Amedeo Rossi Archivi - OGzero https://ogzero.org/autore/amedeo-rossi/ geopolitica etc Sat, 30 Jan 2021 22:54:23 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 King Bibi in declino: un complesso effetto domino https://ogzero.org/la-crisi-politica-king-bibi-in-declino-un-complesso-effetto-domino/ Sat, 02 Jan 2021 14:47:34 +0000 http://ogzero.org/?p=2171 Israele si avvia alle quarte elezioni politiche in meno di 2 anni. La data prevista è il 23 marzo. La crisi della coalizione di governo era prevedibile fin dal suo nascere. I due principali partiti di governo, il Likud di Benjamin “Bibi” Netanyahu e Kahol Lavan (Blu e Bianco), l’alleanza di vari partiti guidata dall’ex […]

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Israele si avvia alle quarte elezioni politiche in meno di 2 anni. La data prevista è il 23 marzo.

La crisi della coalizione di governo era prevedibile fin dal suo nascere. I due principali partiti di governo, il Likud di Benjamin “Bibi” Netanyahu e Kahol Lavan (Blu e Bianco), l’alleanza di vari partiti guidata dall’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, otto mesi fa avevano dato vita a un’alleanza su basi molto fragili. Dopo tre elezioni in un anno che non avevano permesso di costituire un governo perché né Bibi né Benny era riuscito a prevalere sull’altro, era stata la lotta contro l’epidemia di Covid-19 a fornire il pretesto per uscire dall’impasse e formare un governo contro natura. Infatti in campagna elettorale Gantz si era impegnato a non allearsi per nessuna ragione con Netanyahu ed aveva raccolto i voti di quanti si riconoscevano nello slogan “chiunque meno Bibi”.

Un’ancora di salvezza per Netanyahu

La manovra aveva fatto uscire il paese dall’inutile serie di elezioni, che avevano comunque mantenuto al potere Netanyahu con un governo di transizione. Per il primo ministro in carica si trattava anche di un problema personale. Dovendo affrontare una serie di processi per corruzione, frode e abuso di potere, da semplice parlamentare si sarebbe trovato in una posizione di debolezza che non si poteva permettere. Inoltre, avendo il controllo sul governo, avrebbe potuto condizionare le decisioni relative alla nomina dei giudici, cosa che negli 8 mesi di coabitazione con Gantz ha effettivamente tentato di fare.

Un governo frammentato

Gantz avrebbe potuto formare un governo senza Netanyahu, ma con l’appoggio esterno della Lista Araba Unita, la terza formazione come numero di seggi in parlamento e che rappresenta la minoranza palestinese con cittadinanza israeliana. Non ha osato farlo, per timore di essere accusato di “connivenza con il nemico”.

Si è trovato però subito in una posizione di debolezza. Infatti 16 dei 33 deputati di Kahol Lavan non hanno seguito Gantz e sono passati all’opposizione. Per arrivare a 61 voti la coalizione ha dovuto includere alcuni piccoli partiti laici di centro, vari partiti religiosi e parte dei Laburisti. Il governo che ne è nato ha battuto ogni record quanto al numero di ministri e sottosegretari, ben 52 per un parlamento di 120 deputati.

Un’alternanza con le gambe corte

Naturalmente l’operazione non è stata a costo zero neppure per Netanyahu. Ha dovuto accettare di cedere a Kahol Lavan i principali ministeri: Difesa, Esteri, e, fondamentale per lui, Giustizia. Inoltre ha dovuto accettare l’alternanza nella carica di primo ministro dopo un anno e mezzo. Come detto, per lui, che è stato capo del governo ininterrottamente dal 2009, cedere il potere rischiava di metterlo in una situazione di debolezza di fronte ai giudici.

Molti in Israele avevano previsto che Bibi non avrebbe mai rispettato questa parte dell’accordo, e così è stato. Formalmente il governo di coalizione è caduto per il disaccordo tra Likud e Kahol Lavan sulla legge di bilancio, ma pochi dubitano che la vera ragione sia stata la decisione di Netanyahu di andare a elezioni in un momento che ha ritenuto favorevole.

Vittime del virus

Un’ulteriore debolezza del governo era legata proprio alla sua principale ragione di esistere: la lotta contro l’epidemia da Covid-19. Si diceva che fosse urgente avere un governo di unità nazionale per combatterlo efficacemente. Otto mesi dopo il bilancio è quanto meno deludente: il governo ha dovuto decretare il terzo blocco totale a partire da domenica 27 dicembre.

La protesta antigovernativa a Tel Aviv per la gestione della pandemia

La gestione è stata confusa e conflittuale a livello politico, con decisioni prese e smentite nel giro di qualche giorno. In un territorio grande più o meno come Piemonte e Val d’Aosta (includendo Israele, Cisgiordania e Gaza) ma con una densità di popolazione molto maggiore, i contatti tra israeliani, compresi i coloni nei territori occupati, e palestinesi sono inevitabili. E, mentre Israele ha un ottimo sistema sanitario, lo stesso non si può dire dell’Autorità Nazionale Palestinese, a causa della scarsità di mezzi per via dell’occupazione. Soprattutto, le aperture affrettate dopo i lockdown hanno portato a un rapido aumento dei casi.

I leader di governo hanno fatto a gara per attribuirsi il merito dei successi e a scaricare sui rivali le colpe dei fallimenti nella lotta all’epidemia, aumentando l’impressione di incompetenza e confusione.

Un dilettante allo sbaraglio

La principale vittima della caduta del governo è sicuramente Benny Gantz. Avendo tradito un vasto consenso esclusivamente grazie all’impegno a non allearsi mai con Netanyahu, non c’è da stupirsi se i primi sondaggi danno al suo partito solo 5 seggi sui 33 delle elezioni di marzo. Oltre al tradimento, sconta la scarsa affidabilità dimostrata da lui e dai suoi ministri, e non solo riguardo alla gestione della pandemia. Nella storia di Israele sono stati molti i generali al potere, ma nessuno ha dimostrato una simile sprovvedutezza.

e una vecchia volpe che perde il pelo

Ma anche Netanyahu è in difficoltà. Per liberarsi di Gantz ha scatenato effetti a catena che rischiano di sconvolgere il quadro politico che finora gli ha consentito di rimanere al potere. È indebolito dai guai giudiziari, dal fallimento del governo di coalizione e dalle continue manifestazioni contro di lui, violentemente represse dalla polizia. Da 26 settimane migliaia di israeliani, quasi esclusivamente ebrei, manifestano in tutto il paese. Si tratta di un movimento agguerrito quanto eterogeneo. Vi partecipano militanti di sinistra, persone che hanno perso il lavoro a causa del Covid, i delusi da Kahol Lavan, cittadini disgustati dalla corruzione e dall’attaccamento al potere di “King Bibi”. Oltre alla repressione della polizia, contro i dimostranti ci sono state anche aggressioni da parte di sostenitori di Netanyahu, dando l’impressione che il paese si trovi sull’orlo di una guerra civile.

Una grave perdita

Persino i successi di Netanyahu in politica estera gli si stanno ritorcendo contro. La normalizzazione dei rapporti con Israele sta coinvolgendo sempre più paesi arabi (con cui peraltro Israele aveva già solidi rapporti segreti), sconvolgendo le alleanze ed evidenziando la marginalità della causa palestinese. Per EAU e Bahrein si tratta soprattutto di creare un fronte contro il comune nemico, l’Iran; per altri, come il Sudan e il Marocco, del risultato dei ricatti e delle lusinghe di Trump. L’avvicinamento degli EAU ha comportato anche un accordo sulla Spianata delle Moschee che altera lo status quo e tende ad escludere l’influenza della Turchia e della Giordania sulla gestione dei luoghi santi musulmani.

Murales, West Bank di Betlemme: l’appoggio americano (non del tutto perso con il cambio della guardia) al governo israeliano

Ma proprio ora emerge il punto debole di Netanyahu in politica estera. Egli ha privilegiato i rapporti con il presidente Usa più filoisraeliano di sempre. Questa posizione ha coinciso con il grande favore che Trump riscuoteva nell’opinione pubblica israeliana, ma ignorava i timori della comunità ebraica Usa, tradizionalmente democratica e preoccupata della vicinanza ai suprematisti e dei discorsi antisemiti dell’ex presidente.

Netanyahu si trova senza il cavallo su cui aveva puntato, con la crescente ostilità dell’opinione pubblica statunitense nei confronti delle politiche israeliane e con un nuovo presidente almeno sulla carta meno acquiescente. È improbabile che altri, in particolare l’Arabia Saudita, si uniscano alla corsa per normalizzare i rapporti con Israele, tanto più che la possibile distensione tra l’Iran e l’amministrazione Biden potrebbero ridefinire il contesto regionale.

Convegno dell’Aipac: lobby americana in sostegno allo Stato di Israele

Ricomposizione della Destra

Come squali attirati dal sangue, i molti nemici di Bibi si stanno lanciando all’attacco di un leader che ritengono ormai in declino. L’8 dicembre Sa’ar, suo avversario interno, ha lasciato il Likud e ha fondato un nuovo partito, Tikva Hadasha (Nuova Speranza), a cui hanno subito aderito altri deputati del partito. La più clamorosa è quella di Zeev Elkin, che faceva parte del cerchio magico di Netanyahu. Come spesso capita agli apostati, essi stanno sparando a zero contro il loro ex leader, accusandolo delle stesse colpe dalle quali finora lo avevano difeso.

Tikva Hadasha non rappresenta un’alternativa politica al Likud. Appoggia la colonizzazione nei territori occupati, è contrario alla Soluzione a due stati e intende proporre una legge per imporre un maggiore controllo dell’esecutivo sul potere giudiziario. Rappresenta la stessa politica del Likud ma senza Bibi. Si porta in dote una parte dell’elettorato del Likud, stanco di Netanyahu, ma attira anche voti dell’estrema destra dei coloni. Il partito che li rappresenta, Yamina (La Destra), era dato in forte crescita. Il suo leader, Naftali Bennett, laureato in legge e finanziere, ha pubblicato un fortunato saggio su come combattere il virus. Forte di questa popolarità e della fama di politico onesto e competente, si è candidato a primo ministro contro Netanyahu, di cui prima dell’accordo di quest’ultimo con Gantz era alleato di governo. La comparsa di Sa’ar, che ottiene anche il gradimento di ex elettori delusi da Gantz e di quanti nel Centrosinistra lo ritengono l’unica alternativa plausibile all’odiato Netanyahu, potrebbe tarpagli le ali.

Centrosinistra residuale…

Il cosiddetto Centrosinistra rischia di subire l’ennesima sconfitta. Già Kahol Lavan era stato definito il partito dei generali. Come se non fosse servita la disastrosa esperienza di Gantz, ora pensa di candidare un altro ex capo di stato maggiore, Gadi Eisenkot. Durante la Seconda guerra del Libano fu l’ideatore della cosiddetta Dottrina Dahiya, dal nome di un quartiere sciita di Beirut. Essa prevede «una risposta sproporzionata ed enormi danni e distruzioni contro ogni zona abitata da cui vengano attaccate le forze israeliane». Non a caso Richard Falk, docente di diritto internazionale a Princeton e rapporteur dell’Onu, l’ha definita una forma di terrorismo di stato. Insomma, dopo Gantz, che durante la campagna elettorale si era vantato di aver fatto tornare parti di Gaza «all’età della pietra» durante l’operazione “Margine protettivo” del 2014, il Centrosinistra israeliano intende rincorrere la Destra sul suo stesso terreno.

Ma com’è noto, in genere gli elettori preferiscono gli originali alle copie.

…Sinistra sionista e coalizione dei partiti arabi in crisi

Quanto al Meretz, il partito storico della Sinistra sionista, ha ufficialmente accolto un nuovo candidato alla leadership: Yair Golan, un ex generale, che ha sostenuto di voler fare il possibile per silenziare quanti lo vogliono far diventare un partito arabo-israeliano. A suo favore può vantare il fatto di aver paragonato nel 2016, durante una manifestazione pubblica e in veste di vicecapo di stato maggiore, la situazione politica di Israele a quella della Germania dei primi anni Trenta.

Si prevede anche che la “Lista Araba Unita”, data la sua impossibilità di incidere sul quadro politico, perderà voti tra i molti elettori palestinesi con cittadinanza israeliana ormai disillusi. Oltretutto è indebolita da dissidi interni: recentemente la sua componente islamista ha addirittura avviato colloqui con Netanyahu per cercare di risolvere il problema della criminalità all’interno della comunità araba. Quindi probabilmente i vari partiti che la compongono si presenteranno separati.

Primarie della Destra

La tradizionale frammentazione del quadro politico israeliano è ulteriormente accentuata da uno schema che ancora una volta ruota attorno a Netanyahu. Ma una cosa è certa. Non sarà sulla soluzione del conflitto e sulle prospettive di pace con i palestinesi che verterà la campagna elettorale. Si prevede che i partiti di destra, di estrema destra e religiosi otterranno più di 80 seggi su 120. Il giornalista israeliano Gideon Levy ha scritto: «Il 23 marzo si terranno le grandi primarie della Destra, un evento che per qualche strana ragione viene ancora chiamato elezioni politiche per la Knesset».

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Ultimi colpi di coda di un baro e dei suoi complici? https://ogzero.org/devastante-viaggio-diplomatico-in-medio-oriente-di-pompeo/ Sat, 21 Nov 2020 09:39:55 +0000 http://ogzero.org/?p=1800 Ormai sembra inevitabile che il riottoso Trump sia costretto a breve a traslocare dalla Casa Bianca, salvo colpi di scena al momento imprevedibili. Ma l’assurdo sistema statunitense riguardo al cambio di amministrazione federale consente a lui e ai suoi complici di imbastire nei mesi di interregno trame e perseguire progetti di politica estera che non […]

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Ormai sembra inevitabile che il riottoso Trump sia costretto a breve a traslocare dalla Casa Bianca, salvo colpi di scena al momento imprevedibili.

Ma l’assurdo sistema statunitense riguardo al cambio di amministrazione federale consente a lui e ai suoi complici di imbastire nei mesi di interregno trame e perseguire progetti di politica estera che non si possono certo definire nel quadro della “amministrazione ordinaria”, come sarebbe previsto dalle regole di correttezza e dalla legalità istituzionale. Lo dimostra anche lo scenario disegnato in questi giorni dal viaggio in Medio Oriente del segretario di stato Mike Pompeo.

Rottura della tradizione diplomatica Usa

Lo scenario regionale, in particolare il conflitto israelo-palestinese, è stato il contesto in cui più attiva e dirompente è stata la politica estera dell’amministrazione Trump. Interrompendo una tradizione consolidata di equidistanza, formale quanto fittizia, dei governi statunitensi tra le parti in conflitto, il presidente Usa e i suoi consiglieri si sono apertamente schierati a favore delle pretese israeliane: riconoscimento dell’annessione delle alture del Golan, spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, affermazione del diritto di esercitare la sovranità israeliana su gran parte dei territori palestinesi occupati, attacco esplicito al diritto al ritorno dei profughi palestinesi, imposizione di un piano di pace (il cosiddetto “accordo del secolo”) che recepisce quasi tutte le richieste di Israele, senza peraltro preoccuparsi neppure di consultare l’altra parte in conflitto. Non che gli Usa siano mai stati mediatori imparziali e abbiano imposto a Israele il rispetto degli accordi firmati. Persino Obama, il presidente che è stato considerato il più ostile e a cui il governo israeliano ha fatto sgarbi diplomatici e una sorda guerra di posizione, alla fine del suo mandato ha firmato la concessione di aiuti militari più generosa da sempre. Ma nessuno era mai intervenuto in un contesto così delicato ignorando leggi internazionali, risoluzioni Onu, cautela diplomatica. Non a caso Trump si è circondato di personaggi direttamente implicati nel progetto di colonizzazione israeliana della Cisgiordania, e costoro si sono comportati di conseguenza.

Pompeo: l’uomo del secondo mandato a Trump

Almeno in Medio Oriente, gli uomini di Trump si comportano come se quest’ultimo avesse vinto le elezioni. Dopo aver affermato che «ci sarà una facile transizione verso un secondo mandato di Trump», il segretario di Stato ha intrapreso un devastante viaggio “diplomatico” in Medio Oriente. Benché l’obiettivo più ambizioso di questa iniziativa riguardi un possibile attacco contro l’Iran (che pare Trump intendesse intraprendere qualche giorno fa), arrivato in Israele Pompeo ha espresso le sue convinzioni riguardo ai presunti diritti israeliani e ha inanellato una serie di esternazioni, visite di grande significato simbolico e iniziative molto concrete. Non è sembrato il viaggio di commiato di un segretario di stato che stesse per lasciare il proprio incarico, quanto motivato piuttosto dalla volontà di rilanciare su varie questioni cruciali. Di per sé le affermazioni di Pompeo, così come il disprezzo delle leggi e della diplomazia internazionale, non hanno fatto altro che confermare quanto già si sapeva. È noto che Pompeo, come il vicepresidente Mike Pence e una parte consistente dell’elettorato di Trump, aderisce a una congregazione cristiano-sionista. Ma è stato l’atteggiamento protervo e al contempo proattivo a lasciare sconcertati molti osservatori.

Lotta al BDS, legittimazione delle colonie, divisione dei territori

Le prime hanno riguardato critiche alla legge dell’UE che prevede l’etichettatura che specifichi la provenienza di prodotti importati dalle colonie israeliane, non identificabili come israeliani. Invece secondo Pompeo le esportazioni, sia dei palestinesi che dei coloni che vi vivono, provenienti dall’Area C (secondo gli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo da parte di Israele) devono essere considerate israeliane. Ovviamente non si tratta solo di una questione commerciale, quanto soprattutto del riconoscimento formale della situazione di fatto e dell’illegittima occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele. In più, con un’iniziativa tragicamente grottesca, ha anche annunciato l’intenzione di etichettare in modo differenziato i prodotti palestinesi provenienti dalla Cisgiordania rispetto a quelli di Gaza. In questo caso si tratta invece della sanzione ufficiale di un altro obiettivo della politica israeliana: la separazione tra i due territori palestinesi come mezzo per favorire l’annessione della West Bank e modificarne il rapporto demografico a favore dei palestinesi. Per esempio, Israele favorisce gli spostamenti dalla Cisgiordania verso Gaza, rendendo invece particolarmente difficile il flusso in senso opposto.

Inoltre Pompeo ha definito “antisemita” e “un cancro” il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), che lotta in modo nonviolento in difesa dei diritti dei palestinesi e del rispetto delle leggi internazionali. Ha anche promesso iniziative del governo Usa per combattere il movimento, suscitando le proteste di ong come Amnesty International e Human Rights Watch, che pure non aderiscono alla campagna ma difendono il diritto di opinione degli attivisti BDS. Poi, primo segretario di stato a farlo, si è recato sulle alture del Golan, ribadendo che si tratta di un territorio israeliano, e ha visitato l’impresa vitivinicola israeliana di Psâgot, che sorge su terreni di proprietari privati palestinesi e raccoglie le uve provenienti da altre zone palestinesi occupate ed espropriate. Lì è stato omaggiato di un vino che porta il suo cognome. In realtà il proprietario dell’azienda visitata da Pompeo non solo non avrebbe di che lamentarsi dell’obbligo di specificare la provenienza del suo vino dai territori occupati, in quanto ha dichiarato anzi che ciò gli ha permesso di aumentare le vendite. Comunque, per chi avesse qualche dubbio, Pompeo ha definito la sua visita «il semplice riconoscimento [della colonia] come parte di Israele», aggiungendo che «oggi il Dipartimento di stato degli Stati Uniti è decisamente favorevole al riconoscimento del fatto che le colonie si possono costruire in modo legale, giusto e corretto».

Insediamenti ebraici

Pompeo ha visitato da segretario di stato la colonia illegale di Psagot

Reazione disperata alla sconfitta o un passo verso il futuro?

I commentatori politici si chiedono quali possano essere le ragioni di questa iniziativa di un’amministrazione (non certo solo di Pompeo) ormai destinata a sloggiare. Oltre alle convinzioni religiose del segretario di stato, la spiegazione più banale, anche se probabilmente non del tutto ininfluente, è quella sostenuta da Douglas Macgregor, colonnello e consulente del Pentagono: «Dovete andare a vedere le persone che fanno donazioni a questi individui. [Pompeo] chiede soldi alla lobby israeliana, ai sauditi e ad altri», ha affermato in un’intervista rilasciata alla CNN. Naturalmente lo stesso discorso vale a maggior ragione per Trump, il cui principale finanziatore è stato il miliardario Sheldon Adelson, che è anche un sostenitore delle colonie e di Netanyahu.

Una pesante eredità

C’è anche una ragione più strettamente politica che può spiegare il comportamento del segretario di Stato: la sua ambizione di presentarsi come candidato repubblicano alle elezioni del 2024. La sua (ultima?) mossa potrebbe permettergli di conquistare i favori dell’elettorato filoisraeliano di Trump, a cominciare dall’Aipac, la più potente associazione della lobby filoisraeliana negli Usa.

Infine, queste iniziative lasciano un’eredità piuttosto pesante da gestire all’amministrazione entrante. Non sarà facile per Biden rinnegare quanto fatto da Trump e dai suoi consiglieri a favore di Israele, tanto più che sia lui che Kamala Harris, la vicepresidente entrante, durante la loro vita politica e la campagna elettorale hanno più volte manifestato la propria vicinanza allo Stato di Israele. Biden vanta anche un’amicizia personale con Netanyahu. Come ha scritto un commentatore del sito ebraico di notizie “Mondoweiss”: «Per poter annullare queste iniziative dell’ultimo momento, intese a legittimare ulteriormente l’annessione e delegittimare l’opposizione all’apartheid israeliana contro i palestinesi, Biden dovrà pagare costi politici molto pesanti per poterli annullare».

Come afferma Barak Obama in un brano nelle sue memorie citato dal sito “JewishInsider”: «I parlamentari e i candidati che hanno criticato la politica di Israele in modo troppo deciso hanno rischiato di essere etichettati come “anti-israeliani” (e magari anche antisemiti) e nelle elezioni successive hanno dovuto fare i conti con avversari molto ben finanziati».

Non è detto che Biden sia disposto a correre il rischio e a smantellare il quadro idilliaco dei rapporti tra Usa e Israele dipinto in questi 4 anni dall’amministrazione Trump.

 

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Trump o Biden? Per i palestinesi pari sono https://ogzero.org/trump-o-biden-per-i-palestinesi-pari-sono/ Fri, 06 Nov 2020 18:21:05 +0000 http://ogzero.org/?p=1674 Mentre il mondo è in trepida attesa che il bizzarro sistema elettorale statunitense consenta di sapere chi sarà l’uomo più potente del pianeta nei prossimi quattro anni, c’è chi sa già di non potersi aspettare niente di buono, comunque vada: i palestinesi. Non che non ci siano novità rilevanti. Per esempio, queste elezioni segnano il […]

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Mentre il mondo è in trepida attesa che il bizzarro sistema elettorale statunitense consenta di sapere chi sarà l’uomo più potente del pianeta nei prossimi quattro anni, c’è chi sa già di non potersi aspettare niente di buono, comunque vada: i palestinesi.

Non che non ci siano novità rilevanti. Per esempio, queste elezioni segnano il divorzio forse definitivo tra gli ebrei israeliani e quelli americani. Mentre nei sondaggi più del 63 per cento dei primi si augura la vittoria di Trump, Biden ha ottenuto l’appoggio di oltre il 70 per cento dei secondi. Solo tra gli ebrei ortodossi (circa il 10 per cento della comunità ebraica nordamericana) c’è una netta maggioranza a favore di Trump. Questa differenza di posizioni si era già manifestata in precedenza, per esempio nel caso di Obama, esecrato in Israele ed entusiasticamente votato dagli ebrei statunitensi. Tuttavia questa volta la polarizzazione esasperata indotta da Trump e le politiche sempre più razziste e annessioniste di Netanyahu sostenute dal presidente suprematista sembrano aver scavato un solco difficile da rimarginare, come sostiene Sylvain Cypel nel suo L’État d’Israël contre les juifs (Paris, La Découverte, 2020, pp. 237-262).

Trump: antisemita e filoisraeliano

È vero che l’elettorato ebraico è sempre stato più propenso a votare democratico, ma in questo caso evidentemente chi vive negli Stati Uniti è particolarmente preoccupato per le cattive frequentazioni, il razzismo più o meno esplicito e le tendenze autocratiche dell’inquilino della Casa Bianca. Durante incontri con organizzazioni ebraiche l’attuale presidente ha più volte accusato gli ebrei americani di essere sleali nei suoi confronti, dato tutto quello che ha fatto per Israele, e affermato che Israele «è il vostro paese» e che «Netanyahu è il vostro primo ministro». Si tratta di affermazioni che molti considerano antisemite. Infatti implicano che in realtà gli ebrei non sono a tutti gli effetti cittadini statunitensi, che il loro posto, il loro paese, è altrove. Ed è nota la vicinanza di Trump a gruppi suprematisti bianchi, il cui antisemitismo si è manifestato anche in episodi sanguinosi, come nel caso dell’attacco terroristico dell’ottobre 2018 contro una sinagoga conservatrice (che, a dispetto del nome, è una corrente religiosa ebraica non dogmatica) a Pittsburgh, costato la vita a 11 persone. La partecipazione di Trump alle esequie venne accompagnata da manifestazioni ostili, anche da parte della comunità ebraica locale, con slogan come le parole hanno un significato e costruiamo ponti e non muri, in riferimento all’ambiguità del presidente rispetto alle violenze dell’estrema destra e alle sue politiche contro l’immigrazione.

Trump ha fatto di tutto per ingraziarsi Israele e i suoi sostenitori. Da subito si è circondato di finanziatori di colonie, come il genero e consigliere per il Medio Oriente Jared Kushner e l’ambasciatore in Israele David Friedman, in precedenza suo avvocato. Ha nominato Mike Pompeo, un cristiano-sionista, segretario di stato. Uno dei suoi principali finanziatori è il miliardario Sheldon Adelson, altro benefattore delle colonie. Non si può dire che Trump abbia deluso la destra israeliana.

Accolti e ispirati tutti i più reconditi sogni sionisti

Nei quattro anni al potere, ignorando totalmente il diritto internazionale e l’Onu, ha riconosciuto la sovranità israeliana sulle Alture del Golan occupate, ha spostato l’ambasciata degli Usa a Gerusalemme, ha tagliato gli aiuti all’Autorità nazionale palestinese e all’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati infine ha affermato, come Israele, che non vanno più considerati tali. Ha proposto il cosiddetto “accordo del secolo”, che ignora praticamente ogni rivendicazione dei palestinesi. Esso prevede per loro uno stato frammentato, su modello dei bantustan sudafricani, ossia la formalizzazione dell’attuale situazione sul terreno, e quindi della colonizzazione israeliana dei territori palestinesi occupati. Ha spinto Emirati arabi uniti, Bahrein e Sudan a firmare accordi “di Abramo” per normalizzare le relazioni con Israele, rompendo il fronte solidale con i palestinesi. Negli ultimi giorni della campagna elettorale la sua amministrazione ha preso due iniziative clamorose.  Prima il segretario di Stato Mike Pompeo ha proposto di inserire nella lista delle organizzazioni antisemite alcune importanti ong per i diritti umani critiche con Israele, tra cui Amnesty International, Human Rights Watch e Oxfam. Poi l’amministrazione americana ha firmato un accordo che annulla il veto ai finanziamenti provenienti da Washington alle istituzioni scientifiche che si trovano nelle colonie, in particolare all’università di Ariel, già lautamente foraggiata da Adelson. Trattandosi di un accordo internazionale, la prossima amministrazione statunitense non potrà annullarlo unilateralmente. Oltre agli ovvi vantaggi economici, si tratta di un riconoscimento di fatto delle colonie israeliane, illegali in base al diritto internazionale.

Sette evangeliche, coloni e millenarismo cristiano-sionista

La predilezione di Trump per Israele non deriva solo dalla vicinanza con le posizioni nazionaliste e razziste che dominano ormai da anni il paese. Una parte consistente, e determinante per numero e attivismo, dell’elettorato dell’attuale presidente è rappresentato dalle sette evangeliche cristiano-sioniste. Non a caso due pastori di queste congregazioni hanno partecipato all’inaugurazione dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme. Si tratta di decine di milioni di fedeli, con posizioni molto conservatrici. Nell’ultimo numero de “L’Espresso” un articolo su di loro li descrive come tradizionalisti e antiabortisti, ma tace sulla loro allucinata visione escatologica che li porta a sostenere ciecamente Israele: il ritorno di tutto il popolo ebraico nella Terra promessagli da dio porterà alla fine del mondo e al giudizio universale. A quel punto gli ebrei che non si convertiranno alla vera fede verranno condannati alle pene dell’inferno. Il sionismo cristiano, risalente al cristianesimo apocalittico medievale, ha preceduto anche in epoca contemporanea il sionismo ebraico. Questa teologia millenarista corrisponde significativamente (tranne che per l’esito finale) con quella dei coloni israeliani più estremisti, come per esempio i nazional-religiosi di cui fa un quadro Renzo Guolo in Terra e redenzione. Il fondamentalismo nazional-religioso in Israele (Milano, Guerini e associati, 2005). Per loro la riconquista di tutta la terra dei padri (che, a seconda delle interpretazioni, può includere buona parte del Medio Oriente, e sicuramente tutta la Giordania) porterà alla comparsa del messia e alla liberazione dell’umanità. Sia per i nazional-religiosi che per i cristiano-sionisti un passo fondamentale è rappresentato dalla ricostruzione del Terzo Tempio sul luogo dove ora si trova la Spianata delle Moschee. Di questa teologia apocalittica, estremamente radicale e pericolosa, non si parla praticamente mai nelle cronache dal Medio Oriente, oppure viene considerata alla stregua di un’innocua bizzarria. Eppure vari deputati della Knesset e ministri dei governi Netanyahu fanno parte di questo movimento strettamente legato ai coloni più estremisti. Il rapporto tra le due correnti religiose è talmente stretto e il favore di cui godono i cristiano-sionisti presso il governo israeliano è tale che, nonostante il blocco determinato dalla seconda ondata del Covid-19, a una sessantina di cristiano sionisti è stato consentito di entrare in Israele per aiutare i coloni israeliani nella vendemmia.

Differenze apparenti, prassi consolidate

Ma la propensione a votare Biden da parte della comunità ebraica americana non significa di per sé un allontanamento da Israele, anche se la spudorata identificazione di Netanyahu con Trump ha alienato almeno in parte le simpatie nei confronti dell’attuale governo israeliano. Nonostante le note differenze tra i due candidati alla Casa Bianca, sulla questione del conflitto israelo-palestinese c’è un sostanziale accordo. Le differenze sono più di metodo che di merito. C’è da supporre che, se eletto, Biden sarà un presidente più felpato e non si muoverà con la delicatezza di un elefante in una cristalleria come il suo predecessore. Il candidato democratico è stato il vicepresidente di Obama, che ha più volte manifestato insofferenza, anche a livello personale, nei confronti delle intemperanze e della sfrontatezza di Netanyahu. L’accordo sul nucleare iraniano e il tentativo fallito di congelare la colonizzazione della Cisgiordania hanno messo i due politici in palese conflitto. Ma a fine mandato lo stesso Obama ha firmato un accordo per la concessione di aiuti militari a Israele: 10 miliardi di dollari in 10 anni, una cifra senza precedenti nella storia della politica estera statunitense.

Biden e Harris; un amore condizionato per Israele

La campagna per le primarie democratiche e poi per le presidenziali ha dimostrato la condiscendenza di Biden nei confronti di Israele. Su pressione della lobby israeliana, dal programma elettorale del partito democratico è stata tolta la definizione di Israele come “potenza occupante”. Inoltre il candidato democratico ha dichiarato che manterrà l’ambasciata americana a Gerusalemme occupata e appoggerà l’accordo di Abramo promosso da Trump tra Israele e alcuni paesi arabi. Pur affermando di essere a favore della soluzione a due stati (ormai di fatto impraticabile), ha dichiarato che si opporrà in tutti i modi a ogni risoluzione dell’Onu che condanni le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele. Quanto alla sostanza di quanto avviene sul terreno, se sarà eletto riprenderà l’estenuante manfrina dei “negoziati di pace”, che non sono altro che la foglia di fico diplomatica che ha finora consentito a Israele di continuare con la colonizzazione e l’occupazione. Inoltre pare che abbia un ottimo rapporto personale con Netanyahu. Infine Tony Blinken, consigliere di Biden, ha garantito l’impegno del futuro presidente per contrastare il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (Bds) contro Israele.

Per parte sua, Kamala Harris, candidata alla vice-presidenza, è ancora più filoisraeliana di Biden. Ha affermato che gli aiuti militari a Israele non saranno subordinati alle decisioni politiche del suo governo, garantendo implicitamente che non ci saranno reazioni significative nel caso in cui Israele annetta parte dei territori occupati. Harris ha partecipato a vari incontri con le organizzazioni della lobby filoisraeliana. Suo marito, l’avvocato ebreo Douglas Emhoff, durante un comizio in Florida ha affermato che per la moglie «Israele non è un gioco politico. Il suo futuro come stato ebreo e democratico sicuro non è negoziabile. Ve lo posso assicurare».

C’è infine da aggiungere che, oltre alle rispettive convinzioni personali, Biden e Harris devono adeguare la propria posizione agli interessi dei principali finanziatori della loro campagna elettorale, tra cui ci sono alcuni potenti gruppi e personaggi che appoggiano attivamente Israele.

Comunque Israele non sta perdendo tempo. La coordinatrice umanitaria dell’Onu per i territori palestinesi occupati ha denunciato che martedì scorso, proprio durante il voto Usa, forze israeliane hanno distrutto il villaggio palestinese Khirbet Humsa, lasciando senza casa 73 persone, tra cui 41 minori, nel pieno dell’autunno e con l’incombere dell’epidemia di Covid-19.

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