Alfredo Luís Somoza Archivi - OGzero https://ogzero.org/autore/alfredo-luis-somoza/ geopolitica etc Thu, 25 Aug 2022 10:25:55 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.6 Gli spartiacque delle comunità latinoamericane – 2 https://ogzero.org/gli-spartiacque-delle-comunita-latinoamericane-2/ Thu, 30 Dec 2021 17:24:55 +0000 https://ogzero.org/?p=5713 L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano. Qui Alfredo Somoza sembra accennare a un abbozzo di modello per un nuovo approccio a una politica svincolata da corruzione e commodities, autoritarismo e oligarchie, che già si trovano al centro del suo […]

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L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano. Qui Alfredo Somoza sembra accennare a un abbozzo di modello per un nuovo approccio a una politica svincolata da corruzione e commodities, autoritarismo e oligarchie, che già si trovano al centro del suo libro.Vedremo se quello che troviamo in Siamo già oltre? e accennato qui può svilupparsi in una nuova socialità o rimarrà a livello simbolico.

Sollecitato dalle considerazioni di Diego Battistessa, che ha utilizzato la chiave di lettura delle molte tornate elettorali del continente sudamericano per evocare scenari reali e possibili nel prossimo anno 2022 nel primo di questa coppia di articoli, Alfredo ha immaginato innanzitutto una dicotomia forte tra due concezioni di progressismo, forse mondi altrettanto distanti tra loro dell’abisso che li divide da una destra priva di idee e livorosa, ma che continua a rappresentare istanze neoliberiste provenienti per lo più dall’estero, ma anche collaterali ai mondi sovranisti anche legati alle sette religiose. Un mondo che la sconfitta di José Antonio Kast, ammiratore del boia Pinochet, ha collocato definitivamente nei manuali di storia; un sistema imposto dalle strategie dei gringos e un grimaldello in mano all’ultraneoliberismo, che con le svolte provenienti dai responsi del 2021 viene messo in soffitta… Alfredo Somoza si appresta a immaginare cosa potrà nascere da questo fermento che è sorto dai Movimenti popolari scesi in piazza negli ultimi anni per i diritti negati dal neoliberismo e che insieme alle istanze di emancipazione delle comunità indigene stanno mettendo sotto scacco i fantocci del Fmi.

Anche in questa seconda parte abbiamo intervallato la prosa di Alfredo con podcast raccolti durante l’anno e talvolta inseriti a punteggiare l’e-pub del suo Siamo già oltre?


Le due sinistre sudamericane

L’anno elettorale latinoamericano è stato ricco di appuntamenti molto importanti sia per il loro peso specifico sia per quello simbolico. La prima lettura riguarda la legittimità del processo elettorale. Non sempre sono state rispettate le regole, come nel clamoroso caso del Nicaragua dove il regime guidato da Daniel Ortega ha inscenato elezioni presidenziali senza opposizione. Ma anche buone notizie in questo senso, come le elezioni dell’Honduras, paese nel quale negli anni si sono succeduti colpi di stato e manipolazione dei risultati, e dove ha vinto la candidata della sinistra senza che ci siano dubbi sulla trasparenza del voto. Lo stesso si può dire del Venezuela, dove pare siano state rispettate le regole nelle elezioni amministrative che hanno visto la vittoria del partito di Nicolas Maduro. I segnali più interessanti arrivano però da tre paesi andini, Ecuador, Bolivia e Cile. In Ecuador il candidato della nuova sinistra e dei movimenti indigeni Yaku Pérez non riuscì per 30.000 voti a passare al secondo turno, nel quale l’imprenditore Guillermo Lasso riuscì a battere il candidato correista per 400.000 voti.

Di Ecuador durante l’anno avevamo parlato con Davide Matrone, docente a Quito:
Ne avevamo parlato con Davide Matrone: “Flessibili alle riforme Fmi a Quito | a Guayaquil le gang in carcere sono inflessibili”.

Chiaramente buona parte degli elettori di Pérez non votarono per Andrés Aráuz al secondo turno, anche se di “sinistra”, e questo perché ormai esistono due progetti di sinistra che spesso, come in Ecuador, si scontrano. Una sinistra ormai “tradizionale” e che ha governato a lungo, dai forti tratti populisti, poco ambientalista e lontana dalle minoranze. Sono il correismo ecuadoregno, il peronismo argentino, il post chavismo venezuelano, il Mas boliviano. L’altra nata dalla lotta dei movimenti sociali, minoranze etniche e di genere, ambientalisti, contadini. E lo schieramento di forze che ha sostenuto Pérez in Ecuador, Verònica Mendoza in Perù, che sosterrà Petro in Colombia e che ha fatto vincere Boric in Cile; le due sinistre hanno in comune molti riferimenti culturali, ma una diversa concezione della democrazia. Per i primi, Cuba è legittimata anche a reprimere per tutelare la rivoluzione, per gli altri il diritto a protestare e a opporsi è sacro; per i populisti lo stato deve essere gestore ed erogatore di assistenza senza preoccuparsi dell’economia, per gli altri deve guidare una crescita economica in senso inclusivo; per i primi le denunce di corruzione sono solo un complotto ai loro danni, per la nuova sinistra la politica deve anzitutto avere le mani pulite.

Il Sudamerica dei due progressismi sta velocemente virando di nuovo a sinistra a maggioranza e per il 2022 si prevede che altri due grandi paesi cambino guida: Colombia e Brasile. Se questo sarà confermato resteranno piccole isole di centrodestra in Uruguay, Paraguay ed Ecuador. Rispetto allo scenario precedente simile, quello degli anni 2000, le cose sono però radicalmente cambiate: si sono spenti gli slanci continentali, cioè le ipotesi di creazione di aree di libero scambio e di democrazia multilaterali; si è tornati drammaticamente a dipendere dalle commodities, che tra l’altro in questo periodo hanno subito un calo del loro prezzo internazionale; l’alleanza con la Cina ha indebolito la democrazia e rinforzato i circuiti di corruzione. Il Sudamerica in questa fase non interessa a nessuno, nemmeno agli Stati Uniti di Biden che hanno come unica priorità fermare l’immigrazione centroamericana.

Soprattutto mancano leadership. La politica sudamericana si è rimpicciolita per quanto riguarda la capacità dei nuovi leader. Nel 2022 potremo vedere sorgere forse due nuovi punti di riferimento, Gabriel Boric e Lula da Silva se sarà presidente. Il Brasile isolato da Bolsonaro non è stato solo un danno per se stesso, ma anche per tutto il processo politico sudamericano; il ritorno di Lula alla presidenza potrebbe segnare l’avvio di una nuova fase, ma prima ancora si dovrà dirimere cosa si intende per progressismo e come lo si aggiorna di fronte alle sfide del domani. Da questo punto di vista la lezione boliviana è illuminante: quando Evo Morales forzò la sua stessa costituzione per perpetuarsi al potere, disconoscendo il parere del suo popolo che aveva bocciato la proposta con un referendum, la sua caduta era già scritta. Anzi, quella mossa è stata la miccia che aspettavano i settori golpisti e della estrema destra boliviana per spazzare via dal potere l’esperienza del Mas; quello stesso Mas che con un nuovo candidato, Arce, nel rispetto del dettato costituzionale è tornato al potere a grandissima maggioranza. È questa la morale valida per tutto il continente: quella sinistra sopravvissuta agli anni Settanta, uscita dalle lotte popolari e arrivata al potere grazie alla fine della Guerra Fredda e quindi dei vincoli di schieramento dovrebbe essere paladina della democrazia e della trasparenza, seguendo l’esempio di grandi presidenti come Raul Alfonsin o Pepe Mujica. Non sempre è così, è questo resta uno dei grandi spartiacque irrisolti che comunque non impediscono di vincere e governare in assenza di una destra seria e con un progetto che non sia la tutela dei propri interessi. In America Latina la democrazia, malgrado i problemi enumerati, è solida e la gente vota ormai chi gli somiglia. Grande conquista mai scontata che nel 2022 si consoliderà.

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Il Camaleonte di Managua https://ogzero.org/il-camaleonte-di-managua-si-arricchisce-il-dossier-nicaraguense/ Sat, 07 Aug 2021 19:48:50 +0000 https://ogzero.org/?p=4465 Dopo lo sguardo su Haiti – post Moïse – e Cuba – dopo le proteste di luglio – di cui ci ha parlato Diego Battistessa, già ponendo in relazione L’Havana con Managua, riprendiamo il dossier nicaraguense con Alfredo Luis Somoza, che ci avvicina alle elezioni di novembre, fornendo un ingrandimento del ritratto di famiglia della […]

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Dopo lo sguardo su Haiti – post Moïse – e Cuba – dopo le proteste di luglio – di cui ci ha parlato Diego Battistessa, già ponendo in relazione L’Havana con Managua, riprendiamo il dossier nicaraguense con Alfredo Luis Somoza, che ci avvicina alle elezioni di novembre, fornendo un ingrandimento del ritratto di famiglia della dinastia Ortega-Murillo.

Sono più di 30 i detenuti in Nicaragua in vista delle elezioni del 7 novembre. Ortega usa la detenzione per eliminare concorrenti a rendere perpetuo il suo potere: infatti 7 di questi sono candidati alle presidenziali: Cristiana Chamorro Barrios, Félix Maradiaga, Arturo Cruz, Juan Sebastián Chamorro, Medardo Mairena, Miguel Mora e Noel Vidaurre. Gli altri sono leader dell’opposizione, come la Comandante 2 (Dora Marìa Téllez, protagonista della Rivoluzione) e del Movimento Campesino, tutti “traditori della patria” in base alla Ley de Defensa de los Derechos del Pueblo a la Independencia, la Soberanía y Autodeterminación para la Paz… ma il vero tradimento degli ideali che, cacciando Somoza, rinverdirono le speranze rivoluzionarie di Tierra y libertad è quello perpetrato dal Danielismo ai danni del Sandinismo.


Perpetuarsi alleandosi col peggior Spirito del Tempo

La storia politica di Daniel Ortega è unica nel suo genere. Dopo avere guidato l’unica rivoluzione vincente che ha mantenuto in vita il pluripartitismo, convocato elezioni, perso e consegnato il potere ai vincitori, ha iniziato una seconda vita politica che lo vede ancora al potere nel piccolo Nicaragua. E questo perché il camaleontico Ortega ha saputo adoperare una retorica e una pratica politica sempre adeguata ai tempi, oltre a essere diventato maestro della manipolazione, dell’uso politico della corruzione e della repressione.

Quando Maggie Thatcher proibì la parola e Sandinista fu titolo per i Clash

Negli anni Sessanta, dopo essere passato dal Collegio dei Gesuiti, Daniel diventa guerrigliero e sale man mano nella gerarchia del Fronte Sandinista fino a diventare Presidente della Giunta rivoluzionaria che si insedia al potere, davanti al Vescovo di Managua, nel 1979. Un governo di unità nazionale antidittatura con appartenenti a tradizioni diverse, dai cattolici ai marxisti, passando anche dalle grandi famiglie illuminate come i Chamorro. Il governo sandinista, confermato dalle urne nel 1984 dovrà fare fronte a un’aggressione militare ed economica con pochi precedenti. Gli Stati Uniti finanziano e armano clandestinamente la cosiddetta “contra”, che inizia una guerra armata contro il governo, e sabotano l’economia del paese fino a minarne i porti, azioni per le quali gli Usa vengono condannati dal Tribunale dell’Aia nel 1986.  Malgrado la situazione, e a dimostrazione di quanto la rivoluzione sandinista fosse principalmente un movimento radicale contro la dittatura ma restasse nel campo democratico, nel 1990 si torna al voto e vince la coalizione antisandinista messa insieme da Violeta Chamorro, già membro della prima giunta rivoluzionaria e proprietaria del più importante quotidiano del paese, “La Prensa”.

Masnada di mercenari Contras, reclutati dagli Usa per contrastare la rivoluzione sandinista

Tierra y… piñata

Il risultato viene riconosciuto e il potere consegnato, ma nella fase di transizione già si può notare la trasformazione in corso nell’entourage di Ortega con la cosiddetta” piñata”, cioè la spartizione di terre e aziende tra alcuni capi della rivoluzione in base a due leggi approvate ad hoc. Erano beni confiscati soprattutto, ma non solo, alla dinastia dei Somoza rovesciata dai sandinisti e poi nazionalizzate. Ortega stesso diventa proprietario terriero lungo il fiume San Juàn al confine con il Costa Rica. Si calcola che il valore di quanto accaparrato dai dirigenti sandinisti sconfitti fosse di 1,3 miliardi di dollari. E non stavano rubando ai ricchi latifondisti, stavano rubando allo stato nicaraguense. Con la piñata [la Pentolaccia] si chiude la stagione del sandinismo storico che si divide in due tronconi, i dirigenti ed ex guerriglieri che tentano di mantenere in vita gli ideali di Sandino e il “danielismo”, cioè il gruppo di potere che si forma attorno a Ortega e che lo accompagnerà nelle piroette degli anni successivi. Centrale in questa costruzione sua moglie, Rosaria Murillo, che difese Ortega dall’accusa di violenza sessuale ai danni di sua figlia (di un precedente matrimonio) Zoila América. Ortega non fu mai processato per questo reato grazie all’immunità parlamentare.

La dinastia: infrastrutture e petrolio
Nicaragua Canal

Lotta contro il canale pianificato da Ortega e voluto dai cinesi per rivaleggiare con quello di Panama

Dopo il ritorno alla fede, la nomina a deputato a vita per sfuggire al processo per stupro e una virata politica pro mercato, nel 2006 Ortega torna al potere vincendo regolari elezioni, ma solo con il 38% dei consensi. Il camaleonte Ortega aveva però cambiato ancora pelle, il ritorno al potere era stato agevolato dal Patto celebrato con il suo arcinemico ai tempi della Rivoluzione, l’imprenditore José Arnoldo Alemán Lacayo, con il quale condivise le riforme che da un lato avrebbero permesso ad Alemàn di tentare di scampare alla giustizia per corruzione, ma dall’altro abbassavano la soglia percentuale per vincere le elezioni al 35%. Un calcolo quasi matematico rispetto al risultato delle presidenziali. Nel 2011 vince ancora le elezioni con un sospetto 62% dei voti e vengono bloccati ai seggi molti osservatori nazionali e internazionali che non possono verificare la trasparenza del voto. Il suo governo pianifica la costruzione di un Canale che rivaleggi con quello di Panama, costruito dai cinesi, e alla testa del consorzio viene nominato suo figlio Laureano. Al figlio maggiore Rafael viene invece affidata la direzione dell’ente nazionale degli idrocarburi. Altri fratelli e sorelle controllano canali di televisione e giornali. Ormai gli Ortega sono una dinastia familiare al potere, come i Somoza che avevano rovesciato nel 1979.

 

La cleptocrazia a trazione famigliare ammantata di falso bolivarismo

Hugo Daniel Fidel… todas la iglesias están con el

Il Nicaragua di Ortega ha bisogno di ossigeno e alleanze e fa diplomazia a tutto campo, inserendosi nel gruppo dei paesi dell’Alba, la alleanza bolivariana promossa da Hugo Chávez insieme a Cuba, Bolivia e Venezuela. Scelta che lo porta anche a stringere rapporti con Russia, Cina, Siria, Iran. Il camaleonte di Managua si vende internazionalmente come un progressista e antimperialista di ferro, ma in realtà è a capo di una cleptocrazia a gestione familiare che sopravvive grazie alle alleanze spericolate sottobanco con i peggiori settori del mondo dell’industria e della finanza nazionale. Senza dimenticare i forti sospetti di rapporti con il potente mondo del narcotraffico che però non sono mai stati dimostrati con certezza.  Nel 2016 vince ancora le elezioni, questa volta con il 72%, in un crescendo ininterrotto di consensi.  La vicepresidente ora è Rosaria Murillo, sua moglie, e durante la campagna elettorale era avvenuta un altro mutazione del camaleonte, diventato icona new age con slogan tipo “l’allegria di vivere in pace” o ”amore per Nicaragua”. Si registra anche l’avvicinamento del cattolico Ortega al mondo delle chiese evangeliche, ormai pedine imprescindibili per vincere in Centro America. Il paese soffre e resta ancorato agli ultimi posti del continente per povertà, circa il 40% dei nicaraguensi si trovano sotto la soglia considerata minima per vivere dagli organismi internazionali.

Libertad y muerte
Consciencia despierte

Il 19, 20 e 21 aprile 2018 la capitale Managua e altre città del paese, come León, divennero teatro di una repressione senza precedenti. La polizia in tenuta antisommossa, coadiuvata da paramilitari, sparò ad altezza uomo, per uccidere: il quindicenne Álvaro Manuel Conrado Dávila (Alvarito) morì colpito alla gola da un proiettile. (Diego Battistessa)

Nel 2015 e poi nel 2018 si registrano grandi manifestazioni contro il clan Ortega. Il motivo è una riforma previdenziale sancita senza sentire le parti che viene fortemente contestata dai lavoratori con il sostegno degli studenti universitari. La repressione diventerà brutale, addirittura vengono violate le chiese dove si rifugiano i manifestanti. La Commissione Interamericana dei Diritti Umani certifica che i morti per la repressione sono stati 328, centinaia i detenuti e i licenziati dal pubblico impiego, 88.000 gli esuli fuggiti all’estero.

Il governo Ortega diventa definitivamente regime quando rifiuta l’arrivo nel paese di una missione con il compito di verificare i fatti. Viene istaurato uno stato di polizia e cominciano a essere perseguitati i giornalisti, ma soprattutto si moltiplicano le leggi che dovrebbero preparare il terreno per l’ennesima rielezione di Ortega del prossimo 7 novembre. Come quella che inibisce le candidature delle persone che si siano manifestate a favore delle sanzioni applicate dagli Usa ai congiunti del presidente, oppure quell’altra che considera le persone che abbiano ricevuto finanziamenti dall’estero per le loro attività politiche o culturali alla pari di agenti stranieri. Ciliegina sulla torta: la legge sui cyber-reati colpisce la libertà di espressione. Questo combinato disposto di repressione e legislazione da regime ha portato nelle ultime settimane all’arresto e all’inibizione a candidarsi dei principali leader dell’opposizione, sia di destra che di sinistra, includendo alcuni personaggi storici della rivoluzione sandinista come la “Comandante 2”, Dora Marìa Téllez. Il Nicaragua si avvicina quindi nel modo peggiore alle elezioni del 7 novembre, alle quali non saranno ammessi candidati fastidiosi, non saranno controllate da nessuno e si svolgeranno in un paese senza più libertà di stampa e nel quale non si è mai riusciti a conoscere la situazione determinata dalla pandemia. Il Nicaragua, dopo 42 anni dalla fine del somozismo, è tornato a essere un paese governato da un regime corrotto e repressivo gestito da un clan familiare. Lo stesso scenario che portò a ribellarsi sia Augusto César Sandino nel 1926 sia i sandinisti nel 1979. La storia politica del camaleonte Ortega è unica in America Latina proprio per questo dato, da comandante di una rivoluzione contro l’ingiustizia e il totalitarismo a ricco e corrotto gestore di un regime che ha portato indietro nel tempo il Nicaragua, fino alla prossima ribellione.

“Danielismo: Dinastia y Libertad”.

En época de revolución, nada tiene más fuerza que la caída de los símbolos
(«In times of revolution nothing is more powerful than the fall of symbols», Eric J. Hobsbawm, The Age of Revolution, 1789-1848)

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Global tax: come difendersi dalla Filibusta fiscale? https://ogzero.org/una-tassa-mondiale-per-gestire-la-globalizzazione/ Fri, 11 Jun 2021 11:19:01 +0000 https://ogzero.org/?p=3802 La proposta di introduzione di una tassa mondiale che sia gestita multilateralmente è uno dei tanti temi – insieme alla redistribuzione e all’impatto sociale della globalizzazione, all’ambiente e ai diritti dell’Uomo – trattati nell’osservatorio curato negli ultimi vent’anni da Alfredo Somoza, dal quale partiamo per sviluppare un nuovo progetto editoriale pubblicato nei primi giorni di […]

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La proposta di introduzione di una tassa mondiale che sia gestita multilateralmente è uno dei tanti temi – insieme alla redistribuzione e all’impatto sociale della globalizzazione, all’ambiente e ai diritti dell’Uomo – trattati nell’osservatorio curato negli ultimi vent’anni da Alfredo Somoza, dal quale partiamo per sviluppare un nuovo progetto editoriale pubblicato nei primi giorni di dicembre del 2021: “Siamo già oltre? La globalizzazione tra fake e smart”. I testi sono accompagnati nella versione digitale da una sezione audio con podcast di approfondimento dedicati, come questo che riassume degnamente il metodo espositivo adottato da Alfredo Somoza che mette insieme dialetticamente la catena di eventi che costituiscono la sua analisi geopolitica.


“La nuova mappa del tesoro sotto il permafrost”.


Governare la globalizzazione

Evento epocale o solo un primo passo? I giudizi sulla proposta di introdurre una global tax sui profitti aziendali che i ministri dell’Economia del G7 hanno presentato al G20 e all’Ocse sono diversi. Andando per ordine, da un lato è vero che si introduce il concetto di “tassa mondiale” prendendo atto, in grande ritardo, che la globalizzazione non può essere governata da un singolo stato ma deve essere gestita in modo multilaterale. E questo dato è senza dubbio epocale.

Pro e contro

Dall’altro lato, i critici mettono in discussione l’aliquota al 15% della tassazione, considerata un compromesso al ribasso rispetto al 21% proposto da Joe Biden. In effetti, il 15% si avvicina molto al 12,5% applicato dall’Irlanda, che è uno dei paesi con la tassazione corporate più bassa.

 

a proposito di “paradisi fiscali”, Alfredo già nell’aprile 2016 aveva trattato l’argomento nella sua rubrica interna al magazine “Esteri” di Radio Popolare:

“I forzieri della filibusta fiscale”.

 

Inoltre c’è da considerare che poi bisognerà trovare una formula che permetta di varare in contemporanea la stessa legge almeno nei 38 paesi dell’Ocse. Soprattutto, rimane aperta una questione tecnica di portata gigantesca che riguarda la soglia dell’area “no tax”. Nella sua formulazione attuale, infatti, la tassa si applicherebbe solo alle aziende con margini di profitto sopra il 10% rispetto al fatturato: una soglia che raramente le grandi multinazionali superano. Per esempio Amazon nel 2020, il suo anno “straordinario”, ha registrato un margine di profitto pari al 6,2%: ad anni luce dalla soglia minima. E le pochissime imprese che oggi superano la soglia del 10% lavorerebbero con i consulenti fiscali per “limarla”, così da restare nell’area “no tax”.

Il problema vero, quindi, non è l’aliquota del 15%, ma il fatto che i grandi gruppi – quelli che si vorrebbe colpire – raramente ufficializzano percentuali di redditività tali da far entrare in gioco la global tax, almeno così com’è prevista. Un pronostico semplice è che alla fine, se dopo il lungo iter questa proposta sarà approvata, i soldi veri che entreranno nelle casse degli stati dove le multinazionali producono reddito saranno molto pochi, quasi nulla. Eppure il segnale dato dal G7 è importante lo stesso, perché suona come una sorta di avvertimento ai grandi operatori economici. Soprattutto, è importante perché arriva dal paese che fino a pochi mesi fa, con la presidenza Trump, sabotava tutti gli organismi multilaterali e qualsiasi tentativo di intesa tra stati. Se gli Stati Uniti decidono che la globalizzazione va governata, ci sono buone chances che qualcosa succeda.

Il precedente inedito

Simbolicamente si segna un precedente inedito, che oggi vale per il fisco e domani potrebbe valere per l’ambiente, l’altro grande fronte sul quale l’azione isolata dei singoli stati non può portare ad alcun effetto. Anche sul cambiamento climatico poco si è fatto negli ultimi quattro anni perché gli Usa “negazionisti” di Donald Trump hanno boicottato qualsiasi iniziativa multilaterale. Uno scossone unitario su questo tema potrebbe, almeno a livello simbolico, far capire che si vuole voltare pagina anche qui. Per non parlare di democrazia e diritti umani, ma ora scivoliamo nell’utopia.

Comunque sia, la proposta del G7 sulla global tax non è “epocale”, ma nemmeno “poca cosa”. È un segnale di un nuovo approccio alla globalizzazione, accelerato dalla pandemia. Gli stati si sono indebitati, hanno finanziato la ricerca e acquistato apparecchiature mediche, hanno firmato contratti a scatola chiusa per miliardi di dosi di vaccini, si sono fatti carico dei lavoratori e delle aziende costrette alla chiusura: ora hanno bisogno di presentare il conto. Per necessità, si arriva a imporre regole fiscali anche a chi finora ne era stato esentato. Qualcosa che doveva succedere da tempo, ma che la pandemia ha reso urgente, fornendo alla politica l’alibi per riprendersi qualcuno dei poteri che aveva man mano abbandonati negli anni, e anche per recuperare il suo ruolo ridistributivo.

E della redistribuzione Alfredo si era già occupato nel 2018 a partire dalle teorie sulle diseguaglianze di Piketty; ma non solo relativamente alle redistribuzioni del reddito, perché il discorso si allarga alla Rivoluzione industriale legata all’Intelligenza Artificiale, alla robotica e al mondo del lavoro che va ripensato, in modo che i ricavi legati al lavoro dei robot vadano a creare la raccolta fiscale che assicuri il livello attuale di welfare:

“La chimera della ridistribuzione”.

 

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