle loro posizioni, senza che vi siano segnali, concreti, che si possa arrivare a un accordo in tempi brevi e condiviso da tutti. Ai nulla di fatto del negoziato si aggiungono dichiarazioni – che probabilmente hanno il solo scopo di irritare i protagonisti del negoziato – come quelle del ministro delle Risorse idriche, dell’irrigazione e dell’energia, Sileshi Bekele, a cui nei giorni scorsi l’emittente di stato etiope Ebc ha attribuito affermazioni circa l’avvio delle operazioni di riempimento del bacino idrico della diga. Lo stesso ministro, poi, ha parzialmente rettificato l’informazione, limitandosi ad affermare che il riempimento è in corso «in conformità con il normale processo di costruzione» della diga.

Gli ultimi colloqui trilaterali che si sono tenuti in videoconferenza dal 3 luglio al 13 alla presenza di undici osservatori – tra cui Unione europea, Stati uniti e Unione africana – si sono conclusi con un nulla di fatto. Colloqui che si ripeteranno nei prossimi giorni. «Le posizioni invariate e le richieste aggiuntive ed eccessive dell’Egitto e del Sudan hanno impedito che questo ciclo di negoziati si concludesse con un accordo», ha dichiarato lo stesso Seleshi, ribadendo al contempo la convinzione che un accordo negoziato sia «l’unica via d’uscita». Nel frattempo nuove immagini satellitari sembrano mostrare un aumento dei livelli delle acque nel bacino idrico della diga costruita sul fiume Nilo. Il governo etiope ha negato di aver deliberatamente iniziato a riempire la diga, anche se il riempimento è il nodo sul quale si arenano i negoziati. Non si capisce se tutto ciò sia tattica o confusione.

La partita è dunque delicatissima e sia l’Egitto sia l’Etiopia hanno tutti i motivi per difendere le loro posizioni. Dall’acqua del Nilo dipende tutto. Il Nilo è l’Egitto. Il paese delle piramidi potrebbe perdere fino a 300 milioni di dollari di elettricità e un miliardo e mezzo di dollari in agricoltura. Il Cairo, inoltre, dovrebbe aumentare le sue importazioni alimentari fino a poco meno di 600 milioni di dollari, con una perdita di circa un milione di posti di lavoro. L’Egitto consuma circa 80 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, di cui 50 provengono dal Nilo. L’Etiopia, invece, potrebbe perdere lo slancio economico che sta mettendo in campo il primo ministro Abyi Ahmed. Il balzo del Pil – attualmente la crescita sfiora le due cifre, ma occorre fare i conti con la pandemia di coronavirus – potrebbe rimane una chimera e deludere l’opinione pubblica interna, con conseguenze imprevedibili, vista l’attuale fragilità del tessuto sociale, spesso squassato da rivalità etniche e religiose. Un Pil, tuttavia, che non si riflette sull’economia reale, sul benessere della popolazione. Addis Abeba ha un gran bisogno di questa diga che, non a caso è stata definita “Diga della Rinascita etiope”. I lavori sono iniziati nel 2011 e affidati all’italiana Salini. L’invaso, inoltre, potrà immagazzinare fino a 74 miliardi di metri cubi di acqua e il riempimento dovrebbe cominciare o è già iniziato, almeno secondo le intenzioni di Addis Abeba, proprio in questo mese. L’oggetto del contendere è, infatti, sui tempi del riempimento che l’Egitto vorrebbe avvenisse in cinque anni mentre l’Etiopia in tre.

Sulla vicenda, inoltre, ci sono contratti milionari. La Cina, infatti, ha annunciato una megapartecipazione proprio in questa infrastruttura. La compagnia Ethiopian Electric Power (Eep) ha firmato un contratto del valore di 40 milioni di dollari con la China Gezhouba Group per la gestione delle attività relative alla diga. Tutto ciò spiega, inoltre, il fatto che l’Egitto boicotti l’iniziativa del bacino del Nilo, istituito con l’accordo di Entebbe firmato da sei paesi: Etiopia, Kenya, Ruanda, Tanzania, Uganda e Burundi. All’accordo non hanno aderito l’Egitto e il Sudan, a causa della riassegnazione delle quote d’acqua del Nilo che sfavorirebbe questi due paesi. Si spiega, dunque, l’asprezza del negoziato che, tutti si augurano, non sfoci nella Prima guerra dell’Acqua del terzo millennio.

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Parallelismi tra l’evoluzione del SARS-CoV-2 e la diffusione delle locuste in Africa orientale https://ogzero.org/facili-parallelismi-con-levoluzione-del-cosar19-e-la-diffusione-delle-locuste-in-africa-orientale/ Sun, 21 Jun 2020 11:07:19 +0000 http://ogzero.org/?p=124 Risvolti economici del disastro epidemico sommato alla piaga delle locuste e al tracollo dei prezzi dei minerali preziosi Per l’Africa è necessario un piano di sviluppo globale. Un piano fatto insieme all’Africa che dovrà essere in grado di limitare, sempre di più, la bulimia di denaro e potere della stragrande maggioranza di presidenti e governanti […]

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Risvolti economici del disastro epidemico sommato alla piaga delle locuste e al tracollo dei prezzi dei minerali preziosi

Per l’Africa è necessario un piano di sviluppo globale. Un piano fatto insieme all’Africa che dovrà essere in grado di limitare, sempre di più, la bulimia di denaro e potere della stragrande maggioranza di presidenti e governanti africani, che assomigliano sempre di più a dinosauri ancorati al trono, noncuranti del popolo. Se non si ha il coraggio di studiare un piano Marshall per l’Africa e con l’Africa, a pagarne le conseguenze saranno milioni di giovani africani che si accalcheranno alle frontiere del mondo ricco per trovare vie di uscita e dignità dove ora non la trovano. 

L’Africa, tuttavia, rimane un continente molto fragile e soggetta agli shock esterni e si appresta a vivere un grave periodo di recessione. Molti fattori, che si intrecciano fra loro, contribuiranno a un calo della crescita. Alle problematiche endemiche, come la povertà, la corruzione, si aggiungono fattori esterni di notevole impatto sui mercati: shock del prezzo del petrolio, coronavirus che porta con sé un calo della domanda turistica e, non ultimo, l’invasione delle locuste nel Corno d’Africa che sta mettendo in ginocchio intere popolazioni già provate dall’insicurezza alimentare. 

Frag tratto da Mal d’Africa, di Raffaele Masto e Angelo Ferrari, postfazione di Marco Trovato, Torino, Rosenberg & Sellier, aprile 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

Angelo Ferrari, 26 marzo 2020, intervento su Radio Blackout: le piaghe africane tra locuste, eredità economica dell’epidemia covid19 e crisi dei prezzi di minerali: strutture sanitarie, crisi sociale e umana, ma anche economica che si innesta sulla crisi alimentare preesistente alle locuste.

La piaga delle locuste ha falcidiato l’intera Rift Valley. L’invasione si presenta così recrudescente a seguito delle piogge della primavera 2020 nel Corno d’Africa, che hanno permesso una ulteriore schiusa delle uova deposte dallo sciame già imperversante da mesi nei paesi dell’Africa orientale: curve matematiche, come quelle dell’epidemia consentono di relazionare questi con altri fenomeni che sono avvenuti, come la riduzione di suoli coltivabili nel nord del Kenya, a seguito del riscaldamento globale. E la difficoltà di seguire gli effetti del riscaldamento climatico impedisce di prevedere come può evolvere, al punto che paradossalmente si auspica da parte di alcuni un periodo di siccità che blocchi la fertilità degli insetti; inoltre è difficile monitorare lo spostamento degli insetti al di fuori del Kenya e dell’Etiopia.

Intervento di Andrea Spinelli Barrile su Radio Blackout del 9 aprile 2020

Oltre al disastro immediato della devastazione dei campi nel momento in cui le coltivazioni stavano giungendo a maturazione, gli effetti si proietteranno sia sulla carestia che porterà a morte milioni di persone, sia sui prezzi dell’esportazione di prodotti in tutto il mondo, ma soprattutto nel commercio interno al continente, in particolare per quel che concerne Kenya ed Etiopia, per i quali questo export rappresenta una bella fetta del pil. Inoltre con l’imperversare dell’epidemia da covid19, che ha imposto il blocco delle importazioni – in particolare in Uganda – non consente l’accesso ai pesticidi di produzione straniera e quindi sottrae un’arma contro le locuste. 

Il sostegno della Banca nazionale africana è ridotto e si limita a concertare l’azione delle banche nazionali con la volontà di investimento: si può contare sui fondi della Cooperazione, che provengono dall’Europa (Francia, Germania, Italia), dall’Arabia Saudita… dalla Cina

Mentre almeno gli aiuti alimentari provenienti dalla Fao sono già potuti entrare in Kenya e in Etiopia, perché le locuste si possono anche mangiare, ma – per quanto proteica – non può essere una dieta sostitutiva e comunque possono fornire cibo per poche settimane poi la devastazione da loro prodotta permane; senza considerare gli effetti su terreni sottoposti all’uso intensivo di pesticidi e l’assenza di fondi per acquistare sementi, andate perdute con il transito di questi voraci ortotteri. E infatti un’opzione considerata è l’uso di ogm, soprattutto in Kenya, che ha timore si estenda la desertificazione avanzante da nord-est. Invece le locuste si sono spostate anche verso sud-ovest in Tanzania (e hanno devastato il Pakistan, raggiungendo anche l’Afghanistan e l’India).

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L’adesione dell’Africa alla Belt Road Iniziative è stata unanime? https://ogzero.org/la-penetrazione-della-cina-in-tanzania-rispetto-ai-paesi-limitrofi/ Mon, 13 Apr 2020 09:50:20 +0000 http://ogzero.org/?p=142 Grado di penetrazione degli investimenti asiatici in Africa: spartizioni tra India e Cina di OGzero, 21 giugno 2020 La Belt Road Initiative cinese, oltre a essere un’opera di collegamento con l’Europa, privilegia le relazioni con l’Africa orientale, porta di ingresso straordinaria per un’invasione pacifica, ma non senza conseguenze, dell’intero continente. E le porte di accesso […]

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Grado di penetrazione degli investimenti asiatici in Africa: spartizioni tra India e Cina

di OGzero, 21 giugno 2020

La Belt Road Initiative cinese, oltre a essere un’opera di collegamento con l’Europa, privilegia le relazioni con l’Africa orientale, porta di ingresso straordinaria per un’invasione pacifica, ma non senza conseguenze, dell’intero continente. E le porte di accesso sono numerose. L’ultima è rappresentata da Mauritius. Con l’isola nell’Oceano Indiano è stato siglato il primo accordo di libero scambio. L’intesa riguarda il commercio di beni e servizi nonché la cooperazione in materia di investimenti. L’accordo, secondo quel che viene reso noto dal governo cinese, non solo fornirà una più potente garanzia istituzionale per approfondire le relazioni economiche e commerciali bilaterali con Mauritius, ma promuoverà anche la cooperazione economica e commerciale, nonché finanziaria, tra Cina e Africa. La Belt Road Initiative cinese, oltre a essere un’opera di collegamento con l’Europa, privilegia le relazioni con l’Africa orientale, porta di ingresso straordinaria per un’invasione pacifica, ma non senza conseguenze, dell’intero continente. E le porte di accesso sono numerose. L’ultima è rappresentata da Mauritius. Con l’isola nell’Oceano Indiano è stato siglato il primo accordo di libero scambio. L’intesa riguarda il commercio di beni e servizi nonché la cooperazione in materia di investimenti. L’accordo, secondo quel che viene reso noto dal governo cinese, non solo fornirà una più potente garanzia istituzionale per approfondire le relazioni economiche e commerciali bilaterali con Mauritius, ma promuoverà anche la cooperazione economica e commerciale, nonché finanziaria, tra Cina e Africa.

Nel momento in cui si cerca di comprendere lo sviluppo economico e le partnership tra nazioni in via di sviluppo e le potenze economiche che si prefiggono di godere di esclusività nei settori più sensibili e importanti per alcuni stati è indispensabile indossare un paio di occhiali privi di pregiudizi. Vale per tutti i meccanismi di sviluppo globali, ma in particolare per l’immagine deformata delle differenti società africane. Sono situazioni che possono condizionare il mercato mondiale e che vedono in competizione giganti come la Cina, che è molto presente da decenni in Tanzania e che è snodo del Belt Road Iniziative con il porto di Bagamoyo; o l’India che invece ha relazioni privilegiate con Kenya e Sudafrica, anche per la comune tradizione coloniale britannica. Gli investimenti che vengono fatti sono ovviamente sempre comunque mirati a uno sviluppo la cui sostenibilità è sottomessa alla possibilità che consenta ovviamente agli investitori di ottenere profitti

Angelo Ferrari, 23 marzo 2020 su Radio Blackout
© 2015, Railway Gazette

Durante un intervento registrato il 24 novembre 2018 Andrea Spinelli Barrile ha preso spunto dalle infrastrutture per evidenziare la spartizione delle aree tra grandi potenze asiatiche. Del 1964 è il primo progetto cinese per una tratta ferroviaria in Tanzania, una nazione rivolta verso l’Asia che scatena la concorrenza tra Cina e India per soddisfare i loro bisogni (le risorse maggiormente saccheggiate sono legno, petrolio, minerali, gas), arrivando a parlare di investimenti stranieri in Africa orientale e presenza sul territorio anche di maestranze straniere più o meno tollerate in base alle abitudini nazionali.

Andrea Spinelli Barrile, 24 novembre 2018 (Radio Blackout): concorrenza tra grandi potenze asiatiche per controllare le risorse dell’Africa Orientale

L’adesione dell’Africa alla Belt Road Initiative è stata unanime, nessuno escluso. Ma perché attrae tanto la nuova via della seta cinese? I leader africani percepiscono questa iniziativa come una valida e tangibile alternativa agli incerti piani di investimento a lungo periodo proposti da europei e americani. I russi piacciono di più perché offrono su un piatto d’argento armamenti e addestramento militare. Pechino, tuttavia, ha saputo sfruttare la complessità delle garanzie a lungo termine di beni e risorse attraverso un sistema, tanto antico quanto nuovo, di baratto: in cambio del capitale di investimento e dell’infrastruttura, alcuni paesi concedono lo sfruttamento delle proprie risorse e una quota nei progetti infrastrutturali. Insomma, vince il capitalismo di stato. Ma vi è un altro fattore, oltre al denaro, che affascina i governi africani: la politica di non ingerenza negli affari interni ha indotto molti presidenti a individuare nella Cina un partner privilegiato

Andrea Spinelli Barrile descrive lo Zimbabwe in recessione profonda nel 2018, però con una tipologia di formazione educativa molto simile a quella occidentale e quindi con maggiori difficoltà ad avvicinarsi al mondo cinese, più ostico e lontano nell’immaginario e quindi apparentemente in contraddizione con quanto si legge nello stralcio del libro di Masto e Ferrari; in realtà forse è la differenza di accoglienza tra potere economico e politico locale e difficoltà culturale di integrare la presenza cinese. Per esempio la lingua kiswahili si trova arricchita da traslitterazioni cinesi in molte scritte e istruzioni in Tanzania: le lingue avvicinano (i comboniani non a caso hanno traslitterato lo swahili in epoche non recenti, agevolando così i rapporti tra africani e occidentali… che poi questi rapporti evolvano in termini negativi come le conseguenze coloniali, o positivi derivano dall’uso dei mezzi a disposizione), ma in realtà l’approccio dei cinesi che vivono o lavorano in Africa Orientale non concede nulla alle relazioni con le popolazioni locali e si nota anche da come viene percepito il linguaggio.

Andrea Spinelli Barrile su Radio Blackout, 24 novembre 2018: difficile metissage di culture sino-africane

I paesi dell’Africa occidentale – la maggior parte ex colonie francesi e con la famigerata moneta ancorata all’euro e garantita dal tesoro francese – stanno pensando di dotarsi di una moneta propria abbandonando, quindi, il franco Cfa. Tutto ciò è emerso durante una riunione che si è tenuta ad Abidjan tra i ministri delle Finanze e i governatori delle banche centrali dei paesi della Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao); la nuova moneta, l’eco, potrebbe essere ancorato allo yuan cinese, per evitare oscillazioni pericolose per i mercati. Ciò che è accaduto con il franco Cfa ancorato all’euro. Il progetto di moneta unica della Cedeao è fortemente voluto dal Ghana, paese con una moneta abbastanza instabile. Insomma, l’Africa occidentale, se non tutta, vorrebbe passare, con questa decisione, dalla tutela francese a quella cinese. Ciò dimostra, inoltre, che per questi paesi non è pensabile garantire la stabilità monetaria senza un ancoraggio a una moneta forte. Il franco Cfa, negli anni, ha garantito proprio questo: stabilità e bassa inflazione, a differenza di ciò che è accaduto nei paesi dell’area che non avevano adottato quella moneta, il Ghana, ancora, ne è un esempio. Il Ghana è il principale partner commerciale della Cina nell’area: il commercio bilaterale è passato da meno di 100 milioni di dollari nel Duemila a 6,7 miliardi nel 2017. La metà della massa monetaria della comunità economica dell’Africa occidentale circola in Costa d’Avorio e il 40 per cento delle merci viene movimentata attraverso il porto di Abidjan. Nel Duemila il debito nei confronti della Cina era pari a zero, tra il 2010 e il 2015 è diventato di 2,5 miliardi di dollari.

Frags tratti da Mal d’Africa, di Raffaele Masto e Angelo Ferrari, postfazione di Marco Trovato, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

Angelo Ferrari il 26 marzo 2020 su Radio Blackout enumerava quanti e quali paesi africani rischiano la sovranità in cambio degli investimenti cinesi e crisi postepidemia

Anche Andrea Spinelli Barrile si occupava dell’economia, immaginando di poter usare occhiali diversi in grado di adattarsi alle soluzioni parziali connaturate alla struttura economica-finanziaria dell’Africa Orientale. Attrarre capitali stranieri serve per sopperire con quella liquidità alla inflazione; la produttiva o il welfare, la ricchezza si sposano a un approccio forse più umano all’economia delle varie Afriche.

Andrea Spinelli Barrile, 24 novembre 2018: monetarismo e sistemi economico-finanziari in Africa Orientale; intervento registrato su Radio Blackout

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La presenza militare cinese in Africa orientale https://ogzero.org/la-tanzania-tra-risorse-naturali-e-interessi-cinesi/ Sun, 12 Apr 2020 12:21:28 +0000 http://ogzero.org/?p=130 Boots on the ground La guerra fredda è un lontano ricordo. Eppure Russia e Usa hanno ripreso le ostilità, e dove? In Africa. Mosca sta cercando di riprendersi una qualche centralità nel continente africano, favorita, anche, dalle mutate condizioni politiche. Crollato il muro di Berlino, infatti, su tutto il continente si sono scatenate numerose guerre […]

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Boots on the ground

La guerra fredda è un lontano ricordo. Eppure Russia e Usa hanno ripreso le ostilità, e dove? In Africa. Mosca sta cercando di riprendersi una qualche centralità nel continente africano, favorita, anche, dalle mutate condizioni politiche. Crollato il muro di Berlino, infatti, su tutto il continente si sono scatenate numerose guerre che non avevano più nessun legame con gli amici di un tempo – America e Unione Sovietica – ma, semplicemente, rappresentavano il tentativo di riposizionarsi e trovare nuovi amici attraverso l’accaparramento delle risorse naturali. Finito, non del tutto per la verità, quel periodo, ora è “guerra” commerciale, ma anche militare, di tutti contro tutti. L’Occidente ha deciso che è giunto il momento di arginare l’influenza cinese che, ormai, ha le mani su tutto il continente, nessun paese escluso. La Russia non ci sta e non vuole, certo, rimanere ai margini. Mosca sta in maniera sistematica espandendo la sua incidenza militare e strategica nel continente. E tutto ciò allarma, e non poco, le cancellerie occidentali. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno ben marcato il territorio attraverso il comando Africom. Oltre ai 4000 militari di stanza a Gibuti, la missione americana, dispone di 34 siti militari, 14 basi principali e 20 postazioni secondarie a supporto della lotta al terrorismo. In tutto oltre 7000 militari. Le presenze più significative sono in Somalia, Niger, Kenya, Mali e Camerun. 

Tornare a essere protagonisti in Africa, significa anche rafforzare la presenza militare. Un obbligo dettato dal fatto che la Cina ha già messo gli “scarponi” sul terreno attraverso le missioni di peacekeeping. I caschi blu cinesi, tuttavia, dispiegati in Africa – circa 2500 – sono concentrati nelle aeree di particolare interesse per Pechino. Non è un caso che mille di questi siano in Sud Sudan dove la Cina ha investito molto nel petrolio e altri 400 in Mali.

Frag tratto da Mal d’Africa, di Raffaele Masto e Angelo Ferrari, postfazione di Marco Trovato, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.

 

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La contesa per l’acqua del Nilo https://ogzero.org/la-contesa-per-lacqua-del-nilo/ Thu, 02 Apr 2020 14:16:11 +0000 http://ogzero.org/?p=112 Raffaele Masto, Angelo Ferrari, 2020 Per l’Etiopia la decisione di cercare la pace con l’Eritrea fa parte di una svolta profonda anche nella politica interna. Il comitato esecutivo del partito al potere in una coalizione nella quale rappresenta la grande maggioranza ha anche annunciato la liberalizzazione dei settori delle telecomunicazioni, dell’energia e del trasporto aereo, […]

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Raffaele Masto, Angelo Ferrari, 2020

Per l’Etiopia la decisione di cercare la pace con l’Eritrea fa parte di una svolta profonda anche nella politica interna. Il comitato esecutivo del partito al potere in una coalizione nella quale rappresenta la grande maggioranza ha anche annunciato la liberalizzazione dei settori delle telecomunicazioni, dell’energia e del trasporto aereo, aprendoli a investimenti privati e interni, con l’obiettivo di allentare la presa dello stato sull’economia, una delle più chiuse e controllate del continente africano ma anche una delle più dinamiche e in crescita. Si tratta di riforme promesse dal nuovo premier Abiy Ahmed subentrato al dimissionario Hailemariam Dessalegn che, pur appartenendo a una minoranza etnica, rappresentava gli interessi dell’etnia tigrina al potere dalla cacciata, nei primi anni Novanta, del dittatore Menghistu. In questa svolta la potenziale guerra mai conclusa con l’Eritrea era un impiccio. Discorso diverso per l’Eritrea. Questo paese si è progressivamente chiuso anche grazie al pretesto della guerra con il grande vicino etiopico. Ora che questo spettro non c’è più Isaias Afewerki si trova a doversi riposizionare, sia sul piano esterno che su quello interno. Sulla carta vengono meno i motivi per non applicare la Costituzione, per evitare elezioni e per mantenere decine di migliaia di giovani nelle caserme.

La pace con l’Eritrea avrà delle conseguenze economiche. Stando alle parole dei due leader «verranno ripristinati i legami nei trasporti, nel commercio e nelle telecomunicazioni e rinnovati i legami e le attività diplomatiche». L’Etiopia aveva, proprio per ovviare al suo mancato sbocco sul mare, puntato sulla ferrovia e sulla strada per Gibuti costruite dai cinesi. Gibuti era praticamente diventato il porto dell’Etiopia sul Mar Rosso. Ora però la pace dovrebbe offrire di nuovo ad Addis Abeba i porti di Assab e Massaua. O meglio, si dovrà stare a vedere perché secondo molti analisti la guerra era proprio scoppiata non tanto per le pietraie di Badame, a 2400 metri di quota che ora l’Etiopia ha riconosciuto all’Eritrea, ma proprio perché l’Eritrea aveva richiesto i pagamenti dei diritti portuali in dollari e non più in nakfa, la valuta eritrea.

La pace avrà anche conseguenze regionali e internazionali. Sempre secondo quanto affermano i due leader «entrambi i paesi lavoreranno insieme per assicurare la pace regionale, lo sviluppo e la cooperazione». Questi venti anni di non-pace avevano spostato su fronti opposti negli equilibri regionali Eritrea ed Etiopia. Per esempio sulla diatriba tra Etiopia e Egitto per l’acqua del Nilo e la Diga della Rinascita, l’Eritrea aveva fatto da sponda ai paesi contrari ad Addis Abeba. Come pure in Somalia l’Eritrea veniva accusata di sostenere i ribelli jihadisti di al-Shabaab in funzione antietiopica.

La firma di questa pace storica, a detta di molti analisti, è avvenuta a Gedda, in Arabia Saudita il 16 settembre del 2018, e questo non è un fattore secondario. Se la pace poteva avere conseguenze su tutto il Corno d’Africa, sicuramente il luogo della firma impone la comprensione di nuovi scenari che si aprono in quel fazzoletto di terra. L’Arabia Saudita, come tutte le potenze mondiali, non fa nulla senza che questo abbia ripercussioni positive sui propri interessi sia economici che strategici e non ultimi quelli geopolitici. 

Raffaele Masto, 17 novembre 2019, intervento trasmesso da Radio Blackout sulla contesa relativa alla Diga della Rinascita costruita dall’Etiopia sul Nilo Azzurro

Lo spirito del Nilo patisce le dighe

Il Nilo è l’anima per buona parte dei paesi del suo bacino, che è vasto e costituisce un sistema di relazioni politiche che contribuiscono a formare gli equilibri geostrategici della regione. Nessuno può rinunciare alle sue acque: non gli stati relativamente piccoli intorno alle sue sorgenti come il Ruanda, il Burundi e l’Uganda né, a maggior ragione, grandi nazioni come l’Etiopia e il Sudan. Ma chi più di tutti non può fare a meno delle acque del Nilo è l’Egitto, la cui gloriosa storia passata e quella attuale dipendono quasi totalmente dal grande fiume. L’Egitto, che sia guidato dai faraoni, dai Fratelli Musulmani o dai militari di Nasser, di Mubarak o di al-Sisi, non può tollerare che qualcuno dei paesi del bacino del fiume costruisca opere sul suo corso, diminuendo la portata d’acqua che si riversa a valle. Proprio per questo motivo, da qualche anno, è in corso un pericoloso contrasto tra Egitto e Etiopia che fa comprendere quanto sia delicata la spartizione delle sue acque per gli equilibri di tutta l’Africa orientale. L’Etiopia, una delle nazioni africane più dinamiche dal punto di vista economico, ha in progetto da qualche anno una grande diga sul ramo del Nilo Azzurro, soprannominata la “Diga della Rinascita”. Un’opera che nelle intenzioni dovrebbe produrre energia elettrica per buona parte del paese e anche permettere di esportarla a quelli limitrofi, sostenendo in questo modo la formidabile crescita dell’Etiopia, che aspira al ruolo di potenza regionale. Nel 2013 sono cominciati i lavori, e l’Egitto – nonostante stesse vivendo una grave crisi politica interna – ha scatenato un’offensiva diplomatica arrivando a minacciare guerra e bombardamenti aerei sul cantiere della diga. Le tensioni sono tutt’ora all’ordine del giorno e gettano un timore di scontro tra i due paesi e non solo. Le minacce si alternano – da ambo le parti – a periodi di distensione, senza mai, però, arrivare a una soluzione accettabile per tutti.

L’Egitto fonda la propria posizione su un vecchio protocollo: circa cento anni fa, nei primi anni del secolo scorso, era infatti riuscito a stipulare un’intesa secondo la quale il 95 per cento della portata del Nilo risultava di proprietà egiziana, mentre il resto apparteneva al Sudan e le rimanenti briciole venivano lasciate agli altri stati del bacino. La questione è tutta apertissima e nella partita si sono inseriti anche gli Stati Uniti come forza mediatrice tra le parti. 

I negoziati, nonostante la mediazione degli Stati Uniti, sono stati infruttuosi. Nessuno cede e il pericolo di un conflitto, anche se non armato, ma solo diplomatico potrebbe rappresentare un grave rischio per una regione già attraversata da crisi immani come quelle del Sudan e del Sud Sudan. Il problema, ovviamente, è la riduzione della portata delle acque del Nilo. È evidente che una regione dove le crisi, le guerre, sono state dettate dal petrolio, dall’oro nero, da appetiti nazionali e internazionali, una nuova guerra, quella per l’oro blu, l’acqua, non è auspicabile. Ma le tensioni sull’oro blu potrebbero diventare la miccia per nuove guerre, per nuovi posizionamenti strategici. Coinvolgendo, se ce ne fosse ancora bisogno, le potenze straniere. Ma andiamo per ordine.

Il progressivo cambiamento della portata del Nilo Azzurro dal 2014 al 2019

La questione è questa: la Diga della Rinascita ridurrà inevitabilmente la portata dell’acqua del fiume e, di conseguenza, priverà l’Egitto di una risorsa irrinunciabile che ha consentito a questo paese, dalla civiltà dei faraoni a oggi, di avere il ruolo che ha nel Mediterraneo e nel Maghreb. L’acqua del Nilo, e il limo che deposita nelle ondate di piena, costituiscono letteralmente l’agricoltura dell’Egitto. Negli anni recenti hanno scoperto giacimenti di gas imponenti. Ma senza il Nilo l’Egitto non esiste. Non solo non esiste il suo passato, nemmeno il suo presente e, tantomeno, il suo futuro. Il Nilo è l’Egitto. 

Di contro, l’Etiopia vuole esistere, vuole continuare a crescere. A imporsi. È per questo che Addis Abeba non può rinunciare alla diga che sarà una fonte di energia, e che vuol dire elettricità in un paese che non ha ancora raggiunto l’autosufficienza alimentare. Ma fosse solo questo! Elettricità significa tante cose. Innanzitutto sviluppo. Significa luce per poter studiare. Per gli studenti uscire dall’isolamento. Energia per far funzionare le fabbriche. Vuol dire lavoro. Vuole dire ospedali che funzionano. Possibilità per i giovani di oggi di progettare un futuro che non aspiri, solo, a emigrare. Tanto, oggi, chi lo può fare è una esigua minoranza. Vuol dire poter fare figli sapendo che il loro futuro è garantito. Tutto questo per un paese significa energia vitale, che si traduce in elettricità che contagia, che arriva ovunque. Che la partita sia fondamentale è del tutto evidente. Ed è altrettanto scontato che forse i governanti, se non hanno dalla loro la lungimiranza, potrebbero anche scatenare una guerra per l’oro blu. Convinti, magari, che questa sia la soluzione. E le bombe dove cadrebbero? Proprio sulla diga, e addio elettricità.

Il confronto, dunque, è tra due necessità irrinunciabili. Due grandi paesi a confronto. La soluzione, inevitabilmente, passa attraverso la rinuncia di qualcosa da parte di entrambi i contendenti. Ma chi è disposto a fare il primo passo?

Per comprendere questo scontro è utile sapere cosa c’è in gioco concretamente: il paese delle piramidi potrebbe perdere fino a 300 milioni di dollari di elettricità e un miliardo e mezzo di dollari in agricoltura. Non solo: il Cairo dovrebbe aumentare le sue importazioni alimentari fino a poco meno di 600 milioni di dollari, con una perdita di circa un milione di posti di lavoro. L’Egitto consuma circa 80 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, di cui 50 provengono dal Nilo. L’Etiopia, invece, potrebbe perdere lo slancio economico che sta mettendo in campo grazie al suo primo ministro. Il balzo del Pil – attualmente la crescita sfiora le due cifre – potrebbe rimanere una chimera e deludere l’opinione pubblica interna, con conseguenze imprevedibili, vista l’attuale fragilità del tessuto sociale, spesso squassata da rivalità etniche e religiose. Un Pil, tuttavia, che non si riflette sull’economia reale, sul benessere della popolazione.

La diga, intanto, è in fase di costruzione sul confine occidentale dell’Etiopia con il Sudan. Prosegue il suo cammino. Sarà la più grande dell’Africa con un costo complessivo stimato in quattro miliardi di dollari, una capacità di 74 000 metri cubi d’acqua e una produzione di 6500 megawatt. Il negoziato è su tutto, persino sul riempimento della diga. L’Egitto ha chiesto di ottenere un periodo di riempimento di cinque anni anziché tre come proposto dall’Etiopia, una decisione che influenzerebbe fortemente però la quota dell’Egitto sull’acqua del Nilo.

La partita non è solo regionale, ma registra l’interventismo internazionale. In particolare quello cinese. Con l’Etiopia Pechino ha stretto collaborazioni molto promettenti, come l’accordo per un oleodotto che trasporti il gas naturale dei giacimenti dell’Ogaden a Gibuti perché possa essere commercializzato. Ma la Cina ha annunciato una megapartecipazione proprio nella più grande infrastrutturazione del paese. La compagnia Ethiopian Electric Power (Eep) ha firmato un contratto del valore di 40 milioni di dollari con la China Gezhouba Group per la gestione delle attività relative alla Grande Diga della Rinascita, che dovrebbe diventare operativa entro il 2022. L’accordo è stato firmato ad Addis Abeba dagli amministratori delegati di entrambe le società. Nelle intenzioni delle parti, l’intesa consentirà di accelerare il ritmo di realizzazione della diga. Pechino, inoltre, non si fa certo scrupoli, proprio grazie alla sua capacità finanziaria, di siglare accordi e iniettare denaro su progetti che hanno come attori soggetti contrapposti.

Tutto ciò spiega, inoltre, il fatto che l’Egitto boicotti l’iniziativa del bacino del Nilo, istituita con l’accordo di Entebbe firmato da sei paesi: Etiopia, Kenya, Ruanda, Tanzania, Uganda e Burundi. All’accordo non hanno, tuttavia, aderito l’Egitto e il Sudan, a causa della riassegnazione delle quote d’acqua del Nilo che sfavorirebbero questi due paesi. Una contesa lontana dal trovare una soluzione. Una contesa internazionale che potrebbe scatenare la Prima guerra dell’acqua del terzo millennio.

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